Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale
 9788863362381, 8863362386

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COSTANZO PRE VE LUIGI TEDESCHI

DIALOGHI SULL'EUROPA E SUL NUOVO ORDINE MONDIALE INTRODUZIONE DI STEFANO SISSA

Direttori di collana Jacopo Agnesina, Università del Piemonte Orientale - Vercelli Diego Fusaro, Università di Milano - San Raffaele Segretario di redazione Mario Carparelli, Università del Salento Comitato Scientifico Giovanni Bonacina, Università di Urbino Gaetano Chiurazzi, Università d i Torino Vincenzo Cicero, Università di Messina Massimo Dona, Università di Milano - San Raffaele Domenico Fazio, Università del Salento Sebastiano Ghisu, Università d i Sassari Giuseppe Girgenti, Università d i Milano - San Raffaele Marco Ivaldo, Università d i Napoli - Federico I I Roberto Mordacci, Università di Milano - San Raffaele Vesa Oittinen, Università di Helsinki Pier Paolo Portinaro, Università di Torino Roberta Sala, Università d i Milano - San Raffaele Andrea Tagliapietra, Università di Milano - San Raffaele I membri del Comitato Scientifico fungono da revisori. Ogni saggio pervenuto alla collana “I Cento Talleri”, dopo una lettura preliminare da parte dei Direttori di collana, è sottoposto alla valutazione dei membri del Comitato Scientifico (due per ogni saggio). Le proposte di pubblicazione devono essere inviate ai seguenti indirizzi: [email protected] o, in forma cartacea, Casa Editrice “il Prato”, via Lombardia 41, 35020 Saonara (Padova).

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DIALOGHI SULL'EUROPA E SUL NUOVO ORDINE MONDIALE INTRODUZIONE DI STEFANO SISSA

s Introduzione

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C o stan zo P rbve: UN INTELLETTUALE NON OMOLOGATO

È con grande piacere che ho accolto il cortese invito di Luigi Tedeschi ad introdurre questo libro-intervista a Costanzo Preve, cui sono legato da affinità intellettuale e da sincera amicizia, in un’epoca in cui l’amicizia disin­ teressata e l’onestà intellettuale sono sempre più rare. Il presente libro è l’ideale prosecuzione del precedente A lla ricerca della speranza perduta, edito nel 2008; allo stesso tempo, però, è una pubblicazione del tutto autonoma che —se volete - potete leggere anche senza un ordine preciso, in quanto ogni capitolo affronta un plesso tema­ tico in sé compiuto, anche se tu tti convergono nel deli­ neare una radicale critica all’attuale situazione sociale, politica e culturale. Fare esperienza di Costanzo Preve, leggendo i suoi scritti, guardando le sue videointerviste in rete, o aven­ done conoscenza personale, come ha avuto la fortuna il sottoscritto, significa potersi riconciliare, per certi versi, con la figura dell’intellettuale; figura oggi quanto mai equivoca. Occorre infatti intendersi bene su questo ter­ mine. Preve indirizza una critica radicale a quanti ven­ gono riconosciuti pubblicamente come gli intellettuali. Se Preve è tecnicamente un intellettuale (è un pensatore colto e originale, con una foltissima produzione di libri e articoli), non lo è sociologicamente, in quanto non appar­ tiene a quella categoria di persone cui viene affidato il compito di produrre e diffondere idee compatibili con il sistema, in cambio di un riconoscimento ufficiale e di una collocazione stipendiale negli apparati di produzio­ ne del consenso.

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Come ‘intellettuale’, Preve non risulterebbe assolutamente conforme —né in ciò che dice, né in come lo dice —ai codici che regolano la produzione e la diffusione di idee nel nostro paese (e certamente non solo nel nostro). E perciò è inevitabilmente condannato all’esclusione dai circuiti istituzionali e mediatici attraverso i quali passa la cultura ‘ufficiale’. Tutto ciò è comprensibile, del resto; nessuno, infatti, accoglierebbe nei propri ranghi un ‘ne­ mico’. Uso di proposito un’espressione semanticamente molto marcata come quella di ‘nemico’, piuttosto che im­ piegare - come convenzionalmente si fa - termini come ‘critico’ o tu tt’al più ‘avversario’. La critica filosofico-politica di Preve, in effetti, è un attacco senza quartiere al sistema di riproduzione di un pensiero omologato, che anche quando sembra porsi come antagonistico, svolge in realtà soltanto la funzione di ‘valvola di sfogo’ puramen­ te virtuale, legittimando nei fatti gli equilibri vigenti. In effetti, la cerchia sociale che costituisce Yintellighenzia può occasionalmente anche ospitare pensatori originali e dissacranti, ma solo a patto che il loro profilo comples­ sivo sia tale da non mettere realmente in discussione né l’ordine del discorso nel suo complesso, né i presupposti economici e politici dello stesso. Tali figure, anzi, sono spesso apprezzate, poiché catalizzano un disagio latente verso l’ordine sociale stabilito, offrendo solo delle ‘grati­ ficazioni sostitutive’ e delle alternative puramente esteti­ che, contribuendo nei fatti a rinforzare i rapporti di do­ minio presenti. Preve parla giustamente di “ritorno del clero”, rife­ rendosi a quella schiera di persone variamente collocate (‘clero secolare’: i giornalisti, ‘clero regolare’: i professo­ ri universitari) che —in analogia alla funzione svolta nel Medioevo dal ceto sacerdotale —operano per fornire una legittimazione ideologica a quell’insieme integrato di rapporti di forza di cui essi sono dipendenti.

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«Il clero giornalistico secolare ha il com pito di orga­ nizzare una rappresentazione quotidiana profana, il cui scopo è quello di simulare la sacralità del dom inio della N uova N obiltà finanziaria transnazionale ultracapitali­ stica e postborghese. Il clero giornalistico secolare è or­ ganizzato in una chiesa invisibile, o meglio ultravisibi­ le, che definiremo circo mediatico. [ ...] Il circo mediatico è più im portante della com unità universitaria, perché dà e toglie la parola a chi vuole, e controlla dunque i flussi com unicativi fondamentali. È però nella com u­ nità universitaria mondiale che vengono elaborate per ora le forme culturali [...}. Il circo m ediatico effettua la saturazione com unicativa di ciò che è stato prim a ela­ borato nella forma della frammetazione produttiva»1.

Si tratta di circuiti molto influenti, dunque; eppure rimangono ‘dipendenti’, in quanto non sono direttamente innestati nei processi di produzione della ricchezza socia­ le, al contrario di quanto può accadere per altre professio­ nalità intellettuali che non vengono però designati come “gli intellettuali”: si tratti di economisti, tecnocrati, alti ingegneri, esperti di diritto al servizio delle corporations, ecc. Il gruppo sociologico degli “intellettuali” costituisce, invece —per usare un’espressione di Pierre Bourdieu —una “frazione dominata della classe dominante”, che in certi casi può persino inscenare blande forme di antagonismo ritualizzato, ma nella sostanza non ha alcun interesse ad opporsi realmente ad un sistema che li beneficia, se pur in posizione subalterna. E in virtù di tale posizione (domina­ ti tra i dominanti), essi sviluppano sovente forme accen­ tuate di opportunismo e di cinismo, peraltro funzionali al raggiungimento di sufficienti posizioni di carriera in note 1 C. PREVE, Il ritorno del clero, C.R.T., Pistoia, 1999; pagg. 21 e 27.

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una competizione sempre più serrata. Cinismo che però si traveste, mostrandosi essi molto più ‘umanitari’ di quanto non siano realmente, attraverso una generica rivendicazio­ ne di libertà e una pomposa celebrazione dello spirito di critica verso tutti i dogmi, che però —sorprendentemen­ te - ne lascia alcuni del tutto intoccati. Facciamo qual­ che esempio: il primato dell’individualità sul sociale (e quindi la condanna di ogni regime che non sia liberale), il ruolo guida dell’Occidente nella civilizzazione mondiale (anche quando è travestito da alter-mondialista), la virtù dello sradicamento cosmopolitico contrapposta all’at­ taccamento alla propria patria (visto sempre e solo come una forma di ottusità nazionalistica), l’imparagonabilità a priori del genocidio ebraico con altri genocidi storici, la dottrina dei diritti umani come sommo apice della morale civile (impiegata in realtà come formula di legittimazione degli interventi armati degli USA e dei loro alleati per abbattere regimi politici incompatibili con le loro mire egemoniche). Al di sotto di questo livello, si colloca un contingente ben più ampio di professionisti dal profilo intellettuale de­ cisamente più modesto, che possiamo definire “ceto medio semi-colto” (composto per lo più da insegnanti, addetti alla cultura, lavoratori non manuali che leggono romanzi e frequentano festival letterari e filosofici, ecc.) che si collo­ cano nelle frange istruite della piccola borghesia e che co­ stituiscono un gruppo sociale chiaramente dominato. Essi costituiscono in realtà un settore subalterno della cultura di massa, soltanto che hanno la pretesa di differenziarsene in quando dispongono di titoli di studio e praticano for­ me di consumo distintive rispetto alla maggioranza, che è di bassa istruzione. Ad esempio seguono i programmi di Augias e Fazio, non vanno in vacanza ad Ibiza o Sharm E1 Siicik, preferendo semmai le città d’arte o gli agriturismo, leggono i quotidiani, visitano mostre piuttosto che fre­

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quentare lo stadio, socializzano manifestando apertamente il loro antiberlusconismo in ogni circostanza, ecc. Nonostante lo sbandierato principio di ‘autonomia di giudizio’ e un retorico appellarsi ai presìdi morali della tradizione umanistica, costoro non fanno che recepire le istanze del clero intellettuale nella loro forma essoterica, os­ sia vestite in foggia genericamente ‘umanitaria’, laddove sul piano esoterico si tratta, in realtà, di istanze nichilistiche e relativistiche, incompatibili col vecchio umanesimo. Tali istanze, già accolte in forma semplificata, vengon poi diffuse con modalità quasi sloganistiche, in un allinea­ mento completo ai dogmi del politicamente corretto, diffusi in particolar modo da giornali e TV. L’engagement intellettuale di questa categoria sociale consiste per lo più nella lettura giornaliera di quotidiani come La Repubblica, nell’organizzazione di visite di istru­ zione per le scuole ad Auschwitz, in un pacifismo sempli­ cistico e sprovvisto di ogni minima nozione geopolitica, in una concezione puramente moralistica della vita politi­ ca, nell’idea del primato della società civile, sempre intesa come momentaneo e mutevole rassemblement di opinioni individuali e mai riferite alle posizioni di classe. La no­ zione di classe sociale viene, anzi, esplicitamente rifiutata e sostituita da altre categorie sociologiche di maggiore ap­ peal presso il pubblico, come le donne, i giovani, i gay, gli immigrati, tutti però concepiti al di fuori di ogni precisa determinazione, come se una donna, un giovane, un gay, un immigrato ricchi e ben collocati nel sistema fossero da intendere alla stessa stregua di uno che non ha accesso alle risorse e al potere. Ciò che accomuna questi due livelli ben differenziati di intellettuali, ossia il ‘clero’ e i ripetitori mid-brow (ossia i ‘semi-colti’) è un atteggiamento farisaico. Ai processi di disgregazione sociale e di asservimento di fatto delle co­ scienze viene opposta una prosopopea dell’umanità che ha

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ormai poco o nulla a che vedere con la tradizione dell’uma­ nesimo, che sia quello classico oppure quello civile di età moderna. Si riconduce —nel solco della tradizione liberale —la soggettività umana alla mera individualità, presunta libera e autonoma a priori, e perciò in grado di affrontare le questioni sul piano di un ‘aperto confronto’ all’interno della società civile. Una società civile non intesa hegelia­ namente come “sistema dei bisogni”, ma illuministica­ mente come arena pubblica dove si esprimono le opinioni (ossia la relativistica doxa) e si eserciterebbe il controllo pubblico del potere, anche attraverso la ricezione presso le istituzioni formali delle istanze emerse nei dibattito civi­ le. Senonché si finge di non vedere che tale spazio di rap­ presentanza pubblica è ormai da tempo configurato come uno spazio virtuale di sola ‘rappresentazione’, cioè di pura ‘messa in scena’ delle prerogative democratiche, senza re­ ale possibilità di incidenza; mentre i processi decisionali si svolgono certamente altrove. L’intellettuale stipendiato ha la funzione di mantenere in piedi questa illusione, at­ tivandosi, più o meno consapevolmente, per stornare ogni possibile istanza che preveda il passaggio dal piano pura­ mente ideologico a quello di una prassi trasformatrice o quantomeno ad una resistenza organizzata e fattiva. Mi permetto di documentare un concreto caso speci­ fico, ma esemplare, di trasmissione ideologica dal clero alla manovalanza intellettuale. Nel 2010 il sottoscritto ha partecipato ad una serie di incontri organizzati dall’Isti­ tuto Gramsci dell’Emilia Romagna sulle “voci della de­ mocrazia” (tale istituto si propone ancor oggi di porre in atto strategie per una ‘gramsciana’ egemonia culturale: c’è da chiedersi, però, in quale direzione e a beneficio di quali gruppi sociali). La direzione e la conduzione di tali incon­ tri era affidata al professor Carlo Galli, docente all’Univer­ sità di Bologna, noto editorialista de La Repubblica, oggi presidente della Fondazione che guida la sezione emiliana

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dell’Istituto Gramsci, nonché deputato eletto per il Partito Democratico alle elezioni politiche del 2013. Galli è un serio e preparatissimo studioso di dottrine politiche. Uno degli incontri aveva come titolo “democrazia e conflitto: il repubblicanesimo” ed aveva come ospite il professor Mar­ co Geuna, dell’Università Statale di Milano, che avrebbe fatto da relatore sulla tradizione del pensiero repubblicano nell’ambito della storia delle dottrine politiche. Durante l’apprezzabile esposizione delle articolazioni storiche del concetto di repubblicanesimo, è emerso come esso si regga su due concetti chiave: libertà intesa nel senso di “non esse­ re dominati” (da nemici esterni, da soggetti privati interni troppo potenti) e virtù, intesa come sobrietà nei costumi e disponibilità a dedicare parte di sé alla cosapubblica, inclusa la disponibilità a combattere —letteralmente —per difen­ derla. In conclusione della dotta esposizione, entrambi i professori hanno sottolineato come la tradizione repubbli­ cana potrebbe e dovrebbe essere un antidoto alla rassegna­ zione, al rifugio nel privato, alla sopportazione della domi­ nazione che caratterizzano la condizione attuale. Secondo loro, l’odierna democrazia liberale non ha mantenuto le sue promesse, ha assistito ad un trionfo della proceduralità sulla libertà sostanziale e sulla partecipazione; in ultimo, si è trasformata in una spregiudicata oligarchia di fatto, garantita da una messa in scena puramente mediatica del­ la sovranità popolare. Diagnosi pienamente condivisibile. Tuttavia colsi una reticenza, come segnalai durante il di­ battito in coda alla relazione. In fondo, nel concetto stesso di virtù è già implicita anche la nozione repubblicana di li­ bertà, in quanto la vir-tù è la facoltà del vir, cioè dell’uomo, ma inteso assiologicamente come uomo valoroso, ‘virile’, appunto, e quindi anche pronto a combattere, all’occorrenza, contro la possibile dominazione. E per ‘combattere’ non si può intendere ipocritamente solo la ‘battaglia delle idee’ o le rituali contese parlamentari (che allora si tornerebbe

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nella strettoia della liberaldemocrazia di cui si era detto), ma anche l’eventualità —in casi estremi —di usare effetti­ vamente la violenza organizzata; infatti per la tradizione repubblicana, “il popolo libero è il popolo in armi”. Capen­ do dove volevo andare a parare, i due professori si son pre­ occupati di riprendersi tosto la parola e di precisare lette­ ralmente che “alla critica delle armi”, preferivano “le armi della critica”, ribaltando un celebre enunciato di Marx, che contestava la ‘pura critica’ degli intellettuali borghesi pro­ gressisti del suo tempo. Non solo: si è precisato che il pri­ mato assiologico della nozione di vir escluderebbe le donne dalla pienezza delle prerogative politiche. Mi si è opposto, insomma, un argomento tipicamente politically correct. Ar­ gomento capzioso, poiché nulla vieta a priori alle donne emancipate della società di oggi di assumere —all’occorrenza —i valori ‘marziali’ della difesa repubblicana; eppure l’argomento è risultato subito decisivo per convincere il resto del pubblico in sala, composto per lo più da quel ceto medio semi-colto di cui sopra. Pubblico che si è sentito subito rassicurato dal fatto di sentirsi dire dagli esimi professori che, nella sostanza, nessuno dei presenti avrebbe dovuto scomodarsi o correre dei rischi personali. Tutto avrebbe po­ tuto rimanere così com’è: la critica alla democrazia liberale era soltanto una lamentatio consolatoria, momentaneamen­ te catartica, in quanto la soluzione prospettata consisteva alla fine proprio nel ribadire la legittimità esclusiva di quelle pratiche che, solo sulla carta, erano state messe in discussione dagli interventi dei due dotti. Naturalmente nessuno pretendeva che dei cattedrati­ ci incitassero alla rivolta o si spendessero per organizzare dei gruppi d’azione, ma almeno avrebbero potuto lasciare intendere, anche implicitamente, che tutto ciò era forse auspicabile o quantomeno lasciare la mia sollecitazione al giudizio del pubblico, senza controbattere. Se hanno agito diversamente è perché invece la loro funzione è proprio

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quella di istruire la manovalanza intellettuale presente tra gli uditori a tradurre sempre il potenziale conflitto sociale in formule retoriche e in astratte istanze moraleggianti, in modo da stornare la pur remota possibilità che si erga pian piano una reale opposizione, consapevole ed organizzata, al sistema. Ecco, Costanzo Preve non è e non sarà mai questo gene­ re di intellettuale: non è reticente, né uno che getta acqua sul fuoco; anzi. Certo, nemmeno da lui ci si deve aspettare che faccia da promotore di iniziative politiche. E un filoso­ fo, non un militante politico. Eppure il suo essere filosofo è totus politicus. E questo non perché egli si interessi esclusivamente di filosofia politica o di questioni sociali, come ci si può pure aspettare dati i suoi trascorsi marxisti, ma perché in generale il suo modo di interrogarsi filosoficamente (ad esempio anche sul pensiero degli antichi greci o sulle que­ stioni del soggetto moderno) passa sempre attraverso l’as­ sunzione del ruolo determinante della vita associata e della dialettica storica in cui le comunità umane si rapportano tra loro in virtù dell’accesso alle risorse e ai mezzi di potere. E proprio a livello metodologico — o meglio ancora: epistemologico - che Preve è filosofo ‘politico’, in quan­ to per lui la ‘verità’ filosofica è un sempre prodotto, non arbitrario però, della vita associata. Il suo modello opera­ tivo è quello della deduzione sociale delle categorìe filosofiche, ossia l’assunto che le categorie del pensiero, pur potendo anche assurgere a valore teoretico universale, siano sempre il prodotto e allo stesso tempo l’espressione di condizioni storico-sodali-politiche ben determinate. Attenzione: non si sta qui dicendo la cosa ovvia —che ogni professore di liceo decente direbbe ai propri studenti —che le teorie dei filosofi van comprese contestualizzandole storicamente. In affinità con certa sociologia europea di derivazione marxi­ sta (Franz Borkenau, Alfred Sohn-Rethel), ma anche con il Durkheim de Le forme elementari della vita religiosa, egli

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ritiene che gli stessi concetti filosofici siano una implicita rappresentazione —se pur mediata dal pensiero (cioè non un im-mediato rispecchiamento) — della configurazione dei rapporti sociali, politici ed economici in cui si colloca­ no gli uomini che hanno prodotto quei concetti. Tanto per fare un esempio: la filosofia dei cosiddetti ‘presocratici’, in­ centrata su concetti come quello di arche, di logos, di metron, riferiti alla realtà naturale (physis) o all'essere in generale, è il precipitato storico dell’esperienza sociale della costituzio­ ne della polis, ossia della comunità politica, che non era più la comunità tribale, garantita a priori da rapporti ascrittivi di tipo clanico. La polis presuppone la presenza di sogget­ ti pensanti, educati all’uso della ragione, che stabiliscano un fondamento stabile della loro unità politica e regolino i rapporti interni secondo criteri di ‘giusta misura’, una giusta misura che si articola nel rapporto tra divenire, cioè un relativo dinamismo sociale, e permanenza, ossia la neces­ saria stabilità istituzionale e la conservazione dei rapporti comunitari. Si tratta di presìdi istituzionali (uso qui il ter­ mine ‘istituzione’ nel senso ampio che ne dà l’antropologia sociale) che non possono essere dati per scontati, in quanto la polis era investita in quel frangente, proprio anche in virtù del suo sviluppo, da tendenze sociali che potevano anche tradursi in spinte dissolutrici, come ad esempio il potenzialmente s-misurato incremento dell’interesse pri­ vato e l’espansione dell’economia monetaria e mercantile. Per Preve non si può mai discutere di. filosofia in astrat­ to, prescindendo dai rapporti di forza che disegnano il campo di praticabilità del pensiero e dell’azione autonoma e razionale. La ragione filosofica si intreccia con una de­ terminata prassi, poiché necessita che siano assolte precise condizioni per essere praticata senza divenire pura ideolo­ gia giustificatrice del dominio esistente oppure una dot­ trina consolatoria per il ritiro nel privato. La filosofia ha bisogno di persone che dialogano razionalmente tra loro

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in condizioni di relativa libertà, ossia dove non accada che si affermi una tesi soltanto in virtù del potere o della forza de facto di chi la pronuncia. La filosofia si afferma in virtù della combinazione politicamente riconosciuta di ìsonomia, eguaglianza davanti alla legge, isegoria, ovvero libertà e parità di parola, parresia, dovere di non essere reticenti e impegno a dire la verità. Occorre insomma che ci siano le condizioni perché possa dispiegarsi la cosiddetta ragio­ ne comunicativa di cui parla Habermas. Purtroppo, però, il filosofo tedesco, allontanatosi a partire dalla fine degli anni ’70 dalla matrice hegeliano-marxiana della scuola di Francoforte per approdare ad una sorta di trascendentali­ smo kantiano, ha finito per declinare tale concetto in una chiave formalistica affine allo stereotipo propagandato dalle liberaldemocrazie, anziché precisare le articolazioni storico-politiche per cui quella ragione comunicativa può essere praticata piuttosto che conculcata. Esattamente ciò che invece Preve si preoccupa di fare, come vedrete in que­ ste pagine, qui con particolare riferimento agli anni che stiamo vivendo. Infatti, cosi come dice che «la democrazia ateniese non sarebbe stata possibile con una guarnigione persiana sull’acropoli», Preve ritiene pure che oggi non sia possibile in Europa avere i mezzi per praticare pubblica­ mente una filosofia critica (ossia una filosofia che sia tale e non pura ideologia, anche se rimane sempre un quantum di componente ideologica che non può essere eradicato dal pensiero filosofico) finché sussistano sul territorio europeo le basi militari americane, la cui presenza soft, non deve in­ gannare: si tratta della garanzia ultima che il nostro paese rimanga permanentemente subalterno, sul piano culturale non meno di quello politico od economico. Infatti a nes­ suno è concesso di introdursi nei gangli degli apparati di potere così come nei luoghi illustri della produzione intel­ lettuale se è in aperto contrasto con quella ferma domina­ zione, che è tanto discreta e 'vellutata' presso di noi quanto

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si manifesta aperta e brutale in altre aree del mondo. L’antiamericanismo di Preve - e la correlata ostilità al paese che costituisce nello scacchiere mediorientale la testa di ponte dell’egemonia occidentalista, ossia Israele - non è dovuto ad un pregiudizio ideologico e neppure ad una assolutizzazione della chiave di lettura geopolitica, che pure Preve ritiene giustamente essenziale, ma non in sé esau­ stiva. Preve è antiamericano perché è anticapitalista. Egli sa benissimo, come tutti, che il modo di produzione capita­ listico non è certo nato negli Stati Uniti e inoltre che esso è fondamentalmente un “processo senza soggetto” che di suo - cioè se non incontra una strenua resistenza - tende a scardinare e progressivamente omologare a sé ogni altra forma eterogenea di organizzazione sociale ed economica. Tuttavia è negli USA che il capitalismo ha raggiunto il suo culmine identificando con se stesso l’intera società. E là che il capitalismo è entrato nella fase speculativa del suo svilup­ po dialettico, ha inverato cioè la sua essenza fino al punto di rispecchiarsi in se stesso come forma compiuta. È dunque a partire da là che si diffondono nel mondo i tratti di un capitalismo assoluto-totalitario, stabilitosi come una sorta di orizzonte ‘naturale’ intrascendibile, che fa sembrare ogni proposta di alternativa sistemica una pretesa assurda e ogni altra forma di organizzazione socio-economica con cui entra in attrito un intralcio atavico da spazzar via al più presto. Anche se le centrali del capitalismo possono essere di­ slocate altrove (la più classica è la City di Londra), allo stato attuale delle cose, sono gli Stati Uniti, con gli alleati NATO come corollari, in virtù della loro forza militare e del suadente colonialismo culturale, ad essere il più poten­ te e pericoloso ‘agente di trasmissione’ mondiale di questo vero e proprio virus sociale, portatore di sfruttamento, ac­ caparramento inconsulto di risorse, mercificazione di tutti i rapporti sociali, alienazione della condizione umana. Non a caso ho introdotto il tema dell 'alienazione. Pre­

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ve è stato direttamente allievo del filosofo marxista Louis Althusser, avendo studiato alla Sorbona negli anni imme­ diatamente antecedenti al ‘68. E risaputo che la lettura critica di Marx fatta da Althusser introduce l’idea di una vera e propria coupure épistémologique tra il giovane Marx idealista e il Marx maturo dell’analisi strutturale del modo di produzione capitalistico, con le sue caratteristiche di dominazione e sfruttamento. In questa lettura, il tema dell’alienazione —che presupporrebbe una sorta di essenza dell’uomo alterata poi dai rapporti di produzione capitalisti­ ci —viene concepito come un residuo idealistico, hegeliano e borghese della filosofia del primo Marx, il quale è ap­ prodato solo in seconda istanza ad una teoria sociale com­ piutamente scientifica. Orbene, Preve ha maturato negli anni un distacco sempre più ampio dall’impostazione del problema data dal suo maestro, cui comunque riconosce una opportunità contingente ai tempi in cui venne fornita. Secondo Preve, la poderosa formulazione teorica del Marx del Capitale non necessariamente comporta il decadimen­ to del tema dell’alienazione; considera anzi quest’ultimo come un architrave irrinunciabile della teoria di Marx. Egli opera una rilettura in chiave ‘idealista’ del pensiero di Marx2, ma invertendone il giudizio assiologico. Il filosofo di Treviri è così chiaramente ricollocato in pieno nel solco della filosofia classica tedesca e in particolare nella linea di Fichte e di Hegel, troppo presto ridotti dalla storiogra­ fia marxista a semplici alfieri di una borghesia in cerca di accreditamento sociale nell’ambito del nascente capitali­ smo industriale tedesco. Borghesia e capitalismo non co­ stituiscono un’endiadi senza residuo. Il capitalismo è stato indubbiamente innescato e veicolato dalla borghesia, ma note 2 Vedi, tra gli altri, C. PREVE, M a r x in attuale. E red ità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

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tale classe sociale non può essere identificata tout court come l’intrinseco supporto sociologico di un processo sociale così complesso. In effetti, tale processo si è rivelato capace di trascendere ampiamente il solo supporto della borghesia, come si è visto negli ultimi decenni, in cui abbiamo assi­ stito ad un sostegno incondizionato al capitalismo anche da parte del proletariato occidentale, stregato dai comfort e dai livelli di consumo che gli ha garantito fino all’altro ieri. In realtà, alcune frange della borghesia - che peral­ tro si articola in più componenti differenziate —hanno rappresentato anche una forma di ‘coscienza infelice’ del­ la civilizzazione capitalistica, offrendo il destro anche al sorgere della critica anticapitalistica di forma dialettica (diversa da quella puramente nostalgica e ‘reazionaria’), che ha avuto in Marx il suo esponente più robusto. Per il moderno pensiero dialettico, elaborato in seno a quelle frange sociali di cui sopra, la vicenda umana si qualifica attraverso il processo di autocomprensione del rapporto di reciproca determinazione tra il soggetto e l’altro da sé, cioè l’oggetto. L’uomo perviene alla verità di se stesso —che è una verità relazionale —attraverso quella prassi storica che gli consente la comprensione di come il suo essere vada concepito a partire dal punto dinamico di incontro/scontro tra Io e Mondo, tra soggetto e realtà; il che bandisce sia il puro soggettivismo che il realismo ingenuo. La con­ dizione alienata è quella in cui l’uomo è lontano o impe­ dito a compiere questa autocomprensione, che avrebbe un effetto liberatorio perché consentirebbe sia di rimuovere gli ostacoli di una oggettività pietrificata, sia di rimettersi dagli svianti sogni di onnipotenza del soggetto. Ora, non vi è dubbio che il sistema capitalistico, che pure ha sprigionato enormi potenziali di razionalità tecnica e scientifica, comporti per l’uomo un sempre più marcato esproprio della sua capacità di autodeterminarsi, raggelato come in un insieme di rapporti sociali che funzionano alla

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stregua di ‘cose’ (reificazione) e che gli impediscono di sog­ gettivarsi realmente. Il capitalismo porta progressivamente alla mercificazione di tutti i rapporti sociali, ossia alla sussun­ zione di ogni attribuzione sociale di valore al solo valore di scambio. Dato che il sistema di mercato prevede una serrata competizione in cui necessariamente il capitale più grande divora quello più piccolo, ciascuno —sempre più —vien trattato da ciascun altro come mero strumento per l’accu­ mulazione di capitale, che non è solo il denaro, ma tutto ciò che conferisce un astratto potere di scambio nella rela­ zione di mercato. Questo non avviene senza conseguenze radicali per la condizione umana; per cui è opportuno par­ lare di ‘alienazione’, che significa allontanarsi da sé stessi, alterando ciò che essenzialmente si è. Per Preve è corretto usare questo termine non perché debba esistere u n ’essenza umana da intendersi come substrato già dotato all’origine di tutte le sue determinazioni, almeno in nuce, com’è nella metafisica classica, ma perché comunque ritiene che esista una natura ternana sulla base quale è comunque possibile pensare una ontologia dell’essere sociale (per dirla con Gyòrgy Lukàcs, un altro dei punti di riferimento di Preve). «Il fatto è che il term ine alienazione, o meglio il suo uso filosofico, presuppone un precedente fatto stori­ co, e cioè che la totalità dei rapporti sociali possa esse­ re intu ita come “alienata”. Ed alienata significa allora “allontanata”. Ed allontanata da che cosa? M a è chia­ ro. A llontanata non tanto da u n ’origine nel frattem po decaduta e perduta e che si tratta allora di “recuperare” con un ritorno alla p rim itività { ...], quanto allontanata da un'Idea di Genere Umano realmente razionale»3. note 0 C . PREVE, S to ria d ella d ia le ttic a , P etite Plaisance, Pistoia, 2006,

pagg. 125-6.

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Per Marx la natura dell’uomo consiste nel suo essere un ente naturale generico che si specifica sempre nella determina­ tezza dei rapporti storico-sociali, dato che l’uomo in socie­ tà è alio stesso tempo prodotto e produttore di se stesso. Preve è d’accordo, ma anziché inferirne —come ha fatto lo storicismo - che allora l’identità umana è null’altro che un vuoto caleidoscopio totalmente in balia della contingenza storica, egli vi innesta qui l’altra grande ‘bussola’ del suo pensiero filosofico, ovvero la tradizione greca di età classica, e in particolare la definizione della natura umana fornita da Aristotele, per il quale l’uomo è zoon logon echon e zoon politikon. La prima espressione significa che l’uomo è un essere vivente ‘attrezzato per stare’ nel logos, ossia è potenzialmen­ te capace di produrre discorsi razionali e calcolare la ‘giusta misura’ nell’ordine delle cose; la seconda che è un essere comunitario, ossia l’uomo può esistere come tale solo nel­ la dimensione di una partecipata socialità pubblica, poiché laddove questa dimensione manchi, esso si riduce allo stato di bruto, cioè al suo solo funzionamento biologico. Ecco perché il sistema capitalistico, pur non essendo certo l’unica forma di dominazione e oppressione della storia (che anzi, ne è pienissima) è tuttavia il nemico per eccellenza, un nemico mortale. In altri sistemi storici vi erano le condizioni affinché solo una parte della società potesse estrinsecare i caratteri propri della natura umana; al prezzo, certo, di pesanti discriminazioni: ricordiamo come nella filosofia della storia di Hegel la ‘libertà’ (che poi è la soggettività, non la pura libertà negativa dei libe­ rali) sia prima di uno solo, nel dispotismo asiatico, poi di molti, ma non di tutti, nel mondo classico. Nella moder­ nità capitalistica, vi è infine —potenzialmente —la ‘libertà’ di tutti; nei fatti, invece, vi è l’annichilimento progressivo della natura dell’uomo in quanto tale e non solo dei pro­ letari, che semmai son quelli sui quali la tormenta capita­ listica infierisce per primi, con più ferocia e senza rete di

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protezione. Nel capitalismo, l’uomo è stato ridotto prima a mero prestatore d’opera sul mercato, poi a semplice con­ sumatore privato e infine ad una vera e propria precarie­ tà ontologica (homo precarius). Con la precarietà assurta a paradigma normativo dell’esistenza (da quella nel lavoro a quella negli affetti, ecc.), la natura razionale e comuni­ taria dell’uomo viene terremotata nelle sue fondamenta e rimane soltanto di essere delle appendici dei meccanismi ciechi del profitto e atomi esistenziali alla deriva. Nessun sistema, insomma, per quanto odioso, era arrivato al pun­ to tale di mettere a repentaglio la stessa natura umana (e a questo potremmo aggiungere la natura in generale, dato l ’impatto smisurato sull’ecosistema). Ribadisco che parliamo di ‘uomo’ e non soltanto di de­ terminate classi non perché l’analisi di classe non rimanga comunque fondamentale sul piano squisitamente socio­ logico, ma perché il meccanismo capitalistico è talmente poderoso e pervasivo da assimilare progressivamente una massa sempre più ampia di persone fino a trascendere le differenze di classe. In un capitalismo sviluppato in pieno, insomma, vengono sfruttate solo determinate classi, ma viene alienata l’umanità nella sua interezza. La speranza di Preve (ecco il senso del titolo del libro) è che ci sia ancora una chance di invertire o almeno frenare questa corsa al precipizio, contando sul fatto che la natura umana, per sua stessa costituzione, ha ancora qualche re­ siduo potenziale per potersi opporre ad una deformazione incessante e senza misura. Per questo Preve si affida alla filosofia degli antichi greci e al loro senso del limite, alla nozione di giusta misura, contrapposta all’abisso caotico dell’indeterminato, che è la rappresentazione in foggia cosmologica e ontologica di una società anomica che si di­ sgrega e si cannibalizza dalPinterno. Preve insomma, oltre ad inserirsi nell’alveo del pen­ siero dialettico tedesco, è anzitutto un erede della filosofia

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classica dei greci. Attenzione, però. L’affiliazione di Preve allo spirito degli antichi non ha nulla a che vedere con il neopaganesimo scimmiottato dei postmoderni, dei quali anzi si dichiara strenuo avversario. E non è un caso che mentre questi siano fondamentalmente anti-cristiani, Pre­ ve invece —pur da non credente —riconosce al cristianesi­ mo un contenuto veritativo - oltre che etico - universale, fondato ontologicamente e non solo convenzionalmente. Ai neopagani odierni, di cui l’antesignano fu Nietzsche (che però almeno, nella sua unilateralità, era comunque geniale, a differenza di costoro), interessa soltanto il ‘po­ liteismo dei valori’, contro l’idea di ragione universale, in modo da lasciare soltanto al mercato la funzione di medium universale dell’umanità. Invece, la riaffermazione previana della natura umana in chiave aristotelica contraddice il decostruzionismo radicale del soggetto portato avanti con gioiosa incoscienza (quando non anche con perfida fregola) dagli intellettuali postmoderni, le cui preferenze rispetto al mondo antico vanno semmai verso Yepochédegli scettici (che però in loro si traduce in nichilismo) o Yedoné degli epicurei (che però in loro si traduce in consumismo); non a caso scuole filosofiche successive all’età classica della po­ lis, cioè quella del cittadino comunitario, di cui proprio Aristotele ha assistito al tramonto, con gli esordi dell’età ellenistica. Altrettanto deleterio —nota Preve —è il versante non liberale del postmodernismo, ossia quello ‘radicale’ che fa capo agli insegnamenti di Foucault, Deleuze, Toni Ne­ gri, tee. Nelle loro filosofie —o per esser più precisi, nella ‘vulgata’ che ne circola negli ambienti della sinistra più o meno antagonista, fatti di ricercatori universitari dall’a­ ria ‘alternativa’ o militanti dei centri sociali —alberga un notevole potenziale deflagrante della soggettività, sia sul piano teoretico che su quello pratico. Si tratta di conce­ zioni letteralmente an-^rróiche, ossia demolitrici di ogni

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fondamento {arche) della responsabilità sociale dell’uo­ mo, in virtù del libero gioco dell’infinita produttività del desiderio o dell’esplosione delle differenze; che però, a dispetto di quanto ne pensino i loro sostenitori, finisce per assecondare e legittimare di rimbalzo le logiche in­ dividualistiche e di mercato che sulla carta si vorrebbero contrastare. Da quanto detto, non risulterà sorprendente il profilo per molti aspetti ‘conservatore’ di Preve. Beneficamente conservatore, però. Conservatore dei presìdi essenziali del­ la natura umana e della tenuta del legame sociale, così come del patrimonio di esperienza e saggezza morale che deriva dal passato storico, mediato però dal pensiero ra­ zionale (ossia non accettato acriticamente come un dato). Conservatore perché patriottico e oppositore della logica dello sradicamento universale che ci vorrebbe tutte pe­ dine in balìa dei flussi impersonali del capitalismo, che mobilizza costantemente uomini, merci e capitali al solo fine del profitto, senza alcun riguardo verso le esigenze più profonde della vita sociale, che hanno bisogno, invece, di essere coltivate con pazienza e in un quadro di relati­ va stabilità (è così per la famiglia, l’amicizia, l’amore di coppia, l’onesta cooperazione nel lavoro, la vita pubblica consapevole e partecipata). Preve, cioè, non è conservatore nel senso della difesa dei privilegi di classe quale viene attuata dai detestabili partiti conservatori odierni, che pe­ raltro sono ancora più nichilisti e asserviti al capitalismo di quanto non siano già quelli progressisti, i quali semmai sono in compenso più ingenui, ipocriti e fuorviami. Preve è un conservatore comunista, ossia è un comunista comunitarista. Comunista perché si oppone al capitalismo in direzio­ ne di una società umana guidata dalla razionalità e orien­ tata in senso emancipativo con carattere universalistico; da raggiungere non astrattamente, però, quanto piuttosto nella continua mediazione dialettica delle diverse espe­

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rienze storiche delle comunità locali e delle statualità na­ zionali. Perciò non è per il cosmopolitismo (che in realtà è un’ideologia di legittimazione delle élite internazionali), ma è un comunitarista, ossia è per la conservazione dei legami preventivi del tessuto sociale, per il radicamento, anche territoriale (che non significa grossolanamente ‘et­ nico’), per i codici di dignità e onore che il mondo della tradizione custodiva: tutti fattori senza i quali ogni argine allo tsunami capitalistico diviene impensabile. In questa ottica, patria, famiglia e religione non appa­ iono più soltanto come feticci di una anacronistica destra reazionaria oppure come slogan filistei e copertura ideo­ logica, com’è nelle destre affaristiche allineate al sistema. Patria, famiglia, religione, almeno laddove non vengano assolutizzate, strumentalizzate, imposte acriticamente, sono anche il precipitato storico della naturale socialità umana; sono presìdi a beneficio della continuità dei rap­ porti e di una reciprocità interna, contrapposti all’indivi­ dualismo, all’opportunismo cinico, al nichilismo. Presìdi, beniteso, che possono certo avere (e tante volte hanno avu­ to) sviluppi negativi, opprimenti, ferocemente discrimi­ natori, ma non sono con ciò da abrogare a priori, proprio come non si “butta via il bambino con l’acqua sporca”. Così si spiega anche il giudizio fortemente critico che Preve dà della cultura scaturita dal Sessantotto. Non parliamo del ‘68 in quanto tale, poiché in realtà in quel frangente storico (che è durato ben più di un anno) si in­ trecciarono istanze sociali variegate, complesse e anche contraddittorie, su cui sarebbe incongruo dare un giudi­ zio assiologico univoco. Parliamo invece di una menta­ lità, di un senso comune che si è sviluppato a partire da mutamenti sociali e culturali dovuti più all’affermazione di una moderna società dei consumi che ad una genuina lotta sociale anticapitalistica, che pure vi fu, in mezzo a tante altre cose, ma —possiamo ben dire, oggi —fu la li­

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nea perdente all’interno del movimento di contestazione. «Vietato vietare», «vogliamo tutto e subito», «l’imma­ ginazione al potere» sono gli slogan più frappanti di quel periodo. Slogan che fanno pensare più alle spacconerie di un gruppo di adolescenti viziati, che ad una realistica ca­ pacità di organizzarsi per sfidare quel modello politico ed economico che a parole si diceva di voler abbattere. Non è un caso, allora, che la linea vincente all’interno del movi­ mento sia stata quella congeniale alle esigenze dell’ingres­ so del capitalismo nella sua fase assoluta-totalitaria. Tale fase necessitava il superamento della vetusta morale bor­ ghese (funzionale all’accumulazione, ma poco al consumo) e l’estrema fluidificazione dei rapporti sociali, in direzione di un individualismo edonista, negatore di ogni autorità e di ogni valore della trasmissione culturale e normativa per via di tradizione. Tale screditamento di autorità non cancella con ciò stesso il potere, ma provvede a sgretolare tutte quelle con­ figurazioni in cui l’esercizio del potere doveva accompa­ gnarsi anche ad un certo senso di autorevolezza e respon­ sabilità collettiva: dallo stato repubblicano alla famiglia, alla scuola, all’apprendistato nel lavoro, ecc. L’eclisse del Super-Io che caratterizza il libertarismo di derivazione ses­ santottesca, anziché condurre l’uomo ad una maggiore re­ alizzazione della sua esistenza, come si è voluto credere, lo ha invece consegnato mani e piedi all’azione coattiva dei meccanismi sistemici e dei persuasori occulti, cui non riesce più ad opporre la minima resistenza, una volta che si manchi di padroneggiamento, serietà, disciplina. L’e­ saltazione incondizionata del principio di piacere in tutte le fasi della socializzazione (dall’educazione del bambino, alla scoperta del sesso nell’adolescenza, al consumismo va­ canziero e da centro commerciale del lavoratore adulto) comporta, poi, lo sviluppo di personalità narcisistiche, tanto più pretenziose e desiderose di incessante gratificazione

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quanto, in realtà, intimamente fragili e insicure, come ha ben evidenziato Lasch nel suo ha cultura del narcisismo. Si tratta in realtà di personalità perfette per fungere da mas­ sa di manovra di quel meccanismo di mercificazione di ogni rapporto sociale che è il capitalismo. Se si è ben capito il senso delle righe precedenti, non dovrebbe sbalordire che Preve eserciti oggi una critica particolarmente accanita nei confronti della odierna cul­ tura di sinistra. Molti invece se ne stupiscono, qualifican­ dolo sbrigativamente come un ex filosofo di sinistra ormai pentito e passato alla destra, alla stregua di un Armando Plebe. Ciò anche in virtù del fatto che alcuni suoi libri, anche importanti, sono stati pubblicati da case editrici ap­ partenenti all’area della destra radicale. Non si entrerà qui nella questione dell’attualità e validità o meno delle cate­ gorie di destra e sinistra, così come delle differenti valenze che hanno in ambito politico piuttosto che culturale4. È bene però precisare che Preve è stato per decenni un filoso­ fo non ‘di sinistra’, ma marxista, per approdare poi —come si è detto —ad una sintesi originale tra pensiero greco clas­ sico, idealismo e marxismo (conservato soprattutto nella sua deduzione sociale delle categorie filosofiche). Il marxismo, così come il comuniSmo, non coincide con la cultura di sinistra (che è tipica della borghesia progressista), anche se storicamente ci sono state sovrapposizioni e convergen­ ze a livello sia di dottrina politica che di blocchi sociali impegnati nella contesa politica. Queste sovrapposizioni note 4 Mi permetto soltanto di rinviare, però, a due miei scritti: l’artico­ lo La 'destra' come categorìa antropologico-culturale. Per la preistoria di un concetto politico, in «Scienza & Politica», n. 42, 2010, e poi Pensare la politica controcorrente, e-book, Arianna Editrice, Bologna, 2010: un mio studio su Alain de Benoist (un autore su cui anche Preve ha pubblicato un 'confronto filosofico-politico’), interpretato alla luce delle categorie concettuali della ‘destra antropologica’.

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e convergenze non sono ormai più attuali nella situazione presente. Infatti oggi la cultura di sinistra, ridotta quasi esclusivamente a forme più moderate o più radicali del politìcally correct, non è altro che l’altra faccia della meda­ glia (quella più ‘presentabile’) della dominante ‘destra del denaro’ (quella incardinata sul tipo umano rappresentato in modo esemplare da un film come Wall Street). La prima è quella che riveste di un multicolore manto di moralità la plumbea assenza di scrupoli della seconda, svolgendo così propriamente una funzione ideologica. Lo si vede in tanti frangenti: dalle guerre imperialistiche che diventano ‘in­ terventi umanitari’ per abbattere le ‘dittature sanguinarie’ (ossia quei regimi che —pur con tutti i difetti e limiti di questo mondo —comunque si oppongono al Nuovo Ordine Mondiale), alla celebrazione di una open society senza fron­ tiere, per cui le masse popolari, sia occidentali che non, dovrebbero aspirare a vivere in condizioni di perenne mo­ bilizzazione come segno supremo di libertà individuale; il che in realtà favorisce i processi di dislocazione capi­ talistica e accumula perennemente ‘eserciti industriali di riserva’ per ricattare i lavoratori già impiegati e spingerli ad accettare condizioni sempre più gravose e precarie. In conclusione, affinché nessuno possa muoverci accu­ se di reticenza, provo anche a rispondere all’obiezione del “cui prodest?". C’è chi dice infatti: “se certe case editrici della destra radicale hanno pubblicato testi di Preve, vor­ rà pur dire che ne ricavano una qualche utilità”. Va fat­ ta innanzitutto una premessa: il panorama dei profughi della destra estrema dei decenni scorsi è tanto composito e contraddittorio al suo interno quanto lo è quello dell’e­ strema sinistra. Come in questa si posson trovare stalini­ sti, trotskisti, anarchici, autonomi operaisti oppure del cognitariato globale, terzomondisti, pacifisti, animalisti, militantismo femminista o gay, generici no global, insurrezionalisti black bloc, ecc.; così pure in quella si può

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trovare di tutto: dai nostalgici del Ventennio ai naziskin, ma anche i convertiti al liberalismo e all’americanismo, i cultori dell’arcaico e i futuristi, i sovranisti statalisti e i federalisti sostenitori delle comunità locali, i neopagani e i cattolici tradizionalisti, gli individualisti nietzschiani e i nazi-maoisti, gli autoritari e libertari, gli ecologisti concentrati sui minuti equilibri dei luoghi specifici e gli industrialisti orientati ai grandi spazi della geopolitica. Questo solo per precisare che quando si parla di destra ra­ dicale si dovrebbe dire a quale famiglia si fa riferimento, sapendo che poi case editrici o testate possono nel tempo mutare indirizzo o avere nella stessa redazione anche ten­ denze differenti. Detto questo, è chiaro che all’interno di quel bacino sussistono ancora oggi aree caratterizzate da preoccupanti pulsioni xenofobe, da revanscismi pa­ ranoici, da biechi autoritarismi e intolleranza, da infa­ mi logiche da “capro espiatorio”. Tuttavia occorrerebbe che tutti quello che vengono da sinistra evitassero a loro volta di ragionare ‘fascisticamente’, pensando che esista­ no categorie di persone ‘ontologicamente’ diverse e per loro stessa ‘essenza’ condannate ad una perenne incom­ patibilità col tessuto ‘sano’ della società. Questi vigilantes dell’antifascismo (cui un po’ di buona psicoanalisi rivele­ rebbe a loro stessi con quale facilità proiettino su altri an­ che le proprie inconsce pulsioni ‘fasciste’) ritengono che esista un LV-fascismo, un fascismo perenne, un nucleo di ‘sostanza’ irrimediabilmente orrida e incorreggibile che può solo tentare travestimenti tattici, mantenendo inal­ terato il suo recondito piano diabolico di annientamento di tutto ciò che è umano. Esistono certamente persone o gruppi dagli obiettivi torvi che si mimetizzano con temi e gerghi cari alla sinistra al fine esclusivo di farsi sdoga­ nare, per poi egemonizzare dall’interno alcuni ambienti antagonistici collocati dalla parte opposta dei tradizio­ nali schieramenti. È altrettanto vero, tuttavia, che ve ne

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sono altri che hanno attraversato un sincero travaglio intellettuale ed esistenziale, per giungere alla fine della loro elaborazione a posizioni che possono risultare a cia­ scuno più o meno condivisibili, ma che sono comunque degne di attenzione, rispetto e interlocuzione, e che non escludono ampie convergenze strategiche: uno su tutti è Alain de Benoist, con cui Preve ha stabilito un dialogo ed un’amicizia personale5. Cosi come un’amicizia personale e una convergenza si è stabilita anche con Luigi Tedeschi, che è colui che ha realizzato questo libro-intervista e che ha spesso ospitato interventi di Preve sulla rivista da lui diretta: Italicum, riconducibile all’area del cosiddetto so­ cialismo tiazionale, ma pensato nell’ampia prospettiva dei rapporti geopolitici internazionali. Anche Tedeschi ha militato da giovane nella destra radicale. Scelta che fu —ci dice —prima che politica, di carattere esistenziale: “una forma di ribellione ad uno stato di omologazione culturale, di vuoto morale, disgusto per l’adeguamento di massa al pensiero dominante”. Non la nostalgia del ventennio ha motivato la sua giovanile scelta di campo dunque, ma forse l’orgoglio un po’ maudit del proscrit­ to (per dirla col titolo di un noto romanzo di von Salo­ mon), di chi preferisce combattere sul fronte dei perdenti e presidiare, con un gruppo sparuto, l ’ultima ‘trincea’. Quella che non fu difesa, certamente, dal postfascismo istituzionale, presto convertitosi al collaborazionismo filoamericano e a un perbenismo di facciata, funziona­ le soltanto alla conservazione dei rapporti di potere da parte dei gruppi dominanti. Motivo per cui Tedeschi, e altri della sua generazione, operarono lo strappo dal MSI e animarono l’esperienza della cosiddetta Nuova destra, note 5 Vedi C. PREVE, I l paradosso D e Benoist, Edizioni Settim o Sigillo, Rom a, 2006.

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che però non trovò un adeguato corrispettivo politico ri­ spetto all’elaborazione culturale, che comunque tentò il rinnovamento. Ecco cosa scandalizza quei marxisti che rifiutano Pre­ ve: il fatto di interloquire anche con alcune figure intel­ lettuali che provengono da queste esperienze. Ma quello che questi marxisti non capiscono è che non tutti costoro son rimasti a crogiolarsi nel loro risentimento da per­ denti, come già fu nelle ultime drammatiche esperien­ ze della Repubblica di Salò, in cui la percezione della sconfitta imminente e la sensazione di essere stati traditi li condusse a un nichilismo in virtù del quale ogni rap­ presaglia —anche la più atroce —era concessa. C’è anche chi elaborato retrospettivamente quel senso di sconfitta e anziché inalberarsi sul proprio ‘cuore nero’, ha innescato una dialettica produttiva. Uso il termine ‘dialettica’ in senso propriamente filosofico perché —come dice lo stes­ so Tedeschi - la filosofia dialettica ci insegna che ogni pensiero contiene in sé la sua opposizione e se i cosid­ detti ‘opposti estremismi’ si sono scontrati anche nelle piazze in un altro periodo della nostra storia, ora che essi vengono dal ‘pensiero unico’ additati tout court come ide­ ologie assassine, può accadere che si superi l’unilateralità delle loro radici e si trovino nuove, più misurate, con­ vergenze. Fu infatti in occasione di una manifestazione svoltasi a Roma a seguito degli eventi dell' 11 settembre, organizzata congiuntamente da gruppi radicali di oppo­ sta matrice politica, che Tedeschi ha conosciuto Costanzo Preve e ha intrecciato con lui un confronto culturale che è ancora in corso. Parliamo dunque di un vero confron­ to dialettico, in cui le proprie posizioni si arricchiscono realmente dei contributi dell’altro. Il che non è la stessa cosa di nutrire un mero interesse ad utilizzare strumen­ talmente le idee di Preve. Per gli intellettuali tradizio­ nalmente ascrivibili all’orizzonte della destra radicale,

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infatti, Preve può risultare appetibile per svariati motivi: come proveniente dalle fila del marxismo che però critica la cultura di sinistra, per la sua ripresa di alcuni valori ‘conservatori’, in virtù del suo antiamericanismo, ecc. Ma probabilmente ciò che interessa più di ogni altra cosa è che la proposta di Preve comporta un cospicuo riposi­ zionamento della tradizione filosofica e politica europea rispetto ai suoi principali affluenti storico-culturali. Se molti considerano la tradizione di pensiero occidentale come il frutto dell’incontro/scontro tra due grandi pa­ radigmi, rappresentati dalle immagini emblematiche di Atene e di Gerusalemme, la proposta di Preve prevede di ricollocarsi solidamente su Atene, ravvisando un sostan­ ziale fallimento dell’altra matrice. Il che significa alcune cose di non poco conto: ristabilire il primato della ragio­ ne sulla fede, del Logos sulla Legge, delle virtù civili del­ la polis sull’attesa messianica. È quest’ultimo punto che interessa alla destra radicale, che concepisce il messiani­ smo come una forma di svalutazione in chiave moralistica dell’ordine naturale delle cose. In questa ottica, l’attesa mes­ sianica si è secolarizzata, in età moderna, traducendosi nella presunzione di poter realizzare il Regno dei Giusti attraverso una continua ‘fuga in avanti’, che —in sequen­ za —ha potuto assumere nella storia i tratti del liberali­ smo, del progressismo, della democrazia, del socialismo, del comuniSmo, del globalismo cosmopolitico del libero mercato; tutte concezioni negatrici della tradizione, del­ la gerarchia, del radicamento etnico-territoriale. Da qui un’ostilità preconcetta verso quella linea di appartenenza etno-culturale. Orbene, Preve non ha però alcuna ostili­ tà preconcetta; non è giudeofobo. Alcuni dei suoi autori di riferimento, ad esempio, sono di origine ebraica: da Spinoza a Marx a Lukàcs. Così come è alieno dalla giudeofobia, egli lo è però altrettanto dalla giudeofilia, ossia dal pregiudizio incondizionatamente favorevole verso tutto

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ciò che è prodotto della cultura ebraica; posizione tal­ mente diffusa e propagandata oggi negli ambienti intel­ lettuali, giornalistici, diplomatici da sembrare quasi una patente di ingresso per i circoli più prestigiosi. Un messianismo, più o meno secolarizzato, ha con­ tribuito ad alimentare quella speranza di una società più giusta che ha animato il movimento operaio, così come la dottrina marxista. Non si è però rivelato, sulla lunga distanza, un fattore vincente per quella lotta; anzi, porta oggi alle promesse di fantomatiche liberazioni globali da parte delle moltitudini che - al di là delle intenzioni di chi formula tali dottrine (Toni Negri, ad esempio) - finiscono soltanto per essere funzionali alla globalizzazione capita­ listica, che mira a creare una massa omogenea di sradicati da dislocare e manipolare. Viceversa il messianismo seco­ larizzato ha funzionato molto bene nel sostenere —piut­ tosto - il fronte capitalistico. Un “mito di elezione” di origine veterotestamentaria caratterizza l’autopercezione che hanno gli Stati Uniti rispetto al resto del mondo. Se la cosiddetta dottrina del “destino manifesto” risale all’O t­ tocento, è però sin dalla fondazione delle colonie ameri­ cane da parte dei puritani Padri pellegrini che il Nuovo Mondo assume il ruolo di nuova Gerusalemme terrena, non compromessa dal vizio e dal peccato come la Vecchia Europa. La prosperità economica, nella forma dell’accu­ mulazione capitalistica, non sarebbe allora che il suggello del patto divino, l’indizio decisivo dell’essere stati pre­ scelti, e come tali essere strumenti del piano di salvez­ za di Dio, che è anche una rivalsa dei Giusti contro gli “empi”. Tale Weltanschammg caratterizzata da un richiamo incessante alla “terra promessa”, ha operato nei fatti come fattore di sradicamento per le altre comunità politiche, concepite sempre nella forma delia inadeguatezza rispetto alla perfezione garantita dal patto tra gli Eletti e il Dio unico, sovrano e vendicatore. Da qui, la convinzione ame-

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ricana di dover svolgere una missione civilizzatrice mon­ diale, col prezioso supporto di quello stato che nelle sue stesse Leggi Fondamentali reca i presupposti teologici di quella ‘elezione’. Stato che, peraltro, si permette il lusso di praticare apertamente una violenta politica di apartheid facendo leva sul senso di colpa dell’Europa nei confronti della Shoah. È alla luce di tutto questo, che Preve mira a rifonda­ re un’alternativa filosofica e politica a partire da “Atene”; persino il suo Marx è de-messianizzato, così come l’eredità di Fiegei che egli raccoglie non è improntata all’idea di un sistema filosofico riducibile alla secolarizzazione del para­ digma teologico cristiano-protestante (che è la lettura che ne dà, ad esempio, Karl Lowith). Il retaggio della grecità classica nella filosofia di Preve è visibile in alcuni snodi fondamentali: a) il concetto di finitezza, cioè di senso del limite, contrapposto alla smisurata voracità di ogni ‘cat­ tivo infinito’, tra cui includiamo quello che scaturisce da un’aspettativa messianica di perfezione che non può mai essere raggiunta perché frutto di una illimitata proiezione soggettiva; b) il nesso tra pensiero razionale, realizzazione personale (vivere bene: eu zen) e virtù civile, il che com­ porta di pensare all’uomo come un essere eminentemente politico, cioè partecipe della dimensione della polis', c) la preoccupazione per la fondatezza ontologica, ossia la ri­ cerca di una base consistente, non puramente arbitraria e contingente, su cui ancorare l’esistenza umana, per scon­ giurare ogni deriva nichilistica (la stessa preoccupazione che spinse Platone a contrastare la sofistica, in particolare quella gorgiana): fondatezza ontologica che —tradotta dal linguaggio dell’ontologia a quello della sociologia - non può che significare una certa consistenza e permanenza dei vincoli sociali. Come dalla cosiddetta Scuola di Francoforte, anche dal pensiero di Preve scaturisce una teoria critica dell’i-

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citologìa, a beneficio di tutti quelli che si sentono di non dover accettare il capitalismo nichilista come un destino ineluttabile e come 'fine della storia’. Soltanto che a diffe­ renza della critica dell’ideologia elaborata da autori come Adorno, Horkheimer, Marcuse (cui comunque Preve tri­ buta riconoscimenti, al di là di alcune critiche), che son pur sempre orientati dal messianismo ebraico, per lui a fare da stella polare è —come abbiamo più volte detto - la Grecia classica. Un pensiero informato alla classicità non significa rifiuto del moderno. Preve, filosofo ‘greco’, ma anche seguace di Spinoza, Fichte, Hegel, Marx e Lukàcs, è un pensatore dell’emancipazione e non si oppone al moderno (come è tipico, invece, dei pensatori reaziona­ ri), ma semmai al modernismo, di cui la successiva deriva postmoderna, altrettanto osteggiata da Preve, è un esito inevitabile, una volta poste quelle premesse. Il moder­ nismo è un orizzonte culturale entro cui si concepisce il soggetto come cominciamento assoluto e mai come frut­ to di un processo storico di mediazione dialettica. E tale assolutizzazione del soggetto in solitario non può non sfociare presto o tardi nel nichilismo, poiché quando ci si concepisce come inizio assoluto, non si può far altro che pretendere di annientare tutto ciò che non asseconda la propria volontà di potenza (procedendo a negazioni ‘asso­ lute’ piuttosto che ad negazioni dialettiche); e ciò fino al punto paradossale di dissolvere la propria stessa soggetti­ vità, che per ‘consistere’ ha invece bisogno di rapportarsi dialetticamente con l’altro da sé. L’odierno capitalismo ‘globalitario e il nichilismo di­ vorante sono due facce della stessa medaglia: il secondo non è che il risvolto soggettivo del primo. La filosofia di Preve è un tentativo generoso ed energico di contra­ stare entrambi. La sua è una voce piuttosto isolata: la voce di un filosofo che si è sempre posto controcorrente e perciò ha pagato un prezzo in termini di relativa so­

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litudine esistenziale, filosofica e politica. Negli ultimi anni, tuttavia, si è sviluppato un certo interesse verso le sue posizioni, soprattutto sulla rete. Credo sia perché le persone più attente e curiose cominciano a comprendere che il pensiero di Preve è tra quelli più lucidi e taglienti per fornire una base di consapevolezza teorica alla ricerca di alternative a questo sistema mostruoso. Speriamo di contribuirvi anche con questo libro. Buona lettura. Stefano Sissa

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L’Europa può reinventare se stessa?

E u r o p a : u n m it o u n if ic a n t e o o m o l o g a n t e ?

1) Che cos’è l’Europa per l’europeo d i oggi? Qual è l’in­ fluenza dell’Europa nella sua vita reale, nella cultura mediatica, nelle sue convinzioni politiche? L’Europa si identifica con la UE, con la sovranità del gover­ no finanziario della BCE, con i ripetuti tagli della spesa pubblica dovuti al trattato d i Maastricht, con la perdita del potere d’acquisto dei salari derivata, dall’avvento dell’euro e con le infinite direttive eu­ ropee che limitano e condizionano la vita economica e civile dei popoli. l ’Europa si identifica quindi per gli europei con potere coercitivo della UE di deriva­ zione finanziaria e non democratica, sopportato dai popoli europei con una sorta d i rassegnazione all’i­ neluttabile, senza un dissenso che abbia alcuna rile­ vanza politica. L’Europa, invece, dal punto di vista culturale, viene identificata sulla base delle proprie radici storiche, politiche, spirituali. E quindi il d i­ battito riguardo l’identità dell’Europa si articola su posizioni estremamente varie e diversificate. Si in­ vocano infatti, a fondamento dell’Europa le radici cristiane, la cultura classica e la concezione imperia­ le pagana, i d iritti dell’uomo d i derivazione illum i­ nista. Tali identità, considerate singolarmente, sono in reciproca ed evidente contraddizione. Esse possono in realtà, rappresentare elementi complementari d i una sintesi unitaria della cultura europea, non es­ sendo nessuna di esse di per sé sufficiente a costituire univocamente una identità credibile cui un’Europa unita possa fa r riferimento. Tuttavia, nella contin­ genza storica attuale, tali identità storico —cultu-

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Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

rati costituiscono tante visioni ideologiche separate dell’Europa, non essendo tali radici riscontrabili (se non in esigue minoranze del mondo culturale), nei valori morali, nella sfera sociale, nella educazione, nei costumi dì vita dei popoli europei. Ci si chiede allora se l’Europa possa avere una identità unitaria, dato che le stesse specificità, dei singoli popoli europei sono in estinzione. In realtà la UE costituisce una identità omologante e non unificante. La UE, quale entità sovrana omologante è d i per sé negatrice di ogni realtà sia di natura identitaria che ideologica. La UE esprime una sovranità economica che infor­ ma le istituzioni, la cultura e la non identità dei popoli, nel plasmare la materia informe della psi­ cologia collettiva delle masse. Allora, in riferimento alla problematica delle radici europee, ci si chiede come l’Europa possa rendersi indipendente rivendi­ cando l’identità dei popoli, quando essa stessa non possiede una propria identità. —

Concordo interamente con i tuoi “dubbi iperbolici” su come oggi si intende costruire l’Europa. A dire la verità, io sono ancora più “radicale” di te. Nell’attuale congiuntura storica infatti (e non in uno spazio-tempo astrattamente razionale, ma per ora inesistente) io sono contro l'Europa, non la voglio, preferirei il mantenimento di stati —na­ zionali sovrani, collegati evidentemente da facilitazioni commerciali e culturali e da alleanze militari difensive, che non impediscano però la piena ed assoluta sovrani­ tà. Se penso questo, è perché oggi, con Yattuale classe po­ litica, con Yattuale classe mediatico - universitaria, con Yattuale senso di colpa collettivo continuamente innaffia­ to dal peggiore gruppo intellettuale della storia europea dal tempo degli etruschi (di cui parlerò più avanti) la sola Europa possibile è quella dell’impero occidentale a guida

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USA. Stando così le cose, io non voglio questa Europa. Voterei contro in qualunque referendum, e mi spenderei apertamente per la sua pubblica negazione. Detto questo, per non lasciare equivoci di sorta, credo che l’attuale Europa si basi su almeno due “errori meta­ fisici”. Prendo l’espressione del notevole filosofo tedesco (oggi dimenticato) Georg Simmel, che considerava un “errore metafisico” il privilegiare i mezzi rispetto ai fini nell’uso degli strumenti tecnici e nel consumo dei beni, per cui l’avere prendeva il posto dell’essere (secondo la corretta formulazione di Erich Fromm), e così la stessa finalità (il vivere bene, eu zen, secondo Aristotele) era can­ cellata. Il primo errore metafisico è di tipo economico, ed il secondo di tipo culturale. Li segnalerò brevemente entrambi, ma è evidente che il tema è di tale importanza da meritare uno sviluppo maggiore. Il primo errore metafisico è di tipo economico. Le oli­ garchie hanno infatti pensato che bisognasse “cominciare” con una unificazione monetaria (l’euro) e commerciale, e che - per così dire —il resto sarebbe venuto dopo automa­ ticamente (come diceva Napoleone, l’intendence suivra). Ma i profili nazionali e gli interessi dei popoli non sono affatto una “fureria” come per le truppe in marcia. Questo econo­ micismo esasperato, ideologia spontanea degli imprendi­ tori e dei loro teologi, gli economisti che mentre fumano la loro pipa-totem emettono mantra in lingua inglese, lingua sacra del capitalismo, non corrisponde per nulla alla vita reale degli individui, delle classi, dei popoli e delle nazio­ ni, ma li stravolge tutti per i suoi scopi. I sistemi scolastici, cresciuti in circa duecento anni di storia in ogni paese per corrispondere al suo profilo nazionale, sono stati distrut­ ti per essere “adattati” ai vincoli comunitari. I professori liceali sono stati degradati a prof e a poco più di anima­ tori sociali assistiti da bande di pedagogisti, psicologi e sindacalisti invasivi (il titolo intero di “professore” è stato

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riservato ai soli professori universitari, il nuovo sacerdozio cosmopolitico globalizzato), e la stessa università è stata distrutta con corsi triennali ridotti ad esamifici per il futu­ ro lavoro flessibile e precario. La spaventosa crisi derivata dall’introduzione dell’euro ha comportato di fatto (le sta­ tistiche lo testimoniano) l’erosione di trenta anni di con­ quiste del lavoro salariato europeo organizzato. Il dominio militare Usa non è stato minimamente diminuito, ma anzi si aumentano e si ampliano le basi. In definitiva, l’errore metafisico consiste in ciò, che si vorrebbe che gli europei amassero l’Europa quando la stessa Europa si è manifesta­ ta di fatto con un peggioramento delle loro condizioni di vita, l’apertura di un epoca di aspettative decrescenti per la classe media, la precarizzazione e la flessibilizzazione del lavoro dipendente, la degradazione del sistema scolastico e universitario, l’aumento del controllo del dominio militare USA, ecc. E il caso di dire: no, grazie! Il secondo errore metafisico è di tipo culturale. Si è infatti sviluppato una sorta di “gioco al massacro”, o gioco delle cancellazioni reciproche, per cui la casta analfabe­ ta e settaria degli intellettuali europei è stata chiamata a “cancellare” le tradizioni culturali che erano odiose a cia­ scuna scuola. È come se nel mondo antico i platonici, gli aristotelici, gli epicurei e gli stoici fossero stati chiamati a “cancellare” ciò che non piaceva a ciascuno, per cui alla fine l’identità culturale del mondo antico sarebbe risultata o da cancellazioni, o da veti reciproci, o da una sorta di eclettismo concordato per cui erano messi tutti per quieto vivere e per “politicamente corretto”, senza che però nes­ suno ci credesse veramente. E così abbiamo assistito al de­ menziale scontro tra fautori “religiosi” dell’identità detta ebraico —cristiana e fautori “laici” della eredità detta ra­ zionalistica, illuministica e dei cosi detti “diritti umani di libertà”. In proposito svolgerò due sommari ordini di ragionamento.

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In primo luogo, non capisco che cosa voglia dire eredi­ tà ebraico-cristiana, a meno che si intenda il fatto che nel­ la Bibbia ce sia l’Antico che i Nuovo testamento. L’iden­ tità ebraico-cristiana naturalmente non esiste, non è mai esistita come fatto unitario, e non esisterà mai, ed il fatto che questo improbabile concetto sia stato coniato deve es­ sere fatto risalire esclusivamente al complesso di colpa per il cosi detto “olocausto”. L’Europa ha una tradizione pri­ mariamente cristiana (senza dimenticare mai un fatto che nel paese di Padre Pio è costantemente dimenticato, e cioè che i cristianesimi sono tre, e cioè cattolicesimo, prote­ stantesimo ed ortodossia, e sono tutti e tre sul medesimo piano), e solo secondariamente ebraica e musulmana. Se ci si riferisce al monoteismo normativo e prescrittivo, allo­ ra non c’è nessun profilo binario ebraico —cristiano, ma c’è un profilo ternario cristiano-ebraico-musulmano. Dire ebraico-cristiano oggi significa soltanto escludere l’Islam. Dica pure qualcuno che gli ebrei sono i nostri “fratelli maggiori”. Per quanto mi riguarda, i miei fratelli mag­ giori sono i greci, i miei cugini primi sono i cristiani, e tra i miei cugini secondi ho anche sia musulmani che ebrei. Nessuno mi costringerà mai a belare accettando ciò che il politicamente corretto mi appiccica al bavero della giacca. In secondo luogo, non c’è alcun dubbio che il raziona­ lismo moderno abbia prodotto le due teorie convergenti e complementari del diritto naturale (giusnaturalismo) e del contratto sociale (contrattualismo). E tuttavia il fat­ to che da queste due componenti (e segnatamente dalla prima) sia derivata l’attuale teologia interventistica dei cosiddetti “diritti umani” (ad apertura alare asimmetrica e con bombardamento interventistico differenziato) non elimina un fatto grosso come la catena delle alpi. E questo fatto sta in ciò, che all’interno di questo stesso pensiero europeo la fondazione giusnaturalistica dei diritti umani è stata criticata “in tempo reale” prima da Hegel (e dai successi-

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vi differenziati hegelismi di destra e di sinistra) e poi da Marx (tenendo conto che il pensiero marxiano originario deve essere tenuto ben distinto dalle formazioni ideolo­ giche marxiste posteriori, tipo quella egemone di Stalin). Ora, so perfettamente che in questa provvisoria congiun­ tura storica Hegel e Marx sono stati cancellati come cani morti e consegnati ad irrilevanti gruppi di hegelologi e di marxologi accademici, ma ripeto che questo è dovuto soltanto ad una provvisoria congiuntura storica. E molto probabile che tra cinquant’anni le cose andranno diversamente, e sarà finita l’epoca della fine della storia (Fukuya­ ma), del disincanto verso le grancli-narrazioni (Lyotard) e del cosiddetto (e ridicolo) “patriottismo della Costituzio­ ne” (Habermas, Napolitano, ecc.). Per il momento, parafrasando i giudici “golpisti” di Mani Pulite, possiamo ispirarci ad un solo motto: resi­ stere, resistere, resistere. Nessuna adesione a profili ine­ sistenti come quelli chiamati “ebraico-cristiano” o “dei diritti umani”.

U n a id e n t i t à e u r o p e a d iv e n u t a s e n so d i c o lpa COLLETTIVO

2) Costatiamo come l’identità dell’Europa oggi sia una problematica rimossa dalla coscienza dei popoli, in quanto evocatoria di un fondamentale senso di col­ pa collettivo d i cui l’Europa è vittim a. L’Europa è quindi la patria delle colpe originarie. La sua cul­ tura è vista come la sintesi generatrice dei peggiori crimini contro l’umanità, quali l’olocausto e il co­ lonialismo. Il suo peccato originale sarebbe dunque geneticamente connaturato alle sue radici culturali. L’eurocentrismo viene identificato sia col dominio co­ loniale che con la concezione razziale del nazismo. A l

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di là del giudizio storico sid colonialismo (epoca tra­ montata da almeno 50 anni), l’Europa ha lasciato in Africa, Sudamerica ed in minor misura in Asia, una impronta culturale che oggi è parte integrante della identità di molti popoli oggi indipendenti. Tale patrimonio culturale comune può costituire oggi una fonte di dialogo e di confronto in funzione antimpe­ rialista nei confronti del dominio globale america­ no. Ma come può l’Europa svolgere un ruolo d i mo­ tore politico - culturale per la liberazione dei popoli se è essa stessa ad identificare la propria cultura con il suo senso di colpa irredimibile che comporta la ri­ mozione dalle coscienze degli europei del proprio pa­ trimonio identitario? Occorre inoltre aggiungere che l’Europa intera (e non solo l’Italia e la Germania), è stata condannata dal tribunale della storia dei di­ ritti umani istituito dalla superpotenza americana, che, alla luce del proprio primato morale —armato, da Norimberga a Baghdad ha emanato solo senten­ ze di morte d i ispiraziotie biblica. Il senso di colpa europeo è esplicativo d i una subalternità morale e politica dell’Europa, che accetta supinamente la con­ dizione d i protettorato continentale americano. Tu cogli il punto essenziale della questione, quando affermi che senza rimuovere il senso di colpa collettivo di cui l’Europa è vittima ogni ulteriore discussione diventa superflua, inutile ed impossibile. Sono d’accordo -se posso dirlo- al cento per uno per cento. Ma, appunto, qui co­ mincia la discussione. In primo luogo, l’Europa è vittima, ma è vittima con­ senziente. Essa è come il masochista che si piega alle fru­ state gemendo di piacere. Vedremo poi i diversi ruoli del­ le quattro fonti principali di masochismo, il colonialismo, il fascismo, il comuniSmo, ed infine l’olocausto ebraico. A

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mio parere, di fatto solo il quarto conta, e gli altri tre re­ stano del tutto accessori e complementari. Finché il maso­ chismo dell’Europa non verrà curato in modo radicale, le basi USA espiatorio-punitrici continueranno ad occupare militarmente l’Europa. In secondo luogo (andrebbe da sé, ma è meglio chia­ rirlo per evitare pittoreschi equivoci diffamatori) quanto dico non significa per nulla che il genocidio ebraico non sia mai avvenuto, e che -se avvenuto- non debba essere ra­ dicalmente respinto, deplorato, condannato e ovviamente “ricordato”. Io sono per la totale libertà di parola e di espressione pubblica per i cosiddetti “revisionisti” ed i cosiddetti “negazionisti”, non posso entrare nel merito del gioco dei numeri delle vittime accettate o supposte (non sono infatti mai entrato in vita mia in un archivio storico —sono totus philosopbus), ma parto dal dato storico per cui Hitler intendeva realmente sterminare il popo­ lo ebraico in quanto popolo, per un insieme di ragioni razziali (preservare la purezza del sangue tedesco) e di ragioni storico-complottivo-paranoiche (il complotto ebraico compiuto in alleanza informale fra capitalisti fi­ nanziari e commissari politici bolscevichi). Per quanto mi riguarda, il genocidio ebraico è veramente esistito (così come quello armeno, che non è per nulla meno odioso e più “giustificato” del precedente). Detto questo, è evi­ dente che esso merita che ne venga coltivata la memoria. Altra cosa, invece, è il culto religioso della memoria. La memoria è coltivata soprattutto nell’ambito privato fa­ migliare e nello spazio pubblico scolastico, ed ha come fine principale l’impedire il più possibile che fatti con­ simili possano essere in futuro legittimati e ripetuti. Il culto della memoria non ha questo scopo preventivo ed educativo, ma esercita una funzione di legittimazione di eternizzazione di un senso di colpa collettivo e generazio­ nale permanente.

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In terzo luogo, bisogna dire che la cosiddetta respon­ sabilità collettiva e intergenerazionale, spostata nel cam­ po della politica, è una superstizione assiro-babilonese irrazionale, da respingere come si respinge uno scorpione velenoso. Responsabili sono coloro che hanno compiuto i crimini. I giovani tedeschi non sono affatto responsabili per Hitler e per Auschwitz. I giovani russi non sono affatto responsabili per le fucilazioni di migliaia di ufficiali polac­ chi nelle fosse di Katyn. I giovani italiani non sono affat­ to responsabili per il colonialismo italiano in Libia ed in Etiòpia. I giovani americani non sono affatto responsabili per le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I giovani mongoli non sono affatto responsabili per il massacro di ottocentomila persone (800.000) a Bagdad. Ed i giovani israeliani, ovviamente, non sono affatto responsabili per le atrocità del sionismo. Se cominceranno ad esserlo, lo saran­ no quando cominceranno a massacrare i palestinesi. Hai dunque totalmente ragione quando te la prendi con la sindrome di colpa, e quando capisci perfettamente che non si tratta per nulla di un giusto risarcimento mo­ rale, ma di un rito espiatorio di tipo religioso, tendente a creare un senso di colpa (d’altronde, le stesse analisi di René Girard sulla religione finiscono con il dire cose si­ mili). A questo punto, però, è bene differenziare i fattori da te segnalati. Per quanto riguarda il colonialismo, sono d’accordo in linea di massima con il tuo rifiuto della colpevolizzazione eterna. Devo però far notare che il colonialismo meri­ ta però una autocritica particolare, non tanto e non solo per ciò che è avvenuto in passato ed è ormai consegnato alla storia, quanto perchè oggi l’adesione all’imperialismo USA si nutre ideologicamente anche di una rilegittima­ zione del vecchio colonialismo. Ed infatti il punto sta qui, e solo qui. Io non voglio stucchevoli cerimonie del “chie­ dere perdono”, perchè esse sono anzi funzionali al mante-

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nimento del senso di colpa. Vorrei però che l’autocritica ai presupposti anche razziali del colonialismo servisse da premessa all’estensione di questa critica anche all 'odierna legittimazione dell’interventismo imperialistico attuale. Per quanto riguarda il nesso fascismo-comunismo, è inutile negare che io sia a tutti gli effetti un allievo criti­ co di Marx, e che quindi possa essere connotato come un “marxista critico non-pentito”. Ed infatti io sono proprio questo: un marxista critico non-pentito, e quindi un “co­ munista” nel senso di Karl Marx. E tuttavia, non ho nulla in contrario a che venga istituito un paragone critico fra fascismo e comuniSmo, come fa il mio amico de Benoist. Non ha infatti senso ripetere che le intenzioni del comu­ niSmo erano universalistiche, mentre quelle del fascismo erano razzistiche e particolaristiche. Alle vittime dei lager e dei gulag non importa infatti nulla che nel primo caso le pallottole che gli vengono sparate in testa siano “par­ ticolaristiche” e nel secondo caso “universalistiche”. Piut­ tosto, considero masochista il limitarsi a condannare il fascismo ed il comuniSmo ritenuti entrambi “totalitari”, con ridicolo effetto di legittimare indirettamente il “ter­ zo assente”, e cioè il liberalismo capitalistico. E questa la radice del successo di quella dotata professoressa di scuo­ la media chiamata Hannah Arendt, eretta a sacerdotessa della critica al totalitarismo, laddove il suo primo marito Giinther Anders, dotato intellettualmente cento volte più di lei, resta del tutto sconosciuto. E tuttavia, l'unico vero fattore di colpevolizzazione europea è la religione dell’olocausto. Che si tratti di una religione è perfettamente chiaro a molti ebrei critici (Jo­ seph Finkelstein, Israel Shamir, Ghilacl Atzmon, eccete­ ra). Per usare il linguaggio teologico di una sacerdotessa italiana dell’olocausto (cfr. ElenaLowenthal, “La Stampa", 19/01/08) “la shoah sfugge drasticamente ad ogni fenome­ nologia della storia, divina e umana”. Se le parole hanno

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ancora un senso, significa che il genocidio ebraico (che -ri­ peto a scanso di equivoci protervi- c’è veramente stato) non può essere paragonato a nulla di quanto è successo nella storia. Ma queste sono sciocchezze inaccettabili, del tutto inutili peraltro per la stessa causa giusta del ricordo delle vittime innocenti di Auschwitz. Tutti gli eventi sto­ rici, essendo per l’appunto “storici”, sono paragonabili ad altri eventi storici. Solo gli eventi religiosi, appunto per­ chè religiosi, sono imparagonabili: la crocifissione di Gesù e la sua resurrezione, i comandamenti dati da Dio a Mosè, le visioni di Budda, le rivelazioni a Maometto, eccetera. La religione dell’olocausto è il principale fattore di “eternizzazione” del senso di colpa dell’Europa. Per capir­ lo basterebbero due ore di pacata conversazione razionale. Ma queste due ore sono impossibili per una coercizione so­ ciale esterna. Chi infatti le proponesse verrebbe diffamato come “antisemita” - pur ovviamente non essendolo per nulla- e ben pochi hanno il coraggio di sopportare le con­ seguenze sociali di questa diffamazione. Nessuna carriera politica o universitaria diverrebbe possibile. Situazione a tutti gli effetti superstizioso-medioevale, per fortuna sen­ za roghi. Ed è già, effettivamente, un “progresso”.

L’E u r o p a è u n a p a t r ia u n iv e r sa l e

3) Il problema della identità europea è indissolubil­ mente legato a quello della sua indipendenza. La sovranità europea non è in alcun modo concepibi­ le alla stregua dell’indipendenza nazionale di un popolo, perché l’Europa non è una nazione, ma un insieme assai diversificato di stati. L’Europa è una entità geopolitica troppo grande per essere conside­ rata un’unica nazione e, nello stesso tempo, troppo piccola per essere autosufficiente rispetto alla potenza

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globale degli USA e delle stesse potenze emergenti, quali la Cina, La Russia e l’India. Ueurocentrismo, oltre che un retaggio del passato, è oggi un lusso che l’Europa non può permettersi. L’Europa è portatri­ ce d i un patrimonio culturale che va dalla cultura classica all’idealismo ottolnovecentesco di carattere universalistico, aperto al contributo d i tu tti i popoli extraeuropei che possono potenzialmente essere par­ tecipi dei valori universali originari dell’Europa. L’Europa dunque può essere in quanto universali­ sta, altrim enti non è. L’Europa è allora estranea alla problematica schematica sia dello stato nazione che del cosmopolitismo globale senza radici, in quanto il suo universalismo deriva dalla coscienza di sé stessa, così come, in parallelo, dal riconoscimento delle altre identità diverse da essa. L’Europa è quindi oggi in aperta contraddizione dialettica sia con sé stessa (che non riesce ad essere una sintesi delle diverse specifi­ cità dei propri popoli), che con gli altri (che non rico­ nosce sulla base d i una propria identità, ma in fu n ­ zione dell’ideologia cosmopolita dei d iritti dell’uomo, che nega ogni radice originaria dei popoli). —

Se ti ho capito bene, e non ti ho frainteso, tu sei con­ temporaneamente contro lo stato-nazione, che consideri ormai sorpassato o troppo debole per contrapporsi allo strapotere economico e militare USA, e contro il “cosmo­ politismo globale senza radici”, di cui tu individui cor­ rettamente la forma dominante presente nell’ “ideologia cosmopolita dei diritti dell’uomo, che nega ogni radice originaria dei popoli” e, (aggiungo io) scioglie ogni popo­ lo, ogni nazione ed ogni stato in un insieme di individui sradicati, deterritorializzati ed assolutizzati in quella che il filosofo Lukàcs avrebbe definito “insieme di onnipoten­ za astratta e di concreta impotenza”.

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Sono d’accordo sul fatto che “l’eurocentrismo, oltre che un retaggio del passato, è oggi un lusso che l’Europa non può permettersi”. Non sono però d’accordo —e penso sia bene dirlo francamente - a mettere sullo stesso piano lo stato-nazione e il cosmopolitismo sradicato dei diritti uma­ ni. Posso concederti che siano entrambi due mali. Ma il fatto che siano entrambi due mali resta del tutto astratto. Una slogatura ed una cardiopatia sono entrambe due mali, ma quale dei due è il maggiore? Nello stesso modo credo si debba dire apertamente che, fra i due mali, i difetti dello stato-nazione sono meno gravi dei difetti del cosmopoliti­ smo (interventista) dei diritti umani. I diritti umani sono il male maggiore, lo stato-nazione è il male minore. Ritengo che la questione debba essere impostata così, perchè in caso contrario ci condanneremo per sempre ad un pendolarismo impotente del tipo di “nè...nè”, moralmente gratificante, ma che non ci porterà da nessuna parte. Permettimi allora di impostare diversamente la questione, proprio sulla base non del “nè...nè”, ma del “male maggiore...male minore”. L’ideologia dei diritti umani è in questo momento sto­ rico il male maggiore del panorama ideologico internazio­ nale (dico “ideologico”, non certo filosofico o religioso). In questo momento, essa è una semplice teologia del diritto all’interventismo imperialistico, e come teologia norma­ tiva viene insegnata ai giovani studenti dei dipartimenti universitari di studi internazionali, perennemente eccitati all’idea di essere l’equivalente laicizzato professionale dei vecchi missionari (Kosovo, Irak, Birmania, Sudan, eccete­ ra). Mi spiace dover dire una cosa simile, perchè mentre molti filosofi appartengono a correnti apertamente relati­ vistiche (Richard Rorty, Gianni Vattimo, lo stesso Alain de Benoist), io sono invece un vecchio e tenace universa­ lista, della stessa scuola universalistica di Spinoza, Hegel e Marx. Inoltre, ho sempre condiviso la tesi di fondo del filosofo tedesco Ernst Bloch, per cui il diritto naturale è

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un alleato della dignità dell’uomo. Ma tutto questo non mi impedisce di capire la natura interventistica dell’ideo­ logia dei diritti umani. Dal momento che l’impero americano ha un fondamen­ to messianico-religioso, e non certamente giusnaturalisticorazionalistico, esso non ha alcun vero interesse per i diritti umani, che sono pur sempre un terreno di dibattito filo­ sofico razionalistico. Ma esso usa strumentalmente questa ideologia, perchè sa bene che essa è il terreno ideale di in­ contro con la parte più stupida degli intellettuali europei (e cioè la parte che va dal novanta al novantacinque per cento del totale). Questa intellettualità esce da una delusione nei confronti del proprio precedente universalismo, rivoluzio­ nario-comunista o anche moderato-socialista, ed è quindi pronta a sublimare le sue precedenti illusioni con un mu­ tamento di funzione del proprio passato universalismo, che passa così dalla trasformazione sociale al desiderio di punire i dittatori, non importa se glabri, baffuti o barbuti. E anche in questo modo che l’universo simbolico degli USA tiene al guinzaglio tutta questa gente disorientata, confusa e fallita. Bombardare lo Zimbawe! Bombardare il Myanmar! Bom­ bardare il Sudan! Bombardare l’Iran! E se non si può bom­ bardare, almeno embargo, embargo, embargo! È evidente allora che lo stato-nazione è il male m i­ nore, di fronte a questa adunata di invasati “umanitari”! Non ha forse fatto una cosa meravigliosa il generale De Gaulle, cacciando le basi americane e restaurando il sa­ crosanto stato-nazionale francese? Non deve forse essere ammirato il grande Fidel Castro, nel difendere lo stato­ nazionale cubano? Non sarebbe meraviglioso se un vero stato nazionale italiano restaurasse la sovranità politica e militare, congedando tutte le basi USA e Nato presenti nel paese, in modo che in Italia (che nessuno altro stato nazionale vicino minaccia!) ci siano soltanto militari ar­ mati del nostro paese?

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Con questo, voglio assicurarti di essere personalmente consapevole che i piccoli stati nazionali non sono suffi­ cienti per resistere e muoversi sullo scacchiere geografi­ co globalizzato. Mi è completamente noto. E nello stesso tempo, l’Europa di oggi è quella dei Solana e dei D’Alema. Pensiamo veramente di fermarli? È molto difficile. Per questa ragione, insisto che una bella indipendenza nazionale (tipo Venezuela e Iran, per intenderci) è comun­ que un male minore, e quindi un bene maggiore, rispetto al peggio. Ed il peggio è oggi l’ideologia interventistica dei diritti umani.

L’E u r o p a oltre il c a pit a l ism o e le m a c er ie d e l pa ssato

4) L’Europa è giustamente considerata la fonte origi­ naria dei d iritti dell’uomo, della democrazia poli­ tica, dello stato sociale. Valori imprescindibili della società civile. Tuttavia in Europa, parallelamente ai d iritti dell’uomo, nacque l’economia capitalista, il cui sviluppo si estese, attraverso il colonialismo, a tutto il mondo. Nacque in Europa, e fu esportato quindi nel mondo, un modello d i sviluppo che si è affermato a tu tt’oggi come universale, qtiale fonte di progresso ed evoluzione a livello mondiale. A l p ri­ mato eurocentrico dell’Europa coloniale si è sostitui­ to quello americano, quale potenza imperialista, che impone con la forza delle armi, oltre all’economia capitalista, anche la democrazia e i d iritti umani. Come dunque si può constatare, l’imperialismo eu­ ropeo è stato propedeutico alla globalizzazione. Ci si chiede allora, come l’Europa, che ha diffuso a livel­ lo mondiale il modello di sviluppo capitalista, possa oggi rivendicare l’indipendenza dei popoli, costitui­ re un modello di sviluppo alternativo a quello ameri-

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cano, quando è essa stessa ad essere colonizzata da un capitalismo assoluto macie in USA e dalla cultura liberal dei d iritti umani, da fenomeni cioè da essa stessa generati. Ogni problematica riguardo l’indi­ pendenza europea è destinata a restare prigioniera d i questa contraddizione. E vero che l’Europa f u an­ che la patria del fascismo e del comuniSmo, ma que­ sti sono fenomeni storicamente sconfitti e sono consi­ derati parte integrante del senso di colpa collettivo europeo cui prim a abbiamo fatto riferimento. Forse l’Europa, per essere antagonista, deve reinventare se stessa, creare in se stessa un nuovo libero pensiero universale, senza il quale non potrà liberarsi delle macerie del passato e della egemonia politica e cultu­ rale anglosassone. Sono queste le linee fondamentali di una auspicabile lotta di liberazione europea? Credo che tu colga il cuore della questione, affermando che “l’Europa deve reinventare se stessa, creare un nuovo libero pensiero universale, senza il quale non potrà liberar­ si delle macerie del passato e della egemonia politica e cul­ turale anglosassone”. Dal momento che condivido al cen­ to per cento questo tuo modo di impostare la questione, ritengo utile problematizzare ulteriormente quanto dici. In primo luogo, la strategia di legare il carro dei de­ stini europei all’asse anglosassone USA-Inghilterra passa attraverso il concetto di Occidente, e bisogna avere quindi il coraggio mediato e razionale di respingerlo. Se non si respinge totalmente il concetto di Occiden­ te è inutile poi lamentarsi che l’Europa è messa al carro dell’impero USA, perchè è proprio attraverso il concetto di Occidente che l’Europa vi viene incatenata, in senso cultu­ rale, politico e soprattutto geopolitico. Questa è la ragione principale della mia adesione all’eurasiatismo (rivista “Eurasia”, eccetera), che pure ha molte versioni, alcune delle

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quali personalmente non condivido (come ad esempio l’i­ dea russo-mongolica oppure l’idea politica imperiale). Il concetto di Occidente deve essere respinto senza furberie, distinguo, specificazioni o mezzi termini. Non ha senso dire che l’Europa è l’unico “vero” occidente, e gli USA sono un “falso” occidente. Oggi c’è un solo occidente, ed è l’unione geopoliticomilitare strategica fra USA ed Europa sotto il comando militare americano, che decide sovranamente la politica intemazionale facendosi beffe del diritto ed inscenando disgustosi processi biblici contro i leaders sconfitti, in primo luogo i benemeriti Milosevic e Saddam Hussein, fra le oscene urla di consenso del circo mediatico e dei difensori dei “diritti umani”. Devo dire che su questo punto trovo molta confusione, in quanto un mucchio di gente in buona fede, sia a destra che a sinistra, continua a pensare che l’Europa sia l’unico e vero “occidente”. In questo modo faremo come i lemming, che vengono portati ad annegare nel mare dietro il pifferaio di Hamelin. In secondo luogo (e qui vengo al punto da te evocato) l’Europa ha nello stesso tempo avviato un processo di mon­ dializzazione, globalizzazione e quindi universalizzazione geografica del modo di produzione capitalistico con tutti i suoi derivati (distruzione delle comunità, indebolimento del potere normativo del monoteismo, distruzione pro­ gressiva della famiglia e della figura del padre in particola­ re, economicizzazione del conflitto, società dei consumi di massa, individualismo generalizzato ed anomico, eccetera), ed un processo di proposta culturale universalistica, che non vedo espresso soltanto nei tre punti da te indicati (di­ ritti dell’uomo, democrazia politica, stato sociale), ma vedo soprattutto in un profilo di libertà individuale all’infuori di ogni vincolo comunitario. Si tratta di una vera e propria unità degli opposti in senso dialettico, perchè la mondia­ lizzazione capitalistica distrugge la libertà, o quanto meno la riduce a libertà dell’individuo rispetto ad un consumo di

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merci di cui abbia però la disponibilità monetaria solvibile. In ogni caso questo processo storico, iniziato a metà sette­ cento in Europa, è oggi passato integralmente negli USA. Si dirà che l’avverbio “integralmente” è scorretto ed esage­ rato, perchè pienamente capitalistici sono ormai non solo l’Europa stessa ed il Giappone, ma anche l’India, la Cina, il Brasile, eccetera. Eppure vorrei tenere fermo l’avverbio “integralmente”, in quanto qui non si parla tanto dell’esi­ stenza geografica ed economica di rapporti capitalistici di produzione in un singolo paese o in un insieme di Paesi (se così fosse, mi sbaglierei certamente), ma si parla del fatto che gli USA garantiscono in modo imperiale Xunità dei rapporti capitalistici nel mondo, e non si spiegherebbe altrimenti la fittissima rete di basi militari ovunque, che garantiscono certamente in primo luogo l’abnorme livello di consumi interni della superpotenza USA, ma assicurano più in generale l’unità politica e culturale del sistema. Non si spiegherebbe infatti altrimenti l’incomprensibile fatto per cui le oligarchie capitalistiche continuano a fornire basi militari alla superpotenza USA. Il fatto, ad un tempo scandaloso e ridicolo, che gli USA si permettano di allar­ gare la loro base militare a Vicenza a sessantatre (63) anni dalla fine della seconda guerra mondiale, con la scusa di difenderci dalla minaccia dell’Iran o della Corea dei Nord, e che su questo punto non vi siano differenze fra Berlusconi e D’Alema, Fini e Prodi, eccetera, è il segreto di Pulcinella di questa configurazione geopolitica mondiale. Detto questo, quali dovranno essere i fondamenti di questo “nuovo libero pensiero universale” da te auspicato? Qui finisce l’intervista, e dovrebbe cominciare la vera discus­ sione, fatta tutta al di fuori del circo politico, del circo mediatico, del circo universitario, e del circo degli intel­ lettuali politicamente corretti con l’accesso garantito alla comunicazione sociale.

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Crisi nel sistema o crisi del sistema capitalista?

C r is i e v o l u t iv a o c r is i sist e m ic a d e l c a p it a l is m o ?

1) La grave crisi che investe il capitalismo globale pone problemi d i ordine sia politico che sociale a tu tt’oggi insolubili: trattasi d i una crisi ciclica e/o evolutiva, oppure d i una crisi sistemica del model­ lo capitalista globalizzato? Si ripropone un vecchio interrogativo novecentesco: la crisi dell’attuale ca­ pitalism o assoluto è una crisi nel sistema o del siste­ ma? I rincari progressivi delle materie prim e e del settore alimentare, il terremoto finanziario dei mtitu i subprime, la situazione pre-fallimentare di al­ cuni colossi della finanza mondiale, le svalutazioni ripetute del dollaro, il calo verticale dei consumi con conseguente impoverimento e disoccupazione gene­ ralizzati, sono fenomeni che mettono in Ucce i costi economici, ambientali, sociali e politici d i un ordi­ namento la cui sussistenza potrebbe essere messa in discussione dal fatto che esso non potrebbe essere più in grado di produrre nuove risorse rispetto a quante ne consuma nei cicli produttivi. D el resto i fattori generatori si questa crisi erano già da anni emersi attraverso le repentine crisi finanziarie succedutesi con lo scoppio delle varie bolle speculative: i guru dell’economia mondiale hanno per anni diffuso la teoria truffaldina secondo cui lo sviluppo abnorme di una economia finanziaria avulsa dalla economia reale avrebbe incrementato quest’ultim a e avrebbe sopperito alle sue crisi. Che si sia verificato l’esat­ to contrario è ormai evidente. In realtà la specula­ zione finanziaria globale ha comportato il collasso d i interi settori produttivi e ha avuto la funzione,

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mediante la creazione di un indebitaìnento gene­ ralizzato (e globale!) di creare una enorme liqu i­ dità virtuale che ha drogato l’economia produttiva (vedi la diffusione del prestito al consumo), al fine mantenere livelli d i consumo troppo elevati rispet­ to alle capacità d i crescita della produzione. A l di là delle utopie marxiste smentite dalla storia del ‘900, il capitalismo oggi non potrebbe aver genera­ to a l suo interno quella crisi sistemica già annun­ ciata da circa 150 anni, secondo cui esso non è più in grado d i riprodurre nuove forse produttive? Il progressivo calo della produzione e dei consumi, la concentrazione nelle m ani dell’oligopolio delle mul­ tinazionali di settori strategici dell’economia, con conseguente scomparsa della concorrenza e l’instau­ razione di regimi d i prezzi imposti, non sono fa tto ­ ri che potrebbero determinare una serie di collassi produttivi causati dalla conseguente rarefazione monetaria e dal decremento vorticoso dei redditi ol­ tre che del potere d’acquisto delle popolazioni? Sem­ brano ripresentarsi i sintomi che hanno condotto alla implosione economica, prim a che politica, dei paesi del socialismo reale. Dunque: anche il capita­ lismo potrebbe essere soggetto alla stessa sindrome dissolutiva. Sembra una improbabile futurologia, ma i presupposti ci sono tutti. La descrizione che fai dei caratteri strutturali essen­ ziali dell’attuale crisi economica internazionale derivata dalla globalizzazione del modello neoliberale della “so­ cietà di mercato integrale”(SMI), da non confondere con la semplice e vecchia economia capitalistica di mercato della precedente epoca dello stato nazionale sovrano do­ tato di propria moneta e di politica estera autonoma, mi sembra non solo corretta nell’essenziale, ma anche abba-

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stanza esauriente e convincente. Sarebbe allora superfluo commentarla, essendo già esaustiva, ed è allora meglio discutere un punto solo: si tratta di una crisi di sistema o nel sistema? Nella mia concezione di riproduzione strut­ turale del capitalismo, non esistono crisi di sistema, ma soltanto ed esclusivamente crisi nel sistema, fino a quan­ do forze storiche rivoluzionarie, che non si possono però costituire sul piano puramente economico (che è utilitarisco ed esclusivamente redistributivo per sua propria essenza insuperabile), ma devono costituirsi anche e so­ prattutto su di un piano culturale globale (culturale, non culturalistico o peggio intellettualistico), siano in grado di mettersi in movimento. Ed oggi queste forze ancora non si vedono. Viviamo ancora in mezzo alla fase dissolu­ tiva delle vecchie forze del periodo precedente (destra e sinistra, comuniSmo ed anticomunismo, fascismo ed an­ tifascismo laicismo e religione, eccetera). A suo tempo Marx ritenne che il capitalismo sarebbe caduto per una crisi di sistema, dovuta alla sua incapacità di sviluppa­ re le forze produttive (con una analogia storica rivelatasi errata con le precedenti società precapitalistiche, schia­ vistiche e feudali) e che si sarebbe manifestata attraverso crisi ricorrenti di sovrapproduzione e di sottoconsumo permanenti. Ma l’esperienza storica dell’ultimo secolo ha dimostrato che il capitalismo si nutre di queste crisi di “dimagrimento”, e che è in grado di espellere le proprie tossine, anche se lo fa approfondendo la distruzione eco­ logica dell’ambiente e l’istupidimento e la manipolazio­ ne delle nuove plebi postmoderne di tipo ormai postbor­ ghese e postproletario.Vorrei ovviamente che fosse diver­ samente, e che il capitalismo stesse entrando in una crisi di sistema. Ma dopo decenni di economicismo crollistico “marxista”, da me sinceramente praticato e creduto, non ci credo oramai più, anche se questo, anziché indebolire il mio anticapitalismo, lo ha semmai invece rafforzato.

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I l m ercatism o è l ’e s it o fin a l e d ell ’id eo lo g ism o liberale

2) Il nuovo libro di Giulio Tremanti “La paura e la spe­ ranza” pone seri interrogativi circa l’attuale crisi del capitalismo, l 'autore denomina l’ideologia del liberi­ smo globale contemporaneo come “mercatismo”. Egli afferma: “Il 1989, con il crollo del muro di Berlino, segna la crisi sia del comuniSmo sia del liberalismo. Sostituiti entrambi da un’ideologia nuova: il merca­ tismo, l’ultima follia ideologica del Novecento. Il libe­ ralismo si basava su un principio d i libertà applicato al mercato. Il comuniSmo su di una legge d i sviluppo applicata alla società. Il mercatismo è la loro sintesi. Perché applica al mercato una legge di sviluppo line­ are e globale”. L’assoliciizzazione del mercato avrebbe prodotto l’omologazione dell’uomo alla doppia funzio­ ne di produttore e consumatore. Il mercatismo “postu­ la e fabbrica prim a un nuovo tipo di , e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: l’. Fonde insieme consumismo e comuniSmo. E così sintetizza un nuovo tipo di mate­ rialismo storico: , , ”. Tale nuovo materialismo storico, di carattere totalitario, sarebbe scaturito dal­ la doppia sconfitta del liberalismo e del comuniSmo. Il liberalismo, che secondo Premonti, “non poggia su una legge assoluta, ma da un lato sul principio di libertà applicato al mercato, dall’altro lato su un ap­ parato dialettico, empirico e graduale fatto da regole, tempi, metodi, coessenziali alla libertà stessa... Nien­ te ricorda la complessa dinamica propria del vecchio liberalismo quanto la struttura di un vecchio orologio meccanico". Che la genesi del pensiero liberale risieda in un principio di libertà applicato alla economia, appare un principio assai contraddittorio. In tal caso,

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sarebbe pensabile un liberalismo che, in nome della libertà rifiuti il mercato applicando i suoi principi a differenti modelli socioeconomici? Proprio in quan­ to esso postula una originaria libertà dell’individuo, indipendentemente dalle strutture sociali in cui esso vive e non esistono fed i elo ideali presupposti all’in­ dividuo stesso, quest’ultimo è contraddistinto dal suo agire materiale esclusivamente volto alla propria au­ toconservazione economica. Non è quindi il principio economico a definire la libertà, i d iritti individuali e le istituzioni politiche? M i sembra inoltre assai dub­ bio che la società liberale, all’opposto d i quella comu­ nista, non abbia a proprio fondamento una “legge”. Non si spiegherebbe infatti l’idea del progresso se non come una legge evolutiva dell’uomo e della società im ­ posta proprio dalla ideologia liberale. Forse che per creare evoluzione e progresso il liberalismo non ha bisogno di uno stato e di istituzioni che impongano una politica, una legge, una cultura, un modello eco­ nomico che guidino la società verso gli obiettivi sta­ biliti, nel contempo emarginando e reprimendo altre idee e culture ad esso estranee? Inoltre il liberalismo attuale non ha forse le sue radici nelle leggi economi­ che oggi assurte a “presupposti metafisici” cui deve uniformarsi il mondo globalizzato? Infine, ci si chie­ de come il liberalismo che porta nel suo DNA l’idea del progresso cosmopolita e universale e l’espansione del proprio sistema economico e politico possa essere suscettibile di limitazioni o correzioni che ne possano impedire la propria degenerazione nel mercatismo. La sostituzione di Padoa Schioppa con Giulio Tremonti, esito delle recenti elezioni politiche dell’aprile 2008, è ovviamente un fatto benefico per la nazione italiana, per­ ché vede un critico moderato (ed a mio avviso purtroppo

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ancora inconseguente, ma è questo che passa il convento per ora) del mercatismo neoliberista della globalizzazione, che è il nemico principale oggi degli individui, delle classi oppresse, dei popoli, delle nazioni e del diritto interna­ zionale fra stati (teologia interventistica dei diritti umani, dittatura del politicamente corretto, clero intellettuale de­ generato di tipo mediatico-universitario, eccetera), sosti­ tuire un fantoccio oligarchico delle agenzie USA di rating ed un rappresentante del binomio che correttamente La Grassa chiama GF/ID (grande finanza e industria decotta). Sono anche da apprezzare le aperture di Tremoliti verso il comunitarismo. E tuttavia l’inserimento di Tremonti nel blocco politico a guida berlusconiana trasforma il comuni­ tarismo di Tremonti in comunitarismo puramente verbale, virtuale ed ineffettuale. Nessuna ingegneria genetica potrà far funzionare un clone alla Frankenstein in cui un cuore co­ munitario (Tremonti) coesista con un cervello neoliberale e mercatista (Berlusconi). Vi sono infatti due vincoli struttu­ rali esterni che impediscono ogni possibile comunitarismo in Europa. In primo luogo, la Banca Centrale Europea e le bande ultraliberali del funzionariato di Bruxelles, vere e proprie stalle di Augia che bisognerebbe distruggere dalle fondamenta, cosa purtroppo impossibile, perché un nuovo 1789 è ancora lontano. In secondo luogo, le basi militari USA in territorio europeo, guidate spiritualmente dal cle­ ro sionista, che per “comunità” intendono l’occidentalismo imperiale euro-americano in crociata contro l’islam e gli “stati canaglia” indicati dal Dipartimento di Stato USA. È questo il “comunitarismo” di Bondi e di Pera, cui è del tut­ to subalterno il comunitarismo localistico di Bossi, che ha come tallone d’Achille non tanto il cosiddetto “razzismo” (il solo razzismo che conosco in Italia è lo snobismo con la puzza sotto al naso alla Nanni Moretti), quanto proprio la subalternità provincialistica alla strategia di guerra di ci­ viltà USA con consulenza sacerdotale sionista (chiusura di

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moschee, eccetera). Detto questo, in un mondo di analfabe­ ti Tremonti resta un intellettuale di valore. Ma rischia di essere, per così dire, l’Ingrao di Berlusconi. Come Ingrao chiacchierava, ma solo i cooperatori emiliani contavano nel PCI, nello stesso modo Tremonti può anche dire cose intel­ ligenti, ma solo Bush e Berlusconi comandano.

U n ’E u r o p a in c o n t r a d d iz io n e t r a id e a c o m u n it a r ia i;d e c o n o m ic is m o d e l l a

UE

3) La seconda parte del libro di Tremonti, dedicata alla speranza, prende le mosse dalla decadenza dell’Euro­ pa. La fine delle ideologie del ‘900, con tutte le trage­ die che hanno prodotto, ha comportato anche il dissol­ versi della cultura, delle tradizioni, della memoria storica europea. L’Europa ha smarrito la sua identità e i suoi valori. Egli afferma: “Identità e valori sono due facce della stessa medaglia. Lidentità è fa tta dai valori, i valori fanno l’identità. Nella storia tutte le comunità si basano e trovano infatti la loro identità nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni . In una parola, nella prevalenza dei loro va­ lori”. Lautore quindi contrappone all’economicismo della UE l’idea comunitaria, quale matrice della no­ stra originaria “differenza” che definisce l’identità, il “noi” necessario alla instaurazione della dialettica “noi-altri”. L’Europa accoglie l’altro senza essere sé stessa. L’Europa, già madre d i tutte le rivoluzioni oggi sembra esangue ed esaurita: “Eppure serve un’altra rivoluzione per resistere all’incalzare, all’incombere d i una rivoluzione che, per la prim a volta nella sto­ ria dell’Europa, non viene da dentro e non si fa den­ tro, perché si fa fuori e viene da fuori: quella dalla globalizzazione”. L’Europa sembra essersi omologata

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alla cultura universalistica della “eguaglianza in­ differenziata e di importazione libera, categorie que­ ste progressivamente estese dalle persone alle merci. Diventa così automatica la tendenza ad accettare a scatola chiusa tutto ciò che viene da fuori, solo perche' viene da fuori”. Ma, a mio avviso, l’idea comunita­ ria è necessaria alla sussistenza di una identità nel­ la misura in cui contraddice i presupposti ideologici e politici della globalizzazione. Quest’ultima è un fenomeno totalizzante che può affermarsi solo sulla dissoluzione delle comunità tradizionali. Nello stesso modo il liberalismo potè affermarsi con la scomparsa del mondo feudale premoderno. Nella dialettica “noi­ altri”, occorre rilevare che l’identità europea non può essere rivendicata come un fenomeno nazionale-iden­ titaria, cioè facendo leva sui valori del sangue e della terra. Il pensiero fondamentale della cultura europea è necessariamente universalista, suscettibile di esse­ re confrontato e condiviso con tutta l’umanità. For­ se il suo attuale oscuramento è dovuto ad una morte (provvisoria) per asfissia, conseguente alla riduzione dell’Europa entro la propria area geografica, come provincia dell’occidente americanista. Affermare una identità europea tra le tante sparse nel mondo, sarebbe un non senso, per una impostazione filosofica elaborata su problematiche concepite come strutture portanti ed idonee a generare sintesi dai contenuti universali perché aperte ad ogni contributo esterno che può a sua volta universalizzarsi come parte inte­ grante di un pensiero universale. Constato con piacere che tu individui con precisione i due elementi deboli della versione comunitario-europea di Tremonti. Da un lato, oggi l’Europa è di fatto solo una provincia geografica dell’occidente americanista, e lo

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stesso Ratzinger, sul quale avevo anch’io ingenuamente “puntato” per la sua nobile critica filosofica al nichilismo ed al relativismo, è andato negli USA ad avallare “spiri­ tualmente” l’abbietta visione del mondo dell’occidenta­ lismo USA e della sua teologia nazista dei diritti umani (il termine è linguisticamente pesante, ma anche “pesato” prima di scriverlo). Certo, so bene che la sua agenda è sta­ ta scritta prima del viaggio sulla base del ricatto dei preti pedofili (peraltro realmente esistiti), ricatto ampiamente esagerato dai circoli fondamentalisti protestanti e sionisti che controllano i mezzi di comunicazione di massa negli USA, ma ciò che conta è il risultato, e cioè che Ratzinger è andato a benedire il Grande Terrorista (Bush) contro il Piccolo Terrorista (Bin Laden). In secondo luogo, tu affermi che l’identità europea non può essere rivendicata come fenomeno geografico nazionale-identitario, ma deve essere ricostruita e difesa come un pensiero necessariamente universalista, da non imporre ma da proporre (appunto, non “imporre” ma “proporre”), con­ frontare e condividere con tutta l’umanità. Sono pienamen­ te d’accordo con questo modo di impostare la questione, in cui non vedo nessuna arroganza eurocentrica e nessuna nostalgia colonialistica e imperialistica, ma una semplice sobria e moderata rivendicazione di dialogo universalisti­ co. Non ho mai condiviso il relativismo comunitario alla Richard Rorty, neppure nelle versioni “comuniste” alla Gianni Vattimo, ma ho invece sempre appoggiato le impo­ stazioni universalistiche alla Hegel-Marx, pur consapevole della necessità di attuare una profonda “riforma” della loro dialettica troppo spesso necessitaristica e teleologica (“rifor­ ma” intendo, non “controriforma”, come talvolta è avvenu­ to in Croce e Gentile). Chi segue la via del “particolarismo europeo”, magari con le migliori intenzioni soggettive, fi­ nirà con il confluire, volente o nolente, nell’occidentalismo a guida USA ed a sacrdozio levitico sionista (sia chiaro-non

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“ebraico”, ma sionista). Ci sta qui il più importante nodo filisofico-sociale e politico dei prossimi decenni. Tanto vale impostarlo fin da subito nei suoi tratti generali, come tu fai in modo concettualmente chiaro e felice.

USA

e C i n a : d u e v o l ti d i u n o stesso sistem a

4) Non si sa se la crisi del capitalismo globale possa de­ terminare una implosione generalizzata di un model­ lo economico dominante. Probabilmente no, dato che nessuna causa esterna può metterne in dubbio la pre­ valenza, né il capitalismo assoluto sembra in grado di riformarsi ed evolversi verso altre forme di svilup­ po economico e sociale. La geopolitica pone lim iti per ora invalicabili per trasformazioni epocali almeno a breve e medio termine: non è in discussione infatti il primato mondiale degli USA, pur se tra infinite contraddizioni, crisi, crepe evidenti. Non sembra pe­ raltro che la globalizzazione possa determinare la fine degli stati, come più volte annunciato. Queste false profezie sono smentite dal ruolo predominante che gli stati assumono nelle crisi economiche nel mondo libe­ rista. Negli USA è lo stato che scongiura crack finan­ ziari ricoprendo il ruolo di debitore in ultima istanza, immettendo liquidità nel mercato, svalutando il dol­ laro per ridurre l’indebitamento estero e per rendere competitiva l’economia americana. Lo Stato america­ no ha inoltre una funzione propulsiva nell’economia attraverso le guerre con l’industria degli armamenti. La stessa svolta liberista della Cina è stata resa possi­ bile, in quanto imposta da uno stato totalitario. Stato e liberismo non sembrano essere termini antitetici, ma complementari. Riscontriamo tuttavia una palese contraddizione: nelle fasi di espansione economica, il

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liberismo si afferma in nome dell’antì-stato, mentre nelle fasi recessive, il liberalismo sopravvive grazie all’intervento dello stato. Nella stessa Cina, l’econo­ mia liberista si sviluppa perché lo stato impone uno sviluppo senza freni, senza diritti sindacali, garan­ zie previdenziali e assistenziali. Dobbiamo dunque concludere che il modello liberista sussiste in quanto sostenuto e garantito dallo stato. Inoltre, rileviamo che le nuove potenze asiatiche, non potranno mai rap­ presentare una alternativa al modello capitalista, né insidiare il primato economico e politico americano. Le economie del mondo globalizzato sono infatti re­ ciprocamente complementari ed interdipendenti: se la Cina costituisce il maggior bacino produttivo del capitalismo, a causa dei bassi costi di produzione, è il mercato finanziario occidentale a rappresentare il necessario sbocco per il reinvestimento dei profitti, così come accade per i paesi produttori d i petrolio. Il pa­ ventato, futuribile primato economico cinese, non inficerebbe la struttura del capitalismo globale. Solo la politica unitaria di stati portatori dì modelli di svi­ luppo diversi e alternativi potrebbe fa r venire meno gli automatismi economici della globalizzazione. Concordo interamente con la tua conclusione teorica e politica, per cui oggi solo la politica unitaria di stati por­ tatori di modelli di sviluppo diversi ed alternativi potreb­ be (forse!) far venir meno gli automatismi economici della globalizzazione. Sono interamente d’accordo con questa conclusione di tipo “realistico”, che si contrappone virtuo­ samente (e razionalmente) ai modelli virtuali che hanno impazzato negli ultimi due decenni, sponsorizzati proprio a causa della loro surreale inapplicabilità dai centri di potere mediatico e intellettuale, in particolare di “sinistra” (vedi il grande diseducatore del popolo stupido di sinistra, il quoti-

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diano “Il Manifesto”, vero e proprio scandalo politico e cul­ turale italiano, impensabile in quasi tutti i paesi stranieri). La Cina, ovviamente, non è in alcun modo un modello economico alternativo, ma esplica egualmente un ruolo geopolitico - militare positivo contro l’impero USA, e per questa ragione bisogna appoggiarla contro l’indegna ag­ gressione mediatica a proposito del Tibet. Nell’attuale si­ tuazione storica mondiale, venuta meno l’operatività pra­ tico —storica della vecchia utopia sociologica monoclassi­ stico —proletaria (impropriamente chiamata “marxismo”, laddove il pensiero originale di Marx si presta anche ad interpretazioni se non proprio alternative almeno diverse e meno proletario —centriche), solo gli armamenti strate­ gici russo e cinese ci difendono ancora dal progetto impe­ riale globale USA, che ha ridotto la NATO a mercenariato cosmopolitico mondiale (Afghanistan, domani chissà). Il venir meno dell’utopia anarchico - proletaria può portare a due esiti fondamentali. Da un lato, l’inesistenza di scenari anarcoidi ed antistatuali, in cui il comuniSmo è definito in termini di anarchismo di (inesistenti) mol­ titudini all’interno di un (inesistente) spazio di consumo globale, in cui il capitalismo assoluto coincide in modo onirico —surreale con il comuniSmo realizzato (il ridicolo Toni Negri ed il concerto intemazionale dei centri sociali e dei dipartimenti universitari). Dall’altro, il rafforzamen­ to strategico —militare di centri statuali e politico —eco­ nomici. Lo statalismo e il protezionismo non sono certo soluzioni a medio e lungo termine, perché sono entrambi privi di potenzialità universalìstiche, ma si tratta di una terapia convalescenziale che non possiamo provvisoria­ mente evitare. Prima lo si capisce, e meno tempo si perde.

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P rec arietà e m an ip o lazio n e an tropologica n ell’era d el cap italism o assoluto

I GIOVANI EMARGINATI DAL VUOTO DI SENSO GLOBALE

1) Viviamo in un’epoca che sembra abbia eternizzato il presente. Infatti, sembrano essere scomparsi dal­ la società i giovani, cioè l’elemento vitale di proie­ zione del presente verso il futuro, rendendosi perciò problematico il naturale ricambio generazionale che costituisce la base di ogni progettualità del presente. Espressioni come “l’avvenire è dei giovani’’, per non parlare di istanze futuriste che auspicavano “l’av­ vento al potere dei giovani’’, sembrano essere state dimenticate, quali velleità ideologiche di un nove­ cento ormai consegnato all’oblio della storia. Il calo delle nascite e politiche economico -previden ziali che disincentivano l’uscita dal mondo del lavoro degli anziani, sono fattori che rendono marginale il molo dei giovani nella società. Dopo il giovanilismo ses­ santottino, i giovani sembrano emarginati da una società non suscettibile d i naturale rinnovamento, in cui si potrebbero manifestare nel tempo rilevanti conflitti intergenerazionali. La fine del novecento e delle fed i ideologiche, sembra aver reciso quel logico e naturale nesso di continuità tra le generazioni, che determina la sussistenza oltre il tempo dei valori eti­ co morali su cui si struttura ogni società umana. La tradizionale invidia degli anziani verso i giovani si è tram utata in compassione, nei confronti di coloro su cui incombe un avvenire nebuloso, minaccioso per le antiche certezze, denso di incognite imponderabi­ li. Il nostro presente storico viene vissuto da giovani ed anziani non con l’ansia dell’attesa d i un futuro

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denso di aspettative e progetti d i trasformazione, ma con la rassegnazione di chi è condannato all’impo­ tenza dinanzi a mutamenti globali imprevedibili ed incontrollabili. Forse, con la fine del novecento, secolo delle “utopie assassine”, insieme con gli assassini, sono state uccise anche le utopie, quali prefigurazio­ ni ideali di rivolgimenti politici e sociali di portata epocale, la cui realizzazione dava senso all’esistenza e attribuivano un ruolo primario alle nuove gene­ razioni. Forse è questo “vuoto di senso” che aliena la condizione giovanile e la omologa ad una società condannata a subire il futuro e non a crearlo. Nella sua Ontologia dell’Essere Sociale (1885-1971) il vecchio filosofo Lukàcs aveva già parlato della condizione umana nel capitalismo in termini di “onnipotenza astratta e di concreta impotenza”. Si tratta più o meno della dia­ gnosi che fai anche tu. E passato quasi mezzo secolo dai tempi della diagnosi di Lukàcs, che mi sembra pienamen­ te verificata dalla situazione storica attuale. La condizione giovanile vive questa sintesi vitale con­ traddittoria di onnipotenza astratta e di concreta impoten­ za in modo particolarmente acuto e doloroso. È di moda oggi nel ceto corrotto degli intellettuali incrudelire sgua­ iatamente contro le “utopie novecentesche”, ignorando che la dimensione futurologica, spesso assente negli anzia­ ni e nelle persone di mezza età, è invece fisiologica e quasi “biologica” nei giovani. I sessantottini invecchiati sono in prima linea nel negare ai giovani la dimensione utopica, e fanno a gara a trasformare la loro propria delusione generazionale in una grottesca Figura Eterna della Delusione in quanto tale. Per questo i giovani spesso provano fasti­ dio per il “reducismo sessantottino” e per le sue narcisisti­ che cerimonie. I giovani saranno anche privi di memoria storica, ma non sono affatto stupidi, e sono in grado di

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valutare la natura della società che l’abbietta generazione sessantottina gli ha preparato. Si tratta di una società ad un tempo postborghese ed ultracapitalistica, in cui sono state distrutte sia la Famiglia sia la Scuola, ma il Mercato e la Pubblicità sono più forti e straripanti che mai. La comprensione della condizione giovanile oggi deve partire necessariamente dalla preventiva comprensione della natura specifica della società capitalistica di oggi. Non ci si può certo limitare alla banalità per cui i giovani erano già giovani ed i vecchi, vecchi ai tempi delle pira­ midi egizie. Occorre capire esattamente che cosa caratte­ rizza storicamente la condizione giovanile oggi, e non in un’inesistente situazione atemporale. La chiave storico-politica per individuare il centro del­ la questione giovanile oggi sta in ciò, che i giovani sono oggi il cuore di un mostruoso esperimento antropologico-sociale, rivolto a farli diventare il soggetto portatore dell’instaurazione e dello sviluppo allargato di un nuovo modello di società capitalistica assoluta ed illimitata, neoliberale, globalizzata, postborghese e postproletaria, oltre che ovviamente postfascista e postcomunista, in cui “de­ stra” e “sinistra” cessino integralmente di essere categorie in qualche modo ancora politiche, per essere soltanto at­ trattori culturali e simbolici, ed in quanto tali interamen­ te manipolati dal sistema pubblicitario e mediatico. Delle tre età della vita (giovani, persone di mezza età ed anziani) i giovani sono i soli che possono biologicamen­ te sopportare lo stress fisico e l’incertezza psicologica di un generalizzato lavoro flessibile, precario ed instabile. Le persone di mezza età e gli anziani non potrebbero fisicamente sopportarlo, ed inoltre sono stati abituati ai cosid­ detti “trenta anni gloriosi” di cui parla Hobsbawm (19451975), caratterizzati invece da una prospettiva generalizza­ ta di lavoro stabile e sicuro, sia pure quasi sempre “aliena­ to” e “fordista”. Per poter instaurare antropologicamente,

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e non solo “economicamente” (l’analisi economica priva di dimensione antropologica e di riflessione storico-filosofica è infatti quasi sempre vuota e fuorviarne) questo nuovo modello di capitalismo assoluto, neoliberale, postborghe­ se, postproletario, deideologizzato, ultra-atomistico, glo­ balizzato, eccetera, bisogna far leva su di una classe di età che ne possa sopportare biologicamente i costi spaventosi. La produzione interamente “biopolitica” (ed è allora questa la vera “biopolitica”, non quella di cui parlano i corrottissimi ceti intellettuali universitari delle facoltà di filosofia) di questa base antropologica flessibile e precaria è quindi rivolta ai giovani, ed è allora questa, e non altra, la questione giovanile oggi. Rendere flessibile e precaria la condizione giovanile presuppone peraltro la distruzione de facto di due istituzioni (millenaria la prima, secolare la seconda), e cioè la famiglia e la scuola. Sia la famiglia che la scuola, infatti, sono istituzioni commisurate a progetti di vita globale e permanente, caratterizzati dalla continu­ ità sentimentale, sessuale, professionale, ecc.. Incompati­ bili, quindi, con la generalizzazione dell’incertezza, della precarietà e della flessibilità. Il crollo tragicomico della cosiddetta “cultura di sinistra” negli anni più recenti sta infatti in ciò, che questi deficienti “il termine è pesante, ma quando ci vuole ci vuole!” da un lato si dichiarano contro il lavoro flessibile e precario, e dall’altro fanno tut­ to il possibile per delegittimare e distruggere sia la fa­ miglia che la scuola, e cioè proprio istituzioni omogenee culturalmente e biologicamente ad una struttura sociale e lavorativa non flessibile e non precaria. In Italia la distruzione della scuola (di cui è un sin­ tomo, secondario ma interessante, la degradazione lingui­ stica dei professori a prof, promossa non certo dall’inno­ cente gergo giovanile ma dalla consorteria delle canaglie mediatico-culutrali che gestiscono il linguaggio pubblico) è stata delegata ad una armata Brancaleone di sindacalisti

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CGIL-Scuola, pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e vari distruttori della professionalità disciplinare dell’insegnan­ te, “riconvertita” in abilità polivalente di gestione e di ani­ mazione del “disagio” giovanile. Ho assistito sgomento ed impotente a questa fantascientifica “invasione degli ultra­ corpi” nei trentacinque anni del mio insegnamento liceale (1967-2002), e ritengo di averne anche compreso la dina­ mica progressiva di insediamento, dinamica che presuppo­ ne (ahimè) la conoscenza del metodo dialettico di Hegel e di Marx, senza il quale tutto ciò che avviene appare incom­ prensibile, in quanto sembra a prima vista uno scenario alla Kafka ed alla Borges (lato tragico), ed alla Totò ed alla Ridolini (lato comico). Scrittori “insegnanti” come Lodoli, Starnone e la Mastrocola si fermano alla superficie ma non possono capirne la severa dinamica strutturale. Perché si possa instaurare in forma stabile e permanente una società ultracapitalista e postborghese bisogna che il lavoro sala­ riato diventi del tutto “imprenditoriale”, e cioè flessibile e precario, essendo appunto l’altra “precarietà” l’altra faccia dialettica complementare della cosiddetta “imprenditoria­ lità”. Per questo la scuola “borghese” deve essere sostituita da una scuola “capitalistica” postborghese. Il mercenariato cui è stata delegata dai poteri forti (ultracapitalistici e postborghesi - non dimenticare mai questa formula, a pri­ ma vista spiazzante ma essenziale) è grosso modo in Italia il “picismo” pedagogico-sindacale, ed a nessuno salti in mente di utilizzare il nobile concetto di “comuniSmo” per questa feccia sociologico-politica che si è impadronita circa vent’anni fa del corpo della scuola italiana. In proposito vorrei essere volutamente categorico, anche se purtroppo “estremistico”: senza spazzare via (licenziamenti, pensio­ namenti anticipati, degradazione a bidelli, uso di idranti, eccetera) questa feccia sindacal-pedagogica la scuola italia­ na è condannata a morte. Spero che il lettore abbia compreso la gravità di questo termine: condannata a morte.

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Mentre la distruzione della scuola è stata delegata alla feccia sindacal-pedagogica di provenienza PCI (oggi me­ taforicamente PDS-DS-PD), la distruzione della famiglia, intesa come legittimità del Superio paterno integrato dal complementare Amore materno, è stata delegata alla macchina consumistica televisivo-pubblicitaria, integra­ ta da girotondi femministi e gay-pride. E probabile che gli agenti storico-sociologici cui è stata delegata (struttu­ ralmente e funzionalmente) questa distruzione simbolica della famiglia non ne siano stati del tutto consapevoli, ma il fatto che gli idioti non siano consapevoli di quello che fanno e siano preda di meccanismi di auto-illusione e di falsa coscienza necessaria è una vera e propria costante sto­ rica. Senza la convergente distruzione della famiglia (la cui funzione “etica” - Hegel - è sostituita dal potere del consumismo pubblicitario televisivo) e della scuola (la cui funzione educativa è sostituita dall’invasività pedagogicosindacale) sarebbe stato impossibile instaurare la società della flessibilità del lavoro e del precariato permanente. La sommaria descrizione che ho cercato di disegnare è del tutto incomprensibile per tutti coloro che seguono ip­ notizzati lo scontro epocale fra Di Pietro e Berlusconi ed il gioco delle intercettazioni telefoniche a metà fra Boccaccio ed i cinema a luci rosse. L’analisi impietosa contenuta nella tua domanda è basata sulla nozione di “vuoto di senso”, che tu giustamente metti al centro della tua riflessione. In tutte e tre le sue età (giovani, mezza età, anziani) l’uomo è antroplogicamente un animale “cercatore di sen­ so”, nel suo doppio aspetto convergente di ideologia e di utopia (Bloch, Mannheim). I giovani sono biologicamente la classe d’età caratterizzata da un maggiore potenziale di “ricerca di senso”, e questo non è affatto un caso, perché sono la classe d’età che ha una maggiore aspettativa fisio­ logica di vita. L’attuale modello di capitalismo assoluto neoliberale, postborghese e postproletario, postfascista e

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postcomunista, ha flessibilizzato e precarizzato la vita in­ tera, e non avrebbe potuto farlo se non “iniziando” dai giovani, i soli fisicamente in grado di sopportare questo modello inumano di vita. Riuscirà a farlo a lungo? E questa la vera domanda cen­ trale del nostro tempo e non certo l’irrilevante turn over fra Fini e D ’Alema, il boccaccesco guardonismo degli inter­ cettatoti di Berlusconi, e l’eterna simulazione azionista fra fascismo ed antifascismo. In termini etologici il problema si può formulare così: l’uomo è un animale infinitamente addomesticabile, o ci sono limiti biologici, psicologici, storici ed antropologici alla sua addomesticabilità ed alla sua illimitata manipolazione? Io scommetto razionalmen­ te sulla seconda ipotesi, ma devo ammettere sinceramente che non ne sono del tutto sicuro, e che non sono neppure sicuro di riuscire a dimostrarlo.

G io v a n i c o n d a n n a t i a l l ’im m o b il is m o d e l l ’e t e r n o PRESENTE?

2) 1 giovani, oggi come sempre, sono spesso criticati dal­ le vecchie generazioni, per la loro incapacità d i com­ prenderli e di immedesimarsi nella loro condizione. Quella degli anziani è forse una generazione dalla “memoria perduta?”. I vecchi sessantottini, così come le generazioni precedenti, sono incapaci di compren­ dere i giovani, vedendo in essi una proiezione di se stessi, non concepiscono il futuro come una dimensio­ ne umana che esorcizzi i mali del presente. Il vuo­ to esistenziale giovanile, da tu tti diagnosticato, è la dimostrazione evidente dalla assenza di valori etici da trasmettere già presente nei giovani di 30 anni fa. Evidentemente le generazioni dei genitori si sono dimostrate incapaci di compiere un serio esame di co-

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scienza e di svolgere nei confronti di se stessi ima seria autocritica costruttiva. Esse sono vissute nel relativo benessere e, pertanto, nel perpetuo, passivo adegua­ mento alle evoluzioni dell’eterno presente della società tecnologica - consumista. I giovani non sono stati for­ m ati da famiglie elo comunità di appartenenza ide­ ale in grado di trasmettere valori, intesi come canoni di interpretazioni del mondo e del tempo in cui ci è dato vivere. Si è creata ormai una società stratificata ed immobile, in cui le opportunità sono riservate ad elites sempre più ristrette, con conseguente emargi­ nazione di larghe masse condannate a ruoli subalter­ ni. Viviamo in un paese che ha la classe politica più vecchia d’Europa, elegge presidenti della repubblica ultraottantenni, riserva i ruoli dirigenziali a grup­ p i lobbistici e parentali, il valore del merito viene disconosciuto, la mobilità sociale è pressoché mdla. 1 giovani sono condannati a vivere sulla propria pelle il paradosso di una società liberale e progressista, ma immobile, globalizzata nell’economia e nella cultura, ma feudale —castale nella sua struttura. Vorrei partire dalla tua osservazione finale, volutamen­ te paradossale, per cui . .i giovani sono condannati a vi­ vere sulla propria pelle il paradosso di una società liberale e progressista, ma immobile, globalizzata nell’economia e nella cultura, ma feudale-castale nella sua struttura”. È probabile che la sociologia accademica, con la sua pedante prosopopea e la sua totale mancanza di imma­ ginazione, non approverebbe questa tua formulazione, ritenendola contraddittoria. Ma la contraddizione, nono­ stante l’ostilità che a suo tempo manifestò Lucio Colletti nei confronti di questo indispensabile concetto, è la chiave per la comprensione di tutte le cose, ed in particolare dei fatti sociali (e la condizione sociale oggi è appunto —per

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dirla con Durkheim - un fatto sociale totale). Colletti è giunto al capolavoro assoluto della coniugazione di due opposti apparentemente antitetici ed incompatibili, e cioè il marxismo positivistico, scientistico ed anti-hegeliano più estremistico e furioso, da un lato, e l’adesione al neoli­ beralismo berlusconiano più ostentato, dall’altro. Per chi conosce l’unità degli opposti hegeliana e la complemen­ tarietà dei contrari in solidarietà antitetico-polare questo apparente paradosso è un vero segreto di Pulcinella. Nello stesso modo, l’assoluta complementarietà dell’immagine ideologica liberale e progressista, da un lato, e della realtà feudale-castale, dall’altro, è una sorta di sudoku di quelli che le riviste di enigmistica segnalano come “facilissimi” e da “principianti”. Il fatto però è che questo paradosso è qualcosa che i giovani vivono sulla propria pelle, in particolare in Ita­ lia (o quanto meno in Italia più ancora che in altri pae­ si europei). L’Italia infatti è il paese europeo che più di tutti soffre della perversa compresenza del nepotismo clientelare democristiano, da un lato, e degli esiti della distruzione picista della scuola e della famiglia, dall’al­ tro. Questa doppia perversa eredità caratterizza appunto la specifica “miseria italiana”, nella sua totale mancanza di vera meritocrazia professionale, da un lato, e di invaden­ za burocratico-sindacale, dall’altro. Ancora una volta, di questo non soffrono gli anziani, che sono già in pensione, o le persone di mezza età, già più o meno insediate in ruo­ li professionali stabili, ma proprio i giovani, che devono ancora “entrare” in un universo lavorativo caratterizzato, oltre che dalla flessibilità e dalla precarietà, anche da dosi ipertrofiche di clientelismo, raccomandazioni, mafie poli­ tico-sindacali, ed altra feccia sociale del genere. La particolare miseria della condizione giovanile in Ita­ lia deve quindi essere indagata, oltre che con il modello dell’esperimento antropologico segnalato nella risposta

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precedente (che resta comunque la chiave principale pre­ supposta ad ogni altra spiegazione ulteriore), sulla base del­ la sinergia malefica fra diccismo e picismo (e cioè sulle due eredità DC e PCI, che mi permetto plasticamente di indi­ care con due formulette che non mettono in campo concetti rispettabili come democrazia, cristianesimo e comuniSmo). Esaminiamoli separatamente, anche se nella concreta realtà sociale sono di fatto fusi insieme ed indistinguibili. Il diccismo si basava su di una riformulazione del patto sociale liberaldemocratico in termini di familismo amo­ rale e di reti personali di conoscenza e raccomandazioni reciproche (vedi commedia all’italiana e soprattutto il più grande sociologo italiano della seconda metà del novecen­ to, Alberto Sordi). Il diccismo ha indubbiamente avuto grandi meriti storici, primo fra i quali l’impedire l’espe­ rimento di Napolitanov, Amendolayev, Berlinguerinsky, eccetera, che avrebbe portato nell’ultimo decennio milio­ ni di donne italiane a fare le badanti e/o le puttane in Francia, Spagna, Grecia, eccetera. Per questo il diccismo dovrà essere ringraziato. E tuttavia il diccismo, scioglien­ do lo stato nei rapporti personali e famigliari, non poteva che incrementare sia la corruzione del settore pubblico (Romano Prodi), sia il brigantaggio meridionale (Totò Ri­ ina). Il craxismo ed il posteriore berlusconismo non hanno certo potuto modificare il codice diccista, ma gli si sono soltanto sovrapposti. I giovani ricercatori italiani che si trovano di fronte un apparato universitario marcio e nepo­ tista, e devono rifugiarsi all’estero per vedere riconosciute le loro capacità disciplinari e professionali, devono sapere che il diccismo sta alla radice dei loro guai. Il piccismo (da non confondere con il comuniSmo in ge­ nerale) è stato indagato da Augusto Del Noce in termini di esito nichilistico della trasformazione dialettica dello storicismo sociologico in società radicale dei consumi di massa. Esatto. C’è infatti ben poco da aggiungere. Questa

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trasformazione implicava, come ho detto, la distruzione sia della famiglia che della scuola, in cui i piccisti hanno funzionato come mercenariato idiota ed inconsapevole per conto i gigantesche forze sistemiche ultracapitalistiche e postborghesi. I giovani italiani, se usassero il cervello ed il metodo storico-dialettico, saprebbero dunque chi ringraziare. E so­ prattutto, chi eventualmente punire come meriterebbero.

I l g io v a n il is m o

com e f u g a d a l l a realtà

3) Giovani ed anziani sono elementi della società en­ tram bi essenziali ed interdipendenti. Lo scorrere del tempo determina il naturale ricambio generazio­ nale, con nuove e diverse visioni dell’uomo e della società, in un rapporto d i necessaria continuità sto­ rica, presente anche nelle fa si d i rottura e di trasfor­ mazione epocale. La condizione giovanile odierna è alienata e innaturale. L’età della giovinezza non approda mai alla maturità, sono definiti “giovani” i quarantenni ancora in cerca di una stabile occu­ pazione, impossibilitati al crearsi una vita autono­ ma, vengono definiti cinicamente “bamboccioni” da una elite autoreferente, estranea a i bisogni e alle istanze d i una massa giovanile e non, che cerca in­ vano un ruolo e una dimensione del vivere sociale, negata da un’economia assolutizzata e da una poli­ tica incapace di creare equilibri sociali adeguati a i tempi. Non a caso, nella vulgata culturale mediatica, si parla sempre d i giovani ed anziani, la media età, e con essa la maturità, sembra essersi estinta. La condizione giovanile è vissuta come una dimen­ sione statica e permanente, viene assimilata anche dagli anziani nella moda, nei comportamenti, nel

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pensiero unico omologato all’esistente in perenne mutamento; la giovinezza si è tram utata in una condizione giovanilistica vissuta come fuga dalla re­ altà del proprio tempo come una sorta di virtualità creativa su se stessi, come l’immagine reale di più generazioni eternamente giovanilistiche perché in­ capaci di una qualsiasi maturità, intesa come equi­ librio e senso del limite, le peculiari qualità cioè, che possano conferire senso e stabilità a l vivere sociale del nostro tempo. Ogni tanto si incontra qualcuno che ti fa notare che non esistono più le cosiddette “mezze stagioni”, e che or­ mai c’è soltanto un susseguirsi di freddo polare e di caldo torrido. Nello stesso modo la mezza età, un tempo pe­ riodo di stabilità matrimoniale, di progressione profes­ sionale, di inquietudine sentimentale, di partecipazione storico-politica, eccetera, non sembra esistere più. Fino ai settanta anni si è giovani, oppure “ancora giovani”, 0 addirittura “giovanili”. Dopo i settant’anni si diventa improvvisamente anziani (il politicamente corretto non conosce la parola inquietante “vecchi”, ma soltanto la pa­ rola tranquillizzante “anziani”), buoni per le panchine dei parchi e per l’ospedale oncologico. La frenesia del giova­ nilismo si unisce peraltro al solito sospetto-invidia verso 1 veri giovani biologici ed anagrafici. La gioventù è un coperchio simbolico che unisce insieme i giovani-giovani ed i vecchi-giovani. Qualche tempo fa ho incontrato un conoscente di gioventù che non vedevo da decenni, che mi ha lodato dicendo che ero ancora “giovanile”, ma che per sembrarlo di più avrei dovuto tingermi i capelli, farmi meglio la barba perché non si vedessero le radici bianche dei peli, eccetera. E mancato poco che non mi chiedesse, secondo l’uso di un esilarante personaggio del romanziere vigevanese Lucio Mastronardi: “Funziona la mazza?”.

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Nella Filosofia del Diritto di Hegel il passaggio dall’e­ tà giovanile all’età matura era metaforizzato attraverso il passaggio dalla moralità astratta (Moralitaet) all’eticità concreta (Sittlichkeit), ed a sua volta l’eticità concreta era caratterizzata, per quanto riguarda l’individuo concreto (e cioè l’individuo non solo del liberalismo classico borghe­ se, ma anche del posteriore e complementare comuniSmo storico novecentesco realmente esistito), dal matrimonio monogamico e dalla professione. Ma abbiamo già chiari­ to nelle risposte precedenti che la nuova configurazione sociale ed economica del capitalismo globalizzato asso­ luto, postborghese e postproletario, è caratterizzata dalla flessibilità e dalla precarietà, o più esattamente dalla fles­ sibilità nella erogazione della forza-lavoro e dalla preca­ rietà delle forme di vita, cui l’industria del postmoderno filosofico si sforza di conferire un’aurea seducente. Si è allora giovani fino ai settanta anni perché si è idealmente “precari” fino al termine della propria attività lavorativa. L’interminabile innovazione tecnologica, inoltre, toglie agli anziani quel “possesso del mestiere” che un tempo faceva da base materiale al prestigio dei “maestri” rispet­ to agli apprendisti. Si tratta di cose ben note non solo ai sociologi ed agli economisti, ma anche agli scrittori ed ai romanzieri. E tuttavia è forse meno noto che la radice di questa inter­ ruzione degli elementi simbolici del vecchio e fisiologico ricambio generazionale sta in particolare nel tipo di mercatizzazione integrale della vita quotidiana, che ha tra­ sformato le classi d’età in targets merceologici di consumo differenziato. È stato calcolato che i bambini parcheggiati davanti ai televisori hanno memorizzato in tenera età cen­ tinaia di brand, e che di lì nasce la mostruosa coazione ai capi “firmati”, cui forse la nuova benedetta ministressa della Pubblica Istruzione Gelmini vuole porre un (esile) freno con la reintroduzione del grembiule eguale per tutti

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(ma scommetto che fallirà, perché sono sicuro che l’ala merceologica berlusconiana del mercato capitalistico to­ tale e senza freni vincerà contro l’ala tradizionalista dei costumi educati vetero-borghesi). A distanza di quasi un secolo, il vecchio futurismo alla Marinetti appare sempre di più un timido ed ancora ar­ tigianale precursore dell’odierno futurismo integrale. In termini marxiani, si è passati dalla fase della sottomis­ sione formale dell’innovazione tecnologica alla riprodu­ zione sociale borghese alla fase della sottomissione reale dell’innovazione tecnologica stessa alla riproduzione so­ ciale ultracapitalistica. Sta qui la radice materiale della in­ terruzione della trasmissione dell’esperienza fra i giovani e gli anziani. L’esperienza degli anziani era strutturata sui due parametri essenziali della famiglia monogamica sta­ bile (sia pure con le note patologiche dell’ipocrisia, dell’a­ dulterio, dell’eventuale prepotenza maschile, eccetera) e della professione stabile ed accrescitiva (sia pure con le note patologiche della raccomandazione, dell’intrallazzo e della segnalazione di carriera a base politica e/o boccaccesco-pecoreccia). La critica culturale piccista ha avuto buon gioco in quasi mezzo secolo a delegittimare gli aspetti “etici” di questi due parametri vetero-borghesi sottoli­ neando ed evidenziando gli aspetti moralistico-negativi (sostanzialmente due, raccomandazioni ed adulteri). Alla fine, il deserto prodotto è stato funzionale alla costruzione di autostrade a scorrimento veloce per i nuovi fuoristrada dell’ultracapitalismo flessibile e precario, e quindi giovanilistico per sua stessa natura. Tutto questo i mastodonti dell’eterno conflitto Fasci­ smo/Antifascismo non lo capiranno mai, anche se possono contribuire ancora a lungo a rendere impossibile una ge­ neralizzata comprensione.

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U n a p r e c a r ie t à e s is t e n z ia l e p e r m a n e n t e

4) La condizione giovanile contemporanea è indissolubilmente legata alla precarietà. Oggi si è in fa tti eternamente precari nel lavoro, nella vita sociale, nella vita affettiva, in un mondo che ha costrui­ to la propria vita sugli im pulsi effìmeri del con­ sumismo globalizzato. C’è oggi il concreto pericolo che questa precarietà immanente sia vissuta dai giovani non come condizione alienante, ma come naturale dimensione umana. I giovani in fa tti hanno assimilato sin dall’infanzia questo modo di esistere e, poiché sono assenti dalla loro esperienza vissuta valori e dimensioni sociali diverse, la loro psicologia e le loro scelte d i vita potrebbero essere costruite su questa “liqtiida" precarietà im m a­ nente. Il vuoto d i memoria storica è evidente, così come è condannabile senza appello l’influenza eser­ citata su d i loro dalle generazioni precedenti, che hanno sradicato in se stessi, prim a che nei propri figli, qualunque valore identitario trascendente la realtà effimera del presente. Vero è anche il fatto che la fine del secolo ideologico e la storicizzazione del novecento ha stornato dalla mente dei giovani pregiudizi fideistici generatori di false e astratte interpretazioni della realtà storica passata e pre­ sente. Tuttavia è viva l’esigenza di una nuova e obiettiva visione della realtà che prescinda sia dal pregiudizio ideologico che dalla attuale precarietà esistenziale permanente. Il problema fondamen­ tale è quello però di suscitare nei giovani un sen­ so critico che determ ini una fase di rottura con la “metafisica del mercato’’ dell’ economicismo consu­ mista, alla luce delle idee guida della cultura euro­ pea, qtiali l’universalismo filosofico e la dimensione

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comunitaria dell’esistenza. È un compito difficile, ma. la rottura delle giovani generazioni con l’eterno presente, è l’unica speranza possibile, dato che è da tu tti constatabile il fallim ento delle generazioni ideologizzate precedenti, il cui peccato irredim ibile è quello di non avere rappresentato un modello di ispirazione credibile per i giovani. La formulazione di questa tua quarta domanda con­ tiene tutti gli elementi indispensabili per disegnare i ter­ mini essenziali di una prima ipotesi sui caratteri stori­ co-sociali determinati della questione giovanile come si presenta oggi non in uno spazio-tempo astratto, ma nelle nostre società ultracapitalistiche postborghesi e postpro­ letarie, globalizzate e neoliberali. Per questa ragione mi sarà facile compiere una breve ricapitolazione. In primo luogo, il cuore di tutta la questione, già da me segnalato in una precedente risposta, sta nel “concreto pericolo che questa precarietà immanente sia vissuta dai giovani non come condizione alienante, ma come naturale dimensione umana”. È infatti proprio così. Il nuovo capi­ talismo assoluto sa bene che la vera vittoria finale, o quanto meno una vittoria di lungo periodo e non solo provvisoria e congiunturale, non può aversi sul terreno dell’economia e della sociologia, e neppure su quello della geopolitica e della potenza militare, ma solo su quello dell’antropologia sociale diffusa, e cioè sul terreno che alcuni filosofi hanno definito della grammatica delle forme di vita e della colo­ nizzazione della vita quotidiana. Il punto più alto in asso­ luto della tradizione marxista indipendente del novecento (non parlo certamente degli apparati ideologici dei partiti comunisti diretti da veri e propri briganti nichilisti), e cioè il filosofo Lukacs (1885-1971), ha individuato nel cosiddetto “rispecchiamento quotidiano” la base ontologico-sociale su cui viene edificato poi l’insieme di rapporti

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sociali. È vero che questa geniale individuazione avveniva purtroppo ancora all’interno di un involucro ideologico marxista tradizionale a mio avviso oggi ormai obsoleto, in quanto interno ad una fase ancora borghese-proletaria (e non postborghese e postproletaria) del capitalismo, ma tuttavia si era già colto il centro del problema. Ed il centro del problema sta in ciò, che la strategia immanente del sistema non è più incentrata sulla co­ lonizzazione sociologica, e cioè sul cosiddetto nesso di imborghesimento del proletariato/proletarizzazione del­ la borghesia, ma sulla manipolazione antropologica, in modo da trasformare la precarietà —come tu dici —in una naturale dimensione umana. I giovani sono quindi il naturale oggetto di questa sperimentazione sociologi­ ca, che è partita dagli USA per poi approdare in Euro­ pa e giungere oggi alle cosiddette “società tradizionali”, mondo musulmano, India, Cina, eccetera. La questione del corpo femminile in Afghanistan diventa altrettan­ to importante di quanto lo sia impiantare un’ennesima base missilistica USA. Scoprire il sedere delle giovani donne iraniane diventa un obiettivo bellico così come le centrali nucleari di raffreddamento. Questo, ovviamen­ te, è del tutto fuori della comprensione sia delle nostre “destre” che delle nostre “sinistre”. Tutto deve diventare flessibile, il lavoro, la professione, il sesso, eccetera. Tutto deve diventare funzione esclusiva del potere d ’acquisto del mercato assoluto. Quando l’economia di mercato sarà diventata società di mercato (ed a te certo non sfugge la differenza fra i due termini), allora questo mostruoso esperimento antropologico potrebbe vincere, come nei più terrificanti scenari della fantascienza horror. E tu t­ tavia non credo che ce la faranno. Mentre infatti non ho mai avuto molta fiducia nei cosiddetti poteri salvifici della classe salariata, operaia e proletaria, ne ho sem­ pre avuta di più nella capacità di resistenza della natura

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umana. Ho sempre fondato il mio irripetibile “comuni­ Smo” in Spinosa ed in Aristotele, e non certo in Panzieri ed in Negri. In secondo luogo, concordo sul fatto che la presa d’at­ to del “fallimento delle generazioni ideologizzare prece­ denti” deve diventare sempre di più il punto di partenza per riformulare i termini essenziali di una “rifondazione”. Ma la dissoluzione, ridicola e vergognosa, del cosiddetto partito della rifondazione comunista italiana, che si sta fortunatamente compiendo sotto gli occhi di tutti in que­ sto afoso luglio 2008, fra brogli, congressi truccati, cammellaggi di falsi iscritti, tentativi golpisti del narcisista borderline Bertinotti di sciogliere il suo partitino in una melma arcobaleno, eccetera, deve farci capire che non si tratta tanto di “rifondare” il comuniSmo partitico, a mio avviso ormai superato dalla stessa “storia” su cui aveva in­ cautamente puntato tutte le sue carte (ma chi di storia ferisce di storia perisce), quanto di riformulare il vecchio eterno problema di una buona vita (il greco eu zen) nei confronti di un sistema smisurato {apeiron, aoriston) in cui la crematistica sta rendendo impossibile la progettazione di una vita sensata. In quanto ai problemi dell’utopia, o più esattamen­ te di come impedire il più possibile l’ideologizzazione dell’utopia stessa, bisognerà parlarne in modo più anali­ tico in un’altra occasione. Essa certamente non manche­ rà nel prossimo futuro. Dopo circa quarantanni (19682008) l’apparato ideologico-antropologico sessantottino ha smesso —come tu dici —di “rappresentare un modello di ispirazione credibile per i giovani”. Speriamo proprio che sia così.

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L’in teg razione im possibile in u n a id en tità eu ro p ea che n o n c ’è

La g u e r r a

g l o b a l iz z a t a c o n t r o la c iv il t à

1) Il tema del focus di ltalicum “Identità e migrazioni" sembra apparentemente mettere a confronto termini tra loro antitetici in quanto si può presupporre che il fenomeno delle migrazioni conduca necessariamente alla distruzione delle identità specifiche. In realtà le migrazioni nella storia hanno spesso determinato l’e­ spansione di popoli che non hanno perduto con le mi­ grazioni la propria identità, ma che anzi, insediando­ si in altri paesi hanno soppiantato le altrui identità. Potrebbe essere rappresentato in questo modo l’esito finale delle migrazioni, specialmente dei popoli isla­ mici, che dall’Asia e dall’Africa hanno condotto negli ultimi decenni una invasione silenziosa dell’Europa. Le migrazioni nella storia hanno determinato profon­ de trasformazioni epocali in quanto dall’incontro di civiltà diverse, dal connubio cioè di valori di culture diverse, sono scaturite nuove sintesi che hanno dato luogo al rinnovamento culturale e civile di identità or­ mai esangui. Con le migrazioni si è realizzata spesso l’universalizzazione di identità e valori che altrimenti sarebbero stati confinati nel ristretto ambito locale dei singoli popoli. Non sembra però quello ora descritto l’e­ sito prodotto dalla globalizzazione che, assimilando i popoli sulla base del principio economicistico del libero mercato non ha portato alla sintesi, ma all’azzeramen­ to universale delle identità dei popoli: la globalizzazio­ ne, nella stia genesi, non nasce dall’incontro delle civil­ tà, ma dallo scontro fra le civiltà stesse, o meglio, dalla guerra mondiale della globalizzazione contro la civiltà.

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Il problema del rapporto fra migrazioni (violente do pacifiche che siano) ed identità culturali non solo è vec­ chio come l’umanità, ma addirittura coincide con la stessa storia universale, che per almeno il cinquanta per cento si identifica con la storia delle migrazioni stesse. Per questa ragione è sconsigliabile metodologicamente iniziare con genericità, magari anche sagge ma del tutto vaghe. Per questa ragione è meglio parlare non di identità e migra­ zioni in generale, ma di identità e migrazioni in rapporto con il contesto storico in cui viviamo, e cioè l’Europa e l’Italia, e più in particolare l’Europa e l’Italia degli ultimi due decenni. Se infatti si sostiene che le migrazioni sono una minaccia (dell’identità culturale europea e cristiana, del mercato del lavoro europeo e italiano, dell’ordine pub­ blico, eccetera), bisogna chiarire in che senso sono una mi­ naccia, e che cosa esattamente minacciano. Cominciamo allora dall’Europa, e passiamo poi all’Italia. Da più di un decennio, e con una visibile accelerazio­ ne dopo l’i l settembre 2001, l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un cor­ po di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare ed a rischiare una guerra mondiale in Georgia ed in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche all’umanesimo rina­ scimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, ec­ cetera? Pura ipocrisia. Il profilo culturale di Eurolandia oggi è caratterizzato da una apparentemente inarrestabile americanizzazione, da una manipolazione televisiva vol­ gare ed invasiva, da una situazione generalizzata di lavoro flessibile e precario, da un sistema universitario autore-

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ferenziale dominato da sistemi di cooptazione maialeschi (per le donne) e familistici (per gli uomini), da una scuola secondaria degradata da sindacalisti, psicologi invasivi e pedagogisti futuristi pazzi, da una gioventù incline alla droga ed allo sballo del “sabato sera”, eccetera. Se è così, dove sta la famosa minaccia delle migrazioni africane, isla­ miche ed est-europee? Sarei proprio contento di saperlo! Passando all’Italia, il colpo di stato giudiziario extra­ parlamentare denominato surrealmente Mani Pulite ha distrutto il vecchio ceto politico della Prima Repubblica 1946-1992, aprendo lo scenario alla contrapposizione si­ mulata Berlusconi contro Veltroni, in uno scenario tragi­ comico di antifascismo in assenza totale di fascismo, di di­ sponibilità illimitata a mandare i nostri volontari in tutte le aree del mondo che interessano all’impero americano, di televisione degradata a passerella di Veline e di Gregoraci con le tette in fuori, di cultura lottizzata ferocemente da bande presenzialiste, eccetera. Una delle Italie più brutte degli ultimi due secoli, un’Italia che all’estero sa soltanto presentarsi come una sorta di Italia per ricchi oziosi (la Fer­ rari, la moda, il look, ed altre simili porcate per parassiti). Avrò forse un po’ esagerato. Lo ammetto. E tuttavia, se questo è lo scenario, dove sta la minacciai Chi può farci an­ cora più male di quello che siamo già riusciti a farci da soli? Chi ha distrutto la stabilità e la sicurezza del posto di lavo­ ro? Sono forse stati i muratori romeni e senegalesi? Chi ha creato il modello-puttana per le ragazze italiane, in cui dar­ la via ai potenti garantisce un reddito dieci volte superiore al diventare professoressa, ricercatrice e medico d’ospedale? Sono forse le battone nigeriane, albanesi e moldave? E potremmo continuare. Detto questo, può essere interessante l’atteggiamento assunto verso le migrazioni da due differenti gruppi so­ ciali in Italia, il cosiddetto “popolo” (identificato spesso con il cosiddetto “leghismo” di Bossi), ed i cosiddetti “in-

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tellettuali”, cioè coloro che l’umorista Stefano Benni ha a suo tempo definiti Gente di certa Kual Cultura (il Kappa è ovviamente nell’originale, non è un errore di stampa). Del popolo, si dice che è razzista e pieno di pregiudizi, e che ha dimenticato quando noi eravamo emigranti con le pezze al culo, trattati da mafiosi negli USA e da crumiri in Francia. Il popolo è accusato di “populismo”, il che equivale ad accusare un radiologo di “radiologismo” ed un panettie­ re di “panismo”. Berlusconi è accusato di “populismo”, lad­ dove tutti i populisti veri (Peròn, Nasser, eccetera) hanno sempre attuato politiche di redistribuzione della ricchez­ za favorendo i ceti disagiati, mentre semmai Berlusconi è come Superciuk, l’eroe dei fumetti del personaggio di Alan Ford, che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Con politologi tanto competenti, possiamo proprio stare tranquilli! Il popolo non è certamente razzista per natura, oppu­ re perché legge solo il Corriere dello Sport anziché leggere Baricco in traduzione slovena. Il popolo indulge al cosid­ detto “razzismo” solo quando comincia a percepire che il lavoro dei migranti serve ai padroni per svalutare il potere contrattuale conquistato in decenni di defatiganti lotte sindacali. In Francia fino a tre decenni fa gli immigrati italiani, spagnoli, portoghesi, polacchi, armeni ed anche arabi si integravano facilmente nei quartieri popolari di Parigi (ne porto una testimonianza personale diretta), e si integravano sulla base della cultura del lavoro e della cultura del vicinato. Oggi i giovani disoccupati vivacchiano nelle cosiddette banlieue.r vagabondando qua e là ed organizzan­ dosi in bande di tipo “etnico”, spacciando droga e cercan­ do la rissa ed il rogo di automobili, laddove i loro genitori si integravano attraverso il lavoro ed il vicinato. Se questo non avviene più, la colpa è della nuova economia liberi­ sta globalizzata o della cultura islamica incompatibile con l’Europa? Ognuno barri la casella che preferisce. Io ho fat­ to da tempo la mia scelta tra Karl Marx ed Oriana Fallaci.

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Il popolo, quindi, ivi compreso il montanaro bergama­ sco bossiano, non è affatto razzista. Sa bene che i marocchini non sono identificabili con lo sciagurato ragazzotto spac­ ciatore di droga e gli albanesi non sono identificabili con le violente bestie del prossenetismo. Sa anche, ovviamen­ te, che molti zingari rubano (perché negarlo con virtuoso struzzismo?), ma molti di più non rubano affatto. Ricostru­ iamo una cultura del lavoro sicuro e garantito e del vicinato solidale, e vedrete che il migrante si integrerà, pur conti­ nuando a fare il Ramadan, a non mangiare salame, eccetera (differenze che non hanno mai fatto male a nessuno). Gli intellettuali, o meglio la Gente di una certa Kual Cultura, sono invece il vero problema. Gli intellettuali, in­ fatti, si “rifanno” la buona coscienza ed il loro illusorio sen­ timento di superiorità morale sulla plebe bosso-berlusconiana così come le attricette si “rifanno” il culo e le tette. Un tempo erano comunisti utopisti egualitari, ed ammi­ ravano il partigiano combattente ed il guerrigliero eroico latino-americano. Adesso non credono più in nulla, sono passati da Emiliano Zapata a Luis Zapatero, dalla dittatura del proletariato al corteo dell’Orgoglio Gay, da Gramsci a Veltroni, eccetera, e credono di essere “superiori” inso­ lentendo Ratzinger ed alzando grida roche ai comizi dello scamiciato molisano Di Pietro. È questa la ragione per cui hanno scoperto la figura del Migrante come nuova figura mimetica per nascondere la loro propria miseria. Essendo del tutto privi d'identità, non deve stupire il fatto che esaltino come massimo valore positivo la man­ canza di identità. Il marxismo è una semplice utopia tota­ litaria, da gettare nella pattumiera della storia. La classe operaia, su cui avevano scommesso tanto, è un insieme di leghisti volgari. Le nazioni non esistono, ma sono soltanto delle “comunità immaginarie” artificiali. I sessi non esi­ stono più, ma ci sono soltanto più gli “omo” e gli “etero”. Non c’è più nulla di stabile. Difendere la lingua italiana

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è sospettato di mussolinismo, per cui nessuno protesta più se invece di dire Giorno delle Elezioni gli imbecilli dicono Electìon Day (e chi parla è un signore che conosce bene l’inglese ed ha insegnato per un anno inglese nelle scuole secondarie superiori). E allora il migrante diventa il loro nuovo ìdolo, perché gli si attribuisce (erroneamente) una sorta di tendenza spontanea al “meticciato”, al mul­ ticulturalismo. In altre parole, il migrante ha sostituito il contadino povero (neorealismo cinematografico degli anni quaranta e cinquanta) e Voperaio-massa fordista incazzato (estremismo mimetico sessantottino). Costoro, non aven­ do nessuna identità, e facendo anzi 1 apologia filosofica della non-identità (secondo la catena concettuale storici­ smo-relativismo-nichilismo, ben messa in luce dal filosofo tedesco Joseph Ratzinger), hanno scoperto nel migrante la nuova figura religiosa con cui possono finalmente sfogare il loro odio verso il popolo (accusato di populismo). I migranti veri sono ovviamente un’altra cosa. In parti­ colare quelli musulmani (ma anche in subordine i romeni ortodossi ed i filippini cattolici) vengono da identità cultu­ rali in cui c’è ancora un fortissimo senso del lavoro e della solidarietà familiare. Il regno di Palmella e della Bonino gli è estraneo. Ed è per questo che il ceto di una certa Kual Cultura si è costruito un’immagine di migrante meticciato che ovviamente non esiste assolutamente nella realtà.

M ig r a z io n i e p r o l e t a r iz z a z io n e u n iv er sa le

2) Le migrazioni sono un fenomeno che periodicamente si presenta nella storia dell’uomo. La storia dell’Ita­ lia è segnata da un susseguirsi di invasioni - migra­ zioni che ne hanno impedito l’unificazione politica e hanno profondamente inciso sulla identità etnico - culturale dell’Italia attuale. Nella storia dell’Ita-

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Ha e dell’Europa si sono verificate migrazioni che, al contatto con la cultura locale hanno prodotto, oltre che guerre d i conquista, anche nuove culture, evolu­ zione, nuove entità politiche: basti pensare alle m i­ grazioni - conquiste arabe, normanne, sveve. Ma le attuali migrazioni non possono essere assimilate a quelle del remoto passato italiano ed europeo. Infatti il fenomeno migratorio attuale è esteso su scala mon­ diale ed è diretta conseguenza del principio liberista della libera circolazione degli individui e dei capita­ li nel mondo globalizzato. Alla delocalizzazione della produzione nel terzo mondo, con relativi incrementi dei profitti dovuti alla riduzione dei costi della ma­ nodopera, fa riscontro una migrazione asiatica ed africana dalle dimensioni bibliche verso l’Occidente. Quest’ultim a è un fenomeno che scaturisce dal pro­ liferare dei conflitti bellici nel terzo mondo, causati, per lo più, dall’imperialismo economico delle mul­ tinazionali volto all’accaparramento delle materie prim e e delle fon ti d’energia e dall’impoverimento del sud del mondo dovuto alla voragine incolmabile dell’indebitamento indotto dalle politiche del Fondo Monetario Internazionale. L’Occidente, con i costi sociali dell’immigrazione sconta le conseguenze del suo prim ato economico. A farne le spese sono i ceti svantaggiati dell’Europa stessa, che vedono pregiu­ dicate le possibilità di occupazione dalla concorren­ za d i masse di lavoratori stranieri e debbono per di più sopportare i disagi d i una convivenza difficile e spesso conflittuale con popoli diversi e non assimila­ bili. La globalizzazione genera profitti per le elites finanziarie, ma non progresso sociale per le masse cosmopolite, ma proletarizzazione del lavoro a tu tti i livelli su scala mondiale: questa è la sola forma di eguaglianza realizzata veramente globale.

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È ovviamente corretto rilevare che le attuali migra­ zioni, dovute alla globalizzazione, non hanno nulla a che vedere con le vecchie migrazioni che hanno contribuito potentemente alla etnogenesi storica del processo di co­ stituzione della nazione italiana (longobardi, franchi, nor­ manni, svevi, arabi, eccetera). E tuttavia, a fianco delle differenze, non bisogna “censurare” anche elementi di so­ miglianza. Le ragioni delle migrazioni di massa possono essere diverse, ma alla fine pur sempre di migrazioni di massa si tratta. La nazione italiana, se una nazione italiana ci sarà ancora fra duecento anni (e se per caso sfortunata­ mente non ci fosse più, la colpa sarebbe non certo dell’im­ migrazione musulmana o ortodossa, ma dell’omologazio­ ne multiculturale americanizzante in un orribile melting pot di consumatori apolidi), sarà per forza una nazione che avrà in qualche modo dovuto incorporare demogra­ ficamente e culturalmente le nuove ondate migratorie. U n’Italia priva di identità ne verrà schiacciata. Ma un’I­ talia capace di ridonarsi di un’identità credibile non avrà problemi di assimilazione. La Francia, la grande Francia di de Gaulle (non parlo del pagliaccio Sarkozy), ne è stata un esempio. Essa ha saputo assimilare negli ultimi cento anni gigantesche ondate di migranti, eppure continua ad avere un’identità forte, molto più forte della nostra sul piano linguistico e culturale. Non è un caso che gli stessi sostenitori della cosiddet­ ta “guerra di civiltà” (Huntington) siano anche sostenitori della globalizzazione economica mondiale a guida impe­ riale americana. Tutto questo non è affatto casuale, ma purtroppo su questo non si riflette abbastanza. Le migrazioni barbariche della fine dell’impero roma­ no furono dovute anch’esse ad una sorta di globalizzazio­ ne continentale delle spinte delle popolazioni nomadiche centro-asiatiche (avari, unni, peceneghi, ungari, eccetera). Certo, non si trattava di una globalizzazione finanziaria o

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industriale, non esisteva il famoso “decentramento pro­ duttivo”, ma c’era pur sempre una globalizzazione geo­ politica. Ma le ragioni restano sempre prevalentemente interne: il limes romano fu sfondato anche e soprattutto perché l’economia romana era marcia dall’interno; di­ strutte le vìllae dei piccoli produttori, distrutto il mercato interno, aumentata la burocrazia parassitaria, formatisi i latifundia, diffusesi religioni folli con rituali di autoca­ strazione (Eliogabalo, eccetera), abbrutite le masse metro­ politane dai circenses e dai giochi gladiatori (l’equivalente dei gruppi di tifosi calcistici imbestialiti), alla fine bastò una gelata invernale del Reno per permettere l’entrata dei barbari, compresi quei longobardi i quali, molto più dei celti ormai da tempo spariti, sono i diretti progenitori del Senatur, del Dio Po, di Borghezio e delle sue urla antislamiche in cui l’incosciente (probabilmente senza neppure sospettarlo) è al servizio della crociata anti-islamica per conto del sionismo (non parlo dell’educato sionismo veltroniano alla Gad Lerner, ma del sionismo aggressivo e fallaciano alla Fiamma Nirenstein). In sostanza, gira come la vuoi, si arriva sempre ad un punto, e cioè che il vero problema non sono i migranti ma siamo sempre noi. Certo, il vecchio sociologismo mo­ noclassistico proletario, per cui non esistono le identità nazionali (pure e semplici “comunità immaginarie”, come sproloquia il ceto universitario politicamente corretto), ma soltanto salariati omologati in un unico popolo sinda­ calistico mondiale, non è la soluzione. Ridurre l’emigrato al suo contratto di lavoro è ovviamente riduttivo. E tut­ tavia non c’è alternativa: finché l’emigrato non godrà di diritti sindacali eguali al lavoratore italiano tutti i discorsi sulla integrazione saranno aria fritta, e gireranno a vuoto. L’emigrato, infatti, vuole soprattutto dignità. Già il grande Hegel, nella sua Fenomenologia dello Spirito, ana­ lizzando la dialettica fra Servo e Signore, ha chiarito che

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il servo non si accontenterà mai fino a che non avrà conse­ guito il riconoscimento. Riconoscete l’emigrato nella sua identità culturale, non chiedetegli un’omologazione che non chiedereste mai ad un americano o ad un inglese, cui invece si riconoscono tutte le “differenze” che pretende, ed avrete un concittadino entusiasta, e per di più grato all’Italia che in molti casi lo ha strappato alla fame e alla precarietà. Certo, avrete sempre una fisiologica percentua­ le di banditi, assassini, prosseneti e spacciatori. Ma a que­ sto punto gli emigrati saranno i primi a volersi liberare di questa feccia che li diffama. Del resto, è esattamente quel­ lo che è avvenuto per la nostra emigrazione italiana negli USA. O vorreste affermare che tutti gli italo-americani sono la feccia ripugnante del Padrino e dei Soprano?

I m m ig r a z io n e e “ n o m a d ism o p r o d u t t iv o ”

3. Il declino economico europeo ha prodotto una drastica

riduzione delle risorse produttive, diffusa disoccupa­ zione e sempre più esigue capacità di assorbimento della manodopera sìa italiana che straniera. Si ve­ rificano sovente fenomeni di conflittualità sociale che dilaniano progressivamente un tessuto sociale già precario. Da una parte (da destra), si lamenta la scarsa predisposizione degli immigrati alla integra­ zione nella società occidentale. Ma, ci si chiede come sia possibile che africani e asiatici condividano va­ lori identitari e culturali in cui da generazioni gli europei hanno smesso di credere. Dall’altra (da si­ nistra), si invoca e si favorisce l’immigrazione come una “grande opportunità” per realizzare, sulla base di motivazioni economiche, umanitarie, ideologiche la società multietnica. L’immigrazione diviene in realtà un colossale affare economico e politico. Per gli

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imprenditori, allo scopo d i usufruire dì forza lavoro a basso costo, per le istituzioni assistenziali (d i solito ecclesiastiche), cui vengono devoluti ingenti contri­ buti statali, per politici pronti a sfruttare una po­ tenziale massa di manovra. Ma non sì va quasi mai alle radici del fenomeno dell’immigrazione, alla etti origine c’è la aggressione economicista del capitali­ smo assoluto, alla perenne ricerca di materie prim e e forza lavoro a basso costo, per sostenere il suo abnor­ me livello d i consumi, Quindi l’integrazione viene concepita come omologazione di europei ed immigra­ ti alle esigenze produttive globali, che comportano la migrazione permanente della manodopera nei hioghi e nei settori che al momento ne abbisognano: l’integrazione coincide quindi con la non identità del produttore —consumatore dotato di capacità d i adat­ tamento a questa precarietà globale che determina il perenne “nomadismo produttivo”. Tale nomadismo va diffondendosi peraltro anche nelle nuove gene­ razioni italiane, specialmente nei giovani dotati di capacità intellettuali e specializzazioni tecnologiche, nelle quali è riscontabile la tendenza ad emigrare in paesi che permettano loro di costruire un futuro che l’Italia è incapace di garantirgli. Mi spiace dovermi ripetere, ma la chiave del problema del rapporto fra identità e migrazioni sta sempre e solo nella corretta formulazione da te usata in questa terza doman­ da: “Ci si chiede come sia possibile che africani ed asiatici condividano valori identitari e culturali in cui da genera­ zioni gli europei hanno smesso di credere”. Mi permetto una piccola correzione. Non da genera­ zioni, ma sostanzialmente solo da meno di due genera­ zioni circa. Continuare a ripetere a pappagallo che l’emi­ grazione è una “risorsa”, perché gli emigrati fanno lavori

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che ormai gli italiani non vogliono più fare (contadini, pastori, badanti, muratori, prostitute, eccetera), come fa la sinistra, oppure che essi non hanno diritto di pregare da noi, e dovrebbero andare a pregare ed a pisciare nel deser­ to (lo giuro, non me lo sono inventato, lo ha detto recen­ temente il sindaco di Treviso Gentilini!), come fa la “de­ stra”, non ci fa cavare un ragno dal buco. E non possono neppure cambiare le cose il singolo calciatore e la singola poliziotta di colore. Alla fine, gira gira, torniamo sempre allo stesso punto di partenza: perché una società possa in­ tegrare felicemente, bisogna che il suo profilo complessivo sia seducente, bisogna che la sua cultura sia attraente, biso­ gna che l’etica sociale e politica prevalente sia ammirevole. Quando andai a studiare in Francia negli anni sessanta, mi innamorai del profilo complessivo della Francia stessa, del suo altissimo livello universitario, tanto migliore del deserto provincialistico in cui ero cresciuto, m ’innamorai dei suoi bistrots multietnici in cui tutti si sentivano egua­ li, perché eguagliati dal lavoro e dal vicinato, e non dai pistolotti degli intellettuali di una certa Kual Kultura, e m’innamorai soprattutto del confronto fra la Francia e da dove venivo. Ora, ovviamente, sono in grado di su­ perare l’ingenuità esterofila della mia giovinezza. Ma ciò che conta è il fatto che soltanto quando noi faremo ca­ pire agli emigranti che noi pretendiamo (giustamente!) da loro quello che noi per conto nostro pratichiamo ogni giorno l’integrazione avrà veramente luogo. Pretendiamo che imparino la lingua italiana. Bene, giustissimo. Ma chi ha permesso il degrado della lingua italiana, la sparizione del congiuntivo, i mezzobusti televisivi sgrammaticati e romaneschi, l’uso selvaggio delle parole inglesi quando non ci sarebbe nessun bisogno di usarle in quanto esistono perfetti corrispondenti italiani (intendiamoci: non penso affatto al cachet che diventa l’italianissimo cialdino o il bar che diventa l’italianissima mescita)? Chi ha permesso la

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degradazione della lingua italiana in grufolare di porci? E poi vorremmo che imparassero bene una lingua che noi abbiamo degradato e involgarito! Pretendiamo che rispettino la religione cattolica che è sicuramente la religione della maggioranza degli italiani, e che non è quindi seriamente equiparabile al buddismo o all’induismo, salva restando ovviamente la legittimità in­ tegrale della pratica pubblica di tutte le religioni. Ma chi ha consentito ad una attrice da trivio di auspicare la sodomizzazione del papa da parte di diavoli, fra le grida oscene della marmaglia urlante intorno al palco? E poi, possibile che a nessuno venga in mente che bisogna che anche noi rispettiamo l’Islam, smettendola di distinguere i musul­ mani in “buoni” e “cattivi”, appiccicando la targhetta di “musulmani moderati” a coloro che accettano gli inter­ venti militari occidentali in Afghanistan ed in Irak, e cioè interventi che neppure io, battezzato cristiano, mi sogno di approvare, e che vorrei ricacciati e distrutti dalle forze patriottiche locali, non importa di quale religione siano? Pretendiamo che rispettino la nostra cultura politica. Ebbene, che cosa può pensare un immigrato colto e poli­ ticamente sensibile di un Massimo D ’Alema e di un Gian­ franco Fini, che hanno rinnegato tutto il profilo politico in cui hanno trascorso la giovinezza, e questo non certamente in forza di un travaglio intellettuale sincero, ma di una semplice presa d’atto delle compatibilità ideologiche del nuovo scenario politicamente corretto? L’ex-comunista, allevato sulle ginocchia di Togliatti e di Berlinguer, ha bombardato la Jugoslavia nel 1999 per conto della NATO e dell’impero USA, inventandosi un genocidio inesisten­ te, e certificato come inesistente da osservatori interna­ zionali (OSCE, eccetera). L’ex-neofascista allevato sulle ginocchia di Almirante e di Donna Assunta, che afferma che il fascismo è il male assoluto, e finché ammazza libici ed etiopi va ancora bene, ma quando tocca i sacri ebrei è

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imperdonabile. Auschwitz è il male assoluto, mentre H i­ roshima è solo un male relativo. Non entro qui nel merito. L’ho già fatto ampiamente in altra sede. Ma mi chiedo come si possa chiedere a emi­ granti di accettare il profilo non di Dante, ma di Pulcinel­ la, non di Manzoni, ma del Voltagabbana.

S ta to n a z io n a l e e picc o le pa tr ie

4) Quando si vuole contestare la globalizzazione si fa appello sovente alla difesa delle identità naziona­ li. In Europa le identità si riconoscono sempre meno negli stati nazionali. Infatti il principio dello Sta­ to sovrano è tuttora basato sulle identità nazionali. Tuttavia è constatabile come dal Trattato di Ver­ sailles in poi, la nascita d i nuovi stati nazionali in Europa, prim a a seguito dello smembramento degli imperi centrali, poi in virtù della fine dell’URSS, abbia dato luogo alla proliferazione di nuove en­ tità statuali non autosufficienti economicamente e spesso protagoniste di conflitti inter - etnici. Tale frantumazione dell’Europa, è stata inoltre una delle concause della “guerra civile europea” teorizzata da Ernst Nolte. Il dissolversi degli stati nazionali oggi però comporta la nascita delle patrie locali sempre piu piccole, spesso concepite su base esclusivamente etnica. Possiamo affermare che il localismo delle pic­ cole patrie non è una rivoluzione, ma una involuzio­ ne rispetto allo stato nazionale, in quanto l’identità europea ne risulta ulteriormente frantum ata e la contrapposizione dei valori regionali avverso l’av­ vento della globalizzazione si presenta come una difesa estrema e velleitaria, in quanto chiusa in sé stessa e priva di sbocchi futuri. Il prim ato glo-

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baie americano è comunque in crisi e sempre più dilaniato da conflitti nel mondo aperti o potenziali, proprio contro stati nazionali che si oppongono all’e­ spansionismo o che comunque ostacolano il primato USA, quali l’Iraq, l’Iran, il Venezuela e quasi l’in­ tero Sudamerica, la Russia, la Cina, l’India. Se gli stati nazionali europei non riescono ad integrarsi e sono sempre più deboli al loro interno è forse perché l’identità non può essere fondata solo sulla nazione, quale comunità di sangue e d i suolo, ma anche su altri valori culturali, politici, religiosi trasversali che esulino sia dal localismo che dallo stato naziona­ le, perché aperti alla condivisione dei popoli a l d i là delle specificità etniche, linguistiche e culturali. Sono pienamente d’accordo con quanto dici sul rap­ porto fra stato nazionale e cosiddette “piccole patrie”, e mi permetterò di riassumere brevemente quanto dici con questa sintetica formulazione: lo stato nazionale non è l’i­ deale, può e deve essere corretto e riformato, ma è pur sempre meglio delle piccole patrie. Personalmente, ag­ giungo qui la mia formulazione, che è leggermente di­ versa: lo stato nazionale è un prodotto storico degli ulti­ mi secoli, ma non è affatto una “comunità immaginaria”, quanto una evoluzione moderna della etnogenesi delle precedenti identità già esistenti; non è ovviamente, in quanto prodotto storico, un dato intangibile ed immodi­ ficabile, e può e deve essere migliorato con una maggio­ re valorizzazione delle identità locali e con un maggiore accoglimento degli emigrati (senza nessun meticciato, culto del migrante, e soprattutto senza nessuno stupido “multiculturalismo”, cavallo di Troia della omologazio­ ne americanizzante del mondo); e tuttavia, cosi com’è, lo stato nazionale è pur sempre meglio non solo del culto delle cosiddette “piccole patrie”, ma anche e soprattutto di

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unificazioni neoliberali come l’attuale Eurolandia asservi­ ta agli USA sul piano geopolitico ed al capitale finanziario transnazionale sul piano economico e sociale. La formulazione è forse un po’ lunga ma in questo modo il lettore non farà confusione. Chi vuole oggi la statalizza­ zione delle piccole patrie, lo svuotamento del vecchio sta­ to nazionale (considerato “obsoleto”), la diffamazione del concetto di nazione come “comunità immaginaria”, l’uso scissionista delle etnie contro le nazioni, eccetera? Non è difficile rispondere. Ci aiuta a farlo lo studioso francese di geopolitica Francois Thual (cfr. Il mondo fatto a pezzi, Edizioni del Veltro, Parma 2008). Chi vuole oggi che il mondo sia ulteriormente “fatto a pezzi”, in modo che al posto di duecento stati se ne abbiano duemila, più picco­ li e deboli, e quindi più controllabili economicamente e militarmente? Ma è evidente! L’impero USA lo vuole, perché con due stati indipendenti tibetano ed uiguro potrebbe mi­ nacciare la Cina con basi missilistiche nuove come può fare oggi con la Russia con basi missilistiche in Polonia e Repubblica Ceca! Ci aveva già provato con la Cecenia, ma per fortuna la Russia ha reagito in tempo. Ci è riusci­ ta con il Kosovo, trasformato oggi in ministato razzista albanese ed in centro mafioso di droga e di tratta del­ la prostituzione. Se la Turchia cominciasse ad avere una politica indipendente dagli USA, gli USA scoprirebbe­ ro immediatamente che i curdi, fino ad un attimo prima “terroristi”, hanno assolutamente bisogno di uno stato nazionale indipendente da cui espellere dieci milioni di turchi. Se l’Italia uscisse dalla NATO, gli USA scopri­ rebbero immediatamente che le nazioni siciliana, sarda e friulana hanno assolutamente bisogno di stati nazionali indipendenti. Se la giunta militare birmana non tenes­ se il paese multinazionale con pugno di ferro, gli USA imporrebbero subito uno stato shan ed uno stato karen.

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E potrei ovviamente moltiplicare gli esempi. Il fatto che lo spezzettamento non si estenda all’Abchazia ed alla Ossezia è dovuto esclusivamente al fatto che il georgiano Saakasvili è un loro fantoccio provocatore disposto a tutto pur di riempire il suo infelice ed innocente paese di basi missilistiche USA puntate su Mosca. Pensatori onesti ed intelligenti come Alain de Benoist non sembrano capire fino in fondo questo problema, in quanto sono contemporaneamente per una geopolitica antiUSA e per lo spezzettamento dello stato nazionale in una miriade di piccole patrie. Onestamente, trovo in questo una contraddizione. In de Benoist, questo è probabilmen­ te un derivato dalla sua insistente polemica decennale contro il giacobinismo accentratore dello stato francese. In ogni caso, il problema resta. A mio avviso, il centro della contraddizione si sposta storicamente a seconda delle congiunture politiche, e non resta mai lo stesso. Oggi (e ripeto oggi), l’aspetto principale, mi sembra quello geo­ politico, e quello secondario mi sembra la pur legittima difesa delle particolarità delle etnie e delle piccole patrie. Non intendo affatto negare questo aspetto. Sono anzi un “fanatico” dichiarato e non pentito della difesa dell’in­ segnamento delle lingue minoritarie e di ogni aspetto del folklore locale. Ma per questo non c’è nessun bisogno di frantumare lo stato nazionale. Il piccolissimo popolo Lap­ pone, ad esempio, è perfettamente tutelato dall’interno dello stato nazionale svedese, che concede addirittura ai lapponi privilegi che nega ai suoi stessi cittadini “svede­ si”. In Cina le minoranze etniche non sono neppure tenute all’obbligo di un solo figlio, e sono dunque avvantaggiate rispetto alla stessa maggioranza han. Questa è la giusta via. La giusta via non è infatti quella dello spezzettamen­ to in tremila ministati a disposizione degli USA e della NATO. Spero che su questo concordiamo.

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Obama, l’America virtuale e l’etere velenoso del capitalismo reale

O b a m a : l ’u o m o n u o v o p e r la n u o v a f r o n t ie r a

1) Con Obama sembra sia nata una nuova America. Chi non ha esaltato Obama quale primo presidente americano di colore, che inaugura una nuova epoca americana, quale demiurgo dei nuovi tempi, imm a­ gine volta a riaffermare il prim ato morale e politico Usa nel mondo? Non a caso si è affermato: “Nulla è impossibile all’America". I Vangeli affermano altre­ sì: “Nulla è impossibile a Dio". L’America è quindi identificata con Dio, data la sua vocazione messia­ nica, che sembra rievocare la “nuova frontiera" di kennediana memoria. UAmerica ha sempre d i fron­ te, nel tempo e nello spazio, una nuova frontiera dai confini globali da superare, quale portatrice di d irit­ ti umani, democrazia e liberismo, elargiti spesso a mano armata, ha subalternità dell’Europa, sempre in attesa d i eventi messianici d i provenienza atlan­ tica, è evidente. Forse il filoamericanismo è entra­ to nel codice genetico europeo: Veltroni ha detto: “lo credo all’insostituibilità dell’America. Il mondo non può accettare l’isolamento degli USA, non può r i­ nunciare alla sua leadership morale”. Uesaltazione di Obama della sinistra ha reso evidente anche il fi­ loamericanismo della stessa sinistra radicale, rivela­ tasi tu tt’a lp iù an ti —Bush, ma non antiamericana. La destra, già dichiaratamente filo —Bush, esterna invece le sue preoccupazioni circa le intenzioni di Obama per un futuribile ritiro americano dall’I­ raq, tramite Gasparri che ha detto “Obama? Ora A l Qaeda è p iù contenta”. La destra identifica l’Europa

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e l’Occidente con l’America: se Obama non conduce crociate armate contro l’Islam, chi proteggerà l’Eu­ ropa? A mio avviso l’America, tramite Obama vuole solo ricrearsi una immagine più credibile dinanzi a se stessa e al mondo. Un presidente di colore sarà sufficiente a esorcizzare l’immagine dell’America di Bush quasi sconfitta militarmente, afflitta da una crisi economica devastante e da un mega debito che la rende ricattabile dalle potenze emergenti? Parlare di Obama come se non fosse il presidente de­ gli USA, ma una sorta di socialdemocratico “abbronzato” di lingua inglese (per usare il termine pittoresco impie­ gato da Silvio Berlusconi) è un nonsenso in cui non ho alcuna intenzione di cadere. Discuterò invece il problema in tre punti. Primo, se l’America è o meno un impero, o più esattamente una repubblica imperiale, e quindi se questa categoria si possa usare o sia invece impropria e fuorviarne. Secondo, se l’America vuole essere un impe­ ro, e continuare ad esserlo, da cui nasce l’accusa surreale di “antiamericanismo” rivolta a coloro che affermano che l’America vuole essere un impero, e quindi vengono ac­ cusati di diffamazione per aver affermato ciò che gli stes­ si americani affermano di volere. Terzo, se l’America può continuare ad essere un impero, lo voglia o meno, o sia in decadenza, per cui non potrà più essere un impero neppu­ re volendolo. Dovrò essere forzatamente sintetico, ma in queste cose conta solo l’essersi spiegato chiaramente senza lasciare equivoci di sorta. In primo luogo, l’America è un impero, oppure non lo è affatto, ed anzi il termine è improprio e spinge ad analogie storiche fuorviami? L’antichista Giovanni Viansino (cfr. Impero Romano Impero Americano, Editrice Punto Rosso, Milano 2005) ritiene di si, ma ritiene anche che il vecchio impero romano sia stato migliore, perché meno

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invasivo e più rispettoso delle particolarità culturali na­ zionali. Il discorso sarebbe lungo, e certo depone a favo­ re dell’impero romano il mantenimento del bilinguismo greco-latino di fronte all’arrogante e ormai insopportabile monolinguismo anglosassone, ma io non seguo Viansino su questo punto, dato il carattere schiavistico ed oppres­ sivo dell’impero romano. Pensatori come Claudio M utti e Tiberio Graziani (su questo punto in sostanziale conver­ genza con Alain de Benoist) ritengono invece che gli USA non siano un impero, perché per loro il “vero” impero è una cosa buona, non invasiva e rispettosa delle partico­ larità dei popoli, mentre gli USA sono un cannibale che promuove nel mondo intero un “primitivismo di massa” (l’espressione è di Adorno nei Prismi), e sono una mac­ china distruggitrice ed omologatrice. Infine, ci sono po­ sizioni (ad esempio Slavoj Zizek) che affermano che gli USA non sono un impero, ma semplicemente uno stato nazionale aggressivo ed espansionista. Il discorso sarebbe ancora lungo, ma mi limiterò qui ad esprimere brevemen­ te la mia posizione personale, pur senza poterla motivare adeguatamente per ragioni di spazio. Con tutte le cautele terminologiche del caso, per me l’America è un impero. L’interpretazione ipocrita ed errata che la assolve, scaricando tutto su di un generico Impero capitalistico globale deterritorializzato contestato da ge­ neriche Moltitudini non meglio determinate (e cioè l’in­ terpretazione di Antonio Negri e Michael Hardt, per for­ tuna tramontata dopo un effimero drogaggio mediatico), deve essere archiviata come sussulto della mafia universi­ taria globalizzata di “sinistra”, il cui scopo era appunto di assolvere in ultima istanza il ruolo imperialistico USA, an­ negandolo in un generico impero capitalistico mondiale. Un episodio grottesco, quasi osceno, della comunità uni­ versitaria mondiale addomesticata. L’America è un impero in base a due parametri fondamentali, la strategia impe-

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riale all’esterno e la democrazia imperiale all’interno. Che ci sia una strategia imperiale all’esterno è cosa notissima, e basta in proposito consultare una cartina geografica sul­ le basi militari USA all’estero. In quanto alla democrazia imperiale all’interno, il sistema bipartitico USA è comple­ tamente unito sulle linee portanti del dominio mondia­ le, anche se vi sono fisiologiche differenze tattiche sia per quanto riguarda l’appoggio o meno a determinati gruppi di interesse dentro lo stato statunitense, sia per quanto riguarda la “linea ideologica” da seguire. Obama è estra­ neo culturalmente e soprattutto generazionalmente alla feccia intellettuale estremistica degli ex-trotzkisti rici­ clati in falchi interventisti (Horowitz, Berman, eccetera), ma da questo a parlare di “multilateralismo” ce ne corre. Un impero non è mai multilaterale per quanto concerne i suoi obiettivi strategici. Un impero è sempre unilaterale per sua propria essenza interna. In linguaggio kantiano, un impero è unilaterale in base ad un giudizio analitico a priori. E tuttavia, esistono per fortuna e grazia di Dio nel mondo paesi dotati di armamento strategico nucleare indipendente, che (del tutto indipendentemente dal giu­ dizio sul carattere interno dei loro regimi politici) fanno da freno (katechon) all’impero USA. L’Europa è cultural­ mente morta, ed è da tempo prona ed inginocchiata nel­ la posizione un tempo chiamata del “missionario”, ma ci sono almeno due zone culturali del mondo in cui l’odioso dominio imperiale USA è respinto dalla grande maggio­ ranza della popolazione (il mondo arabo-musulmano ed il mondo latino-americano). Questi due mondi esercitano lo stesso ruolo contrastivo che al tempo dell’impero romano era esercitato dalle tribù germaniche e dal regno dei Parti. In secondo luogo, che l’America voglia essere un im­ pero, non mi pare seriamente contestabile. Molti studi dettagliati hanno accertato il carattere messianico ed eccezionalistico dell’identità culturale ed ideologica statunitense,

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identità culturale assolutamente bipartisan, condivisa in­ tegralmente da un Clinton e da un Reagan, da un Bush e da un Obama. Non nego, ovviamente, l’esistenza di linee tattiche parzialmente differenti. Per continuare l’analo­ gia, i senatori ed i cavalieri nell’ultima fase della repub­ blica romana avevano effettivamente interessi divergenti ed anche profili ideologici alternativi, e questo causò addi­ rittura un secolo di guerre civili a Roma (i Gracchi, Mario e Siila, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio, eccetera). Anche negli USA ci fu una sanguinosissima guerra civile fra Nord e Sud (1861 —1865). La questione dell’ideologia identitaria USA, messia­ nica ed eccezionalistica, con le sue ripugnanti origini sei­ centesche nella parte più fanatica del puritanesimo pro­ testante inglese, è in realtà una questione centrale. Fin quando gli americani non accetteranno di essere un paese “normale” e comparabile ad altri nel mondo, abbandonan­ do lo schifoso ciarpame messianico ed eccezionalistico, il tumore non verrà estirpato, ed il mondo sarà sempre sot­ to minaccia di guerra. E tuttavia, soltanto ristrettissimi gruppi illuminati di americani sono oggi veramente di­ sposti ad abbandonare questo messianesimo eccezionali­ stico per “rientrare” in un mondo pluralistico normale. Il problema, quindi, può essere riassunto così: abbandonare consapevolmente il ripugnante messianesimo ecceziona­ listico, ed adottare progressivamente quello che definirei con termine inesistente un “normalismo”, e cioè l’accet­ tazione di essere un paese come gli altri, sia pure ovvia­ mente con caratteristiche storiche e geografiche originali. È anti-americanismo questo? Bisogna intenderci. Per me non lo è, in quanto si richiede agli USA non certo di non esistere, quanto soltanto di abbandonare la ripugnan­ te pretesa del messianesimo eccezionalistico. Forse che si è antitedeschi se si richiede alla Germania di abbandonare il profilo ideologico di Hitler? Forse che si è antisemiti se

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si chiede al sionismo politico di abbandonare il progetto di cancellazione del popolo palestinese e di abbandonare l’osceno motto di Golda Meir: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”? Non lo credo proprio. Eppure su questo punto crucia­ le c’è una reticenza inspiegabile, se non con l’ipotesi che siamo diventati un popolo di schiavi che ha introiettato il dominio anche psicologicamente. In terzo luogo, l’America può continuare ad aspirare al dominio mondiale, oppure sta entrando in una fase di ir­ reversibile decadenza? Autori come il francese Emmanuel Todd hanno sostenuto la tesi dell’irreversibile decadenza dell’impero americano, e sono molto numerosi i saggisti che sostengono tesi simili. Dico subito che purtroppo non condivido affatto questa tesi ottimistica, che considero “economicistica”, e cioè troppo protesa ad evidenziare elementi economici, tecnologici, concorrenziali, di de­ bito interno, di esposizione debitoria, di avanzamento di nuove superpotenze (Cina, India, Brasile, la stessa Europa Unita, eccetera). Il dominio imperiale americano non si basa esclusi­ vamente, e neppure principalmente, su basi economiche. Chi ragionava in questo modo pronosticava all’inizio de­ gli anni novanta un dominio mondiale giapponese, ma si sbagliava di grosso, perché il dato essenziale della questio­ ne non stava affatto nella tecnologia o nelle esportazioni giapponesi, ma stava invece nel fatto che il Giappone re­ stava militarmente occupato da basi americane, e questo conta mille volte di più di tutte le esportazioni e di tutto il toyotismo del mondo. I sostenitori del declino USA, anche se non lo sanno, sono fratelli gemelli del peggiore economicismo riduzionistico marxista, da Kautsky in poi. Il potere imperiale USA, che certamente Obama difen­ derà, perché è su questa base che le oligarchie finanziarie USA gli hanno dato il semaforo verde con i loro giornali e

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le loro catene televisive, si basa su tre parametri. Primo, la produzione tecnologica ed economica, in cui gli USA con­ tinuano ad essere leaders mondiali (mai dimenticarlo), ma in cui c’è veramente una concorrenza da parte delle nuove potenze emergenti. Secondo, il potere di ricatto militare, su cui la sproporzione fra la potenza USA ed il resto del mondo resta schiacciante. Terzo, il potere culturale, ot­ tenuto attraverso il cinema, la televisione, i modelli di vita, la liberalizzazione sessuale, la musica, l’immaginario giovanile colonizzato dal primitivismo di massa, eccetera. Andiamoci dunque piano a parlare di decadenza im­ periale USA. Purtroppo, non è cosi. Chi ne parla, finisce con il sostenere che non è più necessaria una terapia im­ munitaria, perché la malattia è vinta. Fosse vero! Ma non è affatto così!

L’o m o l o g a z io n e c o m p iu t a d e g l i a f r o - a m er ic a n i al sistem a

2) G li entusiasmi della prim a ora sembrano però spe­ gnersi a poco a poco. Ci si chiede da più parti: ma Obama sarà davvero di sinistra? Non sembra egli abbia m ai fatto sim ili professioni di fede. La cultu­ ra del nostrano politically correct sembra comunque esaltarsi dinanzi al successo della cosiddetta e mai definita “altra America", a l successo del primo presi­ dente di colore, alla fine del razzismo, cui corrispon­ derebbe il trionfo del cosmopolitismo e della società aperta del melting pot. Che poi tutto questo succeda oltre Atlantico, in una realtà storica e politica cioè lontana da noi anni luce, non ha alcuna importan­ za, dato che il primato americano rende la realtà Usa coestensiva ed identificabile con le sorti globali del pianeta. Se non erro, anche Condoleeza Rice è

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afro —americana, Segretario di Stato d i Bush, la cui politica si è identificata con quella dell’estremismo neocon proprio dei Wasp. È afro —americano anche Colin Powell, già assertore della guerre “democrati­ che” degli Usa, poi dimessosi all’inizio della seconda invasione dell’Iraq. Tali personaggi, anche se afro — americani, non hanno destato entusiasmo. Da quanto precede, si evince che la provincia europea vede in Ohama l’apostolo del riscatto dei neri, men­ tre in America egli è il simbolo, assieme alla Rice e a Potvell dell’integrazione di una piccola elite afro — americana nel sistema dei valori politico - religiosi —economici fondanti degli S tati Uniti. Il processo d i assimilazione dei neri ai valori della società dei bianchi sembra compiuto. In tale assorbimento dei gruppi etnici già subalterni consisterebbe dunque il “miracolo americano”. Anche se poi, nei fa tti, si tratta di un miracolo solo virtuale, date le condizio­ ni di inferiorità economica, sociale e culturale tu t­ tora sussistenti per la stragrane maggioranza degli afro —americani, dei cicanos ecc... Nella precedente prima risposta abbiamo parlato di cose serie, o se vogliamo di cose tragiche, e cioè in che modo funzioni non una democrazia in generale, ma una democrazia imperiale (cose talmente diverse da essere ad­ dirittura incommensurabili), e del se, ed in quale misu­ ra, si possa parlare o meno di declino relativo o assoluto dell’impero americano di fronte alle cosiddette “nuove potenze emergenti”. Si può essere d’accordo o in disac­ cordo con le mie considerazioni, ma è innegabile che si tratti di cose serie, ed anche tragiche, in quanto la superpotenza USA porta con sé, nella sua dinamica di svilup­ po, il pericolo di continue guerre, in quanto si “nutre” di continui nemici (il paragone con l’impero romano fatto

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da Viansino mi sembra nell’insieme pertinente, anche se non bisogna cadere mai nelle facili illusioni comparative dell’analogia storica). Qui invece si passa alla commedia, o per meglio dire, al dramma satiresco ateniese. La mania per Obama, infarti, non riguarda soltanto quel vero e proprio personaggio del­ la commedia dell’arte che è Walter Veltroni, ma riguarda pressoché tutto l’arco della cosiddetta “sinistra”, che si è inventata nella sua pittoresca ignoranza un Obama pacifi­ sta, socialdemocratico, filo-europeo, eccetera, seguendo la sua ben nota abitudine di vivere drogandosi di illusioni esotiche. Obama è infatti “esotico” come Stalin, Mao, Che Guevara, eccetera. Il momento della smentita e della delu­ sione verrà presto. Nel frattempo, questa “sinistra” avrà ri­ mandato ancora per qualche anno la necessità di diventare adulta, e di organizzare un insieme di tattiche e di strategie basandosi sulle proprie forze. Ma chi non ha forze materia­ li, spirituali e morali, e presenta la signora Luxuria come modello antropologico di avanguardia e non come sempli­ ce rispettabile caso umano particolare del tutto privo di ricadute universalistiche fa parte del problema, non della soluzione. E mentre allora nel caso della risposta preceden­ te mi sono sforzato di prendere la domanda sul serio, in questo caso avrò difficoltà a mascherare il mio fastidio ed il mio disgusto di dover parlare di una simile feccia umana ed intellettuale. Cerchiamo però almeno di risalire geneticamente alle fonti storiche di questa obama —mania provinciale per deficienti. Essa è infatti soltanto un sintomo superfi­ ciale e grottesco di una perdita di sovranità intellettuale che semplicemente raddoppia nel rarefatto mondo delle ideologie la ben più importante e strutturale perdita di so­ vranità militare causata dalle basi militari USA in Italia. Alla base, a mio avviso, ci sta il mantenimento drogato ed artificiale dell’antifascismo in assenza totale e concla­ mata di fascismo dopo il 1945. Questo mio rilievo non ha

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ovviamente nulla a che vedere con un problema ben distin­ to, e cioè la valutazione storica, politica, morale, sociale e storiografica del fascismo storico in Italia (1919—1945), ed anche del fascismo come fenomeno europeo complessivo (Germania, Spagna, eccetera), ed infine del fascismo come fenomeno extra-europeo (ammesso che in questo caso non sia impropria l’estensione del concetto a fenomeni come il populismo argentino o l’imperialismo giapponese —cosa che personalmente ritengo impropria e fuorviarne). Ho espresso la mia valutazione storiografica sul fascismo in molte sedi (cfr. La quarta guerra mondiale, All’insegna del Veltro, Parma 2008), e qui non mi ripeto. Sono per mol­ ti aspetti un antifascista retroattivo, ma così come sono un seguace retroattivo dei Gracchi, e cioè una sostanziale as­ surdità. Ciò che invece è sicuro, e che la “sinistra” italiana dopo il 1945 ha mantenuto in vita un morto, lo ha dis­ seppellito ed ha costruito la sua (miserabile) identità non su di un insieme vivente di contraddizioni culturali, poli­ tiche e sociali, ma su di un passato interamente trascorso e sacralizzato in modo religioso. L’antifascismo in assenza completa di fascismo è diventato una religione atea per senzadio, con riti di esclusione, demonizzazione, esorcizzazione, infiltrazione, contaminazione, eccetera. Ma perché questo è avvenuto? Anche le follie hanno una loro logica. Ed in questo caso la logica deve essere diagnosticata in una carenza strutturale di legittimazione politica e culturale complessiva. Il modello sovietico di socialismo dopo il 1956 appariva portatore di un deficit di credibilità addirittura palese, ed allora la sacralizzazione dell’antifascismo in assenza completa di fascismo, in par­ ticolare dopo i fatti del I960 a Genova e Reggio Emilia, finì con l’essere la via pii! facile per una rilegittimazione simbolica integrale del comuniSmo italiano. Il comuni­ Smo italiano non avrà magari avuto una strategia ed una tattica per la rivoluzione, se non la beota attesa storicistica

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della presunta (ed ovviamente del tutto inesistente) inca­ pacità dell’economia capitalistica di sviluppare le mitiche forze produttive, ma almeno adempiva al compito storico di impedire il temuto “ritorno del fascismo”. Tenere in vita il fantasma di un onnipresente pericolo fascista diven­ tava così una funzione ideologica strutturale di compat­ tamento simbolico e soprattutto elettorale. Ma l’inganno non poteva durare per sempre. Fin dal 1964, nel Problema dell'Ateismo, Augusto del Noce diagnosticò il cuore della questione: fondare la le­ gittimità storica del comuniSmo sul puro scorrimento progressistico della storia significa accettare il mito della mo­ dernizzazione dei costumi e dei rapporti sociali come “av­ vicinamento” alla prospettiva socialistica, ma il puro stori­ cismo progressistico porta solo prima al relativismo e poi al nichilismo, e da Teresa Noce si arriverà ad Emma Bonino, e da Antonio Gramsci a Marco Pannella. In una prospettiva storica cinquantennale, possiamo dire che il keynesismo in economia adempiva alla stessa funzione simbolico-illusoria della modernizzazione liberalizzata dei costumi in sociolo­ gia. Sia Keynes che Luxuria erano visti come momenti di “avvicinamento” ad una società più giusta. Il comuniSmo italiano era già culturalmente morto fin dall’inizio degli anni ottanta. Il mantenimento dell’anti­ fascismo in assenza completa di fascismo non poteva che sfociare in un filo-americanismo onirico, dal momento che l’America buona (quella di Roosevelt, dello sbarco in Si­ cilia ed in Normandia, ed anche del deplorevole “errore” di Hiroshima, da non confondere comunque con l’impara­ gonabile Male Assoluto di Auschwitz) ci aveva liberati dal Fascismo, anch’esso ormai definito Male Assoluto. Solo i cretini, peraltro statisticamente numerosissimi, possono non capire che il mantenimento simbolico del Pas­ sato Sacralizzato come Male Assoluto èfunzionale alla rimo­ zione dei mali assoluti (o relativi) attuali. Ed infatti solo il

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Cretino, personaggio fondamentale della Storia Universale, può non capire che se l’unico Male Assoluto è stato quello terminato nel 1945, e da allora non ce ne sono mai più stati (di “assoluti”, almeno), allora ne consegue che tutti i mali posteriori (ad esempio la criminale invasione USA in Iraq del 2003) sono non soltanto mali relativi, ma addirittura errori che non sono stati commessi dagli USA in quanto tali, ma soltanto dalla parte cattiva degli USA, e cioè dai neoconservatori di Bush. Gli USA sono sempre per prin­ cipio innocenti. Come nel gioco delle tre carte ad uso dei deficienti delle stazioni ferroviarie, nello stesso modo c’è sempre una carta cattiva e una carta buona a stelle e strisce. Il mito dell’altra America è quindi derivato, anche se non direttamente, dal mantenimento artificiale dell’anti­ fascismo in assenza compieta e conclamata di fascismo. Il fascismo deve perdere ogni caratteristica storica (a partire dalla quale, ad esempio, si origina la mia disapprovazione e la mia condanna, soprattutto per i fatti coloniali in Libia ed in Etiopia), per diventare un Male Assoluto. Quando i vari Fini ed Alemanno sacrificano al Male Assoluto, non c’è qui alcun tradimento, ma solo un adattamento ideolo­ gico funzionale ad un sistema organico di subordinazione dell’Europa asservita al dominio imperiale USA. Nonostante tutti i tentativi degli intellettuali pentiti e dei sessantottini rinnegati di equiparare Hitler e Stalin la demonizzazione esclusiva di Hitler permane, in par­ ticolare a causa della sostituzione della religione civile olocaustica alle vecchie religioni monoteistiche europee, troppo invasive e prescrittive nella gestione psicologica complessiva della vita privata, che deve essere interamen­ te liberalizzata per non creare intralci precapitalistici al consumo illimitato del corpo e dello spirito. Il senso di colpa indotto dalla nuova religione olocaustica, infatti, è funzionale ad almeno tre dimensioni storico-sociologiche. Primo, legittima i progetti genocidi del sionismo verso il

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popolo martire palestinese, che deve pagare con il suo sa­ crificio espiatorio la colpa dell’Europa di non aver saputo impedire Hitler, ma anzi di averlo “prodotto” essa stessa. Secondo, legittima la permanenza illuminata ed indeter­ minata di basi militari USA in territorio europeo, sulla base del fatto che, senza un guardiano ed un protettore, noi europei potremmo sempre ricadere nella tentazione populista a due facce, fascista-comunista (a questo serve la mascalzonesca teoria del cosiddetto “totalitarismo uni­ co”). Terzo, non essendo una religione invasiva sui com­ portamenti familiari e sessuali, permette la sostituzione integrale di Gramsci con Luxuria. Chi mi conosce sa bene che non coltivo un solo gram­ mo del cosiddetto “antisemitismo”, che anzi mi ripugna umanamente e filosoficamente. Ma se non si comincia ad avere il coraggio di mettere su carta certe spiacevoli verità è inutile continuare a stupirci dell’egemonia di una “si­ nistra americana” adoratrice provinciale della cosiddetta “altra America”, come se si fosse continuato a sostenere Hitler con la scusa che c’era sempre un “altra Germania” (Goethe, Hegel, Mozart, eccetera). Siamo a questo punto. Non ne usciremo certamente presto. Gli idioti sono fra noi, e gli idioti sono più pericolosi dei lupi.

O b a m a , il p r e s id e n t e d e lla c o n t in u it à c l in t o n ia n a

3) Da questa America decedente si aspetta parados­ salmente l’innovazione. Obama viene definito clintoniano. Ma Clinton non perseguì politiche sociali. Occorre ricordare che la fine del suo secondo manda to coincise con una grave crisi finanziaria, quella del­ la implosione della bolla speculativa generata dalla neiv economy, che diede inizio ad una crisi struttu­ rale dell’economia americana da cui non è più usci-

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ta. Clinton non fu né pacifista né multilateralista, fu responsabile della guerra di aggressione contro la Serbia e dell’aggressione al Sudan. Obama ha an­ nunciato misure a sostegno all’economia e al lavoro d i stampo keynesiano, ma l’intervanto dello Stato non rappresenta un mutamento del sistema liberi­ sta americano: anche i precedenti presidenti, da Reagan in poi, hanno fatto uso della finanza pubblica allo scopo d i fa r fronte a i disastri del liberismo fi­ nanziario. L’intervento pubblico in America ha una funzione assistenziale e restauratrice del sistema liberista in crisi, non comporta lo stato sociale. In politica estera Obama ha annunciato il ritiro dall’I­ raq, ma anche il proseguimento della guerra afgana e la chiusura verso l’Iran. Tra i suoi collaboratori spiccano i nomi d i lllary Clinton, Brzezinski, Kerry, Rahm: tali scelte preludono a politiche interventiste nel mondo, eventualmente armate. Quanto al ritiro dall’Iraq, è da dimostrarsi con quali modalità gli Usa lasceranno tale Paese, senza incorrere in una ritirata - disfatta simile a quella vietnamita. Da quanto precede, al d i là di una in­ novazione virtuale —mediatica, emerge una sostan­ ziale continuità della politica americana all’interno e nel mondo, tesa a conserva re il proprio primato. Il mito del clarinettista Clinton come capo dell’Ulivo Mondiale, (la demenziale espressione, ad un tempo surreale e servile, fu veramente usata da Romano Prodi, l’uomo che voleva ritrovare il nascondiglio di Moro nel 1978 fa­ cendo ballare i tavolini!) è ovviamente una variante dell’a­ mericanismo onirico della sinistra italiana, di cui ho già discusso nella risposta precedente. La guerra di aggres­ sione contro la Serbia nel 1999 fu “venduta” come una campagna mediatica che strillava su di un (inesistente)

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genocidio della popolazione albanese del Kosovo e su di una (altrettanto inesistente) “pulizia etnica” di quest’ultima. Si trattò in realtà di una guerra contro l’Europa (cfr. Romolo Gobbi, Guerra contro l’Europa, Editrice Settimo Sigillo, Roma 2000), cui l’Europa si sottomise con il sor­ riso ebete del masochista che si sottomette alla virago in bustino e calze nere che lo frusta sulle rosee chiappe. L’Ita­ lia, paese cialtrone ed ipocrita, la fece violando la costitu­ zione che l’impediva esplicitamente, in base all’ipocrisia tartufesca per cui non si trattava di guerra, ma soltanto di una “operazione di polizia internazionale”. L’ONU, peral­ tro, non l’aveva consentita, e quindi si trattò soltanto di una guerra unilaterale NATO. La NATO è oggi la peste dell’Europa, e sempre più lo sarà nel prossimo futuro, fino a provocare un’inutile tensione con la Russia post-comu­ nista. In proposito Putin è stato una benedizione rispetto all’osceno ubriacone Eltsin, anche se purtroppo è ancora al di sotto della necessità minima di deterrenza, a causa anche della natura criminale della nuova borghesia russa, che non può fare da base politica e culturale per nulla di serio. Ma per il momento teniamoci quello che passa il mercato, anche se è di scarsa qualità! Quando scoppiò la crisi della bolla speculativa nell’ot­ tobre 2008 cercai di capirne qualcosa, data la mia relativa incompetenza in economia. In generale compro il Sole 24 Ore la domenica mattina esclusivamente per l’inserto cul­ turale, e butto via immediatamente nel cestino il resto del giornale. Questa volta, però, fui incuriosito da un titolo di un inserto sulle “cause della crisi”, ed allora me lo sono diligentemente letto, sperando di poter capire le “cause della crisi”. Canaglie! Le cause della crisi erano individuate da co­ storo nella scarsa vigilanza attuata dagli organi a ciò prepo­ sti! Sfacciati ipocriti! Il processo sociale di arricchimento globale provocato nell’ultimo ventennio dalla finanziariz-

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zazione dell’economia, con relativo impoverimento non solo dei cosiddetti “poveri” del Terzo Mondo ma anche del ceto medio metropolitano, consegnato all’insicurezza esi­ stenziale ed al lavoro flessibile, incerto e precario, era defi­ nito in termini di “insufficiente controllo da parte degli or­ gani a ciò preposti”, come se gli addetti al controllo fossero stati sessantottini analfabeti promossi con il voto unico e non boriosi managers anglofoni roteanti la loro pipa-totem con masters nelle più costose facoltà di economia! La sfacciataggine delle canaglie neoliberali è inaudi­ ta! Il problema però non si risolve gettando nella pattu­ miera questi inserti color rosa. La questione è la natura dell’intervento pubblico. Su questo, lo ammetto, non ho affatto le idee chiare. Mi è chiaro, naturalmente, che il “salvataggio delle banche” non ha nulla a che fare con il ritorno allo “stato sociale”, che negli USA non c’è mai sta­ to, ma in Europa invece si, addirittura prima dei famosi “trenta anni gloriosi” (1945 - 1975) del troppo lodato Hobsbawm, un cattivo storico che riduce le nazioni a “co­ munità immaginarie”, contribuendo cosi ad incrementa­ re le banalità postmoderne sulla fine degli stati nazionali e l’avvento di un multiculturalismo sradicato adatto per gruppi intellettuali in crisi di orientamento. Non mi è invece chiaro, in quanto appartiene ad un futuro non prevedibile anche se imminente, se vi saranno movimenti sociali in grado di reimporre, magari con un sag­ gio uso misurato della violenza necessaria (la manifestazio­ ne belante —pecoresca non ottiene mai nulla per sua stessa natura, ma è soltanto una autocelebrazione narcisistica per impotenti cronici), la restaurazione di forme di stato sociale, al di là di elemosine oligarchiche tipo social card. Io non lo escluderei a priori. Il ceto medio, fino ad ora, ha mangiato merda per vent’anni senza protestare, accettando insicurez­ za, declassamento e quello che si chiama in linguaggio so­ ciologico “aspettative decrescenti”. Esso non può aspettarsi

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nulla dalla “sinistra” di Luxuria e dallo sgombero dei cro­ cifissi nei luoghi pubblici. Certo, si tratterà probabilmen­ te di ciò che i politologi corrotti di regime chiameranno “populismo”. Io sono diventato personalmente un amico di questo concetto. Se al circo mediatico delle oligarchie finanziarie dominanti la parola “populismo” fa schifo, so­ spetto automaticamente che si tratti di una buona parola. Ma chi vivrà vedrà, e perciò mi fermo qui.

V er so u n a p ia n if ic a z io n e c a pit a l ist a

4) La crisi devastante americana, che ha colpito Veco­ nomia finanziaria, determinato una grave recessio­ ne dell’economia reale, moltiplicato oltre ogni lim ite il debito estero, sembra preludere alla decadenza progressiva del prim ato economico e politico globale americano. La crescita esponenziale delle potenze asiatiche, il ri­ torno sulla scena mondiale della Russia, un Sudarnerica sempre più affrancato dall’influenza america­ na, un’Europa, che pur carente di sovranità politica, è pu r sempre un fattore condizionante, fanno presa­ gire la fine dell’unilateralismo americano a favore di un mondo multipolare, composto da potenze conti­ nentali. Tuttavia c’è da osservare che la crescita delle potenze asiatiche e la rivitalizzazione della Russia, derivano dalla delocalizzazione produttiva operata dall’Occidente e dal coinvolgimento di tali stati nella finanza globale. La recessione produttiva, unita al decremento dei consumi in Occidente, potrebbe por­ tare al rallentamento dello sviluppo anche di Cina e India. Il debito americano, le ripetute insolvenze, i crack finanziari, l’instabilità del dollaro, potrebbero pregiudicare gravemente il ruolo sia politico che eco-

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nomico dei Paesi asiatici e della Russia nel mondo. Inoltre gli interventi statali a pioggia nelle economie occidentali comportano necessariamente un accresci­ mento del ruolo delle banche centrali (private) e dei fondi sovrani degli em irati arabi, con conseguente incremento del debito pubblico americano e occiden­ tale. A i fallim enti bancari e ai crolli dell’industria, fanno seguito fusioni, incorporazioni, nuovi flussi di capitale transnazionale volti all’accaparramento oli­ garchico dell’economia mondiale. E da prevedere una trasformazione oligarchico —di­ rigista del capitalismo globale, strutturato in con­ centrazioni d i capitale transnazionale sempre più ristrette. In tale ottica, è prevedibile per il prossimo futuro l’avvento di un capitalismo pianificatore dell’econo­ mia a livello mondiale, che rivela una paradossale somiglianza al sistema di pianificazione economica fallim entare di memoria sovietica. Dei molti stimoli contenuti in questa quarta domanda credo sia opportuno concentrarsi su uno solo, e cioè “se sia prevedibile o meno per il prossimo futuro l’avvento di un capitalismo pianificatore dell’economia a livello mondiale, che rivelerebbe una paradossale somiglianza con il sistema di pianificazione economica fallimentare di memoria so­ vietica”. Il discorso richiederebbe cento pagine, ma ritengo lo si possa telegraficamente compendiare in tre punti. In primo luogo, io non credo affatto alla cosiddetta pianificabilità della riproduzione capitalistica complessi­ va. Provvedimenti dirigistici anticrisi vengono certamen­ te presi di tanto in tanto, l’apparato statale viene messo al servizio del sistema capitalistico in molti modi, alternan­ do ciclicamente momenti protezionistici e liberalizzazio­ ni economiche ultraliberistiche, eccetera, ma non bisogna

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confondere tutto questo con la vera e propria pianifkabilità del sistema. Il capitalismo vive strutturalmente della concorrenza strategica, diplomatica, militare e geopolitica di gruppi capitalistici rivali (Gianfranco La Grassa), e non esiste nessuna pianificazione centralizzata dell’estorsione del plusvalore (errore di Raniero Panzieri e di tutto l’ope­ raismo italiano fino ad Antonio Negri). E per questo che il capitalismo è tanto forte. Se ci fossero organi pianificatori centralizzati sarebbe immensamente più debole, e ci sa­ rebbe una fortezza della Bastiglia o un Palazzo d’inverno da assaltare, che purtroppo non ci sono. Il capitalismo è assimilabile a un etere velenoso che avvolge tutta l’atmosfe­ ra, non ad una fortezza da assediare. Se fosse una fortezza, i popoli del mondo l’avrebbero già conquistata da tempo, e le ridicole distinzioni Ira “destra” e “sinistra” farebbero già parte di un museo di archeologia comica per bambini. In secondo luogo, il superamento del capitalismo, niente affatto sicuro ma solo potenzialmente possibile, potrà avvenire soltanto con un insieme di comportamenti soggettivi coscienti ed organizzati, all’interno di una “fi­ nestra storica di opportunità”, che può avvenire o in con­ seguenza di una crisi profonda oppure (Dio non voglia!) in conseguenza di una guerra o di un insieme di guerre. I cosiddetti “comunisti” hanno da tempo rimosso un fatto storico elementare, e cioè che il comuniSmo russo è nato sulla base della prima guerra mondiale ed il comuniSmo cinese sulla base della guerra sino-giapponese. Non mi si fraintenda. Non intendo affatto “auspicare” questa situa­ zione catastrofica. Semplicemente, rilevo un dato storico che i pecoroni belanti del pacifismo narcisistico di regime rimuovono continuamente. In terzo luogo, il comuniSmo storico novecentesco (1917 - 1991) non è fallito a mio avviso perché la piani­ ficazione economica era inefficiente, anche se alla fine lo era. Lo era, ma era anche in via di principio migliorabile

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con provvedimenti di politica economica ad hoc. Il comu­ niSmo storico novecentesco è stato un grande esperimento di ingegneria sociale dall’alto esattamente l’unica fattispe­ cie che Marx aveva esplicitamente esclusa, considerandola “utopistica”. Secondo Fredric Jameson, che secondo me ha colto il nocciolo della questione, l’esperimento comu­ nista di ingegneria sociale socialista ha potuto svilupparsi soltanto sotto una “cupola geodesica", e non appena si è aperto al mercato mondiale è subito crollato. La ragione, a mio avviso, è totalmente spiegabile in base alla teoria generale di Marx, sulla base della centralità della lotta di classe all’interno dei rapporti sociali di produzione ingan­ nevolmente “socialisti”. Si è trattato di una maestosa con­ trorivoluzione di massa dei ceti medi cresciuti alFintemo della società sovietica, stanchi e nauseati dell’egualitarismo livellatore che pagava un medico meno di un operaio, controrivoluzione interna che ha avuto poi un appoggio esterno in circoli capitalistici, soprattutto sionisti (vedi la maggior parte degli odierni “baroni ladri” che impestano la società russa criminale di oggi). Volesse il cielo che il sistema capitalistico fosse fragile e debole come l’esperimento fallito di ingegneria socia­ le sotto la cupola geodesica chiamato comuniSmo storico novecentesco (da non confondere —per carità di Dio —con il comuniSmo utopico —scientifico di Marx - l’ossimoro è ovviamente del tutto volontario)! La sua forza sta pro­ prio nella sua capillare invasività, e questo esclude sia la teoria del crollo economico del sistema (Grossmann), sia la teoria del capitalismo politicamente organizzato e pia­ nificato a livello mondiale (Pollock). Se le cose stessero alla Grossmann e/o alla Pollock sarebbero in fondo facili. Purtroppo non stanno così, ed ecco perché appaiono tanto difficili. E tuttavia, una “breccia”, prima o poi, si troverà, anche se non certo nel corso della nostra vita terrena.

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L’eroismo di Gaza e il Ministero Occidentale della Verità

I l t r a d im e n t o

a r a b o d e lla c a u sa pa lestin e se

1) La tragedia di Gaza, a seguito dell’invasione isra­ eliana, ha potuto verificarsi a causa della abissale sproporzione di forze militari, economiche e politiche esistente tra Israele e i palestinesi di Hamas. Questi idtimi, assediati, affamati, scarsamente armati, v i­ vono in uno status di isolamento e criminalizzazione internazionale. La debolezza politica e militare di Hamas è dunque da imputarsi al suo isolamento nel contesto internazionale, con particolare riferimento al mondo arabo. Ed è proprio la mancanza di peso politico (o il tradimento della causa palestinese?), degli stati arabi la causa della selvaggia aggressione israeliana perpetrata con tutte le possibili violazio­ ni del diritto internazionale. Il mondo arabo - mu­ sulmano trovò in passato un suo momento di unità proprio nella difesa della causa palestinese, mentre oggi sembra dominato da interessi sia strategici che economici che, seppur con qualche eccezione (Siria e Iran), lo coinvolgono nella sfera geopolitica ed econo­ mica dell’Occidente. La causa araba e quella palesti­ nese si identificarono in quel moto indipendentista che liberò la nazione araba dal colonialismo europeo. Il nazionalismo arabo ebbe come modello i regimi lai­ ci, nazionalisti, socialisti di stampo nasseriano, con l’Egitto come stato guida. La fine di tale modello por­ tò, a causa delle profonde divisioni nel mondo arabo, alla fine della stessa causa araba. Successivamente, fti l’Islam a rappresentare il fattore identitario di tu tti i popoli arabi e non. Ma lo stesso Islam si ri-

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velò un fattore religioso - identitario generatore di ulteriori insanabili divisioni politiche tra gli stessi popoli islamici. Lo stesso fondamentalismo ha spesso strumentalizzato, p iù che sostenuto la causa palesti­ nese. Anzi, il fondamentalismo islamico appare assai poco conciliabile con le aspirazioni palestinesi all’in­ dipendenza, data la natura composita, sia dal punto di vista etnico, che religioso del popolo palestinese. Chi conosce l’opera di George Orwell ricorderà il fa­ moso Ministero della Verità, il cui compito è l’imposizio­ ne della sola versione consentita di un qualsivoglia problema di carattere pubblico, culturale e sociale. Le società capi­ talistiche normali, a differenza dei modelli nazionalsocia­ listi (Hitler) o comunistico-dispotici (Stalin) non hanno in genere bisogno di uno specifico ministero della verità, perché bastano ed avanzano i meccanismi sofisticati di fil­ traggio, demonizzazione e diffusione capillare dei modelli politico-culturali adatti alla riproduzione sociale comples­ siva, che nel capitalismo contemporaneo è oligarchica, o più esattamente oligarchico-finanziaria-transnazionaie. È proprio il meccanismo del mercato di beni e di servizi, al di fuori di qualsiasi pianificazione pubblica di tipo dispo­ tico e statalistico, che produce un mercato oligopolistico delle opinioni e delle concezioni del mondo. Per questa ragione il Ministero della Verità è sostituito dal Mercato Oligopolistico delle concezioni del mondo “consigliate” dall’oligarchia, che gli intellettuali universitari in genere coerentizzano, abbelliscono e sistematizzano, trasforman­ dole in “risorse” ornamentali per arrampicatori sociali e (uso il termine e la grafia dell’umorista Stefano Benni) Persone di una Certa Kual Kultura. C’è però una eccezione rilevante, e pressoché unica, sulla questione ebraica e sionista. In questo caso, e solo in questo caso, si esercita la dittatura pubblica del Ministero orwel-

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liano della Verità, che impone la sola verità consentita, pena l’emarginazione e la condanna per i reprobi malati di peste ai margini della società. Nella mia terza risposta analizze­ rò gli aspetti culturali della Religione Olocaustica e del Tabù Negazionista, e soprattutto la fondamentale funzione politico-sociale di questi due dati culturali e teologici. In questa mia prima risposta invece, toccherò gli aspetti più propriamente storico-politici di questa questione. Nonostante le messe in guardia del Ministero della Verità, i dati storici ed ideologici ci dicono che il popolo ebraico ha avuto una etnogenesi storica del tutto distin­ ta da qualsiasi continuità etnica palestinese (cfr. Shlomo Sand, Comment le peuple p u f fu t inventò., Fayard, Paris 2008), e che tutte le pretese alla proprietà esclusiva della Palestina sono soltanto indegne porcherie razziste prive di fondamento. Il carattere apertamente colonialistico-razzistico del primo sionismo (Herzl, eccetera) non può essere seriamente negato alla luce dei documenti storici. La stes­ sa equazione ebraismo-sionismo è una sporca menzogna, perché il sionismo è una ideologia politico-territoriale che un ebreo può condividere oppure no, e ci sono stati famosi ebrei che non l’hanno condivisa, o l’hanno condivisa in forma tiepida e piena di riserve. Per fare un solo esempio, il noto Primo Levi, autore di Se questo è un Uomo, monu­ mento immortale della testimonianza delle sofferenze del popolo ebraico nei campi di sterminio (si, di sterminio, e non solo di lavoro), definì “protervia sanguinosa” (cfr. “La Stampa”, 14 —9 —1982) i comportamenti di Begin in Libano (immensamente meno protervi e sanguinosi di quelli attuati a Gaza dalle belve sioniste), e lo stesso Levi nel 1985, avendo sostenuto in una conferenza pubblica a New York che Israele era stato un “errore in termini stori­ ci” (sic!) fu interrotto, silenziato e costretto a terminare la conferenza dalla plebaglia urlante di un pubblico di soli ebrei fanatizzati.

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Ho usato volutamente termini forti ed insultanti. E li ho usati perché non riconosco nella mia coscienza l’auto­ rità di nessun Ministero della Verità e mi prendo l’inalie­ nabile diritto di distinguere fra popolo ebraico, religione ebraica, sionismo politico, comportamenti razzisti e colo­ nialisti dei governi israeliani, diritti inalienabili del popo­ lo palestinese, vergognosa subalternità europea, eccetera. So bene che mentre è possibile separare il popolo italiano dal fascismo, il popolo tedesco dal nazionalsocialismo, il popolo russo dallo stalinismo, il popolo americano dal bushismo assassino, eccetera, chiunque separi concet­ tualmente l’ebraismo dal sionismo viene subito accusato di antisemitismo. E un’accusa sporca e menzognera, ma nelle attuali condizioni storiche è impossibile sottrarvisi. Quando grandina, e non c’è un riparo, bisogna mettersi il cappuccio per evitare i danni al cuoio capelluto. Ma torniamo al nostro problema, e per farla corta tor­ niamo subito ai fatti di Gaza del dicembre 2008 —gen­ naio 2009- Il Ministero della Verità sostiene in proposito che si trattò di una risposta legittima alle violazioni uni­ laterali della tregua fatte da Hamas (vincitore delle prece­ denti elezioni democratiche in Palestina dopo che l’intero occidente asservito aveva sostenuto per decenni che ci vo­ levano elezioni democratiche in Palestina —ma evidente­ mente per l’occidente asservito la democrazia è diventata un codice ideologico di accesso politicamente corretto e non più un principio di legittimazione elettorale-maggioritario). Si tratta di una sporca menzogna. Israele aveva sempre sistematicamente violato la tregua non solo chiu­ dendo i cosiddetti “valichi” e condannando gli abitanti di Gaza alla fame e alla miseria, ma aveva sempre proseguito le cosiddette “uccisioni mirate”. Questo mi ricorda Hitler, che attacca la Polonia il primo settembre 1939 sostenendo di attuare una semplice risposta ad un precedente attacco militare polacco.

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Ma torniamo alla natura delle modalità dell’attacco a Gaza, modalità che non solo configurano un insieme di crimini di guerra (fosforo bianco, armi nuove di distru­ zione capillare dei corpi, eccetera), ma che erano espli­ citamente rivolte contro la popolazione civile (donne, bambini, vecchi, eccetera). Per capire la natura di questa scelta omicida e criminale bisogna che ci si impadronisca concettualmente di due pilastri ideologici della strategia sionista, rispettivamente il “far capire che hanno perduto” ed il “dar loro una lezione perché capiscano che hanno perduto e finalmente lo ammettano”. Il Ministero Occi­ dentale della Verità, ha come scopo la non-comprensione di questi due dati strategici. Chiunque parli con un israelia­ no medio in Israele o all’estero, o con un sionista medio all’estero sa perfettamente che quello che vi dico è vero, ed è ancora al di sotto della verità, anche se l’ipocrisia del Ministero della Verità deve cercare di confondere le acque con la simulazione della triade sionista-buonistaprogressista Yehoshua-Oz-Grossman. Ma torniamo a Gaza. Secondo calcoli recenti, nei venti giorni di bombardamenti punitivi ci sono stati 1330 mor­ ti, di cui 437 bambini sotto i sedici anni, e 5890 feriti, di cui 1890 bambini sotto i sedici anni. E non si tratta affat­ to di “danni collaterali”, dovuti al fatto che i “vili” di Hamas si nascondevano fra i civili (fra poco saremo costretti a riscrivere la storia, ed a dire che i vili partigiani ebrei del ghetto di Varsavia si nascondevano fra i civili, mettendo in imbarazzo i poveri civilissimi tedeschi). Si è trattato di una punizione collettiva voluta. Del resto, lo ammette apertamente la ripugnante sionista Yaffa, una cinquanten­ ne che gestisce un negozio di abbigliamento per bambini: “Abbiamo bisogno di finire il lavoro a Gaza. Milletrecento morti non bastano. Devono uscire tutti con la bandiera bianca” (cfr. “La Stampa”, 11-2-09). Ho scritto “sionista” e non “ebrea” non certo per timore di essere demonizzato

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dal politicamente corretto, questo nuovo cancro della libe­ ra comunicazione razionale fra gli uomini, ma per rispetto di tutti gli “ebrei” che mi hanno arricchito l’esistenza, da Gesù a Spinoza, da Marx a Lukacs, da Benjamin a Primo Levi. E bene nominare correttamente le cose, come disse Confucio, e dare ad ognuno il suo, come scrisse Sciascia. Del resto, la ripugnante camiciaia Yaffa non è sola. Arnon Sofer, l’architetto del disimpegno da Gaza, sostenne in un’intervista sul Jerusalem Post, questo giornale nazista in caratteri ebraici, che per restare a Gaza e per mantenere lo status quo bisognava “uccidere, ed uccidere, ed uccidere, e questo tutti i giorni, ogni giorno”, finché i palestinesi smetteranno di sollevarsi ed abbandoneranno Gaza. Questa è stata dunque la logica dei venti giorni del massacro di Gaza. La macchina della propaganda sioni­ sta, in questi casi, cerca di non far capire il cuore del problema, cosi bene espresso sinteticamente dalla nazista Yaffa (li ammazzeremo fino a che non si arrenderanno ed usciranno con la bandiera bianca), ed attiva immediata­ mente i pagliacci della triade colta “per l’esportazione” Yehoshua-Oz-Grossmann, che suonano sempre lo stesso disco stonato: “Questa volta era purtroppo necessario at­ taccare, bombardare e massacrare, ma bisogna farlo con maggiore moderazione, e poi bisognerà trattare con il buon Abu Mazen, una volta eliminati i fanatici fonda­ mentalisti terroristi barbuti di Hamas”. E questo lo dico­ no i probabili uccisori con il veleno di Arafat, uccisione con il veleno che non è affatto un gossip irresponsabile del tipo dell’autoattentato Bush-Mossad alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, ma è a tutti gli effetti una ipote­ si storiografica probabile (cfr. Amnon Kapeliouk, in “Le Monde Diplomatique”, novembre 2005). Personalmen­ te, sul probabile avvelenamento di Arafat non sono un “negazionista”, e considero del tutto plausibili gli argo­ menti portati da Kapeliouk.

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Il cuore della questione sta quindi in ciò, che i sionisti vogliono che i palestinesi “escano con le mani alzate”, e per questo bisogna punirli collettivamente in modo assi­ ro-babilonese ogni tre o quattro anni. Non si creda quindi ai cosiddetti “danni collaterali”, causati dall’estremismo dei piccoli razzetti fatti in casa su Sderot. Lo volesse Dio che Hamas fosse armata meglio, almeno come i benemeri­ ti e mai abbastanza lodati Hezbollah del Libano! Di fronte a questi tripli criminali (di guerra, contro la pace e contro l’umanità) l’Europa vile, cinica ed asservita non richiede una seconda Norimberga contro questi nuovi nazisti, ma finge che il cuore del problema non sia quel­ lo espresso dalla nazista Yaffa, espressione della assoluta maggioranza della tribù sionista, ma sia l’insieme dei di­ stinguo della triade politicamente corretta Yehoshua-OzGrossmann. E cosi per far dimenticare i crimini di Gaza, si apre subito una cortina fumogena perché l’attenzione della cosiddetta (ed ormai inesistente) “opinione pubbli­ ca” venga dirottata su alcune sciocche —ma del tutto mar­ ginali ed ininfluenti —dichiarazioni “negazionistiche” di due preti conservatori (Williamson ed Abramovic), basate su discutibili opinioni storiografiche (in ogni caso, da me non condivise) che circolano liberamente da anni in pub­ blicazioni liberamente vendute nelle librerie, e che han­ no già dato luogo a controversie storiografiche notissime (Hillberg, Vidal-Naquet, Faurisson, Thion, eccetera). Il carattere di cortina fumogena per nascondere attraverso la condanna della negazione di crimini commessi in passa­ to la ben più importante ed attuale negazione di crimini commessi oggi nel presente è qualcosa di immensamente più osceno della pubblicazione dei peli del pube femmi­ nile o dei testicoli maschili. La maggioranza degli europei, avendo abbandonato la passione della verità, è ormai spiritualmente morta. Ci sono ovviamente ebrei coraggiosi (cfr. Marcel Liebman,

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Nato ebreo, Sharazad edizioni, 2008), ma essi vengono espulsi dalle loro stesse comunità, come avvenne a suo tempo a Spinoza, con la kafkiana e borgesiana dicitura di “ebrei che odiano sé stessi”. Una piccola parte di europei, sotto la costante minaccia dell’accusa infamante di anti­ semitismo, è ancora in grado di indignarsi, ma lo fa sotto la modalità che a suo tempo Hannah Arendt condannò come “politica della pietà”. Si negano ai palestinesi i loro diritti storici di resistenza, si finge che sia ancora in corso un “processo di pace”, si finge che le cavallette schifose dei coloni non stiano occupando la Cisgiordania fino a satu­ rarla ed a rendere impossibile persino un microstato pale­ stinese bantustan, ed al massimo si ha pietà dei bambini, visti come enti puramente fisici, astorici ed apolitici, e pertanto meritevoli di pietà e di umanità. Per quanto mi riguarda, ho pietà dei bambini e delle vittime innocenti. Ma ho anche ammirazione, condivisio­ ne e solidarietà per i meravigliosi combattenti adulti di Hamas e di Hezbollah.

D ue p o p o l i e u n o sta to

2) Alla frammentazione del mondo arabo —islamico, fa invece riscontro l’unità dell’Occidente a guida americana nel sostegno ad Israele. Il ruolo di Israele nel contesto mediorientale, è quello di potenza locale sostenuta dagli interessi strategici e politici ame­ ricani. Infatti, è proprio grazie all’incondizionato sostegno americano nell’ambito internazionale, che Israele può compiere invasioni con massacri genera­ lizzati di civili, fare probabile uso di arm i chimiche, ignorare sistematicamente le direttive Onu. Lo sta­ tus “speciale” di Israele, sembra quindi configurarsi come quello di uno stato fuori del diritto interna­

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zionale, in quanto non soggetto ad esso. Questo par­ ticolare status israeliano, avrebbe la sua legittim i­ tà sulla base della distinzione planetaria imposta dagli Usa e dai suoi satelliti occidentali, tra stati democratico —liberali e non (alias stati canaglia). Il grado d i democraticità è stabilito in virtù della omo­ logazione di ciascuno stato alle strategie economiche e politiche degli Usa. Quindi, per quanto concerne i palestinesi, pu r avendo avuto luogo elezioni demo­ cratiche, il governo d i Hamas è illegittimo, perché ritenuto da Israele e dall’Occidente “terrorista”. Israele dichiara quindi impossibile la pace perché non riconosce il governo “terrorista” d i Hamas. Ma è evidente che la pace, così come la guerra, non può es­ sere fa tta se non con un nemico. Nell’ottica occiden­ tale la democrazia si tramuta in americanocrazia, legittima in quanto a senso unico, con vincitori pre­ determinati e omologati. Senza amaricanocrazia, non può esserci dunque pace in Medio Oriente. In Occidente tu tti invocano la pace, sul presupposto di una moralistica, asettica, virtuale, pilatesca eqtiidistanza tra Israele e i palestinesi, senza considerare la enorme disparità di forza tra i due contendenti: nella tragedia di Gaza, a i 13 morti israeliani, fa n ­ no riscontro 1.300 palestinesi. Ma non può esservi pace se non con la giustizia, intesa come parità tra le p a rti in causa. Lo slogan demagogico pacifista “due popoli due stati” cela in sé una spudorata menzo­ gna. Uno stato palestinese composto da Cisgiordania e Gaza (il 20% del territorio originariamente riven­ dicato come Palestina), non può costituire la base territoriale per uno stato palestinese materialmente indipendente, perché privo di risorse economiche e naturali sufficienti, perché sovrappopolato, perché stravolto dalle guerre e impoverito dalle deviazioni

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dei corsi d’acqua effettuate dagli israeliani, esposto ad una guerra civile latente a causa del moltiplicar­ si degli insediamenti israeliani negli ultim i anni. Un tale stato palestinese si ridurrebbe a protettora­ to politico israeliano e colonia economica degli stati arabi del golfo. E Gerusalemme? I palestinesi non possono accettare l’espropriazione israeliana su base teologica, garantita dal muro. “Due popoli e due stati” è una illusoria menzogna, al pa ri dell’impro­ babile utopia dello slogan “Due popoli e uno stato” con l’intenazionalizzazione di Gerusalemme. In una vignetta di Altan il personaggio stralunato che ne fa da protagonista dichiara: “Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno”. È esattamente quanto avviene per la menzogna palese dei “due popoli due stati”, resa impossibile dalla colonizzazione della Cisgiordania sfacciatamente proseguita negli ultimi quaranta anni. Hai dunque perfettamente ragione a rimarcare questa sfaccia­ ta menzogna. Del resto, tutti gli esperti, compreso quelli occidentalisti, filoamericani e filoisraeliani lo ammettono apertamente (cfr. Lucio Caracciolo, in “Limes” e recente­ mente in “La Repubblica”, 27-1-09). Come studioso di filosofia, uno dei sintomi della corru­ zione estrema di una cultura è il presentarsi all’aria aperta della manifestazione, oscena e corrotta, della “perdita di interesse verso la verità”. Questa perdita di interesse verso la verità è un sintomo molto peggiore della semplice ne­ gazione della verità. La negazione della verità non è ancora una malattia mortale di una cultura, perché le si può op­ porre la proclamazione motivata e dimostrata della verità stessa. Il cosiddetto “negazionismo”, ad esempio, di cui parlerò diffusamente nella mia prossima risposta, è una patologia grave, ma non mortale, perché le si può opporre una strategia culturale “affermazionista”, del tipo: “Voi

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negate che certi fatti siano mai avvenuti, ma vi sbagliate, perché noi vi dimostreremo con abbondanza di documen­ tazione che invece essi sono avvenuti”. Se allora presuppo­ niamo un interesse verso la verità da entrambe le parti, e la disponibilità ad accettare un convincimento razionale (si tratta della teoria dell’argomentazione di Jurgen Ha­ bermas, ma prima ancora di Socrate), alla fine si dovrebbe addivenire ad un accordo razionale e veridico. Ma non è più questo il caso. L’unico vero “negazionismo” che oggi si avvelena, è la negazione dell’evidenza storica per cui Israele vuole tutta la Palestina, tutti lo san­ no, tutti fingono di non saperlo, e tutti danno il tempo alla tribù sionista assassina di “svuotare” di arabi la loro “Terra Promessa”. Finché accetterà questa sporca menzogna l’Europa, per dirla con Metternich, sarà solo una povera e subalterna “espressione geografica”. Speriamo solo che i probabili costi di questa vergogna non ricadano sui nostri figli e che la divinità nei cieli non pratichi il principio idolatri­ co assiro-babilonese della responsabilità collettiva e salvi invece i “giusti”!

F il o c c id e n t a l is m o e sen so d i co lpa e u r o p e o

3) L’Europa, con i suoi stati membri, non ha una stra­ tegia, un progetto, un ruolo autonomo nel medioriente. La UE è un organismo economico sovranazionale, che come tale, si sovrappone alla politica degli stati orientando i propri interessi nell’ambito dell’Occi­ dente angloamericano. Il filoccidentalismo diffuso tra i popoli europei, si salda con l’isalmofobia sca­ turita dai problemi dell’immigrazione e dalla cri­ minalizzazione dei media dell’Islam fomentatore di terrorismo. Ma la causa palestinese non coinci-

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de, anzi spesso prescinde dalle problematiche dell’I­ slam. A l filoccidentalismo f a riscontro un generico pacifismo che comunque si riconosce nel modello di società occidentale. Il filoccidentalismo europeo por­ ta ad identificare la propria scelta di campo con la causa d’Israele, considerata un elemento della stessa area geopolitica europea. Non manca chi la vorrebbe membro della Ue. Ma tale assimilazione scaturisce dall’assorbimento da parte degli europei di presunti valori occidentali imposti dal dominio Usa sull’Eu­ ropa, quali il senso di colpa ormai radicato negli eu­ ropei, che hanno sedimentato la criminalizzazione della propria storia, quali responsabili delle perse­ cuzioni religiose prim a e dell’Olocausto poi. Non è un caso che venga riesumato ad hoc in questo periodo il fantasm a dell’antisemitismo europeo mediante la condanna apodittica del negazionismo. 1 fantasm i orrorifici del passato europeo vengono rivitalizzati dai media allo scopo di creare una legittim ità mora­ le israeliana per l’invasione di Gaza e comunque per rendere gli europei succubi dei propri sensi d i colpa collettivi, che possono essere rimossi solo mediante la sottomissione morale e politica all’Occidente ame­ ricano e sionista. Perfino la Chiesa Cattolica, per bocca del portavoce vaticano Mons. Lombardi, subor­ dina la fede cristiana al riconoscimento del primato del senso di colpa per le responsabilità europee circa l’Olocausto. Non si tratta oggi nemmeno di auspi­ care un’Europa filoaraba, in virtù della difesa dei propri interessi economici legati al petrolio. I Paesi esportatori della penisola arabica sono filoccidentali e le fon ti di approvvigionamento del greggio sono molteplici nel mondo. La politica non può ridursi ad una somma d i interessi. Quello dell’Europa, per es­ sere politicamente rilevante, deve essere un ruolo di

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natura etica, prim a che politica, in quanto l’Europa deve costituire il punto di riferimento di un model­ lo culturale, sociale e politico che può avere la sua rilevanza nella geopolitica mediorientale, suscetti­ bile d i creare alleanze politiche e capace d i comporre interessi divergenti. Ma chi non ha un modello cul­ turale prim a che politico da esportare, è giusto che subisca l’imposizione di sistemi politici estranei, con i relativi sensi di colpa originari. Ricordo perfettamente la cosiddetta Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967, quando i sionisti occuparono l’intera Cisgiordania e le colline siriane del Golan. Ave­ vo solo 24 anni, e nonostante mi dichiarassi un seguace di Marx e di Lenin facevo parte di quella “sinistra” eurocentrica, occidentalistica e razzista di cui parla Edward Said nel suo capolavoro Orientalismo. Le mie fonti erano film come Exodus e Lawrence d’Arabia, e nutrivo l’idea colonialista e demenziale che i kibbntz fossero “comunisti” mentre gli arabi fossero religiosi, feudali ed arretrati. Già allora, per fortuna, nutrivo già il sospetto, poi divenuto progressivamente certezza inoppugnabile, che il sionismo fosse uno sporco fenomeno coloniale, ma lo giustificavo in nome dell’espiazione del genocidio ebraico. A poco a poco, cominciai ovviamente a capire che non si può fare “espiare” il genocidio ebraico fatto da europei al popolo palestinese, totalmente e pienamente innocente di que­ sto genocidio. La comprensione di questo dato elemen­ tare, accessibile ad un bambino di prima elementare (ma tutte le cose importanti sono anche sempre elementari, alla faccia dell’alibi pomposo-universitario della cosiddet­ ta “complessità”), mi ha permesso di capire il cuore della malattia culturale europea, e cioè la rimozione e l’ipocri­ sia, per cui il complesso di colpa per avere “permesso H it­ ler” (e chi lo ha permesso? Non io, certamente, essendo

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nato nel 1943. Il principio della responsabilità collettiva è un principio bestiale assiro-babilonese, estraneo alla razio­ nalità greca ed al concetto di anima individuale e di perso­ na, cui io cerco di ispirarmi), che viene scaricato su di un “capro espiatorio”, e cioè sull’innocente popolo palestine­ se. Dopo aver capito questo, la mia intera vita spirituale è cambiata, e non mi ha più interessato nulla il giudizio del politicamente corretto, l’anonimità, la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco (per dirla con le categorie del primo Heidegger). Ho capito da allora che la piccola Palestina, occupata da una feroce tribù razzista in nome del senso di colpa europeo, era un simbolo di una più generale in­ giustizia globale diffusa nel mondo. E con questo, fine di ogni riferimento autobiografico. Eppure, nel 1967 nessuno ancora osava dire che la cri­ tica al sionismo era una forma di antisemitismo masche­ rato ed addirittura una concessione al cosiddetto “negazionismo” storiografico. L’impazzimento culturale non era ancora giunto a questo punto, credo a causa dell’influenza geopolitica equilibratrice del benemerito e mai abbastan­ za rimpianto fenomeno politico-militare del comuniSmo storico novecentesco realmente esistito, al netto delle le­ gittime critiche sulla sua natura dispotica. Il mondo non era ancora impazzito nella autoreferenzialità occidenta­ listica imperiale politicamente corretta. Non era ancora stato costituito il Ministero della Verità. Non era ancora stata edificata la Religione Olocaustica della Unicità As­ soluta di Auschwitz. Si poteva ancora dire che Auschwitz era bensì stato schifoso ed imperdonabile, ma altrettanto schifosi e imperdonabili erano stati Hiroshima e Dresda (vedi in proposito Nicholson Baker, Cenere di Uomo, Bom­ piani, Milano 2008). Si poteva ancora discutere della na­ tura dei genocidi novecenteschi senza l’obbligo di aderire all’immagine del novecento come secolo delle ideologie assassine e delle utopie totalitarie, ignorando che il nove-

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cento fu anche e soprattutto un secolo in cui l’azione poli­ tica collettiva cercò di imporsi sul dominio dell’economia incontrollata (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Mi­ lano 2006). Non esisteva ancora un clero levitico sionista che cercasse di smantellare le identità cristiane e marxista per sostituirle con un complesso di colpa eterno per l’in­ terminabile elaborazione del lutto dell’Unico Genocidio del Novecento, nell’ottica che a suo tempo Domenico Lo­ surdo ha connotato come “giudeocentrismo”, pagando ov­ viamente questa pacata opinione storiografica con l’accusa infamante di antisemitismo. Tipico delle religioni e delle teologie è appunto quello di impedire una discussione ra­ zionale sui loro fondamenti. Apro una parentesi. Per ragioni culturali e familiari sto finalmente studiando i dettagli del genocidio armeno. Non leggo il turco e l’armeno, e quindi sono costretto a esaminare soltanto testi in italiano ed in lingue occiden­ tali. Per ora sto schedando tre testi principali. Il saggio di Vahakn N. Dadrian (Guerini e Associati), che sostiene ovviamente la tesi del genocidio con ricchissima docu­ mentazione bibliografica anche in turco ed in armeno, tesi che io condivido, anche se non con tutti i suoi giudizi (ad esempio, non credo che i Giovani Turchi siano entrati in guerra nel 1914 con il fine di poter sterminare le mino­ ranze —lo hanno fatto perché la Germania si era impegna­ ta a tutelarne l’integrità territoriale, mentre Inghilterra, Francia e Russia volevano distruggerlo e disintegrarlo). Il saggio di Marcello Flores (il Mulino), che sostiene pa­ rimenti l’esistenza di un genocidio armeno, pure in pre­ senza di dilettanteschi errori, come quello di attribuire (p. 23) allo Zar russo Nicola I (morto nel 1855) la guerra russo-turca del 1878. Potenza dell’evocazione delle anime dei defunti, cui evidentemente la nuova storiografia ita­ liana è dipendente (si tratta di una nuova fonte). Infine, il saggio di Guenter Lewy (Einaudi), che sostiene che un

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vero e proprio genocidio armeno non ci fu, ma ci fu sol­ tanto una serie di massacri. Come si vede, Dadrian e Flo­ res sostengono la tesi del genocidio, e Lewy sostiene la tesi ufficiale dello stato turco kemalista e post-kemalista, per cui non ci fu genocidio ma solo una serie di deplorevoli massacri. Personalmente mi permetto di esprimere i miei convincimenti in due punti. Primo, ritengo che Dadrian e Flores abbiano ragione, e Lewy torto, e che gli armeni abbiano subito un genocidio esattamente come gli ebrei, che peraltro lo hanno subito anche loro, ma non hanno diritto a chiederne l’esclusiva o l’eccezionaiità, che non è una tesi storiografica, ma semplicemente una tesi teolo­ gica di tipo olocaustico. Secondo, ritengo che l’occidente e particolarmente gli USA, che hanno le mani sporche di sangue, non abbiano alcun diritto morale di imporre alla Turchia una cerimonia di espiazione selettiva. La faccia l’occidente per Hiroshima 1945 e per Gaza 2009, e poi se ne potrà parlare. Perché ho aperto questa parentesi? Ma perché il caso armeno dimostra che di un insieme di eventi controversi si può e si deve poter parlare liberamente, anche se si trat­ ta di temi “caldi”. Dadrian e Flores dicono che c’è stato il genocidio (anche se Flores si occupa di storia armena senza sapere l’armeno e il turco, e mi sembra una follia del dilettantismo accademico), Lewy dice che non c’è stato. Io penso che ci sia stato, ma ciò che conta è che se ne possa parlare liberamente. Questo non è consentito per il genocidio ebraico. Ora, io non ho alcun titolo per parlarne, perché ho soltanto let­ to i libri di altri, e non ho fatto nessuna ricerca in proprio. In vita mia non sono mai entrato in nessun archivio sto­ rico, non ho nessuna intenzione di farlo, e non ho nessun complesso di colpa per non averlo fatto. L’arte è lunga, la vita è breve, e l’arte che pratico non comporta la fre­ quentazione di archivi storici. La sola cosa che pretendo,

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da dilettante e libero lettore, è di poter farmi un libero convincimento in un clima tranquillo e non avvelenato da anatemi e da minacce penali. Chiedo troppo? Non credo. Passiamo al genocidio ebraico. Sulla base delle correnti definizioni storiche di genocidio (cfr. Wikipedia, eccete­ ra), la mia opinione è che un genocidio ebraico ci sia stato, ed è sicuro che c’è stato, all’interno di una politica “sterminazionistica” che riguardava peraltro anche altri gruppi etnici e religiosi (zingari, slavi, eccetera). Devo ammettere che, avendo una mentalità filosofica e non storica, i detta­ gli m ’interessano poco, mentre m ’interessa di più capire chi aveva ragione e chi aveva torto sul piano della “verità universale”. Ora, a mio avviso, Hitler aveva indiscutibil­ mente torto, ha commesso crimini (peraltro paragonabili ai crimini degli alleati vincitori) ed intendeva anche per­ seguire un genocidio degli ebrei (e di altri). So bene che esiste un dibattito storiografico fra negazionisti ed “affermazionisti”, che riguarda cose come il numero delle vitti­ me, l’esistenza o meno di camere a gas usate direttamente per uccidere inabili al lavoro e malati, l’esistenza o meno di ordini scritti o soltanto indiretti ed orali, la natura ter­ ritoriale oppure apertamente sterministica della soluzione finale, eccetera. Bene, ho il diritto, e lo rivendico, di assu­ mere un atteggiamento simile a quello che assumo rispetto al genocidio armeno, e cioè di farmene una libera opinione indipendente, senza essere minacciato di esclusione dal consorzio umano da parte di un orwelliano Ministero del­ la Verità, o meglio dell’unica verità consentita dalla triade manipolatrice del ceto politico, del circo mediatico e del clero universitario degli storiografi di corte. Ho anche il diritto di non occuparmene, se liberamente decido di non occuparmene. Il mio giudizio su Hitler, il nazionalsocia­ lismo, il razzismo, l’antisemitismo, il giudeocentrismo, la giudeofilia e la giudeofobia (due aspetti inscindibili della stessa realtà), me lo sono già fatto da tempo, e non dipende

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da Thion o da Garaudy, da una parte o da Vidal Naquet o da Hillberg, dall’altra. Praticando una filosofìa universali­ stica ed umanistica, ed essendone fiero, per me il problema della persecuzione collettiva di razze (presunte), popoli, nazioni, religioni, eccetera, non si pone assolutamente ed è per me una impossibilità morale, logica e filosofica. Passiamo invece alla nuova Religione Olocaustica, che invece mi sembra non un’opinione soggettiva, ma un dato storico fattuale, del tutto indipendente (lo ripeto, indi­ pendente) dalla fattualità storica del genocidio ebraico e delle sue modalità qualitative e quantitative. Nello stesso modo, il giudizio sulla Santa Inquisizione deve essere dato prescindendo completamente dalla predicazione o dalla natura divina e lo umana di Gesù di Nazareth. In proposi­ to, distinguere è la precondizione del capire. La religione olocaustica, con riti, processioni, memoria selettiva e privilegiata, è un dato relativamente recente, inesistente fra il 1945 e il 1980 circa. Deve quindi esse­ re studiata come una ideologia di legittimazione. Essa, in breve, adempie a due funzioni. Primo, legittima in­ direttamente i crimini del razzismo territoriale sionista. Secondo, legittima la colpevolizzazione eterna della Ger­ mania, giustificando così indirettamente la permanenza ad infìntimi di basi militari USA in Europa, e rendendo culturalmente impossibile qualunque asse geopolitico Parigi-Berlino-Mosca (de Grossouvre), unico modo concreto di infrangere il monopolio militare americano nel mondo. In terzo luogo, la religione olocaustica, pura e semplice religione civile dell’elaborazione di un complesso di colpa inestinguibile, è una religione soft e tight per senzadio, ed insieme alla moda innocua del Dalai Lama può sostituire le vecchie e fastidiose religioni normative dei comporta­ menti morali e comunitari (Ratzinger, eccetera). Come ha chiarito molto bene l’antinegazionista VidalNaquet, la trasformazione della religione olocaustica in

l'io

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Ortodossia provoca necessariamente la formazione di una Eresia, e cioè il negazionismo. I negazionisti sanno bene che la loro sorte è quella di essere messi al bando dal gene­ re umano come i lebbrosi, ma è statisticamente sicuro che c’è sempre una piccola parte della popolazione disposta a pagare i prezzi dell’eresia (e parlo prescindendo del tutto dal contenzioso storiografico). Termino citando la coraggiosa giornalista israeliana Amira Hass (cfr. “Internazionale”, n. 582, marzo 2005): “Non ho guardato alla televisione la cerimonia per l’inau­ gurazione del nuovo museo dell’Olocausto a Gerusalem­ me. .. non volevo vedere il modo in cui lo stato di Israele ha sfruttato la storia della mia famiglia e del mio popolo per una campagna di pubbliche relazioni... la morte di sei mi­ lioni di ebrei è la più grande risorsa diplomatica di Israele”. Non si poteva dire meglio. Se Amira Hass è antisemi­ ta, anche io lo sono. Ma non credo proprio che né Amira Hass né chi scrive lo siano. Lasciamo che lo urlino la cami­ ciaia nazista Yaffa e la signora Fiamma Nirenstein.

D e c a d e n z a a m e r ic a n a e c o n f l it t u a l it à l a t e n t i in M e d io r ie n t e

4) L’America vive nell’idillio mediatico della parola profetica di Obama. l i uomo che con la sua parola, in pochi giorni è stato identificato nella speranza mes­ sianica globalizzata. Obama in realtà ha abbozzato ipotesi di dialogo con l’Islam, ipotizzato la fine della unilateralità americana (chiusura d i Guantanamo, ritiro dall’Iraq), auspicando maggiore coinvol­ gimento dell’Europa nelle strategie americane, sen­ za tuttavia promettere chiaramente m ultilateralità nelle decisioni in campo geopolitico. Sul Medioriente invece, al di là di generici proclami pacifisti, non

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ha esposto una strategia politica per la soluzione del conflitto israelo - palestinese. Che Israele abbia compiuto l’invasione d i Gaza approfittando del tem­ poraneo vuoto dì potere dovuto alla fine della presi­ denza Bush, è un fatto. E quindi assai problematico per Obarna imporre una qualunque strategia per una pace durevole in Medioriente, alla luce di un evidente stato di fatto di supremazia assoluta israe­ liana nell’area, con Hamas in stato di avanzata de­ composizione ed i palestinesi d i Abu Mazen ridotti ad una cronica impotenza. La crisi epocale dell’eco­ nomia americana fa presagire una riduzione degli impegni politici e m ilitari americani nel mondo a causa dell’impossibilità economica a sostenerli, data la mancanza di risorse sufficienti. Israele dipende economicamente e militarmente dal sostegno ameri­ cano e pertanto è ipotizzabile che essa abbia operato questa aggressione armata allo scopo d i distruggere Hamas ed imporre tino stato di predominio militare nell’area mediorientale, dato che le garanzie di so­ stegno americano negli anni fu tu ri potrebbero subi­ re riduzioni rilevanti. Inoltre, la riduzione all’im ­ potenza, oltre che all’isolamento internazionale dei palestinesi, potrebbe indurre Israele ad accrescere il proprio ruolo di potenza mediorientale e quindi pregiudicare, col pretesto della sicurezza dello stato ebraico, qualunque tentativo di dialogo degli Usa verso l’Iran, determinando nuove aperte conflittua­ lità, peraltro già latenti, nell’area. Dal momento che mi sono già analiticamente dilunga­ to in alcune risposte precedenti, mi permetterai di essere breve e telegrafico a proposito di Obama, da non confon­ dere per carità con la “obamamania” europea, profilo ide­ ologico per sudditi proconsolati subalterni.

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In primo luogo, la successione di Obama a Bush ha certamente una (piccola) importanza storica all’interno degli USA inteso come stato-nazione sovrano, in quan­ to certamente il gruppo dirigente raccoltosi intorno ad Obama rappresenta interessi diversi da quelli dei gruppi raccoltisi intorno a Bush, come già avvenne nell’impero romano per Mario e Siila e Cesare e Pompeo, e nell’impero vittoriano inglese fra Gladstone e Disraeli. In secondo luogo, per quanto riguarda gli USA non come stato-nazione ma come potenza imperiale non può cambiare molto, perché gli interessi imperiali sono strut­ turali, geopolitici e di lungo periodo. Non a caso la clas­ se oligarchica americana, che resta la stessa di prima, ha affiancato ad Obama rappresentanti fidati della strategia imperiale (dal vicepresidente Biden a Hillary Clinton, imperialista riconosciuta e sionista estremista). In terzo luogo, per quanto riguarda Israele, non può cambiare molto, perché bisogna capire che per quanto ri­ guarda il Medio Oriente il sionismo è completamente so­ vrano, e non dipende dagli USA. Sulla Palestina, per dirla in modo chiaro, Israele è il cane e gli USA la coda, e non viceversa come credono gli sciocchi, che pensano che gli USA siano il cane ed Israele la coda. Su questo l’economi­ cismo petrolifero della sinistra comunista è stato sempre l’equivalente del modello geocentrico in astronomia. Se vogliamo finalmente diventare copernicani, bisogna capi­ re che per la Palestina gli USA sono la coda ed Israele è il cane, e non viceversa. In quarto luogo, per finire, la cosiddetta “obamamania” (mi si scusi per la faticosa espressione) non è una cosa seria, ma è solo l’ennesimo episodio di illusione subal­ terna del multilateralismo diplomatico (del tutto inesi­ stente ed impossibile in una logica imperiale, necessaria­ mente unilaterale). Gli straccioni subalterni alla Veltroni si muovono all’interno della logica della sottomissione,

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auspicando che ad un Imperatore Bianco Cattivo succe­ da uno Imperatore Negro Buono, cosi come i miserabi­ li graecult dell’impero romano speravano che a Caligola e Nerone potesse succedere un imperatore “illuminato” tipo Vespasiano o Traiano. Costoro non meritano che di­ sprezzo storico e politico.

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La crisi dell’individualismo occidentale e l’immagine dello spirito del tempo

U n a r e s t a u r a z io n e l ib er ista in c o m p iu t a

1) L’Occidente si dibatte in una crisi in cui, nonostan­ te le periodiche fluttuazioni al ribasso dei mercati finanziari e i d ati negativi sempre p iù allarm anti dell’economia reale in tema di produzione e occupa­ zione, continua a confidare nella sussistenza e nel­ la ripresa del sistema economico liberista, sia pure nelle sue più diversificate interpretazioni. Anche se ovunque si è reso necessario l’intervento degli stati nell’economia, allo scopo di scongiurare fallim enti d i banche e grandi imprese, agli stati è attribu i­ to il solo ruolo d i debitore in ultim a istanza, senza che essi possano efficacemente assumere le funzioni di controllo ed intervento, di programmazione eco­ nomica e di redistribuzione sociale della ricchezza. Proprio perché lo stato vive relegato alla funzione di mero supporto all’economia di mercato, le strategie anticrisi si rivelano inefficaci. Si vuole in sostanza utilizzare la mano pubblica al fine di ripristina­ re quell’ordine economico basato sul libero mercato globale, responsabile della crisi mondiale, in quan­ to creatore di liquidità illim itata virtuale, debito ed insolvenza generalizzata, economia produttiva subordinata agli squilibri dei mercati finanziari. La contraddizione della crisi dell’economia liberi­ sta, consiste dunque nel riproporre in tal modo la restaurazione impossibile di un sistema senza regole né lim iti, che non tollera controlli esterni, ma che, proprio perché sprovvisto di meccanismi di equili­ brio interni, deve essere supportato dagli stati, la

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cui azione in economia viene percepita dagli inve­ stitori con diffidenza e sfiducia, quale indebita in­ terferenza. Il modello liberista globale si dibatte in una crisi insanabile, perché fondato sul debito, sidla precarietà e su consumi illim itati, quando, invece, un’economia in recessione richiede stabilità, pro­ grammazione, investim enti pubblici a lungo perio­ do. Il liberismo si è rivelato incapace a d affrontare i m ali del nostro tempo da esso stesso generati. Le soluzioni sono note a tu tti e le strategie anticrisi non possono essere che d i carattere politico —istituziona­ le. Forse la parabola liberista contemporanea finirà perché non riuscirà a portare a compimento la pro­ pria restaurazione ottocentesca e progressista. Ammetto apertamente di non avere le idee molto chia­ re sulla natura storica profonda di questa crisi del capita­ lismo. Che essa ci sia, e sia grave, ed abbia già fatto cadere le oscene apologie del mercato liberista, è chiaro a tutti, e non c’è bisogno che sprechi carta per ripetere argomenti critici già largamente noti. Da quanto mi sembra di capi­ re, questa crisi è grande abbastanza per far male a milioni di persone, ma è ancora troppo piccola e “controllabile” dalle cupole oligarchico-fìnanziarie per comportare una vera sconfìtta strategica dell’attuale “capitalismo assolu­ to” (l’espressione, a mio avviso corretta, è di M. Badiale - M. Bontempelli, La Sinistra Rivelata, Massari, Bolsena 2007). In ogni caso, mancano le forze soggettive, politi­ che e culturali, per aprire un nuovo ciclo storico. Lasciamo il “pensare positivo” a Jovanotti e Berlusconi. Sempre secondo Badiale e Bontempelli (op. cit., pp 243-250), la svolta che ha portato al ciclo neoliberista as­ soluto non ha atteso la caduta ingloriosa e grottesca del comuniSmo storico novecentesco veramente esistito (1989 —1991), ma è iniziata sotto Jimmy Carter nel 1979 con

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la stretta monetaria di Paul Volcker. Secondo il noto com­ mentatore Paul Krugman, la grande recessione economi­ ca occidentale del 1980 —82 non è stata l’involontaria e spiacevole conseguenza della lotta all’inflazione, ma è sta­ ta una recessione intenzionalmente provocata come tale, e la manovra monetaria del 1979 è stata voluta, prima an­ cora che per combattere l’inflazione, perché si producesse disoccupazione attraverso la recessione. Non sono sicuro che sia andata così. Da qualche parte ho letto che il giro di boa verso il basso del potere d’acqui­ sto del salario reale dell’operaio specializzato americano è stato il 1973, non il 1979- In ogni caso, se questo è vero, siamo di fronte da almeno quaranta anni ad un nuovo ciclo dell’accumulazione capitalistica “mondiale”, che fa diventare i cosiddetti trenta anni gloriosi “1945 —1975” non certo uno stadio dell’evoluzione pacifica progressiva dal capitalismo al socialismo (come ha pontificato per decenni il gruppo subalterno ed ignorante dei cosiddetti “economisti di sinistra”), ma un normale momento cicli­ co della ricostruzione dopo la grande crisi del 1929 e le distruzioni della seconda guerra mondiale (1939 —1945), che ricordo non è mai esistita come guerra unitaria ma ne ha sempre contenuto tre distinte (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale, Il Veltro, Parma 2008). Questo ciclo economico neoliberista, il primo vero e proprio ciclo del capitalismo assoluto, postborghese e post­ proletario, il primo ciclo interamente postfascista e post­ comunista, non ha ancora trovato a mio avviso uno storico che lo abbia saputo inquadrare con categorie di lungo pe­ riodo. La casta degli economisti non va al di là delle si­ mulazioni econometriche, e la casta dei contemporaneisti è troppo occupata a rinfocolare l’antifascismo in assenza completa di fascismo. Dal momento che, per manifesta in­ competenza specialistica, non posso certamente farlo io, mi limiterò a segnalare due fattori materiali probabili.

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In primo luogo, non ho ovviamente mai creduto, nep­ pure per un momento, che esistesse una cosa chiamata “glo­ balizzazione”, ed ho sempre pensato che si trattasse di un ordine (globalizzatevi, o la pagherete cara!) nascosto sotto una presunta descrizione (la globalizzazione è un fatto, e chi la nega è matto!), per cui bisognava semmai scoprire dove stavano le “cupole criminali” che mandavano questo mes­ saggio. In termini paleomarxisti, erano sicuramente fra­ zioni del capitale finanziario in lotta contro le tradizionali frazioni del capitale produttivo industriale, maggiormente legate alla sovranità monetaria dei vecchi stati nazionali e quindi maggiormente interessate a salvaguardare keynesianamente il potere d’acquisto delle classi salariate. Non sono però sicuro che questa interpretazione sia corretta. Certo, l’allargamento del mercato mondiale e la formazione di nuove classi medie nel Fu-Terzo-Mondo ha giocato un suo ruolo. Sul piano ideologico (David Harvey), questo ha comportato uno spostamento dell’ideologia dominante dal tempo illuministico del progresso allo spazio postmoderno della globalizzazione (viaggi facili ed a buon prezzo, inglese turistico come nuova koinè mondiale, invasività televisiva, guerra di civiltà fra spazi geografici, NATO come mercenariato mondiale senza confini, eccetera). In secondo luogo, l’ultimo ventennio neoliberista (1989 - 2009) è stato anche una sorta di grande ed oscena orgia bacchica di festeggiamento per la caduta del baraccone tar­ lato del comuniSmo storico novecentesco, che d’accordo con Jameson definirei un grande esperimento di ingegneria so­ ciale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta, cupola geodesica generalmente definita “totalitarismo” nel pensiero politico occidentale apologetico del capitalismo. Questa orgia bacchica è durata ventanni, ed il 2008 può esserne definito come il risveglio del giorno dopo, con il mal di testa e la bocca impastata dell’alcoolista. In termini letterari, il Capitalismo Assoluto Neoliberale può essere de-

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finito in termini di Grande Alcoolista Anonimo. Per criticare il delirio neoliberale non c’è neppure bi­ sogno di essere marxisti, anzi è meglio non esserlo, date le tendenze riduzionistiche ed economistiche del marxismo tradizionale, positivista in filosofia e ricardiano in econo­ mia. Prendiamo Benedetto Croce (cfr. litica e Politica, Later­ za, Bari 1921, ristampato 1981, pp. 263-7). Croce critica il liberismo economico, “cui è stato conferito il valore di leg­ ge sociale, convertendolo in illegittima teoria etica, in una morale edonistica ed utilitaria, la quale assume a criterio di bene la massima soddisfazione dei desideri in quanto tali, che è poi di necessità, sotto questa espressione di apparenza quantitativa, la soddisfazione del libido individuale o di quello della società intesa in quanto accolta e media di in­ dividui". Da cui —continua Croce —“l’utilitarismo si sforzò d’idealizzarsi in una generale armonia cosmica, quale legge della Natura e della divina Provvidenza”. Infine —conclude Croce - “nell’indebito innalzamento del principio econo­ mico liberistico a legge sociale è la ragione onde è parso che quel principio stesso dovesse essere negato”. Bravo, don Benedetto! Non si poteva dire meglio, in un buon italiano aulico, anche se un po’ vecchiotto! Ed infatti è veramente così. Nei termini dello studioso francese Pierre Rosanvallon, si tratta di un “capitalismo utopico”, e cioè di un capitalismo che non è mai esistito e che non può esistere se non nel mondo leibniziano delle (inesistenti) “armonie prestabilite”, utopico almeno quanto è utopica l’utopia marxiana capovolta e simmetrica, quella dell’estinzione dello stato nel comuniSmo. A differenza di come ha soste­ nuto il pur benemerito Karl Polanyi, anche il capitalismo, giunto allo stato di eccezione (Schmitt), è un’economia in qualche modo incorporata (embedded) nel sistema politi­ co, tanto è vero che le oligarchie oggi in crisi ricorrono allo stato e ai poteri pubblici per poter “raddrizzare” quanto hanno distorto nel ventennio precedente.

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Non si tratta quindi di un ritorno al capitalismo dell’ottocento. Il capitalismo, infatti, non ritorna mai indietro. Nello stesso tempo, segue sviluppi ciclici che necessariamente “ricordano” momenti precedenti. La dif­ ferenza, così come il diavolo, sta sempre nel dettaglio. E si tratta di trovarlo. Purtroppo, la corporazione degli econo­ misti non potrà aiutarci.

S t r a t e g ie “ m o n d ia l i ” e “ g l o b a l i ” a c o n f r o n t o

2) Tra Europa e USA esistono divergenze circa le strate­ gie con cui affrontare la crisi globale. L’Europa vuo­ le attuare, mediante il ricorso alla spesa pubblica, programmi d i investim enti che possano favorire la ripresa economica, allo scopo d i scongiurare il ripro­ dursi dell’indebitamento bancario, quale prim o re­ sponsabile della crisi in atto. Tale strategia compor­ terà l’incremento dell’indebitamento pubblico e po­ tenziale inflazione, oltre alle incertezze congenite di una ripresa per il momento solo ipotetica. G li USA, a l contrario, vogliono ricorrere all’indebitamento pubblico al fine di rifinanziare un sistema banca­ rio ormai privo d i risorse per erogare nuovi presti­ ti e quindi riattivare il mercato dei capitali, dalla cui azione dovrebbe scaturire la ripresa economica. Ciò comporterebbe senza dubbio la riattivazione di meccanismi finanziari basati sul debito, con tutte le incognite ed incertezze del caso. Il dissenso circa le strategie anticrisi tra Europa ed USA, riflette la d i­ versità d i cultura e d i modello d i sviluppo economico da sempre esistente tra le due sponde dell’A tlan ti­ co, neppure smentite dai processi d i omologazione globale in atto. Ma tali diversità non conducono a contrapposizioni politiche rilevanti, poiché l’Europa

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non ha mai smentito la convinzione diffusa secondo cui la ripresa della UE non possa avvenire se non a seguito di quella americana. Quest’ultima, infatti, dovrebbe avere un effetto trainante per l’economia europea. La ripresa dei consumi americani e la cre­ scita della domanda interna, dovrebbe cioè dare im ­ pulso alle esportazioni europee, esonerando quindi l’Europa dagli oneri di gravosi indebitam enti pu b­ blici a tti a favorire la crescita della propria doman­ da interna. Se poi gli USA ricorressero a spregiu­ dicate manovre di svalutazione del dollaro a danno dell’Europa, essa potrebbe solo compiangere sé stes­ sa e la propria subalternità. Pressoché immutate restano le posizioni europee nel campo geopolitico, quale la sua appartenenza all’area occidentale, alla Nato (estesa ora anche a Croazia ed Albania), la sua partecipazione (anche se lim itata), alle guerre americane, al mercato globale. Infatti, l’istituzione di autorità di controllo sui mercati finanziari, tanto invocata dalla UE, presupporrebbe il controllo de­ gli stati sull’economia, forme d i protezionismo ido­ nee alla difesa degli interessi nazionali, restrizioni e regole di selezione rigide per i prodotti finanziari quotati in borsa. Occorrerebbe, per dirla con Dah­ rendorf affrontare la crisi con strategie “mondiali” e non “globali”. Lo stesso recente G20, ha reso evi­ dente che gli equilibri mondiali fu tu rib ili si fon­ deranno su un probabile G2 tra Cina e USA, data la stretta interdipendenza delle loro economie. Tali nuovi scenari comporterebbero la marginalizzazione dell’Europa nel contesto geopolitico mondiale. L’Eu­ ropa sconta la sua mancanza di strategia politica unitaria ed autonoma, quale incapacità sua conge­ nita a costruire un modello d i sviluppo che in campo economico e sociale non sia omologato agli USA.

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Gira, gira, torniamo sempre alla nostra patetica, inin­ fluente ed impotente Eurolandia, per usare il termine del­ lo storico Franco Cardini. L’impotenza manifesta di Eu­ rolandia è ormai diventata una sindrome depressiva della parte meno corrotta degli europei, che però non sanno praticamente che cosa fare. Come hai notato, l’idea che la ripresa economica europea possa avvenire soltanto se “trainata” da quella USA è già un terrificante indice di subalternità interiorizzata. Se dobbiamo aspettare il “trai­ no”, significa che il nostro motore è già fuso! La rivista geopolitica “Limes” rappresenta il punto di vista di quella parte dell’oligarchia finanziaria europea che non vuole in nessun modo sganciarsi dall’Occidente a Guida Americana (OGA), un OGA che da tempo ha sostituito l’ONU come garante del diritto internazionale fra stati, ma che vorrebbe una maggiore condivisione delle decisio­ ni strategiche, e pertanto saluta Obama come un possibile salvatore dopo la doppia presidenza del neo-conservatore ideologizzato Bush (neo-con, nel significato francese del termine). Ma questo non può che restare un pio desiderio (o meglio, una consapevole menzogna per gli imbecilli), in quanto un impero non negozia mai per principio i suoi fini strategici di potenza globale, ma al massimo negozia passaggi tattici secondari. Dal punto di vista di “Limes” potremo perciò chiedere: ci prendono in giro, oppure sono talmente illusi da prendere in giro sé stessi? La rivista geopolitica “Eurasia”, cui mi onoro di col­ laborare, è molto migliore (anche se ovviamente virtuo­ samente silenziata dal politicamente corretto), in quanto almeno è estranea all’occidentalismo, e pone correttamen­ te il problema geopolitico dell’asse eurasiatico EuropaRussia-Cina come solo fattore geopolitico di riequilibrio strategico all’impero americano ed all’OGA. Dio la bene­ dica! E proprio cosi! E tuttavia, Sarkozy rema contro, la Merkel rema contro, Putin è incerto e condizionato dall’o-

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ligarchia criminale russa, ed anche la Cina non sembra disponibile. In quanto all’India, sia gli USA che l’OGA la ricattano con il Pakistan e con il terrorismo. Per ora, non c’è molto da sperare. Peccato! Ma l’idea è buona, e conviene coltivarla per tempi migliori. Non credo ad un asse USA-Cina per controllare l’eco­ nomia mondiale. La Cina sta saggiamente sviluppando il mercato interno, ed io interpreto così la recente notizia del programma statale cinese per una riforma sanitaria gratuita erga omnes (“La Stampa”, 8.4.2009). La coppia USA-OGA la sta punzecchiando (Tibet, Dalai Lama, giunta militare nazionalista del Myanmar, comuniSmo gerarchico confu­ ciano della Corea del Nord eccetera), ma per fortuna sua e degli equilibri mondiali la Cina sembra resistere. In questa congiuntura storica (in un futuro, anche vi­ cino, chissà!) la nostra povera Eurolandia non ha speranze. Il fatto che le sue oligarchie sostengano che bisogna aspet­ tare il traino della ripresa americana mi fa pensare che si­ ano talmente intrecciate finanziariamente con gli USA da non poter perseguire una politica indipendente neppure se lo volessero. Ma può darsi che mi sbagli, ed allora vorrei essere corretto per saperne di più. Il mercenariato milita­ re NATO è diventato un mercenariato globale al servizio della geopolitica di potenza USA, ed il pretesto del “ter­ rorismo” appare ormai soltanto un articolo ideologico di esportazione per idioti volontari consenzienti, e non fa più parte della storia politica contemporanea, ma della storia culturale e sessuale del Masochismo. Il personale mediatico insediato al vertice dei mezzi di comunicazione di mas­ sa (Mieli, Riotta, Rossella, eccetera) è composto da veri e propri agenti prezzolati della coppia USA-OGA, e questo personale è in grado di bloccare qualsiasi anche piccolo vagito di opposizione culturale. Il codice culturale politi­ camente corretto, gestito dalla casta corrotta e ben pagata dei cosiddetti “intellettuali”, è ormai totalmente allineato

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al binomio USA-OGA, e soltanto uno sciocco può pen­ sare che sia “pluralistico”, laddove è ferreamente unitario nella sua espressività politica (novecento come secolo delle utopie totalitarie e delle ideologie assassine, missione oc­ cidentalistica per la liberazione di tutte le donne del mon­ do dai velo islamico, antifascismo in assenza completa di fascismo, religione olocaustica dell’unicità eccezionale di Auschwitz, teologia dell’interventismo umanitario, eccetera). Il codice OGA è stato leggermente indebolito dall’attuale crisi catastrofica del modello neoliberale, ma purtroppo è stato indebolito troppo poco. La debolezza di Eurolandia è la vera tragedia dell’Euro­ pa. E l’Europa non risorgerà prima che Eurolandia non sia distrutta. In proposito, penso che non si possa purtroppo “saltare il passaggio” della piena restaurazione della sovra­ nità politica e monetaria degli stati nazionali. So che la mia opinione è minoritaria ed isolata, ma non posso farci nulla.

L’ “Io

m in im o ” , q u a l e u l t im o s t a d io d e l c a pit a l ism o

3) Le crisi economiche sistemiche, come quella attua­ le, comportano alla lunga mutamenti degli equili­ bri sociali preesistenti e trasformazioni più o meno marcate dei sistemi economici, con conseguenti rivolgimenti politici più o meno rilevanti. Secondo la dottrina economica liberista le crisi hanno una funzione di trasformazione evolutiva e progressiva dell’economia di mercato. Le crisi ricorrenti, infatti, avrebbero l’effetto, per così dire, “catartico” d i su­ perare gli squilibri presenti nel mercato e quindi, quello di operare una selezione darwiniana delle realtà imprenditoriali e finanziarie, col risultato di fa r sopravvivere i soggetti che siano in possesso di requisiti compatibili con i nuovi equilibri imposti

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dalla logica evolutiva del libero mercato. Il liberi­ smo prospetta soluzioni alle crisi che presuppongano una funzione salvifica del libero mercato, assunto ad entità metafisica immanente. In tali processi di trasformazione, tuttavia, non si tiene conto dei costi umani, in term ini di miseria, disoccupazione, con­ flitti sociali, eventuali guerre civili che le crisi eco­ nomiche determinano. In attesa dei nuovi equilibri imposti dal dio mercato globale, il costo umano glo­ bale delle crisi è incalcolabile: il liberismo è sostan­ zialmente anetico. Le crisi economiche, facendo ve­ nir meno le certezze e le prospettive di sviluppo pre­ esistenti, vanificano inesorabilmente le aspettative individualistiche e, d i riflesso, dovrebbero generare ripensamenti collettivi riguardo la struttura indi­ vidualista della società contemporanea, inducendo tu tti alla riscoperta di antiche solidarietà, scaturite dalle esigenze proprie della indigenza economica e a concepire nuove forme più eque d i redistribuzione della ricchezza. Tuttavia, dalla analisi del presente, emerge che tali prospettive, di carattere potenzial­ mente comunitario, siano al di là da venire. Anzi, è proprio la crisi, con la drastica riduzione di redditi e consumi a rafforzare l’egoismo individuale. Infatti, la lotta per la sopravvivenza è generatrice di inter­ m inabili guerre tra poveri, per la difesa di posti di lavoro sempre più rari e sempre meno remunerativi. Nella attuale situazione, la guerra tra microegoi­ smi è tanto più spietata, dato che la posta in gioco della sopravvivenza è legata al mantenimento di un certo livello di reddito e consumo e quindi ad tino status sociale, configurabile come componente an­ tropologica dell’ “io minimo” descritto da C. Lasch. Tale competizione egoistica globale tra consumatori alienati, sembra smentire le analisi della cultura

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marxista secondo sui le aggregazioni sociali scaturi­ rebbero dai bisogni collettivi, da cui emergerebbero poi le contrapposizioni classiste rivoluzionarie. Allo stato attuale, d i prospettive rivoluzionarie non se ne vede l’ombra, si verificano invece, sia in occidente che altrove, solo rivolte episodiche e velleitarie, prive d i sviluppi per Vimmediato futuro. Ad un insieme di problemi tanto articolati e complessi è bene cercare di rispondere in modo unitario, attraverso una interpretazione della storia universale, o meglio attra­ verso una interpretazione dell’intreccio fra l’accumulazio­ ne capitalista e tutti i paesi del mondo. Dal punto di vista filosofico la cosa è chiara, e può essere compendiata così: esiste una tendenza dialettica interna al modello anomico ed anticomunitario dell’individualismo, che lo porta da Hobbes a Lasch, e cioè dall’individualismo possessivo estrovertito di conquista e dominio al narcisismo impo­ tente ripiegato in sé stesso. Sulla base del bilancio storico di quattro secoli, questa tesi, apparentemente paradossale, appare in realtà ampiamente verificata. L’individualismo prima distrugge le comunità, ma non sa fermarsi, ed a partire da un certo punto comincia ad autodistruggersi. In questo senso, Marx non deve essere inteso come un pen­ satore rivoluzionario (sto parlando, ovviamente, a livello filosofico, non politico-sociale), come lo ha necessariamen­ te presentato tutto il marxismo (progressista in filosofia, positivistico nella scienza, riduzionistico nella concezione della storia, ricardiano in economia, eccetera), ma come il terzo grande pensatore conservatore (della comunità con­ tro l’individualismo, intendo), e cioè il terzo dopo Ari­ stotele (il primo) ed Hegel (il secondo). Ma so bene che contro questo riorientamento gestaltico, pur possibile, si mobiliterebbero tutti i “pensatori ufficiali”, atei o creden­ ti, di destra o di sinistra, eccetera.

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Ciò che è chiaro (per chi lo sa vedere) in filosofia, è meno chiaro in storia, ed è quindi consigliabile proporre al lettore uno schema elementare di filosofia della storia in tre punti. Siamo giunti, a mio avviso, alla terza (se terza ed ultima, o se ce ne sarà una quarta, nessuno lo può sa­ pere) fase della storia dell’opposizione al capitalismo. Per ragioni di spazio, devo “andare con l’accetta”, ma speria­ mo di avere modo in futuro di esporre il tutto in modo più completo, coerente ed articolato. In una prima fase storica (1550-1850 circa), l’opposi­ zione economica, politica e culturale ai nuovi rapporti di produzione capitalistici fu fatta in nome e per conto dei gruppi comunitari che ne avrebbero pagato le spese, e cioè dai contadini e dagli artigiani (in Europa), dalle tribù co­ munitarie comunistico-primitive (in Africa ed America), ed infine dagli stati dispotici di tipo tributario in Asia. Come è noto, questa resistenza “difensiva” fu alla fine scon­ fitta. I manuali di storia, non importa se conservatori o progressisti, di destra o di sinistra, atei o religiosi, eccetera, fanno a gara per non far capire il carattere sistemico unita­ rio di questa triplice resistenza, ed in effetti l’applicazione del modello dicotomico Progresso/Reazione non permet­ te di individuarla. Culturalmente, questa resistenza prese molte forme (conservatorismo anti-illuministico, pensiero tradizionalista, comunitarismo comunista a base utopica o babuvista, rivolte religiose in India ed in Cina, messianesimo fra gli indiani d’America, nostalgia per il vecchio piccolo mondo artigiano e patriarcale, eccetera). Questa re­ sistenza dovrebbe essere rivalutata e non disprezzata come stupida arretratezza. Ma questo non viene fatto, ed infatti su questo punto tutti i “progressisti”, dai neoliberali ultra­ capitalistici apologeti dell’individualismo fino ai presunti “marxisti” (in realtà positivisti progressisti che “votano a sinistra” e lavorano sempre sistematicamente per il re di Prussia), sono sempre in piena (ed idiota) concordia.

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In una seconda fase storica (1850-1980 circa), una volta consumata la sconfitta delle resistenze contadine ed arti­ giane, e quindi tradizionalistiche, all’accumulazione capi­ talistica, fu assolutamente inevitabile e logico che le classi operaie, salariate e proletarie di tipo urbano ed industriale venissero individuate come il solo soggetto sociale collet­ tivo e comunitario in grado di resistere al capitalismo in­ dividualistico. Pensare che Marx si sia sbagliato, o si sia illuso, ed avessero già ragione i furbi disincantati di allora (Schopenhauer, Nietzsche, Max Weber, eccetera), è a mio avviso del tutto antistorico. Retrodatare il disincanto ai suoi pochi annunciatori, a mio avviso, è un atto antistori­ co, ed anche ingeneroso, perché finisce con il tagliare l’al­ bero in cui anche noi siamo seduti. Non siamo forse anche noi dei critici del capitalismo assoluto? E se lo siamo, che senso ha irridere per i loro sbagli i nostri predecessori? Ora sappiamo che Marx si era illuso sulle capacità ri­ voluzionarie della classe operaia, salariata e proletaria, ed anche sulla capacità della socializzazione capitalistica del­ le forze produttive di produrre, come per una magica ed alchemica “generazione spontanea”, un soggetto rivolu­ zionario. Così non è stato. Ma se così non è stato, è perché il sistema capitalistico ha saputo con successo mobilitare, culturalmente e politicamente, le nuove classi medie con­ tro il proletariato. E lo ha fatto dando qualcosa a queste classi medie, in termini di status, di promozione sociale, di stabilità di lavoro, di redditi crescenti, eccetera. Le classi medie sono state prese nel loro insieme (al netto dei cosid­ detti “intellettuali di sinistra”, che in realtà conducevano una loro guerra civile culturale interna al modello borghe­ se di comportamento), il fattore strategico della sconfitta (non prevista da Marx) delle classi subalterne operaie, sala­ riate e proletarie. E questi sia in Occidente (USA, Francia, Germania, Italia, eccetera), sia ancor più in Oriente, dove la dissoluzione sociale del baraccone dispotico-egualitario

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chiamato comuniSmo storico novecentesco è stata dovuta ad una vittoriosa controrivoluzione sociale di massa delle nuove classi medie cresciute dentro lo stesso modello di accumulazione socialista, e questo dovunque, Cina, Rus­ sia, Ungheria, senza alcuna eccezione. Siamo allora arrivati ad una terza fase storica, che ha pochi tratti in comune con la prima e con la seconda. E siamo però di fronte ad un paradosso, che chiamerò breve­ mente il paradosso dell’ingratitudine. Ed il paradosso dell’in­ gratitudine sta in ciò, che le classi medie, che pure hanno permesso alle oligarchie capitalistiche la piena vittoria contro il povero baraccone dispotico egualitario subalterno del comuniSmo storico novecentesco realmente esistito (e non di quello utopico-scientifico disegnato da Marx - l’ossimoro è ovviamente volontario), sono state ripagate dalle oligarchie vincitrici, che non avrebbero mai vinto senza il loro appoggio decisivo, con il lavoro provvisorio, flessibile e precario, con l’età delle aspettative decrescenti, ed in po­ che parole con l’abbattimento del profilo storico borghese classico, che Hegel individuò nella famiglia e nella perma­ nenza per la vita intera del lavoro professionale stabile e sicuro, unico involucro possibile della cosiddetta “eticità” (,Sittlicbkeit). Ed infatti il famoso “stato etico” hegeliano non è quello che mette i mutandoni alle donne o legife­ ra sulle staminali o sulla idratazione dei moribondi, ma è quello che garantisce la serenità familiare e la stabilità del lavoro e delle professioni. Sembra un’owietà, ma chiedete ad un politicante analfabeta, non importa se di destra o di sinistra, e vi dirà che lo stato etico di Hegel è quello che vuole coprire per moralismo i culi delle adolescenti. Qui l’ignoranza giunge a tali vertici di surrealismo da diventa­ re effettivamente “sublime”. Un simile paradosso d’ingratitudine è effettivamente già avvenuto in passato. Prendiamo la storia romana, dal primo re Romolo (753 a.C.) all’ultimo imperatore d’Oc­

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ridente, Romolo Augustolo (476 d.C.). Bene, in termini sintetici, l’impero romano fu costruito ad opera di una classe di piccoli proprietari e produttori indipendenti, senza la quale saremmo ancora qui a parlare etrusco o cel­ tico, che fu “ringraziata” dalle oligarchie (indipendente­ mente dalla spartizione del bottino fra senatori e cavalieri) con la proletarizzazione, la caduta in miseria, la riduzione a plebei straccioni mantenuti a panem et circense.*;, Ebbene, qualcosa del genere è avvenuto anche oggi. Cosi come i piccoli proprietari romani furono “ringrazia­ ti” con la loro riduzione a precari straccioni, divisi fra i clientes di Silvius Berlusco e Romanus Prodo che gli davano ogni giorno delle sportulae per mendicanti ossequienti, nello stesso modo le classi medie, che sono indubbiamente state nel loro insieme la precondizione sociale della vit­ toria storica delle oligarchie capitalistiche, vengono ora “ringraziate” con la distruzione integrale del loro profilo culturale, che era non solo e non tanto il modesto benes­ sere dei consumi (considero riduzionistica ed economi­ cistica l’eccessiva enfasi sul carattere integrativo dei co­ siddetti “consumi”, di cui pure non nego ovviamente il ruolo) quanto la stabilità dei progetti di vita, nel doppio aspetto professionale e familiare. Oggi il modello cultu­ rale postborghese è la laureata costretta al cali center, e Luxuria, il transessuale che si vanta di essersi prostituito da giovane, visto come punta avanzata della modernizza­ zione individualistica dei consumi. In questa divisione del lavoro, l’economia è assegnata alla destra (la destra mer­ catistica, come dice De Benoist), la politica al centro, e la cultura alla sinistra (nel senso di Vendola, Bertinotti, Caruso, Luxuria, Sansonetti e la signora Dandini). Per quanto tempo sopporteranno ancora tutto questo le classi medie? Quanto tempo ci metteranno a capire che sono state “fregate” dalle oligarchie finanziarie? E quanto ci vorrà perché capiscano che l’individualismo con cui le

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hanno illuse e manipolare non potrà che far ancora peg­ giorare la loro condizione non solo sociale, ma anche e soprattutto psicologica ed esistenziale? Questo è l’enigma-chiave. Tenendo conto della stupi­ dità inerziale delle collettività manipolate, temo che ci vorrà molto tempo. In ogni caso, più tempo di quello che ci resta per la nostra restante vita terrena.

P e n s a t o r i “ in a t t u a l i ” e s p ir it o d e l t e m po

4) Un modello politico che si afferma come vincente in ogni epoca, ha la sua origine nella propria cultura e teoria filosofica sottostante, che poi, attraverso fasi intermedie trasformatrici, si impone con il consenso delle masse e fonda nuove istituzioni politiche. Tali fenomeni culturali, prim a che politici, hanno suc­ cesso e si impongono nella società in quanto, come si dice a posteriori, sono capaci di interpretare lo spi­ rito del tempo. Tale spirito del tempo (Zeitgeist he­ geliano), scandisce il succedersi di ideologie e sistemi politici e, talvolta, è esplicativo di tan ti fallim enti ed occasioni mancate di gruppi che devono il loro in­ successo alla propria mancanza di sensibilità politi­ ca per interpretarlo nel corso della storia. Nell’epoca contemporanea, le forze politiche liberali, sembrano quindi essere gli interpreti legittim i dello spirito del nostro tempo: sono stati i liberali gli unici soprav­ vissuti alla fine catastrofica delle ideologie novecen­ tesche, hanno compreso le potenzialità di sviluppo della tecnologia e della economia di mercato, realiz­ zato quella società cosmopolita e globale già prospet­ tata come esito finale di ideologie e religioni, ma con tragici insuccessi. Tuttavia, questa oggettività dello spirito del tempo accreditata dall’ideologia liberale

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è riconosciuta come universale in base ad una conce­ zione dello spirito del tempo intesa come registrazio­ ne passiva ed omologata del fatto compiuto. Quella liberale è comunque lina ideologia economicista e non politica (tantomeno filosofica), atta a rieenpire il vuoto culturale ed esistenziale manifestatosi con la fine delle ideologie e l’eclissi delle religioni in oc­ cidente. Che tale concezione sia fallace è dimostrato dal fatto che essa si fonda essenzialmente su un atto d i fede ideologica in contraddizione evidente con il nostro tempo: oggi non si confida forse che siano le virtù taumaturgiche del mercato a risolvere una cri­ si globale causata proprio dall’avvento della finanza globalizzata? Ma ci si chiede allora se interpretare lo spirito del tempo non sia prerogativa d i quei po­ chi emarginati spiriti liberi che hanno la cultura e la sensibilità necessaria per scorgere, nello stato di cose presenti, correnti di pensiero minoritarie e forze sociali occultate, ma potenzialmente capaci d i affer­ mare nuove esigenze e nuove concezioni dell’uomo e della società latenti, e spesso vaghe ed inespresse, ma idonee a superare le strutture politiche ed economi­ che di un eterno presente condannato alla stagna­ zione, proprio perché estranee allo spirito del tempo? G li interpreti dello spirito del tempo non sono allo­ ra coloro che hanno la funzione di portare alla luce, attraverso un processo di razionalizzazione quanto d i culturalmente e spiritualmente è presente nella società a livello ancora irrazionale ed inconscio? G li interpreti dello spirito del tempo non sono quindi coloro che, sedie premesse di una realtà compiuta, creino nume utopie, quei pensatori “inattuali” cioè, che superino la contemporaneità, in funzione della prefigurazione di un futuro i cui fondamenti sono già presenti in questo nostro tempo?

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Di tutti i temi che tu mi hai cortesemente posto in alcuni anni di dialogo franco e amichevole, fondato sul su­ peramento morale, umano e psicologico delle eredità av­ velenate della dicotomia Destra/Sinistra, questo è di gran lunga il più importante, così che gli altri, pur importanti, quasi spariscono. Per questo mi permetterai di “allargar­ mi” un po’ di più del consueto. Sarà ovviamente necessa­ rio tornarci. Per il momento, utilizziamo l’occasione per metterne alcune basi. Il tema dello Zeitgeìst, e cioè della corretta compren­ sione da parte di individui pensosi di quale sia lo “spirito del tempo”, è ovviamente più che mai attuale. Hai per­ fettamente ragione a rilevare che “il modello politico che si afferma come vincente in ogni epoca, ha la sua origine nella propria cultura e teoria filosofica sottostante, che poi, attraverso fasi intermedie trasformatrici, si impone con il consenso delle masse, e fonda nuove istituzioni politiche”. Chi non comprende che l’elemento simbolico sorregga il tutto, e magari pensa che il modello filosofico che regge la sintesi sociale dominante sia una semplice sovrastruttura ideologica secondaria derivata (e questa concezione è co­ mune all’economicismo, nelle due varianti complementari del marxismo sociologistico e deH’ultra-liberismo indivi­ dualistico), assomiglia ad un medico che riduce l’intera medicina a dermatologia, e cioè allo studio della pelle. La grandezza di Alain de Benoist, rispetto ai suoi imitatori italiani di secondo livello sta in ciò, che mentre gli imita­ tori italiani tipo Tarchi si perdono in irrilevanti analisi po­ litologiche (se la metodologia è la scienza dei nullatenenti, la politologia è la scienza dei poveracci), de Benoist invece ha saputo andare alla radice delle filosofie portanti di oggi, e questo indipendentemente dal fatto che si sia poi d’ac­ cordo in tutto, in parte, oppure in modo molto limitato. In una lettera all’amico Niethammer del 1816 (un anno dopo il famoso Congresso di Vienna), Hegel parla

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dello “spirito del tempo” in termini di inarrestabile avan­ zamento verso il progresso della ragione, e considera la Restaurazione come un semplice incidente di percorso. Oggi questa visione ottimistica dello Spirito del Tempo ci è preclusa, senza che per questo si debba aderire alla posizione opposta (e complementare) per cui un tempo la cosiddetta “totalità” sarebbe stata modificabile, men­ tre invece oggi non più (Adorno, francofortesi, eccetera). Questo pessimismo, travestito da filosofia definitiva ed ul­ timativa della storia, è semplicemente la razionalizzazione sublimata della delusione della (mostruosa) generazione sessantottina, che viene imposta alla nuova generazione del lavoro flessibile e precario da apparati universitari ben pagati e ben inseriti negli strati inferiori e subalterni delle oligarchie dominanti. Fra l’ottimismo progressistico borghese e la sindrome depressiva dell’eternizzazione dell’impotenza storica esi­ ste qualcosa di intermedio, e cioè una possibile soluzione? E ovvio che questa, e solo questa, è di fatto la doman­ da-chiave. Fra l’ottimismo di Hegel ed il pessimismo di Adorno, c’è una soluzione dialettica possibile? Certamente c’è. Ma perché la si possa percorrere, oc­ corre fare una diagnosi credibile dello spirito del tempo. Nessun medico consiglia una terapia senza prima aver fat­ to una diagnosi. Noi dobbiamo, prima di tutto, evitare il pur legittimo orgoglio soggettivo di chi è fiero del proprio ruolo di testimone critico di minoranze, cullandosi ma­ gari con la vecchia autoconsolazione degli impotenti, per cui solo le minoranze comprendono le cose. Essere infatti maggioranza sarebbe sempre meglio che essere minoran­ za. Il pensiero di Hegel potrebbe infatti compendiarsi in questa frasetta. E tuttavia, lo Zeitgeist non è affatto un dato statistico-sociologico cui aderire per tranquillo conformi­ smo identitario (la cui base psicologico-esistenziale è qua­ si sempre la legittima e scusabile paura della solitudine e

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della emarginazione sociale), ma è un enigma filosofico da decifrare, la cui decifrazione è spesso difficilissima. Questa decifrazione è difficile, e bisogna meritarsela. Questo non significa che il criterio del merito sia il ri­ conoscimento collettivo maggioritario, in quanto (cito Lukacs) ci si scoraggia assai presto quando ci si accorge che quanto diciamo ha un eco estremamente limitata. Ep­ pure, faremmo un errore di paranoia impotente se ci con­ solassimo dicendo che noi siamo intelligenti, anzi intel­ ligentissimi, ma purtroppo i pecoroni che ci circondano non ci capiscono. In proposito, le culture di sinistra e di destra che ab­ biamo cercato di lasciarci alle spalle (almeno dal punto di vista identitario) presentano difetti apparentemente op­ posti ma complementari. La cultura di sinistra, sulla base di un presupposto sociologico, relativistico, storicistico e nichilistico, è intrisa dell’idea che soltanto le maggioranze hanno ragione, perché le maggioranze sarebbero soltanto l’espressione sovrastrutturale del progresso inarrestabile della cosiddetta “modernizzazione” (data la stupidità tra­ dizionale di questo punto di vista sociologistico, non ci si accorge che la cosiddetta “modernità” è semplicemente il capitalismo, e la cosiddetta “modernizzazione” è sem­ plicemente l’approfondimento antropologico della mani­ polazione capitalistica complessiva). La cultura di destra, sulla base di un presupposto superuomistico, tradiziona­ listico, aristocratico e gerarchico, ritiene invece che solo i Pochi siano intelligenti, mentre i Molti sono solo decerebrati pecoroni in attesa di una Guida. E dunque, il primo presupposto per capire il presente, ed il più difficile di tutti, si può compendiare così: il relativismo sociologisti­ co maggioritario di sinistra ed il superuomismo aristocra­ tico di destra, lungi dall’essere due contrari, sono soltanto i due opposti complementari di un’unità ideologica di tipo antitetico-polare.

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Passando ad un secondo punto, per poter attingere la comprensione dello spirito del tempo di oggi, bisogna sa­ per essere ad un tempo fedeli agli ideali della giovinezza, e nello stesso tempo superarli (nel senso della hegeliana Aufhebung) alla luce dell’esperienza storica. Sempre Lukacs nota che vi sono tre modi di elaborare il passaggio dalla giovinezza alla maturità: la fedeltà, lucida e ottusa, ai va­ lori politici e morali coltivati nella giovinezza stessa; il passaggio ad un altro campo, e quasi sempre al campo opposto; infine, la perdita della capacità di dedizione in genere. Ognuno di noi ha certamente fatto e fa tuttora l’esperienza, nell’ambito delle sue conoscenze, di tutte e tre le tipologie antropologiche, psicologiche, politiche e morali. Partiamo quindi da questa sommaria tipologia per cercare di autointerpretare prima di tutto noi stessi. Conosci te stesso (gnothìs’eautòn), diceva Socrate, il fonda­ tore della tradizione filosofica occidentale. La fedeltà, lucida o ottusa (meglio lucida, evidente­ mente) agli ideali politici della giovinezza, non è affatto di per sé un disvalore, anzi. Di fronte al cinismo opportuni­ stico è anzi un valore. Ma si tratta solo di un valore morale, non di un valore etico. Il valore morale parte infatti sempre e solo dall’individuo e dalla fedeltà soggettiva e veridica alla propria coscienza individuale (la cosiddetta “coeren­ za”). Ma il passaggio dalla morale all’etica è mediato dalla comprensione dialettica dei nuovi dati sociali e politici, e allora sia la fedeltà che la coerenza non sono elementi ra­ zionali decisivi, ma possono diventare ostacoli non solo alla comprensione, ma anche e soprattutto all’azione. Il passaggio al campo avversario è la norma, o meglio la norma statistica maggioritaria. La vecchia sapienza con­ servatrice vede nell’adeguamento alla realtà cosi com’è il criterio del passaggio dalla giovinezza alla maturità (il cosiddetto “principio di realtà”). Si tratta di sciocchezze. Il passaggio al campo avverso è quasi sempre dovuto alla

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triplice tentazione di cui ha parlato a suo tempo il filosofo Spinoza (ricchezza, onori, potere). Tutte queste canaglie ci parlano dai giornali, dai canali televisivi, dai parlamenti. Noi sappiamo perché sono lì. Possono ingannare molti, in particolare i più giovani, ma non noi, che siamo i loro coetanei. Il sistema oligarchico ha bisogno di questi rin­ negati, li paga bene, e li ripaga infatti con l’immortale triade corruttrice (potenza, ricchezza, onori). La perdita della capacità di dedizione in genere rap­ presenta, come il riflusso della marea, il sedimento dei pe­ riodi storici di riflusso, come quello che stiamo vivendo. Questa perdita di capacità di dedizione in genere, razio­ nalizzata in vario modo dalle facoltà universitarie di filo­ sofia, è il prodotto della interconnessione di tre momenti successivi: il momento delle illusioni; il momento delle delusioni e, infine, il momento delle sintesi del complesso di illusioni e di delusioni, il cosiddetto disincanto. E le facoltà di filosofia sono appunto specializzate nel fonde­ re creativamente insieme questo disincanto (Max Weber, Richard Rorty, Gianni Vattimo, fino agli adorniani poli­ ticamente corretti ed innocui tipo Stefano Petrucciani). Lo spirito del tempo ha quindi un oggetto ed un sog­ getto. L’oggetto è il tipo umano (o idealtipo in senso weberiano) conformista identitario e politicamente corretto, pienamente inserito nel gioco di simulazione della pro­ tesi manipolatoria Destra contro Sinistra, sacerdote del Politicamente Corretto Unificato con tutte le sue ormai notissime determinazioni (religione olocaustica di colpevolizzazione eterna dell’occidente, antifascismo in palese assenza di fascismo, teologia dei diritto umani, america­ nismo progressista, eccetera). Il soggetto è invece l’inter­ prete critico e problematico di questa situazione. Egli non può che aspettarsi la diffamazione, l’emarginazione ed il silenziamento. Ma sarebbe sciocco e suicida se finisse con il crogiolarsi masochisticamente di questa condizione mi-

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noritaria. È esattamente quello che vuole il nemico: l’autoesclusione accompagnata da una impotente sensazione di superiorità intellettuale e morale. Essendo già arrivato quasi alla fine dello spazio a di­ sposizione, di cui ho già abbondantemente abusato (ma il tema lo richiedeva), non posso certamente esporre la mia concezione dello spirito del tempo. Sarebbe però opportu­ nistico se almeno non vi accennassi sommariamente. Lo spirito del tempo presente è caratterizzato da quel­ la che il vecchio Lukacs connotò come compresenza di on­ nipotenza astratta e di concreta impotenza. Non ha quindi molto senso, ed è anzi fuorviante, cercare di avvicinarsi al nostro tempo in base a categorie puramente politolo­ giche (Bobbio, Rawls, Habermas), e tantomeno in base a categorie puramente economiche (ad esempio neoliberisti contro neo-keynesiani). Non è neppure particolarmente utile avvicinarsi con categorie dicotomiche di tipo Laici contro Religiosi. E evidente che la problematica tragica di Ratzinger è mille volte al di sopra dei ringhianti cagnoli­ ni ateo-darwiniani (Augias, Flores d’Arcais, eccetera), che hanno smesso di credere nel materialismo storico e sono passati a credere nella teoria dell’evoluzione. Ancora un passo, e certamente arriveranno alla teoria geologica della deriva dei continenti come soluzione simbolica dei pro­ blemi del presente. La compresenza di onnipotenza astratta (oggi incrina­ ta ma ancora purtroppo troppo poco, dalla crisi scoppiata nel 2008) e di concreta impotenza (per cui il soggetto non ha più di fatto neppure diritto a quella che è sem­ pre stata la base sostanziale della sensatezza della vita umana in tutte le epoche, e cioè il profilo professionale e lavorativo permanente) caratterizza quindi in prima istanza lo spirito del nostro tempo. Diffidate di chi vuole inchiodarvi a dicotomie ormai trascorse (comunismo/anticomunismo, fascismo/antifascismo, ateismo/religione,

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laicismo/clericalismo, eccetera). Costoro, in buona fede o meno (faccio una valutazione a occhio: 20% buonafede, 80% malafede), vogliono inchiodarvi all’ipnotica inuti­ lità di confronti passati per impedirvi di riflettere alle contraddizioni del presente. Ed ecco allora in breve qual è la nostra (mi permetto questa espressione) concezione dello spirito del tempo: fare il possibile perché costoro non ci riescano, o almeno non abbiano la strada sgombra. Noi ci metteremo di tra­ verso per quanto potremo.

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L’utopia e la gioventù del mondo

U n ’E u r o p a o p pr e s sa d a i r u d e r i d el t e m p o

1) Il ricambio generazionale è un fenomeno fisiologico, indispensabile alla vita di ogni società. Esso è sem­ pre portatore di elementi di rottura, trasformazione, continuità tra loro inscindibili. Attraverso le nuove generazioni, la società può prefigurare l’immagine di sé stessa nel futuro, può comprendere le proprie potenzialità di sviluppo, così come le carenze del pro­ prio presente. Nella seconda metà del ‘900 sembra essere scomparso quel processo di rottura —continuità che aveva garantito la perpetuazione degli stati eu­ ropei per secoli, senza che nuovi ordini d i valori (che non fossero quelli dell’economicismo cosmopolita), po­ tessero conferire alle società occidentali una loro spe­ cifica ragion d’essere nella storia del nostro tempo. Il fenomeno del ’68 ha rappresentato una rottura che ha reciso le radici della cultura europea, data la sua incompatibilità con l’avanzata progressiva di uno sviluppo, sia economico che tecnologico, che annullava sia le specificità culturali dei popoli, sia altre forme identitarie di organizzazione sociale alternative ad un modello capitalista - consumista cosmopolita che diffondesse benessere e consumo generalizzato, ugua­ glianza e omologazione, libertà ed individualismo. Ma il ’68 non fu un fenomeno accidentale della sto­ ria: esso si affermò perché nella società europea occi­ dentale post bellica non c’era rimasto nulla o quasi da conservare. La fine della seconda guerra mondiale coincise col tramonto dell’eurocentrismo e la conse­ guente emarginazione dell’Europa dalla storia. La ricostruzione post bellica venne compiuta alla luce

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dei nuovi equilibri politici mondiali. 1paesi europei, si adeguarono per amore o per forza a i modelli del bipolarismo mondiale americani o sovietici, in base alle rispettive aree di occupazione. Come retaggio della vecchia Europa rimasero quindi i sensi di col­ pa (per colonialismo ed olocausto), dal punto d i vista culturale, moralismo piccolo borghese quale relitto di antichi valori etici sia civili che religiosi nell’ambito sociale, conformismo omologante, sia individuale che collettivo, in campo politico. Per quanto riguarda l’I­ talia, la rottura epocale che condusse alla nascita del­ la 2° repubblica coincise con la fine del bipolarismo mondiale e l’avvento del capitalismo globale made in USA. Ma della prim a repubblica c’era forse qualcosa da conservare? Forse il falso stato sociale scaturito da compromesso liberal —cattolico —comunista sfociato poi nella palude del partito - stato democristiano, che, attraverso assistenzialismo, clientelismo e corru­ zione garantì il proprio potere, il capitalismo confin­ dustriale e l’Italia all’occidente? Oggi l’Italia è un paese d i vecchi. La continuità del sistema precedente è stata assicurata in questi ultim i 15 anni dal rici­ claggio in senso liberista dei ruderi ideologici della 1 ° repubblica. Il ricambio generazionale non può re­ alizzarsi in una società in cui dominano modelli di riferimento globali estranei ad essa. G li stati euro­ p ei sembrano ruderi di epoche ormai tramontate, che sussistono per l’inerzia di un tempo che manifesta sempre più il loro vuoto d i senso. Esprimendo in modo chiaro, netto e deciso il tuo rifiu­ to di ogni nostalgismo per la cosiddetta Prima Repubblica Italiana (1946 —1992, e cioè dal referendum monarchia —repubblica vinto dalla repubblica al colpo di stato giu­ diziario extraparlamentare surrealmente chiamato Mani

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Pulite) tu mi inviti veramente a nozze, consentendomi di chiarire ancora una volta la mia posizione, anche se l’ho già fatto molte altre volte in precedenza, anche all’inter­ no dei nostri dialoghi. Ma si può sempre dire qualcosa di nuovo, e soprattutto di meglio articolato. Mi permetterai però di iniziare da un possibile dissen­ so, non tanto concettuale o storiografico, quanto di “sensi­ bilità”, dovuto certamente alla forza inerziale delle nostre rispettive provenienze politiche, come è noto diverse se non opposte. Si tratta di quello che tu chiami il complesso di colpa europeo per il colonialismo e per l’olocausto, che tu metti insieme facendo capire che intendi accostarli, e considerarli omogenei. Mi permetto di dissentire. Non li considero omogenei, ma questo non certamente per ra­ gioni pregiudiziali di “sinistra”, ma grazie ad un ragiona­ mento autonomo. Oggi il colonialismo e l’olocausto non sono elementi simbolici omogenei di un comune senso di colpa inespiabile dell’Europa. È invece tutto il contrario. Rifiutare il colonialismo, sia pure nella forma largamente simbolica e figurata della storiografia (penso ad Angelo Del Boca) significa non certo rifiutare la nuda esistenza di fatti irreversibilmente accaduti, ma rifiutare il presuppo­ sto di superiorità occidentalistica sul resto del mondo ed i cosiddetti “barbari da civilizzare”. Ora, è questo il presup­ posto di superiorità occidentalistica che sta dietro, sopra e sotto alla nostra subalternità all’americanismo imperiale, che ha trasformato la stessa NATO (e quindi anche noi italiani) in mercenariato globale per le guerre geopoliti­ che dell’impero USA. È invece diverso il caso dell’olocau­ sto. Lo sterminio degli ebrei da parte di Hitler e dei suoi alleati (trascuro qui sia il numero delle vittime che i gradi di intenzionalità, elementi che dovrebbero essere lascia­ ti alla libera discussione degli storici, e che invece sono “tabuizzati” dal Politicamente Corretto a direzione ideo­ logica sionista) è effettivamente impiegato per rafforzare

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l’inespiabile senso di colpa degli europei, e quindi per raf­ forzarne la loro incorporazione occidentalistica subalter­ na. E quindi, se proprio non vado errato, anticolonialismo ed “olocaustismo” non sono omogenei, ma sono addirit­ tura opposti. In un caso si ha un rafforzamento simbolico della continuità del suprematismo occidentalistico e della sua “missione di civiltà”, e nell’altro caso si ha invece la perpetuazione di un senso di colpa intergenerazionale che porta alla totale impotenza progettuale europea. E con questo, chiudo provvisoriamente, per ragioni di spazio, un tema che meriterebbe ben altro ampliamento. E veniamo ora al tema che ci interessa, quello del bi­ lancio ragionato del periodo della prima repubblica ita­ liana (1946 —1992). Lo stiamo facendo, però, non certo in un laboratorio storiografico protetto, ma all’interno di una crisi politica devastante (estate 2009)- Da un lato, un Paperonismo Puttanesco di un Uomo-Viagra circondato di tette e di culi, dall’altro un Golpismo Giudiziario a base moralistico-ipocrita che intende pur sempre rovescia­ re con l’arma degli scandali sessuali un risultato elettorale uscito dalle urne, attraverso una diretta americanizzazione della politica fino ad oggi ignota all’Europa (del tipo: rovesciare Clinton perché ha fatto sesso orale con un’arrampicatrice sociale consenziente). La miseria di quanto sta avvenendo è tale che ogni persona moralmente integra deve chiamarsi fuori da questa merda, e smettere di ti­ fare per l’Uomo-Viagra contro il Golpismo Moralistico, o viceversa. Intellettuali, professori universitari, giudici, insegnanti, giornalisti, sono per il Golpismo Moralistico. Negozianti, primari, pensionati securitari, casalinghe te­ ledipendenti, clientele meridionali sono per l’Uomo-Via­ gra. Il nostro dialogo ha molti presupposti, ma uno di essi è fondamentale: entrambi ci teniamo rigorosamente fuori da questa oscena e degradata pantomima. Il presupposto metodologico per il bilancio (per te ne-

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gativo) che tu mi inviti a fare sta a mio avviso nella distin­ zione fra tre diversi piani del discorso: 1) La rammemorazione soggettiva dell’esperienza per­ sonale e generazionale del periodo 1946 — 1992, che di per se non ha assolutamente nulla a che fare con il livello politico superficiale della prima repubblica ita­ liana, e che concerne tutti gli italiani che hanno oggi più di cinquant’anni. Una simile rammemorazione è inevitabilmente autobiografica e quindi narcisistica (del tipo “come eravamo”), ma non può essere evitata, anche perché la stessa storia orale {orai history) l’ha le­ gittim ata come fonte storica integrativa. 2) Il vero e proprio bilancio politico-storiografico della prima repubblica italiana, riducendo ove possibile al minimo l’interferenza soggettiva personale, ma cer­ cando di individuarne i fondamenti sociali ed ideolo­ gici principali. 3) Il giudizio storico sulla seconda metà del novecento in­ teso come fenomeno globale, certamente in parte coin­ cidente con la prima repubblica italiana, ma da tenere ben distinto da essa, in particolare nel suo rapporto contrastivo con gli ultimi vent’anni (1989 — 2009). Premetto subito che darò un giudizio totalmente po­ sitivo sul primo punto, totalmente negativo (e cjuindi coincidente con il tuo) sul secondo, ed invece parzial­ mente positivo sul terzo. Ma discutiamone con ordine. Per quanto riguarda il primo punto, ringrazio Dio (o il Caso, o tutti e due) per essere nato in Italia nel 1943Ho evitato di essere fra i milioni di morti del grande ma­ cello suicida che i libri di storia chiamano Prima Guerra Mondiale. Ho evitato, come non ha potuto fare mio padre,

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la guerra coloniale in Etiopia del 1935. Ho evitato, come non ha potuto fare il mio zio paterno, di morire in Russia nel 1942 in una guerra ideologica di aggressione al comu­ niSmo, di cui continuo ad avere un giudizio storiografico globale positivo (al netto di errori e di orrori, da me presi debitamente in considerazione). Ho evitato nel 1943 di es­ sere messo nella tragica situazione di dover scegliere una delle due parti in una guerra civile, che soltanto dopo la sua fine fu sacralizzata moralmente con la distinzione fra Ca­ duti per la giusta causa e Caduti per la causa sbagliata. Ho evitato il decennio degli anni Cinquanta, definito da Fran­ co Fortini i Dieci Inverni. In compenso, ho “imbroccato” (e ne sono pienamente consapevole) il benedetto periodo delle aspettative crescenti, dei viaggi facili, del facile reperimen­ to di un lavoro stabile e sicuro, della vivacità culturale, del gratificante agonismo ideologico (sia pure in un contesto dettatoci dalla generazione precedente, cui fummo costret­ ti a conformarci), di un quadro internazionale benedetto, in quanto bipolare (sia pure rigido e manipolato) e non ancora imperiale, e soprattutto (lo ripeto) della stabilità e della sicurezza del lavoro (niente call-cmter ed altre simi­ li porcate di oggi). In definitiva, perché non dovrei essere consapevole, a posteriori e vedendo l’oggi, di avere “imbroc­ cato” una finestra storica sostanzialmente felice? Passando all’argomento che più ti preme, e cioè al bilancio storico-politico della prima repubblica italia­ na (1946 —1992), devo dire di avere letto alcune sintesi (ne ricordo tre: Accame, Lanaro e Crainz), ma di prefe­ rire per ragioni di spazio esprimere qui direttamente la mia opinione. Sono d’accordo con te che non c’è niente da rimpiangere (se non la giovinezza e l’epoca storica delle aspettative crescenti e della rivoluzione, in realtà oggetti­ vamente impossibile ma ritenuta soggettivamente possi­ bile). E come potrei rimpiangerla, non avendo mai fatto parte dei cortigiani della classe politica che ne ha formato

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la costituzione materiale, non importa se al centro, a sini­ stra o a destra? Come potrei rimpiangerla, non avendo mai fatto parte di quelle due metà complementari che erano i pidocchietti democristiani assunti per diritto divino nella televisione di Bernabei e gli intellettuali “organici” del mastodonte manipolato PCI? Come potrei rimpiangerla, conoscendo il modo in cui, con la scusa degli “opposti estremismi”, regnavano i servizi segreti USA, gli anarchi­ ci volavano dalla finestra presi da “malore attivo” e degli allucinanti deficienti uccidevano giornalisti con un colpo di pistola alla testa in nome della classe operaia fordista della catena di montaggio? La prima repubblica italiana fu a tutti gli effetti, po­ liticamente, una semicolonia proconsolare occupata da un impero contro un altro, che non ha mai neppure saputo produrre un equivalente patriottico e nazionale come il be­ nemerito generale francese De Gaulle. Dovendo ad ogni costo “dare dei voti” (in fondo, li ho dati per trentacinque anni), promuoverci soltanto Togliatti ed Andreotti. Il primo almeno credeva nella inevitabile vittoria storica del socialismo sul capitalismo, mentre il secondo difendeva con la sua aria da gattamorta democristiana spazi minimi di manovra in Medio Oriente. Non riesco a stimare Almirante, Berlinguer e Craxi, ma lo spazio mi impedisce qui di motivare le mie ragioni. E tuttavia, persino queste tre mediocrissime figure sono superiori ai tre “diadochi” Fini, Bertinotti e D ’Alema, tre figuri della seconda repubblica formatisi tutti e tre negli apparati ideologico-politici della prima repubblica. Nel linguaggio filosofico di Heidegger, la prima generazione era ancora portatrice di una “metafisi­ ca” (intesa come valori in cui si credeva ancora), mentre la seconda generazione è portatrice soltanto di una “tecnica” (intesa come pura e semplice gestione manipolativa di un potere interamente deideologizzato). Ma non perdiamoci con gli alberi, e cerchiamo di considerare soltanto la foresta.

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II 1958 è certo stato un anno importante della nostra storia recente. Si tratta dell’anno che gli storici dell’eco­ nomia individuano come l’anno dell’inizio del cosiddetto “miracolo economico”, l’anno in cui per la prima volta dal 1861 gli occupati dell’industria superano per numero i contadini, ed infine l’anno del debutto di Celentano, Mina e De Andrè. Ma si tratta di una storia della modernizza­ zione, non della storia degli apparati politici della prima repubblica. Analogamente, il 1968 non è per nulla un anno “po­ litico”, come tu sembri suggerire. Le strutture politiche restano praticamente intatte di fronte alle manifestazioni studentesche (1968) ed operaie (1969). Il Sessantotto (da non confondersi con gli eventi differenziati e disomogenei dell’anno 1968) resta come data simbolica di instaurazio­ ne di un’etica liberalizzata, superficialmente antiborghese e profondamente ultracapitalistica, che oggi dopo più di quaranta anni, vediamo interamente dispiegata nella sua forma più odiosa e disperante. Si tratta dell’individuali­ smo senza freni, in cui la contestazione di allora è dive­ nuta norma conformistica per l’oggi. Di politico c’è poco, almeno nel senso stretto del termine. In quegli anni, tuttavia, si consolidò quella che chia­ merei la “votomania identitaria ossessiva” degli italiani, frutto del bipolarismo DC —PCI, che è sopravvissuta a quegli anni. Prendiamo le percentuali dei votanti nelle ultime elezioni europee del giugno 2009. Cominciamo dal Lussemburgo (91 per cento) o dal Belgio (90 per cen­ to). Qui è evidente che queste percentuali da incubo ri­ flettono gli interessi economici di gruppi di interpreti, traduttori, impiegati, albergatori, autisti, prostitute, ec­ cetera, al servizio degli apparati burocratico-parassitari di Eurolandia. Passiamo poi alla Germania (43 per cento) ed alla Francia (40 per cento). Qui si ha a che fare con norma­ li paesi europei semisovrani, i cui cittadini manifestano la

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loro sostanziale giustificata indifferenza per Eurolandia. Abbiamo poi l’Olanda (36 per cento) ed il Regno Unito (34 per cento). Qui si ha a che fare con paesi solo formal­ mente europei, in realtà americanizzati e collegati diretta­ mente all’impero USA. Ma passiamo al Portogallo (37 per cento), alla Spagna (44 per cento), ed alla stessa Grecia, che pure è abbondantemente sussidiata dai contributi eu­ ropei all’agricoltura (52 per cento). È evidente che persino nell’area mediterranea l’Europa è percepita (correttamen­ te) come l’Eurolandia dei banchieri e della globalizzazione liberistica. Bene, passiamo ora all’Italia, dove troviamo un demenziale e sbalorditivo 66 per cento. Ma ti rendi conto: il 66 per cento! Come spiegarlo? Si spiega come eredità votomaniaco-identitaria di mas­ sa bipolare della prima repubblica, allora DC contro PCI, oggi Amici di Berlusconi contro Nemici di Berlusconi. Non c’è altra spiegazione. Dopo un ventennio (e quale ventennio) la votomania identitaria, con contorno isterico di giudici, giornalisti ed intellettuali (aiuto, i populisti!! Aiuto, i comunisti!!) è restata praticamente identica. Di qui dobbiamo partire. Nell’attuale fase storica del capitalismo oligarchico integrale, la democrazia non esiste più, neppure nella vec­ chia forma della democrazia rappresentativa costituziona­ le. La costituzione viene violata quando è ritenuto neces­ sario, come avvenne in Italia nel 1999 per la guerra aerea (ma sempre guerra fu!) contro la Jugoslavia, fatta per ra­ gioni di insediamento geopolitico USA nei Balcani (Camp Bondsteel). Il ricattabile ex-comunista D’Alema fu l’uomo giusto per farla. Doveva accreditarsi, e lo ha fatto. La pri­ ma repubblica italiana non fu abbattuta per via elettorale, ma con un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, con asfissiante coro moralistico del circo mediatico ed uni­ versitario. Finirà così anche la seconda, legata al nome di Silvio Berlusconi? A tu tt’oggi non posso saperlo. Leggen­

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do un maligno articolo di Adriano Sofri (La Repubblica, 19-06-09) sembra di capirlo. Adriano Sofri, il mandante dell’omicidio del commissario Calabresi, l’apologeta dei bombardamenti umanitari e del sionismo assassino, rap­ presenta bene la degenerazione politica dell’estremismo sessantottino di “sinistra”, ed il suo articolo (che consiglio caldamente di leggere), mostra alla luce del sole la natura antidemocratica e golpista di questa classe intellettuale. Craxi fu detronizzato per le tangenti (che prendevano tu t­ ti, ed anzi prendevano più ancora di lui), Berlusconi deve essere detronizzato per la sua senile sensibilità verso culi, tette e carne fresca di puttanelle disinibite. Questo è il far politica nell’Italia di oggi. E possibile uscirne? Non certo con questa cultura politica. Non certo con questa classe politica di amministratori cinici. Non certo con questo circo mediatico di venduti alla cupola ideolo­ gica imperiale. Non certo con questo clero universitario che si orienta in base alla nuova religione del Politicamen­ te Corretto (ne sunteggio qui i dogmi: il Populismo come unica categoria politologica multiuso, che esprime il suo odio verso il popolo vero e proprio, sostituto simbolicamente da gay, femministe e migranti; l’Antifascismo ceri­ moniale in assenza completa di Fascismo; la religione olocaustica della unicità imparagonabile di Auschwitz, con assoluzione contestuale di Hiroshima; la sacralizzazione eterna della dicotomia Destra/Sinistra; infine, la religione interventistica dei Diritti Umani a segnalazione mediatica esclusiva). Non si vedono infatti i soggetti politici or­ ganizzati che potrebbero fare da base storica ad una uscita da questo incubo tragicomico. Passando al terzo punto, che a mio avviso è più impor­ tante dei primi due, ci si può chiedere se è legittimo dire che l’ultimo ventennio è stato peggiore del quarantennio precedente. È evidente che in questi giudizi c’è un’ineliminabile elemento psicologico e generazionale personale,

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e tuttavia continuo a ritenere legittima questa domanda. Già all’inizio dell’ottocento, in polemica contro la filosofia della storia di Hegel, c’è stato qualcuno che ha detto che è impossibile paragonare le varie epoche storiche, perché “tutte sono egualmente vicine a Dio”. Io non lo penso. Alcune sono più vicine a Dio ed alcune più lontane, sia per chi crede in Dio sia chi (ed è il mio caso) con que­ sta parola intende il significato complessivo dell’esistenza umana nel tempo, tempo che è il luogo della progressiva presa di coscienza della sua natura solidale e comunitaria. In questo senso non ho paura di dire apertamente che il ventennio recente è stato peggiore del quarantennio pre­ cedente, e non certo per la mia insignificante persona di pensionato benestante, ma per l’intera umanità. E perché lo dico? Lo dico perché condivido nell’essen­ ziale una recente formulazione di Alain de Benoist, con­ tenuta in un’introduzione ad una antologia della rivista francese Rébellion. Parlando del nemico principale oggi, de Benoist ne elenca cinque: il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghe­ sia sul piano sociale, ed infine gli Stati Uniti sul piano geopolitico. Non si poteva dire meglio. Ora, il ventennio recente è peggiore del quarantennio precedente perché ha rafforzato tutte e cinque queste orribili realtà (con il solo rilievo che personalmente, con Eugenio Orso, penso che la vecchia borghesia sia stata sostituita da un nuovo mostro, una sorta di global upper class post borghese). Nonostante i suoi aspetti antropologicamente ripu­ gnanti, che spesso portavano coloro che lo conoscevano bene dall’interno ad uscirne in modo neoliberale (due soli esempi italiani: Lucio Colletti e Massimo Caprara), il vec­ chio comuniSmo storico novecentesco (di cui accetto co­ munque il principio della comparabilità storica sia con il liberalismo sia con il fascismo —si rassicuri de Benoist!) ha

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pur sempre funzionato come freno (katechon). Contro l’aziendalizzazione integrale del mondo della vita degli uo­ mini. Recentemente l’acuta filosofa italo-francese Michela Marsano ha analizzato dettagliatamente l’estensione del modello antropologico dell’azienda capitalistica in tutti gli aspetti della vita umana. La forma politica del liberali­ smo favorisce in tutti i modi questo orrore antropologico, e per questo è il nemico principale, molto più di qualun­ que forma di cosiddetto “populismo”, di veterocomunismo (Corea del Nord) o di presunto fascismo (Birmania, Sudan, eccetera). Una cultura che non riesce più neppure ad individuare il nemico principale è destinata all’estin­ zione, lamentosa, testimoniale o ridicola. Oggi i due più grandi statisti del mondo, che Dio e Allah li preservino a lungo, sono il venezuelano Chavez e soprattutto il meraviglioso iraniano Ahmadinejad, usci­ to fortunatamente vincitore dalle recenti elezioni, contro cui è stata “montata” una rivoluzione arancione di tipo Ucraina e Georgia, per fortuna fallita. Nel momento in cui scrivo non so ancora se il Golpismo Moralistico riusci­ rà o meno ad abbattere l’Uomo-Viagra, che ricordo essere stato votato dalla maggioranza degli italiani (non da me, certo, ma dalla maggioranza dei votanti). Il modello cul­ turale italiano maggioritario, detto in modo telegrafico, è la somma di Confindustria + Centri Sociali, e cioè l’unio­ ne di Padoa Schioppa, Scalfari e Marcegaglia da un lato, e Vendola, Bertinotti e Luxuria dall’altro. Aziendalismo nel tempo di lavoro, sballo e droga nel tempo libero. Chi non ha ancora capito che si tratta di elementi complementari e non di opposti, deve essere esortato ad occuparsi di pesca con la lenza e di raccolta di francobolli, e non di filosofia e di scienze sociali. E tuttavia, il discorso è appena incomin­ ciato. Bisognerà approfondirlo più avanti. Il circo corrotto degli intellettuali mediatici di passerella non ci aiuterà certamente, ma ci silenzierà. Tuttavia, meglio così.

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L’u o m o è d e s t in a t o a d e t e r n a r s i o alla p r e c a r ie t à IMMANENTE?

2) La età giovanile oggi viene vissuta in una condizione esistenziale in cui predominano incertezza e nebulo­ sità circa il futuro, data la mancanza di prospettive nel campo lavorativo, sociale e nella vita affettiva. Domina la precarietà esistenziale, intesa come eterna instabilità del presente, assenza di obiettivi stabili nel tempo. È evidente che il sistema economico globa­ le di ispirazione liberista ha generato una cultura, una psicologia, una antropologia umana basata sulla precarietà. L’economicismo domina la vita delle mas­ se: se precaria è la vita economica, precaria è anche l’esistenza. In realtà, al di là delle problematiche eco­ nomiche del nostro tempo, è la condizione umana ad essere di per sé stessa precaria: precaria, in quanto di breve durata, è la vita dell’uomo in rapporto alla storia (per non parlare delle ere geologiche), precario è il tempo presente, incalzato sempre da un futuro imminente che muta continuamente le condizioni del presente, precarie, perché limitate, le possibilità uma­ ne di trasformazioni dello stato di cose presenti, dato l’inevitabile condizionamento delle realtà storiche e geografiche in cui all’uomo è dato di vivere, fallaci e precari si rivelano spesso gli obiettivi raggiunti, per­ ché vanificati e smentiti da successivi eventi non pre­ vedibili. Ma niente e nessuno può distogliere l’uomo dalla sua aspirazione perenne alla stabilità, intesa come una dimensione futura che gli consenta di su­ perare i lim iti e i condizionamenti imposti dalla pre­ carietà del presente. Didea liberale secondo cui l’uo­ mo è un essere destinato ad espandersi, sembra essere smentita dalla ineliminabile aspirazione umana ad eternarsi, a proiettare cioè sè stesso verso tempi mio-

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v i e nuove mete, sia nella dimensione umana che in quella trascendente propria delle religioni. Prevale dunque la prospettiva dell’uomo proiettato a eternar­ si nel tempo e al di là di esso, piuttosto che quella di espandersi nello spazio, dimensione di per sé precaria. A l di là del pensiero unico e del relativismo etico oggi dominanti, da epoche primordiali fino a i giorni no­ stri, le conquiste della scienza, le creazioni artistiche, le dottrine politiche, l’evoluzione culturale sussistono e si sviluppano in quanto generate da una idea di assoluto inteso quale bisogno antropologico di supera­ mento della precarietà contingente, li uomo è infat­ ti sempre alla ricerca d i una filosofia (mai del tutto compiuta e definitiva), generatrice di una condizione umana di equilibrio stabile nel presente e creatrice di nuove mete e aspirazioni da raggiungere nel futuro. Sono pienamente d’accordo con il modo con cui imposti filosoficamente la questione, e mi posso pertanto limitare ad integrarlo con un ragionamento personale. L’uomo è in­ fatti un ente precario per sua stessa natura antropologica ed ontologica, in quanto non solo è continuamente minacciato dal fallimento dei suoi progetti, dall’infermità e dalla mor­ te prematura (colgo l’occasione per affermare il mio accordo con l’interpretazione che della filosofia di Leopardi ha dato Sebastiano Timpanaro), ma è anche tormentato ed angu­ stiato dall’anticipazione consapevole della propria .morte individuale, anticipazione consapevole ignota agli anima­ li (ricordo che sia Heidegger che Jaspers hanno scritto in proposito pagine convincenti). E tuttavia, vi sono due tipi di precarietà, la vecchia precarietà esistenziale, che provo­ ca l’aspirazione alla eternizzazione simbolica della propria identità (metempsicosi indiana, immortalità greca dell’ani­ ma, resurrezione paolina dei corpi, sublimazione nelle cause storiche collettive alla Antonio Gramsci, eccetera), e la nuo-

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va precarietà economicistica, interamente concentrata in un presente visto come luogo dei consumi di beni e servizi o di ricerca incessante di lavori precari meglio pagati. Ritengo che qui ci stia uno degli aspetti più inquietanti del presente storico in cui viviamo. Come tu rilevi correttamente, l’uomo è sempre stato un ente precario, ed addirittura questa precarietà, così dolorosa da vivere psicologicamente, è stata il fattore simbolico creativo di tutte le sue produzioni ideali, dai graffiti di bisonti nelle caverne alla Divina Com­ media di Dante. La precarietà si sublimava in immortalità ed in permanenza, e questo, lungi dall’essere frutto di super­ stizione di ignoranti (come sostiene il positivismo imbecille in tutte le sue forme), era invece il meraviglioso connotato specifico della specie umana. Ma ora la precarietà economi­ cistica taglia alla radice questa meravigliosa sublimazione ideale e culturale. L’uomo di oggi è un precario privato della proiezione simbolica all’infuturamento stabile, fattore che fino ad oggi ha caratterizzato tutte le esperienze filosofiche del mondo, dalla Grecia ad Israele, dalla Cina all’India. In termini nicciani, questa è l’epoca non certo del superuomo (o dell’Oltreuomo, la variante relativistica postmoderna del pensiero debole), ma dell’Ultimo Uomo, l’ente miserabile che sa che Dio è morto, e quindi che tutto diventa possibile ma anche indifferente. L’economicismo è il regno dell’Ulti­ mo Uomo, il nostro incubo attuale.

R ic a m b io g e n e r a z io n a l e e d iv e n ir e d ella s t o r ia

3) Il succedersi ciclico delle generazioni non si risolve nella mera esigenza fisiologica della perpetuazione della specie. In tal caso, l’unica verità nella storia dell’uomo sarebbe quella nichilistica della morte, che alla pari di un buco nero spaziale assorbirebbe la vita nello scorrere indeter?ninato del tempo senza

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soluzioni di continuità. Il ricambio generazionale non avrebbe in tal caso alcuna rilevanza nella storia, che si ridurrebbe ad un piatto ed eterno succedersi della funzione riproduttiva della specie e la dimen­ sione temporale stessa della vita umana sarebbe un concetto privo di senso, data Virrilevanza del tempo nel susseguirsi meccanico ed uniforme degli eventi. Il ricambio generazionale è essenziale e rilevante nella condizione umana in quanto legato al divenire stesso della storia nel tempo. Iduomo, attraverso il rinno­ vamento continuo delle generazioni permea di sé il tempo, crea il suo tempo. Ogni generazione quindi, prende coscienza del proprio tempo, reinterpreta la storia in funzione delle proprie prospettive nel tempo che verrà e che gli è dato di vivere. Ogni generazio­ ne eredita una storia e le condizioni determinate da un passato prossimo e remoto, che divengono presto oggetto d i negazione e trasformazione. Tali processi evolutivi sono possibili però, in quanto si realizza una continuità storica con quel passato che si vuole negare eìo trasformare. Attraverso ilflusso del tempo, assistiamo allo scorrere di tin divenire storico in cui ogni generazione costituisce la manifestazione del proprio “spirito del tempo”. Solo attraverso la com­ prensione dello spirito del tempo diviene dunque intellegibile la storia, non come mera narrazione, ma come ricerca d i una logica immanente interna alla storia stessa, logica basata sul susseguirsi dei processi di trasformazione che si svolgono nel divenire storico. Lo spirito del tempo è quindi determinato dalle pro­ spettive di negazione e rinnovamento delle eredità che la storia ci trasmette. Oual è allora lo spirito del nostro tempo? Non certo la supina accettazione da parte dei giovani del determinismo meccanicistico della espansione economica globale (peraltro dall’av-

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venire assai dubbio). Non certo la condizione di un essere umano alienato dalla logica di produzione — consumo. Nella precarietà immanente dell’indivi­ dualismo liberale, non c’è spirito del tempo perché non c’è trasformazione ed evoluzione nel tempo. La condizione alienata nell’aggettività del presente, che diviene eterno presente, genera un individuo fine a sé stesso, estraneo alle realtà storico sociali del nostro tempo. ILindividualismo infatti produce una dimen­ sione umana che è solo astratta e sterile di prospet­ tive perché presuppone la fuoriuscita dall’uomo dal suo tempo e dal divenire della storia. L’atemporali­ tà dell’individualismo, è il non essere dell’uomo nel tempo è l’alienazione di un uomo in una fuga fuori dal suo tempo e da sé stesso. Il concetto da te evocato di Spirito del Tempo (Zeitgeist) comprende una unità dialettica di opposti complementari. Da un lato, rappresenta la coagulazione temporale prov­ visoria dell’unità espressiva di tutte le tendenze storiche vincenti e vincitrici, che dominano il presente sotto la for­ ma dell’illusione di essere eterne, e di incarnare il Bello, il Giusto ed il Buono, laddove sono invece l’incarnazione del Brutto, dell’Ingiusto e del Malvagio (pensiamo alla globalizzazione neoliberista, che i suoi apologeti e servi presentano appunto come la concretizzazione dello Spirito del Tempo, e cioè dell’Incubo dell’Anticristo). Dall’altro lo Spirito del Tempo evoca necessariamente una reazio­ ne minoritaria, composta di anime (preferisco il termine greco di anima a quello moderno di individuo, in quanto per i nostri maestri greci psychè non era uguale ad atornon) che sono anche l’unità sociale minima di resistenza al po­ tere. Con un pizzico di (scusabile) presunzione, ritengo che entrambi possiamo considerarci come anime resistenti all’odierno spirito del tempo.

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Se fossimo animali (con tutto l’amore ed il rispetto che gli animali meritano) tutti coloro che non procreano (per impossibilità fisica o per scelta individuale) dovrebbero essere considerati inutili alla specie (cominciamo quindi a cancellare Leopardi). Personalmente, avrei dovuto esse­ re eliminato a 27 anni, perché è a quell’età che mi sono riprodotto mettendo al mondo un figlio, e dopo non mi sono riprodotto più, ma, appunto, gli esseri umani non sono mantidi religiose. Il significato della loro vita non si esaurisce nella semplice anonima riproduzione della spe­ cie. Per questo tutti i riduzionismi biologistici, tanto di moda oggi (e non a caso) in un’epoca storica di chiusura del futuro e di eternizzazione del presente, non hanno nul­ la di “scientifico”, ma sono soltanto miserabili sintomi di uno smarrimento umano e filosofico più ampio. Molto correttamente tu individui la principale carat­ teristica dell’individualismo nella atemporalità destori­ cizzata. La storia reale non ha mai conosciuto “individui” (nati concettualmente solo con Hobbes, fiume e Smith, ed in variante di “sinistra” con Rousseau). Ha sempre e solo conosciuto membri di comunità umane in rapporto reciproco, solidale e/o conflittuale. La peste individualisti­ ca che oggi ci soffoca deve essere considerata provvisoria e temporanea, frutto di una congiuntura che non credo proprio possa durare per sempre.

U t o p ia e r e in c a n t o d e l m o n d o

4) Il ricambio generazionale è indissolubilmente lega­ to all’idea della giovinezza. Trattasi d i una giovi­ nezza perenne, presente in ogni tempo, perché ogni tempo conosce nuove generazioni e nuovi ideali di rinnovamento, che costituiscono il motore stesso del­ la storia. L’età giovanile è identificabile con l’idea

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della soggettivazione del mondo. Il giovane che si affaccia alla vita prende coscienza d i sé stesso, ma­ turando una concezione soggettiva del mondo, in quanto quest’ultimo viene concepito in funzione della presa di coscienza del proprio essere nella so­ cietà e nel presente storico. D a tale soggettivazione del mondo nascono inevitabilmente le utopie, quali visioni che trascendono il proprio tempo, in funzio­ ne d i realtà dell’avvenire, ma in fieri nel presen­ te. La visione utopica scaturisce dalla necessità dì superare una realtà obiettiva in cui non ci si ri­ conosce, di sfuggire alle condizioni alienanti della eredità storica, che impediscono il libero dispiegarsi delle aspirazioni di una nuova generazione che si sente soffocata dall’oppressione d i un presente senza prospettive. Nell’età della m aturità poi, attraverso la mediazione della soggettività delle aspirazioni con l’oggettività del presente storico, si potranno realizzare quelle trasformazioni che hanno come fattore di prim aria generazione quelle visioni uto­ piche da cui scaturisce ogni rinnovamento del mon­ do. Nell’epoca attuale, la globalizzazione economica ha imposto in modello economico totalizzante in cui sta realizzando un processo inverso a quello scatu­ rito dalla dimensione utopica dell’uomo. La strut­ tura della società attuale, basata sulla ipertrofia della produzione e del consumo determina l’oggettivazione dell’uomo nelle dinamiche dell’economia della produzione e del consumo. Infatti è l’oggettività economica a creare una soggettività umana virtuale, compatibile e omologabile all’economia globale. La realtà socio —economica scaturita dalla globalizzazione ha condannato a. morte l’idea forza della trasformazione del mondo. Forse sono queste le ragioni dell’assenza di utopie nel nostro tempo

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e la dissociazione dell’utopia dall’idea d i giovinez­ za, intesa come soggettivazione del mondo. Il disin­ canto del mondo teorizzato da Max Weber forse è giunto alla sua compiuta realizzazione con l’ogget­ tivazione dell’uomo nell’economia, nella tecnologia, nella virtualità telematica. L’utopia può definirsi tale, se prefigura realtà future, in cui si esprime l’anelito umano alla incondizionatezza, alla liber­ tà dai lim iti imposti da un’epoca ormai esaurita e senza avvenire. L’utopia è dunque l’idea che potrà presiedere ad tm nuovo reincanto del mondo? Ogni rinnovamento del mondo deriva da un’idea utopica di incanto, d i perfezione, di giustizia, di assoluto, e sorge proprio dalla coscienza delle inefficienze, dei bisogni, dei mali congeniti alla realtà presente. Accolgo con molto favore ed approvazione il tuo in­ teressamento per la nozione di utopia, e colgo l’occasione di questa tua quarta domanda per chiarire brevemente la mia posizione politica e filosofica in proposito. Concordo sul fatto che la logica della globalizzazione mercatistica intende condannare l’idea utopica della trasformazione del mondo. Nello stesso tempo, per l’inesorabile dialettica che la pervade, essa incarna il massimo dell’utopia negati­ va (alla 1984 di Orwell, per intenderci), l’incubo dell’”arresto definitivo” del tempo storico nella mercatizzazione integrale non solo dell’economia (economia di mercato), ma di tutti i rapporti umani e sociali (società di mercato). Ernst Bloch impostò a suo tempo in modo insupera­ bile la questione, affermando che l’utopia si occupa solo del presente. Più esattamente, essa prefigura, all’interno del presente, un presente alternativo. Ancora più esatta­ mente, essa prefigura, all’interno del presente, un presen­ te alternativo, sulla base di possibilità potenziali presenti già nel presente, anche se dominate e soffocate. Noterai

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che non ho mai usato la paroletta “futuro”, pur essendo ovvio che le utopie hanno generalmente un orientamento “futuristico” e non “tradizionalistico”, e di regola pre­ diligono la prefigurazione del futuro alla nostalgia del passato. E tuttavia, a proposito del futuro, condivido il motto che recentemente Eugenio Orso ha premesso ad una sua convincente analisi delle classi sociali nel capita­ lismo globalizzato odierno, per cui “ignota è l’architettu­ ra del domani”. Sulla base della definizione data di utopia, mi permet­ terai di sbozzare un breve percorso della mia concezione di utopia all’interno della tradizione filosofica occidentale. La filosofia greca nasce sulla base di una utopia della co­ munità, una comunità politica capace di impedire dall’in­ terno, senza interventi provvidenziali esterni (il Salvatore cristiano, il Regno di Dio, eccetera), la dissoluzione anomica ed individualistica della comunità stessa. La filoso­ fia non nasce quindi, se non indirettamente, dalla ricerca dei primi principi materiali (Talete) o dalla cosiddetta “meraviglia” (Aristotele). Essa nasce sulla base del man­ tenimento dell’utopia della comunità sociale solidale. Il primo grande pensatore “utopista” è allora Parmenide, il grande legislatore pitagorico di Elea, che la esprime nella forma, solo apparentemente misteriosa ed in realtà chia­ rissima, del concetto di Essere, eterno ed immutabile (to ori) in quanto non soggetto a cambiamento. Questo Essere è un’utopia sociopolitica, o più esattamente comunitaria, in quanto esprime in forma metaforica l’idea di perma­ nenza nel tempo della perfetta legislazione pitagorica, estranea a qualunque “aggiornamento”, capace di rego­ lare in modo insuperabilmente “perfetto” la convivenza comunitaria dei cittadini, contro l’irruzione dell’indivi­ dualismo mercatistico portato dal denaro (chremata), la cui logica di sviluppo inevitabile, infinita ed indeterminata (apeiron) è la schiavitù per debiti per i più poveri.

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Hegel sostenne acutamente che la Repubblica di Plato­ ne non era per nulla un’anticipazione greca della successi­ va utopia rinascimentale moderna (Tommaso Moro, Cam­ panella, Bacone, eccetera), ma era l’espressione più pura dell’idealismo della cultura greca, ed era pertanto “ideale” come le forme ideali della grande scultura greca. Come la scultura greca portava nella materia l’ideale della perfetta forma del corpo, l’utopia platonica portava nella società l’ideale della perfetta forma della convivenza comunitaria umana. È del tutto evidente che l’architettura concreta della Repubblica di Platone non è accettabile secondo le regole del Politicamente Corretto di oggi (a partire dalla dittatura eugenetica dei matrimoni combinati dai gover­ nanti sulla base per di più di una “nobile menzogna”), ma non è questo il criterio giusto per cui essa deve essere giudicata. Si tratterebbe di un criterio anacronistico ed antistorico. La Repubblica è ideale come è ideale la statua di Afrodite. Entrambe sono in un certo senso del tutto “utopiche”. Benché possa sembrare a prima vista strano, è stato Aristotele colui che ha filosoficamente fondato il concetto di “utopia” come piace a me ed a te, in quanto è stato Ari­ stotele a distinguere con precisione il concetto di possibile come casuale, contingente ed aleatorio (katà to dynatòn) ed il concetto di possibile come potenzialità contenuta all’interno del concreto sviluppo dinamico di una realtà (dynamei on). L’utopia, intesa come potenzialità presente in un presente storico alternativo a quello dominante, deriva dialetticamente proprio dal concetto di essente-in-possibilità (e cioè appunto dynamei on). Questa premessa, sia pure un po’ lunga, era necessa­ ria, per mostrare come il concetto di utopia deriva dalla saggezza dei greci, e non è stata improvvisamente inven­ tata nel 1516 da Tommaso Moro con la sua nota operetta Utopia. Essa comprende due libri, e soltanto il secondo

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è dedicato alla descrizione dell’Utopia vera e propria. Il primo libro, spesso trascurato, è invece il più significativo, perché in esso Moro parla delle recinzioni (enclosures), che scacciano dalle campagne i contadini poveri, che diventa­ no cosi spesso ladri per poter sopravvivere, ed in questo modo contribuiscono a far aumentare la criminalità, che non è pertanto dovuta ad una fantomatica malvagità inna­ ta nell’uomo. Sembra di leggere, con mezzo millennio di anticipo, un’analisi odierna del rapporto fra pauperismo, espropriazione dei più poveri e criminalità. Il grande idealismo classico tedesco (che nella mia per­ sonale ricostruzione, che qui ovviamente non ho lo spazio per riassumere, comprende Fichte, Hegel e Marx, che per me non è affatto un “materialista”, ma il coronamento utopico della filosofia classica tedesca) è stato una gran­ de utopia dei ringiovanimento dell’umanità (Verjungen der Menscheit). Come tu hai correttamente notato nella tua do­ manda, l’utopia può anche essere definita una soggettiva­ zione giovanile del mondo. Non si tratta però di questo o di quel giovane empiricamente dati, ma del Giovane (con la maiuscola) come concetto unificato ideale del ringio­ vanimento del mondo (si tratta peraltro del concetto di 10 in Fichte, in cui l’Io giovanile distrugge i pregiudizi e le ingiustizie accumulatisi nella storia dal Non-io, che è poi una metafora concettuale unificata del Vecchio, in cui 11 Vecchio non è più il portatore della saggezza, ma dei pregiudizi). Non c’è qui lo spazio, e neppure la necessità, di di­ scutere la mia interpretazione di Hegel come portatore di una unità concettuale contraddittoria di Utopia e di Realismo. Si tratta di un realismo utopico (l’ossimoro è ovviamente intenzionale), in quanto il realismo è soltanto il freno a mano di un veicolo che percorre la via del perse­ guimento di una comunità utopica moderna, che non può certo riproporre e restaurare la grecità classica, ma deve

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incorporare la nuova individualità nelle nuove forme della famiglia, della società civile e dello stato. Non a caso, la logica iperindividualistica ed atomistica dell’attuale glo­ balizzazione neoliberale tende a distruggere soprattutto la famiglia monogamica, la società civile delle professioni stabili che durano un’intera vita, e lo stato nazionale por­ tatore della sovranità monetaria. Marx raccoglie l’eredità dell’utopia comunitaria mo­ derna di Hegel, e cerca di “infuturarla” nella sua società comunista senza proprietà privata, famiglia, società civile e stato. Qui mi sembra che l’errore concettuale di Marx (peraltro largamente scusabile, soprattutto ai suoi tempi) sia stato quello di cercare di dedurre l’utopia del futu­ ro a partire da dati del tutto discutibili (in quanto for­ temente esagerati, e quindi maldestramente estrapolati) del suo presente storico, a partire dalla sopravvalutazione delle capacità (in realtà modestissime) della classe ope­ raia, salariata e proletaria, e dalla presunta incapacità (in realtà inesistente) della borghesia capitalistica nel riuscire a sviluppare le forze produttive (in realtà, le sviluppa fin troppo, in modo distruttivo, sia per l’ambiente che per la convivenza umana). Pur autoconsiderandomi un allievo indipendente ed “eretico” di Marx, ritengo concretamente impossibili e impraticabili (e quindi negativi) proprio gli elementi del suo pensiero che piacciono a tutti gli anarcoidi, gli estre­ misti e i confusionari, e cioè l’estinzione dello stato, la morte della famiglia, la fine integrale della forma di merce, eccetera. Per quanto mi riguarda, il comunitarismo è sol­ tanto il comuniSmo privato dei suoi aspetti impraticabili, che in realtà, sotto l’apparente forma di un collettivismo livellatore, derivano da un segreto individualismo, a sua volta ereditato non certo da Hegel, quanto da Rousseau, il cui contratto sociale equo derivava da individui alla Ro­ binson, privi di legami familiari e comunitari precedenti.

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Possiamo quindi riassumere il tutto in questo modo. L’utopia non è soltanto una vaga idea regolatrice di un nebuloso futuro, e non è neppure una consolazione mora­ listica per la miseria del presente. L’utopia è una idea-forza realistica, perché “realmente” radicata in possibilità po­ tenziali già esistenti qui ed ora. Le spietate oligarchie che ci governano, ovviamente, promuovono una visione del mondo anti-utopica (Popper, Dahrendorf, Bobbio, Haber­ mas, eccetera), che chiamano ipocritamente modernità, oppure una visione del mondo iperrealistica da utopia ne­ gativa del tutto impraticabile (postmoderno, Sloterdijk, eccetera). Il sentiero dell’utopia vera, che definirei utopia realistica, è certamente stretto, ed è facile cadere. Ma mi sembra che stiamo faticosamente percorrendolo entrambi, e possiamo esserne moderatamente fieri e contenti.

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Benedetto XVI e il declino della modernità

A lla r ic e r c a d i u n n u o v o u m a n e s im o

1) Nella enciclica “Caritas in ventate’’ di Benedetto XVI, facendo riferimento alla “Populorum progressio” d i Paolo VI, si afferma “N el disegno di Dio, ogni uomo è chiamato allo sviluppo, perché ogni vita è vocazione”. Il concetto di sviluppo assume il signi­ ficato di vocazione in quanto presuppone la natura trascendente dell’uomo. Uno sviluppo che negasse la dimensione trascendente renderebbe l’uomo oggetto di uno sviluppo immanente alla storia e non sog­ getto, quale autonoma persona artefice della propria libertà. Lo sviluppo si tradurrebbe quindi in una vocazione dell’uomo alla verità, perché comprende l’integralità della persona, sia sul piano naturale che su quello soprannaturale. Infatti, le cause del sottosviluppo non sarebbero tanto di ordine mate­ riale, ma sarebbero dovute alla mancanza di valo­ ri etici, quali la carità, la solidarietà comunitaria. Nell’enciclica di Benedetto X V I si afferma: “La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”. Alla Chiesa non manca certo il senso della realtà storica, al fine di comprendere le problematiche sociali del nostro tempo. Tuttavia, poiché la vocazione allo sviluppo spinge gli uomini a fare per “essere di p iù ”, quale crescita dell’essere dell’uomo nella prospettiva trascendente, dobbiamo osservare che la problematica dell’essere nella storia è stata oscurata da quella dell’avere individualistico. Nel mondo post-moderno globalizzato si è in quanto si ha, in term ini economici, sociali, culturali, mora­ li. Uindividuo è in quanto non ha finalità che tra-

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scendono se stesso: egli possiede se stesso nella misura in cui è svincolato da legami fam iliari, comunitari, trascendenti, che definiscono la sua identità storico­ sociale. Non è un caso che il concetto d i sviluppo nel mondo contemporaneo sia legato indissolubilmente alla crescita economica. Il sottosviluppo è in larga parte conseguenza di una forma di sviluppo impo­ sto al terzo mondo decolonizzato, che coincide con l’esportazione forzata del modello occidentale tecno­ cratico —capitalista, che ha determinato impoveri­ mento di risorse, soppressione delle economie locali, sradicamento delle tradizioni identitarie. E stata la crescita dell’Occidente la causa stessa del sottosvi­ luppo del terzo mondo, da cui ha estratto materie prim e a basso costo, ed esportato debito insolvibile. Il modello di sviluppo economico occidentale impo­ sto su scala mondiale, non ha solo marginalizzato il terzo mondo, ma ha anche annientato le ideologie novecentesche (già condannate dalla d i Giovanni Paolo II come ), ed insieme ad esse il messaggio trascendente delle re­ ligioni. Non ho ravvisato nell’enciclica di Benedetto X V I la coscienza di questo processo di espansione dai contenuti nichilisti del liberismo globalista in cui sono state accomunate nello stesso destino decadente sia l’ideologia che la religione. Ideologia e religione non sono tuttora elementi essenziali per lo sviluppo di nuovi umanesimi fu tu ribili? La recente enciclica papale è indubbiamente un testo notevole, anche perché finalmente vola “alto” su di un tema ritenuto tradizionalmente “basso”, come i rappor­ ti economici e sociali. Ma qui, appunto, il massimo di altezza coincide con il massimo di apparente “bassezza”.

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Non esiste nulla di più alto della considerazione critica dei rapporti sociali, politici ed economici. Per usare un linguaggio medioevale (comunque sempre migliore del linguaggio post-moderno e del razionalismo detto “laico”, termine improprio ed ingannatore, perché in greco laos significa popolo, non élites snobistiche legate al capitale finanziario), Gerusalemme c’è soltanto quando si occupa di Babilonia, ed il Millennio c’è soltanto quando si occu­ pa del Secolo. Tutto il resto è solo “sepolcro imbiancato” (Gesù di Nazareth). E tuttavia, questa enciclica ha dovuto necessariamente subire la sorte della rapidissima obsolescenza mediatica e giornalistica. Per qualche giorno se ne è parlato sui gior­ nali, e poi è sparita. Testi del genere sono fatti per una “cultura della lentezza" e della riflessione pacata, del tutto incompatibile con l’attuale ontologia del telefonino e del telecomando. E tuttavia, il suo relativo successo (da quan­ to riesco a capire, maggiore che in casi precedenti) è stato dovuto principalmente a due fattori. In primo luogo, allo scoppio della recente crisi finan­ ziaria, con le note ricadute in termini di impoverimento dei ceti medi e di disoccupazione delle classi operaie, sa­ lariate e proletarie, già fortemente colpite nei due decenni precedenti dall’oscena generalizzazione del lavoro flessibi­ le e precario, che se fossi un teologo cattolico definirei “il più grande peccato possibile di fronte a Dio”. Lo scoppio di questa crisi ha messo in crisi l’osceno gracchiare apolo­ getico del “partito degli economisti”, partito che non è né di destra né di centro né di sinistra, ma è un partito tota­ litario criminale che personalmente metterei fuorilegge, se ne avessi il potere. Essi non solo non hanno “previsto la crisi”, come si suole dire oggi in modo cauto e mini­ malista, ma hanno attivamente sostenuto il ventennio di rapina che ci sta alle spalle. A questo punto, la critica dell’enciclica di Ratzinger è confluita nel grande estuario

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limaccioso delle critiche alle “esagerazioni” del capitali­ smo incontrollato, critiche che oggi fanno quasi tutti, con l’eccezione di pedofili, lupi mannari e traders di vario tipo, tirati su ad avidità e cocaina. In secondo luogo, al suicidio della precedente “sinistra anticapitalistica”, riciclata e riconvertita (soprattutto a partire dall’alto, e cioè dai suoi tre settori del ceto politico, del circo mediatico e del clero universitario), rimasta in piedi soltanto come struttura politica di intermediazione e come bacino elettorale di confusionari, che hanno rapida­ mente trovato nell’anti-berlusconismo il succedaneo della precedente via italiana al socialismo. Rimasta come bacino elettorale e nicchia identitaria la “sinistra” è sopravvissu­ ta come fattore politico-parlamentare, ma è sparita come portatrice di visione del mondo e come profilo filosofico (nel senso in cui anche i “semplici” sono potenzialmente filosofi, come scrisse a suo tempo correttamente Antonio Gramsci). In questo gigantesco “buco” morale e spirituale (verificatosi peraltro in modo parallelo e convergente an­ che a “destra”), è del tutto naturale che il linguaggio della chiesa cattolica abbia (parzialmente) riempito il buco. Tutto questo però è soltanto congiunturale e provvi­ sorio. Come è avvenuto dopo il terremoto dell’Abruzzo del 2009, le tende restano pur sempre provvisorie. Prima o poi, la gente si stanca di abitare in tenda, e prima o poi vuole giustamente tornare ad abitare in case di muratura. Lo stesso avviene a mio parere per la necessità odierna di valutare e di criticare la società capitalistica. C’è stato un terremoto storico negli anni 1989-1991- I vecchi edifici del comuniSmo storico novecentesco sono crollati, e sono crollati perché non erano stati costruiti con criteri anti­ sismici (e cioè, fuori di metafora, sulla base di un reale consenso democratico dei cittadini). Per vent’anni i pro­ fughi di “sinistra” sono vissuti in tende provvisorie (ide­ ologia del totalitarismo, ideologia dei diritti umani con

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bombardamento unilaterale incorporato, post-moderno, bioetica individuale, eccetera), ma il tempo dei brontolii sotto la tenda (piove, fa freddo, i bambini si lamentano, eccetera) sta finendo. I mascalzoni ed i maramaldi della cosiddetta “sini­ stra” hanno deciso di passare dall’eguaglianza sociale al fiancheggiamento del femminismo di “genere” ed alla riduzione del senso del mondo alla (pur giusta) solidarie­ tà verso zingari e migranti, allontanandosi così dal loro stesso precedente popolo di riferimento, costantemente ingiuriato come leghista, populista ed egoista. E allora del tutto evidente che, trovato chiuso uno sportello preceden­ temente aperto, si corra a cercarne un altro. E quello che è successo negli ultimi vent’anni. Qui sta la ragione del (relativo) interesse verso la recente enciclica di Ratzinger. E tuttavia, le chiese non si riempiranno per ragioni di aggiornamento teologico o di intelligente diagnosi filoso­ fica. Le chiese, ormai semivuote da tempo, si riempiono a metà sulla base della gestione quotidiana della sacralità simbolica della famiglia, della paternità, della maternità, della fragilità della terza età. Si riempiono perché mentre i teologi e gli intellettuali idioti si sono secolarizzati, la maggior parte dei semplici preti e delle semplici suore non si sono auto-secolarizzati. Volere una chiesa secolarizzata è come volere un gelato bollente. La religione esiste soltanto nella misura in cui non fa nessuna concessione alla secola­ rizzazione, in quanto la secolarizzazione non è affatto una “religione adulta”, ma è il contrario di tutte le religioni. Ma su questo vorrei tornare in seguito. Ratzinger ha capito (e non era affatto facile) che la religione cattolica non si sarebbe “salvata” con la trasformazione delle chiese in centri di assistenza sociale. In altre parole, Ratzinger ha capito che la chiesa non si sarebbe salvata dalla secolariz­ zazione assecondandola ed auto-secolarizzandosi. È questa la ragione per cui è tanto odiato dai pagliacci del laicismo

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ultracapitalistico (Scalfari, Flores d ’Arcais, eccetera), il cui ideale sarebbe un papa laico, relativista e fallibilista. Per­ sonalmente, non voglio prendere in giro il lettore e farmi scambiare per un “ateo devoto” (in cui la devozione è in realtà adesione al neo-conservatorismo USA e sionista, vedi Pera, Ferrara, eccetera). Non sono quello che si chia­ ma un “credente”, anche se credo immensamente di più di Casini e di Berlusconi nella capacità umana di battersi per una società più giusta. Ma, se fossi un credente, vorrei una chiesa la meno auto-secolarizzata possibile, che smette di perdere tempo con pomposi ed inutili “dialoghi” con i lai­ ci, palestre narcisistiche per semi-colti profumatamente pagati dagli enti locali (generalmente di centro-sinistra). E tuttavia, poniamoci radicalmente il problema: la cosiddetta “dottrina sociale della chiesa” è all’altezza dei problemi contemporanei, oppure resta una mezza misura, o come dicono gli anglosassoni, una teoria di media por­ tata (middle-range theory)? Questo, e solo questo, è il problema. Il resto è chiac­ chiericcio per colti.

E t ic a e m e r c a t o : d u e sistem i in c o m p a t ib il i

2) Uenciclica sociale di Benedetto XV I pone l’accento sulla centralità dell’uomo nella vita economico —so­ ciale. Viene posta in risalto la condizione umana oggi degradata dalle inaccettabili differenze d i ricchezza sia all’interno dei paesi sviluppati che tra gli stati, oltre alla disgregazione della coesione sociale e delle istituzioni democratiche, con relativo abbassamento del livello di tutela dei d iritti dei lavoratori. Occor­ re dunque riflettere stili’economia e sui suoi fini. La disgregazione sociale, l’insicurezza dovuta alla pre­ carietà, il livellamento delle culture nella dimen-

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sione tecnologica, vengono evidenziati come fattori che conducono, oltre che a l degrado della condizione umana, a guasti anche nell’ambito dell’economia, che verrebbe depauperata delle risorse del capitale umano. L’economia viene considerata uno strumento e non un fine e pertanto non può risolversi unica­ mente nella logica mercantile, ma deve perseguire il bene comune. La logica antisociale del profitto è in­ f a tti sopraffazione dei deboli. “Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae for­ ma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano”. I param etri culturali e morali propri di una società sarebbero dunque i criteri che infor­ mano gli orientamenti del mercato. In realtà, nella società liberista globalizzata, è il mercato a dettare le condizioni di sviluppo e quindi a determinare gli orientamenti culturali, a prescindere dai presuppo­ sti morali. Il mercato globale è una realtà economica che presiede alla totalità delle a ttività umane, il cui unico criterio di valutazione è dato dalla loro ade­ guatezza alle dinamiche del mercato. Il capitalismo assoluto deve il proprio successo al fatto di non esse­ re vincolato ad alcun principio etico intrinseco alla economia d i mercato. Tra i postulati fondamentali dell’economia liberale c’è proprio quello secondo cui l’economia è scienza nella misura in cui fa astrazio­ ne da elementi etici e!o culturali estranei. La scienza economica non è dunque neutrale, quale strumento predisposto alla realizzazione d i finalità esterne ad essa, ma è autoreferente a se stessa, per principio anetica e dissolutrice di altre scienze, filosofie e re­ ligioni che ostacolino il raggiungimento dei propri fini, quali il profitto, l’espansione produttiva, il con­ sumo. Giudico quindi illusoria l’istanza contenuta nell’enciclica secondo cui possano sussistere spazi per

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iniziative economiche che non perseguano profitto e che possano essere istaurati rapporti economici ispi­ rati alla gratuità e alla, logica del dono nell’ambito di una società globale strutturata sul mercatismo. Il principio contrattuale è antitetico al principio della solidarietà, nella misura in cui le funzioni redistri­ butive degli stati si rivelano incompatibili con le condizioni poste dalla concorrenza selvaggia di un mercato globale che annulla la sovranità degli stati. Possono solo sussistere istituzioni no-profit, qualora queste si rivelino funzionali al mercato. Istituzioni d i carattere assistenziale (in prim is la gestione dei flussi migratori), che adempiano a funzioni spesso già svolte dallo stato e che comunque contribuiscano a prevenire tensioni sociali che potrebbero rappre­ sentare elementi di turbativa del mercato. Mi sono letto due volte attentamente l’enciclica, e per di più con l’evidenziatore, come è necessario fare con i testi filosofici e teologici “seri”. Ratzinger è un papa filo­ sofo, e dal momento che anch’io sono un filosofo di profes­ sione mi lusingo di capire che cosa ci sta di volta in volta dietro certe formulazioni apparentemente ovvie e sempli­ ci. Il teologo è per me semplicemente un filosofo che crede in Dio, ed infatti non è un caso che questo termine non venga mai usato per chi parla di Dio senza però crederci, almeno in senso monoteista (ad esempio, nessuno chiame­ rà mai Spinoza e Feuerbach “teologi”, anche se entrambi parlano ossessivamente di Dio, ancor più di monsignor Ravasi o di monsignor Martini). Per ragioni di spazio, è ovvio che non posso fare continue citazioni. Una foresta è fatta di alberi, ma io tratterò questa enciclica come una foresta unitaria. Non c’è nulla di peggio del commentatore che si perde dietro ogni singolo albero, e non vede più l’unitarietà della foresta.

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La foresta ratzingeriana si presenta come un esercizio retorico di convincimento. Si tratta di un’interpellazione morale (ed anzi, ahimè, moralistica) rivolta al capitalismo. Anziché “ascolta, Israele!”, Ratzinger esclama: “Ascolta, globalizzazione capitalistica, e pentiti!”. Più esattamente, pentiti per i tuoi eccessi. E tuttavia, rivolgersi alla produ­ zione capitalistica, per di più nella sua forma globalizzata, equivale a rivolgersi alla sintesi clorofilliana o alla deriva dei continenti. Si dirà che l’analogia non è corretta, perché le piante e le rocce non possono ascoltare, ma gli uomini si. E tuttavia nel capitalismo gli uomini non si comportano come uomini, dotati di fede, logos e raison, ma come animai spirits e come maschere di carattere (Charaktemiasken). Se devo pagare un operaio millecinquecento euro in un posto, e posso pagarlo a parità di tecnologie e di competenze tre­ cento euro in un altro, il capitalista ignorerà l’intera tradi­ zione umanistica occidentale e l’intera tradizione culturale cristiana, ed effettuerà una “delocalizzazione”. Non ho certo scoperto nulla di nuovo. Tutto questo era già largamente noto anche molto prima di Marx. Ma qui non si tratta di noto o di ignoto, quanto di rigore intellettuale e morale. Il solo modo concreto di “domare” la logica del mercato globale, a mia conoscenza, è il pro­ tezionismo più o meno temperato. Ma è appunto il pro­ tezionismo che è escluso a priori dalla vulgata economica neoliberale. Alla base sta la pretesa (a mio avviso del tutto infondata) che l’economia politica moderna (nel senso di Smith, Ricardo, Keynes e Schumpeter) sia una scienza. Ma a mio avviso non è affatto una scienza, in nessun si­ gnificato del termine. Si tratta di una specifica ideologia sociale su basi filosofiche individualistiche e utilitaristi­ che, che si presenta come scienza esattamente come nel medioevo la teologia si presentava come scienza (pretesa, peraltro, accettata dai domenicani e respinta dai france­ scani, salvo eccezioni minoritarie nei due campi). Marx

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sarà stato ateo, e quindi reprobo, ma ha avuto perfetta­ mente ragione quando ha fatto la sua (discutibile finché si vuole) critica dell’economia politica. Una critica globale, che non lascia pietra su pietra. Vogliamo gettare via il bambino di questa critica insieme con l’acqua sporca de­ gli errori ed orrori del comuniSmo storico novecentesco (Katyn, gulag staliniani, Poi Pot, eccetera)? Lo si faccia pure, ma se lo si fa non ci si stupisca poi se restano in pie­ di soltanto geremiadi moralistiche di cui i capitalisti non tengono peraltro alcun conto. La scienza economica, quindi, è irriformabile. Può soltanto essere sostituita con una concezione globale al­ ternativa. Cercherò di argomentarlo usando lo stesso les­ sico concettuale di Ratzinger, per cui se per caso potesse leggermi (ma è da escludere, in quanto sembra preferire interlocutori di comodo tipo Pera ed Habermas, quando non Oriana Fallaci e .Magdi Allam) potrebbe almeno ca­ pirmi, anche se ovviamente non condividermi (la Divina Provvidenza, infatti, non si spinge tanto in la). Il processo detto di secolarizzazione non è certamente un insieme di opinioni filosofiche e religiose, ma è un pro­ cesso strutturale di legittimazione della società in quan­ to tale. Fino ad un periodo oscillante fra il 1730 ed il 1830 circa, la legittimazione sociale in Europa era basata in vario modo sulla religione (trascuro qui le pure im­ portanti differenze fra cattolicesimo, protestantesimo ed ortodossia, presupponendole come note nel lettore). Con la rivoluzione industriale ed il suo successivo propagarsi nei vari paesi europei (e poi negli USA, in Russia e in Giappone) la legittimazione sociale “passa il testimone” dalla religione alla economia politica, che diventa cosi la nuova teologia secolarizzata del capitalismo. Ho detto del capitalismo, non della “borghesia”, che a differenza del capitalismo, che è un anonimo mostro freddo, produce an­ che la sua “coscienza infelice” nelle sue varie forme (ide-

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alismo, marxismo, niccianesimo, eccetera). Benché l’illu­ minismo sia un fenomeno complesso e contraddittorio, e non possa essere sbrigativamente ridotto ad ideologia di legittimazione del capitalismo (né intendo certamente farlo), è indubbio, e non può essere decentemente negato, che il suo concetto di ragione si sia strutturato sulla base della riduzione del pensiero umano ad intelletto calco­ lante, nel doppio aspetto di intelletto calcolante scienti­ fico (Kant) ed economico (Hume, Smith, eccetera). Non si tratta allora di respingere o di accettare integralmente l’illuminismo. Si tratta soltanto, per ora, di capire questo suo carattere, e di non prostrarglisi davanti con il culo per aria come fanno i talebani prima del combattimento. I talebani del laicismo, numerosissimi da noi, fanno esat­ tamente questo. Ratzinger ha capito questo, e per questa ragione non respinge la ragione in quanto tale, ma intende ridefinirla in termini di logos greco e non di raison illuministica. A differenza di come fanno i dilettanti che stabiliscono una linea continua “europea” dai greci ad Habermas, Ratzin­ ger sa perfettamente che questa linea continua non esiste, perché la ragione dei greci comprendeva l’intero comples­ so della riproduzione comunitaria umana, e non avrebbe mai consentito la riduzione di questa riproduzione unita­ ria alla sola dimensione alienata del cosiddetto homo oecononùcus. Questo pone il filosofo Ratzinger molto più in alto del pollaio laicista che domina nei mezzi di comunicazio­ ne di massa e negli apparati manipolatori delle facoltà di filosofia. E tuttavia, come nel romanzo di Stevenson del Dottor Jekyll e di Mr Hyde, Ratzinger deve fare i conti con la sua ombra, chiamata Benedetto XVI, che gestisce un gigantesco apparato burocratico (una vera e propria in­ dustria del Sacro e della sua amministrazione) pienamente incorporato (Polanyi avrebbe detto embedded) nella ripro­ duzione capitalistica e nelle sue oligarchie. Nelle cerimo-

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nie costituzionali, a fianco di ministri, prefetti, ambasciatori, giornalisti, eccetera (mancano soltanto in genere le puttane, oggi pudicamente chiamate escort, fra poco la sco­ pata verrà chiamata movimento sussultorio a due di tipo edonistico secolarizzato), ce sempre un Vescovo-Pretone dall’aria compunta. E allora? Diciamocelo per una volta in latino: oportet ut scandalo, eveniant, e più presto verranno e meglio sarà.

La “ f a m ig l ia

u m a n a ” e la g l o b a l iz z a z io n e

5) La Chiesa prende atto del processo di globalizzazio­ ne, evidenziandone le trasformazioni di caratte­ re socio —economico, l’interconnessione sempre più accentuata tra i popoli, il processo d i progressiva unificazione della “fam iglia umana”. Nell’encicli­ ca viene criticato il suo accentuato carattere deter­ ministico, l’orientamento che assolutizza l’aspetto socio-economico. Ma la globalizzazione stessa viene considerata nel suo complesso come un fenomeno che offre grandi opportunità, se gestito nel senso di “favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo d i integrazione planetaria”. Pertanto occorrerebbe correggerne le disfunzioni derivanti da una sua cattiva gestione: si renderebbe necessario infatti un suo riorientamento di carattere etico —culturale, che si sostituisca alla attuale impostazione individuali­ stica e utilitaristica, conferendo alla globalizzazione stessa le finalità proprie d i una um anità solidale. Viene teorizzata cioè, una globalizzazione che generi redistribuzione della ricchezza, anziché accrescere i differenziali di ricchezza tra i popoli, crei sviluppo anziché sottosviluppo generalizzato. Il processo di

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globalizzazione in atto trae origine da fasi d i tra­ sformazione evolutive interne al mondo capitalista, dopo la fine delle ideologie e in corrispondenza del­ la fine del bipolarismo USA - URSS con relativa affermazione degli USA quale unica superpotenza mondiale. La globalizzazione non è un processo di carattere deterministico — necessario scaturito da una forza progressiva immanente alla storia che conduca allo sviluppo d i una um anità unificata sot­ to l’egida d i un progresso illimitato, ma è frutto d i una strategia espansionistica mondiale del modello di società capitalistica, imposto dalla superpotenza americana. D a quanto precede, emerge l’incompa­ tibilità assoluta tra il modello solidale universa­ listico proprio della missione della Chiesa ispirato alla visione trascendente dell’uomo. La Chiesa vuole inserirsi nelle dinamiche dei processi storici in atto, adeguando alle circostanze storiche contingenti il proprio messaggio. La Chiesa vuole in tal modo tro­ vare un suo spazio nell’ambito di fenomeni storici alla cui genesi è completamente estranea. Essa tenta di sfuggire alla sua progressiva marginalizzazione dalla storia cui sembra averla condannata la civiltà occidentale divenuta laicista e cosmopolita da circa 200 anni a questa parte. Tali adeguamenti della Chiesa alla realtà storica contingente, comportano però il rischio d i uno snaturamento del messaggio evangelico nei suoi contenuti trascendenti —escato­ logici. La visone della globalizzazione quale possi­ bile processo d i integrazione planetaria della “f a ­ mìglia umana”, non comporta implicitamente la trasformazione dell’universalismo cattolico in una sorta d i cosmopolitismo astratto, uguale e contrario a quello delle correnti materialistiche dell’in divi­ dualismo liberale?

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Tu noti giustamente, e lo metti anzi al centro delle tue considerazioni, che l’idea portante dell’enciclica di Ratzin­ ger è la distinzione fra la globalizzazione, in sé potenzial­ mente buona, e la sua cattiva gestione neoliberale, che si tratterebbe di correggere con rimedi fondamentalmente volontari, di tipo solidaristico e morale. Il papa non sareb­ be così un No Global, ma un New Global, per usare il grot­ tesco linguaggio dei giornalisti e dei commentatori me­ diatici. E tuttavia, se togli la praticabilità di questo pre­ supposto, che è il fondamento teorico esplicito dell’intera enciclica, tutto il resto perde largamente di significato. Si tratta di un presupposto errato, che corrisponde in cam­ po politico-sociale al presupposto geo-centrico della vec­ chia astronomia tolemaica pre-galileiana. Parlo sul serio, e letteralmente: la valutazione positiva della globalizza­ zione capitalistica attuale corrisponde, mutatis mutandis, al modello astronomico geocentrico, e come quest’ultimo era irriformabile, e non consentiva correzioni di dettaglio, ma doveva essere rovesciato dalle fondamenta, nello stes­ so modo il sistema della globalizzazione economica deve essere rovesciato dalle fondamenta. Certo, i rapporti di forza geopolitici e militari non lo consentono a breve ed a medio termine, e non sono cosi sciocco ed ingenuo da non saperlo. Ma una forza che si vuole messianica come la chiesa cattolica non dovrebbe essere incatenata e vincolata al breve ed al medio termine. Lasciamo che questo concer­ na soltanto i miserabili ex-comunisti riciclati in cani da guardia dell’impero USA e del sionismo, con il loro popolo antiberlusconiano di babbioni plaudenti, che ha recente­ mente scoperto che perfino Fini è diventato di “sinistra”. Come sfuggire alla marginalizzazione cui la secolariz­ zazione condanna la chiesa cattolica? È il problema che tu poni, ed è un buon problema, per cui cercherò almeno di prenderlo in considerazione, anche se onestamente non in­ vidio Ratzinger, perché non saprei certamente rispondervi.

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Se io fossi papa (lo dico per scherzo, parafrasando Cecco Angiolieri) arresterei certamente il processo suicida di auto­ secolarizzazione e restaurerei la messa in latino (con messali tradotti per i fedeli), ma nello stesso tempo farei finalmente sposare i preti, incoraggerei una teologia di tipo greco e non certamente veterotestamentario ed assiro-babilonese (come quella, e non è un caso, dell’inserto culturale dome­ nicale del Sole 24 Ore - evidentemente è la più innocua per la Confindustria, perché priva della benché minima traccia dello spirito anti-crematistico aristotelico), favorirei un av­ vicinamento all’ortodossia e diminuirei la polemica contro l’islamismo, eccetera. Parlo per scherzo, ovviamente, anche perché data la mia età già relativamente avanzata le proba­ bilità che venga fatto papa cattolico sono irrisorie. Non mi pongo quindi come consigliere non richiesto di una reli­ gione di cui non sono neppure “praticante”. Ciò che invece conta è liberare il problema del rapporto fra religione, politica, economia e cultura dal soffocante abbraccio della situazione italiana, una delle più degenera­ te dell’intero occidente. Il problema da discutere è quello da te inquadrato, quello dell’annullamento dell’universali­ smo cattolico in un cosmopolitismo astratto, eguale e con­ trario (ma in realtà assai più eguale che contrario) a quello delle correnti materialistiche dell’individualismo liberale. In proposito, mi chiedo come ci sia gente cosi ingenua (e mi permetto di aggiungere, cosi stupida), sia pure in per­ fetta sincerità e purezza di spirito (mi riferisco ad esempio al priore di Bose Enzo Bianchi) che non capisce che le ri­ unioni “umanistiche” interconfessionali con preti, pasto­ ri, pope, rabbini, ulema, bonzi, stregoni Sioux, eccetera, lungi dal favorire una vera visione religiosa del mondo (in termini di primato dell’essere sull’avere), non fanno altro che degradare la natura non secolarizzata di tutte le reli­ gioni che si rispettino, che hanno come principale merito quello di non essere relativistiche, e di ritenere di fondarsi

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sulla verità. Il fondamentalismo religioso fanatico ed intol­ lerante è certo da combattere, e merita certamente di essere combattuto, ma questo non può avvenire sicuramente sul­ la base fragile dell’umanesimo occidentalistico di pecoroni salmodianti vestiti in modo carnevalesco. Prima o poi lo capiranno anche gli attori dilettanti che vi partecipano. Combattere il laicismo adottando il relativismo laicista nella forma dell’umanesimo retorico generico (il famoso minimo comun denominatore fra laici e credenti) mi sem­ bra un pezzo di umorismo surrealistico classico. E invece necessario svincolare la parte più seria ed au­ tentica del sentimento religioso dallo scenario degradato dello scontro simulato fra Berluscones e Scalfarones. Ho personalmente “staccato la spina” da almeno un quindi­ cennio da questa batracomiomachia e dalle sue mezze ali estremiste (Feltri e Brunetta per i berluscones e Di Pietro per gli scalfarones), e so bene che anche tu te ne sei “chia­ mato fuori”. Naturalmente, chi in Italia se ne chiama fuo­ ri non ha più accesso alla visibilità pubblica, perché lo sce­ nario manipolato gestito dalle nostre oligarchie impone che tutti gli italiani, ma proprio tutti, siano o berluscones 0 scalfarones. Lo scontro è largamente simulato, con il suo contorno di magistrati, giornalisti e soprattutto putta­ ne, perché quando si arriva ai vincoli imperiali bipartisan (truppe in Afghanistan, tolleranza verso i crimini sionisti, diffamazione verso il benemerito Ahmadinejad, che Allah possa conservare a lungo) allora berluscones e scalfarones si riuniscono miracolosamente in un solo partito unifi­ cato. E questo dovrebbe far pensare se ormai il pensare indipendente non fosse nel frattempo estinto come la ti­ gre con i denti a sciabola. Sebbene io ovviamente sia del tutto neutrale fra berluscones e scalfarones, devo dire che 1 secondi mi irritano leggermente più dei primi, non solo perché ero anche io in camerino quando si sono frenetica­ mente cambiati d’abito dal rosso al rosa (rosso-Gramsci e

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rosa-Veltroni), ma perché almeno i berluscones sono stati eletti in regolari elezioni, mentre gli scalfarones cercano di golpizzare i precedenti attraverso l’azione congiunta di magistrati, giornalisti e puttane, tre categorie certamente nobili e degne di rispetto, ma che però nessuno ha eletto. Torniamo però alla religione, dopo questo intervallo buffonesco, come gli antichi greci tornavano alla tragedia dopo l’intervallo del dramma satiresco. Discutiamo anco­ ra di quello che tu chiami il tentativo di “inserimento” della chiesa in un quadro generale in cui essa è totalmente estranea, che ha dovuto subire e cui non ha per nulla con­ tribuito. E qui infatti il centro del problema. Per capire esattamente di che cosa stiamo parlando, non sarà inutile una analogia storica con la formazione del­ la società feudale europea dopo il lungo e secolare collasso del mondo antico greco-romano, a suo tempo mirabilmen­ te studiato da Santo Mazzarino. La chiesa non ha affatto “creato”, e neppure diretto questo passaggio storico, de­ rivato da una fusione conflittuale fra il tardo latifondismo romano e l’irruzione dei nuovi gruppi militari germanici. Essa ha dovuto subirlo, ed adattarvisi, laddove si era già “assestata” in età costantiniana e teodosiana sulla base di una correzione comunitario-caritativa (l’ideologia del Po­ vero, secondo l’antichista inglese Peter Brown) del modo di produzione schiavistico antico, solo leggermente mo­ dificato dal colonato (e per di più soltanto in alcune zone periferiche del mondo romano). Quindi, neppure allora la chiesa ha creato e determinato un bel niente. E tuttavia, pur non essendo stato un fattore diretto di modificazione strutturale della società, il cristianesimo ha “informato” culturalmente l’insieme del mondo medioevale europeo, e basti in proposito ricordare il simbolismo religioso, la società tripartita medioevale, la conservazione della scrit­ tura, le cattedrali romaniche e gotiche, la grande pittura e scultura sacra, la meravigliosa teologia a base platonica

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ed aristotelica, eccetera. Soltanto la tradizione massonica, filtrata in alcuni ambienti protestanti, ha potuto parlare di medioevo come età oscura. Certo, Dante coesisteva con i roghi degli eretici e delle streghe, ma anche nel mon­ do greco il Partenone coesisteva con la schiavitù. In ogni caso, ciò che conta in questa sede è riaffermare il fatto che la chiesa, pur non avendo per nulla “prodotto” la società feudale e poi comunale e signorile, ne ha dato l’impronta simbolica e culturale in moltissimi campi. Nulla di simile per la cosiddetta età moderna e con­ temporanea. Qui la chiesa ha dovuto soltanto subire, adat­ tarsi, piegare la testa, gestire l’inerzia conservatrice della parte più debole e subalterna della società (pensiamo al fenomeno della religiosità barocca, che peraltro perma­ ne ancora oggi come la dimensione maggiormente “di massa” della mobilitazione cattolica popolare). La società medioevale (contadina e comunale, nobiliare e protobor­ ghese mercantile, feudale e signorile) era impregnata di religiosità. Il denaro contava già molto, anzi moltissimo, e basti leggere la novellistica di Boccaccio per capirlo. Ma nello stesso tempo il denaro e la connessione mercantile non erano ancora il tessuto esclusivo del legame sociale. A mia conoscenza, salvo errore, soltanto il neopaganesimo rinascimentale italiano riabilita integralmente il denaro e la ricchezza come forze positive di cui vantarsi senza ver­ gogna, coscienza infelice e sensi di colpa. Ed anche in que­ sto caso, la chiesa si dimostra debole e subalterna (come era già avvenuto al tempo di Avignone e della messa fuo­ rilegge del francescanesimo pauperistico e popolare), ed abbiamo infatti i papi del tipo di Alessandro VI e Giu­ lio II, normali principi rinascimentali con debolissima ed ipocrita copertura spirituale. Lo stesso assolutismo euro­ peo, ultimo fragile baluardo nobiliare contro la borghesia, deve rivolgersi a preti secolarizzati e machiavellici come Richelieu e Mazarino.

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Da circa trecento anni, il cristianesimo sopravvive nel­ la società come nicchia residuale. Non è comunque colpa sua, e non condivido l’opinione di chi afferma che così non sarebbe stato se non avesse tardato tanto a secolarizzarsi ed ad accogliere il cosiddetto “pensiero moderno”. Il suo re­ lativo ritardo a secolarizzarsi è anzi stato un suo fattore di resistenza, in quanto se si fosse auto-secolarizzato prima in modo suicida sarebbe entrato in crisi anche prima. La sua crisi sta a mio avviso altrove. Dovendo diagnosticare le cause profonde di questa crisi, direi che esse stanno (quasi) tutte nella duplicità ed ambiguità verso la nuova realtà borghese e capitalistica. Da un lato, questa realtà è stata criticata per tre secoli, con una continua insistita critica al cartesianesimo, all’ateismo, al materialismo, al relati­ vismo borghese, eccetera (Ratzinger non si è certamente inventata la critica al relativismo ed al nichilismo, ma l’ha semplicemente riattualizzata alla luce della filosofia con­ temporanea). Si è trattato, insomma, di una critica teolo­ gica e culturale (Rosmini, Del Noce eccetera). Dall’altro lato, mentre si critica la borghesia, si accettava il capitali­ smo, realtà infinitamente peggiore della borghesia stessa, perché almeno la borghesia è un soggetto culturale collet­ tivo capace di coscienza infelice, mentre il capitalismo è soltanto un’orrenda bestia fredda e senz’anima. Qui si colloca la specifica ipocrisia (mi si scusi il ter­ mine, un po’ pesante, ma non ne trovo nessun altro) della chiesa cattolica. Le chiese ortodosse si sono precocemente riconvertite in custodi della comunità nazionale contro gli invasori di altra religione (le chiese cattoliche che hanno di fatto dovuto interpretare questo ruolo sono state fon­ damentalmente due, di Polonia e di Irlanda), e questo ha potuto facilitare la conservazione del loro ruolo, sia pure marginalizzato (penso oggi in particolare non tanto alla chiesa ortodossa russa, imperiale sotto Nicola II come sot­ to Putin, ma alle chiese greca, armena, serba e georgiana).

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Le chiese protestanti hanno seguito la via della secolariz­ zazione fino a suicidarsi dolcemente nell’etica umanisti­ ca scandinava, con l’eccezione del feroce protestantesimo fondamentalista-sionista degli USA, che però a rigore non è più una religione protestante, ma una religione idolatri­ ca nazionale come quella assiro-babilonese, in cui Cristo è soltanto più un Baal a stelle e strisce. La situazione della chiesa cattolica è più ambigua, non solo, ma di tutte la più ambigua. Da un lato, essa è uni­ versalistica proprio in base al nome che porta, ma di fatto è soltanto una forma di occidentalismo aperto in superfi­ cie ad “inculumazioni” subalterne ed ineffettuali di indi­ geni convertiti della Nuova Guinea che ballano in modo post-cannibalico e pre-discoteca. Il solo universalismo oggi sarebbe una forma di denuncia radicale del capita­ lismo globalizzato, privo dei tragicomici aspetti positi­ vistici dell’ateismo scientifico del defunto e penosissimo comuniSmo storico novecentesco, con i suoi politici cinici ed i suoi intellettuali scemi. Ma questo non può avvenire. Ratzinger è certamente un filosofo intelligente, che per molti aspetti mi ricorda quel Nicolò da Cusa quattrocen­ tesco, che per poco non diventò papa anche lui, ma che non lo divenne perché non aveva i soldi per comprarsi la cattedra di Pietro, ma non è un caso che i suoi interlocu­ tori siano personaggi penosi come Jurgen Habermas ed Oriana Fallaci, del tutto al di sotto della percezione della tragicità potenziale della situazione contemporanea. Ratzinger se la prende un giorno si e l’altro pure con­ tro il relativismo ed il nichilismo, sulla base di una no­ zione normativa della natura umana di origine assai più aristotelica che veterotestamentaria. Bravissimo, sono completamente d’accordo. Ma che senso ha combattere il relativismo quando non si ha il coraggio di diagnosticare le ragioni materiali del relativismo stesso? Il relativismo nasce dal fatto che nel mondo della merce capitalistica tut-

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to è di fatto relativo al valore di scambio della merce stessa, ed al potere d’acquisto individuale che vi sta sotto. E dal momento che il semplice scorrimento della merce in tutte le direzioni è appunto la forma economica del Nulla (con la maiuscola), ne deriva che questo Nulla sta alla base della relatività del valore di scambio e del potere d’acquisto. Non voglio certamente insegnare nulla a Ratzinger. Per mia e sua fortuna, non sono papa. E tuttavia prendere sul serio qualcosa, come io ho preso sul serio la sua enci­ clica, significa parlare liberamente senza peli sulla lingua. Io non gli bacerei la mano, ma mi limiterei ad un leggero inchino di cortesia. Non faccio parte del suo gregge, per­ ché non ho pastori, ma nello stesso tempo lo preferisco a tutti i manigoldi e maramaldi con cui ho trascorso decen­ ni intermedi della mia vita.

E c o n o m ia del d o n o e c a pit a l ism o

4) La Chiesa in questa enciclica vuole offrire una pro­ pria visione delle problematiche sociali del nostro tempo. Richiamandosi alla enciclica sociale di Paolo VI “Populorum progressio”, essa ne vuole rappresen­ tare un aggiornamento relativamente al periodo sto­ rico attuale. In essa è presente la condanna morale del capitalismo e del suo conseguente relativismo eti­ co, che profondamente incide sulla società determi­ nando la disgregazione sociale, il degrado progressivo dell’etica solidale e comunitaria e con essa la visione trascendente dell’uomo e della storia. Tuttavia, os­ serviamo che in questa enciclica non si intravede un futuribile, possibile superamento dell’ordinamento capitalista, quale sistema incompatibile con il messaggio evangelico. L’enciclica si intitola “Caritas in ventate” e pertanto, in essa viene coeretitemente

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affermato: “L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione trascendente”. Il sistema capitalista che presiede alla globalizza­ zione è basato su logiche economiciste che incidono integralmente nella vita individuale e collettiva ed è pertanto per sua stessa genesi anticristiano e an­ tiumano. Se “l’essere umano è fatto per il dono”, in quanto creato ad immagine e somiglianza d i Dio, l’individualismo e l’utilitarismo sono contrari alla natura umana. Se, secondo la dottrina della Chie­ sa, l’uomo non è proprietario dei beni terreni ma ne è solo l’amministratore, se il prestito ad interes­ se veniva condannato in quanto il profitto ottenuto sulla base del decorso del tempo è illecito in quanto il tempo non appartiene all’uomo ma a Dio, la Chie­ sa dovrebbe auspicare la fondazione di nuovi ordini economici e sociali che si sostituiscano integralmente a l capitalismo. Leconomia del dono e l’economia di carità sono storicamente esistite e quindi, se l’econo­ mia non è il destino dell’uomo, non è davvero fa n ­ tascienza ipotizzare il superamento del capitalismo. Esprimo la mia delusione riguardo questa encicli­ ca sociale, poiché in essa non scorgo la speranza di uno sconvolgimento del determinismo necessario ed immanente dell’ideologia del progresso illim itato di stampo liberale: è assente in essa la configurazione utopica di una società informata ad un ordine di valori alternativo e contrapposto all’esistente. Condivido interamente il sentimento di “delusione” da te provato dopo la tua attenta lettura dell’enciclica papale. Se io fossi personalmente un cattolico pratican­ te, certamente penserei che si è trattato di una “occasione mancata”. Siamo di fronte ad una crisi organica e strut­ turale della globalizzazione, e ci si limita alla consueta

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reiterazione dell’iterpellazione morale del capitalismo, chiamato a “convertirsi”. Ma come ho già avuto modo di dire in precedenza, il capitalismo non è un soggetto mo­ rale, ma una “bestia fredda” senz’anima. Non essendo però un cattolico praticante, non sono stato deluso perché non mi ero precedentemente illuso. La chiesa cattolica confonde da tempo la critica radicale del capitalismo con l’automatica approvazione a posteriori del defunto comuniSmo ateo, e finché saremo in presenza di questa confusione, o meglio di questa identificazione (ed in questa identificazione di fatto Ratzinger non si distin­ gue dal suo predecessore polacco se non per una maggiore sobrietà linguistica), ci sarà sempre un “blocco” che impe­ dirà una critica radicale al capitalismo. Questa critica, comunque, non verrebbe probabilmen­ te capita dalla grande maggioranza del “popolo pratican­ te” che va ancora a messa in Italia. Si tratta di un popolo che vota in maggioranza Berlusconi e Casini e che acco­ glierebbe con sospetto e diffidenza toni troppo radicali e messianici, perché è stato abituato nell’ultimo mezzo secolo ad attribuire questi toni ai “comunisti”. Natural­ mente, i “comunisti” non esistono più da almeno vent’anni, perché i loro dirigenti mascalzoni e maramaldi si sono riciclati come mercenariato politico USA e come urlatori anti-berlusconiani. Il massimo di “messianesimo” che si chiede alla Chiesa Cattolica dal gruppo cinico di potere Repubblica-Espresso-Micromega è la denuncia dei costu­ mi puttaneschi di Berlusconi. Per il resto, il cosiddetto “laicismo” vorrebbe - se potesse - sostituire la religione con i Gay-Prides e con lezioni divulgative su Darwin in­ terpretato come teorico dell’ateismo. La libertà teologica di Ratzinger deve quindi fare i conti con il suo alter ego più potente chiamato Benedet­ to XVI. E inevitabile che fra Ratzinger e Benedetto XVI vinca sempre alla fine il secondo. La funzione strutturale

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oggettiva vince sempre contro la libertà intellettuale sog­ gettiva. Si tratta dell’inevitabile vendetta del materiali­ smo storico contro tutti coloro che cercano di minarne le basi teoriche e filosofiche. Come tu giustamente rilevi, la schizofrenia della te­ ologia accomodante e compromissoria con il capitalismo si rivela allo scoperto sulla questione del “dono”. Vi sono stati molti studiosi di provenienza cattolica (ricordo qui soltanto il portoghese Fernando Belo) che hanno riscon­ trato nella predicazione e nella testimonianza di Gesù di Nazareth la centralità assoluta del dono come elemento fondamentale del rapporto sociale. Ed in effetti è vera­ mente cosi. Se la natura umana non è un dato storico rela­ tivo e convenzionale, ma è un dato ad un tempo naturale e trascendente (e tutto il pensiero filosofico di Ratzinger ruota infatti intorno a questo principio fondamentale, chiave teorica della sua opposizione al relativismo ed al nichilismo), allora l’individualismo e l’utilitarismo sono contrari alla natura umana, come del resto tu rilevi cor­ rettamente. Ora, in questo non si possono fare furbeschi compro­ messi. Nelle questioni di fondo non ci si può limitare a dire che il bicchiere è mezzo pieno, ed anche se non è pieno del tutto è sempre meglio che non sia solo mezzo vuoto. Questa è letteralmente teologia da bar. E veniamo allora sempre allo stesso punto. Da un lato, esiste realmente la volontà soggettiva di sottrarsi all’ide­ ologia del progresso illimitato di stampo liberale, attra­ verso il recupero di una nozione filosofica greca di logos, nozione che è realmente estranea alla raison illuministica. Dall’altro, l’ideologia atea del progresso illimitato attra­ verso la religione dell’economia politica, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra come accettazione dell’econo­ mia di mercato, per di più nella sua forma più abietta, quella della globalizzazione.

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Poiché bisogna concludere, concluderò brevemen­ te cosi: la chiesa cattolica ha avuto le sue buone ragioni storiche per opporsi al comuniSmo leninista, in quanto quest’ultimo faceva dell’ateismo un suo elemento centrale (materialismo dialettico, umanesimo ateo, eccetera); ma oggi questo scenario storico non esiste di fatto più; conti­ nuare ad identificare la critica al capitalismo con l’appro­ vazione del comuniSmo leninista è ad un tempo un errore ed un crimine. E questa la sfida che si pone di fronte nei prossimi decenni per la teologia cattolica. Non sono par­ ticolarmente ottimista, perché conosco i miei “polli”. Ma staremo a vedere.

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Il lavoro stabile e il dogma dell’onnipotenza del mercato

P o s t o f isso e p r im a t o d ella p o l it ic a

1) La crisi finanziaria del 2008, a causa delle sue rica­ dute sociali, determinerà, quali che possano essere le sue soluzioni e medio e lungo termine, profondi mu­ tamenti negli equilibri sociali preesistenti. Data l’incertezza accentuata della attuale situazione e, soprattutto, data la nebulosità degli sviluppi di una ripresa per ora lim itata ai soli mercati finanziari, le certezze dogmatiche dell’economia liberista globaliz­ zata, cominciano a vacillare. Trattasi di voci isolate, quali quella del Ministro Tremanti, che ipotizza un ritorno alla stabilità del posto fisso, a fronte degli squilibri generati dalla precarietà del lavoro ormai dominante. Tali affermazioni, del tutto estempora­ nee e subito contestate dal Gotha degli economisti li­ berali, dalla grande impresa e dal sistema bancario, debbono tuttavia essere interpretate come un tenta­ tivo d i rapportarsi a opinioni e sentimenti diffusi in un corpo sociale dilaniato dalle ricorrenti crisi cui è esposta l’economia di mercato, le cui conseguenze gravano, in term ini d i disoccupazione sulla genera­ lità dei lavoratori. La precarietà del lavoro è coeren­ te con un modello liberista dell’economia strutturato sul libero mercato del lavoro e del capitale a l fine di realizzare le migliori condizioni di impiego delle ri­ sorse per la massimizzazione del profitto. Ipotizzare un ritorno al posto fisso e quindi a quindi a norma­ tive del lavoro che possano garantire, oltre alla sta­ bilità del lavoro, previdenza ed assistenza, significa in realtà auspicare un ritorno della politica, con la

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sua funzione equilibratrice, nel governo dell’econo­ mia. Infatti l’economia liberista globalizzata, mas­ simizzando il profitto, non è in grado di determi­ nare redistribuzione del reddito ed equilibri sociali stabili. La stabilità del lavoro presuppone un ruolo preminente della politica (e quindi dello Stato), che persegua i propri programmi determinando le con­ dizioni di sviluppo dell’economia, negando quindi a quest’ultima quel ruolo autocratico e dominante che oggi riveste nel mondo globalizzato. La politica dun­ que, dovrebbe prendere le mosse dalle problematiche sociali e dai fenomeni culturali presenti nella socie­ tà, allo scopo di costruire un determinato modello so­ ciale rappresentativo della comunità dei cittadini. E questa la finalità ultima e la ragion d’essere della politica stessa. Concepire la politica come argine o come strumento di compromesso dell’attuale econo­ micismo totalizzante è vano e velleitario. Esiste oggi un orgasmo mediatico che effettivamente assomiglia molto al noto orgasmo fisico. È intenso, sod­ disfacente, ma dura poco e si dimentica fino alla prossi­ ma volta. Nello stesso modo l’orgasmo mediatico solleva problemi importantissimi ed epocali, ma resta inteso che tutto questo deve durare soltanto pochi giorni, e poi si passa al prossimo scandalo, se possibile farcito di ghiotti particolari boccacceschi. Questo è regolarmente avvenuto per la nota sortita di Giulio Tremonti sul fatto che il Posto Fisso, per un lavora­ tore salariato (non importa se operaio, impiegato o tecni­ co), è da considerarsi molto migliore, e quindi socialmente e moralmente auspicabile, rispetto al posto temporaneo, incerto, flessibile e precario. Al punto in cui siamo arrivati, persino una ovvietà come questa (del tipo: è meglio essere sani che essere malati, eccetera) diventa ragione di dibat-

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tito serioso e di siparietti televisivi. E questo non è certo un caso. La nuova religione idolatrica del capitalismo libe­ rale si basa infatti su due dogmi sottratti alla discussione. In primo luogo, non avrai Altro Impero che quello USA, nelle due varianti complementari del migliore dei mon­ di possibili e/o del meno peggiore dei mondi possibili. In secondo luogo, il lavoro flessibile e precario è insieme eco­ nomicamente inevitabile e psicologicamente una risorsa per una vita “spericolata” (come diceva una nota canzone). Tutto l’asfissiante circo mediatico-universitario deve quin­ di presentare i sostenitori del ritorno al Posto Fisso come dei metafisici attardati, dei nostalgici del terribile nove­ cento secolo delle ideologie assassine, degli astronomi ge­ ocentrici nel tempo di Copernico e Galileo, eccetera. Solo chi ha mantenuto la mente chiara e pulita capisce oggi fino in fondo che si tratta di una manipolazione vergognosa. Ma c’è di più. Un tempo un’elementare etica della comunicazione imponeva che quando si fissava un valore etico e politico socialmente positivo e maggioritariamente approvato si cercasse contestualmente di prefigurare le mo­ dalità possibili per il suo perseguimento e la sua applica­ zione. Tutto questo è finito circa un trentennio fa, e sembra che nessuno se ne sia ancora accorto, come i protagonisti di una novella del danese Andersen in cui solo un innocen­ te bambino si arrischiò a dire che il re era nudo. E allora Tremonti afferma che il Posto Fisso è un valore, e subito dopo non dice una sola parola sul come, dove e quando si possa cominciare a realizzare questo valore politico-sociale. Siccome non siamo estremisti, non chiediamo che la cosa venga risolta in pochi mesi. Ci accontenteremo di alcune linee-guida, di una prospettiva, di un’impostazione. N ul­ la, non viene nulla. Naturalmente, sappiamo bene perché non viene nulla. Oggi i politici sono semplici fantocci in­ tercambiabili al servizio della riproduzione fatale, anonima ed impersonale della globalizzazione neoliberale, che Dio

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la maledica. Non essendo sovrani né nella politica estera né in quella monetaria (a causa del fortissimo indebolimen­ to della sovranità dello stato nazionale) la loro sovranità sul quadrante dell’orologio è ridotta allo spazio fra meno cinque e più cinque. Gli altri cinquanta minuti sono sog­ getti alla sovranità esclusiva dell’Imperatore Negro Buono (accompagnato dalla sua signora, dalle sue due bambine e dal cagnolino) e dei grandi centri finanziari in concorrenza reciproca. Tremonti sembra grande sullo schermo televi­ sivo, ma nella realtà è un nanetto che non arriva neppure all’inguine dei banchieri speculatori e dei generali USA. L’evocazione di Tremonti del Posto Fisso è un’invoca­ zione religiosa, che segue il messaggio oracolare (e cial­ trone) dell’ultimo Heiddeger, per cui (cito testualmente) “solo un Dio può ancora salvarci”. Ed infatti, se insieme con l’affermazione vuota della positività sociale e morale del Posto Fisso non riesco ad aggiungere altre indicazioni pratiche di massima, si ha la tragicomica conseguenza del­ la predicazione di un cuoco ad un gruppo di affamati sulla positività delia carne ai funghi. Il livello di tutto questo non ha a che fare con Marx, Weber, Tocqueville, eccetera, ma con il noto film “Totò e Peppino divisi a Berlino”. L’invocazione di Tremonti al Posto Fisso è quindi omogenea e speculare all’invocazione di Ratzinger sull’A­ more Universale. Ogni domenica il pastore bavarese con un leggero accento tedesco ci incita all’amore fraterno, alla pace universale, alla lotta contro il relativismo ed il nichilismo, e non c’è mai una sola indicazione pratica sul come avvicinarsi a questi legittimi obiettivi e su come re­ sistere ad un mondo ormai privo di qualsiasi valore uma­ no e sociale e pertanto “relativo” alla quantità di denaro di cui ognuno può disporre (è infatti questa la base materiale del relativismo, e tutto il resto, dalla droga al laicismo al transessuale, viene solo in conseguenza). Bisogna quindi passare dal livello dell’Invocazione

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Impotente (Tremonti in economia e Ratzinger in etica) al principio dell’Analisi Responsabile. Il principio dell’ana­ lisi responsabile, usato da tutti i medici che prima fanno la diagnosi e la prognosi, e poi scelgono (ove possibile) la terapia, ci dice che alla base di tutto c’è la cosiddetta globalizzazione neoliberale, basata sul principio del libero commercio (e del libero uso della forza-lavoro migrante come arma di pressione presso l’esercito industriale di ri­ serva “nazionale”) e della cosiddetta delocalizzazione dove il costo del lavoro diretto e soprattutto indiretto è minore. Questa globalizzazione neoliberale è oggi a mio avviso l’e­ quivalente della teoria delle razze inferiori e pericolose di mezzo secolo fa, ed il fatto che questa mia pacata e medi­ tata affermazione venga subito percepita come un assurdo paradosso estremistico costituisce più del cinquanta per cento del problema culturale del mondo contemporaneo. Oggi nessuno discuterebbe seriamente dei lati buoni e dei lati cattivi della teoria della razza. La legittimità stessa del problema verrebbe respinta in blocco. Ed invece della globalizzazione neoliberale, considerata inevitabile e fata­ le come i terremoti, si discute dottamente in termini di vantaggi e svantaggi. Ora, è certo noto che il libero com­ mercio internazionale presenta vantaggi e svantaggi, e di questo si discuteva già nel Settecento (fisiocratici, Smith, Ricardo, eccetera). Ma il libero commercio ed i costi di produzione non sono un sacro principio religioso mono­ teistico. Lo sono soltanto per quella superstizione idola­ trica chiamata economia politica inglese, che è solo una ripresa in forma moderna di ciò che Aristotele aveva bat­ tezzato crematistica, cui aveva contrapposto un concetto di economia in cui stava al centro la riproduzione umana complessiva e comunitaria per una buona vita (eu zen). Tutte le casalinghe sanno che la padella bollente non può essere presa direttamente con le dita, ma deve essere presa per il manico, salvo scottarsi e saltare gridando per

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la cucina. Ora, la padella bollente è l’economia intemazio­ nale, ed il problema sta allora nel decidere insieme quale sia il manico migliore. Oggi invece c’è chi paga le spese della padella bollente scottandosi le mani (lavoratori tem­ poranei, flessibili e precari e migranti poveri e ricattati) mentre invece siedono tranquilli a tavola aspettandosi di essere serviti i parassiti di questa società (politici, gior­ nalisti, professori universitari, attori, cantanti, conduttori televisivi ed altra consimile feccia). Qualche pedante dirà che le cose sono molto più “complesse”. Eh no, signor pe­ dante! Le cose saranno certamente più complesse, ma il loro fondamento è semplice, e sta qui. Di fronte a questa situazione, io vedo tre soluzioni pos­ sibili, che mi permetto qui di segnalare brevemente. In primo luogo, si può continuare a sostenere la globa­ lizzazione neoliberale, affermando che essa non è stata an­ cora radicalizzata abbastanza. E la tesi ad esempio di Niall Ferguson (cfr. “La Stampa”, 30-11-09)- Secondo Ferguson (cito) “ci vorrebbe un approccio ancora più radicale rispetto agli anni della signora Thatcher e di Reagan”. Questo ap­ proccio deve portare (e Ferguson lo dice apertamente) alla integrale fine del Welfare State. Questo programma, che la­ scia alla sua destra solo Attila e Gengis Khan (scherzo, per­ ché questi due signori erano a mio avviso complessivamente migliori di tutti i Ferguson del mondo), viene giustificato con la constatazione degli altissimi ritmi cinesi di sviluppo. In poche parole: o torniamo al capitalismo selvaggio totale, o la concorrenza asiatica ci distruggerà. Ed il paradosso sta nel fatto che il cannibale Ferguson ha perfettamente ragio­ ne, ma ce l’ha solo dando per scontato che la globalizzazione neoliberale sia una divinità da non mettere in discussione, come l’unità di Dio e del Diavolo, di Prometeo e di Lucifero. In secondo luogo, si può continuare a belare contro la globalizzazione evitando di proposito il diabolico richia­ mo al protezionismo (non importa se forte o leggero, ecce-

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tera). Si tratta del ridicolo ed impotente Movimento detto No Global (in acronimo MNG), che personalmente pro­ porrei seriamente di ribattezzare Presa in Giro Planetaria (in acronimo PGP). Questi buffoni, vera e propria pitto­ resca opposizione mediatica di Sua Maestà (sua maestà è ovviamente la globalizzazione neoliberale), si mobilitano ogniqualvolta i Potenti si incontrano per mettere in scena una commedia dell’arte post-moderna (cassonetti rove­ sciati, vetrine infrante, pagliacci in trampoli, mangiatori di fuoco, prefiche belanti, eccetera). Qui l’etica e l’estetica di infima qualità si incontrano. L’estetica del cattivo gusto kitsch si unisce trionfalmente con l’etica della ostensione lamentosa ed impotente. Si avanzano con petizioni, e rice­ vono idranti. I nostri lontani discendenti li ricorderanno così. La sola cosa che questi giullari non chiedono mai è il solo rimedio contro la globalizzazione neoliberale, e cioè il sacrosanto protezionismo. Ci vedono in esso non la saggia proposta di Fichte e poi di List dello stato commerciale chiuso, ma tutti i fantasmi di “destra” che li assillano: lo stato nazionale, il bottegaio leghista, l’intervento comu­ nitario nazionale sulla sovranità assoluta dell’individuo, eccetera. È la rivolta dell’individuo sovrano (senza denaro) contro il suo gemello individuo sovrano (con denaro). Su questo avrei voluto fare lunghe considerazioni filosofiche, ma per ora le risparmio al lettore, perché ho pietà di lui. In terzo luogo, finalmente, c’è chi ha avuto finalmente il coraggio di prendere il toro per le corna e la padella per il manico, affermando la legittimità del protezionismo, al­ meno per aree geografiche (un “piccolo protezionismo” a livello di singolo stato nazionale è infatti del tutto impra­ ticabile, anche ove fosse astrattamente auspicabile). La sola risposta alla globalizzazione neoliberale è infatti geopolitica (parola del tutto ignota alla PGP, presa in giro planetaria), e non può che comportare la formazione nel mondo di alcune grandi aree protezionistiche (con quali modalità concrete

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non tocca a me giudicare, in quanto non economista), in cui il libero commercio (che resta un valore, ma un valore secondario) è subordinato alla sovranità comunitaria nazio­ nale e locale, al ripristino il più possibile del Posto Fisso, al mantenimento ed anzi aH’allargamento del Welfare, all’in­ dipendenza dall’Impero USA neoliberale, eccetera. Noto con piacere e soddisfazione che questa è anche l’esplicita proposta di Alain de Benoist e dei suoi collaboratori (cfr. la rivista in lingua francese Elements, numero 133, otto­ bre-dicembre 2009). Qui per la prima volta si suggerisce un’ipotesi a prima vista incredibile e paradossale (non però per me, che ho sempre saputo che la dialettica si basa sulla unità degli opposti e sulla loro dinamica di trasformazione reciproca), per cui pur di potersi perpetuare il capitalismo potrebbe anche reinventarsi il comuniSmo. A chi rimanesse a bocca aperta di fronte a questa (apparente) assurdità con­ siglio di riflettere sul successo universitario mondiale della trilogia di Tony Negri e di Michael Hardt, in cui si lega l’ipotesi comunista con la globalizzazione incontrollata, il libero scambio, la fine dello stato nazionale e l’esaurimento infinito dei desideri dell’individuo sovrano. Come diceva un tempo il comico pugliese Arbore: me­ ditate, gente, meditate!

C a pit a l e u m a n o e s t a b il it à d e ll ’im p r e sa

2) D inanzi a questa crisi mondiale sistemica, né gli or­ ganismi economici internazionali né gli stati, sono stati in grado di emanare normative idonee a disci­ plinare la finanza globale. In realtà non si è voluto mettere in discussione un sistema economico globale che ha dimostrato le proprie carenze e soprattutto l’incapacità di risolvere le crisi da esso stesso provo­ cate. Secondo il dogma liberista, poiché l’economia è

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libera, essa dovrebbe autonomamente rigenerarsi, creando spontaneamente nuovi equilibri di mercato. Si pretenderebbe quindi, che da quegli stessi fatto­ ri degenerativi (sistema bancario, finanza virtuale, delocalizzazione produttiva), del sistema economico attuale, scaturiscano le soluzioni alla crisi presente. Ma le crisi strutturali esigono soluzioni, a loro vol­ ta, strutturali, ha precarietà può generare solo ulte­ riore instabilità, l’economia del debito solo ulteriore indebitamento. La stabilità, al contrario, produce risidtati a medio e lungo temine, la programmazio­ ne obiettivi concreti e lim itati, ma consolidati nel tempo. La precarietà è l’eterno presente, soggetto a mutamenti continui senza soluzione d i continuità, la stabilità, invece, determina progressività nello sviluppo. Il binomio impresa-stabilità è assai più omogeneo e coerente rispetto al suo omologo impresaprecarietà, che invece presuppone perenni trasfor­ mazioni e ristrutturazioni, con conseguente rapida e continua obsolescenza delle strutture produttive. L’impresa concepita quale entità stabile deve quindi essere strutturata in una dimensione comunitaria. Nella diversificazione delle funzioni, le varie com­ ponenti produttive sono organicamente preordinate ad una finalità comunitaria, che trascende l’egoismo mercatista, che concepisce Inforza lavoro unicamente come fattore della produzione. Nell’impresa stabile, si realizza la condivisione di rapporti umani im ­ prontati alla solidarietà comunitaria, che può costi­ tuire un valido fattore d i resistenza alle crisi. Nel lavoro stabile possono realizzarsi progetti d i vita im ­ pensabili nella condizione della precarietà. L’impre­ sa stabile può essere fonte di selezione e formazione delle categorie produttive cui sono delegate le funzio­ ni tecniche e dirigenziali. Limpresa stabile può ere-

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are quel capitale umano, la cui formazione specifica, nelle rispettive competenze, è il risultato d i investi­ menti protratti nel tempo e frutto d i programmazio­ ni che prevedano evoluzione e ricambio delle classi dirigenti, l i investimento nel capitale umano, oltre a produrre sviluppo e risorse sempre rinnovate nel tempo, rende l’impresa autosuffidente, svincolata cioè, dalle lobbies del management, che, quali ele­ menti estranei all’impresa, perseguono finalità lega­ te al profitto a breve termine, a danno dello sviluppo e dell’occupazione: i danni del parassitismo mana­ geriale sono noti a tutti. Tuttavia, l’impresa stabi­ le deve essere concepita in un contesto sociale in cui essa, congiuntamente ad altre imprese del proprio e di altri settori produttivi, svolga una funzione socia­ le indispensabile alla vita della comunità statuale. Pertanto occorre considerare la funzione sociale svol­ ta dall’impresa, in termini d i proibizione, sviluppo, ricerca, occupazione, evoluzione della personalità umana, finalità predominanti rispetto alla produ­ zione del profitto: il ruolo svolto dall’impresa nella so­ cietà deve essere eminentemente politico, altrim enti l’impresa produttiva è destinata ad essere fagocitata dalla speculazione finanziaria dominante. Caro Tedeschi, io condivido pienamente il tuo pacato elogio della stabilità, categoria filosofica oggi vituperata perché vista oggi come sinonimo di immobilità, stagna­ zione, conservazione, noia, eccetera. Bisogna capire bene chi sono i lestofanti che fanno l’elogio della vita spericola­ ta, e che non la propongono certamente per sé, ma esclu­ sivamente per i loro servi, giullari e schiavi. Mi permetto quindi in questa risposta di approfondire due questioni filosofiche di fondo, che stanno “a monte” delle attuali apologie della precarietà della vita e della flessibilità del

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lavoro. Se si potesse “votare” su queste due caratteristiche generalizzate, il risultato del referendum sarebbe il 90% per il posto fisso e la sovranità politica della comunità nazio­ nale, e solo il 10% contro (stragrande maggioranza dei finanzieri, professori universitari, intellettuali multicultu­ rali, artisti, eccetera). Ma, appunto, questa è la sola cosa su cui non si può votare, ed è per questo che si tengono in piedi i due scenari della simulazione Destra contro Sinistra e deH’Antifascismo in assenza completa ed integrale di Fa­ scismo. Su due cose non si vota. Non si vota sul Posto Fisso e sulla generalizzazione dell’incertezza del lavoro flessibile e precario. Non si vota infine sull’invio del mercenariato militare italiano per la guerra geopolitica USA in Af­ ghanistan (le cui ragioni interamente di potenza sono ben spiegate dalla giornalista dalemiana Lucia Annunziata, che conobbi mentre si agitava nella redazione della rivista di estrema sinistra “Ombre Rosse”, vedi “La Stampa”, 3-1209). Torniamo però ai nostri due problemi. In primo luo­ go, il dogma liberista per cui l’economia libera è in grado di rigenerarsi automaticamente da sola creando spontane­ amente nuovi equilibri di mercato è un dogma religioso, e non religioso solo in parte, ma integralmente e totalmente religioso, religioso al 100%. La capacità integrale di au­ torigenerazione integrale senza alcun intervento esterno è infatti semplicemente una integrale secolarizzazione della capacità assoluta di rigenerazione integrale di Dio, l’unica entità onnipotente dell’universo ad essere titolare di questa sovrumana capacità. Scendendo nei particolari, si tratta di quella particolare eresia colta del protestantesimo indivi­ dualistico che è il cosiddetto “deismo”, coltivato da Loke insieme con la sacralità della proprietà privata e con l’azio­ nariato in una compagnia per il commercio degli schiavi negri. Ed è per questo che sono del tutto fuori strada co­ loro che credono di liberarsi della religione santificando Darwin (santo subito! santo subito!), ridicoleggiando il

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creazionismo, e sostituendo l’astrofisica e la teoria dell’evo­ luzione ai miti biblici. Di tutti i confusionari costoro sono i più confusionari di tutti. Oggi la superstizione religiosa non sta in Lourdes o in Padre Pio, ma sta esclusivamente nella santificazione della magica capacità autorigenerativa del modello della globalizzazione neoliberale. I treni dei malati a Lourdes non fanno male a nessuno, ma sono anzi un lodevole momento per la socializzazione comunitaria. Sono invece gli idolatri cannibali della magica capacità au­ torigenerativa del modello neoliberale che mettono in pe­ ricolo la vita umana. Ma mentre scrivo questo, so perfetta­ mente che siamo lontanissimi dai presupposti minimi per la formazione di una coscienza culturale diffusa che possa rendersi conto di tutto questo. Questa idolatria neoliberale della capacità divina onnipotente di autorigenerazione, che so bene essere soltanto una pestifera secolarizzazione della capacità del corpo di Cristo di rigenerarsi da solo dopo la morte, è oggi la principale religione dell’Occidente, l’uni­ ca diffusasi anche in Russia, India e Cina. Ma prima o poi cadrà, e sarà l’umanità stessa a farla cadere. Vi è però un secondo punto che è molto più importan­ te del primo. A causa della pittoresca ignoranza economica dei filo­ sofi e della correlata ignoranza filosofica degli economisti e dei sociologi resta oscuro alla maggioranza degli osserva­ tori il rapporto organico fra il lavoro flessibile e precario, da un lato, e la distruzione dell’etica borghese precedente, soprattutto nei tre campi della famiglia, dei rapporti fra le generazioni e della scuola. Eppure, o si capisce questo elementare ABC, o tanto varrebbe occuparsi soltanto di Del Piero, Balotelli e del Grande Fratello. Le proposte di periodizzazione storica del capitalismo sono state molto numerose, come un tempo erano nu­ merosi i topi nelle stive delle navi. Per farla breve, ho a lungo ritenuto la più attendibile quella esposta da Marx

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nel cosiddetto Capitolo VI inedito del Capitale, per cui il capitalismo sarebbe stato caratterizzato da due fasi suc­ cessive, quella della sottomissione formale e quella della sottomissione reale del lavoro al capitale. Non si tratta di una cattiva periodizzazione, ma nello stesso tempo essa è insopportabilmente industrialistica-economicistica-riduzionistica, e finisce con il dare un’eccessiva importanza al solito lavoro di fabbrica. Ma qui Marx paga il suo prezzo alla religione capitalistica prima individuata in Locke ed in Smith. Per costoro il capitalismo è un’entità magica capace di autorigenerazione illimitata, ed è quindi l’unica entità divina esistente nell’universo (e possiamo cosi ca­ pire la ragione ultima dell’insistenza di laici, positivisti ed empiristi nella delegittimazione della religione), per Marx la produzione capitalistica resta un’entità magica immanente dotata della capacità di rovesciarsi dialetticamente in comuniSmo. Bisogna quindi cercare di produrre una periodizzazione diversa per individuare le svolte reali nella storia del capitalismo. A mio avviso (mi scuso di questo prevismo elementa­ re in pillole) le fasi principali della storia del capitalismo inteso come totalità sono due. In un primo momento il capitalismo sottomette alla sua riproduzione solo una parte della vita umana, sia pure una parte importantissima (e cioè il lavoro e le sue forme di erogazione). Deve quin­ di sottomettere a sé non solo il lavoro salariato, ma anche il lavoro artigiano e contadino, e cioè quello dei piccoli produttori indipendenti (a suo tempo base sociale sia della filosofia che dell’arte greca). È normale che in questa prima fase gli si contrapponga l’organizzazione politica del lavoro salariato, prima socialista e poi comunista (nelle sue innu­ merevoli e contrastanti versioni ideologiche). Ed è norma­ le che restino ancora in piedi in questa prima fase sia la tradizionale mentalità di sottomissione delle grandi masse plebee che millecinquecento anni di feudalesimo aveva-

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no abituato all’obbedienza ai potenti (prima i proprietari terrieri e poi gli industriali ed i banchieri), sia i costumi borghesi, in primo luogo il patriarcalismo familiare e la se­ rietà selettiva degli studi. In questa fase, insisto e persisto, i dominanti sottomettono soltanto l’erogazione lavorativa salariata distruggendone le autonome forme precedenti, ma lasciano in piedi sia le culture popolari sia l’etica bor­ ghese (famiglia, scuola, consuetudini religiose, eccetera). In questo modo, però, soltanto una parte dell’unità psichi­ ca umana è realmente incorporata nella produzione capi­ talistica, mentre resta un’altra parte che non lo è, ma che “scorre” non assimilata a fianco della riproduzione capita­ listica stessa. In termini di storia della religione, diremo che la nuova religione capitalistica non si è ancora imposta interamente, ma restano zone “pagane” non ancora con­ vertite (l’autonomia della famiglia, il tradizionalismo, la religione, l’indipendenza educativa della scuola, eccetera). Ed è appunto in questo spazio di indipendenza po­ tenziale che ricresce continuamente la pianta della contestazione al capitalismo, non importa se di “destra” (Ezra Pound) o di “sinistra” (Antonio Gramsci). Per la costitu­ zione del capitalismo assoluto, il fatto che i seguaci identitari e settari di Pound e di Gramsci si ammazzino gli uni con gli altri è una risorsa inestimabile, perché non c’è nulla di meglio di un continuo scontro fra bastonatori (tipo Centro Sociale contro Casa Pound) per nascondere la segretezza dei giganteschi movimenti di capitali. Questo da luogo inoltre ad interminabili “dibbattiti” (con due bi, alla romanesca) sull’attualità dell’antifascismo, eccetera. Ma non sta qui ovviamente il punto principale. Quella che Bauman chiama società “liquida” è soltanto la socie­ tà dello scorrimento liquido dei capitali finanziari. Ora, lo scorrimento liquido dei capitali finanziari che si muovono nello spazio liscio della globalizzazione neoliberale richie­ de lo scioglimento preventivo degli elementi solidi delle due

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strutture precedenti, le comunità popolari e l’etica borghe­ se. Da un lato, il lavoro diventa flessibile e precario, ed ogni tentativo di contestare il dominio assoluto dell’economia viene demonizzato come “totalitarismo” (di qui la conno­ tazione dell’intero novecento, come secolo delle ideologie assassine). Dall’altro, lo scioglimento del vecchio mondo che si oppone ancora alla divinizzazione integrale dell’e­ conomia viene perseguito con metodi differenziati, che in mancanza di una seria teoria generale possono essere solo qui disordinatamente enumerati: distruzione del superio paterno sostituito dal dominio dell’Es del desiderio del consumo; femminilizzazione dell’etica sociale, anticame­ ra del ripiegamento nel privato; esaltazione di gay e trans come alternativa virtuosa alla vecchia e noiosa forma di dimorfismo sessuale maschio-femmina; distruzione della scuola meritocratica sostituita da agenzie di socializzazione al servizio del semplice mercato del lavoro; dominio della simulazione televisiva parallela al mondo reale (non c’è più Tex Willer, ma solo Dylan Dog, non più eroi, ma solo in­ cubi e fantasmi); non ci sono più professori, ma solo prof. E potrei continuare, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E quindi “allegria!”, come diceva Mike Bongiorno.

S t a t o so c ia l e , u n m o d ello e u r o p e o

3. La tematica della stabilità del lavoro evoca necessa­ riamente quella relativa allo stato sociale, oggi giu­ dicato incompatibile con il modello economico libe­ rista che invece presuppone la non ingerenza dello stato nell’economia. Il posto fisso in fatti comporta una serie di normative di protezione sociale di ca­ rattere previdenziale e assistenziale, oltre alla tutela sindacale. Il lavoratore stabile rappresenta un mo-

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dello sociale d i carattere eminentemente politico: la stabilità è infatti intesa come una forma d i tutela atta a consentire il libero esercizio dei d iritti politi­ ci garantiti dalle costituzioni democratiche. Infatti solo l’uomo liberato dai bisogni prim ari (prim a casa, lavoro stabile, contratto collettivo d i lavoro, sanità, previdenza), può essere in grado di godere della ne­ cessaria autonomia atta a garantirgli la libera par­ tecipazione politica. Nella condizione della precarie­ tà, tali d iritti restano sostanzialmente preclusi: se nulla il lavoratore può decidere circa la sua sfera in­ dividuale e fam iliare (regolate dall’andamento dei mercati), tanto meno egli potrà esercitare le proprie libertà in campo politico. Lo stato sociale inoltre, è di impossibile realizzazione in una economia basa­ ta sulla precarietà del lavoro. Infatti lo stato sociale può sussistere, in quanto alimentato da un surplus di reddito prodotto e devoluto allo stato perchè questo possa adempiere alle sue funzioni d i tutela sociale. Il lavoro precario, invece, proprio perché instabile, non consente l’accumulo di risorse necessarie per il finanziamento dello stato sociale. Lo stato sociale delinea dunque un modello statuale basato sul p r i­ mato dei d iritti sociali rispetto a quelli individuali, creato e sviluppatosi originariamente in Europa e piti volte riprodotto in altre parti, del mondo: Sudamerica, mondo arabo, Canada ecc. L’Europa, dopo la fine dell’URSS, pu r essendo stata soggetta al pro­ cesso espansivo della globalizzazione economica, ha conservato alcune strutture proprie dello stato so­ ciale, che hanno consentito ad alcuni stati (vedi l’I­ talia), di contenere gli effetti devastanti della crisi del 2008. N el mondo globalizzato, la crisi ha ridi­ mensionato notevolmente il ruolo dominante degli USA nel mondo: Cina, India, Sudamerica si sono

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notevolmente affrancate dal predominio economico e politico statunitense, solo l’Europa ne rimane con­ sapevolmente soggetta. Ma è proprio e solo l’Europa ad avere creato vari modelli economico-sociali alter­ nativi a quello liberista anglosassone. Solo l’Europa può proporre modelli statuali portatori di equilibri sociali esportabili universalmente che consentono mutamenti strutturali che possano offrire soluzio­ ni ad una crisi dinanzi alla quale le teorie liberali manifestano tutta la loro impotenza. La decadenza europea è dovuta alla sua subalternità agli USA, ma solo il Vecchio Continente è portatore d i model­ li sociali “rivoluzionari”. Le potenze emergenti, pur svincolandosi dalla supremazia americana, ne han­ no importato il modello economico, ed è prevedibile nel tempo, l’esplodere d i enormi conflitti sociali, che possono essere prevenuti elo risolti solo attraverso ri­ forme istituzionali che consentano la partecipazione politica ed equilibri stabili tra le classi sociali. In molte nostre conversazioni precedenti ci siamo già ripetutamente soffermati sull’Europa e sul suo destino. Ri­ leggendole per poter rispondere meglio a questa tua terza domanda, mi sono accorto che siamo quasi sempre rimasti al di sotto della gravità del pericolo mortale sull’Europa che noi conosciamo. Dal 1945 al 1991 essa non era sovra­ na, perché era militarmente occupata da due superpotenze ideologiche, per cui i poveri europei, privi della benché minima sovranità (e la sovranità geopolitica e militare è la base indispensabile di tutte, ma proprio tutte, le altre sovranità). Ma dal 1991 l’Europa, che avrebbe potuto ap­ profittare dell’occasione della caduta di una superpotenza per poter educatamente liberarsi anche dell’altra, non solo non lo ha fatto, ma ha incredibilmente rafforzato i legami materiali e spirituali con l’altra rimasta (gli USA, ovvia-

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mente). Ora, gli USA sono una potenza culturale estranea all’Europa (tralascio qui di citare una immensa bibliogra­ fìa che lo dimostra analiticamente), sorta fuori e contro l’Europa stessa, sulla base del diritto comune anglosassone e non del diritto romano, e sulla base del messianesimo veterotestamentario e non della solidarietà neotestamen­ taria. Ora, il diritto romano è bensì stato concepito sulla base della tutela della proprietà privata (il noto ìus utendi et abutendi, ove in questo abntendi ci sta il nocciolo della sua radicale insufficienza per garantire una comunità umana), ma esso almeno stabilisce i termini della dicotomia Pubblico/Privato, che resta l’imprescindibile base filosofica per sviluppare la dicotomia fra proprietà individuale e di­ sponibilità pubblica di beni comunitari indisponibili (ad esempio la salute, e poi la casa e l’istruzione). Negli USA tutto questo è letteralmente impensabile e indicibile, ed infatti lo stesso Obama non osa neppure lontanamente giungere ad un sistema sanitario pubblico generalizzato di tipo francese o italiano (pur con tutti i suoi noti difetti), ma deve semplicemente limitarsi ad aumentare la coper­ tura assicurativa privata, e già questo timido passo insuf­ ficiente è accusato di “socialismo” (ricordo l’affermazione di una star hollywoodiana di cui ora non ricordo il nome). Se l’Europa comincia a mollare sulla distinzione fra beni comuni che devono essere disponibili in via di princi­ pio per tutti (nell’ordine: sanità, abitazione, scuola) e beni individuali allora essa è morta. In questo modo non avreb­ be solo perso il corpo (almeno dal 1945 l’ha perso, e nessu­ no sa quando potrà recuperarlo), ma anche l’anima (psycbè). E l’Europa senza anima è solo un’espressione geografica, per dirla con Metternich, una appendice peninsulare del grande continente asiatico, cui una potenza straniera ed estranea cerca di rubare quanto resta della sua anima. E dal momento che repetita juvant, ripetiamo quale ri­ tengo che sia la sua anima in pericolo. In estrema sintesi,

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l’Europa è stata costituita culturalmente da tre elementi: la filosofia greca, il diritto romano e la religione cristiana. La filosofia greca si basa sul principio delfico, pitagorico ed infine socratico del “conosci te stesso” {gnothi s’eautòn), e quindi sulla conoscenza della natura umana complessi­ va dell’individuo. Ma questa natura umana complessiva dell’individuo dotato di anima non ha nulla a che fare con quella sua oscena e ridicola caricatura che è Vhomo oeconomicus, che è quella piccola porzione di individualità che si occupa dell’arricchimento privato (l’aristotelica crematistica), e che fa diventare una parte il tutto. Anzi, la stes­ sa filosofia greca nasce proprio contro l’autonomizzazione deH’arricchimento illimitato (apertoti) e della schiavitù per debiti. In Grecia non esisteva un vero e proprio diritto gre­ co, in quanto esistevano leggi comunitarie (novioi), il cui scopo era la regolazione della corretta divisione (netmirì) sia del denaro che del potere. Non esisteva quindi un illimita­ to ius utendi et ahutendi dell’individuo, formalizzato in di­ ritto universale ed astratto. Questo nasce soltanto a Roma, e prima non c’era, e nasce solo sulla base della generalizza­ zione universale della proprietà privata. Questa proprietà privata era “privata” perché i suoi titolari originari storici (i plebei romani) erano esattamente coloro che erano “pri­ vati” del godimento dei beni comuni {ager puhlicus). Alla crudeltà astratto-formale di questo diritto assoluto di pro­ prietà si oppose il cristianesimo neotestamentario (le scrit­ ture ebraiche, scorrettamente battezzate “antico testamen­ to”, sono soltanto una mitologia romanzata di fondazione della sola nazione ebraica, e sono altrettanto poco univer­ salistiche della religione sciamanica siberiana), basato sulla carità e sulla solidarietà comunitaria. Nella sua pittore­ sca incapacità totale di mutare la struttura sociale (prima schiavistica, poi feudale, ed oggi capitalistico-globalizzata) il cristianesimo fu costretto a dismettere i panni del pri­ mitivo suo messianismo escatologico ed apocalittico, ed a

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rivestire i più tranquillizzanti panni della beneficenza fatta da un benefattore (il greco everghetes). Si tratta della dialet­ tica europea che ormai conosciamo bene: conosci te stes­ so (elemento filosofico greco), proprietà privata (elemento giuridico romano), ed infine pratica della carità sulla base della verità religiosa (elemento religioso cristiano). Insisto sul fatto che questa dialettica trinitaria (e pertanto dialet­ tica) è del tutto indipendente dal fatto contingente per cui il singolo individuo europeo creda in Dio oppure no, si dichiara di destra oppure di sinistra, eccetera. Questa è solo l’accidentalità, che Hegel a suo tempo affermò non esse­ re razionalmente deducibile, perché casuale ed aleatoria. Questa è semplicemente fiamma dell’Europa, da cui deriva anche lo stato del benessere e la copertura scolastica e sani­ taria generalizzata ed erga omnes. Tutto questo è oggi messo in pericolo dalla mancanza di un freno (il greco katecbon). Non entro qui nel merito sulla natura di questo katecbon, che può essere l’equili­ brio fra superpotenze (a mio avviso, un buon katecbon), l’utopia egualitaria (anche se egualitario-dispotica) del comuniSmo storico novecentesco, la carità solidale cri­ stiana, eccetera. Quello che conta è che ci sia un katechon purchessia, per ora. Il dispotismo dell’unico impero messianico USA (del tutto indipendente dalla direzione contingente dal Bianco Cattivo Bush e/o del Negro Buono Obama) e la generaliz­ zazione della globalizzazione neoliberale rappresentano la morte dell’Europa, o se si vuole il suo suicidio. E tuttavia, essere uccisi o suicidarsi è certo diverso, ma il risultato alla fine è lo stesso. Con il modello del messianesimo crematistico anglosassone (psicologia invece di filosofia, diritto comune invece di diritto romano, economia politica in­ vece di religione) l’Europa è semplicemente morta. Le sue attuali oligarchie (politici sottomessi, circo mediatico di saturazione, clero intellettuale di universitari pomposi,

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attori, pagliacci, transessuali e sessantottini corrotti) pre­ parano la morte dell’Europa. Non del tutto a caso il gran parlare (sia pure più che legittimo) di eutanasia volontaria non è altro che il riflesso duplicato di una ben più gran­ de eutanasia volontaria, quella di un intero continente. Il pensiero europeo oggi è una grande tanatologìa, in un clima sbracato e sbrodolato di cerebrolesi alla guida del furgone. Aspettiamo i barbari, per dirla con Kavafis. Ma non verranno mai. Per ora, limitiamoci a sperare che i talebani caccino le truppe imperiali dall’Asia Centrale. Di più per ora è difficile sperare.

COOPERAZIONE F. PARTECIPAZIONE, IDEE PER UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO

4) Il ritorno della stabilità occupazionale, non rap­ presenterebbe d i per sé un’alternativa alle impo­ stazioni liberiste in campo economico. Sia il posto fisso che la precarietà sono fenomeni legati alla sto­ ria e alla dialettica sociale interna a l capitalismo. Entrambe sono forme d i occupazione riconducibili alla categoria del lavoro dipendente. Quest’ultimo, oggi prevalente, ha avuto la sua espansione in con­ seguenza della, rivoluzione industriale, che sradicò le popolazioni dall’agricoltura e dall’artigianato, per impiegarle nell’industria nascente. Nelle fasi di crescita e di stabilizzazione, nell’economia ca­ pitalista ha prevalso il posto fisso, le tutele socia­ li, con i conseguenti meccanismi d i redistribuzione del reddito. Invece, nelle fa si di trasformazione e!o di crisi prevale la precarietà del lavoro. Non a caso l’avvento della globalizzazione fu annunciato dallo slogati, poi divenuto dogma “scordatevi il posto fis­ so”. Infatti, nella storia del capitalismo è sempre il

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lavoro dipendente ad essere oggetto d i sperimenta­ zione nelle trasformazioni economiche. Il posto fisso non salvaguarda certo il lavoratore dalla disoccu­ pazione nelle ricorrenti crisi occupazionali insite nel succedersi dei cicli dell’economia. Il posto fisso è, al pa ri della precarietà, soggetto alla logica del mercato del lavoro, poiché entrambi, sono forme diverse del fenomeno lavoro-merce, proprio dell’eco­ nomia liberale. Anche il lavoratore stabile delega la propria vita lavorativa all’impresa che acquista le sue prestazioni in cambio della sopravvivenza, per essere poi espulso dal processo produttivo per obsolescenza o non compatibilità con le politiche aziendali. Il lavoro stabile ha avuto la sua massi­ ma espansione nel “trentennio virtuoso” teorizzato da Hobsbawm (1945-1975), nelle fa si d i sviluppo dell’economia mista, del keynesismo, della socialde­ mocrazia in campo politico. Ma oggi, queste forme di “capitalismo illuminato” sono improponibili. La perdita d i sovranità degli stati nell’economia glo­ balizzata rende le istituzioni politiche impotenti a fronteggiare le crisi e dare direttive in campo eco­ nomico. La stessa socialdemocrazia è un fenomeno novecentesco ormai consegnato alla storia. 1 p a rtiti di sinistra l’hanno abbandonata, in quanto ideo­ logia roformista rivelatasi perdente. Infatti la so­ cialdemocrazia occidentale della seconda metà del ‘900 era una ideologia ormai destrutturata. Essa era un’ideologia marxista il cui fine era l’avvento del comuniSmo: solo che, a differenza del leninismo, perseguiva i propri obiettivi per via democratica. Essa fu sempre sconfitta, Lenin e la rivoluzione rus­ sa ne decretarono il fallimento. N el dopoguerra, in occidente essa ripudiò il marxismo per assumere un ruolo riformista in seno alla società capitalista. Im ­

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portan ti riforme sociali si devono a l socialismo ri­ formista, al laburismo, ma oggi il capitalismo glo­ bale non necessita p iù d i mediazioni politiche, né d i equilibri sociali stabili. D inanzi a questa crisi sistemica del capitalismo, occorre elaborare nuove soluzioni che determinino nuovi equilibri socia­ li. Occorre pertanto fa r riferimento a modelli che eliminino la dialettica della contrapposizione tra capitale e lavoro e quindi, il fenomeno del lavoromerce d i scambio. Pertanto, ritengo che le uniche dottrine sociali alternative all’economicismo libe­ rale siano quelle che propongano la partecipazione, unicamente alla cogestione dell’impresa: ta li dot­ trine socio-economiche hanno avuto lim itata appli­ cazione nel capitalismo renano, nella socialdemo­ crazia scandinava, nella cogestione iugoslava. Ala in occidente si è sempre impedito che ta li riforme economiche avessero riscontro nella rappresentanza politica. Occorre dunque ispirarsi alla estensione della responsabilizzazione del lavoratore all’inter­ no dell’impresa, onde f a vorire la sua partecipazione a i processi decisionali. Forme d i cooperazione, coge­ stione, partecipazione, oltre che nell’economia, van­ no anche estese agli am biti professionali, culturali, dell’associazionismo no-profit, a tutte le componenti cioè del tessuto sociale. Tuttavia, a mio parere (ma tale argomento necessita d i approfondimento in al­ tra sede), tali trasformazioni debbono necessaria­ mente essere promosse, gestite, attuate dallo stato, perchè si impedisca che si generino nuove forme d i capitalismo sotto mentite spoglie e si vanifichi l’auspicabile e necessario processo d i liberazione del lavoro dalla sua soggezione a l capitale: non vorrei quindi, che all’egoismo individuale e!o oligarchico, si sostituisse l’egoismo dei molti e!o dei tu tti.

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Siamo partiti dal Posto Fisso, e si è aperta una “catena dei perché” (l’espressione, impagabile, è di Franco Fortini) che ci ha portato alla globalizzazione neoliberale, all’impe­ ro messianico USA, alla piena legittimità di un regolato ritorno al protezionismo di “area geopolitica”, al suicidio dell’Europa, alla secolarizzazione economica della religione, alla necessità di flessibilizzare e di rendere precaria l’intera natura umana, eccetera. Del resto, se si tira il filo giusto, si snoda a poco a poco l’intero gomitolo. E la scomparsa del Posto Fisso, unito con l’asfissiante ideologia postmoderna della fine delle grandi narrazioni (l’altra faccia filosofica del­ la fine economica del posto fisso), è proprio il capo del filo che sgomitola a poco a poco l’intero gomitolo. Tuttavia, hai perfettamente ragione a rilevare che non possiamo avere una posizione fissista e geocentrica sul Po­ sto Fisso, come se da esso si potesse dedurre l’intera logica della riproduzione capitalistica. La riproduzione capita­ listica, infatti, segue un andamento ciclico, e non certo un andamento lineare e progressivo (questo è il codice il­ lusorio del punto di vista progressistico delFilluminismo iperborghese, in cui sono caduti come pesci i cosiddetti “marxisti”, puri e semplici positivisti poveri e subalterni). Il solo andamento non ciclico, forse, è quella incorporazio­ ne di tutta la vita umana nella sottomissione capitalistica di cui ho parlato nelle mie risposte precedenti. Il resto, tutto il resto, ma proprio tutto il resto, è ciclico e non li­ neare progressivo. In quanto alla teoria marxista dell’ine­ vitabile necessità del rovesciamento del capitalismo in un comuniSmo senza famiglia e senza stato, essa è certamente più attendibile della teoria piatta, ma non di molto e non è comunque epistemologicamente superiore alla teoria del disegno intelligente della creazione, che le è però superio­ re dal punto di vista estetico, etico ed artistico. Hai dunque ragione, lo ripeto, a rilevare che la (rela­ tiva) permanenza del posto fisso non è un dato tolemai-

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co, ma contraddistingue soltanto certi momenti di storia del capitalismo, come i famosi “trenta anni gloriosi” del fordismo-keynesismo di Hobsbawm. Non sono personal­ mente un ammiratore di Hobsbawm, anche se scrive bene ed è divertente leggerlo. Non sono un suo ammiratore perché Hobsbawm è un propagatore della stupida conce­ zione per cui le nazioni sono semplici “comunità imma­ ginarie” inventate da letterati e lessicografi al servizio di politici protezionisti. Si tratta di una teoria che, oltre ad essere attualmente falsa, è stata entusiasticamente adotta­ ta da tutti gli apologeti della globalizzazione e della fine degli stati nazionali, il cui destino è quello di essere “frul­ lati” in un unico impero cosmopolitico e multiculturale a dominio USA. Il massimo degli orrori. E tuttavia, resta il fatto che il Posto Fisso è un buon punto per iniziare a sgomitolare la “catena dei perché”, ma non è il centro metafisico e tolemaico del mondo. Come tu affermi, in buona compagnia con Giorgio Gaber, la libertà è la partecipazione. Dal momento che sono pienamente d’accordo, non aggiungerò argomenti supplementari. Anche per me la libertà è partecipazione. La semplice partecipazione però è insufficiente se insieme ad essa non matura un punto di vista filosofico veritativo sul mondo. Gli ateniesi partecipavano moltissimo alla ge­ stione della loro polis, ed erano quasi cinquecento quando la loro partecipazione portò alla ingiusta condanna a mor­ te di Socrate. Insieme alla partecipazione, infatti, ci vuole un corretto punto di vista filosofico veritativo sulla giusta riproduzione complessiva della specie umana sulla terra. E tuttavia, non voglio essere troppo sofisticato. Una cosa per volta. Se infatti ci fosse già oggi una partecipa­ zione adeguata alle scelte economiche di impresa, tutte le stupidaggini sulla globalizzazione neoliberale sfumereb­ bero in qualche mese come neve al sole, ed i soli indici sociali realmente importanti sarebbero quelli sull’occu-

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pazione, laddove oggi i cosiddetti indici di “uscita dalla crisi” sono quelli dei banchieri e degli speculatori che ri­ cominciano a guadagnare (ma hanno mai cessato di farlo? Ecco una domanda che porrei ad un amico economista, se ne avessi uno). Ma oggi sembra che la partecipazione della cosiddetta “società civile” (non a caso, sono i lavoratori ad essere pericolosi, la società civile è più innocua di un gattino) si limiti ai raduni dello scamiciato dialettofono molisano Di Pietro e dei cortei viola di anti-berluscones. In questo modo non possiamo tirarcene fuori. Se avessi precise ricette per tirarcene fuori, le comunicherei imme­ diatamente a te ed ai nostri (pochi) lettori. Ma siccome non le ho, il comune senso del pudore mi invita a tacere ed a chiudere qui. Iddio ci protegga!

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Scuola: un laboratorio di sperimentazione sociologica

F a m ig l ia , in d iv id u a l is m o e c o n t r o l l o so ciale

1) La crisi delle istituzioni sociali tradizionali ha il suo epicentro nella dissoluzione della fam iglia. In­ fa tti, al modello fam iliare, di per sé comunitario, è andato via via sostituendosi il modello individua­ lista del single. La fam iglia attuale in fatti sembra scaturire da una unione tra single. D a persone cioè tenute insieme da vincoli d i nascita e parentela, ma in realtà antropologicamente chiuse nella realtà in­ dividuale del single. La fam iglia pertanto viene a configurarsi come un microcosmo a sé stante, estra­ neo, se non contrapposto alla società, quale unione di egoismi individuali interdipendenti. Si verifica un rapporto di tensione conflittuale tra società e f a ­ miglia, che conduce il pili delle volte alla implosione della fam iglia stessa, nella misura in cui i modelli di vita proposti dalla società (e dalla virtualità me­ dia tica), si rivelano incompatibili con la struttura unitaria della fam iglia. Pertanto, la fam iglia è oggi un microcosmo destinato spesso alla implosione; la sua incompatibilità con la struttura atomistica del­ la società porta sovente alla criminalizzazione della fam iglia stessa, vista come un nucleo coercitivo ed alienante, produttivo d i sopraffazione e repressione, nel contesto di una società che non tollera nuclei co­ m unitari indipendenti, portatori d i valori estranei all’orizzonte individualistico del relativismo etico. Assistiamo oggi alla esternalizzazione delle funzioni già di pertinenza del nucleo familiare, quali l’edu­ cazione dei figli, sempre più affidata agli psicologi,

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la formazione dei giovani, appannaggio oggi della cultura mediatica, l’assistenza agli anziani, con l’intervento spesso coattivo degli assistenti sociali. L’intervento massiccio degli specialisti esterni nel­ la vita fam iliare è rivelatore di un controllo sociale che si impone sempre p iù al nucleo familiare: si sta imponendo, in una società che si definisce democra­ tica e liberale, una sorta di totalitarismo sostan­ ziale strisciante che non ha nulla da invidiare ai regimi dittatoriali del ‘900. Tale forma pervasila di controllo sociale è cosi delineata da Christopher Lasch: “Dietro l’apparente perm issività si nasconde un rigido sistema di controllo, tanto più efficace in quanto evita il confronto diretto tra le autorità e gli individui su cui queste cercano d i imporre il pro­ prio volere. Poiché il confronto provoca discussioni di principio, le autorità delegano se possibile ad altri l’imposizione della disciplina, atteggiandosi così a consiglieri, , amici. Allo stesso modo i genitori si affidano a i dottori, agli psicologi e agli stessi compagni del bambino per imporgli un complesso di norme e assicurarsi che le rispetti”. È bene che le tre questioni da te poste, la questione giovanile, la questione familiare e la questione scolastica vengano trattate metodologicamente in modo unitario, perché il modo unitario è il solo adatto a capirci qualcosa. Separandole, si rischia di non capire la logica profonda della loro dinamica evolutiva (o meglio involutiva) unita­ ria. Si finisce inevitabilmente con il riproporre le consuete (anche se giustificate) geremiadi sul bullismo e sulla ma­ leducazione dei giovani, sul venir meno dell’autorità pa­ terna, e sulla progressiva sparizione della serietà degli stu­ di con conseguenti promozioni facili di massa, anticamera sicura per una disoccupazione ampiamente prevedibile.

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Il modo in cui oggi si presentano intrecciate le tre que­ stioni (giovanile, familiare e scolastica) trova il suo mini­ mo comun denominatore unitario in un maestoso passag­ gio storico di fase della società capitalistica occidentale, da una fase proto-borghese e poi neo-borghese (e quindi necessariamente anche proto-proletaria e neo-proletaria) ad una fase attuale decisamente post-borghese (e quindi ovviamente anche post-proletaria). In una formulazione sintetica, stiamo entrando in una forma nuova di occiden­ talismo, che potremo definire post-borghese ed ultra-capitalistico. In breve, appunto, un occidentalismo post-borghese ed ultra-capitalistico. Se non si comprende questa sintetica formulazione (indipendentemente dal fatto che non la si comprende da destra o da sinistra, da posizioni liberali, fasciste o comuniste) è praticamente impossibile coglie­ re concettualmente la dinamica dialettica profondamente unitaria del problema. Il modello unitario dellaquestionegiovanile-familiarescolastica, così come oggi lo conosciamo, è nato circa due secoli fa, fra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento, sostituendo i modelli precedenti della famiglia allargata (a sua volta discendente dal modello romano di familia) e della scuola religiosa cristiana (protestante, gesuitica o ortodossa a seconda dei luoghi). Per ragioni di spazio, è impossibile qui diffondersi (ma sarebbe illuminante!) sui particolari dei delicati passaggi storici che hanno prodot­ to il modello della scuola moderna (il liceo classico tede­ sco e il liceo scientifico francese-napoleonico), il modello della famiglia moderno (l’amore coniugale e l’educazione comune dei figli al posto dei matrimoni combinati dalle famiglie), ed infine il modello romantico della figura del “giovane” (secondo l’idealista Fichte il portatore privile­ giato del “ringiovanimento” della società, inteso come la passione per un cambiamento “in meglio” dell’intera so­ cietà). In questo passaggio epocale in cui siamo immersi

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(e di cui è per ora ancora impossibile prevedere i pros­ simi passaggi, visto che è sempre completamente ignota l’architettura del domani) possiamo soltanto capire —in quanto ne siamo sbalorditi spettatori —il tramonto uni­ tario del vecchio modello giovanile-familiare-scolastico, tenendo sempre conto che si tratta di un tramonto non di un dato millenario, ma di un dato soltanto bisecolare. Nella tua domanda, che contiene già in potenza tutti gli elementi per una risposta, sono evidenziati i due punti cruciali del problema, e cioè da un lato la sostituzione del modello individualistico del single al precedente model­ lo familiare, e dall’altro il conseguente processo di quella che tu chiami opportunamente l’esternalizzazione delle funzioni già di pertinenza del nucleo familiare. Le cose stanno proprio così. Christopher Lasch non è stato proba­ bilmente l’unico a notare che questa estrema individualiz­ zazione atomistica è del tutto complementare all’aumento di un controllo sociale asfissiante demandato ad agenzie specializzate, di contractors e polizie private per il corpo ed i psico-sociologi invasivi per la mente. Ma a mio avviso il cuore del contributo di Lasch per la comprensione di que­ sto fenomeno non sta tanto qui, quanto nell’aver rilevato che la genesi di questo mostruoso fenomeno non si deve cercare a “destra”, ma a “sinistra”, o più esattamente in una evoluzione degenerativa post-moderna della sinistra stessa. Qui l’intuizione di Lasch si coniuga con la tesi dei due sociologi francesi Boltanski e Chiapello, che hanno mostrato come la sinistra si era storicamente costituita attraverso una alleanza fra una critica economico-sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo, di cui erano titolari le classi popolari, salariate, operaie e proletarie, ed una critica artistico-culturale alle ipocrisie maschiliste e patriarcali della borghesia (più propriamente, della vetero-borghesia), di cui erano titolari gli artisti, gli scrit­ tori e gli intellettuali ottocenteschi e novecenteschi. Il

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contributo di questi ultimi fu decisivo per delegittimare le vecchie forme di controllo “autoritario”, ma in questo modo il bambino fu gettato via con l’acqua sporca. In ter­ mini freudiani, si voleva gettare via soltanto il Super-Io, liberando le potenzialità inespresse e “represse” dell’Es, ma alla fine si buttò via anche l’Io, la preziosa istanza di autocontrollo del comportamento sia individuale che sociale. Gli ingenui di “sinistra" che si chiedono ancora come sia stato possibile che l’ignobile Luxuria si sia sosti­ tuito al nobile Gramsci potrebbero facilmente capirlo se per loro il richiamo a Marx fosse il possesso di un meto­ do dialettico di chiarimento degli enigmi del presente, e non soltanto una spilletta di riconoscimento per “marcare il territorio” di appartenenze organizzate. Gli animali lo fanno molto meglio ed in modo molto più performativo con sapienti getti di urina. Non intendo negare che la famiglia, come del resto tutte le istituzioni umane, abbia presentato insieme ele­ menti fisiologici positivi ed elementi patologici negati­ vi. Ad esempio, era abbastanza comune un tempo che il marito picchiasse la moglie, come è abbastanza comune oggi che i figli diventino di fatto ostaggi dei conflitti fra i genitori. Queste patologie familiari, ben note un tempo ai confessori auricolari e ben note oggi agli psicologi ed agli avvocati matrimonialisti, e che appunto non intendo af­ fatto negare, sono state unilateralmente enfatizzate negli ultimi quaranta anni e trasformate in una demonizzazione sistematica dell’istituzione familiare in quanto tale, ope­ razione necessaria per poter promuovere congiuntamente la figura idealizzata del sbigle, non importa se omo, etero o transessuale. Ma qui ci sta un vero enigma, che merita di essere indagato con più attenzione. Mano a mano che la delegittimazione individualistica anti-autoritaria della famiglia bisecolare moderna aumen­ tava, in un processo che finiva con il dissolvere progres­

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sivamente non solo il Super-Io ma anche e soprattutto lo stesso Io (eredità della psyche greca, dell 'anima cristiana e della stessa soggettività razionale cartesiana, morale kan­ tiana e filosofica hegeliana e marxiana), aumentava anche la disoccupazione giovanile, matrice del cosiddetto “bamboccionismo” tanto deplorato da ipocriti come Brunetta e Padoa Schioppa. Ed il paradosso sta in ciò, che proprio mentre il processo di diffamazione, delegittimazione e criminalizzazione della famiglia moderna bisecolare toc­ cava vertici mai visti prima (il transessuale sostituisce il padre di famiglia come modello mediatico privilegiato, all’interno di una dittatura di fatto del circo mediatico pervasivo appoggiato dalla casta nichilistica e pretenzio­ sa degli “intellettuali di sinistra” politicamente corretti), nello stesso tempo i giovani disoccupati erano di fatto costretti a rimandare di un decennio almeno il loro inse­ rimento stabile nel mondo del lavoro e della possibilità di costituzione di una famiglia economicamente indipen­ dente. Per parafrasare la Filosofia del Diritto di Hegel, la Famiglia è abolita tramite il modello individualistico del­ la sovranità dei single (il cui motto inarrivabile è stato ed è “l’utero è mio e me lo gestisco io”), la Società civile non si basa più sulla stabilità del lavoro e sul merito riconosciu­ to, e lo Stato, privato ormai di ogni sovranità monetaria, è ridotto ad arruolatore di mercenari geopolitici per conto dell’impero dominante USA e del suo sacerdozio sionista. Come ho già avuto modo di rilevare almeno due volte, la crisi attuale della famiglia non è la crisi di un model­ lo millenario, ma è la crisi di uno specifico modello co­ munitario soltanto bisecolare. E essenziale impadronirsi concettualmente di questa consapevolezza, perché in caso contrario gli attuali svergognati apologeti della dissolu­ zione individualistica avranno buon gioco nel far notare (ed avrebbero ragione) che nel corso dei millenni la fami­ glia è passata attraverso grandi cambiamenti, e quindi non

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esiste un solo modello “naturale” di famiglia. È normale che papa Ratzinger parli di modello “naturale” di fami­ glia contro quella vera e propria “icona della dissoluzione” che è Emma Bonino, ma si tratta di una trincea difensiva debole, perché è bene ammettere che la famiglia, oltre che una base naturale, ha avuto anche un’evoluzione storica. E allora la vera trincea difensiva sta nel sostenere che la famiglia bisecolare moderna, democratizzata attraverso la sacrosanta emancipazione femminile, è ancora una forma di vita insuperata, e sarebbe un grave errore sostituirla con una sommatoria di singles. Il futuro è impregiudicato. Ma forse la famiglia mo­ derna si può salvare ancora. Preliminare al suo salvatag­ gio è la delegittimazione, che deve diventare però aperta e coraggiosa, della mefitica cultura dissolutiva di “sinistra” (e qui mi ricollego non tanto a Marx, quanto appunto a Lasch), che abbiamo lasciato colpevolmente impazzare in­ disturbata nell’ultimo quarantennio.

G io v a n e - a d u l t o : u n r a p p o r t o r o v esc ia to

2) La scuola era tradizionalmente intesa come una isti­ tuzione preposta alla educazione dei giovani a i valori etici della comunità d i appartenenza. Il concetto di educazione così inteso (dal latino educere, elevare), sembra essere ormai scomparso come un relitto dei secoli scorsi, li educazione e l’istruzione presuppon­ gono il riconoscimento dell’autorità dell’insegnante, la disciplina necessaria per l’apprendimento e per la formazione dei giovani, perché nell’età adulta fossero a loro volta forniti delle doti necessarie per divenire educatori. Oggi il rapporto docente - discente sembra essersi rovesciato, dato che sono gli adulti che devono rapportarsi ai giovani: l’insegnante deve attrarre la

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loro attenzione, dimostrarsi accattivante ed abile in­ trattenitore. È il fanciullo che è divenuto protagonista del rapporto con l’adulto, che a sua volta deve adat­ tarsi ad esso, deve paradossalmente essere “educato” da esso. Questa concezione rovesciata del rapporto gio­ vane - adulto è l’espressione più autentica dell’ide­ ologia individualista prevalente nell’attuale società globalizzata: l’individuo è dalla nascita una entità in sé stessa già compiuta e autoreferente, capace di giudizio e di scelta e qualunque forma di educazione rappresenterebbe una coartazione della sua libertà innata e restia ad ogni ad ogni freno che ne ostacoli le sue espressioni creative. Da tali presupposti deriva il permissivismo generalizzato, a danno dell’educazione nei rapporti umani e uno spontaneismo incontrollato a danno della necessaria autodisciplina. Negare la necessità dell''educazione e della disciplina nella scuo­ la significa formare adulti caratterialmente deboli, psicologicamente labili e quindi meglio predisposti a recepire la cultura mediatica della società dei con­ sumi. Inoltre, la scarsa predisposizione al sacrificio frutto di tale permissivismo conduce all’abbassamen­ to generalizzato delle capacità di apprendimento e del livello culturale della società. Dal momento che sia la tua seconda che la tua ter­ za domanda hanno come oggetto il problema scolastico, correttamente interpretato come sintomo di un piu gene­ rale problema sociale e politico, toccherò in questa mia seconda risposta solo il problema generale, “globalizza­ to” e mondiale, della crisi del vecchio modello bisecolare di educazione, e nella mia terza risposta soltanto la sua versione tragicomica italiana. Nella mia seconda risposta evocherò una vera e propria tragedia, nella mia terza ri­ sposta invece una commedia che diventa in alcuni casi un

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dramma satiresco (la riforma Berlinguer e la cosiddetta “scuola dell’autonomia”). Nel testo delle tue domande (di cui condivido sia la lettera che soprattutto lo spirito) emerge ancora una volta la consapevolezza che in realtà la crisi, apparentemente duplice, è in realtà profondamente unitaria, in quanto si tratta di una crisi unica della famiglia e della scuola nel­ la loro forma educativa bisecolare. Tutto questo sfugge al circo mediatico, che è oggi un fattore attivo di diseduca­ zione, dissoluzione e disgregazione, e sfugge ovviamente ai due gruppi specialistici dei pedagogisti e degli assisten­ ti sociali (o consulenti familiari). Ma solo possedendo il “bandolo della matassa” ci si può capire qualcosa. Alcuni intelligenti saggisti hanno cominciato a capire che il continuo richiamo ideologico all’Occidente ebraico­ cristiano è in realtà un perfido strumento per il seppelli­ mento di tutte le tradizioni positive di questo occidente stesso, e della sola esaltazione della sua principale tradi­ zione negativa (la rivendicazione della superiorità della cosiddetta civiltà occidentale ed il diritto al colonialismo e all’aggressione imperialistica). Fra questi intelligenti saggisti mi limito qui a richiamare Luca Grecchi (cfr. Occi­ dente: Radici, essenza, futuro. Il Prato, Saonara 2009) e Ma­ rino Badiale e Massimo Bontempelli (cfr. Civiltà Occiden­ tale, Il Canneto, Genova 2009). Non esiste naturalmente nessun occidente ebraico-cristiano e tantomeno nessun mito di “ebrei fratelli maggiori”. Si tratta di sciocchezze militari sioniste rivolte alla legittimazione ideologica di una contrapposizione simbolica di civiltà contro l’Islam, che non potrebbero mai passare senza il prolungamento a tempo indeterminato del complesso di colpa degli in­ tellettuali europei per avere “permesso Auschwitz”. La cultura cristiana è certamente una componente essenziale dell’identità europea, ma l’identità europea non ha di per sé niente di esclusivamente occidentale (sinonimo di caro-

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lingio, e solo di carolingio), in quanto comprende anche l’ortodossia orientale di origine bizantina e la stessa com­ ponente arabo-ebraica dell’Andalusia musulmana medio­ evale. L’Occidente è il veleno dell’Europa, non il suo codi­ ce genetico. Il suo codice genetico comprende almeno una decina di componenti, fra cui ci sono certamente il cri­ stianesimo, l’illuminismo e le culture andaluse ebraiche e musulmane, ma c’è soprattutto la componente originaria greca, che sta anzi alla base del concetto di educazione ipaickia). Ed è proprio questa base spirituale greca che è oggi messa in pericolo dalle fanfaluche sull’occidentali­ smo (metafora dell’impero ideocratico USA) e dell’identi­ tà ebraico-cristiana (metafora della sottomissione europea al sacerdozio sionista ed ai suoi obiettivi geopolitici). La logica della globalizzazione imperialistica a dire­ zione spirituale e militare USA tende a superare il vecchio modello bisecolare borghese-europeo (basato appunto sul comune carattere educativo della famiglia e della scuola), attraverso una strategia di dominio politico sul proletaria­ to, di dominio economico sui ceti medi e la piccola borghe­ sia, ed infine di dominio culturale sulla stessa borghesia complessivamente intesa (e non ridotta alla sua semplice caricatura riduttiva economicistica). Il dominio politico sul proletariato avviene attraverso la progressiva elimina­ zione dai parlamenti di tutte le forze politiche critiche del capitalismo, denunciate come “populiste” dalla casta cor­ rotta dei politologi universitari e colpevolizzate come di­ pendenti dal totalitarismo novecentesco, dal comuniSmo dispotico e dal baffo asiatico di Stalin, Valter ego di Hitler. Il dominio economico sulle classi medie avviene attraver­ so la distruzione del loro fondamento sociale bisecolare, il posto fisso prestigioso sostituito dal lavoro flessibile e precario, matrice della polverizzazione individualistica e dell’impotenza storica generale. Il dominio culturale sulla borghesia avviene appunto attraverso la complementare

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distruzione della famiglia e della scuola, basi simboliche della sua egemonia bisecolare. Ma questa ferrea e maestosa logica non può essere capita né a “sinistra”, in cui con­ tinua a dominare l’immagine paleo-marxista per cui nel triennio 1989-91 c’è stata una vittoria della Borghesia sul Proletariato, né tantomeno a “destra”, in cui mezzo secolo di anticomunismo ideologico funzionale alle cerimonie di espiazione e di perdono per essere stata “fascista” (e quindi variante del Male Assoluto) ha necessariamente compor­ tato l’inevitabile passaggio da Giovanni Gentile ed Ezra Pound a Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, con la bene­ dizione finale dell’impero americano (cerimonia espiatoria a Washington di fronte ad Obama, alla moglie, alle bam­ bine ed al cagnolino) e del suo sacerdozio sionista (cerimo­ nia espiatoria a Gerusalemme ed al Museo dell’Olocausto con zucchetto ebraico in testa). Inutile dire (ma forse utile per evitare malvagi fraintendimenti) che tutto questo non c’entra né con il marxismo, né con l’illuminismo, né con la religione cristiana, né con la religione ebraica. Sono molte le ragioni per cui l’attuale globalizzazione ipercapitalistica è del tutto incompatibile con la centralità dell’educazione, e con il fatto che l’educazione, pur essen­ dosi sempre accompagnata sia con la formazione sia con l’istruzione, non può essere ridotta a queste ultime. Men­ tre infatti su questo punto il presunto (ed inesistente) pro­ filo ebraico-cristiano non può dirci assolutamente niente, il concetto di educazione europeo deriva direttamente dal concetto greco di educazione (paideia) si tratta di un con­ cetto comunitario, o più esattamente a base comunitaria, che non rimanda assolutamente ad una base sociale schia­ vistica (secondo una tradizione confusionaria indifferen­ temente di destra e di sinistra, da Nietzsche a Stalin), ma ad una base sociale dominata da una maggioranza politica di piccoli produttori indipendenti (il popolo ateniese che affollava i teatri e le feste pubbliche, fra cui Socrate, figlio

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di uno scalpellino e di una levatrice). L’educazione greca (paideìa) è un prodotto di questa base sociale, non di ricchi oziosi mantenuti da schiavi (che vennero, ma vennero più tardi, in pieno periodo ellenistico-romano). I Dialoghi di Platone sono in proposito un documento storico assolutamente rivelatore, in quanto in essi affiora continuamente la differenza fra quella che chiamerem­ mo oggi formazione-istruzione e quella che chiamerem­ mo oggi (ma che sciaguratamente chiamiamo sempre di meno) educazione. Il pilota ed il ceramista devono essere ovviamente “istruiti” per conseguire il loro profilo profes­ sionale specifico (chiamato dai greci techne), ma dal sem­ plice possesso della techne non consegue direttamente il sapere filosofico necessario per la riproduzione armonica della comunità dei cittadini. Attraverso la techne si costru­ iscono le case, si guidano le navi e si vincono le batta­ glie, ma è solo attraverso l’educazione filosofica (paideia) che si sviluppa il logos, strumento non solo della ragione e del linguaggio ma anche e soprattutto del corretto cal­ colo sociale (il verbo loghizomai) dei rapporti politici ed economici fra i cittadini. Il discorso sarebbe lungo, ed è qui soltanto impostato, ma ciò che conta è capire che non esiste educazione (paideia) senza una base comunitaria che ne impronta il carattere. L’educazione bisecolare borghe­ se si è basata su quel cattivo succedaneo della polis greca che è stato lo stato nazionale europeo moderno, che si è delegittimato da solo attraverso i due bagni di sangue no­ vecenteschi (1914-1918 e 1939-1945), e per questo viene oggi gettato via dalla globalizzazione come si getta via appunto il bambino con l’acqua sporca. Le conclusioni, sempre provvisorie (come devono es­ sere le conclusioni), si possono già tirare con una relativa sicurezza. Chi pensa di salvare l’eredità educativa comune della famiglia e della scuola bisecolare (la cui genesi è bor­ ghese, ma la cui validità è potenzialmente universalistica,

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e quindi da difendere e conservare) accettando contem­ poraneamente la globalizzazione finanziaria ipercapitalistica attuale si illude, ed illudendo sé stesso illude tutti coloro che gli danno retta. La logica della globalizzazione (purtroppo solo superficialmente scalfita dalla crisi esplosa nel 2008) porta alla sostituzione della famiglia con una sommatoria di single, alla riconversione del vecchio inse­ gnante in animatore psicologico di adolescenti consegnati ai videogiochi ed ai pubblicitari televisivi, alla riconver­ sione del vecchio clero religioso in assistenzialismo puro di drogati e poveracci, alla dittatura degli economisti, ed alla fine della scuola sostituita da agenzie interinali di for­ mazione. Il capitalismo postborghese è una società priva di eticità; e quindi di educazione. Molti cominciano ad accorgersene (in Italia ad esem­ pio la saggia Paola Mastracola). Ma il generale discredito in cui è oggi caduta la critica al capitalismo, identifica­ ta con il baffo di Stalin o l’ancheggiare di Luxuria, porta all’illusione per cui ci possa essere una sorta di “via peda­ gogica” alla salvezza. Non è cosi, ma ci vorranno decenni prima che tutto questo possa diventare patrimonio politi­ co e sociale comune.

I s t r u z io n e , m ercato d el la v o ro e reg resso sociale

3) Il livello di istruzione delle masse si è notevolmente elevato negli ultim i 30 anni. Il istruzione già elitaria ed accessibile solo alle classi p iù elevate, si è diffusa in gran parte del mondo industrializzato anche ne­ gli strati sociali meno abbienti. Lo sviluppo della tec­ nologia ha richiesto sempre maggiore qualificazione e specializzazione nel mondo del lavoro. Quindi, l’i­ stituzione scolastica ha subito grandi ampliamenti e ha garantito nuove possibilità di scelta per le giovani

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generazioni, sia per un’evoluzione della società ver­ so una maggiore giustizia sociale, che per adeguarsi alle rapide trasformazioni di una società industriale sempre in continuo progresso. Tuttavia l’istituzione scolastica si è dimostrata, almeno in Italia, sempre inadeguata rispetto alle esigenze del mondo del lavoro. La formazione scolastica si è rivelata sempre p iù ar­ retrata rispetto alla evoluzione della società. L’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro è stato negli ultim i decenni sempre p iù difficoltoso, se non traumatico, sia per le scarse prospettive di occupazione, sia per una sostanziale impreparazione dei giovani, non forniti di una istruzione adeguata, rispetto alle mansioni richieste dalle esigenze produttive. Scuola e società si sono rivelati due mondi incompatibili. Lo Stato si è dimostrato sempre carente negli investimenti nella formazione e nella ricerca. Tuttavia, dato il declino del primato dello Stato, la formazione è oggi concepi­ ta come eschisivamente funzionale alle dinamiche del mercato e delle esigenze del mondo imprenditoriale, distruzione è quindi concepita come un insieme di nozioni tecniche richieste dal mercato della occupazio­ ne, con conseguente annullamento delle funzioni edu­ cative di carattere etico. Inoltre, con la fine dello stato sociale e l’elevazione del livello di specializzazione, l’i­ struzione tende a riacquistare il carattere elitario di inizio ‘900. Si diffonde in fa tti sempre piti il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno: la globalizzazione com­ porta dunque gravi fenomeni di regresso sociale. La risposta precedente ha richiamato una vera e pro­ pria tragedia, e cioè l’inserimento della comune crisi della famiglia e dell’educazione all’interno di una sottomissione reale sia della borghesia che del proletariato alla sempli­ ce riproduzione di un meccanismo sociale cannibalico che

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non ha più bisogno né della famiglia né dell’educazione, ma promuove unicamente il dominio della merce e dell’ac­ cesso ad essa attraverso differenziati profili di solvibilità. La sostituzione di borghesi e proletari attraverso semplici venditori e compratori ha ovviamente conseguenze tel­ luriche, di cui mi limito qui ad indicare la sostituzione dell’inglese al latino come lingua liturgica sacralizzata, la sostituzione in filosofia del progetto universalistico edu­ cativo dell’umanità con il chiacchiericcio disincantato postmoderno (solo un ingenuo può veramente pensare che il relativismo ed il nichilismo siano semplici opinioni fi­ losofiche errate anziché strutture ideologiche costitutive della società —mi spiace dover connotare come “ingenuo” il pur dotato filosofo tedesco Joseph Ratzinger), e l’oscena riduzione dei professori ad animatori sociali inseriti nel mercato della cosiddetta “autonomia scolastica”. A causa di una situazione particolare (in breve, la neces­ sità sistemica di riciclare le due classi politiche mercenarie ricattabili degli ex- comunisti e degli ex-fascisti dopo il colpo di stato giudiziario extra-parlamentare surrealmente denominato Mani Pulite) la distruzione della scuola in Italia non “fa testo”, in quanto ha assunto movenze tragi­ comiche e satiresche sostanzialmente assenti nella maggior parte degli altri paesi europei. A mia conoscenza (e parlo da esperto, perché sono stato professore di scuola seconda­ ria per 35 anni, 1967-2002) soltanto in Italia la cosiddet­ ta “autonomia scolastica” è stata presentata come aperta e sfacciata duplicazione mimetica del mercato, e soltanto in Italia la scuola è stata consegnata ad un pittoresco distrut­ tore puro come il dilettante Luigi Berlinguer (1996-2000), che ha trovato i suoi miserabili esecutori in una congrega di sindacalisti semi-analfabeti, virago CGIL scuola, psicologi invasivi e soprattutto pedagogisti pazzi, nel silenzio impo­ tente ed orripilato dei pochi professori pienamente consa­ pevoli della natura distruttiva di quanto stava capitando.

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Segnalo in proposito il saggio di Massimo Bontempelli (cfr. “Indipendenza”, n.27, 2009), in quanto Bontempelli, intellettuale dotato di ampia competenza storica e filoso­ fica, e nello stesso tempo insegnante di scuola secondaria, è perfettamente in grado di capire la logica distruttiva innescata negli ultimi ventanni, che ha trovato nel quin­ quennio di Luigi Berlinguer un momento parossistico e tragicomico di dittatura dei sindacalisti e dei pedagogi­ sti contro i semplici professori, che la riforma Gentile del 1923 aveva correttamente messo al centro del progetto scolastico (prescindo qui del tutto dal fascismo, dal libe­ rismo e dal comuniSmo —non a caso Gramsci ne diede sempre una valutazione positiva, e questo non a caso, dal momento che Gramsci era un neo-idealista DOC). Bon­ tempelli non ricorda però un precedente pittoresco ma significativo, il fatto cioè che lo sciagurato avesse firmato più di un ventennio prima un testo interamente descolarizzatore insieme con altri due confusionari (cfr. “Il Mani­ festo” rivista, n. 21, febbraio 1970). La descolarizzazione propugnata dal sessantottino fu infatti applicata, ma non nella forma utopico-consiliare, quanto nella forma aziendalistico-mercatistica. Ricordo bene quegli anni di follia, perché essi coincisero con gli ultimi anni del mio insegna­ mento liceale, in cui fui ridotto ad una guerriglia isolata di resistenza, scacciando come mosche fastidiose tutte le bande pedagogico-sindacali ed ignorando sovranamente tutto il ciarpame di test, documenti ed altri deliri. Picco­ le cose, ma come dice un proverbio greco moderno, anche gli scarafaggi sono piccoli, eppure fanno schifo lo stesso. Non scendo qui nei particolari, e per questo rimando all’articolo di Bontempelli sopra citato. Il punto centrale sta però in ciò, che a fianco del delirio invasivo di sindacali­ sti semi-analfabeti e di pedagogisti pazzi (penso che il mas­ simo della abiezione pedagogica invasiva sia stata quella dei signori Maragliano e Vertecchi, equivalente scolastico dei

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mutanti Veltroni e Bertinotti) la distruzione della scuola fu progettata attraverso la distruzione dei programmi na­ zionali e la cosiddetta “autonomia scolastica”, adattamento dell’istituzione scolastica alla logica del mercato, in cui gli studenti diventavano compratori e clienti, e come sanno tutti i negozianti, il “cliente ha sempre ragione”. Per capire la logica di tutto questo bisogna capire che essa si rivolgeva non alla mente, ma alla “pancia” degli operatori scolastici, perché trasformava i presidi in “im­ prenditori sul territorio” e gli insegnanti in giocatori del vecchio gioco di “Monopoli”, in cui tutti comprano e ven­ dono. Nel linguaggio platonico, si trattava di una vittoria tennistica dei peggiori sui migliori, perché il vero buon professore ha una vocazione pedagogica esclusiva di stu­ dio, ed è generalmente divenuto professore proprio rinun­ ciando ad attività molto meglio pagate che richiedevano però proprio l’esercizio di attività imprenditoriali che oc­ cupavano però almeno dieci ore al giorno (per dirla con il comico Totò, modestamente era proprio il mio caso). La chiave teorica per capire tutto questo deve essere cercata in una vecchia esternazione dell’avvocato Gianni Agnelli, per cui bisogna rivolgersi alla sinistra per poter portare a termine il programma della destra (e si pensi a Prodi ed alla sua “lenzuolata” di privatizzazioni, in cui la Goldmann Sachs sostituisce la vecchia via italiana al socia­ lismo). Ma, appunto, quale sinistra? La sinistra derivata dal vecchio apparato metamorfico PCI —PDS —DS —PD, inte­ sa come ceto politico particolarmente ricattabile, riconver­ titosi in mercenariato politico delle multinazionali e della guerra USA geopolitica nei Balcani (si pensi a D’Alema ed al Kosovo 1999). Quando si comincerà a capire (ma ci vor­ ranno ancora molti anni) che l’autonomia scolastica di Lui­ gi Berlinguer e l’intervento in guerra di Massimo D ’Alema nel 1999 seguono la stessa logica (ma ho l’impressione che neppure l’acuto Bontempelli lo capisca veramente), allora

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si porranno le basi minime per la comprensione della logica complessiva degli eventi italiani dell’ultimo ventennio. L’autonomia scolastica fu “venduta” ai più ingenui come occasione per un rinnovamento, per una sperimen­ tazione controllata e per l’incentivazione della creatività professionale degli insegnanti. Sciocchezze. Più o meno nello stesso periodo si diffuse un’innovazione linguistica che passò del tutto inosservata in quanto il circo mediatico-giornalistico di manipolazione cominciò a sostituire al titolo di “professore” il titolo di prof., un tempo riservato al solo linguaggio gergale giovanile, mentre l’apparato sin­ dacale cominciò a derubricare i professori ad “insegnanti” (dalla scuola materna al liceo classico), riservando il titolo di professori al solo notabilato castale universitario. Ma per capire la logica profonda di questi mutamenti quasi invisibili ci sarebbe voluta una capacità che in generale la gente non ha, quella della “immaginazione sociologica”. Gli apparati sindacali di sinistra sognano una prole­ tarizzazione universale, in modo da poter “rappresenta­ re” tutti questi nuovi plebei di fronte ai patrizi (Marcegaglia, Montezemolo, ecc.). Venuta meno la possibilità di instaurare la mitica società socialista (derubricata ad utopia sanguinaria di funzionari baffuti in giacca di pel­ le), il programma diventava quello della distruzione della scuola cosiddetta “borghese” (incarnata dall’abietto Gio­ vanni Gentile). Non si accorgevano però, gli ingenui, che a distruggere la scuola borghese non erano loro (poveri untorelli!) ma erano proprio le nuove oligarchie finanzia­ rie della globalizzazione uitracapitalistica. I danni fatti da Berlinguer sono stati devastanti, ma non è un caso che nessuno dei successori (Moratti, Fioroni e Gelmini) è in qualche modo riuscito a porvi rimedio. E questo, appunto, non è un caso, perché siamo di fronte ad una ten­ denza strutturale, per cui il nuovo capitalismo postborghe­ se non ha più bisogno né della famiglia né della scuola.

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Ho abbandonato il mestiere di professore con il pen­ sionamento nel 2002, ed ho “rimosso” psicologicamente il periodo di Berlinguer (e del suo irrilevante successore De Mauro) come si rimuove un cattivo periodo della vita, la mia impressione è che la giovane generazione di pro­ fessori (si noterà che non cerco di usare mai il termine sindacalese di “insegnanti”, che pure sarebbe così bello poter usare se queste blatte non lo avessero sporcato) sof­ frono a vedersi dequalificati come animatori sociali “del territorio”, ma non sono in grado di innescare comporta­ menti collettivi e comunitari di resistenza vera e propria. Ancora una volta, la resistenza deve ripiegare nel singolo lavoro ben fatto. E tutti sanno che, scacciati come insetti fastidiosi, i sindacalisti semi-analfabeti, la virago CGIL Scuola, gli psicologi invasivi ed i pedagogisti pazzi, resta alla fine sempre l’educatore, maschio o femmina che sia. Il mio pessimismo è quindi temperato. Se dovessi ri­ ferirmi soltanto alla superficie mediatica, sindacale e dei pedagogisti pazzi (in proposito il mutante Maragliano ha a suo tempo fatto l’elogio del videogioco come sostitu­ to dei noiosi libri tradizionali), dovrei fare osservazioni alla Spengler sul tramonto dell’Occidente. Ma so bene che continuano ad esserci educatori vocazionali, che nessuna congrega di pedagogisti pazzi e di imprenditori dell’auto­ nomia scolastica potrà mai distruggere.

L a sc o m pa r sa

d e l r ib e llism o g io v a n il e

4) Nelle scuole, come nelle università, è scomparsa la ri­ bellione. La ribellione dei giovani, fenomeno congeni­ to all’età adolescenziale, sembra essersi ormai ridotto a manifestazioni quasi folkloristiche, evocatrici di un passato ideologico ormai estinto e assente nella cultura delle nuove generazioni. Sembra inoltre ormai

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in decadenza la naturale contrapposizione giovani adidti. Questi in fa tti sono oggi due mondi tra cui è impossibile la comunicazione. Quando non c’è comu­ nicazione non può esserci né odio né amore. La società contemporanea ha risolto la questione giovanile (già propria delle problematiche sociali del ‘900), attra­ verso la sua rimozione. Ci si può in fa tti ribellare alle istituzioni d i una società ingiusta e ormai fuori del tempo, se si hanno prospettive di trasformazione e ideali da realizzare in un futuro storico p iù o meno lontano. L’assenza d i una cultura portatrice di valori etici elo spirituali, porta necessariamente all’accet­ tazione supina delle condizioni del presente storico, subendone le conseguenze, come una sorta di necessità fatalistica, liomologazione sociale già paventata ne­ gli anni della contestazione giovanile è giunta dopo quasi due generazioni al suo compimento. In realtà, tale vuoto di prospettive ha le sue radici nel processo di deresponsabilizzazione e decolpevolizzazione dei giovani perseguito nell’istituzione scolastica nell’ul­ timo quarantennio. Si è deresponsabilizzato il gio­ vane sin dalla prim a età scolare, facendo ricorso ad un facile psicologismo che rovesciasse le responsabilità individuali su di una indefinita e astratta società, si è decolpevolizzato ogni comportamento asociale at­ tribuendone la colpa agli insegnanti e alla famiglia, visti come istituzioni autoritarie, relitti di una socie­ tà arcaica, liberticida e repressiva. Ogni prospettiva di cambiamento è stata annullata formando perso­ nalità deboli, recidendo ogni legame con le radici cul­ turali europee e ogni continuità storica con il ‘900, inoculando nei giovani massicce dosi d i senso di colpa collettivo (vedi olocausto, colonialismo ecc... ). In tale contesto, venendo meno le basi culturali ed una edu­ cazione alla autodisciplina e al senso critico, si sono

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sradicate addirittura le basi antropologiche di ogni possibile sano ribellismo, per quanto velleitario, che potesse manifestarsi nelle scuole e nelle università, proprio in virtù della presa di coscienza, acquisita attraverso la cultura, della propria condizione e del proprio ruolo nella storia e nella società in cui una nuova generazione è chiamata a vivere ed operare. Sono d ’accordo con la tua affermazione, per cui ci deve essere un rapporto, sia pure non immediatamente eviden­ te ad occhio nudo, fra la progressiva deresponsabilizza­ zione educativa e familiare dei giovani ed il contestuale progressivo indebolirsi ed affievolirsi della ribellione dei giovani stessi, fenomeno certamente in parte fisiologico, ma anche storico, perché i movimenti di massa giovanili sono spesso stati dei veri e propri barometri e segnalatori di sommovimenti sociali complessivi. Per chi è stato interno per decenni alla cultura di sini­ stra, questo fenomeno appare chiaro come il cristallo. Dal vecchio marxiano “Proletari di tutto il mondo unitevi!” si era infatti passati al “Hai ucciso tua nonna per rubargli la pensione? La colpa in definitiva non è tua, ma è del­ la società”. Chi ha creduto (e due generazioni di idioti lo hanno creduto) che responsabilizzando unicamente la società si sarebbe ottenuto il risultato di concentrare l’at­ tività ribellistica dei giovani contro la società stessa (e le sue innegabili e peraltro sempre crescenti ingiustizie), si trova ora con un cerino spento in mano, come l’imbecille che ha appena segato il ramo d’albero in cui era seduto. Deresponsabilizzando del tutto l’individuo per i cosiddet­ ti “mali sociali” alla fine si è finito con il deresponsabiliz­ zare congiuntamente anche l’istanza soggettiva razionale responsabile dell’individuo stesso. Il deresponsabilizzato non può essere un soggetto militante, ma al massimo un oggetto per psicologi ed assistenti sociali.

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Il presupposto storico e filosofico di qualsiasi ribellio­ ne giovanile (non mi riferisco a pagliacciate mediatiche in cui gli studenti agiscono come guardia plebea e carne da cannone per la difesa di un modello di università comple­ tamente mafioso e corrotto ed in cui ogni meritocrazia è sostituita da cooptazioni familistiche truccate, quasi sem­ pre verticali per i maschi ed orizzontali per le femmine) sta in una unità di sentimenti, passioni ed interessi delle tre classi di età, i giovani, le persone di mezza età e gli anziani, in cui i giovani agiscono da avanguardia storico­ biologica di tutte e tre le classi di età. Ed è appunto que­ sto che oggi è messo fortemente in discussione. In tutti i periodi storici, fin dal tempo del paleolitico, le tre classi di età hanno teso a costruire gruppi culturali separati, in cui i riti di passaggio ed i riti funerari han­ no sempre giocato un ruolo simbolico di mantenimento della comunità (pensiamo agli antichi egizi). E tuttavia, al di là della separatezza delle tre classi di età, esisteva il presupposto della comunità unitaria da riprodurre. Con lo sviluppo della individualizzazione atomistica estrema tut­ to questo viene meno. L’individuo diventa così talmente ipertrofico da svuotare il significato dell’educazione, l’e­ tica del lavoro e la stessa ritualizzazione della morte. Il giovane è semplicemente un vecchio sano, ed il vecchio un giovane malato. È bene capire che il controllo sociale complessivo da parte delle oligarchie dominanti non avviene più secondo le modalità prevalenti nel novecento, in cui le oligarchie controllavano l’insieme sociale con il metodo del divide et impera, contrapponendo gli interessi collettivi della classe operaia e dei braccianti agricoli (da cui sociali­ smo, comuniSmo, fascismo, eccetera). Oggi il controllo avviene indirettamente attraverso lo sviluppo dell’im­ potenza sociale, per cui tutti indistintamente i membri della società —non importa se provenienti dalla vecchia

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piccola borghesia o dal vecchio proletariato —si sentono egualmente impotenti a cambiare le cose. La stessa fine del mondo diventa più visualizzabile e rappresentabile di un cambiamento radicale della società in cui si vive, che è diventata ormai una società dell’impotenza sociale permanente. E come si può resistere di fronte ad una en­ tità così sfuggente e nello stesso tempo così onnipotente come la globalizzazione? Tu affermi che la società contemporanea ha risolto la questione giovanile attraverso la sua rimozione. Affer­ mazione esatta, ma da integrare. Il giovane è superficial­ mente onnipresente, attraverso l ’ostensione televisiva dei muscoli del calciatore e/o delle chiappe delle veline, o attraverso i continui borborigmi sul bullismo e la co­ siddetta “mancanza di valori”. Ma è appunto presente come presenza fisico-biologica socialmente del tutto im­ potente, a partire dalla Madre di Tutte le Impotenze, l’incapacità sociale di risolvere il problema dei problemi, il lavoro flessibile e precario. Mi ero sbagliato. Non vi­ viamo in una società dell’impotenza, ma in una società della vergogna.

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La nuova geopolitica del capitalismo immanente

E clisse o t r a m o n t o d e lla s u p e r p o t e n z a a m e r ic a n a ?

1) Esiste oggi una nuova geopolitica: la geopolitica post crisi. In realtà, la crisi economico - finanziaria occi­ dentale è tuttora in atto e ben lungi dall’essere su­ perata, ma, data la sua dimensione globale, produce oggi e produrrà ancor p iù in fu tu ro trasformazioni profonde degli attuali assetti geopolitici. Uaspetto p iù rilevante della nuova geopolitica mondiale che si sta delineando è costituito dal declino della superpotenza americana. G li USA infatti, epicentro della crisi finanziaria, hanno potuto evitare il collasso eco­ nomico e finanziario facendo ricorso ad un massiccio intervento statale, incrementando un debito pubbli­ co dalle dimensioni gigantesche già prim a della crisi e, per d i più, detenuto in larga parte dalla Cina e dai fo n d i sovrani degli Em irati. Il dollaro come valu­ ta di riserva mondiale è messo da p iù p a rti in discus­ sione. Il primato militare americano è gravemente compromesso dalle guerre di logoramento tuttora in atto in Iraq e Afghanistan. È assai dubbio che gli USA saranno in grado in futuro di sostenere fin a n ­ ziariamente la propria presenza militare nel mon­ do. La delocalizzazione industriale, specie in Asia, ha drasticamente ridimensionato il sistema produt­ tivo americano, condizionando, peraltro, la politica economica americana alle strategie aggressive delle potenze asiatiche, specie della Cina. Con la fine dell’ “era Bush” l’unilateralismo messianico - globalista americano è giunto al termine, oppure registra solo una rilevante battuta d’arresto? I nuovi scenari ge­ opolitici preludono ad un mondo multipolare, domi-

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nato cioè da varie potenze continentali (Cina, India, Russia, Brasile), tra loro interdipendenti economi­ camente e quindi anche politicamente? Non m i sem­ bra possibile che gli USA si possano rassegnare ad un ruolo di comprimari in un consesso mondiale di potenze continentali, data la loro struttura istituzio­ nale d i stampo teologico - economico, propria cioè di un Paese fondato sul messianesimo biblico del desti­ no manifesto, dei d iritti um ani esportabili global­ mente, sempre proiettato, per sua natura identita­ ria, al superamento d i nuove frontiere. N ell’attuale contesto geopolitico mondiale non esistono potenze continentali elo mondiali portatrici di modelli socio economici e quindi politici tra loro alternativi, come f u per il dualismo USA - URSS nel ‘900. A nzi, il sistema capitalista, p u r con le sue differenziazioni, ha ormai omologato la politica e l’economia d i tutto il mondo. Il sistema capitalista domina oggi incon­ trastato: da questo punto d i vista la vittoria globale dell’americanismo sembra per ora totale. I capitali­ smi del mondo globalizzato denotano tuttavia delle differenze riguardo le specifiche strutture politiche ed economiche dei vari Paesi: mentre le società e gli stati occidentali (USA ed Europa) sono dominate dai grandi gruppi economico - finanziari che perseguono strategie espansionistiche attraverso organi (EMI, Banca Mondiale) e accordi internazionali (WTO), le potenze orientali (Russia e Cina), sono controllate da fo rti strutture statali, che, attraverso poteri quasi as­ soluti, realizzano i propri disegni espansionistici nel campo dell’economia e della finanza. I l mondo post 2008 è dunque caratterizzato da conflitti permanen­ ti tra potenze mondiali operanti nelle diverse aree geopolitiche, ma comunque tra loro interdipendenti ed interne ad un unico sistema capitalista globale.

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Non a caso, i fattori che determinano accordi e scon­ tri nell’ambito della politica internazionale sono la crescita del Pii, le quotazioni del petrolio, le perio­ diche crisi dell’economia finanziaria. La nuova geo­ politica è solo apparentemente un confronto - scontro tra Stati, perché nella sostanza si rivela un conflitto permanente interno ad un unico sistema, generato dalla concorrenza economica tra gruppi dominan­ ti, identificati in un’unica Global Class planetaria distribuita tra i vari Stati. Potremmo definire la attuale fase della globalizzazione come una “geopo­ litica delle élìtes” per l’appropriazione delle risorse mondiali. Im configurazione dell’attuale geopolitica, rivela altresì le ragioni dell’insuccesso del fronte di opposizione antiamericanista diffuso nel mondo: il dissenso non può essere lim itato all’imperialismo americano, ma deve incentrarsi sul sistema economi­ co capitalista e stdle sue ricadute sociali e culturali che possiamo definire “americanismo”. Le riflessioni contenute nella tua domanda permettono un insieme di risposte ad ampio raggio. Ho detto un in­ sieme di risposte, non una risposta sola, perché si tratta di temi diversi, anche se interconnessi. In primo luogo, si ha a che fare con una corretta defi­ nizione della stessa geopolitica vera e propria. Mi sembra che con questo termine si intendano in realtà due cose distinte. Da un lato, si tratta di una scienza sociale vera e propria che intende fondere insieme geografia e politica, e che in quanto scienza sociale nel senso di Max Weber è anche relativamente “neutrale” rispetto ai fini politici, e quindi non è ovviamente ideologicamente caratterizzata, e non è pertanto né di destra né di sinistra, anche se la stupidità moralistica del Politicamente Corretto tende a considerarla di “destra” (per la stupidità moralistica tutto

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quanto non è immediatamente moralistico ma ha a che vedere con la forza è sempre inevitabilmente “fascista”). Il fatto che l’occupazione militare dell’Asia Centrale ven­ ga considerata essenziale in termini geopolitici (si tratta del controllo del cuore dell’unico grande continente eu­ rasiatico, detto anche heartland) non ha di per sé alcun carattere culturale o ideologico, ma è un vero e proprio “fatto”. Nello stesso modo, il fatto che gli USA mettano basi militari permanenti in Iraq e in Colombia è esso stes­ so un fatto geopolitico, in quanto è mirato al controllo del Medio Oriente e dell’America Latina. Dall’altro lato, però, la geopolitica non è soltanto (e principalmente) una scienza sociale weberianamente neu­ trale rispetto ai valori etici e filosofici, ma è un prolun­ gamento ideologico inevitabile di questi ultimi, almeno per chi li professa. Il fatto di mettere basi militari in Asia Centrale è un dato geopolitico-militare del tutto “neutra­ le” rispetto ai valori politico-filosofici. Il fatto però che noi preferiamo come male minore che a mettere queste basi sia la Russia di Putin piuttosto che gli Stati Uniti d’America di Obama (e confesso che questo è il mio caso) non è affatto un dato neutrale rispetto ai valori, ma è un semplice prolungamento di un giudizio complessivo sullo stato del mondo e sulla direzione storica che noi soggetti­ vamente auspichiamo. Non c’è in questo nulla di male, purché venga ammes­ so apertamente. Mentre le premesse filosofiche di valore sono del tutto irrilevanti nel caso delle scienze naturali (la deriva dei continenti non è infatti né di destra né di sinistra), nel caso delle scienze sociali (e la geopolitica è appunto una scienza sociale) l’etica della comunicazione impone che le proprie premesse di valore siano interamen­ te esplicitate. Se infatti personalmente io collaboro alla rivista geopolitica Eurasìa, mentre non mi sognerei mai di collaborare alla rivista geopolitica Limes (e del resto non

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me lo hanno mai chiesto e non me lo chiederebbero mai), ciò avviene in base a premesse valoriali, e non certamente sulla base della neutralità weberiana delle scienze sociali. E tuttavia, vorrei esaminare al microscopio la tesi di fondo che tu espliciti alla fine del tuo intervento, in cui dici: “La configurazione dell’attuale geopolitica —la geopo­ litica delle élites in concorrenza per l’accaparramento delle risorse mondiali —rivela le ragioni dell’insuccesso del fron­ te di opposizione antiamericanista diffuso nel mondo. Il dissenso non può essere limitato all’imperialismo america­ no, ma deve incentrarsi sul sistema economico capitalista e sulle sue ricadute sociali e culturali che possiamo definire americanismo”. In questa tua formulazione, sintetica ma completa, ci sono potenzialmente tutti gli elementi che ci interessano. Primo, se siamo di fronte ad una brigantesca geopolitica delle élites di accaparramento delle risorse mon­ diali, ne deriva che costoro sono tutte sullo stesso piano, e non ha senso “tifare” per i cinesi contro gli americani, o per i russi contro gli europei. Secondo, ne deriva che il semplice antiamericanismo non solo è poco produttivo, ma è anche errato e fuorviarne se pensiamo alla politica bri­ gantesca della Cina in Africa. Terzo, nonostante si metta in guardia contro il semplice antiamericanismo, si ammette che sul piano “sovrastrutturale”, e cioè culturale, esiste pur sempre un “ismo” chiamato “americanismo”. Come è pos­ sibile allora sbrogliare una matassa tanto ingarbugliata? Non pretendo certo di riuscire a farlo, ma tenterò al­ meno di chiarire il mio punto di vista. Per farlo mi riferirò ad una recente formulazione di Alain de Benoist, che a mio avviso imposta correttamente i termini del problema geopolitico attuale, che riassumerò così: il segreto della presa di posizione geopolitica sta esso stesso al di fuori della questione geopolitica propriamente detta. Scrive Alain de Benoist: “Il nemico principale è ad un tempo il più nocivo ed il più potente. Esso è oggi il ca-

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pitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale ed infine gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico. Il nemico princi­ pale occupa il centro del dispositivo. Tutti coloro che in periferia combattono il potere del centro dovrebbero esse­ re solidali. Ma non lo sono”. Ho riportato questa formula­ zione, ammirevole per la sua precisione e concisione, per­ ché mi sento di sottoscriverla al cento per cento. Evento assai raro quest’ultimo, perché in generale la condivisione non è mai al cento per cento. I contenziosi storici precedenti (ad esempio destra e sinistra, fascisti e comunisti, atei e credenti, eccetera), an­ che se hanno ormai perduto ogni pertinenza storica con il presente, sono il primo fattore di impedimento alla soli­ darietà ed alla strategia di alleanze contro quello che de Benoist chiama “il potere del centro”. E necessario infatti accettare la categoria polemologica e geopolitica di “ne­ mico principale”. Io l’accetto. In proposito è bene ricorda­ re che nel dibattito filosofico le cose non stanno in questo modo, perché in esso si hanno soltanto amici e non nemi­ ci (Aristotele, Epicuro, eccetera), in quanto anche coloro che praticano la confutazione delle nostre posizioni sono amici e non nemici, perché la loro confutazione ci aiuta a chiarificare meglio le nostre posizioni. Ma ciò che vale in filosofia non vale in politica. In politica esiste invece la dicotomia Amico/Nemico, a meno che la politica sia ri­ dotta ad amministrazione ed a gestione di una situazione immodificabile diretta da una oligarchia economica, ed in questo caso il nemico è retrocesso ad avversario. Ma non perdiamoci in fumisterie laterali. Resta il fatto che de Benoist colloca il conflitto geopolitico all’interno di un insieme inscindibile di cinque conflitti strategici epocali. Se li analizziamo uno per uno, riusciremo forse a capire meglio che la contrapposizione all’americanismo

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non solo non è incompatibile, ma è complementare alla centralità della contrapposizione geopolitica e al dominio militare degli Stati Uniti d’America. Prima di tutto, è bene sottolineare il coraggio e la chia­ rezza con cui si ribadisce quella che è stata per duecento anni in Europa una posizione classica della “sinistra” pri­ ma della sua recente catastrofica deriva di tipo neoliberale e postmoderno, e cioè che sul piano economico il nemico principale resta il capitalismo e la società di mercato. La dissoluzione vergognosa del dispotismo sociale costruito sotto cupola geodesica protetta definito comuniSmo storico novecentesco (1917 - 1991) ha comportato (ed era inevi­ tabile che lo fosse) la delegittimazione della critica al capi­ talismo in quanto tale, per cui il capitalismo è ridiventato la gabbia d’acciaio (Max Weber) ed il destino della tecnica (Martin Heidegger). È certo curioso che a fare questa ra­ dicale affermazione anticapitalistica sia Alain de Benoist, colui che nell’ultimo mezzo secolo aveva cercato di coerentizzare un profilo di Nuova Destra, laddove la stragrande maggioranza degli urlatori estremisti sessantottini si è ri­ ciclata in neoliberali ed in apologeti dei bombardamenti umanitari. Ma questo non deve stupire coloro che hanno un punto di vista dinamico e dialettico sulla realtà. Esiste infatti una destra del denaro (Berlusconi, Sarkozy, eccetera), che aderisce al capitalismo come una maglietta al corpo. Ed esiste una destra della tradizione, che spesso (non sempre) è più anticapitalista della sinistra del progresso, in quanto è maggiormente libera dalla idolatria verso i (provvisori) vin­ citori della storia. Qui de Benoist non si limita a criticare il cosiddetto Pensiero Unico del neoliberismo, (la piattaforma dei movimenti detti no-global, oggi pressoché spariti, e non rimpianti), ma critica giustamente il capitalismo in quanto tale. E bene anche distinguere fra il modello dell’economia di mercato ed il modello della società di mercato. Il mercato come criterio della razionalità della domanda e dell’offerta

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non è un principio del tutto malvagio, e deve essere distinto dal capitalismo, laddove la società di mercato è l’estensione di questo principio economico a tutti gli ambiti della vita umana. È questo l’incubo contro cui combattere. Ma oggi la logica capitalistica della accumulazione illimitata porta appunto non ad una tollerabile economia di mercato, ma verso una intollerabile società di mercato. Può sembrare scandaloso affermare che oggi il libera­ lismo è il nemico principale sul piano politico, ma non lo è. Astrattamente parlando, il modello liberaldemocratico è il migliore possibile, ed è certamente migliore di tutte le forme di stato e di governo di tipo populista, integralista, fascista e comunista. Ma, appunto, questo avviene soltanto in un seminario universitario di dottrine politiche, in cui il modello liberaldemocratico è esposto in forma idealtipicamente pura e perfetta. Nei fatti, invece, il liberalismo è soltanto la copertura del dominio delle oligarchie finan­ ziarie che dominano il pianeta con l’ausilio geopolitico delle loro strutture militari permanenti. Questo modello ha espropriato la sovranità politica e monetaria degli sta­ ti nazionali, sovranità stilla cui base erano stati edificati i modelli sociali del welfare state. Oggi il liberalismo politico è diventato un codice d’accesso alla globalizzazione finan­ ziaria, e non ha più nulla a che fare con la rappresentanza degli interessi sociali, punto di riferimento imprescindi­ bile della democrazia moderna (ed anche di quella antica della Jw/it greca). Il circo mediatico ed il clero universitario sono concordi a denunciare il cosiddetto “populismo” dei dittatori, ma questo circo e questo clero sono asserviti alle oligarchie finanziarie transnazionali. In quasi tutti i casi concreti, il cosiddetto “populismo” è comunque preferibile (almeno come male minore) al liberalismo. Degno di. nota è il fatto che sul piano filosofico venga in­ dividuato come nemico principale l’individualismo. Joseph Ratzinger, che resta filosoficamente superiore ai postmoder-

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ni, avrebbe probabilmente parlato invece di nichilismo e di relativismo. Ma su questo punto de Benoist si mostra più acuto. Il nichilismo ed il relativismo, infatti, non sono af­ fatto originari, ma sono il derivato della distruzione di ogni rapporto comunitario e solidaristico, per cui tutto diventa relativo al potere d’acquisto monetario del singolo indi­ viduo. E quindi l’individualismo il vero nemico filosofico principale di oggi, in quanto l’individuo non è più il por­ tatore della sua irripetibilità assoluta (la psychè greca), ma semplicemente l’unità ontologica assolutizzata dell'accesso alla società di mercato di cui si è parlato in precedenza. Sul piano sociale, il nemico principale resta la borghe­ sia. E tuttavia (e mi permetto qui di rimandare ad un li­ bro scritto con Eugenio Orso e recentemente pubblicato) personalmente preferisco segnalare che le attuali oligar­ chie finanziarie che dominano il pianeta non presentano soltanto evidenti elementi “borghesi” tradizionali, ma presentano anche nuovi ed inediti elementi post-borghesi (connessi peraltro ad un processo di deriva di natura post­ proletaria per le classi popolari, subalterne, operaie, sala­ riate e proletarie). Ma qui siamo soltanto sulla soglia di una ridefinizione integrale di una teoria delle classi. Sulla base di questa illustrazione del tempo presente, la quinta determinazione (gli USA come nemico geopoli­ tico principale) appare connessa strettamente con le quat­ tro determinazioni precedenti. Astrattamente, esse pos­ sono essere esaminate separatamente, ma concretamente esse sono oggi fuse insieme strettamente. Certo, il capi­ talismo, il liberalismo, l’individualismo e la borghesia ci sono anche in Russia ed in Cina, e spesso hanno addirit­ tura in certi paesi un profilo più ripugnante di quanto possano avere negli stessi USA (il capitalismo russo e bra­ siliano è oggi più ripugnante di quello statunitense). Ma gli USA restano il grande collante culturale ed il grande garante geopolitico-militare della riproduzione capitali-

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stica mondiale. In questo senso, e solo in questo senso, gli USA sono il nemico principale. Si noterà che non vi è qui nessun anti-americanismo aprioristico ed isterico, ma ci si limita sobriamente ad individuare negli USA un collante culturale ed un garante militare complessivo. Detto questo, concordo nell’essenziale con la tua defi­ nizione di “geopolitica delle élites”. Questa definizione pren­ de atto del fatto che oggi le grandi cause storiche dell’u­ manità (solidarismo, comunitarismo, eccetera) non hanno in alcun modo dei portatori partitici o statuali. Sul piano geopolitico ritengo che la Cina abbia ragione a proposito del Tibet, ma ciò non toglie che il popolo tibetano con­ tinui ad avere il diritto assoluto a difendere i suoi diritti nazionali. E ciò che dico del Tibet potrebbe essere detto per altre decine di cause nazionali. La geopolitica deve essere “bevuta” con moderazione, senza ubriacarsene. Essa è un dato storico-geografico, ed ignorarla è da “anima bella” (uso qui un termine hegelia­ no). Ma essa non è la chiave interpretativa fondamentale del presente storico. Essa deve essere subordinata alla valutazio­ ne filosofica della realtà contemporanea. Essa però è anche un “segnalatore”, in quanto le nostre opinioni geopoliti­ che rimandano pur sempre infallibilmente a quello che noi pensiamo sullo stato generale del mondo in cui viviamo.

I l d e c l in o

a m e r ic a n o e le in c o g n it e m e d io r ie n t a l i

2) Il declino attuale della superpotenza americana coin­ volge in prim is quelle aree del mondo già conflittuali quali il Medi-oriente. Il governo Netanyahu in Isra­ ele vuole accelerare la propria politica di espansione degli insediamenti di coloni nei territori occupati. Tale politica, data la reazione palestinese, comporta uno stato di guerra permanente. Israele, da sempre,

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può perseguire una tale strategia espansionistica in virtù dell’incondizionato sostegno economico e politi­ co americano. Quest’ultimo, data la crisi strutturale dell’economia americana e il gigantesco deficit delle finanze pubbliche, potrebbe non avere nel prossimo futuro la stessa valenza economica e la stessa efficacia politica del passato. Inoltre, un incondizionato soste­ gno americano ad Israele, nella attuale situazione, potrebbe sortire l’effetto di generare m utam enti ri­ levanti negli schieramenti politici del Medioriente, che pregiudicherebbero inevitabilmente le strategie americane nell’area. Infatti, all’appoggio unilaterale americano la politica di Netanyahu potrebbe fare ri­ scontro l’ostilità dei Paesi arabi dell’area mediorien­ tale, il cui sostegno, tacito o espresso, è per gli ame­ ricani fondamentale per sostenere le guerre in Iraq e Afghanistan. Tale latente conflittualità potrebbe inoltre generare conseguenze difficilmente controlla­ bili per quanto concerne gli approvvigionamenti e le qtiotazioni del greggio sui mercati mondiali. Non di­ mentichiamo infine che l’Arabia Saudita e gli E m i­ rati sono tra i principali detentori del debito p u b ­ blico americano. Il quadro geopolitico mediorientale è inoltre mutato negli u ltim i anni: Iran e Turchia sono oggi potenze locali che svolgono un ruolo indipendente nell’area. In particolare la Turchia, alleato tradizionale degli USA, ha oggi accentuato la propria identità islamica allo scopo d i svolgere, nel gioco del­ le alleanze mediorientali, una politica autonoma che fatalmente, non potrà che configgere con la politica filo israeliana degli americani. Ulteriori ripercussio­ ni potrebbero verificarsi negli stati caucasici, nell’A ­ sia centrale e nella stessa Europa orientale, per quan­ to concerne il conflitto latente tra USA e Russia per il controllo dell’area e per lo sfruttamento delle materie

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prime. Ricordiamo come l’intervento militare russo in Georgia abbia determinato nel 2008 una battuta d’arresto alla penetrazione americana nell’area caucasica. In tale contesto, è significativo l’atteggiamen­ to di contrarietà di Obama nei confronti d i Israele per quanto riguarda la politica degli insediamenti. Tuttavia una politica americana svincolata dagli interessi israeliani è impensabile. Così come oggi è impensabile un trattato d i pace tra Israele e Palesti­ nesi sulla base del principio “due popoli due stati”. Israele, al di là delle dichiarazioni di facciata, perse­ gue il proprio disegno aggressivo nei. territori occupati ed uno stato palestinese costituito da Cisgiordania e Gaza non sarebbe economicamente autosufficiente e soggetto al condizionamento militare israeliano che ne vanificherebbe l’indipendenza. Su Gerusalemme, Israele non è disposta a trattare. Comunque, sia per il declino americano, sia per l’ingresso di nuovi attori sulla scena mediorientale, potrebbero verificarsi m u­ tam enti considerati fino a pochi anni fa impensabili. Non c’è bisogno di essere ebrei per essere sionisti, ha recentemente dichiarato il vicepresidente americano Joe Biden (cfr. Le Monde Diplomatique, aprile 2010). Con una ammirevole chiarezza Biden ha colto il centro geopolitico, ideologico e simbolico della questione medio-orientale, cosi come essa si pone sia per l’impero ideocratico ame­ ricano sia per i suoi alleati europei subalterni. La frase di Biden può peraltro essere rovesciata in questo modo: non si è affatto antisemiti se si è antisionisti. La presa di posizione rispetto al sionismo è la cartina di tornasole per definire oggi il profilo complessivo della cul­ tura politica europea e la sua capacità di valutazione mo­ rale a proposito di ciò che avviene nel mondo. Prendersela con la Serbia, con la Birmania e con il Sudan e scusare, re-

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lativizzandoli e contestualizzandoli, gli spaventosi crimini della politica sionista, segnala una gravissima perdita di equità morale, dal momento che la principale caratteristica del giudizio morale è quella di non essere asimmetrico. Già Aristotele, con grande precisione, aveva connotato la giustizia come il modo di trattare i fatti eguali in quanto eguali ed i fatti diseguali in quanto diseguali. Rifacendomi alla chiarissima posizione di Joe Biden, direi che oggi il sionismo non fa solo parte integrante del codice politicamente corretto obbligatorio dell’americanismo e dell’occidentalismo, ma è anche uno degli ele­ menti simbolici principali dell’asservimento dell’Europa in quanto tale. L'elaborazione del complesso di colpa per avere “permesso Hitler” (a questo mirano di fatto i pel­ legrinaggi scolastici di massa ad Auschwitz, e non certo purtroppo al mantenimento della cosiddetta “memoria storica”, nuova religione di un mondo che non perde l’oc­ casione di ridicolizzare Dio e tutti quelli che ci credono ancora) è stata infatti dichiarata illimitata ed infinita, sen­ za alcuna data di scadenza, e per questo ritengo corretto parlare di “religione olocaustica”. Tipico della religione è infatti quello di voler essere eterna ed assoluta. La religione olocaustica si è munita da tempo di un lessico teologico unificato. Coloro che respingono il sioni­ smo statuale e territoriale vengono definiti “antisemiti” (il termine ha sostituito il precedente termine artigianale di “infedeli”). Gli ebrei onesti ed illuminati che criticano il sionismo vengono surrealmente definiti “ebrei che odiano sè stessi”. Coloro che condannano senza riserve Auschwitz, ma osano inserire Auschwitz all’interno di una serie di eventi egualmente inaccettabili (genocidio degli armeni nel 1915, Hiroshima, Nagasaki, Dresda, eccetera), ven­ gono accusati di “banalizzare” Auschwitz (sic!). E diven­ tato di moda, e la corporazione vile degli intellettuali lo ha avallato, sostenere che Auschwitz è “imparagonabile”

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a qualsiasi altra cosa, non appartiene neppure alla storia, è fuori della storia ed è invece il segnale di un Male Me­ tafisico, l’unico male metafisico commesso dall’umanità. E chiaro che tutto questo non può essere del tutto ca­ suale. Il sionismo è stato infatti eretto a sacerdozio levitico della globalizzazione capitalistica, e la sua teologia deve amministrare un complesso di colpa generale (persino il comuniSmo storico novecentesco, fenomeno complessiva­ mente giudeofilo, è stato recentemente trasformato in feno­ meno giudeofobico). Biden ha ragione. Il sionismo è oggi uno dei “pezzi” fondamentali del profilo occidentalistico. Le ricadute geopolitiche di questa religione olocaustica sono sotto gli occhi di tutti. La geopolitica medio-orien­ tale (e più in generale di tutta l’area in cui è prevalente la religione musulmana) è stata appaltata ad un duopolio USA-Israele, da cui l’Europa è stata tenuta completamen­ te fuori. In estrema sintesi, il problema si pone in questo modo: sono in grado gli USA di imporre qualcosa di stra­ tegico allo stato sionista, oppure non ne sono in grado, perché le lobbies ebraiche americane sono talmente invasi­ ve e potenti da riuscire comunque a impedirlo? E possibile ovviamente pensare sia la prima che la se­ conda cosa. Personalmente, non ho informazioni sufficien­ ti per poter dare una risposta seria ed argomentata. Tendo tuttavia ad aderire alla seconda posizione, in particolare tenendo conto dell’estrema debolezza della presidenza di Obama. In casi come questi la retorica del dialogo fra le civiltà conta come il due di briscola. Nel Medio Oriente lo stato razzista e sionista di Israele è il cane e gli USA la coda, non viceversa. L’arroganza recente di Netanyahu verso lo stesso Obama non può essere interpretata diversamente. Un teppista si comporta da “impunito” quando sa perfettamente che nessuno è in grado di punirlo. Seguendo l’opportuno suggerimento contenuto nella tua domanda, è invece necessario studiare le principali

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tendenze politiche e geopolitiche della regione. Nono­ stante la mia personale antipatia culturale verso il fon­ damentalismo musulmano sunnita, appoggio con tutto il cuore coloro che in Afghanistan vogliono cacciare gli in­ vasori USA ed i loro vergognosi fantocci europei. La stessa cosa vale evidentemente anche per l’Iraq, anche se pur­ troppo all’auspicabile unità politica e religiosa del popolo iracheno si è sostituita la guerra civile intercomunitaria. Ritengo molto importante, ed in prospettiva strategico, il fatto che la Turchia stia cominciando ad assumere una posizione geopolitica maggiormente indipendente, ed i crimini compiuti recentemente a Gaza dai sionisti siano stati l’occasione per lo statista Erdogan per cominciare a chiamare assassini gli assassini. Si tratta di un fenomeno connesso con il declino del kemalismo politico e militare. Il kemalismo ha avuto indubbiamente alcuni meriti negli anni venti per salvare la stessa esistenza della Turchia, ma da tempo era diventato un fattore negativo sia per quanto riguarda il trattamento delle minoranze interne (i curdi in primo luogo), sia per quanto riguarda la canina obbedien­ za agli imperativi strategici degli USA e di Israele. Mi è difficile esprimere fino in fondo l’ammirazione che provo per la dignità e l’indipendednza del popolo ira­ niano, e questo del tutto indipendentemente dal giudizio specifico sulle correnti politiche che lo dividono in questa fase storica. Colgo comunque l’occasione per ripetere che considero del tutto giusta e legittima la vittoria elettora­ le di Ahmadinejad del 2009, come è stato peraltro ripe­ tutamente rilevato da molti osservatori indipendenti. La maggioranza lo ha votato perché si è occupato anche dei poveri, e non solo dei privilegiati. Il circo mediatico occi­ dentalista, che lo fa passare per un nuovo Hitler, trovando anche nel clero intellettuale di “sinistra” complici in que­ sta svergognata manipolazione, dovrebbe vergognarsi, se avesse ancora nozione del concetto di vergogna.

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In definitiva, il quadro geopolitico medio-orientale è in movimento. Benvenuta la resistenza di Putin nel Cau­ caso ed in Ucraina, benvenuta la nuova relativa autonomia della Turchia, benvenuta l’indipendenza dell’Iran, benve­ nute le resistenze in Iraq e in Afghanistan, indipendente­ mente dai loro discutibili contenuti politici.

L’a v v e n t o d e l “ secolo a s ia t ic o ”

3) L’avvento del X X I ° secolo è stato p iù volte a n n u n ­ ciato come quello del “secolo asiatico”. D el resto, la fine delle potenze coloniali europee e l’incipiente declino americano fa n n o presagire che al prim ato occidentale potrà sostituirsi tra qualche decennio quello asiatico (Cina e India). La crescita economi­ ca cinese e indiana è comunque dovuta in massima parte alla delocalizzazione industriale dell’Occi­ dente, il cui alto livello d i consumi costituisce il ne­ cessario sbocco alla iperproduzione asiatica. Qtiindi, l’esportazione del modello capitalista in Asia ha determinato una inscindibile interdipendenza tra Occidente e Oriente, quali due necessarie com­ ponenti del medesimo processo produttivo. Tuttavia all’espansione economica asiatica non ha fa tto r i­ scontro una adeguata redistribuzione della ricchez­ za sul piano interno. In fa tti la crescita cinese è ba­ sata sulla competitività di una economia i cui bassi costi d i produzione (in specie la mano d’opera), sono altam ente competitivi. S i rivela oggi del tutto er­ rata l’idea secondo la quale l’economia globalizzata avrebbe determinato spontaneamente nuovi equili­ bri perequativi del reddito tra Occidente e Oriente: ai decrementi reddituali dei lavoratori occidentali avrebbe fa tto riscontro la crescita di quelli orien-

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tali. Nella odierne realtà, all’impoverimento dei redditi da lavoro occidentali corrispondono bassi sa­ lari orientali ed è l’Occidente anzi, che per rendersi competitivo nel mercato mondiale, deve adeguarsi ai costi e a i prezzi dell’economia asiatica. La compe­ titiv ità dell’economia globalizzata, scaturendo dai bassi costi d i produzione sta generando solo genera­ lizzato impoverimento e accentuata proletarizzazio­ ne globale. La crescita di Cina e India è inoltre gra­ vida d i incognite nell’immediato futuro. I l declino economico dell’Occidente potrebbe produrre cali pro­ gressivi dei consumi tali da generare in parallelo decrementi produttivi accentuati in Asia. Le spe­ requazioni reddituali cinesi potrebbero provocare conflitti sociali d i rilevanza tale da scardinare gli equilibri politici interni. Il capitalismo asiatico po­ trebbe non evolversi secondo le stesse linee di svilup­ po di quello occidentale, progressive perequazioni di reddito, welfare ecc.. L’economia globale in fa tti è basata sull’offerta e sulla esportazione; domanda interna e redistribuzione della ricchezza non sono considerate fa tto ri essenziali allo sviluppo. E altresì tram ontata la visione di un Occidente che, in forza del suo prim ato nell’economia finanziaria, avrebbe usufruito delle proprie rendite, delegando all’Asia la funzione di supporto produttivo dei profitti dei mercati finanziari. Tale schema d i stratificazione classista tra i popoli del mondo sembra essersi in ­ franto sull’onda delle ripetute crisi finanziarie. A l pari delle potenze occidentali ormai al tramonto, la Cina persegue analoghe strategie espansionistiche nel terzo mondo: alla penetrazione ideologica si è sostituita quella economica, volta alla conquista dei mercati e all’accaparramento selvaggio delle mate­ rie prim e.

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Le pertinenti osservazioni che fai a proposito dei rap­ porti economici fra Europa e Asia mi confermano su di un’opinione che peraltro coltivo da molti anni, e che cer­ cherò di sintetizzare qui. La soluzione data da Condorcet nel 1794 all’interno della sua ideologia del progresso non si è verificata. Condorcet connotava correttamente il con­ tenuto del progresso in questi precisi (ed insuperabili) ter­ mini: “Le nostre speranze sullo stato futuro della specie umana possono ridursi a questi tre punti importanti: la distruzione della diseguaglianza fra le nazioni; il progresso dell’eguaglianza in seno ad uno stesso popolo; ed infine, il reale perfezionamento dell’uomo”. La mia personale in­ terpretazione della genesi espressiva del pensiero di Marx, come sanno i miei (ancora purtroppo pochi) lettori, rifiuta la tesi gemella di Karl Lowith-Ernst Bloch sulla secola­ rizzazione della precedente escatologia giudaico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica (che necessariamen­ te trasforma la filosofia della storia in teologia della storia e la storia del mondo in “tribunale del mondo”, Weltgericht, quanto di più odioso ci possa essere in tutta la storia della filosofia occidentale), e propone invece in alternativa la tesi della elaborazione dialettica della stessa “coscienza infelice” borghese, che si rende conto che la realizzazione del programma lucidamente disegnato da Condorcet è in­ compatibile con la dinamica illimitata dello sfruttamento capitalistico. E tuttavia, quella di Marx è per ora rimasta una utopia sulla carta, in quanto tutti i tentativi di concre­ tizzazione storica (preferisco questo termine a quello ulti­ mativo di “realizzazione”, che implica necessariamente una fine della storia, impossibile e non auspicabile) sono stati sconfitti dalla potenza della dinamica della riproduzione capitalistica (e questo —lo si noti bene —del tutto indipen­ dentemente dalla valutazione etico-politica complessiva che riteniamo di dare sul comuniSmo storico novecente­ sco realmente esistito). In queste condizioni, essendo per il

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momento del tutto ineffettuale un ritorno a Marx, si ritor­ ni almeno alla critica di List al liberismo capitalistico (che non coincide peraltro con il pensiero di Adam Smith, come Giovanni Arrighi ha mostrato). La globalizzazione è infat­ ti un meccanismo infernale che uccide il lavoro umano, ed è già riuscita nella malefica impresa di ridurlo a lavoro flessibile e precario. L’accecamento di coloro che predicano un’altra globalizzazione, o una cosiddetta “globalizzazione alternativa”, magari condita per renderla più attraente con una nuova economia verde {green economy), è uno spiacevole accecamento volontario. Un unico mercato mondiale, ma­ gari perfezionato “a sinistra” con il libero ingresso illimi­ tato di tutti gli immigrati che lo desiderano in tutti i paesi che lo desiderano (è noto che la cosiddetta “sinistra”, che non può vivere senza miti, ha sostituito al mito sociologi­ co del proletariato il mito antropologico della “diversità” dell’immigrato), sarebbe ed è già un incubo. Bisogna te­ nere vivo il progetto di un mondo più comunitario e più solidale (il comuniSmo dispotico è fallito, ed a mio avviso non più riproponibile, e prima o poi anche i “nostalgici” finiranno con il capirlo, ma restano i contenuti di comuni­ tarismo e di solidarismo, sia pure incorporati in un profilo filosofico alternativo), ma per il momento è necessario pas­ sare per una fase di protezionismo economico e di ristabili­ mento della sovranità dello stato nazionale sull’economia. Il lettore deve perdonarmi questo lungo intermezzo fi­ losofico, ma esso era necessario per poter impostare il tema dei rapporti fra l’Europa e l’Asia nei prossimi decenni. Sul piano della concorrenza all’interno del mercato del lavoro salariato “non c’è partita”, per dirla in linguaggio calci­ stico, in quanto non c’è partita fra i salari di Germania e Italia e quelli di Cina e Thailandia. Vogliamo veder di­ struggere sotto i nostri occhi le conquiste sociali degli ul­ timi duecento anni? Ebbene, esse saranno inevitabilmente distrutte all’interno della logica della globalizzazione.

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Il riorientamento verso il mercato interno è peraltro ne­ cessario soprattutto per paesi “emergenti” come l’India e la Cina. In India siamo certamente di fronte ad un impetuoso sviluppo economico e tecnologico. E tuttavia si pensa forse che l’estendersi della guerriglia rurale impropriamente de­ finita “maoista”(i naxaliti) sia un fenomeno di revival ideo­ logico, laddove si tratta della sacrosanta reazione delle mas­ se contadine impoverite di fronte alla logica selvaggia della globalizzazione, cui si sono sottomessi anche i due partiti comunisti indiani (un tempo gloriosi, ed ora miserabili)? Questo discorso vale anche per la Cina. Cito Le Mon­ de, 17/4/2010: “In Cina, l’esplosione del consumo si urta all’ostacolo che i cinesi chiamano delle “tre montagne”. Le famiglie devono affrontare le spese della copertura sanita­ ria, della scuola e dell’alloggio, spese che sono assai poco o per nulla a carico del settore pubblico (lo stato cinese copre il 18% delle spese sanitarie contro il 50% degli Sta­ ti Uniti e l’80% in Europa”. Si tratta di cifre che fanno riflettere. La Cina comunista, il paese di Mao Tse Tung, è al di sotto non solo del nostro ivelfare state europeo, ma ad­ dirittura degli USA, con tutto quello che sappiamo delle resistenze privatistiche alla riforma di Obama! Colgo l’occasione per affermare pubblicamente che personalmente non credo alla cosiddetta “natura sociali­ sta” dello stato cinese, tesi che trova anche in Italia alcuni sostenitori (Losurdo, Sidoli, eccetera). Certo, so bene che le crisi delle vecchie categorie della filosofia politica moderna (prima fra tutte, la dicotomia Destra/Sinistra) ha portato alla sostituzione del marxiano “Proletari di tutto il mondo unitevi” con il pirandelliano “Così è se vi pare”. In que­ sto carnevale semantico è possibile dire letteralmente di tutto, e persino che Berlusconi ed Ahmadinejad sono ac­ comunati dall’essere entrambi “populisti” (si veda il guru di sinistra alla moda Slavoj Zizek). Il carnevale semantico precede indubbiamente una prossima quaresima, in cui si

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dovrebbero ridefinire integralmente le categorie filosofiche, economiche e politiche adeguandole al mondo in cui viviamo. Ma detto questo, resta il fattore geopolitico. In conformità con quanto detto nella mia precedente prima risposta, se è vero che il nemico principale è l’ege­ monia geopolitica e militare degli USA, ne consegue che non bisogna a mio avviso essere troppo “schizzinosi” con la Cina. Se gli osservatori dicono tutti che i cinesi presi nel loro complesso stanno meglio di trenta anni fa (ma questo è un copione già visto, che si può applicare anche agli italiani degli anni cinquanta e sessanta) possiamo anche prenderlo per buono. Resta il fatto che ciò che si chiede alla Cina (ed in subordine all’India, mentre purtroppo sul Giappone non si può contare) non è che adegui la sua so­ cietà ad un modello intelletualistico dell’estrema sinistra europea (pensiamo alle illusioni sulla rivoluzione cultura­ le 1966-69), ma semplicemente che continui a giocare il ruolo geopolitico indipendente dall’egemonia USA. Vi sono fondate speranze che questo possa avvenire. Il resto è fantapolitica per giocatori di Risiko.

I l n u o v o m o d ello so cia lista s u d a m e r ic a n o . È POSSIBILE UNA FUTURA ALLEANZA CON L’EUROPA?

4) Nella geopolitica sudamericana sembrano invece pre­ valere tendenze di affrancamento dal dominio capi­ talista americano, in virtù delle politiche sociali di leaders popolari quali Chavez, Kirchner, Lula, ed al­ tri. Il Sudamerica sembra voler uscire da quella con­ dizione di subalternità americana ed emarginazione geopolitica mondiale. Modelli di sviluppo locali basa­ ti sidla indipendenza nazionale, sull’intervento dello Stato nell’economia, sembrano costituire valide forme di resistenza all’invasività del capitalismo globale.

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Trattasi comunque di Paesi in condizioni sociali di­ sastrate, che hanno adottato politiche dettate da una situazione di emergenza che tuttora sussiste. Inoltre, specie il Venezuela e l’Argentina devono comunque fa r fronte, con costi sociali rilevanti, alle manovre ostili degli USA e dell’FMI. Tra le potenze locali emergenti va senz’altro annoverato il Brasile: occorrerà vedere in futuro fino a che punto questo Paese potrà conciliare le esigenze dello sviluppo produttivo con una adeguata politica sociale e con i costi derivanti dalla distruzione delle risorse ambientali (vedi distruzione della foresta amazzonica). Occotrerebbe, onde fornire basi solide ai suddetti regimi di ispirazione socialista, mettere in moto un processo di progressiva integrazione economica e politica tra gli stati del Sudamerica, ma quesfulti­ ma è forse al momento prematura, data la situazio­ ne sociale di emergenza e l’instabilità politica di tali Paesi. Nell’attuale prospettiva mondialista della geo­ politica, l’economia e la politica sia degli stati che dei continenti è largamente caratterizzata dalle rispettive connessioni ed interdipendenze. Il Sudamerica non può rimanere isolato nelle sue prospettive economiche e politiche. I l suo partner naturale, non solo dal punto di vista economico e politico, ma culturale ed identitario è l’Europa. Quest’ultim a è parte integrante della storia e della cultura del Sudamerica. Una alleanza strate­ gica tra i due continenti potrebbe costituire alla lunga un modello politico e sociale alternativo al capitalismo anglosassone e asiatico. UEuropa però non costituisce oggetto del nostro attuale dibattito sulla geopolitica. Ne abbiamo già parlato altrove, diffusamente e forse anche troppo. Non è un caso che essa sia un argomento estraneo al presente dibattito, dato il suo prolungato assordante silenzio e la sua perenne e colpevole assenza. Ma, come si sa, gli assenti hanno sempre torto.

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Come tu noti opportunamente, l’Europa e l’America La­ tina avrebbero astrattamente tutto per poter diventare partners economici e geopolitici strategici, a partire da un’affi­ nità culturale simile a quella che intercorre fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America. Se però questo non avviene, al di là del mondo ineffettuale e virtuale delle proclamazioni retoriche dei capi di stato in visita e degli istituti culturali, ciò deve essere ricondotto a due fattori strutturali. In breve, mentre il legame strategico fra Inghilterra e Stati Uniti esi­ ste, l’Europa politicamente non esiste, e nello stesso modo purtroppo neppure l’America Latina esiste. L’inesistenza politica dell’Europa è sotto gli occhi di tutti, e costituisce uno dei fattori storici più dolorosi di oggi. Gli europeisti continuano da decenni a sostenere che l’unità culturale e politica europea è la premessa indispen­ sabile per una sua futura indipendenza strategica in campo economico e geopolitico, e quando ero giovane addirittu­ ra ci credevo anch’io. Adesso sono stanco di essere preso in giro. L’Europa è costellata di basi atomiche americane, a sessantacinque anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale (1945-2010), ed i miserabili paesi ex­ comunisti sono diventati in blocco il sostegno del pro­ lungamento all’infinito della sottomissione militare agli USA. Servi miserabili dell’URSS prima, servi miserabili degli USA adesso. Comunque, sono stanco di essere pre­ so in giro dalla retorica europeista. Francia, Germania e la stessa Italia sono diplomaticamente tenute per la gola dall’impero americano e dal suo abietto sacerdozio ideolo­ gico sionista. Se sfogliamo i nostri quotidiani stampati, li vediamo pieni di bloggers cubani che invocano l’invasione diretta americana, di giustificazioni per gli attentati terro­ ristici ceceni a Mosca, di inviti all’intervento armato con­ tro il benemerito patriota iraniano Ahmadinejad, eccetera. Il circo mediatico, ormai parzialmente autonomizzato dai suoi stessi referenti economici e finanziari, si è collocato a

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“destra” della stessa diplomazia ufficiale. Recentemente, mentre lo stesso Frattini difendeva gli operatori di Emergency arrestati in Afghanistan., il circo mediatico italiano gridava rabbioso che erano colpevoli, come se dei medici pacifisti potessero seriamente allearsi con patrioti suicidi disposti a farsi saltare in aria. Finché gli europei non si sa­ ranno liberati dal loro circo mediatico corrotto alleato con il loro clero universitario occidentalista non ci sarà mai nulla da fare. Ma siccome per ora questa liberazione appare impossibile, bisogna concludere realisticamente che non si vede una via di uscita a breve e medio termine. Sul lungo termine saremo tutti già morti, comprese le generazioni dei giovani e delle persone di mezza età. Anche l’insieme dei paesi dell’America Latina non mostra ancora una capacità di azione geopolitica unitaria, nonostante alcune promesse (Chavez, Correa, eccetera). In primo luogo, nonostante le lingue spagnola e portoghese siano relativamente vicine e (parzialmente) mutualmente comprensibili, le differenze culturali fra la grande area lusofona (il Brasile) e l’area ispanofona sono molto grandi, ed a mio avviso impediscono il parlare di una vera e propria cultura comune. Il Brasile è sempre andato per conto suo, e continua ad andare per conto suo, senza mai rinunciare a politiche imperialistiche nei confronti dei suoi vicini (ad esempio Bolivia e Paraguay). In secondo luogo, esistono gravi contenziosi storici e territoriali fra i paesi latino­ americani (ad esempio Cile e Argentina, Perù ed Ecuador, Colombia e Venezuela, eccetera), contenziosi in cui può facilmente intervenire la superpotenza americana (pensia­ mo in Europa ai contenziosi storici fra greci e turchi e fra romeni ed ungheresi). In quarto luogo, infine, le terribili diseguaglianze sociali nella ripartizione delle ricchezze (su questo piano il gigante Brasile è particolarmente scanda­ loso, e non sembra che il sopravvalutato Lula sia riuscito a cambiare le cose) fanno si che esista una fragilità struttu-

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rale all’interno di tutti questi stati nazionali. E pensiamo al Messico, paese spesso associato ad una rivoluzione (che ci fu peraltro veramente), in cui oggi la presenza di mafie di narcotrafficanti armati ha fatto letteralmente “marcire” la società civile di questo paese. E si potrebbe continuare. Ma ciò che conta è che oggi gli USA sembrano aver deciso di passare alla politica delle basi militari permamenti (vedi la Colombia di Uribe), al di là del loro tradizionale giardino caraibico di casa. Aspettiamo un nuovo Simòn Bolivar. Ma sarà molto più difficile di quanto lo sia stato al tempo degli spagnoli. Il nemico è immensamente più forte.

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Il futuro della filosofia e l’eterno presente nichilista L a v e r it à

f il o s o f ic a e il su o d is c o n o s c im e n t o

1) La filosofia conduce alla verità? 0 meglio, ci si chie­ de se il conseguimento della verità sia lo scopo della filosofia. In tal caso, ci si chiede se la speculazione filo­ sofica, proprio perché preordinata a d tma qualunque finalità veritativa, non sia viziata all’origine nei suoi presupposti, nel senso che, ancor prim a che inizi il suo percorso se ne siano già determ inati gli esiti ed i contenuti. Tali considerazioni, sono proprie del no­ stro tempo, dato che ad essere messa in dubbio è pro­ prio la sussistenza stessa della verità filosofica. In fa t­ ti, la verità filosofica è oggi in massima parte discono­ sciuta, in qtianto risultato di una elaborazione con­ cettuale non suscettibile di riscontri obiettivi, perché estranea alla verifica sperimentale. L’assenza d i una problematica inerente i contenuti veritativi della f i ­ losofia nel nostro tempo è spiegabile, a mio avviso, in base all’orientamento materialista - progressivo che ha improntato la storia culturale dell’Occidente negli ultim i due secoli. JJavvento dell’era moderna ha com­ portato dapprima il disconoscimento della dimensio­ ne trascendente propria delle religioni, a favore del razionalismo e dell’empirismo prim a e dell’im m a­ nentismo filosofico poi. Quindi, la scienza e la tecno­ logia, operanti peraltro nell’8001’900 in un ambito storico - sociale caratterizzato dal progressivo avan­ zare dell’economicismo liberista, hanno soppianta­ to la filosofia stessa, ormai relegata a materia per specialisti, avulsa dal contesto storico presente. Due fattori dunque hanno contribuito all’eclissi della ve­ rità filosofica: in prim o luogo quel processo di moder-

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nizzazione definito da M ax Weber come “disincan­ tamento del mondo” che ha determinato il prim ato del positivismo di fine ottocento ed in secondo luogo, l’avvento delle ideologie totalizzanti del ‘900 (comu­ niSmo, fascismo, liberalismo), che ha comportato l’i ­ dentificazione dell’ideologia con la filosofia e quindi con le grandi narrazioni storicistiche del ‘900. Si è dunque affermata una filosofia della stenda di natu­ ra ideologica, le cui finalità hanno alla lunga oscu­ rato e strumentalizzato i fondam enti filosofici da cui presero le mosse le ideologie stesse. Poiché il senso ed il fine della storia postulato dalle verità ideologiche è venuto meno con la fine delle ideologie novecentesche, la filosofia è stata giocoforza coinvolta nel medesimo fallimento. L’ambito proprio della filosofia è quello relativo alla problematica dell’essere, problematica oggi occultata perché soppiantata da quella dell’esistere, il cui ambito è lim itato all’eterno presente, avido di immediate, empiriche, mutevoli certezze che governino appunto l’esistere nel tempo. Il clima di relativismo, sia esistenziale che temporale, proprio della contemporaneità, conduce alla elaborazione di una verità di per sé autoreferente, priva cioè d i con­ tenuto veritativo, perché lim itata ad una dimensio­ ne positiva dell’uomo, svincolata dall’essere. La pro­ blematica dell’essere invece dovrebbe fondarsi sulla riproposizione del pensiero dialogico - dialettico. La dialettica hegeliana postula il principio d i contrad­ dizione, la compresenza d i concetti tra loro contrari, ma legati da una logica che li rende compresenti e compatibili (tesi e antitesi). Il metodo dialettico pre­ suppone qu in d i la compatibilità e la comparabilità degli opposti, in quanto elementi inscindibili di un processo logico che conduce alla sintesi. Tale processo conoscitivo si rivela impraticabile nel contesto d i una

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concettualità soggettiva relativista estremizzata che, in tanto sussiste, in quanto si riveli incompatibile ed incomparabile con l’altro da sé. Paradossalmente l’impostazione dialettica condurrebbe ad un esito ni­ chilistico. La negazione del riconoscimento dell’altro da sé non può che generare la negazione del sé, con conseguente negazione assoluta dell’essere (un Hegel capovolto). Se un Ponzio Pilato postmoderno mi chiedesse a bru­ ciapelo che cos’è la verità sono sicuro che non mi sottrar­ rei opportunisticamente a questa domanda, ma gli darei la mia risposta, senza nessuna sapienziale arroganza, ma nello stesso tempo con tranquilla decisione. Mi occupo a tempo pieno di filosofia da quasi mezzo secolo, e riterrei moralmente ipocrita non essere ancora riuscito a dare la mia risposta. La verità filosofica è una sola, ed è il pieno riconoscimento razionale della natura solidale e comuni­ taria dell’essere umano, considerato universalisticamente nello spazio (geografia) e nel tempo (storia). Questa è l’u­ nica verità filosofica che conosco, ma so bene che è difficile che possa essere accettata, per un insieme di ragioni di cui qui mi limito a ricordarne tre. In primo luogo, la verità filosofica deve essere tenu­ ta ben distinta da altre categorie logiche spesso frettolo­ samente scambiate per la verità filosofica stessa, come la certezza (l’acqua bolle a cento gradi, il sole è una stella, la luna è un satellite, la glicemia è un segnalatore del diabe­ te, eccetera), l’esattezza (due più due fa quattro, Parigi è la capitale della Francia), la sincerità (io ti amo), eccetera. La verità filosofica c’è soltanto quando si da un giudizio ad un tempo conoscitivo e moralmente valutativo (in linguaggio tecnico, una unità di ontologia e di assiologia), mentre la semplice conoscenza in assenza di contestuale valutazione morale è caratteristica soltanto della cosiddetta “scienza”,

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nella doppia forma delle scienze naturali (Galileo, New­ ton, Darwin, Einstein, eccetera) e delle scienze sociali pro­ grammaticamente svalutative (Max Weber). In secondo luogo, la verità filosofica, oltre ad esserci soltanto nel primo caso sopra segnalato (con esclusione dell’accertamento scientifico, della coerenza e dell’esat­ tezza connotativa, che per loro natura escludono la valu­ tazione morale), c’è soltanto quando pone una pretesa di universalità razionalmente e dialogicamente sostenibile, e non c’è invece quando si limita a manifestare una pre­ ferenza personale senza pretesa di universalità (del tipo: a me piace questo e quest’altro, mentre non mi piace questo e quest'altro). In terzo luogo, infine, è del tutto ovvio che la prin­ cipale obiezione che mi può essere fatta può essere più o meno questa: sostenendo che la verità filosofica consiste nel pieno riconoscimento universalistico della natura soli­ dale e comunitaria dell’essere umano tu non fai altro che manifestare una tua legittima opinione (i sofisti greci e Nietzsche, ad esempio la pensavano in modo esattamente opposto). Questa tua opinione è però del tutto indimostra­ bile, e quindi resta una semplice opinione soggettiva, non certo la pomposa, metafisica, premoderna ed inesistente verità, da abbandonare ai preti ed ai profeti ideologici. Tutto questo può sembrare ovvio, ma non lo è affatto. In realtà, questa obiezione relativistica sorge all’interno di un processo moderno (che va storicamente dal Cogito sei­ centesco di Cartesio all’Io penso settecentesco di Kant) che riduce il tema della verità al tema della certezza del sog­ getto, o più esattamente alle procedure verificabili delle modalità di accertamento di un soggetto preventivamente reso generico ed astratto e costituito in modo formalistico sulla base di una integrale destoricizzazione. Ridotta la ve­ rità a certezza, è evidente che solo le certezze possono essere dimostrate sulla base dell’esperimento e della matematiz-

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zazione quantitativa del mondo. Il relativismo viene cosi fondato su basi integralmente gnoseologiche ed epistemo­ logiche. Su questa base, solo le scienze della natura possono essere “vere” (anche se ovviamente sempre rivedibili, veri­ ficabili, falsificabili e migliorabili mediante ipotesi sempre più adeguate). Tutto ciò che non è sottoponibile ad espe­ rimento ed a matematizzazione è per sua natura opinabile, e quindi non è vero. Il vero, se esiste, è soltanto il certo e l’esatto. La filosofia è cosi ridotta a teatro retorico di irri­ levanti opinioni. Da questo vicolo cieco non se ne esce se non si ha il coraggio di respingerne il presupposto, e cioè la riduzione della verità filosofica a certezza scientifica veri­ ficabile. Ma è un’operazione che non fa quasi nessuno, per­ ché sono tutti spaventati dall’accusa infamante di essere dei metafisici premoderni, come se la trasformazione attuata da Kant dell’ontologia veritativa in gnoseologia accertativa fosse l’equivalente del giudizio di San Pietro che decide in­ sindacabilmente chi può entrare in paradiso e chi non può farlo. Ma se non ci si lascia spaventare da questa grottesca ingiunzione tutto diventa immediatamente più chiaro. La modernità borghese-capitalistica non sa che farsene della verità (che gli antichi concepivano in modo filosofico ed i medioevali in modo religioso) per il semplice fatto che la legittimazione simbolica della società capitalistica non è più di tipo filosofico (la verità come prodotto della ragione umana) o di tipo religioso (la verità come corretta interpretazione della natura di Dio), ma è di tipo inte­ gralmente economico. Il fondamento è allora il nesso fra proprietà privata e valore di scambio delle merci (con il lavoro umano come prima merce), e questo fondamento per sua natura non è veritativo, in quanto basta accertarsi del fatto che non c’è nulla di empiricamente accertabile al di la della proprietà privata e del valore di scambio. La metafisica è cosi integralmente trasformata nel nesso fra empirismo ed utilitarismo, l’ontologia diventa gnoseolo-

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già, la gnoseologia diventa la nuova teologia del capitali­ smo e degli apparati universitari normalizzati (Lukacs) ed al posto della vecchia trinità viene insediata la separazione fra categorie dell’essere (ontologia veritativa) e categorie del pensiero (epistemologia accertativa). Il discorso sarebbe lungo e qui è appena cominciato. In sintesi, se qualcuno pensa di poter parlare di verità fi­ losofica, e nello stesso tempo accetta il terreno del kanti­ smo, del positivismo e del niccianesimo, ebbene, costui si sbaglia, ed è come un topolino che, attratto dal pezzo di formaggio, si chiude nella gabbia da solo. Sostenere apertamente che la filosofia è una ideazione integralmente veritativa in senso classico platonico-hege­ liano (e non scettico-relativistico) e darne anche una formu­ lazione determinata (come ho fatto in precedenza) provoca immediatamente sconcerto ed irritazione, non solo perché viola la regola postmoderna (il postmoderno sta ai sofisti­ cati intellettuali disincantati come Padre Pio sta al popolo dei semplici credenti rimasti fermi alla scuola dell’obbligo), ma anche perché sembra un atto di presunzione tipico di chi “ritiene di avere la verità in tasca”, e magari la vuole anche imporre con inevitabili esiti autoritari e violenti. Ma non è affatto cosi. Ad esempio io ritengo che la filosofia sia una ideazione conoscitiva e veritativa, e non mi sottraggo opportunisticamente dal dame una formulazione pubbli­ ca, ma non ritengo affatto di avere la verità in tasca, ed anzi sono dispostissimo a sottoporla ad una pubblica discussio­ ne seria ed approfondita. Semplicemente ritengo (in com­ pagnia con i “classici” come Platone, Aristotele, Spinoza e Hegel) che senza una comune intenzionalità veritativa il cosiddetto dialogo non è che un torneo narcisistico di trovate retoriche più o meno brillanti. La filosofia deve quindi essere liberata da due gen­ darmi che la tengono ammanettata, la scienza naturale e l’ideologia politica. La scienza naturale è una grande ide-

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azione conoscitiva, che però comprende soltanto la cono­ scenza e non la valutazione morale della totalità (totalità che l’approccio kantiano e poi positivistico valuta come inconoscibile). La filosofia è una interpretazione olistica della totalità, non un rispecchiamento delle caratteristi­ che della natura astronomica, fisica, chimica o biologica, e la sua sottomissione ai canoni del rispecchiamento scien­ tifico la uccide, come un pesce verrebbe ucciso dall’aria o l’uomo dall’acqua. La riconversione della verità in certezza del soggetto (Cartesio, Kant, positivismo) oppure la ridu­ zione della verità a semplice interpretazione (Nietzsche ed il postmoderno) non sono semplici “errori”, ma sono funzioni strutturali e sistemiche della riproduzione capi­ talistica, che non ha bisogno della verità ed anzi la aborre, bastandole la relatività del potere d’acquisto delle merci da parte dei soggetti individualizzati. L’ideologia è invece una patologia diversa dalla prece­ dente. Mentre il relativismo nasconde l’assolutezza del­ la merce e del suo dominio, l’ideologia generalmente è solo una teologia della storia divinizzata, per cui alla fine la stessa storia non esiste più, e come ha detto un acuto commentatore novecentesco, si ha “una storia spogliata della sua forma storica”. In proposito, il congedo medi­ tato dal dominio ideologico è sempre una precondizione necessaria (anche se non sempre sufficiente) per un ritor­ no alla filosofia correttamente intesa. L’ideologizzaziotie della filosofia è però stata una peste novecentesca, oggi tramontata, per cui, pur respingendola in modo netto (personalmente, sono un “sopravvissuto” dalla riduzione ideologica delia filosofia effettuata nel novecento dal mar­ xismo, e mi considero vaccinato come lo era dalla peste Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi), non la considero oggi un nemico pericoloso nella congiuntura storica at­ tuale (2010). Oggi il nemico principale della filosofia è la sua riduzione positivistica a semplice supporto episte-

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mologico alle scienze della natura (che per procedere non ne hanno comunque nessun bisogno), patologia gemella a quella del chiacchiericcio scettico-universitario di tipo nichilista e relativista. Senza un ritorno ai classici non vedo per ora nessuna salvezza.

La

f il o s o f ia com e s c ie n z a d e l l ’essere

2) Come già affermato, l’oggetto della filosofia è l’essere. E l’essere in tanto sussiste in quanto verità. Q uindi la vocazione della filosofia è quella della elaborazione di processi logico - concettuali il cui fine è il perve­ nire ad una verità universalmente riconosciuta. I sistemi filosofici, sin dall’antichità, sono stati con­ cepiti come inclusivi della totalità della conoscen­ za, predisposti dunque alla rappresentazione e alla comprensione della totalità dell’essere. L’avvento della modernità ha generato una progressiva mol­ tiplicazione di scienze specialistiche che hanno m i­ nato profondamente la unitarietà e la globalità del sapere, proprio della scienza filosofica. I l risultato d i tale evoluzione è stato quello della proliferazio­ ne di tante scienze autoreferenti, tutte portatrici di una propria verità parziale. Tutte le singole verità sussistono, le une accanto alle altre, sviluppandosi ognuna in base ai propri metodi e procedimenti tra loro incompatibili. Ogni scienza è oggi chiusa in sé stessa, nella consapevole ignoranza delle altre, dato che la commistione tra le varie scienze condurrebbe ad inficiare la linearità e coerenza logica dei singoli processi conoscitivi. D inanzi ad un medesimo ogget­ to di ricerca abbiamo quindi una serie di analisi diversificate tra loro non assim ilabili data la diversità dei rispettivi presupposti. Q uindi una medesima

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problematica comporta un punto di vista scientifico, economico, sociologico, psicologico, filosofico ecc... L’u­ nitarietà originaria del sapere filosofico si è dunque disintegrata in una estrema parcellizzazione della conoscenza in tante verità per loro logica interna non inclusive. Ogni scienza, nel proprio atto fonda­ tivo contiene in sé la propria fin alità e le proprie prospettive. Non vuole essere rappresentativa di una totalità, semmai è indotta ad affermare le pro­ prie ragioni unilaterali per escludere e soppiantare altre impostazioni d i altre scienze. Il campo della conoscenza filosofica è stato ristretto ad un sapere che si esaurisce nelle proprie elaborazioni fin i a sé stesse, ma poiché tale condizione risulta essere innaturale per la filosofia, quest’ultim a, data la diversità del proprio oggetto e metodo di ricerca conoscitiva, fin i­ sce per essere m ai compatibile con le altre ed essere, in conseguenza, emarginata e vanificata nei suoi presupposti. Ciò che diversifica la filosofia dalle altre scienze, è proprio d i non avere finalità presupposte, in quanto portatrice di una conoscenza e coscienza dell’essere che non può essere inglobata in qualsivo­ glia specialistico e riduzionistico processo conosciti­ vo. La filosofia ha in fa tti per oggetto la creazione di modelli rappresentativi della totalità del reale. La filosofia è scienza dell’essere in quanto la sua voca­ zione originaria è quella di costruire delle sintesi del reale che includano e trascendano le fin alità parzia­ li delle varie categorie della conoscenza. La filosofia prende le mosse da una ricerca di senso propria della natura um ana che si interroga, senza m ai risposte definitive, intorno al proprio essere nella realtà da cui poi scaturiscono le finalità della scienza, della politica, dell’arte e di ogni qualsivoglia categoria del pensiero e dell’agire umano nel mondo.

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Sono pienamente d ’accordo sul fatto che l’Essere (scrit­ to maiuscolo, e quindi sostantivizzato) è il principale og­ getto della filosofia. Se scriviamo “essere” minuscolo il termine diventa un verbo ausiliario che fa generalmente da copula fra sostantivo ed aggettivo (la ragazza è bella) o stabilisce una modalità empirica di esistenza fattuale (Londra è in Inghilterra). Questa riduzione dell’essere a irrilevante copula è non a caso proposto dagli avversari del carattere veritativo della filosofia (il più recente è Andrea Moro, Breve storia del verbo essere, Adelplii, Milano 2010), ma costoro non scoprono assolutamente nulla, perché ad esempio nella lingua turca il verbo “essere” non esiste nemmeno e non si può neppure sostantivare, riducendosi a suffisso incorporato nell’aggettivo (risparmio possibili esemplificazioni didattiche per pietà verso il lettore). La tradizione filosofica occidentale, vecchia ormai di duemilacinquecento anni, nasce invece da una sostantivizzazione del verbo essere (che diventa quindi l’Essere con la maiuscola, alla faccia dei nominalisti e degli empiristi). Da Parmenide in poi l’Essere rappresenta in forma meta­ forica la permanenza e la stabilità della verità nel tempo, o se si vuole quella parte della verità che non può essere cor­ rosa e distrutta dalla morte e dal tempo. E tuttavia coloro che si limitano a coniugare il verbo essere in modo astrat­ tamente logico, mostrandone l’incompatibilità con il pro­ venire e con il finire nel Nulla (ad esempio in Italia Ema­ nuele Severino) non ci aiutano assolutamente ad impadro­ nirci concettualmente del problema, ed anzi ci portano verso una strada sbagliata. Il termine di Essere nasce nella Grecia antica (Parmenide) come concetto integralmente storico, politico e sociale, ed indica la perfezione immuta­ bile della buona legislazione pitagorica il cui abbandono porterebbe alla dissoluzione della comunità politica, dis­ soluzione metaforizzata con il termine di Nulla. I filoso­ fi antichi si pensavano ed erano legislatori comunitari, e

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pertanto non erano assolutamente “intellettuali” nel senso moderno del termine (cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali, Bollati, Boringhieri, Torino 1992). In quanto concetto politico comunitario il termine di Essere riflette unicamente la concezione greca della buona vita associata {eu zen) dell’uomo come animale politico (politikòn zoon). Nell’antica Grecia mancava una religione monoteisti­ ca rivelata dotata di scritture sacrali di riferimento (tipo la Bibbia o il Corano) di cui una casta di sacerdoti potesse rivendicare il monopolio interpretativo, per di più dotato di strutture poliziesche coattive (inquisizione, eccetera). È chiaro che la mitologia greca non si prestava alla funzione di religione monoteistica coattiva di riferimento, ed anzi il suo carattere apertamente “mitico” faceva da presuppo­ sto per una libera decostruzione simbolica di tipo raziona­ listico {logos). L’umanesimo greco (se ne veda la brillante interpretazione del filosofo italiano Luca Grecchi) non si poteva sviluppare sulla base “mimetica” del riferimento ad una divinità personale trascendente (Tommaso d’Aquino, Josef Ratzinger, eccetera), ma si costruiva razio­ nalmente sulla base del primato del solidarismo politico comunitario sugli interessi privati (e si veda l’opportuna distinzione aristotelica fra economia e crematistica, ignota alla autofondazione moderna dell’economia su sé stessa di David Hume e di Adam Smith). I pensatori classici che vengono dopo Parmenide (So­ crate, Platone, Aristotele, Epicuro, gli stoici) contestano certamente la sua concezione di Essere (anche e soprattutto perché il loro contesto storico e sociale non può più essere quello della buona legislazione pitagorica immutabile da conservare nella sua perfetta stabilità), ma mantengono interamente la concezione di Essere (sostantivato, e quin­ di non kantianamente diviso fra categorie ontologiche e categorie gnoseologiche), inteso come metafora filosofica astrattizzata dell’unità inscindibile della comunità politi­

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ca. Persino Epicuro, che è il solo filosofo classico a porsi al eli fuori della sfera politica propriamente detta, di fatto si pone anche lui come un ideale legislatore comunitario, perché il suo gruppo solidale di amici può servire da mo­ dello per una futura convivenza umana priva di istituzio­ ni coattive (e dal modello di convivenza amicale epicurea derivano, sia pure con numerose mediazioni storiche, le concezioni di Fichte e di Marx sulla futura possibile estin­ zione dello stato). È del tutto normale che l’avvento del cristianesimo portasse ad una progressiva identificazione del concetto greco di Essere con la divinità monoteistica rivelata, anche se questo contesto non viene comunque mai integralmen­ te “desocializzato” (come in Hobbes e Locke) e “destori­ cizzato” (come in Cartesio e Kant) come avverrà più tardi con l’avvento del modello capitalistico di società. Ma que­ sto richiede una riflessione ulteriore. Paragonata alla luminosa chiarezza razionale dell’insu­ perabile filosofia greca classica la filosofia medioevale può certo essere interpretata in termini di decadenza (o più pudicamente di abbassamento di livello), dal momento che tutte le precedenti categorie filosofiche vengono rein­ terpretate e tradotte in termini di categorie teologiche, ed in questo modo vengono sottomesse alla “sorveglianza” di odiosi apparati ecclesiastici. Io stesso ho sostenuto a lungo questa tesi come professore di filosofia e storia nei licei, ma mi sono progressivamente reso conto che si trattava di una semplificazione “laicista”. Sia pure incapsulato all’interno di un pesante apparato categoriale teologico il pensiero francescano e domenicano europeo (e più ancora quello averroista) mostra una capacità di interpretazione della totalità sociale molto maggiore del cosiddetto “pensiero moderno”, ed in ogni caso molto maggiore del kantismo, del positivismo e del postmoderno. Se si esamina colui che resta forse il più grande filosofo medioevale, l’italiano

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Dante Alighieri, vediamo che le categorie teologiche non solo sono mescolate con una insuperabile espressività poe­ tica (e qui le distinzioni di Benedetto Croce appaiono ina­ datte a cogliere l’unità della sua arte), ma anche notiamo che le categorie teologiche sono sempre categorie storiche e sociali, laddove il kantismo, il positivismo e il postmo­ derno sono sempre caratterizzati dalla desocializzazione (il punto di vista illusorio dell’individuo posto robinsonianamente come originario) e dalla destoricizzazione (la costruzione astratta e formalistica del soggetto ridotto in­ variabilmente ad unità di accertamento gnoseologico di un dato conoscitivo che si vuole ad ogni costo “neutrale”). Senza la massiccia adozione della filosofia greca il cristianesimo non avrebbe potuto distinguersi di fatto dall’ebraismo, cui è ignoto il concetto di incarnazione e quindi di trinità. A qualcuno questo potrebbe forse anche piacere (ad esempio agli sciocchi che vorrebbero una in­ tegrale “de-ellenizzazione” del cristianesimo e che al po­ sto del cristianesimo vorrebbero un insipido monoteismo ribattezzato ebraico-cristiano come base di una identità occidentale anti-islamica), ma a me no. E non solo no, ma mille volte no. Detto questo, non tutto il pensiero detto impropria­ mente “moderno” ha perduto il concetto di Essere e l’in­ tenzione veritativa della filosofia classica. Si tratta prati­ camente della sola scuola filosofica di Fichte e di Hegel, cui aderisco. Lo stesso Marx, filosoficamente parlando, mi interessa esclusivamente in termini di pensatore tradizio­ nale (non progressista, e non certamente laico) e di filosofo idealista (e non materialista, che è poi di fatto sempre si­ nonimo di positivista). La tua insistenza sul rapporto tra filosofia e conoscenza valutativa della totalità storica e sociale è assolutamente corretta ed opportuna. C’è filosofia soltanto quando siamo in presenza di una pretesa dialogica e razionale, e quindi

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potenzialmente universalizzabile senza violenza, di una valutazione veritativa della totalità storica e sociale. Per la descrizione dei drammi individuali e dei grandi affre­ schi storici la letteratura è molto migliore della filosofia, e Dickens, Manzoni, Flaubert e Tolstoj sono migliori di Hegel, Marx e Heidegger. Per questo il cosiddetto “esi­ stenzialismo” non è e non è mai stato una corrente filo­ sofica, ma una corrente letteraria che utilizzava impro­ priamente una terminologia filosofica. E quindi bisogna valutare molto negativamente la corrente principale della filosofia moderna degli ultimi trecento anni, che ha fat­ to il possibile per delegittimare la categoria della totalità (con poche eccezioni, fra cui Hegel ed anche parzialmente Marx quando non si lascia gravitazionalmente attirare dal positivismo antifilosofico, peste del marxismo successi­ vo, un povero positivismo di sinistra a base gnoseologica neokantiana). Si tratta di un fenomeno paragonabile alla catastrofe della nazionale di calcio italiana ai Mondiali del Sud Africa del giugno 2010. Questa catastrofe è avvenuta in due momenti successivi. Prima è stato costruito artifi­ cialmente un soggetto conoscitivo formalizzato, del tutto destoricizzato e desocializzato (Cartesio, Kant), titolare di una proprietà privata originaria fondata sul lavoro indivi­ duale (Locke) e di una autofondazione su se stessa dell’e­ conomia politica non più distinta dalla semplice crematistica (Hume). Poi si è distrutto questo soggetto astratto divenuto inutile (Hume, Nietzsche), ed il colpo di grazia è stato dato dalla cosiddetta “filosofia della mente” anglosassone, che gli ha tolto definitivamente ogni storicità e socialità (per questo si veda il recente significativo saggio di E. Boncinelli e M. Di Francesco, Che fine ha fatto l’io, Editrice San Raffaele, Milano 2010). Con la cosiddetta fi­ losofia della mente si è toccato veramente il fondo. Ora si tratta di cercare di risalire.

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I n d iv id u a l is m o e t o t a l it à s t o r ic a e so ciale

3) Vuomo contemporaneo, quale prodotto idtimo d i un “progressivo processo d i liberazione” che ha compor­ tato la sua “liberazione” dall’oscurantismo religioso prim a e totalitarismo delle ideologie poi, dovrebbe rappresentare la fase compiuta dell’individuo libe­ ro, razionale, principio e fine di sé stesso, in quanto creatore autonomo del proprio destino teorizzato dal­ la cultura liberale. Ormai sepolte religioni ed ideolo­ gie, l’uomo contemporaneo sarebbe però privo d i ogni alibi riguardo agli orrori delle guerre, delle stragi, dei genocidi del passato, che tuttavia continuano a perpetuarsi in nome della libertà, dei d iritti umani, dell’economia del libero mercato. I l dominio del capi­ talismo su scala mondiale, non ha certo né unificato né redento l’um anità. Vindividuo ormai liberato da ogni fondamento metafisico non può in fa tti né de­ cidere né determinare alcunché nel contesto di una società dominata da un libero mercato in cui l’uomo è ridotto a elemento del processo di produzione - con­ sumo. Esso stesso è divenuto “fattore di creazione del valore” e la stessa economia di mercato si è trasfor­ mata in “società di 'mercato”, poiché le dinamiche dei processi economici hanno invaso ormai tu tti gli am biti dell’attività umana. Tale esito è il necessario e logico compimento già insito nelle premesse della ideologia liberale. Il liberismo ha prevalso stille ce­ neri delle utopie ideologiche, non trovando dinanzi a sé p iù alcun antagonista e ha imposto quindi un sistema economico, politico e culturale già in crisi e storicamente superato nel secolo scorso. Il progressi­ smo liberista è stato oggetto di una nemesi storica. Anziché creare evoluzione e progresso ha imposto una restaurazione tecnologicamente e ideologicamente

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aggiornata dallo sponsor globale USA. Uindividuo è dunque tale solo nell’ambito d i un individualismo atomistico che ha reciso i legami comunitari e per­ tanto, l’individualismo liberale si è imposto come principio di negazione della innata natura sociale dell’uomo. Uindividuo è tuttavia alla base di ogni problematica di ispirazione umanistica, che ponga al centro della sua impostazione l’uomo. Uindividuo stesso, da te definito “unità m inim a d i resistenza”, è oggi soggetto ad un processo di disgregazione as­ sai preoccupante. S i definisce in - dividilo una unità umana d i per sé indivisibile. Esso tuttavia è oggi oggetto di trasformazioni manipolatorie che ne de­ terminano la scissione mediante la sua alienazio­ ne in ta n ti io quante sono le molteplici personalità funzionali ai processi di massificazione. Prendiamo a prestito il concetto d i “dividuo” esposto nel libro di Marco Della Luna “Neuroschiavi”, per mettere in luce la labilità psicologica collettiva e la plasm abili­ tà della personalità dell’uomo contemporaneo. Esso è materia prim a per la creazione di ta n ti io virtuali prodotti dalle tecniche di persuasione mediati che, da una economia che richiede flessibilità e funzionalità sempre p iù diversificate per essere compatibili con le sue rapide trasformazioni. L’unità inscindibile dell’individuo è oggetto d i una vivisezione globale le cui conseguenze, dal punto d i vista antropologico e storico - sociale sono ancora imprevedibili. La tua terza domanda presuppone una reinterpretazio­ ne plausibile del rapporto fra l’individualità e la totalità storica e sociale in un periodo storico caratterizzato pro­ prio dalla perdita esplicita di questo rapporto, che invece faceva da base sia al pensiero antico (in forma politica) sia al posteriore pensiero medioevale (in forma religiosa). Per

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questo propongo di prendere in considerazione il recente saggio dell’oligarca finanziario Eugenio Scalfari (Per l’alto mare aperto, Einaudi, Torino 2010). Lo prendo in conside­ razione in forma semplicemente contrastiva, perché la mia interpretazione della modernità è assolutamente opposta a quella di Scalfari, e quindi la mia posizione può essere com­ presa proprio in rapporto contrastivo con la sua, una sorta di Bibbia laica e laicista prète-à-porter, quanto di peggio io possa concepire nei miei peggiori incubi filosofici notturni. Scalfari fa iniziare la modernità con lo scetticismo di Montaigne, poi perfezionato e sistematizzato da Diderot. Si tratta di una mossa per nulla ovvia ed innocente. Anch’io leggo ed apprezzo Montaigne e Diderot, ma non mi so­ gnerei mai di far cominciare la filosofia moderna con una mossa scettica originaria, un po’ come i manuali di storia della filosofia che la fanno incongruamente e follemente cominciare con l’acqua di Talete. Ma per Scalfari la mossa scettica originaria è necessaria, perché serve a fondare la sua interpretazione della Modernità, compendiabile in ter­ mini di liberazione dell’Individuo dagli Assoluti (prima di tutto il Dio monoteistico cristiano, e poi la sua imperfetta secolarizzazione nella teodicea marxista della Storia). La Modernità ha quindi un fondamento positivo, l’In­ dividuo, ed un fondamento negativo, gli Assoluti. Scalfari non si rende probabilmente conto che questa dicotomia è soltanto una povera secolarizzazione positivistica della precedente dicotomia religiosa cristiana fra un principio positivo, Dio, ed un principio negativo, il Demonio. Ma questo caratterizza la falsa coscienza del pensiero cosid­ detto “laico”, che dalla religione prende sempre sistema­ ticamente soltanto il peggio (la sicumera e la pretesa as­ solutistica) e tralascia sempre sistematicamente il meglio (la considerazione veritativa della totalità in termini di carità, solidarietà, cominità sulla base ontologica dell’uni­ tà metafisica fra conoscenza e valutazione morale).

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Secondo la migliore tradizione religiosa (il laicismo in­ dividualistico e scettico, nichilista e relativista è infatti la peggiore delle religioni mai esistite nella storia) esiste una Origine, e questa creazione simbolica del mondo moder­ no è la liberazione dell’Individuo dagli Assoluti. La totale incapacità di Scalfari di effettuare una deduzione sociale delle categorie del pensiero fa si che il nostro oligarca fi­ nanziario non possa capire la natura destoricizzata e deso­ cializzata del pensiero moderno, che presuppone in modo ultrametafisico un soggetto costituito in forma astratta e formalizzata (il Cogito di Cartesio, poi genialmente criti­ cato da Vico, l’Io Penso di Kant, poi genialmente criticato da Fichte e da Hegel) ed omogeneizza l’intero spazio con il materialismo e l’intero tempo con il progressismo (di cui Scalfari non può capire l’affinità funzionale e strut­ turale con la legittimazione della proprietà capitalistica). Ma è bene mostrare brevemente in modo contrastivo dove cadono i due principi metafisici scalfariani, l’Assoluto e l’Individuo. Iniziamo dall’Assoluto. Scalfari inneggia alla demoli­ zione illuministica del vecchio Assoluto religioso cristia­ no, ignorando il fatto che gli illuministi stavano dando il colpo di grazia ad un vegliardo morente, perché questo assoluto religioso, che aveva legittimato simbolicamente per un millennio in Europa la società feudale e signori­ le, non legittimava ormai più nulla, perché il capitalismo non si legittima più con l’assolutezza della religione ma con l’assolutezza dell’economia. La fondazione dello scam­ bio capitalistico su se stesso, in assenza di fondamenti religiosi (l’esistenza di Dio), politici (il contratto socia­ le) e filosofici (il diritto naturale), equivaleva alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, perché era egualmente tautologica ed autoreferenziale. Questa prova ontologica dell’eternità del capitalismo fu preparata teoricamente da David Hume, e poi perfezionata economicamente da

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Adam Smith (la mano invisibile del mercato, equivalente al secolarizzato della teoria di Leibniz sull’armonia presta­ bilita di Dio). Gli Assoluti non erano cosi per niente distrutti, ma semplicemente ad un assoluto se ne sostituiva un altro, all’inizio apparentemente meno invasivo e pericoloso (il “dolce commercio” contro le pressioni guerresche nobi­ liari e le guerre di religione), ma poi con il tempo (e ba­ sta vedere la scandalosa diseguaglianza delie ricchezze nel mondo attuale) sempre più invasivo e distruttivo. Altro che distruzione razionialistica degli Assoluti da parte del libero pensiero illuministico! Ma almeno l’illuminismo ha giocato un ruolo storicamente positivo nella delegitti­ mazione di strutture effettivamente ingiuste e dispotiche, mentre Scalfari non è più per nulla un illuminista o un loro successore, in quanto fa parte integrante ed organica delle oligarchie dominanti della globalizzazione, e cioè del meccanismo apparentemente anonimo ed impersona­ le della svalorizzazione e della precarizzazione del lavoro umano. Il distruttore degli Assoluti è semplicemente l’a­ pologeta di un nuovo ed odioso Assoluto, laddove il solo vero “assoluto” degno di questo nome è la natura comuni­ taria e solidale del genere umano. Anche l’Individuo divinizzato da Scalfari non si sente troppo bene. La dinamica dialettica degli ultimi due seco­ li lo ha progressivamente sottomesso al dispotismo di in­ siemi economici e sociali automatizzati, e questo lo hanno almeno capito i francofortesi ed Heidegger, e anche se i primi si sono autorinchiusi in un rinvio illimitato della prassi ed il secondo è arrivato alla sapienziale (ed ipocrita) conclusione che solo un Dio può ancora salvarci (il mantra di Umberto Galimberti, complementare alle pagatissime conferenze della parte più colta ed inquieta dell’oligarchia finanziaria dominante). Liberatosi di Ratzinger, conse­ gnate le plebi pre-illuministiche a Padre Pio, al miracolo

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di San Gennaro ed alia Sindone di Torino (un manufatto medioevale di accertata origine), l’individuo scalfariano si è riconsegnato ad un nuovo assoluto, la globalizzazio­ ne, la speculazione finanziaria, il “giudizio dei mercati”, Moody’s, la Goldman Sachs, la religione olocaustica di colpevolizzazione illimitata dell’Europa costellata di basi atomiche USA, eccetera. Scalfari si rende vagamente con­ to che il suo individuo volterriano non legge più Goethe o Montaigne, ma ha subito un processo di involgarimento berlusconiano costellato di veline, escort e semplici putta­ ne. E quindi spenglerianamente preoccupato per la deca­ denza della civiltà. Non nascondo personalmente di pre­ ferire astrattamente il volgare Berlusconi alla sua spocchia elitaria, e considero il servilismo dei suoi recensori (da Barbara Spinelli ad Alberto Asor Rosa) l’ennesima ma­ nifestazione dell’inguaribile servilismo della casta degli intellettuali, che non perdono mai occasione per far capire di non capire mai assolutamente nulla dei veri problemi filosofici epocali cui siamo confrontati.

Il fu turo

d e lla f il o s o f ia e la d o m a n d a d i senso

4) La filosofia ha un fu tu ro ? D al corso delle cose pre­ senti, sembra che la risposta negativa sia inevita­ bile. ÌJavvento della società globalizzata, ha deter­ minato il prevalere del capitalismo assoluto, che è tale in quanto unico modello di sviluppo economico e sociale. In tale contesto epocale si è assistito, dopo la fine delle ideologie, ad un eclisse (o tramonto?) del pensiero filosofico forse m ai riscontrabile nella storia dell’Occidente. La filosofia, spogliata del suo contenuto veritativo, estraniata dalla sua dimensio­ ne storica, è stata espropriata della sua originaria vocazione. Quella di costituire la scienza dell’essere.

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Q uindi la filosofia attuale ha come oggetto della sua speculazione la contingenza mutevole e provvisoria di un eterno presente, concepito come perpetuo dive­ nire destoricizzato. Ma ci si domanda allora, se una filosofia, che prescinda da un processo di razionaliz­ zazione della realtà, possa definirsi tale. Così come un pensiero che intraprenda una analisi del presen­ te, privo della sostanza dell’essere e svincolato dalla storia, non si configuri come una sorta di nichilismo im m anente senza soluzioni. Una filosofia che, in un periodo storico caratterizzato dalla adesione acritica all’esistente economico globalizzato, si inserisca nella dimensione della necessità, non è p iù filosofia. In fa t­ ti, la filosofia attuale si è estraniata dalla problema­ tica veritativa e si astrae dalla ricerca di senso, ha la funzione di trovare conferme e creare legittim ità ad un esistente globalizzato che non abbisogna di al­ cun im prim atur filosofico. Questo latente nichilismo di fondo lascia però inevasa la domanda di senso di una um anità che, per quanto alienata e manipo­ lata, non potrà m ai fa re a meno di interrogarsi sul senso e sul destino di sé stessa. La filosofia non potrà m ai essere soppressa, perché l’uomo non potrà m ai essere sradicato dalla sua dimensione storica e dalla necessità di interpretare l’origine e ilfine di sé stesso. Il concetto espresso da M. Badiale e M. Bontempelli “pensare il presente come storia” è fondamentale per comprendere la necessità dell’uomo odierno di ri­ trovare una propria dimensione nel divenire della storia ed elaborare quel pensiero fondamentale che fornisca una interpretazione logico - concettuale de­ gli eventi del passato e del presente e, nel contempo, possa delineare il senso di un possibile futuro. I l n i­ chilismo generato dall’economicismo totalizzante del presente, nella sua azione devastatrice, non potrà,

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alla fine, col progressivo collassare di un modello socio - economico antistorico ed antiumano, che negare sé stesso. In tal modo, il nulla nichilistico del presente non potrà che fa r rivivere l’essere, quale termine lo­ gico - necessario di contrapposizione dialettica. Disse in fa tti Dostoevsky che non si può conoscere l’essere se non si è provata la vertigine del nulla. Prese nel loro insieme, al di là di qualche individualità statisticamente irrilevante, le strutture universitarie mon­ diali delle facoltà di filosofia sono diventate un Sacerdozio dell’Insensatezza, la cui finalità è proprio quella di diffon­ dere fra le giovani generazioni l’idea che la totalità non esiste (in quanto Kant insegna che è comunque gnoseologicamente inconoscibile perché non spazio-temporalizzabile fenomenicamente), e se per caso qualcuno volesse ad ogni costo concepirla è totalmente insensata, perché Dio è morto, chi ci crede può facilmente diventare un pericoloso fondamentalista (solo gli ebrei sono parzialmente esentati, in quanto sacerdoti dell'espiazione di un Male Assoluto imparagonabile a qualunque altro) eccetera. Sarebbe ingenuo credere il contrario. In una società liberalizzata nei costumi sessuali individuali, ma nello stesso tempo ferreamente organizzata sia pure in forma apparentemente flessibile, sarebbe strano che le oligarchie finanziarie dominanti non spingessero la loro influenza indiretta anche sui temi della preparazione filosofica delle giovani generazioni. La domanda di senso sulla totalità storica e sociale in cui viviamo rinasce infatti in ogni ge­ nerazione, per cui una società fondata su fondamenti in­ sensati non può che promuovere l’equazione Sensatezza = Insensatezza e “spegnere il microfono” a tutti coloro che in­ vece sostengono che la filosofia ha come oggetto esclusivo la verità dell’essere della totalità. In quello che dico non c’è alcuna enfasi catastrofica, e soprattutto non c’è nessuna

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teoria del complotto. Non penso affatto che il capitalismo sia una sorta di Organizzazione Spectre alla James Bond che pianifica maniacalmente la consegna delle cattedre di filo­ sofia a postmoderni nichilisti, ad epistemologi irrilevanti ed a filosofi della “mente” del tutto inutili. In linguaggio althusseriano, si tratta di una causalità sistemica e strut­ turale, non di un complotto diretto da oligarchi che han­ no capito che la gnoseologia di Kant ed il nichilismo di Nietzsche sono per loro elementi culturali di legittima­ zione più affini di quanto lo possano essere la dialettica veritativa di Hegel o la teoria dell’alienazione di Marx. E quindi, nessuna paranoica teoria del complotto. Il fatto che uno dei nemici principali della filosofia sia l’apparato universitario ed editoriale delle facoltà di filosofia è per me un dato strutturale, e non una mania complottistica e paranoica. Il sistema in cui viviamo deve sistematicamen­ te favorire l’assolutezza dell’economia, la privatizzazione della religione, l’insensatezza della filosofia, la riduzione calcistica del nazionalismo identitario, l’abolizione delle differenze fra alta cultura e cultura popolare, l’omologa­ zione multiculturalistica su basi anglosassoni, la prevalen­ za simbolica delle minoranze sessuali sulle normali banali famiglie, la superiorità dei pubblicitari sugli insegnanti, la droga e gli psicofarmaci, la riduzione del pacifismo ad ostensione ritualizzata di tipo belante-pecoresco (con ai margini rotture di vetrine da parte di esagitati e marginali in passamontagna), eccetera. La sorte attuale della filosofia deve quindi essere inquadrata all’interno di almeno una trentina di determinazioni sistemiche e strutturali, e non può essere indagata separandola da queste ultime. Il concetto di fine della filosofia deve essere accura­ tamente distinto da quello di crisi della filosofia (do per scontato che per filosofia intendo soltanto l’interrogazione veritativa della totalità, metaforizzata con il termine di Essere, mentre escludo esplicitamente ogni tipo di re-

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torica sofistica, gnoseologica, relativismo, nichilismo ed esistenzialismo). La fine della filosofia è semplicemente impossibile (come peraltro la fine dell’arte o della religio­ ne), perché la domanda individuale e collettiva di senso fa parte della natura umana come la sessualità o l’amore materno. Chi ne parla seriamente è semplicemente uno sciocco che non sa resistere alle mode a rapida obsolescen­ za (oggi parlare di “fini” è un genere giornalistico per la categoria più stupida del mondo, quella degli intellettuali postmoderni). Le crisi filosofiche invece esistono, e sono “ricorsive” (per usare un termine che La Grassa usa per l’economia). Tutta la storia della filosofia occidentale può essere ricostruita sulla base di crisi ricorsive. Oggi siamo però di fronte ad una situazione che esclude ogni teoria delia semplice ricorsività, perché siamo di fronte ad una novità qualitativa, quella di una socialità dominata esclu­ sivamente da una dittatura assoluta e totalitaria di una crematistica finanziaria che si nasconde sotto il nome ari­ stotelico di “economia”. Ripeto che questa novità (perché di novità si tratta, come la novità del nesso fra alienazioni e uomo precario studiata da Eugenio Orso) non può essere esaminata su semplici basi analogiche ricorsive, perché da luogo ad un panorama completamente nuovo. In quanto pensatore formatomi in un contesto storico ormai sorpassato, quello della con trapposizione fra comu­ niSmo storico novecentesco e capitalismo ancora indu­ striale e keynesiano (e quindi non ancora globalizzato), non mi considero in grado di descrivere, sia pure a grandi linee, i lineamenti fondamentali di una filosofia del fu­ turo, che certamente verrà, anche se nessuno può per ora sapere quando. Alcune lezioni però le ho tratte, e sono orgoglioso di essere riuscito a trarle. In primo luogo, sono orgoglioso di essere riuscito a sfuggire alla “vulgata laicisita” del kantismo, del positi­ vismo e del postmoderno, riuscendo nello stesso tempo a

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mantenere la critica globale alla falsa totalità del sistema capitalistico. Non era scontato, dati gli esiti miserabili della miserabile generazione del Sessantotto. In secondo luogo, sono orgoglioso di essermi progres­ sivamente (e faticosamente) affrancato dalla ideologizzazione positivistica identitaria del marxismo, e di quella sua ultima ricaduta che è il mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra in un contesto storico che l’ha superata del tutto. Le scuole filosofiche non sono mai né di destra né di sinistra, anche se molti loro aderenti lo possono legit­ timamente essere. Ad esempio i tre più grandi esponenti della migliore scuola filosofica italiana del novecento, il neoidealismo italiano e cioè Giovanni Gentile, Benedetto Croce ed Antonio Gramsci, erano uniti dal codice filosofico (il neoidealismo, appunto), mentre politicamente l’uno era fascista, l’altro liberale e l’ultimo comunista. Analo­ gamente alcuni feroci anti-idealisti, come i comunisti Galvano Della Volpe e Ludovico Geymonat ed i liberali Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano, avevano un codi­ ce filosofico comune (positivistico ed anti-idealistico), ma posizioni politiche diverse. In terzo luogo, infine, la dicotomia Atei/Credenti ha forse qualcosa a che fare con i matrimoni ed i funerali re­ ligiosi o civili, ma non ci dice assolutamente nulla sulla pertinenza delle analisi filosofiche. Io non sono presonalmente un credente, ma ritengo che l’analisi critica del­ lo storicismo e dei suoi esiti dissolutori fatta dal filosofo cattolico Augusto Del Noce immensamente migliore di quelle dei replicanti progressisti della sinistra italiana, che provocherebbero oggi vergogna ed imbarazzo quando ormai sappiamo bene come le cose sono andate a finire. La filosofia non è morta, ed è sicuro che ci sopravvivrà. Come, però, non possiamo saperlo.

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Rivolta delle élites e disfacimento del capitalismo

U n a l o t t a d i classe ca po v o lta

1) Le soluzioni alla crisi economico - finanziaria del 2008 appaiono incerte e problematiche. Esse in fa t­ ti vengono costantemente ricercate all’interno di un sistema finanziario globale, che non viene messo in discussione, semmai, ne vengono criticati solo deter­ m in a ti eccessi. Le ricorrenti crisi dell’economia capi­ talista hanno sempre dato luogo a profonde trasfor­ mazioni degli equilibri politico - sociali preesistenti, con la conseguenza di espandere la base produtti­ va. Inoltre, la conflittualità sociale scaturita dalla crisi ha sempre condotto all’ampliamento sia della sfera dei d iritti sociali dei lavoratori che della par­ tecipazione politica delle masse. Le evoluzioni del capitalismo, per due secoli sembrano avere seguito tale direttiva come fattore costante del suo svilup­ po storico. Oggi, la crisi globale sembra invece aver prodotto una fase involutiva del capitalismo stesso. In Italia e in tutto l’Occidente, si va delineando in ­ f a tt i un “autunno caldo del capitalismo”, in cui è la classe dominante dell’economia a pretendere riforme economico - sociali sistemiche, che comportano pro­ fo n d i m utam enti nella legislazione del lavoro, con la conseguenza di stravolgere materialmente un assetto normativo costituzionale ispirato allo stato sociale e alla solidarietà tra le classi. G li investim enti della F iat in Italia sarebbero possibili, secondo Marchionne e Confindustria, qualora si operassero ampie de­ roghe alla attuale contrattazione collettiva, alla le­ gislazione del lavoro, alla rappresentanza sindacale, al fine di rendere competitiva l’industria italiana

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nel mercato globale. La crisi economica del 2008 ha reso necessario lo smembramento dello stato sociale, con energici tagli alla spesa pubblica. Ma, dinanzi a tali misure penalizzanti per la collettività, non si è generata alcuna conflittualità sociale da parte dei ceti subalterni, quali i disoccupati, i precari, i lavo­ ratori a basso reddito, bensì si sono ribellate le classi privilegiate, le lobbies economiche, politiche, profes­ sionali, istituzionali, allo scopo di difendere le loro rendite di posizione, le élites cioè d i m ia società stra­ tificata sul privilegio sociale. Sembra dunque giunto a definitivo compimento quel processo iniziato alla fine degli a n n i HO con il reaganismo e il thatcherismo, denominato da Lasch “la rivolta delle élites”. Sembra, paradossalmente, che la Global Class pro­ testi contro l’ordine economico e politico che ha loro consentito di costituirsi come élites. In questa fase storica si è m anifestata la coscienza d i classe delle élites, quale coscienza del loro ruolo dominante nella società. Si va delincando qu in d i una lotta di clas­ se innescata dalla classe dominante, che, in quanto monopolista (o quasi) della struttura produttiva di­ viene autoreferente, con il fine d i affrancarsi dalle strutture politiche istituzionali, quali sovrastruttu­ re non p iù fu n zio n a li al tnodo d i produzione capi­ talista globale. Si sta realizzando una rivoluzione marxista capovolta. Tale svolta involutiva della Global Class si manifesta come riflesso conseguente all’esaurimento epocale del prim ato dello sviluppo dell’economia produttiva. I volum i della produzione mondiale non hanno registrato incrementi rilevanti rispetto alla “età dell’oro’’ del trentennio ‘45 - ’75. Disoccupazione diffusa, precariato, perdita del pote­ re d’acquisto dei salari non favoriscono certo crescita della produzione e del consumo. Inoltre, le stesse con-

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dizioni - capestro imposte a i lavoratori della Fiat, non saranno certo sufficienti a rendere l’industria italiana competitiva con la produzione asiatica. In realtà, l’attuale ristagno della crescita è esplicativo dell’esaurimento di una fase storica contrassegnata dallo sviluppo progressivo. Il capitalismo impone le proprie condizioni in una fase di regressiva difesa delle proprie posizioni di privilegio. Tu hai spesso enunciato il concetto di “capitalismo feudale”. Tale definizione m i sembra appropriata in quanto rivela la doppia natura contraddittoria del capitalismo del X X I 0 secolo: è feudale nella conservazione dei p riv i­ legi monopolistici e nella sua arroganza nel preten­ dere sovvenzioni e aititi di Stato, mentre è liberista in tema di produttività e competitività della forza lavoro, nell’esigere cioè precarietà, mobilità, assenza di vincoli sociali. Di tutti gli stimoli contenuti in questa tua prima do­ manda mi permetterai di svilupparne soltanto uno, che però sarà forse il più interessante ed intrigante per i no­ stri lettori. Si tratta di quella “rivoluzione marxista capo­ volta”, che opportunamente Lasch ha definito “la rivolta delle élites”. E un fenomeno macroscopico, che è sotto gli occhi di tutti, e che viene sistematicamente rimosso in nome del “politicamente corretto”, che insiste nel soste­ nere che viviamo in una democrazia (sia pure imperfetta e minacciata aU’intemo dal populismo ed all’esterno dal terrorismo e dal fondamentalismo religioso), laddove non viviamo affatto in una democrazia (la cui precondizione irrinunciabile sarebbe il primato della decisione politica democratica sugli automatismi fatali ed incontrollabili dell’economia divinizzata), ma in una oligarchia finanzia­ ria temperata da alcune garanzie individuali di godimento (limitato) di alcuni diritti civili.

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Questa “rivoluzione marxista capovolta” è tuttavia parzialmente comprensibile utilizzando criticamente lo stesso apparato concettuale di Marx, al netto di due suoi giganteschi errori prognostici, il carattere rivoluzionario inter-modale delle classi popolari, operaie, salariate e pro­ letarie (sulla base del recente bilancio storico bisecolare del tutto inesistente) e la pretesa incapacità delle classi dominanti borghesi-capitalistiche di continuare a svilup­ pare le forze produttive (sulla base del recente bilancio storico bisecolare del tutto inesistente). Se si mettono in­ fatti fra parentesi questi due giganteschi errori progno­ stici (che non permettono in alcun modo di parlare del cosiddetto “marxismo” come di una scienza prognostica in senso naturalistico moderno e di tipo galileiano) resta però comunque qualcosa, e questo qualcosa non è soltan­ to la teoria della alienazione (che in un’opera di prossima pubblicazione Eugenio Orso ha collegato strettamente con la generalizzazione del lavoro flessibile e precario, fe­ nomeno antropologico assai più che soltanto angustamen­ te economico), ma è soprattutto una teoria della illimita­ tezza distruttiva della dinamica riproduttiva capitalistica, teoria che separa Marx dalla tradizione del progressismo positivistico (ideologia dominante nel comuniSmo storico novecentesco in tutte le sue versioni), e lo ricollega in­ vece alla tradizione della filosofia greca classica, nata in opposizione alla smisuratezza del denaro e del potere non controllati dalla ragione (logos) e dalla misura (metron). Questo Marx, quindi, sarebbe ancora non solo utile, ma addirittura indispensabile. Ma questo Marx non inte­ ressa né alle restanti comunità marxiste in attività (con­ greghe di atei positivisti in pieno sbandamento teorico e culturale) né alla cosiddetta “sinistra” (tribù post moderna di individualisti narcisisti odiatori del popolo realmen­ te esistente accusato di razzismo populista). Marx resta quindi del tutto “virtuale”, e viene sempre preso “decaf-

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feinato”, per poterne espungere gli aspetti inquietanti in­ compatibili con il Politicamente Corretto. Studioso di Marx e della storia del marxismo da alme­ no quattro decenni, io non mi stupisco affatto di quella rivoluzione marxista capovolta cui assistiamo da almeno un trentennio. Mi sarei anzi stupito del contrario. Il fatto è che per “marxismo” tutti i dilettanti ed i fanatici in­ tendono (ed hanno sempre pervicacemente inteso) il mito sociologico infondato della natura spontaneamente rivo­ luzionaria del proletariato di fabbrica moderno, mito epistemologicamente inferiore alla cosmologia Maya ed alle favole della nonna. A causa dell’egemonia incontrastata in Italia del cosiddetto “operaismo” (di cui l’ultima versione alla Negri è soltanto una forma adattata alla globalizza­ zione sotto dominio imperiale USA) nel nostro paese il pensiero di Marx è stato identificato per mezzo secolo con il mito sociologico del proletariato di fabbrica, uno dei grumi sociali meno rivoluzionari dell’intera storia univer­ sale comparata (l’eccezione russa del 1917 fa parte appun­ to di quelle eccezioni storiche che confermano la regola). Bisogna quindi cercare di capire la natura storica e sociale profonda di questa rivolta delle élites. In primo luogo, non è la prima volta nella storia del capitalismo che questa rivolta delle élites ha luogo, ma almeno la secon­ da volta. La prima rivolta delle élites ha avuto luogo fra il 1871 (repressione della Comune di Parigi) ed il 1914 (scoppio della prima guerra mondiale), ed è strano che il pur benemerito Lasch non se ne sia accorto (ma questo è probabilmente dovuto all’assoluto e totale americanocentrismo di tutti gli intellettuali americani, compresi i più geniali e dotati). Nietzsche in filosofia e Pareto in so­ ciologia sono stati i due principali teorici di questa prima rivolta delle élites, e non bisogna dimenticarlo mai. Non considero invece i movimenti fascisti del periodo storico 1919-1945 episodi di rivolta delle élites, anche

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se cosi tendono a considerarli quasi tutti gli attuali contemporaneisti universitari (un pittoresco gruppo di anti­ fascisti rituali in totale e conclamata assenza di fascismo). Sebbene i movimenti fascisti siano stati anche favoriti e finanziati da élites industriali, agrarie e finanziarie (a se­ conda ovviamente dei vari paesi), la natura profonda del fascismo non è stata quella di una rivolta delle élites, ma quella di un vasto e contraddittorio movimento dei ceti medi e della piccola borghesia tradizionale contro la pro­ letarizzazione, rappresentata simbolicamente dalla minac­ cia del bolscevismo russo. Mi oppongo quindi con forza all’interpretazione storiografica dei fascismi in termini di rivolta delle élites, e questo del tutto indipendentemente dal giudizio morale, politico o storiografico sulla natura storica del fascismo in tutte le sue varianti. A partire dal 1980 circa siamo invece di fronte ad una seconda vera e propria rivolta delle élites. Si tratta allora non tanto di condannarle moralisticamente, come fanno tutti coloro che si limitano a constatare che negli anni cin­ quanta del novecento il differenziale salariale fra un opera­ io Fiat ed il direttore Vittorio Vailetta era di uno a venti, mentre oggi il differenziale salariale fra un operaio Fiat ed il direttore Sergio Marchionne è di uno a quattrocento. Questo non è certo dovuto ad irrilevanti sconfitte di scio­ peri operai, ma è dovuto esclusivamente ad un passaggio da un capitalismo prevalentemente produttivo, e quindi industriale, ad un capitalismo prevalentemente specula­ tivo, e quindi finanziario. Mentre la prima rivolta delle élites (1871-1914) si basava prevalentemente sulla riorga­ nizzazione della sovranità monetaria dello stato nazionale (con accompagnamento culturale alla Nietzsche-Pareto), questa seconda rivolta delle élites si basa prevalentemen­ te sul controllo di uno spazio economico globalizzato, ed il suo accompagnamento culturale non è più prevalente­ mente di “destra” (Nietzsche, Pareto, Kipling, ecc.), ma

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è prevalentemente di “sinistra” (postmoderno, Ljotard, Bobbio, Rawls, Habermas, religione olocaustica di colpevolizzazione infinita dell’Europa, ideologia interventistica dei diritti umani, governo dei giudici e dei giornalisti, costituzione materiale basata sullo scandalismo, irrisio­ ne della religione vista come residuo superstizioso pre­ moderno, sostituzione del Big Bang alla creazione divina, imposizione del coito e del godimento immediato al posto dell’amor cortese e del dolce stil novo, ecc.). E tuttavia Lasch coglie il punto essenziale della que­ stione, molto più dei cosiddetti “marxisti”, poveri po­ sitivisti subalterni di sinistra cultori dell’ideologia del progresso. Lasch è però “imbarazzante” sia per i ceti di sinistra postmoderni, di cui aveva precocemente diagno­ sticato la natura narcisistica, sia per la cultura dominante, che ovviamente gli preferisce generici tuttologi chiacchie­ roni che si limitano a denunciare forze anonime ed imper­ sonali e non indicano mai con il dito gli oligarchi che ci dominano (la società liquida di Bauman, il destino della tecnica di Galimberti, ecc.). So bene che la definizione di “capitalismo feudale” è provvisoria, e non è ancora certamente soddisfacente (seb­ bene ritenga in buona fede che il lavoro sociologico che ho scritto con Eugenio Orso si collochi al di sopra del­ ia produzione media della sociologia universitaria, ed è per questo ovviamente che è stato silenziato —le strutture culturali ufficiali sono prima di ogni altra cosa strutture selettive di silenziamento, all’interno appunto del feno­ meno generale della rivolta delle élites). Ma questo ossi­ moro si pone tuttavia al di sopra di tutte le tranquilliz­ zanti apologie che vanno da Sloterdjik a Rorty, da Rawls a Bobbio fino ad Habermas, il seppellitore delfultima manifestazione di inquietudine della vecchia coscienza borghese (la scuola di Francoforte di Horkheimer e Ador­ no). Non la considero però (come tu suggerisci) una fase

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involutiva del capitalismo. Come chiarirò meglio nella mia quarta risposta, tendo invece ad interpretare questa rivolta delle élites come un passaggio strutturale alla ter­ za fase logica del capitalismo (la fase speculativa dopo le fasi astratta e dialettica), fase che deve cercare di limitare il più possibile gli elementi “dialettici” della fase prece­ dente (comunitarismo borghese di Hegel, comunitarismo proletario di Marx, marxismo critico novecentesco, ecc.). Infine, last but not least, questa rivolta delle élites delle classi dominanti europee ed USA è anche stata una rispo­ sta preventiva all’incipiente sfida delle nuove classi capi­ talistiche della Cina, dell’India, della Corea e del Brasile. Come sarebbe stato infatti possibile competere con loro senza avere bastonato prima i propri riottosi plebei, senza precarizzare il lavoro, e senza colpire la conquista dei co­ siddetti trenta anni gloriosi (1945-1975)?

L a g l o b a l iz z a z io n e

com e u n iv e r s a l iz z a z io n e

DEGLI EGOISMI

2) La globalizzazione ha comportato l’uniformazione dei processi produttivi, degli scambi, della mobilità dei capitali e della manodopera, fenom eni peraltro resi possibili dal progresso tecnologico. La globaliz­ zazione ha dunque condotto al fenomeno della inter­ dipendenza mondiale dell’economia, della finanza, della cultura, degli equilibri politici di un ordine mondiale sempre p iù instabile e conflittuale. Per­ tanto, la crisi finanziaria del 2008, per sua genesi e natura di carattere globale, avrebbe richiesto solu­ zioni e riforme comuni, concordate in sede interna­ zionale tra gli S tati e organismi sopranazionali. Ma finora non si registrano accordi internazionali in tal senso. Nessuna disciplina di controllo è stata varata

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per quanto concerne gli strum enti finanziari deri­ vati, sono al di là da venire accordi che affranchino l’economia mondiale dal dollaro che resta valuta di riserva, rimane im m utato il problema del cronico debito del terzo mondo e la sua dipendenza dal FMI. Anziché la globalizzazione delle politiche economiche e sociali, abbiamo assistito al prepotente riemergere degli egoismi nazionali e localistici. La politica eco­ nomica della UE (specie da parte della Germania), nella vicenda del default del debito pubblico greco ce ne offre un esempio paradigmatico. Nelle crisi f i ­ nanziarie, la politica degli S tati non è volta tanto a difendere la propria economia e la propria indipen­ denza nazionale dalle ricorrenti manovre antieuropee degli USA, quanto a salvaguardare i privilegi acquisiti nella propria area geopolitica di influenza. Si tratta in realtà di una strategia regressiva di im ­ pronta esclusivamente monetaria messa in atto dalla BCE, che peraltro comporta provvedimenti di natura fiscale e sociale che si rivelano penalizzanti per i po­ poli europei. Anche nella sfera individuale l’avvento della globalizzazione ha generato un individualismo egoista dagli orizzonti sempre piti ristretti. La mobi­ lità e la precarietà del lavoro hanno diffuso un mo­ dello di vita basato sull’incertezza permanente, il cui fine ultimo è lim itato alla mera sopravvivenza. Inol­ tre, con il progresso tecnologico nel campo delle comtinicazioni e l’incremento degli scambi, si è verificata un’espansione della produzione normativa a tutela dei d iritti del singolo alla privacy e alla salvaguar­ dia della sfera individuale che ha depauperato l’uo­ mo della sua naturale tendenza allo spontaneismo sociale. L’eccessiva normatività giuridica crea rigidi codici di comportamento inderogabili (ideologia del politically correct). La libertà individuale si tramu-

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ta in uno stato di generalizzata illibertà collettiva, l’esercizio codificato dei d iritti individuali produce estrema conflittualità nella società e soprattutto con­ trollo sociale esterno nei comportamenti delle masse. Sembra che la globalizzazione abbia determinato solo l’universalizzazione degli egoismi. Per rispondere correttamente all’insieme di problemi che tu poni è bene cercare una formulazione unitaria sin­ tetica, che permetta di “stringere” il cuore della questione da te sollevata. Riporto qui allora una felice formulazione sintetica del grande sociologo francese Pierre Bourdieu, che ci offre tutti i dati teorici del problema. Ha scritto Bourdieu: “La nozione polisemantica di globalizzazione ha come effetto, se non forse come funzione, di nascondere nell’ecumenismo culturale o nel fatalismo economicistico gli effetti deirimperialismo e di far passare un rapporto transnazionale per una necessità naturale”. Qui c’è proprio tutto, se si usa ovviamente la lente adatta. In primo luogo, la globalizzazione non soltanto non ha fatto scomparire il buon vecchio imperialismo (matrice principale del grande macello impropriamente chiamato dagli storici “prima guerra mondiale”), ma ne è sempli­ cemente la forma specifica dell’attuale periodo storico. In una prospettiva secolare (l'unica illuminante e sensa­ ta) rimperialismo ha assunto fino ad oggi tre forme, il mercantilismo seicentesco e settecentesco, l’imperialismo vero e proprio ottocentesco e novecentesco, ed infine l’at­ tuale globalizzazione. La decadenza della sinistra europea è cominciata proprio quando negli ultimi due decenni del novecento e nel primo decennio del ventunesimo secolo questo informe conglomerato postmoderno ha abbando­ nato la categoria di imperialismo ed ha adottato categorie sostitutive come la religione olocaustica, il bombarda­ mento aereo in difesa dei diritti umani, l’attenzione osses-

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siva ed esclusiva per le minoranze sessuali, gli zingari ed i migranti, il disprezzo per il popolo accusato surrealmente di “populismo”, ecc. (il punto più basso a livello europeo è stato raggiunto in proposito dal Partito della Rifonda­ zione Comunista italiano sotto la direzione dilettantesca ed infantile di Fausto Bertinotti). E bene in proposito ri­ cordare che il solo elemento permanente della tipologia a tre stadi sopra ricordata (mercantilismo, imperialismo propriamente detto ed infine globalizzazione) è stata, è e sarà la funzione diplomatica e militare degli stati naziona­ li, che certo in questa terza fase “si ritirano” dalle funzioni sociali dette di welfare, ma non si ritirano affatto dalla pressione diplomatica e dall’intervento militare. In secondo luogo, Bourdieu ricorda la funzione di ma­ nipolazione ideologica della cosiddetta “necessità natura­ le”. E una vecchia, vecchissima storia, ma le sue manifesta­ zioni empiriche sono sempre nuove, e richiedono quindi sempre un’attenzione particolare. Le religioni monotei­ stiche hanno a lungo esercitato la funzione ideologica di far passare concreti interessi sociali di classe per “naturale” adeguamento ai voleri divini (in questo il monoteismo è stato sempre molto più “performativo” del politeismo o del panteismo a base naturalistica), ma da circa mezzo se­ colo questa “naturalizzazione” è passata all’economia poli­ tica santificata e deificata. Per questa ragione il cosiddetto “pensiero laico”, che vorrebbe liberarci il cervello sosti­ tuendo la teoria darwiniana dell’evoluzione al cosiddetto “disegno intelligente divino” è in ritardo di almeno un se­ colo (e mi esprimo qui in modo particolarmente indulgen­ te e pacato). Le facoltà di economia sono oggi l’equivalente delle facoltà medioevali di teologia, mentre le facoltà di filosofia e di scienze sociali sono ridotte ormai a supporti secondari di questa naturalizzazione (consulenze filosofiche per narcisisti in crisi di identità, inutile epistemologia al­ luvionale, integrale destoricizzazione e desocializzazione

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della teoria della conoscenza scientifica, diffamazione insi­ stita e petulante della metafisica umanistica classica, ecc.). In terzo luogo, Bourdieu ci ricorda che l’ecumenismo culturale ed il fatalismo economicistico sono una sola ed unica unità dialettica, anche se, in linguaggio marxista, potremmo anche dire (ma sarebbe meno preciso) che il fa­ talismo economicistico è la struttura e l’ecumenismo cul­ turale è la sovrastruttura. La globalizzazione finanziaria si pone in forma fatalistica come gabbia d’acciaio (Max We­ ber) o come destino della tecnica (Martin Heidegger), e si ha così il paradosso (per altro facilmente decifrabile) per cui una Grande Narrazione (più esattamente, la più osce­ na delle grandi narrazioni mai concepite nella millenaria storia dell’umanità) si presenta come la smentita definiti­ va e “liberatoria” di tutte le grandi narrazioni precedenti. Contestualmente, tutta la superficiale retorica ecumenica (multiculturalismo, multietnicità, ecc.) non è che l’abito di Arlecchino indossato sopra il giubetto antiproiettile usato per le guerre occidentalistiche di civiltà (Irak, Afghanistan, domani chissà). Qui la funzione di occultamento del circo mediatico e del clero universitario appare in piena luce, e gli unici a non capirlo sono i semicolti presenzialisti che affollano le conferenze per gente di una certa Kual Kultura (i K maiuscoli sono dell’umorista italiano Stefano Benni). In quarto luogo, il fatalismo economicistico che permea la nostra cultura come una nuvola velenosa di smog è già stato diagnosticato da alcuni decenni, ma è impossibile fare passi avanti se non si diagnostica il male alla radice. Biso­ gna quindi risalire a due concezioni alternative di economia politica per potere respingere la prima ed accettare la se­ conda. Secondo una prima concezione di economia politica essa è frutto di una autofondazione su sé stessa senza alcun fondamento pre-esistente di tipo religioso, filosofico e poli­ tico (David Hume) e di una rigorizzazione della mano invi­ sibile del mercato (Adam Smith), per cui il legame sociale

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fondato sullo scambio fa venir meno qualsiasi altro presun­ to Assoluto (in questo modo la metafisica economicistica si presenta come liberazione da ogni altra precedente metafi­ sica —il massimo della sfacciata mistificazione!). Ma in base ad una seconda concezione l’economia politica deve rispon­ dere non al mercato ma al “sistema dei bisogni” sociali (He­ gel e poi Marx), ed è quindi una disciplina dipendente dalla politica, e non viceversa (Aristotele, Tommaso d’Aquino, Polany, interpretazione di Hegel di Pierre Naville, inter­ pretazione di Marx di Michel Henry, Henry Denis, Denis Collin ed infine se me lo si permette —di chi scrive). La prima concezione non è riformabile, perché sfocia sempre gravitazionalmente in un monoteismo fatalistico del mer­ cato. La seconda è invece la “regola d’oro” da sviluppare, ma la via è bloccata dalla “saracinesca” formata dalle oligarchie finanziarie, dal ceto politico, dal circo mediatico e dal clero universitario di economia, filosofia e sociologia. In quinto luogo, infine, l’ecumenismo culturale, lungi dall’essere progressista, emancipatore e di “sinistra” è sol­ tanto la copertura culturale per conniventi e per allocchi di un nuovo capitalismo finanziario globalizzato che per ri­ muovere la generalizzazione del lavoro flessibile, tempora­ neo e precario deve promuovere la formazione di un nuovo esercito industriale di riserva multiculturale, multirazzia­ le, multietnico, multireligioso, linguisticamente unificato (inglese operativo) e sessualmente omogeneizzato (omo ed etera al posto delle vecchie noiose famiglie borghesi). Tutto questo non ha assolutamente nulla a che fare con il vecchio concetto greco di ospitalità verso lo straniero (jxenos) in cui lo straniero era bensì ospite, ma mai ci si sarebbe sognati di rinunciare alla propria identità culturale greca, di cui si era anzi non solo fieri ma fierissimi. Ultimamente questo è stato chiarito da un magistrale saggio di Luca Grecchi (uno dei più promettenti filosofi italiani contemporanei, ed appunto per questo silenziato ed ignorato dalla mafia

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mediatico-accademica al servizio delle oligarchie), che con­ futa con ricchi argomenti l’errata concezione dei greci come nazionalisti, sciovinisti e razzisti. I greci erano fieri della propria irripetibile identità religiosa, culturale e linguisti­ ca, e nello stesso tempo aperti al cosiddetto “diverso” (oggi trasformato in un inesistente Diverso per colpevolizzare la legittima difesa economica e culturale delle comunità). La formula che tu utilizzi alla fine della tua domanda (la globalizzazione come universalizzazione degli egoismi) è particolarmente felice, perché suggerisce al lettore che abbia ancora voglia di pensare che l’universalizzazione degli individualismi acquisitivi (non importa se dal lato dell’Imprenditore o dal lato del Consumatore) universa­ lizza. soltanto l’individualismo acquisitivo stesso. E questo un ennesimo ossimoro (l’universalizzazione dell’indivi­ dualismo), che non potrebbe però concretamente realiz­ zarsi senza la perdita della stabilità del lavoro (l’individuo flessibile è il vero coronamento di ogni individualismo, perché porta lo sradicamento al suo punto più alto) e senza la distruzione delle vecchie comunità familiari e religiose in nome di nuove comunità provvisorie fittizie (la folla anonima dei centri commerciali, il concerto rock, ecc.). L’antropologia sociale di questa nuova ed inedita uni­ versalizzazione dell’individualismo anomico deve ancora essere studiata, e non possiamo certamente aspettarci al­ cun aiuto dalle caste mediatiche ed universitarie. E tutta­ via io credo nella natura umana, e quindi non credo nella sua manipolabilità infinita. Se la natura umana fosse infi­ nitamente manipolabile, non ci sarebbero soggetti sociali capaci di tirarci fuori, né tanto meno futurismi tecnologi­ ci o ideologie del progresso. Per questo non bisogna chie­ dere aiuto all’ideologia, ma ad un rinnovamento filosofico. Ma dal momento che la tua terza domanda verte appunto su questo, svilupperò il mio discorso proprio nella mia terza prossima risposta.

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L a “G lo b a l C lass ” e l ’in d e f in ib il e “P a u p e r C lass ”

3) Come già accennato, il capitalismo del X X I 0 è ca­ ratterizzato dalla propria autoreferenzialità, dato che non esistono ad oggi modelli economico - sociali alternativi ad esso. È l’economia capitalista globa­ lizzata che ha creato un modello rigido, sia dal punto di vista economico che ideologico, che legittima o con­ danna la politica degli Stati. ^Tuttavia, si rileva, che il capitalismo, sin dalla sua nascita al tramonto del mondo feudale, si è dimostrato vincente proprio in virtù della sua capacità di adattamento a situazioni storiche e geografiche estremamente diversificate nello spazio e nel tempo. I l capitalismo è sopravvissuto così a lungo, grazie alla sua capacità d i recepire e omolo­ gare alle sue esigenze i valori e i costumi delle civiltà preesistenti a d esso ed è stato in grado di fa r proprio il progresso scientifico - tecnologico, coinvolgendolo nelle logiche di mercato. Il modello capitalista fitto ad oggi non è m ai stato unitario: la storia del mondo moderno è costellata da una estrema diversificazione di modelli socio - politici ispirati al capitalismo, ma compatibili con le pecidiari realtà storiche e sociali del tempo. Oggi si afferma, e non senza ragione, che il capitalismo occidentale si è dimostrato vincente rispetto alle ideologie del X X ° secolo, proprio per la sua estrema capacità di trasformazione, che gli ha consentito d i evolversi e di superare sempre le sue crisi interne, p iù volte diagnosticate erroneamente come sintomi della sua ineluttabile decadenza. 1 mo­ delli politici basati invece su dogmi ideologici (fasci­ smo e comuniSmo), sono stati travolti sia a causa del­ le guerre (fascismo), che per la loro estrema rigidità nell’affrontare i problemi del proprio tempo nell’ot­ tica ideologica, che si è peraltro rivelata incapace di

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riformare il sistema politico ed economico dinanzi a i m utam enti in atto di un mondo in continua evo­ luzione (comuniSmo). I l capitalismo del X X I 0 secolo invece presenta caratteristiche di rigidità ed univo­ cità strutturale nel qualificarsi come unico modello universale di sviluppo. A ttualm ente il sistema ca­ pitalista è incapace di mediazione tra un liberis?no ormai chiuso nel suo assolutismo ideologico - economicista e la realtà storico sociale contemporanea. E assente oggi una dialettica sociale che abbia la f u n ­ zione di determinare quella necessaria contrapposi­ zione tra le classi sociali, i gruppi politici, le diverse culture, da cui poi possano emergere delle sintesi in cui trovino la loro composizione le diverse istanze po­ ste dalla conflittualità politico - sociale. Alla dialet­ tica sociale si è sostituito uno stato di conflittualità permanente all’interno dell’economia di mercato, che scaturisce dalla concorrenza selvaggia, dalle ten­ sioni sociali senza soluzione, dalle guerre infinite per l’appropriazione delle risorse. Nella realtà odierna, è tuttavia impensabile una dialettica conflittuale tra le classi, perché, mentre le élites della “Global Class” hanno creato un modello economico - sociale strutturato in funzione del proprio unilaterale ed oligarchico dominio sull’economia e sulla finanza, la “Pauper Class” è u n ’entità indefinita, un fenomeno non originario, ma derivato dalla dissoluzione delle vecchie classi sociali, dalla marginalizzazione pro­ gressiva di grossa parte della popolazione attiva. La mancanza d i conflittualità sociale è dovuta proprio alla indefinibilità degli interessi e dei valori comuni delle classi subalterne che possono essere identificate solo nella lorofuoriuscita dal mondo economico, dalla loro frantum azione sociale e dalla loro emarginazio­ ne politica.

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Il capitalismo è una totalità processuale in pie­ no svolgimento, ed essendo una totalità processuale in pieno svolgimento non è scientificamente conoscibile, almeno secondo i criteri della scienza moderna. Nella terminologia della filosofia di Kant, il capitalismo è assi­ milabile ad una Cosa in Sé, cioè ad un Pensabile ma non Conoscibile. Ciò che è scientificamente conoscibile deve poter essere determinato in uno spazio ed in un tempo, ed il prolungamento nel futuro può soltanto essere fat­ to in base al presupposto della cosiddetta “uniformità della natura” (Stuart Mill). Ad esempio, noi possiamo scientificamente prevedere le eclissi di luna e di sole an­ che fra alcuni secoli, ma possiamo farlo soltanto con il presupposto della stabilità omogenea ed uniforme dello spazio e del tempo. Già la teoria detta del Big Bang non è affatto scientificamente sicura al cento per cento, ed infatti ci sono fisici e cosmologi che non la condivido­ no assolutamente. Il futuro processuale del capitalismo inteso come totalità dinamica in svolgimento non è per nulla prevedibile, ed è per questo che ho sempre definito il marxismo un utopismo scientifico, perché è una utopia positivistica e deterministica pensare di poter determi­ nare scientificamente il futuro di una totalità dinamica in pieno svolgimento. Fatta questa necessaria premessa, tu avanzi una ipotesi degna di essere presa in considerazione. In primo luogo, utilizzi il concetto darwiniano di adattabilità (fitness), per cui la vittoria del capitalismo nel recente passato storico è interpretata non tanto come semplice capacità di favo­ rire lo sviluppo delle forze produttive (secondo il criterio tradizionalmente accettato dai marxisti, sia ortodossi che eretici), ma come adattabilità darwiniana all’ambiente storico e sociale circostante. In secondo luogo, ipotizzi che l’attuale capitalismo neoliberale globalizzato stia perden­ do questa adattabilità, diventando paradossalmente sem­

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pre più “ideologico”, e ripetendo cosi gli errori dei suoi due grandi avversari storici novecenteschi, il fascismo ed il comuniSmo. Vale quindi la pena cercare di sviluppare e di discutere l’ipotesi che tu proponi. Dal momento che il capitalismo non è una cosa, ma un rapporto sociale di produzione (qui sta la relativa superiorità di Marx su Heidegger), la sua forza è diret­ tamente proporzionale alla debolezza dei suoi possibili avversari strategici. Se è vera, ammesso che sia vera, la trasformazione del proletariato storico in Pauper Class (secondo l’ipotesi proposta da me e da Orso, che non è ideologica ma soltanto sociologica - e vorrei sinceramen­ te che fosse falsa, ma penso purtroppo che sia vera), allora non siamo tanto di fronte ad una ideologizzazione “rigi­ da” del capitalismo (come tu sembri ipotizzare), ma ad una situazione storica e sociale temporanea (temporaneità che può durare anni, decenni o secoli, il futuro è impreve­ dibile), in cui il capitalismo si sviluppa unicamente come rete concorrenziale di diverse unità capitalistiche in reci­ proco conflitto strategico (secondo l’ipotesi di Gianfran­ co La Grassa), restando invece del tutto latente, virtuale ed ineffettuabile la lotta di classe. Sul piano storico, non considero le pur benemerite lotte sindacali vere lotte di classe, perché esse sono del tutto interne e “sistemiche” alla riproduzione del modo di produzione capitalistico. Andando contro la tradizione marxista, considero “lotta di classe” soltanto quel tipo di lotta strategica che met­ te realmente in discussione la riproduzione “modale” del capitalismo. So che questo mi farà diventare ancora più antipatico di quanto già lo sia ai “sinistri” di ogni tipo, ma ritengo che è giunta l’ora di smetterla di “raccontarci delle storie” (Althusser). La vera novità storica di questo ultimo ventennio è l’entrata nel mondo della concorrenza strategica dei capi­ tali indiani, cinesi, turchi, brasiliani, eccetera. Credo che

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la rigidità ideologica neoliberale, che tu correttamente rilevi, sia soltanto la ricaduta sovrastrutturale di queste novità, da cui derivano fenomeni del tutto secondari come il conflitto fra Marchionne e la Fiom di Pomigliano. Come cercherò di chiarire nella mia prossima quarta risposta, che considero la più importante di tutte, il pro­ blema sta nel capire se ed in che modo dalla Pauper Class possa scaturire l’insieme di soggettività politiche rivolu­ zionarie in grado di confrontarsi con il capitalismo in que­ sta terza fase “speculativa” del capitalismo. Questo non può essere oggetto di scienza, perché è imprevedibile, ma solo di filosofia, nel senso di una filosofia della prassi basa­ ta su di una ontologia dell’essere sociale. E tuttavia, qual­ cosa si può pur sempre dire, anche se bisogna abbandonare l’idea della prevedibilità del futuro, su cui si è mosso per due secoli il pensiero anticapitalistico. In primo luogo, bisogna separare decisamente i con­ cetti di progresso e di emancipazione, che la tradizione marxista ci consegna unificati, e che invece non sono af­ fatto unificati, e soprattutto non sono unificabili, né teo­ ricamente né praticamente. Il concetto di progresso deve essere cortesemente archiviato, mentre quello di emanci­ pazione deve essere invece messo al centro. Ma spieghia­ moci meglio. Il concetto di progresso nasce nel settecento borghese europeo, e prima non c’era. Tutti i tentativi di “retroda­ tarlo” all’antichità classica, al medioevo ed al rinascimen­ to sono scorretti, perché individuano concetti di generica possibilità di miglioramento delle condizioni sociali o programmi di perfezionamento spirituale dell’uomo che non corrispondono affatto al concetto settecentesco di progresso. Il concetto di progresso è il fondamento ideolo­ gico di legittimazione della borghesia settecentesca, per­ ché sottrae la sovranità sulla totalità temporale alla prece­ dente sovranità religiosa, i cui apparati teologici si erano

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schierati dalla parte della riproduzione signorile e tardofeudale. Più esattamente, il concetto di progresso storico è estrapolato da un fatto materiale, il progressivo perfezio­ namento degli strumenti tecnologici di conoscenza della natura astronomica, fisica, chimica, geologica e biologica. Questo perfezionamento è per sua propria natura poten­ zialmente infinito, perché non esiste e non può esistere lo strumento “definitivo”. Questo carattere potenzialmente infinito del perfezionamento dello strumento tecnologico è estrapolato nel campo umano e sociale, e Kant ne è il maggiore e migliore interprete filosofico. Il concetto di emancipazione non è invece di origine illuministica (se non in forme ancora non sistematizzate), ma è di origine idealistica, e trova nell’idealismo di Fichte la sua prima forma compiuta. L’emancipazione non è in alcun modo un progresso potenzialmente infinito estra­ polato dall’infinito perfezionamento degli strumenti di ricerca, ma un rapporto fra l’Io (metafora ideale dell’intera umanità concepita come un solo soggetto storico emanci­ patore attivo) ed il Non-Io (metafora dell’insieme di re­ sistenze che si oppongono storicamente e socialmente al processo emancipatore). Qui —come è chiaro —non c’è più nessuna metafora del progressivo perfezionamento degli strumenti, ma il solo riconoscimento della prassi emancipativa umana. In secondo luogo (e questo secondo aspetto è anco­ ra più importante del primo) bisogna diagnosticare con precisione l’origine di quella posizione patologica che pretende di dominare la conoscibilità del futuro. Qui la confusione regna in genere sovrana, perché nella tribù dei filosofi universitari politicamente corretti domina la teoria per cui la cosiddetta grande narrazione marxista (da superare secondo Habermas con un pensiero decisa­ mente postmetafisico: traduzione, capitalistico) non sa­ rebbe che una secolarizzazione della vecchia escatologia

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ebraico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica moderna. Una sorta di Apocalisse di Giovanni, in cui però Giovanni, avendo imparato l’inglese, ha potuto leg­ gere Smith e Ricardo. Si tratta di pompose sciocchezze. La pretesa di cono­ scere il futuro non ha alcun carattere escatologico-apocalittico, ma deriva dallo sviluppo unilaterale del concetto di capitalismo come “spazio uniforme” allo spazio del­ la natura. E cosi come le eclissi si possono prevedere (in nome della uniformità dello spazio-tempo prevedibile), nello stesso modo il futuro storico può essere previsto, sulla base della quantificazione e della matematizzazione delle grandezze sociali. Ma le sole grandezze sociali quantificabili e matematizzabili sono quelle puramente economiche, sulla base del concetto di valore economico come tempo di lavoro sociale medio incorporato nel be­ ne-merce. Lo spazio sociale prolungato nel futuro diventa cosi effettivamente uno spazio prevedibile, ma soltanto se esso viene ferreamente limitato alla dimensione economi­ ca dello scambio delle merci. Chi capisce questo (ma non facciamoci illusioni - l’in­ tera comunità universitaria rema contro) capisce che la pretesa di conoscere il futuro del capitalismo come se fosse un oggetto scientifico non trova affatto la sua radice nel pensiero greco, nella escatologia cristiana o nell’idealismo tedesco di Fichte e di Hegel (i confusionari postmoderni sono particolarmente attaccati a questa ultima versione), ma trova la sua origine in una estrapolazione economici­ stica della futurizzazione del tempo storico, sorta all’in­ terno dell’economia politica inglese e poi generalizzata dal positivismo e dal suo grillo parlante, il neokantismo universitario arrogantemente “post-metafisico”. Poveri noi!

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U

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n c a p it a l is m o s e n z a u m a n e s im o : è d u n q u e g iu n t a la

SUA fase t e r m in a l e ?

4) Dalle precedenti considerazioni emerge chiaramen­ te che è in atto attualm ente un processo d i progres­ siva estraniazione del capitalismo dalla realtà sto­ rica presente. Il capitalismo globale, che ha la sua espressione politica originaria nella superpotenza statunitense, si afferma come uno stato d i fa tto com­ piuto in se stesso: è un fenomeno imposto dalla sua logica di dominio economica e politica incontrasta­ ta. La sua fuoriuscita dalla storia è delineata dalla progressiva smaterializzazione dell’economia stes­ sa: al declino dell’economia produttiva f a riscontro l’avvento della finanza virtuale, al potere derivante dal possesso dei mezzi di produzione si è sostituito il potere sulla conoscenza e sull’informazione. In una società dominata da rapporti sociali im prontati alla logica economicista del mercato, si può constata­ re solo l’assenza di ogni form a d i progettualità che implichi trasformazioni politiche e nuovi e diversi modelli di sviluppo. Le stesse crisi economiche non possono essere superate da un capitalismo ormai in ­ capace di progettualità ed evoluzione: esso non è in grado di mettere in dubbio sé stesso e i propri dogmi economici e politici. La storia non può essere ridot­ ta ad un divenire interno alle strategie economiche. Paradossalmente, il concetto di “fine della storia” espresso da P ukujam a rivelerebbe una sua credi­ bilità, se riferito al fenomeno capitalista del X X I ° secolo, data la sua incapacità di ulteriori evoluzioni. In tale contesto viene meno la stessa concezione del progresso, che è stata l’idea trainante dello sviluppo capitalista. Costatiamo dunque come il fenomeno capitalista abbia condotto alla completa oggettiva-

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zione dell’uomo nei processi economici, in tma fase storica in cui la logica dello scambio ha prodotto un tipo umano espropriato della coscienza di sé stesso e del senso della sua esistenza nel divenire storico. In questo processo di alienazione globale dell’uomo nell’oggettività immanente, possiamo dunque scor­ gere i sintomi di una crisi sistemica involutiva del fenomeno capitalista, che, spogliandosi di ogni con­ tenuto umanistico, è giunto probabilmente alla fase terminale della sua parabola epocale. Vorrei partire dalla formulazione con cui tu concludi la tua quarta ed ultima domanda, per cui “il fenomeno capitalistico, spogliandosi di ogni contenuto umanistico, è giunto probabilmente alla fase terminale della sua para­ bola epocale”. Questa mia quarta risposta sarà allora uno sviluppo dialogico di questa tua affermazione. In primo luogo, bisogna capire se si tratta di un auspi­ cio, oppure di una diagnosi, o detto altrimenti di un au­ spicio soggettivo o di una diagnosi oggettiva. Entrambe le cose, ovviamente, ma è comunque bene disarticolare la formulazione. Se si tratta di un auspicio soggettivo, lo condivido interamente, e la nostra differenziata provenienza ideologico-politica mostra alla luce del giorno che oggi (2010) la dicotomia Destra/Sinistra è una pura semplice prote­ si di manipolazione politica volta a rinfocolare identità ed appartenenze ormai più tribali che politiche in senso greco-classico, mentre il solo fattore che conta è l’appro­ do culturale ad un comune giudizio critico sul capita­ lismo neoliberale globalizzato di oggi. Apprezzo anche il tuo riferimento ai valori umanistici. Ho messo infatti molto tempo (forse troppo) per capire che la critica strutturalistica all’umanesimo, in parte giustificata sul piano strettamente epistemologico, era però totalmente fuori

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bersaglio sul piano filosofico. Io mi considero oggi un umanista filosofico, e credo di esserlo tanto più quanto più ho metabolizzato interamente le tesi dell’anti-umanesimo filosofico, che ho conosciuto in gioven tù al livello più alto di sistematizzazione (Heidegger, Althusser, Fou­ cault, ecc.). La consuetudine amicale con persone come te e come Luca Grecchi mi ha molto aiutato, e non vi sarò mai grato abbastanza. Siamo però sempre a livello dell’auspicio, non ancora di una diagnosi e di una prognosi. Dal momento che verso il capitalismo ho un approccio dialettico, considerandolo in termini di unità di emancipazione e di alienazione, il problema si riduce allora a diagnosticare quando gli aspet­ ti emancipativi si riducono fino ad annullarsi e quando gli aspetti alienanti diventano dominanti. Ho già rilevato in una precedente risposta, ed ora lo ribadisco con forza, che oggi gli aspetti alienanti sono passati in primo piano, sia verso gli equilibri ambientali del pianeta sia verso la stes­ sa conservazione degli elementi minimi della tradizione culturale, artistica e religiosa dei popoli e degli indivi­ dui. E duncjue, se si parla di auspicio, sono diventato un anticapitalista radicale, e tanto più radicale quanto più mi sono liberato degli elementi del positivismo scientifico della vecchia sinistra e degli elementi dell’individualismo anomico ed anarchico della nuova sinistra. Passiamo invece alla prognosi. Già nella precedente terza risposta ho fatto notare che il futuro è assolutamen­ te imprevedibile, e che l’ipotesi della sua prevedibilità è stata costruita sulla base erronea dell’assimilazione del­ lo spazio-tempo storico allo spazio-tempo fisico, per cui da questa inesistente omogeneità era estrapolata la pre­ tesa della prevedibilità degli eventi futuri pensati come eventi naturali. Gran parte del marxismo (se non tutto) è da mettere agli archivi, perché in esso l’anticapitalismo morale è fondato sulla previsione scientifica degli esiti so-

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cialisti, comunisti o almeno comunitari del capitalismo. Non è cosi, ed è meglio smettere di perdere tempo per farsi “accreditare” da parte di chi pensa in questo modo. In fondo, nessun astronomo serio perderebbe tempo a far­ si accreditare presso sostenitori del geocentrismo o della terra piatta. Da studioso della storia del marxismo, mi sono inevitabilmente occupato della teoria del cosiddetto “crollo del capitalismo”, teoria infinitamente più debo­ le di tutte le cosmologie Maya. Non voglio in proposito proporre un paragone fra gli economisti neoliberali ed i teologi bizantini, perchè rispetto troppo i teologi bizanti­ ni per offenderli con questa comparazione. Cerchiamo eli impostare correttamente il problema, partendo con il piede giusto. Si tratta di distinguere a pro­ posito del capitalismo fra livello logico (più esattamente, logico-ontologico) e livello storico (più esattamente, sto­ rico-economico). I due livelli non si sovrappongono, e la loro eventuale errata sovrapposizione da luogo appunto a quella costellazione chiamata “storicismo”, il cui raddop­ piamento inevitabile è allora l’economicismo (la storia del futuro, infatti, viene “prevista” in base alle estrapolazioni delle tendenze prevedibili delle quantità economiche). In termini più semplici e comprensibili, bisogna distingue­ re fra periodizzazione logica e periodizzazione storica del capitalismo, e comprendere che la periodizzazione logica non si sovrappone alla periodizzazione storica. Ma cer­ chiamo di scendere brevemente nel merito. A proposito della periodizzazione logica del capitali­ smo, credo che l’approccio più utile, fecondo e ricco di effetti secondari di conoscenza sia quella dialettica ricava­ ta dalla logica di Hegel, per cui il capitalismo si svilup­ pa secondo un ritmo triadico da una prima fase “astratta” ad una seconda fase “dialettica” ad una terza fase “specu­ lativa”. Non ho qui purtroppo lo spazio sufficiente per dettagliare in modo articolato questa periodizzazione, ma

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l’ho fatto altrove con dovizia di argomentazioni storiche e filosofiche. I manuali di storia e di storia della filosofia non ci aiutano per nulla in questa comprensione, pur essendo ovviamente ricchi di informazioni e di dettagli, e bisogna quindi integralmente riscriverli dalle fondamenta. Così come sono sono infatti inutilizzabili, e non permettono quel riorientamento gestaltico che fa da premessa indi­ spensabile per la ricostruzione di una catena metafisica alternativa del passato, sia storico che filosofico. Per ora basti dire che in questa mia periodizzazione logica del ca­ pitalismo sono arrivato alla (sempre fallibile e rivedibile, in presenza di argomenti consistenti) conclusione per cui abbiamo da poco superato a livello mondiale la fase dia­ lettica del capitalismo (caratterizzata da dicotomie come Progresso/Conservazione, Destra/Sinistra, Fascismo/Antifascismo, Comunismo/Anticomunismo, Laicismo/Religione, Occidente/Oriente, ecc.), e siamo entrati in una incipiente fase speculativa, in cui ormai il capitalismo frammenta l’intero genere umano in pulviscolo di atomi di consumo sradicati da ogni identità che non sia l’acces­ so a consumo stesso, e quindi la merce pura si specchia ormai in uno specchio (speculimi). Alla luce di questa pe­ riodizzazione logica il capitalismo è effettivamente ormai giunto al suo “ultimo stadio”, perché logicamente non è ipotizzabile nessun suo stadio ulteriore. Ma, attenzione, la periodizzazione logica non coincide, e quindi non deve essere sovrapposta, alla sua periodiz­ zazione storica. La periodizzazione storica non consente infatti ultimi stadi di nessun tipo, in quanto la storia si svolge in modo del tutto imprevedibile, anche se è un errore ribattezzare questa imprevedibilità in termini di “alcatorietà”, secondo la moda catastrofica dell’ultimo althusserismo (in proposito La Grassa ha scritto nero su bianco che a questo punto l’avvento del comuniSmo è as­ similabile nella sua alcatorietà alla caduta di un meteori-

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te). Chi ha un pensiero dialettico (e quindi, non certo gli althusseriani) non deve stupirsi: l’aleatorietà è sempre e dovunque il grado supremo del determinismo, e l’esito obbligato di ogni tentativo di previsione necessaristica del futuro storico. La periodizzazione storica, quindi, non segue nessu­ na logica triadica (astratto-dialettico-speculativo), e nello stesso tempo non è il regno dell’arbitrio e della casualità assoluta. In questo senso, La Grassa ha le sue ragioni nel parlare di ricorsività storica, anche se ovviamente nessun “ricorso” è mai eguale al “ricorso” precedente. Se ci si li­ mita infatti alla riproposizione della benemerita teoria di Vico dei corsi e dei ricorsi storici si può cadere in quel fa­ tale errore che definirò in termini di “incantesimo dell’a­ nalogia”. Marx, ad esempio, sulla base proprio dell’in­ cantesimo dell’analogia partì dalla palese incapacità delle classi feudali europee a sviluppare le forze produttive e ne dedusse che anche la borghesia capitalistica sarebbe incor­ sa in questa analoga incapacità. Ma si trattò di un errore, proprio sulla base dell’incantesimo dell’analogia. Il capi­ talismo è invece capacissimo di sviluppare le forze pro­ duttive in modo infinito ed indeterminato (l’apeiron di Anassimandro), non ha razionalità (logos), non ha misura (metron), non ha freno (katechon), e per questa ragione l’antica filosofia greca è oggi mille volte potenzialmente più anticapitalistica di cento e cinquanta anni di cosiddet­ to “marxismo”, un positivismo di sinistra a base gnoseo­ logica neokantiana che ha come suo povero fondamento metafisico un’ideologia del progresso illimitato estrapo­ lata dal perfezionamento potenzialmente illimitato degli strumenti di misura. In che modo può allora articolarsi la periodizzazione storica del capitalismo sulla sua inevitabile periodizza­ zione logica? Qui sta il problema, dal momento che esse non possono essere come la res cogitans e la res extensa in

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Cartesio, che non hanno alcun punto di tangenza e che solo Dio può unire e connettere. È questo il problema fon­ damentale per una teoria del capitalismo oggi. Io riten­ go di averla correttamente impostata, ma non sono tanto presuntuoso da pensare di averla risolta. Ma la risoluzione verrà da uno sforzo collettivo e comune, di cui (il futuro è imprevedibile) non possiamo avere conoscenza, tantome­ no “scientifica”. E tuttavia, non partiamo da zero.

L’eclissi della dialettica e le nuove co n flittu alità d ella storia

Le id e o l o g ie

n o v e c e n t e sc h e d in a n z i a l pr e se n t e

STORICO CAPITALISTA

1) La crisi economica e politica del mondo occidentale non sembra offrire soluzioni a breve o medio term i­ ne, perché non emergono nuovi equilibri economici e politici che possano sostituire l’ordine mondiale instaurato dal prim ato americano. La pecidiarità di questa crisi è quella d i un sistema liberista globale, che sopravvive alle proprie crisi in assenza di dissenso. N ell’am bito dell’attuale quadro poli­ tico — istituzionale liberal democratico, si verifica Valternanza tra destra e sinistra, nell’ambito di im a perfetta continuità delle impostazioni di ca­ rattere politico ed economico dì fondo: abolizione progressiva del welfare, tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, riduzione della sovranità del­ lo Stato, condivisione delle strategie geopolitiche americane. Le opposizioni a l sistema sono assai m arginali e legate alle ideologie identitarie nove­ centesche (fascismo, comuniSmo). In realtà le m oti­ vazioni ideologiche, seppur legittim e e convincen­ ti sid piano della critica, sono legate a condizioni storiche ormai superate, conducono cioè a soluzioni im praticabili nella società del X X I ° secolo, oltre a d essersi dimostrate fa llim en ta ri già nel secolo scorso per quanto concerne il superamento del si­ stema capitalista. N e l campo politico e culturale le vecchie ideologie sono oggi autoreferenti, non idonee q u in d i a confrontarsi con una realtà sto­ rica il cui sviluppo è ormai estraneo a d esse. Tut-

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tavia, la globalizzazione liberista si è afferm ata come fenomeno totalizzante, anche in conseguen­ za della assenza d i una critica interna alla stessa ideologia liberale, che svolga una analisi critica della realtà storica attuale sulla base degli stessi presupposti ed obiettivi della società globalizza­ ta. Occorrerebbe q u in d i considerare se l’economia globalizzata, orinai libera dagli ostacoli politici ed ideologici, abbia prodotto sviluppo, occupazione, miglioramento delle condizioni socio economiche delle masse. Emergerebbe allora il sostanziale re­ gresso economico e sociale dell’occidente, cui f a ri­ scontro lo sfruttam ento indiscrim inato delle risorse m ateriali ed um ane del terzo mondo, oltre a i danni prodotti dal livellamento culturale scaturito da un economicismo pervasivo che annulla ogni identità comunitaria. Occorrerebbe inoltre considerare se la diffusione / imposizione a livello globale dei d iritti u m a n i possa aver condotto all’espandersi delle li­ bertà individuali. D all’analisi della realtà storica attuale emerge invece la abrogazione progressiva dei d ir itti sociali, specialmente in m ateria sicu­ rezza e stabilità del lavoro, di assistenza e previ­ denza. ha società liberale dovrebbe offrire maggio­ r i opportunità d i lavoro, emancipazione sociale e ricambio continuo delle classi dirigenti. Inattuale società liberal democratica è caratterizzata invece dalla assenza d i mobilità sociale, dalla stratifica­ zione elitaria delle classi sociali (capitalismo fetidale).Per tornare all’Italia, gli abnorm i compensi percepiti dai manager (vedi Marchionne), vengono criticati solo dal punto di vista pseudo —etico (con annessa demagogia fondata sull’invidia), ma non si considera (proprio dal punto d i vista liberale), quale ricaduta questi fo lli investim enti nel mena-

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gem ent possano produrre in tema d i sviluppo, cre­ scita economica, redistribuzione del reddito. Nes­ suna, in quanto l’economia finanziaria può solo produrre profitti per le élites, liquidando strutture produttive e falcidiando l’occupazione. Il panora­ ma politico attuale è sconcertante: né i liberali, né le minoranze ideologiche sono in grado di analiz­ zare compiutamente le contraddizioni interne e, oserei dire genetiche, della globalizzazione. Tu affermi in conclusione: “Nè i liberali, né le mino­ ranze ideologiche (fascisti e comunisti) sono in grado di analizzarle compiutamente le contraddizioni interne, e oserei dire genetiche, della globalizzazione". Sono pie­ namente d ’accordo, e quindi ho la strada spianata per analizzare quanto tu suggerisci. Il minimo comun deno­ minatore di queste tre posizioni (liberalismo, fascismo, comuniSmo) sta nel fatto che tutte e tre si sono sviluppa­ te sul comune fondamento dell’ideologia del progresso (inevitabile accompagnamento simbolico del passaggio storico in Europa dalla società feudale-signorile alla so­ cietà borghese capitalista) e sul dato della sovranità mo­ netaria dello stato nazionale moderno, con conseguente almeno parziale sovranità della politica sull’economia (presupposto della dicotomia funzionale Destra/Sinistra e della politica economica governativa indipendente, da Colbert a Keynes). Venuti meno questi due presuppo­ sti, tutte e tre le posizioni perdono ogni fondamento, e devono essere reimposte artificialmente e fragilmente dai tre apparati ideologici della riproduzione capitali­ stica globalizzata (ceto politico, circo mediatico e clero universitario-il primo è il più squallido e corrompibile, il secondo è il più sfacciato e cialtrone, il terzo è il più presuntuoso ed arrogante). Ognuna di esse, però, presen­ ta patologie differenziate.

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II liberalismo moderno si è costruito sulla base del fondamento della sovranità dell’individuo moderno, e cioè di un individuo programmaticamente separato (“robinsoniano”, diceva correttamente Marx) dalle co­ munità precedenti, a loro volta molto differenziate geo­ graficamente (feudali e signorili in Europa e Giappone, dispotico-gerarchiche in Cina ed India, comunisticoprimitive in Africa, eccetera). La sovranità economica presupponeva ovviamente una sovranità politica (stato rappresentativo costituzionale) ed una sovranità religio­ sa e filosofica (tolleranza religiosa, autonomia del dibat­ tito filosofico dal controllo chiesastico, eccetera). Questo non solo non coincideva con la democrazia (sovranità popolare, suffragio universale, partiti politici, eccete­ ra), ma anzi la escludeva espressamente. Solo quando le grandi masse furono neutralizzate ed incorporate nella riproduzione capitalistica la “democrazia” potè essere concessa. Si usa dire nei libri di storia che la democrazia non fu mai “concessa”, ma fu ottenuta con terribili lot­ te. Non sono d’accordo. Senza rivoluzioni, il capitalismo nella sua ferrea logica riproduttiva non concede nulla, di là di quanto può funzionalizzare e rendere innocuo e compatibile. Mano a mano che la sovranità originaria dell’indi­ viduo, effettivamente esistente nell’epoca storica della prima accumulazione capitalistica e dell’espansione colonialisitica, veniva svuotata ed annullata dall’anonimo dominio impersonale dei cosiddetti “mercati”, la nuova divinità idolatrica che aveva sostituito la ben migliore divinità monoteistica precedente il liberalismo soprav­ viveva soltanto più in modo fantasmatico in una esisten­ za da “zombie” (personalmente, faccio risalire a questo fatto simbolico la centralità del vampiro nell’immaginario giovanile e cinematografico contemporaneo). Le due fasi ideologiche progressive di questa sopravvivenza

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da zombie (in mancanza della sovranità dell' individuo) sono state prima la lotta contro le dittature totalitarie gemelle (fascismo-comunismo) e poi la lotta per impor­ re i cosiddetti “diritti umani”, con l’uso incrociato dei bombardamenti, dei corpi di spedizione e delle ON G di mascalzoni e finti pacifisti. Ma su questo mi soffermerò maggiormente nella prossima risposta. Per ora basta ed avanza quello che ho rilevato sullo svuotamento integra­ le del presupposto storico-sociale del liberalismo. A proposito dell’identità fascista (che pure non è mai esistita in forma unitaria) sempre più appare chiaro che essa è stata un “incidente di percorso” della storia del No­ vecento, dovuta alla congiuntura specifica della Grande Guerra 1914-1918, e che non ha mai avuto una vera e propria portata mondiale (non hanno infatti avuto nulla a che fare con il “fascismo” propriamente detto le ditta­ ture latino-americane, il populismo arabo, eccetera). Per questa ragione il successivo ed ossessivo “antifascismo in assenza integrale di fascismo”, peste ideologica dell’Italia dopo il 1945 è sempre e soltanto stato una “ideologia di diversione” il cui unico scopo era appunto quello di impe­ dire, di individuare, nominare e concettualizzare le nuove contraddizioni storiche. Nella mia vita precedente al 1999 (guerra dalemiano-USA alla Jugoslavia) di “intellettuale di sinistra” mi hanno ingozzato di antifascismo ossessivo come si ingozzano le oche all’ingrasso, e per questa ragione la storiografia sul fascismo 1919-1945 mi è venuta a noia specialmente di fronte a fenomeni immensamente più interessanti come le origini dell’ebraismo, del cristiane­ simo o dell’Islam o gli affascinanti Ittiti e Sumeri. In genere si afferma che il fascismo è stato originato dalla paura del bolscevismo e della rivoluzione salariata, ope­ raia e proletaria. Non nego che questo fattore possa esse­ re anche esistito (Italia 1922, Germania 1933, eccetera),

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ma lo ritengo secondario. Il fattore principale non è però stato anti-proletario, ma anti-liberale, in quanto i ceti medi si sono spaventati di fronte all’indebolimento dello stato rispetto al mercato mondiale (situazione peraltro vagamente simile a quella odierna, da cui l’esorcizzazione isterica del cosi detto “populismo” da parte de­ gli apparati ideologici della globalizzazione finanziaria neoliberale). E si veda l’importanza di personaggi come Giovanni Gentile ed Ugo Spirito, del tutto privi di odio anti-proletario. Deve però far riflettere il fatto che ben presto il fascismo individuò il nemico principale non nel liberalismo ma nel socialismo, e dopo il 1945 il neofa­ scismo diventò la polizia militare del capitalismo ameri­ cano e dei suoi servizi segreti. In questo senso Fini non è affatto un “traditore” (lasciamolo berciare a Storace o alla “vajassa” Mussolini), ma si situa in una perfetta conti­ nuità con la scelta strategica dei dirigenti nel MSI dopo il 1945. Sembra che lo abbiano capito tutti, al di fuori forse solo di Marco Tarchi. Le cose sono più complesse per la terza identità, quella comunista. In Italia il fatto che essa si sia “sciol­ ta” all’interno del solvente antifascista è certo stato un fattore di dissoluzione, perché l’antifascismo è sempre e soltanto un liberalismo borghese-capitalistico di “si­ nistra”. Su questo punto il vecchio Amadeo Bordiga ha sempre capito l’essenziale, a differenza di confusionari cronici come Ingrao o la Rossanda. Ha giocato un ruolo anche la natura nichilistica dello storicismo progressistico, secondo l’insuperata diagnosi filosofica di Augu­ sto Del Noce. Su queste basi, il passaggio da Antonio Gramsci a Norberto Bobbio era in effetti inevitabile. Ma il vero crollo è stato dovuto al venir meno dei due fondamenti fallaci della filosofia comunista della storia, l’inesistente carattere rivoluzionario inter-modale della mitica classe operaia, salariata e proletaria e l’inesistente

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presunta incapacità del sistema capitalistico di svilup­ pare le forze produttive industriali e sociali. Su questa base era ovviamente del tutto impossibile comprendere la natura delle nuove contraddizioni della globalizzazio­ ne, ed era ora inevitabile che si creassero bacini residuali di “guardie plebee” ideologizzate urlanti dei neoliberali di destra di Fini (Rauti, Storace eccetera) e dei neolibe­ rali di sinistra di D ’Alema (Bertinotti, Vendola, eccete­ ra). Questa non è però più tragedia greca, ma solo teatro dei pupi siciliano. E dunque triste, ma anche del tutto normale, che le contraddizioni interne della globalizzazione non pos­ sano essere non dico capite, ma anche solo nominate, verbalizzate e concettualizzate dai due ceti intellettuali parassitari degli apparati mediatico-universitari. In essi la componente fascista è pressoché introvabile, data la demonizzazione del politicamente corretto, mentre la componente liberale sfiora il novanta per cento e quella comunista il dieci per cento (giudico per così dire “a occhio”, ma forse il rapporto è addirittura del novantotto a due, essendo molti “comunisti” di tipo vendoliano semplici intellettuali liberali snob di sinistra). Si illude chi pensa che si debba aspettare che una nuova teoria completa e compiuta debba essere elaborata prima che si possa anche solo iniziare, una efficace prassi trasformatrice rivoluzionaria. Questa teoria, se verrà (ed io sono sicuro che verrà, sulla base non certo di inesi­ stenti “m oltitudini”, ma della mille volte più esistente natura umana come fattore di resistenza all’alienazio­ ne), verrà “in corso d’opera”, come è del resto sempre sistematicamente successo nella storia precedente. Sono pressoché sicuro che elementi delle vecchie tradizioni politico-culturali di destra e di sinistra ritorneranno in forma nuova ed anche apparentemente irriconoscibili, ma mescolati fra loro al punto di non poterli neppure

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distinguere. Si illudono invero coloro che pensano di po­ ter “rilanciare” il liberalismo, “riproporre” il fascismo o “rifondare” il comuniSmo. La verità filosofica è eterna, ma la sua ricaduta ideologica- sociale è sempre solo tem­ poranea e congiurale. La sola cosa sicura che possiamo dire della globaliz­ zazione è che essa è un nemico irriducibile. Troppo poco per poter fondare una teoria positiva su di una sempli­ ce negazione. Assicuro il lettore critico e sospettoso di esserne perfettamente consapevole. Ma senza un No pre­ liminare ed originario non è neppure possibile dire i nu­ merosissimi Sì che dovremo dire. Soltanto i Sì peraltro, sono in grado di articolare e concretizzare una tattica ed una strategia. Questi Sì tardano dolorosamente a farsi strada, e non possiamo aspettare che ci dia il via nessun profeta religioso (Gesù o Maometto) o nessun legislato­ re filosofico-politico (Marx, Lenin, eccetera). A cavallo fra due epoche storiche, la nostra generazione è arriva­ ta troppo tardi per vivere le vecchie contraddizioni, e troppo presto per vivere quelle nuove. Di qui deriva la sensazione di smarrimento e confusione che ci circonda, ed in cui siamo noi stessi immersi e cui non possiamo purtroppo sottrarci.

D it t a t u r a d e i d ir it t i u m a n i e so lid a r ie tà c o m u n it a r ia

2) La globalizzazione ha determinato profondi m u­ ta m en ti culturali, anche in virtù del progresso tecnologico, che ha diffuso il cosmopolitismo, l’omo­ logazione generalizzata al sistema economico e po­ litico occidentale, consumismo di massa. 1 bisogni e la cultura dell’individualism o si sono imposti a discapito delle ideologie comunitarie. L’individuo dunque, secondo la vulgata globalista, è arbitro

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assoluto del proprio destino. L’individualism o ab­ bisogna dunque d i tutele giuridiche a sostegno del singolo individuo come elemento a se stante, estra­ neo alla comunità in cui vive. Anche il suo d irit­ to al dissenso allora, rim ane comunque garantito nella sfera individuale, suscettibile d i condivisio­ ne nell’ambito d i ta n ti in d ividualism i convergen­ ti, ma in ogni caso riconosciuto in quanto p e rti­ nente all’individuo. In realtà, l’assenza d i dissenso odierno ha la sua origine proprio nella miscono­ sciuta natura sociale dell’uomo. E in fa tti nel rap­ porto sociale tra in d iv id u i appartenenti alla stessa società in un dato periodo storico, che si creano e si rafforzano id entità sociali differenziate, in f u n ­ zione d i interessi comuni, di istanze culturali, d i una visione complessiva della struttura della so­ cietà attuale. La riproduzione sociale può generar­ si solo nell’am bito comunitario, in un am bito in cui prevale cioè un bene comune non identificabile con gli individui. Oggi, in questa struttura so­ cietaria antisociale, è impensabile il configurarsi di blocchi sociali contrapposti, data la fra m m e n ­ tazione atomistica scaturita dall’individualism o. L’affermazione univoca dei d iritti in d ivid u a li e la proliferazione d i leggi a loro tutela, ha porta­ to a l diffondersi d i una conflittualità esasperata tra individui, a danno d i quella solidarietà socia­ le costitutiva dell’identità comunitaria. Inoltre, i meccanismi a ttu a tiv i della tutela individuale, hanno prodotto tecniche d i controllo sociale tipiche d i una società totalitaria. La protesta è oggi lim i­ tata a m otivi “etici”, quali i d ir itti civili, il p a ­ cifismo, il fem m inism o, l’omosessualità: la libertà individuale è intesa come proprietà esclusiva della propria vita. L’attuale dissenso quindi, svolge una

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fu n zio n e di legittim azione etica dell’ordinamento liberal capitalista. In questa ottica, è il dissenso stesso ad offrire a l sistema nuove prospettive d i do­ m inio totalizzante. Durante la sanguinosa guerra civile americana (1861-1865) non era sempre possibile rinchiudere su­ bito i prigionieri dietro palizzate protette. Veniva allo­ ra tracciata sul terreno una linea la deadline (linea della morte), per cui se un prigioniero la sorpassava veniva ucciso immediatamente. Il teatro culturale del nostro tempo può essere interpretato con l’aiuto della metafora della deadline. È possibile dire quasi tutto in nome del principio liberale della libertà d’espressione, ma soltan­ to all’interno di un preventivo Giuramento di Fedel­ tà Occidentalistico (in acronimo GFO). Questo giura­ mento di fedeltà occidentalistico ha molte componenti, ma qui per brevità ne segnalo soltanto tre: la religione olocaustica di espiazione illim itata dell’Europa in cui un ingiustificabile male relativo a coloro che lo han­ no compiuto viene definito Male Assoluto, ed in questo modo sottratto a qualsiasi valutazione ed interpretazio­ ne storiografica alternativa (a differenza di Hiroshima, del genocidio degli armeni, eccetera); la condanna senza appello di tutte le dittature, sia pur distinte in dittatu­ re con attenuanti (Cuba, Venezuela, Cina eccetera) ed in dittature assolute senza attenuanti (Corea del Nord, Iran, Myanmar, eccetera) ove la concessione o meno di attenuanti è fluttuante, perchè è patrimonio arbitrario dell’impero USA, sacerdote della religione occidenta­ listica infine la religione dei D iritti Umani, nuova te­ ologia idolatrica che ha sostituito i vecchi monoteismi prescrittivi del tempo della morale borghese. Chi rifiuta il giuramento di fedeltà Occidentalistico non viene più ucciso (come ai tempi pittoreschi dei roghi medioevali

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o delle prigioni staliniane), ma viene escluso dalla co­ municazione del genere umano politicamente corretto, come se avesse sorpassato una invisibile deadline. Chi scrive l’ha sorpassata da tempo. Continua a far parte del genere umano, ma non più della comunità intellettuale legittim a politicamente corretta, non importa se catto­ lica o atea, religiosa o laica, di centro, di destra o di si­ nistra di sopra o di sotto. Qui, sotto lo stimolo della tua seconda domanda a proposito dell’individualismo pren­ derò in esame soltanto l’ideologia dei cosiddetti D iritti Umani. Per far capire subito quello che ne penso, dirò che si tratta dell’equivalente moderno (o più esattamen­ te post-moderno) del rogo degli eretici o dell’ ideologia hitleriana della razza. Mi rendo conto che tutto questo suona paradossale ed estremistico. Ma siccome lo penso veramente, sono costretto a spiegarne sommariamente le ragioni. Quando ci si trova di fronte ad un paradosso dialet­ tico, è necessaria una ricostruzione storica chiarificatri­ ce. Ed il paradosso dialettico sta in ciò, che una filosofia originariamente nobile ed umanistica come quella dei D iritti Naturali dell’Uomo in quanto tale (e non solo in quanto ateniese, spartano o persiano) è stata trasformata nel suo contrario, cioè nella ripugnante ideologia della generalizzazione dei cosiddetti Diritti umani, evidente involucro antropologico-sociale dell’Individuo omoge­ neizzato alla riproduzione della globalizzazione capitali­ stica di oggi. E allora necessaria una sommaria ricostru­ zione storica, in cui cercherò di ridurre al minimo tutti i tecnicismi filosofici specialistici. Nel mondo greco, matrice quasi esclusiva del mondo occidentale in cui viviamo, in assenza di una religione monoteistica rivelata in libri sacri da profeti fondatori, il riferimento alla natura come codice normativo della riproduzione della comunità era pressoché obbligato, e

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derivava da una “fessurazione” della precedente unità indistinguibile di macrocosmo naturale e di microco­ smo umano-sociale. In assenza di qualsiasi filosofia del­ la storia universale del genere umano (inevitabilmen­ te derivata da una teodicea monoteistica o da una sua successiva secolarizzazione razionalistica) il riferimento normativo alla natura era inevitabile per cui la “natura” aveva un carattere insieme ontologico ed assiologico (e cioè etico e morale), che rendeva del tutto impensabile, ed addirittura inimmaginabile, la successiva distinzio­ ne illuministica kantiana fra categorie dell’essere e ca­ tegorie del pensiero. La natura normativa del concetto di natura faceva sì che i primi filosofi (impropriamente definiti, “presocratici”) erano necessariamente legislato­ ri comunitari “ideali”, che potevano legittimarsi come “credibili” di fronte ai loro concittadini soltanto pre­ sentandosi come autorevoli interpreti della natura stessa (ed ecco perchè, da Talete ad Anassimandro, da Eraclito a Parmenide, eccetera, erano sempre invariabilmente au­ tori di poemi sulla natura, perìphyseos). La natura non era interrogata primariamente come oggetto astronomico, fisico, chimico e biologico (come credono gli ingenui, fuorviati e mal guidati studenti liceali), ma come mo­ dello normativo da “trasporre” metaforicamente (e del resto “metafora” significa in greco trasporto) nella legi­ slazione sociale. In quella prima fase la “natura dell’uomo” era quindi coincidente con la sua natura sociale, politica e comuni­ taria, ed era a tutti chiaro che l’individuo isolato dell’at­ tuale capitalismo non poteva esistere, e l’uomo isolato veniva connotato come una bestia o come un Dio. Lo stesso Socrate, del tutto ancora interno a questo mondo comunitario, individua l’oggetto esclusiva della filoso­ fia nel detto delfico “conosci te stesso” (gnothì s’eau tòri), da intendere non nel senso psicologico- individualistico,

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ma nel senso della conoscenza dell’individuo come essere comunitario. Nella successiva epoca ellenistico-romana la perdi­ ta della sovranità e della precedente comunità politica (polis) rese impossibile anche la stessa distinzione fra la normale “economia” intesa come riproduzione giu­ sta ed ordinata e la “crematistica” intesa come tecnica dell’arricchimento individuale. Occorre far notare che, sul piano dell’analogia storica, la perdita di sovranità politica della comunità antica presentava aspetti simili alla perdita di sovranità politico-monetaria dello stato nazionale moderno prima della attuale globalizzazione, per cui l’età ellenistico-romana può proficuamente es­ sere pensata come una sorta di proto-globalizzazione. Questo comporta necessariamente la produzione di un nuovo individuo astrattizzato, e astrattizzato in quanto privato della “concretizzazione” derivata dal suo prece­ dente inserimento in una comunità. Ma il pensiero el­ lenistico, a differenza dell’attuale e degenerato pensie­ ro postmoderno, manteneva ancora un rapporto con il concetto di natura come dato normativo sulla cui base pensare anche la condizione umana. Mentre il pensiero epicureo prendeva atto della fine della sovranità comu­ nitaria della politica ripiegando in una sorta di comu­ nità protetta in un giardino di amici, il pensiero stoico coniava per la prima volta il concetto di D iritti Umani dell’uomo inteso in senso cosmopolitico come cittadi­ no “astratto” del mondo senza confini e senza frontiere. Quanto questo universalismo sia poi passato al successi­ vo cristianesimo è oggetto di discussione. A mio avviso molto. Se il cristianesimo fosse soltanto l ’universalizzazione del monoteismo messianico ebraico rivelato non avrei per esso che disprezzo ed indifferenza, e condivi­ derei l’opinione di chi (Assman, de Benoist, eccetera) vi vede la radice della violenza e dell’intolleranza. Ma

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siccome ci vedo invece la prevalente natura di ricezione deH’umanesimo universalistico greco non posso fare a meno di nutrire per esso una certa simpatia (sia pure da non credente in nessun mondo ultraterreno), e per questo considero Ratzinger immensamente superiore non solo alla coppia sionista spiritata Bonino-Pannella ma anche ai disincantati atei positivisti Turchetto-Odifreddi. Ma facciamola corta. I successivi D iritti dell’uomo della rivoluzione francese del 1789 derivano ancora dal­ la precedente filosofia giusnaturalistica del Diritto Na­ turale, e pertanto mantengono ancora un rapporto, sia pur tenue, con il fondamento greco della natura umana come riflesso razionalizzato del presupposto dell’unità ontologica, e quindi anche e soprattutto assiologica, di macrocosmo naturale e di microcosmo sociale. Ma nel Settecento la nozione di natura umana viene reinterpre­ tata da Hume e Smith non più come base normativa per il Bene Comune (da Hume considerata in termini di me­ tafisica illusoria del tutto indimostrabile, per gli scettici l’unica realtà che sfugge allo scetticismo è il “dato” del­ la proprietà privata e dello scambio capitalistico delle merci). Ma come attitudine “naturale” degli esseri uma­ ni alla proprietà ed allo scambio, che in quanto tale è perfettamente autonoma ed autofondata, e non ha biso­ gno quindi di nessun fondamento religioso (esistenza di Dio), filosofico (riferimento ai diritti naturali dell’uomo) o politico (contratto sociale). E allora necessario impadronirsi concettualmente in modo sicuro della natura di questo passaggio dalla benefica filosofia dei diritti naturali dell’uomo (suppor­ to teorico del Bene Comune comunitario) alla malefica ideologia dei cosiddetti “diritti dell’uomo”, in cui pro­ priamente l ’Uomo non c’è più, ed è fatto sparire con la sua riduzione a supporto (Trdger) ed a “maschera di

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carattere” (Charaktermaske) di semplice portatore indif­ ferenziato dei rapporti di produzione e di scambio capi­ talistici. È questo l’uomo, che sta alla base dei cosiddetti D iritti Umani. Il carattere più sporco ed intollerabile di questa sudicia ideologia di esportazione imperiali­ stica sta proprio nella natura nobile della sua lontana origine, e la mia indignazione contro questa porcheria è simile all’indignazione che un vero cristiano proverebbe se vedesse la croce di Cristo essere usata come diretto strumento di tortura per estorcere informazioni su di un tesoro nascosto. Appare allora chiaro ciò che tu stesso avevi rilavato nella prima domanda, per cui l’agitare ideologico scom­ posto dei diritti umani come diritti del potenziale pro­ duttore-consumatore capitalistico globalizzato non si pone affatto come aggiuntivo e complementare all’espan­ sione progressiva dei diritti sociali e comunitari, ma anzi all’opposto si pone come vettore attivo della loro abroga­ zione. In sintesi, la sporca ideologia dei D iritti Umani, lungi dall’essere la benefica concretizzazione della nobile filosofia greca e poi cristiana dei diritti naturali dell’uo­ mo (e ciò che c’è di buono nel pensiero di Ratzinger è frutto esclusivo del riferimento, greco ed aristotelico, non certo del biblismo confindustriale di monsignor Ravasi e della pagina culturale domenicale del “Sole 24 Ore”), è solo, la protesi sovrastrutturale imperialistica dell’impe­ ro USA come unica forma di vita legittima da imporre a tutto in pianeta. Pensiamo alle motivazioni con cui e stato assegna­ to il premio Nobel per la pace del 2010 al dissiden­ te cinese Liu Xiao Bo. Il gran capo indiano della tribù USA Obama e gli intellettuali scandinavi servi di Oslo lo hanno premiato in quanto portatore e testimone di “valori universali”. Ora, il termine “universale” è mol­ to impegnativo. Io stesso sono un fautore dell’umver-

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salismo processuale dell’umanità, in quanto avversario del moderno codice teorico post-moderno, frutto di una sintesi di storicismo, sociologismo, relativismo e nichilismo. Ma l’Universale, se esiste (in forma ratzingeriana, spinoziana, hegeliana, marxiana e addirittura previana), è una cosa seria e non può essere subordina­ to agli interessi di una superpotenza cannibalica che ha cosparso il mondo di basi nucleari (che nella storia, ha già usato due bombe atomiche a soli tre giorni di di­ stanza). Bene, il signor Liu Xiao Bo (di cui non auspico affatto la punizione-personalmente, non godo mai del dolore di altri esseri umani) ha scritto un documento (politico e non filosofico) in cui auspica il trapianto in Cina di un sistema politico di tipo americano. Il suo primo effetto sarebbe (ormai, dopo il 1989 lo sappiamo bene) la perdita di ogni sovranità politica dello stato cinese sull’economia, e pertanto l’ulteriore approfondi­ mento (in Cina già scandaloso, per cui non mi faccio raccontare favole alla Domenico Losurdo sulla natura socialista della Cina di oggi) della forbice fra ricchi e poveri. Vuole questo il signor Liu Xiao Bo? Non lo so, non lo conosco personalmente. Ma siccome so invece che cosa accadrebbe se le sue oscene proposte politiche venissero accettate, so invece che i suoi “diritti umani” si accompagnerebbero all’ulteriore erosione di quanto resta dei diritti sociali in Cina. Oggi sappiamo, dove ha portato il berciare apparentemente “umanistico” dei Sacharov, dei Walesa e degli Havel. Ci vuole il dominio del momento politico su quello economico. I sostenitori dei diritti umani vogliono il contrario. Possono tenersi il loro falso “universalismo”. Si tratta dell’universalizzazione del capitalismo finanziario globalizzato. Non ci caschiamo più.

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L a d ic o t o m ia A m ic o / N em ic o d i C a e l S c h m it t NELLO “SCONTRO DI CIVILTÀ”

3) Non esiste dissenso senza contrapposizioni defi­ nite. Occorre in fa tti che si determinino posizioni differenziate d i schieramenti opposti riguardo ad un medesimo oggetto del contendere. Solo se esiste un potere, può costituirsi un contropotere. Solo se esiste lo Stato, può esistere antistato, se esiste la re­ ligione può esistere l’ateismo, se esiste la borghesia, esiste anche il proletariato. Oggi, è evidente a tu t­ ti la dissoluzione dello Stato, entità istituzionale che tu tta via non è stata sostituita da una nuova form a istituzionale, ma continua a sussistere svuo­ tata delle sue prerogative, quali la sovranità poli­ tica, economica e sociale. E l’economia globalizzata a dettare gli in d irizzi della politica degli Stati. R isulta allora del tutto velleitaria ed impotente la protesta che chiede le dim issioni di un governo, che vuole affermare un progetto politico che è irrealiz­ zabile nell’ambito di un sistema i cui fondam enti prescindono dalle classi dirigenti della politica na­ zionale. Tutto ciò conduce alla considerazione che il dissenso contro un sistema diviene inconcepibile, quando non si possono delineare i caratteri rea­ li e definiti di un avversario. Quando si afferma di voler combattere il capitalismo, gli americani, l’imperialismo, tale prospettiva si rivela di per sé stessa velleitaria ed inconcludente: capitalisti ed im perialisti sono anche g li avversari geopolitici degli americani. Inoltre il capitalismo non è solo un sistema economico, ma anche culturale, etico e sociale. Spesso si vuole combattere il capitalismo, contrapponendo ad esso form e di dissenso scaturite dalla sua stessa cultura individualista e condivi-

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dendo (anche inconsciamente), il suo modello socia­ le. Per delineare un nemico contro cui creare un dissenso sociale, oggi non ci è di grande aiuto la te­ oria giuridico - politica d i Cari Schm itt incentrata sulla dialettica amico - nemico. Secondo Schm itt, la politica è strutturalm ente conflitto, che si sostanzia nella distinzione amico - nemico, quale “estremo grado d i u n ’associazione o d i una dissociazione”. Il nemico non è il concorrente economico o l’avversa­ rio politico, ?na bensì “l’altro”, qualcosa d i diverso elo estraneo a noi. Dovremmo allora concludere che ogni contrapposizione a l capitalismo ha la sua ra­ gion d’essere in quanto nega il capitalismo stesso. Ogni movimento anticapitalista, sarebbe u n ’en ti­ tà politica che sussiste in virtù della sua contro­ parte ideologica, u n ’entità che è tale in quanto derivata e dipendente dal capitalismo. La dialet­ tica amico — nemico dovrebbe inoltre generare il differenziarsi delle entità comunitarie, costitutive di poli antagonisti, portatori d i identità particola­ ri. Ma nel X X I 0 secolo, abbiamo potuto constatare che la logica amico — nemico si è riprodotta come tecnica espansionista della superpotenza america­ na. Se tu tti coloro che non accettano l’ordinamento capitalista in economia e la liberal democrazia in politica sono nemici, allora ogni guerra espansioni­ stica (vedi Iraq e Afghanistan), sarebbe legittima, in quanto scaturita da uno “scontro di civiltà”, tra una identità virtuale definita “occidentale”, espor­ tatrice arm ata di d ir itti u m a n i e democrazia nei confronti degli “sta ti canaglia”. Da quanto mi sembra di capire, tu respingi la teoria di Cari Schmitt sulla dicotomia Amico /Nemico, consi­ derandola poco adatta alle esigenze di oggi e dell’attuale

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congiuntura storico politica. Dal momento che io invece l’accetto nell’essenziale, sia pure con alcune riserve, mi corre l’obbligo di segnalare, sia pure brevemente, pri­ ma perché l’accetto, e poi quali sono le mie principali riserve. Una breve premessa. Schmitt è stato certamente un genio della filosofia politica novecentesca, e tuttavia come scrisse argutamente Hegel il genio è l’uomo più indebi­ tato del mondo, perché ha debiti innumerevoli con i suoi predecessori. Egli fa però parte di quella scuola del re­ alismo politico di tipo machiavellico, che a mio avviso esclude del tutto il riferimento normativo al bene comune comunitario di tipo greco, in cui invece io mi riconosco in quanto umanista metafisico dichiarato. Ma questo per ora possiamo metterlo da parte. La ragione per cui accetto nell’essenziale la dicoto­ mia schmittiana sta nel fatto che essa descrive con am­ mirevole approssimazione la situazione storico-politica creatasi nel Novecento, e soprattutto perm ette di no­ minare l’impero ideocratico americano come nemico principale. Esso è il nemico principale non perché sia l’unico impero capitalistico (anche, la Russia, la Cina, l ’India, eccetera, sono capitalisti al cento per cento ben­ ché con una positiva dominanza del momento politico, sia pure dispotico (meglio una politica dispotica che un dispotismo anonimo ed impersonale dell’economia divinizzata), ma perché la sua bruta esistenza coordina, sul piano sia militare che soprattutto culturale, l’intera riproduzione capitalistica globalizzata mondiale, im ­ ponendone le regole finanziarie. Per questo è il nemico principale, non certo perché i suoi concorrenti siano “umanamente” migliori. Ma questo ti è certamente noto. Inoltre, Schmitt è stato l’unico pensatore nove­ centesco che ha rilevato in modo chiaro e “riproduci­ bile” che la sporca legittimazione particolaristica della

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potenza m arittim a americana è stata edificata attraver­ so il richiamo ad una presunta “um anità”. In Italia è stato ed è Danilo Zolo colui che meglio ne ha sviluppa­ to il pensiero, e si tratta di un pensatore non certo pro­ veniente dalla destra, ma dalla sinistra ed addirittura dall’estrema sinistra. E questa la chiave (direi la sola chiave) con cui ho condotto la mia critica alla sporca ideologia dell’esportazione armata dei diritti umani da me svolta nella precedente seconda risposta. Oggi il paradosso dialettico sta in ciò, che il nemico principa­ le è appunto quello che si presenta come il principale amico dell’umanità, che intende conformare “universa­ listicamente” alla sua particolaristica struttura econo­ mica, politica e sociale, e lo fa in nome di un manda­ to religioso, di una divinità auto-attribuita, un vero e proprio Anti-Cristo frutto di una fusione mostruosa fra fondamentalismo ebraico veterotestamentario e purita­ nesimo calvinista degli "eletti”. Come tu sai, ho scritto a suo tempo un documen­ to filosofico-politico in cui riprendo l’elencazione di Alain de Benoist delle cinque principali forme di ne­ mico principale oggi. Se l’ho scritto e diffuso è perchè evidentemente mi ci riconosco. Sono però anche perfet­ tamente consapevole dei suoi lim iti e delle sue insuf­ ficienze, ed ecco perchè considero del tutto legittimo che tu non ti ci riconosca. Per ora, mi limito ad alcuni rilievi sommari. In primo luogo, sono consapevole della grande obie­ zione fatta dai teorici della cosiddetta Non-Violenza (Pontara, eccetera), che non confondo mai con i pagliacci del pacifismo ipocrita ritualizzato, in realtà guerrafon­ dai, come la coppia sionista spiritata Bonino-Pannella. Per i primi bisogna interrompere la mortifera catena del­ la inimicizia violenta, ed il solo modo è quello di con­ siderare tu tti non come nemici principali irriducibili,

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ma come futuri amici potenziali (Capitini, eccetera). Mi permetterai di non riuscire a credere a questa edifican­ te metafisica. L’esperienza di Norberto Bobbio (pacifista famoso ed ammirato, e poi banditore vergognoso della guerra del Kosovo del 1999) è stata per me determi­ nante in quanto mi ha colpito anche sul piano emotivo, affettivo e personale. Ho capito allora che se un paci­ fismo non si inserisce concettualmente in una più am­ pia comprensione della riproduzione mondiale (da cui e impossibile “espungere” il capitalismo e l’imperialismo, laddove e soltanto un elemento di auto-mistificazione lo stupido antifascismo in assenza di fascismo, con Clinton liberatore antifascista e Milosevic tiranno fascista), può diventare l’alibi di voltafaccia vergognosi. Dal 1999 ho imparato la lezione. Non mi fregano più. In secondo luogo, l’individuazione del nemico prin­ cipale non è che un presupposto necessario ma non ancora sufficiente, e lascia completamente aperta ed impregiudicata la dialettica di come si specificherà in futuro la dicotomia Amico/Nemico. E questo un pun­ to di importanza inestimabile. Nominare il nemico principale è il presupposto per superare la paura della deadline e del giuramento di fedeltà occidentalistico. Violare questo giuramento di fedeltà occidentalistico significa concretizzare quello “spirito di scissione” (il termine è molto felice, ed è di Antonio Gramsci) che è il presupposto di qualunque azione futura. Chi ha individuato il nemico principale sa che l’individuali­ smo laico anticomunitario è peggiore dei riferimenti aristotelici della religione (in cui io non sono peraltro credente) che gli USA non hanno alcun diritto di criti­ care in modo universalistico la Russia, la Cina, l’Iran, Cuba, eccetera, eccetera. L’individuazione del nemico principale non è ancora certamente una metafisica ed una prassi di liberazione e

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di emancipazione, ma ne è soltanto il presupposto. N ien­ te di più, ma questo niente di più é il primo passo di un lunghissimo viaggio, di cui non disponiamo dell’i­ tinerario, perchè il futuro storico (a differenza di quello astronomico) è del tutto imprevedibile. Vorrei sfatare un possibile equivoco. Io credo alla pertinenza dei rappor­ ti geopolitici, e considero una reazione moralistica da “anima bella” il chiudere gli occhi davanti ad essi. Ma ti assicuro che non mi sogno affatto di sostituire la geo­ politica alla filosofia. Se poi qualcuno lo fa, ammesso che qualcuno lo faccia (La Grassa, Rivista Eurasia, eccetera), non lo so, e bisogna rivolgersi a lui per chiarimenti. Io non lo faccio. Io mantengo la centralità umanistica del­ la filosofia come bussola per l’orientamento nel mondo. La geopolitica non è affatto l ’unica concretizzazione del nemico principale. Semplicemente, fa parte di una cate­ na, la “catena dei perchè” (come scrisse Franco Fortini), tutti i perché uniti da una catena economica, filosofica, politica, sociale, eccetera. Per finire, l ’individuazione del Nemico e anche il presupposto per poterlo distinguere non solo dal sem­ plice avversario (pensiamo al fondamento mascalzonesco dell’antiberlusconismo italiano dell’ultimo ventennio, l’aver simbolicamente trasformato l ’avversario Gran Paperone e gran Puttaniere in nemico populista asso­ luto della democrazia, difesa invece da Di Pietro, dalla Finocchiaro e da Santoro-Saviano), ma anche per poter in seconda battuta connotare gli Amici Potenziali. Am­ metto che il problema del nemico è solo il dieci per cen­ to, mentre quello degli amici è invece il novanta per cento, ma consentirai con me che se non sai da chi devi difenderti non puoi neppure chiamare alla solidarietà ed al soccorso.

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S c o m p a r s a d e lla d ia l e t t ic a h e g e l ia n a e f e t ic is m o ECONOMICITÀ

4) Come abbiamo già approfondito e discusso nei precedenti dialoghi, il capitalismo, come eviden­ zia la crisi economica in atto, è giunto alla fase storica della sua decadenza. Per una compiuta analisi storico - filosofica del fenomeno capitali­ sta, occorre dunque richiamarsi alla dialettica hegeliana. Come hai scritto p iù volte, il capitali­ smo, dopo un sua fase iniziale “astratta”, ha poi dovuto affrontare la contrapposizione dialettica classista riassunta nel binomio borghesia —prole­ tariato, ed infine è giunto a l suo definitivo com­ pim ento - esaurimento nella fase “speculativa”, quale è quella storica attuale, in cui esso diviene un fenom eno autoriflessivo e totalizzante. Vorrei esprimere alcuni dubbi circa tale interpretazione filosofica del fenomeno capitalista, in quanto la lo­ gica interna che presiede al suo sviluppo storico, non m i sembra conformarsi allo schema filosofico fondato sulla dialettica hegeliana. I l capitalismo, nella sua fase iniziale, f a riferim ento non solo e non tanto alla radice culturale illum inista, m a si innesta nella logica d i dominio del periodo stori­ co delle grandi conquiste coloniali del ‘600 e ‘700, in u n ’epoca mercantilistica dom inata dall’asso­ lutismo monarchico, in un mondo cioè ancora sal­ damente ancorato ad una cultura e una politica premoderna. I l suo riferim ento specifico non è ta n ­ to il razionalismo illum inistico, quanto semmai Vempirismo e soprattutto l’assolutismo politico di Tommaso Hobbes. Nella sua fase dialettica, quella in cui si evidenziano le sue interne contraddizioni (‘800 e ‘900), con lo scontro di classe borghesia -

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proletariato, il capitalismo, non si configura come un fenomeno che stiperà il proprio term ine d i con­ trapposizione dialettica (proletariato), in una sin ­ tesi. ha sua antitesi diviene parte integrante d i un processo necessario d i trasformazione che conduce al superamento della contrapposizione dialettica. Il capitalismo si contrappone a l marxismo, ma non supera le proprie contraddizioni interne (che anzi, nella sua fase “speculativa” vengono esasperate), assorbendo in sé stesso le istanze del suo avversario. Esso nega semmai nella sua fase finale unilate­ ralmente la propria antitesi. La caratteristica pe­ culiare del capitalismo è inoltre quella d i negare, nella sua dimensione compiuta entram bi i term ini della contrapposizione dialettica della storia recen­ te, La lotta d i classe ha avuto un esito finale in cui, la scomparsa del proletariato ha comportato anche quella della borghesia stessa. Il capitalismo è d u n ­ que un fenom eno che si è affermato attraverso la negazione unilaterale assoluta d i ogni contrappo­ sizione storico dialettica. Non voglio afferm are con quanto detto in precedenza l’inadeguatezza della dialettica hegeliana a d interpretare i fenom eni della storia. Voglio solo sottolineare che la storia del capitalismo, proprio perché non essendo compatibi­ le con i canoni filosofici dell’idealismo, rappresenta un fenomeno estraneo al pensiero dialettico e per questo, non suscettibile d i produrre l’universalizzazione dei suoi postulati fondam entali. Esso, a mio parere, non produce che teorie di legittim azio­ ne economica e politica aposteriori, perché non si sviluppa secondo una logica unitaria elo definita, ma si identifica con una prassi economicista im ­ manente. Non a caso la vittoria del capitalismo del 1989 sul socialismo reale coincide con la fuoriuscita

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dell’Europa dalla storia. La prassi capitalista, in quanto coincide con la negazione assoluta di ogni fenomeno a d esso non compatibile, può dunque es­ sere definita sid piano filosofico come il risultato di . un nichilismo compiuto. I tuoi dubbi sulla interpretazione filosofica (più esat­ tamente, filosofico dialettica) del fenomeno capitalistico sono anche i miei, e sarebbe strano che non lo fossero, perchè sarebbe il preoccupante segnale di una mancan­ za soggettiva di autoconsapevolezza critico-fallibilistica. Per questo colgo con piacere l’occasione per un ulteriore chiarimento. La mia interpretazione filosofica della periodizzazione del capitalismo (astratta, dialettica, speculativa) non intende affatto contrapporsi per sostituirla alle consuete periodizzazioni storico-economiche del capitalismo stes­ so, ma intende soltanto integrarle dal punto di vista della ricostruzione della loro totalità olistica espressiva, che i puri dati economici o sociologici non riuscirebbero a ri­ specchiare adeguatamente. Ad esempio, non mi contrap­ pongo affatto ai tentativi di periodizzazione di Giovanni Arrighi (egemonia genovese, egemonia olandese, ege­ monia inglese, egemonia USA, e domani forse la Cina, eccetera) o a quelli di Gianfranco La Grassa (successione ciclica di momenti unipolari e di momenti multipolari). Semplicemente, la mia periodizzazione è una “rete” ulte­ riore che getto su di una molteplicità di fenomeni storici e sociali, che cerco di interpretare sulla base esclusiva della ideazione filosofica. Filosofia per me significa idealismo, ed idealismo signi­ fica dialettica (mi rifaccio quindi ad una lunga tradizio­ ne, da Platone a Hegel ed in Italia da Gentile, Croce e Gramsci). Mi permetto di rimandare ad un mio studio monografico (Costanzo Preve, Storia della Dialettica, Peti­

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te Plaisance, Pistoia 2006). Ma sulla base della tua solle­ citazione mi limiterò a due soli aspetti. Primo, la dialet­ tica è utilizzabile con profitto soltanto se si eliminano due equivoci mortali, il mito dell’origine unitaria decaduta ed il mito della finalità necessaria prefissata. Secondo, la dia­ lettica non sparisce nella fase speculativa del capitalismo (come tu sembri ipotizzare), ma assume soltanto forme diverse da quelle assunte storicamente nelle fasi astratta e dialettica propriamente detta. Ma vediamo meglio. In prima approssimazione, la dialettica e il semplice riconoscimento della unità ontologica dei contrari. Più esattamente, è il riconoscimento razionale dell’unità on­ tologica degli opposti in movimento temporale ed in cor­ relazione essenziale. Essa non rompe affatto con il senso comune (per fortuna generalmente ben distribuito fra le persone semplici, ed è invece molto raro in quella catego­ ria dogmatica, allucinata, settaria ed intollerante chiama­ ta degli “intellettuali”), ma semplicemente lo elabora in forma potenzialmente accessibile a tutti. Ogni fisiologia presenta delle patologie. Le principali patologie della dialettica a mio avviso sono due: il mito dell’origine unitaria decaduta ed il mito della finalità ne­ cessaria prefissata. Vediamole separatamente. Nel primo caso (il mito dell’origine unitaria decaduta) si ipotizza che il normale momento in cui viviamo non sia caratte­ rizzato dall’unità contraddittoria degli opposti in corre­ lazione essenziale, ma dal normale principio di non-contraddizione effettivamente vigente nelle scienze della na­ tura, in cui per principio non può esistere la soggettività antagonistica delle prese di coscienza. Si ipotizza allora un’unità originaria decaduta da raddrizzare, che da luogo o ad un mondo peccaminoso, “a testa in giù” (variante biblica, ed in generale monoteistica ma estranea ad esem­ pio alle culture non monoteistiche, come quella cinese, che è naturalistica), o ad un mondo in qualche modo

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“alienato” (scuola marxista e poi anti-marxista italiana di Lucio Colletti, Giuseppe Bedeschi e Luciano Albanese). E possibile che la lontana origine filosofica di questa con­ cezione sia quella neo-platonica tardo-antica. (Ma perso­ nalmente ne dubito, pur non avendo qui lo spazio per un chiarimento ulteriore). Resta il fatto che il presupposto mitico di questa unità “originaria decaduta da ricostruire non caratterizza affatto la moderna dialettica storica di Fichte e di Hegel, poi ereditata da Marx e quindi risulta infondata ed arbitraria questa sovrapposizione, che è sem­ pre il sintomo (laddove sia in buona fede) di una imper­ fetta secolarizzazione messianica di un presupposto mo­ noteistico trascendente, inevitabilmente creazionistico. Per costoro il così detto comuniSmo dovrebbe rimettere semplicemente sui suoi piedi una comunità originaria decaduta nel tempo storico. Chi ci vuol credere si acco­ modi. C’è infatti di peggio. Lasci però perdere la dialet­ tica moderna e soprattutto il moderno sottoscritto. Nel secondo caso (il mito della finalità’necessaria prefissata) la dialettica filosofica viene messa al servizio (come ba­ dante senza diritti e senza libretto di lavoro) del concetto di “legge scientifica”, per di più concepita in senso posi­ tivistico e quindi rigorosamente deterministico. Questo concetto di legge scientifica è previsionale, e su questa base, ad esempio, si possono solo prevedere le eclissi di sole e di luna ed il ritorno delle comete in modo sorpren­ dentemente esatto. Ma se il futuro “naturale” è astrono­ micamente prevedibile (non sempre, peraltro), il futuro storico non è mai prevedibile in via di principio, perché comprende l’imprevedibile prassi individuale e collettiva degli esseri umani, che nessuna estrapolazione economi­ ca o sociologica potrà mai “prevedere” se non in forma dilettantesca, quasi sempre soltanto analogica e ricavata, “pescando” nel passato storico, luogo di inevitabili p it­ toreschi equivoci.

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Eliminate queste due patologie, entrambe di origine religiosa e per di più fortemente collegate, al punto costi­ tuire un’unica e sola patologia, si può ristabilire una con­ cezione sobria e non ubriaca di dialettica storico-filosofica. La dialettica riconosce la permanenza delle contraddizioni dell’essere sociale (se ci siano anche contraddizioni nell’es­ sere naturale lasciamolo ai benemeriti seguaci della reli­ gione di Engels, il materialismo dialettico, ma si interdice di prevederne le specifiche forme di esistenza nel futuro che è poi esattamente quello che Hegel dice quando af­ ferma che la nottola di Minerva, l’uccello consacrato alla consapevolezza storica dell'autocoscienza umana, si alza in volo soltanto al crepuscolo). E qui giungiamo al punto che ti assilla. In passato certamente la dialettica c’è stata, ma nel presente sembra non esserci più, da cui si potrebbe razionalmente ipotiz­ zare che anche nel prossimo futuro potrebbe non esserci più. Ma cerchiamo di vedere meglio le cose. Certo, oggi come oggi è certo che l’Europa sembra essere provvisoria­ mente fuoriuscita dalla storia, e basti pensare a come gli arroganti diplomatici USA nei files di Wikileaks descri­ vono i miserabili fantocci europei, schiavi soddisfatti di sé ed incapaci di dignità e ribellione. Ma nel resto del mondo la storia non si è fermata almeno per ora. Nella mia prima risposta ho fatto notare che le tre principali forme di coscienza politica novecentesca inerziale sono ormai prigioniere di una gabbia ideologica (pensiero liberale, pensiero fascista, e pensiero comunista) e sono quindi del tutto paralizzate ed impotenti. Ma le passibi­ lità del futuro non sono contenute nella prigione prov­ visoria del presente. È invece del tutto esatto che nella nuova fase speculativa del capitalismo (economicamente globalizzata, politicamente oligarchica, filosoficamente individualista e postmoderna) la dialettica per ora non può essere ristabilita nella forma delle soggettività col­

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lettive configgenti dotate di identità classistiche relati­ vamente stabili. Ma il fatto che la dialettica non passa essere riproposta come prima non significa che essa non esista più. Significa soltanto che non può più essere ripro­ posta nelle forme storiche e sociali precedenti. •Faccio qui l’analogia con la teoria dell’evoluzione. Tutti i biologi evoluzionisti concordano sul fatto che essa è imprevedibile (paradossalmente è questo l’unico elemento su cui concordano anche i biologi creazionisti del cosiddetto “disegno intelligente”, in cui l’imprevedibilità è ricondotta a voleri imperscutabili di Dio onnipo­ tente). Bene, anche la storia futura è del tutto impreve­ dibile. Per questo è indispensabile sostituire al mito del Destino della Tecnica (non importa se nella variante hard della differenza ontologica di Heidegger o nella variante soft della dialettica negativa di Adorno-una più cialtrona dell’altra) il nuovo concetto di Dittatura dell’Economia, o più esattamente di dittatura oligarchica dell’economia. La differenza è essenziale. Se siamo ormai in un’epoca post (non importa se postmoderna, postmetafisica, ecce­ tera, io proporrei di punire tutti i post con una innocua ma fastidiosa scossetta elettrica nel sedere), allora anche la soggettività umana incorporata in una fatalità tecnica intrascendibile (da qui il successo elei vari Emanuele Se­ verino ed Umberto Galimberti negli organi della grande manipolazione mediatica delle oligarchie della globaliz­ zazione). La conclusione è allora il refrain: non c’è più nulla da fare/è stato bello sognare. Se invece il problema non sta nel presunto Destino della Tecnica ma nel più concreto Dispotismo dell’economia Feticizzata, allora questa dittatura è un nemico ben indicabile (rimando qui alla mia terza risposta), e per di più un ostacolo in via di principio toglibile. Le nuove forme della contraddizione dialettica nell’epoca del capitalismo speculativo, oligarchico e

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globalizzato, non possono ancora essere descritte. C’è già la lista dei nemici principali (de Benoist, ma an­ che Preve), ma non c’è ancora la lista degli amici e dei collaboratori. Questa lista crescerà in cammino. Per ora basti partire dalla convinzione per cui essa è onto­ logicamente possibile. E se è ontologicamente possibile, e non siamo in preda al Destino della Tecnica o della dialettica negativa (una vera oscenità), allora sarà anche socialmente possibile, politicamente possibile, e quindi storicamente possibile.

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La privatizzazione della vita sociale

L a p r iv a t iz z a z io n e d e i d i r i t t i so c ia li

1) Il referendum dei lavoratori della Fiat, conclusosi con la vittoria dei SI alla strategia di ristru ttu ­ razione aziendale voluta da Marchionne, prelude a m utam enti sistemici dell’economia italiana in senso liberista. E dunque giunto al suo “natura­ le” compimento un processo d i destrutturazione del modello di economia m ista enunciato dalla carta costituzionale, che prevedeva il controllo, Vindirizzo e lo stesso intervento diretto dello Stato nell’econo­ mia nazionale. Alle privatizzazioni delle aziende pubbliche, hanno fa tto seguito le riforme stru ttu ­ rali della legislazione del lavoro, con l’introduzione di form e diversificate d i lavoro precario, le riforme pensionistiche con l’allungamento della vita lavora­ tiva, le lim itazioni della tutela sindacale. La nuo­ va strategia industriale inaugurata da Marchion­ ne, rappresenta di per se il delinearsi di un nuovo modello di sviluppo, suscettibile di applicazione a tu tti i settori della produzione. La svolta “M ar­ chionne” sarebbe dovuta all’esigenza prioritaria di adeguare l’economia italiana alla competitività dei mercati internazionali: pertanto essa comporta l’aggancio dei salari alla produttività, la compres­ sione dei d iritti sindacali e l’esclusione dalle tra t­ tative aziendali di quei sindacati che non accettino i contratti di lavoro proposti dagli imprenditori, ol­ tre alla abrogazione, nei fa tti, del contratto collet­ tivo d i lavoro. I l nuovo modello di sviluppo è qu in d i fondato sulla unilateralità del modo di produzione imposto dalla grande industria e dalle banche in

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relazione alle condizioni, in term ini d i produttivi­ tà e competitività poste dal mercato globale. In re­ altà, quali che siano le prospettive di sviluppo della F iat - Chrysler, certo è che l’economia italiana ed europea non potrà m ai essere competitiva con quel­ la cinese elo asiatica, data la m inim a incidenza del costo del lavoro dei paesi emergenti rispetto ai la­ voratori europei. Si è comunque determ inata una svolta epocale nei rapporti di produzione: è scom­ parsa la funzione di mediazione dello Stato nei rapporti tra le p a rti sociali (il governo ha peraltro sostenuto la strategia d i Marchionne), si è svuotato d i contenuto il ruolo dei sindacati, quale contro­ parte rappresentativa dei lavoratori nelle tratta­ tive con l’imprenditore, che a sua volta (nel caso di Marchionne), si dissocia dalla propria associazione sindacale (Federmeccanica), per imporre il proprio contratto d i lavoro. 1 costi sociali d i tale trasforma­ zione del modello economico, in term ini di salario, tutela sindacale, occupazione, qualità della vita, sono devastanti. Ma, soprattutto, occorre eviden­ ziare come la ristrutturazione industriale imposta da Marchionne si realizzi nel contesto d i una fase storica in cui si verifica nella società italiana una trasformazione sociale e culturale che potremmo de­ finire “privatizzazione della vita sociale”. In fa tti, nell’ambito della giustizia civile l’orientamento ri­ formatore è quello d i sviluppare la pattuizione p r i­ vata, la conciliazione, un tipo d i contrattualismo in cui le leggi derogano alla trattativa tra le parti. N el campo penale, la depenalizzazione di molte f a t ­ tispecie di reato, il massiccio ricorso al patteggia­ mento, sono fenom eni di analoga ispirazione. N el­ lo stesso diritto del lavoro tu tta la legislazione sul lavoro precario e flessibile, è, nei fa tti, sostitutiva

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dei principi della contrattazione collettiva, e della stessa contrattazione aziendale, già diffusa in altri settori (vedi il tessile), p rim a del “modello” M archionne. Alla contrattazione collettiva si sostituirà nel tempo la contrattazione privata individuale. Sta emergendo un processo riformatore in cui gli organi legislativi e giurisdizionali dello Stato ven­ gono estraniati dalle loro fu n zio n i istituzionali: il legislatore abroga se stesso, eliminando l’intervento dello Stato come fonte normativa prim aria e de­ volvendo alla sfera privatistica la regolazione dei rapporti tra le p a rti sociali, il giudice è destinato a svolgere una funzione giurisdizionale lim itata alla legittim ità, estraniandosi cioè dal merito delle con­ troversie tra i cittadini. Penso che la formula da te impiegata “privatizzazione della vita sociale” sia estremamente felice, e possa servi­ re da bussola concettuale per una corretta ricostruzione storica e culturale di ciò che ha preceduto la situazione attuale. Ciò che correttamente il sindacato FIOM-CGIL chiama il “ricatto Marchionne” è in realtà il “modello globalizzato Marchionne”, e senza capirne la logica di­ venta impossibile opporvisi se non in modo puramente lamentoso e testimoniale. Benché preti, politici, giorna­ listi e clero universitario parlino di “responsabilità sociale delfimpresa” ad ogni piè sospinto, in realtà l’impresa è responsabile soltanto verso i profitti dei propri azionisti, ed il resto è secondario. Cerchiamo allora nella storia degli ultimi secoli un filo conduttore che ci permetta di andare un poco più in profondità. In tutte le società precapitalistiche la privatizzazione integrale della vita sociale era non solo impossibile, ma anche concettualmente inconcepibile. Questo non signi­ fica affatto che esse fossero moralmente “migliori”, ed

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ogni nostalgismo di questo tipo ci porta fuori strada. È interessante che lo stesso termine latino privatus non al­ ludesse ad una situazione originaria di libertà ‘“naturale”, ma indicasse al contrario l’operazione di “privazione” dal godimento della proprietà comunitaria dell’ager publicus, che in realtà “pubblico” in senso moderno non lo era per niente, ma si riferiva ad una comunità tribale fortemente gerarchica ed inegualitaria. Il fatto che essere “privato” volesse dire essere forzosamente privato di qualche cosa (il godimento comunitario dei beni), mentre il “pubblico” alludesse ad un particolarismo tribale gerarchico (le gentes) non è solo una curiosità etimologica, ma è uno stimolo per uno spaesamento concettuale necessario per farci rela­ tivizzare i significati attuali dei termini, che sono storici e non “naturali”. Il modello politico e sociale della polis greca classica era fondato su di un modo di produzione sociale di piccoli produttori indipendenti, e non era affatto correlato ad un modo di produzione schiavistico sviluppato, secondo una tradizionale confusione cui sono caduti pensatori diversi ed incompatibili come Nietzsche, Hannah Arendt, Stalin ed il marxismo classico. Ed è questa la ragione per cui Marx fece sempre riferimento alla polis greca classica, ve­ dendo in essa un esempio certo di sfruttamento, ma non di alienazione vera e propria. La separazione dei concetti di sfruttamento (Ausbeutung) e di alienazione (Entfremdung) è concettualmente necessaria, perchè il modo di produzione capitalistico è il primo ed il solo in cui si verifica la piena fu­ sione di entrambi. Solo la norma dell’accumulazione illi­ mitata di valore, infatti, permette di incorporare integral­ mente i processi di sfruttamento (che caratterizzano tutte indistintamente le formazioni sociali classiste) all’interno del processo di alienazione, cioè di espropriazione inte­ grale dello stesso processo lavorativo sociale, al di là della precedente distribuzione ineguale del plusprodotto.

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Questo - vai la pena ripeterlo senza stancarsi - non comporta assolutamente conclusioni "nostalgiche” nei confronti delle società caratterizzate dal dispotismo orien­ tale oppure, in Europa, dal feudalesimo e dal dominio nobiliare. Il problema non sta qui, ma sta nella corretta individuazione della genesi storica della società caratteriz­ zata dalla privatizzazione della vita sociale. Anche se solo oggi questa privatizzazione della vita sociale è diventa­ ta scandalosamente visibile (e lo è diventata perché si è globalizzata), è bene ricordare che già fra Settecento ed Ottocento sono già riscontrabili sintomi di questa visi­ bilità, soprattutto nell’interpretazione idealistica della natura del precedente illuminismo (Aufklàrurng). Ciò che cercherò di sviluppare in questa mia prima risposta è ap­ punto una tesi, per cui progressivamente il punto di vista integralmente individualistico e privatistico dell’empirismo inglese ha sostituito il punto di vista certamente ancora classistico, ma anche comunitario, dell’idealismo tedesco cui Marx non è che l’ultimo coerente esponente. Ma indaghiamo prima il modello dell’idealismo tedesco, e soltanto dopo, quello deU’empirismo inglese, in modo che la “contrastività” del secondo rispetto al primo appaia maggiormente visibile. Il carattere “dialettico”, e quindi contraddittorio, de­ gli esiti della critica illuministica appare già chiaro al primo grande idealista, il prussiano Fichte, figlio di servi della gleba. A differenza di Voltaire e dei suoi successori odierni (ricordo qui solo il giornalista con pretese cultu­ rali Eugenio Scalfari), Fichte considera Filluminismo in termini dialettici, che ritengo nell’essenziale validi an­ cora oggi. Da un lato, la distruzione illuministica delle pretese metafisiche di legittimazione feudale e signorile (e quindi assolutistica) è interamente giustificata e legit­ timata, e non c’è traccia di quel “nostalgismo” che inve­ ce caratterizzerà i pensatori della successiva Restaurazio­

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ne (1815-1830). Il vecchio mondo meritava di morire, perchè aveva perduto quella eticità sostanziale che pure era stata in grado di produrre le grandi cattedrali, roma­ niche e gotiche. Dall’altro lato, però, la distruzione di tutte le precedenti certezze comunitarie, pur necessaria, aveva comportato uno stato di anomia individualistica, di scetticismo e di relativismo nichilistico integrale che Fichte definì in termini di “epoca della compiuta pec­ caminosità” e più tardi Hegel definì come “risoluzione dell’ascetismo della morale in regno animale dello spiri­ to”. Qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità di in­ terpretare analiticamente i due concetti critici di Fichte e di Fiegei, ma è sufficiente sottolineare che la diagnosi di potenziale “privatizzazione della vita sociale” era già stata fatta, ed era stata fatta in termini chiari ed addirit­ tura cristallini. Non siamo all’anno zero della critica, se sappiamo restaurare affreschi coperti dai graffiti liberali e postmoderni. Ci sono molti modi alternativi di esporre e di rias­ sumere il pensiero di Hegel, ma ce n’è forse uno com­ parativamente e contrastivamente migliore degli altri: Hegel è il pensatore moderno che ha esposto nel mon­ do migliore la distinzione e nello stesso tempo la com­ plementarietà convergente del Privato e del Pubblico, ognuno sovrano nei rispettivi ambiti. Se questo è vero - come può essere agevolmente dimostrato - partendo da Hegel non si potrà arrivare mai alla privatizzazione della vita sociale. E utile ripercorrere sommariamente il suo processo di pensiero, fondato sulla distinzione fra la Moralità (o sfera del Privato) ed Eticità (o sfera del Pubblico), in cui entrambi i momenti sono riconosciuti interamente legittimi. Hegel inizia concettualmente da una critica, talvolta addirittura eccessiva ed un po’ ingenerosa, nei confronti del diritto naturale (o giusnaturalismo) e del contratto so-

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ciale (o contrattualismo). Se pensiamo che il giusnaturali­ smo ecl il contrattualismo ai suoi tempi costituivano il novanta per cento del pensiero politico, ci rendiamo conto della sua rivoluzionarietà e del suo coraggio innovativo. Ma sono le motivazioni che lo spingono a suscitare la no­ stra postuma ammirazione. Hegel respinge il diritto naturale, pur riconoscendone il valore storico negli ultimi secoli perchè non accetta che ci sia un presupposto non-storico della storia posto all’ori­ gine della storia stessa, e nello stesso tempo sottratto alla storicità costituente. Oggi si direbbe che si contrappo­ ne ai miti dell’Origine, che sono inevitabilmente anche dei miti della Fine della Storia (ove la storia è vista in termini di perdita e di successiva ricomposizione di un Intero Perduto). Se ci fosse qui lo spazio per approfon­ dire analiticamente la questione, apparirebbe chiaro che questa posizione è incompatibile con l’interpretazione di Hegel come neoplatonico moderno che vuole ricomporre una totalità organica originaria decaduta (Lucio Collet­ ti), oppure come teorico della fine della storia (Alexandre Kojève). Ma in questa sede ci interessa sottolineare che sia il Privato che il Pubblico sono entrambi prodotti dello sviluppo storico, e non sono presupposizioni giusnatura­ listiche astoriche. Hegel critica la teoria del contratto sociale per le stesse ragioni per cui aveva criticato la teoria del diritto naturale. Non c’è e non c’è mai stato un contratto origi­ nario, ma all’origine la società si è costituita sulla base di rapporti di forza (nascita del dominio, rapporto fra servo e signore, eccetera). Il moderno rapporto di Pri­ vato e di Pubblico è un risultato storico di un processo di incivilimento dialettico progressivo, non la restaurazio­ ne di una caduta originaria, bene esemplificata dal mito biblico del peccato originale, radice unica di tutte le successive secolarizzazioni escatologiche. Chi interpreta

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Marx in termini di secolarizzatore utopico della escato­ logia giudaico-cristiana (ad esempio Lowith, ed oggi la stragrande maggioranza della filologia universitaria sia moderna che postmoderna, da Habermas a Lyotard) deve dimenticare e far dimenticare che Marx nell’essenziale accetta la critica di Hegel al diritto naturale ed al con­ tratto sociale, la metabolizza e la fa sua, e quindi non è corretto inserirlo nella sequenza (sia pur rispettabile) dei pensatori dell’Origine presupposta e del conseguente Fine prefissato. Il rapporto fra sfera pubblica e sfera privata è posto da Hegel in modo rigorosamente filosofico, e più esatta­ mente filosofico-comunitario, e non più nel vecchio modo religioso precedente. Per essere chiari, il pubblico inter­ viene sul privato quando c’è un reato non quando c’è un peccato. Il pubblico interviene nel privato quando c’è pe­ dofilia, non certo quando c’è omosessualità. Nello stesso tempo, anche alla famiglia viene conferito un carattere pubblico, nella misura in cui l’educazione dei figli non può che avere un carattere pubblico. La stessa società civi­ le fa parte di una sfera pubblica, perchè il riconoscimento della professionalità e l’assistenza pubblica non possono essere ridotte all’arbitrio di un eventuale “capitalismo compassionevole”. Non vi è qui lo spazio per esaminare le varie forme di hegelismo posteriore, di destra (Gentile) o di sinistra (hegelo-marxismo). Esse hanno sempre avuto come mi­ nimo comun denominatore il rifiuto concettuale di una qualsivoglia privatizzazione della vita sociale, ed ad esse bisognerà tornare per “raddrizzare” l’attuale andazzo privatizzatore. E invece utile esaminare la corrente dell’ em­ pirismo individualistico anglosassone, perchè è essa a fare da portatrice ed amplificatrice di questo fenomeno. Mentre la tradizione dell’idealismo tedesco (nell’es­ senziale ereditata da Marx nella forma del superamento-

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conservazione, Aufhebung) permette di salvare l’autonomia specifica sia del Pubblico che del Privato, la tradizione dell’empirismo anglosassone fin dall’inizio è dominata da una tendenza di privatizzazione individualistica integrale del pubblico. L’origine sta forse in una particolare seco­ larizzazione del calvinismo, una forma di religione che tende a mettere in rapporto diretto e senza mediazioni l’individuo e la divinità, oltre a fare l’apologià dell’arric­ chimento privato come segnale della elezione divina. Ma già in Hobbes, che pure è completamente ateo e diffida degli estremisti religiosi puritani, è centrale la polemica contro l’antropologia filosofica di Aristotele. Rifiutando la teoria aristotelica per cui l’uomo è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) si rifiuta soprattutto la conseguenza pratico-politica di questa teoria, per cui l’uomo è un animale comunitario capace di calcolo socia­ le per la divisione giusta ed armonica del potere e delle ricchezze (zoon logon echon). In Locke la proprietà priva­ ta è un diritto naturale derivato dal lavoro diretto del primo coltivatore, e non l’effetto di un processo storico di progressiva privatizzazione di una precedente comu­ nitaria (si tratta della concezione che Marx chiamò poi “robinsonismo” riferendosi al personaggio di Robinson Crosuè). La stessa critica di Locke alla categoria metafisi­ ca di “sostanza”, lungi dall’essere una innocua operazione gnoseologica, è una metafora politica per la negazione di una sostanza comunitaria che “sta sotto” agli scambi privati fra individui. Ma il punto archimedico di questa privatizzazione filosofica della vita sociale sta in David Hume, e nel suo particolare modo di respingere il con­ tratto sociale che nelle concezioni del tempo era conside­ rato l’elemento che “istituiva” la società. Mentre Hegel (e poi Marx) respingeva la fondazione contrattualistica della convivenza umana perchè considerava il contratto una istituzione puramente privatistica, non adatta a fon-

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dare concettualmente la società umana (rifiutando cosi la concezione della società umana come rete contrattuale di individui privati originari e sottratti alla storicità ed alla socialità costituenti), Hume considera il contratto sociale inutile, dal momento che la società si istituisce spontane­ amente senza contratto sulla base delle attese di scambio reciproche fra venditore e compratore (e Smith, accette­ rà integralmente questa autofondazione deii’economia su se stessa, con inevitabile posteriore trasformazione del primato dell’economia in dittatura totalitaria della crematistica). Soltanto i manuali di storia della filosofia, capolavori di stupidità istituzionalizzata, possono soste­ nere che la critica di Hume alla categoria di causalità non nasconde nulla di “sociale”, ma è soltanto un geniale ac­ corgimento gnoseologico. In questo modo, la privatiz­ zazione della vita sociale era cosa fatta, con l’inevitabile primato del modello neoliberale di economia su tutti gli altri ambiti della vita sociale (l’azienda Italia, il giudizio dei mercati, eccetera). E interessante che neU’ultim a opera di Toni Negri, questo giocoliere che ricava il suo comuniSmo anarchico dallo stesso sviluppo della globalizzazione capitalistica, ci sia un’insistita polemica contro la dicotomia di Pub­ blico e di Privato, in nome di un fantomatico “comune” attinto direttamente da individui onnipotenti animati da una nicciana volontà di potenza intesa come autovalo­ rizzazione energetica individuale. Ma si tratta solo di un sintomo secondario, nel mondo dissociato dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”, della provvisoria vittoria del modello dell’empirismo anglosassone sul modello dell’i­ dealismo tedesco. La storia delle idee ha infatti un anda­ mento più ciclico che lineare, dipendendo strettamente non tanto da una logica conoscitiva e veritativa, che re­ sta sempre e solo “ideale” (donde appunto l’idealismo), quanto da una più modesta sociologia degli intellettuali

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accademici, editoriali ed universitari. Oggi il padrone é a Washington, e nel giorno stesso in cui sto scrivendo queste righe (sabato 12 febbraio 2011) i giornali com­ mentano la cacciata dei Mubarak, sostengono che non si tratta di una vittoria del popolo egiziano, pagata con un grande tributo di sangue, ma di una vittoria di Obama e del modello neoliberale di gestione “democratica” del capitalismo. I rapporti di forza in cui viviamo ci co­ stringono a sopportare impotenti questa dittatura della manipolazione, ma speriamo che si tratti soltanto di una congiuntura temporanea.

La

p r iv a t iz z a z io n e id e o l o g ic o

- p o l it ic a

2) Dalle precedenti considerazioni, deriva necessaria­ mente l’affermarsi d i una nuova struttura della so­ cietà, caratterizzata dalla fram mentazione dei rap­ porti sociali, tram utatisi in rapporti privati e dal venir meno dei corpi intermedi rappresentativi delle categorie produttive, delle classi sociali, degli interes­ si legittim i della collettività. I rapporti privatistici, sono per loro natura avidsi dai fondam enti etici, da principi cioè generati dalla interdipendenza delle idee e delle condizioni sociali tra gli individui, che costituiscono il legame obiettivo ed interpersonale alla base d i qualsivoglia rapporto comunitario tra i singoli. I l rapporto privato è necessariamente estra­ neo alla dinamica dei rapporti sociali e pertanto trae la sua origine da interessi individuali: è per sua na­ tura un rapporto che si realizza su basi economiche. È facile quindi comprendere come tali rapporti siano improntati a l prevalere della forza economico - con­ trattuale di una delle p a rti e come una società fo n ­ data sull’individualismo privatistico, non possa che

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produrre squilibri sociali e disuguaglianze endemi­ che. G li attuali m utam enti dei rapporti economici in Italia non potranno che incidere profondamente sull’assetto politico - istituzionale. Invero, è ormai la prassi, intesa come insieme di forze trasformatrici nell’ambito economico e sociale ad imporre cambia­ m enti sistemici nella, società. In via di principio, tale processo di rinnovamento è congenito allo sviluppo di nuove forme di equilibri sociali che scaturiscono dal venir meno del rapporto d i reciproca interazione e rappresentatività tra istituzioni politiche e società civile. Pertanto, all’esaurimento di una fase storica, fa rà seguito l’inizio di nuovi processi di sviluppo, creati da nuove classi dirigenti legittimate da nuovi equilibri politico - sociali. A d un vecchio ordine, si dovrebbe contrapporre l’emergenza di nuove forze so­ ciali che si impongono nella società civile. Ma il pre­ sente processo di trasformazione che si impone nella società civile, è estraneo all’ordinamento istituziona­ le. Esso non si rivolge contro lo Stato, ma si afferma al di fuori e al di là dello Stato. Quello attuale è un modello di sviluppo che riforma la società estranian­ dosi dallo Stato (cioè dalla sfera politica e culturale). Siamo dinanzi all’avvento d i riforme strutturali in completa assenza dello Stato. In realtà il rinnova­ mento della società è imposto non dal concorso delle forze sociali e produttive presenti nella società, ma dalla invasività di forze economiche che si impongo­ no nel mercato globale. E unilateralità e l’autoreferenzialità del capitalismo attuale non si identifica quindi con una prassi emergente dai rapporti politi­ co - sociali presenti nella società, ma con una prassi di dominio economico del mercato che si impone alla società civile, che a sua volta si tram uta quindi in “società di mercato”.

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Ha scritto recentemente Alain de Benoist (cfr. Elements, n.138, gennaio-marzo 2011): “Oggi il denaro raccoglie l’unanimità. Da tempo, la destra se ne è fatta schiava. La sinistra istituzionale, con la copertura del “rea­ lismo”, si è rumorosamente allineata all’economia di mer­ cato, cioè alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è diventato onnipresente”. Ho cercato di dimostrare nella mia prima risposta che quella che tu correttamente chiami “privatizzazione della vita sociale”, oggi minimo comun denominatore di tutte le destre e di tutte le sinistre istituzionali (ma anche cul­ turali, editoriali, giornalistiche ed universitarie), trova la sua radice ultima nella prevalenza progressiva del mo­ dello dell’empirismo inglese sul modello dell’idealismo tedesco, e che fino a quando questa prevalenza non sarà rovesciata saremo condannati a muoverci in un mondo di simulazioni e di chiacchiere secondarie, infarcito di moralisti, giornalisti, magistrati e soprattutto puttane e travestiti. In questa seconda risposta, dopo aver dedicato la pri­ ma agli aspetti storici principali, mi limiterò ad esami­ nare il “lato sinistro” di questa convergenza al modello liberale dalla riproduzione sociale. Il discorso sarebbe lun­ ghissimo, ma lo limiterò a discutere le tesi di quattro soli studiosi, e cioè Amadeo Bordiga, fondatore nel 1921 del comuniSmo italiano, Augusto Del Noce, grande filosofo cattolico italiano, ed infine la tesi dei due sociologi fran­ cesi Lue Boltanski ed Ève Chiapello. Non è certamente questa la sede per un bilan­ cio storico e teorico dell’attività di Amadeo Bordiga (1889-1970), che resta una delle figure più interessanti dell’intero novecento italiano se non altro perché visse all’insegna della solitudine dell’incomprensione delle maggioranze conformiste che si credono informate ed intelligenti. Qui segnalerò un unico aspetto del suo pen­

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siero, il rifiuto di incorporare la critica al capitalismo, all’interno dell’antifascismo, e soprattutto la piena com­ prensione del fatto che di per sé l’antifascismo (partico­ larmente quando diventa una “religione civile” cerimo­ niale di legittimazione in conclamata assenza di fascismo propriamente detto) è sempre e soltanto una forma di liberalismo, sia pure di “sinistra”, ed è pertanto impos­ sibile fondare sull’antifascismo il socialismo ed il comu­ niSmo. Quanto dico non ha ovviamente nulla a che fare con la legittima valutazione storica e storiografica sia dei fascismi (al plurale) sia degli antifascismi (al plurale), ma deve essere ferreamente limitato al solo contenuto della tesi bordighiana, per cui l’antifascismo è sempre e soltanto una variante ideologica del liberalismo, ed in esso deve inevitabilmente cadere prima o poi in modo gravitazionale. Per capire la tesi di Bordiga è necessario, soprattutto in Italia, un doloroso riorientamento gestaltico globale, in quanto in superficie le cose sembrano proprio essere rovesciate, dal momento che dopo il 1945 l’antifascismo è stato praticato soprattutto come coper­ tura e mascheramento ideologico di legittimazione del comuniSmo italiano, consapevole della ristrettezza della sua base di consenso in base a cose come la dittatura del proletariato o il sociologismo operaista. Ma questa, ap­ punto, è la superficie e non la profondità. In realtà l’insi­ stenza sul minimo comun denominatore antifascista del patto costituzionale degli italiani non portava che super­ ficialmente ad una legittimazione dei comunisti, visti come parte integrante e maggioritaria del partigianato resistenziale antifascista, in quanto agiva in profondità (e gli ultimi decenni lo hanno dimostrato senza ombra di dubbio) come critica di tutte le “dittature” e come apologia del solo sistema liberale. La logica dell’antifa­ scismo non portava dunque verso Lenin e neppure verso Gramsci, ma portava inevitabilmente verso la teoria del­

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le regole del gioco di Norberto Bobbio o verso la critica del totalitarismo di Hannah Arendt. Soltanto il lungo periodo nella storia permette di giudicare veramente la preveggenza strategica delle grandi ipotesi teoriche, e oggi (2011) possiamo dire che il rifiuto dell’antifascismo di Bordiga era appunto preveggente, perchè intuiva pre­ cocemente il nesso organico fra antifascismo e liberali­ smo, al di là delle congiunturali strategie di legittim a­ zione del PCI fino al 1991A proposito di Augusto Del Noce, non c’è figura tanto diversa ed incompatibile con quella di Amadeo Bordiga. Eppure Del Noce è stato uno dei pochissimi pensatori italiani che abbiano saputo andare al di là del­ la superficie polemica a rapidissima obsolescenza, e che abbiano individuato la natura profondamente nichili­ stica dello storicismo assoluto italiano, che il comuni­ Smo in Italia assunse in una forma solo superficialmente riverniciata a “sinistra”. Giovanni Gentile e Benedetto Croce avevano infatti radicalizzato l’impostazione stori­ cista di Hegel, togliendole quegli aspetti logici ed onto­ logici che ad esempio aveva saputo conservare il Lukàcs dell’Ontologìa dell’Essere Sociale, per cui lo scorrimento progressistico in avanti del tempo storico diventava il solo fondamento di legittimazione della causa del su­ peramento del capitalismo. Si aveva così, sempre nel linguaggio di Lukàcs, una “storia spogliata della sua forma storica”, in cui la vittoria e la sconfitta empiriche di una causa politica diventavano il solo criterio per un corretto orientamento storico. Il comuniSmo, quindi, diventava legittimo solo in quanto vinceva. Se avesse cominciato a perdere, sarebbe stato legittimo e doveroso abbandonarlo, rinnegarlo e cambiare di campo. A fianco del carattere nichilistico e relativistico dello storicismo, Del Noce rilevava con profetica intelligenza che il pro­ gressismo storicistico sarebbe inevitabilmente sfociato

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nella confluenza in una società dei consumi individua­ listica, per cui l’esito neoliberale era diagnosticato in modo certo molto diverso da quello di Bordiga, ma in definitiva l ’approdo era lo stesso. I sociologi francesi Lue Boltanski ed Ève Chiapello hanno proposto una convincente periodizzazione del capitalismo, che non potrò però tuttavia esaminare in questa sede per ragioni di spazio. Il solo aspetto della loro trattazione che esaminerò qui è la loro teoria della genesi, sviluppo ed esito della cosiddetta “sinistra”. Essi rilevano che nel periodo storico che va grosso modo dal 1871 al 1968 la “sinistra” si era costituita sulla base di una alleanza fra una critica economico-sociale alle ingiu­ stizie distributive del capitalismo, di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, ed una critica artistico-culturale all’ipocrisia della morale della borghesia, di cui erano invece titolari appunto gli intel­ lettuali di “avanguardia”. Questa alleanza durò fino al Sessantotto (da non confondere con gli empirici eventi dell’anno 1968), in cui il capitalismo cominciò a svi­ luppare una logica riproduttiva post-borghese (e quindi inevitabilmente anche post-proletaria, dal momento che borghesia e proletariato sono opposti dialettici in corre­ lazione unitaria essenziale, e non c’è l’uno senza l’altra), liberalizzando integralmente il costume e le forme di vita vetero-borghesi. Il liberalismo vinse così direttamente all’interno del ceto degli intellettuali, sempre più “creativi” e “postmoderni”, mentre la vittoria sul prole­ tariato venne realizzata con l ’indebolimento della sovra­ nità monetaria dello stato nazionale, la globalizzazione, l’economia del debito, eccetera. In questa sede, non mi interessa “coerentizzare” le ri­ spettive tesi di Bordiga, Del Noce e Boltanski-Chiapello. Sarebbe certamente possibile farlo, ed in questo modo si mostrerebbe alla luce del giorno che i processi di inte-

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grazione subalterna neoliberale della “sinistra” non sono affatto casuali o semplice frutto di un “tradimento” o di semplice corruzione monetaria dei suoi dirigenti ed intel­ lettuali (anche se gli alti redditi certamente “aiutano”), ma sono il risultato di processi storici maestosi di lunga durata, uniti ad una stupidità ed ingenuità ideologiche sbalorditive, che risultano però visibili soltanto al “crepu­ scolo”, quando.cioè si leva la hegeliana nottola di Minerva della consapevolezza storica. I rilievi che tu fai a proposito di un processo di trasfor­ mazione ohe non si rivolge tanto contro lo Stato quanto al di fuori ed al di là dello Stato sono quindi assolutamente corretti e pertinenti, e trovano la loro logica di spiega­ zione soprattutto nella dinamica della privatizzazione della vita sociale da me (e da te) esaminata nella prima risposta. La “sinistra” vi aderisce non solo per la sua tra­ dizionale subalternità politica e culturale, esito della sto­ rica inferiorità dei dominati rispetto ai dominanti, ma perchè in essa la componente anarchica anti-statuale si è alla fine affermata contro la componente che tendeva ad una “egemonia” alternativa a quella dei dominanti stessi. Non si tratta più però dell’anarchismo storico dei brac­ cianti andalusi o degli artigiani svizzeri, ma del nuovo anarchismo postmoderno dei ceti intellettuali parassitari, che è sempre e soltanto una variante spocchiosa e snob dell’individualismo liberale. E questa la ragione per cui è diventata storicamente obsoleta la pur generosa difesa di Bobbio dell’identità differenziale della Sinistra rispetto alla Destra in base all’idealtipo pratico dell’eguaglian­ za. Per essere praticata e non restare un’ipocrita parola vuota, l’eguaglianza ha appunto bisogno della sovranità politica di forze sociali che si coagulano necessariamen­ te anche intorno ad una statualità decisionale. Il libero gioco sovrano delle forze economiche produce soltanto incremento della diseguaglianza. Noi ci troviamo oggi

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in questa situazione, e l’approdo ideologico neolibera­ le della “sinistra” è un fattore aggiuntivo del blocco di fronte a cui ci troviamo. Lo stesso esito giudiziario della sinistra anti-berlusconiana in Italia, ridotta a spiare dal buco della serratura della villa di Arcore, rivela la natura privatistica cui è ridotto il conflitto politico oggi. Non ne verremo fuori presto, purtroppo.

La

p r iv a t iz z a z io n e g e o p o l it ic a glo ba le

3) I l nuovo modello d i sviluppo, in realtà nuovo non 10 è affatto, il suo avvento in Italia e in Europa è dovuto alla esportazione d i esso dagli USA. L’esten­ sione del modello economico globalizzato a ll’Italia e progressivamente all’Europa dilaniata dalla crisi del debito, rappresenta sem m ai l’omologazione ad un americanismo, concepito come sistema globale non solo dal punto d i vista economico, ma anche sociale e culturale. È ormai scontato affermare che la stessa economia d i mercato conduce necessaria­ mente alla società di mercato, nel senso che tutte le relazioni um ane si conformano alla prassi eco­ nomica della concorrenza e del libero mercato. La globalizzazione conduce q u in d i alla totalità globa­ le del sistema economico, in quanto quest’ultim o coinvolge nella sua logica estensiva tu tta l’esisten­ za umana. Non resterebbe dunque altro orizzonte esistenziale per l’uomo che quello costituire una risorsa um ana idonea a creare valore nel sistema produttivo, pena l’impossibilità d i sopravvivenza. 11 sistetna economico liberista globale abbisogna di continue innovazioni, ristrutturazioni industria­ li, mobilità estrema delle risorse produttive, allo scopo d i adeguarsi continuamente agli standard di

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produttività e competitività emergenti dal merca­ to. Pertanto, il lavoratore è soggetto ad una insta­ bilità permanente, a vivere come uno stato quoti­ diano di normalità quelle condizioni di emergen­ za e di precarietà che in passato erano proprie di periodi temporanei (anche se prorogati nel tempo) di gravi crisi economiche, o di eccezionalità dovute a calamità naturali, guerre, carestie straordinarie generalizzate. Pali condizioni sono rilevabili nella storia in concomitanza dei periodi post - bellici o post - rivoluzionari, ma le situazioni di emergen­ za erano però percepite come fa s i necessariamente propedeutiche a fu tu r e prospettive di sviluppo elo alla edificazione d i una nuova società, alla realiz­ zazione cioè d i società ideali incardinate su valori u m a n i im m a nenti alla storia. D i im m anente nel­ la società globalizzata c’è invece solo la precarietà e l’incubo del fu tu ro prossimo. La precarietà è in fa t­ ti una condizione che coinvolge la totalità sociale e quindi, oltre che i lavoratori subordinati, anche il menagement, che, allo scopo d i rendere l’im pre­ sa flessibile alle esigenze della com petitività del mercato globale, assume una struttura dinam ica e flessibile, nelle tecniche d ì produzione, nella delo­ calizzazione degli im pianti, nell’impiego delle r i­ sorse. La vecchie grandi concentrazioni industriali, hanno da tempo ceduto il passo alla fram m entazio­ ne in una m iriade di neivco delocalizzate, ognuna legata ad un progetto di sviluppo a breve termine. In tale contesto, sia il manager che l’operaio sono accomunati da un destino precario permanente, quali risorse um ane fu n g ib ili, im piegabili in un progetto a breve termine. La concorrenza selvaggia del nuovo capitalismo non genera l’eccellenza del­ le tecniche d i produzione, né nuovi investim enti,

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la cui ricaduta sociale produrrebbe m iglioram enti del tenore di vita dei lavoratori, ma solo tecniche di sopravvivenza d i tu tti i propri componenti, la cui esistenza è direttam ente dipendente dai pro­ getti industriali a breve termine. Allo stesso modo, se la concorrenza del vecchio capitalismo industria­ le doveva, almeno in teoria, generare, attraverso una selezione darw iniana, l’eccellenza delle capa­ cità im prenditoriali e delle conoscenze innovative in campo tecnico e scientifico, il nuovo capitalismo ha sostituito il mito prometeico della conquista di sempre nuovi orizzonti del progresso e della civi­ lizzazione umana, con la capacità di sopravvivere alla emergenza connaturata alle condizioni d i pre­ carietà permanente. La “strategia di sopravviven­ za”, come definita da Lasch, produce individualità deboli, ma perfettam ente omologabili a i m uta­ m enti ciclici dei mercati e comunque integrabili in un modo di produzione che non richiede stabilità e fin a lità um ane ulteriori alla logica della sopravvi­ venza, cui è legato l’intero sistema. I l senso dell’es­ sere è sostituito dalla “strategia d i sopravvivenza”. Le tue considerazioni sulla centralità della precarietà del lavoro oggi, e sul fatto che da categoria puramente economica attinente il mercato del lavoro (l’economia di mercato) essa sia diventata una categoria antropologica generale attinente la riproduzione sociale complessiva (la società di mercato) sono convergenti con quelle di un re­ cente saggio di Eugenio Orso (cfr. Alienazioni e Uomo Pre­ cario, prefazione di Costanzo Preve, editrice Petite Plaisance, Pistoia 2011). Dal momento che ritengo che Orso abbia individuato il centro del problema, assai meglio di quanto fino ad ora fatto dalla sociologia universitaria italiana, non farò considerazioni ulteriori, inevitabilmen­

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te pleonastiche, ma mi concentrerò su di un solo punto, che d’altronde tu indichi con chiarezza, e cioè il rapporto stretto fra modello della precarietà generalizzata ed americanizzazione di tutti i rapporti sociali. Così come oggi noi la conosciamo, la globalizzazione è inseparabile dal dominio geopolitico, finanziario e mili­ tare dell’impero USA. Certo, in teoria una diversa globa­ lizzazione interamente policentrica sarebbe concepibile, ma in pratica il modello attuale di globalizzazione sotto dominio militare e finanziario americano è l’unico concre­ tamente esistente, ed è impossibile parlare di Italia e di Europa senza partire dal fatto che l’Italia e l’Europa sono militarmente occupate da basi militari USA dotate di armi atomiche, essendo da tempo venuto meno il pretesto della loro permanenza (e cioè il contenimento del comu­ niSmo sovietico). Per questa ragione un approccio pura­ mente economico, dei problemi (il “ricatto Marchionne”, eccetera) è del tutto insufficiente, e rischia anche di diven­ tare un alibi per evitare la presa in considerazione lucida del problema. Da qualche tempo, l’ex-marxista (ed ora apertamen­ te post-marxista) Gianfranco La Grassa ha cambiato di nome il suo blog, passando da “Ripensare Marx” a “Con­ flitti e Strategie”. Tre parole dicono tutto, perchè il quasi cinquantennale viaggio di La Grassa dentro il pensiero di Marx (modello di serietà rispetto alla retorica vuota di personaggi come Ingrao, Rossanda, Bertinotti, Vendo­ la, eccetera) è sfociato nella considerazione esclusiva dei conflitti e delle strategie geopolitiche. Qui certamente ha giocato un ruolo anche il rifiuto althusseriano della cate­ goria di alienazione, messa invece al centro del discorso dal saggio Orso, ma ritengo personalmente errato e fuor­ viarne insolentire La Grassa per aver preferito il vecchio porco puttaniere Berlusconi (considerato geopoliticamente il “male minore” in quanto legato all’ENI, a Putin ed a

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Gheddafi) alla “sinistra”, che si è data come direzione stra­ tegica il gruppo editoriale Scalfari-De Benedetti, e che ha abolito il popolo, accusato surrealmente di “populismo”, sostituendolo con un’Armata Brancaleone di Santoro, Saviano, popolo viola e cortei di femministe indignate. Al di là di pittoresche polemiche, inevitabilmente sopra le righe, ci sta qui un problema teorico serio: fino a che pun­ to l’esclusiva considerazione geopolitica dei fatti econo­ mici, politici e sociali può di fatto “cancellare” la concreta esistenza di sfruttati e di sfruttatori, e del fatto che per il punto di vista degli sfruttati bisogna perlomeno conserva­ re un “occhio di riguardo”? E impossibile dare una ricetta generale ed evitare il giudizio tattico caso per caso. Ma cercando di impostare il problema in modo teoricamente dignitoso, direi che la deriva di La Grassa può essere evitata soltanto ricono­ scendone parzialmente il nucleo razionale che l’ha cau­ sata e cioè il fatto che talvolta nella storia la semplice contrapposizione polare Lavoro Salariato-Capitale non ci permette di fare luce sulla concreta congiuntura stori­ ca in cui ci troviamo, se questa congiuntura storica è caratterizzata da una particolare “sovradeterminazione” geopolitica. Personalmente, non penso affatto che i ca­ pitalismi brasiliano, cinese o indiano siano moralmente migliori e preferibili a quello americano (di cui l’Europa è oggi solo una miserabile appendice priva di sovranità militare e soprattutto mediatica e culturale). Penso però (e qui concordo con la rivista “Eurasia”, con La Gras­ sa e soprattutto con Alain de Benoist, oltre che con la stragrande maggioranza dei rivoluzionari detti “terzo­ mondisti”, arabi in primo luogo) che il sistema del pre­ cariato generalizzato, fondato sull’economia del debito e del ricatto (un ricatto molto maggiore del cosiddetto “ricatto Marchionne”), sia per ora coordinato a livello internazionale dall’impero militare USA, che è per que­

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sta ragione il nemico principale. Non possiamo ignorare che esiste una “catena dei perchè” e che bisogna risalire sempre all’anello principale della catena, che tiene tutti gli altri. Non è obbligatorio essere contro l’alienazione ed il lavoro precario. Esiste sempre la filatelia, la pesca con la lenza e la pedofilia telematica. Ma se invece si de­ cide di battersi contro la prima, allora gli USA restano il nemico principale, ed anche da La Grassa è possibile imparare qualcosa, pur non seguendolo nelle sue allucinazioni scientistiche ed anti-umanistiche.

L a p r iv a t iz z a z io n e

p o s it iv is t a

- c a pit a l ist a

4) La estrema mobilità virtuale del mondo dell’eco­ nomia globalizzata, cela in se una sostanziale im ­ mobilità d i fondo. Esso riproduce eternamente se stesso, è im m utabile nelle sue leggi economiche, nei suoi param etri d i analisi delle situazioni storiche e geopolitiche dei popoli, nelle sue soluzioni alle crisi ricorrenti: esso sana i suoi m ali con le terapie che hanno provocato la patologia stessa. Il mondo glo­ balizzato non è aperto alla innovazione e alla d i­ versità, ma al contrario si presenta chiuso a d ogni possibilità d i mutamento dei propri orizzonti, non integra le specificità e le identità diverse da se stes­ so, ma, a l contrario ha la funzione di soppiantare popoli e culture. N el contesto di una visione storico -filosofica distaccata dall’immediatezza dell’a ttu a ­ lità del presente, il capitalismo odierno è un mondo, inteso in senso hegeliano, come “u n ità dinamica dì una totalità d i elem enti". I l mondo del capitalismo è in fa tti costituito da una serie d i elementi storica­ mente contingenti, ma che vengono resi coerenti da un sistema concettuale unitario, in cui la storia e

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il divenire dell’uomo risultano inglobati in una lo­ gica che necessariamente conduce alla realizzazione compiuta del “mondo” capitalista. Esso è autorifles­ sivo nei propri postulati sistemici, in quanto non può esistere storia passata o fu tu r a che non venga integrata nella logica del proprio sviluppo. Esso non concepisce trasformazioni storico - politiche estranee a se stesso, in quanto qualsivoglia fenomeno viene ricondotto ad una diversità interna e coerente con i presupposti del suo sistema. Esso riproduce eter­ namente se stesso nel tempo storico e nello spazio geopolitico globale, in quanto ogni alternativa ad esso viene ridotta a momento contingente del pro­ prio sviluppo intrinsecamente unitario. Da una obiettiva analisi del “mondo” capitalista, non può che scaturire una visione del capitalismo stesso, come un mondo chiuso, un fenomeno compiuto e storicamente ormai esaurito, incapace di rappor­ tarsi dialetticamente ad elem enti ad esso estranei e!o contrapposti con cui confrontarsi, e, la sua stes­ sa capacità d i autoriproduzione è oggi fortemente messa in dubbio dalla crisi sistemica dell’economia del 2008, dina n zi alla quale non sa proporre altre soluzioni che vadano oltre la riproposizione d i quel­ la economia finanziaria che ha determinato il suo temporaneo collasso. D in a n zi ad un mondo che ha ormai concluso il suo percorso storico, della cui crisi irreversibile occorre prendere atto, è necessario non fa rsi coinvolgere nei lim iti ristretti della condizione um ana del nostro tempo. Occorre semmai riscoprire i presupposti della condizione storica in cui ci è dato d i vivere, poiché un mondo chiuso nella riproduzio­ ne dì se stesso non può p iù produrre storia. Bisogna concepire il proprio pensiero come un term ine dia­ lettico d i confronto e di opposizione ad un sistema

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- mondo unitario, non perché universale, ma solo unilaterale ed autoreferente. L’imperativo morale del presente è dunque “vivere oltre le condizioni del nostro tempo”. Occorre allora elaborare soluzioni che concepiscano orizzonti al di là ed al di fu o ri del mondo del capitalismo. Vivere oltre il proprio tem ­ po non significa tuttavia estraniarsi dal presente storico. La realtà obiettiva del mondo capitalista deve semmai costituire il necessario termine d i r i­ ferim ento dialettico con cui confrontarsi e valutare criticamente la compatibilità del proprio pensiero e delle prospettive d i superamento della condizione coattiva del presente, sempre in relazione alla real­ tà storica contingente del nostro tempo. La tesi da te esposta in questa tua quarta domanda coin­ cide nell’essenziale con la tesi recentemente sviluppata in modo analitico da un saggio di Diego Fusaro (cfr. Essere senza Tempo, Bompiani, Milano 2010) e questo non é un caso, perchè segnala che comincia ad esserci una percezio­ ne diffusa del fenomeno storico-politico cui fate entrambi riferimento. Dal momento che la condivido interamente, specialmente nella chiara forma sintetica con cui tu la ri­ assumi, ritengo inutile parafrasarla in vari modi, mentre è più utile riprendere brevemente il metodo storico da me già sviluppato nella mia prima risposta, in cui cercavo le radici storiche alternative per spiegare il fenomeno da te indicato come “privatizzazione della vita sociale”, che è effettivamente il cuore della questione storica e politica che si tratta di contrastare, sia pure con le nostre debolis­ sime e per ora quasi invisibili forze. Risalendo al settecento, secolo decisivo per la for­ mazione dell’immagine del mondo contemporaneo, ci accorgiamo che la legittimazione ideologica dei nuovi rapporti di produzione capitalistici (con la classe borghe­

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se come portatore storico ed economico, nel linguaggio di Marx Trager) viene argomentata in due modi diversi, in base al progresso storico (e quindi al parametro della temporalità storica come fondamento di legittimazione in ultima e decisiva istanza) ed in base alla mera natura­ lità sociale da restaurare contro un presunto “artificialismo” feudale e signorile. Le due strategie di legittima­ zione, se vogliamo usare una metafora militare, “mar­ ciano separate e colpiscono unite”, ma oggi ci rendiamo conto che nella complessa dialettica storica ed ideologica la seconda sta prevalendo sulla prima, e bisogna allora capire bene il perchè. La legittimazione della nuova società borghese-capi­ talistica attraverso il concetto di progresso resta ovvia­ mente la principale, ed in ogni caso la più “visibile”. Il progresso (si veda in particolare Condorcet) viene visto come aumento del dominio tecnico e scientifico dell’uo­ mo sulla natura (il che comporta fisiologicamente come suo opposto complementare anche una riscoperta della “natura” in quanto tale), unito ad un incivilimento dei costumi individuali e sociali, laddove questo secondo processo di incivilimento è pensato nella forma dell’i­ deale regolativo illimitato che non può però mai asin­ toticamente raggiungere un fine ultimo (Kant). In forte contrasto con la saggezza greca, basata sul concetto di “lim ite” (peras), qui si è invece di fronte alla centralità fondativa dell’illimitato, e niente mi toglierà mai dalla testa che questa fondazione filosofica del progresso il­ limitato come idea regolativa non sia che il raddoppia­ mento nel cielo delle idee del carattere potenzialmente illimitato della produzione capitalistica, al di là della “falsa coscienza necessaria” dei teorici che la stavano ela­ borando. Qui è decisivo il carattere contrastivo con la precedente legittimazione ideologica signorile e feudale, basata invece sul carattere sacrale e divino (e quindi non

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“progressistico”) dei potere e sulla riproduzione ciclica di una economia fondata sull’agricoltura e sulla estorsio­ ne regolata dalla rendita fondiaria. Se esiste un sintomo decisivo per comprendere il ca­ rattere penosamente subalterno del marxismo storico, che rimanda ovviamente al carattere subalterno delle sue classi di riferimento popolari, proletarie, operaie e salariate, esso sta appunto nel fatto che esse recepisco­ no quasi integralmente la teoria borghese-capitalistica del progresso storico, senza vederne in alcun modo il suo carattere intimamente borghese. Il fatto che alcuni intellettuali di orientamento marxista e socialista (cito qui soltanto Georges Sorel e Walter Benjamin) abbia­ no cercato invano di trovare un fondamento alternativo a quello del progresso per legittimare una concezione anticapitalistica del mondo, e che questi tentativi siano sempre stati regolarmente respinti, spesso diffondendo il sospetto che si trattasse di astute strategie di “infiltrazio­ ne” della cultura antiprogressista della “destra” eterna, ci segnala come il mantenimento della dicotomia rigida Destra/Sinistra non sia affatto stata innocua e marginale, ma abbia funzionato da ostacolo “ostativo” al chiarimen­ to della questione. E tuttavia, a fianco della legittimazione “progressistica” dominante, è sempre esistita una legittimazione “naturalistica” della produzione capitalistica in base al ritorno alle vere leggi della natura. Su questo punto la scuola francese dei fisiocratici e la scuola inglese dell’e­ conomia politica (Hume e Smith soprattutto) hanno sempre avuto posizioni comuni, al di là dell’importanza differenziata data rispettivamente all’agricoltura oppure all’industria. Mentre nella concezione progressistica la temporalità veniva investita di un significato migliora­ tivo ed ascendente, nella concezione naturalistica la tem­ poralità era fortemente ridimensionata rispetto all’ob­

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bedienza alle (presunte, ed in realtà inesistenti) leggi della natura. Il successivo positivismo ottocentesco (cui il marxismo storico realmente esistito fu sempre e sol­ tanto una variante ideologizzata di “sinistra”) cercò di unire insieme il concetto di progresso con il concetto di decisività della “legge”, estesa ed estrapolata dalla natu­ ra alla società. Ma ci sta qui una contraddizione logica, perchè se una “legge” è veramente tale (ad esempio, la presunta legge della domanda e dell’offerta come fonda­ mento della riproduzione sociale e comunitaria), essa lo è in modo assoluto, e non relativo allo scorrimento della temporalità storica, progressistica o decadentistica che la si voglia. Gran parte della filosofìa novecentesca deve essere interpretata come segnale, sia pure incerto e con­ traddittorio (dovuto all’ipocrisia degli apparati ideologi­ ci, universitari, sempre e comunque “clero” secolarizzato del potere), del fatto che è assolutamente incompatibile sostenere contemporaneamente che il capitalismo è un vet­ tore del progresso storico e sociale e che è invece ferre­ amente dipendente dalle leggi naturali di riproduzione del sistema economico. L’immobilità di fondo che segnalate sia tu che Fusaro deve quindi essere interpretata non tanto come una vittoria finale della tesi naturalistica su quella progres­ sistica (anche se questo aspetto è il più visibile in su­ perficie nel chiacchiericcio mediatico di giornalisti ed economisti), ma come il riflesso ideologico sovrastrutturale dell’approdo della produzione capitalistica globa­ lizzata ad una fase “speculativa”, che si lascia alle spalle le precedenti fasi astratta e dialettica (non ripeto qui per ragioni di spazio la mia tesi periodizzante del capitali­ smo, già ampiamente esposta altrove), in quanto questa fase speculativa implica un grado, altissimo di destoricizzazione e di desocializzazione, quella appunto che tu hai brillantemente definito la privatizzazione della vita

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sociale. È anche legittimo ipotizzare, come del resto tu fai (ma sono d ’accordo anch’io) che il capitalismo si mo­ stra così logicamente un mondo chiuso ed un fenomeno compiuto e ormai esaurito, e questo paradossalmente perché non sono più i rivoluzionari o i marxisti a dir­ lo, ma lo dichiarano apertamente i suoi stessi apologeti. Dopo avere per un secolo battuto il tamburo sul marxi­ smo come teoria escatologico-messianica della fine della storia (e per di più con alcuni argomenti assolutamente pertinenti, vedi Weber, Croce e Lowith), adesso sono essi stessi diventati i banditori di questa fine “naturalistica” della storia, implosa ormai in una fatalità crematistica intrasformabìie. Che dire? Vergogna a tutti coloro che si fanno porta­ tori di questa fine della storia, ed onore a tutti coloro che vi si oppongono!

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L’indifferentismo morale e la cultura dell’individualismo di massa

L ib ia : ipo c r is ia pa cifista e m or a lism o arm ato a m er ic a n o

1) I l degrado politico —culturale delle classi dirigen­ ti della politica sia italiana che europea, riflette il venir meno nell’am bito della società occidentale d i valori d i carattere etico riconosciuti, su cui cioè, possa fondarsi u n giudizio morale che presieda alle scelte politiche dei popoli chiam ati alle urne. L’indifferentism o morale collettivo, è ahim è con­ statabile in questi giorni d in a n zi alla aggressione arm ata dell’Occidente nei confronti della Libia, stato sovrano riconosciuto dall’ONU, bombardato in base ad una risoluzione delle N azioni U nite vo­ luta da Obama. G li USA hanno decretato la fine di Gheddafl senza che tale risoluzione, emessa in spre­ gio del diritto internazionale, fosse condannata dal sentire comune dei popoli, come se tali avvenim en­ ti, in cui l’Ita lia è coinvolta in p rim a persona, si verificassero in a ltri mondi ed altri tempi. Non su­ scita certo entusiasmo l’aggressività arm ata della Nato, né suscita molta indignazione la condanna dei presunti “crim ini contro l’u m a n ità ” attrib u ita a Gheddafl, ma la politica im perialista americana e lo stato d i soggezione dei paesi vassalli europei sono f a t t i che vengono accettati acriticamente come tino stato d i fa tto che prescinde dalla volontà dei popoli, ormai estraniati dalle scelte politiche delle classi dirigenti. T u tti ricordano i m ilioni di m a­ nifesta n ti scesi nelle piazze di tu tta l’Europa nel 2003 per condannare la guerra d i Bush contro l’I ­ raq, ma quei sentim enti d i protesta e d i condanna

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contro l’imperialismo armato degli USA sembrano scomparsi. In realtà l’esaurirsi di tale dissenso è dovuto proprio al suo contenuto ideologico “pacifi­ sta”. Si condannava l’America, in quanto aggres­ sore armato dell’Iraq, ma nel contempo si condan­ navano i “crim ini contro l’u m a n ità ” di Saddam, e si invocava la pace. Questo linguaggio pacifista adattato ai tem pi odierni assume questa chiave d i lettura: si deve condannare l’intervento armato della Nato, ma Gheddafi, in quanto criminale in ­ ternazionale deve essere destituito e processato, ma il tutto deve avvenire per via pacifica. È eviden­ te che in ta l modo la protesta sposerebbe nella so­ stanza la strategia americana (tra l’altro tendente al disimpegno m ilitare diretto), ma contesterebbe solo le modalità esecutive. Ipocritamente non si ef­ fettu a n o scelte di campo: nessuno sta con Obama, nessuno con Gheddafi, tu tti siamo per la pace. La protesta pacifista fa llì nel 2003, perché non si ef­ fettuarono chiare scelte di campo. Occorre in fa tti schierarsi sia con Gheddafi che con Saddam, non con le loro p u r discutibili persone, ma come rap­ presentanti legittim i d i stati sovrani. La scelta è la seguente: o si prendono le p a r ti dell’im periali­ smo armato occidentale, oppure ci si batte per la sovranità degli sta ti ed il diritto internazionale, tertium non datur. L’indifferentism o morale col­ lettivo attuale è la conseguenza della morale della non scelta, dell’assenza di una causa con obiettivi politici concreti da conseguire. Applicato direttamente e senza mediazione ai fatti storici, politici e sociali, il moralismo non è solo la mor­ te della politica, ma è anche e soprattutto la morte della stessa morale. La morale, infatti, è sempre la specifì-

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cazione problematica all’interno della singola coscien­ za individuale dell’etica, e senza un’etica comunitaria sensata la stessa morale si agita in un vuoto pneuma­ tico senza fondamenti, consegnata al più puro arbitrio (cfr. Costanzo Preve, Storia dell’Etica, Petite Plaisance, Pistoia 2007). Ma la stessa etica trova il suo fondamen­ to in una ontologia dell’essere sociale, che a sua volta presuppone un’analisi “materiale” dell’economia e del­ la geopolitica internazionale. Il moralismo non sa che farsene di tutto questo, perchè è il regno dell’arbitrio soggettivo spacciato per riferimento a presunti “eterni valori dell’Uomo”. L’indifferentismo morale cui tu fai giustamente ri­ ferimento, e che correttamente attribuisci al degrado delle classi dirigenti italiane ed europee (senza mai di­ menticare che la testa del serpente non sta a Roma o a Parigi, ma a W ashington e nella pretesa messianica di uniformare il mondo intero al solo criterio di giudizio protestante e sionista), è però il prodotto dialettico per­ verso di una ipertrofia moralistica ipocrita, e non nasce dal nulla, ma deve essere diagnosticato correttamente, se vogliamo guarirne ed uscirne fuori. La recente guerra USA-NATO contro la Libia di Gheddafi, cui fai rife­ rimento (scrivo nel giorno di Pasqua 2011, e quindi non posso conoscerne ancora gli esiti, che immagino comunque tragici per il popolo libico e per il diritto internazionale) ne è un esempio, ed è bene parlarne di­ rettamente. Non è certamente la prima volta che assi­ stiamo a questo copione di manipolazione organizzata e di criminalità mcdiatica. Dopo la dissoluzione del comuniSmo storico novecentesco, talvolta impropria­ mente battezzato come “dittatura totalitaria” o come “socialismo reale”, il caso-Libia è solo la terza volta. La prima volta è stata la Jugoslavia (1999), e la seconda volta l’Irak (2003). In tu tti e tre questi casi la sfacciata

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violazione del diritto internazionale è stata ipocritamente motivata con ragioni “um anitarie” cui è stata in­ collata anche la nuova ideologia neoliberale del diritto incondizionato di abbattere i “dittatori”. Il “moralismo giudiziario”, inaugurato con i processi di Norimberga e di Tokio (quest’ultimo ancora più sfacciato del prece­ dente) vuole anche la sanzione processuale dei Cattivi, e questo non è affatto un caso. Non è affatto un caso, perchè la riduzione del diritto internazionale a diritto penale rivolto verso i “dittatori” (qui non c’è differenza fra Milosevic, Saddam Hussein e Gheddafi, perchè tutti e tre vengono simbolicamente “hitlerizzati” per poterne legittimare il trascinamento in giudizio) non è che la conseguenza di quella privatizza­ zione della vita sociale cui abbiamo già entrambi ampia­ mente fatto riferimento in una conversazione preceden­ te. Sulla base di questo criterio, Napoleone non sarebbe finito a Sant’Elena, ma sarebbe stato processato da una corte penale inglese, russa, austriaca e prussiana. Cavour e Bismarck sarebbero stati certamente processati, perchè non c’è dubbio che nel perseguire le loro finalità poli­ tiche (rispettivamente l’unificazione dell’Italia e della Germania) commisero certamente crimini penali di ogni tipo. La storia deve quindi ritenersi conclusa (vedi l’i­ deologia imperiale americana di Francis Fukuyama sul­ la fine della storia), e conclusa in una globalizzazione finanziaria generalizzata e guida militare e geopolitica americana. In questo quadro il “pubblico” è ridotto a economia (più esattamente, a crematistica), e tutto il re­ sto è privatizzato, civilmente o penalmente. Il discorso sarebbe lungo, e non può essere fatto in questa sede per ragioni di spazio. Conviene invece limi­ tarsi ad un punto solo, del resto da te bene individuato, che è la vergognosa impotenza e connivenza del cosiddet­ to “pacifismo”.

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Del pacifismo (chiamato a volte in modo classicistico “irenisno”) sono state date molte definizioni, che a volte complicano le cose anziché chiarirle. In questa sede per ragioni di brevità e di chiarezza, mi limiterò a segnalar­ ne due. In primo luogo, esiste un pacifismo assoluto, che però a scanso di equivoci è bene definire subito come “non-violenza”, e che non ha nulla e che fare con il berciare “pace, pace” in irrilevanti cortei ai cui fianchi esagitati in passamontagna danno fuoco a cassonetti e spaccano vetrine in genere ampiamente assicurate, nu­ trendo così le assicurazioni e lo spettacolo mediatico. La non-violenza è una tecnica politica individuale e col­ lettiva, rivolta ad ottenere scopi, e deve essere giudicata esclusivamente dal fatto se questi scopi vengono o no ottenuti, non certo dal salmodiare pecoresco di belan­ ti dipinti (vedi Gandhi, eccetera.). In secondo luogo, possiamo chiamare pacifismo la risoluzione pacifica di conflitti originariamente violenti ed addirittura armati in cui le due parti vengono chiamate intorno ad un tavo­ lo di negoziazione in presenza di un arbitro imparziale. Nel caso della Libia 2011, il solo “pacifista” degno di questo nome è stata l’organizzazione dell’Unità Africa­ na, il cui tentativo di mediazione è fallito a causa del fatto che una delle due parti, che stava per perdere sulla base delle sue sole forze, puntava ad una vittoria totale dato l’appoggio dei bombardamenti USA e NATO. Non chiamo invece “pacifisti”, perché non lo sono in alcun modo, gli interventisti “umanitari” violatori del diritto internazionale, che dovrebbero essere connotati invece come “guerristi”, se le parole avessero ancora un senso non del tutto “colonizzato” dalla manipolazione seman­ tica del potere. Mi congratulo con il tuo coraggio morale quando dici che occorre schierarsi sia con Gheddafi che con Saddam, e non con le loro discutibili persone, ma come rappre­

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sentanti legittimi di stati sovrani. Questa è esattamente anche la mia posizione. Sono stato con Milosevic (1999) e con Saddam (2003), e sono oggi con Gheddafi (2011). In questo modo viene colto il punto cruciale della que­ stione, che sta nella illegittimità e nella infondatezza (sia politica che morale) della pretesa dell’assolutezza del diritto arbitrario sul principio dell’interventismo uma­ nitario. Per avere un senso, il termine di “interventismo umanitario” deve essere ferreamente limitato ai terremo­ ti, alle catastrofi nucleari, agli tsunami, alle carestie, ed a tutto ciò in cui è in gioco la solidarietà fra individui, po­ poli e nazioni. L’interventismo militare geopolitico che si traveste da intervento umanitario (falsificando anche le risoluzioni ONU, che parlavano solo di no-flight-zone, e non di diritto al bombardamento con intervento uni­ laterale in una guerra civile fra libici) è invece sempre e solo “guerrrismo”, ed in nessun modo “pacifismo”. Ma allora, che cosa muove le cornacchie di “sinistra” interventiste, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Dario Fo, Franca Rame, eccetera (non parlo qui certo di Giorgio Napolitano, esponente organico della subordinazione italiana agli USA ed alla Nato)? Si è trattato di un impazzimento collettivo? In parte sì. Certamente, di un impazzimento ideologico genera­ lizzato. Ci può aiutare la scuola di Palo Alto in Califor­ nia (Berkeley), che studia le psicosi dei bambini, sulla base dei messaggi contraddittori che ricevono dai com­ portamenti contraddittori dei loro genitori, e che non sanno ovviamente padroneggiare, decifrare ed elaborare. Tutta questa gente “di sinistra” non aveva mai conside­ rato un “valore” la sovranità nazionale, in nome della astratta solidarietà internazionalistica su base puramente classista. Adesso questi sventurati hanno semplicemente rovesciato il vecchio nichilismo nazionale a base anarcoi­ de (per cui i ribelli hanno sempre ragione contro un fan­

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tomatico “potere”, indipendentemente dal loro concreto programma politico e sociale, che può essere ben peg­ giore di quello del potere precedente) in cosmopolitismo astratto di generici “diritti umani” a base moralistica. Ma torniamo all’esempio dell’impazzimento sulla base della mancata elaborazione di messaggi contraddittori. Da un lato, questi fallimentari disgraziati recepiscono il messaggio dei mass media occidentali in modo pressoché integrale e non filtrato da un metodo critico (Milosevic macellaio dei Balcani, Saddam Hussein dittatore sangui­ nario, Gheddafi ridicolo tirannello amico di Berlusconi, eccetera). Dall’altro, e contraddittoriamente, dopo aver recepito l’immagine del Crudele Dittatore con simbolici baffi alla Hitler-Stalin, devono però belare “pace, pace” in nome del riferimento astratto al pacifismo. Ma questi belati non possono resistere al fascino della teoria dei diritti umani, pilastro del Politicamente Corretto con cui questi sventurati (a mio avviso più degni di pietà che disprezzo) hanno sostituito il precedente Operai­ smo Mistico (viva la FIOM) ed il precedente Culto del Guerrigliero Eroico (viva Che Guevara). L’impazzimento ideologico che ne consegue, come nel caso dei bambini curati a Palo Alto, li ha portati a gridare: “Viva la Pace! Uccidete il sanguinario dittatore, anche con i bombardamenti USA e NATO, se necessario!!”. C’è una lezione da trarre da tutta questa grottesca e triste storia? Certo che c’è. La lezione consiste in ciò, che il pacifismo non può essere agitato in modo astrat­ tamente ritualistico, ma richiede una fortissima base te­ orica, filosofica politica e morale. Occorre ricominciare a riconoscere l’aspetto principale e l’aspetto secondario dei problemi, e chiedersi come é possibile che i respon­ sabili della dittatura delle oligarchie crematistiche sia­ no nello stesso tempo i difensori dei diritti umani degli individui, dei popoli e delle nazioni. Il vergognoso tra­

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dimento della parola data (il patto d’amicizia fra Italia e Libia) è stato unanimemente avallato in Italia da tutta indistintamente la destra e la sinistra parlamentari, che hanno così ancora una volta mostrato alla luce del sole quella che per molti è ancora una tesi discutibile ed azzardata, e cioè l’attuale tramonto della dicotomia Destra/Sinistra. Che cosa ci vorrà ancora perchè si cominci a capire quella che è ormai sotto gli occhi di tu tti, e cioè l’omologazione degli estremi bipolari precedenti in un Estremismo di Centro a sorveglianza mediaticouniversitaria ed a permanente minaccia di bombardamenti NATO?

P e n sie r o u n ic o e in d if f e r e n t is m o m orale

2) Non esistono oggi né p a r titi né m ovim enti p o liti­ ci capaci d i interpretare il comune sentire, inteso come insieme d i valori morali e culturali d iffu si che nella società si contrappongano ad un ordine demo­ cratico, caratterizzato dall’assenza di fondam enti etici su cui possano legittim arsi le istituzioni degli stati. I l fenom eno della globalizzazione economica in atto, ha ridotto drasticamente la sovranità degli sta ti ed ha anche m utato profondamente la cultura dei popoli, he identità nazionali hanno ceduto il passo al cosmopolitismo globale, alle differenziazio­ n i culturali e linguistiche si sono sostituite nuove form e d i uniformazione culturale specie nei costu­ mi, nel modo d i sentire comune, per lo p iù plasmato dalla virtu a lità dell’im m agine erogata dai media. Inum anità sembra evolvere verso form e di omolo­ gazione del pensiero e del sentire che si impongo­ no nel mondo non unificandolo, ma trasformando l’um anità stessa in un agglomerato cosmopolita

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globale. Il globalismo indifferenziato non richiede certo adesione e consenso, ma si impone sia con le arm i che con la cultura e l’economia dei consumi. I l globalismo non comporta le scelte morali e le va­ lutazioni del pensiero critico, ma investe tu tti in un unico processo che viene inteso dalla generalità delle masse come necessario ed ineluttabile destino. Pertanto, in tale contesto è facilm ente spiegabile l’indifferentism o morale generalizzato nel nostro presente storico sia. d in a n zi alle guerre im periali­ stiche, che nei confronti d i certe scelte d i trasfor­ mazione sistemica dell’economia, che comportano l’abrogazione progressiva dello stato sociale, che nei rapporti interpersonali im prontati alle esigenze utilitaristiche dell’individuo. In questo program­ mato fluire indifferenziato d i eventi, la società non riproduce p iù sé stessa, dal momento che è la società stessa ad aver rinunciato ai suoi presupposti etici che ne assicurassero la sussistenza e la continuità. Una società globale indifferenziata non può che es­ sere sempre uguale a sé stessa, è la risultante d i uno stato di fa tto perm anente che non ha q u in d i alcuna esigenza d i riprodursi. Il economicismo glo­ bale ha distrutto inoltre i postulati basilari della stessa ragione economica. Prevale in fa tti, al di là dei suoi clamorosi fa llim en ti, l’economia fin a n zia ­ ria globale, fondata sui valori v irtu a li del merca­ to finanziario, sull’irrazionalismo delle masse dei consumatori — investitori, a discapito della produ­ zione, dello sviluppo, della redistribuzione della ricchezza. Un mondo indifferenziato globale è la conseguenza u ltim a di un nichilismo diffuso specie nell’am bito d i una cultura, che ha inteso da oltre un secolo prescindere dal pensiero critico e dal g iu ­ dizio morale. E sintomatico d i tale stato di cose,

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che generalmente, quando qualcuno voglia espri­ mere una propria opinione non perfettam ente in riga con il politically correct dominante, prem etta al suo discorso che il suo pensiero non vuole essere un giudizio morale. Bisogna riflettere sul fatto, apparentemente secondario e minore, ma sintomatico, per cui la gente si sbriga a dire che quanto dice non vuole essere un giudizio morale. Ciò è tanto più paradossale, ed apparentemente contradditto­ rio, quanto più la politica è stata soffocata dal moralismo degli scandali e dall’esportazione armata dei cosiddetti “diritti umani”, che essendo appunto “umani” non pos­ sono che essere a base morale. Ma si ha qui appunto a che fare con il fenomeno non tanto della sparizione della mo­ rale, che nella forma del moralismo ipocrita-giudiziario è invece ipertrofica, ma con la fine dell’etica, ed in partico­ lare dell’etica comunitaria. La gente non direbbe che quanto dice non vuole essere un giudizio morale se non percepisse confusamente che c’è intorno una sorta di indiretta pressione sociale confor­ mistica che “preme” per questa affermazione. Non è facile il capire il perchè. Ma se vogliamo capirlo, è necessario afferrare le cose alla radice. E la radice, a mio avviso, sta nella riduzione del concetto di libertà a libertà del con­ sumatore. Il consumatore può infatti consumare quello che vuole, fino a che l’oggetto del consumo non è dichia­ rato esplicitamente illegale (narcotici, pedopornografia, simboli nazisti, eccetera). Prima di essere caratteristiche dell’ideologia contemporanea diffusa, il relativismo ed il nichilismo sono caratteristiche organiche della libertà del consumatore, che secondo le curve di indifferenza dell’e­ conomia neoclassica si muove in base alla massimizzazio­ ne della propria “ofelimità” (il termine tecnico per indica­ re l’utilità personale).

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Tutto questo, ovviamente, non è affatto di per sé un male. Finché ci si muove nell’ambito della legalità, ognuno ha l ’insindacabile diritto sovrano di preferire un consumo ad un altro. C’è chi preferisce la nuotata in mare, chi l’escursione in montagna, chi infine il riposo in un agriturismo di campagna. C’è chi acquista libri rari, e chi invece preferisce un bel viaggio in un paese lontano. Qui ci si muove nella sfera della legittim a ra­ gione economica, ed allora il problema sta nel vedere fino a che punto quello che tu chiami “economicismo globale” abbia distrutto, insieme con l’etica comuni­ taria, la stessa ragione economica. In fondo alla catena scopriremo anche l’ometto che, convinto di essere un esprit fort libero da vecchi e sorpassati pregiudizi, so­ stiene che quanto afferma non vuole essere un giudizio morale. Tutta la tradizione filosofica occidentale è caratte­ rizzata dal tentativo di fondare il concetto di libertà in qualcosa che non si riducesse a semplice arbitrio. Per­ sino il termine di “libero arbitrio”, centrale nelle di­ scussioni teologiche sulla grazia e la predestinazione, è sempre stato correlato al corretto uso di questo stesso libero arbitrio, rivolto verso il Bene ed il Giusto e non verso il Male e l’Ingiusto. Il processo che Karl Polanyi ha descritto a livello storico (l’autonomizzazione dell’e­ conomia dalla sua precedente “incorporazione” politica, sociale e comunitaria) si è per così dire “duplicato” a livello ideologico-filosofico nella separazione prima e nella assolutizzazione poi, della libertà del consumatore rispetto ad ogni altro tipo di libertà. Da circa trent’anni, aH’interno della cosiddetta “deideologizzazione”, lo stes­ so elettore è trattato come un consumatore di prodotti politici preconfezionati nel mercato politico (campagne elettorali personalizzate, sondaggi praticamente indi­ stinguibili dai sondaggi commerciali, eccetera).

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Nella tradizione filosofica occidentale moderna il concetto di libertà è stato declinato in due modi fondamentali, quello del criticismo di Kant e quello dell’idea­ lismo di Hegel. In Kant la libertà (più esattamente il li­ bero arbitrio) è declinata come un postulato a priori del­ la ragion pratica, cioè del comportamento morale umano libero. Il soggetto kantiano è però “puro” ed astratto, e cioè integralmente destoricizzato e desocializzato, ed in questo modo il campo dell’etica, comunitario per defini­ zione, è integralmente ridotto a campo della morale in­ dividuale. L’etica è allora di fatto soltanto la sommatoria di singole morali individuali. Sebbene Kant non ne fosse probabilmente consapevole, e fosse mosso dalle migliori intenzioni illuministiche, anti-feudali, anti-signorili ed anti-assolutistiche, questa estrema individualizzazione della morale non faceva che “duplicare” in campo filo­ sofico l’analoga (e storicamente coeva) individualizzazio­ ne del comportamento economico effettuata da Adam Smith, anche se superficialmente il rigorismo dell’imperativo categorico kantiano non aveva nulla a che fare con la cosiddetta “etica della simpatia” fra venditore e compratore, che Kant avrebbe considerato eteronoma e non autonoma, e quindi nel suo linguaggio non com­ pletamente “morale”. Ma qui si ha a che fare con quel­ la fisiologica schizofrenia del grande pensiero borghese classico, che in seguito diede poi luogo alla famosa “co­ scienza infelice”. Il grande idealismo classico tedesco (i cui principali esponenti sono stati nell’ordine Fichte, Hegel e Marx, che non è affatto stato un filosofo materialista, ma inte­ gralmente idealista, sia pure in modo molto peculiare) nasce come critica dell’individualismo astratto di Kant, e prende di mira in particolare i suoi aspetti strutturali di destoricizzazione e di desocializzazione. La destoricizzazione e la desocializzazione non erano state per nulla

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degli “errori” di Kant, ma erano state ingredienti in­ dispensabili per effettuare la rottura con le precedenti fondazioni organicistiche delle società feudali e signorili e per poterle sostituire con la concezione di una nuova società liberale-borghese costituita da individui autono­ mi, liberi ed indipendenti. L’intera filosofia detta “mo­ derna", da Cartesio (il cogito) a Kant (l’Io Penso), doveva iniziare con una costituzione formalistica del soggetto, destoricizzato e desocializzato, perché solo in questo modo si “spianava la strada” alla società degli individui del tutto auto-fondati economicamente e moralmente. Hegel vuole invece ristabilire il rapporto fra filosofia e comunità, già magistralmente posto dai maestri greci, ma nello stesso tempo è consapevole di non poter “re­ staurare” il modello idealistico di Platone (di origine geometrico-pitagorica), perché nel frattempo il cristia­ nesimo monoteistico, che egli rifiuta eli considerare in termini di semplice superstizione e decadenza (come fa­ ranno dopo di lui i positivisti e Nietzsche), ha introdotto la nozione di coscienza storica, più o meno diversamente secolarizzata. In opposizione a Kant, per cui la libertà è un po­ stulato a priori di una soggettività individuale integral­ mente destoricizzata e desocializzata (la cui astrazione corrisponde al carattere “astratto” del lavoro capitali­ stico), per Hegel la libertà è un risultato, un consegui­ mento, il risultato finale di un processo storico e sociale di autocoscienza della libertà. Su questo punto non esi­ ste nessuna differenza filosofica Ira Marx ed Hegel, an­ che se ovviamente Marx era comunista e Hegel non lo era. L’individuo non è affatto cancellato o umiliato, al contrario. Semplicemente, esso non è assolutizzato, ed in questo modo non è posto astrattamente come vuota origine del Bene e del Male. L’individuo è correlato alla comunità di appartenenza, e si tratta allora di vedere se

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questa comunità di appartenenza sia o meno portatrice di valori universali, universalistici o universalizzabili. E qui viene non solo criticato quello che Marx chiamerà “robinsonismo”, nella duplice forma filosofica di Kant ed economica di Smith, ma viene espresso un concetto di libertà comunitario complessivo, che in quanto tale è incompatibile con il riduzionismo alla sola libertà del consumatore. La libertà del consumatore si basa su di un pedigree filosofico alternativo, quello di Hume e di Nietzsche, ereditato oggi da Faucault e da Toni Negri. Per Hume la libertà rimanda ad un soggetto che non è che un flusso variopinto di emozioni e di sensazioni, ed è pertanto il soggetto ideale per l’attuale seduzione consumistica del mercato pubblicitario. D ’altra parte, per Hume la socie­ tà non ha bisogno di essere fondata sull’esistenza di Dio, sul diritto naturale e sul contratto sociale, ma basta ed avanza il semplice rapporto di abitudine fra individui. Il sulfureo Nietzsche riprende integralmente la concezione antropologica del soggetto di Hume, in quanto il sog­ getto per Nietzsche non è che il flusso energetico della volontà di potenza. L’attuale concezione post-moderna della libertà del consumatore unifica genialmente Hume e Nietzsche, emargina quella di Kant (considerata trop­ po moralistica e ritenuta valida soltanto per seminari universitari esplicitamente rivolti contro la concezione comunitaria derivata da Hegel e poi da Marx), e si op­ pone frontalmente alla concezione di Hegel e di Marx, bollati come nemici della “società aperta” di Popper, non a caso diventato oggi il papa filosofico del capitalismo anglosassone. Società aperta che poi non è “aperta” per nulla, ma anzi è chiusissima, perché si basa sul presup­ posto della fine capitalistica della storia. Come si vede, una corretta diagnosi dell’odierno in­ differentismo morale, generalizzato, ipocritamente uni­

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to ad un continuo moralismo asfissiante, non può evitare di risalire alle origini dell’individualismo borghese mo­ derno. Il comuniSmo storico novecentesco recentemente defunto (1917-1991) non ha potuto e saputo in alcun modo contrapporvi si, perché le comunità non possono essere imposte artificialmente in modo dispotico, ed il dispotismo, in questo simile al latte, ha una vera e propria “data di scadenza”, che coincide con l’avvento di nuove generazioni storicamente estranee ai movi­ menti politici e sociali che hanno dato luogo a questi “dispotismi sociali”. Così come avvenne per il dantesco “contrappasso”, viviamo in un periodo storico in cui la diffusione dell’individualismo anomico è stata ideolo­ gicamente rilegittimata da questo crollo. La sola cosa sicura, però, è che si tratta di un fenomeno temporaneo e provvisorio.

Il m o r a l ism o

o r g a n ic o d e g l i in t e l l e t t u a l i

POST - MODERNI

3) Quando si evoca Vindifferentismo morale, in occi­ dente il riferim ento corre im m ediato al conformi­ smo delle masse, drogate dal consumismo indotto dallo strapotere dei media della persuasione col­ lettiva. Una socialità in cui prevale l’indifferenza generalizzata non è tale. È assai facile per un in ­ tellettuale organico emettere g iu d izi d i condanna morale sulle masse che non intendono il suo verbo e lamentare la sua emarginazione. M a l’intellet­ tuale emarginato dalle masse, che non interpreta il senso comune dom inante nella società in cui vive è una figura p riva d i senso nel contesto sociale in cui opera. La radice dell’indifferentism o morale della società odierna è da ricercarsi, sia dal p u n ­

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to di vista storico che filosofico nell’individualism o. A nzi, l’indifferentism o morale delle masse è la con­ seguenza u ltim a di un processo d i dissociazione tra l’individtio e la società affermatosi storicamente da almeno due secoli. Occorre in fa tti risalire alla genesi dell’individualism o per comprendere la lo­ gica storico - filosofica da cui scaturisce l’in d iffe ­ rentismo morale odierno. E in fa tti lo sgretolarsi progressivo dell’etica com unitaria a produrre la morale, intesa come l’etica individuale d i un uomo dissociato dalla società e dai valori comuni d i rife­ rimento. Che poi la morale si legittim i attraverso il prim ato del pensiero trascendentale (kantismo), oppure tram ite il prim ato della coscienza in d iv i­ duale (protestantesimo), la differenza non è così rilevante: in entram bi i casi l’uomo, espropriato della sua dimensione sociale, isolandosi dalla co­ m unità, incardina ì suoi valori in entità estranee all’uomo stesso. Il pensiero critico è soppiantato da direttive di comportamento cui l’io deve adeguarsi. Il precetto morale si sostituisce alla dialettica del confronto sociale perché l’individuo diviene l’unica fonte di legittim azione di sé stesso. Q uindi all’in ­ dividualismo morale succede l’individualism o prim a em pirista poi illum inista che, negando al pensiero filosofico ogni fondam ento metafisico, eli­ m ina dunque ogni causalità e fin a lità presupposta all’individuo, che diviene in tal modo unica causa di sé stesso e del proprio agire. Una volta ristret­ ti gli orizzonti del pensiero ad un agire fa ttu a le determinato dall’u tilità individuale e degradati i rapporti sociali a rapporti economici di scambio di merci e servizi, è evidente che le problematiche ine­ renti il giudizio etico — morale di sé stessi e della società appaiono determ inazioni prive di senso. La

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metafisica e la assiologia si sono trasformate in p si­ cologia individuale e d i massa, sedim entata ormai la relatività del proprio essere individuale e della stessa storia, ridotta nei lim iti temporali dell’esi­ stenza, si è realizzata la dissoluzione dell’io, che si è sciolto nell’acido dell’indifferentism o morale d i un individualism o massificato, che non è e non vuole essere una nuova e diversa filosofia dell’essere dell’uomo contemporaneo, ma la negazione stessa d i ogni dimensione etico — morale che conferisca senso alla vita stessa. La colpevolizzazione aristocratico-snobistica delle masse rappresenta una facile via di fuga per i cosiddetti “colti”, la cui cultura non gli permette però di capire che il consumismo non è un prodotto spontaneo che viene “dal basso”, ma una forma di integrazione artificiale in­ tegralmente gestita dai dominanti sui dominati. D ’altra parte, la recente dissoluzione del comuniSmo novecen­ tesco recentemente defunto deve pur sempre servirci da lezione, ed insegnarci che la compressione dei consumi individuali non è in alcun modo una forma di moraliz­ zazione, e tantomeno di ricostruzione etica comunitaria, ma soltanto una forma di anomia che poi porta al suo contrario, il riscatenamento dell’individualismo con­ sumistico (ed in questo l’esempio della Cina dovrà pur sempre essere preso in considerazione). Nel colpevolizzare le masse per la loro presunta “vol­ garità” si distinguono i cosiddetti “gruppi intellettuali”. Hai perfettamente ragione, e non posso che congratular­ mi con te, nel segnalare che è assai facile per un intellet­ tuale (organico ma non solo) emettere giudizi di condan­ na morale sulle masse che non intendono il suo verbo e lamentare la sua emarginazione. In questa mia terza risposta, quindi, mi limiterò ad esaminare il rapporto

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fra gli attuali gruppi intellettuali e le forme dominanti di individualismo. Queste forme derivano dalla società di mercato, e ci sarebbero anche se per ipotesi i grup­ pi intellettuali non esistessero. Ma le forme attuali della riproduzione sociale degli intellettuali, e soprattutto del­ la loro visibilità pubblica (giornalistica, televisiva, ma in primo luogo e sopratutto universitaria) sono comunque un fattore da prendere in considerazione. I saggi che studiano la storia ed il ruolo dei gruppi in­ tellettuali sono molto numerosi, ed io stesso ne ho scritto uno (cfr. Il ritorno del clero, Editrice CRT, Pistoia 2000). Tuttavia quello che imposta a mio avviso meglio i ter­ mini storici e filosofici della questione è stato scritto da Zygmunt Bauman, ed è il suo capolavoro (cfr. La deca­ denza degli intellettuali, Bollati Boringhieri, Torino 1992 e 2007). Anziché riassumerne semplicemente le tesi, le rielaborerò autonomamente partendo da esse, per svilup­ pare poi il mio punto di vista, che ritengo in gran parte convergente con il tuo. Bauman individua la genesi storica di uno specifico gruppo sociale definibile come “intellettuali” nei philosophes, cioè negli illuministi francesi del Settecento eu­ ropeo, e li connota come “legislatori sociali”, almeno in pectore. Gli intellettuali sarebbero quindi nati nel Sette­ cento, e sarebbero nati come legislatori sociali. Si tratta di una ipotesi del tutto plausibile, che si contrappone ad altre due scuole di pensiero. La prima parla di “intellet­ tuali” in tutti i casi in cui una società produce dei me­ diatori culturali la cui funzione è quella di produrre un mondo simbolico di integrazione sociale, ed in questo caso bisogna risalire agii scribi egizi, ai cantori scandi­ navi, ai filosofi cinesi, indiani e greci, ai profeti ebrai­ ci, eccetera, con il pericolo di produrne in questo modo una nozione talmente ampia e generica da risultare di fatto inutilizzabile, come le maglie di una rete talmen­

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te grandi da non poter prendere i pesci, perchè questi ultimi ci passano attraverso. La seconda lim ita la nascita di veri e propri gruppi intellettuali ad un fatto molto recente avvenuto a fine Ottocento, il caso Dreyfus e la reazione organizzata (Zola, eccetera) aH’antisemitismo moderno, con il pericolo però di produrre una nozione talmente limitativa di “intellettuali” da renderla non euristica e non operativa per ragioni opposte ma con­ vergenti con la precedente. L’ipotesi di Bauman è invece plausibile perchè correla strettamente il gruppo sociale degli intellettuali in quanto specialisti dell’universale e del simbolico con l ’emergere della borghesia come classe sociale specifica, di cui il proletariato non è tanto la ne­ gazione ed il superamento, come ha scorrettamente opi­ nato il marxismo ottocentesco e novecentesco, quanto un correlato organico e complementare, che nasce con essa, si sviluppa con essa, e tramonta con essa. Vi è pertanto un primo elemento che possiamo trarre da Bauman: il gruppo sociale degli intellettuali sorge insieme con la borghesia e con il suo complemento necessario chiamato proletariato, e con lo sviluppo progressivo di un capita­ lismo post-borghese, e quindi post-proletario, è normale che non possano più esistere nella vecchia forma consue­ ta, e questo fa venir meno tutte le teorie precedenti, da Voltaire a Mannheim, da Husserl a Gramsci, eccetera. Ma qui il diavolo, si nasconde nel dettaglio, e cioè in una paroletta apparentemente inoffensiva. Gli in­ tellettuali, in questo caso i filosofi non sono nati come legislatori sociali ma come legislatori comunitari. Non è affatto la stessa cosa. Il termine “società” non esiste neppure in greco antico, e non esiste perchè non ne esiste neppure il concetto e la realtà, ma c’è soltanto il termine di comunità (koinòn, koìnonia). Lo stesso termine latino di societas non è di fatto mai impiegato nel senso che oggi diamo a questa parola. La “società” è un termine

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generico, la cui ipertrofia sociologica nasconde una inde­ terminatezza patologica. Il “sociale” è un concetto am­ pio, che manca però di forza esplicativa, se non ne viene prima posta la sua genesi ontologica, che è sempre una ontologia storica. Per ora le scienze cosiddette “sociali” tendono a spiegare i fenomeni sociali con altri fenomeni sociali, ed in questo mondo si crea una catena viziosa, autoreferenziale e tautologica simile ad un serpente che si morde la coda. Ma cos’è, in ultima istanza, l’elabora­ zione del sociale? Non è nulla, se non si capisce che il “sociale” deve essere spiegato al di fuori di esso, e non è che una metafora impropria di ciò che dovrebbe invece essere definito come “storicità”. Finché si continuerà a pensare gli intellettuali come “legislatori sociali”, e ba­ sta, ci si muoverà sempre in un cerchio magico incantato in cui i concetti, come in un girotondo senza fine, si richiamano sempre e solo l’uno con l’altro. I primi filosofi greci, che pure a mio avviso sarebbe scorretto definire come “intellettuali”, non erano legisla­ tori sociali, ma erano legislatori comunitari. Una pigra abitudine inerziale consolidata ci ha portato a pensare che fossero semplicemente dei “naturalisti”, e cioè dei precursori artigianali dei moderni fisici, chimici e bio­ logi. Ma non è così. In assenza di una religione mono­ teistica e creazionistica rivelata, e pertanto in assenza di quella funzione profetica diffusa presso gli Ebrei, i pri­ mi filosofi greci dovevano affermarsi come autorevoli e credibili nella loro comunità esclusivamente attraverso l’interpretazione della genesi della Natura, in quanto la stessa comunità sociale era pensata come duplicazione della natura stessa, sulla base deH’originaria indistin­ zione fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale ed umano. Con l’irrompere della moneta coniata e della sua tesaurizzazione potenzialmente illimitata (apeiron), la precedente comunità era messa in pericolo dal potere

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delle ricchezze individuali e soprattutto dalla schiavi­ tù, per debiti. Per questo era necessario il calcolo comu­ nitario equilibrato del potere e della ricchezza {logos), e questo è il significato fondamentale del termine logos, che soltanto in seconda istanza significa linguaggio o ra­ gione discorsiva. Gli intellettuali ottocenteschi e novecenteschi ripren­ dono quindi questa funzione di legislazione comunitaria, e questo è un loro titolo di merito, non certo di demerito, come affermano i post-moderni che li accusano di essere caduti vittime della cosiddetta “sindrome di Siracusa”, alludendo a Platone che si sarebbe illuso di poter fare da consigliere ai tiranni. Ma qui c’è soltanto la reazione con­ giunturale all’ipertrofia della ideologizzazione politica del ventennio, 1960-1980, il cui lutto non è stato ancora ela­ borato se non nella forma del pentimento. La fine della funzione intellettuale si accompagna con la visibilità mediatica ossessiva di intellettuali conferen­ zieri, simili ai Luciano ed agli Apuleio del tardo impero romano. La cultura diventa integralmente spettacolo con la passivizzazione dello spettatore. Diventati specialisti universitari attraverso la esasperata divisione accademica delle discipline (funzionale alla moltiplicazioni di catte­ dre, dipartimenti e finanziamenti), gli intellettuali non solo si suicidano, ma si riproducono solo attraverso la cooptazione conformistica delle cattedre universitarie. Mentre per diventare poliziotti, magistrati o insegnanti di scuola media ci vogliono pur sempre concorsi selettivi in busta chiusa in cui vengono corretti testi rigorosa­ mente anonimi, i concorsi universitari (parlo qui ovvia­ mente solo delle facoltà di filosofia e di scienze sociali) vengono effettuati sulla base dell’integrale cooptazione, in cui il conformismo ideologico politicamente corretto fa premio su qualsiasi altra forma di merito, nonostante l ’ipocrita e ritualistico richiamo ad una inesistente “me­

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ritocrazia”. Questo fa diventare gli intellettuali (parlo non del singolo, che può anche cantare fuori dai coro, ma del gruppo sociale in quanto tale) uno dei gruppi sociali più. conformisti ed “integrati” dell’intero orbe terracqueo. Se oggi il codice dominante è quello indivi­ dualistico della libertà del consumatore, possiamo essere sicuri che i gruppi intellettuali mediatici ed universitari se ne faranno portatori, non tanto nella forma esplicita e diretta (demandata ai pubblicitari), quanto nella forma indiretta della sistematica diffamazione di tutte le forme di pensiero non omogenee a quest’ultimo, non impor­ ta se di destra (Ezra Pound) o di sinistra (Karl Marx). Gli intellettuali sono oggi portatori di quello specifico estremismo di centro che possiamo definire conformi­ smo post-moderno. Possiamo aspettarci qualcosa di buo­ no dalle cosiddette “persone normali”, ma da essi intesi come gruppo sociale sicuramente no.

A sso l u t ism o d e l l ' e c o n o m ia e c o n se r v a z io n e d e l l ' e s ist e n t e

4) L’economia d i mercato e soprattutto la società di mercato ad essa collegata, quale complesso di rap­ porti sociali derivati dalla logica mercatista, pro­ duce sempre nuovi equilibri dinam ici in cui tro­ vano il loro punto di equilibrio sia la domanda e l’offerta d ì beni e servizi, che la composizione dei rapporti sociali, morali e culturali tra le classi. Così come nel mercato si manifestano le crisi econo­ miche, quali m om enti d i trasformazione in cui il mercato tende a creare nuovi param etri di equili­ brio, anche la struttura della società tende ad evol­ versi parallelamente. Pertanto, da tali m utam enti emergono alcune classi sociali, cui corrisponde il

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declino di altre. Questo processo dinamico —evolu­ tivo dell’economia d i mercato, determ ina dunque sempre nuovi equilibri a i quali è la società che deve adattarsi e m ai l’economia, ha nuova strut­ tura dei rapporti sociali che ne deriva è dominata da quelle classi sociali che si siano rese compati­ bili con le evoluzioni del mercato con conseguente estromissione delle altre. I l capitalismo del X X I ° secolo tende a d u na accentuata logica selettiva ad excludendum, con l’effetto d i m arginalizzare sem­ pre p iù vasti stra ti del tessuto sociale, che vengono progressivamente esclusi dai nuovi equilibri socio — economici. La selezione effettuata dal mercato determina m arginalizzazioni e disuguaglianze sempre p iù accentuate nel corpo sociale, m ai l’inte­ grazione e l’eguaglianza tra le diverse componenti della società. Oggi assistiamo con la crisi sistem i­ ca in atto sia alla emarginazione delle masse nei paesi evoluti dell’occidente, che dei popoli del ter­ zo mondo nell’am bito geopolitico, l i emarginazione conduce all’isolamento sia individuale che colletti­ vo d i masse um ane che non si riconoscono nelle isti­ tuzioni, in quanto prive di un ruolo attivo nella società sia nel campo economico che in quello po­ litico. Q uindi si afferm a un indifferentism o mo­ rale di massa derivato da una condizione um ana non sorretta da valori morali che giustifichino gli equilibri sociali selettivi e disgreganti della socie­ tà globalizzata del nostro tempo. L’emarginazione sociale comporta l’emergere di una logica della so­ pravvivenza generalizzata, derivante dallo stato di precarietà economica nel campo lavorativo ed esi­ stenziale nei rapporti interpersonali. In tale con­ dizione l’uomo non tende a l sovvertimento sociale, ma alla conservazione dell’esistente: una vita pre­

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caria, concentrata sulla sopravvivenza genera solo istinto di conservazione. Non è un caso che nella società occidentale prevalgano le tendenze politiche conservatrici: l’estromissione delle masse da una politica dom inata dalle oligarchie delle lobbies ha determinato l’indifferentism o morale quale condi­ zione d i estraniazione esistenziale dell’io sia dalla propria identità che dal mondo in cui vive. In d if­ ferentism o morale e conservatorismo dell’esistente sono fenom eni paralleli che tendono ad identifi­ carsi a vicenda. Perché considerare la propria so­ stanza tim ana solo alla luce della realtà positiva contingente, conduce fatalm ente alla accettazione dell’esistente. Analoghi sviluppi subisce la cultu­ ra dominante, che oggi appare concentrata nella condanna morale d i tu tti quei fenom eni non del tutto com patibili con la logica relativista di con­ servazione dell’ordine anomico dell’esistente (d i­ r itti um ani, liberaldemocrazia, individualism o), l i indifferentism o morale rappresenta dunque la fase term inale di un processo degenerativo di una condizione um ana che precipita nell’abisso del suo non essere, inteso come non essere d i se stessi, sia dal punto d i vista individuale che collettivo. Ritengo che tu abbia individuato il cuore del pro­ blema del nostro tempo affermando che oggi la società deve adattarsi all’economia, e non certo l’economia alla società. Si dirà (e sono soprattutto i marxisti a dirlo) che questa non è una novità, perchè questo è sempre avve­ nuto, e sempre la società (o più esattamente la comuni­ tà) ha dovuto adattarsi all’economia. Ma non è vero. Se per “economia” si intendono le risorse naturali, le forze produttive, l’agricoltura, l’allevamento, eccetera, allora questo può essere parzialmente vero (parzialmente, ma

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non del tutto, perchè ambienti naturali simili hanno prodotto configurazioni storiche e sociali, molto diver­ se e talvolta alternative). Ma oggi l’economia non è più questo, quanto l’imposizione diretta di una forma ob­ bligata politica, culturale e sociale autoreferenziale. Si tratta di una relativa “novità”. Questa novità deve essere indagata con categorie specifiche adatte ad essa. Per comprendere il cuore del problema da te messo a fuoco con tanta chiarezza un’eccessiva erudizione storica ed economica può addirittura essere fuorviante, per il noto principio per cui occorre prima vedere le foreste, e poi esaminare i singoli alberi. Sono invece necessari due concetti fondamentali, il primo elaborato da Karl Marx, il secondo da Karl Polanyi. Secondo Marx il capitalismo, 0 più esattamente il modo di produzione capitalistico, è retto da una norma di produzione e riproduzione il­ limitata, ed è proprio questa illimitatezza l’elemento differenziale e contrastivo con tutti i precedenti (e forse 1 successivi, se ci saranno successivi, cosa che nessuna fi­ losofia della storia necessitaristica, deterministica e tele­ ologica può garantire a priori in forma messianica, rico­ perta o meno con una presunta veste “scientifica”) modi di produzione che hanno caratterizzato la storia univer­ sale dei cinque continenti. Secondo Polanyi il capitali­ smo è la sola società in cui l ’economia non sia contenuta ed “incorporata” nella più ampia produzione sociale e comunitaria, e questa non-incorporazione è ovviamente la premessa non solo dell’autonomizzazione patologica dell’economia stessa, ma del suo soffocante dominio su tu tti gli ambiti della vita sociale, per cui a poco a poco, la fisiologica economia di mercato diventa una patologi­ ca società di mercato. Partendo dall’economia politica intesa come discipli­ na indipendente, in tutte le sue varianti di destra, di centro e di sinistra, questa comprensione è impossibi-

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le, ed è impossibile per l’autoreferenzialità della stessa scienza economica, che si basa sul presupposto antro­ pologico dell’individuo originario, prima produttore e poi consumatore. E vero che a volte si parla di macro­ economia contrapposta a micro-economia, ma si tratta quasi sempre di un espediente, perchè le stesse grandez­ ze macro-economiche disaggregate rimandano in ultima istanza alla sacralità indiscussa della fondazione utilita­ ristica originaria. L’economia politica trova quindi il suo fondamento ontologico ultimo in una metafisica dell’individuo ori­ ginario. Per questo fanno ridere (ma si ride per non pian­ gere!) tutte le affermazioni alla Habermas o alla Rorty, per cui oggi noi vivremmo finalmente in una situazione post-metafisica, in cui il rischiaramento illuministico ha finalmente vinto sulle precedenti superstizioni religiose e su quei succedanei religiosi imperfettamente secolariz­ zati che rinviano al pensiero di Hegel e di Marx. Chi cerca in tu tti i Modi nell’economia politica la chiave per la comprensione della totalità sociale non la troverà mai, perchè l’economia politica non è la solu­ zione, ma è il problema. Una delle ragioni - non l ’u ­ nica, certamente - del fallimento del marxismo storico nella comprensione del problema della riproduzione della totalità capitalistica sta nel fatto che a partire da Engels (ma con qualche minore responsabilità di Marx) il marxismo si è costituito come “economia politica di sinistra” e come previsione pseudo-scientifica e quasireligiosa del crollo del capitalismo per opera del sog­ getto demiurgico proletario. Ma l’economia politica, di destra o di sinistra che sia coincide al cento per cento con l’utilitarismo, ed essendo l’utilitarismo una meta­ fisica dell’individuo originario é del tutto impossibile sulle sue basi giungere alle dinamiche della dissoluzione e della ricomposizione della comunità. Solo la filosofia

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può arrivarci, e non è un caso infarti che a partire dal 1803 circa Hegel abbia individuato nella filosofìa l’unica leva per la ricomposizione della comunità, abbandonan­ do le precedenti generose posizioni giovanili (l’arte, il cristianesimo, la grecità, eccetera). Alcuni economisti sensibili ed intelligenti hanno peraltro capito a loro modo quanto sto dicendo, e cioè che sul terreno della sola economia è del tutto impos­ sibile ricostruire la totalità sociale, e pertanto modifi­ carla in una prospettiva concreta e realistica. Fra questi spicca l ’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni (1924-1988). Studiando la storia del pensiero economi­ co, e non dimenticando mai che quella che viene chia­ mata “socialità” non è altro che storicità, o se vogliamo una configurazione mobile e provvisoria della storicità stessa, Napoleoni giunse alla comprensione della iden­ tità in ultima istanza fra la teoria economica del valo­ re e la teoria filosofica dell’alienazione. E mentre per il suo compagno di strada Lucio Colletti questa scoperta fu l’occasione (o meglio, il pretesto) per giustificare il proprio abbandono della prospettiva di Marx e la propria “conversione” al liberalismo di Popper, per Napoleoni fu invece il punto di partenza per un ripensamento ra­ dicale dell’intera economia politica (cfr. Discorso sull’eco­ nomia politica, Boringhieri, Torino 1985), e quindi per una uscita ragionata dalla sua assolutezza autofondata. Personalmente, ne scrissi in proposito un commento per la rivisita “Marxismo Oggi”. Nel 1990, due anni dopo la sua morte, furono pubblicate delle sue note intitola­ te “cercate ancora” (cfr. Cercate Ancora, Editori Riuniti, Roma 1990). E tuttavia, la stima e la simpatia umana per la sua persona, da me personalmente conosciuta, non deve impedirmi di dare un giudizio criticamente negati­ vo sulla sua impostazione della ricerca, che esclude ogni tipo di salvezza storico-politica, si muove verso la critica

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della Tecnica (intesa nel senso di Heidegger come dispo­ sitivo anonimo ed impersonale incontrollabile ed immo­ dificabile, Gestell), accusata di annullare il soggetto e di portare il mondo verso un dominio incondizionato, per cui il progetto di emancipazione umana sfocia nella sapienziale conclusione heideggeriana che “solo un Dio ci può ancora salvare”. In questo modo la generosa esortazione di “cercare ancora” diventa a mio avviso completamente astratta ed ineffettuale, e sfociare nel vasto mare del pensiero post­ moderno, che non è che la razionalizzazione sofisticata dell’impotenza storica e sociale, più o meno travestita da disincanto verso le grandi narrazioni (Lyotard, Sloterdijk, eccetera). Bisogna indubbiamente cercare, ma cer­ care è dpi tutto inutile se non si sa dove cercare, perchè soltanto sapendo dove cercare si può sperare di trovare qualcosa. Qui bisogna mettersi alla scuola dei cercatori di funghi e dei pescatori, che non sono magari sicuri di trovare quello che cercano, ma sanno che in certi posti è assolutamente sicuro che non si troverà nulla, mentre in altri è invece probabile che si troverà qualcosa. Il luogo in cui cercare è a mio avviso perimetrato dai due concetti fondamentali prima richiamati a proposi­ to di Marx e di Polanyi. Se si crede di poter contestare e criticarne il capitalismo in nome di una illimitatezza ancora più efficiente o addirittura più “giusta” si andrà fuori strada, perchè sul terreno della illimitatezza il ca­ pitalismo è assolutamente imbattibile. Questo non com­ porta automaticamente l’adozione della teoria della de­ crescita, che nella forma oggi diffusa (Latouche, Badiale, Bontempelli, eccetera) non mi sembra convincente, ma comporta la sua presa in considerazione evitando fretto­ lose liquidazioni in nome del modello liberale di crescita o del paradigma marxista classico, che come ho detto prima è economicistico, ed è quindi soltanto un povero

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utilitarismo di sinistra a mio avviso non riproponibi­ le. La teoria della decrescita mi sembra per ora essere il semplice rovesciamento non dialettico della precedente teoria della crescita. Capisco bene le ragioni soprattutto ecologiche ed ambientali che ne possono favorire il suc­ cesso, ma vi sono troppi “passaggi” economici, politici e filosofici che questa teoria “salta” perchè si possa pensare di avere già trovato il bandolo della matassa. Resta il fatto che la norma di accumulazione illim itata che regge il capitalismo, in particolare nella forma attuale post­ borghese e post-proletaria è il cuore da contestare e da criticare. I l “cercare ancora”, quindi, significa cercare le forme di aggregazione politica e sociale che possano “praticamente” infrangere questa patetica e viziosa illi­ mitatezza. Il pensiero greco, pensiero della misura (metron), della giustizia (dike) e del calcolo politico e sociale comunitario {logos) può essere in questo infinitamente più “attuale” dello storicismo marxista o della sapienzialità heideggeriana. È tuttavia la diagnosi di Polanyi che oggi mi sem­ bra la più ricca di insegnamenti. Finché l’economia (di cui non discuto la legittim ità sia dell’oggetto che del metodo, se non vengono assolutizzati in una metafisi­ ca utilitaristica dell’individuo robinsoniano originario) non sarà riportata all’interno del controllo sociale comu­ nitario, inevitabilmente politico, il popolo non sarà mai al potere, ma resterà sempre un’astrazione ideologica vuota, per cui la democrazia non potrà mai essere altro che oligarchia e l’economia non potrà mai essere altro che crematistica.

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Per una nuova proposta politica

S c h ia v it ù d e l d e b it o : c r is i della s o v r a n it à E DELLA RAPPRESENTANZA

1) La crisi economica ha accentuato nel 2011 la deca­ denza istituzionale italiana: oggi non è sufficien­ te sostituire un governo con un altro, ma si deve rifondare un intero sistema, a l fine di restituire alla politica il suo ruolo prim ario, il governo dello stato. D in a n zi a d un Berlusconi in declino, l’al­ ternativa è Bersani, la politica attuale non offre altro. La sovranità degli stati europei è stata pro­ gressivamente erosa dalla UE, che, oltre ad avere espropriato gli sta ti della loro sovranità moneta­ ria, ne ha assunto, tram ite la BCE, la direzione economica. Il debito pubblico italiano (e di alcuni paesi europei), è sottoposto a manovre speculative internazionali che aggravano d i giorno in giorno la condizione economica del paese. I l sostegno del­ la BCE all’Italia comporta la adozione d i politiche economiche incentrate sui tagli alla spesa sociale e inasprim enti della pressione fiscale: l’Italia nel prossimo fu tu ro dovrà sacrificare una ingente per­ centuale delle proprie risorse al sostegno del debito. Saranno pertanto i creditori della BCE a imporre all’Italia la politica economica e il definitivo sm an­ tellamento dello stato sociale. La sovranità ita lia ­ na è stata espropriata dai mercati fin a n zia ri e dal­ la BCE. L’Europa è vittim a d i assalti speculativi contro l’euro cui la UE, chiusa nel suo monetarismo assoluto, noti ha saputo opporre valide strategie di difesa. Occorrono dunque nuove proposte politiche, d in a n zi alla decadenza economica, politica e mora­

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le degli stati. I l novecento è ormai alle nostre spal­ le e le ideologie internazionaliste incentrate sulla lotta d i classe tra borghesia e proletariato, non sono adeguate ad interpretare la realtà del X X I ° seco­ lo. La progressiva proletarizzazione dei ceti m edi è conseguenza della espulsione di masse d i lavoratori dal processo produttivo. Una classe subalterna può ribellarsi ed imporre le proprie ragioni, nella m i­ sura in cui esercita un ruolo strategico nella strut­ tura economica capitalista e, pertanto, è dotata di una consistente capacità contrastativa nei confron­ ti della classe dominante. Le masse d i disoccupati elo precari, costituiscono solo “l’esercito industria­ le d i riserva”, non in grado di reagire alla forza preponderante del capitalismo. Nuove soluzioni possono essere ricercate solo nell’am bito geopolitico. Nella attuale geopolitica in fa tti, si evidenzia una netta linea di demarcazione fr a gli sta ti economi­ camente e politicamente preponderanti, in quanto detentori dei debiti sovrani, sfruttatori delle r i­ serve d ì materie prim e del terzo mondo, cui fanno riscontro altri sta ti schiacciati da un debito p u b ­ blico insolvibile, espropriati delle proprie risorse e della propria sovranità mediante la schiavitù del debito. Q uindi, un processo di ribaltam ento degli equilibri geopolitici esistenti, non potrà che coin­ volgere gli stati v ittim e del neocolonialismo capi­ talista. Solo gli sta ti in fa tti, attraverso la rivendi­ cazione della propria sovranità, possono m utare gli squilibri esistenti. Occorrerebbe q u in d i eliminare la schiavitù del debito mediante la fuoriuscita di m olti paesi europei dall’euro o, imporre radicali ri­ form e della UE, per ora impensabili. I l default de­ gli sta ti debitori e la conseguente svalutazione del debito, porrebbe gli sta ti europei in grado d i creare

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sviluppo economico. Nessuno stato potrebbe da solo porre in essere tali strategie. Pertanto bisognereb­ be pervenire a vasti accordi tra gli stati strangolati dalla schiavitù del debito, dando luogo ad un nuovo internazionalismo che abbia come soggetti gli sta­ ti nazionali, da contrapporre alla globalizzazione finanziaria che rappresenta invece la morte degli sta ti stessi. Invitandomi a parlare di politica, mi metti in diffi­ coltà. Perché non so da che parte cominciare. È l'incipit che è difficile. Il saggio filosofico più difficile che esista, la Scienza della Logica di Hegel, in confronto è come To­ polino. Tutti cominciano dal Berlusca in fuga, inseguito da giudici vendicativi e partigiani (in genere di centrosinistra moderata tipo “Repubblica”, da lui confusa con il comuniSmo staliniano) e da puttanelle ricattatrici. Come Riccardo III di Shakespeare, anche Berlusconi prima o poi dirà “Il mio regno per un aereo che mi porti alla Isla des lo Ricos nei Caraibi!”. Ma dopo non verrà il regno dei giusti­ zieri (Di Pietro), dei poeti meridionali furbacchioni (Ven­ dola), dei popolani emiliani che parlano come mangiano (Bersani), ma il regno del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Centrale Europea (BCE). La sotto­ casta più corrotta di tutte, quella mediatico-giornalistica, dovrà cambiare scenario, ma essi sono esperti in rapidi mutamenti di scenografia. Per chi rifiuta lo scenario manipolato, è molto difficile l’incipit. Tu stesso fai molte considerazioni macro-econo­ miche. Sulla base del trinomio sfida della globalizzazione, giudizio dei mercati, ricatto del debito è assolutamente impossibile partire dalla decisione politica, non importa se di centro, destra o sinistra. L’Italia è completamente commissionata dal duopo­ lio Draghi-Napolitano. Un banchiere ed un ex-comu-

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nista riciclato in rappresentanza degli interessi militari dell’impero americano e dei parametri oligarchici dei po­ teri finanziari. Dilettanti privi di fantasia come Orwell e Huxley non lo avrebbero mai immaginato. La fantascien­ za si diletta di imperi stellari, feudalesimi spaziali, ver­ mi giganti, eccetera, ma nessun scrittore di fantascienza avrebbe mai potuto immaginare l’ex-comunista Napolita­ no e l’ex-fascista La Russa che baciano insieme la bandiera delle truppe NATO in Afganistan. Quelli che dicono che la realtà supera sempre la fantasia stanno sistematicamen­ te al di sotto della realtà stessa. Per discutere di politica ci vogliono due premesse: la sovranità e la rappresentanza. Su queste basi ci si può ov­ viamente dividere, ma queste basi devono essere presup­ poste. Se al loro posto si installa la cosiddetta govemace, allora ogni discussione diventa inutile, e la parola passa alla casta degli economisti. Ma gli economisti non sono una specializzazione (come o medici, gli ingegneri, i giu­ risti, gli autisti, gli infermieri, eccetera). Sono un partito politico neo-liberale, ed insieme un sacerdozio della dise­ guaglianza allargata. Essi non “rappresentano” se non gli interessi globali della riproduzione capitalistico-finanziaria complessiva, ed hanno occupato in pianta stabile gli schermi televisivi in prima serata, relegando i preti, i do­ cumentari ecologici, i film pornografici soft e la cosiddetta “cultura” in seconda e terza serata. Se si potessero fare passare radicali riforme all’Unione Europea, non è dubbio che ciò sarebbe “realisticamen­ te” una via preferibile e meno avventuristica dell’uscita dall’Euro e della sospensione del debito (o anche solo di una sua radicale rinegoziazione). Ma questo mi sembra per ora più impossibile dell’Utopia di Tommaso Moro, della Città del Sole di Tommaso Campanella e di tutti i progetti ultracomunisti dello scorso secolo. In Europa si è formata nell’ultimo trentennio una classe politica ed

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intellettuale, mediatica ed universitaria, pienamente e totalmente omologata al neoliberismo in economia, al neoliberalismo in politica e al Politicamente Corretto nella cultura. Questo coperchio asfissiante si è per ora ri­ chiuso, ed esso mi sembra realisticamente irriformabile. Si dirà che la rivoluzione è ancora più impensabile, man­ cando di soggetti potenzialmente interessati ad essa e so­ prattutto politicamente organizzagli. La situazione è in effetti strategicamente bloccata, ed allora sono costretto, se voglio evitare una poetica fuga in avanti, a tornare al piccolo cabotaggio italiano, che pure mi ripugna pro­ fondamente. Nella mia terza risposta analizzerò meglio il problema della cosiddetta “casta”, che oggi il concer­ to mediatico manipolatore individua come il problema centrale della società italiana. Anche se ripugnate, la “casta” non è il problema centrale della società italiana, come non lo è neppure la pur laida ed indifendibile per­ sona di Berlusconi. Il problema fondamentale è un siste­ ma produttivo asfittico, concepito negli anni cinquanta e sessanta per produzioni di massa di media intensità tecnologica, oggi prodotte ormai in tutto il mondo a co­ sti minori. La torta è diminuita, le fette sono più piccole, e ci raccontano che tutti mangeremmo meglio e di più se la “casta” fosse colpita e se le spigole al ristorante del senato costassero venti euro anziché il prezzo protetto di tre. Non c’è veramente limite alla babbioneria umana. Siamo sempre alla facile ricerca del “capro espiatorio”. In un sistema costruito sulla svalorizzazione sistematica del lavoro e sulla valorizzazione del solo capitale finanziario è il lavoro italiano che deve essere svalorizzato, sia nella forma diretta (lavoro temporaneo, flessibile, precario e diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori sul posto di lavoro), sia nella forma indiretta (servizi erogati dal welfare). A questo punto, esaminiamo brevemente “a volo d’uccello” il mercato politico.

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Il centro-destra ed il centro-sinistra ufficiali (con­ sidero Casini, Fini e Rutelli, ufficialmente “pontieri”, degli antiberlusconiani di centro-destra più che riserve elettorali del centro-sinistra) hanno smesso da tempo di essere formazioni politiche di rappresentanza per trasfor­ marsi in strutture di governarne del tutto eterodirette dal FMI e dalla BCE (la sfida della globalizzazione, il giudi­ zio dei mercati, il vincolo dei debito, eccetera). I cosid­ detti “indignati” hanno cominciato a capirlo, ma il loro analfabetismo politico e progettuale è tale (venti anni di desertificazione della cultura politica non sono passati per nulla!) da non lasciare soverchie speranze. In Italia l’antiberlusconismo ha sedimentato una protesta lega­ litaria a base giudiziaria politicamente del tutto analfa­ beta. Stante il carattere del Partito Democratico come partito di governarne e non più di rappresentanza tutti i suoi fiancheggiatori, da Di Pietro a Vendola, da Diliber­ to a Ferrerò, appaiono del tutto inutili. Essi si limitano a “rappresentare” non interessi sociali, ma clientele di estremisti anti-berlusconiani, il cui grido resta quello del comico Totò (“in galera ti voglio!”). Di Beppe Grillo non intendo neppure parlare. Ho recentemente assistito ad un suo shoiv davanti al parlamento con ceste di cozze per indicare la casta che si attacca agli scogli. In quanto ai radicali (Pannella und Bonino) non li considero perso­ nalmente una forza politica, ma un elemento culturale di profonda corruzione civile ed umana, avanguardia di un individualismo estremo ed anomico. In parola semplici, ripugnanti. So che presto verrà riproposto un “nuovo partito co­ munista”. Sebbene in esso siano impegnate persone che stimo (Domenico Losurdo, Andrea Catone), sono del tutto estraneo e questa prospettiva. Mettendo al centro la dicotomia Destra/Sinistra, esso non potrà che fare da stampella elettorale al Partito Democratico, fingendo

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che sia ancora un partito di rappresentanza popolare, e non di semplice governance finanziaria (FMI e BCE) e militare (USA e NATO). Dato il carattere fatuo e confu­ sionario del cosiddetto “popolo di sinistra” (un’adunata non dei refrattari, ma dei babbioni politicamente corret­ ti) esso non avrà neppure un seguito elettorale, perché gli sarà preferito Vendola, sponsorizzato dal “Manifesto” e dalla FIOM. Inoltre, riproporre il partito comunista (con la triade Marx, Lenin e Gramsci) significa riproporre uno stru­ mento concepito nel novecento per la rivoluzione in­ centrata sulla classe operaia, salariata e proletaria. Que­ sta rivoluzione è già stata fatta nel novecento (Russia 1917, Cina 1949, eccetera) ed è fallita. Perché è fallita? Qui le risposte possono essere molte, ed hanno riempi­ to e riempiono enormi biblioteche. La mia risposta, in estrema sintesi e concisione, è questa: il superamento del capitalismo (nel senso della hegeliana Aufhebung, su­ peramento-conservazione delle conquiste precedenti) è del tutto legittimo, giusto e benefico, ma la base sociale operaia, salariata e proletaria è troppo ristretta, perché identifica il superamento del capitalismo con la prole­ tarizzazione universale, necessariamente guidata da un partito dispotico e militarizzato. In Russia essa ha dato luogo dopo 74 anni (1917-1991) ad una grandiosa con­ trorivoluzione delle nuove classi medie sovietiche, che non hanno “restaurato” il vecchio zarismo o il vecchio capitalismo, ma hanno dato il potere ad una feroce oli­ garchia di padroni-ladri, per il momento messa in parte sotto controllo dall’ex-poliziotto comunista Putin sulla base del rilancio del vecchio e benemerito nazionalismo russo. In Cina lo stesso partito comunista ha abbando­ nato del tutto il progetto di proletarizzazione generale forzata di tipo ideologico (la linea maoista dal 1956 al 1976), per trasformarsi in nuovo mandarinato naziona­

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lista di tipo confuciano “rinnovato”. Sostenere che que­ sto non è che un’evoluzione del comuniSmo (Losurdo, Sidoli, eccetera) è del tutto fuorviarne. La definizione del comuniSmo non può passare da Marx a Pirandello (così è se vi pare), per cui ognuno arbitrariamente mette l’etichetta che vuole. Mi sono accorto di non essere minimamente riusci­ to a delineare una proposta politica. È vero. In estre­ ma sintesi, il suo profilo non può che essere un nuovo anticapitalismo al di là della destra e della sinistra del tutto affrancato dal contenzioso identitario rabbioso che in genere viene associato all’anticapitalismo. Questa, ovviamente, non è ancora una proposta politica. È però impossibile una proposta politica seria senza che si siano prima realizzate le precondizioni culturali metapolitiche di essa.

C e n t r a l it à del la v o ro e d e g l o b a l iz z a z io n e

2) La crisi ha comportato rilevanti m u ta m e n ti di ca­ rattere economico - sociale in Italia. Im portanti m u ta m en ti nella stru ttu ra economica e sociale del paese sono sta ti realizzati prim a con l ’introduzio­ ne del lavoro precario e flessibile, poi con l’abro­ gazione de facto del contratto collettivo di lavoro e dello statuto dei lavoratori, a cui sta subentrando il contratto aziendale e una accentuata flessibilità nella disciplina dei licenziam enti. Una nuova co­ stituzione m ateriale si sta imponendo, abrogando de facto il vigente dettato costituzionale in m a­ teria giuslavoristica, previdenziale e assistenzia­ le. D in a n zi a queste trasformazioni, che m utano profondam ente il modello sociale italiano in senso liberista, non è possibile elaborare nuove propo-

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ste politiche di natura ideologica, che prospettino società ideali avulse dalla attuale dinam ica dei rapporti economico sociali esistenti. Pertanto, oc­ corre form ulare proposte praticabili nell’ambito dell’attuale assetto economico e politico. Occorre dunque prospettare riforme non fin i a sé stesse, o che rappresentino un argine moderato ad un capitalismo totalizzante, che mantengono inalte­ rato però il modello liberale - individualista v i­ gente, ma che inneschino un processo virtuoso di m utam ento graduale della stessa logica interna alla struttura economica dom inante. Processo poi suscettibile d i evoluzioni, che accentuino la cen­ tralità del lavoro rispetto al capitale, che svilup­ pino la fu nzione sociale della produzione, rispet­ to all’accumulazione e al profitto: in una parola, l’affermazione del prim ato della politica rispetto all’economia. Preso atto della definitiva decadenza della piccola e media impresa e dell’artigianato, bisogna dunque riproporre un modello p ro d u tti­ vo diffuso basato sulla cooperazione integrata tra le piccole e medie imprese, che valorizzi le risorse m ateriali e intellettuali, crei occupazione d iffu ­ sa, in contrapposizione alla grande industria or­ m ai in larga parte delocalizzata o fagocitata dalle m ultinazionali, o in irreversibile disfacimento. La produzione e la gestione diretta dei lavorato­ r i cooperativi, potrà superare il dualismo tra im ­ prenditori e salariati, ormai talm ente squilibra­ to a favore dei prim i, da rendere im praticabile la difesa dei d ir itti dei lavoratori. Una fitta rete diffusa sul territorio d i imprese cooperative p a r­ tecipate può produrre invece occupazione diffusa ed equilibrata redistribuzione del reddito, oltre a ridurre le disuguaglianze sociali oggi sempre

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p iù accentuate. Un tale sistema cooperativo può avere successo, solo se incentivato, protetto, disci­ plinato dalla supervisione degli organi dello stato. A ltrim e n ti, sarebbe fagocitato dalla concorrenza selvaggia dei grandi gruppi eto dagli egoismi in ­ d ivid u a li e collettivi. Costatata inoltre la progres­ siva dissoluzione del welfare, è oggi im pensabile e controproducente teorizzare uno stato distributore di risorse, che prescinda dalla partecipazione dei c itta d in i alla sua gestione. Le riform e stru ttu ra li possono avere una loro efficacia solo se generate dal basso, non come una mera concessione partorita da uno stato paternalista. La previdenza e l’assisten­ za dei lavoratori debbono pertanto essere gestite dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori asso­ ciati, non nell’am bito privatistico, ma in e n ti d i d iritto pubblico. È in fa tti opportuno che lo stato sovrintenda alla gestione delle risorse destinate a previdenza ed assistenza, con fu n zio n i perequati­ ne tra le categorie, onde impedire sia g li egoismi d i corporazione, sia politiche d i categoria in con­ trasto con gli interessi generali. Uno stato ha una sua valenza etica nella misura in cui sia formato, partecipato, gestito, dalla comunità dei citta d in i che lo cotnpongano. Dalla tua domanda si capisce bene che tu inten­ di porre con forza il tema della centralità del lavoro umano nella società. Hai perfettamente ragione. Sono in molti oggi a parlare della necessità di rimettere il lavoro al centro della società (penso soltanto all’o tti­ mo sociologo Luciano Gallino). E tuttavia, nella storia in genere si parla della centralità di qualcosa quando questa centralità è perduta. Al tempo dell’imperatore romano Augusto si parlava moltissimo di morale, e si

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cercava anche di imporla con leggi severissime, ma mai come allora la morale era sparita, distrutta dai modelli schiavistici di lusso ed arricchimento. Temo che la stes­ sa cosa stia accadendo oggi con il lavoro e la sua centra­ lità. Per dirla con Metastasio, la centralità del lavoro è come l’araba fenice: che ci sia, ciascuno lo dice/ dover stia, nessuno lo sa. La società borghese-capitalistica si fondò simboli­ camente sulla centralità del lavoro umano. Per Adam Smith il valore dei beni-merci era dato dal tempo di lavoro sociale medio necessario a produrle. Marx, che voleva rovesciare il mondo che Smith aveva giustifica­ to (il capitalismo di mercato), accolse integralmente la teoria smithiana del valore-lavoro, e si limitò a coniu­ garla con la teoria dell’alienazione (seguo qui l’interpre­ tazione di Lucio Colletti e Claudio Napoleoni). Quando l’ultimo Lulcàcs, nella sua mirabile Ontologìa dell’Essere Sociale, cercò di correggere la filosofia comunista ufficia­ le, il cosiddetto “materialismo dialettico”, mise il lavoro come modello (Vorbìld) e forma originaria (Urform) di ogni possibile prassi umana. Il lavoro era visto non solo come mezzo di sussistenza, ma come forma di dignità. Il padre di Gesù di Nazareth, Giuseppe, era una fale­ gname, e non si fa fatica a credere che anche suo figlio, prima di profetizzare e frustare i mercanti nel tempio, abbia imparato anche lui questo umile mestiere. Prima di profetizzare, Maometto aveva lavorato come umile cammelliere. Tutto questo sembra oggi scomparso. Idioti falsa­ mente utopisti hanno cantato le lodi di un comuniSmo del consumo automatizzato, in cui le macchine avrebbe­ ro sostituito gli uomini (tanto per non fare nomi, alludo al comuniSmo del desiderio di Negri-Hardt, idoli dei centri sociali e del marxismo universitario imperiale del passato decennio, oggi fortunatamente sprofondato nel-

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la vergogna). La polemica di estrema sinistra contro i co­ siddetti “bottegai” e contro le virtù piccolo-borghesi del risparmio hanno caratterizzato l’orribile clima culturale post-sessantottino. Dal matrimonio gay all’eutanasia, dal femminismo alla anti-caccia, dal meticciato all’abo­ lizione della corrida, una nuova cultura post-borghese ha sostituito i valori fondati sulla dignità del lavoro. Di chi la colpa? Ad un primo sguardo, sembrerebbe che la colpa sia stata degli avanguardisti urlatori dell’e­ strema sinistra, che nella mia quarta risposta definirò con Michel Houellebecq “masochisti astiosi”. Ma non è così. Il pesce puzza sempre dalla testa, non dalla coda. Biso­ gna cercare altrove, se si vuole alla fine capirci qualcosa. Oggi Marx sembra tornato di moda. Ma non biso­ gna lasciarsi ingannare. La gran cassa mediatica, che per un ventennio aveva proclamato che era morto e sepol­ to, sembra riscoprirlo come potenziale “consulente della globalizzazione”, o più esattamente di una globalizza­ zione meno distruttiva per il lavoro umano. Inoltre, non c’è bisogno di essere keynesiani per sapere che se non si distribuiscono più salari sufficienti, non soltanto au­ mentano i rischi di disordini sociali, ma entra in crisi la domanda interna di beni e servizi. Personalmente, ricevo spesso telefonate di giornalisti che mi chiedono la ragio­ ne della “riscoperta di Marx”, ed in genere rispondo im­ barazzato che si tratta sempre di riti autoreferenziali del sistema mediatico, che prima seppelliscono e poi risusci­ tano a comando, il che li lascia sempre un po’ interdetti, perché lo prendono come una maleducazione: “Ma come, ci interessiamo anche noi del suo oggetto di studio, e lei anziché ringraziarci ci dice cose del genere!”. Discutiamo allora di lavoro. Il capitalismo è un pro­ cesso dialettico, che sorge valorizzando il lavoro umano (nel doppio aspetto di lavoro imprenditoriale e di lavoro salariato), ma che nel suo processo di approfondimento

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tende verso il suo contrario, e cioè verso la valorizzazione del lavoro umano stesso. Si tratta non di una contrad­ dizione dialettica, che richiede la logica di Hegel (e di Marx) e non quella di Kant (e di Bobbio). Se ce ne impa­ droniamo, potremo forse capirci qualcosa. A fianco della centralità del lavoro umano e della sua dignità sociale tu sembri particolarmente interessato a non riproporre progetti astratti di tipo ideologico. Fuori dai denti, credo che tu alluda indirettamente o al fasci­ smo o al comuniSmo novecenteschi, a meno che tu voglia intendere altri progetti come la teoria della decrescita, che personalmente ritengo astrattamente auspicabile ma concretamente inapplicabile (almeno nelle attuali con­ dizioni geopolitiche mondiali, che rendono impossibile un reale coordinamento cosmopolitico). Sono d’accordo, ma il problema sta nell’esplicare apertamente il perché noi li consideriamo irriproponibili, al di là dei rispettivi giudizi di valore ideologici. Per quanto riguarda il fascismo italiano, ammet­ to apertamente che il progetto delle corporazioni pro­ prietarie mantiene un certo livello di plausibilità (Ugo Spirito, ma anche l’ultimo Giovanni Gentile). Tuttavia il fascismo lo ha rovinato con il colonialismo imperia­ listico, con la discriminazione razzistica anti-ebraica, con l’alleanza con Hitler, e finalmente con l’abolizione dei diritti liberali e delle libertà democratiche. Come si vede, è il “contorno storico” che ha reso illegittimo lo stesso nucleo razionale delle corporazioni proprietarie, senza contare il rifiuto assoluto dei capitalisti. Tutti i capi della destra, da Mussolini ad Almirante a Fini, han­ no sempre alla fine scelto il capitalismo “reale” contro le utopie riformatrici “ideali”. Chi continua a fingere di non saperlo mi ricorda i “merli” che negli atrii delle sta­ zioni continuano a cadere vittime dei furbacchioni del gioco delle tre carte.

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Un discorso più complesso deve essere fatto per il comuniSmo. Personalmente, io continuo ad essere “co­ munista” nel senso di Marx, anche se non nel senso di Diliberto o Ferrerò. Ma qui non interessa la mia autodi­ chiarazione soggettiva, quanto la mia proposta di spie­ gazione del fallimento del comuniSmo storico. A diffe­ renza di chi lo liquida come totalitarismo burocratico inefficiente, io penso che il comuniSmo (intendo quello leniniano posteriore al 1917) abbia realmente cercato di fondare una società incentrata sui valori del lavoro. Ma il lavoro è stato pensato nella forma della proletarizzazione universale e della sottomissione dell’intera popolazione ad un partito-stato necessariamente dispotico. In questo modo è stato messo in piedi un progetto necessariamente artificiale (ed in quanto artificiale storicamente fragile) di ingegneria sociale autoritaria ed egualitaria sotto cu­ pola geodesica protetta, cupola che una volta “bucata” dai modelli di vita capitalistici esterni ha fatto entrare uno tsunami che ha travolto tutto in pochissimo tempo. Sono quindi d’accordo sull’essenziale, e cioè sulla impro­ ponibilità di una riproposizione di modelli novecente­ schi a base ideologica. Questo non significa, però, che si possano fare con­ cessioni all’attuale moda della demonizzazione, stu­ pidamente favorita da molti storici contemporaneisti, non è oggi che una copertura ideologica del neolibera­ lismo imperante, e questo anche quando questi storici si dichiarano fieramente di sinistra ed addirittura di estrema sinistra (ad esempio, per non fare nomi, Marco Revelli). Storicamente parlando, il “riformismo possibile” è sempre stato identificato con la social-democrazia. Perché perseguire una rivoluzione impossibile quando esistono gli spazi ed i soggetti politici organizzati per un riformismo possibile? La scelta per un riformismo

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possibile portava ad una vittoria a tavolino. Ma oggi la “sfida della globalizzazione” rende paradossalmente più pensabile il comuniSmo della stessa socialdemocrazia, il cui progetto, costruito sulla base di un buon capitali­ smo industriale, è stato poi eroso dalla vittoria tennisti­ ca del capitale finanziario. Fra l’altro, è questo il fatto che ha fatto venire meno la dicotomia Destra/Sinistra, che infatti è continuamente reimposta dal sistema me­ diati co europeo come semplice protesi di manipolazio­ ne elettorale illusoria. È chiaro che oggi la cosiddetta socialdemocrazia è impensabile senza un ritorno guida­ to alla sovranità monetaria dello Stato nazionale, che è anch’essa impossibile senza un ritorno ad una forma di protezionismo ben temperato, non assoluto, certamente, ma con “un occhio di riguardo” per le produzioni locali e nazionali. Gira gira, si torna sempre allo stesso punto, e cioè ad un processo politico di deglobalizzazione. E evidente che non esiste una classe politica ed intellettuale, uni­ versitaria e mediatica, che lo possa non dico promuove­ re, ma anche solo concepire. Il vecchio cosmopolitismo finanziario della destra si è gloriosamente unito al vec­ chio internazionalismo proletario della sinistra, che fusi insieme rendono per ora impensabile la sola possibile uscita dalla crisi. Sulla base del ricatto del debito, della sfida della globalizzazione e del cosiddetto “giudizio dei mercati” nessuna via d’uscita è possibile. Se il riformi­ smo fosse possibile sarebbe certamente preferibile alla rivoluzione, anche se più prosaico e meno romantico. Ma esso non mi sembra più possibile. Ecco perché la parola “rivoluzione” non deve farci paura.

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D e c a d e n z a d e lla “ c a st a ” e “ m a s o c h is t i a s t io s i ”

3) I governi a ttu a li sono a ffe tti da crisi d i endemica ingovernabilità, sia per vincoli esterni d i carat­ tere economico (UE, BCE, FMl ) e p o litici (Nato), sia p e r vincoli interni, costituiti dagli interessi particolaristici d i caste grandi e piccole. I l bene comune, l’interesse generale, valori che costitu­ iscono il fondam ento della politica intesa come governo della res publica, scompaiono d in a n zi ad una m iriade d i egoismi corporativi autoreferen­ ti, che impediscono sia u n ’azione politica d ai va­ sti orizzonti, sia program m i di riforme a lungo term ine. I l senso dello stato è un concetto ormai estraneo a questa società, perché è assente nella politica attuale qualsiasi rapporto comunitario d i solidarietà sociale che prescinda dalla difesa d i particolari interessi economici o rendite d i po­ sizione. È scomparso inoltre in Ita lia il concetto d i nazione, proprio perché la grande massa dei c itta d in i si riconosce d i fa tto nei propri interessi particolari, sia in d iv id u a li che collettivi. È sorta perfino una p a tria assurta a simbolo degli egoismi locali: la padania. Oggi è p iù che m a i diffusa la protesta contro la casta privilegiata dei politici, ma questa gode d i assurdi privilegi, quale corri­ spettivo dovuto per il m antenim ento dell’Ita lia in posizione subalterna nell’am bito occidentale, Tale appannaggio viene erogato perché la politica non ostacoli i disegni della grande in dustria e della fin a n za , fin a lizza ti a l dominio del capitalismo assoluto con conseguente macelleria sociale. La casta dei politici, a sua volta si procura consenso attraverso clientelismo e protezione degli interessi e dei privilegi delle caste m inori delle categorie.

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L’Ita lia è insomma un ordinamento gerarchico di carattere castale - feudale, gestito in nome e per conto dei poteri delle glohal class globalizzate. A p ­ pare evidente che non è possibile dunque fo rm u la ­ re proposte politiche alternative senza f a r riferi­ mento a i valori etici su cui una comunità si. stru t­ tura. Esistono in fa tti categorie della produzione, delle professioni, dell’arte, del terziario, che, in quanto componenti della società sono necessarie alla sussistenza della vita sociale comunitaria. E d è q u in d i in base alla loro fu n zio n e sociale, del ruolo cioè assolto nella società civile, che la loro presenza acquista una dignità etica che lo stato deve riconoscere e disciplinare. Senza alcun rife­ rim ento alle v irtù civiche, ogni società si dissolve nell’egoismo degli interessi destinati a fagocitarsi a vicenda. Non si può prospettare alcuna riform a strutturale della società, senza un movimento po­ litico che prenda coscienza dell’agire politico come una missione d i carattere etico, tesa alla realiz­ zazione del bene comune come fondam ento della com unità sociale. La tua domanda invita a riflettere sul rapporto fra eti­ ca e politica, ribadendo una verità notissima, e cioè che senza un rapporto fra etica comunitaria e rappresentanza politica non c’è che la dissoluzione di ogni legame socia­ le. Tu sai che secondo la mia ricostruzione della storia della filosofia i cosiddetti “presocratici” non erano fisio­ logi (anche se così li interpretò Aristotele trecento anni dopo la loro comparsa), ma legislatori comunitari, e la natura non era che un metafora panteistica per indicare ciò che loro più premeva, il rapporto fra etica e politica nella polis. Ma è appunto perché approvo interamente questo oggetto di riflessione (il rapporto fra etica e po­

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litica, appunto) che sconsiglierei fermamente di cadere nella trappola che ci viene oggi proposta, quella delle “ruberie della casta”, capro espiatorio oggi delle oligar­ chie dominanti, che vorrebbero”snellirla”per potere ul­ teriormente indebolire il potere della rappresentanza., sia pure corrotta. Scrive Franco Berardi “Bifo” (cfr. “Il Manifesto", 15/9/2011): “Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indigna­ zione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d’Italia credono che basti ristabilire la legalità perché le cose si rimettano a funzionare decentemente, e credono che i diktat europei siano la soluzione per le malefatte del­ la casta maliosa italiana. Il Purgatorio che ci aspetta è invece più complicato e lungo. Dovremo forse passa­ re attraverso una insurrezione legalitaria che porterà al disastro di un governo della Banca Centrale europea impersonato da un banchiere o da un confindustriale osannato dai legalitari. Sarà quel governo a distruggere definitivamente la società italiana, ed i prossimi anni italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle spalle. E meglio saperlo”. Vorrei commentare questo breve testo perché lo con­ divido nell’essenziale, al di là degli anarchismi del per­ sonaggio e dell’ipocrisia dell’organo di stampa che lo pubblica, organo dell’ala estremistica dei legalitari antiberlusconiani. Non intendo affatto negare l’esistenza della casta, e neppure sottovalutarla o scusarla. Essa mi fa schifo poli­ ticamente, moralmente ed esteticamente. Nessuna com­ media greca può competere con Scajola, che ha affermato che gli avevano comprato una casa a Roma con vista sul Colosseo senza che lui neppure lo sapesse. Ma cerchia­ mone la genesi storica strutturale. La casta è stata un

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costo fisiologico (un faux fraìs, in lingua francese) pagato a fine ottocento nel passaggio dal liberalismo censi tario alla rappresentazione “democratica”. La cosiddetta “cor­ ruzione”, già conosciuta dagli antichi, è quindi endemi­ ca in Europa da più di un secolo. L'esperienza insegna che il richiamo dei valori non serve quasi a nulla, e che ci vuole la paura del boia. La classe politica di servizio (non importa se delle oligarchie economiche e/o dei lavora­ tori dipendenti) è come una donna di servizio la quale, oltre alla paga mensile, “fa la cresta” alla spesa per incre­ mentare il suo reddito. Le danno cento euro per fare la spesa, lei compra per settanta, ed intasca trenta. Intasca trenta perché invidia il tenore di vita dei suoi padroni, e vorrebbe anche lei andare a Cortina anziché a Sharm el Sheik. Ma - mi dirai- le cose non sono così semplici. Errore, le cose sono esattamente così. Inutile scomodare la tradizione cattolica, la mancata rivoluzione protestan­ te, il calvinismo assente, ed altre idiozie della tradizione azionista italiana. Questi straccioni arricchiti sono dunque un costo ag­ giuntivo alla rappresentanza democratica moderna. Se pensiamo al tempo di Giolitti (1901-1912) oppure della DC (1946-1992), la casta c’era eccome, ma dava qualcosa ai suoi rappresentati. Pensiamo a Gaspari in Abruzzo. La “serva” faceva la cresta alla spesa, ma almeno portava a casa la spesa, e riempiva il frigorifero. Oggi la novità è che continua a fare la cresta, ma non porta neppure più a casa la spesa. E perché non porta più a casa la spesa? Ma è semplice! A causa della “sfida della globalizzazione”, del “giudizio dei mercati” e del “ricatto del debito” di cui abbiamo già ampiamente parlato nelle due risposte pre­ cedenti. La mafia chiede il “pizzo”, ma almeno fornisce la “protezione”. Oggi questi miserabili non sono più in grado di fornire alcuna protezione. La “pacchia” dei tempi DC-PSI-PCI è finita. Oggi le elezioni, in tempo di crisi

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economica e bipolarismo partitico, vengono quasi sempre automaticamente vinte dal partito di opposizione, desti­ nato poi a “ruotare” a scadenza elettorale. In Italia ce in più un parossismo ideologico identitario, ereditato dalla Prima Repubblica (l’antifascismo in assenza di fascismo e l’anticomunismo in assenza di comuniSmo), che rende le nostre genti preda di un babbionismo ideologico mani­ polato inesistente nel resto del modo, ma la somma totale non cambia. Ho assistito in TV allo spettacolo surreale del popolo-babbione PCI-PD che applaudiva freneticamente Bersani quando faceva riferimento a Napolitano “difensore della Costituzione” (si tratta del garante dei mercati e dell’intervento anticostituzionale della NATO in Libia). Con una base elettorale del genere, non c’è nessun biso­ gno di un governo tecnico della Banca Centrale Europea. I lernming andranno da soli a buttarsi in mare seguendo il pifferaio di Hamelin. Trattandosi di masochisti astiosi, sarà facilissimo dirottare il loro odio non solo contro il laido puttaniere Berlusconi, ma anche contro le libere professioni, gli apparati amministrativi delle province, eccetera. Ci aspettano quindi tempi duri. Tu sembri credere che sia impossibile svuotare la “casta”, o quantomeno dimagrirla. Non lo credo. Ho rilevato in precedenza che nelle democrazie elettorali capitalistiche, ancora di più nella fase del bipolarismo commissariato che svuota qualsiasi decisione politica sovrana, un settore di “casta” è fisiologico, perché serve da intermediazione parassitaria fra l’imprenditoria privata e le strutture pubbliche. Ma questa intermediazione può essere snellita, e lo può essere quando non può più erogare clientelismi, prote­ zioni, nicchie di privilegio, false pensioni di invalidi­ tà, ospedali e scuole destinati a non essere mai messi in funzione, eccetera. Il problema è questo: quando questa

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casta parassitarla sarà snellita e dimagrita, quale sarà il nuovo capro espiatorio di cui avranno bisogno le oligar­ chie per dirottarci contro l’invidia sociale degli apparati “legalitari”? La tragicommedia di Mani Pulite, l’operazione che ha visto il seppellimento della prima Repubblica DCPSI, certamente corrotta ma anche erogatrice di welfare e di rappresentanza politica parzialmente sovrana (almeno in politica interna), ha messo al centro della sfera politica una categoria giudiziaria, l’obbligatorietà dell’azione penale. Ora, io non dubito neppure per un momento che l’obbligatorietà dell’azione penale sia una necessità per la convivenza comune. Nego invece che possa diventare la categoria più importante e decisiva dell’azione politica sovrana. Che i “politici rubino” è per me un fatto statistico parzialmente scontato. Sono convinto che rubino anche in Islanda e Danimarca, al­ meno una parte di loro. La politica attira idealisti, non importa se rivoluzionari o riformisti, soltanto in tempi storici in cui sono aperte prospettive di sovranità, di destra e/o di sinistra. In tempi in cui la politica è unica­ mente una registrazione notarile del giudizio dei mer­ cati o un supporto tecnico della sfida economica della globalizzazione è normale che essa attiri soprattutto il tipo umano del faccendiere o al massimo quello del ragioniere-contabile. Ci saranno sempre dei caroselli di automobili di elettori-tifosi dopo la vittoria elettora­ le, ma si tratta di percentuali minime, anche se supe­ riori a quelle degli esploratori artici e dei serial killer. Il tipo umano dell’amministratore-ragioniere ruberà percentualmente poco, mentre il tipo umano del fac­ cendiere ruberà percentualmente di più. Ma il faccen­ diere è indispensabile nella politica odierna, perché fa da mediatore tra l ’imprenditoria privata e le strutture pubbliche. A Washington, ad esempio, la grande mag­

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gioranza dei politicanti è costituita da lobbysti ufficial­ mente registrati. E realistica la prospettiva evocata da Franco “Bifo” Berardi? Io credo proprio di sì, anche se la babbioneria masochistica del popolo di sinistra, oggi riciclato in tifo­ seria politicamente corretta di matrimoni gay, immigra­ ti e nomadi, renderà probabilmente superfluo il ricorso diretto ed un governo tecnico di tipo Marcegaglia-Montezemolo-Draghi. Quest’ultimo certamente porterebbe l’età pensionabile ad ottant’anni (dicendo che questo è utile per trovare lavoro ai “giovani”- d ’altronde, un po­ polo interamente babbionizzato e ridotto a plebe tifosa non può rendersi conto della contraddizione), privatiz­ zerebbe l’assistenza sanitaria incentivando le assicura­ zioni, moltiplicherebbe la flessibilità del lavoro (sempre per rispondere alle “sfide della globalizzazione”), libe­ ralizzerebbe tassisti e libere professioni, promuoverebbe ulteriormente eutanasia, cremazione e centralità della coppia gay contro le vecchie ed obsolete normali fami­ glie, eccetera.. Di Pietro verrebbe tacitato con un paio di manette d’oro, e Vendola con la sponsorizzazione statale del matrimonio gay. Sarà del tutto inutile ricorrere ad un governo tecnico. Come se ne esce? A mio avviso non se ne uscirà, finché gli oppositori al capitalismo continueranno ad essere per­ cepiti come “masochisti astiosi”, secondo una definizione di Michel Houellebecq con cui ho deciso di iniziare la mia quarta ed ultima risposta. Ma questo richiede un muta­ mento culturale tellurico, di cui per ora non si vendono che fragilissime tracce. Vale però la pena di rifletterci bre­ vemente sopra.

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C a pita lism o r iv o l u z io n a r io e d econo m icism o libertario

4) I l concetto di rivoluzione ha subito nel X X I ° secolo un capovolgimento a 360°. S i accreditano in fa tti come rivoluzionari fenom eni d i rivolta innescati dall’imperialismo americano e occidentale, volti al ripristino dell’ordine capitalista e alla sostanziale perdita della sovranità nazionale. Così abbiamo assistito alla rivoluzione arancione in Ucraina, alle varie rivoluzioni arabe ecc... Il capitalismo, da reazionario è divenuto rivoluzionario, nella m isura in cui estende il proprio dominio im pe­ rialista e diffonde il verbo della globalizzazione economica. L’evoluzione culturale, l’affrancam en­ to dalla miseria materiale, l’aspirazione all’in d i­ pendenza dei popoli, capisaldi ideali delle ideolo­ gie del ‘900, sono sta ti soppiantati dal ritorno al X I X ° secolo, da una espansione capitalista che, p u r m utata nelle sue forme, afferm a il prim ato americano nel mondo. Allo stesso modo la Cina, quale potenza emergente, dismesso l’apparato ide­ ologico maoista, estende il suo dominio, specie in Africa, con le arm i della finanza e dell’accumula­ zione capitalista. E in fa tti proprio la crisi dell’oc­ cidente ad incrementare la spinta a questo nuovo imperialismo, spesso sotto m entite spoglie rivolu­ zionarie, volto alla appropriazione d i materie p r i­ me a basso costo. La rivoluzione, così come intesa nel ‘900, è stata sottoposta ad una demonizzazione ideologica, quale fenom eno foriero d i ordini tira n ­ nici e sistem i politici fallim en ta ri, ormai fu o ri della storia, perché l’emancipazione progressiva della modernità è un valore portante dell’avvento della globalizzazione. A l contrario, è proprio il ca­ pitalism o ad espandere insieme all’imperialismo,

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la propria crisi e qu in d i, la schiavitù del debito, le guerre, l’impoverimento generalizzato dei popo­ li. In occidente, sono proprio i fenom eni congeniti allo sviluppo capitalista, quali l’espulsione delle masse dei lavoratori dal processo produttivo, la delocalizzazione industriale, la disoccupazione, la precarietà, a generare tensioni sociali da cui possono nascere i presupposti di nuovi fenom eni rivoluzionari, per ora solo fu tu r ib ili. Ogni nuova proposta politica deve necessariamente prendere atto del fallim ento dal capitalismo globalizzato. Q u in d i occorre fa r appello a proposte d i riforma che coinvolgano la società nel suo complesso e la r i­ vendicazione del p rim ato della decisione politica, conseguente al recupero della sovranità degli stati. Tu ttavia il fenom eno rivoluzionario non può sor­ gere sulle ceneri dei fa llim e n ti del vecchio ordine, né su nuove teorie economiche, né su dottrine po­ litiche elaborate dagli intellettuali. Le rivoluzioni nascono da uno slancio vitale coinvolgente le masse nella prefigurazione d i nuove realtà, che comporti­ no, oltre a nuovi ordinam enti politici, nuovi valo­ ri esistenziali che diano senso all’agire dell’uomo nella storia. La rivoluzione non può che consistere in tm a etica com unitaria già presente nella socie­ tà e suscettibile di imporsi a livello politico. La rivoluzione è la proiezione d i un m ito unificante gli in d iv id tii nelle loro esigenze m ateriali e nelle loro aspirazioni spirituali. Oggi, non si prospet­ tano all’orizzonte nuove mitologie utopico - rivo­ luzionarie. T uttavia gli elem enti generatori sono presenti nella realtà; spetta a nuovi m ovim enti politici scoprirne la potenzialità rivoluzionaria ed elaborarne d i conseguenza una sintesi sia ideale che politica.

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Dal momento che questa è la quarta ed ultima do­ manda, vorrei approfittarne per “allargarmi” un po’ e riflettere sulla natura del nostro tempo. Scrive il roman­ ziere Michel Houellebecq (cfr. La carta e il territorio, p. 333): “Più in generale, si viveva in un periodo ideologi­ camente strano, in cui in Europa Occidentale tutti sem­ bravano persuasi che il capitalismo fosse condannato, e persino condannato a breve scadenza, che vivesse i suoi ultimissimi anni, senza che però i partiti dell’ultrasini­ stra riuscissero a sedurre al di là della loro clientela abi­ tuale di masochisti astiosi. Un velo di cenere sembrava essersi sparso sulle m enti”. U n’affermazione paradossale, ma ciò che non è pa­ radossale non merita neppure un commento. Mi scu­ serai allora se in questa quarta risposta non scenderò nel merito nelle tue osservazioni, che peraltro condivi­ do integralmente e che quindi non richiedono ulterio­ re elaborazione analitica, e mi limiterò a commentare questa affermazione di Houellebecq. Houellebecq, che pure è caduto in stupide affermazioni anti-islamiche, ha però avuto il merito inestimabile di capire che la so­ cietà occidentale si è corrosa da sola al suo interno, non riuscendo a porre lim iti a quella “estensione del campo della lotta” che, partendo dalla- competizione sessuale agonistica, si è estesa a tu tti.i campi della vita sociale, fino ad intaccare la base di tutto, l’amore stabile e fon­ dato sul dono. Il codice di questa società in cui viviamo può essere definito come un capitalismo interamente liberalizzato, oppure in modo più preciso una sorta di economicismo li­ bertario. Questo codice produce necessariamente un “velo di cenere che si sparge sulle m enti”, e che sottopone in­ tegralmente a sé i momenti che nel grande idealismo classico tedesco erano ancora pensati come autonomi da qualsiasi costrizione economico-politica, l ’Arte, la Re-

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ligione e la Filosofia (scritte in maiuscolo, ovviamente). L’economicismo libertario, lo dice il termine stesso, uni­ sce creativamente due termini, l'economicismo (la sfida della globalizzazione, il vincolo del debito, il giudizio dei mercati, il rating eccetera) ed il libertarismo (l’uso delle droghe, il vietato vietare, la preferenza della con­ vivenza gay al vecchio e noioso matrimonio “borghese”, la “coppia aperta”, la preferenza dei nomadi e dei mi­ granti sui vecchi “bottegai” leghisti, il laicismo nichili­ stico, relativistico e positivistico contro il creazionismo del “disegno intelligente” del papa teologo bavarese Ratzinger, lo spargere le ceneri nella natura rispetto al tradizionale pasto dei vermi in casse chiuse, eccetera). Il codice dell’economicismo libertario è fortissimo, perché si innesta non tanto nella natura umana in generale, che invece potenzialmente è un criterio di ordine e misura (;metron), quanto in una configurazione storica della na­ tura umana sedimentatasi e consolidatasi negli ultimi quattromila anni dopo il tramonto del modo di produ­ zione comunitario. L’anticapitalismo si è storicamente costituito fino ad oggi in Europa Occidentale in una forma antropologica che per brevità definirò del “masochismo astioso”. Non fu sempre così. Al contrario, al principio non fu così, e bisogna ripercorrerne le avventure dialettiche. L’illuminismo borghese settecentesco non poteva es­ sere anti-capitalistico, per la ovvia e semplice ragione che il capitalismo non c’era ancora, e quindi la sue con­ traddizioni non potevano essere ancora visibili. Il co­ muniSmo settecentesco era un comuniSmo della ripar­ tizione agraria, nemico del lusso, ed era filosoficamente fondato su una interpretazione egualitaria e livellatrice del diritto naturale e del contratto sociale. Dal momen­ to che il modo di produzione capitalistico era ancora in una prima fase “astratta” (e quindi non “dialettica”

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e non “speculativa”- uso qui liberamente una termino­ logia tratta dalla logica dialettica di Hegel, che a mio avviso Marx non “rovescia” affatto, ma semplicemente applica alla illimitatezza della produzione capitalisti­ ca), non esisteva ancora nessun concorrente anti-capi­ talistico, ed il mondo poteva essere “unificato” in una unificazione teorica astratta (il tempo come progresso, lo spazio come materia, la morale kantiana dell’indivi­ duo e dell’imperativo categorico, il lavoro come tem­ po astratto di tempo di lavoro sociale medio, eccetera). La ragione per cui la filosofia capitalistica si è fermata all’illuminismo, e Kant e Voltaire sono gli ultim i filoso­ fi “spendibili”, sta proprio nel fatto che questo stadio è precedente alla visibilità della contraddizione. Il primo pensiero implicitamente anti-capitalistico è la formu­ lazione idealistica di Fichte, in cui l’Io è la metafora dell’attività umana universalisticamente concepita, non importa se nella vecchia forma feudale o nella nuova forma capitalistica. Marx riteneva in buona fede di esse­ re “materialista”, ma si ingannava sulla natura del suo stesso pensiero, perché identificava il materialismo con l ’ateismo, con il pensiero scientifico, con lo strutturali­ smo storico e con la prassi rivoluzionaria “materiale”. In realtà (cfr. Tesi su Feuerbach) egli intendeva l’oggetto materiale non come semplice “oggetto” (Objekt), ma come resistenza contrapposta all’azione del soggetto at­ tivo (Gegestand), e questa è esattamente la stessa con­ cezione dell’idealismo di Fichte (trascuro qui le media­ zioni determinate proposte da Hegel, perché manca lo spazio per analizzarle). Il suo comuniSmo non era che l’elaborazione idealistica della coscienza infelice bor­ ghese, cosi come era stata disegnata dallo stesso Hegel. Il marxismo nacque quindi come pensiero coerentizzato nel ventennio 1875-1895, su committenza pres­ soché diretta della socialdemocrazia tedesca, e nacque

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come variante del positivismo di sinistra, variante che conservò per circa un secolo. Il positivismo è una fi­ losofia profondamente masochista, perché il disprezzo verso la filosofia e la religione e l’apologià acritica di una “scienza” sradicata dai giudizi di valore non può che finire con il farsi del male da sola. L’intera eredità della tradizione trimillenaria della civiltà occidentale (in breve, - dall’umanesimo di Omero in poi - segnalo in proposito un importante saggio di Luca Grecchi di prossima edizione) viene spacciato per conservatorismo ed arretratezza. La religione è ridotta a superstizione per babbioni creduloni, la filosofia a perdita di tempo adolescenziale, ed il massimo di paradosso è questo, che questa furia nichilistica annientatrice è spacciata per contributo alla liberazione socialista dell’uomo. Il ca­ rattere dialettico della coscienza infelice borghese, unico motore espressivo della totalità dello stesso pensiero di Marx, viene progressivamente sostituito da una sorta di organizzazione subalterna dell’invidia delle plebi, che in effetti Nietzsche seppe a suo modo diagnosticare in tempo, dandone però una versione regressiva ed anco­ ra peggiore del “materialismo” socialdemocratico e poi comunista. Questo non poteva far diventare realmente credibile la cultura socialista e poi comunista. E tuttavia, all’ini­ zio, essa mostrò un carattere umanistico ed emancipatore (pensiamo a Rodolfo Mondolfo), che derivava da una interpretazione popolare dell’ideologia del progresso. Ben presto però all’interno del socialismo si impose la “guerra civile interborghese” promossa dagli intellet­ tuali “progressisti”, che Sorel fu il primo a diagnosticare con relativa precisione. Questa guerra civile inter­ borghese distrusse gli elementi umanistici precedenti di origine idealistica e romantica, mettendo in primo piano gli elementi avanguardistici, futuristici, distrut-

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tivi e nichilistici di questo gruppo sociale. Fino al Ses­ santotto questi elementi furono ancora moderati e tenu­ ti a freno dalla cultura popolare dominante, ma a partire dal Sessantotto si scatenarono senza più freni (e si veda l’analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, che peraltro mi permetto di interpretare liberamente senza il loro permesso). Si misero cosi le basi del codice dell’economicismo libertario, un codice di individualismo esasperato che viene incontro ad una nuova fase storica definibile come post-borghese e ultra-capitalistica. La grande maggio­ ranza della gente “normale”, non importa se votante a sinistra, al centro o alla destra, non si riconosce assolu­ tamente nei valori artistici, letterari, filosofici e cultu­ rali di questa “avanguardia” sociale, che viene promossa da oligarchie di accademisti, giornalisti, pseudo-intel­ lettuali, eccetera, ed identifica la “sinistra” con queste oligarchie, non però nella variante allegra, bacchica ed orgiastica del laido Berlusconi, ma nella variante ap­ punto dei masochisti astiosi. Dal momento che questi ultimi vogliono farci vergognare di consumare troppo, indicandoci i bambini africani con il pancino gonfio per la fame e giustificando i nomadi che rubano a man bassa (non tu tti ovviamente, ma molti sì), e questo proprio quando il grande capitalismo finanziario abbandona il cosiddetto “consumismo” per l’austerità è del tutto ov­ vio che questo provochi un generalizzato rigetto. Ho creduto di capire plasticamente questo quando ho visto gli esagitati m ilitanti di Rifondazione comu­ nista, guidati dai loro capo Ferrerò con il megafono, che cercavano di far cadere innocenti ciclisti del cosiddetto Giro della Padania. In un momento di attacco genera­ lizzato alle condizioni di vita della maggioranza degli italiani, essi facevano la sola cosa che erano capaci di fare, attizzare la guerra civile simbolica fra masse di destra e

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masse di sinistra su basi ideologiche. È del tutto chiaro che una nuova proposta politica non può essere fatta su questa base antropologica diffusa di babbioni masochi­ sti ed astiosi. Da adesso in poi, però, non possiamo che cercare di promuovere una cultura alternativa, che verrà soltanto da prove e riprove, e che la nostra generazione “scoppiata” probabilmente non vedrà mai.

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Un dissenso sociale tutto da inventare

L ' im p o t e n z a della p r o testa “ in d ig n a t a ”

1) La manifestazione degli indignados si è tra m u ­ tata in un problema d i ordine pubblico. L’assalto dei black block ha monopolizzato l’attenzione dei media, oscurando i significati d i una m anifesta­ zione contro la dittatura del sistema finanziario e la schiavitù del debito creati da tm a UE concepita come una istituzione finanziaria promotrice d i uno sviluppo capitalista globale che si impone agli sta­ ti. Il movimento degli indignados quindi, appare come l’erede designato dei m ovim enti no global e del pacifismo ideologicamente globalista che mo­ nopolizzò la protesta contro le guerre imperialiste americane. G li indignados dovrebbero essere allora anche gli eredi legittim i dello stesso fallim ento del­ la protesta del movimento no global, che anzi, nel caso dell’aggressione alla Libia, ha visto i suoi p iù autorevoli esponenti schierarsi dalla parte degli in ­ vasori della Nato. La protesta sociale viene dunque metabolizzata dal sistema capitalista globale, come un fenom eno congenito al malcontento e a l disagio che si generano in concomitanza d i eventi epocali (crisi economiche, rivolgim enti sociali), che deter­ m inano la evoluzione d i un sistema capitalista, i cui sviluppi progressivi producono nuovi equilibri economici e sociali. In fa tti, i m assimi esponenti del capitalismo globale (da D raghi a Soros), sembrano condividere le motivazioni degli indignados. I l ca­ pitalism o è un sistema che nella storia ha saputo rigenerare p iù volte se stesso, sposando spesso le ra­ gioni dei suoi avversari, contribuendo in ta l modo,

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a vanificare gli obiettivi della protesta e svuotando di contenuto le m otivazioni dei suoi nemici. Non esiste oggi una cultura del dissenso sociale, non si è cioè m anifestata una chiara visione degli obiettivi da perseguire, perché tale protesta è scaturita dalla condizione d i precarietà e m arginalità d i masse di giovani e meno giovani che si ritrovano in piazza in nome d i un essere - contro d in a n zi a un sistema globale non identificabile in specifici obiettivi da abbattere. La protesta degli indignados è un feno­ meno di risulta, che unisce una massa di in d iv id u i sulla base della loro condizione d i esclusi elo espulsi da un sistema: un fenomeno derivato da una causa esterna non può che rivelarsi alla lunga organico ed interno alla causa stessa. Se il capitalismo è glo­ bale, globale è anche una protesta, che, estraniata dalle specificità delle situazioni nazionali elo conti­ nentali specifiche, non può non dissolversi nella ge­ nericità delle sue motivazioni, nella inadeguatezza delle sue proposte, nella fram m entarietà della sua organizzazione strategica. Leggo che dai un giudizio moderatamente ma ine­ quivocabilmente negativo e scettico sui possibili esiti del movimento detto degli “indignati”. In linea di mas­ sima sono d’accordo, anche se bisogna essere cauti sulle possibili “ricadute” di questo movimento in termini di cultura politica generale. In proposito, cercherò di chia­ rire le ragioni in base alle quali anch’io sono purtroppo scettico sulle prospettive “strategiche” di questo movi­ mento. Distinguerei prima di tutto questo movimento, pel­ ota declamatorio, lamentoso, petizionistico e politicamente inespressivo, da una cosa completamente diversa, e cioè dai cosiddetti black bloc. Questi ultimi non sono

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affatto riducibili ad un’ala estremistica, violenta ed ille­ gale di un pacifico, pecoresco, belante e “gioioso” mo­ vimento apprezzato persino da Soros e da Draghi (il cui apprezzamento o è pura ipocrisia o segnala una possi­ bile divisione tattica fra i gruppi strategici dominanti - propendo purtroppo per la prima alternativa). Questi ultimi sono un gruppo informale a parte, che non si re­ laziona affatto con lo stato o con il potere, con argomen­ ti presi più o meno da Foucault, Deleuze e Negri, ma esclusivamente con il circo mediatico, che ignora i belati pecoreschi ritmati e le petizioni moralistiche, ma per sua stessa natura evidenzia soltanto tre tipi di spettacoli, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo pomografico o infine 10 spettacolo violento. I black bloc attirano i media come 11 miele attira gli orsi o la merda gli insetti. Chi di loro ritiene razionalmente in buona fede che nell’odierna so­ cietà dello spettacolo che solo in questo modo si può attirare l’attenzione della “gente” oppure far paura ai potenti (ed in questo modo, proprio sulla base di questa paura, ottenere di più delle semplici ostensioni ritualiz­ zate di pecoroni con il viso dipinto, o secondo la nuova moda in maschera) credo si sbaglino. E si sbagliano non certo perchè facendo paura alla gente comune portano acqua alla eterna “destra” (questo è l’eterno argomen­ to ipocrita dalla sinistra di regime), ma perchè i dati strategici delle scelte delle oligarchie sono legati a fat­ tori macroeconomici, macropolitici e macrogeopolitici del tutto esterni ed indifferenti rispetto all’irrilevante teatrino dei cassonetti bruciati e dei vetri infranti. Se la violenza dei black bloc servisse, bisognerebbe favorirla ed auspicarla, e non certo scoraggiarla, perchè comunque sarebbe sempre diecimila volte minore di quella dei cri­ minali che hanno distrutto la Libia e minacciano la Siria e l’Iran. Ma purtroppo non serve, come del resto non servono assolutamente a nulla i riti cosiddetti “pacifisti”

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o “altermondialisti”, luoghi di reclutamento per futuro ceto politico di manipolazione e di intermediazione. Torniamo ora al tuo giudizio sul movimento degli “indignati”. Come tu dici chiaramente (ed io concordo), si tratta di un movimento di facilissima metabolizzazione e neutralizzazione da parte del sistema capitalistico, esattamente come si è trattato per i suoi due ridicoli predecessori, il movimento pacifista ed il movimento altermondialista, che in vent’anni hanno ottenuto zero r is u lta ti, o come direbbe José Mourinho, “Zero t i t i l l i " . In proposito, sono forse utili due riferimenti teorici com­ plessivi e generali. In primo luogo, bisogna prima di tutto prendere atto che il grande movimento del comuniSmo storico novecentesco è finito irreversibilm ente (altra cosa è il co­ muniSmo inteso come tendenza storica e metastorica al comunitarismo sociale solidale, che non può avere date di scadenza per il semplice fatto che non ha mai neppu­ re avuto date di inizio), ed ogni gesticolazione di gal­ vanizzazione testimoniale estremistica è prima di tutto inutile per gli stessi scopi che soggettivamente si pre­ figge. Oggi all’ordine del giorno non c’è il comuniSmo, comunque declinato e comunque definito, ma soltanto un possibile recupero di sovranità dello stato nazionale e un possibile orientamento geopolitico. Altro in questo momento non mi sembra sia all’ordine del giorno. De­ globalizzazione economica, sovranità politica dello stato nazionale, riorientamento geo-politico preferibilmente eurasiatico, superamento culturale di tutte le forme di post-moderno e di apologia neoliberale dei diritti umani come pretesto per un interventismo detto “umanitario” ed in realtà imperialistico; altro proprio oggi non si può decentemente perseguire, non certo i “castelli in aria” dei programmi immediati di socialismo e di comuni­ Smo. La fine miserabile dei micropartitini italiani di D i­

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liberto e Ferrerò, ridotti a mendicare un posto a tavola a Bersani per rientrare in parlamento e salvare le sorti del loro pezzente ceto politico professionale, ne sono un triste esempio, in quanto il loro richiamo identitario ed innocuo al “comuniSmo” deve essere unito alla loro pro­ messa a Bersani di non rifare mai più gli scherzetti di Bertinotti e di Turigliatto, e cioè far cadere il governo commissionato dalla Banca Centrale Europea e dal Fon­ do Monetario Internazionale. Bisogna purtroppo dare ragione a Gianfranco La Grassa ed alle tesi esposte nel suo ultimo notevole sag­ gio (cfr. Oltre l’Orizzonte, Besa editrice, Lecce 2011). La Grassa sostiene che in questo momento storico l’inizia­ tiva strategica della riproduzione sociale complessiva è pienamente, ■completamente ed integralmente nelle mani delle classi dominanti, e le classi dominate sono pienamente a rimorchio, e lo sono al cento per cento. E ovviamente un peccato che La Grassa accompagni questa razionale constatazione con frasi ripugnanti ed. inaccet­ tabili contro la filosofia, l’idealismo e l ’umanesimo, e con dichiarazioni metastoriche per cui la storia non è mai stata storia di lotte di classe fra dominanti e domi­ nati, ed è invece sempre stata lo scenario immutabile di strategie e di conflitti fra le sole classi dominanti. Da vecchio professore anche di storia potrei dimostrare che non è così, ma dovrei scrivere una storia generale alter­ nativa dell’umanità in migliaia di pagine con esempi e commenti, e comunque La Grassa non starebbe neanche a sentire, ma risponderebbe con bizzarre e pittoresche invettive che non bisogna perdere tempo, e che lui par­ la solo con quelli che sono preliminarmente d ’accordo con lui. Ma queste sono solo note psicologiche personali poco rilevanti. E invece rilevante il fatto che La Grassa, al netto delle sue fastidiose invettive, ha ragione nell’essenziale. Oggi

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il “pallino” è esclusivamente in mano alle classi domi­ nanti, e del resto tu lo dici con chiarezza, definendo gli indignati un “fenomeno di risulta”. Tu scrivi (ed io lo sottoscrivo integralmente) che “il capitalismo è un si­ stema che nella storia ha saputo rigenerare più volte se stesso, sposando spesso le ragioni dei suoi avversari, con­ tribuendo in tal modo a vanificare gli obiettivi della pro­ testa e svuotando di contenuto le motivazioni dei suoi nemici”. Perfetto, è veramente così. Soltanto la cultura di sinistra europea, una delle più stupide dell’intera via lattea, ha potuto autodefinire se stessa come “progres­ sista” e la cultura borghese-capitalistica come “conser­ vatrice”. Ma è inutile infierire contro gli idioti, che in genere si riuniscono da soli con la loro idiozia. Dopo il Sessantotto il capitalismo ha “sposato” le ragioni dei suoi avversari, ed ha risposto con il benessere consumi­ stico e con il temporaneo allargamento del ivelfare nei riguardi delle classi popolari, salariate e proletarie e con la liberalizzazione del costume nei riguardi del miserabi­ le ceto degli intellettuali piccolo-borghesi. George Sorel è stato il solo intellettuale che a suo tempo ha almeno in parte compreso le linee generali di questo processo, allora appena iniziato, ma ha potuto farlo soltanto nella misura in cui ha distinto la causa della emancipazione sociale e comunitaria dalla mefitica cultura “di sinistra” del tempo, che era peraltro mille volte più dignitosa e sensata di quella completamente degenerata di oggi. Di fronte al conflitto sociale le classi dominanti, ti­ tolari oggi esclusive del sapere complessivo della ripro­ duzione strategica, selezionano sempre il ricevibile e l ’irricevibile. Il ricevibile viene contrattato, limitato, alleggerito, e l’irricevibile viene invece inesorabilmen­ te respinto in toto. Facciamo l’esempio del referendum contro la stangata proposto dal premier greco Papandreu qualche tempo fa, ed immediatamente respinto da tutta

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l’oligarchia mondiale ed europea concorde, i cui gior­ nali hanno peraltro sfacciatamente rilevato che non si chiede il parere democratico dei tacchini se siano o no d ’accordo con il pranzo di Natale. Al posto del referen­ dum, la cui natura di pericolosa delegittimazione delle manovre d’impoverimento sociale era evidente, si sono controproposte le elezioni, sapendo perfettamente che in un’epoca di integrale commissariamento oligarchico chi vince e chi perde le elezioni è del tutto indifferente ed intercambiabile (Berlusconi, Casini e Bersani in Italia, Pasok e Nea Demokratia in Grecia, Popolari e Socialisti in Spagna, Sarkozy o Hollande in Francia, eccetera). Ma se questo è vero, alle miserabili classi dominate resta solo partire dalla analisi di ciò che è insopportabile per i dominanti, e chiedere appunto questo, e solo questo. Ma una protesta genericamente globale, che accetta la premessa del mercato mondiale e delle sue regole di fun­ zionamento, limitandosi a belare richieste generiche di umanità rivolte proprio ai lupi, è non solo inutile, ma anche ridicola. Oggi le classi dominanti non sopportano la sovranità dello stato nazionale, la deglobalizzazione, il riorientamento geopolitico. Questo bisogna chiede­ re, o meglio organizzarsi per ottenere, non belare con richieste globali megagalattiche o fare congressi filoso­ fici internazionali sulla “idea” di comuniSmo (Badiou, Zizek, Negri, Hardt, e tutta l’oligarchia accademica di “sinistra”).

Q u a n d o m u o r e il d ia v o l o , D io è g ià m o r t o d a t e m p o

2) La gente è tornata in massa sulle piazze. R ispet­ to alla contestazione novecentesca e alla prote­ sta antiam ericana dei p r im i a n n i 2000, v i sono però delle notevoli differenze. Le m anifestazioni

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a ttu a li in fa tti non scaturiscono da m otivazioni ideologiche, n é hanno p er obiettivi proteste internazionaliste contro l’imperialismo, che si tradu­ cono alla fine in mere condanne moralistiche (per es. l’antiam ericanism o risoltosi in pacifismo u n ti Bush). Il degenerare della crisi economica, l’impo­ verimento generalizzato, g li sconvolgimenti sociali prossim i venturi d i eq u ilib ri consolidatisi da de­ cenni, sono fenom eni che hanno indotto m igliaia d i persone a portare in piazza le proprie situazio­ n i sociali disagiate e le proprie tensioni d in a n zi a un fu tu ro incerto. S i è q u in d i espressa una pro­ testa sociale che m anifesta la realtà d i una socie­ tà in disfacimento, perché privata, oltre che delle certezze d i un relativo benessere, anche dei propri paradigm i morali e politici. Tale dissenso sociale ha fornito lo spunto per interpretazioni ideologi­ che della protesta. Trattasi però, d i riproposizio­ ne d i una politica estremista novecentesca, ormai inadeguata a comprendere l’attuale momento sto­ rico, che oggi, p iù che fornire contenuti politici al dissenso, rappresenta una buona occasione per il riciclaggio della vecchia sinistra radicale ormai m arginalizzata e im potente d in a n zi a d una re­ altà estranea agli schem atismi ideologici. I mes­ saggi ideologici in fa tti, sembrano sortire effetti consolatori stilla m inoranza dei fedelissim i, ma non in grado d i coinvolgere le masse emergenti. Il dissenso sociale è form ato per lo p iù da giovani: il loro fu tu ro appare seriamente compromesso dalla assenza d i prospettive di ogni genere. I l ripropor­ si nelle piazza d i vecchi slogan e comportamenti propri dell’estremismo velleitario del ‘900, deriva dalla assenza di cultura politica riscontrabile nei giovani odierni. D i personaggi politici em in en ti

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del ‘900 italiano sia d i destra che d i sinistra (es. Berlinguer e A lm ira n te), se ne ram m enta appena il nome. Occorre comunque osservare che la storia nel suo incessante divenire emette le sue inappel­ la bili sentenze: sulla seconda parte del ‘900 è caduto l’oblio della storia perché la politica d i quegli a n n i non è riuscita ad essere storia, in quanto si è dimostrata impotente d in a n zi alle grandi trasfor­ m azioni economiche e politiche, si è rivelata inca­ pace d i fa re storia. La progressiva scomparsa delle masse dalla politica fin dai p r im i a n n i ’80 ha de­ term inato la fuoriuscita dell’Italia e dell’Europa dalla storia. La mancanza d i cultura politica dei giovani è inoltre il risultato delle condanne apo­ dittiche della cultura ideologica novecentesca, che, insieme agli estrem ism i ha determinato la scom­ parsa della stessa memoria storica. Nessuno, sia la destra che la sinistra che il cattolicesimo, può comunque rallegrarsi della fine delle ideologie in fu n zio n e della morte del proprio nemico storico; la fine del male assoluto avviene quando il bene non p iù ragione d i essere. I l nuovo secolo ci ha insegna­ to che quando si verifica la morte del diavolo, la morte d i Dio è avvenuta già da tempo. Fra gli stimoli contenuti in questa tua seconda doman­ da ne vorrei, subito raccogliere due, per poterli adeguatamente sviluppare. Il primo è contenuto nella tesi per cui “nella seconda metà del Novecento è caduto l’oblio della storia perchè la politica di quegli anni non è riuscita ad essere storia, e si è rivelata incapace di fare storia”. Il se­ condo, immensamente più importante del primo, consiste in una diagnosi infausta, per cui saremmo in presenza di una società in disfacimento. Analizziamoli separatamente, prima l’uno e poi l’altro.

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Se parliamo dell’Italia della seconda metà del Nove­ cento e di questo primo decennio del Duemila, è assolu­ tamente vero. Fenomeni come il cosiddetto “terrorismo” o il balletto triangolare DC-PSI-PCI sono stati puri “incidenti di percorso” ed epifenomeni irrilevanti della storia italiana degli ultim i sessanta anni, anche se han­ no riempito le cronache politiche e costituito le identi­ tà politico-sportive degli italiani. Da un punto di vista storico, il solo ed unico fenomeno rilevante non è stato per nulla “storico”, ma solo economico e di costume, il boom economico iniziato dal 1958 e la modernizzazio­ ne e liberalizzazione dei costumi iniziata a partire dal 1968, anzi dal Sessantotto come anno simbolico della fine della vecchia Italia. Ma appunto si è trattato di due fenomeni non “storici”, a meno che sulla scorta delle Annales francesi il concetto di storia venga allargato in modo indiscriminato, ed infatti oggi fioriscono le storie dell’immondizia, degli odori e del sesso orale. Ma questo allargamento indefinito ed infinito del concetto di sto­ ria, lungi dal segnalare una maggiore consapevolezza sui tempi lenti della storia, segnala al contrario l ’accettazio­ ne interiorizzata della mancanza di sovranità decisionale sulle strategie di riproduzione della società. In una notte in cui tutte le vacche sono nere Mike Bongiorno ed Aldo Moro divertano intercambiabili ed irrilevanti. Questo è dovuto però esclusivamente alla mancan­

za di sovranità politica, militare e geopolitica dell’Eu­ ropa dopo il 1945. Gli europei sono diventati “popolo senza storia”, e la storia si è fatta soltanto e Mosca o a Washington, con la sola parziale eccezione di un grande “sovranista” come Charles de Gaulle, che dovendolo fare indicherei come il solo grande uomo di stato europeo della seconda metà del Novecento. In mancanza di sovranità la politica non può diventa­ re storia, e non solo l’Italia ma l’intera Europa sono stati

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luoghi senza storia. I due soli elementi “storici” rile­ vanti sono stati, da un lato, il progressivo allargamento economico, politico e culturale deiramericanismo an­ glosassone e del suo modello di capitalismo assoluto e totalitario, il cui progredire in tu tti i campi della vita associata può essere riscontrato quasi ad occhio nudo, ed il progressivo svuotamento del comuniSmo storico novecentesco e del suo modello dispotico di regolamen­ tazione sociale livellatrice, destinata a crollare non tanto per la pressione esterna o per il “tradimento” di singoli individui, ma per una maestosa controrivoluzione socia­ le e culturale delle classi medie cresciute nel “sociali­ smo”. Si tratta di due maestosi fenomeni storici che però non hanno trovato in Europa ed in Italia la loro sede. Per questa ragione non condivido il tuo troppo gene­ roso giudizio su Berlinguer ed Almirante. Anche loro, e soprattutto loro, sono solo stati dei comprimari, dei galvanìzzatori identitari di un fascismo e di un comuni­ Smo impossibili ridotti a semplici risorse di spendibilità parlamentare e di simulazione. Chi alla fine produce, per di più consapevolmente, D ’Alema e Fini non merita a mio modesto avviso una rivalutazione storiografica. Ma questo punto è secondario. È invece immensamente più importante ragionare sul­ la tua valutazione, per cui troveremmo in una società in disfacimento, o sulla via progressiva di disfacimento. Sarà vero, anche solo in parte, o si tratta della solita profezia catastrofistica destinata ad una smentita più o meno vicina o lontana? Cercherò, sia pure in modo sommario, di non sottrarmi alla valutazione. Sintomi inequivocabili di disfacimento ci sono cer­ tamente. Una recente indagine statistica della Banca d’Italia del novembre 2011 ha accertato che più di due milioni di giovani italiani (uno su quattro) non lavora e

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non studia. Se pensiamo che fra gli studenti ed i lavora­ tori vengono conteggiati disperati fuori corso del tutto disinteressati ad uno studio reale e lavoratori temporanei e precari, da uno su quattro si può tranquillamente ar­ rivare a due su quattro. Una società che tratta in questo modo i giovani, concedendogli però la droga, la discote­ ca e l’automobile a diciotto anni, ma non assicurandogli lavoro e prospettive, è una novità nella storia comples­ siva dell’umanità. È quindi possibile parlare di disfaci­ mento. Il peggioramento dei servizi pubblici rispetto ad alcuni decenni fa è anch’esso sotto gli occhi di tutti, e la crescente volgarità televisiva è pur sempre il sintomo di una crescente plebeizzazione della società che ha omoge­ neizzato in un unico ripugnante pastone le vecchie classi borghesi e le vecchie classi popolari. Sotto questa crosta schifosa resta pur sempre una risorsa antropologica po­ sitiva, e pensiamo all’ammirevole volontariato giovani­ le in soccorso degli alluvionati liguri a Genova ed alle Cinque terre. E tuttavia, il concetto di disfacimento è talmente importante da non poterci fermare su esempi, cui si possono sempre opporre controesempi di segno op­ posto, con il risultato che le cose sono alla fine ancora più confuse di prima. Cerchiamo di vedere il problema del disfacimento alla radice. E stato osservato che la nuova società indivi­ dualistica del capitalismo recente post-borghese (che io chiamo “speculativo”, ma non mi formalizzo sui nomi, se qualcuno lo vuol chiamare diversamente) non potreb­ be sopravvivere neppure un giorno nella sua crescente anomia se non potesse disporre di “riserve geologiche” ereditate dalle società precedenti, non solo popolari, artigiane e contadine ma anche e soprattutto piccolo­ borghesi nel senso dignitoso del termine (soltanto il settarismo suicida di sinistra ha insegnato a considerare la piccola borghesia una parolaccia, laddove si trattava

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di una positiva mediazione fra cultura tradizionale e rivendicazione di una dignitosa individualità). Ricordo le coppie del Sessantotto che per “contestare” abbando­ navano i marmocchi nati casualmente da rapporti “non protetti” ai genitori ed ai nonni popolari e piccolo-bor­ ghesi che gli toglievano il moccio dal naso e gli pulivano il sederino. E tuttavia, in questi ultimi decenni questi depositi tradizionali si sono consumati ed assottigliati, come la famosa “pelle di zigrino’” di Balzac. Il ritorno della parte migliore della gioventù ad un certo tradizionalismo dei costumi è certamente un fenomeno positivo, che segna la diminuzione del mefitico costume sessantottino. Ma non è certo sufficiente. Il fatto è che il modello dell’indi­ vidualismo del capitalismo finanziario globalizzato non si è arrestato, ma si è anzi irrobustito con la fine del suo contraltare (in greco katechon), e cioè del benefico e mai abbastanza rimpianto comuniSmo storico novecen­ tesco. L’erosione di questi depositi antropologici è forse il fattore principale di questo disfacimento. E del tutto chiaro che i piccoli gruppi residuali della “sinistra radi­ cale” (le culture radicali, le chiama Bersani, accingen­ dosi ad utilizzarle elettoralmente, in base al detto che si raschia anche il fondo del barile) non sono in grado di farci nulla, ma sono anzi un’avanguardia vociante del disfacimento culturale. Ritengo di poterlo sapere meglio ancora di te, perchè sono stato “interno” a questo mondo per quasi un trentennio, e ne ho progressivamente visto la degenerazione dall’originario operaismo ideologizza­ to e fanatico, ma pur sempre popolare, all’adesione alla frammentazione delle culture del femminismo, del pa­ cifismo e dell’ecologismo (nulla a che fare con le cause nobili della Pace, della Donna e dell’Ambiente), fino a diventare un’avanguardia vociante della dissoluzione so­ ciale, vere e proprie sentinelle avanzate del disfacimento.

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Sono pienamente d’accordo con te, per cui se il dia­ volo sono state le ideologie del malvagio secolo del No­ vecento, quando si verifica la morte del diavolo la morte di Dio è avvenuta già da tempo. Qui ci avviciniamo al centro del problema del disfacimento. La filosofia e la scienza non possono essere ridotte ad ideologie, e l’ideologizzazione della scienza, dell’arte e della filosofia sono indubbiamente state una patologia mortale. Ma questo non comporta l’eliminazione dello spazio delle ideolo­ gie, che a sua volta non è che una ideologia particolar­ mente povera e grottesca, e questo per una ragione di semplicissima comprensione. L’ideologia è il terreno in cui gli uomini elaborano e prendono coscienza dei loro interessi collettivi di gruppo, e la grottesca teoria del­ la “fine delle ideologie” non è che una povera ideologia dell’ultrainclividualismo anomico. Eliminato il diavolo delle ideologie si fa palese il fatto che Dio è già morto, se con questo termine si intende niccianamente la morte di una verità universale comunitaria e la riduzione del per­ seguimento degli interessi sociali collettivi e comunitari alla semplice autovalorizzazione consumistica dell’indi­ viduo atomizzato ed isolato. Basta con le ideologie, gridano i tecnici della ripro­ duzione economica del capitalismo imperialistico finan­ ziario globalizzato! E gridando “basta con le ideologie” mostrano ad occhio nudo la loro volontà totalitaria, che mai nessuna religione osò mai spingere fino a questo punto, di ridurre l’intero pianeta a spazio “liscio” di investimenti concorrenziali, la cui liquidità presuppo­ ne automaticamente lo svuotamento dei servizi sociali e delle proprietà pubbliche costituite nella fase precedente della storia del capitalismo. Ma l’incurabilità dei cretini gioisce parlando della fine delle ideologie. Per fortuna c’è sempre il telecomando a “spegnere” il blaterare te­ levisivo degli annunciatori della “fine delle ideologie”.

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I l s o g g e t t o r iv o l u z io n a r io im p o s s ib il e e la t o t a l it à sociale d i S a r tre

3) I l dissenso sociale è oggi m ar ghiaie e incerto. A l contrario il capitalismo, nei suoi m assim i esponen­ ti economici e culturali, elabora programmi, idee e modelli da proporre per la soluzione dei proble­ m i della crisi, che assume il carattere d i una fase necessaria per lo sviluppo evolutivo della globaliz­ zazione. Che il capitalismo non possa che propor­ re soluzioni ideologiche per una crisi che è nata al suo interno e che nella realtà smentisce g li stessi presupposti scientifici” del liberismo economico, è cosa ormai nota. Ma, al fallim ento evidente del liberismo globale, f a riscontro un dissenso sociale degli indignados che esprime una dramm atica ma generica protesta, peraltro facilm ente strum enta­ lizzabile. Se ci si riferisce alla dialettica del m a­ terialismo storico marxista, d in a n zi all’odierno capitalismo globale non f a riscontro alcun soggetto collettivo antagonista; al capitalismo post classista non si contrappone alcuna base post proletaria. Come hai affermato p iù volte, la contrapposizione dialettica m arxista oggi non è p iù applicabile alla società attuale, perché non esistono i presupposti storici della lotta di classe che generarono la rivo­ luzione bolscevica del 1917. La attuale situazione storica, cotne tu dici, è assim ilabile a quella del 1789, perché nel mondo globalizzato post classista, la condizione degli oppressi non è quella del prole­ tariato, ma quella del terzo stato. Da quanto pre­ cede, si comprende qtianto vana e velleitaria sia, stata la ricerca degli ideologi m arxisti d i un nuovo soggetto collettivo rivoluzionario da contrapporre a l capitalismo globale. In cosa si identifica l’odierno

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terzo stato? Esso, non è un soggetto unitario e or­ ganizzato, rappresenta sem m ai la totalità sociale assoggettata agli im perativi del mercato globale, si identifica con la stessa struttura sociale della socie­ tà contemporanea. Occorre q u in d i fa r riferim ento non a d una classe sociale potenzialm ente rivolu­ zionaria, perché questa si rivela, per sua natura, autoreferente e incapace di rappresentare l’intera totalità sociale. La protesta può divenire antagoni­ sta se abbraccia la totalità dei soggetti sociali che costituiscono la struttura della comunità statuale. Vorrei dunque fa r riferim ento al concetto di totali­ tà dialettica espresso da J.P. Sartre. Egli, partendo dalla considerazione che la totalità seriale (intesa come insieme di soggetti in erti perché oggetti stru­ m entali dei processi produttivi capitalisti), non può costituire il soggetto di una prassi d i libertà collettiva, afferm a che solo il gruppo, quale soggetto collettivo composto d i in d iv id u i che perseguono vo­ lontariam ente un fine comune condiviso, può con­ siderarsi un soggetto dialettico di libera prassi. Il gruppo, a sua volta, può divenire seriale integran­ dosi nella struttura capitalista, oppure può realiz­ zare le proprie fin a lità trasformandosi in istitu ­ zione rendendo stabili le sue finalità. N el gruppo vi è l’identificazione del fine individuale con quello collettivo, ma esso, nella società contemporanea non può rappresentare la totalità dialettica della inte­ ra società. Dato che nella società esistono divisioni di ruoli e d i classi, ciascun gruppo esprime una parte del tutto, che diviene autoreferente di una totalità sociale che non può identificarsi con esso. I l gruppo si contrappone ad a ltri gruppi che sono per definizione altre totalità soggettive: non può pertanto sussistere un soggetto collettivo rappre-

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sentativo della intera prassi sociale. Un soggetto collettivo rappresentativo della totalità oggettiva può sussistere, a mio avviso solo se dedotto da una prassi sociale che si riconosce in un principio etico unificante. Una comunità esprime l’essere sociale della totalità dei gruppi che la compongono. Essi in fa tti sono elem enti costituitivi d i una comunità in quanto, all’interno d i essa traggono il loro rico­ noscimento e la loro stessa ragion d’essere. L’essere comunitario si fonda stilla identificazione tra la parte e il tutto, tra particolare e universale. L’esse­ re comunitario è il prodotto della sintesi dialettica della totalità sociale. Questa tua terza domanda è una domanda filosofica, e tu sai che io amo le domande filosofiche come gli orsi amano il miele. Dividerei la mia risposta in due parti. Nella prima tratterò il tema della fine del soggetto rivo­ luzionario all’interno della teoria del materialismo stori­ co di Marx, e farò soprattutto riferimento alla soluzione dell’ultimo Lukàcs, che contesto in molti particolari, ma però condivido nell’essenziale. Nella seconda esprimerò le mie riserve sulla teoria di Sartre, che personalmente considero con assai maggiore severità di quanto mi sem­ bra faccia tu. Cominciamo dal primo punto. Può il materialismo storico di Marx sopravvivere alla falsificazione di un ele­ mento essenziale come la rivoluzionarietà del soggetto operaio, salariato e proletario? Domanda cruciale. Si può rispondere sia si che no. Se rispondiamo no, che non può sopravvivervi, allora non si apre soltanto un “buco” gran­ de come una voragine, ma si compie un atto di riduzioni­ smo teorico, come se tutta la complessa indagine di Marx dipendesse strettamente da un unico chiodo da appendia­ biti, la rivoluzionarietà di uno specifico, contingente ed

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empirico soggetto rivoluzionario. Se potessimo parlare di Bersani, D ’Alema e Veltroni come di pensatori indipen­ denti, e non di funzionari politici di gestione di macchi­ ne organizzative di potere, potremmo dire che proprio con il pretesto della morte di Dio (cioè della classe opera­ ia rivoluzionaria guidata dal Moderno Principe, e cioè da loro stessi - Dio ce ne scampi e liberi!) essi sono passati al commissariamento degli organismi finanziari internazio­ nali ed ai bombardamenti USA-NATO. È questo anche l’esito di Gianfranco La Grassa, nel saggio ricordato poco sopra. La Grassa fa dipendere il comuniSmo ed il mar­ xismo da un solo ed unico elemento “scientifico” (non dimenticando ovviamente di insolentire la filosofia, l’ide­ alismo, l’umanesimo ed il comunitarismo, scambiato per l’organicismo tribale nemico dell’individuo indipendente-tragicommedie dell’ignoranza filosofica!), e cioè dalla formazione dell’operaio “combinato”, e cioè del lavorato­ re collettivo cooperativo associato. Falsificata questa uni­ ca e sola ipotesi, allora si può dichiarare niccianamente la morte di Dio (del marxismo e del comuniSmo, appunto) ed heideggerianamente l’avvento di un capitalismo fon­ dato su strategie di dominio. Sono queste le conseguenze del far dipendere tutto il complesso edificio filosofico e scientifico di Marx da una, una sola valvola. Rotta questa valvola, affonda l’intera portaerei. Io penso invece, e lo penso fermamente, che la pos­ sibilità ontologica del superamento del capitalismo non venga affatto meno con la falsificazione dell’ipotesi del soggetto rivoluzionario proletario, al tempo di Marx per altro del tutto plausibile e credibile, perchè legata ad una ipotesi rivelatasi anch’essa errata, la presunta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, che in realtà confondeva le ricorrenti e cicliche crisi di accumu­ lazione del capitale con una inesistente tendenza stagnazionistica definitiva.

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Riassumo qui brevemente il percorso di pensiero di Lukàcs, che secondo me è esemplare proprio per superare l’idea di una falsificazione definitiva del capitalismo con il venir meno (reale o presunto) di un soggetto rivoluzio­ nario unico. Nei primi anni Venti del Novecento Lukàcs scris­ se un vero e proprio capolavoro filosofico, che è Storia e Coscienza di Classe. Abbandonando consapevolmente il modello del marxismo di Kautsky, deterministico, mec­ canicistico ed evoluzionistico, la cui adozione al tempo della Seconda Internazionale (1889-1914) spiega in par­ te anche il tradimento nel 1914 della causa storica del socialismo, Lukàcs costruisce un modello radicalmente nuovo di teoria marxista, di fatto idealistica perché ba­ sata hegelianamente sulla unità di soggetto ed oggetto, e cioè di proletariato rivoluzionario (soggetto) e di storia universale trascendentalmente costituita (oggetto). Non è questo il luogo per evidenziare gli elementi fichtiani, kantiani e soprattutto weberiani del suo modello. Basti dire che nonostante tutti i suoi difetti questo modello è incomparabilmente superiore al modello di “marxismo” di Kautsky. A proposito di Storia e Coscienza di Classe bisogna evi­ tare due posizioni estreme, entrambe errate. La prima consiste nel sostenere che si tratta di un’opera meraviglio­ sa, stupenda, insuperabile, e che la successiva evoluzione di Lukàcs, fino all’ultima ontologia dell’essere sociale, è frutto di una sua adesione allo stalinismo, o addirittura ad un modello “accademico” di filosofia (Cesare Cases). La seconda, esemplificara dalle volgarità settarie del bilancio monografico di Guido Oldrini, consiste nel ritenere Storia e Coscienza di Classe un incidente estremistico di percorso dovuto al clima messianico-escatologico degli anni Venti, e che solo l’ontologia dell’essere sociale è degna di atten­ zione e di valorizzazione.

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Personalmente, sostengo una terza posizione, che dà luogo ad una terza interpretazione, incompatibile con le due precedenti, e soprattutto con le volgarità settarie di Oldrini. In estrema sintesi, l'Ontologia dell’Essere Sociale (ed i successivi Prolegomeni) non rappresentano una rot­ tura assoluta con l’impostazione di Storia e Coscienza di Classe, ma un ripensamento autocritico evoluivo, che ha portato Lukàcs a non individuare più il soggetto emanci­ patore nel solo proletariato, ma nell’intera umanità dia­ letticamente ricostruita. Il passaggio dal soggetto prole­ tario all’intera umanità non sarebbe però possibile senza l’elaborazione di una vera e propria ontologia dell’essere sociale, costruita non più sulla base di presunte (ed ine­ sistenti) “leggi dialettiche”, ma sul progressivo divenire “umano” dell’Uomo (con la maiuscola, ovviamente, alla faccia di tutti i nominalismi negatori dell’Universale). Ritradotto in questi termini, il marxismo può soprav­ vivere a mio avviso anche dopo la fine nel mito del pro­ letariato e le falsificazioni popperiane di La Grassa. Il di­ scorso sarebbe qui appena incominciato, ma devo lasciarlo qui per ragioni di spazio e di opportunità. La Crìtica della Ragione Dialettica di Sartre fu pubbli­ cata nel I960, circa quaranta anni dopo Storia e Coscien­ za di Classe di Lukàcs, e si pone programmaticamente la stessa finalità dell’opera precedente, liberare il marxismo dai suoi elementi positivistico-deterministici, nel caso di Lukàcs, l’economicismo evoluzionistico di Kautsky, e nel caso di Sartre il suo succedaneo “comunista”, il materiali­ smo dialettico di Stalin con le sue inesistenti leggi della dialettica. Essa doveva consistere di due parti, ma la se­ conda non fu mai scritta. In questo modo, l’opera asso­ miglia ad un romanzo poliziesco in cui non si verrà mai a sapere se l'assassino verrà o meno scoperto e punito (e dici poco!). Ovviamente, questo non avviene a caso, ma segue una logica dialettica implacabile.

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Mentre Lukàcs lavora sull’ipotesi idealistica dell’uni­ tà fra soggetto ed oggetto, natura del proletariato rivo­ luzionario e storia universale dell’umanità trascenden­ talmente costituita in una sola unità espressiva, neces­ sariamente idealistica (donde condanna inevitabile dei sacerdoti moscoviti del materialismo dialettico), Sartre lavora sull’ipotesi che soltanto specifici gruppi-in-fusione, unificati da una comune finalità-progetto, possano superare quello che chiama pratico-inerte, una sorta di riproposizione esistenzialistica del Non-Io di Fichte. In questo modo Sartre ritiene di poter superare il punto de­ bole filosofico del marxismo classico, la deduzione pura­ mente “materiale” della rivoluzione dai fatti economici, che la storia aveva già nel I960 cominciato a falsificare inesorabilmente. Il fatto è che questi gruppi-in-fusione devono essere prima o poi “totalizzati”, in quanto nella società le finalità-progetto sono moltissime, e non ce n’è certamente una sola, e cioè quella dei rivoluzionari sog­ gettivi “di sinistra”. Inoltre, le stesse totalizzazioni sog­ gettivamente rivoluzionarie ricadono nel pratico-inerte, una volta che vengono istituzionalizzate. Sartre non riesce a scrivere un secondo volume della Critica della Ragione Dialettica proprio perché si era messo da solo in una impasse da cui non poteva uscire. Egli infat­ ti, da buon esistenzialista anti-hegeliano, in cui il pensie­ ro filosofico greco era completamente assente (per Sartre i greci erano come se non fossero mai esistiti), rifiutava il concetto di natura umana, l’ontologia dell’essere sociale, e più in generale qualunque fondazione ontologica uni­ versalistica del genere umano. In questo modo, appare chiaro che non avrebbe mai potuto “totalizzare” nulla, perché la totalizzazione di una parte sola giunge necessa­ riamente ad una impasse. Sartre a mio avviso manifesta in sofisticatissimo e rarefatto linguaggio filosofico il dramma ontologico

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della “sinistra”. La sinistra, infatti, da un lato con il suo stesso termine ammette di essere solo una parte della società (ci sono infatti anche un centro ed una destra, e poco conta che si accetti una tricotomia o solo una dicotomia “secca” Destra/Sinistra), ma nello stesso tem­ po pretende di essere veramente il Tutto, anzi il solo Tutto storicamente legittimo. Questo comporta neces­ sariamente sul piano filosofico narcisismo, autoreferenzialità, schizofrenia e paranoia. Se la Sinistra è contem­ poraneamente una Parte ed il Tutto, la Destra è solo un Residuo, e con il residuo si possono fare solo due cose, convincere se si può o costringere se non si può. Ma questo automaticamente è anche un diritto della De­ stra, che però la Sinistra nega. E ne nega la legittim ità in nome dell’ideologia del progresso. È vero che la sini­ stra è solo una parte, ma la parte “giusta” perchè parla in nome della storia, laddove la “destra” è solo reazione e conservazione destinata prima o poi all’assorbimento ed alla sparizione. L’opera di Sartre, proprio nella misura in cui non potè essere completata, mostra alla luce del sole questa apo­ ria, quella cioè di voler ricostruire il marxismo su di una base di “sinistra”. Dal momento che ho personalmente conosciuto Sartre ed ho discusso con lui, mi permetto di terminare con alcune note personali. Il sottoscritto è un pensatore immensamente più mo­ desto dei due grandi Lukàcs e Sartre, ma nello stesso tempo si considera capace di trarre le conclusioni dalle impasses in cui sono caduti i grandi sulle cui spalle si era arrampicato. A lungo, quando cominciai a pubblicare saggi filosofici, mi rivolgevo esclusivamente ad un ideale destinatario di “sinistra”, che ritenevo interessato ad una ricostruzione credibile del materialismo storico. In altre parole, partivo dal presupposto dell’identificazione asso­ luta fra lo spazio politico di “sinistra” e l’interesse a rico-

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struire il materialismo storico, non rendendomi neppure conto, nella mia beata ingenuità, che dopo il Sessantotto la “sinistra” aveva imboccato un’altra strada, quella del post-moderno, del pensiero debole, del rifiuto di Hegel, dell'accettazione selettiva di Nietzsche nella variante Foucault-Deleuze, del femminismo differenzialista di “genere” (per cui il genere umano era rifiutato nella sua unità ontologica di Gattungsivesen), eccetera. Su questa strada, che perseguii per almeno quindici anni (1980-1995 circa), mi resi ben presto conto che sarei finito esattamente come Sartre, e cioè sarebbe stato possibile costruire una pars destruens (in fondo, trova­ re i materiali per criticare il capitalismo è la cosa più facile del mondo), ma non sarei mai riuscito a scrivere una pars costruens, che presuppone filosoficamente alme­ no tre elementi, una deduzione sociale delle categorie del pensiero, una ontologia dell’essere sociale (ma con correzioni qualitative rispetto alla formulazione datale da Lukàcs fra il 1964 ed il 1971, che non riconosce la natura idealistica del pensiero di Marx e pretende di conciliare l’inconciliabile, e cioè l’eredità hegeliana di Marx e la teoria leniniana del rispecchiamento), ed un aperto riconoscimento del fatto che la filosofia (e non l’ideologia di “sinistra”) è una ideazione pienamente conoscitiva e veritativa. Chi si mette su questa strada deve smettere di pen­ sare che lavora solo per la “sinistra” o per la comunità marxista, appunto per uscire dalla impasse in cui si era ficcato da solo Sartre, e pensare di poter “totalizzare” la sinistra come se fosse un universale, per di più non ontologico, storicistico, relativistico (e quindi nichili­ stico), e che nega la natura umana, e cioè l’eredità greca del logos e del metron. C’è voluto del tempo, ma meglio tardi che mai.

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n c a p it a l is m o sp e c u l a t iv o u n il a t e r a l e e p r o v v is o r io

4) N egli squilibri e nelle tensioni di questa realtà storica in rapida evoluzione e/o dissoluzione, viene riproporsi la dialettica tra conservazione e rivo­ luzione. Onesti sono elem enti connaturati a i pro­ cessi d i trasformazione sociale. N el ‘900 borghesia e proletariato incarnavano la contrapposizione tra conservazione e rivoluzione. Questi ruoli oggi sembrano essersi capovolti. Secondo i media uffi­ ciali e la ctdtura liberale dominante, progresso e rivoluzione coincidono con l’espandersi del merca­ to globale. Pertanto l’evolversi di tale rivoluzione procede con l’abbattim ento progressivo della sovra­ n ità degli stati, le liberalizzazioni e privatizzazio­ n i dei servizi pubblici, la flessibilità del lavoro, la fine del welfare, Vindividualism o culturale e il re­ lativism o morale. I l fro n te dei conservatori sareb­ be invece rappresentato da coloro che afferm ano il prim ato della politica sull’economia, del pubblico sul privato, difendono lo stato sociale, le istituzio­ n i cioè legate a l retaggio ideologico del ‘900, d i una epoca ormai tram ontata. I term in i della vecchia dicotomia classista si sarebbero rovesciati. Ciò è visibilm ente falso, dato che le classi sociali del ‘900 in occidente sono ormai estinte e con esse sono ve­ n u ti meno anche ip a ra d ig m i della conservazione e della rivoluzione. T uttavia occorre considerare che una difesa ad oltranza dello stato sociale, del p r i­ mato della politica, del sistema della economia m i­ sta, così come sono sta ti realizzati nel ‘900, f a de­ flu ire la protesta sociale su posizioni d i velleitaria retroguardia, in difesa cioè d i u n ’epoca scomparsa e che non può suscitare grandi nostalgie. N oi stes­ si, quando difendiam o i sacrosanti d ir itti socia-

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li della comunità, q uali espressione della natura sociale dell’uomo, sebbene inconsapevolmente, d i­ fendiam o uno stato, una struttura sociale, una cultura massificata che nei tem pi passati abbiamo avversato. Sappiamo bene quanto il tvelfare abbia distrutto quella socialità spontanea delle società preindustriali, quanto l’evoluzione delle classi su­ bordinate abbia coinciso con l’integrazione d i esse nel sistema produttivo del capitalismo e del consu­ mismo, quanto Veconomia m ista non si sia rivelata una economia socializzata, ma sem m ai un essen­ ziale supporto alla espansione del capitalismo. Il tvelfare del ‘900 è un fenom eno interno alla econo­ m ia capitalista (sia pure keynesiana), creato per incrementare profitti e consumi privati. L’odierno antistatalism o cialtrone, non tiene in debito conto che i p r im i beneficiari del tvelfare del ‘900 sono sta ti proprio i capitalisti, che hanno devoluto a ca­ rico della collettività gli oneri della cassa integra­ zione, dei prepensionamenti, dei fin a n zia m e n ti a fondo perduto, fenom eni che hanno contribuito in larga parte all’espandersi incontrollato del debito pubblico. In realtà i progetti riform isti del ‘900 sono fa lliti in occidente perché incentrati sulla sola redistribuzione della ricchezza, ma non hanno inciso sui meccanismi fo n d a m entali della produ­ zione capitalista che sono rim asti inalterati. Oggi, se la protesta sociale ha un senso, il suo obiettivo deve essere quello d i pervenire alla creazione di un nuovo modo d i produzione comunitario, che è tale perché prende le mosse dalle strutture, dalle esigenze, dalle aspirazioni, dallo spirito creativo, in una parola, dalla prassi sociale emergente dal­ la società civile, per pervenire alla emancipazione dal capitalismo. Non si può sostituire l’alienazio-

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ne del lavoro - merce del capitalismo con la dipen­ denza da im a en tità statuale (come f u nel ‘900 per il fascismo, il comuniSmo, la socialdemocrazia, gli sta ti nazional popolari), che si sostituisce all’in d i­ viduo e a i corpi interm edi della società civile, ma dovrà essere la com unità sociale nella sua integra­ lità a costituire la base degli in d irizzi economico - sociali e dei valori civili e morali su cui si fonda uno stato. Inizio proprio da un dato personale, che mi sembra effettivamente interessante. Tu noti che in questo passag­ gio storico ed in questa congiuntura ideologico-politica 2011-2012 entrambi difendiamo uno stato, una struttu­ ra sociale, una cultura massificata che nei tempi passati (quelli della nostra giovinezza, CP) abbiamo avversato. Secondo me non è vero, ma assumiamolo pure come ipo­ tesi, e cioè come dubbio iperbolico cartesiano. Ora, è storicamente vero che un signore chiamato Co­ stanzo Preve ha difeso per decenni la teoria della dittatura del proletariato di Lenin ed il signor Luigi Tedeschi una variante post-fascista delle corporazioni proprietarie di Ugo Spirito e Giovanni Gentile. Ebbene, non c’è proprio niente di cui vergognarsi o da rinnegare. Ci abbiamo cre­ duto, perchè eravamo in vario modo inseriti in ambienti identitari che ci credevano. Ma essere fedeli agli ideali della giovinezza non si­ gnifica automaticamente continuare a rimanere fedeli alle sue illusioni, nella misura in cui queste illusioni non sono state solo “falsificate" dalla storia (la cui falsi­ ficazione è sempre temporanea e congiunturale, per cui non può essere popperianamente trasportata dalle scien­ ze della natura, in cui in parte funziona, alla storia, in cui non funziona), ma si sono anche rivelate deboli ed eccessivamente caratterizzate dalle imposizioni della ge­

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nerazione precedente, che ci ha caricato addosso le sue paranoie, anti-fasciste e/o anti-comuniste. Quindi, il restare fedeli agli ideali della giovinez­ za significa proprio concederci una autocritica radicale ma non distruttiva, che non liquidi le ragioni profonde etico-politiche dell’impegno giovanile, ma lo riqualifi­ chi integralmente alla luce di una nuova consapevolezza. Ora sappiamo due cose, apparentemente contraddittorie. Da un lato, ci è chiaro che i sistemi di tvelfare non erano affatto degli stadi di avvicinamento progressivo e rifor­ mistico al “socialismo”, a sua volta prima fase dell’uto­ pia comunista, ma erano il prodotto di una fase partico­ lare del capitalismo e del suo dominio riproduttivo. Una fase temporanea, ed infatti oggi il capitalismo finanzia­ rio neoliberale globalizzato lo sta smantellando in tu tti i paesi del mondo. Dall’altro, che l’odierno antistatalismo è “cialtrone”, come tu giustamente lo connoti, sia nella variante egemonica della manipolazione mediatrice ed universitaria neoliberale (qui devo ammettere che Al­ thusser aveva ragione nel connotare l’università come un apparato ideologico, anche se non di “stato”, ma di riproduzione globale del capitalismo), sia nella varian­ te sofisticata dei “comunisti alla moda” (Badiou, Zizek, Negri, Hardt, eccetera), che disprezzano il “pubblico”, contrapponendogli un onirico e del tutto ancora inesi­ stente “comune”. Restare fedeli agli ideali della giovinezza, avendone superato le illusioni della dittatura del proletariato e/o delle corporazioni proprietarie, significa ora difendere il “pubblico”, ed il pubblico è oggi necessariamente in questa fase storica legato alla sovranità dello stato na­ zionale, il che implica economicamente una de-globalizzazione (e non certo una globalizzazione alternativa “umanistica”, astrattamente auspicabile, ma di cui non vedo attualmente le pre-condizioni politiche e cultura­

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li materiali), e politicamente un riorientamento geopo­ litico ed una indipendenza europea dagli USA e dalla NATO (e dalla politica aggressiva medio-orientale del sionismo israeliano). In caso contrario, è del tutto normale che il mondo ti sembra “rovesciato” di cento ed ottanta gradi, come tu scrivi. Ed infatti lo è. Ma non é rovesciato di cento ed ot­ tanta gradi rispetto ad un mondo ideale di solidarietà co­ munitaria, necessariamente ideale-platonico o ideale-cri­ stiano, ma è rovesciato rispetto alla precedente fase storica del capitalismo. Mi permetto quindi di riformulare bre­ vemente ancora una volta la mia teoria di periodizzazione filosofica del capitalismo, che non si oppone alle consuete periodizzazioni economiche (Mandel, La Grassa, Arrighi, eccetera), ma a mio avviso le integra. Il capitalismo filosoficamente considerato in term i­ ni di società della illimitatezza del processo di produ­ zione, passa “idealmente” attraverso tre fasi, l’astratta, la dialettica e la speculativa. Nella prima fase astratta non esistono ancora i due poli dialettici della borghesia e del proletariato, ma esiste soltanto la borghesia, nel suo processo di autoaffermazione nei confronti delle pre­ cedenti società feudali e signorili. In questo processo di autoaffermazione vengono prodotti socialmente concetti di unificazione (lo spazio come materia, il tempo come progresso orientato linearmente e non ciclicamente, la morale come autofondazione categorica individuale senza comando divino, il valore come tempo di lavoro sociale medio contenuto in un bene-merce, l’autofondazione su se stessa della società sulla base dell’abitu­ dine reciproca allo scambio senza bisogno di premesse “metafisiche”come la religione, il diritto naturale o il contratto sociale politico, eccetera). In una seconda fase dialettica viene ristabilito su basi nuove il principio della comunità contro la prece­

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dente fondazione individualistica del fondamentalismo illuministico. Nella sua prima fase l’idealismo classico tedesco (Fichte e Hegel) pensa ancora la comunità come coesistenza armonica e pacifica di classi sociali diverse, mentre nella sua seconda fase (Marx) si fa strada l’idea che questa comunità è impossibile fino a che ci sono ancora delle classi antagonistiche, in quanto una di esse (la borghesia) sfrutta l’altra (il proletariato). Marx non rompe però affatto con l’idealismo, e non diventa “materialista” semplicemente perchè è ateo in religione e strutturalista nella modellistica dei modi di produ­ zione. Egli elabora socialmente il concetto hegeliano di “coscienza infelice”, da Hegel strettamente limitato alla coscienza religiosa monoteistica europea, e lo appli­ ca alla immanenza sociale divisa in classi. Il suo “comu­ niSmo”, quindi, non ha assolutamente nulla di popolare e proletario, ma è costruito sulla base pienamente “bor­ ghese” dell’elaborazione dialettica della coscienza infe­ lice. In questa seconda fase dialettica (e quindi bipolare, e cioè borghesia-proletariato intesi come polarità astrattive-reali, e non solo come meri aggregati statistici di portatori di ruoli anonimi di interazione economica e sociale) abbiamo vissuto fra il 1810 ed il 1990 circa in Europa, e tutta la produzione filosofica europea può essere correttamente collocata, situata ed interpretata (certo in modo non riduzionistico ed ideologico) all’in­ terno di queste coordinate storiche. È questa stagione che ha permesso il grande pensiero dialettico, non im ­ porta se di destra o di sinistra. Nel passaggio alla sua fase speculativa (in cui il capi­ talismo si contempla da solo nel suo specchio della mer­ cificazione individualistica universale, speculimi), il mon­ do appare realmente “rovesciato”, se non ne si intende la logica dialettica, che resta sempre “dialettica”, anche se concentrata nell’iniziativa di un solo soggetto (i do­

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minanti) e non più di due come prima (i dominanti ed i dominati). Ecco perché il linguaggio della “rivoluzione” appare rovesciato, ed oggi “rivoluzione”, come tu corret­ tamente dici, è l’abbattimento progressivo della so­ vranità degli stati, la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici, la flessibilità del lavoro, la fine del welfare, l’individualismo culturale e il relativismo mo­ rale”. Tu scrivi che “i termini della vecchia dicotomia classista si sarebbero rovesciati”. Sono d’accordo nell’es­ senziale, ma credo sia meglio dire che più che essersi rovesciati, si è affermato un solo aspetto unilaterale, che ha sussunto, assorbito e risucchiato in se stesso l’altro polo. Viviamo in un mondo in cui attivi sono ormai solo i dominanti, mentre i dominati sono provvisoriamente di­ ventati un polo puramente passivo. Di qui l’impressione di mondo completamente rovesciato. Ho scritto provvisoriamente, e bisogna scriverlo sottoli­ neato, perché venga enfatizzato il carattere provvisorio di questa situazione. Personalmente, non credo più a sogget­ ti demiurgici rivoluzionari costituiti per via puramente sociologica (o addirittura tecnologica, come ha sostenuto e sostiene il delirante operaismo cosmopolitico globaliz­ zato delle cosiddette Moltitudini), ma sono convinto che, sulla base del carattere socialmente simbolico e reattivo della natura umana ontologicamente concepita, la caren­ za di dialettica presente fra dominanti e dominati, tipica della fase speculativa del capitalismo in cui giganteggiano soltanto i dominanti possa essere colmata. In quale modo, concretamente, però nessuno lo sa ancora veramente, e non ci sono per ora che succedanei volontaristici, ancora molto deboli rispetto ai teorici del disincanto, il cui principale esponente è oggi il filosofo te­ desco Sloterdijk. Nell’attuale fase speculativa del capita­ lismo, siamo di fronte al “dato” dell’iniziativa unilaterale senza opposizione del solo lato “dominante” della società.

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Per questo oggi giganteggia nei media televisivi, canale ideologico di questo dominio unilaterale, il “giudizio dei mercati”, che ha interamente sostituito qualunque agire politico, di destra o di sinistra che sia. Siamo costretti a capire indirettamente dai nostri padroni che cosa voglio­ no, e per ora siamo immobilizzati ad intuire che quello che vogliono è semplicemente il contrario di qualunque società solidale, comunitaria ed umana. Questa situazione non può che essere temporanea, salvo il marcire integra­ le della società su se stessa, ed un futuro di conflittualità tipo “guerra delle Due Rose” inglese 1455-1485, in cui si era di fronte ad un puro gangsterismo feudale di assassini per la ripartizione del potere. Il gangsterismo capitalistico sarà ancora più feroce ed insensato, ma non sarà eterno, sempre che si dia fiducia al genere umano, e non a suoi succedanei sociologici.

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Etica comunitaria, progresso e rivoluzione

C a p it a l is m o e c o m u n it a r is m o : r it o r n a la CONTRAPPOSIZIONE TRA INDIVIDUALISMO E DEMOCRAZIA

1) La decadenza del sistema capitalista e la sua pre­ vedibile conflagrazione nel tempo, è il tema da cui prende le mosse qualsiasi teoria che voglia proporre soluzioni possibili ad una crisi epocale irreversibi­ le e prefigurare la struttura politico - sociale d i un mondo post - capitalista. In realtà l’attuale capi­ talismo globalista si è afferm ato quale sistema eco­ nomico imposto dal prim ato americano subentrato alla fine dell’URSS e del mondo ideologico novecen­ tesco e si è definito post - ideologico, post - moderno, post - industriale, insomma solo come post - qual­ cosa che lo ha preceduto, senza che esso conferisse autonomamente alla storia un proprio senso, a l di là delle culture e dei sistem i politici che lo aveva­ no preceduto. Non è un caso che la globalizzazione economica abbia fa tto nascere idee nichiliste che in a ltri contesti sarebbero state im pensabili, quali la fine delle ideologie o la fin e della storia. Lo stesso individualism o liberale ispirato a Sm ith e Locke (relitti filosofici del ‘700), è stato rivitalizzato come una concezione residuale d i un uomo spogliato del­ le verità teologiche, della metafisica filosofica, delle dottrine sociali del secolo scorso. A ll’individualism o senza lim iti e senza regole liberista si deve neces­ sariam ente contrapporre u n term ine dialettico di opposizione, che abbia la capacità dì proporre un modello sociale, economico e culturale alternativo a l capitalismo. A ll’individualism o si contrappone dunque il comunitarismo. I l comunitarismo non è

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una ideologia solo contraria ed opposta al capita­ lismo (comunità contro individualità), né propone un modello socio - economico assoluto e riproducibi­ le prescindendo dalla realtà storica e culturale dei popoli, come lo è il capitalismo. Esso è im a teoria filosofica che deriva dalla analisi critica della real­ tà politico - sociale del nostro tempo e vuole rappre­ sentarne il superamento. Una possibile società che si sostituisca a quella capitalista, è possibile solo se si faccia riferim ento alla natura sociale dell’uomo, alla solidarietà spontanea tra gli individui, alla collaborazione comunitaria come principio stru t­ turale della società. Il comunitarismo è dunque un fondam ento filosofico cui f a riscontro un principio etico. Tra la società liberale e quella comunitaria v i è q u in d i una contrapposizione d i valori etici. A lla etica dei d ir itti della ideologia liberale, si contrappone l’etica com unitaria del lavoro. A d un fondam ento d i natura giuridica liberale, f a ne f a riscontro un altro di natura sociale comunitaria. Se lo stato liberale riconosce i d ir itti dell’individuo in quanto cittadino, nello stato comunitario l’in ­ dividuo ottiene riconoscimento in quanto membro della comunità sulla base della fu nzione sociale del lavoro svolto nell’ambito società, Lo stato liberale ha natura verticistica in quanto erogatore di d i­ ritti, lo stato comunitario ha natura democratica, quale risultato ultim o dell’a ttiv ità produttiva del­ la generalità dei m em bri della comunità. Lo stato liberale afferm a l’eguaglianza din a n zi alla legge, lo stato comunitario l’eguaglianza d in a n zi al la­ voro. Nello stato liberale fonte della ricchezza è il libero mercato, ossia, il flusso incontrollato d i merci e capitali, nello stato comunitario la ricchezza, è prodotta dall’opera dei lavoratori cooperativi asso-

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ciati. Un movimento d i opposizione al capitalismo non può che riproporre, in una visione adeguata al presente storico, la dialettica d i contrapposizione tra capitale e lavoro. Mi è relativamente facile rispondere sul tema del rapporto fra comunitarismo e democrazia, anzi oggi più esattamente sul nesso fra esigenza di comunitarismo ed assenza di democrazia, perché vi ho già dedicato due sag­ gi a me molto cari, Elogio del Comunitarismo (Controcor­ rente, Napoli 2006) e II popolo al potere (Arianna, Bologna 2006). Si tratta di un tema su cui ho le idee molto chiare. Se poi siano anche esatte oppure no, questo devo lasciarlo al lettore. Fai notare che l’ossessivo utilizzo del termine “post” indica una incapacità di connotare in positivo in modo credibile il tempo presente. Si tratta di un dato comune a tutte le epoche storiche (il bilancio storico del passato e la proiezione utopica nel futuro sono alla portata di tutti, così non è per la corretta valutazione del presente). Ma oggi l’uso ossessivo del termine “post” indica qualcosa di più, il sintomo di un disagio e di una esorcizzazione. Ciò che avviene è infatti imbarazzante ed indicibile, il com­ pimento dell’idea illuministica di progresso nella totale mercificazione del mondo. Una cosa del genere si fa ma non si dice. In una definizione sintetica, ma anche esaustiva e completa, il comunitarismo é la concretizzazione socia­ le della democrazia. Bisogna quindi prima definire cor­ rettamente la democrazia nella sua dimensione sociale e non soltanto procedurale e formale, e poi il concetto di comunitarismo verrà dopo, spontaneo come un parto naturale. Possono essere utili in proposito due rilievi prelimi­ nari. Primo, ogni società si specifica e si determina neces-

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sanamente in comunità distinte, a meno che si intenda per società una immane raccolta di merci, ed uno spazio per la loro circolazione, che è esattamente ciò che avviene oggi. I nostri contemporanei hanno assistito ad una figu­ ra hegeliana non ancora prevista da Hegel, quella del ro­ vesciamento delhinternazionalismo proletario in cosmo­ politismo capitalistico, favorita (anche se non certo deter­ minata, poveri straccioni!) da quello stesso ceto politico ed intellettuale, i cosiddetti “comunisti”, che avevano per quasi un secolo fieramente rappresentato il primo per poi diventare i più zelanti sostenitori del secondo. Secondo, il comunitarismo, per sua stessa natura, ha bisogno di continue correzioni universalistiche, che fanno diventare la filosofia universalistica non un lusso, ma una necessità. Se la comunità dei Palongo Palongo sacrifica al loro dio Budulù bevendo nei crani fumanti di bambini uccisi ripetendo il mantra augurale Kakongo, bisogna trarne la conclusione che questa comunità ha fortemente bisogno di una correzione universalistica del comportamento. Il comunitarismo non implica af­ fatto il relativismo, ed è anzi esattamente il contrario. Il relativismo astrattizzato e mascherato da tolleranza e diversità, della illimitata circolazione di merci, che sono infatti l’unico Assoluto in cui il solo relativo è il diffe­ rente prezzo delle merci e dei servizi. E questa la ragione per cui nel mio libro Elogio del Comunitarismo ho dedicato metà dello spazio ad una ricostruzione storico-generica dell’intera storia della filo­ sofia occidentale. Non esiste elogio del comunitarismo senza contestuale elogio dell’universalismo, inteso come processo autonomo di sviluppo della coscienza dell’uma­ nità. In caso contrario il comunitarismo non può svilup­ pare il suo potenziale di solidarietà e di comunicazione, e pertanto quella educazione (paideia) che lo costituisce intimamente.

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Passando al tema della democrazia e delle sue de­ finizioni, a suo tempo non ho intitolato a caso il mio libro II popolo al Potere, ma gli ho dato un significato voluto ed inconsueto. In genere si parla di democrazia etimologicamente come potere del popolo, specificando che il popolo deve costituirsi istituzionalmente in cor­ po elettorale, ma si trascura così l’elemento processuale, per cui in realtà il popolo deve poter accedere al potere reale, che è sempre e soltanto un potere comunitario, quello di determinare modi, tempi e lim iti della propria riproduzione sociale complessiva, laddove le decisioni veramente importanti (dichiarazione di guerra, "oggi ipocritamente mascherata da interventismo umanitario, pensioni, sanità, abitazione, eccetera) sono delegate o a poteri oscuri (arcana imperli), oppure alla contingenza individuale. La democrazia non può che essere un con­ creto processo di accesso popolare alle decisioni, almeno a quelle che non sfuggono alla volontà umana (terremo­ ti, pestilenze, eccetera). Cerchiamo di definire il termine di democrazia, in modo da capire almeno bene di che cosa stiamo parlan­ do. Propongo di farlo con tre accostamenti successivi, in modo che il terzo ed ultimo diventi significativo del tutto. In primo luogo, democrazia significa potere del po­ polo. Nei greci il popolo propriamente detto si diceva laos, ed il demos significa già popolo che ha una istitu­ zionalizzazione in demi separati, e cioè in circoscrizio­ ni territoriali disomogenee. Inoltre, presso i greci esiste una ambiguità semantica, per cui popolo significa con­ temporaneamente l’insieme indistinto dei cittadini e la parte più povera, e quindi maggioritaria (Aristotele) dei cittadini stessi. Così per il comuniSmo nel XX secolo, in cui per i comunisti significava il massimo possibile di democrazia (la famosa democrazia sostanziale con­

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frapposta a quella soltanto formale, vedi dibattito anni Cinquanta Togliatti-Bobbio) e per gli anticomunisti il massimo di despotismo totalitario, nello stesso modo per gii Ateniesi democrazia voleva dire potere di tutto il popolo, e per i loro avversari esterni (ma sempre di più anche interni) potere demagogico dei più poveri sobil­ lati dai retori. In secondo luogo, nei tempi moderni il termine popolo viene specificato, significando prima i diritti inalienabili dell’individuo presupposto astrattamente come isolato ed originario (in un primo tempo in modo giusnaturalistico, e poi indebolitosi questo fondamento sia da destra-pensiero della restaurazione, sia da sinistramarxismo, nel modo tautologico ed arrogante del posi­ tivismo giuridico), e poi il popolo costituito in corpo elettorale, prima in forma censitario-notabile e poi nella forma democratico-partitica, inevitabilmente corrotta. In terzo luogo, infine, democrazia non può che esse­ re la costante-permanente di ciò che era già nelle poleis greche e nei comuni medievali italiani, e cioè delibe­ razione normativa collettiva sulle regole interne della riproduzione economica complessiva della comunità. In caso contrario non si capisce bene di che cosa dovrebbe­ ro discutere e deliberare i membri dei collegi eletti dal popolo. Appare chiaro che oggi (Italia, aprile 2012) non ce nessuna democrazia, se un’entità impalpabile ma pesante come una montagna chiamata spread può deliberare sul­ le pensioni, sul lavoro, sulla sanità, sui meccanismi più delicati ed importanti della vita quotidiana, senza con­ tare guerre illegali (Afganistan, Libia) fatte eccitando artificialmente un’opinione pubblica peraltro distratta e disinteressata alla ricostruzione dei termini precisi delle ragioni ultime delle guerre (che non sono mai, ma proprio mai, i cosiddetti diritti umani).

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In sintesi, dovendo spiegare ad un marziano disinfor­ mato ma anche non rincoglionito dal tifo politico-identitario, direi che l’Italia è passata dall’epoca del Bunga Bunga all’epoca del Banca Banca. Come si vede, un mu­ tamento epocale, addirittura rivoluzionario, tutto avve­ nuto all’interno di categorie non elette, i giornalisti ed i magistrati. Il vecchio Puttaniere era caduto in quella lascivia senile ampiamente descritta nella commedia greca di Aristofane e di Menandro e poi dal vaudeville da avan­ spettacolo dei cinema pomeridiani che ho avuto ancora in sorta di visitare nei primi anni Cinquanta del XX secolo (epoca in cui si è peraltro fermato, come mummi­ ficato, Silvio Berlusconi). Ma i suoi patetici Bunga Bun­ ga gli impedivano di mettere in atto quel Banca Banca caratteristico non tanto di un astratto mondo virtuale e bocconiano di “imprese”, ma di capitale finanziario glo­ balizzato, determinato dai due parametri della flessibilizzazione del lavoro e della delocalizzazione del capitale. Avesse colpito le condizioni di vita dei più poveri nel modo dei teologi bocconiani dei Banca Banca avremmo avuto ciclopiche manifestazioni, tamburi, fischietti, esa­ gitati in passamontagna, cassonetti bruciati ed in più il corale urlo: “Fascisti! Fascisti!”. La vecchia via italiana al socialismo, tacitamente abro­ gata, è stata sostituita da una forma di “puro empirismo”, del tipo: “Monti è pur sempre meglio di Berlusconi!”. E perché, di grazia? Perché parla un inglese da economisti e non solo un francese da cabaret e da Maurice Chevalier? Perché mangia cotechini anziché toccare freneticamente culi di adolescenti ambiziose trasformate in vittime dalle femministe? Per chi è rimasto dotato di capacità autonome ed in­ dipendenti di analisi la situazione è talmente disperan­ te da aver superato il limite del tragico per imboccare

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quello del grottesco. Ma se guardiamo a Grecia, Spagna e Portogallo, paesi senza ex-comunisti riciclati, cavalie­ ri, tette e culi, ma che sono nelle nostre condizioni ed ancora peggio, vediamo che lo svuotamento della demo­ crazia è un fenomeno comune, e soltanto dei cialtroni ex-comunisti possono intrattenere l’idea che sia solo e tutta colpa del Puttaniere. E intanto anche Bossi è stato falciato dai giudici (aprile 2012). Aspettiamo il prossi­ mo che si opponga alla dittatura delle banche.

D e m o c r a z ia a n t ic a , d e m o c r a z ia m ed io eva le e ATTUALITÀ DELLA METAFISICA IDEALISTA

2) Quando si enunciano i p rin cip i della filosofia com unitarista, non si può omettere il riferim ento a form e comunitarie d i organizzazione sociale del­ la Grecia classica e dell’età medioevale, cioè delle società premoderne. Ma contrapporre il comuni­ tarismo al capitalismo come una dialettica d i op­ posizione tra modernità e antim odernità ha oggi un senso? Si comprende facilm ente come la ripro­ posizione della società premoderna al modernismo capitalista sarebbe un anacronismo storico. È tu t­ tavia d i a ttu a lità la critica al pensiero moderno, quale fondam ento antiveritativo creatore di fa lsi m iti, quali l’individualism o liberale assoluto, il dogma della scienza economica, del libero mercato che distribuisce ricchezza attraverso la mano in v i­ sibile, l’adeguamento necessario della cultura alla realtà economico - sociale dell’esistente. S i è p iù volte afferm ato che se il capitalismo è la conseguen­ za del “disincantam ento del mondo’’, occorrerebbe allora procedere ad un “reincantamento del mon­ do” p er pervenire alla fuoriuscita dal capitalismo.

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Come interpretare questo possibile reincantam en­ to, in un mondo ormai quasi del tutto secolariz­ zato, privo d i m iti unificanti, verità trascendenti, metafisiche filosofiche, svuotato cioè di ogni pensie­ ro critico non compatibile con i dogmi delle verità scientifiche, delle dottrine economiche, delle scienze sociali? Se non si vuole confidare in im probabili fughe mistiche d i carattere trascendente e impos­ sibili revivals dei m iti ideologici, occorre orientare il pensiero critico verso altre prospettive. Occorre dunque, dopo aver sfrondato il pensiero dell’ideo­ logismo del presente, vagliare criticamente quali esigenze, quali aspirazioni, quali orientam enti di carattere culturale e politico emergono dalla realtà sociale del presente storico, e q u in d i quali concet­ ti filosofici e quali strategie politiche possono esse­ re proposte attualm ente. In tale contesto è ovvio il richiamo alla metafisica filosofica idealista dei se­ coli scorsi. Potremo allora valutare con obiettività quali verità filosofiche sono sopravvissute all’opera di sistematica demolizione del divenire storico. I l compito della nostra azione è d i carattere etico p r i­ ma che politico, in un contesto europeo che, a l con­ trario delle altre culture, ha vissuto integralm ente la modernità e ne costata oggi la sua inevitabile decadenza.

Tratterò nell’ordine tre argomenti: natura della demo­ crazia antica, natura della democrazia medioevale, ed infi­ ne ragioni dell’attualità della metafisica idealista. Luciano Canfora è un brillante antichista italiano, specialista in “smascheramenti”. Così come ha smasche­ rato in nodo convincente il mito del falso papiro di Artemidoro, che solo cretini patentati come i burocrati della regione Piemonte potevano comprare a peso d’(artemid)

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oro, e come ha smascherato l’eccessiva demonizzazione della figura di Stalin (il baffuto georgiano è stato il solo modo con cui la classe più storicamente incapace della storia universale, quella operaia, salariata e proletaria, ha potuto arrivare al potere, anche solo per due gene­ razioni), nello stesso modo in due libri consecutivi ha “smascherato” il mito della democrazia ateniese. In real­ tà, si trattò sempre e soltanto della dittatura aristocrati­ ca della famiglia degli Alcmeonidi, coperta da tecniche di manipolazione assembleare e da finanziamenti impe. rialistici. Questa volta, però, lo staliniano barese collaboratore del Corriere della Sera ha smascherato male. Dal momen­ to che la stragrande maggioranza dei reperti trasmessici dall’antichità è composta da critici della democrazia, e questo sia in greco antico che in latino, è facilissimo inanellare opportune citazioni che parlano di tirannia della maggioranza, demagogia dei sicofanti, eccetera. Inoltre, anche i bambini sanno che c’erano gli schiavi e le donne erano discriminate, ma soltanto pochi adul­ ti esperti sanno che il modo di produzione schiavistico nell’antica Atene non era affatto dominante (lo divenne soltanto in età ellenistica), ma ad Atene prevaleva uno specifico modo di produzione di piccoli produttori in­ dipendenti. Ebbene, lo smascheratore non tiene conto del fatto che logos, prima di voler dire linguaggio, ragione e pensiero, voleva dire calcolo (loghìzomai), ed in particolare calcolo sociale comunitario della giusta misura della ripartizione del potere e della distribuzione delle ricchezze. E la demo­ crazia antica (trascuro qui per brevità i pur necessari ric­ chissimi particolari, fra cui l’equilibrio della terri torialità economica dei vari demi di costa, pianura e montagna) era, appunto la gestione politica del modo in cui si ripro­ duceva economicamente l’insieme della polis. Il contrario,

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insomma, dell’attuale passaggio dal Bunga Bunga al Ban­ ca Banca. Il comune medievale, pur all’intemo della prevalenza di un modo di produzione diversissimo (il modo di pro­ duzione feudale), era anch’esso strutturato per il control­ lo della produzione collettiva comunitaria. Nato come comune in prevalenza signorile (comune consolare), poi presto evoluto in senso commerciale con il taglio po­ destarile delle torri, assunse presto la forma corporativa delle collegialità delle arti professionali. Certo, prose­ guiva la feroce lotta di classe fra arti maggiori ed arti minori (qui parlo solo di Firenze come prima parlavo solo di Atene), ma in ogni caso permaneva il controllo popolare, e quindi democratico, sulla riproduzione eco­ nomica complessiva della comunità. Bene, facciamola corta. Non si tratta qui di idealizza­ re, ma soltanto di non condurre lo smascheramento fino al punto nichilistico di non riuscire più a distinguere dove non c’era ancora lo spread ma c’erano ancora invece embrioni di autogoverno politico e di autogestione eco­ nomica. Non si tratta di restaurare ciò che è irreversibil­ mente passato e non potrà certamente più ritornare. Chi mi accusasse di questo avrebbe vittoria facile, ma io glie­ la concedo subito tutta, perché non è questo che voglio o ritengo possibile. Semplicemente, voglio ribadire la tesi attualissima che non c’è democrazia quando forze eco­ nomiche oscure ed incontrollabili determinano in modo pressoché esclusivo la riproduzione sociale, svuotando ogni sovranità ed ogni rappresentanza. In quanto all’idealismo classico tedesco, anche in questo caso non si tratta di tornare al quarantennio 1790-1830. Chi come me ha insegnato filosofia per quaranta anni lo sa perfettamente. Si tratta di ribadire che mentre nella storia delle scienze esistono soglie di irreversibilità (non si toma al geocentrismo o al fissi­

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smo delle specie), nella storia della filosofia non esisto­ no soglie di irreversibilità, e Platone continua ad essere più attuale di W ittgenstein e Hegel di Nietzsche. D un­ que non credete a quelli che vi parlano di attualità o di inattualità come se fossero parametri fisici e chimici. Chi proclama inattuale e superato (come se fossimo in autostrada) l’idealismo classico tedesco, oltre a dare di Hegel una lettura “manicomiale” (il termine è di Remo Bodei), intende sopratutto squalificare l’idea di verità fi­ losofica come ideazione distinta dalla certezza scientifica e dell’autenticità artistica. Non fatevi infinocchiare da . chi in questa congiuntura ha il monopolio delle pagine culturali per radicai chic.

L ' id e a della d e cre scita e la a b r o g a z io n e DEL CONCETTO DI PROGRESSO

3) Connaturata allo sviluppo del capitalismo è l’idea del progresso. E questa visione lineare d i un pro­ gresso incessante e fu o ri da ogni lim ite che costi­ tuisce il fondam ento filosofico della concezione pro­ gressiva della storia e della cultura liberale. È la concezione determ inista della storia, intesa come infinito progresso che presiede anche alle trasfor­ m azioni del capitalismo e ne legittim a tutte le sue evoluzioni antisociali e devastanti per Vam bien­ te, le religioni, le culture, le identità dei popoli. Il mito del progresso ha origini illum iniste e prefigu­ ra come obiettivi, società perfette, ritorni a sta ti di innocenza prim ordiali dell’uomo, in una parola, il fine del progresso si identificherebbe con il p a ­ radiso in terra. I l carattere astratto ed estraneo alla natura um ana di ta li concezioni è evidente. I l perseguimento di ta li im possibili obiettivi presup­

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porrebbe l’impegno e la dedizione assoluta propria di èli te s di sacerdoti del progresso. Tali proposizio­ ni, nel contesto liberale, sarebbero contraddittorie: l’avanzata del progresso è coeva alla evoluzione della società in senso liberaldemocratico e per­ tanto il progresso può sussistere in quanto le sue conquiste siano generatrici d i profitto e d i rapida diffusione tra le masse. S i deve allora concludere che Vevoluzione progressista della società coincide con l’espansione capitalista e quindi, l’accezione contemporanea dell’idea del progresso si id en ti­ fica con lo sviluppo illim itato della produzione e del consumo propri della economia del capitalismo avanzato. E q u in d i legittim o elaborare questa equazione: progresso = mercificazione del mondo, ha stessa protesta degli in d ig n a ti di tutto il mondo contro la schiavitù del debito, la disoccupazione, la mancanza d i prospettive per i giovani, si fonda su presupposti errati, quando i giovani rivendicano il proprio diritto a vivere nella condizione dei loro padri. La condizione d i benessere diffuso è oggi improponibile nella misura in cui è impossibile tornare a i livelli abnorm i d i consumo dei decenni passati. Certi livelli di consumo sono insostenibi­ li, in quanto realizzati attraverso l’indebitam ento insolvibile delle masse dei consumatori e uno sfru t­ tamento delle materie prim e incom patibile con l’e­ quilibrio dell’ecosistema. Il consumismo illim itato è una creazione dell’economia finanziaria, che, a sua volta, ha la sua ragion d’essere nella impos­ sibilità nell’economia industriale di creare nuova domanda. La società com unitaria non è incompa­ tibile con l’idea del progresso, ma lo è semmai con uno sviluppo dell’innovazione subordinata alla logica del profitto. Il progresso dell’um anità è d u n ­

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que legato ad altri param etri. Una società sarà tanto p iù progredita, quanto p iù avrà affrancato il maggior numero di in d iv id u i dalla schiavitù dei bisogni materiali, avrà elevato il livello culturale della società, preservato l’ambiente, ridotto le dise­ guaglianze economiche, avrà offerto maggiori op­ portunità per tu tti e una maggiore mobilità socia­ le. In tale ottica, si deve concludere che lo sviluppo del capitalismo ha seguito negli u ltim i decenni un corso non progressista, ina regressivo. Toccherò due punti, quello della insostenibilità dell’attuale sviluppo basato sul consumismo illimitato, e quello sulla eventuale ridefinizione radicale dell’idea di progresso. Sono d’accordo con i teorici della decrescita (Latouche, Bontempelli) sulla sostanziale insostenibilità dell’attua­ le modello di sviluppo capitalistico globalizzato. Condi­ vido tutti i parametri essenziali del loro ragionamento, e rilevo che recentemente anche de Benoist vi ha aderito, suscitando i consueti sospetti dei “decrescisti di sini­ stra”, cui evidentemente la stessa decrescita interessa di meno dell’isterico mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra. Mi disturba soltanto il loro miserabilismo missionario, come se si dovesse essere ad ogni costo an­ che vegetariani o vegani per salvare il pianeta, i consigli per accendere il fuoco senza fiammiferi, e tutte le idiozie che un certo ecologismo innocuo alla moda ha messo in circolazione negli ultimi decenni. Il fatto che molte aree del pianeta non abbiano per ora bisogno di decrescita, ma semplicemente di crescita (gran parte dell’Africa e dell’Asia), non é rilevante per l’argomentazione, perché se ci si colloca al livello del pianeta complessivo l’unico argomento dei “crescisti” è una scommessa pascaliana, e cioè che la scienza e la tecnologia troveranno sempre ma­

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terie prime e tecnologie adatte anche dopo l’esaurimento di minerali e carburanti. In realtà è tranquillamente pos­ sibile fare uno scenario futurologico in cui questo non avviene, o non avviene abbastanza. In realtà, i sostenitori della decrescita sono ridotti alla esortazione morale rivolta erga omnes ed agli amanti del ragionamento previsionale (il due per cento della po­ polazione mondiale, con una valutazione di vertiginoso ottimismo). Il meccanismo del consumismo illim itato è semplicemente la ricaduta antropologica di massa del funzionamento del capitalismo finanziario globalizzato, che unisce strettamente la fame nel mondo, il consumo di prestigio per pochi e l’estetica del centro commer­ ciale per le nuove plebi a reddito basso. Se Renzo Bossi detto Trota si vuole comprare ad ogni costo la Ferrari e Claudio Scajola un alloggio davanti al Colosseo dichia­ rando di non essere informato sulle fonti di finanzia­ mento, simili scene da avanspettacolo non mi suscitano nessuna indignazione morale (da tempo so che nel suo complesso salvo eccezioni il ceto politico professionale in Italia è composto da criminali comuni organizzati), ma solo pacate riflessioni sul fatto che i consumi di lusso ed in generale le spese inutili e scandalose sono sem­ plicemente ricadute della immoralità strutturale di un sistema fondato sul denaro che ha come inno popolare religioso la canzonetta: “Nessuno mi può giudicare!”. Ecco perché, in conclusione, si può certamente pensare in alcuni casi ad una economia più “verde” (la Germania insegna), ma una vera e propria decrescita implica una rivoluzione titanica, in cui i bisogni di greca ed epicurea memoria sostituiscano i desideri illim itati di tipo pub­ blicitario. Se pensiamo che oggi persino il pensiero di estrema sinistra si basa sulla antropologia del desiderio illimitato (Deleuze, Guattari, Negri, Hardt, eccetera), sostituendo Marx con Benetton senza neppure averne la

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più lontana coscienza, potremo concluderne con Ennio Flajano che la situazione è disperata, ma non seria. Pas­ sando al tema del progresso, tu noti correttamente che di fatto, al netto della retorica edificante, oggi il pro­ gresso è diventato regressivo, perché si identifica con la mercificazione del mondo. Elementare, Watson! Ma poi sostieni che il concetto di progresso deve essere man­ tenuto, ma riparametrato, ed indichi fra i nuovi para­ metri l’affrancamento del maggior numero di individui dalla schiavitù dei beni materiali (immagino necessari per una dignitosa sopravvivenza), un elevato livello cul­ turale della società, la preservazione dell’ambiente, la riduzione delle diseguaglianze, una maggiore mobilità sociale. Si tratta ovviamente di proposte di buon senso pie­ namente condivisibili, che peraltro anche Draghi, Monti, Berlusconi e Bersani sottoscriverebbero fra gli applausi della plebe dei comizi della domenica, voltando immedia­ tamente pagina sulla base della fede del “rilancio dell’e­ conomia” sulle stesse basi neoliberali e globalizzate. Ecco perché io sono molto più radicale, e propongo l’abolizione tout court della paroletta “progresso”, sia come parola che come concetto. Intendiamoci, non penso proprio di impedire alla gente di usare quando vuole la collaudatissima paroletta “progresso” (progresso delle tecniche chirurgiche, pro­ gresso delle terapie farmacologiche, progresso delle in­ novazioni informatiche, progresso nella corretta alimen­ tazione e nell’apprendimento dell’inglese, eccetera). La gente parli pure come vuole. Tempo fa le femministe cer­ carono di imporre formule scritte di raddoppiamento ob­ bligatorio politicamente corretto dei finali di parola a/o e i/e, trovando accoglienza nella parte tradizionalmente più stupida dell’intera società, i gruppettini di sinistra politicamente corretti. Parlo di stupidità, perché mentre

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il problema era quello di riqualificare integralmente il comuniSmo, sporcato ed infangato dai Gorbaciov, Eltsin, D ’Alema e Veltroni, essi credettero di salvarlo con inie­ zioni dopanti di ecologismo, femminismo e pacifismo, e cioè con ingredienti provenienti direttamente dall’impe­ ro, e cioè dal pensiero radicale statunitense. A suo tempo, Vercingetorige non era così coglione da pensare di poter salvare i costumi dei Celti adottando la toga romana ed i giochi gladiatori. Ma torniamo al concetto di progresso. Se lo vogliamo usare come sinonimo di “miglioramento”, si faccia pure. Ma qui è il concetto che deve essere tolto integralmente, e cerchiamo di spiegare sommariamente il perché. Nella cultura greca classica, matrice dell’intera tradi­ zione occidentale del “progresso” non esisteva né la parola né il concetto. Per indicare l’equivalente semantico posi­ tivo si parlava di ristabilimento di una misura (metron) e di un equilibrio infranto. Questo non significa che gli anti­ chi greci non avessero il concetto di miglioramento delle tecniche di navigazione, di cura, di costruzione, eccete­ ra. E evidente che ce lo avevano. Ma il concetto unificato di progresso come senso univoco direzionale della storia anch’essa concettualmente unificata (Koselleck) è un pro­ dotto originale del settecento borghese europeo. Si tratta certamente di una filosofia (Condorcet), ma di filosofia for­ temente ideologica, in cui il concetto di progresso prima di ogni altra cosa è un’arma simbolica da usare contro i residui feudali-signorili. Da allora questo concetto si è riprodotto in modo automatico facendo da minimo comun denominatore sia del liberalismo che del comuniSmo. Il comuniSmo fece l’errore di trasformarlo in pilastro della sua filosofia necessitaristica della storia, ignorò sempre i consigli di relativizzarlo che pure venivano dal suo interno (Sorel, Benjamin), e fu infine seppellito sotto le sue macerie. Il

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liberalismo lo legò strettamente ai due parametri della liberalizzazione dei mercati e dell’incremento del con­ sumi, sorvegliati benevolmente dall’alto dalla scienza e dalla tecnologia. Arche in questo caso, vediamo che la cosa migliore sarebbe rinunciare alla parola, per gli equivoci che essa si porta con sé.

L a r iv o l u z io n e

n e c e ss a r ia e o g g i im p r o b a b il e

4) S i avverte l’esigenza d i un nuovo modello di svi■ luppo, d i nuovi orizzonti sociali e culturali che si sostituiscano a questo stato d i atrofia spirituale ge­ neralizzata, propria di una società in perenne de­ cadenza. Come è naturale, l’idea di trasformazione dell’esistente è d i per sé per m olti accattivante, ma tuttora nebulosa e relegata nel regno del possibile fu tu rib ile. Come è del resto radicata l’idea d i con­ servazione di un presente, anche se pieno d i fen o ­ m eni negativi e contraddittori, in quanto si teme il salto nel buio, si diffida di un nuovo mondo il cui avvento sembra improbabile. Ma soprattutto, è quasi un luogo comune ripetere che questa realtà può essere m utata solo con una trasformazione r i­ voluzionaria. E quando però si vuole prendere in considerazione l’avvento di un possibile fenomeno rivoluzionario, le idee divengono assai vaghe. Ci si domanda: con chi? per fa re cosa? Certo è che oggi sono d i scarso ausilio i riferim enti alle rivo­ luzioni del 1789 e del 1917. Nuove rivoluzioni, proprio perché volte ad abbattere il capitalismo, la società piram idale delle élites finanziarie, la d i­ seguaglianza e l’egualitarismo del consumo, non potranno essere attuate da ristrette classi dirigenti cui sia devoluta la missione storica di educare le

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masse ad un credo ideologico, considerato come un ineluttabile destino dell’um anità. Nuove rivolu­ zioni non potranno che essere comunitarie e q u in ­ d i opera della base, perché presuppongono l’azione d i popoli che già hanno creato nella società nuovi modelli p ro d u ttivi e d i organizzazione sociale. Ma si può obiettare: dov’è lo spirito comunitario nelle masse alienate dalla produzione e dal consumo? S i può im m aginare un operaio, un impiegato, un insegnante, un professionista, un industriale, un commerciante ecc... diverso da quello che è nella vita sociale d i questa realtà? C i si chiede come sia possibile un comunitarismo in una società stru t­ turata sugli egoismi in d ivid u a li e collettivi. I n ­ vero si costata ogni giorno la sussistenza d i una antropologia sociale fondata sull’individualism o, che sembra immodificabile. Esiste allora una a n ­ tropologia com unitaria? I!antropologia del capi­ talismo in tanto sussiste, in quanto la struttura economico - sociale ha creato dei ruoli fu n zio n a li all’esistenza sia dell’ordine politico - economico, sia della cultura massmediatica. I l comunitarismo è una rivoluzione d i popolo perché rivoluzione delle coscienze, basata sulla fuoriuscita delle masse dai ruoli a d esse a ttr ib u iti dal sistema capitalista. La crisi del capitalismo avanza ed emargina masse crescenti di lavoratori: tale processo sarà determ i­ nante nel creare nella prassi sociale una nuova antropologia comunitaria. Le rivoluzioni non si realizzano per l’oppressione fiscale e per cause u tilitariste, ma presuppongono etica, disciplina, una coscienza interiore scevra d i egoismi individuali, in vista dell’avvento d i una nuova società e nuovi destini dell’um anità.

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Il concetto di rivoluzione è oggi strettamente legato a quello di ristabilimento di una antropologia comuni­ taria, ed è per l’appunto questo il problema che per il momento appare assolutamente insolubile. Se vogliamo usare il termine di rivoluzione nel solo modo corretto e non equivoco (per cui eviteremo le pri­ mavere arabe - fenomeno controrivoluzionario, i m uta­ menti di gusti musicali e sessuali, eccetera), e cioè di rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di pro­ duzione (mi sembra che qui, Marx non sia ancora sta­ to superato, certo non da Max Weber o da Heidegger), allora ne consegue che nell’ultimo secolo in Europa (1912-2012) la sola ed unica rivoluzione sia stata quella russa del 1917. Abbiamo poi avuto molte guerre civili (Spagna 1936, Grecia 1946), molti rivolgimenti e cambi nelle forme di stato e di governo (persino il colpo di sta­ to giudiziario extra-parlamentare surrealmente definito Mani Pulite è stato gabellato per “rivoluzione”), ma la stessa resistenza italiana 1943-1945, con buona pace sia dei suoi ammiratori sia dei suoi detrattori, non è stata in alcun modo una rivoluzione, così come non lo sono state le esportazioni del modello staliniano di sociali­ smo nei paesi dell’Est (Cina 1949 e Cuba 1959 invece lo sono veramente state, indipendentemente dalla succes­ siva restaurazione del capitalismo in Cina). Nel 1989 si è invece verificata tecnicamente una controrivoluzione, fatta passare ideologicamente per liberazione, e cioè per scatenamento del capitalismo. E questo - lo ripeto - in senso tecnico, prescindendo cioè dal giudizio positivo o negativo (o misto) da dare ai paesi del defunto socialismo reale. Anzi, tecnicamente la definirei controrivoluzione pacifica di massa dei nuovi ceti medi socialisti contro un dispotismo burocratico operaio livellatore. Poi ognuno ci metta il giudizio di valore che vuole, purché sappia

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che in ogni caso esso dipende dalla filosofia della storia sottostante che ognuno coltiva nel suo foro interno. Per un secolo, finito il tempo delle rivoluzioni bor­ ghesi inaugurate a Parigi nel 1789, la rivoluzione è stata associata strettamente al soggetto politicamente organizzato operaio, salariato e proletario. Si è trattato sempre e solo di un mito di mobilitazione di tipo soreliano, perché i proletari di tutto il mondo non si sono mai uniti, non danno traccia di volerlo fare ed a mio modesto avviso di anticapitalista radicale che non vuole però raccontar(si) delle storie non lo faranno mai, muo­ vendosi sempre e soltanto, quando riescono a farlo (ed oggi non ci riescono), su basi esclusivamente nazionali. Se pensiamo che oggi l’estrema sinistra accademicamen­ te riconosciuta (Negri, ma anche Hobsbawm) auspica il superamento dello stato nazionale, ne consegne che oggi non c’è più Scienza Politica, ma soltanto Masochismo Politico. Si usa ripetere a pappagallo che oggi non c’è più ri­ voluzione perché è venuto a mancare un “modello”, o meglio perché il modello precedente é fallito, e quindi irriproponibile. Ma non lo credo proprio. Il 1789 fran­ cese ed il 1917 russo furono fatti senza nessun modello, in quanto non lo erano a rigore né il giusnaturalismo illuministico dei diritti dell’uomo né il modello statalizzatore del marxismo della Seconda Internazionale, di cui i bolscevichi erano pur sempre dipendenti. I modelli si trovano sempre rapidamente ex post, e non consistono mai in applicazioni artificiali già pronte. Inoltre, i mo­ delli si costruiscono e ricostruiscono per prove, tentativi ed errori, e richiedono decenni per potersi assestare in modo più o meno stabile. Oggi la rivoluzione purtroppo (e sottolineo il pur­ troppo) appare letteralmente “indispensabile”, proprio perché non riusciamo neppure ad immaginarne la forma

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possibile. Certo, in una modellistica astratta inevitabil­ mente kantiana e maxweberiana possiamo immaginarce­ la come un grande sciopero generale soreliano, pacifico o violento, o più esattamente con una miscela delle due componenti della violenza e dell’ordine pianificato. Ma tutti sappiamo che non è realistico, e questo non certo per la risibile ragione per cui le utopie sarebbero irrever­ sibilmente fallite (nella storia le presunte irreversibilità, si calcolano in ventenni), ma per cui mancano le forze soggettive aggregabili. Lasciamo ai nostalgici l’idea che l’aggregazione verrà da forze sociologiche salariate, ope­ raie e proletarie. Il fatto è che oggi, insieme alla prospettiva della rivo­ luzione nel vecchio (ed unico) senso del termine, è venuta meno anche la vecchia dicotomia Riforme/Rivoluzione, per cui per un secolo e mezzo si è detto che era meglio affidarsi ad una lenta evoluzione positiva senza strappi per ottenere risultati simili senza lo scorrimento del san­ gue ed i cicli di violenza che ne susseguono. In realtà non si vede oggi neppure quali forze siano seriamente in grado di ipotizzare una riforma di questo modello di capitalismo globalizzato a prevalenza finanziaria. Oggi il fattore soggettivo sembra spento non solo per le rivo­ luzioni, ma anche per le riforme. I frenetici ed ipocriti summit dei politici, disturbati o meno da incappucciati in passamontagna o da pagliacci dipinti in trampoli e tamburi, pattinano sul ghiaccio sottile delle superfici di realtà interamente dominate dalla speculazione finanzia­ ria e dai suoi riti in inglese (del tipo dello spread —oh, il buon vecchio Spirito Santo!). E allora? Bisogna forse rassegnarsi? Bisogna accetta­ re la trinità universale della gabbia d’acciaio, del disin­ canto del mondo e del politeismo dei valori? Bisogna accettare il più odioso dei domini militari travestito da interventismo in difesa della pace e dei diritti umani?

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Bisogna accettare, che il Politicamente Corretto ci im­ ponga che cosa possiamo dire e che cosa non possiamo neppure pensare? Non può essere questa ovviamente la conclusione. Il pessimismo non è obbligatorio, ed anche l’ottimismo è facoltativo. Non si tratta allora di dare retta alle ideolo­ gie diffuse dai pensatori permessi dal potere, in quanto il potere dosa anche la critica concessa a dosi omeopatiche (esemplare il caso di saggisti come Bauman e Zizek). Ciò che passa il mercato editoriale e televisivo è sempre filtra­ to de vere e proprie “griglie di compatibilità”. Il massimo di coraggio nello svelamento (esemplare l’unica vera gior­ nalista italiana d’inchiesta onesta, Milena Gabanelli, il re­ sto è cabaret per semicolti PD, Santoro e Saviano inclusi) consiste nell’indicare veri e propri casi scandalosi. Ma essi sono migliaia, e come i buchi nelle dighe tappatone uno se ne apre un altro. Le rivoluzioni non si fanno con modelli preapplica­ bili, e neppure accostandosi o discostandosi da modelli ideali pregressi, come è stato il caso del marxismo, dato che il modello originale di Marx era perfettamente inap­ plicabile, fondandosi su vere e proprie fanfaluche come l’abolizione dello stato e la capacità di auto-organizza­ zione rivoluzionaria (e non solo sindacale, quella ovvia­ mente c’è) della classe operaia, salariata e proletaria. Le rivoluzioni richiedono lente precondizioni di aggrega­ zione antropologica, e soprattutto la visibilità non tanto del modello futuro, quanto della debolezza del nemico e della perforabilità delle sue difese. Questa non c’è anco­ ra, e non si può affrettare artificialmente. Per ora basti affermare che ci può essere, e mandare cordialmente al diavolo chi parla di utopia, terrore ed altre fregnacce di prevenzione e contenimento.

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Crisi del capitalismo e inutilità dell’Essere sociale

S en so d i in u t il it à esistenziale e d e st r a n ea z io n e sociale

1) L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi del P ii han­ no determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti quote d i manodopera dal sistema produt­ tivo. S i allargano a macchia d’olio la disoccupazio­ ne, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei gio­ vani è diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre p iù decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità socia­ le. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura d i massa, quali fenom eni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, si rivelano m iti virtuali, destinati ad essere sm en titi dal disfaci­ mento degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del prim o decennio del X X I 0 secolo, dovremmo rileva­ re che l’avvento della società globalizzata ha a vu ­ to solo la fu n zio n e d i distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo, si sono rivelate elem enti di una strategia di ascesa al potere di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito della masse sem­ pre p iù escluse dai processi produttivi. L’emargi­ nazione sociale coinvolge in teri popoli; esclusione ed emarginazione sono fenom eni conseguenti al tramonto d i un sistema economico basato sulla produzione e di una società fondata su equilibri

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ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriusci­ ta dal mondo del lavoro determ ina negli in d ivid u i un senso di in u tilità esistenziale, d ì estraneazione sociale, che conduce alla perdita della autostim a di se stessi, a d un non senso della propria individua­ lità, ormai non p iù compatibile con le prospettive di svihcppo d i una società elitaria, basata sulla ge­ neralizzata esclusione delle masse non p iù integra­ b ili nei processi evolutivi della società globalizza­ ta. La coscienza della in u tilità è coeva q u in d i alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione um ana riflette q u in d i la struttura fondam entale dei rapporti sociali nella società capitalista. L i n ­ divìduo ha coscienza di sé in quanto svolge un ruo­ lo produttivo nel contesto economico, altrim en ti la sua vita è condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e q u in d i privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo consumistico sono le sostanziali fo n ti d i riconosci­ mento nella società capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi è ribassi a dare senso alla vita di ognuno. I l lavoro è merce di scambio in un mercato che si evolve in una prospet­ tiva selettiva di progressiva esclusione dei lavora­ tori dalla produzione, m ai di espansione. La disoc­ cupazione diffusa è però un fenom eno che rivela la sottoutilizzazione di risorse um ane disponibili. I l paradosso dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera recessione per la pro­ p ria incapacità d i allocazione e razionalizzazione delle risorse produttive disponibili. Sono veramente felice che tu abbia scelto come con­ cetto principale di questa nostra conversazione (destina­ ta probabilmente a chiudere il secondo volume della rac­

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colta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inu­ tilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teori­ co-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda metà del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibi­ le che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capi­ talistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fonda­ zioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Lo­ cke o di “sinistra” di Rousseau, mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il dirit­ to naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legitti­ mazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero

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bilancio storico-filosofico serio, che presuppone proba­ bilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, di­ mostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giu­ dizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che l ’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosa­ le” di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi, però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso la verità comunitario-sociale (l’u­ nica esistente, il resto essendo certezza, esattezza, veridi­ cità, corrispondenza, eccetera), sia pure deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e del­ la sua volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie, la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa quoti­ diana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapi­ to delle masse sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili contestatori sessantot­ tini, sono in preda al processo di inutilità e decadenza)

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che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una vera e propria novità storica, in lin­ guaggio hegeliano una nuova epoca di “gestazione e di tra­ passo”. Il vecchio apparato concettuale non serve più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque, concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora “populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità” demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario, si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa d a yacths di speculatori m i­ lionari, derubricati ad “amici privati”, il banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la “cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i sio­ nisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno di Beppe Grillo, battezzato sfronta­ tamente come “populismo”, sia in realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora meglio degli scimpanzè e degli oranghi.

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È infatti assolutamente insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa riferimento alla filosofia aristotelica della na­ tura umana (la migliore mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comuniSmo, nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peg­ gio del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente USA anti-cinese, e tu tti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente forgiato un’intera generazione di semi­ colti subalterni, maggioritari in quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi intellettuali illuministi. Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.

L ' in u t il it à d e i l a v o r a t o r i - c o n s u m a t o r i d e s t in a t i ALLA ROTTAMAZIONE E L'ATTUALE IMPENSABILITÀ DELLA RIVOLUZIONE

2) I l mercato globale si è affermato attraverso il do­ m inio del mercato finanziario sulla economia pro­ duttiva: la crescita economica non è la sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto, lo sviluppo produttivo si m anifesta nei tem pi e nei luoghi determ inati dalle strategie del­ la speculazione finanziaria. Q uindi esso è di per sé un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui

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poi fa n n o riscontro crisi e sottosviluppo non risolvi­ bili secondo i canoni delle dottrine economiche no­ vecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro cau­ sa nei cicli economici ricorrenti, m a semmai nelle bolle finanziarie ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La globalizzazio­ ne ha prodotto insieme a i mercati globali, anche problemi e crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di produzione e di consumo assai rilevanti, decresci­ ta degli investim enti e rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del ivelfare, il la voro precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamen­ te inciso sulle capacità di consumo e d i risparmio delle masse. Pertanto, nel prossimo fu tu ro sarà di a ttualità il problema della esistenza di masse non p iù u tilizzabili nella produzione e non p iù dotate d i capacità d i consumo. La condizione d i in u tilità degli in d iv id u i si va estendendo alle masse globali d i lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro d i M. Della Luna “Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove ed izio n i 2010”. In fa tti, mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato dai sovrani d i sta ti che necessitavano d i soldati, agricoltori e cittadini produttori che p a ­ gassero imposte, oggi, l’aumento della popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al de­ cremento delle risorse naturali, ha creato una nuo­ va categoria antropologica: quella dei popoli super­ flu i. Superflui perché non integrabili nel sistema economico e bisognosi di mezzi d i sostentamento, in tem pi d i destrutturazione dello stato sociale. A l di là delle ipotesi catastrofiste (per fo rtu n a poco prati-

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cubili), quali quelle di guerre nucleari o epidemie provocate allo scopo d i decrementare la popolazione mondiale, altre soluzioni m i sembrano credibili. È in fa tti ipotizzabile l’erogazione pubblica di sussi­ di m in im i di sostentamento per assicurare, assie­ me alla sopravvivenza materiale delle masse, a n ­ che quella del mercato, garantendogli un adeguato livello d i consumi. In tale tragico scenario, gran parte dell’um anità vivrebbe in una condizione di dipendenza economico - esistenziale assimilabile alla schiavitù. M a la situazione descritta sarebbe possibile qualora si prestasse fede al dogma liberi­ sta della autoreferenza totalitaria della economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizio­ ne d i perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci d i rivoluzioni, qualora le cause dei feno­ m eni rivoluzionari fossero solo d i ordine economico. A l contrario, ì m otivi del mancato riconoscimento sociale, e della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto, sono di ordine p o liti­ co - sociale, perché nascono dalla volontà comune d i partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), d i una diversa strutturazione della so­ cietà che sia in grado di sviluppare risorse, onde creare una p iù equa e diffusa ripartizione della ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia d i ispirazione anglosassone è quella d i un ordine che non può e non vuole sviluppare risorse, perché il suo scopo ultim o è quello si preservare un sistema finanziario di per sé condannato a l fallim ento. Tu ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di rivoluzioni? Fai anche l’ipote­ si, da prendere certamente in considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non importa se rifor­

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mista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo acl una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di consumo, sia pure paras­ sitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917, ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano, giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di malignità se sia ancora “comu­ nista”, Hobsbawn risponde: “Il comuniSmo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finché il capitalismo non si trasformerà in qual­ cosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A proposito dei fatto che il comuniSmo non esiste più mi permetto una serie di brevi considerazioni. Il mo­ dello politico-sociale del comuniSmo storico novecente­ sco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni as­ solutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito con il consegnare l’in­ tero potere economico ad una casta di baroni-ladri. Il comuniSmo storico novecentesco è stato l’espressione di una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di contadini poveri, due gruppi so­ ciali ad egemonia complessiva a scadenza breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali ne­ gli attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna

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eccezione, non sono più gruppi rivoluzionari a legitti­ mazione marxista, ma sono residui sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la di­ cotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comuniSmo ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa formulazione, in quanto Marx pen­ sava che il comuniSmo fosse un prodotto processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzio­ ne capitalistico. In termini popperiani, questa legitti­ ma e ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente. L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente non in tempi storici vici­ ni, in quanto devono maturare delle condizioni globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia de­ nominato “sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo comunista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive di co­ storo, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del si­ stema politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analo­ gia con un periodo storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione anticapitali­ stica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la globa­ lizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che possono anche abbattere governi dispotici precedenti,

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ma che poi restano inseriti, incastrati ed ingabbiati nel si­ stema economico internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E questa impensabilità che fa da sot­ tofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. L’utopia si con­ cretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando non saranno finalmente visibili so­ cialmente passi in avanti nella limitazione di questo capi­ talismo cannibale.

L a g l o b a l iz z a z io n e

s e n z a m e t a fis ic a d e l l ' e t e r n o PRESENTE CAPITALISTA E FALSA COSCIENZA DELLA STORIA

3) La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quo­ tidiana, svuotando d i senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita comunita­ ria, fam iliare, intim o - personale, provocata dal dominio del mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre p iti instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica. Il fenomeno dell’accentuarsi quotidia­ no della recessione economica, della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è sintomatico di una crisi p iù profonda, che coinvolge totalmen­ te la nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la stagnazio­ ne della situazione politica, il dirigismo burocra­ tico e cinico della UE (assieme a l governo tecnico di Monti), perché fenom eni d i ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si eccettuano

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i m ovim enti m inoritari e velleitari quali il grillismo e altri sim ilari europei. Lo stesso astensio­ nismo massificato assume p iù il significato d i una estraneazione collettiva dalla politica, assai p iù vicina alla resa senza condizioni, p iù che quello di un dissenso d i massa. Costatiamo q u in d i che nel­ la società è assente una presa d i coscienza comu­ ne di una situazione di emergenza sìa economica che politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può solo produrre altre crisi, quan­ do alla destrutturazione di un sistema non fa r i­ scontro alcuna alternativa, magari fu tu rib ile, ma possibile. Si m anifesta nella odierna società una coscienza collettiva d i tipo adattativo alla situazio­ ne di precarietà materiale ed esistenziale, a d uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione d ì perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo collettivo in cui, da una parte le classi p iù elevate tentano di integrarsi in un processo d i trasformazione da cui vengono progressivamente escluse, dall’altra, quel­ le p iù deboli si affannano a sopravvivere alla crisi. T u tti tentano d i “imbucasi” a d un simposio a cui non sono stati in v ita ti dalla global class. La società è prigioniera dell’eterno presente. S i eternizzano in una sfera astorica e asociale le condizioni in ­ d ividuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei giovani, gli a ffe tti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti come se questa condizione di cri­ si fosse una condizione perenne, intrasformabile, data l’impossibilità d i sviluppi e m utam enti r i­ spetto alla quotidianità ottusa d i questo g ra n iti­ co, eterno presente. Tale fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista, su cui si è costruita

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la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. I l culto dell’individualità odierna, è il risultato d i un atteggiamento narcisistico collettivo, p iù o meno inconscio, d i personalità che hanno coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in prim is in base alla loro fu nzione svolta nel si­ stema economico, e dalla condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può illudere d i avere riconoscimento, e d i preservare le proprie meschine ed egoistiche certezze, in un mondo diver­ so chissà? Non si considera che l’eterno presente è conseguenza della mancanza d i senso della storia. Ueconomia attraversa fa si di stagnazione e reces­ sione ciclica. La storia, al contrario non am m ette periodi d i stagnazione, né tanto meno è concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una falsa coscienza della storia imposta da un or­ dine capitalista ormai fu o ri della storia. La storia invece contimia a produrre m utam enti, a generare nuove situazioni d i cui occorre prendere coscienza. Interpretare l’a vvenire alla luce dell’eterno presen­ te è un non senso. La storia non ha altri fin i che quelli che l’uomo si propone di realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi, quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si com­ prende anche la necessità storica della presente cri­ si, quale momento d i superamento d i un presente che è “eterno’’ perché non è storico. Non sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del grillismo. Con questo non in­ tendo unirmi al coro gracchiarne dei “responsabili” ade-

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remi ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la'pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto colpito dal fat­ to che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia, dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide più nulla da un pezzo, perchè esi­ ste una sorta di giunta militarizzata di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comuniSmo, che in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società “alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva effettivamente qualcosa di stra­ tegico, ed a mio avviso il fronte di sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientar­ si sul mercato politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bi­ sognerebbe ricordarlo ai politologi. E quindi inutile condannare moralisticamente gli astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa continuare nel tempo e riprodursi una società te­ nuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esi­

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stere. Per il momento questa è una relativa novità stori­ co-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra, si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza metafisi­ ca”. Benché abbia insegnato storia e filosofia nei licei per trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di ca­ pire il significato della sentenza di Hegel. Infatti la me­ scolanza tipicamente inglese di empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente antici­ pato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo effettivamente arrivati ad essere, ed a van­ tarci di essere, “un popolo civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è comun­ que intrecciata al messianesimo americano vetero testa­ mentario, che appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia mobilità socia­ le ascendente e discendente, sostituita da una mobilità individualistica senza alto né basso, al di fuori della ca­ pacità di consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione della borghesia clas­ sica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio mer­ cantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già fatto notare in precedenza, il vero pro­ blema non sta nel constatare questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora oscurato dai meccani­ smi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel prospet­

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tare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile, eccetera può certamente rinviare di de­ cenni una crisi generalizzata di senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente “normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di scetticismo so­ fisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo tran­ quillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente saperlo.

A COSA SERVE L'EURO? L'EURO È UN ERRORE O UN CRIMINE?

4) La coscienza dell’in u tilità sociale ed esistenziale dell’uomo contemporaneo non è che la proiezione massificata d i un mondo economico e politico vir­ tuale che rivela nella crisi il vuoto d i senso, cioè la sua incontestabile inu tilità . Così come inutile si è dimostrata la classe politica, acquiescente e compli­ ce delle manovre perpetrate dalla UE a danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E una moneta virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei paesi della UE, una va­ luta imposta da una BCE senza uno stato che ne garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da organismi tentici non elettivi, non rappresentativi della volontà popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un sistema d i cambi fissi, dato che nell’Eurozona, la valuta è comune, mentre il debito pubblico

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grava sulle finanze degli stati. A cosa serve l’euro? Con l’euro si è ferm ato lo sviluppo economico, si sono dim ezzati il potere d’acquisto e i risparm i dei cit­ tadini, si è imposta una politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste socia­ li, le certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la speculazione finanziaria che sta determinando il fallim ento degli stati. L’euro, an­ ziché integrare i popoli, li ha condannati ad una competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla speculazione finanziaria, utile a i propri profitti, ma inutile e dannosa a i popoli. G li stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a sviluppare la propria economia, e classi politiche corrotte hanno goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e precario. Farla fin ita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non di­ spongono di classi politiche adeguate a tali even­ ti d i emergenza rivoluzionaria, Tali concetti sono tuttora im pensabili per la stragrande maggioranza degli europei. Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro, cosa però che faccio malvolentieri per­ ché, detto in linguaggio popolare, “non ci capisco nien­ te”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di economia. Personalmente, pur non do­

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minando la materia, mi riconosco nelle opinioni di econo­ misti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere spaventato dalle campagne di terrore indotte quoti­ dianamente dalla televisione e dai giornali, che annuncia­ no apocalissi in caso di crollo dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012. Nonostante gli apparenti mutamen­ ti politici, le classi politiche oligarchiche italiane sono le stesse del 1915 e del 1940. Sarebbe troppo lungo scen­ dere nei dettagli di questi elementi di continuità che vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime liberale, il regime fascista ed il regime demo­ cratico. In proposito, i manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non informano sul­ la continuità della geopolitica di espansione nei Balcani nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste, città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli ita­ liani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato un errore sto­ rico e strategico, molti si rifugiano in una vera e propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà

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una “macroregione”, del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità” è pura retorica per bor­ sisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della Ceco­ slovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unio­ ne Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avvi­ so non esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un migliaio di pagine ipo­ crite ed artificiali. Ma quando si sventolano le bandie­ re, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa finisce a Vladivo­ stok, ed è dunque un’unità geograficamente eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare di sal­ varlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione eu­ ropeo inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o spendaccione e delle nazioni virtuose. E già difficile far passare l’idea della so­ lidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Re­ pubblica”), e chi pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione come l’Europa mente a sé

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ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e 10 smantellamento progressivo degli elementi di tvelfare. Pensare che nel prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti. Dall’euro bisognerà uscire, ed 11 modo di uscirne sarà il principale indicatore storico­ politico del prossimo futuro. Sarà un vero dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.

I n d ic e

PIntroduzione di Stefano Sissa - La filosofia ‘tutta politica’ di Costanzo Preve: un intellettuale non omologato........ 5 L’Europa può reinventare se stessa?.................................... 37 Crisi nel sistema o crisi del sistema capitalista?.....................55 Precarietà e manipolazione antropologica nell'era del capitalismo assoluto................................................ 67 L’integrazione impossibile in una identità europea che non c’è ....................................................................85 Obama, l’America virtuale e l’etere velenoso del capitalismo reale....................................................102 L’eroismo di Gaza e il Ministero Occidentale della Verità................................................................. 122 La crisi dell’individualismo occidentale e l'immagine dello spirito del tempo................................................144 L’utopia e la gioventù del mondo.......................................169 Benedetto XVI e il declino della modernità...................... 194 Il lavoro stabile e il dogma dell’onnipotenza del mercato.................................................................219 Scuola: un laboratorio di sperimentazione sociologica...... 245

La nuova geopolitica del capitalismo immanente............. 268 Il futuro della filosofia e l’eterno presente nichilista.........293 Rivolta delle élites e disfacimento del capitalismo...........318 L’eclissi della dialettica e le nuove conflittualità della storia........................................................................346 La privatizzazione della vita sociale..................................37 6 L’indifferentismo morale e la cultura dell’individualismo di massa.................................................................... 405' Per una nuova proposta politica...................................... 434 Un dissenso sociale tutto da inventare...............................464 Etica comunitaria, progresso e rivoluzione........................ 495 Crisi del capitalismo e inutilità dell’Essere sociale.............518

Questo è il terzo dei libri di dialoghi tra Costanzo Preve e Luigi Tedeschi che costituiscono altrettante fasi di un percorso ideale iniziato nel^ 2002, teso alla interpretazione del nostro tem po, analizzato al fine rinvenire in esso le radici storiche e filosofiche da cui è derivai della globalizzazione, vissuta da larga parte dell’um anità come presente senza storia. Sulle ceneri delle ideologie novecantel i S i i ^ H questi dialoghi viene analizzata la nuova antropologia umana scarurifa dall’avvento del capitalismo globàlista, che comporta 1 asso u nec della totalità dei rapporti umani alla “forma merce". E « e s f a mercificazione dell’umanità a generare la flessibilità e la precarietà S e re -.ìjjH del lavoro, anche di tutti i rapporti della vita sociale. L’analisi filosofica di Costanzo Preve si ispira alla filosofia greca, alla concezione della coJfetmA?'] intesa come espressione della natura sociale dell’uoMo. §g c o m u n ità |is n ||| vuole dunque rappresentare il termine dialettico di opposìzn^H all’individualismo capitalista, perché oppone la solidarietà com unitaria e il/ primato della politica alla alienazione productivist^Hpns unii sta frutto def primato dell’economia. Questi dialoghi vogliono anche e soprattutto una forma di primaria resistenza etica e c i^ B a lc alla omologazione mercatista del capitalismo assoluto. Costanzo Breve non è più tra noi dal novembre 2013. Egli ci lascia in eredità un p e n s i® , la cui fecondità è JSta dalla estrema potenzialità (per ora utopica), di sviluppi culturali e politici, validi per costruire la società del iffliro. C o sta n zo P re v e (1943 - 2013) ha studiato scienze politiche, filosofia e neoellenistica nelle Università di Torino, Parigi e Atene ( 1961 - P f f )• È autore di numerosi studi di storia del marxismi®; di storia della fillosoma pubblicati sia in italiano sia in lingue stranie®. 11 suo contributo aJli studi filosofici è principalmente rivolto ad alè e non ideologica della storia del marxismo e 1pali convincente del pensiero greco classn o. Luigi T ed esch i (1954) laureato in giurisprudenza cojMM|iljBa»M|g4osH'liiBI del d iritto su Max Stirner, svolge la professione conti e consulenza aziendale. Con Costanzo Preve ha 21i( 3 il libro “Alla ricerca della speranza perduta”, dialogo sulle problem atiche chBIm B mjremjM — o e nel 2013 “Lineam enti per una nuova € 30,00 filosofia della storia". 1 la aia he ISBN 9 7 8 - 8 8 - 6 3 3 6 - 2 3 8 - 1 pubblicato un libro in te rv ^ P ''“D o ^ [ va la finanza-’” con G iorgio VrmMgg direttore del periodico “La Fina I suoi interessi principali, of? alla filosofia, sono nel campo 7 88863 362381 dell’economià e della finanza.