Dialoghi 9788817067966

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Dialoghi
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Table of contents :
Copertina......Page 1
Frontespizio......Page 2
Copyright......Page 4
INTRODUZIONE......Page 5
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA......Page 57
ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE......Page 71
CRONOLOGIA......Page 87
NOTA AL TESTO E AL COMMENTO......Page 101
DIALOGHI......Page 108
CHARON. SCHEMA DEL CONTENUTO......Page 109
CARONTE......Page 113
I. MINOSSE, EACO
......Page 115
II. CARONTE, MINOSSE, EACO......Page 121
III. MINOSSE, EACO......Page 137
IV. MERCURIO, PIRICALCO......Page 143
V. CARONTE, MERCURIO......Page 147
VI. CARONTE, MERCURIO MENTRECAMMINANO......Page 167
VII. MINOSSE, EACO......Page 171
VIII. MINOSSE, EACO, MERCURIO, CARONTE......Page 173
IX. CARONTE, DIOGENE, CRATETE......Page 203
X. MINOSSE, MERCURIO, EACO......Page 211
XI. MERCURIO, I GRAMMATICI TEANO, PEDANO E MENICELLO......Page 221
XII. CARONTE, ANIME......Page 235
XIII. CORO DELLE ANIME COLPEVOLI......Page 261
XIV. CORO DELLE ANIME INNOCENTI......Page 263
ANTONIUS. SCHEMA DEL CONTENUTO......Page 264
ANTONIO......Page 269
I. FORESTIERO SICILIANO, COMPATRE NAPOLETANO......Page 271
II. COMPATRE NAPOLETANO, IL VIAGGIATORE, FORESTIERO SICILIANO, INTERLOCUTORI.......Page 283
III. ERRICO PUDERICO, UN ADOLESCENTE,UN VECCHIO, LO STRANIERO......Page 293
IV. ANDREA CONTRARIO, COMPATRE, ENRICO, ELISIO......Page 307
V. SUPPAZIO, ERRICO......Page 405
VI. FORESTIERO SICILIANO, COMPATRE, LUCILLO FIGLIO DI PONTANO......Page 439
VII. ERRICO, SUPPAZIO, IL CANTORE, FORESTIERO......Page 445
VIII. IL BUFFONE MASCHERATO......Page 461
IX. IL POETA MASCHERATO......Page 465
X. IL BUFFONE MASCHERATO......Page 483
XI. IL POETA MASCHERATO......Page 485
ASINUS. SCHEMA DEL CONTENUTO......Page 518
ASINO......Page 522
LETTERA DI PIETRO SUMMONTE......Page 524
I. VIAGGIATORE, OSTE, BANDITORE......Page 526
II. OSTE, CORO DI SACERDOTI......Page 538
III. OSTE, VIAGGIATORE......Page 544
IV. ALTILIO, PARDO, IL CARITEO......Page 552
V. AZIO, PARDO, ALTILIO......Page 564
VI. PONTANO, FASELIONE CONTADINO, PARDO......Page 572
VII. PONTANO, RAGAZZO, PARDO......Page 580
VIII. FASELIONE CONTADINO, PONTANO......Page 590
IX. PONTANO, CASERIO, PARDO......Page 596
X. PARDO, SINCERO, ALTILIO, CARITEO......Page 600

Citation preview

Giovanni Pontano DIALOGHI a cura di Lorenzo Geri IN COLLABORAZIONE CON L’ASSOCIAZIONE DEGLI ITALIANISTI

classici

Giovanni Pontano DIALOGHI caronte antonio asino

A cura di Lorenzo Geri

Proprietà letteraria riservata © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-06796-6 Prima edizione BUR Classici giugno 2014 Realizzazione editoriale: studio pym / Milano

Nuove edizioni - Classici italiani In collaborazione con ADI (Associazione degli italianisti)

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INTRODUZIONE

1. I Dialoghi e la Napoli aragonese I cinque dialoghi latini di Giovanni Pontano, composti a Napoli tra il 1470 e il 1502, rappresentano uno dei momenti più alti della letteratura del Rinascimento. Scritti in una lingua elegante e scorrevole, arricchita dalla felice coesistenza di diversi registri stilistici, il Charon, l’Antonius, l’Asinus, l’Actius e l’Aegidius, con la loro varietà di contenuti e soluzioni formali possono essere considerati una sintesi della sperimentazione dialogica portata avanti dagli umanisti italiani, tanto quella condotta sul versante ciceroniano, quanto quella, più umbratile ma altrettanto significativa, che si muove su quello lucianeo. Per questo motivo David Marsh, nella sua storia del dialogo latino del Quattrocento, ha interpretato persuasivamente l’opera di Pontano come il punto di partenza per un altro capolavoro del Rinascimento europeo, i Colloquia di Erasmo da Rotterdam.1 I Dialoghi, con la loro ricchezza di forme e contenuti, riflettono la complessità stessa della figura di Pontano, segre1 Marsh, The Quattrocento Dialogue: 100. Nelle note della presente edizione adotto le abbreviazioni sciolte alle pp. 71-86. Per un confronto tra i Dialoghi e i Colloquia si vedano più avanti le pp. 22-25 e 34-35.

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INTRODUZIONE

tario regio del Regno di Napoli e grande poeta in latino, abile diplomatico e acuto trattatista del comportamento, studioso di astronomia e storiografo, sferzante critico della società del suo tempo e appassionato conoscitore di questioni metriche e grammaticali. Autore tra i più grandi della letteratura del Quattrocento, pari a Leon Battista Alberti per l’ampiezza dei generi letterari affrontati2 e, al contempo, uomo politico di primo piano, Giovanni Pontano rappresenta uno dei principali protagonisti del Rinascimento napoletano. Di quella straordinaria stagione, d’altronde, Pontano attraversò tutte le principali fasi. A servizio del sovrano aragonese dall’anno precedente, l’umanista entrò per la prima volta a Napoli insieme ad Alfonso, di ritorno da una deludente spedizione militare nell’Italia centrale, il 15 novembre del 1448;3 quarantasei anni più tardi, in qualità di segretario di Stato, si trovò a dover consegnare le chiavi di Castel Nuovo a Carlo VIII.4 Nel corso di questa parabola svolse un ruolo di primo piano sia come uomo politico, sia come animatore della vita intellettuale napoletana. Pontano, entrato a far parte della corte del Magnanimo in giovane età, abbandonò Perugia e la carriera di giurista attirato dal mecenatismo aragonese, condividendo così le speranze e le ambizioni dei molti umanisti che, in quegli anni, sceglievano di trasferirsi a Napoli. La sua formazione letteraria giunse a compimento in una corte caratterizzata dalla 2 La vastità di generi e forme sperimentate da Pontano è lodata frequentemente dai contemporanei, si vd. ad esempio l’elegia di Sannazaro intitolata Ioviani Pontani de studiis suis et libris (Sannazaro, Eleg., 1, 9). 3 Il Magnanimo tornava a Napoli dopo due anni d’assenza. Nonostante Alfonso, stando alla testimonianza del Duca di Monteleone riportate da Ryder, fosse «tutto disfatto» a causa della delusione seguita alla sconfitta, le autorità cittadine organizzarono una serie di eventi spettacolari per festeggiare il ritorno del sovrano (Ryder, Alfonso the Magnanimous: 280) 4 Per un primo orientamento sugli eventi storici del regno di Napoli rimando alla Cronologia.

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dispendiosa politica culturale di Alfonso, tesa a legittimare attraverso il mecenatismo un potere conquistato dopo un ventennio di guerre e di forzature diplomatiche. Il Magnanimo, com’è noto, riunì intorno a sé il numero più ampio possibile di umanisti provenienti da diverse parti della penisola, mise a loro disposizione una biblioteca di straordinaria ricchezza, li retribuì generosamente per i loro insegnamenti di carattere storico, etico e politico, per la loro attività diplomatica e per le opere scritte a maggior gloria della casa regnante. Esibiti come una sorta di magnifico ornamento, gli umanisti poterono operare in un ambiente tanto competitivo quanto stimolante: non è un caso che proprio durante il soggiorno napoletano Lorenzo Valla ebbe modo di scrivere o di progettare le sue opere più significative.5 Oltre a partecipare attivamente a quella prima forma di accademia che si radunava intorno al sovrano durante l’«ora del libro»,6 Pontano, grazie all’intercessione del Panormita, ebbe modo di intraprendere i primi passi nella carriera politica ricoprendo il primo di una lunga serie di incarichi ufficiali, quello di scriba della cancelleria reale. Dopo la morte di Alfonso, avvenuta nel 1452, la politica culturale di Ferrante si rivelò più cauta di quella paterna. Il nuovo sovrano, infatti, mutò gli equilibri all’interno della corte affidando agli umanisti pressanti compiti diplomatici e amministrativi. Ingenti risorse, al contempo, vennero destinate all’obiettivo di formare i futuri amministratori in loco grazie anche alla riapertura dello Studio (1465), istituzione in qualche modo concorrenziale nei confronti del libero magistero 5

Per l’indicazione dei principali studi dedicati alle vicende culturali del regno aragonese si vd. la Bibliografia ragionata. 6 «Tuo nonno Alfonso, per non allontanarmi dagli esempi di casa nostra, ascoltava con incredibile piacere il poeta Antonio Panormita mentre narrava qualche passo di storia antica. Anzi, ogni giorno ascoltava da lui brani di scrittori antichi e, anche se in quel frattempo era gravato da molte e serie preoccupazioni, mai permise tuttavia che gli fosse sottratta dagli affari dello stato la cosiddetta ora del libro» (Princ. 27, traduzione di Guido M. Cappelli).

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degli umanisti, spesso titolari di scuole private. Anche se non mancarono in questo periodo opere dedicate al sovrano, opere tra l’altro spesso in volgare, non fu più possibile radunare notevoli fortune unicamente grazie alla produzione letteraria e agli studi. Gli umanisti, con il nuovo corso, difatti, si trovarono ad essere remunerati in primis per le proprie capacità diplomatiche e politiche. In tale mutato contesto l’«ora del libro» venne meno e i dotti che erano soliti radunarsi intorno al sovrano spostarono le loro riunioni presso la casa del Panormita, nel seggio del Nido, costituendo così il primo nucleo dell’Accademia napoletana. In questi anni Pontano rafforzò i legami con la casa regnante, assumendo nel giro di pochi anni diversi incarichi di primo piano (Luogotenente del Gran Ciambellano, Protonotario regio, Consigliere del re), e affiancò al contempo il Panormita nel ruolo di animatore delle riunioni dell’Accademia. I suoi primi dialoghi, il Charon e l’Antonius, offrono per l’appunto una rappresentazione, al tempo scherzosa e ideale, di tale consesso. Dopo la morte del Panormita nel 1471, Pontano prese in mano le redini dell’Accademia, affiancando così un prestigio culturale crescente ai successi di una carriera politica in vertiginosa ascesa. Nei venti anni successivi, difatti, Pontano assunse una serie di incarichi di crescente rilievo: membro della Regia Sommaria, segretario di Isabella Sforza, la sposa dell’erede al trono Alfonso d’Aragona, Segretario maggiore del medesimo Alfonso e, infine, segretario regio (ovvero “primo ministro”), ruolo ricoperto a partire dal 1487. Se il ruolo politico di Pontano si esaurì in seguito agli sconvolgimenti che attraversarono il Regno sul finire del secolo, il suo magistero letterario e l’accademia da lui animata rappresentarono un elemento di continuità nella storia culturale napoletana anche oltre la crisi della dinastia. Dal 1494 al 1503, anno della morte, infatti, Pontano, ormai privato dagli eventi di un ruolo politico, dedicò il suo otium alla stesura di nuove opere e alla sistemazione di quelle giovanili. L’anziano umanista, con ammirevole energia, limò buona parte

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della sua ampia produzione poetica e, al contempo, riversò l’esperienza di precettore e di uomo di corte in una serie di trattati dedicati alle virtù utili agli uomini di stato e ai cortigiani (il De prudentia, i libri delle virtù sociali,7 il De sermone). Tale produzione esprime una rinnovata fiducia nelle capacità degli umanisti di confrontarsi con le conseguenze della crisi d’Italia8 ed è per questo indirizzata ai sodali più giovani. A tale felice stagione creativa appartengono anche gli ultimi due dialoghi, l’Actius (dedicato a Iacopo Sannazaro) e l’Aegidius, opere che testimoniano, al pari dei trattati, un ideale passaggio di consegne alle nuove generazioni.9

2. La struttura dei Dialoghi Una volta superato il disorientamento iniziale, causato dalla distanza cronologica e culturale che da loro ci separa, i 7 La definizione di «libri delle virtù sociali» si deve a Francesco Tateo (Introduzione, in Libri delle virtù sociali: 1-38) su quest’ultima, decisiva, fase della produzione di Pontano si vedano i contributi di Amedeo Quondam, La conversazione: 35-131 e Quondam, Forma del vivere: 384-431. 8 La «presa d’atto del drammatico precipitare della «crisi» italiana» si traduce nel De sermone in un invito agli umanisti a continuare ad assolvere la loro funzione e a «non cedere alla barbarie della guerra, non troncare l’esile filo della cultura» (Quondam, La conversazione: 42-44). 9 Nell’incipit dell’Actius tale passaggio di consegne è icasticamente rappresentato da un’iscrizione posta sull’entrata dell’abitazione dello stesso Pontano: «Erede o successore di questa casa, chiunque tu sarai, non vergognarti, ti prego, degli antichi che l’hanno abitata e del padrone che l’ha fatta costruire. Egli coltivò le lettere e le arti liberali e si curò dei re; lo frequentarono giovani buoni e vecchi parimenti buoni; i concittadini onesti ne apprezzarono l’integrità, la fedeltà, la bontà d’animo. E tale fu Giovanni Pontano, uomo d’altri tempi. Visse per i suoi e per le Muse; così possiate vivere tu e i tuoi, così possano sopravviverti i figli. Ma se danneggerai in qualche modo questa lapide, gli dei ti puniscano» (Act.: 245, traduzione mia).

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Dialoghi si fanno apprezzare sin dalla prima lettura per la loro straordinaria vivacità. Quale che sia l’argomento, dalla superstizione (Charon) alla bellezza della poesia virgiliana (Antonius), dalle leggi della metrica e della storia (Actius) al problema del libero arbitrio (Aegidius), la discussione si snoda brillantemente tra raffinate digressioni, arguzie, scene di carattere comico, inserti poetici. L’arte della conversazione e della facezia, alla quale Pontano negli ultimi anni di vita dedicò un importante trattato, il De sermone, trova in queste pagine una magistrale esemplificazione. Tutti i personaggi che affollano i Dialoghi, non soltanto gli umanisti ma anche gli osti, i viandanti, i servi, dimostrano una straordinaria arguzia e un’inventiva linguistica che ha modo di esprimersi felicemente grazie alla varietà di situazioni e di ambientazioni escogitate dall’autore. Tale vivacità espressiva è il risultato di un’audace sintesi di modelli antichi: il dialogo filosofico di Platone e Cicerone, i dialoghi satirici di Luciano, la commedia plautina, che lascia tracce consistenti soprattutto nell’Asinus. Come accade nel caso dei testi letterari più riusciti dell’Umanesimo, l’imitazione dei classici, amorevolmente studiati ed assimilati, dà vita ad interpretazioni innovative e vitali dei generi antichi. Pontano, ad ogni modo, non trae ispirazione unicamente dai modelli classici – un canone, tra l’altro, in continuo aggiornamento come dimostra proprio il caso di Luciano, da poco “scoperto” dagli umanisti – ma tiene presente le diverse tipologie di dialogo realizzate nel corso del Quattrocento. Si tratta di una tradizione dialogica molto ricca dal quale prendere ispirazione. L’Umanesimo, infatti, per costituzione caratterizzato dal continuo scambio di idee e informazioni, trovò nel dialogo il genere ideale per rappresentare la dimensione orale, performativa, in divenire, degli studia humanitatis. I dialoghi danno conto dello scambio di idee, ma anche della sfida e della schermaglia intellettuale; delle pratiche sociali e delle forme della discussione. Secondo una consuetudine che si inaugura

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con i Dialogi ad Petrum Paulum Histrum di Lenardo Bruni, i personaggi presenti nei dialoghi e i lettori degli stessi tendono idealmente a coincidere, anche se, naturalmente, la diffusione manoscritta, prima, e la stampa, poi, possono allargare considerevolmente tale pubblico. Pontano non fa eccezione: il Charon mette in scena, sia pure ricorrendo ad un travestimento infernale, l’otium degli umanisti riuniti intorno alla corte aragonese; l’Antonius costituisce una raffinata rielaborazione letteraria di una seduta dell’accademia napoletana a pochi mesi dalla morte del Panormita; nell’Asinus i sodali assistono esterrefatti al comportamento di un Pontano invaghitosi di un asino; nell’Actius e nell’Aegidius, infine, si rappresentano le discussioni di un’accademia napoletana sopravvissuta alla fine degli Aragonesi. Tra i personaggi dei cinque dialoghi figurano così i principali animatori della cultura aragonese del tempo: Iacopo Sannazaro, il Cariteo, Egidio da Viterbo, Gabriele Altilio, Errico Puderico, Juan Pardo, oltre allo stesso Pontano. Alla rappresentazione delle pratiche intellettuali degli umanisti, però, i dialoghi di Pontano affiancano una forte carica satirica che li accomuna a quelli di Poggio Bracciolini e di Leon Battista Alberti.10 Pontano prende di mira i vizi del suo secolo, e del Regno di Napoli in particolare, ma, salvo pochissime eccezioni, non fa nomi e, anzi, teorizza una sorta di onesta dissimulazione. Le allusioni all’attualità sono numerose (le guerre tra il regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, la congiura dei Baroni, la simonia del clero, la superstizione della plebe napoletana, il pericolo turco) ma nella maggior parte dei casi accuratamente rifuse nella materia dialogica, sino a risultare quasi impercettibili. Sfuggente, d’altronde, è la struttura stessa dei dialoghi, caratterizzata 10

È molto improbabile che Pontano abbia avuto modo di leggere le Intercenales, la cui fortuna manoscritta non è attestata fuori da Firenze, mentre alcune tracce del Momus, il romanzo lucianeo di Alberti, sono rintracciabili nel Charon, si vd. il commento a Char. § 25.

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in alcuni casi da una libera alternanza delle ambientazioni, in altri dalla presenza di intermezzi di vario tipo e da una peculiare commistione tra prosa e poesia che rielabora il modello dell’antica satira menippea.11

3. La presente edizione I Dialoghi di Pontano, come tutti i capolavori dell’Umanesimo italiano, andarono incontro a partire dalla seconda metà del XVI secolo ad un progressivo oblio. L’affermazione della nuova cultura in volgare, infatti, comportò la scomparsa delle grandi opere degli umanisti dal mercato editoriale. Le date delle edizioni pontaniane risultano a tale riguardo significative: in Italia i Dialoghi, così come i trattati delle virtù sociali e il De sermone, vennero pubblicati sette volte nelle pagine degli Opera omnia di Pontano tra il 1501 e il 1520. Siamo, non a caso, a ridosso dell’affermazione del classicismo volgare, prima delle Prose della volgar lingua di Bembo (1525), del Cortigiano di Baldassar Castiglione (1528), dei Sonetti e canzoni di Iacopo Sannazaro (1530) e delle Rime di Bembo (1530). Gli Opera omnia pontaniani tornarono ad essere stampati venti anni più tardi nelle tipografie basileesi nel 1548 e nel 1556, a sancire l’avvenuto passaggio della cultura umanistica in latino dall’Italia ai paesi del Nord Europa, una translatio studiorum della quale si era reso protagonista Erasmo da Rotterdam. Conclusa anche questa stagione, i Dialoghi non vennero più ristampati, né in Italia né in Europa, 11 Sparse notizie in merito alle caratteristiche della satira menippea si leggono in Cicerone (Ac. 1, 2, 8) Aulo Gellio (Gell. 1, 17, 4 e 12, 31, 1), Quintiliano (Inst. 10, 1, 95) e Macrobio (Sat. 2, 8 2) a proposito delle perdute satire di Varrone. Si tratta di informazioni incomplete sufficienti, tuttavia, a chiarire l’esistenza nell’antichità di una forma dialogica, di carattere satirico, caratterizzata dall’alternanza di prosa e versi.

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sino al 1874, quando il Charon apparve in appendice alla monografia erudita di Carlo Maria Tallarigo. Dopo alcune traduzioni di primo Novecento e l’edizione del testo latino curata da Carmelo Previtera nel 1943, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso si sono succeduti decisivi studi di carattere filologico e storico che hanno messo pienamente in luce la straordinaria qualità letteraria della produzione dialogica pontaniana.12 I Dialoghi, dunque, rappresentano un classico che è stato dimenticato molto a lungo dalla nostra cultura. D’altronde soltanto in tempi relativamente recenti si sta giungendo ad ampliare il canone dei capolavori del nostro Umanesimo. Tale ricostruzione non è opera unicamente di studiosi italiani ed interessa una platea internazionale come testimoniano, per fare un solo esempio, due collane come «The I Tatti Renaissance Library» dell’Harvard University Press e i «Classiques de l’humanisme» dell’editore Belles Lettres (entrambe le sedi editoriali, per inciso, ospitano opere di Pontano). Dei Dialoghi presento con questa edizione un’ampia scelta: il Charon, l’Antonius e l’Asinus, corredati di una nuova traduzione, di un commento e di una Cronologia. La scelta dei dialoghi si è basata su un criterio duplice: la necessità di non superare le dimensioni di un volume e l’opportunità di offrire al lettore dei testi che, nonostante la presenza di digressioni erudite e grammaticali, risultassero nel complesso leggibili anche da parte dei non specialisti. Nel Charon le digressioni grammaticali occupano poco più di una pagina (Char. § 50); nell’Asinus l’illustrazione delle tecniche 12 Mi riferisco ai contributi sulla cronologia di composizione e sulla fortuna manoscritta dei dialoghi di Salvatore Monti, Francesco Tateo, Liliana Monti Sabia, Guido Martellotti, agli studi di Francesco Tateo sulla carica etica dell’umorismo pontaniano, alle ricerche di Giacomo Ferraù sull’Antonius e ai contributi dedicati all’Asinus da Mauro De Nichilo ed Eric Haywood; gli studi in questione sono elencati nella Bibliografia ragionata.

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dell’innesto da parte di Pontano si estende per uno spazio di poco maggiore (Asin. §§ 14-16); nell’Antonius le pagine dedicate a questioni lessicali, filosofiche e grammaticali sono molto più numerose, tuttavia l’equilibrio complessivo non ne risente. Diverso il caso di due dialoghi, pure straordinari, come l’Actius e l’Aegidius. Il primo, dedicato alle leggi della poesia e della composizione storica, è intessuto di fitte notazioni di carattere metrico che non soltanto mettono alla prova i lettori meno versati nella materia, ma presentano per il traduttore notevoli problemi di resa; il secondo, pur essendo ricco di pagine suggestive, è incentrato su una serie di discussioni teologiche che richiederebbero uno studio preliminare sulla cultura religiosa di Pontano e sui suoi rapporti con Egidio da Viterbo ed un commento di carattere strettamente specialistico. Tale selezione corrisponde grosso modo ad una distinzione che è possibile tracciare all’interno del corpus pontaniano tra i dialoghi “faceti” di stampo “lucianeo” (Charon, Antonius, Asinus), e quelli “dottrinali” di stampo “ciceroniano” (l’Actius e l’Aegidius), caratterizzati da una discussione ampia e tecnicamente agguerrita su temi specifici.

4. Charon Come nel caso degli altri dialoghi di Pontano, non conosciamo con esattezza la data di composizione del Charon. L’opera, infatti, venne pubblicata molto tardi, alcuni decenni dopo la prima stesura, mentre l’esigua tradizione manoscritta e i documenti noti non presentano elementi utili per la datazione. I dati interni al dialogo attentamente analizzati da Salvatore Monti, tuttavia, permettono di datare la composizione intorno al 1470.13 A quest’altezza 13

Per una discussione in merito alla datazione dei singoli dialoghi rimando alla Nota al testo.

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cronologica Pontano si era pienamente affermato nella corte e tra i dotti del Regno e si accingeva a subentrare al Panormita come animatore dell’Accademia napoletana. Insignito del titolo di Consigliere del re nel 1462, in virtù dell’attività diplomatico-politica svolta durante la Guerra dei Baroni, nel 1467 Pontano aveva sostituito il Panormita, ormai anziano, nel ruolo di precettore dell’erede al trono Alfonso d’Aragona. Per sancire il prestigioso incarico aveva composto la sua prima opera in prosa: il De principe, lettera-trattato sul principe ideale indirizzata al suo allievo. Nel periodo compreso tra il 1467 e il 1470, inoltre, Pontano, con l’intento di rafforzare la sua immagine di uomo politico e di letterato, diffuse in forma manoscritta altri due trattati: il De obedientia, sulle virtù del perfetto feudatario, strategicamente dedicato a Roberto di Sanseverino, il più potente barone del Regno, e il De aspiratione, di argomento grammaticale. Il Charon, a differenza delle opere sin qui menzionate, è rivolto ai sodali dell’Accademia. I pacati colloqui tra Minosse, Eaco, Mercurio e Caronte durante una pausa dagli impegni connessi con l’amministrazione della giustizia oltremondana, infatti, rappresentano una trasposizione delle riunioni dell’Accademia svolte durante l’otium degli umanisti napoletani, tutti in diversa misura implicati nell’amministrazione dello stato. Difficile, ad ogni modo, nel vuoto di testimonianze in merito, stabilire in quale misura nel Charon tale travestimento obbedisca ad un vero e proprio codice allusivo al quale avrebbero avuto accesso i sodali dell’accademia. Lo stato attuale delle nostre conoscenze, infatti, non permette di ricondurre ogni singola maschera ad un membro dell’Accademia napoletana,14 tanto più 14

Per fare solo un esempio, lo studio della filosofia intrapreso da Caronte in età avanzata potrebbe nascondere un riferimento a Tristano Caracciolo, che si dedicò agli studia humanitatis sotto la guida di Pontano intorno ai trentacinque anni, cfr. Santoro, Tristano Caracciolo; Hausmann, Tristano Caracciolo; Bentley, Politica e cultura: 284-292.

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che è possibile immaginare che l’invito a rispecchiarsi nei diversi personaggi non presupponesse necessariamente una serie di meccaniche corrispondenze. Pontano lascia trasparire nel dialogo che la discussione tra i personaggi infernali obbedisce a dei limiti ben precisi imposti dall’opportunità “politica”. Quando il discorso si sposta sulle colpe dei regnanti contemporanei, infatti, Mercurio elude le domande di Minosse ed Eaco, ansiosi di conoscere nomi e circostanze: «Ritengo che in questo momento sia opportuno tralasciare tale argomento; infatti non è abbastanza sicuro parlarne di là, presso i mortali, e non credo che qui, presso di voi, sia del tutto necessario; vi basti sapere che alcuni re trattano indegnamente i popoli che governano; altri re, invece, sono trattati indegnamente dai loro popoli» (Char. § 35). L’invito di Mercurio a tralasciare l’argomento esplicitamente politico rappresenta un ammiccamento al lettore che vive, come l’autore, «presso i mortali», laddove non si può discutere liberamente intorno alla questione. Tale implicita esortazione alla prudenza, che sarà ripetuta nell’Antonius,15 lascia intendere che, in forma sia pure di giocoso travestimento, le discussioni tra i personaggi del dialogo conservano un rapporto con quelle tenute nell’Accademia napoletana. Il Charon mette in scena le discussioni tenute negli inferi dai giudici infernali Minosse ed Eaco, Caronte, il traghettatore delle anime, e Mercurio. Tra mille divagazioni e spunti appena accennati, il dialogo affronta sostanzialmente due grandi questioni: l’intemperanza e la follia degli uomini in diversi campi, dalla politica alla filosofia, e la superstizione, sorta di morbo del quale «non c’è niente di più nefasto» (Char. § 38). Nel testo si alternano scene 15 «Ma dal momento che queste cose si possono piuttosto denunciare che correggere e dato che farlo non è sicuro, smettiamo di parlare dei costumi del popolo» (Ant. § 6).

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dedicate alla discussione filosofica, di stampo ciceroniano (I, II, III, V, VII, VIII, X), e azioni di carattere comico, ispirate a Luciano di Samosata (IV, VI, IX, XI). Il dialogo si apre con Minosse ed Eaco che trascorrono il tempo libero concesso da una misteriosa sospensione nell’arrivo delle anime discutendo in merito alle «azioni degli uomini» che interessano loro professionalmente. I giudici conducono le loro argomentazioni per mezzo di exempla, come due umanisti intenti a seguire un andamento del discorso in apparenza spontaneo ma in realtà accuratamente codificato; Caronte e Mercurio, invece, nello svolgere i rispettivi ruoli infernali hanno modo di imbattersi nelle anime dei defunti, dando vita a dialoghi comici e surreali. Se in alcune scene i due giudici vengono raggiunti ora da Caronte ora da Mercurio, gli interlocutori del dialogo si radunano tutti nel locus amoenus soltanto nella scena ottava che rappresenta il centro strutturale e ideologico del dialogo. In quell’occasione i giudici infernali, Mercurio e Caronte discutono intorno alla superstizione, la forma di follia più grave tra quelle che colpiscono i mortali. La conclusione del dialogo, invece, è affidata al solo Caronte il quale, dopo aver abbandonato i giudici alle loro discussioni, incontra un ampio campionario di anime, fornendo a Pontano l’occasione per scambi di facezie e felici spunti narrativi. L’ultima parola, però, spetta alle anime dei defunti le quali, divise tra dannati e innocenti, intonano un canto che esprime la loro condizione ultraterrena.16 La struttura del Charon, come risulta anche da questa sommaria esposizione, è estremamente complessa. Ad una prima lettura si potrebbe pensare di trovarsi di fronte ad un testo disgregato, privo di un nucleo centrale, come 16 Secondo la concezione antica degli Inferi le anime si dividono tra quelle che vengono punite per i loro misfatti e quelle che, invece, vengono riconosciute innocenti. Non esiste, secondo tale geografia ultraterrena, il corrispettivo del Paradiso.

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se le diverse scene fossero giustapposte e cucite insieme ricorrendo ad un’unica ambientazione e alla presenza dei medesimi personaggi. Tuttavia la coesione del testo è garantita dalla presenza di temi che si alternano richiamandosi a distanza, tessendo una fitta trama di isotopie che innervano le diverse scene. Come scrive Francesco Tateo, il Charon è «costruito senza l’idea di esserlo, ed ama più collegare a distanza, attraverso allusioni e richiami, le idee, che collegarle in un contesto logicamente costruito».17 Al centro di questa costruzione si trova un intento satirico: tanto le pacate argomentazioni dei giudici infernali quanto i continui scontri tra Caronte e le anime dei defunti, infatti, convergono verso una critica ad ampio raggio nei confronti dell’età contemporanea. Si tratta di una disamina volutamente asistematica e disorganica, com’è proprio della tradizione dei moralisti italiani sulla quale di recente ha posto l’attenzione Amedeo Quondam. Nel dialogo, infatti, Pontano procede in modo non diverso da quello adottato in trattati come il De immanitate o il De fortuna; attraverso il punto di vista straniante dei personaggi oltremondani, l’umanista «rivela una congerie multiforme e caotica di atti e di parole, di velleità e di miserie», descrivendo «in frammenti destrutturati, le tante anomalie, i tanti disordini, le tante follie, piccole e grandi»18 che caratterizzano la vita degli uomini. Testo di straordinaria complessità strutturale, il Charon è costruito con notevole maestria ricorrendo ad una sapiente arte dell’intarsio. Oltre alle fonti classiche e a Luciano, nel testo si incontrano riprese da autori in volgare come Dante, sfruttato per dare consistenza alla descrizione degli Inferi,19 e Masuc17

Tateo, Nuova sapienza: 197. Quondam, Forma del vivere: 251. 19 Geri, Lettura: 236-241. La Commedia, d’altronde, aveva incontrato nella Napoli aragonese un notevole successo, come dimostrano non soltanto i codici appartenuti ad Alfonso e a Ferrante, ma anche gli echi danteschi presenti nella produzione vol18

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cio Salernitano, una novella del quale è riscritta nel testo sotto forma di un accorato racconto messo in bocca ad una fanciulla ingannata da un prete.20 Tali presenze sono particolarmente significative se si tiene conto del fatto che, com’è noto, i gusti e la politica culturale di Ferrante sono caratterizzati da una notevole attenzione nei confronti del volgare. La struttura del Charon, ibrida e complessa, frutto di una tensione verso il «rinnovamento formale»21 che caratterizza tutta l’opera di Pontano (basti pensare alla sua multiforme produzione lirica e all’ampiezza della sua trattatistica), è per molti aspetti un unicum nella storia del dialogo. Altrettanto fuori dal comune è la cura prestata alla resa dell’ambientazione e dei personaggi. Se nella maggior parte dei dialoghi quattrocenteschi, in accordo col modello platonico e ciceroniano, l’ambientazione e i personaggi sono descritti con pochi tocchi e le azioni degli interlocutori presentano uno scarso rilievo, nel Charon si assiste ad un’attenzione notevole nei confronti della diegesi. Pontano cura i dettagli dell’ambientazione, costituita dagli elementi fondamentali della geografia infernale così come viene descritta da Virgilio e da Luciano (l’entrata degli Inferi, il fiume infernale, la barca di Caronte, i Campi Elisi), e, allo stesso tempo, è attento alla caratterizzazione degli interlocutori. Particolarmente riuscito è il personaggio di Caronte, instancabile e rigido nocchiero e, al contempo, filosofo dilettante, alla ricerca di un significato nelle azioni degli uomini. Proprio perché prigioniero in eterno del suo compito faticoso, far attraversare alle gare coeva come il Giardeno di Marino Gionata, composto tra il 1455 e il 1465, il Rosarium di Fra Domenico, pubblicato a Napoli nel 1477, e le Sei etate della vita humana di Pier Jacopo De Jennaro (inedito sino al XIX secolo). 20 Char. §§ 56-57. 21 Tateo, Nuova sapienza: 189.

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anime il fiume infernale, Caronte con le sue battute dimostra di conoscere soltanto in parte la vita degli uomini. Per questo è sempre pronto a meravigliarsi dell’umana follia e, allo stesso tempo, è in grado di giudicare con distacco e solido buon senso il comportamento delle anime e le dottrine dei filosofi. Nei confronti delle anime dannate mostra più spesso rabbia e sdegno che compassione, tant’è che, a differenza di quanto accade ai due giudici infernali e a Mercurio, sempre imperturbabili e urbani, Caronte si lascia andare di quando in quando a scambi di invettive con alcuni defunti particolarmente impertinenti. Il continuo stupore di Caronte di fronte al comportamento colpevole degli uomini e al disordine del mondo è funzionale ad accentuare la stridente contraddizione tra la vita degli uomini e la saggezza dei giudici infernali. Pontano, infatti, immagina che gli Inferi siano organizzati come in una sorta di polis ideale (rovesciamento dell’immagine tetra della Città di Dite di staziana e dantesca memoria). D’altronde Caronte, i giudici infernali e Mercurio, dio della saggezza, condividono una sorta di abnegazione professionale e un innato senso della giustizia. I giudici infernali non sono raffigurati come demoni ma come le anime di uomini giusti, sulla scorta di quanto Platone racconta nel Gorgia (523-524a). Si tratta di un recupero del senso originario del mito diametralmente opposto alla raffigurazione di Minosse con tratti maestosamente demoniaci presente nell’Inferno di Dante. Nel Charon Minosse ed Eaco sono rispettosi nei confronti di Dio, accennano alla divinità di Cristo e mostrano di comprendere almeno in parte, traducendolo in termini pagani, il messaggio cristiano. Allorché si trovano di fronte ai dogmi della religione, tuttavia, scelgono una rispettosa sospensione del giudizio. L’ambito che spetta loro, in quanto ministri infernali, è quello della sapientia, raggiungibile con i mezzi della filosofia pagana (Charon §§ 5-6). Tale competenza è sufficiente, ad ogni modo, per condannare senza appello le

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colpe dei cristiani, compresi i sacerdoti, indegni rappresentanti della divinità. Una volta caratterizzati i demoni come uomini giusti, Pontano riscrive di conseguenza l’episodio della discesa di Cristo agli Inferi. Se la tradizione rappresenta tale episodio come un incedere trionfale, al quale i diavoli non riescono ad opporsi, Pontano, invece, prendendo spunto dagli episodi evangelici nei quali i demoni scacciati da Cristo ne riconoscono la maestà,22 immagina che gli abitanti degli Inferi venerino istintivamente il figlio di Dio. In questo modo si giunge ad una sorta di contaminazione tra il tema iconografico della discesa agli Inferi e quello del compianto sul corpo di Cristo: «Abbiamo toccato con mano le ferite al costato e ai piedi» rievoca Minosse «credendo a stento che gli uomini si fossero macchiati di un crimine così grande» (Char. § 17). Si tratta di una riscrittura ispirata, più che ad un gusto per il blasfemo, ad un amore per il paradosso. L’intento, infatti, è quello di mettere in evidenza la ferocia degli uomini (in latino immanitas, categoria alla quale Pontano dedicherà il suo ultimo trattato, il De immanitate). La condanna è espressa per mezzo della categorie aristoteliche, che sono proprie dei giudici infernali: i mortali permettendo che il proprio animo sia governato dagli appetiti e dai desideri del corpo si sono macchiati di delitti nei confronti degli uomini giusti come Pitagora, Socrate e Cristo (Char. § 9). Il comportamento dei contemporanei è giudicato con severità dalla voce della saggezza antica. Le allusioni alla dottrina evangelica sono funzionali a rendere più tagliente tale condanna, come nel caso dell’episodio dell’adultera che Mercurio evoca nel rivolgersi ai giudici infernali: «quando voi regnavate i mariti ripudiavano le adultere, oggi le uccidono con le lame» (Char. § 31).23 Un’umanità che ha 22 23

Luca 4, 33-36; Luca 8, 28. Cfr. Giovanni 8, 1-11. Si noti che tale episodio mette in

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dimenticato la misericordia corre il rischio di non meritare il perdono di Dio che pure «ama il genere umano» (Char. § 1). Ad apertura del dialogo, infatti, i giudici infernali evocano l’imminente scatenarsi di una punizione divina, annunciata da una serie di portenti, come l’eclisse solare e i terremoti. Tale contrasto, amaramente satirico, tra la lucidità dei giudici infernali e la cecità dei cristiani è tanto più forte se si considerano le allusioni al contesto storico: l’Italia è in procinto di essere travolta da una guerra causata proprio dal Vicario di Cristo mentre la Grecia, culla dell’antica civiltà, è preda del Turco. Nel Charon, dunque, Pontano dimostra come sia possibile sfruttare gli spunti forniti dai Dialoghi dei morti di Luciano per dare vita ad una tagliente critica nei confronti del mondo contemporaneo. Tale lezione venne fatta propria da Erasmo. L’umanista olandese, infatti, nel 1523 pubblicò un breve dialogo intitolato Charon con il quale intendeva difendere i suoi scritti dedicati ad invocare la pace tra l’imperatore Carlo V e il re di Francia Francesco I per poi inserirlo, sei anni più tardi, in una nuova edizione dei Colloquia.24 Il Charon è un dialogo breve, ambientato sulla discussione una concezione di onore e di vendetta diffuso tra tutte le classi sociali. Si tratta di un caso nel quale il punto di vista dei giudici infernali (e della dottrina cristiana) è lontano dal senso comune. Probabile, inoltre, che tale passo contenga un’allusione alla facilità con la quale nella città di Napoli il popolo ricorreva al coltello per dirimere liti e questioni di onore, come lamentato nell’Antonius, cfr. Ant. § 9. 24 Erasmo ebbe modo di entrare in contatto con l’opera di Pontano durante il suo soggiorno a Venezia presso Aldo Manuzio (editore delle opere pontaniane) nel biennio 1507-1508. Per quanto riguarda i contatti tra i Dialoghi e i Colloquia, Marsh ha mostrato le riprese strutturali dell’Aegidius presenti nel Convivium religiosorum (Marsh, The Quattrocento Dialogue: 106-107), pubblicato per la prima volta nell’edizione dei Colloquia del luglio-agosto 1522; all’influsso dell’Actius e dell’Aegidius possono essere ricondotti anche il Convivium poeticum (agosto 1523) e i dialoghi di carattere grammaticale ed erudito come il Synodus grammaticorum (marzo

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riva dell’Acheronte che vede come interlocutori Caronte e Alastor, traslitterazione dal greco ἀλάστωρ, «demone vendicatore». Lo svolgimento, modellato sulla falsariga del quattordicesimo dei Dialoghi dei morti di Luciano, è lineare: il demone annuncia al nocchiero infernale che le guerre sorte tra i cristiani faranno giungere agli Inferi un numero esorbitante di vittime; Caronte, da parte sua, riferisce al demone di aver bisogno di una nuova imbarcazione, dal momento che la sua ha fatto naufragio a causa dell’afflusso straordinario di anime morte durante le guerre che si combattono in Europa. Dopo questo scambio di battute i due personaggi si separano. Erasmo, nell’ideare una riproposizione in chiave politica dei Dialoghi dei morti, tiene presente i brani nei quali Pontano fa uso della satira lucianea per colpire da una parte l’ipocrisia di un clero assetato di guerra (Char. § 45), dall’altra l’inerzia morale dei cristiani, incapaci di porre un freno alle lotte intestine e di unirsi per contrastare il pericolo turco (Char. §§ 46-48). Nel Charon, inoltre, Mercurio difende Pontano dalle critiche dei grammatici (Char. § 53); tale inserimento del nome dell’autore nel dialogo è molto probabilmente all’origine del riferimento a se stesso che Erasmo pone al centro del suo testo, allorquando Caronte esprime la sua preoccupazione per l’opera di un tale che è intento ad «attaccare la guerra ed esortare alla pace colla sua penna».25 Gli spunti forniti da Pontano sono dunque decisivi nel riproporre in 1529) e Amicitia (settembre 1531), senza contare che il registro seriocomico adottato nell’'Iχθυοφαγια (febbraio 1526) risente molto probabilmente della lezione dell’Antonius e dell’Asinus; per i rapporti tra Erasmo e l’umanesimo italiano mi limito in questa sede a rimandare a: de Nolhac, Érasme en Italie; Renaudet, Érasme et l’Italie; R.H. Bainton, Erasmo e l’Italia; Kristeller, Erasmus from an Italian Perspective; d’Ascia, Erasmo e l’Umanesimo romano; Bejczy, Erasmus vs Italy; Monfasani, Erasmus and Ciceronianism; J. Ijsewijn, Erasmo, l’umanesimo italiano, Roma; Heesakkers, Erasmian Reactions to Italian Humanism. 25 Erasmo, Colloquia: 995.

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forma di “pamphlet” i Dialoghi dei morti lucianei. Proprio per questo risaltano con maggiore evidenza le differenze tra i due testi. Erasmo nella caratterizzazione dei personaggi mostra un approccio diametralmente opposto a quello di Pontano. Mentre l’umanista italiano, come abbiamo visto, trasforma i giudici infernali e persino Caronte in filosofi ed umanisti, la cui nobiltà d’animo contrappone alla decadenza dei tempi, Erasmo accentua rispetto al modello lucianeo la malvagità del traghettatore infernale, intento a rallegrarsi dell’opera delle Furie. Se la guerra che divide i cristiani scandalizza i pacati demoni pontaniani, il Caronte erasmiano teme che i libri di Erasmo favoriscano la pace. D’altronde il testo di Erasmo è caratterizzato da una raffigurazione profondamente cupa della storia contemporanea: quanto accade nell’Europa devastata dalle guerre è rappresentato come l’effetto dell’instancabile opera delle Furie. L’inferno, sembra affermare Erasmo, è stato con successo trasportato sulla terra. La foga polemica erasmiana, dunque, si contrappone alla critica dei costumi di Pontano, distaccata e misurata. Un testo composto come giocoso travestimento degli incontri accademici si muta con Erasmo in un infuocato “pamphlet” nel quale l’adozione del modello lucianeo, filtrato dal riuso che di tale modello aveva fatto Pontano, è funzionale a diffondere con chiarezza ed efficacia le idee ireniste. In questo modo Erasmo, forse involontariamente, traccia la strada per il riuso polemico di Luciano da parte dei protestanti nell’ambito delle controversie religiose del secolo, dal dialogo Mercurio y Carón di Valdés al Pasquillus extaticus di Celio Secondo Curione.

Gli argomenti discussi dai giudici infernali trovano un immediato riscontro ed un’icastica esemplificazione negli incontri tra Caronte e le anime dei defunti. È il caso, ad esempio, della scena dodicesima, nel corso della quale lo scambio di battute con una concubina di un alto prelato, con un frate, con un vescovo e con una fanciulla

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ingannata da un prete permettono a Carote di raccogliere testimonianze di prima mano in merito all’intemperanza dei membri del clero lamentata nella scena ottava da Mercurio (Char. § 37). Analogamente, la definizione dei peccatori come schiavi del corpo, esposta da Minosse nella seconda scena (Char. § 10), si attaglia alla perfezione alle aspre parole con le quali Caronte apostrofa, poco più avanti, un vescovo indegno: «Misero te, che devi trasportare una pancia così grande con dei piedi così deboli, ancora più misero perché l’animo ti era d’impaccio e ti facevi un idolo della pancia e del pene» (Char. § 55). Si tratta di pagine di un violento anticlericalismo che si nutre di suggestioni della tradizione novellistica, da Boccaccio a Masuccio Salernitano.26 Probabilmente Erasmo ha in mente brani come questo allorquando, nella lettera indirizzata nel maggio 1515 al teologo Maarten van Dorp per difendere l’Encomium Moriae dall’accusa di empietà, mette a confronto la sua ironia urbana con la violenta satira di Pontano27 La satira nei confronti degli uomini del clero, violenta e senza appello, si intreccia ad una discussione in merito alle credenze popolari. La critica nei confronti dei riti superstiziosi è particolarmente efficace in virtù dell’ottica straniante resa possibile dall’ambientazione infernale. Si 26

Sugli umori anticlericali della corte Aragonese in relazione alla novellistica del Guardati si veda: Nigro, Le braghe di San Griffone: 1-106. 27 «Quante cose empie, sozze e pestifere ha scritto Poggio? Eppure questo autore è tenuto in grembo come se fosse cristiano e tradotto in tutte le lingue. Con quante maldicenze e imprecazioni Pontano ha offeso gli uomini di chiesa? Eppure viene letto come autore spiritoso e divertente» (Erasmo, Opus epistolarum: 99, traduzione mia); cfr. inoltre il giudizio sull’opera di Pontano che si legge nel Ciceronianus: «Nelle poesie avrebbe meritato lode maggiore, se avesse scansato il fare osceno, da cui non si guarda neppure nei Dialoghi» (Erasmo, Ciceroniano: 277, traduzione di Angiolo Gambaro).

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legga, ad esempio, come Mercurio descrive a Caronte gli ex voto: «appendono alle edicole votive non solo piedi e mani fatte di cera o metallo ma anche le parti oscene del corpo, e quella parte che hanno pudore di mostrare ad un medico non si vergognano di collocarla vicino alle immagini degli dei» (Char. § 38). Mercurio di fronte ad un Caronte incredulo e scandalizzato passa in rassegna alcuni riti cari al popolo. Dapprima descrive i festeggiamenti in onore di San Martino di Tours, che inauguravano il Carnevale nelle terre germaniche per poi passare alla processione del busto di San Gennaro a Napoli. Tale critica potrebbe sembrare particolarmente coraggiosa da parte di Pontano. In realtà l’umanista si dimostra prudente dato che la sua critica coinvolge esclusivamente i riti connessi con la religiosità popolare. Pontano, infatti, si guarda bene dal menzionare i santi cari alla dinastia aragonese (San Vincenzo Ferrer, San Giorgio,28 San Michele arcangelo) e le cerimonie di Corte relative a quella che Giuliana Vitale ha definito la «religione del principe», caratterizzata da un «distacco dalle tradizioni locali più autenticamente popolari, come quella ianuariana».29 È interessante notare, inoltre, che la satira della superstizione non porta a caldeggiare una qualche riforma dei costumi. Infatti Pontano, riprendendo le argomentazioni ciceroniane, sostiene per bocca di Eaco la necessità di tenere distinta la religione del popolo dalla vera religione, che è preferibile sia nota soltanto a quanti governano lo stato dato che la superstizione appare «necessaria per governare i popoli» (Char. § 39). Pontano aveva espresso il medesimo concetto nel De principe, nascondendosi, in quel caso, dietro una sentenza attribuita ad Alessandro Magno il quale «era soli28 Pontano dedicherà due carmina alla statua di San Giorgio fatta erigere da Alfonso Duca di Calabria dopo la sua vittoria contro i Turchi ad Otranto: Laud. 10 e 11. 29 Vitale, Ritualità monarchica: 197.

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to lodare persino la superstizione, quasi che attraverso di essa i governanti si insinuassero nell’animo del popolo».30 Nel Charon l’esperienza politica di Pontano non traspare soltanto indirettamente come nel nesso tra superstizione e governo. È il caso di due argomenti di stretta attualità dibattuti tra i giudici infernali e Mercurio: la decadenza politica dell’Italia, travolta da guerre intestine e resa instabile dalla politica papale, e il pericolo turco che minaccia l’Europa intera. Minosse ed Eaco, per amore della patria greca, si preoccupano del destino dell’Italia, la terra che ha offerto asilo alle Muse elleniche (vale a dire ai dotti bizantini in fuga da Bisanzio e ai manoscritti greci). Grazie a questa arguta connessione, Pontano tiene insieme i due argomenti in una pagina di altissima oratoria politica. Per bocca dei suoi personaggi, infatti, l’umanista pronuncia una duplice profezia: Eaco rivolto a Minosse afferma che «tra molti secoli quella stessa Italia i cui odi intestini tu vedi di mal occhio [...] tornerà ad essere unita e recupererà la splendida maestà dell’impero» e, poi, di fronte alla prospettiva che i Turchi sbarchino sulle coste italiane, aggiunge che «se guardiamo agli eventi del passato l’Italia ha sempre dovuto preoccuparsi non delle minacce che venivano dall’Asia o dalla Grecia, ma di quelle che venivano mosse dai Francesi o dai Tedeschi» (Char. § 47). Le discussioni tra i giudici si alternano, come abbiamo detto, con scene di carattere comico nelle quali vengono passate in rassegna diverse categorie di uomini: usurai, 30 Princ. 7, traduzione di Guido Cappelli. Tali precetti erano ben chiari agli Aragonesi, come a tutti i regnanti del tempo. Basti pensare, per fare soltanto un esempio, che Ferrante, in una Istruzione dell’aprile 1487 indirizzata al nipote Ferrandino al momento di inviarlo come governatore in Puglia, lo invitava ad ascoltare la messa in pubblico ogni giorno, in quanto: «nulla cosa reconcilia tanto li animi delli sudditi verso el superiore quanto la opinione hanno li popoli che li signori siano buoni, timenti Dio et observatori delli precetti divini» (Instructionum liber: 105).

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papponi, osti, vescovi, frati, tiranni, filosofi antichi, teologi, grammatici, alchimisti. Interrogati dal nocchiero infernale le anime lasciano trapelare la loro follia e si mostrano, anche negli Inferi, prigioniere dei vizi che hanno caratterizzato la loro vita sulla terra. Tali scambi di battute sono in gran parte ispirati all’opera di Luciano di Samosata. Dall’episodio del tiranno, in lacrime negli Inferi dopo aver perduto tutti i suoi beni alla scena nel quale Mercurio marchia col fuoco le diverse tipologie di peccatori; dal coro delle anime intente a piangere durante la navigazione del fiume infernale sino allo scontro dialettico tra Caronte e l’anima toscana, le riscritture da Luciano nel Charon sono innumerevoli.31 Al di là della ripresa di singole invenzioni di carattere comico, Pontano si misura in particolar modo con una delle caratteristiche più appariscenti dei dialoghi lucianei, vale a dire la satira dei filosofi antichi. Nello scrittore di Samosata la critica rivolta ai filosofi, espressione di uno scetticismo radicale, si incentra in particolar modo sulla contrapposizione tra le dottrine e i costumi (esemplare il caso di Socrate),32 oppure sull’indegnità dei seguaci, intenti ad imitare l’aspetto esteriore dei maestri senza applicare i loro insegnamenti nella vita di tutti i giorni. Pontano sposta l’attenzione dall’indignazione nei confronti della vita dei filosofi alla derisione di alcuni aspetti delle loro dottrine. Ad esempio, nella quinta scena Caronte domanda a Mercurio per quale motivo i cittadini ateniesi non abbiano adottato le Leggi di Platone; la risposta di Mercurio evidenzia la natura immorale del comunismo platonico, per poi proseguire con un confronto tra Platone ed Aristotele: «Il suo allievo Aristotele [...] ha tolto a Platone molta della sua autorità. Infatti fu più arguto del maestro e non si allontanò 31

Cfr. Marsh, Lucian and the Latins: 129-143; Geri, A colloquio con Luciano di Samosata: 122-160. 32 DMort. 6, 4-6. Luciano immagina che Socrate si mostri impassibile durante il trapasso per poi «frignare come un neonato» una volta sceso negli Inferi.

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così tanto dalle pratiche civili» (Char. § 22). Se Mercurio con questa battuta taccia Platone di misantropia, Caronte, da parte sua, accusa Aristotele di non essere stato chiaro in merito al problema dell’immortalità dell’anima: «Forse quel giorno ero stanco – anzi lo ero certamente a causa del lavoro – e la mia mente era occupata in altre faccende; ma Aristotele mi è sembrato troppo oscuro e cauto quando su questa barca gli ho posto alcune domande. Sebbene mentre discuteva con me vivesse sciolto dalle catene del corpo, non rispondeva in modo definitivo in merito all’immortalità dell’anima! A tal punto dopo tanti secoli uno scrittore così arguto e sottile è difficile da comprendere» (Char. § 22). Lievità di tocco squisitamente lucianea, quella di Pontano. Tuttavia tali critiche, per quanto condotte con stralunata bizzarria, sono tutt’altro che infondate; le accuse di misantropia rivolte a Platone si basano sulle critica rivolte dall’umanista greco Giorgio di Trebisonda, maestro dello stesso Pontano, alle dottrine neoplatoniche professate da Gemisto Pletone,33 mentre l’ironia in merito alle esitazioni di Aristotele lascia trasparire un più complesso dibattito in merito all’interpretazione del corpus aristotelico. Mercurio, infatti, ribatte a Caronte affermando la necessità di leggere lo Stagirita nel testo originale, senza la mediazione delle traduzioni medievali, scorrette e confuse, e senza il castello dottrinale della Scolastica o le interpretazioni in senso materialista di Averroè (Char. § 23). Diverso il caso dei filosofi cinici. Pontano riprende la loro caratterizzazione direttamente da Luciano, con la mediazione di alcuni spunti forniti dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Particolarmente riuscito è il personaggio di Diogene, raffigurato come una sorta di uomo-pesce, intento a vivere sdegnosamente nel fiume infernale, lontano da tutti gli altri morti. Dialogando con Caronte il filosofo cinico vanta le sue imprese irriverenti e nel caso dell’episodio dei solda33

Cfr. Gaeta, Giorgio di Trebisonda.

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ti di Alessandro Magno, inventato da Pontano, tale irriverenza si tinge di una scurrilità ignota alle fonti (Char. § 43). I filosofi cinici, e Menippo in particolare, sono i portavoce di Luciano nei Dialoghi dei morti in virtù della loro ironia aggressiva e del disincanto col quale indagano le illusioni e i vizi degli uomini. La loro filosofia si esprime per mezzo del riso, dal momento che ridere rappresenta l’unica reazione possibile di fronte alla follia del mondo. Con sfacciataggine e, talora, violenza, Menippo e i suoi seguaci espongono agli uomini tutta la vanità delle loro esistenze, tanto sulla terra quanto negli Inferi. La loro risata risuona sarcastica come una sorta di memento mori. Pontano subisce il fascino di tale visione del mondo ma nel Charon il comportamento dei cinici non è presentato al lettore come un modello di vita filosofica alla quale aderire. Portavoce dell’autore, infatti, può essere considerato piuttosto l’anima toscana che Caronte incontra nell’ultima scena. Tale personaggio, pur esibendo inizialmente una scherzosa irriverenza, propone un modello di vita nel quale il riso menippeo è mitigato dal buon senso. La risata più che l’espressione di una pugnace diatriba è una forma di consolazione: La mia occupazione principale consisteva nel non provare mai dolore e non arrabbiarmi mai. Quando qualcuno prendeva moglie, ridevo; quando un tale seppelliva il figlio, ridevo; un altro ancora impazziva per amore ed io ridevo. Ridevo quando qualcuno vestiva con lusso eccessivo o costruiva con troppa magnificenza o comperava un podere troppo esteso. Ridevo insomma di ogni cosa. Soltanto una volta in tutta la mia vita, da quel che mi ricordo, piansi: fu quando, morta mia madre, fui costretto a pagare il terreno consacrato nel quale seppellirla; in quel caso ho pianto sulla miseria della condizione umana e mi sono lamentato della religione. Tuttavia dopo non molto soffocai questo dolore e tornai alla mia natura e presi a ridere di me stesso che non avevo riso anche di questo. (Char. § 58).

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«Sotto questa risata» commenta Caronte tra sé «si nasconde la saggezza.» Tale risata rappresenta una forma di protesta dissimulata e solitaria, che non intende essere aggressiva come quella dei cinici («era mio fermo proposito non essere molesto e non nuocere ad alcuno», Char. § 59). Pronto a dialogare urbanamente con tutti, quando la discussione si sposta sulla politica, l’anima toscana si congeda («se però mi faceva menzione della condizione dell’Italia o della nostra città, subito prendevo congedo», Char. § 59). Ancora una volta Pontano lascia trasparire la necessità di dissimulare le proprie posizioni più radicali. Allo stesso tempo è evidente che il sapiente ideale vagheggiato da Pontano unisce ad un riso di stampo menippeo una tensione verso il giusto mezzo aristotelico. Proprio su di un’esaltazione in termini aristotelici della virtù sarà incentrato il discorso conclusivo dell’opera, affidato ad un’anima umbra di cui ignoriamo il nome, discorso che ottiene la piena approvazione di Caronte (Char. §§ 64-65).

5. Antonius L’Antonius, dedicato, come suggerisce il titolo, alla memoria di Antonio Beccadelli, detto il Panormita,34 pur essendo composto intorno al 1483 è ambientato a pochi mesi dalla morte dello stesso fondatore dell’Accademia napoletana, tra il 1471 e il 1472. L’intento di Pontano è quello di omaggiare la figura del Beccadelli e, al contempo, mostrare come la sua eredità fosse degnamente portata avanti dai sodali. Il dialogo si apre con la rievocazione delle parole e dei comportamenti del Panormita a beneficio di un dotto siciliano, giunto a Napoli nella speranza di conoscere Antonio, e si evolve, con estrema naturalezza, in una rappresentazione della vita intellettuale dell’accademia. «Che cosa avrebbe 34

Sulla figura del Panormita si vd. Ant. § 1, nota 3.

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detto Antonio?» (Ant. § 8) è la domanda che gli accademici si pongono di continuo mentre affrontano diversi argomenti, dall’eccellenza stilistica di Virgilio e Cicerone alla decadenza morale del clero. Tale discussione avviene in uno spazio molto particolare, il Portico soprannominato Antoniano, corrispondente ad un angolo compreso tra la Chiesa del Purgatorio ad Arco e via dei Tribunali, strada fiancheggiata dai portici. In quel punto particolare della piazza si trovavano alcuni sedili in pietra, originariamente costruiti per ospitare le riunioni dei rappresentanti del seggio del Nilo,35 che gli accademici utilizzavano per le loro riunioni scherzosamente definite dal Panormita «il Senato» (Ant. § 4). Il Portico, dunque, si affacciava sulla strada, mettendo in contatto gli umanisti con quanti si trovavano a passare per quella che al tempo era una delle vie più trafficate di Napoli. Luogo deputato all’otium, il Portico, centro di aggregazione di «uomini dotti e nobili» (Ant. § 4) di varia provenienza, si distingueva, dal punto di vista funzionale, dallo spazio chiuso della corte, sede del negotium. Se durante il regno del Magnanimo l’«ora del libro» rappresentava un’occasione di sistematico scontro simbolico tra gli umanisti della corte, in competizione tra loro (esemplare, a riguardo, la feroce polemica tra Valla e Facio), durante il regno di Ferrante i dotti, per così dire, autoregolamentarono l’otium e diedero vita ad un’accademia riunita intorno alla figura carismatica del Panormita. Un’accademia aperta anche a membri della classe nobiliare distanti dal potere aragonese, come traspare nell’Antonius nel caso della significativa laudatio 35

Sin dal XIII secolo i seggi erano le suddivisioni amministrative della città di Napoli; ognuno dei cinque seggi eleggeva tra i nobili i proprio rappresentanti, mentre un sesto seggio era riservato ai membri del popolo. Si tenga presente del fatto che Pontano, dal 1461 sposato con una donna di famiglia nobile, nel gennaio del 1471, quindi a ridosso dell’ambientazione dell’Antonius, era stato insignito della cittadinanza napoletana conseguendo il diritto all’elettorato attivo e passivo nel seggio di residenza, quello del Nilo.

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temporis acti di Errico Puderico, intento a rimpiangere i tempi di Ladislao I, ultimo re angioino (Ant. § 6). Nel Portico Antoniano, sotto lo sguardo del Forestiero siciliano, il Compatre assume il ruolo svolto un tempo dal Panormita36 e comincia ad interrogare quanti passano per strada, innescando così una serie di incontri e discussioni che danno avvio al dialogo. Di fronte ai dotti riuniti nel Portico sfila allora un’umanità preda di diverse forme di follia, dal delirio amoroso di un vecchio alle assurde paure di un lettore di bestiari, dall’alterigia di giovinastri che pretendono di conoscere a menadito il greco agli sconcertanti racconti del servitore di un vescovo. Di fronte a tale spettacolo il Puderico racconta all’ospite siciliano come per le vie di Napoli, «la sola città libera, dal momento che soltanto in quella città ognuno fa quello che vuole» (Ant. § 16), si aggiri un mostro misterioso chiamato Euforbia.37 Si tratta di una curiosa rappresentazione allegorica della violenta follia che agita il regno: Silenzio: sta passando Euforbia. Alziamoci in piedi al suo passaggio e gettiamo una focaccia a Cerbero. Ecco, se ne va; tutto bene, siamo salvi. [...] Gli abitanti delle altre città sono scossi dal sonno e buttati giù dal letto cedendo al canto del gallo o al suono delle campane; gli strepiti che fa Euforbia, invece, non fanno prendere sonno al nostro vicinato, dopo che abbiamo trascorso giornate tutt’altro che serene. Grida, strepita, digrigna, dentituona, snitrisce, azzuffa, infuria; e poi lancia catini e padelle, stizzona e scandelabra: per esprimere il furore di questa belva c’è bisogno di nuove parole, e magari le parole potessero esprimerlo a pieno! Col bastone spezza le reni 36 « Ma basta così: ora dobbiamo recitare la parte di Antonio ed interrogare quanti passano per la via» (Ant. § 6). 37 Il nome è quello di un’erba maligna: vd. Antonius § 16, nota 29.

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ad alcune delle sue ancelle, con la spada ne ferisce altre; con le unghie ne acceca alcune, ad altre rompe le ossa con i pugni. Perché sprecare tante parole? Euforbia è la peste più pestilenziale di tutte le pesti! A quanto pare i Tedeschi erano soliti dire che è la figlia di Dite; io sono pronto a giurare che le tre Furie ed Erebo sono tutti progenie di Euforbia. (Ant.§ 16).

È interessante mettere a confronto questa pagina con la descrizione del corteo della Follia che apre l’Elogio della Follia di Erasmo: Costei di cui osservate le sopracciglia straordinariamente inarcate è Filautía [l’Amore di sé]. Quest’altra, che vedete ridere con gli occhi mentre applaude, è Colacía [l’Adulazione]. Quella che sonnecchia e sembra dormire ha nome Lete [l’Oblio], mentre quella appoggiata sui gomiti e con le mani incrociate si chiama Misoponía [la Pigrizia]. Ecco lì avvolta in una corolla di rose e tutta fracida di profumi Edoné [il Piacere]; e quella con le pupille mobili e vaganti qua e là si chiama Ánoia [la Spensieratezza]. Ha la pelle lucida e il corpo convenientemente pasciuto quella che ha nome Trufé [la Voluttà]. Potete vedere mescolati alle ragazze anche due dei: uno chiamano Como [la Baldoria], l’altro Negreto Ipno [il Sonno profondo]. Aiutata da questa fedele servitù io sottometto ogni cosa al mio dominio ed estendo il mio impero agli stessi imperatori.38

Non importa tanto stabilire se Erasmo avesse in mente la pagina dell’Antonius al momento di rappresentare il corteo della Follia, anche perché l’impostazione diversa della descrizione non permetterebbe di parlare di una vera

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Erasmo, Elogio della Follia: 31-32.

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e propria ripresa intertestuale;39 quello che mi interessa sottolineare sono piuttosto le differenze tra i due brani, entrambi brillanti e paradossali ed entrambi ispirati ai personaggi allegorici presenti negli opuscula lucianei. Nel caso di Erasmo siamo di fronte ad un’ironia cerebrale ed erudita: nel brano sono presenti allusioni ad opere peregrine per i lettori di primo Cinquecento, come la Teogonia di Esiodo, le Immagini di Filostrato, Le donne al parlamento di Aristofane, e nel testo originale i nomi delle divinità che scortano la Follia sono scritti in caratteri greci. Nella descrizione di Pontano, invece, l’attenzione è concentrata sul comportamento di Euforbia, la cui tracotante vitalità è espressa con una cascata di neologismi. La Follia erasmiana presenta se stessa, ammiccando ai dotti, ed esprimendo le sue caratteristiche per mezzo di un’allegoria celebrale e statica; l’Euforbia di Pontano appare misteriosamente sulla scena, terrorizzando gli abitanti di Napoli con il suo comportamento violento e rumoroso, in una sorta di commistione tra un Trionfo della Morte fiammingo e un corteo carnascialesco. Pontano, dopo aver ricostruito l’ambiente nel quale si tenevano le riunioni dell’Accademia, non inserisce tra gli interlocutori del dialogo se stesso. Il successore del Panormita non ricopre il ruolo appartenuto al maestro, una forma di esibita modestia che ha lo scopo di non togliere spazio alla rievocazione di Antonio. Non mancano, però, nel dialogo i riferimenti al ruolo svolto da Pontano nell’Accademia. Nell’ultima scena, infatti, gli accademici, seguiti dal Forestiero napoletano, abbandonano il portico, invaso da un cantore di piazza e dal suo rumoroso seguito, per continuare la discussione presso l’abitazione di Pontano (Ant. 39

Erasmo, ad ogni modo, avrebbe potuto leggere l’Antonius, insieme al Charon, nell’edizione veneziana degli Opera omnia (Bernardino Vercellese, Venezia, 1501) durante il suo soggiorno italiano (1506-1509), di ritorno dal quale, com’è noto, compose l’Encomium Moriae.

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§ 106). Tale spostamento simboleggia icasticamente il passaggio di consegne tra le due principali figure intellettuali di Napoli che è anche un avvicendarsi tra le generazioni (il Beccadelli, nato nel 1394, al servizio del Magnanimo prima ancora della conquista del Regno, era il più anziano tra gli umanisti della corte). Pontano, tuttavia, non rinuncia, con una certa civetteria, a rappresentare se stesso nell’Antonius, sia pure in modo indiretto e scherzoso. Nella scena sesta, infatti, il suo amato primogenito Lucio raggiunge i dotti riuniti nel Portico per informarli in merito alle condizioni del padre, che, costretto a casa con un ginocchio rotto, subisce gli improperi della moglie, furibonda per i suoi continui tradimenti. Ma la presenza di Pontano non si limita a questo autoritratto scherzoso. Tra gli innumerevoli personaggi del dialogo, infatti, se ne annovera uno che può essere considerato un alter ego dell’autore. Mi riferisco al suonatore di lira, indicato nel testo col nome allusivo di Lyricen,40 che nella scena settima delizia gli astanti con quattro componimenti poetici. Lo scambio di battute che segue tale esibizione può essere letto come una discussione cifrata in merito alla produzione lirica dello stesso Pontano. Il Puderico, infatti, afferma che l’arte squisita del suonatore di lira rappresenta un contributo fondamentale per la rinascita della musica (ovvero della poesia) nelle forme magnifiche ed eccellenti che sono proprie degli antichi (Ant. § 104). Il suonatore, da parte sua, si schernisce affermando di non aver potuto dedicare tutto il tempo che avrebbe voluto agli «studi intrapresi in gioventù» dal momento «è stato costretto a trascorrere la parte migliore della vita tra le fatiche della milizia» (Ant. § 104). Tale riferimento alla vita militare, oltre ad anticipare il frammento epico che chiude il dialogo, allude alle incombenze diplomatiche-politiche di Pontano che comportavano 40

Si tenga presente che Pontano è autore di una raccolta di carmina dal titolo Lyra.

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lunghi soggiorni presso gli accampamenti militari durante le spedizioni alle quali prendevano parte i sovrani. Le lamentele del musicista, tra l’altro, possono essere lette in parallelo con la prefazione del De aspiratione, a stampa proprio nel 1481, nella quale Pontano afferma di aver potuto ritagliare soltanto un tempo limitato ai suoi studi dal momento che «la sua vita è trascorsa tutta o in accampamenti militari o in viaggi, lontano non solo dai libri ma da tutte le persone di cultura».41

L’Antonius dal punto di vista strutturale risulta persino più complesso del Charon, pur presentando un’unica ambientazione, il Portico Antoniano. Per comodità di esposizione è possibile individuare nel dialogo cinque parti. Nella prima (scene I-III) il Compatre discute con il Forestiero siciliano in merito alla follia che tormenta la città, prendendo spunto dall’incontro con una serie di personaggi, tutti in diversa misura espressione di una decadenza morale del regno di Napoli. La critica del Compatre investe, nell’ordine, gli uomini del popolo, violenti e litigiosi; la credulità di un lettore di bestiari, terrorizzato dalla presenza di basilischi nelle città del regno; un vecchio rimbambito, innamorato di una fanciulla; il servitore di un vescovo che narra le poco edificanti vicende del suo padrone; alcuni giovani ignoranti che esibiscono una conoscenza del greco del tutto superficiale e molestano Pontano con risibili accuse. Questi ultimi personaggi sono assimilabili per molti aspetti ai grammaticuzzi valliani che, in mancanza di meriti propri, professano con alterigia le idee del maestro. E proprio da costoro nella seconda parte (scena IV) prendono le mosse Andrea Contrario ed Elisio Calenzio. I due, appena giunti nel Portico, cominciano a criticare con durezza i seguaci del Valla, sostenitori della superiorità di 41

Cito dalla traduzione che si legge in Germano, Il De Aspiratione: 292-293.

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Quintiliano nei confronti di Cicerone e di quella di Pindaro nei confronti di Virgilio. Al di là di alcuni spunti satirici relativi all’ottusa pertinacia dei grammatici, che saranno sviluppati nella scena seguente, gli accademici portano avanti una difesa piuttosto circostanziata dei due grandi scrittori a partire, in entrambi i casi, da un esempio concreto, volto a rovesciare le concezioni valliane.42 Il Contrario difende Cicerone dalle accuse di inesattezza nell’uso del lessico filosofico, retorico e giuridico, prendendo spunto da due definizioni del medesimo termine del lessico processuale («status»)43 che si leggono rispettivamente nel De inventione e nella Institutio oratoria. L’intento è quello di dimostrare che «la definizione di Cicerone è l’opera di un filosofo intento a definire un concetto, in modo immediatamente chiaro per chi legge; l’altra, invece, [quella di Quintiliano] sembra piuttosto l’opera di chi sta cercando di fare in modo che quanti leggono siano accecati piuttosto che illuminati» (Ant. § 36). Una volta demolita la pretesa superiorità filosofica di Quintiliano nei confronti di Cicerone, la parola passa ad Elisio Calenzio che, da parte sua, intende difendere Virgilio, «il re della poesia latina» (Ant. § 74). L’appassionata esposizione dell’eccellenza della poesia virgiliana si muove a partire da un paragone tra Virgilio e Pindaro di cui fanno menzione Gellio e Macrobio e che proprio Valla aveva riportato in auge. Tale confronto si basava sull’analisi di due brani paralleli presenti nell’opera dei due poeti: la descrizione dell’eruzione notturna dell’Etna nella Prima Pitica, e la descrizione dell’aspetto minaccioso dello stesso vulcano nel sesto libro dell’Eneide. Rovesciando il giudizio degli antichi, e dei seguaci di Valla, Calenzio dimostra, con foga retorica trascinante e dovizia di esempi, come la descrizione pindarica sia impre42 La polemica nei confronti deli scritti di Valla è ricostruita in Ferraù, Pontano critico. 43 Cfr. Ant. § 27 nota 48.

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cisa e poco perspicua, mentre quella virgiliana, tanto più efficace sul piano retorico, sia anche più accurata per quanto riguarda la descrizione del fenomeno naturale. A tanta dottrina segue la terza parte (scena V), di carattere comico, dedicata ai racconti picareschi del Suppazio, di ritorno a Napoli da un faticoso viaggio per l’Italia alla ricerca di un uomo sapiente. In questo lungo racconto, arricchito di digressioni narrative di straordinaria efficacia, si fondono insieme i temi della prima e della seconda parte: la satira dei costumi contemporanei e la critica nei confronti dei grammatici, che figurano tra i personaggi incontrati da Suppazio nel corso del suo viaggio. Nella quarta parte (scene VI-VII) la tensione satirica si stempera per mezzo di due digressioni: la scenetta dedicata alle disavventure domestiche di Pontano e l’incontro con il suonatore di lira che delizia gli astanti con quattro componimenti poetici. L’ultima parte (scene VIII-XI) è occupata interamente dall’elaborata messa in scena organizzata da un cantore di piazza e dal suo avvinazzato corteo. Tale spazio carnascialesco si estende per più di seicento versi, costituendo una lunghissima coda al dialogo. Pontano, infatti, riporta un ampio brano in esametri che narra un episodio della spedizione spagnola di Quinto Sertorio. Tra i personaggi le cui gesta vengono narrate dal cantore figurano, con un curioso gioco allusivo, proprio i principali membri dell’Accademia napoletana. Se poi volessimo considerare l’Antonius come un prosimetro, ne risulterebbe una divisione in due parti: una prima in prosa (le parole degli accademici, scene I-VI) ed una seconda in versi (le parole della plebe, scene VIII-XI), con una zona intermedia rappresentata dalla scena VII, dedicata alla poesia colta del suonatore di lira. Le due parti sono unite dal punto di vista tematico dalla presenza dei medesimi personaggi, dal momento che gli accademici napoletani figurano come interlocutori nella metà in prosa e come personaggi nel frammento epico recitato dal cantore di piazza.

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Se il Charon è caratterizzato dall’alternanza di differenti registri stilistici e di due tipologie di scene, “ciceroniana” e “lucianea”, l’Antonius può essere considerato una sorta di cornice che ingloba diversi generi letterari: la poesia lirica, la novella, la trattatistica grammaticale e retorica, il poema epico (il conclusivo Bellum Sertoriacum), il romanzo, persino, volendo considerare tale il racconto in prima persona di Suppazio. Da questo punto di vista si tratta del più ambizioso tra i Dialoghi. La molteplicità di interessi dell’Accademia si rispecchia nella molteplicità dei generi letterari incastonati nel testo, nella varietà di personaggi, situazioni, registri stilistici e nella stessa alternanza di prosa e di versi. In questo modo Pontano rende omaggio alla complessità dell’insegnamento del Panormita, poeta e filosofo, nei suoi valori esemplari: l’esigenza di discutere senza pedanteria ma con competenza in merito alle questioni più complesse, stemperando le fatiche dell’erudizione con salaci motti; la disposizione a dialogare more socratico con gli interlocutori più diversi; il ricorso all’autoironia; la passione per una poesia erotica raffinata, ricalcata sugli autori classici. Lo spirito del Panormita, dunque, informa il dialogo. Come accade nelle discussioni condotte dall’umanista palermitano, novello Socrate, l’Antonius presenta un continuo alternarsi di facezie e considerazioni morali, racconti comici e lampi di erudizione, il tutto senza un apparente ordine, così che chi legge viene trascinato nel gorgo, preda di continuo stupore, come gli interlocutori del Panormita, piacevolmente sopraffatti dal suo geniale modo di condurre la discussione: compatre Sei alla ricerca di Antonio, forestiero, o di quel

portico che da lui prende il nome di antoniano? forestiero Desidero fare esperienza del portico e vedere Antonio: so che in quel luogo, durante le ore pomeridiane, si tiene una riunione di letterati e che Antonio, seb-

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bene dica molte cose, è solito piuttosto interrogare che insegnare; non approva quello che si dice ma, secondo lo stile socratico, si prende gioco di quelli che discutono; tuttavia gli ascoltatori li rimanda a casa colmi di una sorta di piacere per le cose che si sono dette piuttosto che con delle certezze riguardo agli argomenti che si sono discussi (Ant. § 1).

Nonostante l’inserzione continua di divagazioni, il dialogo presenta un nucleo argomentativo duplice: da una parte la polemica nei confronti dei grammatici, incapaci di intendere o apprezzare la poesia virgiliana e la prosa ciceroniana; dall’altra, ancora una volta, una critica alla corruzione della società contemporanea. La polemica contro i grammatici, pur nutrendosi di echi di una topica umanistica che risale a Petrarca, è rivolta contro un bersaglio ben preciso: i seguaci napoletani di Lorenzo Valla, i quali, muniti di epitomi delle Elegantiae, applicano a sproposito la lezione del maestro. I recenti studi di Marco Santoro sulla fortuna editoriale dei compendi delle Elegantiae nella Napoli aragonese dimostrano come l’interesse per gli studi grammaticali e lessicali fosse ampiamente diffuso,44 circostanza che spiega il fastidio di Pontano nei confronti di quanti, armati di lessici e compendi, valutavano la produzione letteraria degli umanisti. Tra tali seguaci è possibile annoverare non solo professionisti che insegnavano nei ludi litterari e nelle università ma anche membri della corte, come Giacomo Curlo e Giovan Marco Cinico, autori di epitomi e dizionari redatti su istanza di Ferrante. Con una certa sprezzatura, Pontano non confuta direttamente i grammatici del tempo ma i loro predecessori antichi, vale a dire Gellio e Macrobio, i quali riportano nelle rispettive opere numerose critiche rivolte all’opera di Virgilio. La satira della società contemporanea, invece, prende avvio dall’osservazione degli abi44

Santoro, Gli studi grammaticali: 31-51.

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tanti di Napoli. Ogni incontro è l’occasione per una serie di commenti sarcastici da parte di Errico Puderico, disincantato nobiluomo, sempre pronto a rievocare le battute del Panormita e a vagheggiare i tempi della sua giovinezza, durante l’ultima fase del regno degli Angioini. Errico critica con eguale vigore tanto il popolo, corrotto dai Catalani, schiavo di ridicole superstizioni e dedito all’uso del coltello (Ant. § 6), quanto i nobili, che non gareggiano più nella virtù ma «corrono dietro alle puttane, siedono nelle bettole con i dadi e il bussolotto tra le mani» (Ant. § 12). Una volta constatato amaramente che «ogni cosa è in vendita: la giustizia, le cose sacre, la gloria» (Ant. § 12), Errico si sdegna con particolare violenza nei confronti del clero napoletano, indegno e simoniaco: «Oh tempi! Oh costumi! Ci fu un tempo, ci fu un tempo, quando l’innocenza era stimata e la povertà era apprezzata, quando i sacerdoti praticavano la castità e la continenza. Ma ora, che vergogna!, il sacerdozio non è forse peggiore della più sozza delle cloache?» (Ant. § 14). Tale apostrofe – si noti la raffinata allusione dantesca –45 rappresenta la più violenta invettiva contro il clero che è dato leggere nelle pagine dei Dialoghi. Dopo la lunga discussione in merito a Virgilio e Cicerone di cui si è detto, la critica alla società contemporanea si estende all’Italia nel suo complesso. Suppazio, infatti, nel narrare il suo viaggio alla ricerca di un uomo sapiente, impresa impossibile in un mondo che è dominato dalla follia al pari di Napoli, passa in rassegna numerose città italiane (Bologna, Prato, Lucca, Pisa, Siena, Firenze, Genova, Venezia, Roma), evidenziando in ciascuno di essi l’assenza di «saggezza» (Ant. §§ 78-79). Sebbene non manchino alcune allusioni di carattere politico – le discordie civili che hanno causato la fine dell’indipendenza di Pisa, l’in45 Il termine «cloaca» (in latino sentina) allude all’immagine dantesca della tomba di San Pietro profanata dai successori indegni (Pd. 27, 22-27).

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stabilità di Genova, la politica dell’equilibrio di Lorenzo il Magnifico – la satira viene rivolta per lo più nei confronti dei grammatici e del clero. I grammatici sono rappresentati come ottusi e violenti, pronti a contrapporre alle ragioni di Suppazio, intento ad argomentare la sua opinione con una dovizia di esempi, una violenza bestiale.46 Gli uomini del clero, invece, sono protagonisti di alcune narrazioni poco edificanti riferite da due donne del popolo incontrate da Suppazio a Gaeta e Sessa Aurunca (Ant. §§ 91-93). A Gaeta l’umanista si imbatte in una fattucchiera che gli espone le abitudini dei frati del vicino monastero, i quali sfruttano la superstizione per guadagni illeciti e la devozione popolare per soddisfare le proprie voglie, seducendo durante la confessione le donne sposate. Grazie alla cornice inquietante rappresentata dai riti della fattucchiera, le malefatte dei monaci assumono un’aria sinistra, sconosciuta alla tradizione della novella che pure Pontano tiene ben presente nella narrazione. Una volta allontanatosi dalla megera, Suppazio incontra un gruppo di pescatori che, di ritorno nel porto, sono intenti a scegliere il pesce migliore da destinare, dichiarano con zelo, «ai cari frati». Suppazio commenta fra sé: «Siete davvero insigni per pietà religiosa voi che nutrite con cibi così ricercati gli amanti delle vostre mogli!» (Ant. § 92). In questo caso la beffa non è ordita da un singolo frate ad un singolo laico, come accade solitamente nella tradizione novellistica, ma si perpetra da parte di una comunità monastica ai danni di un intero villaggio. Si potrebbe anche ipotizzare una voluta ironia nella professione dei mariti ingannati dai frati, pescatori come i primi apostoli.47 A Sessa Aurunca Suppazio viene infastidito da una donna ciarliera che lo vuole indurre ad approfittare 46

Se nella scena XI del Charon i grammatici negli Inferi vengono alle mani tra loro, nel racconto di Suppazio sono pronti ad aggredire fisicamente quanti si permettono di correggere i loro svarioni: Ant. §§ 80, 82, 83. 47 Matteo 4, 18-19; Marco 1, 16-17; Luca 5, 2.

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della disponibilità delle fanciulle del luogo, argomentando che «il concetto di ciò che è riprovevole e di ciò che non lo è muta in relazione ai luoghi, ai popoli e alle nazioni, e i comportamenti non sono dettati dalla natura ma derivano dalle leggi e dalle convenzioni» (Ant. § 92). Questa peculiare figura di mezzana-sofista, che prosegue il suo ragionamento «discettando anche delle virtù e persino di Dio» (Ant. § 93), è l’amante di un teologo. In questo caso la corruzione non riguarda soltanto i costumi ma anche la sfera del pensiero e della parola. La battuta di Suppazio, infatti, si incentra sull’immagine disgustosa di questa eloquenza malata: «costei non si è abbeverata al favoloso fonte delle Muse ma ha intinto la lingua per più anni nella bocca di un teologo» (Ant. § 93). Dal punto di vista di Pontano, come si legge nel De sermone, tali storie, come quella della fanciulla ingannata da un prete che si legge nel Charon, fanno parte della categoria delle fabellae, vale a dire quelle narrazioni brevi di carattere faceto che sono necessarie per una conversazione brillante: Non c’è dubbio che per riuscire gradevole, divertente e amabile il discorso della persona affabile si esplichi in gran parte nella narrazione di novelle (fabellae): in esse si concede infatti il massimo spazio al diletto e all’ornamento verbale. Possiedono senz’altro l’affabilità i narratori più divertenti nei conviti, nei circoli, e nelle conversazioni. In virtù di ciò Giovanni Boccaccio, ad esempio, ottenne grandissima lode, tanto presso i dotti che presso gli indotti, scrivendo quelle cento novelle che oggi sono nelle mani di tutti. Questo stesso intento perseguì tra i greci Luciano.48

Nell’Antonius i membri dell’Accademia sono tutti «persone affabili», pronti a narrare, nelle occasioni giuste, gustose 48

Serm. 1, 10, 4 (traduzione di Alessandra Mantovani).

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fabellae, alcune delle quali sono attribuite al Panormita. Tutto il dialogo, d’altronde, è scandito da tali narrazioni mentre il micro-romanzo di Suppazio è costruito per l’appunto cucendo insieme diverse fabellae, così come le Metamorfosi di Apuleio sono costruite intorno ad un nucleo originario costituito da fabulae milesiae. Anche i componimenti poetici sono incastonati nel dialogo con estrema efficacia. Prima che la scena venga abbandonata al cantore di piazza e al buffone, infatti, la discussione degli accademici napoletani viene intervallata da sette carmina: due cantilene contro il malocchio, la serenata intonata dal vecchio innamorato della fanciulla, i quattro componimenti del suonatore di lira. Se si tiene conto del fatto che nella quarta scena il discorso di Elisio Calenzio è intessuto di citazioni virgiliane, se ne deduce che nell’Antonius la presenza della poesia assume un notevole rilievo. Le due cantilene contro il malocchio, espressione della credulità popolare, sono recitate per burla, mentre la serenata del vecchio suscita l’ilarità degli astanti non per il componimento poetico, di per sé tutt’altro che disprezzabile, bensì per il contrasto tra l’età veneranda dell’uomo e il suo piagnucolio infantile.49 Nel caso delle poesie del suonatore di lira, infine, ci troviamo di fronte ad una notevole esibizione di bravura da parte di Pontano. Il personaggio, infatti, tra i complimenti dei presenti, intona quattro componimenti di pregevole fattura, composti in diversi metri e appartenenti a diversi generi. Tale versatilità è evidenziata nel testo: dapprima 49

Il topos del senex amans interessa da vicino Pontano, che lo mette al centro della raccolta poetica Eridanus nella quale rappresenta se stesso come un vecchio reso folle dall’amore per una giovane di nome Stella. Non si può escludere, dunque, che il personaggio del Vecchio non vada messo in relazione con la successiva rappresentazione di Pontano come un anziano lussurioso, intento a dare la caccia alle servette (o almeno questa è l’accusa rivoltagli dalla consorte).

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l’accademico Suppazio richiede al suonatore di «cantare qualcosa di speciale» e poi, deliziato dal componimento, chiede di ripetere il canto; il suonatore, però, preferisce intonarne «uno nuovo», altrettanto bello. A questo punto la sfida viene ripetuta altre due volte, sino a quanto il musicista si congeda. Le quattro poesie della scena settima, in effetti, dimostrano efficacemente la versatilità di Pontano, autore di componimenti elegiaci e di poemetti mitologici, di poemi astronomici ed epitaffi, di inni religiosi e di egloghe, inventore di raccolte di carmina paragonabili a dei “canzonieri”.50 Il primo componimento poetico è ispirato agli elegiaci latini: il poeta invita la sua bella, di nome Telesina, a lasciare i capelli sciolti in quanto «il pudore è l’ornamento più prezioso». La poesia che segue, di tenore molto diverso, costituisce una sorta di memento mori: il mondo, come «una sirena» ammalia gli uomini e li conduce inevitabilmente al naufragio.51 Il terzo componimento, ispirato all’egloga di Teocrito dedicata all’amore di Polifemo per Galatea, accentua, rispetto al modello greco, la sensualità della descrizione («feroce stende la destra, l’afferra / i tumidi seni e trionfando / un bacio le fura»).52 L’ultimo canto, infine, è un’egloga in esametri dattilici intessuta di ricercate descrizioni relative ai doni che un pastore promette ad una ninfa in cambio di un incontro amoroso. Si tratta di una poesia di rara raffinatezza metrica e stilistica, giocata sul contrasto tra la materia “rozza” del canto del pastore e la squisitezza della descrizione. Subito dopo l’esibizione del dotto suo50

Cfr. Coppini, Carmina: 714-715 . La tematica morale si insinua talora nei carmina pontaniani, si veda, ad esempio, il componimento De infelicitate generis hominum ospitato nel secondo libro del Parthenopeus (Parth., 2, 4). 52 Questo componimento si avvicina per argomento ed immagini, a due lamenti elegiaci composto in persona di Polifemo, Polyphemus ad Galateam e Polyphemus a Galatea spretus conqueritur in litore, che si leggono nella Lyra (cfr. Ly. 13 e 16). 51

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natore di lira, lodato da Suppazio per la sua modestia,53 entra prepotentemente in scena «una brigata di uomini mascherati». Il fastidioso corteo si impossessa della strada e dei portici: un «uomo incoronato di edera», ovvero mascherato da poeta (poeta personatus), si issa su un palco improvvisato in compagnia di un buffone mascherato (istrio personatus), e raduna una folla di spettatori «invasati» (Ant. § 106). Il Suppazio e il Puderico, irritati dallo spettacolo popolaresco, abbandonano il Portico invocando l’autorità del Panormita che si sarebbe preso gioco di costoro da par suo. Se i dotti voltano le spalle allo spettacolo, il lettore subisce il fascino della complessa messa in scena. È subito evidente, infatti, che ci troviamo di fronte ad un’ennesima dimostrazione di virtuosismo da parte di Pontano. Al buffone mascherato sono affidati alcuni versi che parodiano le allocuzioni al pubblico tipiche dei cantori di piazza, mentre al poeta mascherato spetta il già menzionato frammento epico, dedicato ad un episodio delle guerre sertoriane (82-72 a.C.). L’interpretazione di tale frammento epico non è agevole. Le ipotesi possibili sono sostanzialmente due: che il testo sia stata composto da Pontano precedentemente alla ideazione dell’Antonius e vi sia stato inserito per recuperare alcuni versi di un’opera epica mai portata a termine;54 oppure che sia stato ideato appositamente per il dialogo. Nel primo caso ci troveremmo di fronte un brano poetico inserito nel testo con qualche adattamento, come l’uso dei nomi degli accademici; nel secondo caso si potrebbe ipotizzare l’ideazione di un testo parodico. La lettura dei versi, ad ogni modo, evidenzia una testura imperfetta del canto. Gli episodi sono cuciti tra loro da un filo sottilissimo, mentre il testo si sfalda in una serie di minute descrizioni: dall’abbigliamen53 «Tutti gli altri uomini che si dedicano a tale arte ostentano il proprio ingegno, soltanto costui lo nasconde» (Ant. § 105). 54 Cfr. Monti Sabia, Bellum Sertoriacum.

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to dei personaggi al mirabolante catalogo di ferite e morti atroci. Senza dubbio ci troviamo di fronte ad un brano molto lontano dal modello virgiliano eloquentemente esaltato da Calenzio nel dialogo. Una lettura ravvicinata conferma l’impressione di un intento parodico: «un grande e convulso lacerto poematico, un topico katàlagos di guerrieri [...] un cumulo di morti, tagli, ferite, colpi memorabili, e ancora incendi, disastri, immanità»55 che, secondo l’acuta lettura di Roberto Gigliucci, si pone «sulla linea dell’epica “barocca” di imitazione virgiliana» propria del «macabro estetizzante» di Silio Italico. Con tale imitazione parodica del «barocco grottesco» Pontano escogita un equivalente latino della poesia dei cantari, caratterizzati da un «macabro euforico».56

6. Asinus

L’Asinus venne pubblicato per la prima volta nell’ottobre del 1507 presso l’editore napoletano Sigismondo Mayr insieme all’Aegidius e all’Actius. Il volume, postumo, vedeva la luce per le cure di Pietro Summonte, esecutore testamentario delle carte di Pontano. Nella lettera dedicatoria Summonte ci informa in merito alla genesi del dialogo in termini volutamente vaghi: tramite l’Asinus Pontano avrebbe messo per iscritto «la sua giusta indignazione» nei confronti dell’«ingratitudine di un tale», una segreta vendetta portata avanti per mezzo di un apologo (lepido argumento) arricchito con «salaci invenzioni». L’unico dato certo, ad ogni modo, è che l’Asinus si apre con la rievocazione di due eventi destinati a segnare la carriera politica dell’autore: gli accordi di pace firmati tra papa Innocenzo VIII e Ferrante d’Aragona nella notte compresa tra il 9 e il 10 agosto 1486, accordo favorito dal paziente lavo55 56

Gigliucci, Lo spettacolo della morte: 75. Gigliucci, Lo spettacolo della morte: 44.

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ro diplomatico dello stesso Pontano; la cattura del primo ministro Antonello Petrucci e di altri funzionari di corte in combutta con i baroni ribelli, avvenuta tre giorni più tardi. Se si intende prestare fede alla testimonianza riportata nella lettera proemiale – e non si comprende, d’altronde, per quale motivo Summonte avrebbe dovuto inventare di sana pianta una notizia in merito alla quale sembra provare un certo disagio – ci troviamo di fronte ad un dialogo scritto da Pontano in un momento d’ira, dopo la data fatidica del 1486, per colpire un personaggio di una certa importanza. L’ipotesi più ragionevole, a riguardo, è che tale personaggio vada identificato con uno dei membri della casa regnante. In effetti momenti di tensione tra l’umanista e gli Aragonesi, a ben vedere, non mancarono dopo il successo diplomatico del 1486 e la nomina, l’anno successivo, a primo Segretario del Re. La linea politica caldeggiata da Pontano, infatti, volta a normalizzare i rapporti con lo Stato Pontificio, nonostante i successi diplomatici ottenuti, era malvista da una parte consistente della corte e non convinceva appieno lo stesso Ferrante. Subito dopo la firma della faticosa pace, ad esempio, il sovrano aragonese continuò a negare al Pontefice il pagamento dei tributi feudali nonostante fossero stati esplicitamente ratificati nell’accordo. Proprio a causa di queste divergenze d’opinione, i rapporti di Pontano con la corte furono negli anni Ottanta piuttosto tesi. Si pensi, ad esempio, che, quando Alfonso si trovò a svolgere il ruolo di reggente durante una malattia del padre, Pontano, dotato di potere di firma, spostò gli uffici della segreteria nella sua abitazione per mettersi al riparo dalle ingerenze della corte.57 In un simile clima Pontano giunse a ventilare le sue dimissioni nel maggio del 1490 in una celebre lettera vibrante di sdegno nella quale, senza tanti riguardi, affermava di essere

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Percopo, Vita: 160.

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pronto di ritirarsi a vita privata.58 Al di là dell’occasione di tale dissidio, una nuova tassazione che colpiva le sue rendite, è evidente che Pontano stava maturando una certa insofferenza nei confronti della sua condizione. Ferrante cedette e condonò la tassa motivo della protesta, tuttavia potrebbe non essere un caso che in quel medesimo anno Pontano intraprese l’ampliamento della villa di Antignano, il buen retiro nel quale si ambienta la seconda parte dell’Asinus. Ancora più significativo, a riguardo, lo scontro seguito ad un’altra trattativa condotta in prima persona da Pontano per conto del sovrano, mi riferisco agli accordi con Innocenzo VII siglati a Roma, in un concistoro segreto, il 27 gennaio del 1492. La trattativa prevedeva il riconoscimento del Duca di Calabria come legittimo erede del Regno da parte del Pontefice in cambio del pagamento del censo alla Chiesa. La minuta dell’accordo venne spedita a Ferrante il quale, senza consultare Pontano, modificò alcuni dettagli, esautorando in questo modo il suo segretario. Pontano reagì rivendicando con orgoglio le proprie prerogative. Anche in questo caso non ci troviamo di fronte ad una rottura insanabile ma ad una significativa divergenza sugli orientamenti della politica estera e sulle competenze che spettavano a Pontano in quanto segretario regio.59 È dunque possibile che in un periodo compreso tra le dimissioni della primavera del 1490 e lo scontro dell’inverno 1492 Pontano abbia potuto ideare un dialogo de ingratitudine ispirato a Ferrante. Al di là di tale ipotesi, ad ogni modo, l’Asinus rappresenta il più godibile tra i dialoghi di Pontano. Quasi del tutto assen58

Lettere: 34. Si veda l’articolata ricostruzione di Vitale, Segretario regio: 307-314, nella quale si leggono significative testimonianze in merito allo scontro tra Ferrante e Pontano. La studiosa riconduce tali tensioni «all’ambiguità del ruolo ufficiale assegnato al segretario regio nell’età ferrantina». 59

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ti le divagazioni erudite, il testo, ricco di invenzioni linguistiche e lazzi ispirati a Plauto, si struttura come una sorta di commedia in cinque atti. Nel primo “atto” (scene I-III), ambientato nei pressi di un’osteria non lontana da Napoli, un viandante informa l’oste che la pace è stata siglata grazie ad un poeta di nome Pontano. Poco dopo entra in scena un banditore annunciando la cattura dei Baroni ribelli, con la conseguente pacificazione del Regno e la fine delle lotte intestine. Entrambe le notizie rallegrano l’oste che si reca in città sognando ad occhi aperti i considerevoli guadagni favoriti dalla pace. Nel suo cammino si imbatte in una processione di sacerdoti intenti ad intonare inni di ringraziamento al Signore (si tratta del primo ed unico intermezzo poetico presente nel dialogo). Agli inni sacerdotali fanno da controcanto le considerazioni utilitaristiche dell’oste, raggiante per il facile guadagno che la notizia della pace, e l’arrivo in città di un carico di prostitute giunte dalla Spagna, sembrano promettergli. Prima di entrare a Napoli, il sordido personaggio scorge da lontano alcuni pellegrini in arrivo da Roma. Tra loro c’è una sua vecchia conoscenza. Il dialogo tra i due chiude questo primo “atto” con una serie di salaci considerazioni in merito alla paternità del Pontefice. Nel secondo “atto” (scena IV), ambientato in una via di Napoli, probabilmente proprio nell’angolo dove si tengono le riunioni dell’accademia, Altilio informa Pardo in merito all’improvviso rimbambimento di Pontano, il quale si compiace di incedere per le strade della città su di un asino ricoperto di una gualdrappa di seta «canticchiando poesiole d’amore». In quel mentre si imbattono in Cariteo, incaricato da Pontano di acquistare una serie di paramenti per l’asino. Nel corso della discussione con i due amici, Cariteo legge ad alta voce la delirante lettera, tutti vezzeggiativi ed elogi per l’asino, con la quale Pontano lo ha insignito dello sgradito compito. I tre decidono allora di recarsi nella villa del «vecchio» insieme a Sannazaro. Il terzo “atto” (scene VI) è ambientato sulla strada che attraversa la collina di Anti-

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gnano (l’attuale Vomero) e conduce alla villa di Pontano. Pardo ed Altilio durante una sosta interrogano Sannazaro sul comportamento tenuto dal «vecchio» a Roma, nel corso della missione diplomatica. Con questo espediente si elogia l’abnegazione con la quale, pure stanco e malato, Pontano ha portato avanti le faticose trattative, facendo la spola tra Roma e l’accampamento degli Aragonesi. Giunti nei pressi del giardino della villa, i tre si nascondono in un cespuglio. Il quarto “atto” (scene VII-VIII) si apre su di una pacata discussione tra Pontano e il contadino Faselione in merito all’arte dell’innesto e sull’importanza dello studio degli astri per la coltivazione. La digressione, condotta con una certa competenza tecnica, è intessuta di allusioni ai poemi didascalici di Pontano: il De hortis hesperidum (la coltivazione dei cedri), l’Urania e il Meteororum liber (lo studio degli astri). Mentre gli accademici si rallegrano per una tale esibizione di saggezza, Pontano ordina al contadino di preparare l’asino per un bagno. La scena che segue, estremamente divertente tra l’altro, rappresenta il momento centrale dell’Asinus. Pontano, infatti, scalciato e morso dalla dispettosa bestia, prorompe in una battuta significativa, che sembra racchiudere l’insegnamento ricavabile dalla sua vicenda: «In malora animale ignorante, ingratissima bestia! Con i tuoi morsi mi hai quasi staccato le mani! Con la tua testa dura mi hai buttato in terra e gettato nel fango! [...] In malora, bestia malvagia! È vero, è vero quello che si dice – l’ho imparato tardi, vecchio incauto e senza cervello che sono! – è proprio vero, quel proverbio trito e ritrito: chi lava la testa all’asino spreca la fatica insieme al sapone, e quell’altro: chi si diletta con gli asini si trasforma in un asino! Per questo ho sprecato tempo e denaro. L’ho imparato tardi, con il mio esempio posso ammonire gli altri» (Asinus § 18). Nel quinto “atto” (scene IX-XI), ambientato nella villa poco dopo il bagno dell’asino, Pontano discute con Faselione in merito alle imminenti nozze del contadino. Come nel caso della sesta scena dell’Antonius, l’umanista si

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compiace di rappresentare la sua passione per le fanciulle. L’anziano umanista, infatti, in cambio di una serie di regali, ottiene da Faselione di poter godere della compagnia della giovane sposa. In quel mentre entrano in scena i sodali dell’Accademia e il dialogo si conclude con la proposta da parte di Pontano di iniziare una nuova discussione in merito ai «fenomeni celesti».

Nonostante le dimensioni contenute, la relativa semplicità dell’azione scenica e la piacevolezza complessiva, l’Asinus risulta ai nostri occhi sconcertante per la commistione tra l’elogio dell’attività politica di Pontano e la sua raffigurazione come un vecchio folle e lussurioso. Tateo propone di interpretare il comportamento di Pontano nei confronti dell’asino come una sorta di gioco, una pazzia simulata che il saggio si concederebbe dopo le fatiche dell’azione diplomatica, mentre la poco edificante trattativa con Faselione andrebbe considerata come uno scherzo lecito nello spazio rurale «costituito da una misura diversa delle cose, da un senso diverso del “piacere” e del “buono” soggetti di immediata “economicità”».60 Si tratta di una proposta suggestiva, dettata tra l’altro dal condivisibile intento di non appiattire il dialogo interpretandolo come un mero apologo de ingratitudine; tuttavia nel testo niente porta a ritenere che Pontano stia simulando la sua follia per dare vita ad una sorta di beffa nei confronti dei sodali. Per quanto riguarda, poi, lo scambio di battute con il contadino, è probabile che vadano interpretate come un effettivo tentativo di corruzione, considerando che nel testo si allude in modo chiaro alle avventure extraconiugali del nostro, favorite fra l’altro proprio da Faselione.61 60

Tateo, Asinus: 351. Pardo allude ad un ruolo di mezzano svolto da Faselione per conto del suo padrone: «pard. Sii più rispettoso, Faselione, dato che sei solito dargli spago ed aiutarlo nelle pene d’amore!» (Asin. § 26), ed in effetti Faselione, nel chiedere a Pontano il denaro per 61

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Il dato a mio avviso ineludibile è che nell’Asinus, all’interno una struttura che rende il testo più vicino ad una commedia che ad un dialogo filosofico, convivono la rivendicazione dei propri meriti politici con una forma peculiare di autoparodia. Anche i sodali dell’Accademia, protagonisti delle dotte discussioni dell’Antonius, in questo dialogo sono garbatamente motteggiati, basta pensare al comico affannarsi di Cariteo, mutato nella quarta scena in una sorta di servo da commedia (Asin. § 10). L’Asinus, infatti, è caratterizzato dalla presenza di personaggi “bassi”, degni di una commedia plautina: l’Oste pronto a sfruttare l’arrivo di nuove prostitute per attrarre clientela nella sua locanda; Faselione, il servo infingardo, pronto a prostituire la mogliettina in cambio di «calze di diversi colori», «tre prosciutti di maiale» e un numero imprecisato di «mantelli»; o ancora gli avvinazzati avventori della locanda e il servetto che si diletta scioccamente del crepitare dell’asino. A tutto ciò si aggiungano le allusioni al comportamento scandaloso dei Pontefici in una battuta nella quale l’indignazione si tinge, come mai negli altri dialoghi, di blasfemia: «In quegli stessi giorni [...] al Pontefice è nata un’altra figlioletta. Si tratta, a parer mio, di una prova mirabile della verità della religione cristiana. [...] Se a Dio nascono dei nipotini, non ne consegue forse che Cristo stesso non può che essere nato dal ventre di una donna?» (Asin. § 8). Pontano, in un tale contesto, per rappresentare in modo convincente la propria azione politica in termini positivi, come pure fa non senza un certo compiacimento in due brani di grande efficacia emotiva (Asin. §§ 2 e 11), ritiene opportuno estendere anche a se stesso una qualche critica. Per far risaltare le sue pubbliche rinnovare la sua abitazione in vista del matrimonio, rivendica la sua complicità nelle tresche di Pontano: «Quel lettuccio a casa mia sul quale a mezzogiorno hai provato piaceri deliziosi richiede una nuova suppellettile e biancheria nuova: il marito è nuovo e la moglie è nuova» (Asin. § 23).

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virtù, dunque, Pontano sceglie di mettere in mostra alcuni “vizi” privati. Una sorta di rito dei fescennini col quale accompagnare il suo trionfo di uomo di Stato. Come interpretare, dunque, l’invito rivolto al lettore ad apprendere dal suo esempio? Tale insegnamento deve essere messo in relazione con la testimonianza di Summonte? Rispondere a queste domande implica il rischio di un’interpretazione non sorretta da elementi risolutivi. Da parte mia ritengo che la vicenda dell’affannarsi intorno all’asino si possa considerare non tanto come la trasposizione in cifra di un evento preciso, secondo una meccanica equivalenza tra l’asino e Ferrante, ma come una sorta di allegoria della carriera politica di Pontano nel suo complesso (l’azione di lavare la testa all’asino, allora, indicherebbe il vano affannarsi sulla scena politica). Si tratterebbe di un’allusione volutamente sfuggente, in linea con quella teoria della dissimulazione che si legge nel Charon e nell’Antonius. Un piccolo sfogo arricchito di «salaci invenzioni» da parte di un uomo stanco, fisicamente e moralmente, a causa di un’incessante attività politica e convinto, sia pure con notevole alterigia considerando i lauti compensi incamerati, di non essere stato remunerato come avrebbe meritato per tanta fatica. Ad ogni modo quello che conta è che siamo di fronte ad un dialogo di straordinaria maestria, dal ritmo incalzante, ricco di gustose invenzioni. Forse non è troppo lontano dal vero affermare che l’Asinus è il più riuscito testo teatrale dell’Umanesimo. Di certo Pontano ha appreso alla perfezione la lezione di Plauto, postillato attentamente sulle carte di un manoscritto appartenuto al Panormita. Nelle note daremo conto, sia pure soltanto parzialmente, del lavoro raffinatissimo di Pontano sulla lingua plautina a partire dai dati raccolti nello studio di Rita Cappelletto.62 Quello qui ci interessa evidenziare, a chiusura del nostro 62

Cappelletto, Lectura Plauti.

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discorso sui Dialoghi, è la straordinaria naturalezza colla quale il nostro umanista trasforma lo studio dei testi antichi in una scrittura vivace ed originale. L’Asinus si chiude, al pari dell’Antonius, con l’allusione ad una discussione imminente che non trova, però, una rappresentazione nel dialogo. La comunicazione quotidiana tra i dotti si prolunga oltre lo spazio angusto della pagina, come a ricordare al lettore che la ricchezza della discussione accademica non può essere compresa nella sua interezza in un’opera letteraria. D’altronde sin dalle sue origini platoniche il dialogo filosofico si pone espressamente come il tentativo, inevitabilmente imperfetto, di imprigionare la parola viva e cangiante in una struttura che la preservi nel tempo. Sebbene si tratti di un ordinamento non d’autore, il volume pubblicato presso Sigismondo Mayr si chiudeva proprio con l’Asinus, così come avrebbero fatto le edizioni cinquecentesche successive e come farà il nostro volume. Una circostanza non priva anch’essa di una qualche suggestione. Quale migliore conclusione per il corpus dialogico più significativo dell’Umanesimo, infatti, di un finale aperto? lorenzo geri

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

la napoli aragonese

Storia del Regno di Napoli Per un primo inquadramento in merito alla complessa storia del Regno durante l’età aragonese rimando a: Benedetto Croce, Storia del regno di Napoli [1925], a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, 2005; Ernesto Pontieri, Per la storia del Regno di Ferrante I d’Aragona, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1969; Id., Alfonso il Magnanimo re di Napoli (1435-1458), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1975; Guido D’Agostino, Il Mezzogiorno Aragonese (Napoli dal 1458 al 1503), in Storia di Napoli, vol. II, Storia politica ed economica. Angioini e Aragonesi, Società editrice di Napoli, Napoli, 1974, pp. 231-313; Alan Ryder, The Kingdom of Naples under Alfonso the Magnanimous: the Making of a Modern State, Clarendon Press, Oxford, 1976; Guido D’Agostino, La capitale ambigua: Napoli dal 1458 al 1580, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1979; Napoli aragonese e spagnola, a cura di D. Bartolucci, Liguori, Napoli, 1986; Alan Ryder, Alfonso the Magnanimous: King of Aragon, Naples and Sicily, 1396-1458, Clarendon Press, Oxford, 1990; Mario del Treppo, Il Regno Aragonese, in Storia del Mezzogiorno, diretto da Giuseppe Galasso e Rosario Romeo, vol. IV, tom. I, Editalia, Foggia, 1994, pp. 87-201 (per la

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storia economico-amministrativa del Regno in una prospettiva mediterranea); Giuseppe Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese, 1266-1494, UTET, Torino, 2005, pp. 561-919 e Id., Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), UTET, Torino, 2005, pp. 3-297.

Il mecenatismo degli Aragona e la corte di Napoli Sulla corte aragonese e sulla politica culturale di Alfonso e Ferrante la bibliografia è ricca, anche se disorganica; rimando per un primo orientamento a: Tammaro De Marinis, La Biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Hoepli, Milano, 1952-1957, 4 voll. da integrare con Id., La biblioteca napoletana dei re d’Aragona. Supplemento, 2 voll., Valdonega, Verona, 1969 (opera essenziale per la storia del mecenatismo aragonese); Armando Petrucci, Biblioteca, libri, scrittura nella Napoli aragonese, in Le biblioteche del mondo antico e medievale, a cura di G. Cavallo, Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 187-292; Jerry H. Bentley, Politics and Culture in Renaissance Naples, Princeton University Press, Princeton, 1987, trad. it. Politica e cultura nella Napoli Rinascimentale, Guida, Napoli, 1995; Concetta Bianca, Alla corte di Napoli: Alfonso, libri e umanisti, in Il libro a corte, a c. di A. Quondam, Bulzoni, Roma, 1994, pp. 177-201; Gabriella Albanese, Tra Napoli e Roma. Lo scriptorium e la biblioteca dei re d’Aragona, «Roma nel Rinascimento», 1997, pp. 73-86; La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo: i modelli politico-istituzionali; la circolazione degli uomini, delle idee, delle merci; gli influssi della società sul costume. Atti del convegno di Napoli-CasertaIschia, 18-24 settembre 1997, a c. di Guido D’Agostino e G. Buffardi, Paparo, Napoli, 2000, 2 voll. (importante raccolta di saggi dedicati a diversi aspetti della politica economica, politica e culturale degli Aragonesi); Gennaro Toscano, Le biblioteche dei sovrani aragonesi di Napoli, in

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Principi e signori: le biblioteche nella seconda metà del Quattrocento. Atti del convegno di Urbino, 5-6 giugno 2008, a cura di G. Arbizzoni, B. Concetta, M. Peruzzi, Accadema Raffaello, Urbino, pp. 163-216.

Studi sulla cultura napoletana del XV secolo Agli studi dedicati al mecenatismo aragonese, si possono affiancare alcuni saggi sulla cultura a Napoli nel XV secolo: Michele Fuiano, Insegnamento e cultura a Napoli nel Rinascimento, Libreria scientifica editrice, Napoli, 1971; Pasquale Alberto De Lisio, Dal progetto al rifiuto. Indagini e verifiche nella cultura del Rinascimento Meridionale, Edisud, Napoli, 1979; Marco Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo quattrocento, Antenore, Padova, 1979; Marco Santoro, La stampa a Napoli nel Quattrocento, INSRM, Napoli, 1984; Mauro De Nichilo, Retorica e magnificenza nella Napoli Aragonese, Palomar, Bari, 2000; Per la storia della tipografia napoletana nei secoli XV-XVIII. Atti del Convegno internazionale, Napoli 2005, 16-17 dicembre, a cura di A. Garzya, Accademia Pontaniana, Napoli, 2006; Giulia Vitale, Élite burocratica e famiglia. Dinamiche nobiliari e processi di costruzione statale nella Napoli angioinaaragonese, Liguori, Napoli, 2003; Le carte aragonesi. Atti del convegno (Ravello 3-4 ottobre 2002), a cura di M. Santoro, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 2004; Leon Battista Alberti a Napoli: la corte aragonese e la lezione albertiana, a cura di Alfonso Gambardella, F.lli Molinaro, Aversa, 2005; Giulia Vitale, Ritualità monarchica, cerimonie e pratiche devozionali nella Napoli aragonese, Laveglia, Salerno, 2006; Claudia Corfiati, Il principe e la regina: storie e letteratura nel Mezzogiorno aragonese, Olschki, Firenze, 2009; Patrizia Graziano, L’Arco di Alfonso: ideologie giuridiche e iconografia nella Napoli aragonese, Editoriale scientifica, Napoli, 2009;

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Giuliana Vitale, “Universitates” e “officiales regii” in età aragonese del Regno di Napoli: un rapporto difficile, in «Studi storici», LI, 2010, pp. 53-72 L’Umanesimo nell’Italia meridionale Una lettura approfondita delle opere di Giovanni Pontano presuppone una conoscenza dei caratteri complessivi dell’Umanesimo nell’Italia meridionale. Mi limito a segnalare una scelta ristretta ad alcuni titoli fondamentali: Eberhard Gothein, Die Culturentwicklung Süditaliens in Einzel-darstellungen, Wilhelm Koebner, Breslau, 1886 trad. it. Il Rinascimento nell’Italia meridionale, Sansoni, Firenze, 1915; Francesco Tateo, Cultura e poesia nel Mezzogiorno dal Pontano al Marullo, Id., La letteratura in volgare da Masuccio Salernitano al Cariteo e Id., Iacobo Sannazzaro in La letteratura italiana. Storia e testi, dir. da Carlo Muscetta, vol. III, Il Quattrocento. L’età dell’Umanesimo, Laterza, Bari, 1972, pp. 471-676; Marco Santoro, Cultura e letteratura in Storia di Napoli, vol. VII, Società editrice Storia di Napoli, Napoli, 1980, pp. 115-293; Nicola De Blasi e Alberto Varvaro, Napoli e l’italia meridionale in Letteratura Italiana. Storia e geografia, dir. da A. Asor Rosa, vol. II, L’età moderna, Einaudi, Torino, 1988, pp. 235-325; Gianni Villani, L’Umanesimo napoletano, in Storia della Letteratura Italiana, dir. da E. Malato, Salerno, Roma, 1996, pp. 709-762; Bruno Figliuolo, La cultura a Napoli nel secondo Quattrocento. Ritratti di protagonisti, Forum, Udine, 1997; Leon Battista Alberti a Napoli: la corte aragonese e la lezione albertiana, a cura di A. Gambardella, F.lli Molinaro, Aversa, 2005; E. Novi Chavarria, I Rinascimenti napoletani, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, diretto da Giovanni Luigi Fontana e Luca Molà, vol. I, Storia e storiografia, a cura di M. Fantoni, Angelo Colla, Treviso, 2005, pp. 249-264; Tradizioni grammaticali e linguistiche nell’Umanesimo meridionale. Convegno internazionale di studi Lecce-Maglie, 26-28 ottobre 2005,

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a cura di P. Viti, Conte, Lecce, 2006; Valla e Napoli: il dibattito filologico in età umanistica. Atti del Convegno internazionale, Ravello, 22-23 settembre 2005, a cura di M. Santoro, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa, 2007.

giovanni pontano

Profili di Pontano nelle storie letterarie

Un utile punto di partenza per lo studio della complessa produzione letteraria di Pontano è rappresentata dalle storie della letteratura italiana che in molti casi dedicano all’umanista uno spazio considerevole, si vd.: Cesare Vasoli, Giovanni Pontano, in La letteratura italiana. I minori, vol., I, Marzorati, Milano, 1961, pp. 597-624; Vittorio Rossi, Napoli al tempo di Ferdinando I d’Aragona, in Id., Il Quattrocento [prima ed. 1933], con supplemento bibliografico a c. di A. Vallone, Vallardi, Milano, 1964, pp. 449-496, in part. pp. 449471; Francesco Tateo, Cultura e poesia nel Mezzogiorno dal Pontano al Marullo, in La letteratura italiana. Storia e testi, dir. da C. Muscetta, vol. III, Il Quattrocento. L’età dell’Umanesimo, Laterza, Bari, 1972, in part. pp. 471-519; Domenico De Robertis, La letteratura aragonese, in Storia della Letteratura Italiana, dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, vol. III, Il Quattrocento e l’Ariosto [prima ed. 1966], Garzanti, Milano, 1988, pp. 662-770, in part. pp. 662-699; Rinaldo Rinaldi, Pontano prosatore: l’intellettuale specialista e la politica, in Storia della civiltà letteraria italiana, dir. da Giorgio Bárberi Squarotti, vol. II, Rinaldo Rinaldi, Umanesimo e Rinascimento, UTET, Torino, 1993, pp. 881-893. Studi biografici

La tradizione erudita sette-ottocentesca confluisce nei volumi di Carlo Maria Tallarigo (Giovanni Pontano e i

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suoi tempi, Napoli, Morano, 1874) e Carlo Minieri Riccio (Biografie degli accademici pontaniani. Giovanni Gioviano Pontano, s.n.t). Al culmine di una stagione primonovecentesca particolarmente ricca di contribuiti su singole aspetti della vita di Pontano si situa la biografia scritta da Erasmo Percopo, a tutt’oggi imprescindibile, pubblicata dapprima in rivista («Archivio storico per le Provincie Napoletane», LXI, 1936, p. 116-250 e 140-141) e poi in volume: Vita di Giovanni Pontano, a cura di M. Manfredi, I.T.E.A., Napoli, 1938, da integrare per i primi anni di vita di Pontano con Pietro Pirri, Le notizie e gli scritti di Tommaso Pontano e di Giovanni Pontano Giovane, «Bollettino della Regia Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», XVIII, 1912, pp. 357-496. Le notizie ricavabili dalla tradizione erudita primonovecentesca sono stati rettificati ed ampliati da alcune ricerche successive di cui fornisce un’importante sintesi Liliana Monti Sabia, Profilo di Giovanni Pontano, in Liliana Monti SabiaSalvatore Monti, Studi su Giovanni Pontano, vol. I, a cura di Giuseppe Germano, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, Messina, 2005, pp. 1-31. Dopo il volume di Percopo l’unica monografia che ripercorra la vita e l’opera di Pontano nel suo complesso è quello di Carol Kidwell, Pontano. Poet and Prime Minister, Duckworth, London, 1991. Per quanto riguarda la straordinaria carriera politicodiplomatica di Pontano, oltre ai saggi sulla storia del Regno di Napoli già citati che andranno consultati ad indicem, segnalo le pagine dedicate a Pontano in Bentley, Politica e cultura nella Napoli Rinascimentale cit., pp. 140-147, da integrare con: Claudio Finzi, Re, baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Il Cerchio, Rimini, 2004; Marcello Simonetta, La tragedia di Napoli: Pontano e gli Aragona in Rinascimento segreto. Il mondo del segretario da Petrarca a Machiavelli, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 225-234; F. Senatore, Pontano e la guerra di Napoli, in

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Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, Liguori, Napoli, 2001; Giuliana Vitale, Sul segretario regio al servizio degli aragonesi di Napoli, in «Studi Storici», XLIX, n. 2, 2008, pp. 293-321 in part. 294-295, 298-299, 307-308, Francesco Tateo, Da Pontano a Machiavelli: Ferrante e Giulio II, in Roma e il papato nel Medioevo: studi in onore di Massimo Miglio, a c. di A. De Vincentiis, vol. I, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2012, pp. 625-634. Autografi, biblioteca ed epistolario Un prezioso censimento degli autografi pontaniani, con l’indicazione della relativa bibliografia secondaria e una scheda paleografica sulla scrittura del nostro, si legge nella voce di Michele Rinaldi per il volume Autografi dei letterati italiani. Il quattrocento, tomo I, a cura di F. Bausi, M. Campanelli, S. Gentile, J. Hankins, consulenza paleografica di T. de Robertis, Salerno, Roma, 2014, pp. 331-349. Lo studio dei manoscritti appartenuti ad un umanista rappresenta una chiave fondamentale per entrare nel suo “laboratorio” dato che filologia e scrittura, lettura e produzione letteraria si intrecciano profondamente. Per quanto riguarda la biblioteca di Pontano nel suo complesso segnalo: Mauro De Nichilo, Per la biblioteca del Pontano, in Le Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento, a cura di C. Corfiati e M. De Nichilo, Pensa Multimidea, Lecce, 2009, pp. 151-169, mentre, per gli articoli dedicati alla descrizione di singoli manoscritti appartenuti a Pontano, rimando all’elenco esaustivo, con relativa bibliografia, che si legge nella già citata voce di Rinaldi in Autografi dei letterati italiani, Il quattrocento cit. L’epistolario di Pontano, tra i più importanti del XV secolo, rappresenta il punto di partenza obbligato per uno studio approfondito della sua figura storica. A differenza di altri umanisti, Pontano non raccolse mai in vita le sue lettere, né quelle di carattere politico-diplomatico né quel-

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le familiari. Per quanto riguarda le lettere redatte per conto degli Aragonesi si ricorre al volume di Bruno Figliogliolo che raccoglie «l’edizione di tutte le lettere siglate dal Pontano presenti nei maggiori archivi italiani» (Archivio di Stato di Firenze, Archivio di Stato di Milano, Archivio di Stato di Mantova, Archivio di Stato di Modena, Archivio di Stato di Siena): Corrispondenza di Giovanni Pontano segretario dei dinasti aragonesi di Napoli (2 novembre 147420 gennaio 1495), a c. di B. Figliuolo, Laveglia & Carlone, Battipaglia, 2012. Nell’edizione di Figliulo confluiscono anche le lettere pubblicate a fine Ottocento (Alcune lettere firmate da Giovanni. Pontano, a c. di F. Fossati, Tip. A. Cortellezzi, Mortara-Vigevano, 1907 e Ferdinando Gabotto Lettere inedite di Joviano Pontano in nome de’ Reali di Napoli, Romagnoli-Dell’Acqua, Bologna, 1893). Per le lettere private si ricorre ancora alle datate raccolte di Erasmo Percopo: Lettere di Giovanni Pontano a principi ed amici, a cura di E. Percopo, R. tipografia Francesco Giannini e figli, Napoli, 1907 e Nuove lettere di Gioviano Pontano a prìncipi ed amici, a cura di E. Percopo, Sangiovanni, Napoli, 1927. I due volumi curati da Percopo possono essere integrati con il saggio di Maria Luisa Doglio: Cinque lettere inedite del Pontano, in «Lettere italiane», XXV, 1973, pp. 215-225, che presenta un dettagliato regesto delle lettere pontaniane pubblicate a stampa sino al 1973; per il periodo successivo si vd. il censimento delle lettere autografe di Pontano in Rinaldi, voce Giovanni Pontano in Autografi dei letterati italiani, Il quattrocento cit. Monografie dedicate all’opera di Pontano Un prezioso strumento di lavoro per gli studi pontaniani è rappresentato dai due volumi che raccolgono i numerosi saggi dedicati alla multiforme attività letteraria pontaniana da Liliana Monti Sabia e Salvatore Monti: Studi sul Pontano, a cura di G. Germano, Centro Interdipartimentale di

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Studi Umanistici, Messina, 2005, 2 voll. Riporto qui di seguito un elenco di studi dedicati ad aspetti specifici della produzione letteraria di Pontano; per motivi di spazio mi limito ad una scelta delle sole monografie: Francesco Tateo, Umanesimo etico di Giovanni Pontano, Milella, Lecce, 1972; Mauro de Nichilo, I poemi astrologici di Giovanni Pontano: storia del testo. Con un saggio di edizione critica del Meteororum liber, Dedalo libri, Bari, 1975; Giacomo Ferraù, Pontano critico, Centro di studi umanistici, Messina, 1983; Giovanni Parenti, Poeta Proteus alter: forma e storia di tre libri di Pontano, Olschki, Firenze, 1985; Guido M. Cappelli, Per l’edizione critica del “De Principe” di Giovanni Pontano, ESI, Napoli, 1993; Liliana Monti Sabia, Pontano e la storia. Dal De bello Neapolitano all’Actius, Bulzoni, Roma, 1995; Antonietta Iacono, Uno studente alla scuola del Pontano a Napoli: le Recollecte del ms. 1368 (T 5. 5) della Biblioteca Angelica di Roma, Loffredo, Napoli, 2006.

i dialoghi

Edizioni dei Dialoghi Le editiones principes dei dialoghi di Pontano, per le quali vd. Nota al testo, sono: Ioannis Ioviani Pontani Dialogus qui Charon inscribitur, Mattia Moravo, Napoli, 1491 (incunabolo comprendente il Charon e l’Antonius); Pontani Actius de numeris poeticis et lege historiae. Aegidius multiplicis argumenti. Tertius dialogus de ingratitudine qui Asinus inscribitur, Sigismondo Mayr, Napoli, 1507 (edizione postuma curata da Pietro Summonte). Le edizioni cinquecentesche, tutte, con una sola eccezione, pubblicate dopo la morte di Pontano, sono: Ionnis Ioviani Pontani Opera, Bernardino Vercellese, Venezia, 1501 [seconda edizione 1512] (contiene il Charon e l’Antonius); Opera Ioannis Ioviani Pontani, Bartolomeo Troth,

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Lugudini, 1514 (contiene il Charon e l’Antonius); Ioannis Ioviani Pontani Opera omnia soluta oratione composita, vol. II, Aldo Manuzio e Andrea Torresani, Venezia, 1519 (prestigiosa edizione di tutte le opere in prosa di Pontano, contiene tutti i dialoghi per la prima volta riuniti in un unico volume); Ioannis Ioviani Pontani Opera omnia soluta oratione composita, Filippo Giunti, Firenze, 1520 (comprende tutti i dialoghi); Ioannis Ioviani Pontani librorum omnium quos soluta oratione composuit, vol. II, per Andream Cratandrum, Basilea, 1538 [seconda edizione 1540] (contiene tutti i dialoghi); Ioannis Ioviani Pontani librorum omnium quos soluta oratione composuit, ex officina Henricpetrina, Basilea, 1556 (contiene tutti i dialoghi). Dopo un oblio secolare, tra fine dell’Ottocento ed inizio Novecento si segnalano numerose edizioni dei Dialoghi nell’ambito di una discreta fortuna editoriale delle opere di Pontano: Carlo Maria Tallarigo, Giovanni Pontano e i suoi tempi. Con la ristampa del dialogo Il Caronte e del testo delle migliori poesie latine colla versione del prof. Pietro Ardito, vol. II, Morano, Napoli, 1874, pp. 687-744 (testo latino); Giovanni Pontano, L’Asino e il Caronte, traduzione di Marcello Campodonico, Carabba, Lanciano, 1918 (testo latino e trad.); Giuseppe Toffanin, Pontano fra l’uomo e la natura. In appendice il dialogo Aegidius tradotto da Vincenzo Grillo, Zanichelli, Bologna, 1938, pp. 129-180 (solo trad.); Giovanni Pontano, Antonius, trad. di Vincenzo Grillo, Carabba, Lanciano, 1939 (solo trad.e, con consistenti tagli); Giovanni Pontano, La guerra di Sertorio, a cura di Raffaele Amici, Tipografia Unione Arti Grafiche, Città di Castello, 1949. A tutt’oggi fondamentale l’edizione critica di Carmelo Previtera, pure non priva di mende: Giovanni Pontano, I dialoghi, edizione critica a cura di Carmelo Previtera, Sansoni, Firenze, 1943 (testo latino). Sulla base del testo approntato da Previtera si segnalano due importanti edizioni successive: Giovanni Pontano Dialoge, Fink, München, 1984 (testo latino e trad. in tedesco di tutti i dialoghi) e

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Giovanni Gioviano Pontano, Dialogues, vol. I, Charon and Antonius, ed. and trans. by Julia Haig Gassier, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2012 (testo latino, trad. inglese, commento). Il solo frammento epico che conclude l’Antonius è stato recentemente edito, col testo latino a fronte, per cura di Francesco Tateo: Giovanni Pontano, Sertorius overo La Spagna in rivolta, introduzione e volgarizzamento di Francesco Tateo, Palomar, Bari 2010.

Studi sui Dialoghi Prima dell’edizione Previtera, la fortuna critica dei Dialoghi, se si escludono le pagine delle storie letterarie e alcuni accenni negli studi di carattere erudito e biografico, è caratterizzata da scarsi interventi; gli unici studi complessivi sono: Vittorio Cian, La satira, Vallardi, Milano, 1923, vol. I, pp. 461-472 e Vito Tanteri, Pontano e i suoi dialoghi, Bottega del giornale e del libro dell’Assocazione Mutilati di Guerra, Ferrara, 1931 (monografia trascurabile oltre che di difficile reperibilità). Dopo l’edizione di Previtera la fortuna critica della produzione dialogica di Pontano è stata segnata, a partire dagli anni Sessanta, da alcuni saggi decisivi: i lavori di Salvatore Monti e Liliana Monti Sabia per gli aspetti filologici e i saggi di Francesco Tateo sul versante critico e filologico. Elencheremo tali saggi più sotto, suddividendoli tra i diversi dialoghi. Per quanto riguarda, invece, i Dialoghi considerati nel loro complesso, i titoli in bibliografia non sono numerosi: Scevola Mariotti, Per lo studio dei dialoghi del Pontano (1947), in Id., Scritti medievali e umanistici, a c. di S. Rizzo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1994, pp. 261-284; Giovanna Wyss Morigi, Contributo allo studio del dialogo all’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento, Scuola Tipografica Artigianelli, Monza, 1947, capitolo IV. I dialoghi del Pontano, pp. 63-93; Salvatore Monti, Ricerche sulla cronologia dei Dialoghi di Pontano (1963), in Studi sul Pontano,

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II, pp. 757-834; Francesco Tateo, Il linguaggio comico nell’opera di Giovanni Pontano, in Interrogativi dell’Umanesimo, vol. II, a cura di G. Tarugi e M. Barni, Centro studi umanistici A. Poliziano-Fondazione Secchi Tarugi, Firenze, 1976, pp. 155-165; David Marsh, The Quattrocento dialogue. Classical tradition and humanist innovation, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London, 1980, pp. 100-116; Ernesto Grassi, Das humanistische rhetorische Philosophieren. Pontanos Theorie der Einheit von Dichtung, Rhetorik und Geschichte, in Giovanni Pontano, Dialoge cit., pp- 7-24; David Marsh, Lucian and the Latins. Humor and Humanism in the early Reinassance, University of Michigan Press, Ann Arbor, 1998, pp. 129-143; Julia Haig Gassier, Introduction, in Giovanni Gioviano Pontano, Dialogues cit., pp. vii-xvii. Charon Fracesco Tateo, La nuova sapienza nei Dialoghi di Giovanni Pontano, in «Studi mediolatini e volgari», IX, 1961, pp. 187-225, in part. le pp. 189-210; Liliana Monti Sabia, Un ignoto codice del Charon di Giovanni Pontano (1996), in Studi sul Pontano, II, pp. 947-972; David Marsh, Lucian and the Latins: humor and humanism in the early Renaissance, The University of Michigan Press, Ann Arbor, 1998, 129-143; Lorenzo Geri, A colloquio con Luciano di Samosata. Leon Battista Alberti, Giovanni Pontano, Erasmo da Rotterdam, Bulzoni, Roma, 2011, pp. 119-164; Id, Lettura di un dittico pontaniano. Il Charone e l’Antonius, in «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici», XXVI, 2001, pp. 219-249, in part. pp. 225-241. Antonius Benedetto Soldati, Improvvisatori e buffoni in un dialogo del Pontano in Miscellanea di studi in onore di G. Mazzoni, vol. I, Galileiana, Firenze, 1907, pp. 321-342; Fracesco Tateo,

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La nuova sapienza nei Dialoghi di Giovanni Pontano cit., in part. pp. 210-225; Giacomo Ferraù, Pontano critico cit.; Roberto Gigliucci, Lo spettacolo della morte. Estetica e ideologia del macabro nella letteratura medievale, De Rubeis, Anzio, 1994, pp. 73-82; Liliana Monti Sabia, Il Bellum Sertoriacum di Giovanni Pontano (1997), in Studi sul Pontano, I, pp. 729756; Geri, Lettura di un dittico pontaniano. Il Charon e l’Antonius cit., in part. pp. 241-249; Carmela Vera Tufano, Il Polifemo del Pontano. Riscritture teocritee nella Lyra e nell’Antonius, «Bollettino di Studi Latini», XL, 2010, pp. 22-45. Actius Francesco Tateo, Per l’edizione critica dell’Actius di Giovanni Pontano, in «Studi mediolatini e volgari», XII, 1964, pp. 145-194; Salvatore Monti, Per la storia del testo dell’Actius di Giovanni Pontano (1969), in Studi sul Pontano, II, pp. 909-945; Marc Deramaix, “Excellentia” and “admiratio” in Giovanni Pontano’s Actius: poetics and aesthetics of perfection, in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen Ages, Temps Modernes», XCIX, 1, 1987, pp. 171-212; Liliana Monti Sabia, Pontano e la storia cit.; Guido Martellotti, Critica metrica del Salutati e del Pontano, in Critica e storia letteraria: studi offerti a Mario Fubini, Liviana, Padova, pp. 352-373; Pierre Laurens, Trois lectures du vers virgilien, Coluccio Salutati, Giovanni Gioviano Pontano, JulesCésar Scaliger, in «Revue des Etudes Latines», LXXIX, 2001, pp. 215-235; Claudio Buongiovanni, Tacito auctor nell’Actius di Giovanni Pontano, in «Bollettino di studi Latini», XXXVII, 2007, pp. 610-618; Mauro De Nichilo, L’“Actius” del Pontano e una lettera di Bernardo Rucellai, «Studi Medievali e Umanistici», 2006, pp. 253-309; Marc Deramaix, Tamquam in acie. Lexique de la bataille et critique euphonique de la rencontre vocalique chez Virgile dans l’Actius de Pontano in La battaglia nel Rinascimento meridionale, a c. di G. Abbamonte, Viella, Roma, 2011, 169-187.

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ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE opere di pontano

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altri testi

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CRONOLOGIA

La presente cronologia intende fornire un orientamento di massima sulle vicende storico-politiche del Regno di Napoli e sulla vita di Giovanni Pontano. Per chiarezza di esposizione ho bipartito l’esposizione: la prima parte riguarda le vicende relative alla conquista del Regno da parte degli Aragonesi, premessa necessaria per comprendere gli eventi successivi; la seconda parte è dedicata alla vita di Pontano e alle vicende storico-politiche ad essa inestricabilmente intrecciate. 1. premessa: la conquista del regno di napoli da parte degli aragonesi (1412-1443)

L’espansione dell’impero catalano-aragonese durante il regno di Ferdinando I. 1412-1416

seconda metà del XIII 1412

A partire dalla metà del XIII secolo il regno d’Aragona si espande verso il Mediterraneo: nel 1302 gli aragonesi conquistano la Sicilia, nel 1323 la Sardegna. I parlamenti della Corona d’Aragona eleggono come sovrano Ferdinando I, della casa castigliana di Trastàmara, dinastia alla quale apparterranno i sovrani aragonesi del Regno di Napoli.

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1412-1416 Ferdinando I tenta di estendere la sua influenza politica al Regno di Napoli con il progetto di un’unione matrimoniale con la casa dei d’Angiò-Durazzo, sovrani di Napoli. Nonostante il fallimento del progetto dinastico, la via è ormai segnata. Prima fase del regno di Alfonso V. Primi tentativi di conquista del Regno di Napoli. 1416-1424 1415-1416 Dopo la morte del sovrano angioino Ladislao I (1414), la vedova Giovanna d’Angiò-Durazzo si trova a dover fronteggiare la ribellione dei baroni napoletani che non riconoscono la validità delle sue seconde nozze con Giacomo da Borbone (1415). I ribelli ottengono dal Borbone, fatto prigioniero, la rinuncia al trono nel 1416. 1416 Alfonso V succede al padre Ferdinando I. «Egli si sentiva chiamato all’azione dalla storia e dalla tradizione dinastica che, sulla base del matrimonio di Pietro III d’Aragona con Costanza di Svevia, rivendicava alla Corona d’Aragona da circa due secoli l’eredità integrale del Regno normanno-svevo di Sicilia» (Pontieri, Aragonesi di Spagna e Aragonesi di Napoli: 6). 1419 Giovanna, consigliata dal suo amante Sergianni Caracciolo, si fa incoronare sovrana col nome di Giovanna II. Papa Martino V, in qualità di Feudatario del Regno, indica nel Conte di Provenza Luigi III d’Angiò il successore al trono designato in assenza di eredi legittimi. 1420 Luigi III sbarca in Campania e pone l’assedio a Napoli. Alfonso offre il suo aiuto militare a Giovanna II, in grave difficoltà per l’azione

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concomitante dei nemici esterni (le truppe di Luigi III) ed interni (i baroni irritati dallo strapotere politico del Caracciolo). In cambio, Giovanna adotta Alfonso e lo designa erede, in contrapposizione con quanto stabilito dal Papa. Alfonso V sbaraglia le truppe di Luigi III ed entra a Napoli Ha inizio una difficile convivenza con Giovanna II: per due anni il sovrano aragonese stabilisce la sua corte a Castel Nuovo mentre la regina dimora a Castel Capuano. Alfonso fa arrestare il Caracciolo e pone l’assedio a Castel Capuano. Giovanna, fuggita ad Aversa, dichiara nulla la precedente adozione di Alfonso e designa come erede Luigi III. Alfonso è costretto a tornare in Aragona per fronteggiare il malcontento seguito alle sue riforme amministrative e fiscali e per appoggiare il fratello Giovanni II nel tentativo (fallito) di imporre le pretese dinastiche dei Trastámara sul regno di Castiglia. Dopo la ritirata di Alfonso, le truppe di Giovanna II riconquistano agevolmente il Regno.

Le campagne militari di Alfonso per la conquista del Regno di Napoli. 1432-1443 1432

Sancita una tregua tra i regni di Castiglia e di Aragona (1430), Alfonso riesce a trarre dalla sua parte alcuni dei più potenti baroni del Regno e, stabilitosi in Sicilia, «base preziosa delle sue multiformi operazioni sulla terraferma, in attesa degli eventi» (Pontieri, Aragonesi di Spagna e aragonesi di Napoli: 7), organizza una spedizione militare per conquistare il regno di Napoli.

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Muore Luigi III designando nel suo testamento il fratello Renato d’Angiò come erede del Regno di Napoli. Il 2 febbraio muore Giovanna II. Alla fine di Settembre Renato d’Angiò giunge a Napoli. Alfonso rivendica a sua volta il diritto ad ereditare il Regno, considerando la seconda adozione di Giovanna non valida sul piano giuridico, e dà inizio alla guerra. Il 5 agosto la flotta genovese, intervenuta in difesa di Napoli, sconfigge nei pressi di Ponza la flotta aragonese. Alfonso, preso prigioniero, viene consegnato al Duca di Milano Filippo Maria Visconti, con cui però stringe inaspettatamente un’alleanza in funzione antifrancese. Alfonso ritorna quindi in Sicilia. Alfonso conquista Gaeta e Capua, dove stabilisce la sua corte in attesa di entrare a Napoli. Dal 1440 al ’47 Lorenzo Valla farà parte della sua corte. Renato d’Angiò, sostenuto dal papa Eugenio IV, si reca a Napoli dove stabilisce il quartier generale delle sue truppe. Dopo un assedio di un anno, Alfonso conquista Napoli. Il 26 febbraio Alfonso entra trionfalmente a Napoli. In giugno il Pontefice Eugenio IV riconosce Alfonso come legittimo sovrano del Regno di Napoli. Alfonso a sua volta dichiara il figlio illegittimo Ferrante (nato nel 1424) erede del Regno di Napoli, mentre il successore designato della parte iberica del Regno è il fratello Giovanni. «Dal 1443 al 1459, in virtù dell’unione personale

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rappresentata da Alfonso il Magnanimo [...] il regno di Napoli fece parte di quella consociazione di stati che fu la Corona d’Aragona» (Del Treppo, Il regno Aragonese: 104). In particolare, a Napoli ha sede la cancelleria unica per tutta la Corona d’Aragona, circostanza che rende Napoli un polo d’attrazione per i rappresentanti di diverse professioni giuridiche e intellettuali. Le cariche più prestigiose, ad ogni modo, rimangono appannaggio dei catalani. 2. vita di giovanni pontano (1429-1503) Infanzia ed adolescenza. 1429-1447

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7 maggio: Giovanni Pontano nasce a Cerreto di Spoleto da Giacomo e Cristina Pontano, consanguinei appartenenti alla piccola nobiltà locale. Nella famiglia paterna si annoverano alcuni personaggi di primo piano: un Lodovico (14081439) suo parente era stato protonotario apostolico di Eugenio IV, lo zio Tommaso (1410 ca.-1450) era stato a lungo cancelliere di Perugia. Dopo l’assassinio del padre in una data imprecisata, la famiglia Pontano si trasferisce a Perugia, dove Giovanni compie gli studi superiori sotto la guida di Guido Vannucci, professore di Retorica dello Studio. Allo scoppio del conflitto per la successione del Ducato di Milano, Pontano, molto probabilmente munito di una lettera di raccomandazione dello zio Tommaso (cfr. Pirri, Le notizie e gli scritti di Tommaso Pontano: 398, n. 23), amico del Panormita, viene accolto da Alfonso nel suo seguito.

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I primi passi nella Napoli aragonese. 1448-1454

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Ad ottobre Pontano si stabilisce a Napoli, dove, grazie ai buoni uffici del Panormita, viene protetto dal messinese Giulio Forte, capo della Regia Tesoreria. «A Napoli il giovane Pontano perfezionò la sua cultura, a contatto con gli umanisti che frequentavano la corte di Alfonso, primo fra tutti il Panormita, che gli fu protettore ed amico, e coi maestri che in essa temporaneamente venivano, come Teodoro Gaza, Gregorio Tifernate e Giorgio di Trebisonda per il greco, lo stesso Trapeunzio, Tolomeo Gallina e Lorenzo Bonincontri da S. Miniato per l’astrologia» (Monti Sabia, Profilo biografico: 7-8). In questo periodo Pontano compone alcuni carmina di argomento licenzioso, sul modello di quelli, all’epoca celeberrimi, del Panormita e li raccoglie in un libro (perduto) intitolato Pruritus. Pontano segue il Panormita in una legazione nell’Italia Settentrionale (Roma, Firenze, Bologna, Ferrara, Venezia) volta ad organizzare una lega contro Milano, missione che ha inizio il 22 gennaio e si conclude nel settembre dell’anno successivo. Il catalano Giovanni Olzina, segretario regio, concede a Pontano un posto come scriba nella cancelleria reale. In questo periodo Pontano rifonde i componimenti giovanili, parzialmente purgati, in una nuova raccolta intitolata Amores. Venezia e gli Sforza firmano la Pace di Lodi, che garantirà all’Italia 50 anni di pace.

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Primi incarichi nella Corte napoletana. 1456-1466 1456

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Pontano, che da alcuni anni teneva una scuola (ludus) frequentata dai giovani aristocratici della corte aragonese, viene nominato da Alfonso precettore del nipote Giovanni d’Aragona, incarico ricoperto sino al luglio del 1458: per il suo allievo Pontano compone una raccolta di carmi di argomento religioso intitolata De laudibus divinis. 27 giugno: muore Alfonso e il figlio bastardo Ferrante diventa re di Napoli. Facendo leva sul malcontento popolare, causato da una fiscalità opprimente e dal favoritismo dimostrato dagli Aragonesi nei confronti dei loro connazionali, alcuni dei principali baroni del Regno alimentano un moto insurrezionale ed offrono il trono a Giovanni d’Angiò. Ha inizio in quest’anno la cosiddetta guerra dei Baroni (1459-1464) tra Ferrante, appoggiato dal Papa e dagli Sforza, e Giovanni d’Angiò, appoggiato dai Baroni. Pontano, in qualità di luogotenente del Protonotario del Regno, accompagna Ferrante nella campagna militare in Calabria. Da questo punto in poi la sua vita sarà caratterizzata da continui spostamenti, sia per seguire gli Aragonesi nelle loro numerose campagne militari, sia per prendere parte a missioni diplomatiche. Più avanti assumerà anche le cariche di Luogotenente del Gran Ciambellano e di Protonotario regio (1461) e Consigliere regio (1462). Pontano si sposa con Adriana Sassone del seggio di Portanova (1 febbraio), giovane di diciassette anni di nobile famiglia e dalla cospicua dote. Da questo matrimonio nasceranno

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CRONOLOGIA

1463

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tre figlie (Aurelia, Eugenia e Lucia Marzia) e Lucio Francesco, che compare come personaggio nell’Antonius. Pontano viene scelto per sostituire il Panormita come precettore del Duca di Calabria Alfonso, principe ereditario, proclamato erede al trono nel 1460. Per sancire il prestigioso incarico Pontano compone la sua prima opera in prosa: il De principe, trattato sulle virtù e sul comportamento del sovrano ideale scritto sotto forma di lettera indirizzata ad Alfonso. Il Comune di Perugia offre a Pontano la carica di cancelliere e l’incarico di lettore di arte oratoria nello Studio per un periodo di tre anni; Pontano accetta ma papa Paolo II, signore di Perugia, interviene annullando l’offerta. In questo anno Ferrante aumenta la retribuzione di Pontano di 160 ducati.

La posizione di Pontano si consolida. 1467-1472

1467

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Pontano autorizza una prima diffusione manoscritta del suo trattato grammaticale De aspiratione. 20 aprile: Ferrante concede a Pontano una torre ed una casa nel vicolo dei Bisi, vicino all’abitazione del Panormita. Pontano compone e diffonde in forma manoscritta il De obedientia, dedicato a Roberto di San Severino, il più potente barone del regno. L’opera intende sancire un progetto di convivenza tra il potere aragonese e il potere baronale, costituendo un dittico con il De principe. In questo periodo Pontano comincia a scrivere anche le pagine della sua monografia storica sulla guerra dei Baroni, il De bello neapo-

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1471

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litano. A questo periodo risale anche il suo primo dialogo, il Charon. 6 gennaio: muore il Panormita; l’Accademia Napoletana sposta la sua sede dall’abitazione del poeta palermitano a quella di Pontano. In questo anno, inoltre, Ferrante concede a Pontano la cittadinanza napoletana (onore in precedenza riservato al Panormita): a partire da quest’anno l’umanista smette di adottare per se stesso nei titoli dei suoi scritti l’epiteto «Umber». Pontano acquista una villa fuori città sul colle di Antignano (l’attuale Vomero). L’abitazione, nella quale è ambientata la seconda parte del dialogo Asinus, rappresenterà negli anni per Pontano un amato buen ritiro.

Diplomatico e Segretario regio. 1475-1486 1475

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1480

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A partire da questo anno Pontano è uno dei presidenti della Regia Camera della Sommària. Nel febbraio diviene segretario di Isabella d’Este, sposa del Duca di Calabria, per conto della quale scriverà numerose missive sino al 1482. Ferrante si sposa con Giovanna d’Aragona, sorella di Ferdinando il Cattolico. Pontano assume la carica di Luogotenente della Regia Camera della Sommària. Nel luglio i Turchi occupano Otranto; il Duca di Calabria intraprende una campagna militare per liberare la città. Pontano raggiunge ad Otranto Alfonso, vittorioso contro i turchi; per l’occasione celebra poeticamente la vittoria con due componimenti: le Laudes Alfonsi ducis Calabri de victoria

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1482

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Hydruntina (Lyra 7) e le Laudes Alfonsi Aragonesi ducis Calabri de clarissima eius victoria (Lyra 10) e rievoca la sua partecipazione alle vicende militari della dinastia nel proemio del De aspiratione, pubblicato a stampa quest’anno (è la prima opera pontaniana ad essere stampata). Pontano, dopo aver dato prova della sua fedeltà sui campi di battaglia e nelle missioni diplomatiche, passa al servizio esclusivo del Duca di Calabria in qualità di «segretario maiore». Nel 1482 l’intervento armato di Venezia contro Ercole d’Este dà inizio alla cosiddetta guerra di Ferrara. Gli stati italiani formano un’ampia alleanza per fermare l’espansione veneziana nella valle Padana. Il Regno di Napoli partecipa all’alleanza e Pontano accompagna il Duca di Calabria nella sua spedizione militare nel ferrarese. 7 agosto: la pace di Bagnolo pone fine alla guerra. Pontano figura tra gli artefici dell’accordo. 29 agosto: viene eletto papa con il nome di Innocenzo VIII il Cardinale Cibo in opposizione a Roderigo Borgia, candidato sostenuto da Napoli e Milano. Una seconda congiura di Baroni, appoggiati da Innocenzo VIII, «tentò il supremo sforzo per stroncare il processo attraverso cui Ferrante andava trasformando la monarchia da feudale in assoluta» (Pontieri, Aragonesi di Spagna e Aragonesi di Napoli: 20). La cospirazione viene ben presto scoperta. In gennaio Pontano si reca a Roma (assediata dalle truppe aragonesi) con l’intento di condurre le trattative di pace con il Pontefice. Il

CRONOLOGIA

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28 gennaio Innocenzo VIII proclama Pontano poeta laureato. 11 agosto: dopo estenuanti trattative, Pontano sigla per conto di Ferrante un trattato di pace con Innocenzo VIII, che pone fine al conflitto. 13 agosto: Ferrante fa arrestare il segretario regio Antonello Petrucci insieme ad altri congiurati.

La crisi del Regno Aragonese. 1487-1494 1487 1489

1489-91

1490

Pontano viene nominato segretario regio. A seguito di una nuova crisi dei rapporti tra il Regno di Napoli e il Papato, Innocenzo VIII scomunica Ferrante e lo dichiara decaduto dal trono. Pontano soggiorna stabilmente a Napoli dopo numerosi anni trascorsi per lo più fuori dal Regno in missioni diplomatiche e militari; tale soggiorno diviene l’occasione per pubblicare una parte consistente della sua opera. Nel settembre del 1490, infatti, manda alle stampe in un solo volume il De fortitudine, dedicato alle virtù del nobile guerriero, e il De principe; nell’ottobre del medesimo anno aggiunge a questo dittico la prima edizione a stampa del De obedientia trattato che, dopo la congiura dei baroni e la drammatica fine del traditore Petrucci, viene ancora una volta proposto come invito alla concordia tra il potere regale e quello nobiliare. 1 marzo: muore la moglie Adriana. 7 maggio: sentendosi trattato ingiustamente dal re e dal fisco, annuncia le sue dimissioni da segretario regio in una lettera celebre per la rivendicazione orgogliosa dei propri meriti nei confronti della casa Aragonese. Ferrante trattiene Pontano e gli condona la tassa sulla sua provvisione causa dell’attrito. Pontano

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CRONOLOGIA

1491 1492

1494

intraprende i lavori di ampliamento della villa di Antignano e della Cappella di famiglia (inaugurata nel 1492). Si può ipotizzare che in questo periodo Pontano intraprenda la stesura del dialogo Asinus (vd. Introduzione: 50-51). nel gennaio Pontano dà alle stampe in un solo volume il Charon e l’Antonius 27 gennaio: in un concistoro segreto Pontano, per conto di Ferrante, negozia un accordo con Innocenzo VIII in base al quale il Duca di Calabria viene riconosciuto come legittimo erede in cambio del versamento del censo dovuto alla Chiesa. La minuta dell’accordo viene spedita a Napoli e Ferrante muta alcuni dettagli senza avvertire Pontano (cfr. Introduzione: 50). A luglio Innocenzo VIII muore e Pontano, su incaricato di Ferrante, ottiene dal nuovo pontefice Alessandro VI la ratifica degli accordi precedenti. 25 gennaio: muore Ferrante. Pontano viene confermato segretario regio dal nuovo sovrano Alfonso II. Il re Francese Carlo VIII rivendica in qualità di erede degli Angioini il possesso del Regno di Napoli e, approfittando di una serie di divisioni tra le potenze italiane, organizza una spedizione militare che attraversa numerosi stati italiani.

Gli ultimi anni: una vecchiaia fruttuosa. 1495-1503 1495

15 gennaio: papa Alessandro VI concede a Carlo VIII di attraversare con le sue truppe i territori dello Stato pontificio.

CRONOLOGIA

1496 1498

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23 gennaio: Alfonso II abdica in favore del figlio Ferrante II, detto Ferrandino. Le truppe francesi vincono la resistenza delle truppe di Ferrandino (che ripara in Sicilia) ed assediano a Napoli. 22 febbraio: Carlo VIII, in seguito alla resa dei napoletani, entra trionfalmente in città; Pontano consegna al sovrano le chiavi delle fortezze napoletane e recita un’orazione in nome dei suoi concittadini con la quale chiede per la città l’immunità dalle ritorsioni delle truppe. Si delinea un’alleanza fra il papa, gli Asburgo, la Spagna, Venezia e Milano (Lega Santa) con lo scopo di allontanare le truppe francesi del suolo della Penisola. Temendo di essere circondato da truppe ostili Carlo VIII abbandona Napoli e si ritira verso nord. 7 luglio: Ferrandino ritorna a Napoli. Pontano, accusato di complicità con i francesi, si ritira a vita privata. Negli ultimi anni di vita, libero da impegni politici, Pontano si dedicherà a limare, ordinare ed ampliare il ricco corpus delle sue opere letterarie. Federico I succede al padre Ferrandino. In questo anno Pontano pubblica in un solo volume cinque trattatati: De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De conviventia. I libri sono dedicati ad un gruppo accuratamente selezionato di sodali, tutti fedelissimi di Ferrandino: Iacopo Sannazaro, Rutilio Zenone, vescovo di San Marco, Gabriele Altilio (ritiratosi nel suo vescovato di Policastro dopo l’invasione francese), e Benedetto Gareth detto il Cariteo (segretario regio durante il breve regno di Ferrandino), cfr. Introduzione: 9.

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Pontano compone il trattato De fortuna ed inizia a lavorare al De sermone che lo terrà occupato sino al 1502. Luigi XII, successore di Carlo VIII (morto nel 1498) si accorda con Ferdinando il Cattolico in vista di una spartizione del Regno di Napoli (trattato di Granata). Le truppe francesi entrano in Roma; Alessandro VI dichiara deposto Federico I ed affida il Regno di Napoli a Luigi XII e Ferdinando d’Aragona. La spartizione prevista dal trattato non ha però luogo e l’esercito francese sconfigge Federico I occupando Napoli. Pontano compone il De immanitate ed inizia a lavorare al suo ultimo dialogo, l’Aegidius. 28 aprile: presso Cerignola le truppe spagnole sconfiggono quelle francesi ottenendo così il controllo del Regno 17 settembre: Pontano muore a Napoli. Con il trattato di Lione viene riconosciuta alla Spagna il dominio di Napoli.

NOTA AL TESTO E AL COMMENTO

charon e antonius

1. La data di composizione La documentazione ad oggi nota non permette di conoscere con esattezza la data di composizione dei singoli Dialoghi. Nel caso del Charon è possibile indicare un termine post quem, il 13 ottobre 1467, data di morte del Vescovo spagnolo Juan de Mella che figura tra le anime da poco giunte negli Inferi,1 e un termine ante quem, il 6 gennaio 1471, data di morte del Panormita, menzionato nel dialogo come ancora in vita.2 Le allusioni alla politica contemporanea analizzate da Salvatore Monti, inoltre, permettono di ipotizzare un arco più ristretto compreso tra il maggio del 1469 (i movimenti delle truppe pontificie che preludono alla guerra tra lo Stato della Chiesa e Lega per la successione di Rimini)3 e il 12 luglio 1470 (l’occupazione di Negroponte che segna la conclusione della conquista della Grecia da parte del 1

Char. § 16. Char. § 53. 3 Nella decima scena il dialogo tra Caronte e Minosse sembra alludere alla politica estera di espansione territoriale di Paolo II, cfr. Char. § 45. 2

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NOTA AL TESTO E AL COMMENTO

Turco).4 Per quanto riguarda l’Antonius il problema della datazione risulta particolarmente complesso: «la ricerca del tempo in cui fu composto l’Antonius è circoscritta ad un periodo di vent’anni esatti, delimitato da due date estreme: in alto, il 6 gennaio 1471, data di morte di Antonio Panormita, che ha dato il nome a questo dialogo, in basso, il 31 gennaio 1491, data della sua pubblicazione a mezzo della stampa».5 Nel vuoto di documentazione nel quale ci muoviamo non è possibile restringere i termini di tale datazione in un modo pienamente convincente. Monti cerca di risolvere la questione distinguendo la data alla quale può essere ricondotta l’ambientazione del dialogo e la data di effettiva stesura del testo. La prima andrebbe collocata intorno al 1473, dal momento che i personaggi discutono della morte del Panormita come di un evento avvenuto di recente6 e il personaggio di Lucio, primogenito di Pontano, nato nel 1469, dimostrerebbe un’età di circa quattro anni; la seconda, invece, sarebbe da ricondurre ad un periodo immediatamente successivo al 1483.7 4 Mercurio, rivolto ad Eaco e Minosse, lamenta la caduta definitiva di tutti i territori greci in mano del Turco, cfr. Char. § 46. 5 Monti, Ricerche: 276. 6 Pietro Compare indossa ancora il lutto per il Panormita (Ant. § 3) mentre l’Ospite siciliano che giunge a Napoli non sa ancora della dipartita del grande umanista palermitano. 7 Nell’Antonius si allude alla recente morte di Teodoro Gaza, avvenuta nel 1475 (Ant. § 60), e si definisce l’eruzione del Vesuvio del 1383 come un evento avvenuto «cento anni or sono o poco più» (Ant. § 52), circostanza che porterebbe, ma è un’argomentazione invero debole, a collocare la stesura del dialogo intorno al 1483. Agli elementi presi in considerazione da Monti si può aggiungere che il personaggio della moglie di Pontano allude alla partecipazione del marito alla campagna militare del Duca di Calabria in terra d’Otranto (1480-81) come ad un evento dell’anno precedente (Ant. § 99); nel caso si considerasse tale allusione probante, si

NOTA AL TESTO E AL COMMENTO

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2. Il testo Il Charon e l’Antonius vennero pubblicati a prima volta il 31 gennaio 1491 presso lo stampatore napoletano Mattia Moravo (edizione siglata da Previtera con Mo). Il volume rappresenta l’estremo frutto di una collaborazione intrapresa nel settembre del 1490 con il dittico costituito dai trattati De fortitudine e De principe e proseguito in ottobre del medesimo anno con il De obedientia. La pubblicazione dei due dialoghi, dunque, avvenne molto probabilmente con l’autorizzazione se non sotto il diretto controllo da parte dell’autore.8 La recensio condotta da Previtera individua due manoscritti comprendenti il Charon e l’Antonius: Napoli, Biblioteca Nazionale, cod. VIII G 104 B (definito «di scarso interesse sia perché frammentario sia perché non porta alcun miglioramento a Mo di cui conserva gli errori»),9 Firenze, Biblioteca Nazionale, Laur. Strozzi 106. Liliana Monti Sabia, inoltre, ha successivamente segnalato un codice antigrafo del Charon: Napoli, Biblioteca napoletana di storia patria, Fondo Cuomo, I.6.4510 (siglato con C), il cui testo presenta alcune varianti riconducibili ad una redazione anteriore a quella testimoniata dalla stampa.11 Nella sua edizione Previtera non procede ad una collazione dei manoscritti e si basa su Mo, riportando in apparato potrebbe ipotizzare una stesura intrapresa a partire dal 1481, in occasione del decennale della scomparsa del Panormita. 8 A partire dal 1489 Pontano era tornato a risiedere stabilmente a Napoli dopo alcuni anni trascorsi lontano dal Regno, cfr. Cronologia. 9 Previtera, Introduzione: xvi. 10 Il codice è descritto ed analizzato in Monti Sabia, Un ignoto codice. 11 Monti Sabia, Un ignoto codice: 292.

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NOTA AL TESTO E AL COMMENTO

le varianti delle stampe successive (vd.ne l’elenco nella Bibliografia ragionata). In attesa di una nuova edizione critica dei Dialoghi, pubblico il testo approntato da Julia Haig Gassier per la collana «The I Tatti Renaissance Library» che introduce una paragrafatura e corregge alcuni refusi presenti in Previtera.12

asinus

1. La data di composizione Nel caso dell’Asinus le discussioni in merito alla datazione si intrecciano con quelle relative all’interpretazione del dialogo. Come ho cercato di argomentare nell’Introduzione, è ipotizzabile che il testo sia stato ideato tra il 1490 e il 1492, quando i rapporti tra Pontano e Ferrante erano particolarmente tesi. L’unico dato certo, ad ogni modo, rimane il termine post quem da collocare nell’agosto del 1486, periodo nel quale cadono gli accordi di pace firmati da papa Innocenzo VIII e da Ferrante d’Aragona e la cattura del primo ministro Antonello Petrucci, eventi menzionati ad apertura del dialogo. 2. Il testo L’Asinus apparve a Napoli, presso Sigismondo Mayr, nell’ottobre del 1507 in una stampa postuma curata da Pietro Summonte comprendente anche l’Aegidius e l’Actius (edizione siglata da Previtera con S). Nella lettera a 12 In due casi, inoltre, Gassier accoglie gli emendamenti proposti da Monti Sabia sulla base del confronto tra la lezione di Mo e quella di C: Char. § 38 «septennes nugis» > «septuennes nugis» (Monti Sabia, Un ignoto codice: 294, n. 33); Char. § 38 «vi potiti sunt» > «vi potiti sint» (Monti Sabia, Un ignoto codice: 300).

NOTA AL TESTO E AL COMMENTO

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Federico Puderico che introduce l’Actius il curatore afferma di non aver modificato in nessun caso il testo presente negli autografi, rispettando scrupolosamente le carte del maestro nonostante l’incompiutezza dei dialoghi.13 Un confronto tra il testo di S con l’apografo dell’Actius di mano di Summonte con interventi autografi (Città del Vaticano, BAV, Vat. Lat. 2843),14 molto probabilmente il manoscritto inviato in tipografia, ha dimostrato i limiti di tale affermazione. Summonte, infatti, non si perita di intervenire sul testo con correzioni, banalizzazioni e, talora, interpolazioni. 15 Sfortunatamente soltanto nel caso dell’Actius il manoscritto sul quale il curatore esemplò la sua edizione dei dialoghi inediti di Pontano è giunto sino a noi. La tradizione manoscritta dell’Asinus si limita ad un solo manoscritto autografo con varianti d’autore che riporta la prima stesura delle scene I-IV del dialogo: il Vaticano Latino 2840 (da siglare con V). Il codice, intitolato dal Summonte nella c. 1r «Dialogi archetypum cui titulus est Asinus et quaedam alia Pontani ipsius manu scripta», raccoglie, oltre all’abbozzo dell’Asinus, anche un apografo di mano ignota del De immanitate e i primi sei capitoli del medesimo trattato di mano del Pontano.16 Dal momento che V rappresenta una redazione incompleta e, stando al confronto con S, anteriore all’ultima 13

Actius: 125 Previtera descrive il manoscritto ma non distingue la mano di Pontano da quella di Summonte. 15 Cfr. Tateo, Per l’edizione critica dell’Actius: 157-168 (Tateo è il primo ad individuare e studiare gli interventi summontiani); per il modus operandi di Summonte editore delle opere di Pontano si vd. Moti Sabia, Summonte. 16 Una descrizione accurata del codice si legge in Monti, Fogli autografi: 213-218. 14

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NOTA AL TESTO E AL COMMENTO

volontà dell’autore, Previtera sceglie inevitabilmente come testo base quello di S ma non riporta né in apparato né in appendice il testo di V, scelta deplorata da autorevoli recensori come Scevola Mariotti e Nicola Terzaghi.17 Tuttavia è possibile confrontare agevolmente le lezioni di V e di S grazie a due saggi, tra loro complementari, di Salvatore Monti e Guido Martellotti: il primo pubblica il testo dell’abbozzo «secondo la lezione di ultima volontà dell’autore» corredandolo di un apparato genetico,18 il secondo riporta sia una trascrizione diplomatica del manoscritto che dà conto scrupolosamente degli interventi correttori di Pontano, sia un’edizione dell’ultima fase redazionale testimoniata da V messa a confronto con la lezione di S per mezzo di una tabella.19 Pur essendo consapevole che il testo dell’Asinus non è del tutto affidabile a causa delle probabili interpolazioni di Summonte, pubblico il testo Previtera, emendato nei seguenti luoghi: § 2 hudum > udum (sulla base della lezione di Vat. Lat. 2840 c. 3v, correzione proposta in Martellotti, Abbozzo: 11) 8: coena ut sit > cena ut sit (sulla base della lezione di Vat. Lat. 2840 c. 7r, correzione proposta in Martellotti, Abbozzo: 6) § 9 dicas > ducas (sulla base di Vat. Lat. 2840 c. 1v, correzione proposta in Martellotti, Abbozzo: 6n) § 14 provocandae feracitati > provocandae feracitatis § 12 Talem itaque noster Senex > Talis itaque noster Senex 17

Mariotti, Per lo studio: 199, Terzaghi, Attorno al Pontano:

206. 18 19

Monti, Fogli autografi: 201-219. Martellotti, Abbozzo: 8-29.

NOTA AL TESTO E AL COMMENTO

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le traduzioni e il commento

La traduzione, nelle mie intenzioni quanto più possibile fedele (sia pure con qualche licenza per quanto riguarda la resa dei versi), può essere letta autonomamente o adoperata come guida per affrontare l’originale. Le note sono pensate per una duplice modalità di lettura: il testo italiano è accompagnato da notazioni esplicative mentre quello latino presenta alcune, essenziali indicazioni relative alle fonti.20

Nel licenziare queste pagine desiderio ringraziare Amedeo Quondam, che mi ha seguito ed incoraggiato sin dalle primissime fasi di questo lavoro, Danilo Mongelli, per il suo prezioso supporto redazionale, e quanti hanno pazientemente letto queste pagine, discutendone con me con generosità e intelligenza: Giancarlo Alfano, Maurizio Campanelli, Francesco Ferretti, Alessandra Paola Macinante, Emilio Russo, Carlo Vecce.

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Rinunciando ad ogni presa di esaustività, nell’annotare il Charon ho dato un particolare spazio alle riprese da Luciano mentre nel caso dell’Asinus, oltre a dare conto dei dati più interessanti che emergono dallo studio dell’abbozzo, ho valorizzato la presenza di Plauto. Per quanto riguarda l’Antonius, infine, per ragioni di spazio mi sono limitato all’indicazione dei numerosi passi citati dai personaggi del dialogo nelle loro discussioni, mentre nel caso del poemetto in versi conclusivo ho segnalato soltanto alcune tra le numerose riscritture dai poeti epici latini che sarebbe stato possibile indicare.

DIALOGHI

CHARON. SCHEMA DEL CONTENUTO

I. Minosse, Eaco [I prodigi] Minosse ed Eaco, durante una pausa dalle loro occupazioni, riflettono sui alcuni prodigi (un terremoto, l’apparizione di una stella cometa, un’eclissi solare) che sembrano annunciare «terribili sciagure per i mortali» [§§ 1-2]. II. Caronte, Minosse, Eaco [La malvagità dei mortali] Caronte si unisce alla discussione dei due giudici [§ 3]; dopo aver professato il suo interesse per la filosofia, riferisce il suo incontro con le anime di un tiranno [§ 3] e di alcuni filosofi scolastici che gli hanno proposto alcuni insulsi giochi di parole [§§ 4-5]; Minosse espone le ragioni della pena inflitta ad un tiranno [§§ 6-7]; i giudici e Caronte discutono della malvagità umana a partire dagli esempi di Pitagora e di Cristo [§ 8]; Minosse illustra in termini aristotelici la questione: gli uomini seguono la parte irrazionale della propria anima [§§ 9-10]; Caronte si allontana per raggiungere Mercurio, apparso sulla riva opposta. III. Caronte, Minosse, Eaco [L’educazione e la brevità della vita] Prendendo spunto dai progressi di Caronte nello studio della filosofia, Minosse ed Eaco discutono in merito all’educazione [§ 12]; Eaco sostiene che la vita umana è troppo breve per poter giungere alla sapienza, Minosse ribatte

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CHARON. SCHEMA DEL CONTENUTO

che la durata della vita è sufficiente ma sono gli uomini a sprecare il tempo in attività inutili [§§ 13-15]. IV. Mercurio, Piricalco [Le anime marchiate a fuoco] Mercurio, con l’aiuto di Piricalco, marchia a fuoco le anime, suddividendolo in base alle loro colpe; tra le anime marchiate sono menzionati tre personaggi storici: Pietro di Besalù e i cardinali Ludovico Scarampi Mezzarota e Juan de Mella [§ 16] V. Caronte, Mercurio [La navigazione di Caronte e Mercurio] Caronte saluta Mercurio [§ 17]; Mercurio riferisce che gli dei hanno stabilito di non rapire più le fanciulle dopo che Giove ha perduto i denti a causa di una malattia venerea [§ 18]; i due intraprendono una navigazione per raggiungere Minosse ed Eaco [§ 19]; Caronte e Mercurio si imbattono in Diogene, che vive nell’Erebo [§ 20] e in Cratete, che cerca disperatamente nel fiume infernale i beni che in vita gettò a mare, deriso per questo dai filosofi aristotelici [§ 21]; Caronte e Mercurio discutono sulle dottrine di Platone ed Aristotele [§ 22]; discutendo con Caronte, Mercurio critica i professori di dialettica [§ 23], i medici [§ 24] e gli avvocati [§ 25].

VI. Caronte, Mercurio [La passeggiata di Caronte e Mercurio] Mentre attraversano un paesaggio ameno per giungere dai due giudici infernali, Mercurio espone a Caronte i nomi delle piante nelle quali si imbattono [§ 26]. VII. Minosse, Eaco [L’attesa dei due giudici] Minosse ed Eaco elogiano la bellezza del paesaggio nel quale stanno soggiornando in attesa di Mercurio [§ 27].

VIII. Minosse, Eaco, Mercurio, Caronte [I prodigi, la conoscenza del futuro, la superstizione]

CHARON. SCHEMA DEL CONTENUTO

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Dopo un iniziale scambio di complimenti [§§ 28-29], i giudici pongono alcune domande a Mercurio su come si siano comportati i mortali di fronte ai prodigi che si sono recentemente manifestati sulla terra: il terremoto [§ 30] e la stella cometa [§ 31]; Mercurio espone per quale ragione Dio ha predisposto che i mortali non possano conoscere il futuro [§§ 32-35]; rispondendo ad una domanda di Caronte, Mercurio discute in merito alla superstizione, che è sgradita agli dei [§ 36] e tollerata dai sacerdoti che non si curano «della vera religione» [§ 37]; Mercurio riferisce alcuni esempi di superstizione: gli ex-voto [§ 38], i festeggiamenti dedicati a San Martino e a San Gennaro [§ 38]; dopo uno scambio di facezie tra Caronte e Mercurio [§ 39], il dio afferma di detestare gli ebrei perché dediti alla superstizione [§§ 40-41]; Caronte si allontana per tornare sulla riva, dove si sta radunando una folla di anime.

IX. Caronte, Diogene, Cratete [Aneddoti sulla vita di Diogene] Durante la navigazione, Diogene narra a Caronte alcuni episodi della sua vita: come riuscì a fare a pezzi impunemente una statua lignea di un dio [§ 42] e la “trovata” grazie alla quale mise in fuga i soldati di Alessandro Magno [§ 43]; dopo essere stato salutato da Diogene, Caronte incontra Cratete, follemente ossessionato dai beni perduti [§ 44]. X. Minosse, Mercurio, Eaco [Le guerre in Italia e il pericolo turco] Mercurio riferisce ai giudici che i prodigi annunciano un’imminente guerra mossa in Italia «dai sacerdoti» [§ 45]; gli «odi intestini» che travagliano l’Italia sono la prova della decadenza del popolo romano [§ 46]; ad Eaco che si duole della condizione della Grecia, Mercurio ricorda che i Turchi minacciano l’Italia stessa [§ 47]; Mercurio saluta i giudici e si reca nel vestibolo infernale, dove si radunano le anime che attendono di essere traghettate oltre lo Stige.

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CHARON. SCHEMA DEL CONTENUTO

XI. Mercurio, Teano, Pedano e Menicillo [La satira dei grammatici] Il grammatico Pedano chiede a Mercurio di riferire ai suoi discepoli napoletani alcune “scoperte” apprese dalla voce di Virgilio, Cesare ed Orazio [§§ 49-50]; sopraggiunge un secondo grammatico, Teano, che si azzuffa con Pedano [§ 51]; anche un terzo grammatico, Menicillo, tenta di discutere con Pedano ma viene assalito e malmenato [§ 52]; Mercurio difende Pontano e il Panormita dalle accuse di improprietà lessicale mosse loro da Menicillo [§ 53].

XII. Caronte, Mercurio [La vita dell’anima toscana e il discorso dell’Ospite Umbro] Caronte, durante la navigazione, interroga alcune anime: una meretrice cipriota, amante di un vescovo [§ 54], un frate e un vescovo, dediti alla lussuria e all’usura [§ 55], una fanciulla ingravidata con l’inganno da un sacerdote [§§ 56-57]; sopraggiunge l’anima di un uomo toscano che si prende gioco di Caronte con una serie di facezie [§ 58]; interrogato da Caronte, l’uomo espone la sua vita, caratterizzata da un filosofico distacco dalle miserie umane, espresso per mezzo di una sarcastica risata [§§ 59-61]; Caronte, dopo averlo elogiato, chiede all’uomo di esporgli la vita di alcune anime presenti nella barca [§§ 62-63]; l’anima dell’uomo toscano elogia la vita e la dottrina di un uomo che «filosofeggiava con le parole e con le azioni» [§ 63]; Caronte soprannomina l’uomo Ospite Umbro e gli chiede di discutere sulla virtù; l’Ospite Umbro elogia la virtù in termini aristotelici, come un giusto mezzo che permette agli uomini di conciliarsi durante la vita con Dio e di unirsi ai celesti dopo la morte [§ 64]; Caronte, dopo avere elogiato il discorso dell’Ospite Umbro, si allontana, affidando le anime a Mercurio [§ 65]. XIII. Coro delle anime colpevoli XIV. Coro delle anime innocenti

CARONTE CHARON

I. MINOS, AEACUS INTERLOCUTORES [1] MINOS Qui magistratum, Aeace, gerunt, iis nunquam sine negocio ocium esse debet. AEACUS Prudenter atque e re dictum a te est, Minos; nam et in ocio cogitare oportet de negocio1 et ubi liberior aliquanto factus est curis animus, quia tum longe maxime quid verum sit cernit, exercendus hic est, a sene praesertim, cui non ut ineunti aetati pila et trochulus, sed rerum optimarum cognitio2 atque scientia curae esse debeat. 1 Cfr. la sentenza attribuita da Cicerone a Scipione l’Africano: «Magnifica vero vox et magno viro ac sapiente digna; quae declarat illum et in otio de negotiis cogitare et in solitudine secum loqui solitum ut neque cessaret umquam et [interdum] conloquio alterius non egeret» (Cic. Off. 3, 1). L’allusione all’Africano appare significativa se si tiene conto del fatto che Scipione è presentato da Pontano nel De principe (1464-65 ca.) come modello ideale per il giovane Duca di Calabria Alfonso d’Aragona (cfr. Princ. 5, 13, 25-26); insieme a Cesare Scipione è il personaggio del mondo romano al quale Pontano rinvia più spesso nelle opere etico-politiche, cfr. Canfora, Riflessioni di Pontano su Cesare e Scipione. Occupare il tempo libero in riflessioni che preparano all’azione e al compimento dei propri doveri è, secondo gli umanisti, abitudine propria del buon consigliere e del buon principe, si vd., per fare un solo esempio, la Vita di Ferrante di Giovanni Filippo De Lignamine (1471): «et ut Hercules ociosus esse nunquam poterat» (cit. in Pontieri, Ferrante: 49). 2 Pontano richiama la definizione della filosofia come «rerum

I. MINOSSE, EACO [1] MINOSSE Quanti ricoprono una carica pubblica, Eaco,1 non devono trascorrere il riposo senza occuparsi dei propri doveri. EACO Quel che dici, Minosse,2 è saggio e sensato: senza dubbio dobbiamo pensare ai nostri doveri anche durante il riposo e l’animo quando è un poco più libero dalle preoccupazioni, dato che allora distingue nel modo migliore quello che è vero, deve essere esercitato, soprattutto da parte di un vecchio che non si deve occupare, come fanno i fanciulli, della palla e della trottola ma della conoscenza approfondita delle cose migliori.

1 Figlio di Zeus e di Egina, da lui discesero Peleo ed Achille; dopo la morte, secondo il mito narrato da Platone (Plat. Ap. 41a, Gorg. 523e), divenne uno dei tre giudici infernali insieme a Minosse e Radamanto. 2 Mitico re di Creta, figlio di Zeus e di Europa, celebre per la sua saggezza.

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MIN. Scilicet non dies noctesque aut dormienti tibi aut potanti optatum illud a diis optigit, nati ut sint Myrmidones,3 sed animum colenti et prudenter ac pari iure moderanti populos. AEAC. Sunt haec, Minos, ut dicis, quae diis immortalibus tribuere solebam, quorum erat muneris ut boni prudentesque haberemur. Eorum ergo benivolentiam non thure et extis magis quam recte agendo, prudenter consulendo, iuste imperando conciliare studebam mihi. [2] MIN. Deorum profecto, deorum est, ut dicis, ista benignitas; quos non hedorum sanguis aut frugum primitiae placatos faciunt, sed innocentia, veritas, castitas, fides, continentia, quae sunt illorun munera;4 quibus qui utantur, iis consilia ipsi sua aperiunt seque inspiciendos praebent; quin, quod deorum est proprium, non abstinentes modo et moderatos quos noverint in coelum ad se, ut scimus, evocant, verum incontinentius qui vixerunt, dum poeniteat, dum in viam redeant, in eos quoque clementes sunt atque benefici. Etenim Deus ille Optimus Maximus non tam peccata ulciscitur quam miseratur et parcit.

optimarum cognitio» presente nel III libro del De oratore (Cic. Orat. 3, 16, 59-60, parallelo segnalato in Haig Gassier, Notes: 350). 3 Cfr. Ov. Met. 7, 614-657; Hyg. 52; Strab. 8, 6,16. 4 Cfr. «Atque hoc scelesti in animum inducunt suom, / Iovem se placare posse donis, hostiis: / Et operam et sumptum perdu[u]nt» (Plaut. Rud. 21-23), passo postillato da Pontano nel suo codice delle opere di Plauto (Vindob. Lat. 3168), cfr. Cappelletto, Lectura Plauti: 97. Possibile anche l’influenza di un passo del profeta Michea: «Nunquid nunquid offeram ei holocautomata et vitulos anniculos? / Nunquid placari potest Dominus in millibus arietum, / aut in multis millibus hircorum pinguium?» (Mic. 6, 6-7).

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MIN. Difatti ti è capitato quello che avevi richiesto agli dei, che nascesse il popolo dei Mirmidoni,3 non mentre dormivi o bevevi giorno e notte, ma mentre curavi il tuo animo e governavi i popoli con prudenza e giustizia. EAC. Queste mie virtù, caro Minosse, ero solito attribuirle agli dei, grazie ai quali ero considerato buono e prudente. Cercavo di ottenere la loro benevolenza non con l’incenso ed i sacrifici ma con un comportamento corretto, deliberando con prudenza e governando secondo giustizia. [2] EAC. È propria degli dei, è indubbiamente degna di loro una simile bontà: infatti non sono il sangue dei capretti e le primizie del raccolto ad ammansirli ma l’innocenza, la sincerità, l’integrità, la lealtà, la moderazione, che sono i loro doni; a chi ne fa uso gli dei si offrono alla vista e manifestano le loro decisioni4. Anzi – è una loro prerogativa – chiamano in Cielo presso di loro, come sappiamo, non soltanto quanti si sono dimostrati continenti e moderati, ma sono clementi e liberali anche nei confronti di chi è vissuto in modo alquanto dissoluto, purché si penta, purché ritorni sulla retta via. Infatti il Padre Eterno5 piuttosto che punire i peccati con la sua vendetta li commisera e li perdona.

3 In greco il nome significa «formiche»; secondo il mito, infatti, dopo che gli abitanti di Egina furono sterminati per opera di Giunone, il loro re Eaco ottenne da Giove di ripopolare l’isola trasformando le formiche in esseri umani. 4 Minosse ed Eaco criticano un’interpretazione superstiziosa e superficiale della religione; tale critica si riferisce ai culti pagani, tuttavia, con un trasparente meccanismo allusivo, può essere estesa agli stessi riti cristiani, come è evidente nel caso delle battute di Caronte e Mercurio dedicate alla superstizione nella scena VIII (§§ 36-39). 5 Pontano ricorre all’espressione Deus Optimus Maximus («Dio Ottimo Massimo»), con il quale gli scrittori latini si riferiscono a Giove; l’espressione è volutamente ambigua in quanto tale epiteto, con vezzo classicista, è talora adoperato dagli umanisti per riferirsi al Dio cristiano.

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Amat hominum genus; et dum aut pestem illis aut tempestates immissurus est, in iram eorum sceleribus provocatus, nunc monstris praemonet, nunc per ostenta declarat, et cum maxime iratus est, per crinitas stellas, ut procurationem adhibeant, qua placatus ipse sententiam mutet. Et certe maximas fore in terris discordias et calamitates auguror. Meministi enim ut excussa est nuper terra, ut movit ab imis usque sedibus et quam saepe! Pessima quaedam videntur portendi mortalibus et animus scire avet. Quamobrem, si videtur (ferias enim agimus et collega Rhadamanthus hodierno satis est muneri), concedamus ad ripam5 et sub amoena cupressorum umbra consideamus tantisper, dum e terris aliquis ad nos eat; ad quod vel invitare lenis aquarum decursus potest, vel, quod nostra scire interest quid agant homines, ut ad illorum actiones iudicia comparemus. AEAC. Recte, Minos, et commode; nam et mens ipsa praesagit triste nescio quid ac periculosum imminere mortalibus, et ipse meministi, nuper dum in sacerdotes illos sententiam diceres, queri eos et aegre ferre laborare Italiam seditionibus magnosque ea legi exercitus. Quamobrem in pratum hoc descendamus, si placet.

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Cfr. «Diogene Antistene e Cratete, dal momento che non abbiamo niente da fare, perché non ce ne andiamo passo passo direttamente alla discesa a vedere com’è e cosa fa ciascuno di quelli che discendono?» (Luc. DMort. 22, 1 traduzione di Vincenzo Longo).

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Ama il genere umano; quando, incitato all’ira dai loro peccati, sta per inviare contro gli uomini epidemie o calamità, ora li ammonisce per mezzo di prodigi, ora lo annuncia per mezzo di portenti, oppure, se è irato in sommo grado, ricorre alle stelle comete,6 affinché provvedano ad un rito propiziatorio che, placandolo, possa mutare la sua decisione. Per questo motivo posso prevedere con certezza che sulla terra accadranno guerre ed orribili sventure. Ricorderai, infatti, in che modo poco fa la terra è stata scossa con una violenza tale da muoversi più volte sin dalle profondità infernali.7 Sembra che sventure terribili attendano i mortali e l’animo brama di sapere. A questo scopo, se lo ritieni opportuno (noi siamo in ferie e per gli affari odierni può bastare il collega Radamanto), scendiamo verso la riva e sediamo insieme sotto l’amena ombra dei cipressi fintanto che giunga qualcuno dal mondo dei vivi; ci invita a farlo il dolce scorrere delle acque o piuttosto il fatto che a noi interessa sapere che cosa fanno gli uomini per adeguare i nostri verdetti alle loro azioni. EAC. Dici bene e opportunamente, Minosse; la mente presagisce che qualcosa di funesto ed infausto minaccia i mortali: tu stesso ricorderai che, mentre stavi emettendo una sentenza di condanna nei confronti di alcuni sacerdoti, costoro si lamentavano che l’Italia fosse afflitta dalle rivolte e mal sopportavano che si andassero radunando grandi eserciti.8 Quindi, se ti va, scendiamo verso quel prato. 6 Allusione al primo dei tre prodigi spaventosi elencati sul finire del § 35: l’apparizione di una cometa, un forte sciame sismico, l’eclissi solare; Pontano si riferisce qui alla cometa di Halley, avvistata nei cieli italiani l’8 giugno 1456, cfr. Monti, Ricerche: 776-778. 7 Allusione alla serie di terremoti che colpirono l’Italia dal dicembre del 1456 al gennaio del 1457, cfr. Monti, Ricerche: 773-776. 8 È probabile che Pontano alluda alla crisi apertasi dopo la morte del signore di Rimini Sigismondo Pandolfo Malatesta. In quella occasione lo Stato della Chiesa si oppose ad una Lega comprendente Milano, Firenze e Napoli; nel maggio del 1469 i movimenti delle truppe pontificie ai confini dello Stato della Chiesa

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MIN. Descendamus, et, si tibi videtur, Charontem ad nos vocemus, nam et ipse ociosus est. AEAC. Et ocium agit et oratio eius erudita et gravis est.

II. CHARON, MINOS, AEACUS [3] CHARON Equidem vel ex hoc conditionem hominum infelicem iudico, quod sperato omnes victitant; quid enim eorum est spe inanius? MIN. Quaenam sunt ista, Charon? CHAR. Cuia ea est oratio? Quos ego procul video? O aequissimi animarum iudices, salvete multum, et, per Stygem, unde vobis tantum est otii a foro ac iudiciis? MIN. Eadem nostri huius otii causa est quae et tui. Scis enim quam hoc triduum nihil ad nos animarum traieceris. CHAR. Istud ipsum mecum admirabar atque adeo indignabar, ita spe deceptum me mea, ut in Plutonis aerarium ne collybum quidem triduo hoc toto contulerim.

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Scendiamo e, se credi, chiamiamo Caronte9: anch’egli è a riposo. EAC. Si trova a riposo e la sua conversazione è dotta e autorevole. MIN.

II. CARONTE, MINOSSE, EACO10 [3] CARONTE (fra sé) Per quanto mi riguarda, anche solo da questo particolare giudico infelice la condizione umana: tutti tirano avanti sperando, e cosa c’è di più vano della loro speranza? MIN. Che parole son queste, Caronte? CAR. Chi parla? Chi vedo laggiù? Mille volte salve, giustissimi giudici delle anime! (si avvicina con la sua barca alla riva) Per lo Stige, ditemi, per quale motivo vi è concesso un così lungo riposo dal tribunale e dalle sentenze? MIN. La causa del nostro riposo è la medesima del tuo. Sai bene che negli ultimi tre giorni non ci hai portato nemmeno un’anima. CAR. Proprio di questo mi meravigliavo tra me e me con molto sdegno: a tal punto mi sono ingannato nella mia speranza che in questi tre giorni non ho potuto versare nemmeno una monetina nelle casse di Plutone!11 Ma fecero precipitare la situazione; ne seguì una breve guerra conclusa con un faticoso accordo diplomatico nel 1470, cfr. Monti, Ricerche: 783-787. 9 Traghettatore infernale, adibito al trasporto delle anime oltre il fiume infernale dell’Acheronte; descritto da Virgilio come un demone spaventoso (Verg. Aen. 6, 298-304), viene immaginato da Pontano come «studioso della sapienza» (§ 6) e, per questo, interessato al pari di Minosse ed Eaco alla «condizione umana». 10 La scena si sposta sulla riva (il «prato» menzionato al § 2); bisogna immaginare che Caronte rimanga sulla barca durante la discussione. 11 Nella Grecia antica era usanza nascondere una moneta sotto la lingua dei cadaveri come obolo da consegnare a Caronte

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Itaque quae vita esse potest mortalibus inter tot ac tam varias necessitudines, quos spes tam assidue frustretur ac ludat? Eorumque vel maximum hunc errorem esse duco, quod inter deas spem numerant, quae humanae fortunae ancilla est, varia, inconstans, fallax pellacissimaque et bonorum et malorum omnium. Quod modo tyrannus declaravit, qui, dum regnum animo concipit, spe sua lusus, vix tandem ad ripam huc pervenit, nudus, plorabundus, claudus, senili gressu, fallentibus vestigiis, ex tot tantisque male partis divitiis vix annulum secum ferens.6 [4] AEAC. Doctiorem te factum, portitor, gaudemus; et, per Herebum, egregie philosopharis!7 CHAR. Quid ni philosopher, qui tot annos doctissimos homines, qui trans ripam inhumati errant, disserentes audiam? Eorum ego disputationibus mirifice delector, et, ubi vacat, etiam auditor fio magnamque ex eorum dictis voluptatem uberemque fructum capio.8 Quosdam tamen ut ridiculos aegre fero et stomachor; sunt enim partim nimis captiosi et fallaces, partim inanes et lubrici; qualis Parisius 6 Se il motivo della disillusione dell’uomo ricco e potente che negli inferi si rende conto di non avere più con sé le sue ricchezze è un tratto che caratterizza i Dialoghi dei morti lucianei nel loro complesso (cfr. in particolare DMort. 2, 20 e 29), la rappresentazione di questo tiranno risente in particolare del dialogo Cataplus, con la commistione dell’Apokolokyntosis per quanto riguarda il particolare della zoppia. 7 La trasformazione di Caronte in aspirante filosofo prende spunto dall’incipit del Charon sive contemplantes nel quale Caronte confida a Mercurio di essere giunto sulla terra per «vedere come sono le cose della vita e quello che fanno gli uomini in essa o di che cosa privati piangono tutti, quando scendono da noi» (Luc. Cont. 1, trad. di Vincenzo Longo), interesse per la condizione umana che in Luciano è mera curiosità e che in Pontano diviene una sorta di interesse professionale, condiviso da Minosse ed Eaco. 8 Dal Charon sive contemplante Pontano ricava lo spunto per l’invenzione di un Caronte uditore delle anime dei filosofi: «CAroNtE [...] Avendolo sentito recitare molti versi, mentre lo traghettavo [scil. Omero] quando morì, me ne ricordo ancora alcuni» (Luc. Cont. 7, trad. di Vincenzo Longo)

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come possono vivere i mortali tra tante angustie? La speranza li delude di continuo e si prende gioco di loro… per me il loro errore più grande è quello di annoverare tra le dee la Speranza, quell’ancella della Fortuna umana che è volubile, incostante, subdola ed inganna oltre modo i buoni come i malvagi; è quanto ha affermato poco fa un tiranno il quale, mentre nel suo animo accarezzava il regno, beffato nella sua speranza, pervenne affannato su questa riva, nudo, in lacrime, zoppo, con passo senile, incespicando e portando con sé, di tante ricchezze accumulate con tante azioni disoneste, appena un anello. [4] EAC. Ci rallegriamo, traghettatore, che tu sia divenuto più dotto; per l’Erebo,12 filosofeggi in modo eccellente! CAR. Perché non dovrei farlo io che per tanti anni ho ascoltato discutere tra loro quegli uomini dottissimi che errano insepolti oltre la riva?13 Le loro discussioni provocano in me un mirabile diletto e quando ho del tempo libero mi offro come loro discepolo e ricevo dalle loro parole un grande piacere e un giovamento profondo. Tuttavia alcuni di loro, in quanto ridicoli, li sopporto a stento e mi arrabbio; alcuni, infatti, sono troppo capziosi e ingannevoli, mentre altri sono inconsistenti e incomprensibili, come

in cambio del trasporto dell’anima del defunto all’altra riva dell’Acheronte. 12 Il termine (in greco «oscurità») è adoperato dai poeti classici come sinonimo del regno infernale. 13 Pontano immagina che alcuni filosofi e saggi del mondo pagano errino in eterno sulla riva del fiume Acheronte senza essere ammessi nella barca di Caronte.

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sophistes, qui nuper congressus est mecum, et, per Plutonem, quam audacissime: «Morieris, Charon!» vociferabatur. Ego me, qui de mortalium non essem numero, moriturum negabam; at ille, «Morieris!» inclamabat. «Quinam hoc fiet?» inquam. Tum ille distortis superciliis: «Charo, inquit, es, omnis autem charo morti est obnoxia, morieris igitur; et cum diutius vixeris, brevi morieris». Tum ego, ut qui eius amentiam non ferrem, vix continui quin eum in fluvium deturbarim. Quid alter? quam pene risu me confecit! «Remus, inquit, Romuli frater fuit; plures istic remos habes, plures ergo fratres tecum sunt Romuli». Hoc audito, Aeace, ita sum risu commotus, ut dirumpi timuerim. Sed et tertius, cum me solventem videret, «Audi, inquit, Charon, et disce». «Recte, inquam, hospes, admones, nunquam enim satis quisquam didicit.» «Disce, inquit ille, novum est hoc: Palus, inquam, est quam navigas, palus autem lignum est, lignum ergo, non aquam navigas.» Vix hic finierat, cum quartus quoque aegre ferens priorem illum argumentatum, «Et me, inquit, audi: Tribus, portitor, manibus uteris; etenim palma manus cum sit et tribus ipse palmis remiges, tribus profecto manibus uteris». [5] Atque ferenda haec

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quel sofista parigino14 che poco fa si accostò a me e, per Plutone!, con quanta audacia si mise a strillare: «Caronte, tu morirai»! Io, non appartenendo al numero dei mortali, negavo che sarei morto; «Morirai!» mi minacciava il sofista; «Ma come può mai accadere?» gli chiesi. Al che, con le sopracciglia aggrottate, rispose: «Tu sei Caronte [Charo in latino]; tutta la carne [caro in latino] è soggetta alla morte; quindi tu morirai; e dato che sei vissuto piuttosto a lungo, morirai tra poco». Allora io, che non sopportavo la sua follia, mi trattenni a stento dal gettarlo nel fiume. Ma che dire di quell’altro? per poco non mi ha fatto morire dal ridere! «Remo» disse «fu il fratello di Romolo; tu hai in questa barca più di un remo, ergo hai con te molti fratelli di Romolo.» Dopo aver sentito questo, caro Eaco, sono stato assalito da un riso così forte che temevo di scoppiare. Ma ecco un terzo che quando mi vide sciogliere gli ormeggi disse: «Caronte, ascolta e impara». «Ospite, mi dai un buon consiglio,» feci io «non si smette mai di imparare.» E lui: «Impara, è un trucco nuovo. Quella che stai attraversando con la barca» diceva «è una palude [pa¯lus in latino], ma il palo [pa¯lus in latino] è fatto di legno, quindi non stai navigando l’acqua ma il legno». Questi aveva appena concluso quando un quarto, che non sopportava che il precedente avesse svolto la sua argomentazione, disse: «Ascolta anche me: tu, traghettatore, utilizzi tre mani; infatti dal momento che il remo significa anche mano [il termine palma indica sia il remo sia il palmo della mano], e dato che tu navighi utilizzando tre remi, di conseguenza tu fai uso di tre mani». [5] Forse è bene tollerare questi giochetti nei bambini men14 Il «sofista parigino», un teologo dello Studio di Parigi da quanto si intuisce dal testo, propone a Caronte una serie di insulsi indovinelli e giochi di parole adottati nelle scuole per facilitare l’apprendimento di nozioni lessicali. Nella rappresentazione negativa del «sofista parigino» si avverte anche l’eco della secolare polemica che vede gli umanisti italiani contrapporsi all’aristotelismo d’oltralpe (cfr. più avanti il § 23).

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fortasse videantur in pueris, dum ingenium acuunt. Senes vero tam insigniter delirantes, et eos praesertim qui de natura ac Deo disserunt, quis ferat? Nuper supersticiosulus quidam, cum ex eo quaererem nunquid e terris novi afferret, plures qui diem obierant revixisse; quocirca scire e vobis vehementer cupio, qui animarum omnium tenetis numerum, an earum aliquae aut ipsae aufugerint aut furto subreptae vobis fuerint; ego certe scio neminem unam retro a me revectam. AEAC. Et priora illa, Charon, omnino contemnenda non sunt, pertinent enim ad quaerendam veritatem, et posteriora haec nequaquam improbanda, quippe cum relligionem augeant. Quaedam etiam suapte natura nobis sunt incognita. [6] CHAR. Sint ista ut dicis, quando nihil ad nos attinent; quam ob rem missa nunc faciamus. Sed, quod nunc mihi in mentem venit et admirari nunquam ipse satis possum. Si per leges vestras licet nosse, id ex te velim: cur postquam de tyranni capite sententiam tulistis, non inter sontes eum et scelerosos, verum trans ripam illam, ubi solus agit, relegastis? AEAC. Honestum sane est scire quod postulas; aequius tamen erit id te ex Minoe quaerere, cuius illud fuit iudicium. CHAR. Nimirum, ut alia Minois omnia, sic et hoc est cognitu dignissimum. Quamobrem, optime Minos, ut cuius iudicium admiramur, eius quoque teneamus consilium, ne gravere palam illud nobis facere.

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tre esercitano il loro ingegno, ma chi può sopportare dei vecchi intenti a delirare in modo così singolare, soprattutto quando si tratta di coloro i quali discettano su Dio e sulla natura? Poco fa un ometto superstizioso, al quale avevo chiesto se mi portava qualche notizia dalla terra, mi disse che numerosi morti erano tornati a rivedere il giorno; a proposito di questo desidero vivamente sapere da voi, che tenete il conto di tutte le anime, se alcune di loro sono per caso fuggite o se vi sono state sottratte con l’inganno; io so per certo di non averne ricondotta indietro nessuna. EAC. Le prime cose che hai menzionato, Caronte, non sono del tutto da disprezzare: riguardano la ricerca della verità, e le ultime non devono in alcun modo essere disapprovate, soprattutto quando rafforzano il sentimento religioso. Si tratta per giunta, in quest’ultimo caso, di questioni che per la loro stessa natura ci sono ignote. [6] CAR. Sia pure come dici, considerato che tali questioni non ci riguardano; quindi lasciamole stare. Ma ora mi viene in mente un’altra cosa della quale non smetto di meravigliarmi: se per le vostre leggi è lecito saperlo, vorrei che mi spiegassi perché, dopo che lo avete condannato a morte, non avete gettato il tiranno tra i colpevoli e gli empi ma lo avete relegato laggiù, oltre la riva, dove si trova da solo?15 EAC. È certamente onesto sapere quello che chiedi, tuttavia sarebbe più giusto chiederlo a Minosse: è lui che ha emesso la sentenza. CAR. Senza dubbio, come accade con tutte le altre cose che riguardano Minosse, anche questa sentenza merita di essere conosciuta. Per questo, ottimo Minosse, non esitare ad esporla di modo che noi possiamo comprendere la sentenza di colui del quale ammiriamo la saggezza. 15

A rigore non è possibile affermare che tale personaggio sia il medesimo tiranno menzionato da Caronte nel § 3. Risulta altresì difficile identificare il tiranno in questione con un personaggio storico, considerata l’assenza di elementi solidi sui quali costruire un’ipotesi, cfr. Monti, Ricerche: 770-773.

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MIN. Et facile est docere quod postulas et ego libenter hoc fecero; pertinet enim ad sapientiam, cuius te studiosum esse factum magnopere laetor ac laudo. Quamobrem, ut consilium illud de relegando tyranno iuxta mecum teneas, sic habeto: praeterquam quod varius, perfidus, immanis et supra quam dici possit rapax fuerit, seditiosissimus omnium mortalium et fuit et ipse confessus est, nullis adhibitis tormentis. Itaque dies noctesque nihil unquam aut cogitavit aliud aut egit quam quomodo lites serere, tumultus excitare, bella movere aut augere mota posset, pacis ac quietis inimicus. Eum ego, cui aliena documento essent pericola, ne inter Manes seditionem aliquando faceret, e republica esse duxi eiectum, urbe nostra omnique quod Lethee cingitur solo trans ripam illam inter errantes umbras exterminare; quin et legem statuere placuit, ne cui adire illum neve inspectare liceret a centesimo lapide. [7] CHAR. Et iuste et prudenter factum, Minos; sed quod septimo quoque die in rubetam versus, ubi diem totum concrepuit, vesperi ab hydro depastus interit maneque in umbram reviviscit? MIN. Quod fecit patitur: vorare alios suetus, ipse nunc devoratur.9 CHAR. Quam iure, quam merito! Atque utinam mortalibus nota supplicia haec essent! Moderantiores illos sperarem fore minusque ambitiosos, nec tam alieni appetentes. MIN. An, obsecro, Pythagorae oblitus es? Et meminisse certe debes; venit enim ad nos torrida facie, ustilato capillo, 9

Pontano immagina per il tiranno un vero e proprio contrappasso, ispirandosi, piuttosto che alla descrizione dei supplizi inflitti ai Titani che si leggono negli autori classici, all’Inferno di Dante (un riferimento alla prima cantica si legge in Antonius § 28: «Platonemque hoc ipsum latuisse, item Vergilium Dantiumque, qui de rebus infernis ultimus scripsit»); questa eterna metamorfosi, che si conclude con un supplizio ciclico, può ricordare la pena inflitta ai ladri nel canto XXV dell’Inferno (vv. 47-123); una pena “dantesca” si legge più avanti al § 62. Per la presenza di riprese intertestuali della Commedia vd. Geri, Lettura: 236-241.

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MIN. È facile soddisfare la tua richiesta, lo farò volentieri; pertiene infatti alla sapienza della quale ti sei fatto studioso, circostanza della quale mi rallegro e per la quale mi congratulo molto con te. E perché tu possa concordare con la scelta di tenere in disparte il tiranno, ascolta: quell’uomo, oltre ad essere stato volubile, perfido, crudele e indicibilmente rapace, è stato il più sedizioso di tutti i mortali, lo ha confessato egli stesso senza bisogno di torture. E così, nemico com’era della pace e della quiete, notte e giorno non pensò ad altro né fece cosa che non contribuisse a far serpeggiare le liti, suscitare i tumulti, far scoppiare le guerre o farne aumentare la gravità una volta scoppiate. Io allora, prendendo esempio dai pericoli corsi dagli altri, perché non facesse scoppiare un giorno una ribellione tra le anime dei morti, l’ho espulso dal nostro stato e l’ho esiliato lontano dalla città e da tutti i terreni che il Lete cinge, oltre la riva, tra le anime erranti; inoltre mi è parso opportuno stabilire per legge che nessuno possa avvicinarsi a lui o stare ad osservarlo nel raggio di cento miglia. [7] CAR. Decisione prudente e giusta, Minosse; ma per quale motivo il settimo giorno, mutato in raganella, là dove ha gracidato tutto il dì, a sera muore divorato da una biscia e il giorno seguente rinasce? MIN. Subisce quello che ha fatto in vita: era solito divorare gli altri, ora viene divorato. CAR. Quanto è giusto, quanto è meritato! Ah se tali supplizi fossero noti ai mortali! in tal caso, lo spero, sarebbero più moderati e meno ambiziosi, e niente affatto avidi dei beni altrui. MIN. Ma, dimmi, ti sei dimenticato di Pitagora? Eppure dovresti ricordarlo: giunse da noi con il volto ustionato,

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adesis naribus.10 Nam dum inter mortales haec praedicat, dum suppliciorum eos horum ammonet, igne ab nefariis adolescentibus aedibus iniecto occiditur CHAR. O bone Pluton, quaenam haec est tanta ingratitudo atque immanitas? Hoccine docendi atque instituendi praemium? MIN. Ingratissimum est genus hominum atque incontinentissimum. Omitto poetas, qui primi de inferis vera prodiderunt, quam nunc omnes contemnunt! Socratem veneno petierunt, virum sane optimum ac sapientissimum; et profecto quae in Christum egerint nosti. Nam et lateris et pedum eius vulnera attrectavimus, vix credentes tantum homines facinus admittere ausos.11 CHAR. Et quidem ille veritatem docebat. MIN. O Charon, Charon, ignorare videris veritatem semper odio fuisse mortalibus, eam ex hominum coetu eiectam atque in exilio agentem dum restituere Christus nititur, quae passus est nosti. [8] CHAR. Unde haec hominibus improbitas, Minos? Nam et homo ipse fuisti et diu Cretensibus imperasti, res eorum moderatus. MIN. Quam mox istud. Nunc illud inspice et considera, quod unum tibi cum primis eorum declarare possit improbitatem. CHAR. Expecto quodnam hoc sit. MIN. Audi et detestare. Nam et ipsis nunc mortalibus detestabilissimum videri satis scio quod Christus ab iis hominibus quos docuisset, quibuscum tot annos innocen10

Pontano contamina diverse notizie relative alla morte di Pitagora tramandate dalla tradizione dossografica (Diog. Laert. 7, 40) dando vita ad un unico racconto nel quale è messo in rilievo lo stretto rapporto tra l’insegnamento morale e l’ingratitudine degli uomini. 11 Pontano modifica l’iconografia tradizionale che prevede il trionfo di Cristo negli inferi immaginando un compianto dei demoni sul corpo di Gesù cfr. l’Introduzione: 21.

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i capelli bruciati, le narici consumate. Mentre predicava queste cose ai mortali, mentre li ammoniva riguardo a tali supplizi, venne ucciso dal fuoco che alcuni giovani scellerati avevano appiccato a casa sua. CAR. O buon Plutone! Cos’è mai una simile ingratitudine, una tale ferocia? È forse questo il premio per chi educa ed istruisce gli uomini? MIN. Il genere umano è oltre misura ingrato e intemperante. Lascio da parte i poeti, che per primi riportarono la verità sugli inferi – oggigiorno tutti li disprezzano così tanto! Uccisero con il veleno Socrate, il migliore degli uomini, si può dire, e il più sapiente, e senza dubbio ricordi come si sono comportati nei confronti di Cristo. Abbiamo toccato con mano le ferite al costato e ai piedi, credendo a stento che gli uomini avessero osato macchiarsi di un crimine così grande. CAR. Eppure egli insegnava loro la verità. MIN. Oh Caronte, Caronte! Sembri ignorare che la Verità è sempre stata odiata dai mortali. Scacciata dal consesso degli uomini viveva in esilio quando Cristo, subendo tu sai quali sofferenze, cercò di riportarla tra loro. [8] CAR. Da dove viene agli uomini questa malvagità, Minosse? Anche tu sei stato un uomo e hai regnato a lungo sopra i Cretesi, governando le loro faccende. MIN. Di questo parleremo tra poco. Adesso, invece, rifletti attentamente su un fatto che da solo può mostrarti al meglio la loro malvagità. CAR. Attendo di sapere di cosa si tratta. MIN. Ascolta e inorridisci. So bene che adesso agli stessi mortali risulta oltre modo detestabile che Cristo sia stato ucciso crudelmente dagli uomini ai quali aveva insegnato e con i quali aveva disputato in modo inoffensivo per tanti

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tissime conflictatus esset, crudelissime occisus sit, a nobis vero et turbis his, quibus esset incognitus, ubi primum visus, statim cultusque et adoratus fuerit. CHAR. Quod quidem facinus imprimis abominor et causam nunquam admirari satis possum. [9] MIN. Admirari desinas si mentem ad philosophiam revocaveris; etenim oportet memorem esse philosophantem. Et profecto dies ille memorabilis apud Manes fuit quo vocatus est in iudicium Stagirites ille, qui se Peripateticum agnominabat, quod de praeceptore suo partim perperam sensisset, partim ingratus in eum fuisset. Hunc itaque die dicta, cum rerum a se commentarum rationem redderet, quasi ab initio dictionis disserere ita memini: duplicem esse hominis naturam, alteram rationalem, alteram carentem ratione;12 atque hoc ipsum, quod ratione careret, duplex esse dicebat, alterum prorsus semotum a ratione, alterum vero solere ad rationem sese adiungere eique obtemperare. Cupiditates igitur appetitionesque vehementes atque incompositas, nullis adhibitis frenis, solere partem illam quae rationis esset audiens ita deiicere de statu suo, ut nullum ea ad medium illud retinendum adiumentum afferre posset: hinc ortum ducere vitia seditionesque cieri et bella, coeteraque oriri mortalium mala; hinc veritatem molestam illis esse, ob eamque causam nec audire nec pati eos velle qui iusta honestaque praecipiant. Hoc itaque plane in ignem Pythagoram coniecit, hoc Socratem veneno extinxit, hoc ipsum item Christum cruci affixit. Caeca igi-

12 Pontano allude alla suddivisione aristotelica dell’anima in irrazionale (priva di regola) e razionale (che possiede la regola) Cfr. Aristot. Eth. Nic. 1, 13.

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anni, mentre noi e queste turbe di demoni, non appena lo abbiamo visto, anche se non lo conoscevamo, lo abbiamo immediatamente venerato ed adorato. CAR. Di fronte a questo crimine inorridisco e non posso smettere di chiedermene la ragione. [9] MIN. Se richiami alla mente la filosofia smetterai di meravigliarti: ti devi ricordare che ambisci ad essere un filosofo! Senza dubbio fu un giorno memorabile per le anime dei morti quello nel quale il celebre Stagirita,16 che si faceva chiamare il Peripatetico,17 fu chiamato in giudizio con l’accusa di aver frainteso il suo precettore18 e di essersi dimostrato ingrato nei suoi confronti. Nel giorno suddetto, mentre si giustificava delle colpe contestategli, mi ricordo che, quasi all’inizio della sua arringa difensiva, argomentò così le sue ragioni: la natura dell’uomo è duplice, una parte è razionale, l’altra priva di ragione; sosteneva inoltre che questa parte estranea alla ragione è a sua volta duplice: una parte è del tutto opposta alla ragione, l’altra, in condizioni normali, si avvicina alla ragione e le obbedisce. Dunque i desideri veementi e gli appetiti smodati, una volta sprovvisti di freni, distolgono dalla sua condizione naturale quella parte che solitamente obbedisce alla ragione a tal punto che la ragione stessa non può aiutarla in alcun modo a mantenersi nel giusto mezzo. Da qui nascono i vizi, da qui hanno origine le discordie e le guerre, da qui sono generati gli altri mali degli uomini; per questo la verità è loro odiosa e per questa ragione non vogliono ascoltare e non sopportano quanti prescrivono comportamenti giusti ed onesti. È questo che ha spinto Pitagora nel fuoco, che ha ucciso Socrate con il veleno e che allo stesso modo ha appeso Cristo alla croce. La cie16

Aristotele, nativo di Stagira, antica città greca della Càlcide. «Il passeggiatore», in quanto Aristotele era solito tenere i suoi discorsi passeggiando sotto un portico chiamato «peripato». 18 Platone. 17

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tur mortalitas suisque victa libidinibus atque in furorem acta quem occidit nosse nec potuit nec voluit, nec, siqui bene illum norant, tutari potuere, quippe qui admodum essent pauci: rara est enim omnis bonitas. At Manes, quod corporibus non impedirentur, cognoverunt illum, et, qui corporis contagione mundi atque expurgati omnino erant, secuti etiam sunt. [10] CHAR. Et quanta cum frequentia et plausu! A corpore igitur omnis illa malorum origo et causa quam ab animo? MIN. Origo quidem tota est a corpore, verum et animus accusandus est, qui vinci se, cum imperare debeat, sinit. Felicem te igitur, Charon, qui corporis vinculis solutus ac liber semper fuisti, nec te aut titillantes illae voluptates, corporum dominae, commoverunt unquam aut cupiditates egerunt praecipitem, quae hominibus infinitae quidem sunt atque insatiabiles. Sed nos fortasse longiores sumus munerique isti tuo, quod vacationem vix ullam patitur, impedimentum dicendo attulimus. CHAR. An quod esse potest molestum tempus quod philosophiae impenditur? Atque utinam succisiva haec tempora saepius darentur. Sed tamen quantum munus hoc meum, cui deesse minimum, ut scitis, possum, patitur, id omne ad philosophiam confero; ea laborum meorum solatrix est et comes, ea solum esse me non sinit, atque a multitudine, quae me assidue circumsistit, longius etiam segregat. [11] AEAC. Aciem intende, Minos; nam cum Charonte sermonem istum dum habes, sub occidentem ipsum quasi nubem quandam eamque perquam tenuem videre visus sum quae, ni me oculus fallit, cogi paulatim incipit. CHAR. Quanam e coeli regione? AEAC. Ab occidente, paulum ab laeva tamen. CHAR. An tenuissimus quidam fulgor praecedit? AEAC. Praecedit.

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ca umanità, vinta dalle sue brame e spinta all’ira, non ha saputo né voluto conoscere chi uccideva, e se pure alcuni lo avessero conosciuto non avrebbero potuto salvarlo, dato che sarebbero stati pochissimi: la bontà, infatti, è rara. Ma le anime dei morti, che non erano impedite dai corpi, lo conobbero e, dato che erano del tutto monde e purificate dal contagio del corpo, lo seguirono. [10] CAR. E in quanti lo seguirono e con quante ovazioni! Dunque l’origine e la causa dei loro mali va ricercata piuttosto nel corpo che nell’animo? MIN. L’origine deriva interamente dal corpo ma deve essere accusato anche l’animo, che si è lasciato vincere quando dovrebbe invece comandare. Felice te, dunque, Caronte, che sei sempre stato libero dalle catene della carne: mai ti hanno turbato le solleticanti voluttà, tiranne del corpo, e mai i desideri, che negli uomini sono infiniti e insaziabili, ti hanno mandato in rovina. Ma forse abbiamo parlato troppo a lungo e, parlando, abbiamo recato impedimento a questo tuo incarico che, si può dire, non ammette riposo. CAR. Come può essere molesto il tempo speso nella filosofia? Magari fossero concesse più spesso simili pause! Anzi il tempo che mi lascia questo mio incarico, al quale, come sapete, non è possibile sottrarsi a lungo, lo dedico tutto alla filosofia; è lei la compagna che consola le mie fatiche, è lei che non mi lascia mai solo e, allo stesso tempo, mi tiene lontano dalla moltitudine che incessantemente mi assedia. [11] EAC. Minosse, aguzza la vista: mentre tenevi con Caronte questa discussione, mi è sembrato di vedere ad occidente una specie di nube molto tenue che, se gli occhi non mi ingannano, ha cominciato pian piano ad addensarsi. CAR. Da quale parte dell’orizzonte? EAC. Da occidente, un poco a sinistra. CAR. Lo precede per caso un lampo molto tenue? EAC. Sì.

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Bene habet. Mercurii agnosco talaria;13 quamobrem, portitor illuc in ulteriorem ripam cymbam adige. Nos hic potius Mercurium maneamus. MIN.

III. MINOS, AEACUS [12] MIN. En, Aeace, consideras quanta sit vis institutionis?14 Quem nunc philosophum videmus, qui principio remex erat! Quid ociosus ageret, quid si a primis annis audisset philosophos? AEAC. Nec animo volenti quicquam potest esse difficile, nec aetas ad discendum tarda est ulla. Nam, quanquam adolescentiae flores magnam prae se ferunt speciem, omnis tamen fructus est ingravescentis aetatis. MIN. Verissimum hoc quidem. Sed tamen, nescio quomodo, quod nobis pueris contingebat, vehementior quidam instinctus adolescentes impellit ad virtutem et laudem; in senibus tarda ac remissa sunt omnia. AEAC. Maior est in illis impetus, ratio imperfectior. In his autem, quia ratio perfecta, vita etiam perfectior est. Adolescentulorum quoque studium omne cum sit propter laudem, senum gratuita virtus est. MIN. Ita natura comparatum est, quae ab initio curam hominis ac rationem habens, uti e floribus fruges, sic ex adolescentulorum teneritate atque inscitia senum voluit provenire sapientiam. Meministi quod pueris nobis stu13

La descrizione dell’apparizione di Mercurio sembra rielaborare i versi del I del Purgatorio che descrivono l’arrivo di un angelo nocchiero, preceduto da un bagliore, cfr. Geri, Lettura: 238239. 14 Tra gli elementi fondanti dell’identità umanistica, l’elogio dell’educazione interessa da vicino Pontano che, dopo aver tenuto durante i primi anni del suo soggiorno napoletano una scuola per i giovani della nobiltà napoletana, divenne precettore di Giovanni di Navarra (dal 1452 al 1459) e quindi, a partire dal 1465, dell’erede al trono Alfonso d’Aragona, vd. Cronologia.

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MIN. Molto bene. Riconosco i calzari alati di Mercurio; perciò, traghettatore, dirigi la navicella verso quella riva laggiù.19 (rivolto ad Eaco) Noi invece aspetteremo Mercurio qui.

III. MINOSSE, EACO [12] MIN. Eaco, hai notato quanto è grande la forza dell’educazione? Ecco che vediamo in veste di filosofo chi inizialmente era un rematore! Quali risultati potrebbe raggiungere se fosse libero da impegni? quali se avesse frequentato i filosofi sin dall’infanzia? EAC. Niente è difficile per un animo che lo vuole e nessuna età è troppo tarda per apprendere. Infatti, sebbene i fiori dell’adolescenza rechino con sé una grande bellezza, i frutti sono propri dell’età avanzata. MIN. Tutto ciò è verissimo. Ma, non so come mai – è accaduto anche a noi quando eravamo giovani – un istinto più impetuoso spinge gli adolescenti verso la virtù e le azioni degne di lode, mentre nei vecchi ogni cosa è lenta e fiacca. EAC. Nei giovani l’impeto è più forte ma la ragione è in misura maggiore imperfetta. Nei vecchi invece, dal momento che la ragione è perfetta, anche la vita è perfetta in misura maggiore. Se l’impegno degli adolescenti avviene per la gloria, la virtù dei vecchi è disinteressata. MIN. Così ha stabilito la natura; sin dall’inizio prendendosi attentamente cura degli uomini, ha decretato che la saggezza dei vecchi provenga dalla fragilità e dall’inettitudine dei fanciulli come i frutti provengono dai fiori. Ti ricordi quale era la nostra inclinazione quando eravamo

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Caronte, dopo questa battuta, si allontana con la sua barca per andare incontro a Mercurio.

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dium esset, dum, nisi inviti in ludum atque ad grammaticum non ibamus, animus omnis erat in nucibus.15 Delitiae nostrae catellus, coturnix, monedula.16 Ex his tamen initiis vide quos uterque progressus fecerimus. Nam et tunc ferocissimis gentibus bene vivendi leges tulimus et nunc Deum voluntate animis praesumus iudicandis. Itaque cum aetate simul crescit sapientia cuius puer studiosus esse non potest, in quo maturum nihil sit. Et cum aetas omnis ad sapientiam properet, longissime ab ea distat pueritia, quae, tenerrima cum sit, paulatim est assuefacienda. AEAC. Prudentissima in hoc quoque artifex natura fuit et fabricam suam admirabili artificio composuit; nimis tamen arctos terminos statuisse visa est satisque brevem vitam dedisse homini, quem ad tam multa ac magna genuisset. Ipsi scimus quosdam, dum rerum nobis suarum rationem reddunt, quantopere admirati fuerimus, quibus ad perfectam sapientiam praeter tempus nihil aliud visum sit defuisse. [13] MIN. Vide quae loquaris, Aeace, et altius rem intuere. Quaecunque natura fabricata est, intra certos terminos compescuit. Haberent cupressus hae quo cacumen extenderent, sed et his suus est crescendi modus; habent terrae, habent maria fines suos; hominum quoque, uti corporibus, ita et cognitioni quidam fixus est limes; quin etiam naturae ipsius finita vis est. Atque ut octingentorurn annorum hominis vita esset, nihilo tamen plus quam nunc saperet cum octogesimum agit annum; quod non dierum spatia, sed humani qualitas corporis efficit. Etenim octingenario in tanto longiore adolescentia non maior contigisset rerum cognitio quam octogenario huic in longe 15 Cfr. «Iam tristis nucibus puer relictis / clamoso revocatur a magistro» (Mart. 5, 84, 1-2). 16 La descrizione dei giochi e delle futili occupazioni che distolgono i giovani dagli studi potrebbe essere ispirata a Aug. Conf. 1, 9, 15, tanto più che Agostino si riferisce il gioco della palla (pila) menzionato più sopra da Eaco (§ 1).

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fanciulli? Anche se ci recavamo di nostra spontanea volontà a scuola e dal grammatico, tutte le nostre preoccupazioni erano rivolte alle noci. Le nostre delizie erano un cagnolino, una quaglia, una gazza. Pensa un po’ da allora quanta strada abbiamo fatto noi due! In vita diffondemmo presso popoli feroci le leggi necessarie ad una civile convivenza, ed ora siamo preposti per volontà degli dei a giudicare le anime. Quindi insieme all’età cresce la sapienza, di cui non si può occupare un bambino, nel quale niente è maturo. E per quanto ogni età aspiri a raggiungere la sapienza, da lei dista maggiormente la puerizia la quale, essendo fragilissima, si deve abituare a poco a poco. EAC. La natura si è dimostrata anche in questo un architetto prudentissimo ed ha innalzato con ammirevole arte il suo edificio; tuttavia sembra aver stabilito dei confini troppo angusti e concesso una vita piuttosto breve all’uomo che aveva generato per imprese tanto numerose e tanto grandi. Noi stessi sappiamo quanto abbiamo ammirato alcuni, mentre ci davano conto delle loro azioni, ai quali per giungere alla perfetta sapienza non è mancato niente altro che il tempo. [13] MIN. Rifletti su quello che dici, Eaco, ed esamina più a fondo la questione. La natura ha racchiuso entro termini prestabiliti tutto quello che ha edificato. Questi cipressi avranno pure una sommità da raggiungere ma anche per loro c’è un limite alla crescita; la terra ed il mare hanno i loro confini; in egual modo è stato stabilito un limite per la conoscenza come per il corpo degli uomini; persino la forza della natura è finita. E se anche la vita umana durasse ottocento anni, l’essere umano non conoscerebbe più di quanto conosce adesso che raggiunge gli ottanta; non è la quantità del tempo la causa di questa situazione ma le caratteristiche del corpo umano. E dunque all’ipotetico ottocentenario, in una giovinezza tanto più lunga, spetterebbe una comprensione delle cose non maggiore di quella che spetta ad un ottantenne in una gio-

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breviore. Nam et stirpes et animalia quae diutius vivunt tardius fructus ac foetus proferunt; citius quibus brevior data est vivendi meta; quodque ipsi saepe vidimus, qui pueri nimis cito sapiunt aut non multo post diem obeunt, aut, ubi viri evasere, multum de illo amittunt acumine et studio.17 [14] Sed cum sit genus hominum superbissimum, sua parum sorte contenti, vitae brevitatem accusant; nec intelligunt qui plures aetates vixisse memorantur, eos nec Solonem nec Catonem superasse virtute ac sapientia; quos ipsi causas suas dicentes cum audissemus, aegre tulimus tale illud collegarum par nobis a Plutone non dari. Quod autem defuisse illis tempus putes cognoscendo vero qui etiam coelum dimensi sunt stadiis quique parilisne an impar esset stellarum numerus scire tam laboraverunt?18 His et ocium et vita superabundasse mihi visa est. Nam quid de iis dicendum ducas qui, succis rerumque plurimarum temperamentis adhibitis et in unum coaecervatis multoque igne conflatis, faciendo auro dies noctesque ac vitam totam conterunt? quod quidem abuti est et natura et tempore. Quid qui commenti sunt deos inter se bellum gerere, quorum cum vulnera tum casus alios describunt? Nonne qui nugis iis occupati fuere iure videntur de levitate sua quam de vitae brevitate debuisse queri?

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Cfr. Sen. Dial. 10, 1,1. Nelle parole di Minosse riecheggia la polemica agostiniana contro la curiositas relativa ai fenomeni della natura che distoglie dalla conoscenza di se stessi (Aug. Conf. 10, 8, 15), ripresa da Petrarca in numerose Familiares e nel De Ignorantia (Ign. 24-25). 18

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ventù tanto più breve. Infatti le piante e gli animali che vivono più a lungo producono più tardi i frutti e la prole; più velocemente, invece, le piante e gli animali ai quali è assegnato un limite più breve alla vita; tant’è che noi stessi abbiamo visto spesso che i fanciulli che raggiungono troppo presto la saggezza muoiono poco dopo, oppure, se diventano uomini, perdono molta della loro intelligenza e della loro capacità di apprendere. [14] Ma il genere umano, dal momento che è oltre modo superbo e poco contento della sua sorte, si lamenta della brevità della vita; non comprende che ci sono stati alcuni che hanno vissuto per più generazioni e non hanno superato per virtù o per sapienza né Solone20 né Catone21 (quando li abbiamo ascoltati perorare le rispettive cause, abbiamo sopportato di mal grado che Plutone non ci concedesse in qualità di colleghi una coppia di tale valore). Quanto tempo utile per la conoscenza del vero credi sia stato tolto a quanti hanno misurato la lunghezza del cielo e si sono affaticati per conoscere se il numero delle stelle è pari o dispari? Ritengo che a costoro sia stato concesso tempo libero in eccesso e una vita sin troppo lunga. E cosa credi che si debba dire di coloro i quali, aggiunti succhi alle miscele di varie sostanze e distillato il tutto con abbondante fuoco, hanno trascorso le notti, i giorni e tutta la vita nel tentativo di fabbricare l’oro?22 Che hanno abusato della natura e del tempo. E che dire di quelli che hanno scritto sulle guerre che gli dei combattono tra loro, descrivendone le ferite e le altre vicende? Non credi che quanti si sono occupati di simili sciocchezze dovrebbero a ragion veduta lamentarsi piuttosto della propria frivolezza che della brevità della vita? 20 21 22

al § 63.

Legislatore ateniese del V secolo a.C. Marco Porcio Catone (95-46 a.C.), detto l’Uticense. Allusione alle pratiche alchemiche, irrise anche più avanti

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[15] AEAC. Rerum simul naturam et hominum expressisti vanitatem, ut vere, ut aperte! Et profecto ita res habet, ut qui nimio plus sapere studeant, demum praeter coeteros desipere inveniantur. Sed cohibenda est oratio considerandumque quid est quod Mercurius e tanta multitudine vix sese queat eximere. MIN. Recte mones et quidem ille frequenti circumsaeptus est turba. An, quod ex omni sint hominum colluvione, secernere umbras nititur et earum frontes inurere, quo et genus illarum et artes et disciplinae facilius cognosci a nobis valeant?

IV. MERCURIUS, PYRICHALCUS [16] MERCURIUS Recede istinc tu cum venali hac plebecula. Pyrichalce, inure hos nota illa Iudaica. PYRICHALCUS Genus agnosco, artem scire cupio. MERC. Foeneratores hi omnes. At vos sinistram ripam concedite sequimini hunc. Lenones, properate; nosti qui sint et notis quibus inurendi.19 PYR. Artem novi, sed, ut video, gens non una est. Flandrius hic est, Germanus ille; manus ista partim Illyrica est, partim Italica. Hui! quantus Hispanorum numerus, quantus Graecorum! Et profecto e cuiusque nationis populis

19 La scena della marchiature effettuate da Mercurio sulla pelle delle anime dei peccatori è un adattamento dal Cataplus lucianeo (Luc. Cat. 24), cfr. Geri, A colloquio con Luciano: 139140.

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[15] EAC. Hai espresso la natura delle cose e la vanità degli uomini in modo così vero e così chiaro! Non c’è dubbio, la cosa sta così: quelli che si sforzano eccessivamente di conoscere sono proprio quelli che vediamo sragionare più degli altri. Ma bisogna abbandonare il discorso e cercare di capire per quale motivo Mercurio riesca a mala pena a districarsi da una folla così spessa di anime. MIN. Consigli bene: è circondato da una calca imponente. Poiché provengono da ogni miscuglio possibile di genti si sforza, se non erro, di distinguere le ombre marchiando la loro fronte con il fuoco allo scopo di farci conoscere più facilmente la loro stirpe, le loro occupazioni e la loro professione.

IV. MERCURIO, PIRICALCO23

[16] MERCURIO (rivolto ad un’anima) Allontanati costì con questa plebaglia venale! Piricalco,24 marchiali a fuoco con il contrassegno giudaico. PIRICALCO Riconosco la razza, dimmi di che mestiere si tratta. MERC. Sono tutti quanti usurai. (rivolto alle anime) Seguitelo e scendete sulla riva sinistra. E voi affrettatevi, papponi! (rivolto a Piricalco) Sai chi sono e con quale contrassegno bisogna marchiarli. PIR. Conosco il mestiere, ma, da quel che vedo, la razza non è una sola. Questo è fiammingo, quell’altro tedesco; da questo lato alcuni sono illirici altri italiani. Oh! quanti sono gli spagnoli e i greci! Dato che vedo un gran nume23 La scena si sposta sulla riva opposta dell’Acheronte dove Mercurio raduna le anime dei morti, in attesa dell’arrivo di Caronte. 24 Personaggio d’invenzione, il cui nome significa «colui che marchia con il fuoco».

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plurimos cum hic lenones videam, rarissimas necesse est in terris pudicas inveniri mulieres. Heus, ministri, candentem illam laminam deproperate. MERC. Et hos statim ustilato: pyratae sunt Sardi, Siculi, Celtiberi. PYR. Videlicet his omnibus urendae frontes naresque mutilandae? MERC. Ferrum expedi, dextrorsum huc vos. Hi Galli sunt, fartores, caupones, coci, tibicines, aleones, ebriosi omnes ac stolidi. PYR. Si recte memini, guttur his compungendum, clavus cerebro figendus est. MERC. Atqui nullum est Gallis cerebrum, quocirca ventres potius, figito. Coeteram illam. multitudinem e cuiusque modi hominum genere secerni iubeto, faber, dum ego insignioris notae quosdam tanto in populo seligo. Ecquis hic est audacia tam perdita? Vultum agnosco. Et quidem sceleratissimus hic fuit, Petrus Bisuldunius Celtiber.20 At duo illi, post hunc qui latitant, velati puniceo galericulo,

20 Cfr. «Venedico se’ tu Caccianemico» (Inf. 17, 50). Come nel verso dantesco, infatti, Pontano isola icasticamente il nome del Besalù allo scopo di evidenziare la condizione umiliante delle pena; tale insistenza sul nome del conservatore del regio patrimonio è particolarmente significativa se si considera che di norma nel Charon la satira non è rivolta a singoli personaggi storici.

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ro di papponi che provengono da queste due nazioni ne deduco che in quelle terre non si trovano donne oneste. Ehi! Inservienti, sbrigatevi con quella piastra arroventata! MERC. Marchia subito costoro: sono pirati sardi, siciliani e catalani. PIR. Quindi bisogna bruciare le fronti e tagliare le narici a tutti costoro? MERC. Sbrigati col ferro! Voi andate di qua, verso destra. Ecco i francesi: sono salsicciai, osti, cuochi, flautisti, giocatori d’azzardo, tutti quanti ubriaconi e stolti. PIR. Se non ricordo male bisogna inciderli sulla gola e conficcare loro un chiodo nel cervello. MERC. I francesi non hanno cervello, conficcalo nel ventre, piuttosto. Fabbro, separa da ogni altro genere di uomini quel che resta di questa folla, mentre io scelgo tra costoro alcuni che siano degni di un contrassegno memorabile. Chi è questo così insolente e corrotto? Riconosco il volto: è lo scelleratissimo Pietro di Besalù,25 il catalano. E quei due, che si nascondono dietro di lui, con in testa il 25 Funzionario catalano della corte di Alfonso il Magnanimo che risulta ancora in vita nel 1454 (cfr. Monti, Richerche: 778-780). Pontano allude sarcasticamente al Besalù in un componimento giovanile indirizzato a Giulio Forte nel quale si lamenta di essere costretto a vivere in anni dominati dalla sua figura («tempora Busuluniana», cfr. Parth. 1, 34, 17). Una postilla di Iacopo Sannazaro relativa a tali versi ci rende edotti in merito al ruolo ricoperto dal Besalù, quello di conservatore del regio patrimonio, attività che lo avrebbe reso «plerisque odiosus» (Documenti: 480). La carica, istituita nel 1445 sul modello di un’analoga istituzione introdotta da Alfonso in Sicilia (1416), riuniva in un solo funzionario l’amministrazione finanziaria del patrimonio regio e del regio demanio. A questo incarico di assoluto rilievo Besalù univa anche quello di presidente della Camera della Sommaria (Del Treppo, Il Regno Aragonese: 106). Si noti che l’attacco al Besalù è ancora attuale negli anni Settanta in quanto «a corte, tra i collaboratori più vicini del re, suoi consiglieri economici, e sempre pronti e soccorrevoli nelle ristrettezze finanziarie, c’erano, ancora, i due figli del defunto conservatore del patrimonio Pietro di Besalù, Franzì e Raffaele» (Del Treppo, Il Regno Aragonese: 109).

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et hi perditissimi fuere sacerdotum omnium: alter Ludovicus, Aquilegiensis patriarcha, Samorensis cardinalis alter. Pyrichalce, aereum his galerum capiti imprimito, idque in primis videto, ut sit candens. Bisuldunio illi auriculas detondeto. Haec agito; Charon enim, ut video, hic me in portu manet manibusque et capite iam pridem innuit. Accedam ad eum, ut cur accersar ex eo cognitum habeam.

V. CHARON, MERCURIUS

[17] CHAR. Salvum te ac sospitem venisse, Mercuri, gaudeo. MERC. Ubinam est, Charon, philosophia quam profiteris? Deum sospitem venisse gaudes, ac si nocere quippiam possit Deo.

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galero porporato,26 furono i più corrotti tra tutti i sacerdoti: uno è Ludovico patriarca d’Aquileia,27 l’altro il cardinale di Zamora.28 Piricalco, imprimi loro un galero d’oro, ma prima bada bene che il ferro sia incandescente. Taglia le orecchie al Besalù. Fallo. Da quel che vedo Caronte mi aspetta nel porto, è da un po’ che mi fa cenni con le mani e con la testa. Andrò da lui per sapere per quale motivo mi sta chiamando. V. CARONTE, MERCURIO29 [17] CAR. Sono contento, Mercurio, che tu sia giunto sano e salvo. MERC. Dov’è finita la tua filosofia? Sei contento che un dio giunga salvo come se qualcuno potesse nuocere in qualche modo a un dio! 26

Il berretto cardinalizio. Ludovico Scarampi Mezzarota (1402-1465), medico ed ecclesiastico veneziano (cfr. Monti, Ricerche: 778; Lodovico cardinal Camerlengo). Nato Lodovico Trevisan, assunse prima il cognome materno dei Mezzarota e in seguito quello della famiglia astigiana degli Scarampi. Archiatra di Eugenio IV, che lo aveva preso a benvolere prima ancora di ascendere al pontificato, venne insignito nel 1435 del vescovato di Traù. Nel 1439 fu creato patriarca di Aquileia e nel 1440 assunse anche la carica di Camerlengo. Nel 1456 fu a capo della flotta pontificia nella battaglia di Belgrado. Impegnato nelle trattative tra Santa Sede ed Alfonso il Magnanimo fu tra i firmatari del trattato di Terracina (1443). Ben voluto dal Magnanimo, che nel 1444 lo nominò abate dell’abbazia della Santissima Trinità de’ La Cava e vescovo di Città de’ La Cava, rappresentò per gli Aragonesi un prezioso referente nella Curia anche dopo la morte di Eugenio IV e l’elezione di Eugenio V. 28 Juan de Mella, nativo di Zamora (1397-1467), teologo dell’Università di Salamanca, nel 1437 fu nominato vescovo di León. Nel 1439 partecipò al concilio di Firenze; nel 1456 venne creato da Callisto III vescovo di Santa Prisca (cfr. Monti, Ricerche: 780; Prieto, Juan de Mella). 29 La scena si sposta sulla barca di Caronte, durante la navigazione. 27

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CHAR. Et Deus male habitus ab hominibus fuit dum inter eos ageret, et coelum vereor ut securum sit, tot tam inter se dissentientibus diis; quorum alius sacrum immittere ignem dicitur, promittere sanitatem alius; hic bellis gaudet, pacem ille procurat; est qui caecitatem inferat, est qui lumen restituat. Multi feriunt, nonnulli medentur; quid hoc diversius? Iure igitur periculosam mihi deorum vitam arbitror, in tanta varietate ac discrepantia; praesertim cum e supremis coeli regionibus deiectus et quidem non unus, sed magnus etiam deorum numerus aliquando fuisse dicatur. Quamobrem non est quare salutationem hanc meam accuses; nam cum alia te pericula evasisse gaudeo, tum vel cum primis magnam mihi voluptatem affert quod mulierum evaseris veneficia, quae et Manes assidue vexant. [18] MERC. Nihil horum timendum nunc diis est, postquam desierunt puellas rapere. CHAR. Consenueruntne coelestes, an spadones lex aliqua fieri eos iussit? MERC. Fuerunt illa prioribus seculis, cum Lacedaemonii nudas virgines luctari ad Eurotam una cum adoles-

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CAR. Ma Dio fu trattato male dagli uomini mentre viveva tra loro30 e temo che il cielo non sia un luogo sicuro considerando che tanti dei sono in contrasto tra loro: si dice che alcuni alimentano il fuoco sacro, altri garantiscono la salute; uno si compiace delle guerra, un altro si occupa della pace; alcuni causano la cecità e altri ridanno la vista. Molti recano ferite, alcuni curano; quale situazione è più confusa di questa? A buon diritto considero la vita degli dei pericolosa in una così grande varietà e discordanza, soprattutto quando si tiene conto del fatto che, a quanto dicono, alcune divinità, e non solo quelle di poco conto, furono cacciate dalle regioni celesti;31 per questo non hai motivo di criticare il mio saluto. E poi, se sono lieto che tu abbia scampato gli altri pericoli, mi fa particolarmente piacere che tu abbia evitato i malefici delle donne che spesso affliggono anche le anime dei morti. [18] MERC. Gli dei non hanno niente da temere ora che hanno smesso di rapire le fanciulle. CAR. I celesti si sono infiacchiti per la vecchiaia o una legge li ha castrati?32 MERC. Quelle cose accadevano nei secoli antichi, quando gli Spartani imponevano alle vergini di esercitarsi nude nella lotta sulle sponde dell’Eurota33 insieme agli adole-

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Riferimento a Cristo, cfr. sopra §§ 7-9. Qui Pontano gioca sull’ambiguità lessicale: il termine dio (deus) si può riferire tanto ad una delle divinità dell’Olimpo quanto al Dio cristiano. 31 Allusione al mito di Momo, dio del Biasimo, cacciato dall’Olimpo per aver criticato aspramente le invenzioni di Giove, Nettuno e Minerva (Es. Fab.124). 32 Com’è noto la violenza sessuale nei confronti delle fanciulle caratterizza molte dei miti dell’antichità; in questo pagina Pontano “moralizza” scherzosamente il comportamento degli dei immaginando una sorta di autoregolamentazione, imposta, però, non da un intento etico ma dal timore delle malattie veneree. 33 Fiume del Peloponneso che attraversa Sparta.

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centulis volebant,21 eorum ludorum coelites et ipsi spectatores cum adessent; ac nonnunquam ad coenas vocati merito exarsere in libidinem. Nunc vero mulieres, quod aut clausae tenentur aut multis circumsaeptae tunicis incedunt, deos non commovent. Lex quoque lata est, cui et dii omnes subscripsere, qua cautum est, ne quam mortalem cuiquam liceat immortali cognoscere. CHAR. Quaenam causa ferendae legis? MERC. Forte Iupiter in Tarentinam virginem commotus cum esset, versus ipse in adolescentulum, dum illius os nimis efflictim suaviatur, quod erat quam fucatissimum, labem inde contrahit, dentisque haud multo post de contactu illo amisit. Tum dii aegre ferentes regem suum esse edentulum, promulgandae legis auctores fuere. CHAR. An, quaeso, Iupiter nunc est sine dentibus? MERC. Minime. Nam cum renasci nequirent Deo tam annoso, elephantinos sibi faiciundos curavit. Mulcta vero haec statuta est mulieribus, ut venire amplius in deorum complexus non liceat; permissun tamen est sacerdotibus, quod eorum sint ministri, ut in eum succedant locum. [19] CHAR. Hoc est, credo, quare delectat diu vivere, quod nova quotidie discantur.22 Verum ne congressus hi

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Cfr. Plut. Lyc. 14, 3-7; Plat. Leg. 7, 12, 806a; Xen. Lac. 1, 4. Caronte riferisce il motto attribuito a Solone attraverso la mediazione di Cicerone: «qui se cotidie aliquid addiscentem dicit senem fieri» (Cic. Cato 26). 22

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scenti34 e gli dei si trovavano ad assistere; quindi talvolta, invitati ai banchetti, a ragion veduta si infiammavano di libidine. Ora, però, le donne non turbano più i celesti, dato che o stanno chiuse in casa, o camminano ricoperte dalle vesti. È stata anche promulgata una legge, sottoscritta da tutti gli dei, in base alla quale non è concesso a nessun mortale conoscere un immortale. CAR. Per quale motivo è stata introdotta tale legge? MERC. Accadde che Giove, invaghitosi di una giovane tarantina, tramutato in un adolescente, mentre le baciava con troppo ardore la bocca, che era oltre modo contraffatta dal trucco, contrasse una malattia e poco dopo perse tutti i denti. Allora gli dei, non sopportando che il loro re fosse sdentato, si fecero promotori della suddetta legge. CAR. E dimmi, Giove ora è senza denti? MERC. Niente affatto: dal momento che non potevano rinascere in un dio tanto vecchio se li è fatti sostituire con delle protesi d’avorio. Le donne sono state punite con il divieto di congiungersi con gli dei; tuttavia fu permesso ai sacerdoti, dal momento che sono i loro ministri, di prendere il posto degli dei.35 [19] CAR. Ecco perché, a parer mio, è piacevole vivere a lungo: si impara ogni giorno qualcosa di nuovo! Ma insomma per fare in modo che questi nostri incontri non 34

La costituzione spartana prevedeva che le fanciulle non indossassero abiti, allo scopo di irrobustire i loro corpi, e si esercitassero nella lotta come i maschi della stessa età. 35 Prima allusione alle intemperanze sessuali del clero che saranno messe alla berlina nella scena XI. Insieme agli insistiti riferimenti alla cupidigia degli ecclesiastici (§ 45), alla polemica contro la superstizione (§§ 36-39) e ad alcuni ambigui riferimenti al dogma della reincarnazione (§§ 5 e 17), tali accuse sono la ragione della messa all’Indice del Charon (Parma 1580 e Roma 1596, cfr. Index des livres interdits: 325). La corruzione dei sacerdoti, ad ogni modo, è presa di mira anche nell’Antonius al § 14, mentre nel medesimo dialogo al § 78 si trova un’allusione sarcastica alla venerazione delle immagini sacre.

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nostri utriusque simul munus impediant (etenim inter navigandum multa satis commode transigemus) scias et quid est quod ego te velim, et quid tibi facto sit opus. Ambo te iudices, Minos, dico, et Aeacus, illic in ripa expectant mirifice cupientes tecum colloqui, quando triduum iam e terris advenit nemo; multa enim verentur. Itaque aequum censeo ut, illorum praevertens imperiis, quam primum naviculam ascendas. Quod faciens, rem tum illis gratissimam, tum te ipso dignam feceris, et compungendis his tempus Pyrichalco dederis, quod te primum curare oportet; quis enim tantos greges noverit, ni notis quisque suis signati venerint? [20] MERC. Recte suades; mos eis gerendus est. Tu, si tibi videtur, velum explica; nam a tergo lenis exortus est flatus. CHAR. Perquam libenter. Hac enim ratione citius provehemur portum et remigandi mihi diminuetur labor. MERC. Quam pleno velo ferimur! CHAR. Auras sol citavit, aestivis diebus suscitari hac eadem hora quae solent. MERC. Quinam venti diebus his vobis flavere? Nam in terris magnam vitibus, maiorem oleis citriisque boreas vastitatem intulit. CHE. Nobis Acherontius ac solito clementior. MERC. Charon, Charon, quid quod video? Crudo pisce hominem vesci? CHAR. Ne mirare. Cynicus hic Diogenes est.

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ostacolino i doveri di entrambi (durante la navigazione, ad ogni modo, potremmo svolgere comodamente molti impegni), ti dico cosa voglio da te e che cosa è opportuno che tu faccia in questa circostanza. I due giudici, Minosse ed Eaco intendo, ti aspettano laggiù, sulla riva, e desiderano con impazienza discutere con te il motivo per il quale negli ultimi tre giorni non giunge nessuna anima dalla terra; temono infatti molte cose. Quindi credo sia giusto che, prevenendo la loro richiesta, tu salga quanto prima sulla mia barchetta. In questo modo farai una cosa loro molto gradita e degna di te e darai a Piricalco il tempo necessario per marchiare queste anime, cosa della quale ti conviene preoccuparti: chi potrà imparare a conoscere un gregge tanto numeroso se i capi non saranno marchiati con i rispettivi contrassegni? [20] MERC. Dici beni, bisogna fare a modo loro. Tu, se vuoi, spiega la vela: alle nostre spalle si è alzato un venticello. CAR. Molto volentieri! In questo modo giungeremo prima in porto e per me remare sarà meno faticoso. MERC. Navighiamo a vele spiegate! CAR. Il sole ha eccitato i venti, come accade solitamente a quest’ora nei giorni estivi. MERC. Quali venti soffiano da voi in questi giorni? Sulla terra la tramontana ha arrecato danni ingenti alle viti, colpendo in modo ancora più grave gli olivi e gli agrumi. CAR. Da noi l’Acherontio36 è stato più clemente del solito. MERC. Caronte, Caronte, cos’è questo che vedo? Un uomo che mangia un pesce crudo? CAR. Non stupirti. Si tratta di Diogene, il cinico.37 36

Vento infernale inventato da Pontano. Diogene (ca. 400-335 a.C.), discepolo di Antistene, esponente della filosofia cinica; cfr. la scena IX dedicata al dialogo tra Diogene e Caronte. 37

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Quid, quaeso, vivitne in flumine? Vivit. Nam ripae, ut vides, altissimae cum sint, nec ipse quicquam omnino habeat quo haurire aquam possit, maluit hic, ubi et pisces habeat et aquam paratissimam, quam in aliis Herebi locis vitam agere.23 MERC. Valentissimo utitur stomacho. Quis, quaeso, fluvidus ille quem subinde videmus, perinde ac si mergus esset, nunc mergere nunc emergere, quod alias vidi nunquam? CHAR. Nihil minus ignoras: Thebanus Crates est; aurum quaeritat quod olim proiecerat. [21] MERC. Recte teneo. Equidem memini, cum Athenis aliquando Panathenaeorum die essem, irrisum eum vehementer a Peripateticis; primum quod is rerum fines ignoraret, nec quarum rerum usus esset bonus, easdem quoque posse fieri bonas intelligeret – etenim pecunias usus comparari gratia, quae ut nec bonae per se sint nec malae, prudentem tamen atque honestum possessorem usu ipso bonas efficere24 – deinde quod male sensisset de philosophia; quem enim melius, honestius, sanctius quam philosophum pecunia uti posse? Denique si honeri haberet divitias, cur non aliis potius ferendas atque utendas dedisset quas ipse imprudentissime in mare abiecisset, ubi nec hominibus nec piscibus usui esse possent? MERC. CHAR.

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Per questa inedita raffigurazione di Dioegene Pontano potrebbe prendere spunto dal finale del Cataplus. Luciano, infatti, immagina che il filosofo cinico Micillo, privo dell’obolo necessario per pagare Caronte, attraversi a nuovo il fiume infernale (Luc. Cat. 19). 24 Cfr. Arist. Eth. Nic. 2, 7, 1107a-1107b.

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MERC. Cosa? Dimmi, vive forse nel fiume? CAR. Sì. Le sponde, come vedi, sono molto alte e nes-

suno può prendere l’acqua; quindi costui preferisce vivere qui, dove trova pesci ed acqua in abbondanza, piuttosto che in altri punti dell’Erebo.38 MERC. Ha davvero uno stomaco di ferro. Dimmi, chi è quell’essere sgusciante che abbiamo visto poco fa (era emerso da poco), che ora emerge dall’acqua ora si tuffa di nuovo? Non l’ho mai visto prima. CAR. Ma sì che lo conosci: è Cratete il Tebano; va cercando l’oro che un giorno gettò via39. [21] MERC. L’ho bene in mente. Infatti mi ricordo che un giorno, mentre mi trovavo ad Atene in occasione delle Panatenee,40 fu irriso violentemente dai peripatetici: anzitutto perché aveva ignorato i limiti delle cose e non aveva capito che le cose il cui uso può essere buono possono essere esse stesse buone – e infatti si radunano le ricchezze per farne uso e dato che di per sé non sono né un bene né un male, un possessore saggio ed onesto può renderle buone tramite l’uso –; in secondo luogo perché aveva una cattiva opinione della filosofia; chi potrebbe infatti fare un uso migliore, più onesto e più virtuoso del denaro di un filosofo? Quindi, se considerava le ricchezze un peso, per quale motivo non aveva dato ad altri, che erano in grado sopportarne il peso e potevano farne buon uso, le ricchezze che gettò sconsideratamente in mare, dove non possono essere usate né dagli uomini né dai pesci? 38

Il termine, che significa in greco «oscurità», «tenebre», viene adoperato dai poeti antichi per indicare le regioni infernali. 39 Cratete (ca. 365-285 a.C.), filosofo cinico e allievo di Diogene; secondo la tradizione Diogene lo avrebbe persuaso a gettare al mare tutti i suoi averi (Diog. Laert. 6, 5, 88). Pontano immagina che il filosofo si sia in seguito pentito di tale folle gesto, rovesciando così il topos medievale che vedeva nell’azione di Cratete un nobile exemplum, cfr. Geri, A colloquio con Luciano: 157-160. 40 Antiche feste istituite per celebrare la nascita di Atena, protettrice della città, che si tenevano ad Atene alla fine di luglio.

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CHAR. Et quidem iure irrisus. Sed, quaeso, Mercuri, quando in Athenarum mentionem incidimus, dicas cur non Atheniensis populus quas Plato tulisset leges acceperit, cuius et eloquentiam et doctrinam (plures enim dies mecum habui disserentem) magnopere sum admiratus. [22] MERC. Magna illos movit ratio. Nam cum de illius legibus Kalendis Graecis cum populo esset actum, ita plebs scivit: «Quando respublica quam Plato institueret apud Germanos esset, accederet Plato ad barbaros. Esse apud illos Ubiorum civitatem, quae leges eas servaret; populum Atheniensem sineret his legibus vivere quas a maioribus, sapientissimis viris, latas accepisset». Senatus quoque consultum in haec scriptum est verba: «Quando Graeci pro recipienda Helena viroque restituenda universi coniurassent, bellum Troianis intulissent, sumptus tantos fecissent, Graeciam omni pene nobilitate exhausissent, tot clades passi essent, non licere Platonis leges accipi, quae mulieres communes, uxorem nemini certam esse pudicitiamque,

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CAR. Lo hanno deriso a ragion veduta. Ma dimmi, Mercurio, dato che abbiamo menzionato Atene, per quale motivo gli ateniesi non hanno accolto le leggi proposte da Platone?41 Ho ammirato tantissimo la sua dottrina come la sua eloquenza (ho discusso con lui per alcuni giorni). [22] MERC. Li ha spinti un’ottima ragione. Infatti, quando si discussero tali leggi in assemblea durante le Calende greche, il popolo decretò quanto segue: «Dal momento che lo stato istituito da Platone esiste presso i Germani, Platone si rechi dai barbari. Si trova presso di loro la città degli Ubi42 che rispetta quelle leggi;43 lasci vivere il popolo ateniese con le leggi che ha ricevuto dagli antenati, uomini sapientissimi». Il decreto del Senato fu scritto con le seguenti parole: «Dal momento che i Greci per recuperare Elena e restituirla al marito si sono uniti tutti insieme e hanno mosso guerra ai Troiani, e hanno impiegato un numero tale di forze che la nobiltà della Grecia è stata quasi tutta estinta, e hanno subito perdite tanto numerose, non è lecito accogliere le leggi di Platone, per le quali le donne devono essere messe in comune: così facendo nessuno avrebbe più una moglie stabile e nella città non ci sarebbe la pudicizia, che è senza dubbio 41 Allusione al progetto di Stato ideale tracciato da Platone nel dialogo La repubblica e, in particolare, alla famigerata proposta di istituire per la classe dei Custodi la comunione delle donne e dei beni (Plat. Rsp. 449A-461C). Pontano, riprendendo un topos antiplatonico diffuso nel primo Umanesimo, non tiene conto delle posizioni più moderate assunte nel dialogo tardo Le leggi e finge di ignorare che il comunismo platonico riguarda soltanto una delle classi che costituiscono la città ideale nella Repubblica e non la cittadinanza nel suo complesso. 42 Antica popolazione germanica originariamente ubicata sulla sponda destra del fiume Reno; sul finire del I secolo a.C. gli Ubi si stanziarono in Gallia, all’interno dei confini dell’Impero romano. 43 Allusione all’usanza della poligamia presso i germani attestata in Tacito (Tac. Germ. 18); anche in questo caso Pontano forza la sua fonte trasformando il saltuario ricorso alla poligamia nel caso di alcuni uomini particolarmente potenti nella condivisione di tutte le donne da parte della comunità.

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quae una aut certe maxima mulierum virtus esset, nullam in civitate esse vellent». Hoc ego senatus consultum et Athenis et in plerisque aliis Graeciae conventibus recitatum memini. Discipulus quoque eius Aristoteles multum de illius auctoritate detraxit. Fuit enim magistro argutior, nec tam recessit a civili consuetudine. CHAR. Et magnae et honestae causae fuerunt. Eius igitur libri a multis condemnantur, discipuli vero leguntur? MERC. Quidni? et magno in honore habentur, etiam apud barbaros. CHAR. Eram ipse fortasse, ut quidem eram, de labore fessus, et mens aliis occupata; sed tamen visus est Aristoteles nimis obscurus et cautus cum hac eadem in cymba quaedam ex eo quaererem. Quin etiam licet, mecum dum loqueretur, corporis vinculis solutus viveret, nihil tamen certi adhuc de immortalitate animae respondebat. Post tot igitur secula scriptor tam argutus et subtilis non usque adeo est, ut arbitror, intellectu facilis. [23] MERC. Vix risum teneas, Charon, si tibi ipse retulero quam facete rhetor argutulum quendam philosophum nuper irriserit. Nam cum ille nimis intorquere Aristotelis sensa vellet: «Auditores, rhetor inquit, scitote non cum philosopho mihi, verum cum sutore contentionem esse: quod enim sutoris est proprium, dentibus alutam producere, hoc noster in Aristotelis dilatandis dictis facit. Quocirca videndum est tibi, philosophe, ne genuinos relinquas in corio». Hinc factum est, Charon, tritum illud iam, bene dentatum esse theologum oportere. CHAR. Festivissime rhetor is, sed obscuritas utrunque fortasse et philosophum excusaverit et theologum. MERC. Nequaquam in obscuritate omnia; verum, ut mihi videtur, duplex rei huius est causa: altera, quod qui

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l’unica, o comunque la più importante virtù femminile». Mi ricordo di aver sentito recitare questo decreto in Atene e nelle assemblee di altre città greche. Il suo allievo Aristotele, d’altronde, ha tolto a Platone molta della sua autorità. Infatti fu più arguto del maestro e non si allontanò così tanto dalle pratiche civili. CAR. Furono ragioni valide ed oneste. Dunque i libri di Platone sono condannati da molti, mentre quelli del suo discepolo vengono letti? MERC. Certo, sono tenuti in grande onore, anche presso i barbari. CAR. Forse quel giorno ero stanco – anzi lo ero certamente a causa del lavoro – e la mia mente era occupata in altre faccende; ma Aristotele mi è sembrato troppo oscuro e cauto quando su questa barca gli ho posto alcune domande. Sebbene mentre discuteva con me vivesse sciolto dalle catene del corpo, non rispondeva in modo definitivo in merito all’immortalità dell’anima! A tal punto, credo, dopo tanti secoli uno scrittore così arguto e sottile è difficile da comprendere. [23] MERC. Tratterrai a stento le risa, Caronte, quando ti avrò raccontato con quanta finezza poco fa un retore piuttosto arguto si è preso gioco di un filosofo. Quando quest’ultimo voleva distorcere eccessivamente il significato delle parole di Aristotele il retore ha detto: «Voi che assistete alla disputa, sappiate che non sto discutendo con un filosofo ma con un calzolaio: i calzolai, infatti, secondo le consuetudini della loro professione allungano il cuoio con i denti, e costui fa lo stesso dilatando le sentenze di Aristotele. Dunque, filosofo, stai attento a non lasciare i denti nel cuoio!». Da questa discussione è nato il noto detto: il teologo deve avere buoni denti. CAR. Quel retore si è espresso in modo molto spiritoso ma forse l’oscurità di Aristotele giustifica i filosofi e i teologi. MERC. Non è affatto vero che tutti i passi di Aristotele siano oscuri; anzi la causa di questa incomprensione,

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nunc philosophantur ignorant bonas litteras, quarum Aristoteles gravis etiam auctor fuit; altera, quod dialectica corrupta fuerit a Germanis primum et Gallis, deinde et a nostris, in eaque maximam nunc quoque ruinam faciunt.25 CHAR. His nuper artibus me adortus est sophistes. MERC. Videlicet ex horum erat numero et fortassis ex illorum ordine qui fratres dicuntur. CHAR. Recte. Nam praenomen ei frater erat. MERC. Cautissimum itaque oportet esse te ac versutissimum quotiens in eorum aliquem incideris. Nihil est enim quod argumentando non consequantur, immo quod non extorqueant, et scin quomodo? Ut velis nolis assentiendum sit eorum dictis; facileque hoc pacto efficiare e Charonte asinus. CHAR. Nimis ridiculus es qui id arbitrere; in asinum mene illos captiunculis suis versuros quasi Apuleium amatorio poculo, quem ego vix agnovi cum hac iter faceret? Nam auriculas ac supercilia adhuc retinebat asini. Egregie tamen philosophabatur et iucundus in disserendo erat. Eum ego cum in aliis multis ridebam, tum in hoc, quod hordeaceum panem siligineo praeferret. Etenim vestigia quaedam in eo reliqua erant asinini gustus et pene subrudebat. Verum, ut ad sophistas redeam, non est cur

25 Pontano applica alla filosofia aristotelica il paradigma umanistico della decadenza della cultura antica ad opera di un’età di mezzo concepita come barbarica. L’argomentazione, qui appena accennata, secondo la quale la filosofia aristotelica di stampo medievale insegnata nelle università sarebbe da considerarsi l’effetto di una trasmissione scorretta dei testi dello Stagirita sarà ripresa da Pontano in Aeg.: 259-260.

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a parer mio, è duplice. La prima è che quanti oggigiorno si occupano di filosofia non conoscono le buone lettere, delle quali Aristotele fu un autorevole esponente; la seconda è che la dialettica è stata corrotta dapprima dai francesi e dai tedeschi e poi anche dai nostri che ora la hanno ridotta in macerie. CAR. Poco fa un sofista mi ha aggredito con queste arti dialettiche. MERC. È evidente, era uno di costoro; probabilmente apparteneva alla schiera di coloro i quali vengono chiamati frati.44 CAR. È così. Il suo appellativo era “frate”. MERC. Ogni qual volta ti imbatti in uno di costoro devi essere assai guardingo e assai scaltro. Non c’è niente che non ottengano con le loro argomentazioni, o meglio niente che non riescano ad estorcere, e sai come fanno? Volente o nolente devi dare ragione ai loro sillogismi; e in questo modo è facile che trasformino Caronte in un asino. CAR. Sei proprio spiritoso a immaginare una situazione simile: con i loro cavilli da due soldi trasformerebbero proprio me in un asino, come è accaduto ad Apuleio con la pozione magica? L’ho riconosciuto a stento mentre lo trasportavo sulla barca: aveva ancora orecchie e ciglia asinine. Tuttavia filosofeggiava in modo egregio e discorreva piacevolmente. Io ridevo di lui per molte cose, ma soprattutto perché preferiva il pane d’orzo a quello di frumento. E infatti rimanevano in lui gusti asinini e ragliava sotto i baffi.45 Ma, tornando ai sofisti, non c’è ragione che io 44 Riferimento ai frati francescani e domenicani che insegnavano teologia nelle università del tempo. 45 Pontano identifica lo scrittore Apuleio con Lucio, il protagonista del romanzo Le Metamorfosi, un giovane tramutatosi in un asino dopo aver bevuto una pozione magica. Il riferimento al «filosofeggiare» di Apuleio è un’allusione ai suoi trattati dedicati alla dottrina platonica: il De dogmate Platonis e il De deo Socratis.

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illos magnopere timeam, quippe qui, cognitis recte principiis, dum bene partiar, dum vere definiam, capi ab illis nullo modo possim. Sed dic, Mercuri, obsecro, quod nunc genus hominum in terris laetius ac liberius vivit? [24] MERC. Sacerdotes laetius, quos etiam in funeribus cantantis audias, liberius medici, ut quibus permissum sit hominem impune occidere. CHAR. An non capitale apud illos est parricidium? MERC. Etiam; medicos tamen lex non modo absolvit, verum mercedem quoque eis statuit. CHAR. Quam inique comparatum! MERC. Quinimo iure eos lex absolvit, siquidem medicus non occidit, verum qui medici utitur consilio et opera, quam quidem vel magno conducunt precio. CHAR. Igitur civiles hoc leges considerant? MERC. Considerant; prudentissimi enim mortalium fuere qui primi eas tulere maximamque habuere rationem civilium actionum omnium et publicarum et privatarum, quippe qui nullam nec vitae nec artis, nec facultatis cuiuspiam partem contempsere; nulliusque unquam patrisfamilias tam exacta fuit domesticae rei diligentia et cura quam horum ipsorum humanae societatis. Verum qui eas nunc interpretantur, prudentiam in malitiam vertentes, iura venditant, leges contaminant, fas nefasque solo discernunt precio, ut nulla homini in vita maior sit pestis quam ubi eorum indiget patrocinio. Quocirca factum proverbium est litis comitem miseriam esse. [25] CHAR. Hoc illud est, quod nuper praeco, dum eos ad praetores citaret, forensis Harpyias increpitabant!

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li debba temere in modo particolare, dal momento che, dopo che ho conosciuto nel modo giusto i principi della dialettica, se distinguo le preposizioni nel modo corretto e definisco secondo la logica le parti del ragionamento non posso in alcun modo essere catturato da loro. Ma ti prego, Mercurio, dimmi, quale categoria di uomini vive sulla terra in modo più libero e lieto? [24] MERC. I sacerdoti sono quelli che vivono più lietamente, li ascolti cantare anche durante i funerali, mentre quelli che vivono più liberamente sono i medici ai quali è concesso di uccidere impunemente un uomo. CAR. Ma nel loro caso l’omicidio non è forse punito con la morte? MERC. Al contrario, la legge non soltanto li assolve ma dispone che vengano pagati. CAR. Che legge iniqua! MERC. Ma no! è giusto che la legge li assolva, se ammettiamo che non è il medico il responsabile della morte ma quanti si avvalgono del suo consiglio e della sua opera, qualche volta persino pagando profumatamente. CAR. Dunque il diritto civile prevede questo caso? MERC. Sì, lo prevede. I mortali che per primi redassero tali leggi furono prudentissimi e tennero conto di tutte le azioni, pubbliche e private: non trascurarono nessuna condizione, nessun lavoro, nessuna circostanza; nessun padre di famiglia dimostrò mai tanta attenzione e diligenza nella gestione della casa come costoro nella gestione della società umana. Però quanti oggigiorno interpretano il diritto civile, mutando la prudenza in malizia, mettono in vendita le sentenze, corrompono la legge, distinguono il giusto dall’ingiusto in base all’offerta migliore, di modo che nella vita degli uomini non c’è disgrazia maggiore che aver bisogno del loro patrocinio. Da qui il proverbio: le cause sono sorelle della miseria. [25] CAR. È questo allora il motivo per il quale il banditore poco fa, mentre convocava in giudizio gli avvoca-

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Sed iam, Mercuri, colligendorum rudentum tempus nos admonet horaque descensionis appetit. Itaque quanquam orationis nunquam me satietas capere potest tuae, quippe cum idem ipse sis et eloquentissimus et humanarum divinarumque rerum prudentissimus, videndum tamen est ne nostrum hoc quaerendi studium ab agendis nos rebus avocet, neve summum magistratum, qui de adventu tam solicitus est tuo, spe ducamus longiore. MERC. Hoc est quod mecum adeo ipse laetor, tam secundo flatu cursum nos hunc confecisse. Et vero me ipsum expedio, ac, si tibi videtur, illic ubi minime caenosum est vadum descendamus. Inde pedibus ad praetores iter faciemus per amoenissima illa prata et secundum rivulum illum qui tam leniter immurmurat, atque hoc non tam mea causa (ipse enim talaribus ubi opus est utor, et in quotidianis fere sum tum itineribus tum deambulationibus) quam tua, cui quandonam toto anno contingit cymbam semel gredi et brevi saltem deambulatiuncula uti? CHAR. Ut recte dicis, ut rem mihi gratam facis! Illam ipsam igitur maxime virentem ripam teneamus; et, per Plutonem, quam fons ille limpidum scaturit!26 Ramum illum, Mercuri, quam raptim comprehende. 26 Il piacere provato da Caronte nel concedersi una passeggiata è un’invenzione che potrebbe tener conto un passo del Momus albertiano, nel quale Caronte preferisce attraversare il percorso che conduce agli inferi via terra e non per mezzo della sua imbarcazione: «Est Charon sensibus acutissimus, visu, auditu et huiusmodi supra quam possis credere. Cum igitur ad eius nares florum, qui passim in prato aderant, applicuisset odor, illico se ad flores ipsos colligendos et contemplandos dedit tanta voluptate et admiratione ut ab his aegre ferret abstrahi. Admonebat enim Gelastus plus itinerum superesse quam ut puerilibus florum delitiis legendis insisteret: maiora enim esse quae aggrediebantur, flores quidem suppeditari mortalibus adeo ut etiam ab invitis conculcentur. Ille etsi nihil invitus magis posset audire, ductori tamen parendum ducebat» (Alberti, Momus 4, 35-36).

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ti, li chiamava «Arpie forensi»! Ma, caro Mercurio, l’ora ci invita a raccogliere le gomene e si avvicina il momento di scendere. Sebbene io non sia mai sazio di ascoltarti parlare, dato che sei a un tempo oltre modo eloquente e sommamente esperto nelle vicende umane e divine, è necessario, tuttavia, fare attenzione che questo desiderio di discutere non ci distragga dai nostri compiti facendo attendere ancora i magistrati che con tanta ansia sono in attesa del tuo arrivo. MERC. È per questo che mi rallegro che abbiamo completato il nostro viaggio con il vento propizio. Mi preparo e, se lo ritieni opportuno, possiamo scendere laggiù dove il guado è meno fangoso. Da lì raggiungeremo i due magistrati proseguendo a piedi, attraverso quei prati amenissimi, lungo quel piccolo rivo che tanto dolce sussurra; lo faremo non tanto per me (io infatti quando serve uso i calzari alati e quasi tutti i giorni sono in viaggio e in cammino), ma per te; dimmi, quante volte ti capita in un anno di lasciare la barca e concederti una passeggiatina? CAR. Dici proprio bene e mi fai cosa gradita! Incamminiamoci verso quella riva laggiù, che è la più verde; per Plutone, come limpida sgorga quella fonte! Mercurio afferra quel ramo. (Caronte e Mercurio scendono dalla barca)

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MERC.

Comprehendi, bene habet, continens iam nos-

tra est. Licet igitur descendas, tantisper me in haerba manens, dum paxillo illi naviculam illigo. CHAR.

VI. CHARON, MERCURIUS AMBULANTES [26] CHAR. Et inter graves occupationes cessatio grata est omnis et, si qua interim voluptas offertur, ea quam est suavis! Equidem ego ita semper duxi, voluptatem raram esse debere, ac tum maxime delectare cum sit quam honestissima. Ocium vero nunquam ipse probavi, nisi quod cum reficiendis corporibus tum levandis animis concedatur. Ne biennio toto maiorem hac cepi voluptatem; ut blande rivus hic sussilit! Vide quam perspicuus est, quam etiam nitido fluit alveo! MERC. Talis Clitumnus per Umbros fertur27, et quanquam multarum ille est aquarum dives, hic tamen, quod gurgites nullos efficit, sed continuo et leni currit tractu, ripas habet amoeniores et magis delectat. Sed qualia tibi prata videntur haec, Charon? CHAR. Quam grata florum amoenitas et quanta copia! Ut halatiles hae sunt ferrugineae!28 MERC. Violas eas mortales vocant, ex his sibi coronas faciunt multoque miscent ligustro. 27

Pontano evoca il Clitunno, fiume descritto da Properzio (Prop. 2, 9, 23-26) e menzionato da numerosi scrittori latini (Verg. Georg. 2, 145; Sil. 4, 543 e 8, 447; Stat. Silv. 1, 4, 128; Iuv. 12, 10), con lo scopo di elogiare l’Umbria, sua regione di origine, da lui stesso celebrata nelle opere poetiche come «cultrice delle Pieridi» e «patria di Properzio» (Parth. 1, 18, 25). La descrizione di fonti e fiumi è particolarmente cara a Pontano il quale nelle sue elegie rievoca fiumi Vegi e Nera, che attraversano Cerreto da Spoleto, suo villaggio natale (cfr. Parth. 1, 6; 1, 18; 2, 9 e vd. Kidwell, Pontano: 24-27). 28 Cfr. il sintagma «ferruginesi hyacinthis» in Hort. 1, 10.

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MERC. Ho capito; ecco fatto, bene, siamo a terra. CAR. Scendi pure, aspettami un attimo tra l’erba men-

tre lego la barchetta a quel palo.

VI. CARONTE, MERCURIO MENTRE CAMMINANO46 [26] CAR. Nel mezzo di gravi occupazioni ogni pausa risulta gradita, e se un qualche piacere si offre nel frattempo, com’è gradevole! Per quanto mi riguarda io ho sempre ritenuto che il piacere debba essere dilazionato e che diletta in sommo grado quando è più che onesto. In effetti non ho mai approvato il riposo se non quello che viene concesso per ristorare il corpo o rinfrancare l’animo. Negli ultimi due anni non ho mai provato un piacere simile: come sgorga seducente questo fiume! Guarda come è chiaro, come scorre nitido nel suo alveo! MERC. Si dice che in questo modo attraverso l’Umbria scorra il fiume Clitunno,47 sebbene quel fiume sia ricco di acque, questo tuttavia, dal momento che non è increspato da onde ma scorre lento senza fermarsi, presenta delle rive più amene ed è più dilettevole a vedersi. Ma come ti sembrano questi prati, Caronte? CAR. Quant’è piacevole la bellezza dei fiori e come sono numerosi! Come profumano questi fiori ferrigni! MERC. I mortali li chiamano viole: se ne fanno corone, mescolandole con abbondante ligustro.48 46

La scena si sposta sulla riva di un fiume, in un paesaggio che presenta tutte le caratteristiche del locus amoenus. 47 Fiume umbro, che nasce tra Terni e Spoleto e dopo un percorso di 60 km si getta nel Topino, nei pressi di presso Cannara. 48 Secondo un gioco intraducibile in italiano che ben si sposa con il gusto di Pontano per il giardinaggio e la coltivazione (cfr. Asin. §§ 14-15), Pontano attribuisce a Caronte una tassonomia delle piante diversa da quella in uso presso i mortali. I nomi utilizzati

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Quod est, obsecro, ligustrum? Quod in margine illo tam candido et frequenti flore nitet. CHAR. Albicantium nostri vocant; quam me limes ille delectat! MERC. Et quanto in precio flos is habetur apud superos! Rosam vocant. CHAR. Videlicet roratilem dicis. MERC. Eam ipsam roratilem. Verum age, illuc respice; an quicquam totis his pratis illo tibi videatur hiacyntho pulchrius? CHAR. Atqui, ut scias, Mercuri, flos ille lacrimulas mane mittit; hinc moerentiolum holitores nominant. MERC. Et apud mortales quasdam habere notas doloris dicitur. CHAR. Itineris laborem non sensimus in tanta hac florum varietate; cuius quod paulum admodum nescio quod reliquum videtur, eo magis properandum censeo. MERC. Hoc ipsum considerantis est viri, in ipsa quoque voluptate tempus non labi frustra sinere. CHAR. Atqui labor in voluptate non sentitur, et actio etiam omnis in ipso agendi cursu est periucunda. Sed pratis iam praeteritis, umbras subimus, ac, ni me oculus fallit, sub procera illa et annosa cupresso iudices praestolantur. CHAR. MERC.

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CAR. Dimmi, qual è il ligustro? MERC. Quell’arbusto che su quella riva splende di fio-

ri copiosi e candidi. CAR. Noi lo chiamiamo albicantium;49 quanto mi piace quell’alveo! MERC. E quant’è apprezzato quel fiore dagli dei! Si chiama rosa. CAR. Intendi dire roratilis.50 MERC. Il termine in effetti le si addice. Ma vieni, guarda là: in tutti questi prati hai visto qualcosa di più bello di quel giacinto laggiù? CAR. Ebbene quel fiore, come sai, di giorno emette piccole lacrime; gli ortolani lo chiamano moerentiolum.51 MERC. I mortali ritengono che tali lacrime siano il segno di un antico dolore.52 CAR. Tra tanti fiori diversi non abbiamo sentito la fatica del cammino; ma, dato che non è rimasta molta strada da fare, propongo di affrettare il passo. MERC. Questa è una considerazione degna di un uomo prudente: anche nel piacere non bisogna sprecare tempo. CAR. Durante il piacere non si avverte la fatica ed ogni azione è gradevolissima mentre la si svolge. Ma lasciamo da parte i prati, avviciniamoci all’ombra; se gli occhi non mi ingannano i giudici ci attendono sotto quel cipresso

negli inferi, ad ogni modo, un’etimologia che li riconduce all’aspetto delle piante. 49 albicantium: «che tende al bianco» (dal colore dei fiori di ligustro) 50 roratilis: nuova formazione pontaniana (in Haig Gassier, Notes: 353 si segnala l’uso del termine in Baiae 1, 12, 7), letteralmente significa «rugiadosa». 51 moerentilium: altro conio Pontaniano, letteralmente «che piange». 52 Allusione al mito di Giacinto: il bel giovane, amato da Apollo, venne ucciso per errore dallo stesso dio; dal suo sangue sparso sul terreno sbocciò un fiore che ricevette il suo nome.

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Quocirca, in nemore ne oberremus, defixa in cupressum acie ad eos contendamus.

VII. MINOS, AEACUS

[27] MIN. Quam iuvit utrunque nostrum facilis ista deambulatio! Et sessio haec quam postea suavis fuit, procul a iudiciis, procul a forensi solicitudine, ut dies hic (qui Cretensium ac meus maxime mos fuit) albo sit lapillo numerandus!29 Et tamen cessatio ipsa nec deses fuit nec languida. AEAC. Imprimis me silentium beavit et concentus ille avium tam diversarum, qui coeteris ab rebus omnibus sic avertit animum, ut nulla interim de re alia aut soliciti fuerimus aut locuti. Quid umbrae amoenitas, quid arbuscularum tam ordinata dispositio rivulique interlabentes tam laeto, tam florido ac frondenti margine? Accessit Mercurii adventus, qui omnem expectationis nostrae solicitudinem levavit, ac navigatio tam secunda, et, ni me fallunt aures, utriusque pedum Charontis atque Mercurii strepitum subaudire inter virgulta visus sum, et, per Plutonem, eccos! Humilior eos excepit iuniper; iam apparent. MIN. Ut libenter eos video, ut Mercurii adventum gau-

29

Cfr. Hor. Carm. 1, 36, 11; Plin. Nat. 7, 40; vd. anche Baiae 1, 12, 7 (passo segnalato in Haig Gassier, Notes: 353).

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laggiù, alto ed annoso. Perciò, per non perderci nel bosco, fissiamo lo sguardo sulla cima del cipresso e dirigiamoci verso di loro. VII. MINOSSE, EACO53 [27] MIN. Quanto ha dilettato entrambi quest’amena passeggiata! e dopo com’è stato piacevole sedere insieme, lontano dalle sentenze e dalle preoccupazioni forensi! Questo giorno (per seguire un’abitudine cara ai tutti i cretesi e a me in particolare) deve essere contrassegnato con un sassolino bianco.54 Eppure la pausa non è stata inerte e priva di occupazioni. EAC. Mi hanno deliziato soprattutto il silenzio ed il canto armonioso di tanti uccelli diversi, quel canto che ci ha distolto l’animo da tutto il resto al punto che, mentre lo ascoltavamo, non ci siamo curati di nient’altro ed abbiamo taciuto. E che dire della piacevolezza dell’ombra, della disposizione così ordinata degli arboscelli; che dire dei fiumiciattoli che lambiscono un argine così rigoglioso, così fiorito e verde? Ed ora l’arrivo di Mercurio che ha attenuato l’ansia dell’attesa e una navigazione così lieta... se le orecchie non mi ingannano, mi sembra di sentire vagamente tra le piante il rumore dei passi di Caronte e di Mercurio… Per Plutone, eccoli! Sono coperti da un piccolo ginepro… ora si vedono a pieno. MIN. Come sono contento di vederli, come mi rallegra 53

La scena si sposta in un luogo ameno poco distante dal prato attraverso il quale Mercurio e Caronte stanno camminando; in questo luogo, nella scena seguente, si riuniranno per la prima ed ultima volta le due coppie costituite da Eaco/Minosse e Mercurio/ Caronte. 54 I cretesi erano soliti, al termine della giornata, mettere da parte un sasso bianco se il giorno era stato felice ed uno nero se il giorno era stato infelice.

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deo! Atque adeo nihil nostrae huic voluptati defuisse videtur, quin omni e parte numeros impleverit suos. Sed quid quod Mercurius solito incedit lentior? AEAC. Ne vereare, expectandi Charontis it tardior gratia. Is enim tardiusculus est, quando qui exercentur in navi brachiis quam pedibus magis valent.

VIII. MINOS, AEACUS, MERCURIUS, CHARON [28] MIN. Expectatus venis atque adeo desideratus, mihique et collegae huic deus sapientissimus, nuntius diligentissimus. AEAC. Solidissimam nobis affers adveniens voluptatem, facturus eam oratione tua longe solidiorem. MERC. Quod adventus vobis voluptatem attulerit meus gaudeo; idque est mihi quam iucundissimum, et, si quid est quod ego ipse vel dicendo vel respondendo delectare possim amplius, id in voluntate situm est vestra. Dicam ubi iusseritis, aut, si interrogare malueritis, respondebo. Imperia enim vestra utpote aequissimorum praesidum fore quam aequissima satis scio. Quid enim uterque vestrum nisi honestissimum exigere, praesertim a Mercurio potest? Etenim, iudices, quod dicere hic liceat, nimis quam male de me est meritum humanum genus! Furtis me praeficiunt ac praestigiis, qui sim vel acerrimus furum ulctor praestigiasque usque adeo oderim ut quotidie insecter magis. Sed cum in plerisque aliis tum in hoc maxime peccant homines, quod scelerum suorum deos tum auctores faciunt

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l’arrivo di Mercurio! Non manca niente al nostro piacere perché sia completo in ogni sua parte. Ma per quale motivo Mercurio incede più lentamente del solito? EAC. Non meravigliarti, cammina più lentamente per aspettare Caronte. Egli, infatti, è alquanto lento perché nella nave esercita maggiormente le braccia che le gambe.

VIII. MINOSSE, EACO, MERCURIO, CARONTE [28] MIN. Dio sapientissimo, diligentissimo nunzio, giungi invocato e molto atteso da me e dal mio collega. EAC. Con il tuo arrivo ci rechi un autentico piacere che il tuo discorso renderà ancora più autentico. MERC. Sono felice che il mio arrivo vi allieti; anche per me tale circostanza è molto gradita e se parlando o rispondendo posso dilettarvi ancora di più mi metto a vostra disposizione. Parlerò quando me lo imporrete o, se per caso preferirete farmi delle domande, vi risponderò. So bene, infatti, che i vostri ordini, in quanto voi siete retti amministratori della giustizia, non possono essere altro che retti. E cosa mai potreste chiedere voi due se non quello che è sommamente giusto, soprattutto se lo chiedete a Mercurio? Eppure, cari giudici (è lecito dirlo in questo consesso) il genere umano si è comportato eccessivamente male nei miei confronti. Mi considerano il protettore dei furti e delle truffe,55 eppure io punisco senza pietà i ladri ed odio i truffatori al punto che li perseguito ogni giorno di più. Ma come in molti altri casi, anche in questo gli uomini peccano enormemente perché considerano gli dei gli autori o i maestri dei loro delitti. Nessuna cosa, a me 55 Nella mitologia romana Mercurio, pur essendo stato identificato nell’Ermes dei greci, conservava alcune caratteristiche di un più antico culto etrusco: secondo tale tradizione il dio sarebbe stato il protettore dei mercanti e dei ladri.

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tum magistros. Mihi et diis coeteris nulla maior est quam honesti cura. Atque adeo turpitudinem omnem detestatam habemus, ut precibus hominum, quanquam honestis, tamen, si turpem aliquem finem respectent, aures praebeamus occlusas. Quod autem, Minos, deum me appellas ac sapientissimum dicis, facis pro tua illa veteri in me, dum inter homines ageres, observantia et cultu; tamen sic habeto, deum esse me et e coelestium numero ubi in coelis aut terris vagor; hic vero apud inferos tum apparitoris, tum lictoris fungi, non dei officio. Sapientissimum vero nec me, nec deorum quenquam dixeris; neque enim tali dii indigent nomine, quippe qui labi, errare, decipi, ignorare nequeant. At apud mortales, qui tanta offusi sint caligine et nube, nomen ipsum sapientis inventum est, ut ab ignorante et stulto is qui saperet discerneretur; quanquam vere sapiens apud illos adhuc inventus est nemo. Lictor igitur atque apparitor ad vos venio, vestris imperiis pariturus. [29] MIN. Et deum te, Mercuri, ut par est, veneramur et sapientissimum appellamus, quando quo te honestiori exornemus nomine non habemus, ac tametsi lictoris fungare muneribus, nonne ipse scis etiam inter mortales maximorum regum lictores in maximis quibusque magistratibus ius ditionemque exercere? Quamobrem et nobis ut imperes iusque fasque est. Nostra vero interest tibi ut obediamus studeamusque doctiores a te fieri, quando et doctrinae inventor fuisti et rerum occultissimarum interpres.

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come agli altri dei, sta più a cuore dell’onestà. Abbiamo a tal punto in odio ogni azione malvagia che chiudiamo le orecchie alle preghiere degli uomini, per quanto decorose, qualora riguardino un fine meno che onesto. Caro Minosse, se mi definisci un dio e il più sapiente degli dei, lo fai in virtù di quella deferenza e devozione che dimostravi nei miei confronti quando vivevi tra gli uomini; ma ora ascoltami. Sono un dio, faccio parte del numero dei celesti, quando mi trovo in cielo o erro sulla terra; qui negli Inferi non svolgo il compito di divinità, sono piuttosto un messo o un littore. E poi non definire “il più sapiente” né me né nessun altro degli dei; nessuno di noi è privo di tale qualifica dato che non possiamo cadere in errore, né smarrirci, né essere ingannati, né ignorare qualcosa. D’altra parte il nome “sapiente” è stato inventato dai mortali, che sono offuscati da una spessa nebbia, per distinguere coloro che sanno dagli ignoranti e dagli stolti; con tutto ciò presso di loro non è ancora stato trovato un uomo che sia davvero sapiente. Insomma vengo da voi in veste di littore e di messo, pronto ad obbedire ai vostri ordini.56 [29] MIN. Eppure, Mercurio, ti veneriamo come un dio e, allo stesso modo, ti chiamiamo sapiente, dal momento che non conosciamo un nome più adatto col quale tributarti onore. Svolgi il compito di littore, sia pure: non sai che anche presso i mortali i littori dei re più grandi esercitano autorevolmente il loro potere nei confronti delle cariche più alte?57 Per questo motivo è giusto e naturale che tu ci comandi. A noi sta a cuore obbedirti ed impegnarci a divenire più dotti grazie alle tue parole, dal momento che tu sei stato l’inventore della sapienza e l’interprete delle cose occulte.58 56

Allusione al ruolo di messaggero degli dei che il mito attribuiva al dio. 57 Nell’ordinamento romano i littori erano ufficiali subalterni che precedevano in pubblico i magistrati. 58 Pontano allude all’identificazione di Mercurio con Toth, dio

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AEAC. Quod pace tua, Minos, dixerim, neque cum Mercurio contendendum est tibi, qui primus et prudentiae et eloquentiae praecepta tradiderit, neque expectatio nostra longiorem fert cunctationem; aequius igitur magisque ex usu fuerit quam primum ei causas explicare, cur hic eum iam dudum praestolemur. MERC. Et dei est, cui cogitationes quoque hominum notae sunt, id non expectare dum explicetis, et Charon certiorem me solicitudinis fecit vestrae. Principio Italia, unde ipse nunc venio, magnis quassata est terrarum motibus permultaque oppida prostrata solo iacent. Fontes plurimi partim mutarunt iter, partim exaruere. Videas editissimos montes illic subsedisse, hic iuga maiore quadam vi suis avulsa radicibus longius perlata magnosque hiatus factos, maiores paludes. [30] MIN. Patiare, quaeso, Mercuri, (avidiores enim sumus) inter explicandum sciscitari quaedam nos et causas ex te quaerere. MERC. Oppido quam libenter. MIN. Dicas igitur numquod saltem remedium, ne cunctae domus corruant, inventum atque adhibitum in tanta hac calamitate sit ab hominibus. MERC. Non usquequaque firmum, sed tamen salubre pro tempore. Tignis procerioribus parietes vinciunt eaque concatenant, cum quibus quanto salubrius actum esset si affectus suos vincirent ratione nec cogitationes tam evaga-

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EAC. Col tuo permesso, Minosse, vorrei dirti che non devi dissentire con Mercurio che per primo ha diffuso gli insegnamenti relativi alla prudenza: la nostra attesa non ammette un ulteriore ritardo. Sarebbe preferibile, e più utile al nostro scopo, spiegargli anzitutto per quale motivo da un po’ di tempo lo stavamo aspettando qui. MERC. È proprio di un dio, al quale sono noti tutti i pensieri degli uomini, non attendere che voi esponiate tali ragioni, e poi Caronte mi ha informato a pieno in merito alle vostre preoccupazioni. Innanzi tutto l’Italia – è da lì che vengo – è stata scossa da grandi terremoti e molte città giacciano rase al suolo.59 Molti fiumi hanno mutato il loro percorso o si sono disseccati. Da una parte avresti potuto vedere altissimi monti sprofondati al suolo, dall’altra le catene montuose, strappate da una forza più grande, trasportate lontano dalla loro sede; e al loro posto smisurate voragini e vaste paludi. [30] MIN. Mercurio, ti prego (siamo molto curiosi) lascia che durante la tua spiegazione ti poniamo delle domande e ti chiediamo di esporci i dettagli. MERC. Certo, molto volentieri. MIN. Dicci se gli uomini, in una calamità così grande, hanno per caso escogitato un qualche rimedio per evitare che le case fossero tutte distrutte. MERC. Ne hanno escogitato uno non risolutivo ma salutare, considerando l’emergenza. Puntellano le pareti con lunghe travi e le legano insieme, ma sarebbe molto più salutare per loro se legassero con la ragione le passioni e

egizio della conoscenza e protettore degli scribi. La caratterizzazione di Mercurio come “interprete delle cose occulte” molto probabilmente allude al Corpus Hermeticum, collezione di testi esoterici attribuiti tradizionalmente ad Ermete (nome greco di Mercurio) che Marsilio Ficino aveva da poco tradotto (1460-1463). 59 Riferimento al grave terremoto che nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 1456 sconvolse il Napoletano, cfr. Monti, Ricerche: 773776.

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ri sinerent! Quod singulis vix seculis semel accidit, in eo avertendo magnopere occupati sunt omnes; quae vero pericula ac mala singulis pene momentis suae ipsorum nefariae cupiditates afferunt, ea volentes laetique feruntur. Nocte una post aliquot etiam secula quod ad viginti hominum millia sub tectis oppressa sunt, omnes hoc horrent incusantque, ac damnant naturam, quae vix scio quamobrem amplius illos ferat. At bella, quae unius horae momento et fere quotannis multa hominum millia exhauriunt, interdum regna tota populosissimasque extinguunt nationes, qua non arte quaerunt? In his sese exercent; hic illis ludus, hae delitiae sunt; summum habetur decus caput hostis affixum hastae referre.30 [31] AEAC. Nihil profecto video eos mutasse in melius ex quo ipsi homines esse desiimus. MERC. Vix unum. AEAC. Quodnam illud? MERC. Imperitantibus vobis, viri uxores adulteras repudiabant, at nunc ferro enecant.31 MIN. Quid Mercurium ea quaerendo fatigas quae tute probe noveris? An non compertum satis habemus deteriores illos quotidie atque in dies fieri? MERC. Exequamur igitur alia. Exortus est cometes, qui, cum gravissima bella tum regnorum portendere eversiones soleat, omnium mentes atque animos concussit etiam futurorum metu malorum; aequissimeque cum illis agit deorum omnium maximus, qui non praesentibus solum 30 Nello stralcio di poema epico che conclude l’Antonius si legge la descrizione di un capo mozzato e infilzato su un’asta per terrorizzare i nemici (scena IX, vv. 92-98). 31 Riferimento alla diffusione dei coltelli presso la plebe napoletana lamentata in Antonius § 6 e, al contempo, allusione all’episodio evangelico dell’audeltera (Giovanni 8, 1-11); con un intento polemico che è alla base di molte pagine del dialogo Pontano evidenzia nei cristiani del suo tempo una malvagità e una ferocia maggiore di quella degli antichi.

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non lasciassero vagare i pensieri! Sono tutti seriamente occupati ad evitare un evento che accade a mala pena una volta in un secolo ma si lasciano trasportare ben volentieri verso quei pericoli e quei mali che in ogni momento le cupidigie nefaste procurano loro. Tutti inorridiscono perché in una sola notte, dopo molti secoli, ventimila uomini sono periti sotto le macerie delle loro case e accusano e maledicono la natura, che non so davvero come possa continuare sopportarli! Ma, invece, con quanto impegno non ricercano le guerre, che in un solo momento e quasi ogni anno uccidono migliaia di uomini e a poco a poco estinguono regni grandi e popolati, e distruggono intere nazioni? Si esercitano nella guerra; per loro è un gioco, una delizia; portare all’accampamento la testa di un nemico affissa ad un’asta è per loro un sommo onore. [31] EAC. Mi sembra proprio che in niente siano cambiati in meglio dal tempo in cui smettemmo di essere uomini. MERC. Soltanto in una cosa. EAC. Quale? MERC. Quando voi regnavate i mariti ripudiavano le adultere, oggi le uccidono con le lame. MIN. Perché affatichi Mercurio con domande delle quali conosci perfettamente le risposte? Non ci è già noto a sufficienza come di giorno in giorno gli uomini diventino peggiori? MERC. Allora passiamo ad altro. È apparsa una stella cometa la quale, dato che è solita annunciare gravissime guerre oppure la caduta dei regni, ha colpito le menti e gli animi di tutti con il timore di mali imminenti. Il Padre Eterno fa benissimo ad agire così nei loro confronti. Non

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malis eos cruciat, sed futurorum metu solicitat atque hanc praecipue poenam illis statuit, qui quae futura sint scire nimis quam laborant. MIN. Cur, oro, Mercuri, rerum eventa nescire hominem Deus voluit, quorum cognoscendorum tam sunt studiosi omnes? MERC. Quod inutilem sciret futurorum scientiam mortalium generi. MIN. Quonam pacto inutile esse potest quod eventurum sit nosse, siquidem mala vel evitari penitus, vel ex parte saltem aliqua minui cognita possent, bona vero ante quam evenirent ipsa etiam spe atque expectatione mirum in modum delectarent aninum? [32] MERC. Omnis quaestio quae de consiliis habetur ac decretis magni Dei profana est minimeque nobis diis permissum est ea in vulgum depromere. Tamen sic habetote: quaecumque eveniunt, ea aut fortuito contingere, aut fato evenire, idest divino consilio et ordine. Si fortuito, stultum est velle homines id assequi ratione cuius ratio nulla sit; sin fato, quanquam insita est homini scientiae cupiditas, parum tamen capacem eum natura fecit cognoscendi futuri, cuius cognitio captum hominis excedat. Etenim ut eius divinus sit animus, moles tamen corporis, cuius quasi vinculis et carcere tenetur compeditus, minus illum habilem atque idoneum reddit, cui ipsa sese divinitas pandat; cumque eventa ipsa bona sint aut mala, mala prius intellecta miseram afferunt solicitudinem, nonnunquam et desperationem. Deus autem non eo consilio hominem genuit, ut miserabiliorem quam suapte natura sit efficere illum velit futurorum cognitione malorum, quae sciat evitare illum minime posse. Bona vero, tametsi vitam iucundio-

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soltanto li tormenta con i mali presenti ma li sollecita con la paura di quelli futuri e ha stabilito questa punizione soprattutto per coloro i quali si sforzano eccessivamente di conoscere il futuro. MIN. Mercurio, dimmi, per quale motivo Dio non vuole che gli uomini, sempre ansiosi di conoscere il futuro, siano in grado di prevedere gli eventi futuri? MERC. Perché la conoscenza del futuro sarebbe inutile per il genere umano. MIN. Ma in che modo potrebbe essere inutile sapere quello che sta per accadere, se così facendo si potrebbero evitare completamente i mali o, perlomeno, una volta conosciutoli, si potrebbe diminuirne gli effetti, mentre i beni prima della loro venuta diletterebbero con una soave attesa gli animi? [32] MERC. Ogni inchiesta condotta in merito ai disegni e alle decisioni di Dio è blasfema, inoltre a noi dei non è affatto permesso comunicare tali cose al volgo. Ad ogni modo ascoltate questo ragionamento. Tutto quello che accade o capita per caso, o accade per volontà del fato, vale a dire seguendo un disegno preordinato da Dio. Se capita per caso, è stolto pretendere che gli uomini afferrino con la ragione qualcosa che non obbedisce alla ragione; se invece accade per volontà del fato, per quanto negli uomini sia innato il desiderio di conoscere, tuttavia la natura ha reso l’uomo scarsamente in grado di conoscere il futuro, la conoscenza del quale eccede le sue capacità. E infatti, sebbene la sua anima sia divina, il peso del corpo, del quale è schiavo come se fosse tenuto in carcere con le catene, lo rende non perfettamente capace di accogliere in pieno il manifestarsi della divinità. Dal momento che ogni cosa che accade è un bene o un male per l’uomo, i mali conosciuti in anticipo recano ansia, talvolta persino disperazione. Dio, però, non ha generato l’uomo con l’intento di volerlo rendere più infelice di quanto non sia per natura con la conoscenza dei mali futuri, i quali sa che non possono essere da lui evitati. I beni, da parte loro, se

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rem expectando facerent, tamen qui scierit ea sibi necessario eventura, is deses ignavusque efficietur, quippe cum certum habeat eventura etiam dormienti. [33] At Deus hominem agendum comparandamque agendo virtutem creavit, aegre patiens illum quiescere, nisi tantum quantum animorum levationi aut reficiendis corporibus necessario detur. Qui ne desidiosus efficeretur atque ignavus, egestatem illi rerum omnium comitem dedit laborareque in incerto eum voluit, dum semper eius certus labor esset. Sed his parum ipsi fortasse contenti, media quaedam esse dixeritis quae suapte natura ac simpliciter nec bona sint nec mala. Media quoque haec, sive ea casu ferantur sive fati contineantur necessitate, quod dubia appareant, satis fuerit, cum eveniunt, providere homines ut in suam quisque utilitatem, quoad possit, vel convertat ea, vel, si minus id assequi valet, saltem hoc assequatur, ne rebus damno sint familiaribus, et, si ne hoc quidem, ut, quam fieri possit, minimum incommodent. Igitur casus atque fortuna, ut dixi, cum ab omni procul ratione seiuncta, incerta, inconstansque feratur, quonam modo quod natura sua incertum sit, certum id efficere, et quod inconstans firmum reddere ratio poterit? Et cuius certitudo nulla est, qua id ratione futurum mortalis quispiam possit assequi? Quae si nec sciri nec comprehendi ratione antequam eveniunt possunt, evitari quonam pacto poterunt? Ubi igitur ista utilitas futurorum cognitionis erit hominum generi? Fatum vero vitari multo minus poterit, quippe cum non secus necessarium sit quod fato eventurum est ut eveniat, ac illud idem, postquam evenit, necessarium est evenisse. [34] At liberae sunt hominum voluntates: sint, dum volendi libertas ista

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fossero conosciuti anzitempo renderebbero la vita più felice nell’attesa, tuttavia chi sapesse di ricevere ineluttabilmente i beni diventerebbe inoperoso e fiacco, com’è ovvio dal momento che sa che li riceverebbe anche dormendo. [33] Ma Dio creò l’uomo per l’azione e perché tramite l’azione si guadagnasse la virtù, e non gli concede di stare a riposo se non il tempo necessario a rilassare l’animo e rifocillare il corpo; per evitare che divenisse inoperoso e fiacco gli diede come compagna la Penuria e volle che l’uomo lavorasse nell’incertezza, certo soltanto della fatica. Ma forse, poco soddisfatti da queste mie parole, potreste dire che ci sono degli eventi che per loro natura, considerati individualmente, non sono né cattivi né buoni. Riguardo a questi eventi indifferenti, siano essi recati dal caso o dal volere del fato, la questione appare dubbia, sarà sufficiente che gli uomini prevedano quando tali eventi accadranno in modo che ciascuno possa, per quanto può, indirizzarli verso il proprio utile; ovvero, se non riesce ad ottenere tanto, ottenere perlomeno che non arrechino danno ai suoi cari e, se non può fare nemmeno questo, che li infastidiscano il meno possibile. Quindi dal momento che, come ho detto, il caso ovvero la Fortuna è ritenuta remota da ogni logica, irresoluta, mutevole, in che modo può essere reso certo ciò che per sua natura è incerto, e stabile ciò che per sua natura è mutevole? E con quale ragionamento può un mortale arrivare a prevedere un evento in merito al quale non c’è alcuna certezza? E in che modo potranno essere evitati quegli eventi che non possono essere afferrati dalla ragione prima che accadano? E dunque dove sarà mai cotesta utilità nel conoscere il futuro? D’altra parte sfuggire al Fato è ancora meno possibile, dato che, in effetti, è necessario che accada in quel preciso modo ciò che sta per accadere per volere del Fato e dato che quel medesimo evento, dopo che accade, è necessario che sia accaduto. [34] Ma la volontà dell’uomo è libera: ammettiamo pure che lo sia: questa libertà di scel-

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vel cum primis efficiat nihil esse utile mortalibus futuras res nosse. Quarum cognitio quid habere potest utile, si ubi quid evenerit, velint necne id homines, aut prehendere aut labi sinere in sua ipsorum voluntate sit positum? Et profecto quae tam certa futuris de rebus longe prius secernendi voluntas esse potest homini, quem sat scimus in praesentibus haesitare adeo ut momento eodem nunc hanc nunc illam et quidem contrariam itentidem probet damnetque sententiam, persaepeque, antequam quid constituat certum habeat, occasio ipsa praetereat? Verum de fato atque fortuna, Minos, hactenus. Utinam ne in scholas qui philosophi vocantur haec ipsa introduxissent magisque sese institutos vellent ad ea, ubi evenissent, ferenda quam quaerendo illa tempus frustra terere supraque vires intendere. Quid enim aut stultius quam hominem officium hominis nolle curare, aut magis temerarium quam hunc eundem hominem suis neglectis muneribus velle futurorum scientiam (quae unius est Dei possessio) invadere? [35] Quamobrem redeamus ad crinitam. Hanc obstupefacti mortales utinam tam noscerent quam admirantur! Quam cum omnes metuant, omnes tamen male ominantur regibus, quasi non privata quoque regum mala in publicam cedant pernitiem. Equidem olim ludis Megalensibus Romae cum essem recitarenturque in theatro Graecorum ac Troianorum res, exclamare inter recitandum e doctioribus quendam memini nobileque hoc fudisse hexametrum:

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ta comporta come prima conseguenza che per l’uomo non è affatto utile conoscere le cose future. Quale utilità può avere questa conoscenza se, quando una cosa è accaduta, la vogliano o meno gli uomini, è in loro potere la scelta di prenderla o lasciarla andare? E poi come può l’uomo avere una ferma volontà di conoscere con molto anticipo gli eventi futuri quando sappiamo bene che nelle cose presenti esita al punto che in un medesimo istante vuole ora questo ora quello, e in un sol punto condanna ed approva decisioni opposte, e molto spesso prima che abbia deciso sul da farsi l’occasione è svanita? Ma ora, Minosse, basta discutere sul fato e sulla fortuna. Ah se quelli che si fregiano del nome di filosofi non avessero introdotto queste discipline nelle scuole! Magari preferissero essere addestrati nel sopportare i mali, quando accadono, piuttosto che consumare il tempo cercando invano di prevederli, concentrando in questa impresa le loro forze! Cosa c’è di più stolto per un uomo che non curarsi dei compiti che spettano agli uomini, o cosa di più temerario per questo medesimo uomo, dopo aver abbandonato i doni che gli sono stati concessi, che voler conquistare la conoscenza del futuro, che spetta solamente a Dio? [35] Perciò torniamo alla cometa. Ah se gli uomini attoniti la conoscessero tanto quanto se ne meravigliano! Tutti la temono, è vero, ma la interpretano come un cattivo presagio per i re soltanto, come se i mali privati che affliggono i re non si trasformassero in una pubblica rovina. Un giorno mi trovavo a Roma per i Ludi Megalesi;60 mentre ero in un teatro a sentir recitare le vicende dei greci e dei troiani, mi ricordo che durante la rappresentazione uno tra i più dotti citò questo nobilissimo verso: «la follia dei re sugli 60 Festività in onore della dea Cibele istituita durante la seconda guerra punica (204 a.C.). Durante i Ludi, che venivano celebrati ogni anno dal 4 al 10 aprile, venivano organizzati diverse tipologie di spettacoli.

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Quicquid delirant reges, plectuntur Achivi.32 Et vero ita comparatum est ut regum peccata populi plerumque luant. AEAC. Ipsi haec olim magis experti sumus quam nunc audita referimus, et causam requirentes inveniebamus reges idem in populis ius habere quod in corpore animus. Atque ut animorum perturbationes corpus inficerent, ita et regum vitia subiectos populos. Quoniam autem in regum mentionem incidimus, dicas velim, prudentissime Mercuri: quae nunc eorum qui civitates moderantur vita est, qui mores, quae studia, quale imperium, quam quietus eorum status? Nam quos paucis ante diebus pro tribunali causam dicentes audivimus non satis dignam nobis spem dedere successorum suorum. MERC. Praetereunda nunc haec arbitror; nam et illic apud mortales de iis loqui satis tutum non est et hic apud vos parum nunc quidem necessarium esse duco; satque hoc sit nosse, quod eorum alii partim male habent populos suos, partim ipsi male habentur a populis. Tertium quoque portentum nimis graviter eos vexat: complures enim dies sol radios nullos misit aerque omnis ceruleus visus est, quae res hominum animos ad superstitionem vertit. [36] CHAR. Obsecro, aequissimi iudices, aequis animis patiamini quaedam et me e Mercurio quaerere. MIN. Iusque fasque est, atque (ut pro collega etiam pollicear) operae precium fuerit te tantum philosophum audire quaerentem. CHAR. Et habetur nunc a me vobis et referetur olim

32 La citazione è tratta dalla prima delle Epistole di Orazio (Hor. Epist. 1, 2, 14), lettera in versi che illustra gli insegnamenti di carattere politico e morale che è possibile ricavare dalla lettura dell’Iliade.

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Achei ricade». E invero le cose vanno proprio così: il più delle volte i popoli piangono i peccati dei re. EAC. Un tempo abbiamo conosciuto di persona quei fatti che ora sentiamo riferire; dal momento che ce ne chiedevamo la ragione concludevamo che i re hanno nei confronti dei popoli lo stesso diritto che ha l’animo nei confronti del corpo. Come appunto gli sconvolgimenti dell’animo possono infettare il corpo, così i vizi dei re infettano i popoli a loro soggetti. Dal momento che abbiamo menzionato i re, prudentissimo Mercurio, vorrei che dicessi quale vita conducono quelli che ora governano gli stati, quali sono i loro costumi, quali le loro occupazioni, quale il loro potere, quale la condizione del loro governo? I re che abbiamo ascoltato perorare la propria causa di fronte al tribunale pochi giorni fa, infatti, non ci hanno lasciato ben sperare in merito ai loro successori. MERC. Ritengo che in questo momento sia opportuno tralasciare tale argomento; infatti non è abbastanza sicuro parlarne di là, presso i mortali, e non credo che qui, presso di voi, sia del tutto necessario; vi basti sapere che a volte i re trattano indegnamente i popoli che governano, altre volte, invece, gli stessi re sono trattati indegnamente dai loro popoli. Un terzo prodigio tormenta gli uomini assai gravemente: per molti giorni il sole non ha emesso raggi e il cielo appariva scuro.61 Questo fenomeno ha indotto gli animi degli uomini alla superstizione. [36] CAR. Giustissimi giudici, vi prego, con animo equo lasciate che anche io ponga a Mercurio una domanda. MIN. È lecito e giusto; inoltre, parlo anche a nome del mio collega, varrebbe la pena di ascoltare te, che sei un così grande filosofo, porre una domanda. CAR. Vi ringrazio per ora, un giorno vi renderà il favo61 Non si hanno notizie in merito ad un’eclissi solare di tale eccezionale portata durante la vita di Pontano, cfr. Monti, Ricerche: 769-770.

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gratia. Quamobrem, Mercuri, si placet, quando et his gratissimum fore ipse nosti, explices oro quam vobis diis grata sit ista superstitio. MERC. Nihil ea molestius. CHAR. Qui, quaeso? MERC. Quia ridicula cum sit superstitio, qui ea in deos utitur illos quoque ridiculos facit. CHAR. Mirum quod superstitionem ridiculam dicas! MERC. Atqui nedum ridicula, infelix etiam est; quae cuius animum occupavit, nihil est eo homine miserius; cuius quaenam vita esse potest, dum omnia pavet, cuncta formidat, quodque infelicissimum est, dies ac noctes terit deos obtundendo, quos non multus sermo trepidaeque mussitationes aut excitae frigidissimis persaepe causis lacrimae, sed honestae gravesque actiones ac rectae voluntates moveant? An, Charon, eos esse deos iudicas qui hominum gaudeant lacrimis? Et bonos et iustos et continentes, non lacrimosos Deus diligit. Etenim quid inde aut utilitatis Deo aut honoris, ubi nudis quis pedibus templa adit? Medicis utile fortasse. At Deus cur gaudeat hominum morbis, qui tot haerbarum genera, quae salubres illis essent, genuerit? Atque ut verum noscatis, nullum gravius malum homines invasit superstitione et studio ac metu isto in deos tam inani et frigido, nec tam vera religio diis est grata quam molesta superstitio; quae quam sit detestabilis hinc tute iudicato, quod, tanquam caede saginemur ac sanguine, hominem homo nobis mactat, quin et proprium fundit sanguinem. CHAR. Facinus quam nefandissimum! An, obsecro, sceleribus his sacerdotes ac pontifices non eunt ipsi obviam?

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re. Dunque, Mercurio, se ti va di rispondere, e se anche a loro interessa saperlo, spiegaci: in quale misura gli dei gradiscono la superstizione? MERC. Niente ci arreca più fastidio della superstizione. CAR. Per quale motivo? MERC. Perché, essendo la superstizione ridicola, chi ricorre ad essa nei confronti degli dei rende anche loro ridicoli. CAR. È incredibile che tu definisca la superstizione ridicola! MERC. Ebbene, non solo è ridicola, ma anche triste; non c’è più miserevole cosa di un uomo travagliato dalla superstizione; che vita è quella di un uomo che teme ogni cosa, che di tutto ha un sacro terrore, e, questo è il culmine dell’infelicità!, consuma le notti e i giorni infastidendo gli dei, i quali sono mossi non dai lunghi discorsi, dagli ansiosi bisbigli, dalle lacrime mosse da fiacche ragioni, ma piuttosto dalle azioni serie ed oneste e dalle giuste aspirazioni? Dimmi, Caronte, credi che si possano considerare dei quelli che si rallegrano delle lacrime degli uomini? Dio predilige gli uomini buoni, giusti e temperanti, non i piagnoni. E poi che utilità o quale onore riceve Dio da quanti entrano nei templi con i piedi nudi? Questa pratica è utile, forse, per i dottori! Ma perché mai dovrebbe rallegrarsi dei morbi degli uomini quel Dio che ha creato così tante erbe medicinali? E, insomma, perché sappiate tutta la verità: non c’è male più grande che si impossessi degli uomini della superstizione, di questo culto, di questo timore degli dei tanto insulso e vuoto; la superstizione è invisa agli dei più di quanto sia gradita loro la vera religione. Quanto sia detestabile la superstizione giudicatelo agevolmente da questo: gli uomini nel nostro nome uccidono altri uomini, come se noi ci impinguassimo di stragi e di sangue, e nel nostro nome effondono persino il loro sangue. CAR. Delitto oltre modo nefando! Ma dimmi, i sacerdoti ed i vescovi non si oppongono a questi crimini? Anche

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Quanquam ex omni hominum numero atque ordine quos ipse quotidie transveho foedioribus compunctum notis video neminem. [37] MERC. Nulli de vera religione sunt minus soliciti, quippe quorum studium est ampliare rem familiarem, congerere pecuniam atque in saginandis corporibus occupari; et cum nimis improbe avari sint omnes, nemo coenat lautius, nemo vestit elegantius. Dudum sacerdos cardinalis obsonatorem suum, quod in emendo lupo pisce pecuniae pepercisset (erat autem precium aurei sexaginta), quibus non maledictis est insectatus? Parumque abfuit quin illi domo interdixerit, ut vitae suae parum studioso. Ac ne erres, Charon, vitam nunc quae olim gula dicebatur vocant. Alter quoque sacerdos eiusdem collegii moriens exoleto legavit aureum triginta millia. CHAR. Utinam quibus haec audio carerem auribus! Tantumne facinus impunitum abire coeteri mortales sustinent? MERC. Superstitione tenentur. CHAR. Iam assentior nihil esse infelicius superstitione. MERC. Quantula sunt haec! Sacrum quoque sanguinem veneno tingunt! [38] CHAR. Utinam nescirem philosophiam dispudeatque talibus nunc Deum ministris uti! Quamobrem, sapientissime Mercuri, relictis sacerdotibus, perge de superstitione dicere, quae mortales omnes tam infeliciter vinctos atque oppressos teneat. MERC. Primum ea in mulierculis invenitur quam maxima. Illae ut picturam nactae sunt aliquam, ibi eam consulunt, et, ut coeteras res taceam, si anserculum vel gallinu-

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se fra tutte le categorie e classi di uomini che ogni giorno traghetto non ne vedo un’altra marchiata con contrassegni più sozzi. [37] MERC. Nessuno meno di loro si cura della vera religione: pensano soltanto ad ampliare i beni della propria famiglia, ad ammassare denaro e a trascorrere il tempo ingrassando i corpi; inoltre, per quanto siano tutti sfacciatamente avari, nessuno cena più lautamente di loro, nessuno veste con maggiore eleganza. Testé un cardinale con quali insulti non ha aggredito il suo cuoco perché ha lesinato il denaro nel comperare un pesce lupo (il costo era di sessanta monete d’oro)! Per poco non lo ha cacciato di casa come se non si fosse curato a sufficienza della sua vita. Se non sbaglio, Caronte, oggi si chiama vita quella che un tempo si chiamava gola. Un altro sacerdote del medesimo collegio cardinalizio morendo ha lasciato per testamento trentamila monete d’oro al suo amichetto. CAR. Vorrei non avere le orecchie per non sentire queste cose! E gli altri mortali lasciano impunito un misfatto così grave? MERC. Li trattiene la superstizione. CAR. Allora sono d’accordo: non c’è niente di più nefasto della superstizione. MERC. E questo è niente! Mescolano il veleno al sangue di Cristo. [38] CAR. Vorrei non conoscere la filosofia e che Dio si vergognasse di fare uso di siffatti ministri! Dunque, sapientissimo Mercurio, lasciati da parte i sacerdoti, concludi il tuo discorso sulla superstizione che così infelicemente opprime tutti i mortali. MERC. In primo luogo la superstizione più grande si trova presso le donnette. Non appena hanno comprato una qualche immaginetta subito le chiedono consiglio e, per tacere del resto, se un papero o una gallinella è colta

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lam pituita occuparit, quibus tum precibus ac lacrimis illam obsecrant! Pueros puellasque vix septuennes nugis his imbuunt. Sed quid de aniculis et puellis loquor, qui sciam deos solicitari quotidie a principibus viris, ubi falco longius evolaverit, ubi equus pedem contorserit, quasi aucupes dii sint, qui accipitrum curam habeant, aut tanquam fabri ferrarii equorum contusa et morbos curent atque ex hoc quaestu rem familiarem augeant? Videas in templis affixos accipitres etiam argenteos et equos et aves loquaculas. CHAR. Iam, ut praedicas, nihil est homine inanius. MERC. Inaniora his audies: non pedes modo et manus e cera aut metallo suspendunt tholis, sed et oscenas corporis partes, et quod medico erubescunt ostendere, id ante Deorum effigies collocare non pudet. Atque ut vana illorum ingenia magis ac magis rideas, rem supra quam dici possit inanem ac despicabilem accipe: Martinum Galli, Hispani, Germani, Itali sic colunt, ut turpe sit eius festo die ebrium ac madentem non esse. Itaque nihil est in terris eo die vinosius, nihil petulantius.33 In quodam Germaniae oppido, ubi Martini dies illuxit, statuam eius per publica

33 Nelle Baiae si legge un componimento con il quale Pontano invita gli amici a festeggiare con una solenne bevuta il giorno di S. Martino (Baiae 1, 17).

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dalla pipita62 con quante preghiere e con quante lacrime scongiurano l’immaginetta! Riempiono la testa dei bambini e delle bambine di sei o sette anni con simili sciocchezze. Ma perché parlo delle vecchine e delle fanciulle, quando so che ci sono dei principi che ogni giorno infastidiscono gli dei quando un falcone vola troppo lontano o quando un cavallo si storce un piede, come se gli dei fossero falconieri, che si prendono cura dei rapaci, o come se fossero maniscalchi che curano le contusioni e i malanni dei cavalli e impinguano le casse familiari con simili professioni? Nelle chiese puoi vedere falconi, cavalli e pappagalli d’argento.63 CAR. Allora, come hai detto prima, non c’è proprio niente di più sciocco dell’uomo. MERC. Sentirai cose ancora più sciocche. Appendono alle edicole votive non solo piedi e mani fatte di cera o metallo ma non si vergognano di collocare vicino alle immagini degli dei anche le parti oscene del corpo, e persino quella parte che hanno pudore di mostrare ad un medico. E perché tu possa ridere ancora di più dei loro cervelli vani, ascolta qualcosa che è più assurdo e detestabile di quanto non si possa esprimere a parole: i francesi, gli spagnoli, i tedeschi e gli italiani venerano Martino in modo tale che è turpe nel giorno a lui dedicato non essere ubriachi fracidi.64 E così sulla terra non c’è un giorno più avvinazzato, un giorno più petulante. In una città della Germania, quando sorge il giorno dedicato a Martino, trasportano la sua statua per le piazze. Se il giorno è 62

Malattia dei volatili che colpisce in particolar modo i polli. La pratica degli ex voto, particolarmente diffusa a Napoli, accomunava le classi popolari e i nobili, come indica nel testo il riferimento ai falconi, adoperati per la caccia. 64 Pontano si riferisce ai festeggiamenti in onore di San Martino di Tours (11 novembre) che in Germania davano inizio al Carnevale, secondo un’usanza ancora diffusa in alcune città tedesche come Colonia. 63

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oppidani loca efferunt; qui si clarus serenusque fuerit, operae precium est quis suaviori possit vino Martinum inspergere. Omnes viae plenae sunt vasculis, pullus est qui non Martinum comitetur lagenatus atque hac ratione per vias, porticus, templa vino ille madens fertur. At si pluerit, nihil est Martino contemptius. Luto totus conspergitur viaeque et cloacae in eum eluuntur. Neapoli, Campanorum urbe celebri, Maio mense sacerdotes per urbem coronati incedunt, quasi amantes adolescentuli. Sed hoc quidem levius fuerit. Rem nosce dignam tamen quae a sapientibus viris clausis auribus audiatur. Ubi omnis populus in templo convenit, de trabibus summi tecti resti deligata porcella demittitur ac multo sapone circunlita. Adsunt agrestes ad ludum vocati. Ibi oritur magna contentio, agrestibus ut ea potiantur annitentibus, qui vero appensam illam tenent agrestium manus arte ludentibus ac nunc subtrahentibus funem nunc in diversa laxantibus. Dum haec geruntur, turba ludo intenta et nunc his nunc illis plaudente, ibi quasi himber magna vis aquarum, maior iuris atque urinae e tecto compluribus simul locis diffunditur; agitur etiam humanis excrementis, nec prius cessatur quam agrestes porcella vi potiti sint. Quid igitur tibi videtur, Charon? [39] CHAR. Quod pace dixerim tua, Mercuri, non video cur haec sint condemnanda. MERC. Iocaris fortasse. CHAR. Imo serio dico. Nam et illi officium suum adversus Martinum faciunt, utpote qui ebrii cum sint, a

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soleggiato e sereno la ricompensa per Martino consiste nell’aspergerlo con i vini migliori. Tutte le vie sono piene di barilotti, tutti scortano Martino muniti di orci e in questo modo lo trasportano zuppo di vino attraverso le vie, i portici, le chiese. Ma se per caso quel giorno piove, nessuno è più misero di Martino. Lo cospargono di fango e svuotano su di lui le strade e le cloache. A Napoli, celebre città della Campania, nel mese di Maggio i sacerdoti sfilano in processione incoronati, come se fossero amanti adolescenti.65 Ma ciò sarebbe meno grave. Senti un po’ questo che è degno di essere ascoltato da un uomo saggio con le orecchie chiuse66. Quando tutto il popolo ha affollato la chiesa lasciano pendere, legata alle travi del tetto, una scrofa unta con abbondante sapone. Si fanno avanti i campagnoli, invitati alla gara. Quindi nasce una grande contesa agreste e manesca tra i contadini che cercano di impadronirsi della scrofa e gli uomini che reggono le funi, i quali ora le tirano ora le fanno dondolare. Mentre costoro sono occupati in questa sfida e la folla si gode lo spettacolo, applaudendo ora questi ora quelli, dal tetto viene sparsa, come fosse un acquazzone, acqua sporca mista ad urina; si gettano di sotto anche escrementi umani e tutto ciò non cessa sino a che i contadini non si sono impossessati con la forza della scrofa. Che te ne pare Caronte? [39] CAR. Caro Mercurio, non offenderti ma non vedo per quale motivo bisognerebbe condannare tutto questo. MERC. Stai scherzando? CAR. No, dico sul serio. Infatti i primi fanno il loro dovere nei confronti di Martino, dal momento che, da 65 Allusione alla processione del busto di San Gennaro che si tiene ogni primo sabato di maggio a Napoli. La processione prelude al miracolo della liquefazione del sangue, evento centrale nella religiosità popolare napoletana. 66 Pontano si riferisce molto probabilmente ad un rito connesso con i festeggiamenti dedicati a Sant’Antonio Abate (17 gennaio), che a Napoli aprivano il carnevale.

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vini ac gentis natura minime recedunt. Et hi qui porcellam lusitant palam faciunt aeque ac sues luto humanum omne genus superstitionis coeno sordibusque volutari. MERC. Fateor me rationibus istis victum. CHAR. Hoc est philosophari, sed nescis, Mercuri, paulo ante quam mihi animum pupugeris, ubi Campanos nominasti; nimis enim sum veritus ne de campanis dicturus esses aliquid, quarum non modo sonitum, verum etiam nomen ipsum odi. Nam qui pati eas homines possint sane quam miror, cum me interdum hic optundant, quarum fragor ad arborem illam usque quae ad septem millia passuum a nobis hinc abest perveniat. Noscis quam dicam arborem, Timonis ficum; Timon enim, quod iudices hi recordantur, cum in se dicta esset sententia, petiit dari sibi ficum eam et restim in loco illo solitario; habere enim odio frequentiam hominum ac velle ibi quaestum facere carnificinum; daturam eam ficum quotannis magnum Plutoni portorium, lege dicta ne cui ante cognitam causam nisi ex ea se arbore liceret suspendere.34 MERC. Noli, obsecro, irridere homines, quod campanas tam saepe pulsitent. CHAR. Desipere me vis. MERC. Imo sapere magis quam sapis, quanquam multum ipse sapis; omnes homines, Charon, quanquam ventris multum, capitis certe minimum habent, atque hoc,

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Timone assume volontariamente negli inferi il ruolo di boia: tale invenzione è molto probabilmente ispirata da Luciano che nella descrizione dell’aldilà contenuta nel secondo libro delle Storia vera descrive Timone come il guardiano del «luogo delle punizioni» (Luc. VH 2, 31).

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ubriaconi quali sono, si allontano nei loro festeggiamenti meno che possono dal vino e dalla natura della loro nazione. Gli altri, invece, quelli che giocano con la scrofa, rendono palese come tutto il genere umano si rivolti al pari dei maiali nella sozzura della superstizione. MERC. Mi dichiaro vinto dalle tue ragioni. CAR. Questo sì che è parlare da filosofo! Ma tu non sai, caro Mercurio, che mi hai fatto paura quando hai menzionato i campani: temevo che stessi per dire qualcosa a proposito delle campane! Delle campane odio non solo il suono ma anche il nome. Mi meraviglio come gli uomini riescano a sopportarle, quando mi stordiscono anche qui sotto: il loro fragore giunge sino a quell’albero laggiù che dista settemila passi da noi. Sai quale albero intendo, il fico di Timone.67 Come si ricordano i giudici qui presenti, Timone, una volta emessa la sentenza che lo condannava, chiese che gli venisse concesso quel fico e una corda, con i quali dimorare in un luogo solitario; affermava di avere in odio la folla e di voler svolgere il lavoro di carnefice; quel fico avrebbe fruttato ogni anno a Plutone una ricca entrata, una volta stabilita una legge secondo la quale prima dell’istruttoria fosse lecito impiccarsi soltanto a quell’albero. MERC. Ti prego, Caronte, non prenderti gioco degli uomini perché suonano tanto spesso le campane. CAR. Vuoi farmi sragionare? MERC. Al contrario! dovresti ragionare più di quanto ragioni, anche se sei solito ragionare molto, per comprendere questo mio ragionamento. Tutti gli uomini, Caronte, anche se hanno un grosso ventre, hanno una testa assai piccola e anche questa, per piccola che sia, non vorreb67 Celebre misantropo ateniese. Secondo un aneddoto riportato da Plutarco (Plut. Ant. 70), nel corso di un’assemblea mise a disposizione un albero di fico presente nel suo campo a chiunque desiderasse impiccarsi.

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quantuluncunque est, habere nollent. Quocirca diu quaeritantes quanam ratione facilius illud perderent, campanas adinvenerunt. [40] CHAR. Bellissime, par pari retulisti. Verum ego, dum quaerendi sum studiosior, vereor ne praetoribus, prudentissimis viris, quibus nullum frustra tempus praeterit, oratio mea, si non molestior, certe longior visa fuerit. Quamobrem dicendi finem faciam, si hoc a vobis impetravero, iudices, ut quod unum scire vehementer cupio, id ex Mercurio intelligam; non quod mea intersit aliquid (quid enim Charonti cum hominum levitate?), nisi quod sapientiores illos vellem. MIN. Tuum hoc studium, sapientia nostra est, et, per Stygem, sermo hic qui de superstitione est a deo habitus rerum naturae maxime convenit. Sed tamen, nescio quomodo, dum homines ipsi essemus gentibusque imperaremus, gubernandis populis ea necessaria visa est; adeo videtur male agi cum iis civitatibus in quibus superstitio nulla est! Unde namque tantum boni in hominum vita, ut multitudini nota esse possit vera religio? Sed perge, Charon, nihil te impedimus. CHAR. Utar permisso, brevi tamen dicendi vobis possessionem restituturus. Ne te igitur pigeat, deus, et mihi et his declarare inter tot hominum genera, si te sors aliqua hominem fieri et inter mortales versari ut mortalem cogeret, quem te esse hominem malles?35 MERC. Absit a deo quaecunque necessitas. Ex hoc enim ipso, quod deorum sum nuntius et hominum res disquiro, satis superque detestari possum humanam conditionem. Novi hominum labores, novi miserias; quibus quid esse potest erumnosius? Iure igitur, nedum recusem homi35 Cfr. la discussione tra Momo e Giove su quale sia il genus vitae maggiormente desiderabile in Alberti, Mom. 2, 45-52 (la preferenza del dio va per la vita dei vagabondi, gli unici uomini davvero liberi e felici).

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bero averla. Quindi, dopo aver cercato a lungo un modo veloce per perdere la testa, hanno inventato le campane. [40] CAR. Che bella battuta! Mi ha reso pan per focaccia. Sono fin troppo desideroso di porre domande e temo che i miei discorsi risultino, se non molesti, certo troppo lunghi per questi magistrati, uomini prudentissimi che non sprecano mai il loro tempo. Per questo porrò fine al mio discorso non appena, cari giudici, mi avrete concesso di conoscere da Mercurio la risposta ad una questione alla quale tengo molto; non perché mi riguardi in qualche modo (che cosa può esserci in comune tra Caronte e la stupidità degli uomini?) ma soltanto perché vorrei che gli uomini fossero un po’ più saggi. MIN. Questo tuo desiderio è la nostra sapienza e, per lo Stige, il discorso che Mercurio ci ha tenuto sulla superstizione corrisponde alla natura delle cose. Ma tuttavia non so come, mentre noi eravamo uomini e regnavamo sulle genti, reputavamo che la superstizione fosse necessaria per governare i popoli; a tal punto sembrano andare male le cose in quelle città dove non si trovava la superstizione! Da dove, infatti, potrebbe derivare tanto bene nella vita degli uomini da permettere che la vera religione possa essere nota alla moltitudine? Ma continua pure, Caronte, non vogliamo interromperti. CAR. Farò uso della vostra licenza, ma tra poco vi ridarò il diritto di parola. Se non ti dispiace, Mercurio, puoi rivelare a me e a costoro a quale categoria di uomini sceglieresti di appartenere, se la sorte ti costringesse a divenire un mortale e a trascorrere una vita mortale tra i mortali? MERC. Un dio non obbedisce ad alcuna forma di necessità. Io posso a ragion veduta detestare la condizione umana dal momento che sono il messaggero degli dei e conosco a fondo le vicende degli uomini. Conosco le fatiche degli uomini, conosco le loro miserie; che cosa potrebbe esserci di più affannoso? A ragion veduta, dunque, mi

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nis subire velle affectus, perturbationes, aegritudines, nec animi minus quam corporis, humanam vitam miseror, ut quam omni e parte infelicissimam iudicem; sicque habeto, Charon, quae bona huic generi natura tribuerit, ea omnino esse quam paucissima, atque ea, quantulacunque sunt (sunt autem minutissima) dum vincuntur homines cupiditatibus, dum perperam agunt atque eligunt, ita sane corrumpunt, ut quae natura sunt bona, nequiter illis utentes in perniciem suam vertant. Verum inter tot ac tam varias hominum species quosdam nimis quam odi atque execror. [41] CHAR. Quinam sunt isti? MERC. Iudaeorum nomen quam infensissime insector. CHAR. Scilicet recutiri times ac foenerare. MERC. Nequaquam, siquidem commune est illud Turcis, Mauris, Syris, hoc omnibus; verum ne superstitio prorsus me miserrimum faceret. CHAR. Nihil habent ergo Iudaei quod ipse probes? MERC. Vix unum. CHAR. Quodnam est illud? MERC. Quod nihil de sepultura curant; in pratis ac sub divo humantur. At Christianus de sepulcro quam de domo solicitus magis est. Quid quod, perinde ac si cum mortuis bellum gerant, qui nunc vivunt quae mortui aut ipsi sibi dum viverent sepulcra posuerunt aut testamento faciunda caverunt, eiectis inde cadaveribus, ea sibi per

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rifiuterei di voler subire le passioni umane, i turbamenti, le malattie del corpo come dell’animo; provo pietà per la vita degli uomini dato che la considero infelice in ogni sua parte. Considera questo, Caronte. I beni che la natura ha accordato al genere umano sono assai pochi, e, per quanto questi siano piccoli (e di fatto sono insignificanti), gli uomini, mentre si lasciano vincere dalle cupidigie, mentre agiscono male e prendono le decisioni sbagliate, li corrompono al punto da trasformare in un flagello quelli che per natura sono dei beni. Ad ogni modo, tra le tante diverse categorie di uomini ce ne sono alcuni che odio straordinariamente e che detesto. [41] CAR. Di chi si tratta? MERC. Odio violentemente il popolo ebraico. CAR. Dunque temi di essere circonciso e di diventare un usuraio. MERC. Non è questo il punto, la circoncisione è comune anche ai Turchi, ai Mauritani e ai Siri, l’usura a tutti i popoli; avrei piuttosto timore che la superstizione potrebbe rendermi miserabile. CAR. Ma non c’è niente che ti piaccia negli ebrei? MERC. Una cosa soltanto. CAR. Quale? MERC. Non si curano della sepoltura: si fanno seppellire nei prati, all’aperto,68 mentre i cristiani si preoccupano della tomba più di quanto non si curino delle loro case. Anzi, che dire di quei vivi che, come se muovessero guerra ai morti, occupano con la forza quei sepolcri che i morti, quando erano vivi, avevano costruito di persona o si erano 68 Prendendo spunto dal rito funebre ebraico che prevede il seppellimento del cadavere nella nuda terra, senza l’uso di una cassa da morto, Pontano contrappone i cimiteri giudaici agli sforzosi monumenti funebri eretti dai cristiani nobili e ricchi. Nonostante tale critica, l’umanista tra il 1490 e il 1492 avrebbe fatto erigere una splendida cappella dove tumulare i membri della sua famiglia, vd. Cronologia.

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vim occupant, ut nec vivis nec mortuis Christianis ulla sit requies aut locus ullus suus? CHAR. Satis cognitum habeo nihil nec Christianis nec coeteris hominibus diu suum esse. Itaque recte plane facere eos iudico qui mortuis invideant. Sed iam tempus est me hinc abire, tu vero his ut reddare. Utinam et me sermonibus adesse his liceret! Verum muneri concedendum est; plurimos enim expectare in portu video, nec committendum ut, dum sciendi voluptate capimur, ab agendis rebus, quae quidem necessitas est, avocemur.

IX. CHARON, DIOGENES, CRATES [42] CHAR. Salve, Diogenes, ut recte? DIOGENES Heroice ac magis etiam quam heroice. Heroes enim quanquam male assa, bubula tamen vescebantur, ego vero pisce, et quidem crudo; quae res effecit ut magna me e parte in piscis naturam induerim. Nam quod hominis proprium est, ambulare, id omnino dedidici, tantum natito. CHAR. Rem igitur mihi gratissimam feceris, si dum illuc in portum revehor, natitans mecum serio aliquid loquere, quo laborem hunc meum dicendo leves. DIOG. Dum ne me canem appelles. CHAR. Quid si piscicanem?

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fatti erigere per mezzo del testamento, in modo che da vivi o da morti i cristiani non trovano pace in nessun luogo? CAR. So bene che niente appartiene a lungo agli uomini, siano o meno cristiani. Quindi a mio parere hanno ragione quanti invidiano i morti. Ma per me ormai è tempo di andare e tu devi tornare a disposizione dei giudici. Mi piacerebbe poter assistere ai vostri discorsi! Ma devo tornare al lavoro; vedo che molti mi aspettano nel porto e non possiamo permettere che noi, presi dal piacere di apprendere, tralasciamo ciò che per necessità deve essere fatto.69

IX. CARONTE, DIOGENE, CRATETE70 [42] CAR. Salve, Diogene, come te la passi? DIOGENE Eroicamente, anzi più che eroicamente! Gli eroi, infatti, mangiavano la carne, magari mal cotta ma carne di buoi, io invece mi nutro di pesci crudi.71 Questa abitudine ha fatto sì che io abbia preso in gran parte la natura di un pesce. Nuoto così tanto che ho disimparato quella che è l’attività propria dell’uomo, vale a dire camminare. CAR. Mi faresti cosa gradita se mentre ritorno laggiù al porto tu, nuotandomi accanto, discutessi con me seriamente, in modo da alleviare la fatica con i discorsi. DIOG. Basta che non mi chiami cane. CAR. Che ne dici di pescecane?

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Caronte si allontana con la barca verso la riva dove lo attendono le anime dei morti marchiate in precedenza da Piricalco (cfr. scena IV). 70 La scena si svolge durante la navigazione: Caronte, mentre è al remo, discute con Diogene, che lo accompagna nuotando. 71 Allusione ad una delle versioni sulla morte di Diogene secondo la quale «dopo aver mangiato un polpo crudo fu preso dal colera e morì» (Diog. Laert. 6, 76, trad. di Marcello Gigante).

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Perplacet. Dicas igitur, obsecro, piscicanis, an eorum quae in vita egeris alicuius te nunc delectet memoria. DIOG. Multorum atque unius maxime. CHAR. Nam cuius, obsecro? DIOG. Dicam: cum aliquando et esurirem et algerem una nec haberem unde commodius, e deo quodam ligneo igniculum mihi paravi et coenulam eo coxi. CHAR. Num non deus ille telum in te aliquod torsit seque est ulctus? DIOG. Fumulum statim in oculos immisit, quem ego buccis pilleoloque confestim pepuli. CHAR. Gladiatoris hoc fuit, magis quam philosophi. DIOG. Quid mirum? Gladiatoriam didiceram. Nam cum Athenis olim agerem Platonique in schola docenti bipedem pennatam obtulissem, tum ille: «Amice Diogenes, inquit, qui tam robustos lacertos habeas, noli, obsecro, ante a nobis discedere, quam te gladiatorio in ludo dies aliquot exercueris». Tum ego didici gladium agere ac caesim ferire et punctim. CHAR. Qui adversus deum arte hac pugnaveris, leges quam statuunt poenam in eos qui sacras res violant arte qua declinasti? DIOG. Facile id quidem fuit. Nam cum frequenti populo DIOG. CHAR.

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Mi piace!72 Dimmi, ti prego, pescecane, ti ricordi volentieri di qualcuna delle azioni che hai compiuto mentre eri in vita? DIOG. Sì, di molte, ma ce n’è una in particolare. CAR. Dimmi, quale? DIOG. Ora te lo dico. Un giorno soffrivo a un tempo la fame e il freddo e, dato che non avevo sottomano una soluzione migliore, mi sono procurato un po’ di legno per cucinare facendo a pezzi la statua di un dio. CAR. Ma quel dio non ha scagliato contro di te un dardo per vendicarsi? DIOG. Lì per lì mi ha gettato un po’ di fumo negli occhi, che io ho subito disperso soffiando e agitando il mantello. CAR. Fu un’impresa degna più di un gladiatore che di un filosofo. DIOG. Che cosa c’è di strano? Avevo imparato l’arte dei gladiatori. Infatti un giorno che mi trovavo ad Atene, quando presentai a Platone, che era intento ad insegnare nella sua scuola, un esemplare di «bipede femminile implume»,73 ed egli esaminandomi disse: «Diogene, caro amico, tu che hai braccia così robuste, non lasciare la nostra città, te ne prego, senza esserti prima esercitato per qualche giorno nella palestra dei gladiatori». E allora imparai ad usare il gladio, a ferire di taglio e di punta. CAR. Tu che lottavi in questo modo contro gli dei, come riuscisti a sfuggire alla la pena prevista dalla legge per che profana le cose sacre? DIOG. Fu facile farlo. Quando in tribunale veniva DIOG. CAR.

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La scuola filosofica dei cinici derivò il suo nome proprio dal soprannome di “cane” attribuito a Diogene. 73 Diogene presenta a Platone una gallina; si tratta di un’allusione ad un celebre aneddoto: «Platone aveva definito l’uomo un’animale bipede, senza ali, ed aveva avuto successo. Diogene spennò un gallo e lo portò in aula esclamando: “Ecco l’uomo di Platone”. Perciò fu aggiunto alla definizione: “Dalle unghie larghe”» (Diog. Laert. 6, 40, trad. di Marcello Gigante).

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contra me ageretur, tum ego: «Praetor, inquam, tute scis me canem esse, quod et ipse confiteor; leges autem hominem, non canem puniunt; lege igitur meoum agere nihil tibi omnino licet». Quo dicto cum qui aderant assensissent, illico me praetor absolvit. [43] CHAR. Quam bellissime! Cuiusnam alterius secundo tibi loco iucunda est recordatio? DIOG. Huius quae me beat. Cum venisset ad me Alexander egoque in dolio intus conquiescerem verererque ne discedente illo milites quos secum comites adduxerat (erant autem quam importunissimi) per clivum me illum devolverent, consilium cepi hoc, quod eventus ipse comprobavit optimum: vesperi coenitaveram polentulam cauliculosque cum caepa et rapum tostulum. Vires igitur omnes ventris coegi et crepitum quantum potui ieci maximum, quo perculsi occlusis naribus statim versi sunt in fugam. 36 CHAR. Igitur qui vires orientis fregere, eos tu commento isto vicisti tam facile? DIOG. Ne mirare, siquidem ex meo hoc invento commenti nunc sunt bombardas, quibus muros urbium et, quod maius est, arces diruant. CHAR. Igitur qui regem liberalissimum contempsisti, pauper, credo, decesseris. DIOG. Nemo philosophorum omnium amplius legavit testamento, ut qui aliquot ante quam morerer diebus arcessierim maximum ad me canum omnis generis numerum, eisque legaverim domos nobilitatis ac principum omnium, 36

Pontano rielabora a suo modo il celebre episodio dell’incontro tra Diogene ed Alessandro Magno: «Mentre una volta prendeva il sole nel Craneo, Alessandro sopraggiunto disse: “Chiedimi quello che vuoi”. E Diogene, di rimando: “Togliti dal mio sole”» (Diog. Laert. 4, 38, trad. di Marcello Gigante). Il ricorso ad un umorismo scatologico, assente nelle fonti relative al filosofo cinico, accomuna questo brano ad alcuni passi dell’Antonius (il paragone tra i grecizzanti e i peti al § 9 e l’aneddoto riportato nel § 13) e dell’Asinus (i rumori del ventre dell’Asino che deliziano il servitore di Pontano ai §§ 17-18).

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discussa la causa intentata contro di me alla presenza di una grande folla, io dissi le seguenti parole: «Pretore, tu sai bene che sono un cane ed io stesso lo confesso; ma le leggi puniscono gli uomini, non i cani; quindi per legge non ti è affatto lecito chiamarmi a giudizio». A queste parole la folla acconsentì e il pretore mi lasciò andare all’istante. [43] CAR. Che bella trovata! E dimmi, qual è il tuo secondo ricordo preferito? DIOG. Questo, che mi piace da morire. Quando Alessandro venne da me riposavo nella botte e temevo che i soldati che lo accompagnavano (erano davvero insolenti) alla sua partenza mi facessero rotolare giù per la collina. Presi una decisione che si sarebbe rivelata ottima: a sera avevo mangiato una polentina, cavoletti con cipolla e una rapa duretta. Raccolsi dunque tutte le forze del ventre e tirai fuori una solenne scoreggia e loro, con le narici tappate, furono volti in fuga all’istante. CAR. Quindi con questa trovata vincesti così facilmente gli uomini che abbatterono le forze dell’Oriente? DIOG. Non ti devi meravigliare se pensi che da questa mia trovata furono inventate le bombarde con le quali si distruggono le mura delle città e, cosa più difficile, le fortezze. CAR. Dunque immagino che tu, che hai trattato con disprezzo un re oltre modo generoso, sia morto poverissimo. DIOG. Nessun filosofo ha lasciato un’eredità più grande della mia. Qualche giorno prima di morire mandai a chiamare il maggior numero possibile di cani di tutte le razze e lasciai loro in eredità le case dei nobili e dei

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caverimque ut ne per ocium voluptatibus fruerentur, die illos venatibus exercerent, noctu ne quietos somnos agerent, latrando ululandoque interturbarent eos. Sed, obsecro, philosophe Charon, nolis mihi impedimento esse, mullum video quem expiscatum volo in coenam, et iam advesperascit. Vale igitur. [44] CHAR. Homo hic et vivus et mortuus contemptui omnes habet. Sed bene habet; Craten video, eum congrediar. Et bene valeas, Crates, et fortuna meliore utare. CRATES Nec valere recte potest cui quotidie stultitia lugenda ac luenda sit sua, nec fortuna secunda uti qui per temeritatem illam sibi adversam facit. CHAR. Ecquae inveniendae pecuniae relicta est spes? CRAT. Nihil hucusque indicii habeo. CHAR. Cessa paulum a labore et mecum hos invise, qui maesti lamentantesque in portu manent. CRAT. Satis habeo de meo quod lugeam, ne quaeram aliunde. Sed parce, obsecro, Charon; loculos quosdam procul video super aquas ferri; magnum hoc indicium est. CHAR. Infelix hic miseria sua facile et alios miseros faceret. Quocirca et huius et infelicium omnium fugienda est consuetudo atque familiaritas, qui cum ipsi nec levationem ullam nec rationem accipiant, nescio quomodo aliorum infixam animis doloris notam quandam relinquunt. Abeat igitur sua cum miseria; me satius erit remo incumbere, quando ventus nihil iam velum promovet.

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principi, a patto che non si godessero quei beni poltrendo ma di giorno affaticassero i ricchi con la caccia e, di notte, impedissero loro di dormire in pace, disturbandoli con latrati ed ululati. Ma ti prego, filosofo Caronte, non essermi d’impiccio, vedo una triglia che voglio pescare per cena ed ormai sta facendo buio. Addio dunque. [44] CAR. Quest’uomo disprezza tutti, da vivo e da morto. Ma fa bene. Ecco Cratete74, mi avvicinerò a lui. Ti auguro di stare bene, Cratete, e di godere una sorte migliore CRATETE Non può stare bene chi ogni giorno deve piangere e scontare la sua follia, né godere di una sorte propizia chi se la è inimicata in modo temerario. CAR. È forse rimasta una qualche speranza di ritrovare il denaro perduto? CRAT. Fino a questo momento non c’è nessun indizio. CAR. Cessa un poco questa fatica e insieme a me guarda con disprezzo quelli che aspettano in porto mesti e gementi. CRAT. Ho abbastanza di che piangere senza dover cercare da qualche altra parte. Ma ti prego, Caronte, lasciami stare; ho appena visto alcuni scrigni trasportati dalla corrente: è un indizio notevole. CAR. Questo infelice con la sua follia finirebbe facilmente col rendere miseri anche gli altri. Per questo bisogna fuggire la compagnia e la frequentazione di tutti gli infelici di questo genere, i quali non soltanto non ricevono dagli altri alcun sollievo né ascoltano ragioni di chi si avvicina loro, ma, in qualche modo, lasciano conficcato negli animi di chi li ascolta come un segno del loro dolore. Se ne vada con la sua follia; io devo occuparmi del remo: non c’è un filo di vento che spinga la vela.

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Cfr. § 20 e nota 39.

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X. MINOS, MERCURIUS, AEACUS [45] MIN. Quid autem portenta sibi ista volunt? MERC. Pestem significant et bellum. MIN. Bellumne? A quibus? MERC. A sacerdotibus. MIN. Ab iis igitur inferetur bellum quos maxime deceret pacis auctores esse? MERC. Verbis pacem, coeterum rebus bellum petunt. MIN. Inferendi belli quaenam causa? MERC. Ampliandi regni cupiditas. MIN. Horum igitur malorum causa est avaritia? MERC. Ea ipsa; quae in hoc hominum genere quanta sit dici vix potest. MIN. Videlicet obliti sunt iustitiae? MERC. Quae, obsecro, haberi potest iustitiae ratio ubi regnat avaritia? MIN. Quid? Quae in Italia urbes florent, eae nonne pro tuenda libertate conspirant? MERC. Earum nomine quidem libertas est, re autem tyrannis mera; quodque alius alio magis rapere de publico studet, cives quotidie proscribuntur, nec ratione in illis vivitur nec consilio, verum cupiditate ac partium studio. MIN. O libertatem cito perituram! Quid reguli? MERC. Mirifice dissentiunt, et, quod praesentibus

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X. MINOSSE, MERCURIO, EACO75 [45] MIN. Questi portenti, Mercurio, cosa annunciano? MERC. La rovina e la guerra. MIN. Una guerra? Mossa da chi? MERC. Dai sacerdoti.76 MIN. Ma come, la guerra è mossa da coloro a quali spetterebbe soprattutto il ruolo di artefici della pace? MERC. A parole vogliono la pace ma nei fatti sobillano la guerra. MIN. Ma quale ragione li spinge alla guerra? MERC. Il desiderio di ampliare il regno. MIN. Quindi la causa di questi mali è l’avidità? MERC. Esattamente; è impossibile dire quanto sia grande in questo genere di uomini. MIN. E allora si sono dimenticati della giustizia? MERC. Ma dimmi, quale peso si può dare alla giustizia là dove regna l’avidità? MIN. Ma cosa dici? le città di cui l’Italia è adorna non si uniscono per difendere la libertà? MERC. La loro è una libertà soltanto di nome, in pratica è una tirannia bella e buona; dal momento che ciascuno si ingegna a rubare più degli altri dall’erario, ogni giorno i cittadini vengono prescritti e nei comuni non si vive seguendo la ragione e la prudenza ma la cupidigia e gli interessi di parte. MIN. Oh libertà, presto morirai! E cosa puoi dirmi dei signori? MERC. Litigano meravigliosamente e dal momento 75 Continuando con quella che potremmo definire una sorta di “montaggio alternato”, la scena passa nuovamente da Caronte al gruppo formato dai giudici infernali e Mercurio. 76 Riferimento all’aggressiva politica estera di espansione territoriale di Paolo II che avrebbe portato alla guerra tra lo Stato della Chiesa e una lega composta da Napoli, Firenze e Milano, cfr. § 2 e nota 8.

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solum voluptatibus intenti sunt, nihil sunt de futuro soliciti, nec vident haud multo post seque suasque urbes in aliorum potestate futuras. Vana sunt eorum ingenia, corrupti mores animique, qui nihil principibus, nihil Italicis hominibus dignum concipiant. MIN. Interiit Romana virtus! Et vero, Mercuri, quamvis Graecus ipse fui, dum considero nullos populos, gentem nullam nec fortiores habuisse nec iustiores cives, qui etiam bene vivendi formulas nationibus tradiderunt, mirum in modum commoveor tantopere non Romam modo, verum Italiam omnem ingeniis destitutam esse ac viris. [46] MERC. Caret plerunque successoribus virtus, et cum bonis aliis caveri testamento possit, virtus in haereditatis appellationem minime concedit. Regnorum ut principium sic etiam finis est; perinde enim ut dies ortus atque occasus habent. Multum in hominum ingeniis tempus valet, plurimum institutio. Coeterum coelestis ordo mundique conversiones moventque et agunt cuncta. Quas, Aeace, Graecia illa tua olim tam clara et nobilis, quas inquam, passa est calamitates et urbium et ingeniorum! Quid? Dixi passam, quae nulla iam est. Conversus sum ad te, Aeace, quem video iam dudum ingemiscere ac vix tenere posse lacrimas. Ubi genus illud tuum? Ubi successio tam illustris? Sed vetera sint ista nimis; ubi Musae illae Atticae? Quid Musas requiro, cum Athenae ipsae vix ullum teneant nunc

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che sono dediti soltanto ai piaceri presenti non si curano affatto del futuro e non si accorgono che le loro città poco dopo la loro morte diventeranno preda di altri. I loro cervelli sono vani, i loro costumi e i loro animi corrotti, sono incapaci di concepire qualcosa di degno di un principe, di degno di un italiano. MIN. La virtù romana è morta! E a dire il vero Mercurio, per quanto in vita io fossi greco, quando rifletto sul fatto che nessun popolo, nessuna nazione ha avuto cittadini più forti e più giusti, i quali insegnarono anche alle altre nazioni le leggi per vivere bene, sono molto turbato pensando che non solo Roma ma tutta l’Italia è priva di ingegni e di veri uomini. [46] MERC. Nella maggior parte dei casi la virtù viene meno nei successori, e mentre gli altri beni possono essere lasciati con un testamento, la virtù non può essere ridotta al concetto di eredità. I regni hanno una fine come hanno un inizio, nello stesso modo in cui ogni giorno ha un mattino e una sera. Il tempo ha una grande influenza sugli ingegni degli uomini ma il modo di vivere ne ha una ancora più grande. Ma, ad ogni modo, un ordine celeste e le rivoluzioni del cosmo muovono e determinano ogni cosa. Quali distruzioni, Eaco, subì la tua Grecia, un tempo tanto celebre e nobile, quali distruzioni, dicevo, di città e di ingegni! Come? ho detto subì perché ormai non esiste più. Mi sono girato verso di te Eaco e vedo che sei sul punto di piangere e che a stento trattieni le lacrime. Dov’è il tuo popolo? Dove una prosapia tanto illustre? Ma questi sono lamenti antichi;77 dove sono le celebri Muse attiche? Ma perché domando delle Muse, quando non c’è quasi più traccia della stessa Atene che giace prostrata come tutta la Grecia in un

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Mercurio si riferisce ai Mirmidoni, estintisi da molti secoli, vd. § 1, nota 3.

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vestigium, ut pene cum omni Graecia in somnos abierint? Victor barbarus omnia possidet atque utinam possideret tantum! Verum excisae urbes sunt, deleta nobilitas, artes disciplinaeque extinctae,37 et illa ipsa libertas triste nunc atque infelix est servitium. Quae causa est, ut arbitror, cur paulo ante Minos ferret tam graviter Italiam quassari bello, ne Graecarum disciplinarum memoria, quae illic quasi reliquiae quaedam servatur, funditus sublata intereat. [47] AEAC. Et internitione generis et patriae excidio si non movear, inique fecerim. Moveor certe. Nam quanquam nihil illa post mortem ad nos attinent, tamen, nescio quomodo, sicut recte actorum conscientia, ita naturalis illius amoris vis quaedam remanet generoso cuique post mortem, quae de rebus eorum quos amavimus, qui vivi sunt habeat nos solicitos. Sed consolatur me vel quod nihil coepit unquam quod non idem finiat, nec ortum prorsus quicquam est quod non idem occidat (omnia enim sub hac necessitate, quae naturae quidem lex, Dei vero voluntas est, laborant), vel quod haud multis post seculis futurum auguror ut Italia, cuius intestina te odia 37

Tra le notizie spaventose che si diffondevano in Europa in merito alla caduta di Costantinopoli non mancavano quelle relative alla distruzione di numerosi codici greci, cfr. la lettera di Lauro Quirini a Nicolò V del 15 luglio 1543: «Adde quod a saevissimis barbaris, qui omnia nefanda perpetrarunt – neque enim solum urbs regia capta est aut templa devastata aut sacra polluta, sed eversio totius gentis facta est –, nomen Graecorum deletum. Ultra centum et viginti milia librorum volumina [...] devastata» (Testi inediti su Costantinopoli: 74); l’idea che la distruzione di tali manoscritti rappresenti per la letteratura classica una «seconda morte» è espressa nella vibrante lettera di Pio Enea Silvio Piccolomini a Niccolò V del 12 luglio 1543, lettera che Pontano molto probabimente ha presente come emerge da non pochi punti di contatto tra i due testi: «Quid de libris dicam, qui illic erant innumerabiles, nondum Latinis cogniti? Heu, quot nunc magnorum nomina virorum peribunt? Secunda mors ista Homero est, secundus Platonis obitus. Ubi nunc philosophorum aut poetarum ingenia requiremus? Exctinctus est fons Musarum» (La caduta di Costantinopoli: 46).

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lungo sonno?78 Il barbaro vincitore possiede ogni cosa e magari fosse rimasto qualcosa da possedere!79 Invero le città sono state rase al suolo, la nobiltà è distrutta, le arti e le scienze sono morte e la celebre libertà ellenica è ora una triste ed infelice schiavitù. Questo, a parer mio, è il motivo per il quale poco fa Minosse ha sopportato tanto a malincuore che l’Italia sarà devastata da una guerra: teme che la memoria stessa delle scienze elleniche, che lì sono conservate come delle reliquie, perisca, distrutta dalle fondamenta.80 [47] EAC. Mi comporterei ingiustamente se non fossi scosso dalla uccisione del mio popolo e dalla distruzione della mia patria. Certo che sono scosso! Infatti, per quanto dopo la morte tali cose non ci riguardino affatto, tuttavia, come avviene per la coscienza delle buone azioni, così nelle anime generose, anche dopo la morte, continua ad agire, non so bene in che modo, la forza naturale di quell’amore che ci fa preoccupare per la sorte di coloro che abbiamo amato e che sono ancora vivi. Ma mi consola il pensiero che tutto ciò che ha un inizio deve avere anche una fine e tutto ciò che nasce deve morire (le cose tutte quante, infatti, sono schiacciate da questa necessità che è una legge di natura, o meglio è espressione della volontà di Dio). Mi consola anche pensare che, lo presagisco, tra non molti secoli quella stessa Italia i cui odi intestini ti fanno star male, Minosse,

78 Allusione alla conquista dai parte dei Turchi dell’Impero bizantino. Atene cadde in mano agli ottomani nel 1456. 79 Probabile allusione all’occupazione di Negroponte (1470), estremo avamposto veneziano in Grecia. 80 Allusione alla conoscenza del greco antico e della letteratura ellenica trasmessa in Italia dai dotti Bizantini a partire dai primi anni del XV secolo.

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male habent, Minos, in unius redacta ditionem resumat imperii maiestatem. MIN. Haec ipsa me spes vehementer delectaret, ni deterrerent ea quae deus hic paulo ante de rebus Italicis nobis retulit. MERC. Et alia quoque multa deterrere te iure possunt; parum etenim considerare videris quam brevis sit e Macedonia Epiroque in Apuliam Calabriamque traiectus, quam etiam facilis in Venetiam e Dalmatia transitus, cum paucis ante diebus magnam in Liburniae finibus Turcae impressionem fecerint.38 AEAC. Quanquam timenda haec sunt, tamen, si vetera respicimus, non ab Asia aut Graecia, verum a Gallis Germanisque timendum Italiae semper fuit. MERC. Multa fert dies, ac tametsi ubique sibi fatum

38 Il timore di una possibile invasione turca in Italia era diffuso tra gli umanisti dopo la caduta di Costantinopoli, si vd. ad esempio il carme Vaticinium cladis Italiae di Publio Gregorio Tifernate (1453), nel quale si dipinge l’Italia, «tellus olim invictissima» (v. 33) in balia dei Turchi come di altri nemici (Testi inediti su Costantinopoli, pp. 245-9). Su tale timore, non privo di venature millenaristiche, facevano agio anche i predicatori, come quel Frate Roberto Caracciolo da Lecce, ammirato da Pontano (cfr. Nigro, Le brache di S. Griffone: 54), che durante un ciclo di prediche tenuta a Roma per la Pentecoste del 1453 proclamava: «O Italia povera, o Italia dissoluta, teme Dio, fa penitentia. Hai lo exempio de la povera Grecia, come la sta. O Costantinopoli, chi te ha mai posto ne le mane del Gran Turco? La poca tua bontade, la luxuria, la infedelità tua» (Testi inediti su Costantinopoli: 296).

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ricondotta al potere di uno solo recupererà la splendida maestà dell’impero. MIN. Questa speranza recherebbe anche a me un grande diletto se non mi spaventassero gli eventi che poco fa Mercurio ha riferito in merito alla condizione dell’Italia. MERC. E anche molte altre cose possono a ragion veduta spaventarti; sembri infatti non aver considerato quanto sia breve il tratto di mare che separa la Macedonia e l’Epiro dalla Puglia e dalla Calabria, e quanto sia facile il passaggio dalla Dalmazia a Venezia,81 considerando che i Turchi hanno sferrato un grande attacco nei territori della Liburnia.82 EAC. Per quanto questi fatti siano da temere, se guardiamo agli eventi del passato l’Italia ha sempre dovuto preoccuparsi non delle minacce che venivano dall’Asia o dalla Grecia, ma di quelle che venivano mosse dai Francesi o dai Tedeschi. MERC. Il tempo porta molte cose e il fato, sebbene 81

Il timore di un’invasione turca in Italia da parte di Pontano appare, se si leggono in successione gli eventi militari succedutesi dopo la caduta di Costantinopoli (7 aprile 1453), tutt’altro che ingiustificato: i turchi conquistano nel 1456 Atene, nel 1459 la Serbia, nel 1460 la Morea, nel 1463 la Bosnia, nel 1470 Negroponte (cfr. Monti, Ricerche: 787-788). Se si accetta la datazione proposta da Monti (una composizione entro il gennaio del 1471), Pontano risulta un buon profeta: nel 1472 i Turchi si sarebbero introdotti in Friuli saccheggiando Udine (razzie ripetute nel 1477 e nel 1478), mentre nel 1480 avrebbero conquistato Otranto, a sua volta riconquistata da Alfonso duca di Calabria un anno più tardi, evento celebrato da poeticamente da Pontano, vd. Cronologia e cfr. Tateo, Chierichi e feudatari: 21-68; la portata del pericolo turco, che rischiava di minacciare da vicino il Regno, era ben nota nella Corte aragonese, basti pensare che nell’aprile del 1452 Flavio Biondo aveva tenuto a Napoli un’orazione alla presenza del re Alfonso e dell’Imperatore Federico III per invitare entrambi ad una spedizione comune contro il giovane Maometto II, da poco succeduto al padre Murad II. 82 Nome dell’antica regione costa nord-orientale dell’Adriatico, nell’odierna Croazia.

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constet, eius tamen explicatio decipere hominum mentes consuevit, dum rerum conversiones easdem censent. [48] AEAC. Nos, o Minos, et Graeciae calamitates et Italiae casum satis diu flevimus ac temperandum est nobis considerandumque quid est quod magistratum deceat; et cum sciamus Dei prudentia mundum regi omnem, quid opus est de rebus humanis tam esse solicitos quas Deus ipse moderetur? MIN. Sapientissime dicis; quamobrem, si tibi videtur, quando Charon iam e portu solvit, ad collegam properemus, cui, ut scimus, solitudo semper fuit molestissima. AEAC. Est et alia causa quae properandum esse multo magis cogat. Nam si, ut Deus iam docuit, pestis Italiae portenditur, nostra interest providere ne imparati offendamur in tanta ac tam diversa morientium multitudine. MERC. Equidem et ego id vobis censeo faciendum, quando quae cupiebatis ex me iam intellexistis. Atque adeo ut haec certius sciatis, maximam hominum internitionem cum coeli inerrantiumque stellarum cursus futuram significant, tum multa partim ex aquis, partim e terra atque aere signa portendunt quae hoc ipsum significare consuevere. MIN. Nos igitur praeimus, te ipsum cum multitudine pro tribunali praestolaturi. MERC. Vos praecedite; ego hic interim Charontem moror.

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rimanga sempre saldo, nel suo svolgersi ha da sempre l’abitudine di prendersi gioco delle menti umane, stabilendo il ritorno ciclico degli eventi. [48] EAC. Noi, caro Minosse, abbiamo pianto a sufficienza le calamità della Grecia e la sventura dell’Italia, dobbiamo moderarci e tenere presente quale sia il comportamento che spetta ad un magistrato; e dal momento che sappiamo che la prudenza di Dio regge l’intero universo, che bisogno c’è di preoccuparci tanto delle vicende umane che sono governate da Dio? MIN. Quel che dici è molto saggio; per questo, se credi, poiché Caronte ha già lasciato il porto, avviciniamoci al collega per il quale, come sappiamo, la solitudine è oltre modo molesta. EAC. C’è una ragione più importante che ci spinge ad avvinarci a lui. Se infatti, come il dio ci ha mostrato, si annuncia una sventura per l’Italia, è nostro interesse provvedere in modo da non essere sopraffatti da una folla di morti così numerosa e varia. MERC. Anche io ritengo che dobbiate fare così, dato che avete già ascoltato da me quello che desideravate sapere. E perché conosciate queste cose in modo più certo, non sono soltanto i cieli e il corso delle stelle erranti ad indicare che ci sarà una grandissima uccisione di uomini ma anche molti astri, in parte d’acqua, in parte di terra e di aria che sono soliti annunciare tale cose. MIN. Noi ci incamminiamo e ti aspetteremo insieme alla folla davanti al tribunale. MERC. Voi andate; io nel frattempo attendo Caronte.

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XI. MERCURIUS, PEDANUS ET THEANUS ET MENICELLUS, GRAMMATICI [49] MERC. Phaselus ille nimis gravis est vectoribus remoque vix agi potest;39 hoc est quod mortales usurpant, qui nimis properet, sero eum pervenire. Sed quaenam haec est umbra, quae tam sola volitat? Heus, tu, cuius istud est simulacrum? PEDANUS Pedani grammatici. MERC. Quid tibi vis tam solus? PED. Te ipsum quaerebam, Maia genite. MERC. Quanam gratia? PED. Oratum venio, quaedam meo nomine ut discipulis referas; quod te vehementer confido facturum, cum litterarum auctor atque excultor fueris. MERC. Facile hoc fuerit; quamobrem explica quid est quod referam velis. PED. Virgilium nuper a me conventum dicito, quaerentique ex eo mihi quot vini cados decedenti e Sicilia Aeneae Acestes dedisset40, errasse se respondisse; neque enim cados fuisse, sed amphoras; ea enim tempestate cadorum usum in Sicilia nullum fuisse; partitum autem amphoras septem in singulas triremes accessisseque aceti sextariolum, idque se compertum habere ex Oenosio,

39 Imitazione da Catullo: «phaselus ille quem videtis, ospite» (Catull. 4,1, ripresa segnalata in Haig Gassier, Notes: 356). 40 Cfr. Verg. Aen. 1, 195-196: «vina bonus quae deinde cadis onerarat Acestes / litore Trinacrio».

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XI. MERCURIO, I GRAMMATICI TEANO, PEDANO E MENICELLO83

[49] MERC. Quel vascello è troppo carico di passeggieri e il remo lo muove a stento; questo è ciò che intendono i mortali col proverbio: chi troppo ha fretta arriva tardi. Ma chi è quest’ombra che scorrazza tutta sola? Ehi tu, di chi sei il simulacro? PEDANO Del grammatico Pedano.84 MERC. Che cosa fai tutto solo? PED. Cercavo proprio te, stirpe di Maia.85 MERC. A quale scopo? PED. Vengo a chiederti di riferire ai miei discepoli alcune parole a mio nome; non ho dubbi che lo farai, dal momento che sei l’inventore e il protettore delle lettere. MERC. Sarà fatto facilmente; dimmi cosa vuoi che io riferisca. PED. Dirai che poco fa ho incontrato Virgilio86 e che, alla mia domanda in merito a quanti orci di vino Aceste avesse dato ad Enea al momento della sua partenza dalla Sicilia, mi rispose che aveva errato e che non si trattava di orci ma di anfore (a quei tempi in Sicilia l’uso degli orci non era ancora diffuso); aggiunse che Aceste aveva suddiviso le sette anfore tra le triremi con l’aggiunta di un fiaschetto di aceto. Quest’ultima notizia Virgilio l’aveva 83 La scena si sposta al vestibolo infernale, sulla riva dove è armeggiata l’imbarcazione di Caronte. 84 Nome di inventato da Pontano, come nel caso degli altri grammatici Teano e Menicello. 85 Pedano chiama Mercurio, figlio di Giove e di Maia, con il suo matronimico, allo scopo di esibire la sua erudizione (cfr. Haig Gassier, Notes: 357). 86 L’incontro avviene nel vestibolo infernale; si può ipotizzare, allora, che Virgilio, così come gli scrittori menzionati più avanti (Cesare, Tibullo, Lucrezio, Giovenale), faccia parte di quella schiera di «uomini dottissimi che errano insepolti oltre la riva» (§ 4).

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Aeneae vinario. Ex Hipparcho autem mathematico intellexisse Acesten ipsum vixisse annos centum viginti quatuor, menses undecim, dies undetriginta, horas tris, momenta duo ac semiatomum.41 MERC. Idem ego memini me ex Aceste ipso audire. PED. Errasse item se quod Caietam Aeneae nutricem dixisset, quae fuisset tubicinis Miseni mater, nec dedisse illam loco nomen quod ibi fuisset sepulta,42 sed quod cum in terram descendisset legendorum holerum gratia, fuisset illic a Silvano vim passa. Anchisae quoque nutricem fuisse a Palamede raptam, cum is agrum Troianum popularetur, excedereque tum illam annos centum et viginti fuisseque ei nomen Psi; quae quod notam haberet quandam in fronte, hinc Palamedem litteram ψ et formasse et nominasse.43 MERC. Magna sunt haec, litterator, cognituque dignissima. PED. Maiora ac multo digniora his audies. MERC. Solis videlicet litteratoribus tantum sciendi studium est post mortem?

41 Le assurde domande poste da Pedano agli scrittori dell’antichità si ispirano a quelle che l’io narrante pone ad Omero nel II libro della Storia Vera (Luc. VH 2, 20) oltre che all’elenco di inutili notizie note ai grammatici riportato da Giovenale nella satira 7 (Iuv. 7, 233-236) e alle considerazioni svolte da Seneca nel De brevitate vitae (Sen. Dial. 10, 13) in merito alla «malattia» di chi è ossessionato da dettagli futili che riguardano i grandi testi letterari del passato. 42 Cfr. Verg. Aen. 7, 1-2: «Tu quoque litoribus nostris, Aeneia nutrix, / aeternam moriens famam, Caieta, dedisti». 43 Palamade secondo il mito è l’inventore delle lettere dell’alfabeto, cfr. Hyg. 277.

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appresa da Enosio,87 il mercante di vino di Enea; dall’astronomo Ipparco88 aveva saputo, invece, che Aceste89 era vissuto centoquattro anni, undici mesi, ventinove giorni, tre ore, due momenti e la metà di un istante. MERC. Mi ricordo di averlo sentito dire dallo stesso Aceste. PED. Virgilio mi riferì di aver errato anche quando scrisse che Gaeta era la nutrice di Enea, si trattava invece della madre del trombettiere Miseno; la donna, inoltre, non aveva dato il suo nome a quella località perché lì era stata sepolta ma perché in quel luogo, quando era scesa a terra a cogliere dei cavoli, era stata posseduta con la forza da un satiro.90 Mi disse inoltre che anche la nutrice di Anchise era stata presa con la forza da Palamede,91 mentre egli era intento a devastare i campi troiani; a quel tempo la donna aveva centoventi anni e si chiamava Psi e Palamede aveva inventato la lettera ψ prendendo spunto da una cicatrice che la donna aveva in fronte, dandole quel nome in suo onore. MERC. Sono cose importanti, maestro, assai degne di essere conosciute. PED. Ascolterai cose più importanti e ancora più meritevoli di essere conosciute. MERC. Soltanto nei grammatici il desiderio di conoscere è così forte dopo la morte? 87 Personaggio d’invenzione il cui nome è coniato sul vocabolo greco οἶνοϚ, «vino». 88 Ipparco di Nicea (190-120 a.C.), grande astronomo e matematico di età ellenistica, studioso dei movimenti del Sole e della luna e di trigonometria. 89 Mitico fondatore e re di Segesta, partecipò alla guerra di Troia dalla parte dei troiani; nel poema di Virgilio accoglie Enea nel suo regno ed ospita i giochi funebri in onore di Anchise. 90 Pontano propone una versione alternativa alla vicenda narrata da Virgilio, cfr. Verg. Aen. 7, 233-236. 91 Eroe greco che costrinse Ulisse a partecipare alla guerra di Troia smascherando il suo tentativo di fingersi folle (Hyg. 277).

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PED. His nimirum solis; equidem et illud percuntari volui, dextrone an sinistro priore pede e navi descendens Aeneas terram Italiam attigisset; ad quod poeta ipse respondit satis se compertum habere neutro priore pede terram attigisse, sed sublatum humeris a remige, cui nomen esset Naucis, atque in litore expositum iunetis simul pedibus in arenas insiliisse; idque ex ipso remige habere se cognitum. MERC. O diligentiam singularem! [50] PED. Illud quoque, Atlantiade, quod cum gratia fiat tua, vel cum primis auditores meos qui sunt in Campania doctos facito, Horatium fuisse abstemium, quod ex eo sum sciscitatus; vinum autem tantopere ab illo laudatum in praeconis patris honorem, qui cum voce non posset, potando certe vino omnes sui temporis praecones superasset. Unum vero me ne ex ipso quidem Caesare scire potuisse, cum Galliam, describeret in trisne an tres partes divisam44 scriptum reliquisset. MERC. Demiror, cum tam ipse accuratus atque humanus fuerit. PED. Iram id effecisse arbitror, in quam ob accusationem exarserat Theani litteratoris, qui eum reprehendere esset ausus quod carros non currus dixerit. At a Tibullo Albio comiter fuisse exceptum, cumque Pedanum me vocari dicerem, gaudio eum exiliisse, arbitratum Pedo, in

44

Caes. Gall. 1, 1.

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PED. Certo, soltanto in noi. Volli anche che mi svelasse se Enea, scendendo dalla nave, avesse toccato terra prima con il piede destro o con il sinistro; su questo punto il poeta mi rispose che in seguito alle sue indagini era abbastanza sicuro che non aveva toccato terra né con il destro né con il sinistro ma che, sollevato per i fianchi da un rematore di nome Naucio92 e deposto sulla spiaggia, era balzato sulla sabbia con tutte e due i piedi contemporaneamente. Questo particolare l’aveva appreso dal rematore in persona. MERC. Quale straordinaria diligenza! [50] PED. Oh figlio di Atlante, se sarai così gentile da concedermi il tuo favore, c’è un’altra cosa che dovrai riferire il prima possibile ai miei allievi che si trovano in Campania: Orazio era astemio, me lo ha detto lui stesso; se lodò tanto il vino lo fece in onore di suo padre il quale, dato che non poteva vincere gli altri banditori del tempo con la voce, li superava tutti nel bere. Non sono riuscito a sapere soltanto una cosa: Cesare, infatti, non mi ha voluto dire se nel descrivere la Gallia abbia scritto divisam in tris partes o divisam in tres partes. MERC. Me ne stupisco dal momento che Cesare fu tanto corretto nel modo di scrivere e ben disposto verso gli altri. PED. Credo che questo comportamento sia stato causato dall’ira ardente di Cesare nei confronti del maestro Teano che era solito riprenderlo perché aveva scritto carros e non currus.93 Ma dirai ai miei allievi che sono stato accolto amichevolmente da Albio Tibullo; quando dissi di chiamarmi Pedano, saltellò dalla gioia, pensando che fossi 92 Altro personaggio d’invenzione, come Anosio; il nome è coniato sul termine greco ναũϚ («nave»). 93 Teano non si rende conto del fatto che Cesare nel De bello Gallico si riferisce ai carri di trasporto dei galli (carrus, nome della seconda declinazione) e non ai carri trionfali (currus, nome della quarta declinazione). Il dispetto di Cesare, dunque, è giustificato.

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cuius agro rus habuisset, oriundum esse; atque huius rei gratia docuisse me nomen senex apud vetustissimos Latinos communis fuisse generis proptereaque dixisse se cum de anicula loqueretur «merito tot mala ferre senem».45 MERC. O rem nobili dignam grammatico! PED. Lucretium quoque nimis mihi familiariter deblanditum, quod diceret grammaticos debere a se amari propter morbi similitudinem; omnis enim, dementia quadam agi; propterea docuisse me nomen illud potis apud maiores suos etiam neutri generis vim habuisse, quorum exemplo dixisset: Nec potis est cerni quod cassum lumine fertur46 At Iuvenalem nimis me graviter obiurgasse, quod dicerem oleagina virga pueros a me verberari solitos; oportuisse enim ferula47 illos percuti. Quocirca, Arcas deus, monitos facias verbis meis grammaticos omnes ferula ut utantur.

45 46 47

Tib. 1, 6, 82. Lucr. 5, 719. Iuv. 1, 15.

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originario di Pedo, luogo nel quale possedeva un terreno;94 per questo motivo mi insegnò che il termine senex presso gli scrittori latini più antichi era sia maschile sia femminile e che per questo motivo aveva detto parlando di una vecchina: «merito tot mala ferre senem».95 MERC. Una nozione degna di un illustre grammatico! PED. Dirai loro anche che Lucrezio mi blandì con eccessiva gentilezza quando disse che non poteva non amare i grammatici perché condividono il suo male: entrambi, infatti, siamo preda della follia.96 Per questo mi ha insegnato che il termine potis presso gli antenati aveva valore di neutro e seguendo il loro uso aveva scritto: «Nec potis est cerni quod cassum lumine fertus».97 Giovenale, invece, mi rimproverò molto duramente perché ero solito colpire i fanciulli con «un bastone di olivo»; avrei dovuto, invece, colpirli «con una bacchetta».98 Per questo, Arcade dio,99 ammonisci con le mie parole tutti i grammatici ad usare la bacchetta.

94 Da un passo di Orazio (Hor. Epist. 1, 4, 2) si deduce che Tibullo possedeva una villa nei pressi di Pedano, un’antica città non lontana da Roma. 95 «A ragion veduta la vecchia sopporta tanti mali». 96 Allusione alla leggenda riportata da San Girolamo nelle sue aggiunte al Chronicon di Eusebio da Cesarea secondo la quale Lucrezio avrebbe scritto il De rerum natura durante gli intervalli di una follia scatenata da un filtro d’amore. 97 «Non è possibile per una cosa che si muove senza la luce essere vista». 98 Nel rievocare i giorni di scuola Giovenale menziona la «bacchetta» con la quale il suo grammatico lo puniva colpendolo sulle mani. 99 Ancora un’esibizione di competenza nel campo della mitologia: Mercurio, infatti, nacque sul monte Cillene in Arcadia.

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MERC. Faciam libenter, o Arcadice magister. Sed quis est qui tam te irridet tergo? Illum respice. [51] THEANUS Ego sum Theanus grammatista. PED. Errasti, grammaticum te, non grammatistam debuisti dicere. Addisce igitur. THEAN. Peccasti, addisce enim nondum quisquam dixit. Itaque disce, non addisce dixisse oportuit. PED. Rursum peccasti, dicere enim, non dixisse oportebat dici. THEAN. Et tu rursum item peccasti, nam non oportebat, sed oportuit dicendum erat. PED. Prisciano caput fregisti, neque enim erat, sed fuit dicere debueras. THEAN. Prisciano pedes fregisti; debuisti enim, non debueras. PED. Immo debueras, non debuisti. THEAN. Immo debuisti, non debueras. PED. Immo hoc. THEAN. Immo illud. PED. Immo ego. THEAN. Immo tu. PED. Immo bene. THEAN. Immo male. PED. Hei mihi!

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Lo farò volentieri, maestro arcadico.100 Ma chi è quello che si prende gioco di te alle tue spalle? Guardalo. [51] TEANO Sono Teano il grammatista. PED. Hai sbagliato, avresti dovuto dire grammatico, non grammatista. Imparati dunque.101 TEAN. Hai sbagliato, nessuno hai mai detto imparati. Bisognava che tu avessi detto apprendi non imparati. PED. Hai sbagliato a tua volta; dovevi usare il verbo dicessi, non avessi detto. TEAN. Hai sbagliato di nuovo: era il caso di dire avresti dovuto non dovevi. PED. Hai rotto la testa di Prisciano:102 dovevi dire fu il caso non era il caso. TEAN. Hai rotto i piedi di Prisciano: bisogna usare il verbo dovresti, non dovevi. PED. Nel caso avresti dovuto, non dovresti. PED. Questo. TEAN. Quello. PED. Io. TEAN. Tu. PED. Bene. TEAN. Male. (lo colpisce) PED. Povero me! MERC.

100 Nel caso di Mercurio l’Arcadia è menzionata in quanto terra ricca di asini (cfr. Asinus §22); la battuta si ispira altresì alla satira settima di Giovenale dove uno scolare ignorante è chiamato «giovane arcade» (cfr. Haig Gassier, Notes: 358). 101 Nella scena si susseguono una serie di inesattezze nei tempi verbali e nel lessico adoperate dai grammatici, che ho cercato di rendere in italiano ricorrendo ad altrettanti errori grammaticali. La scenetta comica mette alla berlina l’accusa di scarsa competenza nell’uso dei tempi verbali consumatesi tra Lorenzo Valla e Poggio Bracciolini nella corte aragonese, cfr. Ferraù, Pontano critico: 13-14. 102 Grammatico attivo a Costantinopoli durante il regno dell’Imperatore Atanasio (491-518 d.C.), autore delle Institutiones grammaticae, la grammatica di gran lunga più celebre e diffusa nel Medioevo e nella prima età moderna.

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THEAN. Hei tibi! [52] MERC. Reverentius, grammatici! verbis enim non

manibus contendendum vobis est, deo praesertim arbitro. Quamobrem bonis et honestis posthac verbis de litteratura contendite. Sed bene habet, tertius, ut video, adest sive iudex sive litigator. MENICELLUS Ego diutius, grammaticunculi, ineptiolas ferre vestras nequeo. THEAN. At ego insolentiam tuam laturus hodie nullo sum modo. Quamobrem qui tibi tantum tribuas, Menicelle, dicas velim cur lapidem hunc, petram vero hanc dicimus. MEN. Videlicet quod lapis agendi vim habeat, laedit enim pedem, at petra, quod pede teratur, ad patiendi genus transiit.48 MERC. Nihil est grammatico insulsius; vide quam hi desipiant, cum petra Graeca sit dictio, lapis vero fuerit a labando dictus, tertia immutata littera, quod labent ex eo ambulantium vestigia. THEAN. Qui de lapide petraque hoc sentias, de manu quid mihi respondes? MEN. An non manus faciendo operi occupata aliquid semper patitur? THEAN. At nunc agit cum te verbero; hem tibi! MEN. Heu me miserum! THEAN. Quid te miserum? rationem afferas oportet cur manus cum in pugnum coit, cum verberat, dici hic non debuerit. [53] MEN. Nihil mihi tecum erit amplius. Quamobrem oratum te, Mercuri, volo, ut cum primum. Neapolim in Opicos perveneris, in eo conventu qui ociosis fieri diebus

48 Come segnalato in Haig Gassier, Notes: 358, la spiegazione di Menicillo deriva da un’etimologia riportata da Isidoro di Siviglia (Ety. 16, 3, 1).

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TEAN. Povero te! [52] MERC. Grammatici, abbiate ritegno! Dovete con-

tendere con le parole non con le mani, soprattutto perché è un dio a fare da arbitro. D’ora in poi discutete di letteratura con parole oneste. Ma bene, arriva un terzo grammatico, non so se a fare da giudice o da contendente. MENICELLO Grammaticuli, io non intendo ascoltare oltre le vostre sciocchezzuole! TEAN. Ed io oggi non sopporterò in alcun modo la tua insolenza! Dato che hai una così alta considerazione di te, Menicello, ti prego di dirci perché la parola sasso è maschile e la parola pietra è femminile. MEN. Il sasso è maschile perché agisce, ferisce il piede; la pietra, invece, è femminile, perché subisce l’azione, in quanto viene colpita dal piede. MERC. Non c’è niente di più insulso di un grammatico. Guarda quanto sono sciocchi! La pietra [petra] è un termine che deriva dal greco mentre sasso [lapis] deriva dal verbo sdrucciolare [labo], con la terza lettera mutata, dato che ci si sdrucciola sopra. TEAN. Chi interpreta in questo modo la pietra e il sasso che mi dice della mano? Come può appartenere al genere femminile? MEN. Ma la mano che è sempre occupata a fare qualcosa non subisce forse sempre una qualche azione? TEAN. E ora è occupata mentre ti percuoto! Attento a te! (lo colpisce con un pugno) MEN. Povero me! TEAN. Perché povero te? Ecco una ragione per la quale, quando si chiude a formare un pugno, la mano non può essere definita passiva! [53] MEN. Non voglio più avere a che fare con te. Per questo, Mercurio, ti prego, non appena giungi dagli Osci,103a 103

Popolazione dell’Italia pre-romana appartenente al gruppo osco-umbro che abitava la regione dell’attuale Campania.

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ad Arcum solet, Iovianum Pontanum convenias verbisque commonefacias meis, posthac ut sit cautior atque ut curso a verbo quod est curro deducat, non cursito. Panhormitam quoque Antonium acriter increpitato, quod epistolutiam in diminutione protulerit.49 MERC. At ego, Menicelle, pro Antonio hoc tibi respondeo: Italicam linguam non modo novas diminutiones fecisse, verum etiam augentium vocum formas quasdam invenisse detractionis ac ignominiae gratia. Quocirca Antonii nomine te tantum grammaticonem valere iubeo. Tu vero, Pedane, an quid habes praeter coetera eruditione dignum tua? PED. Unum hoc: Boetium non a Boetia, in qua ipse natus non fuerit, dictum, sed agnomentum hoc illi fuisse a vescenda boum carne, quod ipsius me Boetii cocus docuit. MERC. Per Iovem mira agnominatio! Tu quid ad haec, Theane? THEAN. Eiiciendos haereditate Pedani liberos, eius bona publice vendenda redibendamque auditoribus quam Pedanus ab illis acceperit pecuniam. MERC. Atqui ego tuis vel maxime liberis cavendum praeiudicium hoc censeo.

49 Il ricorso a diverse tipologie di diminutivi è una delle principali caratteristiche del linguaggio poetico pontaniano: cfr. Iacono, Le fonti del Parthenopeus: 159-160: Parenti, Poëta Proteus alter: 5.

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Napoli, raggiungi Pontano in quell’adunata che nei giorni di festa si tiene presso l’Arco104 e riferiscigli che, dopo questa mia esperienza, deve essere più cauto e far derivare il verbo curso da curro, non da cursito. Rimprovererai severamente anche Antonio detto il Panormita105 perché ha inventato il diminutivo epistolutia. MERC. Ma io, Menicello, ti rispondo a nome di Antonio: la lingua italiana ha sempre creato non solo diminutivi ma anche accrescitivi per diminuire e per insultare. Per questo a nome di Antonio ti definisco un grammaticone. Ma tu, Pedano, che cos’altro conosci di degno della tua erudizione? PED. Questo: il nome Boezio non derivava dalla Beozia, paese nel quale egli non nacque, ma gli fu dato dalla carne di bue, della quale si nutriva. Me lo ha rivelato il cuoco di Boezio. MERC. Per Giove che fantastico soprannome! Tu che ne dici, Teano? TEAN. I figli di Pedano siano privati della loro eredità; i beni di Pedano vengano messi all’asta e venga reso agli allievi il denaro che hanno dato a Pedano. MERC. E io ritengo che una simile sentenza debba essere pronunciata soprattutto per i tuoi figli.

104 Riferimento all’Accademia che avrebbe preso il nome di pontaniana, vd. Introduzione: 7-8. 105 Antonio Beccadelli (1394-1471), poeta e storico, membro influente della corte aragonese, vd. Ant. § 1, nota 3.

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XII. CHARON, UMBRAE DIVERSAE

[54] CHAR. Ascendite, infelices umbrae; quid, miserae, ante diem fletis? Quasi parum sit tum dolere cum malum venerit. Tu vero, tam culta et procax umbra, quaenam es? UMBRA Cypria meretrix. CHAR. Ubi gentium quaestum fecisti? UMBR. Romae. CHAR. Quis iste comes? UMBR. Sacerdos cardinalis, qui me amavit. CHAR. Miror quomodo senem puella, meretriculam sacerdos in delitiis habuerit. UMBR. Mea illum forma, illius me aurum cepit. CHAR. Plus igitur apud eum forma quam religio, apud te precium quam aut senectus aut illius os valuit. UMBR. Aurum mihi suavissimum fuit, quo ille et oris deformitatem et senectutem saepissime redemit suam. Ad haec, quanquam senex, salacissimus tamen fuit, utinamque sola illi fuissem satis! CHAR. Mirum homo tam senex quod tam esset libidinosus! UMBR. Ego ubi primum ad eum sum arcessita, putavi me cum adolescentulo coituram. At ubi aetatem vidi et os distortum, coepi queri meque deceptam esse ab lenone

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XII. CARONTE, ANIME106 [54] CAR. Salite, anime infelici; perché, misere, piangete prima del tempo? Come se non fosse sufficiente dolersi quando il male giunge! Ma tu, anima sfarzosa e provocante, chi sei? ANIMA Una meretrice cipriota. CAR. In quale parte del mondo facevi merce del tuo corpo? ANIMA A Roma. CAR. Chi è quest’anima che ti accompagna? ANIMA Un uomo della chiesa, un cardinale che mi amava. CAR. Mi meraviglio che una fanciulla fosse affezionata a un vecchio, e un sacerdote a una sgualdrinella. ANIMA Lui era preso dalla mia bellezza, io dal suo denaro. CAR. Quindi per lui la tua bellezza valeva più della religione, mentre per te il suo denaro valeva più della sua vecchiaia o della sua bocca. ANIMA L’oro per me era una vera delizia e con l’oro costui spesso riscattava la deformità della bocca e la vecchiaia. Ad ogni modo, per quanto vecchio, era oltre modo lascivo, magari gli fossi bastata soltanto io! CAR. Mi sorprendo che un uomo così vecchio fosse tanto libidinoso! ANIMA Io quando sono stata convocata da lui la prima volta pensai di dovermi unire con un adolescente. Ma quando vidi la sua età e la deformità della bocca cominciai a lamentarmi e ad accusare il lenone di avermi imbroglia106 L’ultima scena del dialogo si svolge mentre le anime si imbarcano una per una sulla nave di Caronte e durante la navigazione. Mercurio assiste in silenzio accanto a Caronte e prenderà la parola soltanto alla fine della scena (§ 65), invitando le anime ad accompagnarlo verso un destino di dannazione o di beatitudine.

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inclamitare. Tum ille: «Ne, inquit, querare, animula, nam cuius nunc tortum os fugis haud multo post rectum nervum experiere». Quod fuit; nihil enim illo tentius passa sum unquam. [55] CHAR. Ite, infelices, in ignem coiturae aevumque illic miserrimum acturae.50 Quis tu cucullatus? UMBRA Frater. CHAR. Ordo qui? UMBR. Non semel ex ordine in ordinem transii. CHAR. Quae causa? UMBR. Facilius ut deciperem. Die mulieres audiebam peccata confitentes, noctu graecabar in ganeis. CHAR. Unde tibi suppetebat ad id pecunia? UMBR. E fraude et furto; decipiebam mulierculas, surripiebam sacra. CHAR. Et fraudem et sacrilegium flammis lues. At tu tam nitida cute atque anatino gressu, quemnam profiteris? UMBR. Episcopum. CHAR. Mirum qui tam sis ventricosus! UMBR. Minime mirum, quippe cum huic soli studuerim in eumque congesserim omnem ecclesiae censum meae. Quin etiam foeneravi. CHAR. Satis igitur tibi non erat quod ex ecclesia quotannis rediret? UMBR. Illud ventri satis erat, at foenus serviebat peni; complures enim concubinas alebam et corrumpebam libenter auro maritas mulieres. CHAR. Infelix, cui tantus sit venter ferendus pedibus adeo imbecillis, infelicior, cui animus honeri, at venter penisque dii fuerint, infelicissimus, qui te ipsum cum minime noveris, Deum, cui ministrabas, multo minus 50 Riscrittura parodica di Paolo e Francesca, per l’eternità uniti nella pena: «I’ cominciai: “Poeta, volontieri / parlerei a quei due che ’nsieme vanno, / e paion sì al vento esser leggeri”» (Inf. 5, 74-76).

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ta. Ma costui mi disse: «Animuccia mia, non lamentarti: se adesso ti disgusta questa bocca storta, sentirai presto che il nervo, invece, è ben dritto». E così fu: non ne ho mai sentito uno più duro. [55] CAR. Andate via, anime infelici! Vi unirete nelle fiamme e lì trascorrerete l’eternità. Chi sei tu con quel cappuccio? ANIMA Un frate. CAR. Di quale ordine? ANIMA Ho cambiato più volte ordine. CAR. Per quale motivo? ANIMA Per ingannare più facilmente. Di giorno ascoltavo i peccati delle donne in confessione, di notte me la spassavo nei bordelli. CAR. Come ricavavi il denaro necessario? ANIMA Con l’inganno e con il furto: ingannavo le donnette, trafugavo gli arredi sacri. CAR. Piangerai l’inganno e il sacrilegio nelle fiamme. Ma tu, con la pelle lucida e il passo d’anatra, qual è la tua professione? ANIMA Sono un vescovo. CAR. Mi meraviglio che tu sia così panzuto! ANIMA Non dovresti meravigliarti: mi occupavo soltanto della pancia e nella pancia gettavo tutti i proventi della mia chiesa. Ed ho anche prestato a usura. CAR. Non ti bastava quello che ogni anno ricavavi dalla chiesa? ANIMA Quello bastava alla pancia, l’usura serviva al pene: mantenevo più di una concubina e con l’oro corrompevo spesso e volentieri le donne sposate. CAR. Misero te, che devi trasportare una pancia così grande con dei piedi così deboli, ancora più misero perché l’animo ti era d’impaccio e ti facevi un idolo della pancia e del pene; infinitamente misero, infine, perché non conoscendo te stesso hai potuto conoscere ancor meno

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cognoscere potueris! Abi igitur, infelicissime; sera enim poenitentia est tua. Tu vero quaenam demissa facie atque ore tam pudenti? [56] UMBRA Infelix puella. CHAR. Quae tam acerbi luctus est causa? UMBR. Utinam carerem memoria! CHAR. Noli, amabo, spem ponere; nam si coacta, quippiam peccasti, leviore poena afficiere. UMBR. Miseram me! Decepta fui. CHAR. Quidnam per fraudem amisisti? UMBR. Virginitatem, infelix! CHAR. Quis te decepit? UMBR. Senex sacerdos.51 CHAR. Arte qua? UMBR. Adibam saepe templa Deum orans ut nuptiae faciles, vir mihi foret e sententia. Ibi tum antistes me collaudare, spem bonam polliceri seque mihi facilem offerre. Igitur ubi saepius me confitentem audit et simplicitatem agnoscit meam: «Desine, inquit, filiola, virum a Deo petere, qui te innuptam esse iubeat». Tum ego: «Quia et tu id, pater, mones et velle Deum dicis, Deo virginitatem meam do dedicoque». Tum ille me collaudata: «Quod Deo dedisti, filia, id alicui necesse est ecclesiae ut dices». Tum ego: «Cuinam, pater, ecelesiae prius eam dicem quam tuae?». «Atqui, inquit ille, quoniam oblatiunculae istius ecclesiae meae nomine capi a me possessionem oportet, quo Deo sit acceptior, abi, filiola, mane ad me reditura. Etenim nocte hac Deum orabo ut ratam istam rectamque velit 51

Il racconto che segue costituisce una raffinata riscrittura dalla seconda novella del Novellino di Masuccio Salernitano («Un frate domenicano dà ad intendere a madonna Barbara che conciperà de un iusto e farà lo quinto evangelista, e con tale inganno la ingravida; dopo, sotto altra fraude si fugge e il fatto si scuopre; il patre bassamente marita la Barbara», Masuccio, Novellino: 39); sulle modalità e le implicazioni di tala riscrittura vd. Geri, A colloquio con Luciano: 145-150, con relativa bibliografia.

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quel Dio del quale eri ministro! Vai, dunque, uomo infinitamente misero, la tua punizione è vicina. Ma tu, con il capo chino e gli occhi bassi, chi sei? [56] ANIMA Una fanciulla infelice. CAR. Qual è la causa di un dolore così acerbo? ANIMA Magari potessi dimenticare! CAR. Non perdere la speranza, ti prego, se per caso peccasti contro la tua volontà la pena sarà più lieve. ANIMA Povera me! Sono stata ingannata. CAR. Cosa ti hanno portato via con l’inganno? ANIMA La verginità, me infelice! CAR. Chi ti ingannò? ANIMA Un vecchio sacerdote. CAR. In che modo? ANIMA Mi recavo spesso in chiesa a pregare Dio perché mi concedesse un matrimonio propizio e un marito che mi piacesse. Lì il prete era solito elogiarmi, mi prometteva la riuscita delle mie speranze e si dimostrava affabile. Dunque, dopo che mi ebbe ascoltato spesso in confessione ed ebbe modo di conoscere la mia ingenuità, mi disse: «Figliola, smetti di domandare un marito a Dio, Egli vuole che tu rimanga nubile». Allora io: «Dato che tu, padre, ammonisci a fare così e dici che Dio lo vuole, Gli dono e Gli dedico la mia verginità». Allora lui, dopo avermi elogiata disse: «Ciò che hai donato a Dio, figlia mia, è necessario che lo consacri a una qualche chiesa». Allora io: «A quale altra chiesa, padre mio, potrei consacrarla se non alla tua?». «Dal momento che devo prendere possesso di questa piccola offerta in nome della mia chiesa,» rispose «per fare in modo che sia più gradita a Dio, va’, figlia mia, e domani torna da me. Questa notte difatti pregherò Dio

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esse dicationem. Tu postquam laveris, novo induta supparo ad me redi. Nihil enim nisi mundum fas est nos attrectare hocque in primis effice, sola ac sine teste ut venias. In iis enim quae Deus manu capit nulli adhibendi sunt testes.» [57] Mane itaque ad eum ubi veni, tum ille me in cellam induxit, in qua summi Dei posita est statua, quam circa magna cereorum vis erat accensa. Ubi ambo oravimus: «Filiola, inquit, et tunicam et supparum exue, Deus enim et coelestes omnes nudi cum sint, nuda sibi offerri volunt». Ubi ego nuda astitissem, tum ille papillas has pertractans: «Hae, inquit, ecclesiae meae sunt». Tum mentum manu demulcens: «Et hoc ecclesiae est meae». Hinc genas summis delibans digitis: «Filia, inquit, oris possessio non nisi ore capiunda est» meque ter osculatus cum fuisset «et labia haec meae sunt ecclesiae». Sic pectus, sic ventrem ecclesiae suae esse cum dixisset, ut iacerem iussit. Iacui infelix; tum ille genu innixus femoraque contrectans: «Deus, ait, qui tumidula haec femora castigatulumque ventrem cum brachiolis his teretibus tam venuste molliterque formasti, aspice virgunculam tuam et ista possessione laetare».52 Ter haec cecinit; ibi, ut omnia transigeret, id respexit quo mulieres sumus. «Et illud, inquit, filia, manu capiendum est. Verum ut oris capta est ore possessio, sic tui quoque illius meo hoc est capienda.» Utinamque tunc expirassem, misera! CHAR. Quomodo deceptam te postea sensisti? UMBR. Dum ille studiosius fundum colit suum,53 gravida facta sum, tandemque e partu mortua. 52 Cfr. «e in sé tornato, postoglisi dianzi in genocchioni, fando quella sedere in maestà, con le mane giunte e a capo inchino cossì disse: “Io adoro te, felicissimo ventre, nel quale da qui a poche ore il lume de tutto il cristianesimo ingenerar si deve”» (Masuccio, Novellino: 36). 53 La metafora oscena, che incontreremo anche in Asin. § 24, oltre che di un passo plautino (Plaut. Asin. 874) come segnalto in Haig Gassier, Notes: 360, risente di numerosi passi boccacciani (Dec. 3, 1 passim; 3, 6, 17).

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perché voglia che questa consacrazione sia valida e giusta. Tu, dopo esserti lavata, torna da me con indosso un velo nuovo: il rito esige che ogni cosa toccata da noi sia monda; ma bada soprattutto a venire da sola, senza alcun testimone. Non ci devono essere testimoni nelle cose che Dio tocca con mano.» [57] Il giorno seguente, non appena mi recai da lui mi condusse in una cella illuminata da molte candele nella quale era posta una statua del sommo Dio. Mentre entrambi eravamo in preghiera mi disse: «Figliola, togliti la veste e il velo. Dio e i santi, dato che sono tutti nudi, vogliono che tu ti offra loro nuda». Quando io rimasi nuda in piedi di fronte a lui, palpandomi le poppe disse: «Queste appartengono alla mia chiesa». E poi accarezzandomi il mento con la mano disse: «E anche questo appartiene alla mia chiesa». Quindi, sfiorandomi le guance con la punta delle dita disse: «Figlia mia, non c’è altro modo di prendere possesso della bocca se non per mezzo della bocca». Dopo avermi baciato tre volte disse: «Anche queste labbra appartengono alla mia chiesa». Dopo aver dedicato in questo modo il petto e il ventre alla sua chiesa comandò di sdraiarmi. Povera me! Lo feci. Allora, dopo essersi messo in ginocchio, palpandomi le cosce disse: «Oh Dio che soavemente e con leggiadria hai creato queste cosce pienotte e questo casto piccolo ventre, insieme a queste braccia rotondette, osserva la tua cara giovinetta e rallegrati di questo possedimento». Cantò queste parole tre volte; e poi, per completare la rassegna, volse lo sguardo a quella parte del corpo che ci rende donne. «Anche di questa parte,» disse «figlia mia, devo prendere possesso. E se la bocca ha preso possesso della bocca, di questa parte del corpo deve prendere possesso questo.» Avesse voluto il cielo, povera me, che fossi morta in quel momento! CAR. E poi come ti accorsi di essere stata ingannata? ANIMA Mentre lui coltivava il suo terreno ingravidai e infine morii di parto.

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CHAR. Nunquid non ille te absolvit morientem? UMBR. Absolvit. [58] CHAR. Laeta esto. Nam iudices et ipsi absolvent.

Sed heus, tu, quid, miser, rides? Crede mihi, non est nunc ridendi locus.54 UMBRA Nulla mihi est quam tibi credam pecunia. CHAR. Talisne tu es qui ludere Charontem velis? UMBR. Atqui nec talis ipse unquam lusi nec tesseris. CHAR. Hic homo cavillatur et in moerore etiam iocari cupit. Dico ego tibi: alium paulo post sermonem seres, ubi ad forum veneris. UMBR. Vendi in foro halium, non seri solet. CHAR. Suavissimus hic est, ut video. Dic, quaeso, quam artem exercuisti? UMBR. Martem ipse non exercui, sed male me Mars habuit. CHAR. Tu me, facetissime homo, tuis istis dictis vel in risum rapis. UMBR. Ego, amice, rapis nunquam sum usus, magis me delectavit caepa et porrum.

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In un primo momento l’anima toscana si prende gioco di Caronte: la situazione richiama lo scontro tra Menippo e Caronte nei Dialoghi dei morti (Luc DMort. 2, 1); l’anima toscana, però, a differenza del Menippo lucianeo, violento e caustico, fa uso di un umorismo urbanus.

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CAR. E non ti ha assolto prima di morire? ANIMA Lo ha fatto. [58] CAR. Rallegrati. Anche i giudici ti assolveranno.

Ehi tu!, misero, perché ridi? Credimi non è il momento di ridere. ANIMA Non ho con me l’obolo da consegnarti. CAR. Chi sei tu che ti prendi gioco di Caronte? ANIMA Non ho mai giocato né con i dadi né con le carte. CAR. (tra sé) Costui è un motteggiatore e desidera scherzare anche nell’afflizione. (rivolto all’anima) Ti dico che, tra poco, quando verrai nel foro la pianterai con questi discorsi. ANIMA In genere nel foro le verdure si vendono, non si piantano.107 CAR. Questa è carina. Ma dimmi che arte esercitavi? ANIMA Non ho militato in nessun esercito.108 CAR. Uomo faceto, con queste battute mi rapisci [rapis]! ANIMA Ma a me, amico caro, le rape [rapis] non sono mai piaciute, preferivo le cipolle e i porri. 107 Triplice gioco di parole basato sulla somiglianza fonica tra il termine alium («altro») e halium («aglio»), tra il verbo sero, seris, sevi, satum, sere˘re («piantare») e il verbo sero, seris, serui, sertum, sere˘re («intrecciare discorsi») e sul fatto che il termine forum indica in latino tanto il tribunale quanto la piazza del mercato. Lo scambio di battute recita letteralmente: «CAR. Ti dico: più tardi quando verrai nel tribunale (forum) terrai (sereres da sero, seris, serui, sertum, sere˘re) un altro (alium) discorso. ANIMA In genere nella piazza del mercato (forum) l’aglio (alium) si vende non si semina (seri da sero, seris, sevi, satum, sere˘re)». 108 Il gioco di parole è traducibile solo a grandi linee; nel testo latino si gioca sul duplice significato del verbo exerceo «esercitare una professione», «infastidire» e sulla errata segmentazione di quam artem interpretato come qua Martem. Letteralmente lo scambio di battute recita: «CAR. Dimmi, quale arte esercitasti? ANIMA Non ho mai infastidito Marte ma è stato Marte a comportarsi male con me».

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Videlicet suae cuique sunt voluptates. Nullam ego e sue voluptatem cepi unquam; egone bestiolam tam immundam in delitiis haberem? Parce, oro, Charon, delicatior ego fui quam reris; principes viros in iocis habui, non bestiolas, illos mihi ludos faciebam. CHAR. Tum tu istrio fusti? UMBR. Etruria mihi patria fuit, non Istria, cui nihil aliud curae fuit unquam quam ut nunquam dolerem, nunquam irascerer. Ut quis uxorem ducebat, ridebam; efferebat quis filium, ridebam; insanibat amore alius, ridebam. Ridebam ubi quis nimis sumptuose vestiret, nimis magnifice aedificaret, ubi praedia nimis ampla emeret. Ridebam demum omnia. Semel autem in omni me flere vita memini, quod matre mortua, ubi illam sepellirem terra mihi emenda in sancto fuit; tum nimis graviter hominum conditionem flevi ac de religione sum questus. Sed tamen haud multo post dolorem hunc compressi atque ad naturam redii meque ipsum ridere coepi, qui non et id quoque risissem. CHAR. UMBR.

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CAR. A ANIMA

ciascuno i piacer sui, no? [suae voluptates]. Un suino? Non ho mai preso piacere da un suino [e sue]!109 E perché avrei dovuto prendere diletto da una bestiola tanto immonda? Smetti, Caronte, ero più elegante di quel che credi: mi prendevo gioco dei principi, non delle bestiole; erano loro gli oggetti dei miei scherzi. CAR. Allora eri un istrione? ANIMA La mia patria non era l’Istria ma la Toscana.110 La mia occupazione principale consisteva nel non provare mai dolore e non arrabbiarmi mai. Quando qualcuno prendeva moglie, ridevo; quando un tale seppelliva il figlio, ridevo; un altro ancora impazziva per amore ed io ridevo. Ridevo quando qualcuno vestiva con lusso eccessivo o costruiva con troppa magnificenza o comperava un podere troppo esteso. Ridevo insomma di ogni cosa. Soltanto una volta in tutta la mia vita, da quel che mi ricordo, piansi: fu quando, morta mia madre, fui costretto a pagare il terreno consacrato nel quale seppellirla; in quel caso ho pianto sulla miseria della condizione umana e mi sono lamentato della religione. Tuttavia dopo non molto soffocai questo dolore e tornai alla mia natura e presi a ridere di me stesso che non avevo riso anche di questo. 109 Altro gioco di parole traducibile a stento; l’anima toscana gioca con la somiglianza fonica tra l’espressione suae voluptates («i suoi piaceri») e l’espressione suis voluptates («i piaceri del maiale»). 110 La patria dell’anima e, soprattutto, la sua filosofia del riso fanno pensare ad un omaggio rivolto a Leon Battista Alberti. L’ideale di vita professato nelle pagine che seguono, infatti, è vicino ad alcuni passi dei dialoghi volgari di Alberti (Profugiorum ab erumnis libri, Villa), omaggio che si unirebbe ad una possibile reminiscenza dal Momus che si incontra nella scena V, al § 25. A ogni modo l’identificazione dell’anima toscana con Leon Battista Alberti, morto nell’aprile del 1472, rappresenta un’ipotesi suggestiva ma non supportata da elementi decisivi. Sulla questione si vd. Rinaldi, Alberti e Valla: 584-90 e Geri, A colloquio con Luciano: 142-145.

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[59] CHAR. Sub huius risu latet sapientia. UMBR. Quid tute tecum loqueris? Audacter dic quod velis, non te ludo amplius. CHAR. Rem mihi gratissimam feceris si vitae tuae genus ordine explicaveris. UMBR. Quod ipsum vehementer iuvat; quid enim iuvare magis aut potest aut debet quam ubi vitae suae cursum quis repetens nihil invenit cuius poenitere iure debeat? Principio cum viderem nostram rempublicam ab improbis ac seditiosis civibus administrari, publicis muneribus abstinui meque ad privatam vitam contuli, nulli rei praeterquam agro colendo intentus; siquidem exercere mercaturam nolui, ne aut foenerandum esset aut fortuna continue timenda; nec servilem quaestum probavi aliquem. In suburbano mihi vita fuit. Raro in urbem accedebam atque eo cum venissem, decretum erat mihi nemini molestiae esse, nocere nulli nihilque molesti aliorum aut dictis aut factis capere. Ridens ingrediebar urbem, ridens exibam; ubi quem amicum aut notum videbam, salutabam illum curabamque congressus nostri ut essent quam iucundissimi. Si quam vel de nostra vel de Italiae republica facere mentionem coepisset, statim valere eum iubebam. Templa castus mane adibam neque cum sacerdotibus arctiorem habere familiaritatem volui; ubi rem divinam fecissent, abibam illico. Doctos quosdam amabam, qui non tam acuto essent ingenio quam recto iudicio; eorum disputationes libenter audiebam. Si quis e notis aut familiaribus, quos habere haudquaquam multos volui, adversi aliquid accepisset, consolabar illum meique ut similis esset rogabam. Nam et fortunae ludos ridendos esse et naturae necessitatem nullo pacto dolendam. [60] His actis, referebam me in suburbanum; ibi partim legendo, partim deambulando

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[59] CAR. (tra sé) Sotto la sua risata si nasconde la saggezza. ANIMA Perché parli da solo? Dimmi pure quel che vuoi sapere, non ti prenderò più in giro. CAR. Mi faresti cosa molto gradita se mi spiegassi con ordine la tua condotta di vita. ANIMA Mi fa molto piacere; cosa potrebbe o dovrebbe essere più gradito per un uomo che ripercorrendo la propria vita non trova niente di cui pentirsi? Anzitutto, non appena mi resi conto che la nostra città era governata da cittadini disonesti e litigiosi, mi astenni dalle cariche pubbliche e mi ritirai a vita privata, occupandomi soltanto di coltivare il mio campo; infatti non volli esercitare la mercatura per non diventare uno strozzino o dover temere di continuo la sorte; allo stesso modo non volli mai assumere occupazioni servili. La mia vita trascorse in campagna. Andavo raramente in città e quando vi giungevo era mio fermo proposito non essere molesto e non nuocere ad alcuno e, allo stesso tempo, non lasciare che le parole o i fatti degli altri mi recassero molestia alcuna. Ridendo entravo in città, ridendo ne uscivo; se per caso incontravo un amico o un conoscente lo salutavo e mi impegnavo fare in modo che il nostro incontro fosse il più gradevole possibile. Se però cominciava a menzionare la condizione dell’Italia o della nostra città, subito prendevo congedo. Il mattino entravo con pensieri casti nelle chiese e non volli mai avere un rapporto stretto con i sacerdoti. Mi recavo da loro soltanto quando stavano celebravano le funzioni sacre. Amavo alcuni dotti ma più per il loro retto giudizio che per l’acutezza dell’ingegno. Le discussioni di costoro le ascoltavo volentieri. Se accadeva qualcosa di brutto a un conoscente o a un amico (scelsi di averne molto pochi in vita mia), lo consolavo e gli consigliavo di fare come facevo io. Bisogna infatti ridere degli scherzi della fortuna e non dolersi mai delle leggi della natura. [60] Dopo aver svolto questo genere di commissioni mi reca-

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aut aliquid in agro agendo dies conficiebam; noctu, nisi quantum quieti dandum esset, coeterum tempus lucubrando transigebam. Exibam interdum in quadrivia, atque ubi festi essent dies, ibi villicos de prognosticis temporum, de natura terrae, de insitione, de seminibus, de irrigatione deque aliis rusticae rei ministeriis disserentes audiebam fierique studebam eorum sermone prudentior. Et quoniam cognoscerem res hominum tam diversis ac variis periculis esse expositas, si quid vel in agro vel in domo adversi accidisset, ubi conditionem risissem humanam, curabam. arte id industriaque corrigere. Ab litibus semper abhorrui et foro, convivia fugiebam; tenuissimus mihi victus erat, non ut naturam defraudarem, sed ne multum indigerem medico; ac ne te multis morer, ita me semper gessi ut qui non humanis me rebus, sed illas mihi subiectas vellem. CHAR. Igitur qui omnia ridebas, de morte solicitus nunquam fuisti? UMBR. Semel in omni vita de morte cogitavi, licet eam quotidie ante oculos haberem, reputansque et quid illa vellet sibi et quod ego adversus eam comparare possem praesidium; unum tandem hoc mihi in animo sedit, ut honeste tranquilleque aetatem ducendo viverem. CHAR. Quod adversus paupertatem invenisti remedium? UMBR. Ut iudicarem pauperem esse nequaquam posse qui secundum naturam viveret. CHAR. Quod adversus honores atque ambitionem? UMBR. Quod gravissimi casus non nisi ex alto essent loco. CHAR. Quod adversus falsos rumores? UMBR. Rectam conscientiam. CHAR. Unquamne te movit superstitio?

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vo in campagna; qui passavo le giornate un po’ leggendo, un po’ passeggiando, oppure facendo qualcosa nei campi; eccezion fatta per il tempo necessario al riposo, trascorrevo la notte studiando. Talvolta mi recavo nei crocicchi e, nei giorni di festa, ascoltavo i villici discutere sui presagi relativi al tempo, sulla natura del terreno, sull’innesto, sui semi, sull’irrigazione e sugli altri lavori campestri e prestavo grande attenzione ai loro discorsi. E per quanto sapessi che i beni degli uomini sono esposti a pericoli vari e diversi, se accadeva qualcosa di avverso in casa o nei campi, dopo aver riso della condizione umana, mi impegnavo a porvi rimedio con l’intelligenza e con l’impegno. Mi tenni sempre lontano dalle cause e dal tribunale, fuggivo i conviti; il mio vitto era assai modico, non così scarso da privarmi del giusto ma nemmeno così abbondante da aver bisogno di un medico. Insomma, per non trattenerti con troppe parole, mi comportai sempre in modo da far sì che le occupazioni umane fossero soggette a me, non io alle occupazioni umane. CAR. Quindi, tu che ridevi di ogni cosa, non ti sei mai preoccupato della morte? ANIMA Una sola volta in tutta la vita ho pensato alla morte, anche se tutti i giorni l’avevo davanti agli occhi, e riflettendo su cosa lei cercasse di ottenere e su quale difesa potessi io fare contro di lei, un solo rimedio mi rimase impresso nell’animo: vivere il tempo che mi restava in modo onesto e sereno. CAR. Quale rimedio trovasti contro la povertà? ANIMA Che non può essere considerato povero chi vive secondo natura. CAR. Quale contro gli onori e le ambizioni? ANIMA Che le cadute rovinose avvengono proprio dai luoghi più alti. CAR. Quale contro le voci infamanti? ANIMA La retta coscienza. CAR. Non ti ha mai turbato la superstizione?

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UMBR. Deum ubi perspexissem, sacerdotum mendaciis aures occludebam. CHAR. Quomodo cum invidia? UMBR. Qui doluerim nunquam, riderem omnia, quo pacto inviderem? CHAR. Ecquandone iratus fuisti? UMBR. Semel in omni vita, neque mea causa, sed quod viderem innocentem hominem iniuste plecti, maledixi concivibus, quod non de iniusto iudicio provocarent; quos ubi vidi mussitare ac tyrannorum vim timere, statim me repressi atque ad risum redii. [61] CHAR. In militiamne aliquando profectus? UMBR. Semel lituum audii. CHAR. Quid? Regesne aut regulum quempiam secutus? UMBR. Minime, mihi enim ipsi me, non regulis natum esse volui. CHAR. Liberosne suscepisti? UMBR. Quos statim extuli et quod bene actum cum illis iudicarem, Deo gratias egi. CHAR. Igitur et uxorem duxisti? UMBR. Non tam mea; quam parentum gratia; ea cum triennium mecum exegisset, morte diem obiit; ex eo caelebs vixi. CHAR. Cur non alteram duxisti? UMBR. Quia scirem temeritatem non semper felicem esse et quod bene in illa successisset, veritus sum in secunda periculum facere, meque asserere in libertatem volui. CHAR. Quam saepe cum illa litigabas? UMBR. Nunquam, nam et illa virguncula ac suavis erat et ego ridere assueram domi, non minus quam foris.

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ANIMA Dal momento che avevo riflettuto su Dio, chiudevo le orecchie alle menzogne dei sacerdoti. CAR. E come ti comportavi con l’invidia? ANIMA Io che non mi dolevo mai e che ridevo di ogni cosa come potevo invidiare qualcuno? CAR. E ti sei mai adirato? ANIMA Soltanto una volta in tutta la vita, e non per me stesso: vidi un uomo innocente punito ingiustamente e maledissi i miei concittadini perché non avevano revocato l’ingiusta sentenza; quando li vidi mormorare, temendo la violenza dei tiranni, subito repressi la mia rabbia e tornai a ridere. [61] CAR. Sei mai stato in guerra? ANIMA Ho ascoltato la tromba soltanto una volta.111 CAR. Ma come? Non hai mai seguito i re o i signori in guerra? ANIMA Niente affatto: ho scelto di vivere per me, non per i signori. CAR. Hai avuto figli? ANIMA Li ho seppelliti subito dopo la loro nascita e dal momento che giudicavo fossero stati fortunati, ringraziai Dio. CAR Quindi hai anche preso moglie? ANIMA Non lo feci tanto per me, ma per i miei genitori; lei visse con me tre anni, poi morì; da quel momento vissi celibe. CAR. Perché non ne hai sposata un’altra? ANIMA Perché sapevo che l’azzardo non porta sempre buoni risultati. Dato che la prima volta mi era andata bene temetti di correre un rischio a sposarmi una seconda volta, e così scelsi di vivere libero. CAR. Litigavi spesso con tua moglie? ANIMA Mai. Lei era una giovane di buon carattere e io mi ero abituato a ridere in casa così come facevo fuori. 111

Espressione proverbiale per indicare la partecipazione alle campagne militari.

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Quid de hominum rebus sentiebas? Vanitatem ac stultitiam esse omnia. Felicem te qui ista noveris. Nec felicem quenquam nec sapientem dixeris; nulli enim tot affuere unquam bona, ut non ei plura defuerint; nec quisquam tam sapiens habitus est usquam, ut non et illi ad veram perfectamque sapientiam defuerit multum. Nam cum humanae res imperfectae sint omnes, quid earum possit esse perfectum? cumque nihil sit in eis constans, felix quinam esse potest cui momento interdum adversa plurima succedant? CHAR. Non dixi te felicem, hospes, sed felicem qui ista noveris.55 UMBR. Non ex bonorum cognitione humana existit felicitas, verum ex eorum possessione et usu. [62] CHAR. At ego te et felicem ex hoc iudicaverim, quod cum intelligeres neminem esse posse felicem, ita tamen ipse vixeris, et sapientem, quod in tanta hominum vanitate atque ignorantia sapientem te non minus videri nolueris quam posse esse iudicaveris. Sed quis hic est tam molestus et impudens? UMBR. Noli, quaeso, ei irasci, amicissimus hic mihi fuit. CHAR. Miror qui inter duos tam dissimilibus moribus ulla potuerit esse familiaritas. UMBR. Si amici proprium est prodesse amico, hic quam in amicum plura in me contulit. Nam tribulis meus cum esset et quotidie litigaret cum uxore, primum docuit cavendas esse secundas nuptias, deinde cum nulla non in re et mihi et vicinis coeteris esset molestus, patientissimum me reddidit mortalium omnium. An quod maius in amicum conferri ab amico beneficium potest quam ut recte ab illo instituatur? Iure igitur hunc amavi et mihi amicum esse duxi. CHAR. UMBR. CHAR. UMBR.

55 Cfr. Arist. Eth. Nic. 1, 6-12, 1097b-1102a (la felicità consiste in una vita attiva rivolta alla virtù e condotta seguendo l’anima razionale).

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CAR. Che cosa pensavi delle cose umane? ANIMA Che sono tutte stolte e vane. CAR. Felice tu che sapevi queste cose! ANIMA Non mi sarei definito né felice né

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sapiente. Infatti, per quanti beni si possano possedere, sono sempre più numerosi quelli che mancano; e nessuno può essere considerato a tal punto sapiente da non essere molto lontano dal raggiungere la perfetta sapienza. Dato che le cose umane sono tutte imperfette, quale tra loro può essere perfetta? E dato che niente in loro è costante, come può dirsi felice chi, in un solo momento, può essere travolto da tanti mali? CAR. Non ho detto che eri felice, ospite, ma che eri felice perché sapevi queste cose. ANIMA La felicità umana non deriva dalla conoscenza dei beni ma dal loro uso. [62] CAR. Ma io ti ho giudicato felice appunto per questo, perché comprendendo che nessuno può essere felice hai comunque vissuto felicemente e come un saggio, perché, tra tanta vanità e ignoranza degli uomini, non volevi sembrare più saggio di quanto potessi esserlo giudicato. Ma chi è questo tanto molesto e impudente? ANIMA Ti prego, non ti arrabbiare con lui, era un carissimo amico. CAR. Mi meraviglio che ci sia potuta essere una qualche amicizia tra due persone così diverse. ANIMA Se è proprio di un amico fare il bene dell’amico, costui è stato per me utile più di un amico. Era il mio vicino di casa e, dato che litigava sempre con la moglie, mi insegnò anzitutto a evitare le seconde nozze; e poi, dato che per ogni piccola cosa tormentava me e gli altri vicini, mi insegnò a sopportare tutti gli altri uomini. E quale beneficio più grande può arrecare un amico che quello di istruire correttamente l’amico? A ragione, dunque, l’ho amato e l’ho considerato un amico.

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CHAR. Ex omni parte sapientia se ostendit tua. Tu vero, molestissime homo, quid tibi volebas istis moribus? UMBR. Quod ipse sum consecutus. CHAR. Quodnam illud? UMBR. Quod ut eram musca, sic habebar ab omnibus.56 CHAR. Unum illud puto tibi vehementer doluit, aculeis quod careres. UMBR. At verba mihi erant aculei, quibus ego vel vincebam culices. CHAR. Digna tibi pro factis istis et a culicibus et a crabronibus infligetur poena;57 verum age, hospes Etrusce, quando percuntari singulos agendo remo nimis magno est impedimento et iudices iam abisse e ripa video, edoce in tanta multitudine si quos ipse noveris. [63] UMBR. Geretur tibi mos: hic qui se primum offert mendacissimus fuit omnium quos unquam viderim. Illud autem maximum iudicat mendaciorum quibus usus est unquam, quod cum uxore (ut ex eo aliquando audivi) nunquam se litigasse asseveraverit. Is qui eum sequitur adolescens in maximis vixit divitiis, senex in summam inopiam redactus est, quippe cuius studium fuerit ex aere fumum, e fumo metallum facere. Nam dum aurum ex fornace quaerit, sua omnia in ignem coniecit. Tertius ille non modo libidinosissimus, verum etiam immanis fuit, qui nec brutis abstinuerit. Duo illi, alter perniciosissimus

56 Cfr. «muscast meu’ pater, nil potest clam illum haberi» (Plaut. Merc. 361): il passo è postillato da Pontano, vd. Cappelletto, “Lectura Plauti”: 92-93, 175. 57 Cfr. «Questi sciaurati, che mai non fur vivi, / erano ignudi e stimolati molto / da mosconi e da vespe ch’eran ivi. / Elle rigavan lor di sangue il volto, / che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi / da fastidiosi vermi era ricolto» (Inf. 3, 64-69).

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CAR. La tua saggezza si mostra in ogni azione. Ma tu, uomo oltre modo molesto, a cosa miravi comportandoti così? ANIMA A quello che ho ottenuto. CAR. Ovvero? ANIMA Di essere considerato da tutti una mosca, perché ero fastidioso come una mosca. CAR. Immagino che ti dolessi soltanto di non avere il pungiglione. ANIMA Ma le parole erano il mio pungiglione con il quale superavo le zanzare! CAR. Per queste colpe i calabroni e i mosconi ti infliggeranno la pena che meriti; ti prego, ospite toscano,112 dal momento che esaminare le anime una a una reca un grande impedimento all’opera del remo, e i giudici, a quanto vedo, sono ancora lontani, dimmi se hai conosciuto qualcuna tra le anime che si affollano qui. [63] ANIMA Farò come vuoi: questo che per primo si fa avanti è stato il più grande bugiardo che io abbia mai conosciuto. La sua bugia più grande (l’ho sentita con le mie orecchie) l’ha detta quando un giorno ha affermato di non aver mai litigato con la moglie. Quello che lo segue da ragazzo visse nel lusso più sfrenato, da vecchio si ridusse in completa povertà perché si era messo in testa di trasformare l’aere in fumo e il fumo in metallo. E mentre cercava di ottenere l’oro con la fornace gettava nel fuoco tutti i suoi averi.113 Il terzo che vedi fu non soltanto oltre modo libidinoso ma anche bestiale: non si asteneva nemmeno dalle bestie. Di quegli altri due uno fu un rovinoso 112 Caronte, ormai convinto a pieno della sua saggezza, si rivolge all’anima toscana apostrofandola come «ospite», lo stesso termine che adopererà per l’anima del filosofo umbro. Il termine allude scherzosamente al personaggio dell’ospite ateniese, alter ego dell’autore nelle Leggi di Platone. 113 Riferimento all’attività degli alchimisti intenti a spendere cifre considerevoli nel tentativo di trasmutare i metalli in oro, cfr. § 14.

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assentator fuit, leno alter pellacissimus, quibus artibus primos sibi et ad caesares et pontifices aditus fecere. At ille alius accusando maximas comparavit divitias; cui cum praeter insimulationem ac maledicentiam nihil dulce esset, arte hac primum apud principes locum tenuit; quae ego magis scio quod mihi relata essent a tribulibus quam quod nosse ea studerem. At illum tam severa et tristi fronte et novi et suspexi utpote omnium quos ipse viderim integerrimum et certe natum ad recte informandos animos; qui cum et verbis philosopharetur et moribus, quae ipse dissereret, ea re atque exemplo comprobabat; cuius operae precium fuerit audire orationem. CHAR. Nihil est quod magis cupiam; sed quaenam illi patria? UMBR. Ab Umbris ducebat originem. [64] CHAR. Hospes Umber, adventum ad Manes tuum gratulor, tum quod liberatus sis omnino curis iis quae mortales habeant tam male, tum quod audire te vehementer cupio. Novi enim quantus sis philosophus; quamobrem unde tibi maxime videtur exordiens, perge de virtute dicere, dum illuc in portum deferimur. UMBR. Nec ingratum est quod postulas nec difficile.

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adulatore, l’altro un lenone astutissimo: entrambi con le loro arti ottennero i primi posti nelle corti degli imperatori e dei vescovi. Quell’altro, invece, accusando gli altri si procurò enormi ricchezze; e per quanto non ci sia niente di gradevole nella simulazione e nella maldicenza, tuttavia con queste arti tenne il primo posto nel cuore dei principi; io, su queste questioni, so soltanto quanto mi è stato raccontato da miei conoscenti dato che evitai di sperimentare tali cose. Ma quello, con il suo aspetto tanto severo e la fronte corrucciata, lo so per certo, fu l’uomo più onesto che io abbia mai conosciuto, nato senza dubbio per educare gli animi. Filosofeggiava con le parole e con le azioni; quel che teorizzava con le parole lo dimostrava nei fatti e con l’esempio; come ricompensa pretendeva soltanto che lo si ascoltasse. CAR. Mi piacerebbe molto ascoltarlo. Ma qual era la sua patria? ANIMA Era originario dell’Umbria.114 [64] CAR. Ospite Umbro, mi congratulo che tu sia giunto presso le anime dei morti, perché ti sei liberato di tutti i mali che affliggono gli uomini e perché desiderio ardentemente ascoltarti. Ho saputo quale filosofo sei stato; per questo, se ti sembra il momento adatto, ti prego di discettare sulla virtù mentre giungiamo in porto. ANIMA Quello che mi chiedi non è difficile e non mi 114 Difficile identificare l’anima umbra con un personaggio storico; si potrebbe pensare a Tommaso Pontano (1410 ca.-1450), giureconsulto ed umanista, che svolse un ruolo importante nella formazione di Giovanni (si vd. la Cronologia) e che nel De Principe è ricordato come un «uomo famoso per cultura ed esperienza di vita» ed autore di alcuni detti discussi nel trattato (cfr. Princ. §§ 8 e 35); tale ipotesi, però, mal si sposa con la cronologia del dialogo. Ad ogni modo l’origine umbra di tale personaggio è da considerarsi un omaggio alle proprie origini che non sorprende in Pontano che continuò a qualificarsi nei suoi scritti come «umber» sino a quando nel 1471 gli fu concessa la cittadinanza napoletana (cfr. Monti Sabia, Profilo biografico: 7).

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Et quoniam de virtute ut dicam exigis, nescio quid audire ipse malis quam quae vis sit eius et qui capiantur inde fructus. Etenim cum inter deos atque homines tantum intersit quantum norunt omnes, nec solum spatio, sed natura, nonne admirabilis virtutis vis haec est, quod et deos hominibus conciliat in vita et post mortem illorum, coetui eos adiungit? Nam cum virtus medium quoddam sit extrema quae videantur in agendo fugiens, quae maxima illius laus est, haec certe summa est vis eius, quod eadem haec ipsa virtus inter Deum et hominem medium tenet, quo quidem dempto medio, nullus est ad Deum accessus, nulla quae ad illum perducat via, quae et ipsa principio Deum cognoverit et qui secundum se vixissent inter divos retulerit. Coetera cum fluxa et fragilia sint, auferri temporis momento possunt, at virtus firmum et stabile bonum est. Quae cum nullius sit externae rei indigens, alia tamen omnia absque illa manca sunt, hucque atque illuc incerta feruntur. Felicem igitur qui bene agendo recteque intelligendo perfectam fuerit virtutem assecutus, qui cupiditates compescens et quasi extra pericula positus, liber ac securus vixerit, cumque sibi ipse lex esset, leges nequaquam timuerit et tanquam omnia sub pedibus subiecta haberet, tutus incesserit contra populi rumores, contra tyrannorum libidines, atque adversus fortunam ita steterit, ut ingruentem eam a se repulerit, neque manum porrexerit blandienti! [65] CHAR. Quam vere et supra quam dici potest magnifice de virtute locutus es! Ac, per Plutonem, oratio ista hominum expressit felicitatem; quam parum tamen animo cernentes caecitate sua in perniciem magis volentes eunt quam coacti trahuntur.58 Quotus enim ex his, quos innume-

58 Cfr. «Idem in hac magna re publica fit: boni viri laborant, impendunt, impenduntur et volentes quidem; non trahuntur a fortuna, sequuntur illam et aequant gradus» (Sen. Dial. 1, 4).

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è sgradito. E dal momento che vuoi che io parli della virtù, non so cos’altro potresti voler ascoltare se non quale sia la sua forza e quali frutti se ne colgano. Dato che tra gli uomini e gli dei c’è quell’abisso che tutti conoscono, che riguarda non soltanto lo spazio fisico che li separa ma anche la loro stessa natura, non è forse ammirevole la forza della virtù che in vita riesce a conciliarli e in morte li unisce? Dato che la virtù è un giusto mezzo che fugge gli estremi presenti nell’agire, la sua lode più grande consiste nella sua più alta virtù, ovvero tenere una posizione intermedia tra Dio e gli uomini. Senza questo giusto mezzo non c’è alcuna strada che conduca a Dio; la virtù stessa in principio conobbe Dio ed ha collocato tra i beati quanti sono vissuti seguendola. Tutte le altre cose, che sono fluttuanti e fragili, possono essere spazzate via in un solo istante mentre la virtù è un bene che rimane fermo e stabile. E mentre la virtù non ha bisogno di beni esterni, tutte le altre cose senza la virtù sono imperfette e trasportate instabilmente di qui e di là. Dunque può dirsi felice chi, agendo bene e ragionando nel modo giusto, abbia raggiunto una perfetta virtù; colui il quale, astenendosi dalle cupidigie, postosi quasi fuori pericolo, viva libero e sicuro, perché lui stesso è legge per se stesso, non teme le leggi e tiene ogni cosa, per così dire, sotto i suoi piedi, e procede sicuro al cospetto delle maldicenze del volgo e delle voglie dei tiranni e rimane saldo contro la fortuna: allontana le sue minacce e non si fa blandire dalle sue carezze. [65] CAR. Hai parlato della virtù in un modo così magnifico e così vero! Per Plutone! Questo discorso esprime perfettamente la felicità degli uomini; eppure gli uomini, non adoperando l’animo per osservare le cose, a causa della loro cecità si dirigono spontaneamente verso la rovina. Quanti di quelli che ogni giorno trasporto accusano se

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rabiles quotidie transveho, non se ipsum incusat? Non stultitiam, quanquam sero, queritur suam? Quo magis, optimi hospites, vestrum utrique gratulor, qui et in agendo et in perspiciendo veritatem sic secuti atque adepti fueritis, ut quam a vulgi ignorantia longissime recessistis, tam ad felicitatem proxime accessisse videamini. Sed iam, ut videtis, cursum hunc confecimus, et me traiiciendis aliis opus est regredi, vos ut descendatis. Ite igitur felices, et quo animo vitam traduxistis mortem etiam feratis, per quam iam estis immortalitatis viam ingressi. Tu vero, sapientissime Mercuri, gregem hunc coge, et ubi videbitur, ad iudices propera. MERC. Ego vero propero, vos sequimini. XIII. GREX UMBRIUM NOCENTIUM59 Pergamus miseros visere Manes, flendo in lucis prodimus auras, flendo transigimus tempora vitae, tristem flendo navimus amnem. Et quod restat iter hoc quoque flendo infelices conficiamus. Minois miseris ora ferenda et formidata Aeacus umbra,

59 Il metro è una commistione di dattili e spondei; per un’analisi metrica di tali versi vd. Haig Gassier, Notes: 361. Il coro intonato dalle anime dei morti durante la navigazione è ispirato molto probabilmente al Cataplus lucianeo, dialogo nel quale i ricchi, costretti a mettersi ai remi della imbarcazione infernale come degli ergastolani, emetteno all’unisono dei lamenti che il personaggio del filosofo cinico Cinisco definisce un «controcanto» con il quale accompagnare la «cantilena marinaresca» intonata da Caronte (Luc. Cat. 20).

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stessi! Quanti si lamentano, sebbene tardi, della propria stoltezza! Per questo a maggior ragione, ottimi ospiti, mi congratulo con entrambi che nell’agire e nel pensare avete seguito da vicino la verità in modo da tenervi lontano quanto più è possibile dal volgo, sino ad avvicinarvi alla felicità. Ma ormai, come vedete, abbiamo concluso il nostro viaggio e io devo tornare indietro a raccogliere altre anime, mentre voi dovete scendere. Andate, dunque, felici e con quell’animo col quale avete trascorso la vita accogliete la morte, attraverso la quale siete giunti all’immortalità. Tu, sapientissimo Mercurio, raccogli questo gregge e, quando ti sembra il momento, portalo dai giudici. MERC. Farò così; seguitemi.

XIII. CORO DELLE ANIME COLPEVOLI Ce ne andiamo, miseri, tra i morti: piangendo venimmo alla luce, trascorremmo la vita piangendo, piangendo solchiamo il triste fiume e anche il poco cammino che resta in lacrime per noi si compie. Il volto di Minosse ci attende, l’ombra terribile di Eaco

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spectandusque truci cum Rhadamantho. Nos latranti Cerberus ore, nos et multiplici gutture serpens pascetque atro trux leo rictu. XIV. GREX UMBRARUM INNOCENTIUM60 Nos Favoni lenis aura et virenti prata flore, nos beatis rura campis perpetuique manent tempora veris. Mella nobis sponte manent, vina largo fonte sudent ac liquenti lacte rivi, grataque decutiant balsama rami.

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Il metro adoperato è un dimerico trocaico; vd. Haig Gassier, Notes: 361.

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e Radamanto mirabile e truce. Ci pascerà Cerbero il latrante, il serpente dalla mille gole, e il leone dalle truci fauci.

XIV. CORO DELLE ANIME INNOCENTI Lietamente per noi spira il dolcissimo Faone, e di fiori si riveste ogni prato ed ogni colle nell’eterna primavera! Sgorgherà spontaneo il miele ed il vino nelle fonti come il latte scorre a fiumi mentre il balsamo sui rami odoroso si diffonde.

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I. Forestiero siciliano, Compatre [Presentazione del Portico e di Antonio] Il Forestiero siciliano domanda a Compatre dove si trova il Portico Antoniano dal momento che desidera conoscere Antonio ed assistere ad una delle riunioni di dotti che lì si svolgono [§ 1]; il Compatre, dopo aver riferito che Antonio è deceduto [§ 2], espone alcune affermazioni di Antonio in merito alla virtù [§ 3] e riferisce il carme pugliese per difendersi dal veleno dei cani rabbiosi che egli aveva «canticchiato» un giorno per scherzo [§ 4]; il Compatre riporta le opinioni di Antonio sui pugliesi, «i più felici di tutti i mortali» [§ 5]; il Compatre critica il popolo napoletano, corrotto dai Catalani [§ 6]. II. Il Compatre, il viaggiatore, Forestiero siciliano [I grecizzanti] Un viaggiatore espone al Compare e al Forestiero i suoi timori per l’imminente nascita nel Regno di un numero preoccupante di basilischi [§ 7]; il Compatre commenta la follia dell’uomo con una novelletta, analoga a quelle raccontate in simili occasioni da Antonio [§ 8]; sopraggiunge un banditore che legge l’editto col quale il Re impone ai «grecizzanti» di non molestare Giovanni Pontano [§ 9]; il Compatre spiega al Forestiero che si tratta di giovani insuperbiti per i loro studi di Greco [§ 10]; entra in scena un

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grecizzante, intento a recitare versi di Pindaro [§§ 10-11]. Errico Puderico si unisce al Compatre e al Forestiero. III. Errico Puderico, un adolescente, un vecchio [La decadenza dei costumi] Errico critica la decadenza dei costumi nel Regno: i giovani sono dediti soltanto alle prostitute, la virtù è sbeffeggiata [§ 12]; sopraggiunge il servitore di un vescovo che, interrogato da Errico, narra la disavventura accaduta al suo padrone [§ 13]; Errico, dopo aver criticato la decadenza del sacerdozio, propone di ascoltare la serenata di un vecchio innamorato di una fanciulla [§ 14]; Errico interroga il vecchio che elogia la sua condizione di innamorato [§ 15]; per commentare tale incontro Errico descrive una sorta di visione allegorica della follia che tormenta Napoli [§§ 16-17]. Andrea Contrario ed Elisio Calenzio si uniscono alla compagnia. IV. Andrea Contrario, Compatre, Elisio [Difesa di Cicerone e Virgilio dalle accuse dei grammatici] Il Compatre e Andrea si prendono gioco dei grammatici «in tutto e per tutto simili a dei cagnetti» secondo le parole di Antonio [§ 18]; dopo aver criticato l’arroganza dei grammatici che preferiscono Quintiliano a Cicerone [§ 19], Andrea mostra la superiorità della definizione ciceroniana di eloquenza nei confronti di quella quintilianea [§§ 20-27]; dopo che Contrario ha riferito alcune facezie sui grammatici attribuite ad Antonio [§ 28], Andrea prosegue il suo discorso con una comparazione tra la definizione di status in Cicerone e la definizione di status in Quintiliano [§§ 29-36]. Su richiesta di Andrea, Elisio si propone di difendere Virgilio dalle accuse mosse dai grammatici [§ 37]; per confutare la loro opinione, argomenta che la descrizione dell’eruzione dell’Etna nel III dell’Eneide è perfettamente riuscita e niente affatto inferiore alla descrizione dell’Etna che si legge in Pindaro [§§ 38-52]; passa

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quindi a confutare le critiche di inverosimiglianza mosse da Macrobio alle motivazioni escogitate da Virgilio per la guerra tra Enea e i Latini [§§ 53-55]; dopo aver tacciato Macrobio di scarsa conoscenza del latino [§ 56], Elisio difende l’inventiva dei poeti [§ 57] e confuta le critiche di Macrobio alla descrizione della Fama nel IV dell’Eneide [§§ 58-60] e agli episodi relativi alle armi di Enea [§§ 61-65]; quindi prosegue difendendo Virgilio dalle accuse di inesattezza storica riportate in Gellio [§§ 65-67]; a questo punto Elisio interrompe la sua discussione, per il timore di non essere all’altezza di proseguire elogiando Virgilio, come l’argomento richiederebbe [§ 68]; interviene Andrea proponendo le riflessioni di Antonio in merito alle differenze tra Virgilio e Omero nei cataloghi degli eroi e nelle descrizione delle battaglie [§§ 69-72]; Compatre conclude la discussione ricordando l’opinione di Antonio, secondo il quale Virgilio ed Omero vanno onorati ed obbediti in quanto sovrani della poesia greca e latina [§§ 73-75]. Entra in scena Errico Suppazio [§ 76]. V. Suppazio, Errico [Il viaggio di Suppazio] Suppazio intraprende il racconto del suo viaggio per l’Italia alla ricerca di «uomini sapienti» [§ 77]; dopo aver sostato a Siena, Pisa, Prato Firenze, Genova e Talamone senza incontrare nemmeno un uomo sapiente [§ 78], raggiunge Roma [§ 79], dove si imbatte in un maestro di scuola che lo prende a pugni per una divergenza in merito a questioni grammaticali [§ 80], istillando in lui la paura dei grammatici [§ 81]; una simile disavventura si ripete a Terracina [§ 82]; Suppazio espone le osservazioni grammaticali [§§ 83-90] che gli sono costate una terza aggressione da parte di un grammatico [§ 91]; a Gaeta Suppazio incontra una fattucchiera che gli espone le malefatte dei frati che vivono nel monastero vicino [§ 91]; allontanatosi dalla donna, incontra in riva al mare i pescatori intenti a scegliere il pesce migliore per i frati del vicino monastero [§ 92]; giunto a

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Formia, si imbatte nell’amante di un teologo che gli espone alcune riflessioni sulla natura convenzionale e relativa della morale [§§ 93-94]; Errico interviene ricordando le posizioni di Antonio sui teologi contemporanei [§ 95]; Suppazio prosegue il racconto riferendo uno scambio di facezie con uno studioso di medicina [§ 96]; l’ultimo tratto del viaggio, da Capua a Napoli, è l’occasione per una comica disavventura che muta Suppazio in Lutazio [§ 97]; concluso il suo racconto, Suppazio si allontana per recarsi a casa di Pontano, il quale, a quanto ha sentito dire, si è fatto male ad un ginocchio [§ 98]. VI. Forestiero napoletano, Compatre, Lucillo figlio di Pontano [Le disavventure coniugali di Pontano] Compatre descrive al Forestiero l’aspetto di Pontano [§ 99]; Lucillo, dopo aver salutato il Compatre, riferisce le parole con le quali sua madre, in preda alla gelosia, ha assalito suo padre [§ 100]; prima di prendere commiato, Lucillo canta il «carme vomitatorio» per calmare le donne quando sono infuriate [§ 101].

VII. Errico, Suppazio, il Cantore, il Forestiero [L’intermezzo poetico e il corteo di uomini mascherati] Suppazio, di ritorno dalla casa di Pontano, si lamenta della petulanza femminile; entra in scena un cantore, al quale Errico chiede di dare dimostrazione della sua arte; il cantore intona tre componimenti poetici di carattere elegiaco [§ 102]; conclude la sua esibizione con un elaborato canto bucolico [§ 103]; rispondendo agli elogi di Errico, afferma di essersi dedicato alla poesia col massimo impegno ma non avere raggiunto i risultati che avrebbe voluto a causa degli impegni e delle «condizioni ostili dell’età presente» [§ 104]; dopo aver salutato il cantore [§ 105], Errico assiste incredulo insieme a Suppazio e al Forestiero all’irrompere nella piazza di un cantastorie seguito da un corteo di uomini mascherati [§ 106]; prima che l’esibizione abbia

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inizio i dotti abbandonano infastiditi il Portico per recarsi in casa di Pontano. VIII. Il Buffone mascherato Il buffone mascherato introduce il cantastorie che si presenta incoronato d’alloro. IX. Il Poeta mascherato Prima parte del canto dedicato ad un episodio delle guerre sertoriane. X. Il Buffone mascherato Intermezzo del Buffone. XI. Il Poeta mascherato Seconda parte del canto.

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I. HOSPES SICULUS, COMPATER NEAPOLITANUS [1] HOSP. Quaenam, quaeso, bone civis, Antoniana est Porticus? COMP. Antoniumne, hospes, requiris, an eam quae ab illo Porticus Antoniana dicitur?

I. FORESTIERO SICILIANO, COMPATRE NAPOLETANO [1] FORESTIERO Di grazia, buon uomo, qual è il Portico Antoniano?1 COMPATRE2 Sei alla ricerca di Antonio,3 forestiero, o di quel portico che da lui prende il nome di antoniano?

1 L’accademia promossa da Antonio Beccadelli prese il nome di Porticus Antoniana dal luogo nel quale si svolgevano le riunioni dei sodali. Il portico in questione si trovava nei pressi della chiesa del Purgatorio ad Arco, in via dei Tribunali (cfr. Tallarigo, Pontano: 117). 2 Petrus Compater, nome latino di Pietro Golino (1431-1501). Membro dell’accademia e poeta latino particolarmente versato, come il Panormita, nei componimenti salaci, il Compatre fu tra gli amici più stretti di Pontano, al punto che il suo corpo fu accolto nella cappella fatta costruire dall’umanista per i membri della sua famiglia. 3 Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471). Poeta, filologo, storico ufficiale degli Aragonesi, Beccadelli rappresentò per lunghi anni una figura di primo piano nel Regno tanto sul piano culturale quanto su quello politico. Nato a Palermo, e per questo noto come il Panormita, dopo aver lasciato la Sicilia in giovane età studiò diritto a Padova e Siena. Nella città toscana intraprese la composizione dell’Hermaphroditus, una raccolta di componimenti di carattere osceno che andò incontro ad una grande fortuna al momento

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HOSP. Et porticum ipsam nosse et Antonium videre cupio; audio enim pomeridianis horis illic conventum haberi litteratorum hominum; ipsum autem Antonium, quanquam multa dicit, plura tamen sciscitari quam docere solitum, nec tam probare quae dicantur quam socratico quodam more irridere disserentes; auditores vero ipsos magis voluptatis cuiusdam eorum quae a se dicantur plenos domum dimittere quam certos rerum earum quae in quaestione versentur. [2] COMP. Haec illa est porticus, sane dignus tali conventu locus, in qua desiderare nunc quidem Antonium possumus, videre amplius non possumus. Etenim solitudo ipsa meusque hic ornatus plane tibi declarare possunt amisisse nos Antonium; neque enim unquam dicam mortuum quem putem vivere, quod et ipsum paucos ante quam decederet dies acerrime disserentem audivimus, neque eius me mors angit, quae vita est bonis, sed quod iucundissima eius consuetudine sapientissimisque colloquiis est carendum. Quid

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FOR. Desidero conoscere il portico e vedere Antonio: ho sentito dire che in quel luogo, durante le ore pomeridiane, si tiene una riunione di letterati e che Antonio, sebbene dica molte cose, interroga più di quanto non insegni; non approva quello che si dice ma, secondo lo stile socratico, si prende gioco di quelli che discutono; in effetti rimanda a casa gli ascoltatori colmi di una sorta di piacere per le cose che ha detto piuttosto che informati in merito agli argomenti che si sono discussi. [2] COMP. Questo che vedi è il portico, un luogo senza dubbio degno di una riunione siffatta; qui possiamo rimpiangere Antonio, vederlo non è più possibile. La solitudine stessa di questo luogo e questo mio abbigliamento4 possono renderti manifesto che abbiamo perduto il nostro Antonio – non direi mai che è morto chi considero vivo (lo abbiamo ascoltato discutere vigorosamente su questo punto pochi giorni prima della sua dipartita). Non è, quindi, la sua morte ad affliggermi – la morte per i buoni è la vita5 – ma dover fare a meno della sua amabilissima compagnia e dei suoi dottissimi discorsi. Nelle circostanze liete che

della sua diffusione manoscritta intorno al 1426. Dopo un soggiorno a Firenze e a Roma, nel 1429 venne insignito della carica di poeta di corte dai Visconti e si trasferì a Pavia, dove fu insegnante di retorica e si segnalò per le cure prestate al testo delle commedie plautine. Nel 1434 entrò a far parte della corte di Alfonso V, allora provvisoriamente stabilita a Palermo. Alfonso lo insignì della carica di consigliere regio e lo volle con sé durante l’assedio di Gaeta. Impiegato come ambasciatore e commissario regio, nel corso della sua carriera politica fu anche luogotenente del Protonotaro e presidente della Camera della Sommaria. Dopo l’entrata trionfale di Alfonso a Napoli il 26 febbraio 1443 divenne una figura di riferimento della nuova corte. Insignito dal sovrano di innumerevoli onori e prebende (gli fu persino concesso di fregiare il proprio stemma gentilizio con le armi aragonesi), fu protagonista di aspre polemiche con alcuni degli umanisti presenti a corte come Lorenzo Valla e il Porcelio. 4 Il Compatre indossa il lutto. 5 Allusione alla beatitudine, cfr. più avanti il § 98: «ora [Antonio] si trova tra i beati, sciolto da ogni preoccupazione umana».

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enim erat laetis in rebus Antonio iucundius? Quid rursus in turbatis atque asperis gratius? [3] Incredibilis quaedam in eius oratione vis inerat res humanas contemnendi ferendique fortuitos casus aequo animo, quippe cum omnia referret ad Deum diceretque latere nos et bonorum et malorum causas. Pleraque autem videri quae non essent mala, ut quae obiecta nobis essent a Deo, quo humana in iis constantia fortitudoque enitesceret. Quotum enim fortem inveniri, si quieta et secura omnia nobis forent? Natos esse homines ad comparandam virtutem, ad excolendos animos; neminem autem sine laboribus plurimis posse hoc assequi, sed decipi opinione nimisque demisse ac molliter nobiscum nos ipsos agere; quae fluant aquas salubriores esse magisque probari, quae vero restagnent noxias ac pestilentes esse. Nullum fortem agricolam cui non incalluerint manus, nec medicum bonum qui non plurimis ac maxime gravibus morbis curandis versatus sit ipse diutius; milites ab assuetudine perpetiendorum laborum exanclatisque periculis laudari; nullos denique artifices claros evadere, praeterquam quos assiduus labor longaque exercitatio docuisset. Optimo itaque et fortissimo cuique labores ac molestias offerri a Deo eamque veluti materiam praeberi in qua se se exerceat, cum excellentia hominum coeterorum, tum imperatores ipsi quos praecipue ament et quorum virtus est perspectior, iis gravissima et periculosissima quaeque demandent, atque hanc quidem ipsam, non quae praedam quaeritaret, maxime illustrem militiam esse. Et vero ignavi esse, imbecilli, desidis odisse labores, fugitare molestias velleque in ocio ac sub umbra marcescere. [4] Sed cum Antonio optime iam actum fue-

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cos’era più gradevole della compagnia di Antonio? Che cosa era preferibile nelle circostanze tempestose e avverse? [3] Nella sua conversazione si trovava un’incredibile capacità di disprezzare le vicende umane e di sopportare con animo impassibile i colpi della sorte, dal momento che attribuiva ogni evento a Dio e sosteneva che le ragioni dei beni e dei mali ci sono ignote. Affermava anche che molte cose che sembrano mali non lo sono, dato che rappresentano piuttosto delle prove che Dio ci pone davanti affinché la costanza e la fortezza degli uomini possa risplendere. Quanti uomini potrebbero essere considerati forti, se tutte le cose per noi fossero quiete e sicure? Gli uomini sono nati per mettere alla prova la propria virtù, per perfezionare il proprio animo; nessuno, d’altra parte, potrebbe raggiungere un simile risultato senza affrontare numerose fatiche; ci facciamo ingannare, però, da una falsa opinione e ci comportiamo con noi stessi in modo troppo meschino e troppo molle. Le acque che scorrono sono quelle più salubri e raccomandabili, quelle che ristagnano, al contrario, sono nocive e dannose. Non è un valido agricoltore chi non ha i calli sulle mani e non è un buon medico chi non ha fatto lungamente esperienza in prima persona nel curare numerose e gravi malattie; si lodano i soldati per l’abitudine a sopportare saldamente le fatiche e per aver superato i pericoli; e ancora, diventano famosi soltanto quegli artisti che sono stati edotti da una continua fatica ed un assiduo esercizio. Dio procura agli uomini migliori e più forti le fatiche e i disagi e, per dir così, li offre loro come materia nella quale esercitarsi; tutti gli uomini eminenti, infatti, e i generali in particolare, affidano le missioni più dure e pericolose a quelli che amano più degli altri e che sono dotati di una comprovata virtù – ed è questa, per inciso, non la ricerca del bottino, la forma più onorevole di milizia. Insomma, affermava che è proprio di un ignavo, di un debole, di un pigro, odiare le fatiche, fuggire i disagi e marcire oziosamente nell’ombra. [4] Ma ormai abbiamo

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rit. Ad te, hospes, potius revertar. Haec, inquam, illa est porticus in qua sedere solebat ille senum omnium festivissimus. Conveniebant autem docti viri nobilesque item homines sane multi. Ipse, quod in proximo habitaret, primus hic conspici interim, dum Senatus, ut ipse usurpabat, cogeretur, aut iocans cum praetereuntibus aut secum aliquid succinens, quo animum oblectaret; ut nuper, paucos antequam morbo aggravaretur dies, recitare eum memini, cum ego adessem una et Herricus iste Pudericus, quem hic vides. Est autem carmen, quo uti oppidatim dicebat Apulos, ad sanandum rabidae canis morsum; insomnes enim novies sabbato lustrare oppidum, Vithum nescio quem e divorum numero implorantes; idque tribus sabbatis noctu cum peregissent, tolli rabiem omnem venenumque extingui. Quod carmen quia memoria teneo, referam illud, si placet. HOSP. Atqui pergratum feceris. [Metrum I]1 COMP. Alme Vithe pellicane, oram qui tenes Apulam litusque Polignanicum, qui morsus rabidos levas irasque canum mitigas, tu, sancte, rabiem asperam rictusque canis luridos,

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I versi 1-8 sono un glicone, il verso 9 un esametro, cfr. Mariotti, Per lo studio: 283-284.

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trattato a sufficienza quel che riguarda Antonio. Piuttosto, straniero, tornerò ad occuparmi di te. Questo, dicevo, è il portico nel quale era solito sedere il più amabile di tutti i vecchi. Qui si radunavano in gran numero uomini in egual modo dotti e nobili. Dato che abitava qui vicino, era il primo a farsi vedere da queste parti mentre il Senato, come lo chiamava lui, si andava radunando: scherzava nel frattempo con i passanti oppure canticchiava fra sé qualche verso per sollevare l’animo. Mi ricordo che non molto tempo fa, pochi giorni prima che fosse sopraffatto dal suo male, l’ho sentito recitare in questo modo alcuni versi – con me c’era Errico Puderico6 che vedi accanto a me. Si tratta di un carme al quale, stando a quanto lui ci diceva, ricorrono i pugliesi nelle loro città per curare il morso dei cani rabbiosi: durante la notte del sabato attraversano insonni la città per nove volte e implorano un certo santo chiamato Vito.7 Dopo aver fatto così, di notte, per tre sabati di seguito, la rabbia viene via e il veleno si estingue. Mi ricordo a memoria quel carme e se vuoi te lo posso recitare. FOR. Mi piacerebbe molto ascoltarlo. COMP. Propizio Vito scacciacane che reggi le coste di Puglia e il lido di Polignano, che levi i morsi rabbiosi e mitighi l’ira dei cani, tu, santo, allontana la rabbia e le sozze fauci canine: 6

Nobiluomo napoletano (morto tra il 1472 e il 1475), celebrato da Pontano nell’opera poetica (Tum. 1, 28, Serm. 4, 3, 12). A suo figlio Francesco il Summonte dedicò l’edizione postuma dell’Actius (cfr. Dialoghi: 123-125). 7 Martire siciliano del IV secolo, annoverato tra i santi ausiliatori, veniva invocato per curare diverse malattie ma in particolare la rabbia; l’iconografia del santo, infatti, lo rappresenta accompagnato da due o più cani.

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tu saevam prohibe luem. I procul hinc, rabies, procul hinc furor omnis abesto. [5] HOSP. Sane luculentum carmen et perquam facilem Apulis ipsis deum! COMP. Felicissimos omnium eos mortalium dictitare solebat Antonius. HOSP. Qui regionem incolerent tam intemperatam? COMP. Etenim coeteros quidem homines cum nulli non stulti essent, vix stultitiae suae ullam satis honestam afferre causam posse, Apulos vero solos paratissimam habere insaniae excusandae rationem: araneum illum scilicet, quam tarantulam nominant, e cuius ammorsu insaniant homines; idque esse quam felicissimum, quod, ubi quis veliet, insaniae quem suae fructum cuperet etiam honeste caperet. Esse autem multiplicis venenis araneos atque in iis etiam qui ad libidinem commoverent, eosque concubinarios vocari; ab hoc araneo ammorderi quam saepissime solere mulieres licereque tum illas fasque esse libere atque impune viros petere, quod id venenum alia extingui ratione nequeat, ut quod aliis flagitium, mulieribus id Apulis remedium esset. An non summa haec tibi quaedam felicitas videatur? HOSP. Per Priapum, summa! COMP. Parce, hospes, oscenis, obsecro. HOSP. Atqui putabam mihi in Osca regione uti oscenis

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debella il male funesto. Via, dunque, via rabbia! Vai via furore molesto!

[5] FOR. Un carme davvero eccellente e un santo assai ben disposto nei confronti dei pugliesi! COMP. Antonio ripeteva sempre che i pugliesi sono più felici di tutti i mortali. FOR. Anche se vivono in una regione dal clima così eccessivo? COMP. Diceva che tutti gli altri uomini possono a mala pena trovare una causa onesta alla quale attribuire la propria stoltezza (e non ci sono uomini che non siano stolti), mentre soltanto i pugliesi hanno sempre a portata di mano una valida scusa per giustificare la loro follia, vale a dire quel ragno che si chiama tarantola il cui morso fa impazzire gli uomini; e questa è la circostanza più felice di tutte, dato che, ogni qual volta qualcuno desidera cogliere il frutto della propria follia può farlo in modo onesto. Ci sono infatti, diceva, ragni con differenti veleni e ce ne sono anche di quelli che spingono alla libidine (si chiamano concubinari); le donne si fanno mordere spesso e volentieri da questo ragno e in questo modo è lecito loro ricercare liberamente e impunemente il maschio, dato che non c’è altro modo per estinguere il veleno: quello che per le altre donne è un crimine per le donne pugliesi è una medicina. Non ti sembra questa la felicità più grande? FOR. Per Priapo,8 senza dubbio! COMP. Ospite, ti prego, astieniti dalle parole oscene. FOR. Eppure credevo che nella regione degli Osci9 8 Dio agricolo, protettore degli orti e dei vigneti, rappresentato nell’iconografia antica con un fallo di smisurate dimensioni. 9 Popolazione dell’Italia pre-romana appartenente al gruppo osco-umbro che abitava nell’attuale Campania.

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licere, cum populariter audiam iurari per deorum ventres perque iecinora atque per eam partem cuius ipsos etiam Cynicos perpuderet. [6] COMP. An ignoras pessimum morum auctorem populum esse? Quid enim habet quod maximo etiam iure non improbes? Atque hanc quidem iurandi impuritatem mare attulit, utinamque hoc solum a Catalanis didicisset noster populus! Sicam ab iis accepimus, nec est quod Neapoli quam hominis vita minoris vendatur; quod nisi vester Blancas, Aesculapius alter, curator accessisset, maiorem civium partem excisis auribus, labiis, aut naso mutilo videres. Scortari quoque sine pudore didicimus atque in propatulo habere pudicitiam. Iuventus nostra lustris dedita quod locandis noctibus a meretricula quaeritur ipsa die ligurit; ideoque innocentissimus olim populus, dum a Catalonia reliquaque Ispania comportandis gaudet mercibus, dum gentis eius mores ammiratur ac probat, factus est inquinatissimus. Sed quando accusari haec possunt magis quam corrigi nec satis est tutum, dicere de

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fosse permesso utilizzare parole oscene, dato che sento dire che popolarmente si giura per il ventre e le interiora degli dei e per quella parte del corpo della quale si vergognano anche i cinici. [6] COMP. Non sai che il popolo è una pessima autorità in campo di costumi? Quale caratteristica possiede che tu non possa biasimare a ragion veduta? Questo modo impuro di giurare ce lo ha portato il mare, e magari il nostro popolo avesse appreso soltanto questo dai Catalani!10 Da loro abbiamo accolto il coltello e ormai a Napoli non c’è cosa che si venda a minor prezzo della vita di un uomo; se il tuo Branca,11 un secondo Esculapio,12 non fosse giunto a curarli, vedresti la maggior parte dei napoletani senza orecchie, senza labbra e con il naso mozzato. Abbiamo imparato a frequentare le prostitute senza pudore e a mettere all’asta la pudicizia. I nostri giovani, dediti ai bordelli, durante il giorno si arrabattano per procurarsi quanto chiede una puttanella per affittare le sue notti. In questo modo un popolo che un tempo era privo di vizi, mentre gode delle merci importate dalla Catalogna e dal resto della Spagna, mentre ammira e approva i costumi di quella gente è divenuto oltre modo corrotto. Ma dal momento che queste cose si possono piuttosto denunciare che cor10 Il Compatre si fa portavoce dei sentimenti anticatalani di parte consistente della nobiltà napoletana. Il malcontento nei confronti dei catalani riguardava anche la loro attività di mercanti e finanzieri, intenti a monopolizzare la politica economica del regno e, nell’ottica moralistica dei nobili decaduti, a corrompere i costumi: «Non si contano [...] i catalani tra doganieri, credenzieri di fondaci, maestri portolani così negli anni ‘70 come alla fine del regno di Ferrante, e fin dopo la sua morte, alle soglie del nuovo regime spagnolo» (Del Treppo, Il Regno Aragonese: 109). 11 Branca de’ Branchi, medico catanese, giunto a Napoli intorno al 1450, vd. Monti, Ricerche: 283 n. 126. 12 Medico dotato di abilità straordinarie, dopo la sua morte, secondo il mito, venne accolto in cielo dove venne mutato nella costellazione del Serpentario.

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populi moribus desinamus. Quod autem ad iusiurandum attinet, Scythas maxime laudare solebat Antonius, quibus non per deorum capita aut corda, ut his ipsis Ispanis, non per corpora, ut nostris, sed per convictum iurare mos esset; at Poenos maxime irridere, qui per triplex iurarent uxoris repudium, quippe quam ubi ter quis repudiasset, revocare amplius in domum fas non esset. Sed qui praeterit percunctandus est, ut Antonium iam agamus.

II. COMPATER NEAPOLITANUS, PEREGRINUS, HOSPES SICULUS, COLLOCUTORES

[7] COMP. Heus, viator. PER. Sessores, salvete. COMP. Tu, ut video, de sole aestuas. PER. At vos, ut sentio, de umbra frigetis. COMP. Hic homo sitit, ni fallor. PER. Hi madescunt, quod satis scio. COMP. Heus, hospes, dic, quaeso. PER. Heus, cives, tacete, obsecro. COMP. At nos scire ex te quaedam volumus. PER. At ego sciscitari pauca. COMP. Sciscitator; vacat, atque etiam, si placet, sedeto.

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reggere e dato che farlo non è sicuro, smettiamo di parlare dei costumi del popolo.13 Per quanto riguarda il modo di giurare, Antonio era solito lodare in sommo grado gli Sciti presso i quali è in vigore l’usanza di giurare non per la testa o per il cuore degli dei, come fanno gli Spagnoli, né per i loro corpi, come fa il nostro popolo, ma per il banchetto; al contrario era solito irridere in sommo grado i Fenici che sanciscono solennemente il ripudio della propria moglie con un triplice giuramento: la donna di chi ha giurato tre volte non può più essere accolta nella casa del marito. Ma basta così: ora dobbiamo recitare la parte di Antonio ed interrogare quanti passano per via.

II. COMPATRE NAPOLETANO, IL VIAGGIATORE, FORESTIERO SICILIANO, INTERLOCUTORI. [7] COMP. Ehi, viaggiatore! VIAGGIATORE Salute a voi che siete seduti.14 COMP. Da quello che vedo sei cotto dai raggi del sole. VIAG. E voi, a quel che vedo, rabbrividite a causa dell’ombra. COMP. Costui ha sete, se non erro. VIAG. Costoro, ne sono certo, sono pieni di vino. COMP. Ehi, forestiero, dicci qualcosa, di grazia. VIAG. Ehi, cittadini, tacete, vi prego. COMP. Ma noi vogliamo sapere da te qualche cosa di nuovo. VIAG. Veramente io vorrei porre alcune domande. COMP. Ponile pure, c’è tempo; siediti con noi, se ne hai voglia.

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Cfr. per un analogo invito alla dissimulazione Char. § 5. I membri dell’Accademia, durante le riunioni del «Senato», sedevano sui sedili di marmo posti all’ombra del portico. 14

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PER. Ad regem propero; ad regiam utra ducit via? COMP. Utraque; sed quaenam salutandi regis causa?

Hoc enim ipsum scire cupimus, itaque vicem redde. PER. Nimis quam timeo nostrae reipublicae, ne paucis post annis occidione occidant populi. COMP. Ab gladione, an a pestilentia, an a diluvione timendum est nobis? Equidem et te siderum progressiones observasse reor, quando astrologorum est has clades praedicere. PER. Certiora affero: maxima in singulis non modo oppidis, sed pene domibus vis est gallorum septennium; eos satis compertum est anno septimo parere enascique basiliscos serpentes, quorum obtutu homines infecti pereant. Quod nisi a rege probe prospectum fuerit, actum est de regni Neapolitani populis; opus autem esse ut singulis in oppidis singuli deligantur cauti et solertes viri, qui haec mala gallorum caede procurent videantque ne quid respublica detrimenti capiat.2 Ego hac de causa atque ut reipublicae prosim meae, ad regem eo, vos valete. [8] COMP. Abi, bone civis deque patria bene merite. Dii boni, quam multiplex est hominum stultitia! Quam inanes cogitationes! Quid vanitatis in vita! Quanta inanissimarum etiam rerum solicitudo! An est, hospes, quod irridere hoc homine magis possis? si ridenda quam miseranda potius stultitia est nostra.

2 Il linguaggio adottato dal viaggiatore è quello solenne del senatus consultum ultimum, Haig Gassier, Notes: 363 rimanda a Cic., Catil. 1, 2, 4 e Caes. Civ. 1, 5, 3.

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VIAG. Ho fretta di giungere dal re; quale di queste strade conduce al palazzo? COMP. Vanno bene entrambe; ma per quali motivi devi presentarti dal re? Desideriamo saperlo, rendici la cortesia. VIAG. Mi preoccupa molto la condizione dello stato, temo che entro pochi anni le popolazioni del regno cadranno a causa di una carneficina. COMP. Dobbiamo temere i colpi di spada, la peste o un diluvio? Immagino che tu abbia osservato il corso delle stelle, dato che sono gli astrologi a predire catastrofi come queste. VIAG. Le notizie che reco sono più affidabili delle loro previsioni: un gran numero di galli di setti anni si trova non soltanto in ogni città ma quasi in ogni casa, ed è ben noto che durante il settimo anno i galli partoriscono e danno vita ai basilischi15 che uccidono gli uomini con il loro sguardo infetto. Se il re non provvederà adeguatamente per i popoli del regno di Napoli è la fine; è d’uopo che in ogni città si scelgano uomini avveduti e solerti che precorrano questi mali uccidendo i galli e facciano in modo che lo stato non subisca alcun danno. Io dunque, per questa ragione, per giovare al mio stato, vado dal re; vi saluto. [8] COMP. Vai pure, buon cittadino, benemerito della patria. Santi numi, quant’è varia e multiforme la follia degli uomini! Quanti pensieri vani! Quanta vanità nella vita! Quanto zelo nelle cose più inconsistenti! C’è qualcuno, forestiero, che meriti di essere deriso più di costui? Ammesso che della follia umana si debba ridere e non piuttosto piangere. 15 Animale leggendario che sarebbe in grado di uccidere con il solo sguardo; nei bestiari medievali viene rappresentato come un ibrido tra un gallo e un serpente; il particolare della nascita dalle uova di gallo risale al Venerabile Beda (672-735); sulla generazione del basilisco la scuola medica salernitana nel XIII elaborò una specifica teoria, cfr. Borniotto, Il basilisco.

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Quid, obsecro, ad haec Antonius? Fabellam hic aliquam subtexuisset, qua declarare amplius posset hominum levitatem.3 Calletiam olim mulierculam victum quaeritasse Caietae; hanc coetera vitae munera obiisse satis laboriose atque industrie. Cum autem Alfonsus rex Caietae diversaretur aliquando videretque Calletia tum viros tum matronas, omnes denique id agere, quo maxime modo regem honorificentissime exciperent, eam, pannis supra pudenda convolutis, proficiscentem ad rem divinam regem et praecedere in pompa nudato femore et recedentem in regiam eodem habitu reducere solitam, nullisque abduci potuisse rationibus, quin hoc honoris genere, sic enim dicebat, regem prosequeretur. Quocirca explicandis fabellis Antonius vel improbare quippiam solebat vel laudare. [9] HOSP. Bellissimum hominem! Sed praeconem hunc audiamus qui tantam sibi facit in populo audientiam: regium videlicet edictum; nunquam vidi turgidiores buccas. Puto ego hominem fermento vesci; quos clamores, dii boni! PRAECO Licere fasque esse Iovianum Pontanum, qui habitat in proximo, tuto egredi domo, tuto per urbem incedere, tuto etiam de rebus latinis latinum hominem disserere; istos vero graecissantis homines atque italograecos HOSP. COMP.

3 Caratteristica dell’argomentare “socratico” del Panormita così come viene ricostruito nell’Antonius è il ricorso alle fabellae, ovvero aneddoti e racconti di carattere comico che racchiudono un significato morale (cfr. Serm. 1, 10, 4).

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FOR. Dimmi, che cosa avrebbe detto Antonio di fronte a queste cose? COMP. A questo punto avrebbe aggiunto una novelletta con la quale dimostrare ulteriormente la follia degli uomini. Una tempo a Gaeta tirava a campare una donnetta di nome Callezia; aveva affrontato tutti i doveri della vita con impegno e diligenza ma quando il re Alfonso si trovò a soggiornare a Gaeta e Callezia vide che tutti, uomini e donne in egual modo, si impegnavano ad onorare come meglio potevano il sovrano, arrotolati i panni sopra le parti intime, prese l’abitudine di precedere con le cosce nude il corteo che accompagnava il sovrano alla funzione religiosa, e, nella stessa guisa, il corteo che lo accompagnava nella reggia e non fu possibile con nessuna ragione farla desistere dall’accompagnare il re con tale forma di omaggio, come lei lo chiamava. In questo modo, raccontando delle novellette, Antonio era solito biasimare od elogiare. [9] FOR. Proprio un bel tipo! Ma ascoltiamo quel banditore laggiù che ha radunato così tanti ascoltatori: sembrerebbe trattarsi di un editto regale; non ho mai visto delle guance più gonfie delle sue. Avrà mangiato del lievito, credo (il banditore suona la tromba). Santi numi, che rumore! BANDITORE La legge riconosce a Giovanni Pontano, che abita in questo Seggio,16 il diritto di uscire di casa senza pericolo e di camminare senza pericolo per la città e di discutere senza pericolo gli argomenti che riguardano il latino con gli uomini che parlano latino; gli uomini grecizzanti17 e gli italo-greci18 non possono insultarlo 16

Il seggio del Nilo. Pontano, come il Panormita, abitava poco distante dal portico, cfr. Ferrajoli, Napoli monumentale: 162-175. Con il termine seggi (o sedili o piazze) si indicavano le suddivisione amministrative dell’antica Napoli, cfr. Introduzione: 32, n. 35. 17 Gli adolescenti «tornati da poco dalla Grecia» menzionati da Compatre poco più avanti. 18 Riferimento alla popolosa comunità greca di religione ortodossa che abitava a Napoli.

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nihil ei maledicere, nihil incessere; non oculis, non barba, non superciliis, non denique ulla graeca arte illudere. Hoc regem ipsum edicere. Si quis secus fecerit, barbam ei evellere impune licere, pilleum auferre, crepidulas eripere. Quod edictum sanctum esse omnes sciunto idque tuba hac testor. HOSP. Quid? Obsecro, Ioviano huic graecine tam sunt infesti? COMP. Quin ipse graecorum est studiosissimus eorumque veneratur disciplinas ac suspicit ingenia, nec est quod graecos timeat. Esse autem nostratis quosdam adolescentes eosque nuper e Graecia rediisse, qui cum nec graece sciant nec latine, esse tamen gloriosissimos; quibus si barbam pilleolumque ademeris, nihil omnino graecum habeant. Eos, ait, et graecae et latinae orationis inculcatores esse; ubi cum graecis fuerint, mussitare, cum Latinis autem mirum esse quam graece omnia; hinc illos irasci et pene furere, horum timeri audaciam cervicesque insolentissimas. HOSP. Quid? Ipse didicitne graecas litteras? COMP. Eas adolescens attigit, sed in Italia; nam in Graecia magis nunc turcaicum discas quam graecum; quic-

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né minacciarlo in alcun modo; e non possono prendersi gioco di lui con gli sguardi, con la barba, con il sopracciglio19 né con qualsivoglia arte greca. Questo è quanto ha stabilito il re in persona20. Se qualcuno di loro agirà contro Pontano nei modi suddetti, potrà essere punito con lo strappo della barba e la requisizione del berretto frigio21 e dei sandali. Questo editto è inviolabile e tutti lo devono conoscere, come attesta il suono di questa tromba (suona nuovamente la tromba). OSP. Di cosa sta parlando? Dimmi i greci sono così ostili nei confronti di questo Pontano? COMP. A dire il vero egli è molto devoto ai greci, venera i loro insegnamenti e ammira il loro ingegno, non ha motivo, di temere i greci. Ci sono, però, alcuni adolescenti nostri compatrioti che sono tornati da poco dalla Grecia e che, pur non conoscendo né il greco né il latino, sono oltre modo vanagloriosi ma se togli loro la barba e il berretto di feltro non hanno più niente di greco. Costoro, afferma Pontano, mortificano in egual modo la favella greca e quella latina; quando si trovano in compagnia dei greci rimangono in silenzio, quando sono insieme ai latini, invece, è straordinario come in bocca loro ogni cosa sia greca! Per questo motivo sono rabbiosi, anzi quasi furiosi: la loro audacia è temibile e la loro arroganza è fastidiosissima. OSP. Ma Pontano ha imparato le lettere greche? Davvero? COMP. Le ha apprese quand’era ragazzo, ma in Italia; ormai in Grecia si impara piuttosto il turco che il greco:

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Tradizionale attributo dei pedanti e dei grammatici. Ferdinando I d’Aragona, noto come Ferrante I (1424-1494). 21 Copricapo di origine persiana noto ai greci e ai romani; Pontano lo sceglie come emblema dei grecizzanti che vantano la loro esperienza in un Oriente sede non più dell’Impero bizantino ma di quello turco. 20

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quid enim doctorum habent graecae disciplinae in Italia nobiscum victitat. HOSP. Satis haec novi; sed observemus pilleatulum4 hunc. COMP. Recte mones. HOSP. Quidnam is succinit? At vide quam sibi placet, atque utinam praeteriens salutaret! PER. Ἄριστον μὲν ὕdωρ.5 HOSP. Quid sibi haec volunt verba? COMP. Rem optimam ait esse aquam. HOSP. An hic nos accusat ur parum sobrios? Ego tam insignem iniuriam non feram. COMP. Parce, hospes, Pindarica est sententia, etiam ab Aristotele laudata. ὁ δὲ χρυσος αἰθόμενον πυ ̑ρ ἅτε διαπρεπει νυκτι μεγάνορος ἒξοχα πλουτου.6 PER.

An pergit maledicere? Desine commoveri, aurum laudat. Heus, tu, graecanice homo, quid malam in rem non te hinc proripis? Iudeis aurum et foeneratoribus laudato. COMP. Iram ponito, abiit. Hos ventris crepitibus similes dicebat Antonius; nares tantum offendere, coetera ventum esse, siquidem ventosos esse ac putidos. Sed quando suffarcinarulus7 iste iam abiit, nos ab Antoniana consuetudine aut quaerendi aliquid aut dicendi ne recedamus. Et iam dudum video Herricum hunc dicere aliquid velle; quamobrem dicentem audiamus. HOSP. COMP. HOSP.

4 5 6 7

Conio pontaniano: Sabbadini, Ciceronianismo: 79. Pind. Olymp. 1, 1. Pind. Olymp. 1, 1-2. Conio di Pontano, cfr. Sabbatini, Ciceronianesimo: 79.

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tutti i dotti che conoscono le discipline greche si guadagno da vivere qui da noi in Italia.22 OSP. Capisco; osserviamo quel tipo laggiù che indossa il berrettino frigio. COMP. Giusto. OSP. Che cosa sta canticchiando? Guarda come se ne compiace! Vorrei che ci salutasse mentre passa di qui. PASSANTE Ἄριστον μὲν ὕdωρ..23 FOR. Cosa significano queste parole? COMP. Dice che l’acqua è la cosa migliore. FOR. Ci sta forse accusando di non essere sobri? In tal caso non lascerò passare una simile offesa! COMP. Calma, forestiero, si tratta di una sentenza di Pindaro lodata da Aristotele. ὁ δὲ χρυσος αἰθόμενον πυ ̑ρ ἅτε διαπρεπει νυκτι μεγάνορος ἒξοχα πλουτου.24

PASS.

FOR. Continua ad insultarci? COMP. Smetti di agitarti, sta lodando l’oro. FOR. Ehi tu, uomo grecizzante, perché non

te ne vai in malora? Vai a lodare l’oro agli ebrei e agli strozzini! COMP. Calmati, sta andando via. Antonio diceva che costoro sono simili ai rumori che fa il ventre: offendono le orecchie ma per il resto non sono altro che vento: sono infatti ventosi e puzzolenti. Ma dal momento che questo pallone gonfiato se n’è andato, non allontaniamoci dall’usanza antoniana di domandare o dire qualcosa. Ma vedo che Errico vuole dirci qualcosa: ascoltiamolo.

22 Allusione alla recente caduta di Costantinopoli (1453) e al destino della Grecia privata della propria identità culturale, vd. Charon §§ 46-48 con relative note. 23 «L’acqua è la cosa migliore». 24 «Ma l’oro, come il fuoco che splende nella notte, illumina le ricchezze».

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III. HERRICUS PUDERICUS, ADOLESCENS, SENEX, HOSPES

[12] HERRICUS Ammonuere me qui nuper praeteriere adolescentuli Neapolitanae nobilitatis, quae prope iam interiit. Etenim cum considero iuventutem nostram praeter maiorum instituta domi ac sub porticibus desidere, eos vero qui rempublicam amministrent publicorum oblitos morum nihil nisi suas tantum res agere atque in privatum consulere, non possum non deplorare nostrae nobilitatis interitum. Dii boni, Ladislao rege quae nostrorum civium domi forisque erat industria! Quam honesta de omni virtute contentio! Certamen erat, domine senes aequitate atque consilio an foris iuventus fortitudine ac fide maiore rempublicam gererent. Itaque videres seniores praesidere provintiis, moderari populos, iuvenes in maximis rebus ac periculis regi adesse, certare quis fortiorem navare posset operam; adolescentulos mirum in modum a primis annis meditari patrium decus equitando, iaculando, semper aliquid agendo, quo ipsorum apparere posset industria. Nunc placet ocium atque mollities: sequimur scorta, desidemus in ganeis, alea in manibus est atque fritillus, turpissima quaeque habentur in precio. Contentio est cuius uxor,

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III. ERRICO PUDERICO, UN ADOLESCENTE, UN VECCHIO, LO STRANIERO

[12] ERRICO I giovinotti che ci hanno appena oltrepassato mi hanno riportato alla memoria la nobiltà napoletana che ormai è quasi estinta. Quando osservo la nostra gioventù che, contrariamente alle abitudini degli avi, se ne sta senza far niente a casa o sotto i portici e, a maggior ragione, quando vedo i membri dell’amministrazione che, dimentichi dei loro pubblici doveri, si occupano soltanto dei propri affari e si consultano in merito ai loro interessi privati, non posso fare a meno di deplorare la morte della nostra nobiltà. Santi numi, ai tempi di re Ladislao25 quanto impegno da parte dei nostri concittadini dentro e fuori i confini dello stato! Come si gareggiava onestamente per primeggiare in ogni virtù! Si discuteva su chi facesse maggiormente gli interessi dello Stato, se gli anziani, in patria, con la loro giustizia e i loro consigli, o i giovani, lontani dalla patria, con il loro coraggio e con la loro fedeltà.26 E così avresti potuto vedere gli anziani presidiare le provincie e governare i popoli, i giovani soccorrere il re nei pericoli più grandi e nei frangenti più importanti; gareggiavano in questo modo per decidere chi stava dando il contributo più sostanzioso; avresti potuto vedere anche gli adolescenti, sin dai loro primi anni, curarsi in modo meraviglioso del decoro dei propri antenati cavalcando, gettando il giavellotto, impiegando di continuo le forze in qualcosa che potesse dimostrare il loro zelo. Al giorno d’oggi sono in auge l’ozio e la mollezza: andiamo dietro alle puttane, sediamo nelle bettole con i dadi e il bussolotto tra le mani; ogni cosa che sia sordida è tenuta in grande considerazione. Si gareggia per vedere chi riesce a vendere 25

Ladislao, ultimo re Angioino di Napoli (1376 ca.-1414). Errico intende dire che gli anziani amministravano lo stato mentre i giovani combattevano lontano dalla patria. 26

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soror, filia, pluris veneat nullumque inter ignavos fortisque discrimen, nisi quod fortitudo odio est atque contemptui; ignavissimus quisque maxime carus acceptusque multitudini; iura, pietas, decus, demum omnia venalia. Sed me ipsum compescam revertarque ad Antonium atque hunc qui praeterit potius adolescentem percunctabor. Amabo, unde tantum hilaritudinis tecum affers, bone adolescens? [13] ADOLESCENS Meo ab antistite. HERR. Obsecro, nisi praeproperas, hilaritudinis tantae nobis rationem explica. ADOL. Laborabat ex intestini plenioris morbo meus antistes, de cuius salute medici cum desperassent, unus Panuntius, archiater, solam hanc salutis relictam spem docuit, si disploso intestino animam inclusam expederet. Eum igitur, cum diem totum deos orans contrivisset nec aliquid exploderet, reversus Panuntius monuit uti, corporis salute desperata, pro animae salute deos fatigaret. Tum ille in deos deasque conversus, integram fere noctem in gemitu lamentationibusque exegit, dum peccatorum condonationem ac vitae coelestis tranquillitatem coelites ipsos orat. Aderat familiaris ingenio non adeo superstitioso, qui antistitis questus precesque non satis aequo ferens animo: «Ecquaenam tandem, inquit, pater, dementia ista est, putare deos coeli tibi particulam donaturos, qui ne levissimi quidem pediti liberales esse voluerint?». Hac urbanitate captus antistes, cum in risum solveretur, intestinum exolvit, quo de risu in crepitum exoluto, statim morbo liberatus est. Haec laetitiae meae causa, haec voluptas est, qui herum salvum factum tantopere gaudeam. Is igitur post aliquot

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a maggior prezzo la propria moglie, la propria sorella, la propria figlia, e non c’è nessuna differenza tra il forte e il codardo se non che il forte è odiato e disprezzato, mentre il codardo più grande viene amato in sommo grado dalla folla. Ogni cosa è in vendita: la giustizia, le cose sacre, la gloria. Mi tratterrò; voglio tornare a comportarmi come Antonio ed interrogare piuttosto questo ragazzo che passa di qui. Di grazia, ragazzo, cosa ti rende così allegro? [13] RAGAZZO Il mio vescovo. ERR. Ti prego, se non vai di fretta, esponici la ragione di tanta allegria. RAG. Il mio vescovo soffriva travagliato da un eccesso di cibo nell’intestino; dopo che gli altri medici avevano disperato di poterlo salvare, un tale Panuzio, il medico di corte, riferì ch’era rimasta soltanto una speranza: che l’intestino si aprisse espellendo l’aria intrappolata all’interno. Dato che, pur avendo pregato i santi tutto il giorno l’intestino non si era aperto, Panuzio, una volta ritornato al suo capezzale, lo ammonì ad occuparsi con la preghiera della salute dell’animo, dato che quella del corpo era ormai compromessa. Costui, rivolgendosi ai santi e alle sante, trascorse l’intera nottata piangendo e gemendo, mentre pregava i celesti che perdonassero i suoi peccati e gli concedessero una vita beata nell’aldilà. Si trovava presente un uomo del suo seguito niente affatto superstizioso il quale, non sopportando più i lamenti del vescovo e le sue preghiere, sbottò: «Che cos’è mai, padre, questa follia? Come puoi credere che i santi ti concedano un angolo di Paradiso quando ti hanno negato anche una scorreggina?». Il vescovo, colpito dalla sagacia della battuta, iniziò a ridere e liberò il suo intestino e non appena l’aria si riversò dalla risata nella scorreggia, subito fu liberato dal male. Questa è la ragione della mia allegrezza, questo è il mio piacere: sono felice del fatto che il mio padrone sia sano e salvo. Ed adesso, dopo che sono passati un po’ di giorni

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dies confirmatis ac refectis viribus, cum ludere quantillum cupiat, Frontonillam arcessit, quam intellexit non multos ante dies facere quaestum coepisse; me, qui scortillum nossem, rogatum mittit, uti cum laverit leveritque, ad coenam eat. Dixi quae cupiebatis; abeo, vos valete. [14] HERR. O saecula, o mores!8 Fuit, fuit olim in sacerdotibus christianis continentia et castitas, dum innocentia in honore, dum paupertas in precio fuit. Nunc, proh pudor! quae non sentina mundior sacerdotio est?9 Ecce autem qui levare dolorem hunc queas; senex praeterit, octogenarius, cantitans, amore insaniens; e media scilicet Valentia delatum hoc est. Audiamus si placet.

[Metrum II]10 SENEX Ne rugas, Mariana, meas neu despice canos. De sene nam iuvenem, dia, referre potes.11 HERR. Bellissimum senem! Videtis quam blande salutat fenestellas? Quam larga etiam manu rosam spargit? Quid hoc sene delirius?

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Cfr. Cic Cat. 1, 1, 2 «O tempora, o mores!». possibile eco di Pd. XXVII, 25. 10 Distici elegiaci. Una simile alternanza di versi e di commenti di un personaggio, vd. Asinus. Il tema del senex innamorato è presente in molti dei componimenti dell’Eridianus, in part. Ad stellam deprecatio (Erid. 1, 17, 1; 1 33, Ad Amorem deum: «iungis et hinc iuvenes, iungis et inde senes»). 11 Haig Gaisser, Notes: 363 rimanda a Virg., Ecl. 2, 17-18 «O formose puer, nimium ne crede colori: / alba ligustri cadunt, vaccinia nigra leguntur». 9

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e le forze sono tornate, dal momento che desidera divertirsi un pochettino, ha mandato a chiamare Frontonilla, una ragazza che, a quanto ha sentito dire, ha intrapreso da pochi giorni la professione; ha incaricato me, che conosco la puttanella, di invitarla a cena dopo averla fatta lavare e profumare. Vi ho detto quello che mi avevate chiesto; io vado, state bene. [14] Oh tempi! Oh costumi! Vi fu un tempo nei sacerdoti cristiani la castità e la continenza, quando ancora l’innocenza era onorata e la povertà stimata. Ma ora, che vergogna!, il sacerdozio non è forse più sozzo di una cloaca?27 Ma guarda! Ecco chi può aiutarti ad alleviare il tuo dolore: un vecchio di ottant’anni che canticchia, folle d’amore;28 senza dubbio è stato trasportato sin qui dal bel mezzo di Valenza. Ascoltiamolo, se vi piace. Non disprezzar Marianna le mie rughe e la canizie. Tu che sei una dea, se lo vuoi puoi in giovane mutarmi! ERR. Ma che tipo questo vecchio! Vedete come saluta dolcemente le finestrelle della sua bella? Come sparge generosamente d’intorno petali di rosa? C’è forse spettacolo più folle di questo vecchio? VECCHIO

27 L’esclamazione sdegnata di Puderico, che per la sua violenza verbale rappresenta il culmine della polemica contro i costumi del clero presente nei Dialoghi (cfr. Char. 18 n. 35), anticipa gli umori anticlericali presenti nel racconto di Suppazio (cfr. più avanti i §§ 79 e 91-93). 28 Il vecchio ridicolmente innamorato della sua Marianna può essere considerato una sorta di scherzosa anticipazione del personaggio di Pontano che nell’Antonius è accusato dalla moglie di intemperanza sessuale (§ 99) e nell’Asinus sarà descritto come un vecchio lussurioso il quale, impazzito d’amore, «ha iniziato a farsi crescere i capelli, lui che sino ad oggi è sempre andato in giro con il capo rasato» (As. § 26).

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Digna Iovis thalamis, o et Iove digna marito, quid mirum si me, candida nympha, fugis? HERR. Etiam lacrimatur! SEN. Delitiae, Mariana, meae, si diggeris annos, Iuppiter hac fiet iam ratione senex. HERR. Lepidissimam argumentationem! SEN. Et cani flores, orientia sidera cana; canaque quae torquet spicula blandus amor. SEN.

[15] HERR. Canitiem sane iuvenilem! Sed compellemus hominem. Amantissime adolescens, per eum quem colis amorem perque viridem atque florentem aetatem tuam eamque quam deperis virginem rogatus et nos de amoribus solicitos nostris adi atque alloquere. Equidem vel ex te uno iudicari plane potest, recte sensisse illos qui Venerem elegantiarum deam fecere; quid enim te, qui in Veneris contubernio vivis, elegantius? Age, amabo, quam tibi cum amoribus tuis blande? Quam e sententia? SEN. Suavissime, quippe cum decreverim, quaecunque in amore hoc mihi accidant, iucundam in partem accipere; irascitur, aversatur, contemnit, fugit, ad voluptatem refero, gravissimeque obiurgandos censeo qui regnum Amoris accusant, bellissimi pueri, laenissimi heri, indulgentissimi dei.12 Hic munditias, nitorem, ornatum, leporem, comptum, ludos, iocum, carmen, elegantiam, delitias, omnem denique vitae suavitatem invenit; me, qui senex sum, aetatis huius molestiarum oblitum, non tantum non invitum, sed volentem quoque ad suavissima quaeque secum trahit. Sequor convivia, cantus, hymeneos, choreas, pompas, festos dies, theatra. Sed iam asserenascit:13 illam ego ad

12 Un simile elogio dell’amore si legge in Ad Amorem deum (Erid. 1, 33). 13 Nuovo conio, Sabbadini, Ciceronianismo: 79.

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Degna del letto di Giove e di Giove degna consorte, qual meraviglia che tu mi fugga, candida ninfa? Si mette persino a piangere! Mia amata Marianna, se gli anni computassi di Giove anch’egli risulterebbe vecchio a tal conto. Ma che bella argomentazione! Sono bianchi anche i fiori e son bianche le stelle che nascono in cielo ed i dardi che Amore scocca con grazia.

[15] ERR. Una canizie davvero giovanile! Chiediamo a quest’uomo di dare ragione del suo comportamento (rivolgendosi al vecchio) Oh giovane innamorato, per quell’amore che coltivi, per la tua età fiorita e verde, e in nome di quella fanciulla per la quale ti struggi, ti prego, unisciti a noi, inquieti per i nostri amori, e parlaci di te. Giudicando dal tuo aspetto è agevole dare ragione a chi ha detto che Venere è la dea dell’eleganza; chi è più elegante di te che sei il concubino di Venere? Dicci, di grazia, come vanno le cose col tuo amore? Come desideravi? VEC. Le cose vanno meravigliosamente dal momento che ho deciso di essere contento, qualunque cosa accada nel corso di questo mio amore; è arrabbiata, mi detesta, mi disprezza, mi fugge: ne ricavo piacere; ritengo che debbano essere gravemente criticati quanti accusano il regno d’Amore, quel fanciullo graziosissimo, quel padrone gentile, il più mite degli dei. È stato Amore ad inventare il lusso, il nitore, il bello, il fascino, la ricercatezza, gli scherzi, i giochi, la poesia, l’eleganza, i piaceri, e tutto ciò che rende dolce la vita; ed io, che sono vecchio, dimentico delle molestie degli anni, mi faccio da lui trasportare con pieno consenso verso le cose più dolci. Frequento i conviti, i canti, le nozze, le danze, i cortei, i giorni di festa, i teatri. Ma ormai il giorno è vicino: ecco, vedo affacciarsi alla

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fenestram video quae me immortalium vitam agere inter mortales facit. O fulgentissimum iubar ac rerum specimen! [16] HERR. O inane et lubricum caput! Ne autem delirantem hunc senem, hospes, mirere, civitas nostra tota delirium est, utinamque non tam vere urbem hanc solam liberam esse usurpasset Antonius, in qua una cuique quod libitum esset liceret! Sed comprimenda est oratio: Euphorbia transit. Assurgamus mulieri atque offam hanc Cerbero obiiciamus.14 Et iam praeteriit, abiit; bene habet, salva sunt omnia. Memor es, hospes, beluae illius quam dux Poenorum Annibal vidit in somnis, silvas, agros, villas, oppida quaque incederet cuncta vastantem?15 Haec illa est belua, nequaquam tamen ut illa somnium, sed historia et vera quidem belua. Cives quidem coeteri aut horologium aut galli cantum secuti e somno cubilibusque excitantur, at viciniam nostram Euphorbiae clamores ne videre quidem somnum noctibus patiuntur, quasi dies agere quietos valeamus. Clamat, inclamat, frendit, dentitonat,16 hinnifremit,17 rixatur, furit; veru, pelves, patinas iacuiatur, titionatur, candelabratur: novis enim vocibus novus beluae huius furor exprimendus est, atque utinam exprimi plane

14 15 16 17

Cfr. Verg. Aen. 6, 417-421. Cfr. Cicerone, Divi.1, 24, 49 e anche Liv. 21, 22, 8. Nuovo conio: Sabbadini, Ciceronianismo: 79. Nuovo conio: Sabbadini, Ciceronianismo: 79.

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finestra colei che in mezzo ai mortali mi fa condurre una vita degna di un immortale. Oh splendidissimo raggio di luce che annunci il giorno, modello ideale di tutte le cose! [16] ERR. Che testa vuota e incostante! Ma tu, forestiero, non ti meravigliare di questo vecchio delirante: la nostra città è tutta un delirio. Volesse il Cielo che Antonio si fosse sbagliato quando disse che Napoli è la sola città libera, dal momento che soltanto in questa città ognuno fa tutto quello che vuole! Dobbiamo soffocare il discorso: sta passando Euforbia.29 Alziamoci in piedi al suo passaggio e gettiamo una focaccia a Cerbero.30 Ecco, se ne va; tutto bene, siamo salvi. Ti ricordi, forestiero, quella belva che Annibale, il generale dei Cartaginesi, vide in sogno, quella che incedendo devastava i boschi, i campi, le ville, le città? Questa è quella belva e non si tratta come in quel caso di un sogno, ma di una belva vera e propria. Gli abitanti delle altre città sono scossi dal sonno e buttati giù dal letto cedendo al canto del gallo o al suono delle campane; gli strepiti che fa Euforbia, invece, non fanno prendere sonno al nostro vicinato, dopo che abbiamo trascorso giornate tutt’altro che serene. Grida, strepita, digrigna, dentituona, snitrisce, azzuffa, infuria; e poi lancia catini e padelle, stizzona e scandelabra: per esprimere il furore di questa belva c’è bisogno di nuove parole,31 e magari le parole potessero 29

Il nome della figura demoniaca descritta da Pontano, una sorta di allegoria della follia e della violenza, deriva probabilmente da una famiglia di erbe maligne che i botanici antichi chiamavano euphorbia (si tratta di piante dicotiledoni della famiglia delle euphorbiaceae); tale pianta, della quale esistono numerose varietà, infatti, nella tradizione folklorica intrattiene una connessione con il mondo demoniaco: dato il sapore aspro del suo succo veniva considerata nociva per il bestiame ed indicata con nomi come «erba strega, bruciastreghe, latte di strega» (Beccaria, I nomi del mondo: 210). 30 Allusione al sesto libro dell’Eneide nel quale la Sibilla cumana getta una focaccia drogata al mostro infernale Cerbero per addormentarlo. 31 Pontano ha utilizzato tre neologismi nella descrizione di Eufor-

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posset! Ancillas alias delumbat fustibus, alias mutilat gladio, has unguibus excaecat, illas pugnis exossat; quid multis opus est? Pestis quidem ipsa Euphorbia pestilentior non est. Ferunt Germanos olim praedicare solitos se a Dite patre ortos; ego vel deierare ausim tris illas Furias, Herebum quoque ipsum Euphorbia prognatos esse. [17] HOSP. Dii, talem pestem avertite! Quid, obsecro, de hac Antonius? HERR. Optime consultum iri Romano pontifici si Euphorbia haec in summo Alpium iugo constitueretur, cuius vociferationibus momento eodem Germaniae, Galliae, Britanniae ad concilium arcessiri possent: orbis enim terrarum campanam Euphorbiam esse. HOSP. O salsum atque urbanum hominem! Sed quinam hi sunt quos composito admodum gradu vultuque adeo gravi concedentes ad nos video? HERR. Iunior ille Elisius Galiutius, suavi vir ingenio,

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esprimerlo a pieno! Col bastone spezza le reni ad alcune delle sue ancelle, con la spada ne ferisce altre; con le unghie ne acceca alcune, ad altre rompe le ossa con i pugni. Perché sprecare tante parole? Euforbia è la peste più pestilenziale di tutte le pesti! A quanto pare i Tedeschi erano soliti dire che è la figlia di Dite;32 io sono pronto a giurare che le tre Furie33 ed Erebo34 sono tutti progenie di Euforbia. [17] FOR. Santi numi, tenete lontana una simile disgrazia! E dimmi, cosa diceva Antonio di costei? ERR. Che sarebbe una decisione ottima per il Pontefice se inviasse Euforbia sulla cima delle Alpi, da dove con i suoi strepiti in un solo momento potrebbe chiamare a raccolta i Tedeschi, i Francesi e gli Inglesi: Euforbia potrebbe diventare la campana del mondo.35 FOR. Che uomo spiritoso e divertente! Ma chi sono questi che si incamminano verso di noi a passi lenti e con il volto severo? ERR. Il più giovane è Elisio Calenzio,36 uomo di bia: «dentituonare», “produrre un rumore simile ad un tuono digrignando i denti” (dentitonare da dens e tono), «stizzonare», “brandire un tizzone” (titionor da titio “tizzone”), «scandelabrare», “agitare un candelabro” (candelabror da candelabrum), «snitrire» (hinnifrenit). 32 Nome attribuito dagli antichi al dio dei morti Ade. 33 Dee della vendetta intente a perseguitare i colpevoli di gravi delitti tormentandoli in vita e dopo la morte. 34 Divinità delle tenebre, figlia del Caos e della Notte, ma anche nome dell’Oltretomba. 35 Pontano si riferisce probabilmente a Paolo II (1417-1471) e ai suoi tentativi infruttuosi di organizzare una crociata contro il Turco, come promesso solennemente al momento della sua elezione nel 1464. 36 Elisius Calentius, forma latinizzata del nome Luigi Gallucci (1430-1502/3). Nato a Fratte, si trasferì a Napoli agli inizi degli anni Cinquanta; oltre a studiare diritto nello Studio, riaperto nel 1453, Gallucci frequentò la corte aragonese. Tra il 1463 e il 1464 entrò al servizio degli aragonesi svolgendo il compito di precettore e, in seguito, segretario e tesoriere del figlio di Ferrante Federico, insieme al quale risiedette a lungo a Taranto. Nel 1481 fece parte della spedizione militare che riconquistò Otranto, occupata dai turchi, e due anni più tardi venne nominato governatore di Torre Squillace in

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Andreas alter Contrarius, facundus ac praestans rhetor, gravissimi uterque viri nostroque ex ordine, quibus advenientibus de more collegii huius assurgendum est.

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grande ingegno, l’altro è Andrea Contrario,37 oratore eloquente ed eminente, entrambi sono uomini autorevoli: appartengono al nostro consesso e secondo la tradizione della nostra associazione dobbiamo alzarci per fare loro onore.

Puglia, dove visse sino alla discesa di Carlo VIII. Trasferitosi dapprima a Sulmona, morì tra il 1502 e il 1503 a Fratte. Le sue opere vennero pubblicate postume nel 1503 a Roma per le cure di Angelo Colocci. Sodale del Panormita, per il quale scrisse un epitaffio, ed amico intimo di Pontano, fu autore di due poemi in esametri: il Croacus sive De bello ranarum, un poemetto eroicomico scritto ad imitazione della Batracomiomachia pseudomerica, composto nel 1448 e rielaborato negli anni seguenti, e l’Hector, poema storico-mitologico sulla caduta di Costantinopoli e sulle conquiste dei turchi, composto probabilmente tra il 1460 e il 1470. Vd. Foà Luigi Gallucci. 37 Andrea Contrario (si ignorano la data di nascita e di morte). Ecclesiastico veneziano, nel 1453 si trasferì a Roma dove frequentò gli umanisti riuniti intorno a Niccolò V stringendo amicizia con Teodoro Gaza e Lorenzo Valla. Con la morte di Niccolò V nel 1455 e la conseguente contrazione del mecenatismo papale durante il pontificato di Callisto III, Contrario divenne protagonista di una serie di feroci polemiche con altri umanisti della Curia (famigerata la lettera con la quale nel 1457 esprime a Ermolao Celso il suo tripudio per la morte di un umanista ingiustamente favorito di Callisto III, da identificare molto probabilmente con Valla). L’ascesa al soglio di Pio II nel 1458 sembrò rappresentare una svolta nella sua carriera, ma dopo essere stato ammesso tra i familiari del pontefice, Contrario cadde in disgrazia per ragioni sconosciute. Dopo un soggiorno a Bologna, Firenze e Siena, nel 1464 venne riammesso in Curia dal nuovo pontefice Paolo II; alla morte di quest’ultimo nel 1471 si trasferì a Napoli, ospite di Ferdinando II e beneficiario di uno stipendio mensile. Entrato a far parte dell’Accademia, divenne un sodale di Pontano che negli Hendecasyllabi cantò il suo amore per la filosofia. Vd. Contarino, Andrea Contarino.

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IV. ANDREAS CONTRARIUS, COMPATER, HERRICUS, ELISIUS

[18] ANDR. Salutem vobis multam atque opulentam dicunt Elisii Camenae. COMP. At nos et Elisium havere et Andream opulenter salvum esse iubemus, neque enim grammaticos adeo veremur ut opulentiam cum salute coniungere timeamus. ANDR. O minime superstitiosum hominem! Sed ut hoc facilius condonetur a nobis tibi, tamen ne in grammaticorum iram incidas etiam atque etiam vide. COMP. An oblitus es Antonii catellorum (hoc enim verbo utebatur) eos persimiles dicentis qui de ossibus deque frustillis ac miculis, si quae forte sub mensam decidant, rixentur? Odi ego cimicum genus stomachorque agrestem acerbitatem ac putidas insectationes; sed, amabo, quinam inter vos sermones erant?

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IV. ANDREA CONTRARIO, COMPATRE, ENRICO, ELISIO [18] ANDREA Le Muse di Elisio vi augurano una salute abbondante e ricca!38 COMP. E noi ci auguriamo che Elisio stia bene e che Andrea sia riccamente in salute: non temiamo i grammatici al punto da non osare unire insieme la ricchezza con la salute.39 ANDR. Sei un uomo niente affatto superstizioso! Ma per quanto ti perdoniamo prontamente per questo augurio, tuttavia devi fare sempre molta attenzione a non imbatterti nell’ira dei grammatici.40 COMP. Ti sei dimenticato quanto diceva Antonio? I grammatici sono in tutto e per tutto simili a dei cagnetti (utilizzava proprio questo termine!) che si contendono tra loro gli ossi, gli avanzi, le briciole che cadono sotto il tavolo. Da parte mia odio quella razza di cimici e provo disgusto per la loro incolta rozzezza e per i loro attacchi disgustosi; ma, di grazia, di quale argomento stavate discutendo tra voi?

38 Andrea Contrario saluta il Compatre ed Enrico a nome di Elisio che si trova al suo fianco. 39 Compatre non si cura di essere accusato dai grammatici di utilizzare un aggettivo improprio (opulens detto della salute). 40 Pur non facendo mai il nome di grammatici del suo tempo, Pontano ha in mente i seguaci napoletani di Lorenzo Valla (vd. Introduzione: 41-42). Nel corso della discussione portata avanti da Andrea Contrario saranno contraddette diverse trattazioni grammaticali presenti nelle Elegantiae, cfr. Marsh, Grammar and Polemics: 110-113. Sul rapporto tra Pontano e l’insegnamento di Valla si vd. Ferraù, Pontano critico: 13-41.

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[19] ANDR. Hoc ipsum agebamus, aut potius indignabamur, ab rabiosa eorum garrulitate tuti nihil esse, sive versiculum edideris sive epistolam scripseris; quorum ipsorum scriptis oculum si admoris, nihil inertius, nihil inconcinnius, nihil oscitatius videas, quippe cum nihil supra grammaticum habeant. Et tamen operae precium est videre, neglecto aut potius abiecto Cicerone, quantam prae se ferant dicendi artem atque scientiam. Invasere rhetorum materiam,18 quorum etiam agros depopulati, quod videant acutiora quaedam, ut ipsi putant, a Quintiliano tradi, in Ciceronem sublatis signis agmineque instructo procedunt;19 nec intelligunt Ciceronem sic a Quintiliano laudari, ut hunc suspiciendum, hunc imitandum esse moneat, «dono quodam providentiae genitum, in quem totas virtutes suas eloquentia experiretur»,20 id denique non immerito consecutum, ut «Cicero iam non hominis

18 Allusione alle pretese letterarie dei grammatici; il riferimento è mosso in particolare alle prefazioni, stilisticamente ambiziose, premesse dai grammatici ai loro «fiacchi» scritti di carattere grammaticale (ad es. il De priscorum proprietate verborum di Giuniano Maio). Si tenga presente che Pontano aveva intrapreso la stesura di un trattato grammaticale, il De aspiratione (cfr. Cronologia), e che per questo si considerava in grado di sfidare i grammatici sul loro terreno, come sarà evidente nel caso delle discussioni lessicali e sintattiche riportate nella quinta scena. 19 La preferenza per Quintiliano dei grammatici criticati da Compatre e Contrario è uno dei numerosi indizi che permettono di identificare tali personaggi nei seguaci napoletani del magistero di Lorenzo Valla, noto estimatore del retore spagnolo (vd. Valla, Postille a Quintiliano, con relativa bibliografia). 20 Quint. Inst. 10, 1, 109

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[19] ANDR. Discutevamo proprio di questo o, per meglio dire, ci sdegnavamo del fatto che niente è al sicuro dalla loro rabbiosa logorrea, che tu componga un verso o che tu scriva una lettera; mentre se butti l’occhio sui loro scritti constati che non c’è niente di più fiacco, di più rozzo, di più noioso, com’è ovvio dal momento che non contengono niente oltre alla grammatica. Eppure vale la pena vedere quanta arte del dire e quanta dottrina ostentano, dopo aver messo da parte Cicerone o, meglio, dopo averlo disprezzato. Hanno invaso la materia dei retori, dopo averne devastato i campi; levate le insegne e serrate le fila avanzano contro Cicerone, poiché ritengono, così sembra loro, che Quintiliano abbia tramandato precetti più acuti dei suoi; non comprendono che Quintiliano elogia a tal punto Cicerone da invitare il lettore a seguirlo ed imitarlo, «come se fosse una sorta di dono venuto dal Cielo, nel quale l’eloquenza ha messo alla prova tutte le sue virtù», aggiungendo inoltre, non senza buone ragioni, che «Cicerone non deve essere considerato il nome di un uomo

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nomen, sed eloquentiae habeatur».21 Quodsi loqui vera volumus, illa vel summa Quintiliani laus est, quod divinae Ciceronis eloquentiae diligentissimus observator atque inspector fuerit. Quid enim quamvis acute ab eo in dicendi arte praecipitur quod non e Ciceronis fonte haustum sit? Quid tam rarum aut sepositum ostenditur quod non Ciceronis orationum exemplis testimoniisque doceamur illum orantem egisse quae post a Quintiliano rhetoribusque aliis considerata atque animadversa scriptis observanda tradantur? [20] Arguitur Ciceronis de oratoris fine sententia, quod non sit «dicere apposite ad persuasionem», sed sit solum «bene dicere» oratoris finis;22 nec vident acutissimi homines duplicem in oratore finem considerandum esse. Quod Boetius quidem vidit, si non tam acutus grammaticus, at certe rerum naturae peritissimus ac definiendi magnus artifex.23 Ait enim quod inter dialecticam atque rhetoricam interest, id in materia non cerni, quippe cum utraque thesim atque hypothesim subiectam habeat, sed in usu, cum altera interrogatione, altera perpetua oratione utatur, ac dialectica integris syllogismis, rhetorica enthymematibus gaudeat; item

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Quint. Inst.10, 1, 112. Cic. Inv.1, 5, 6 citato in Quint. Inst. 2, 15, 4; cfr. Cic. Orat.1, 31, 138 cui rimanda Haig Gasser, Notes: 365. 23 Pontano, provocatoriamente, contrappone alla dialettica di Lorenzo Valla, e alle definizioni di Quintiliano da Valla elogiate, il manuale artistolico tardo-antico De topicis differentiis di Severino Boezio (475-525). 22

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ma il nome dell’eloquenza stessa».41 Anzi, se vogliamo dire il vero, il merito più grande di Quintiliano consiste nell’aver esaminato ed analizzato con la massima diligenza la divina eloquenza di Cicerone. E, infatti, quale precetto prescrive Quintiliano in merito all’eloquenza che, per quanto acutamente espresso, non sgorghi da una fonte ciceroniana? E quale effetto tanto raro o recondito ci mostra che non potremmo imparare dagli esempi e dalle testimonianze fornite dalle orazioni di Cicerone, quelle orazioni che, in un secondo tempo, esaminate ed analizzate da Quintiliano e dagli altri retori, sono state trasmesse per iscritto allo scopo di essere prese a modello? [20] Criticano il parere ciceroniano in merito al fine dell’eloquenza dato che secondo loro il fine dell’oratore non sarebbe «parlare in modo atto a persuadere» ma solamente quello di «parlare bene»; non si rendono conto, questi acutissimi uomini, che il fine, nel caso dell’oratore, deve essere considerato duplice.42 Di ciò si rese conto Boezio, un grammatico forse non particolarmente acuto ma senza dubbio un conoscitore delle scienze naturali e un grande esperto di definizioni filosofiche. Sostiene dunque Boezio che la differenza tra l’arte dialettica e l’arte retorica non va ricercata nella materia, dal momento che entrambe si basano su una tesi e una ipotesi subordinata alla tesi, bensì nell’uso, dal momento che l’una si serve dell’interrogare, l’altra del discorso ininterrotto, e la dialettica si compiace dei sillogismi interi, la retorica di quelli ridotti.43 41

Traduzione di Adriano Pennacini. La contrapposizione con i grammatici viene condotta inizialmente sul piano della dialettica, con l’intento di attaccare il punto centrale del pensiero valliano; tale discussione preliminare si articola in due parti: quale sia la corretta definizione di eloquenza, se quella ciceroniana o quella quintilianea, elogiata da Valla, non menzionato esplicitamente nel testo (§§ 20-27); chi, tra Cicerone e Quintiliano, abbia definito nel modo maggiormente corretto lo status, termine con il quale nella retorica antica si indicava l’accertamento della questione giuridica (§§ 28-36). 43 Pontano adotta il termine tecnico enthymema che indica la forma maggiormente ridotta del sillogismo. 42

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in fine, quod dialectica quae vult extorquere ab adversario conatur, rhetorica iudici persuadere; siquidem dialectcus dialecticum tantum habet adversum se constitutum, orator vero habet etiam iudicem, qui inter se atque adversarium sententiam ferat.24 Quocirca oratoris finem duplici ratione considerandum esse censet; alterum quidem in orator ipso, in iudice vero alterum; in ipso quidem bene dicere (quod quid est aliud quam dicere apposite ad persuasionem?) in iudice vero persuadere. Neque enim si qua impediant oratorem quominus persuadeat, dum officium suum fecerit, iccirco finem consecutus non est; siquidem, qui officio suo cognatus est finis, eum facto officio consequitur; ac tametsi eum qui extra positus est finem non semper attingit, fine tamen suo contentus esse potest, sentiens artem ipsam qui suus est fine non fraudari.25 Etenim medici opera cum in sanitatem intenta sit, imperatoris in victoriam, licet neuter finem, qui extra constitutus est, nonnunquam adipiscatur, uterque tamen suum assequitur si alter aegrotum recte curaverit, alter exercitum ac rem bellicam bene administraverit.

24 25

Boeth. Diff. 4, 1206C-D. Boeth. Diff. 4, 1208D-1209A.

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Un’ulteriore differenza è quella che riguarda il fine: la dialettica si sforza di estorcere dall’avversario quello che desidera, la retorica di convincere i giudici; se dunque il dialettico ha di fronte un altro dialettico, l’oratore ha di fronte anche il giudice, che emetterà una sentenza scegliendo tra sé e il suo avversario. Per questo Boezio ritiene che il fine dell’oratore vada considerato secondo due diversi aspetti: da una parte il fine che riguarda l’oratore in se stesso, dall’altra quello che riguarda il giudice. Per quanto riguarda l’oratore in se stesso, il fine è quello di «parlare bene» (perché in cos’altro consiste il «parlare in modo atto a persuadere»?); per quanto riguarda il giudice, il fine è quello di persuadere. Infatti, se per qualche impedimento l’oratore non riesce a persuadere, purché abbia compiuto il suo dovere, non è venuto meno al suo scopo, poiché, una volta che abbia svolto il suo compito, ha raggiunto quel fine che al suo compito è connaturato; e sebbene non raggiunga sempre il fine che è posto al di fuori di se stesso, tuttavia l’oratore può essere appagato riguardo al suo fine, percependo che l’arte stessa non è stata defraudata del fine che le è proprio.44 L’opera di un medico è rivolta a procurare la salute e quella di un comandante la vittoria, eppure può capitare che entrambi non raggiungano il rispettivo fine relativamente alla parte che si trova al di là della propria diretta sfera di competenza, anche se entrambi possono aver eseguito correttamente i rispettivi compiti, se hanno curato il malato nel modo giusto e gestito le truppe nel modo corretto.

44 Pontano intende dire che un oratore che abbia composto la sua orazione secondo i dettami dell’arte oratoria può considerarsi soddisfatto anche nel caso in cui non sia riuscito a convincere un giudice a causa di impedimenti che non riguardano da vicino il suo lavoro (ad es. per l’emergere durante il processo di prove contrarie al suo impianto accusatorio o difensivo).

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[21] Duplex igitur oratoris finis est: bene dicere ac persuadere; quod utrunque Cicero complexus est, et cum ait oratoris officium esse «dicere apposite ad persuasionem» (nam qui apposite dicit bene quidem dicit, id quod Quintiliani sententiae convenit iudicantis rhetoricae finem ac summum esse «bene dicere»26), et cum post subdit oratoris finem esse «persuadere dictione»27 (quia oratoris dictio apud iudicem est, complectitur qui sit pro suscepta causa bene dicendi finis). [22] Quodsi orator dicendo persuadet, neque enim temere a Cicerone dictum est «persuadere dictione», nec Quintiliano nec oblatratoribus his dicere opus est, quod pecunia etiam persuadet, quod forma, quod alia etiam multa;28 nam nec pecunia dicendo persuadet, nec forma; trahit enim animos hominum pecunia rerum utilium cupiditate ac gratia, forma voluptatis. Ostendere autem cicatrices inde susceptum est, quod insitus est homini naturaliter misericordiae affectus, qui tum videndo, tum audiendo movetur, idque consilii prudentiaeque est agere. Quo orator cum utitur, non quidem dicendo, sed agendo persuadere conatur, licet huiusmodi actiones oratoris propriae sint, unde agere dicitur, quibus etiam verba gestumque idoneum accommodat. Et cicatricum quidem ostentatio non multum habitura est virium si oratio defuerit, quae lacrimas ac misericordiam excitet.

26 Cfr. Quint. Inst. 2, 15, 38: «nam si est ipsa bene dicendi scientia, finis eius et summum est bene dicere». 27 Cfr. Cic. Inv. 1, 5, 6. 28 Cfr. Quint. Inst. 2, 15, 6-9.

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[21] Dunque il fine dell’oratore è duplice: parlare bene e persuadere; Cicerone li riunisce entrambi nel suo discorso quando sostiene che il compito dell’oratore è quello di «parlare in modo atto a persuadere» (infatti chi parla in modo atto a persuadere parla bene, punto che ben si sposa con l’opinione di Quintiliano secondo la quale il fine della retorica è quello di «parlare bene») e subito dopo aggiunge che il fine dell’oratore è quello di «persuadere attraverso il discorso» (dal momento che il discorso dell’oratore si tiene alla presenza del giudice il fine di parlare bene implica il parlare a vantaggio della causa sostenuta). [22] Ma se l’oratore persuade con la parola – Cicerone non ha detto senza motivo che egli «persuade attraverso il discorso» – né Quintiliano né questi abbaiatori hanno alcun motivo per obiettare che anche il denaro persuade, così come fa anche la bellezza e molte altre cose; né il denaro né la bellezza, infatti, persuadono per mezzo della parola: il denaro cattura gli animi in virtù della brama di possesso e dell’utile, la bellezza in virtù del desiderio sessuale. E poi ricorrono all’esempio del mostrare le cicatrici, dato che nell’uomo si trova una misericordia innata ed istintiva che si lascia commuovere vedendo ed ascoltando, e suscitare tale sentimento è senza dubbio una scelta efficace. Anche quando l’oratore ricorre a tale mezzo e si sforza di commuovere non parlando ma recitando [agendo],45 si può dire che il suo comportamento è proprio di un oratore: pertiene all’actio, quella parte dell’arte oratoria che prevede la recitazione del discorso utilizzando i gesti appropriati. L’esibizione delle cicatrici, d’altronde, non avrebbe molta efficacia se non fosse accompagnata da un discorso che induca alle 45 Pontano utilizza il verbo agere con il significato di «recitare» per dare vita ad un gioco di parole con actio, termine che indica una delle parti nelle quali, a partire dalla sistemazione operata nella Rhetorica ad Herennium, si suddividevano le fasi della stesura di un’orazione: inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio o pronuntiatio.

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Nam auctoritas, dignitas, aspectus, si mutus fuerit, quomodo persuadeat aut quid persuadeat? Quod vero ad meritorum recordationem attinet, an parum tibi loqui merita ipsa videntur, quae beneficiorum in rempublicam, quae rerum fortiter gestarum memoriam revocent, quae gratitudinis ammoneant? Etenim eorum qui diem obiere, sive amici sive inimici fuerint, cum recordatio nos subit, quod ab iis recte aut male facta, quae in mentem veniunt, loquendi vim quandam habeant, vel excitatur in nobis desiderium vel odium renovatur. Quocirca loquuntur haec quodammodo per se, ac nihilominus, ut iudices, ut auditores moveant, dicente indigent, qui, quo fuerit eloquentior, eo magis commovebit. [23] Ac mihi quidem videtur Cicero tum addendo apposite ad persuasionem tum dicendo «persuadere dictione» avertisse a se id quod Quintilianus, pace eius dixerim, non modo non avertit, sed ne quidem vidit. Si quis enim, quod declamatores faciunt, nullo dato iudice causam domi fingat et utriusque, id est suas et adversarii partes agat, hinc accusando, illinc defendendo, huius nimirum erit finis tantum «bene dicere». Quid enim aliud in causa domi composita, nullo vero adversario, nullo iudice, quaeretur nisi solum «bene dicere»? Quo fit ut in causa ficta idem sit finis qui est in vera, bene dicere, neque inter fingere et apud iudicem vere agere aliquid intererit. Quo quid magis absonum? Quid magis absurdum? Hoc videns Cicero declamatorem sic ab oratore seiunxit, ut quod unum intererat, id officium ac finem oratoris ostendendo exciperet cavillamque averteret; inter officium autem et finem parum interesse Cicero ipse ostendit, cum docet in «officio quid fieri, in fine quid officio

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lacrime e alla compassione. E, infatti, l’autorevolezza, la dignità e l’aspetto (se fosse muto) in che modo potrebbe persuadere? Per quanto riguarda la rievocazione delle azioni meritevoli, ti sembra forse che i meriti parlino troppo poco per poter richiamare alla memoria le azioni meritorie in favore dello stato e le imprese ardite e suscitare in noi la gratitudine? Quando ci torna alla memoria il ricordo di coloro che sono morti, siano stati amici oppure nemici, le azioni buone o cattive che ci vengono alla mente possiedono una loro eloquenza che rinnova in noi l’amore o l’odio. Queste cose parlano dunque da sé, eppure hanno bisogno di qualcuno che parli perché, rese ancora più eloquenti, possano commuovere ancora di più l’uditorio e il giudice. [23] E quindi mi sembra che Cicerone specificando «in modo atto a persuadere» e aggiungendo in seguito «persuadere attraverso il discorso» abbia evitato quell’incoerenza che Quintiliano, con tutto il rispetto, non soltanto non ha evitato ma non ha neppure visto. Se qualcuno, come sono soliti fare i declamatori, fingesse una causa inesistente a casa sua e recitasse entrambe le orazioni, la sua e quella dell’avversario, ora prendendo le parti dell’accusa ora quelle della difesa, in questo caso senza dubbio il fine sarà soltanto quello di «parlare bene». Che cos’altro si può richiedere ad una causa che si tiene in casa, senza un giudice o un avversario, se non l’obiettivo di «parlare bene»? Ne conseguirebbe che una causa fittizia presenta il medesimo fine di una vera, ovvero quello di «parlare bene», e che non c’è alcuna differenza tra fingere un’orazione e recitarne una vera di fronte ad un giudice. Esiste forse un ragionamento più incongruo o più assurdo di questo? Rendendosi conto di ciò Cicerone distinse il declamatore dall’oratore di modo che, mostrando il compito e il fine dell’oratore, riuscisse a prendere in esame la sola differenza che intercorre tra essi ed evitasse critiche speciose; d’altronde lo stesso Cicerone dimostra che la differenza tra il dovere e il fine non è considerevole quando afferma che «riguardo al dovere si considera quello

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conveniat considerari».29 Videtis quam plane per officium expresserit finem qui in oratore consideratur, cum quid fieri conveniat ait? Porro quid facere oratorem convenit aut quae eius officii partes sunt, nisi «bene dicere»? Quod quibus artibus et quae faciendo assequi possit ipse iam tenet; per finem vero ostenderit id quod bene dicendo quaeritur, persuadere. [24] Nam cum ipsae hominum actiones ob finem aliquem suscipiantur ac finis alius alium respectare videatur, finis ille quem in oratore ipso constitutum diximus, hoc est «bene dicere», in alium illum finem intendit qui extra positus est, sicuti recte curandi finis aegroti sanitatem ac rei bellicae bene administrandae de hoste victoriam respicit; ab illis enim ad has est via. Etenim cum finis in rebus humanis sit, ut opinor, ad quem cuncta referantur et cuius gratia fiunt coetera omnia,30 nimirum ut sit finis oratoris «bene dicere», bene dicendi ipsius finis est persuadere. Itaque si oratorem considerare volumus ut dicentem tantum, finis eius erit «bene dicere»; sin ut agentem in foro ac iudicis animum quibus potest artibus in sententiam suam atque in causam quam agendam suscepit trahere contendentem, Ciceronis de fine sententia erit absoluta, Quintiliani vero manca atque imperfecta. [25] Non considerari autem forum forensisque actionis finem ab eo qui dicit oratoris finem esse «bene dicere», quamvis paucis, manifesto tamen ostendemus. Quintiliani ipsius, cum de rhetoricae nomine latine interpretando loquitur, verba haec sunt: «Nam oratoria sic efferetur ut elocutoria, oratrix ut elocutrix; illa autem de qua loquimur

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Cic. Inv. 1, 5, 6. Haig Gaisser, Notes: 365 rimanda a Aristotele, Eth. Nic. 1, 2, 1094a. 30

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che dovrebbe essere fatto mentre riguardo al fine quello che è preferibile in relazione al dovere». Vedete con quanta chiarezza, attraverso il riferimento al dovere, ha espresso il fine che riguarda l’oratore mentre definisce ciò che deve essere fatto? E poi cosa deve fare l’oratore e quale altro dovere gli spetta se non quello di «parlare bene»? Ormai Cicerone ha ben chiaro cosa debba fare l’oratore e quali risultati possa raggiungere e con quali mezzi; attraverso il riferimento al fine dimostrerà che l’obiettivo del «parlare bene» è «persuadere». [24] Infatti, dal momento che le azioni degli uomini sono intraprese con un qualche fine ed ogni fine, a ben vedere, ne presuppone un altro, il fine che abbiamo detto essere insisto nell’oratore, ovvero «parlare bene», presuppone un altro fine a lui esterno, così come il fine del curare è la salute del malato e l’arte bellica presuppone il fine di ottenere la sconfitta del nemico; ogni fine conduce all’altro fine. E dunque dal momento che, a parer mio, c’è un fine nelle azioni umane al quale tutte le cose si riferiscono e per il quale tutte le cose sono fatte, non c’è da stupirsi se il fine dell’oratore è quello di «parlare bene» e che il fine di «parlare bene» è quello di persuadere. Infatti, se consideriamo l’oratore soltanto come colui che parla, il suo fine sarà quello di «parlare bene»; se invece lo consideriamo come colui che recita un discorso in tribunale e si sforza di muovere gli animi dei giudici dalla sua parte al fine di vincere la causa, la definizione di fine data da Cicerone risulterà perfetta, quella di Quintiliano, invece, manchevole ed imperfetta. [25] Dimostreremo chiaramente, sia pure con poche parole, che chi definisce il fine dell’oratore quello di «parlare bene» non considera il tribunale e le azioni forensi. Lo stesso Quintiliano, nel parafrasare con parole latine quale sia il significato del termine greco retorica, si esprime nel modo seguente: «il termine oratoria è formato sulla falsariga di elocutoria, oratrix su elocutrix, ma la retorica di cui stiamo parlando è

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rhetorice, talis est qualis eloquentia».31 Igitur si rhetorica eloquentia est, et orator erit eloquens. Eloqui autem aliud non est quam bene dicere; qui enim eloquitur bene dicit, et eloquentia erit bene dicendi sive facultas sive ars sive scientia. Quare dicere «oratoris finem esse bene dicere» eius est qui nec susceptae in foro dictionis finem considerat, ut si quis aratoris finem dixerit bene arare, cum bene arandi finis sit serere, nec clientem respicit, non secus ac si quis dixerit medici finem esse bene curare, quae definitio aegroti ipsius, qui medicum sibi adhibuit, nullam videtur habere rationem. At qui dicit oratoris finem esse «dicere apposite ad persuasionem» et eius qui dicit et eius pro quo dictio suscepta est rationem complectitur. Quae finitio perfecta quidem est, cum et officium eius qui dictionem suscepit ostendat et causam, idest finem cur officium susceptum sit, declaret. [26] Qua tamen in re pertinaciores non erimus, ut qui honus hoc defendendi Ciceronis adversus Quintilianum non susceperimus, quippe qui non oblatrando, sed quaerendo modestissime oratoris finem investigare nititur; quem quodam in loco dicentem audiamus: Nam illud genus ostentationi compositum solam petit audientium voluptatem ideoque omnes dicendi artes aperit ornatumque orationis exponit, ut quod non insidietur nec ad victoriam, sed ad solum finem laudis et gloriae tendat. Quare quicquid erit sententiis populare, verbis nitidum, figuris iucundum, translationibus magnificum, compositione elaboratum, velut institor quidam eloquentiae, intuendum et pene pertractandum dabit; nam eventus ad ipsum, non ad causam refertur. At ubi res agitur et vera dimicatio est, ultimus sit famae locus.32 31 Quint. Inst. 2, 14, 2. Gli editori moderni leggono «effertur» e non «efferetur». 32 Quint. Inst. 8, 3, 11-13.

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l’eloquenza».46 Dunque se la retorica è l’eloquenza, l’oratore dovrà essere eloquente. Essere eloquente non è altro che saper parlare bene; chi parla con eloquenza (ovvero chi parla bene) possiederà la facoltà, oppure l’arte di o ancora la scienza di parlare bene. Chi dice che il fine dell’oratore è quello di «parlare bene» non considera il fine di un discorso tenuto in tribunale, come chi affermasse che il fine dell’aratore è quello di arare bene, senza tenere conto del fatto che il fine dell’arte di ben arare è quello di far nascere le piante, o come non si curerebbe del cliente chi affermasse che il fine del medico è curare bene, dal momento che tale definizione non terrebbe alcun conto del malato che ricorre al medico. Ma chi afferma che il fine dell’oratore è quello di «parlare in modo atto a persuadere» tiene conto sia di chi parla sia dello scopo per il quale parla. Questa definizione è dunque perfetta perché mostra quale sia il dovere di chi intraprende il discorso e chiarisce quale sia la ragione, ovvero il fine, per il quale tale discorso è tenuto. Ma non insisteremo ulteriormente su tale punto, dal momento che il nostro intento non è quello di difendere Cicerone dalle accuse di Quintiliano, il quale, anzi, si sforza di riflettere intorno al fine dell’oratore non abbaiando ma indagando con modestia; in un altro punto della sua opera leggiamo:

Infatti il genere dimostrativo, destinato a colpire, tende soltanto al godimento estetico degli ascoltatori e perciò dispiega le risorse della parola e fa bella mostra dell’ornamento dello stile, dal momento che non gli vengono tese insidie e non mira alla vittoria, ma soltanto alla fama e alla gloria. Perciò tutto quanto sarà gradito al grande pubblico per le sentenze, splendente per le parole, gradevole per le figura, magnifico per le metafore, elaborato nella collocazione delle parole, l’oratore, come un mercante di eloquenza, l’offrirà da 46

Traduzione di Adriano Pennacini.

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Videtis ut his verbis victoriam quaeri, non bene dicendi laudem et gloriam ostendit? Sentitis quid dicit, cum eventum non ad ipsum, sed ad causam referri dicit? Et quod hoc fortasse minus apertum esset, subdit: «ubi res agitur et dimicatio vera est, ultimus sit famae locus, docens in victoriam totis viribus incumbendum», quae quidem nisi persuaso iudice ac bene dicendi arte viribusque eloquentiae expugnato comparari nequeat. [27] Verum adversus grammaticos, istos inquam grammaticos, haec dicenda suscepimus, quorum dentibus ut nihil mordacius sic morsibus venenosius nihil est, errasseque non parum videri potest Antonius, qui catellorum eos persimiles ac non canes, immo rabidas canes aut venenosas potius aspides diceret. Operae precium est etiam videre quibus latratibus quoque impetu in Ciceronianam status definitio

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guardare e quasi da tastare. Infatti il risultato riguarda lui solo, non la causa. Ma quando si celebra un processo e lo scontro è reale, la preoccupazione del successo deve stare all’ultimo posto.47

Vedete come Quintiliano con le sue stesse parole si riferisce alla necessità di ottenere la vittoria, non la lode per aver parlato bene o il successo ottenuto presso gli uditori? Vi rendete conto di cosa intende dire quando afferma che la buona riuscita non si riferisce all’oratore ma alla causa? E dato che potrebbe forse non essere del tutto chiaro aggiunge: «quando si celebra un processo e lo scontro è reale, la preoccupazione del successo deve stare all’ultimo posto», insegnando così che tutti gli sforzi devono essere rivolti alla vittoria, che non può essere ottenuta se non si è persuaso il giudice dopo averlo conquistato con l’arte del dire e le risorse dell’eloquenza. [27] Ci siamo presi la briga di dire queste parole contro i grammatici, intendo i grammatici con i quali noi abbiamo a che fare, i denti dei quali sono i più mordaci di qualunque morso, più velenosi di qualsiasi altra cosa; non si può negare che Antonio abbia sbagliato di gran lunga nel paragonarli a dei cagnetti e non piuttosto a dei cani rabbiosi, anzi a degli aspidi velenosi. Varrebbe la pena vedere con quali latrati e con quanto impeto assalgono anche la definizione ciceroniana di status.48 Ma 47

Traduzione di Adriano Pennacini. Con il termine status o constitutio nella retorica antica si indica lo “stato della questione”, ovvero l’accertamento della questione giuridica che avviene in una fase preliminare del processo durante la quale le parti dibattono in merito alle premesse giuridiche del processo stesso. Lo status si suddivide in: status translationis (fase del processo nella quale si discute il problema della legittimità del processo); status coniecturae (fase nella quale si fanno ricerche in merito alla realtà dell’azione commessa); status finitionis (fase nella quale si propone una definizione giuridicamente rilevante del fatto commesso); status qualitatis (fase nella quale si mette in discussione la qualifica giuridica del fatto, ovve48

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nem ferantur. Sed nolo vobis, hospiti praesertim huic, esse molestior. [28] COMP. Et hospiti huic et coeteris qui assumus rem gratissimam feceris, quod declarare nostrum omnium tibi abunde perspectum in Ciceronem studium potest et hospitis tanta in te audiendo attentio. Sed de Antonio aliter tibi persuadeas velim; narrare enim solebat grammaticorum rationem nullam esse praetoribus, quippe qui furentium in numero haberentur; cumque furoris atque amentiae genera licet diversa, comprehensa tamen a physicis essent, solam grammaticorum vesaniam non modo incomprehensam, verum etiam incomprehensibilem esse, quam novo quodam ficto nomine labirynthiplexiam vocabat. Referebat enim Sibyllam, nutricem suam, quotiens grammatico cuidam qui per id tempus Panhormi docebat, obviam fieret, carmine usam quo Siculi adversum canes rabidas uterentur; solas etiam grammaticorum animas post mortem non expurgari; quodque infernus eas expiandas non caperet, statim redire in corpora ac propterea contingere ut in dies atque in saecula grammatici dementiores essent;33 Platonemque hoc ipsum latuisse, item Virgilium Dantiumque, qui de rebus infernis ultimus scripsit. Haec habui quae pro Antonio excusando dicerem. Tu perge, Andrea, et Ciceroniani status 33 Allusione scherzosa alle dottrine di Origene (185 ca.-254), al tempo nel quale Pontano compone l’Antonius tornate in auge per merito di umanisti come Matteo Palmieri e Marsilio Ficino, nonostante la conferma della loro condanna da parte della Chiesa durante il Concilio di Basilea-Firenze del 1422, vd. Terracciano, Origine. Pontano, infatti, allude alla ensomatosi, ovvero la caduta verso forme di esistenza più bassa che le anime, preesistenti ai corpi, subiscono una volta distaccatesi da Dio. Secondo un’interpretazione radicale della filosofia origenista, tutte le anime cadute, una volta purificate per mezzo di un inferno da intendersi come punizione temporanea, si purificheranno sino a giungere all’apocatastasi, ovvero la restaurazione della primitiva unità delle anime con Dio. I grammatici, dunque, sono condannati ad un’eterna ensomatosi che comporta un incremento esponenziale, reincarnazione dopo reincarnazione, della loro follia.

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non vorrei risultare molesto, soprattutto considerando il nostro ospite. [28] COMP. Faresti cosa gradita al nostro ospite e a tutti noi: lo può confermare il nostro interesse per Cicerone, a te ben noto, e la grande attenzione con la quale l’ospite ti ascolta. Ma vorrei farti cambiare idea in merito ad Antonio; egli era solito dire che i giudici non considerano valida la testimonianza dei grammatici dal momento che costoro sono annoverati tra i folli; sebbene le più diverse tipologie di furore e demenza siano comprese dai fisici, la sola follia dei grammatici non è da loro catalogata ed è, in aggiunta, del tutto incomprensibile e per questo Antonio aveva coniato per descriverla un nome nuovo: labirintiplessia.49 Raccontava che la sua nutrice Sibilla, ogni qual volta incontrava un grammatico che in quel tempo insegnava a Palermo, ricorreva ad un carme adoperato dai siciliani per difendersi dai cani rabbiosi;50 affermava inoltre che soltanto le anime dei grammatici non si purificano dopo la morte e, dato che l’inferno non può accoglierle per l’espiazione, sono costrette a ritornare nuovamente dentro i corpi e per questo, giorno dopo giorno e secolo dopo secolo, i grammatici sono sempre più dissennati; tutto ciò è sfuggito a Platone e a Virgilio, e anche a Dante, che per ultimo ha scritto sull’inferno. Questo è quanto volevo dire a discolpa di Antonio. Ma tu, Andrea, prosegui la tua difesa della definizione ciceroniana di status nei confronti

ro si afferma che il fatto non è penalmente rilevante), cfr. Lausberg: 24-27. 49 Nuovo conio pontaniano che unisce la radice della parola labyrinthus con il termine plexia («colpo», come in apoplessia); il nome del malanno, che si può parafrasare come «la malattia dello stordimento», vuole dare l’idea di una disciplina autoreferenziale e confusa, suggerendo l’idea di un eterno girare intorno alle medesime questioni. 50 Un carme del genere, come si è visto, è riportato al § 4.

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defensionem adversus Antonianos catellos vel tuas potius aspides aggredere. [29] ANDR. Faciam eo libentius quod Herricum nostrum video ex oratione hac, quae adversum grammaticos habita est, mirificam voluptatem coepisse. HERR. Dici vix potest quam me sermo iste delectet, praesertim cum in memoriam veniat inter duos olim grammaticos gladiis actam rem esse, dum alter alteri vitio daret quod verbo impleo generandi casum adiunxisset ac neuter memor esset Livii hoc ipso casu utentis libro quarto: «Ne ita omnia tribuni potestatis suae implerent ut nullum publicum consilium sinerent esse».34 Item quinto libro: «Ipse multitudinem quoque, quae semper ferme regenti est similis, religionis iustae implevit».35 Sexto etiam casu utitur, cum ait: «Carcerem impleveritis principibus».36 Adeo promiscue veteres verbum hoc et secundo et sexto casui iunxere, quod docti illi et acuti grammatici dum ignorant, dum alter alterius sinum atque os despuit, res ad gladios venit tandemque a grammaticis ad chirurgos. Sed quae mihi multa generis huius in mentem veniunt referre desinam, ne tibi sim impedimento; quare quod coepisti perge exequi ac voluptate hac nos exple. [30] ANDR. Primo loco Ciceronem videamus: «Constitutio est prima conflictio causarum ex depulsione inten-

34 Il brano compare non nel Quarto libro ma nel Terzo: Liv. 3, 63, 10. 35 Liv. 5, 28, 4. 36 Liv. 3, 6. 1.

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di quelli che Antonio chiamava cagnetti e tu preferisci chiamare aspidi. [29] ANDR. Lo farò ancor più volentieri dal momento che vedo che il nostro Errico ha tratto grande piacere da questo discorso rivolto contro i grammatici. ERR. Posso a mala pena esprimere quanto tale discorso mi procuri diletto, soprattutto se richiamo alla memoria una disputata tra due grammatici che qualche tempo fa fu risolta ricorrendo alle spade.51 Uno dei due grammatici accusava l’altro di utilizzare impropriamente il genitivo con il verbo impleo [«riempire»]; nessuno dei due, però, si ricordava che Livio utilizza tale caso nel quarto libro: «Ne ita omnia tribuni potestatis suae implerent ut nullum publicum consilium sinerent esse»;52 analogamente nel quinto libro: «Ipse multitudinem quoque, quae semper ferme regenti est similis, religionis iustae implevit».53 Livio utilizza anche l’ablativo quando scrive: «Carcerem impleveritis principibus».54 Gli scrittori antichi, infatti, utilizzano indifferentemente con tale verbo il genitivo e l’ablativo; dal momento che quei grammatici perspicaci e dotti ignoravano tutto ciò e si sputavano addosso l’un l’altro sul petto e sul volto, la cosa venne alle spade e poi passò dai grammatici ai chirurghi. Ma dal momento che mi vengono in mente molti casi come questo, preferisco tacere per non esserti d’ostacolo; quindi, ti prego, continua con il tuo ragionamento e riempici di diletto. [30] ANDR. Cominciamo dalle parole di Cicerone: «la constitutio è il primo conflitto durante la causa che nasce 51

Enrico allude ad una discussione grammaticale conclusasi con un vero e proprio duello; cfr. Ch. 52. 52 «Il potere dei tribuni non doveva invadere ogni campo, al punto da non tollerare più che alcuna deliberazione venisse presa dagli organi pubblici» (traduzione di Luciano Perelli). 53 «fu preso dalla riverenza e trasmise il suo giusto scrupolo religioso anche al popolo, che generalmente segue chi governa». 54 «avete riempito le carceri dei più illustri cittadini».

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tionis profecta, hoc modo: fecisti, non feci, aut iure feci».37 Deinde Quintiliani status qui sit ex ipsius verbis intelligamus: «Statum quidam dixerunt primam causarum conflictionem; quos recte sensisse, parum elocutos puto. Non enim est status prima conflictio, fecisti, non feci; sed quod ex prima conflictione nascitur».38 Et paulo post: «Si enim dicat quis: sonus est duorum inter se corporum confiictio, erret, opinor; non enim sonus est confiictio, sed ex confiictione».39 Haec uterque de status constitutionisque definitione. [31] Nos quid definitio ipsa sit primum videamus; quae, ut doctissimis viris placet, oratio est explicans quid sit id de quo est quaestio. Quocirca proprium definitionis esse videtur explicare, hoc est distincte atque expresse demonstrare rei quae definitur substantiam, seu quid illud ipsum de quo quaeritur sit. Hoc enim intellecto, ipsa res ut intelligatur oportet, siquidem id quod ante definitionem erat, ut ita dixerim, confusum et complicatum, ubi definitio accessit, distinctum atque explicatum cernitur. Etenim cum hoc ipsum nomen homo parum expresse quid homo ipse sit indicet, ubi dixeris «hominem esse animal rationale mortale»,40 quod erat involutum nec satis patebat fit expressum et clarum; ipsaque substantiae explicatio fit

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Cic. Inv.1, 8, 10. Quint. Inst. 3, 6, 4-5. 39 Quint. Inst. 3, 6, 6. 40 Esempio classico di definizione Haig Gaisser, Notes: 366 rimanda a Quint. Inst.7, 3, 15. 38

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dalla confutazione dell’accusa [mossa dalla parte avversa] in questo modo: lo hai fatto, non l’ho fatto, oppure l’ho fatto secondo la legge». Ascoltiamo adesso da Quintiliano che cosa sia lo status: «Taluni hanno detto che lo status è il primo conflitto delle cause: a mio parere costoro hanno sì pensato bene, ma l’espressione del pensiero è incompleta. Infatti lo stato non è il primo scontro: “l’hai fatto tu”, “non l’ho fatto io”, ma ciò che nasce dal primo scontro». Poco più avanti aggiunge: «Che dire se uno affermasse che “il suono è lo scontro di due corpi tra di loro?”. Sbaglierebbe, a mio parere; infatti il suono non è uno scontro, ma deriva da uno scontro»55. Questo è la definizione dello status e della constitutio56 che si legge nei due scrittori. [31] Anzitutto consideriamo che cosa sia una definizione: secondo gli scrittori migliori è un discorso che spiega che cosa sia l’oggetto dell’indagine filosofica57. Ne consegue che il compito della definizione è quello di illustrare in modo ordinato ed esplicito la sostanza della cosa indagata, ovvero che cosa sia ciò che si indaga. Una volta compresa la definizione comprendiamo anche la cosa stessa che prima della definizione, per dir così, era confusa e indistinta, e in seguito alla definizione diviene chiara e distinta. Infatti mentre il nome uomo di per sé indica in modo niente affatto chiaro che cosa sia un uomo, quando avrai detto che «l’uomo è un animale razionale mortale», quello che era oscuro e non a sufficienza espresso diviene esplicito e chiaro. Si dà una spiegazione della sostanza ogni qualvolta il 55

Traduzione di Adriano Pennacini. I due termini sono sinonimi, vd. nota 48. 57 Per evidenziare lo scarso valore filosofico della definizione quintilianea di status Pontano ricorre ad una discussione preliminare in merito alla definizione, intesa, secondo i principi della logica aristotelica, come un processo dicotomico che permette di definire un ente a partire dalla suddivisione per partizioni di concetti universali gerarchicamente disposti (definizione come dichiarazione dell’essenza sostanziale). 56

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quotiens genus quo quid continetur et species illae quae differentiae vocantur definitionem ipsam abunde simul constituunt; qua hunc in modum constituta, quae confusa erant diffusius tractata cernuntur. Ex quibus efficitur ut, genere differentiisque monstratis, substantia ipsa appareat. [32] His sic explicatis, videamus harum utra definitionum rem quae definitur melius clariusque ostendat, cum videamus de re ipsa quaestionem non esse, siquidem Quintilianus ipse qui hac definitione usi essent «recte quidem sensisse, parum tamen elocutos putat». Ciceroniana, ni fallor, definitio, quod genus et differentias explicat, substantiam profecto ipsam explicat. Nam conflictio generis locum obtinet; omnis enim status conflictio est, non contra; siquidem non soli oratores confligunt, perinde ut non solum homo est animal, sed athletae, sed milites, sed exercitus etiam confligunt. Prima vero cum dicitur, species ac differentia indicatur, siquidem plures quaestionum status esse eadem in causa possunt, quod ipse quoque Quintilianus ostendit. Prima igitur conflictio species quaedam conflictionis est, sicuti rationale species quaedam animalis. Deinde

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genere nel quale un ente è incluso e quelle categorie note col termine di differenze stabiliscono la definizione;58 costituita in tal modo la definizione, quanto era confuso risulta trattato diffusamente. Se ne deduce che una volta che sono state dichiarate le differenze e il genere, appare la sostanza.59 [32] Dopo aver chiarito tutto ciò, passiamo ad analizzare quale delle due definizioni esprima in modo più chiaro ed efficace la cosa in sé, dal momento che abbiamo visto che non c’è una discordanza tra i due in merito alla cosa in sé, se Quintiliano stesso ritiene che quanti adottano tale definizione [quella ciceroniana] «abbiano sì pensato bene, ma l’espressione del pensiero è incompleta». La definizione di Cicerone, se non erro, dal momento che espone il genere e la differenza, espone di fatto anche la sostanza. Il termine conflitto svolge la funzione di genere; ogni status, infatti, è un conflitto, e non viceversa: non entrano in conflitto soltanto gli oratori, così come non è solo l’uomo ad essere un animale, ma anche gli atleti e gli eserciti entrano in conflitto. L’aggettivo primo, da parte sua, indica la specie e la differenza, dal momento che possono esserci più status relativi a diverse questioni durante una causa, come dimostra anche Quintiliano. Dunque il «primo conflitto» indica una forma di conflitto, come l’aggettivo razionale specifica il termine animale.60 A questo punto si può aggiun58

Pontano si riferisce alla determinazione dell’alterità, fase preliminare della definizione procede individuando le opposizioni o differenze specifiche (Arist., Met. 7, 6, 1031b). 59 Da intendersi come l’essenza necessaria, ovvero quello che esprime la stabilità dell’essere (Arist. Met. 7, 6, 1031b). Nella logica aristotelica lo scopo di ogni definizione è proprio quello di giungere a conoscere l’essenza necessaria. 60 Pontano nelle pagine che seguono mette a confronto la definizione ciceroniana di constitutio e quella quintilianea di status (i due termini, lo ricordo, sono sinonimi) con la definizione platonica di uomo come «animale razionale» discussa da Aristotele (Arist. Top. 5, 4, 133a20), definizione paradigmatica non soltanto per la cultura antica ma anche per quella medievale e moderna.

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additur «ex depulsione intentionis profecta». Quo addito plane declaratur conflictionem hinc ex intentione, illinc ex depulsione nasci, ut intelligatur, quemadmodum non omne rationale animal, ut Plato putat, mortale est, sic non omnem conflictionem ex telorum missiliumque iaculatione ac manuum consertione, cuiusmodi militaris conflictus est, existere. Videtis ut his in definitione simul positis, res ipsa non implicata et in abdito posita, sed explicata atque in lucem cernatur exposita? [33] Contra Quintiliani definitio non solum rem ipsam in lucem non educit, sed audientem statim turbat et cogitationem eius ad plura ac diversa trahit. In lucem autem non exponi rem ex Quintiliani definitione hinc probatur, quod genus ipsum nimis remoto e loco apparet, cum sit res, sive, ut hodie dicunt, ens; dicitur enim: «id quod ex prima conflictione nascitur», idest res quae inde nascitur; ac tametsi verum est quod conflictio causarum sit res, sit ens, tamen hoc ipsum ens maxime generale est, siquidem et lapis et lignum et lana et corpus et color et vox et forma et statura et coelum et animal et quodcunque in naturalibus est ens ac res est. Itaque genus hoc confundit magis quam explicat, dum auditoris mentem in tam multa ac diversa rapit. Illud deinde «quod ex prima conflictione nascitur» magis ac magis et turbat et confundit et quasdam quasi tenebras illorum qui audiunt mentibus offundit, ut cum dicimus «homo est id quod ex corpore et anima constat»; quod ipsum non modo de bove, crocodile, ape, serpente, pisce, accipitre, sed de arbore, haerba fruticeque dici potest, nec aliud est dicere quam «quod animans est», quod genus plurima diversaque complectitur; siquidem et arbores et haerbae et frutices animantes sunt; anima enim constant et corporeo Quod si dicere malueris: «homo est id

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gere il resto della definizione: un conflitto «che deriva dalla confutazione dell’accusa». Dopo aver aggiunto ciò, è chiaro che questo conflitto nasce da una parte dall’accusa, dall’altra dalla risposta a tale accusa; se è vero che, come ritiene Platone, non ogni animale razionale è mortale, allo stesso modo non tutti i conflitti nascono dallo scontro di lance e giavellotti e delle mani, come accade nei conflitti militari. Non vedete come, quando questi punti sono inclusi nella definizione, la cosa in se stessa è percepita non come qualcosa di poco chiaro e oscuro ma di evidente e in piena luce? [33] Al contrario la definizione di Quintiliano non solo non conduce la cosa alla luce, ma immancabilmente confonde chi la legge e trascina i suoi pensieri nelle direzioni più diverse. Che la definizione di Quintiliano non esponga la cosa alla luce è provato dal fatto che il genere stesso appare troppo distante, pur costituendo una cosa, ovvero, come si è soliti dire oggigiorno, un ente; si dice infatti: «ciò che nasce dal primo scontro», ovvero la cosa dalla quale ha origine; e sebbene sia vero che lo scontro delle cause è una cosa, un ente, tuttavia questo ente in se stesso è oltremodo generico, così come in natura la pietra, il legno, la lana, il corpo, il colore, la voce, la forma, la statura, il cielo, un animale, sono tutti un ente e una cosa. Quindi questo genere confonde piuttosto che chiarire, mentre rapisce la mente di chi legge trasportandola in luoghi tanto diversi. L’espressione «ciò che nasce dal primo scontro» disturba e confonde sempre di più e quasi obnubila la mente di chi legge come la definizione: «l’uomo è ciò che è insieme un’anima e un corpo», definizione che può essere applicata non soltanto anche al bue, al coccodrillo, all’ape, al serpente, al pesce, al falco ma anche all’albero, all’erba, all’arbusto, dal momento che non è diverso da dire «ciò che è vivente», dato che è un genere racchiude in sé cose del tutto diverse (anche gli alberi, le erbe e i cespugli, infatti, sono esseri viventi, costituiti di anima e corpo). Ma se preferissi l’espressione: «l’uomo è ciò che deriva da un ani-

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quod ex animali rationali mortali est», hominis substantiam non solum non explicabis neque in apertum proferes, sed rem ipsam magis ac magis implicabis. Neque enim homo solum est ex animali rationali mortali, sed coniugium, sed familia, sed civitas, sed humani generis societas. At dicere: «homo est animal rationale mortale» non solum mentem non confundit, sed rem ipsam plane ostendit, idque quod definitur et quod definit ita sibi invicem conveniunt ut mutuam conversionem alternatim faciant, siquidem et animal rationale mortale est homo; id quod non usu venit cum dicitur «homo est id quod ex corpore et anima es» et «quod ex corpore et anima est homo est», cum possit esse accipiter, piscis, equus, apes, ulmus, brasica, vitis, ligustrum, quae quod animantes sunt, e corpore et anima sunto. [34] Itaque cum dicimus, «constitutio est prima conflictio causarum nata ex intentionis depulsione», ita sibi quod definit definiturque invicem consentit, ut convertere liceat pari maximeque conveniente consensu; recte enim explicateque dicetur: «prima causarum conflictio ex intentionis depulsione nata constitutio est». Contra confusa nimis definitio erit, nec cum eo quod finitur pari modo consentiens si dixerimus, ut Quintiliano placet: «status est id quod ex prima conflictione causarum nascitur, idque quod ex prima conflictione causarum nascitur est status», cum e prima conflictione, in qua causa consis-

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male mortale razionale», non soltanto non riusciresti a spiegare la sostanza dell’uomo né la porteresti alla luce, ma confonderesti sempre di più la cosa. Infatti non è soltanto l’uomo ad essere il risultato dell’unione di un animale mortale razionale, ma lo è anche una famiglia, una convivenza, una società che comprende altri esseri umani. Ma dire: «l’uomo è un animale razionale mortale», non soltanto non confonde la mente ma mostra bene la cosa in sé, la definizione e ciò che viene definito sono in armonia in modo tale che possono essere scambiati l’uno con l’altro, dal momento che un animale razionale e mortale è un uomo.61 Ma tutto ciò non accade quando si dice che «l’uomo è ciò che risulta dall’unione di anima e corpo» e «ciò che deriva dall’unione dell’anima e del corpo è l’uomo», dal momento che si potrebbe indifferentemente trattare di un falco, un pesce, un cavallo, un’ape, un olmo, un cavolo, una vite, un ligustro, che sono essere animati, ovvero l’unione di un anima e di un corpo.62 [34] E così quando diciamo: «la constitutio è il primo scontro tra le parti in causa che deriva dal rifiuto di un’accusa», la definizione e ciò che viene definito si accordano così bene tra loro che possono essere scambiati raggiungendo un perfetto accordo in entrambi i casi; infatti si può dire senza commettere un errore che: “il primo conflitto riguardante le parti in causa è una constitutio che nasce dal rifiuto di un’accusa”. D’altro canto la definizione sarebbe sin troppo confusa e non egualmente in armonia con quello che viene definito, se dicessimo, come vorrebbe Quintiliano, che: «lo status è ciò che nasce dal primo conflitto tra le parti, e quindi ciò che nasce dal conflitto delle parti è lo status», dal momento che dal primo 61 Secondo la logica aristotelica una definizione, per essere corretta, deve poter essere invertita nei suoi termini senza perdere di significato. 62 Pontano cerca di esprimere il concetto di estensione e inversione; l’esempio richiama al già citato trattato boeziano di logica aristotelica Boeth., Diff. 1, 1178A.

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tit, plura nascantur quae ad statum et causam faciunt, ut cum signa ex quibus coniectura capitur afferuntur, cum testes in medium adducuntur, cum leges recitantur, cum de legibus pugnatur, et huiusmodi alia, quae non modo conflictionem sequuntur, sed absque iis conflictio esse nequeat. [35] Age, consideremus rem maxime similem, militarem conflictum, non sonum, ut Quintilianus. Si quis dixerit, «militarem conflictum esse id quod existit ex militum certamine manibusque consertis», primum nec rem ipsam distincte explicabit nec convertere alterum in alterum tam aequa reciprocatione poterit ut recte dicatur, «id quod ex militum certamine manibusque consertis existit conflictus militaris est»; neque enim ex militum certami ne manuumque consertione solus conflictus existit, sed caedes, mutilationes, percussiones, vulnera, fuga, victoria. Itaque cum haec audiuntur, quod quid potissimum intelligere habeatur incertum sit, distrahetur huc atque illuc animus rapieturque in plura atque diversa. At si dixero: «conflictum militarem esse militum manum conserentium certamen», statim genus apparebit, idest certamen; omnis enim conflictus certamen est. At non contra certamen omne conflictus est; nam et puellae certant de forma et reges de magnificentia. Cum addo «manum conserentium», speciem differentiamque sic exprimo ut nihil dubium, nihil in confuso relinquatur licebitque magno utrinque consensu convertere: «militum manum conserentium certamen conflictum esse militarem ac militarem conflictum conseren tium manum militum certamen esse». [36] Illud igitur inter Ciceronis Quintilianique definitionem interest quod inter has quas modo posui militaris conflictus definitiones; ac si loqui vera volumus, altera, idest Ciceroniana,

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scontro tra le parti, in cui consiste la causa, derivano più cose che riguardano lo status e la causa: ad esempio quando si presenta una prova relativa alla causa, oppure si produce un testimone di fronte al tribunale, o ancora quando si legge il testo di una legge e sorge una disputa in merito all’interpretazione di un articolo, e altre cose del genere, che non soltanto seguono il conflitto tra le parti ma ne sono parti indispensabili. [35] Suvvia, consideriamo una cosa molto simile, il conflitto militare, non una parola, come nel caso di Quintiliano. Se qualcuno dicesse: «il conflitto militare è ciò che deriva da un gara tra militari e dal venire alle mani», anzitutto non definirebbe in modo distinto la cosa in sé, né si potrebbero invertire le parti della definizione in modo da poter dire correttamente: «ciò che nasce dalla gara tra i militari e dal venire alle mani è un conflitto militare»; infatti il conflitto militare non è l’unico risultato dell’uso delle mani e dello scontro militare, ma lo sono anche le stragi, le mutilazioni, i colpi, le ferite, le fughe, la vittoria. E così quado qualcuno ascolta una simile definizione, dato che non è chiaro cosa deve capire, la mente si confonde e viene trasportata in diverse direzioni. Ma se dicessi: «un conflitto militare è una gara di soldati che si scontrano con le mani», apparirebbe subito il genere, ovvero il termine gara; ogni conflitto è una gara, ma non tutte le gare sono conflitti: le fanciulle, ad esempio, gareggiano in bellezza, i re in magnificenza. Quando aggiungo «con le mani» esprimo la specie e la differenza in modo che niente venga lasciato in sospeso, niente sia confuso, e si possa riformulare molto armonicamente la definizione nel modo seguente: «la gara tra militari che prevede l’uso delle mani è un conflitto militare e il conflitto militare è una gara che prevede l’uso delle mani tra militari». [36] La differenza tra la definizione che si legge in Cicerone e quella che si legge in Quintiliano è analoga a quella che intercorre tra le due definizioni di conflitto militare che ho appena proposto; anzi, se vogliamo dire il vero, la definizione di Cice-

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est philosophi rem explicantis atque ante oculos ponentis, altera eius qui id potius quaerere videatur, ut qui audiunt caecutiant magis quam ut recte videant. Quoniam igitur Quintilianus «ipse recte quidem sensisse, parum tamen elocutos» putat qui sic statum definiere, videte, obsecro, uter ipsorum rem eloquatur. Mihi quidem Cicero eloqui rem et explicare, Quintilianus vero balbutire quodammodo (tanti viri pace dixerim) videtur. Poteram multa quae de ratione definiendi a doctis viris traduntur hunc in locum conferre, quae non duxi esse necessaria, contentus paucis his ostendisse Ciceronem bene, expresse, caute, plane statum definisse. Quam nostram defensionem tantum ab accusando Quintiliano abesse volumus, ut videri velimus non adversus Quintilianum causam suscepisse, sed ut qui potius Ciceronem a grammaticorum qui nunc vivunt rabidis morsibus liberare studeremus. [37] Tu vero, Herrice, vicem redde et quam adversus grammaticos bilem paulo ante conceperas meo etiam rogatu evome, aut, si te capitis fortasse gravat abscessus, Elisio nostro provintiam hanc delega. HERR. Quin potius quando in Virgilium quoque dentes exacuere et me tussis male habet, maximi poetae studiosissimus poeticae Elisius patrocinium suscipiat.

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rone è l’opera di un filosofo intento a definire un concetto e renderlo immediatamente chiaro per chi legge; l’altra, invece, sembra piuttosto l’opera di chi sta cercando di fare in modo che quanti leggono siano accecati piuttosto che illuminati. Quindi, dal momento che lo stesso Quintiliano pensa che quanti definiscono la parola status in questo modo «hanno sì pensato bene, ma l’espressione del pensiero è incompleta», vi prego di considerare quale dei due esprime l’essenza della cosa. Per quanto mi riguarda direi che Cicerone esprime e spiega la cosa in sé, Quintiliano invece balbetta oltre modo (sia detto con buona pace di un uomo tanto grande). Avrei potuto riunire qui molte argomentazioni sulla definizione tratte dagli scritti degli uomini dotti, ma non l’ho ritenuto necessario, e mi sono accontentato di mostrare con poche parole che Cicerone ha definito lo status nel modo giusto, senza tralasciare nulla, in modo prudente e chiaro. La nostra difesa non intende essere un’accusa a Quintiliano; il nostro intento non è quello di accusare pubblicamente Quintiliano, ma di liberare Cicerone dai morsi rabbiosi dei grammatici contemporanei. [37] Ma tu, Errico, restituiscimi il favore e su mia richiesta sputa fuori la bile che poco prima avevi accumulato contro i grammatici oppure, se la tua testa soffre per la congestione di tanta bile,63 affida tale compito ad Elisio. ERR. Dal momento che ho la tosse e che i grammatici hanno rivolto i loro denti anche contro Virgilio si assuma tale compito Elisio, che si occupa con tutto se stesso della poesia del più grande dei poeti.64 Ti prego di farlo Elisio 63

Secondo le teorie mediche del tempo, la bile si accumulava nel capo. 64 Dopo aver esibito le sue competenze in materia di retorica e logica aristotelica, Pontano sposta la polemica in merito all’esegesi virgiliana «prendendo in esame [...] le principali riserve intorno alla poesia virgiliana rintracciabili nella tradizione classica [...], anche in rapporto con la più autorevole esemplarità dei paradigmi greci; osservazioni e sollecitazioni che erano confluite nel

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Quod te, Elisi suavissime, per Antonii nostri Manes, quando qua te maiore obtestatione cogam non habeo, oro atque obtestor. [38] ELIS. Et poterat Andreas et sponte etiam debebat provintiam hanc pro Virgilio suo suscipere. Quis enim Andrea Virgilii studiosior ac dignitatis excellentiaeque carminis atque operis eius inspector acutior? Sed me vel obtestatio ad hoc impellit tua, vel quod abunde multa memini quae de Virgilii laudibus dicere solebat Antonius, cuius memoriam hospiti huic ut Siculo, quem esse Siculum ornatus ipse indicat, arbitror quam gratissimam. Coeterum Andreas et quae a me referentur locupletare rationibus poterit et tanquam iudex adversus Virgiliocarpos sedere – qui magis enim dicere Virgiliomastigas liceat? Atque hinc potissimum incipiam, de quo me paulo ante Claudianus ammonuit; cuius versus sunt de monte Aetna:

Nunc movet indigenas nimbos piceaque gravatum Fedat nube diem; nunc motibus astra lacessit Terrificis damnisque suis incendia nutrito41

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Claud. Pros.1, 163-165.

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in modo piacevolissimo; ti prego in nome dello spirito di Antonio (non conosco una preghiera più solenne colla quale obbligarti). [38] ELISIO Anche Andrea potrebbe assumere di buon grado tale incarico per conto del suo Virgilio. Chi più di Andrea è appassionato di Virgilio? Chi indaga il pregio e l’eccellenza dei suoi versi e della sua opera con maggiore acume? Ma mi costringe a farlo la tua supplica o piuttosto il fatto che mi ricordo molto bene le numerose lodi rivolte a Virgilio da Antonio – immagino che il suo ricordo risulterà assai gradito al nostro ospite che, stando al suo abito, è siciliano come Antonio. Del resto Andrea potrà arricchire quello che dirò con ulteriori argomenti e, seduto come un giudice, ascoltare le accuse che rivolgerò contro i Virgiliocarpi – o dovrei piuttosto dire i Virgiliomastigi?65 Comincerò da un passo che la lettura di Claudiano mi ha riportato alla mente; questi sono i versi che Claudiano dedica all’Etna: Ora spinge i nativi vapori e con livida nube angustia e contamina il cielo, ora sfida le stelle con urti tremendi e alimenta i fuochi a suo danno.66

discorso, per più aspetti variegato e complesso (ma, significativamente, Pontano ne evidenziava soltanto i lati negativi) dei Saturnali di Macrobio, autorevole collettore tardo-antico di molteplici problemi della cultura classica» (Ferraù, Pontano critico: 16). 65 Il termine Vergiliocarpus («colui che fa a pezzi Virgilio») è uno scherzoso neologismo pontaniano creato sulla falsariga del termine Vergiliomastix («colui che frusta Virgilio»), utilizzato da Servio. Tra i «Virgiliocarpi» si annovera notoriamente lo stesso Valla: nel De sermone Pontano, ricordando la litigiosità cocciuta dell’umanista romano, scriverà che: «condannava Virgilio» (Serm. 1, 29), vd. Ferraù, Pontano critico: 41, dove si riportano numerose testimonianze in merito al disdegno valliano nei confronti di Virgilio. 66 Traduzione di Franco Serpa.

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Virgilii sunt: Portus ab accessu ventorum immotus et ingens ipse, sed horrificis iusta tonat Aetna ruinis; interdumque atram prorumpit ad aethera nubem turbine fumantem piceo et candente favilla attollitque globos flammarum et sidera lambito interdum scopulos avulsaque viscera montis erigit eructans liquefactaque saxa sub auras cum gemitu glomerat fundoque exaestuat imo.42 [39] Hos Favorinum philosophum dixisse aliquando Gellius scribit a Virgilio inchoatos magis quam factos, quod absolvi, quando mors praeverterat, nequiissent.43 Et Favorinus quidem ea verecundia usus videtur, ut excusasse magis quam incusasse Virgilium videri possit, quem Antonius non poterat de moderatione hac non laudare. Coeterum non omnium esse de liniamentis, inumbrationibus artificioque poetarum iudicium ferre, quae praeterquam a poetis ipsis vix cognoscerentur; quod in pictura quoque contingit, in qua multa sunt quae nisi summi etiam artifices non videant. Aetnae montis naturam id consilii non fuisse sibi Virgilius ipse prae se fert, ut vellet pro assumpta et quodammodo destinata materia describere, nec rei causas exquirit, ut Claudianus, nec spumantis materiae flumina ostendere vult, ut Pindarus; sed cum describere portum

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Verg. Aen. 3, 570-577. Gell. 17, 10, in part. Gell. 17, 10, 10 («Audite nunc inquit Vergilii versus, quos inchoasse eum verius dixerim, quam fecisse») e Gell. 17, 10, 5-6 («Nam quae reliquit perfecta expolitaque quibusque inposuit census atque dilectus sui supremam manum, omni poeticae venustatis laude florent; sed quae procrastinata sunt ab eo, ut post recenserentur, et absolvi, quoniam mors praeverterat, nequiverunt, nequaquam poetarum elegantissimi nomine atque iudicio digna sunt»). Cfr. anche Macr. Sat. 5, 17, 7-11. 43

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Questi sono i versi di Virgilio: Il porto si trova al riparo dei venti, immoto e vasto; ma accanto l’Etna tuona di orrende rovine, e talvolta vomita nel cielo una nera nube, fumante d’un turbine di pece e di luminose faville, e solleva globi di fiamme e lambisce le stelle; talvolta scaglia eruttando rocce e divelte viscere del monte, e agglomera con un mugghio nell’aria pietre liquefatte, e ribolle dall’infimo fondo.67

[39] Stando a quanto riferisce Gellio, il filosofo Favorino68 ebbe a dire che Virgilio abbozzò questi versi ma non li portò a perfezione, dal momento che non aveva potuto farlo, impedito dal sopraggiungere della morte. Favorino sembra ricorrere a questo rispettoso accorgimento per fare in modo di apparire intento a scusare Virgilio piuttosto che ad accusarlo, ed Antonio non poteva che lodarlo per una simile moderazione. Allo stesso tempo, però, affermava che non è da tutti esprimere un giudizio in merito alle pennellate, alle ombre e agli artifici utilizzati dai poeti, artifici che sono riconosciuti a stento dai poeti stessi, proprio come accade nel caso della pittura, molti dettagli della quale sfuggono a tutti tranne che agli artisti più grandi. Virgilio stesso dichiara che non era sua intenzione descrivere la natura del monte Etna come un pezzo di bravura, né chiarire le cause dell’eruzione, come fa Claudiano, né tantomeno descrivere i fiumi spumanti di lava, come fa Pindaro;69 ma quando aveva incominciato 67

Traduzione di Luca Canali (con una modifica al v. 1 e al v. 4). Le opinioni di Favorino sono riportate da Gellio nelle Notti attiche. 69 «La prima questione che Pontano affrontava era quella relativa alla comparazione tra due loci canonici della ecfrasis antica: la descrizione dell’eruzione dell’Etna nei testi di Pindaro e Virgilio. Un paragone che una tradizione critica che va da Gellio a 68

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Aeneae ore coepisset dixissetque ab accessu ventorum immotum et ingentem ipsum quidem, subdidit rem maxime admirabilem adeoque monstrosam, cuius Aeneas ipse memor factus esset, ut a portus descriptione rei ipsius miraculo averteretur. Ipse, inquit, portus ingens quidem, hoc est navium plurimarum capax, sed visu, sed auditu mirabile est Aetnam montem terrificis iusta ruinis tonare; qua commotus ammiratione atque a portu aversus, in illa explicanda primum ab auditu coepit. Videtis artificiosi poetae prudens consilium, quod in ammirabili re enarranda tractum se ammiratione ipsa ab initio statim ostendit? [40] Audire est, inquit, cum nulli corporum videantur conflictus,

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a descrivere il porto con le parole di Enea e aveva detto che si trovava «al riparo dei venti, immoto e vasto», aveva aggiunto un particolare, ricordato dallo stesso Enea, oltre modo mirabile e mostruoso al punto che il prodigio lo distoglie dalla descrizione della baia.70 Il porto, egli scrive, è «vasto», vale a dire in grado di ospitare numerose navi, ma è straordinario vedere ed ascoltare lì vicino il monte Etna mentre tuona e sparge intorno terribili rovine; in preda a tale ammirazione, distolto dalla baia, comincia a descrivere a pieno quello spettacolo portentoso, partendo dalle dall’udito. Vedete la scelta prudente dell’ingegnoso poeta71 che, sul punto di descrivere qualcosa di ammirabile, mostra subito, a mo’ di introduzione, il suo stupore? [40] Si sente, dice Virgilio, anche se non si vede alcuno scontro di corpi che produca tali suoni, non

Macrobio aveva risolto tutto a favore di Pindaro, con argomentazioni che s’appoggiavano soprattutto alla maggiore capacità della ecfrasis pindarica di rispecchiare la realtà naturale [...] Era un sistema di valutazione che il Pontano accettava in pieno mutuandone i parametri [...] pur se ne rovesciava la tavola dei valori. Per cui, nel discorso critico elaborato nell’Antonius, per il Pontano la resa poetica del passo virgiliano supera di gran lunga i risultati ottenuti da Pindaro, giacché egli ravvisa nella descrizione virgiliana del fenomeno dell’eruzione dell’Etna un asse di contiguità semantica col fenomeno atmosferico del temporale [...]; a tale asse di contiguità semantica, poi, è rapportata [...] tutta la descrizione, esaminata nei suoi più elementari termini, sottilmente indagati nel loro più ampio campo connotativo» (Ferraù, Pontano critico: 17-19). 70 Pontano chiarisce che la descrizione dell’Etna in Virgilio non è un pezzo di bravura fine a se stesso, artificialmente inserito nel poema, ma scaturisce dalla situazione narrativa ed è espressa con parole adeguate allo stato d’animo di Enea nel rievocare, quasi involontariamente, lo spettacolo spaventoso dell’eruzione. 71 Pontano interpreta l’intenzione espressiva di Virgilio nella sua descrizione come rivolta a suscitare meraviglia nel lettore, in accordo con la «voce solenne» (§ 44) che è propria dell’epica.

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e quibus soni fiunt, non sonitum modo, ac si parum esset sonitum dicere, sed tonitrum ex horrificis montis eius ruinis. Quae in aere maximo cum terrore fierent, ea dixit sub terris fieri; simul cum rei miraculo causam quoque leviter attingit. Namneque decebat Aeneam causas incendii atque fragoris illius exactius quaerere aut aperire. Tantus autem fragor nisi e fractione esse non poterat, quam fractionem ruinas nominans ostendit. Cum etiam dicit tonat, montem confragosum innuit; nanque conflictus illi et tanti sub terris fragores nisi in concavo et cavernoso fieri nequeunt, easque conflictiones ventorum atque ignium in cavernis esse dicit, ut confligentium nubium tonitrua imitentur. Singulis verbis rem auditu mirabilem facit: quod iusta quod tonat, quod ruinis, et quidem horrificis, cum horror absque membrorum concussione animique consternatione non contingat. [41] Dehinc cum auditui satisfecisset, transit ad visum, aliquanto longius in parte hac immoratus, ut per hunc sensum rem admirabiliorem redderet, quod videndo quam audiendo apparere plura soleant. Utque audientium animos magis ac magis rei miraculo afficeret, non secernit ea quae noctu quaeve interdiu viderentur, ut Pindarus. Dicit: interdum, idest nunc hoc nunc illud, dum non vult diem a nocte secernere, atram prorumpit ad aethera nubem. Videtis ut a se non recedit: dixit tonat, dicit nubem; tonare enim et nubescere in aere contingit. Cernitis ut rem effert, cum non fumum, sed nubem, et quidem atram, et prorumpit, quod violentum verbum est, et aethera potius quam aerem, ut nimium impetum absolveret. Fumantem non ita quidem veritatem velat, ut

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soltanto «un fragore» ma, come se la parola fragore non fosse sufficiente, «un tuono» che proviene dai terribili crolli all’interno del monte. Cose che accadrebbero in cielo con sommo terrore afferma che accadono sotto terra; e allo stesso tempo sfiora appena la meraviglia della cosa. Infatti non era appropriato immaginare che Enea potesse indagare od esprimere in modo più dettagliato le cause di quell’incendio e di quel fragore. Un fragore così grande, d’altronde, poteva essere unicamente il risultato di qualcosa che si spezza, fenomeno che Virgilio definisce con il termine «rovina». Quando dice «tuona», allude alla profondità del monte; infatti quegli urti e un fragore sotterraneo così forte non potrebbe aver luogo altrimenti che in un monte cavo e cavernoso, e dice che lo scontro tra i venti e il fuoco ha luogo dentro le caverne del monte, in modo tale da imitare il tuono prodotto dallo scontro delle nubi. Suggerisce un senso di meraviglia per l’udito con singole parole come «accanto», «tuona», «rovine», e anche «orrende», dal momento che l’orrore implica lo scuotersi delle membra e lo sbigottimento della mente. [41] Quindi, dopo aver soddisfatto l’udito, passa alla vista, soffermandosi un poco più a lungo in questa parte, per rendere la descrizione maggiormente meravigliosa attraverso questo senso, dato che la vista permette di cogliere più dettagli di quanto non faccia l’udito. Per riempire gli animi dei lettori sempre di più con l’impressione di qualcosa di straordinario, non distingue quello che si vede di notte da quel che si vede di giorno, come fa Pindaro. Dice: «talvolta», ovvero qualche volta sì, qualche volta no, dal momento che non vuole distinguere la notte dal giorno, «vomita nel cielo una nera nube». Vedete come è coerente: aveva detto «tuona», dice «nube»: il tuono e le nubi hanno entrambi a che fare con il cielo. Osservate come è plastico nella descrizione: non usa «fumo» ma «nube», e per di più «nera», e utilizza «vomita», che è un verbo violento, e «cielo» piuttosto che aria, per dare l’idea di un impeto straordinario. «Fumante»

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non suis aliquando nominibus rem exprimat; fumi enim ex aspiratione ignea, non nubes exurgunt. Turbine piceo et impetum et colorem non sine quadam animi commotione designat; est enim turbo ventus et tortuosus et violentus, et fortasse respexit turbinis ipsius glomerationem; ad haec piceus color in nubibus terrificus est. Duo haec simul coniunxit, ut rei miraculum augeret. Nec non flammas, fumos, lucem, tenebras, favillas simul miscet et turbinem piceum et favillam candentem. Quid amplius? Globos etiam fiammarum attollit; et quod satis hoc non videretur, lambit etiam sidera, ut quo ultra prodiret non haberet. [42] Non possum primo loco non magnopere Gellium admirari, vel potius ridere, qui Virgilium arguat quod dixerit fumantem turbine piceo et favilla candente, cum nec fumare soleant, ut ipse dicit, nec atra esse quae sunt candentia, nisi si pervulgate dixit et improprie candente pro fervente, non pro ignea et relucenti, quod candens est a candore dictum, non a calore44. O bone Gelli, cum noctis istas Atticas scriberes, non potuisti non aliquando dormitare; ignorabas an parum animadvertebas antiquissimum et latinissimum hunc loquendi morem Virgilio etiam familiarissimum? Neque enim dixit «fumantem candente favilla», sed «nubem candente favilla», ut «puella forma adeo venusta» et «magno vir ingenio» et quod in loco maxime simili legitur: Ipse Quirinali lituo parvaque sedebat succinctus trabea45

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Gell. 17, 10, 18. Verg. Aen.7, 187-188.

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non è un termine irrealistico, dal momento che esprime il fenomeno naturale con le parole appropriate: il fumo, infatti, e non la nube, è il risultato di una combustione ignea. «Un turbine di pece» indica l’impeto e il colore non senza un sussulto dell’animo: il «turbine», infatti, è un vento sinuoso e violento, e forse vuol rendere l’idea dell’ammassarsi del vento; inoltre una nuvola color di pece è spaventosa. Ha unito insieme due idee, per aumentare il senso di meraviglia. Unisce insieme le fiamme, la luce, le tenebre, le faville ed il turbine di pece e le faville ardenti. Che dire ancora? «Solleva globi di fiamme»; e, come se ancora non bastasse, «lambisce le stelle», perché più oltre non è possibile andare. [42] Per cominciare non posso fare a meno di stupirmi, o meglio di ridere di Gellio che critica Virgilio perché ha scritto «fumante d’un turbine di pece e di luminose faville», dato che, egli sostiene, l’Etna non fuma e le cose luminose non possono essere nere, a meno che con luminoso non intenda dire, com’è uso diffuso, arroventato e non igneo e rilucente, espressione impropria dato che il termine luminoso [candens] deriva da candore e non da calore. O buon Gellio! Dal momento che hai scritto codeste tue Notti attiche, non potevi fare a meno di dormicchiare di tanto in tanto; non ci pensavi o ignoravi il fatto che Virgilio utilizza qui un modo di esprimersi antichissimo e correttissimo, oltre che molto noto? Non ha detto, infatti, «fumante per le luminose faville» ma una «nube luminosa di faville», come se avesse utilizzato l’espressione «una fanciulla di grande bellezza» e «un uomo di grande ingegno» oppure come si legge in un passo molto simile: lo stesso [Pico] con il liuto quirinale sedeva, vestito della breve trabea72

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Indumento corto, di porpora, indossato in occasioni rituali.

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atque ut ibi non «succinctus Quirinali lituo», sed «succinctus parva trabea», Quirinalemque tenens seu gestans lituum, sic neque hic «nubem fumantem favilla candente», sed «fumantem turbine piceo» et emittentem seu spargentem atque efflantem simul candentem favillam. Expressit autem quod fieri saepissime in aere videmus, ut e nigerrimis nubibus post tonitrum erumpant fulgura et coruscationes, videaturque interdum coelum dehiscere flammasque evomere. Dici non potest quam sibi undique in eorum quae fiunt in aere similitudine constet. [43] Solebat irridere Antonius qui Virgilium dicerent voluisse montis Aetnae flagrantiam ad Pindari imitationem exequi eosque censebat et caecutire et delirare, nec Favorinum sed Fabarinum naso suspendere, cum nemo tam aversi aut parvi esset ingenii qui non palam videret Virgilium se totum a Pindarica enarratione avertisse, ut nec verbis nec translatione, qua ille utitur parte aliqua, similis esse vellet. Etenim Pindarus ad fontium, fluminum, fluctuum similitudinem rem omnem exequitur, amnes in incendii enarratione imitatus; at noster nulla huiusmodi similitudine usus, rebus ipsis inhaerens, et quam potest et Aeneae narrantis dignitas patitur, verbis explicans, ab ipso igne et a nubibus et ab iis quae in aere fiunt non recedit. Et Pindarus quidem solum fluxum et scaturiginem habet quam in aquis imitetur; Virgilius omnia pro materia proque suscepta explicatione a rebus ipsis, non aliunde sibi dicenda atque ostendenda assumit. Viderique Virgilius

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e qui non utilizza l’espressione «vestito col liuto Quirinale», ma «vestito della breve trabea» tenendo o meglio trasportando un tipo di liuto detto quirinale; in modo analogo non scrive «fumante per le luminose faville», ma «fumante d’un turbine» che solleva ovvero sparge d’intorno «globi di fiamme e faville». Ha descritto quello che vediamo accadere molto spesso nel cielo quando dopo il tuono erompono da nerissime nubi i lampi e gli sfavillii e si vede, allo stesso tempo, il cielo che si fende e vomita le fiamme. Non è possibile dire quanto sia coerente nella similitudine che descrive tutti i fenomeni che accadono nel cielo. [43] Antonio era solito prendersi gioco di quanti dicono che in questo passo Virgilio intende imitare Pindaro nella descrizione dell’ardore dell’Etna e li accusava di essere ciechi e dementi; si prendeva gioco di Favorino chiamandolo Favarino,73 perché non c’è nessuno che sia così contorto o così stupido da non vedere che Virgilio intendeva con tali versi allontanarsi il più possibile dalla descrizione pindarica, non volendo imitare in nessun modo né le parole né le metafore adoperate da Pindaro. Ed infatti Pindaro paragona ogni cosa alle fonti, ai fiumi, ai flutti, ricorrendo ai corsi d’acqua nella sua descrizione del fuoco; mentre lo scrittore latino non utilizza in alcun modo tale similitudine e segue più da vicino il fenomeno naturale, e, per quanto è possibile fare mantenendo il decoro che spetta al personaggio di Enea che narra, spiega quello che accade senza allontanarsi dal fuoco, dalle nubi e dai fenomeni che avvengono nel cielo. Inoltre Pindaro nella sua descrizione imita soltanto lo scorrere dell’acque e la sorgente; Virgilio trae le cose che intende descrivere e spiegare dalle cose stesse. Può dunque sembrare che 73 Gioco di parole tra il latino e il volgare («fava» per membro virile), particolarmente sarcastico se si considera che, come segnalato in Haig Gaisser, Notes: 367, secondo un’antica tradizione, Favorino era un eunuco.

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potest parum hac in parte Pindarum probavisse, qui dum se totum ad amnes, ad fluctus, ad scaturiginem vertit, eructationem ipsam quaeque inter erumpendum eructandumque contingerent inexpresse leviterque attigerit, nec monstrum illud suum tum auditu tum visu mirabile plene absolverit. Referam Pindari verba a Gellio ipso conversa. Sane eructantur inaccessi ignis purissimi ex imis fontes. Flumina vero interdiu quidem inundant fiuctum ferventem fumi. At per noctes punicea proglomerata fiamma ad profundum ponti fert solum; cum strepitu illa Vulcani fiuenta serpentia emittit saevissima, monstrum profecto tum visu, tum audi tu mirabile.46 [44] At Virgilius et aures et oculos et animum admiratione implet, cum montem tonare ait et e terrae penetralibus atras nube prorumpere, fumare piceum turbinem, volitare candentem favillam, at tolli globos fiammarum; quid amplius? Lambere etiam sidera, et tamen a rei natura non recedit, siquidem eructatio illa talis est, praeterquam quod sidera non lambit. Sed haec exuberantia poetarum est propria et haud scio an alibi magis quam hic deceat. Ac tanquam minora haec quae dicta sunt essent, quippe quae frequenter contingant, ea subdit quae ut maiora et rarius contingerent et longe monstrosiora essent. Itaque et scopulos erigit et avulsa montis viscera eructat, et saxa

46 Gell. 17, 10, 9; Gellio non traduce in latino, la traduzione si incontra negli incunaboli delle Noctes Atticae (cfr. Haig Gaisser, Notes: 183).

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Virgilio non approvasse in questo passo Pindaro il quale, dedicandosi tutto ai torrenti, ai flutti, alle sorgenti, ha toccato appena e in modo poco chiaro tutto quello che accade durante le diverse fasi dell’eruzione, e non ha descritto sino in fondo quel prodigio così straordinario ad ascoltarsi e a vedersi.74 Riporterò le parole di Pindaro nella traduzione dello stesso Gellio:

Erompono d’inaccessibile fuoco purissime fontane dai recessi; fiumi, di giorno, riservano un fiotto di fumo ardente; ma nelle tenebre, massi una purpurea fiamma rotolando, porta nella profonda distesa del mare, con fragore; il drago le sorgenti di Efesto tremende fa sgorgare: portento mirabile a vedersi, e meraviglia dei presenti ad udirsi.75

[44] Virgilio, invece, colma di ammirazione le orecchie, gli occhi e l’animo quando dice che il monte «tuona» e «vomita» dalle viscere della terra «una nera nube», e fuma «un turbine di pece e di luminose faville», e «solleva globi di fiamme», e cosa ancora?, «lambisce» persino «le stelle», e tuttavia non si allontana dalla natura, dato che l’eruzione è proprio così, se si esclude il fatto che non lambisce le stelle (ma questa esuberanza è propria dei poeti e non so in quale luogo sarebbe più appropriata di questo). E come se le cose che ha detto sin qui fossero di poco conto dato che accadono tutti i giorni, ne aggiunge altre più grandi che dato che accadono ancora più raramente e che sono di gran lunga più mostruose. E così erutta «rocce 74 «Per il Pontano l’asse semantico pindarico del fiume, se riesce a descrivere il momento effusivo, la colata lavica, è però insufficiente a rappresentare il momento più propriamente eruttivo, quello più “terribile” e più usufruibile a livello di effetti grandiosi, proprio quelli che Virgilio, invece, ha saputo meglio immaginare e costruire» (Ferraù, Pontano critico: 19). 75 Traduzione di Giorgio Bernardi-Perini.

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sub auras glomerat et quidem liquefacta et cum gemitu. Ac ne quid quod movere admirationem posset praetermitteret, quid ultimo loco ponit? Fundoque exaestuat imo: quod cum oculis exponere non posset, animis existimandum permisit. Quid hoc Virgiliano monstro absolutius? Et tamen docet glomeratus eos fieri non posse nisi vento igneque intus aestuante. Ac Pindaro quidem dare potest veniam lyricum carmen. At Virgilio implenda erat tuba illa heroica et magno personandum ore, neque ut illi succinendum qui a lyra sua non ita longe recessit. Quocirca noster heros tubam sic implet ut monstrum Pindaricum per tonitrum, ruinas, turbinem, picem, candentem favillam, erectos scopulos, avulsa viscera, saxa liquefacta sub auras ad sidera usque intonet et aures, oculos, animos admiratione simul atque horrore compleat. [45] Tonat Aetna ruinis: coepit Virgilius a tonitru, in quo Pindarus obmutescit; post etiam tempus nullum secernit, tum ut rem admirabiliorem faceret tum ut qualis res ipsa esset exprimeret; neque enim noctu solum flammarum illi globi cernuntur, sed etiam interdiu, quotiens et aer est nubilus et cacumen montis exhanelatis incendii fumigationibus caligat atque offunditur. An non die medio, cum coelum maxime nubilum est, videntur coruscationes et mediis e nubibus ignes emissi? Quod poeta noster sentiens, non ante dixit candente favilla quam praemisit turbine piceo, ne a rerum natura recederet. Ad haec non nisi post multos annos contingit amnes illos Pindaricos fluere, eum Virgiliana tonitrua fragoresque et fumi picei et prorumpentes in coelum nubes favillaeque frequentiores contingant, praesertim flante aut impendente austro. Ac nihilominus post liquescere

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divelte» dalle «viscere del monte» e «agglomera pietre», e le pietre sono «liquefatte» e tutto questo avviene con un «mugghio». Per non tralasciare niente di quello che muove all’ammirazione, che cosa pone in ultimo luogo? «Ribolle dall’infimo fondo», particolare che, se non può essere posto sotto gli occhi, tuttavia permette all’animo di immaginare. Che cosa c’è di più perfetto di questo prodigio virgiliano? E allo stesso tempo insegna che questi agglomerati non possono essere creati senza che, al loro interno, si agiti il vento e il fuoco. Naturalmente si può scusare Pindaro in quanto scrive un componimento lirico. Ma Virgilio doveva impiegare la tromba eroica e suonarla con voce solenne e non canticchiare come Pindaro che non si allontana troppo dalla sua lira. Per questa ragione il nostro divino poeta suona la tromba in modo tale da far risuonare il prodigio pindarico sino alle stelle attraverso tuoni, rovine, turbini di pece, luminose faville, rocce divelte, viscere del monte, sassi liquefatti sotto le onde e, allo stesso tempo, colma di ammirazione e di orrore le orecchie, gli occhi, gli animi. [45] «L’Etna tuona di rovine»: Virgilio comincia la sua descrizione dal tuono, che Pindaro non menziona; quindi non fa alcuna distinzione temporale, sia per rendere la descrizione meravigliosa, sia per descrivere fedelmente il fenomeno in sé: infatti quei «globi di fiamme» non sono visibili soltanto di notte ma anche durante il giorno, quando il cielo è nuvoloso o quando la sommità del monte in eruzione oscura il cielo e lo vela con i fumi dell’incendio. D’altronde, quando il cielo è particolarmente nuvoloso, non si vedono anche in pieno giorno lampi e fulmini uscire dalle nubi? Il nostro poeta, rendendosi conto di ciò, prima di dire «luminose faville» ha premesso il «turbine di pece», per non allontanarsi dalla natura. A tutto ciò si aggiunge che i fiumi di lava dei quali parla Pindaro scorrono molto raramente, mentre i tuoni virgiliani e i fumi di pece e le nubi che prorompono in cielo e le faville accadono più di frequente, soprattutto quando il

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saxa et avelli montis viscera ostendit, adeo nihil prorsus omittit. [46] Videturque noster Maro rem ipsam et loci situm contemplatus, siquidem cacumen montis, qua tanta fumigatio emittitur, hiatum habet profundissimum ac late amplum, quem dixerunt craterem, hodie plerique os vocant, exesis undique atque exustis rupibus. Quocirca non uti e fontibus fluere ignes possunt, sed materia ipsa vi ventorum incensa et diutius intra cavernas exagitata tandem evomitur magnoque in aerem impetu effertur, post in partem qua ventus inclinat decidens, igne liquefacta defluere incipit. Unde alibi ut rei huius peritus dixerat: Vidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam Flammarumque globos liquefactaque volvere saxa.47 Et hic vere ac naturaliter dicit: Interdum scopulos avulsaque viscera montis Erigit eructans liquefactaque saxa sub auras Cum gemitu glomerat. Prudentissime omnia: nam interdum, quia non semper; et cum gemitu, quia tanta ebullitio et pugna illa intra cavernas ventorumque ac concepti ignis violentus ac praeceps exitus absque ingenti fragore fieri nequit; et erigit eructans, quia ruptis caminis effractisque, ut ita dixerim, claustris, igne, vento, vaporibus, quaecunque obviam facta sunt in

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Verg. Georg. 1, 472-473.

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vento del sud incombe o sta soffiando. E nondimeno, subito dopo, mostra le pietre che si liquefanno e le viscere del monte che si svuotano, per non tralasciare alcunché. [46] Evidentemente il nostro Marone ha osservato da vicino il fenomeno e il luogo dove esso si svolge, dal momento che la cima del monte, che emette così tanto fumo, presenta una fenditura profonda e piuttosto ampia, che gli antichi chiamavano «cratere» ma che oggi i più chiamano «bocca», circondata da rocce divelte e bruciate. Per questo le fiamme non possono scorrere come da una fonte, ma la materia stessa della quale è fatto il monte, incendiata dalla forza del vento e agitata a lungo tra le caverne, viene vomitata fuori e trasportata in aria con grande impeto, e quindi cadendo in quella parte verso la quale il vento la porta, comincia a scorrere liquefatta dall’incendio. Per questo in un’altra opera aveva detto, come chi conosce bene questi fenomeni: Quante volte vedemmo nei campi dei Ciclopi l’Etna, [rotti i crateri, rovesciare globi di fiamma e travolgere massi liquefatti!76 E qui dice seguendo da vicino la natura: talvolta scaglia eruttando rocce divelte viscere del monte, e agglomera con un mugghio nell’aria pietre liquefatte, e ribolle dall’infimo fondo.77 Tutto è detto con somma accortezza: «talvolta», in quanto ciò non avviene sempre; «con un mugghio» perché la battaglia che avviene dentro le caverne e lo scontro tra i venti e il fuoco non può accadere senza un grande fragore; e «scaglia eruttando» perché, come ho detto poco fa, dopo che i luo76 77

Traduzione di Antonio La Penna. Traduzione di Luca Canali.

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altum tolluntur; et cum dicit glomerat, ostendit pugnam confligentium corporum; et cum dicit viscera, et liquefacta et avulsa, designat tum ingentissimam vim ventorum, tum quod ignis est excoquere ac liquefacere lapides, tum quod materia ipsa monte continetur atque illic generatur. [47] Dicet aliquis: at fluere liquescentem illam materiam mare versus omisit. Primum nec mare versus semper fluit, nam et saepenumero in mediterranea elabitur; deinde quod cum dixisset sub auras glomerat, visum est poetae tam defecati iudicii quodcunque adderetur minus esse; et profecto minus mirum est fluere decidentem illam liquefactamque materiam quam ex imis terrae visceribus ad auras maiore quam exprimi possit impetu ferri. Itaque hoc omisso, imo despecto ac repudiato, concludit: fundoque exaestuat imo, relinquens in audientium animis quae non cernerentur cum admiratione cogitanda atque qui intus aestus, quae ruinae, quanta etiam certamina ex iis quae oculis obiicerentur existimanda. [48] Quin etiam ad fabulosum commentum48 ut mirificum, ut ad deos relatum transit; adeo nihil quod audientium animos admiratione impleat praetermittit. Fama est Enceladi semustum fulmine corpus urgeri mole hac ingentemque insuper Aetnam impositam ruptis fiammam expirare caminis; et fessum quotiens motet latus, intremere omnem murmure Trinacriam et coelum suttexere fumo.49 Quamobrem Pindarum non solum imitandum a se Virgilius non iudicavit, sed ab illo sic recessit ut non verba,

48 Cfr «fabulosisque commentis Grai complevere caelum» (Mart. Cap. 8, 817), riscontro segnalato in Haig Gaisser, Notes: 367. 49 Verg. Aen. 3, 578-582. Le edizioni moderne leggono mutet invece di motet.

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ghi chiusi sono stati aperti dal fuoco, dal vento e dai vapori, scaglia in alto tutto quello che incontra nel suo cammino. Quando dice «agglomera», mostra la lotta tra i corpi che si scontrano; quando dice «viscere», ed aggiunge «rocce liquefatte e divelte», indica contemporaneamente che la forza dei venti è straordinaria, che il fuoco può arroventare e fondere le pietre e che la materia è racchiusa dal monte e dal monte è generata. [47] Qualcuno dirà: ha tralasciato di dire che quella materia liquefatta scorre verso il mare. Anzitutto non scorre sempre verso il mare, ma il più delle volte scivola nell’entroterra; e poi, dopo aver detto che si agglomera nel cielo, qualsiasi aggiunta sarebbe apparsa meno efficace ad un poeta così raffinato nel gusto; e senza dubbio meraviglia meno il fatto che la materia liquefatta scorra verso il basso piuttosto che venga trasportata con un impeto inesprimibile dalle viscere fino al cielo. E dunque dopo aver omesso tale dettaglio, o meglio dopo averlo disprezzato e rifiutato, conclude: «ribolle dall’infimo fondo», lasciando l’animo del lettore a riflettere sulle cose che non si vedono e a fare ipotesi su quale incendio si sia consumato all’interno, quale rovina, quale battaglia. [48] Passa quindi ad un’invenzione favolosa che riguarda gli dei,78 in modo da non tralasciare niente di quello che può colmare di ammirazione l’animo dei lettori. Si dice che il corpo di Encelado semibruciato dal fulmine sia oppresso da questa mole, e il gigantesco Etna sovrapposto spiri fuoco da squarciati camini; e tutte le volte che muta il lato stanco, tremi tutta la Trinacria con un rombo e veli il cielo di fumo.79

Per questo Virgilio non soltanto ha scelto di non imitare 78

Virgilio allude al mito secondo il quale Zeus avrebbe imprigionato all’interno del monte Etna Encelado, punendolo per aver partecipato alla guerra mossa dai giganti contro gli dei dell’Olimpo. 79 Traduzione di Luca Canali.

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non rei faciem, non ullam sit Pindaricae descriptionis adumbrationem secutus. [49] Nunc ostendat nobis Favorinus iste tam enucleati iudicii tamque teneri auditus philosophus, ut opimam et pinguem Pindari (ut ipse cum Gellio fortasse non recte sentiebat) facundiam praetereamus, ostendat, inquam, ubinam Virgiliana insolentia? Ubi tumor?50 Mihi quidem cum duobus maxime modis concipiatur tumor, re, idest sententiis, atque oratione, ubi sunt verba ista tumentia, ubi res insolentiam parientes? [50] At dixit tonat Aetna quia tonat aer et nubium conflictus tonitrum facit; prorumpit ad aethera nubem atram: nihil hic insolens, nihil tumidum; nam prorumpo verbum sic violentum est ut eo etiam historici utantur; et nubes atra ut nox atra; turbine piceo: an quo verbo vel impetum vel colorem expressius potuisset efferre? Cum e pice densissimus, id est nigerrimus halet fumus; et turbo, cum impetuosus tum etiam tortuosus atque glomerosus sit; et favillae flammaeque seu coruscationes e nigerrimis nubibus erumpere sic soleant ut candere videantur. Nihil a natura recedit, et verba rebus accommodat; non dicet poeta globos, cum idem verbum ab historicis non reformidetur? Non dicet lambere sidera? Atqui honestiori verbo uti non potuisset, ut levem ac fluitantem ignis, ut ita loquar, attactum significaret; nec cum dixit candente favilla, Pindari verba fluxum fumi calidi significantia, nec cum globos fiammarum, ignis fluenta, crasse, duriter atque improprie interpretatus est, hoc est, ῥόον καπνου ̑ αἴθωνα,51 quippe

50 Cfr. «Nam cum Pindari, veteris poetae, carmen, quod de natura atque flagrantia montis eius compositum est, aemulari vellet, eiusmodi sententias et verba molitus est, ut Pindaro quoque ipso, qui nimis opima pinguique esse facundia existimatus est, insolentior hoc quidem in loco tumidiorque sit» (Gell. 17, 10, 8). 51 Cfr. Gell. 17, 10, 13-15.

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Pindaro, ma si è tanto allontanato da lui da non seguire né le parole, non l’aspetto, né nient’altro di quello che si trova nella descrizione di Pindaro. [49] E ora ci mostri questo Favorino, un filosofo così lucido nei giudizi, così raffinato nel giudicare i versi, lasciando da parte la straordinaria e lussureggiante eloquenza di Pindaro (che lo stesso Gellio forse non comprende nel modo giusto), ci mostri, dicevo, in che cosa Virgilio si dimostrerebbe eccessivo? Dove sarebbe la sua ampollosità? Per quanto mi riguarda l’ampollosità può essere relativa a due aspetti: o la cosa, vale a dire le sentenze, o il discorso; dove sono dunque le parole ampollose? Dove l’eccesso? [50] Ha detto che «l’Etna tuona» perché l’aere emette tuoni e lo scontro delle nubi produce il tuono; «vomita nel cielo una nera nube»: non c’è niente in queste parole di eccessivo, di ampolloso; il verbo «vomitare» è così violento che lo usano anche gli storici; le nubi sono «nere» come «nera» è la notte; il «turbine di pece»: con quale parola si sarebbe potuto esprimere con maggiore efficacia l’impeto e il colore? Il fumo che sale dalle pece è densissimo, ovvero nerissimo; «turbine», perché è qualcosa di impetuoso e allo stesso tempo tortuoso; «faville» e «fiamme» ovvero fulmini, perché i fulmini vengono fuori dalle nubi più nere in modo tale da sembrare luminosi. Non si è allontanato dalla natura e le parole sono appropriate al fenomeno descritto. Il poeta non dovrebbe forse dire «globi», quando anche gli storici non temono di utilizzare il medesimo vocabolo? Non dovrebbe dire «lambire le stelle»? Ma non avrebbe potuto adoperare una parola maggiormente adatta per indicare quello che definirei la leggerezza e la fluidità delle fiamme. E poi quando dice «luminose faville» e «globi di fiamme» non ha tradotto in modo ignorante, rozzo ed improprio le parole di Pindaro, che significano «un flusso di caldo fumo» e «lo scorrere del fuoco» (in greco: ῥόον καπνου ̑ αἴθωνα), tanto

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qui ne interpretatus quidem sit, cum illum non modo imitari nollet, verum etiam hac in parte non probaret propter eas quas attulimus rationes velletque rem ipsam ut admirabilem, ut horroris plenam verbis suis ante oculos ponere animisque infigere ac tubae suae canorem tenere. Nec cum dixit scopulos et viscera avulsa, et liquefacta saxa et lambit sidera, et exaestuat imo fundo verba et strepitum verborum conquirit, rem inquam, ipsam inquam rem, suis atque heroicis verbis enarrat. Ad haec quod non semper ignis fluant amnes, interdum hoc fieri dixit, atque ubi fit, non diffluere e cratere illo perinde ac e fonte aut e fornace massae illius rivos, sed iactari in sublime materiam per frustra, per saxa, per scopulos, quae post in terram decideret et in fecis ac liquescentis spumae modum coacta flueret. [51] Quocirca, bone Favorine, ad philosophiam tuam redi, de syllogismo deque bonorum finibus tantum sententiam laturus, quando nec mihi satis magnus physicus videris, qui montis Aetnae naturam ignores ac poetarum figuras lineamentaque; et quid carmini conveniat, quid materiam susceptam deceat, qua ratione humilis res tollatur, qua elata prematur iudicandum pensitandumque poetis ipsis relinque. [52] Vidimus in Aenaria insula factum quod Virgilius de Aetna scribit, cum e quadam eius parte ignis erupisset centum ante annis aut paulo amplius. Nam et ad mare et sparsim per agros praeter fluxum illum magna mole lapides iacent, et in ipso litore et paulum etiam intra mare grandes eminent scopuli adeo ex cocti exustique ut

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più che egli non ha tradotto affatto, dato che non voleva imitare il poeta greco, perché, per le ragioni che abbiamo detto, non approvava questa parte della descrizione di Pindaro, e intendeva piuttosto suonare la sua tromba canora e presentare agli occhi e all’animo del lettore una descrizione di tale evento quanto più possibile piena di meraviglia e di orrore. E quando dice «rocce divelte», «viscere del monte», «pietre liquefatte», «lambisce le stelle» e «ribolle dall’infimo fondo», non sta radunando parole sonore ma narrando con parole proprie dell’epica il fenomeno così com’è, il fenomeno stesso vi dico. Inoltre, dato che non sempre scorrono fiumi di fiamme, ha aggiunto «talvolta»; e quando ciò avviene i fiumi di quelle materie non scorrono come si potrebbe pensare da quel cratere come da una fonte o da una fornace, ma sono gettati in alto sotto forma di frammenti, di sassi, di massi che poi, una volta caduti in terra, scorrono coagulati insieme sotto forma di scorie spumose e liquefatte. [51] Per questo, caro Favorino, torna alla tua filosofia, e discuti soltanto di sillogismi e del sommo bene, perché non mi sembra proprio che tu sia un grande fisico, dato che ignori la natura del monte Etna così come ignori le figure retoriche e i colori utilizzati dai poeti. Lascia ai poeti la scelta di cosa convenga al carme, quale materia debba essere scelta, secondo quali principi si possa innalzare un soggetto umile ed abbassare un soggetto sublime. [52] Quello che Virgilio scrive a proposito dell’Etna lo abbiamo visto accadere cento anni or sono o poco più ad Ischia, quando da qualche parte nell’isola si è verificata un’eruzione.80 Sia in riva al mare, sia sparsamente per i campi, dove un tempo scorreva la lava, si trovano pietre di grandi dimensioni, e sulla spiaggia e nel mare sorgono grandi scogli, a tal punto bruciati

80 Pontano si riferisce ad una celebre eruzione avvenuta ad Ischia intorno al 1382-83; allusioni a questa eruzione si leggono anche in altre opere di Pontano: Ecl. 1 5, 30-32; Met. 998-1002.

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hodie quoque appareat spumosa illa liquefactio; quin etiam Pindarica fluenta lapidum sunt in spumam solutorum, non materiae continuae liquescentisque quale liquefactum fluere aes solet. Cur autem praeter naturam cuiquam videatur ab incluso sub Aetna igne torqueri lapides, cum videamus aeneis e tormentis quae bombardae dicuntur tanto impetu pilas torqueri lapideas turbinesque illos piceos glomerari tanto etiam fragore ut ad sexaginta passuum millia exaudiantur? Hoc quod in Aenaria factum diximus legimus scriptum in monumentis Caroli Neapolitanorum regis, quo incendio etiam castellum haustum est. [53] ANDR. Quanquam Aenariae exemplo potes esse contentus, tamen et Vesuvii montis ruina et ager squalore obsitus ad sextum ab Neapoli lapidem hoc ipsum quod de liquefactis igne saxis a Virgilio traditur docere abunde potest. Est enim passim videre hic exustorum lapidum erectos cumulos, illic excussa summo e monte mirae magnitudinis saxa impune sparsa, alibi profluentis rivi lapidosos decursus, nec uno in loco saxorum strues simul congestas, ut facile appareat materiam illam omnem e lapide constare, eiectam vi vaporum atque ignium longiusque agglomeratam, quae videre cuivis in promptu est. Sed redeas ad quod, Elisi, coeperas et Macrobium adversus Aeneam a Latinis moti belli causas tanquam leves ac pueriles ridentem ut rudem,52 grammaticorum omnium importunissimum, ferula sua feri atque intra cancellos grammaticae redire coge audentem se quoque viris conferre.53

52 53

«leve nimisque puerile» (Macr. Sat. 5, 17, 2) Cfr. Macr. Sat. 5, 17, 1-4 e Verg. Aen. 7, 475-539.

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che ancora oggi hanno l’aspetto di un liquido raggrumato; infatti anche i liquidi dei quali parla Pindaro sono pietre disciolte dal calore e non una materia liquida come il bronzo liquefatto. Perché qualcuno dovrebbe ritenere che sia contrario alla natura che il fuoco nascosto nell’Etna getti fuori dei sassi quando vediamo che quelle macchine di bronzo chiamate bombarde gettano con tanto impeto le palle di ferro e con una tempesta di pece talmente fragorosa che il rumore si avverte da sessantamila passi? Quello che è accaduto ad Ischia lo abbiamo letto nelle cronache di Carlo d’Angiò (persino il suo castello venne distrutto dal fuoco)81. [53] ANDR. Anche se potrebbe bastarti l’esempio di Ischia, tuttavia quello che Virgilio riferisce a proposito dei sassi liquefatti può essere agevolmente mostrato dalle rovine che circondano il Vesuvio e dal paesaggio desolato che si incontra a partire dal sesto miglio oltre Napoli. In questi luoghi, infatti, si possono vedere in ogni direzione mucchi di pietre combuste: quaggiù sassi di mirabile grandezza sparsi senza arrecare danni dalla cima della montagna, laggiù i percorsi di pietra lasciati dallo scorrere di un fiume, da molte parti ammassi di sassi, in modo che appare evidente che tutta quella materia consiste in roccia gettata lontano dalla forza dei vapori del fuoco e poi riunita insieme, e chiunque può rendersene conto di persona senza fatica. Ma ritorna, Elisio, all’impresa che avevi intrapreso e colpisci con la sua bacchetta Macrobio, il più importuno dei grammatici, il quale si prende gioco, da rozzo qual è, delle motivazioni della guerra mossa contro Enea dai latini considerandole di poco conto e puerili: costringilo a ritornare nei limiti della grammatica, dal momento che ha osato mettersi a discutere con gli adulti.82 81 Il re al quale si riferisce Pontano è Carlo III d’Angiò (13451386), cfr. Monti, Ricerche: 278-282. 82 Pontano confuta una serie di accuse di inverosimiglianza mosse dai grammatici a Virgilio; la discussione, quindi, si sposta dal piano dell’elocutio su quello dell’inventio senza perdere la veemenza che caratterizza queste pagine.

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[54] ELIS. Recte mones. Hunc hominem Antonius cum nebulonem aliquando obiurgari sensisset: «Nimis parce, inquit, praesumptonem54 potius, quando nemo unquam plura sibi praesumpsit aut permisit». Quaeso, Macrobi, poetarum iudex tam sobrie, quaeso inquam, quae inter Latinos Troianosque belli causa excogitari accommodatior poterat? Nam nec Latini per id tempus mercaturam navibus exercebant nec Aeneas piraticam, ut per causam praedocinii55 excitari bellum potuisset; nullae antecedebant inimicitiae et Aeneas eo consilio in Latinum litus descensionem fecerat, ut in terra fato debita sedes profugis statueret. Itaque non belli, sed amicitiae potius causas quaerebat, ut qui conciliare sibi finitimorum animos studeret, missis etiam oratoribus cum muneribus. Vidit acutissimus auctor fortuitam causam, quam lippus caecutiensque grammaticus quomodo videret? Moris est classiariorum militum, ne piratarum tantum putes, saepius in continentem descendere, carnis, ut ipsi dicunt, faciendae gratia: nec solum ex hostico, sed ubi maior cogit inopia, etiam ex pacato pecora abigere. Quam ob causam, ut quotidie videmus, inter socios amicosque indigne multa committuntur. Hanc occasionem, et quidem fortuitam, cum Aeneas nihil minus quam bellum quaereret, nactus Virgilius, non armentalem aut aratorium bovem, sed regii villici cervum atque in deliciis habitum et agrestibus notum

54

Nuovo conio di Pontano, cfr. Sabbadini, Ciceronianismo:

79. 55

Nuovo conio pontaniano sulla falsariga di latrocinum, cfr. Previtera: 315.

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[54] ELIS. Mi hai dato un buon consiglio. Antonio, avendo inteso che costui viene talvolta accusato di essere vano, disse: «È troppo poco, direi piuttosto un presuntuosone, dato che nessuno con maggiore presunzione si è arrogato delle prerogative non sue». Dimmi Macrobio, assennato giudice dei poeti, dimmi, suvvia, quale causa più sensata per una guerra tra i Latini e i Troiani si poteva immaginare? Infatti a quel tempo i latini non esercitavano l’arte della mercatura con le navi né Enea era un pirata, così che non era possibile che scaturisse una guerra a causa del brigantaggio; non sussistevano inimicizie di sorta e proprio per questo motivo Enea aveva scelto le spiagge dei latini come luogo nel quale approdare ed edificare una patria per i profughi troiani nella terra stabilita dal fato. Egli, dunque, non cercava pretesti per guerreggiare ma occasioni per stabilire la pace, come colui che si adoperava a conciliare gli animi dei vicini, persino con l’invio di messi che recavano doni. Forse l’acutissimo scrittore ha visto una causa fortuita che persino un grammatico cisposo ed orbo dovrebbe riuscire a vedere in qualche modo? È abitudine dei marinai (non credere che riguardi soltanto i pirati) sbarcare di tanto in tanto sulla terraferma allo scopo, come dicono loro, di prendere un po’ di carne: e questo avviene razziando il bestiame non soltanto nei campi nemici ma anche, quando la fame incombe, nei campi degli alleati. Per questo motivo, lo vediamo ogni giorno, si commettono molte ingiustizie tra amici ed alleati. Sfruttando una simile occasione, fortuita, dato che Enea a tutto pensava tranne che ad una guerra, Virgilio fa in modo che ferisca non un capo di bestiame o un bue da aratura, bensì un cervo della riserva regale, allevato per diletto e noto ai contadini: in questo modo

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vulnerat, quo facilius multitudo cogniti cicuris gratia ad tumultum concurreret Troianosque non tantum ut abactores, sed qui regias res violare ausi essent armis ulciscerentur atque e finibus pellerent quos aegerrime ferrent illic considere perindeque ut exteram atque ignotam gentem odio persequerentur. [55] Quae oportunior excogitari occasio potuit, muliere praesertim agrestes excitante, quae vim passa videri posset,56 cum etiam Iunonem belli causas quaerentem introduxisset? Atque haec quidem tanquam scintilla furtim elapsa, quae paulatim serpens, mox vento exorto illapsa stipulis agros, silvas, obvia simul cuncta deflagrat.57 Quid aliud? Tanquam duos e diverso mundi cardine spiritus, qui accensum ignem excitent, exuscitat: alteram e coelo delapsam, deam Iunonem scilicet, alteram Furiarum maximam, Herebo excitam, cogentem buccina populos et duces vocantem in bella; proque stipula subiicitur Amata, mulier, mater, regina, importuna quidem mulier, mater indulgentissima, regina foeminarum choros solicitans; ad haec Latinus senio confectus ac vix sui iuris. Incensa igitur stipula, agri silvaeque exuruntur.58 Tela novat Atina,59 vomeres in enses excoquuntur, scribuntur exercitus, leguntur duces, primusque Mezentius bellum sic init ut ne mulieres quidem arma detractent60. Videtis e parva fortuitaque favilla quantum incendium accenderit, ut subrigantur quidem legentium animi quotiens crines illi anguinei subriguntur! Quid hoc artificiosius,

56

Cfr. Verg. Aen.7, 503-504: «Silvia [...] / auxilium vocat et duros conclamat agrestis». 57 L’immagine dell’incendio che divampa a partire da una piccola scintilla torna nella parte conclusiva del Bellum sertoriacum, cfr. scena XII, vv. 253-256. 58 Cfr. Verg. Aen. 7, 386-600. 59 Cfr. Verg. Aen. 7, 629-631. 60 Cfr. Verg. Aen. 7, 647-648.

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la folla, per difendere l’animale domestico che ha riconosciuto, accorre più prontamente al tumulto e con le armi si vendica dei troiani, non tanto perché li considera ladri di bestiame, ma perché hanno violato una proprietà regale; e scacciano dai loro confini quanti non sopportano si possano stabilire in quei luoghi e li perseguitano con odio, in quanto popolo estraneo e ignoto. [55] Quale occasione migliore avrebbe potuto immaginare – una donna, che poteva sembrare aver subito violenza, intenta ad invocare l’aiuto dei contadini –83 dopo che aveva anche introdotto Giunone ansiosa di trovare dei pretesti per far scoppiare una guerra? Questo episodio è come una scintilla fuggita inavvertitamente che a poco a poco si diffonde e poi, alzatosi il vento, si diffonde tra le stoppe e devasta i campi e le foreste. Che altro dire? Per accendere il fuoco, per dir così, ha destato due venti da due regioni opposte dell’universo: uno proviene dal cielo, intendo la dea Giunone; l’altro è la più grande delle Furie, risvegliata dall’Erebo, pronta a sobillare il popolo e a spingere con la sua tromba i capi alla guerra; il ruolo di stoppa spetta ad Amata, una donna, una madre, una regina – una donna importuna, una madre troppo indulgente, una regina che istiga il coro delle donne; a tutto questo si aggiunge Latino, devastato dall’età e quasi incapace di intendere. Una volta accesa la stoppa, i campi e le foreste sono preda delle fiamme. Atina rinnova le armi, si tramutano i vomeri in spade, si arruolano gli eserciti, si scelgono i comandanti, Mezenzio per primo va alla guerra in modo che nemmeno le donne rifiutano le armi. Vedete quale incendio è sorto da una piccola, casuale scintilla, di modo che l’animo di chi legge inorridisce ogni qual volta si drizzano i capelli serpentini 83

Il cervo, ferito da Ascanio, si rifugia presso la sua guardiana, che reagisce invocando disperatamente l’aiuto dei suoi vicini: «Per prima la sorella Silvia, percuotendosi con le palme / le braccia, invoca aiuto e raduna i duri agricoltori» (Verg. Aen. 7, 502-3, trad. di Luca Canali).

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quid magis sepositum atque a vulgo abductum? Cognovit ammirabilissimam excogitatissimamque inventionem Iuvenalis cum dixit: caderent omnes a crinibus hydri, Surda nihil gemeret grave buccina. [56] Quam, si diis placet, cognoscet Macrobius, sordidae locutionis, ne dicam orationis grammaticus. Quid tu, peregrine homo, de maximi poetae admirabili artificio nobilissimisque inventis te iudicem statuis, qui ne latine quidem loqui scias? Maluissem, inquis, «Maronem et in hac parte apud auctorem suum vel apud quemlibet Graecorum alium quod sequeretur habuisse».61 Scilicet non vis fingere Virgilium, non vis optimum artificem arte sua uti artificiose? At ego maluissem te, cum latine loqui vis, Ciceronem aut quem alium e doctissimis in loquendo sequi. An tu apud Ciceronem, Sallustium, Caesarem invenisti «in diggeriem concoquere»,62 «in memoriam atque in ingenium ire»,63

61 62 63

Macr. Sat. 5, 17, 4. Macr. Sat. 1 praef. 7. Macr. Sat. 1 praef. 7.

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delle Furie. Che cosa è elaborato con maggiore arte, che cosa è più squisito, cosa più lontano dal volgo? Riconosce che si tratta di un’invenzione ammirevole ed ingegnosa Giovenale quando scrive: dal capo della Furia cadrebbero tutti i serpenti e, muta, più non squillerebbe con suoni cupi la tromba di guerra.84 [56] Apprezzerà tale invenzione, se agli dei piace, anche Macrobio, grammatico triviale nel linguaggio, per non parlare dello stile. Perché tu, che sei uno straniero,85 ti ergi a giudice dell’abilità mirabile e delle nobilissime invenzioni del più grande dei poeti, senza saper nemmeno scrivere in latino? «Avrei preferito» dici «che Virgilio Marone anche in questa occasione avesse avuto uno spunto da seguire nel suo maestro o in qualsiasi altro poeta greco».86 Quindi non vuoi che Virgilio adoperi l’immaginazione? Non vuoi che il più grande degli artisti faccia uso artisticamente della sua arte? Io invece avrei preferito che tu, dal momento che vuoi scrivere in latino, seguissi Cicerone o un altro scrittore altrettanto colto. Ma tu in Cicerone, Sallustio, Cesare hai forse trovato frasi come «in diggeriem concoquere»,87 «in

84 Traduzione di Mario Ramous. Pontano sta citando dalla settima satira nella quale Giovenale rimprovera i potenti del tempo perché non concedono ai poeti una giusta remunerazione «Descrivere carri, cavalli, i volti degli dei / e delle Erinni che accecano Turno, / è impresa di mente ispirata, / non angosciata di dover trovar una coperta. / Togli a Virgilio lo schiavetto / e una casa decente: /» (Iuv. 7, 66-69) 85 Ambrogio Teodosio Macrobio (390-430 ca) era originario dell’Africa romana. 86 Traduzione di Nino Marione. 87 «procedere nella digestione».

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«in incrementum succrescere»,64 «tale praesens hoc opus volo»,65 «nativa Romani oris elegantia»,66 «noscendorum congeriem»,67 et mille his etiam absurdiora magisque barbara, quibus tu, ineptissime, cum sis ipse ineptissimus, uteris? Atqui, audacissime grammatice, cum fateris te sub alio ortum coelo a linguae latinae vena non adiuvari,68 cur de maximo deque alieno poeta tanquam praetor iudicas? Unum tamen dare tibi veniam potest, quod conviva, quod satur, quod inter rorantia pocula, quod in Saturnalibus haec proferebas. O bellissimum hominem, qui convivam iudicem, qui mensam praetorium statuas! [57] Sed ad imitationem quam in Marone desideras redeamus. Ciceronem si legisses, non solum latine loqui, sed recte quoque de scriptorum ingeniis deque scriptis ipsis sententiam ferre didicisses. Ait et orator et philosophus eminentissimus nostros aut melius invenisse aut inventa a Graecis fecisse meliora69. Quod si poetae cuiusquam fuit inventa ab aliis meliora facere, haec mihi laus Virgilii propria videtur. Sed neque melius invenerint nostri, neque fecerint aliorum inventa meliora; non tamen caecutientis grammatici sententiae standum est. Quonam auctore usus est Homerus in fingendis tot monstris? Quem imitatus est Orpheus in commentis adeo fabulosis? Quem secutus

64 65 66 67 68 69

Macr. Sat. 5,13, 31. Macr. Sat. 1 praef. 10. Macr. Sat. 1 praef. 12 Macr. Sat. 1 praef. 4. Macr. Sat.1 praef. 11. Cfr. Cic. Tusc. 1, 1, 1.

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memoriam atque in ingenium ire»,88 «in incrementum succrescere»,89 «tale praesens hoc opus volo»,90 «nativa Romani oris elegantia»,91 «noscendorum congeriem»92 e mille altre espressioni altrettanto assurde e barbare, di cui tu stupidamente ti salvi, da stupido qualsiasi? E poi, grammatico spregiudicato, dato che confessi di «essere nato sotto un diverso cielo» e di non «esserti abbeverato alla fonte latina», perché emetti un verdetto sul più grande dei poeti (per te uno straniero) come se fossi un giudice? L’unica scusante che ti si può concedere è che hai proferito tali giudizi durante i pasti, colmo di cibo, tra i bicchieri di vino, durante i Saturnali.93 Oh che uomo elegante, che scambia un convito per un processo e una mensa per un tribunale! [57] Ma torniamo a quell’imitazione della quale tu lamenti l’assenza in Virgilio. Se avessi letto Cicerone avresti imparato non soltanto a scrivere in latino, ma anche ad emettere giudizi corretti sugli ingegni degli scrittori e sulle loro opere. Scrive quel grande oratore, quell’eminente filosofo, che i nostri scrittori o hanno escogitato invenzioni migliori o hanno migliorato ciò che inventarono i Greci. Se mai c’è stato un poeta che ha reso migliore un’invenzione di altri, tale lode per me va senza dubbio attribuita a Virgilio. Ma concediamo per un momento che i nostri scrittori non abbiamo trovato invenzioni migliori e non abbiano migliorato quelle degli altri; non per questo bisogna ricorrere al giudizio escogitato dalla cecità di un grammatico. Di quale autore si servì Omero per immaginare tanti eventi prodigiosi? Chi imitò Orfeo per le sue invenzioni così favolose? Chi stava imitando chi 88

«avere nella memoria e nell’intelletto». «accrescere con un incremento». 90 «desidero la presente opera». 91 «l’eleganza nativa della bocca romana». 92 «un mucchio di cose degne di essere conosciute». 93 L’opera di Macrobio prende il titolo di Saturnalia dalla festa romana in onore del dio Saturno, durante la quale nelle case si consumava un banchetto sacro. 89

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est qui primus finxit Castorem Pollucemque ortos ovo? Qui primus commentus est Plutonem in inferno regnare, hydram septicipitem esse, natos e serpentum dentibus armis instructos homines? Denique ab quo accepit Homerus auctore arma a Vulcano Achilli fabricata, vulneratam a Diomede Venerem, perlatum utribus Ulissem et mille talia? Atqui poetarum haec non modo licentia, sed pene ars est; quin etiam ab aliis enarratas fabulas in aliam atque aliam formam convertere permittitur, nedum fingere novas liceat. [58] Sed veniamus ad alium locum videamusque quam intempestivus canis huius latratus sit: Parva metu primo, mox sese attollit in auras, Ingrediturque solo et caput intra nubila condit.70

Homerus, inquit, contentionem a parvo dixit incipere, postea ad coelum usque succrescere. Hoc idem Maro de fama, sed incongrue; neque enim aequa sunt famae contentionisque argumenta, quod contentionis, etiamsi ad mutuas usque vastationes ac bella processerit, adhuc contentio est et manet ipsa quae crevit; fama vero cum in immensum prodiit, fama esse iam desinit et fit notio rei iam cognitae. Quis enim iam famam vocet cum res aliqua a terra in coelum nota sit? Deinde neque ipsam hyperbolen potuit aequare: ille coelum dixit, hic auras et nubila.71

70

Verg. Aen. 4, 176-177. Macr. Sat. 5, 13, 31-32. Gli editori moderni leggono augmenta e non argumenta. Pontano non trascrive i versi di Omero riportati da Macrobio subito dopo quelli virgiliani (Il. 12, 200-207). 71

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per primo immaginò che Castore e Polluce nacquero da un uovo? E chi per primo immaginò che Plutone regna negli inferi, che l’idra ha sette teste, che uomini armati nacquero dai denti di un serpente? Da quale scrittore Omero avrebbe tratto le armi di Achille forgiate da Vulcano, Venere ferita da Diomede, Ulisse trasportato sulle acque dagli otri, e mille altri invenzioni del genere? Questa non è soltanto una licenza concessa ai poeti, è, si può dire, l’arte poetica stessa; è concesso, infatti, trasformare in un’altra forma i miti narrati da altri, nonché, a maggior ragione, fingerne di nuovi.94 [58] Ma veniamo ad un altro passo e vediamo quanto questo cane abbai a sproposito:95 Dapprima piccola per timore, tosto si leva nell’aria, e cammina sulla terra e nasconde il capo tra le nubi. Omero disse che la Discordia incomincia piccola e poi crescendo s’ingrandisce fino a raggiungere il cielo; Virgilio Marone disse lo stesso della Fama, però a sproposito. Infatti discordia e fama non possono avere uguale incremento: la discordia, anche se progredisce fino a causare devastazioni reciproche e guerre, è pur sempre discordia, rimane sempre essa ingrandita; invece la fama, quando raggiunge enorme estensione, cessa di essere fama e diviene nozione di evento ormai conosciuto. Chi parlerebbe ancora di fama a proposito di cosa nota in cielo e in terra? Inoltre non riuscì ad eguagliare neppur l’iperbole stessa; quello disse cielo, questo aria e nubi.96 94 Pontano intende dire che la poesia antica si basava su una continua rielaborazione di miti, trasmessi oralmente e cantati dai poeti e che l’«immaginazione», con le licenze che essa comporta, è l’essenza stessa dell’arte poetica. 95 Pontano critica il confronto tra la descrizione omerica della Discordia e quella virgiliana della Fama così come in precedenza ha criticato il confronto tra la descrizione dell’Etna in Pindaro e in Virgilio. 96 Traduzione di Nino Marione.

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Atque, ut ab ultimo incipiamus, nesciebas, puto, grammatice, versus facere, qui non videris tribus tantum syllabis potuisse hyperbolen aequare et «caput intra sidera condit» dicere. O crassum et supinum ingenium! Atqui noluit Virgilius «intra sidera» dicere; nam cum intelligeret famam plura saepe quae certa non essent divulgare ac vera falsis miscere et facta atque infecta nuntiare, caput eius condit intra nubila, cum coeterum corpus videri dicat. Itaque et magnitudinem eius ostendit, cum attollit eam in auras et versari inter homines docet, cum ingredi eam solo facit, et quod multa secum ferret quae non statim cernerentur verane an falsa essent, intra nubila caput abscondit; etenim cum oculis nostris offusa nubes est, veras cernere rerum species nequimus. Unde ipse alibi: «nubem quae mortales hebetaret sensus caligaretque, oculus circum eripit».72 [59] Agnoscitis singularem Maronis prudentiam, grammaticis non modo non perspectam, sed ne quidem nisi maximis poetis perspectabilem: «Non sunt» inquit «aequa famae contentionisque argumenta». Detur ignorantiae hominis non esse paria; sed tu mihi videris, bone Macrobi, fama quid sit non intelligere, qui dicas eam postquam in immensum prodiit, famam esse desinere ac rei cognitae notionem esse. Quod si sit, passim Livium, Sallustium, Ciceronem

72

Pontano parafrasa le parole di Venere ad Enea in Aen. 2, 604-606.

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Per cominciare dalla fine, immagino, grammatico, che non sapevi comporre versi dato che non ti accorgi che con tre sole sillabe avrebbe potuto eguagliare l’iperbole e dire «caput intra sidera condit»,97 ingegno stupido e rozzo che non sei altro!98 Ma Virgilio non volle dire «intra sidera»; infatti, dal momento che si rendeva conto che la Fama spesso divulga molte cose che sono incerte e unisce il vero col falso e riporta eventi che sono accaduti ed eventi che non sono accaduti, oscurò il suo capo «tra le nubi», mentre scrive che la parte rimanente del corpo è visibile. E così Virgilio, quando la solleva sino al cielo, mostra la sua grandezza e, allo stesso tempo, quando la fa camminare sul suolo, insegna che si diffonde tra gli uomini; dal momento porta con sé molte cose che non riusciamo a distinguere se siano vere o false nasconde la testa tra le nuvole (infatti quando i nostri occhi sono ricoperti da una nube non sappiamo distinguere il vero aspetto delle cose: in un altro luogo Virgilio stesso ha scritto: «la nube che ora frapposta al tuo sguardo ottunde la vista mortale»).99 [59] Riconoscete la straordinaria accortezza di Virgilio, che non solo è ignota ai grammatici ma è a mala pena comprensibile per i poeti più grandi: «La fama e la contesa», sostiene Macrobio, «non sono argomenti affini». Si dia il caso che l’ignoranza degli uomini non sia pari; ma tu, caro Macrobio, mi sembri non capire che cosa sia la fama, quando dici che dopo che ha raggiunto dimensioni sconfinate smette di essere fama e diviene la nozione di evento ormai conosciuto.100 Se fosse così, 97

«nasconde il capo tra le stelle». Pontano chiarisce che Virgilio si allontana dal testo omerico per una scelta espressiva e non per mere necessità metriche, dal momento che sarebbe stato possibile seguire da vicino l’immagine utilizzata dal poeta greco senza mutare la struttura del verso. 99 Traduzione di Luca Canali. 100 Ancora una volta la discussione si incentra su una definizione, in questo caso una definizione non filosofica ma lessicale. 98

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et rerum scriptores alios errare inveniemus, nec permissum nobis erit dicere: fama proelii ad Cannas facti adhuc manet, nec rerum a populo Romano gestarum fama perpetua erit, nec Atheniensium res gestae minores aliquando fuere quam fama feruntur,73 nec famae consulendum est. Atqui scriptores famae potissimum student: et Caesar Alexanderque plura famae gratia fecisse videntur, nec temere Alexander dicebat fama bella constare.74 [60] Aliud est igitur fama quam quod tu, grammatice, putas, nec fama esse desinit cum in immensum crevit efficiturque rei cognitae notio, ut tu ipse garris. Nam et Ciceronem consulem plane fuisse scimus, tamen famam consulatus eius dicimus magnam adhuc esse; et Annibalem in Africa superatum fuisse a Scipione notissimum est, tamen famam victoriae eius extare dicimus. Caesarem maximas res gessisse etiam mulierculis cognitum est; num propterea minus dicimus rerum a Pompeio quam a Caesare gestarum famam maiorem esse, aut Alexandri famam nulla posse vetustate obliterari, licet eius facta sint cognitissima? Et quod ab occasu solis ad ortum usque Herculis labores cogniti sint, famam propterea laborum Herculis dicere non licebit? Desine igitur oblatrare, catelle, et fama quid sit, quot etiam dicatur modis, disce; nam et vetustissimarum rerum celebritas fama dicitur et quae nunc a Turcarum geruntur rege fama per orbem terrarum feruntur.

73 74

Sall. Cat. 8, 2. Cfr. Curt. 8, 8, 15.

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troveremmo che Livio, Sallustio, Cicerone e altri storici indistintamente hanno sbagliato, e non si poteva scrivere: «la fama della battaglia di Canne dura tuttora», né che «la fama delle gesta del popolo romano sarà eterna», né che «le imprese militari degli ateniesi sono talvolta meno grandi di quanto riporta la fama», né che «bisogna considerare la fama». Eppure gli scrittori faticano ardentemente per ottenere la fama: Cesare ed Alessandro fecero molte imprese per ottenere la fama e Alessandro era solito dire, non a torto, che le guerre si intraprendono per ottenere la fama. [60] La fama, caro grammatico, è altra cosa da quello che credi: la fama non smette di essere tale perché raggiunge dimensioni immense e non si trasforma nella nozione di evento ormai conosciuto, come tu vai ciarlando. Sappiamo per certo che Cicerone fu console, tuttavia diciamo che la fama del suo consolato è ancora oggi grande; è cosa assai nota che Annibale fu sconfitto in Africa da Scipione, tuttavia diciamo che la fama della sua vittoria sopravvive. Che Cesare compì straordinarie imprese militari è noto anche alle donnette ma non per questo smettiamo di dire che la fama delle imprese compiute da Pompeo è maggiore di quella delle imprese di Cesare, o che il tempo non potrà mai cancellare la fama di Alessandro, anche se tali fatti sono oltre modo noti. E dato che le fatiche di Ercole sono conosciute in tutte le terre dove il sole sorge e tramonta, per questo non sarà lecito dire «la fama delle fatiche di Ercole»? Ti prego, cagnetto, smetti di latrare, ed impara che cosa sia la fama e in quanti modi se ne possa parlare. Non si definisce fama soltanto la notorietà di eventi accaduti nel passato: la fama diffonde per il mondo le imprese che in questi tempi sta compiendo il sovrano dei Turchi.101 E 101 Maometto II (1432-1481), sultano dell’Impero Ottomano. Dopo aver guidato la conquista di Costantinopoli a solo ventun anni, si distinse per numerose campagne militari; negli anni duran-

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Et Theodorus Graecus, qui diem nuper obiit, magnam ingenii sui famam posteris reliquit; et qui nunc scribundis annalibus dant operam famae suae illorumque de quibus scribunt consulunt. Et fama est gentes quasdam vagantes atque incertis sedibus vitam agere, et nescio cur pecuniae magis quam famae serviendum sit, ac si quibus aliis modis fama inter loquendum scribendumque usu venit. [61] Damnatur etiam Virgilius ab oculatissimo hoc exploratore quod immodice sit usus exemplo illo Homerico de Diomedis armis;75 nam et de Turno ait: Tremunt in vertice cristae sanguineae clypeoque micantia fulmina mittit;76 et alibi de Aenea: Ardet apex capiti cristisque ac vertice fiamma funditur et vastos umbo vomit aureus ignes.77 «Hoc» inquit «importune positum est, quod neque tum pugnaret Aeneas, sed tantum in navi veniens apparebat».78

75 76 77 78

Cfr. Macr. Sat. 5, 1, 35. Verg. Aen. 9, 732-733. Verg. Aen. 5, 270-271. Pontano parafrasa Macr. Sat. 5, 13, 35.

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Teodoro di Gaza102 che è morto di recente, ha lasciato ai posteri la fama del suo ingegno e quanti sono alle prese con la stesura di un’opera storica si preoccupano della propria fama e di quella dei personaggi intorno ai quali vanno scrivendo. E la fama riporta che alcune popolazioni sono nomadi e conducono la vita senza fissare una dimora. Non vedo perché non si dovrebbe preferire la fama ai soldi: una parola che si usa in così tanti contesti ha una validità ed un corso eccezionali. [61] Questo acutissimo indagatore accusa inoltre Virgilio di aver utilizzato immoderatamente il famoso passo omerico dedicato alle armi di Diomede; scrive, infatti, Virgilio di Turno: tremano sul capo i pennacchi sanguigni, e irradia dallo scudo fulmini guizzanti.103 E altrove scrive di Enea: Arde l’elmo sul capo d’Enea, e dal vertice del cimiero s’irradia una fiamma, e lo scudo d’oro sprigiona vasti bagliori.104 «Ciò» affermi «è stato scritto inopportunamente dato che Enea non stava ancora combattendo ma si mostrava giun-

te il quale è ambientato il dialogo, Maometto II, dopo aver riunificato l’Anatolia, aveva quasi completato la conquista dell’Albania. 102 Teodoro Gaza (1408 ca-1476), dotto bizantino trasferitosi in Italia nel 1440. Dopo aver insegnato greco a Padova, Mantova e Ferrara, si trasferì a Roma, dove strinse amicizia col Panormita e tradusse diverse opere classiche dal greco in latino per impulso di Niccolò V. Dopo la morte del pontefice (1455) si trasferì presso la corte aragonese seguendo l’esempio del Trapezunzio e di Giannozzo Manetti. A Napoli proseguì la sua opera di traduttore e strinse amicizia col Pontano. 103 Traduzione di Luca Canali. 104 Traduzione di Luca Canali.

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Imo magis oportune non potuisset, siquidem apex ille ardere visus et Troianis obsidione laborantibus ac tantum non expugnatis castris magnos addidit animos, unde viso clypeo clamorem tollunt ad sidera spesque addita iras suscitat iaciuntque manu tela et Ausoniis ducibus nedum militibus is metus iniectus, ut soli Turno fiducia non cesserit.79 Quin etiam Aeneas ipse, ut qui sentiret quantum armis illis opis, quantum opinionis atque expectationis inesset, celsa stans in puppi, sinistra clypeum extulisse inducitur, cum primum in suorum atque hostium conspectum venit. Itaque non potuit magis oportunum tempus servari, cum suorum res tam in angusto, hostium tantus esset successus; et profecto armis illis coelo missis nec tempore magis necessario sese instruere Aeneas potuit, cum de summa rerum contendendum esset, et primus illorum aspectus necesse erat ut vim divinitus insitam et Troianis et Rutulis cum spe, metu, horrore, fiducia atque admiratione prae se ferret. [62] Damnatur etiam quod importune allatis recens armis Aeneas miratur. Terribilem cristis galeam fiammasque vomentem.80 An non divinum illud opus mirabitur? Et cum illa manu tractaret versaretque inter brachia non conciperet

79 80

Cfr. Verg. Aen.10, 262-264, 276. Verg. Aen. 8, 620, cfr. Macr. Sat. 5, 13, 36.

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gendo sulla sua nave».105 Al contrario non si sarebbe potuto scrivere qualcosa di più opportuno, dato che i troiani vedono ardere l’elmo mentre stanno subendo un assedio e il loro accampamento sta per essere espugnato e tale vista li incoraggia grandemente a non disperare; per questo alla vista dell’elmo «alzano un grido alle stelle», mentre «la nuova speranza rinfocola l’ira e con le mani scagliano dardi»; per questo nelle anime dei soldati e dei comandanti ausoni diffonde il timore, tanto che soltanto in Turno «non svanì la fiducia». Anzi Enea stesso, rendendosi conto di quanto potere fosse racchiuso nelle sue armi e quante aspettative e speranze si riponessero in esse, non appena giunge alla vista dei suoi compagni e dei nemici, in piedi sulla sommità della poppa si fa vedere mentre «solleva con la sinistra lo scudo fiammeggiante». Dunque non si poteva trovare una circostanza migliore, considerando che i suoi compagni si trovavano in una situazione così incerta e che ai nemici arrideva un grande successo; né con tutta evidenza Enea poteva ricorrere alle armi inviate dal cielo in un momento maggiormente opportuno, considerando che si doveva combattere la battaglia decisiva ed era necessario mostrare immediatamente ai troiani e ai rutuli la forza divina presente in tali armi e, allo stesso tempo, ispirare paura, speranza, orrore, fiducia e ammirazione. [62] Macrobio condanna, inoltre, Virgilio perché Enea si meraviglierebbe in modo eccessivo delle armi appena ricevute:106 l’elmo terribile per le creste, che emette sangue.107 Ma forse non dovrebbe ammirare un’opera divina? E mentre toccava con mano quelle armi tenendole tra le 105

Traduzione di Nino Marione. Nel libro VIII (vv. 607-625) Venere reca in dono ad Enea delle armi forgiate da Vulcano. 107 Traduzione di Luca Canali. 106

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magnam spem, praesertim in rebus tam asperis?81 Non animos inde sumeret, videns quantum terrorem galea illa terribilis incussura esset hosti, quae tum ipsi quoque flammas vomere videretur? Quomodo igitur expleri laetitia non potuisset, nisi iam animadvertisset quantus illorum usus adversus hostem futurus esset in proeliis, quae etiam tum sub quaercu posita82 (neque enim temere sub quaercu posita dicit, cum corona quaerna civium liberatores donarentur) terribilia apparerent? Quocirca, ut dictum est, cum primum in hostium conspectum venit, illa statim extulit. Videtis quam sibi Virgilius constet, qui nihil inaniter dicat et singula exactissime pensitet? [63] Parum hoc visum est; condemnatur etiam quod de Turno dixit:

Cui triplici crinita iuba galea alta Chimeram sustinet Aetneos efflantem faucibus ignes; tam magis illa fremens et tristibus effera fiammis, quam magis effuso crudescunt sanguine pugnae.83 Turnum, hostium ducem, ad bellum missurus, sane illum qui tot malis Troianos sociosque affecturus esset, qui bellum tantis animis suscepisset, qui morte sua Aeneam esset nobilitaturus, non una e parte artificiosissimus poeta commendat: Ipse inter primos praestanti corpore Turnus vertitur arma tenens et toto vertice supra est.84 Facit enim versari inter primos, qua e re ad singulare animi robur corporis quoque vires adiungit; et cum dicit

81 82 83 84

Cfr. Verg. Aen. 8, 619. Cfr. Verg. Aen. 8, 626. Verg. Aen. 7, 785-788, cfr. Macr. Sat. 5, 13, 36. Verg. Aen. 7, 793-794.

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braccia non stava forse concependo una grande speranza in un frangente disperato? Non avrebbe dovuto prendere coraggio vedendo quanto terrore quell’elmo terribile, che eruttava fiamme, avrebbe indotto nei nemici? E perché mai non avrebbe potuto riempirsi di gioia, allorché ormai comprendeva bene quanto sarebbero stati utili in battaglia contro i nemici quelle armi che mostravano un’apparenza terribile anche soltanto adagiate sotto i rami di una quercia (e non dice «sotto una quercia» senza un motivo dal momento che i liberatori della patria erano insigniti con una corona di foglie di quercia)? Per questo, come ho detto in precedenza, le mostra non appena viene al cospetto dei nemici. Osservate quanto è coerente Virgilio: non dice mai qualcosa a caso e soppesa ogni singola parola. [63] Tutto ciò non era ancora abbastanza; Macrobio accusa anche Virgilio perché descrive Turno nel modo seguente: L’elmo crinito di triplice cresta sostiene in alto la Chimera, che spira dalle fauci fuochi etnei: tanto più freme feroce di sinistre fiamme quanto più le battaglie s’inaspriscono di sangue versato108. Sul punto di spedire in battaglia Turno, il comandante dei nemici, colui che avrebbe arrecato tanti mali ai Troiani e ai loro alleati, che sarebbe entrato in guerra con così tanto coraggio e che con la sua morte avrebbe dato tanto lustro ad Enea, il poeta lo elogia con somma arte e non soltanto in un punto: Egli tra i primi, Turno, dal corpo prestante trascorre brandendo le armi e di tutto il capo sovrasta.109

Virgilio lo fa avanzare tra le prime file, in modo da aggiungere alla straordinaria forza del corpo anche un animo 108 109

Traduzione di Luca Canali. Traduzione di Luca Canali.

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vertitur arma tenens, corporis dexteritatem sub armis atque animi vigorem significat; et cum adiungit toto vertice supra est, corporis proceritate suis admirabilem, hostibus formidolosum apparere facit. Ad has corporis atque animi dotes addit armorum horrorem, ex triplici iuba atque e monstro flammas effiante, quippe cum quae Chimera aspectu ipso ante pugnam terrifica esset, fictoris artificio, ubi ad manus ventum esset, tum ea maxime et voce fremeret et flammas evomeret, ut de gemitu deque afflatu campi sanguine caesorum natarent. Atque ut nihil desit, post laevem atque extersum clypeum, siquidem qui de re militari scribunt ad praestringendos adversarii oculos armorum in primis fulgorem commendant, post altam galeam et ignes effiantem Chimeram addit nimbum peditum et totis castris agmina clypeata densat.85 An est quod aliud desiderari in extollendis adversarii sive ab insitis a natura corporis atque animi viribus sive ab externis possit rebus? Num igitur importune galea alta Chimeram sustinet, praesertim post tot enumeratos armisque decoratos duces? [64] Atque hoc quidem non tanti faciendum videatur, accusari aut potius damnari a grammatico eximium poetam, neque enim Indus elephas curat culicem; illud me vehementer movet, quod video doctos quosdam viros, dum grammaticis nimis tribuunt et ipsos delirio eodem vexari, tum in iis locis quos posuimus tum quod existimant parum prudenter a Virgilio inductum Iovem in primo, quarto et nono volumine, qui loqueretur sin tumultu et absque mundi obsequio,86 post vero

85

Cfr. Verg. Aen. 7, 793-794. Macr. Sat. 5, 13, 38. I discorsi di Giove ai quali si riferisce Macrobio sono: Verg. Aen. 1, 254-296 (profezia a Venere); 4, 222237 (istruzioni a Mercurio); 9, 94-106 (rassicurazioni a Cibele). 86

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coraggioso; e quando dice che «trascorre brandendo le armi», esprime la destrezza nel muovere le armi e il vigore dell’animo; e quando aggiunge «di tutto il capo sovrasta», ci mette davanti agli occhi la sua statura straordinaria, che sgomenta i nemici. A tali doti del corpo e dell’animo aggiunge l’orrore che provocano le sue armi con la «triplice cresta» e le «fiamme»; tali armi, infatti, prima della battaglia ispiravano terrore con la vista della Chimera, mentre, quando venivano prese in mano, grazie all’abilità di chi le aveva forgiate emettevano un suono ed eruttavano fiamme, in modo che come effetto del suo gemito e del suo respiro i campi di battaglia si irroravano del sangue dei caduti. E per fare in modo che non manchi nulla, dopo lo scudo levigato e scintillante (gli esperti di argomenti militari raccomandano nei loro trattati che gli scudi siano tali per accecare gli occhi dei nemici con il fulgore delle armi), e dopo il grande elmo e la Chimera che spira fiamme aggiunge un nugolo di fanti armati e riempie il campo di battaglia con schiere armate di scudo. Manca forse qualche dettaglio utile ad esaltare un avversario, per quanto riguarda le virtù insite nella natura del corpo e dell’animo o provenienti da fattori esterni? Il grande elmo sostiene forse senza una ragione una Chimera, dopo la descrizione di tanti comandanti e delle loro armi? [64] Che un grammatico accusi, o meglio condanni, un poeta non mi sembra una circostanza che meriti tanto clamore: l’elefante indiano, infatti, non si cura della zanzara; quello che mi irrita violentemente è vedere che alcuni uomini dotti danno troppa importanza ai grammatici sino a condividere la loro follia. Accade, ad esempio, in relazione ai luoghi di cui abbiamo discusso e in alcuni passi del primo, del quarto e del nono libro; in quei passi, infatti, ritengono che Virgilio abbia introdotto Giove in modo imprudente, facendolo parlare senza far sorgere uno strepito e senza che il mondo si fermasse ad ossequiarlo. Tuttavia, gli stessi dotti, a proposito dei versi:

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eo dicente deum domus alta quiescit, et tremefacta solo tellus, silet arduus aether, tum zephiri posuere, premit placida aequora pontus,87 ac si non idem esset qui ante locutus fuerat.88 Imo idem erat, se nec ante Venus Iunoque ad contentionem et iurgia Iove coram proruperant, qua e re vario assensu ob factionis studium colicolae fremebant.89 Itaque ut ostenderetur concionantis Iovis ea maiestas fuisse ut mussitare ultra nullus auderet, oportunissime dicitur summaque cum prudentia, quod non solum eo dicendeum domus silentium tenuit, sed orbis totus summi dei supercilium veritus est. Etenim poeta ex verbis ipsis vult innuere Iovem supercilium obduxisse ob dearum iurgia et coelicolarum fremitum ac partium studia, ut qui speciem irati prae se ferret. Unde quodam cum supercilio ait: Rex Iupiter omnibus idem, iuratque per pice torrentis ripas, atque ut dictis pondus adderet, caput movet, totumque nutu tremefacit Olympum.90 [65] Sed nec mihi Iulius Hyginus aequior videri potest, qui Virgilium accuset quod litus Velinum ex ore Palinuri dixerit, cum Veliam Servio Tullio regnante conditam fuisse tradat, sescentesimo post Aeneae adventum in Italiam anno,91 aut etiam amplius, ac si poetis permissum non sit quaedam etiam ad sua tempora in carmine referre, ut locorum, ut fluminum nomina, ut armorum genera. Dicat mihi velim Hyginus: cur non etiam accusat Virgilium quod Aeneam, qui Troianus esset, latine loquentem inducat?

87

Verg. Aen. 10, 101-103. Cfr. Macr. Sat. 5, 13, 38. 89 Cfr. Verg. Aen. 10, 96-97: «cunctique fremebant / caelicolae adsensu vario». 90 Cfr. Verg. Aen.10, 112, 114 e 115. 91 Cfr. Gell. 10, 16, 1-5 e Verg. Aen. 6, 365-366. 88

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al discorso ammutolisce l’alta dimora degli dei, e la terra trema dal fondo; tace l’altissimo etere, posano gli zefiri, il mare spiana le placide distese110 affermano: «come se non fosse il medesimo del quale si parlava prima». Certamente era il medesimo, ma non era ancora esploso il litigio tra Venere e Giunone al cospetto di Giove, a causa del quale gli abitanti del cielo fremevano divisi in fazioni contrapposte. E così, per dimostrare che la maestà di Giove nel rivolgersi all’assemblea era tale da non ammettere che nessun dio osasse lamentarsi, Virgilio scrive in modo opportuno e con somma arte che con le sue parole non soltanto ottenne il silenzio nella casa degli dei, ma fece in modo che tutto quanto il mondo temesse l’aspetto severo del più grande degli dei. E infatti il poeta con queste parole vuole accennare al fatto che l’aspetto severo di Giove, che annunciava la sua ira, fece tacere gli strepiti delle dee e il fremito e gli scontri degli abitanti del cielo. E quindi con fare severo dice: «uguale è il re Giove per tutti», e giura «per le rive bollenti di pece», e per aggiungere peso alle sue parole, aggiunge «col cenno fece tremare tutto l’Olimpo». [65] Ritengo che Igino111 non si dimostri più equo quando rimprovera Virgilio per aver detto che il nome della costa della città di Veia deriverebbe da Palinuro, mentre tale città, com’è noto, è stata fondata ai tempi di Servio Tullio, più di seicento anni dopo l’arrivo di Enea in Italia, come se ai poeti non fosse permesso riferirsi nei loro componimenti ad alcuni dettagli relativi alla propria epoca, come accade per i nomi delle località e dei fiumi e le tipologie di armi adoperate. Igino mi dica, se crede: perché allora non ha accusato Virgilio per aver fatto parlare Enea, che era troiano, in latino? Lungi da 110

Traduzione di Luca Canali. Le opinioni di Igino sono riportate da Aulo Gellio (Gell. 10, 16, 1, 5). 111

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Facessat igitur diligentia tam arcessita et huiusmodi multa permittantur poetis, in quae etiam volentes incidunt non rerum ignorantia decepti. Idem reprehendit quod cum antea dixisset Virgilius Theseum superas evasisse ad auras, post dicat: sedet aeternumque sedebit.92 Atqui Theseus vivens Herculem ad inferos secutus, inde Herculis ipsius praesidio evasit, ut est in fabulis. Post mortem vero, cum anima eius ad inferos delata esset, nunquam ad viventis rediit, sed propter filium iniuste occisum sedet illic atque aeternum sedebit, iniquissimam Hyppoliti mortem infeliciter deplorans. Recteque et ante vivum rediisse ab inferis ait, unde argumentandi locum Aeneas coepit, et post inter eos qui mortui essent enumerat; neque enim haec sibi adversantur. [66] Errasse etiam dicit in his versibus: Eruet ille Argos Agamennoniasque Micenas ipsumque Aeaciden, genus armipotentis Achilli, ulctus avos Troiae, tempia et temerata Minervae,93 quod et personas confundat et tempora, cum neque eodem tempore neque per eosdem duces cum Acheis Pyrrhoque pugnatum sit, siquidem Pyrrhus, quem Aeaciden dicit, ex Epiro in Italiam transgressus cum Romanis

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Cfr. Gell. 10, 16, 11-13, Verg. Aen. 6, 122-123 e 6, 617-618. Verg. Aen. 6, 838-840.

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noi una pedanteria così affettata! Ai poeti sono permesse numerose licenze come queste, nelle quali essi incorrono consapevolmente e non per ignoranza. Il medesimo Igino rimprovera Virgilio perché, dopo aver detto in un passo precedente che Teseo era tornato dagli inferi a vedere il cielo,112 dice più avanti: «siederà in eterno l’infelice Teseo». Ebbene, come attestano le favole, Teseo, ancora in vita, seguì Ercole negli inferi, dai quali fuggì proprio con l’aiuto di Ercole; ma dopo la morte, dopo che la sua anima venne trascinata negli inferi, non tornò più tra i vivi ma, a causa dell’ingiusto omicidio di suo figlio, siede e «siederà in eterno» piangendo infelicemente l’ingiustissima morte di Ippolito. Virgilio scrive correttamente che in un primo momento ritornò vivo dagli inferi, circostanza dalla quale Enea trae uno spunto per la sua argomentazione,113 e scrive altrettanto correttamente che egli, dopo la morte, si trova tra le anime dei defunti; le due cose non sono in contrasto tra loro. [66] Igino afferma inoltre che Virgilio errò nei seguenti versi: Quello abbatterà Argo e l’agamennonia Micene, e proprio un Eacide, stirpe di Achille possente in armi, vendicando gli avi di Troia, e il violato tempio di Minerva114 dove avrebbe confuso le persone e i tempi, perché la guerra tra gli Achei e Pirro si sarebbe svolta in tempi diversi e con altri generali, dal momento che Pirro, che Virgilio chiama discendente di Eaco, dopo aver attraversato l’Epiro combatté con i Romani opponendosi al loro coman-

112 Eroe attico figlio di Poseidone, accompagnò l’amico Piritoo nell’Ade per rapire Persefone; imprigionato negli inferi per il suo ardire fu liberato da Ercole. 113 Nel sesto libro dell’Eneide Teseo viene menzionato da Caronte (v. 393) e non da Enea. 114 Traduzione di Luca Canali.

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depugnavit adversus Curium, belli eius ducem; Argivum autem bellum id est Achaicum, multos post annos a L. Mumio imperatore gestum est; itaque censet medium versum eximi posse, qui quidem de Pyrrho importune immissus esset, quem Virgilius procul dubio fuisset exempturus.94 Non possum non admirari etiam ad risum usque tum Hyginum tum Gellium, qui studio quodam reprehendendi praecipites in maximos errores inciderint: primum quod de Pyrrho dictum, non de Persa rege putent; neque enim Pyrrhus a populo Romano victus est neque regnum Epirotarum Pyrrho vivente captum atque in provintiam redactum est, sed Perses, qui a Paulo ductus est ante triumphum, quo capto Macedoniaque spoliato, Aeacidarum imperium finivit; de quo etiam Propertius ait: Et Persen proavi stimulantem pectus Achilli quique tuas proavus fregit, Achille, domos.95 Hoc igitur superato regnoque Aeacidarum deleto, populus Romanus videri potuit Troiae ruinas ulctus fuisse. Deinde non animadvertere induci a Virgilio Anchisen nequaquam singulos referentem qui ab Aenea originem ducturi essent, sed quosdam tantum, neque tempus

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Cfr. Gell. 10, 16, 14-18. Prop. 4, 11, 39-40. Il testo è corrotto; come segnalato in Haig Gaisser, Notes: 371, Pontano cita dal suo manoscritto (Berlin, Deutsche Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, MS lat. fol. 500, c. 65v), dove corregge proavos in proavus. 95

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dante Curio;115 la guerra argiva, ovvero la guerra contro la lega Achea, venne combattuta molti anni più tardi sotto il comando di L. Mummio;116 e quindi ritiene che metà di questo verso può essere eliminata in quanto è stata inserita infelicemente per riferirsi a Pirro e che per questo Virgilio la avrebbe senza dubbio cassata. Non posso non meravigliarmi e non ridere di Igino e di Gellio che, nella loro foga di criticare, sono incorsi in grandissimi errori: anzitutto credono che Virgilio si riferisca a Pirro e non a Perseo; il personaggio in questione, infatti, non è Pirro, il re sconfitto dai romani, né quel Pirro re degli Epiri che venne catturato e rispedito in provincia, ma quel Perseo che, catturato e privato del regno in Macedonia, il generale Paolo esibì nel suo trionfo e con il quale finì il potere degli Eacidi;117 su tale personaggio scrive Properzio: e Perseo, che simulava l’ardore dell’avo Achille e colui che la tua stirpe, Perseo, così distrusse118 Dunque dopo aver sconfitto costui e dopo aver distrutto il regno degli Eacidi, sembrò che il popolo romano avesse vendicato la distruzione di Troia. Inoltre non si sono accorti che Virgilio in questo passo non fa menzionare uno per uno da Anchise gli avi della stirpe di Enea, ma si riferisce ad uno soltanto di loro, e non segue pertanto l’ordine cronologico, come quando menzio115 Pirro II (318-272 a.C.), re dell’Epiro, si scontrò contro i romani nel corso delle guerre tarantine; dopo una serie di vittorie ottenute nell’Italia meridionale, venne sconfitto nella battaglia di Benevento dalle truppe del console Manio Curio Dentato (330270 a.C.). 116 Lucio Mummio Acaico, guidò le truppe romane contro Corinto. 117 Perseo (213-166 a.C.), figlio di Filippo V il Macedone, ultimo re di Macedonia dal 179 al 168 a.C., anno in cui venne sconfitto dal generale Lucio Emilio Paolo. 118 Traduzione di Roberto Gazich.

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ordinemve servari, quippe cum de Caesare atque Pompeio antequam de Fabio, Marcello, Scipionibus mentionem faciat; satis enim habebat Anchises, quibusdam nominatis, quibusdam a rebus gerendis significatis, spe atque gaudio futurae stirpis Aeneam implere. [67] Quare cum dicit: Ille triumphata Capitolia ad alta Corintho victor aget currus, caesis insignis Achivis,96 iure potest videri Mumium, qui Achaicus cognominatus est quique Corinthum sustulit, significare; post vero cum addat: «Eruet ille Argos Agamennoniasque Micenas», alium profecto significat, et hic quidem Paulus est, qui Persen vicit regnumque Aeacidarum subvertit; quanquam autem Paulus neque Argos evertit neque Micenas, hoc tamen ut Aeneam soletur ab Anchisa dicitur, cuius ipsius posteri eversuri essent Argos, sive Achaicum, quae arx videhatur Acheorum, quorum principes adversus Troianos coniuraverant, sive Thessalicum, quando ducum Thessaliae virtus in eo bello plurimum enituerit, et Micenas, Agamemnonis patriam, qui fuit Graecorum ac belli dux. Quocirca dum Virgilium non minus imprudenter quam impudenter accusant, uterque, et Hyginus sententiae huius adversus Maronem auctor et suffragator eius Aulus in errorem maxima animadversione dignum incidere. [68] His tam iniquis calumniis cum indigne ferret Antonius eximium poetam affici ac venenosis grammaticorum morsibus laniari, quid mirum si catellorum persimiles dicebat, si doctos quosdam ut deliros ridebat? Poteram etiam multa addere, quibus Antonii adversus grammaticos iram iustissimis e causis conceptam ostenderem, sed me ipse continui, quod

96

Verg. Aen. 6, 836-837.

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na Cesare e Pompeo prima di Fabio, Marcello e Scipione; Anchise si contenta di colmare Enea di speranza ed orgoglio per la sua futura stirpe nominando soltanto alcuni nomi ed alcune imprese. Per questo quando dice: Quello, soggiogata Corinto, guiderà vittorioso il carro sull’alto Campidoglio, insigne per la disfatta degli Achivi119 si può affermare che intenda riferirsi a Mummio, che venne chiamato col nome di Achivo e che soggiogò Corinto; infatti quando poco dopo aggiunge: «quello abbatterà Argo e l’agamennonia Micene», si riferisce ad un altro personaggio, ovvero a Paolo, che vinse Perseo e distrusse il regno degli Eacidi; e sebbene Paolo non abbia distrutto né Argo né Micene, Anchise dice così per consolare Enea, rendendolo edotto del fatto che la sua stirpe avrebbe in futuro distrutto Micene, la patria di Agamennone, il comandante delle truppe greche, insieme ad Argo (sia nel caso che tale cittadella fosse appartenuta al popolo degli Achei, i cui capi si erano alleati contro i Troiani, sia nel caso fosse invece appartenuta ai tessali che durante la guerra di Troia dimostrarono un notevole coraggio). Per queste ragioni tanto Igino, l’autore di tale accusa nei confronti di Virgilio, quanto Aulo Gellio, che sposa tale opinione, sono caduti in un errore degno del più grande biasimo nell’accusare Virgilio in modo non meno imprudente che impudente. [68] Dal momento che Antonio sopportava a stento che un esimio poeta come Virgilio venisse calunniato in modo così indegno e fosse dilaniato dai morsi avvelenati dei grammatici, non c’è da stupirsi se li definiva cagnetti e se derideva alcuni dotti per la loro follia. Avrei potuto aggiungere anche molte altre argomentazioni con le quali dimostrare che l’ira di Antonio nei confronti dei grammatici era più che giustificata, ma mi 119

Traduzione di Luca Canali.

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videbam in Virgilii laudes prorumpendum esse, quibus explicandis cum sentiam me imparem, temperare malui. ANDR. Eadem et me ratio te dicente cohibuit, ne quae a te praeteriri videbam consilio ea ipse subiicerem, quippe cum laudabilior sit Maro quam ut a me praesertim laudari satis digne queat. [69] COMP. Et apposite quidem atque accumulate adversus grammaticos ex Antonii sententia disputavit Elisius et Andreas pro moderatione sua quae sedulo ab Elisio praeteriri videbat subiicere noluit, non tam, ut mihi persuadeo, viribus diffisus, si in Maronis laudes descendendum esset, quam quod locus hic explicandis summi poetae virtutibus satis idoneus non est. Verum, bone hospes, ut cupiditati tuae pro virili satisfacere et ipse studeam, referam quanto paucioribus quidem potero Antonii sermonem eum quem aliquando eodem hoc in loco habuit de recensendis ducibus qui aut Aeneam aut Turnum in expeditionem secuti sunt,97 sentiens condemnari Virgilium tum quod oppida urbesque non eo quo sitae sunt ordine referret, tum quod nonnulli pugnantes inducantur, qui non essent in belli apparatu numerati, cum Homerus eosdem illos quos retulisset in catalogo solos pugnantes dicat et Graeciae oppida locaque per ordinem referat.98 [70] Dicebat igitur similibus in rebus sive agendis sive scribendis non idem semper aut agenti aut scribenti consilium esse nec eundem ad finem eadem in re ubique contendi. Homerum quidem voluisse in enumerandis auxiliis Graeciae urbes locaque describere ordineque Graeciae situs catalogum exequi, quippe cum universam Graeciam adversus Troianos coniurasse ostendat. At nostro poetae consilium non fuisse Italiam describendi; neque enim omnes Italiae populi aut pro Aenea aut contra Aeneam stetere, quando Etruscorum 97 Il catalogo degli alleati di Turno si legge in Verg. Aen. 6, 641-817; il catalogo degli alleati di Enea in Verg. Aen.10, 163-214. 98 Cfr. Macr. Sat. 5, 15, 1-15 e Hom. Il. 2, 484-877.

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sono trattenuto, dal momento che avrei dovuto prorompere nelle lodi di Virgilio, e, considerandomi inadeguato a tale compito, ho preferito moderarmi. ANDR. La medesima ragione mi ha frenato dall’aggiungere ulteriori quello che tu stavi passando a bella posta sotto silenzio, dal momento che Marone è degno di lodi più grandi di quelle che io posso degnamente rivolgergli. [69] COMP. Elisio, seguendo le opinioni di Antonio, ha discusso in modo appropriato ed eloquente contro i grammatici ed Andrea con modestia non ha voluto aggiungere alcunché a quello che Elisio era riluttante ad aggiungere, non tanto, a parer mio, per sfiducia nella propria capacità di entrare diffusamente nelle lodi di Virgilio, ma perché questa non è l’occasione adatta per esporre diffusamente le virtù del più grande dei poeti. Ma, caro ospite, per quanto mi è possibile, da parte mia cercherò di soddisfare il tuo desiderio e riferirò in modo succinto quello che Antonio in questo portico disse a proposito del catalogo dei comandanti che seguono Enea o Turno nella campagna militare. Rispondeva a quanti sentiva condannare Virgilio perché non presenta le piazzeforti e le città in ordine geografico e perché menziona alcuni comandanti che non erano stati nominati precedentemente durante i preparativi della guerra, mentre Omero menziona tra i combattenti solamente coloro i quali ha elencato nel catalogo e riferisce le città e le località della Grecia seguendo l’ordine geografico. [70] Diceva, dunque, che chi scrive o agisce in circostanze simili non segue sempre il medesimo intento, né si punta al medesimo obiettivo sempre nel medesimo modo. Omero nell’elencare gli alleati aveva inteso descrivere le città e i luoghi della Grecia e fornire un catalogo che seguisse la loro posizione geografica proprio per mostrare che tutta quanta la Grecia si era unita contro i Troiani. Ma, affermava Antonio, l’intento del nostro poeta non è quello di descrivere l’Italia; infatti non tutti i popoli italici si schierarono per Enea o contro Enea, dal momento che molti popoli

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etiam multi belli se medios praebuere. Quinimo maiore e parte vetustissima oppida et ea maxime quae e memoria exciderant conquirit, ut qui restituere illa in lucem velit. Quodque historici etiam Latini servant in enumerandis auxiliis, regiones non describit ac satis habet duces ipsos et loca e quibus auxilia venerint nominare. Quo enim consilio aut Italiam aut Etruriam universam describeret qui neque Italiae neque Etruriae totius populos sciret aut pro hac aut pro illa parte arma coepisse? Iure itaque contentum fuisse illis tantum populis ac ducibus qui in expeditionem profecti sunt nominatis. In quibus referendis necesse non fuit situs ordinem tenere, cum universae regionis populi non enumerentur et Mantuam solam e tot trans Appenninum populis nominet, videlicet ut patriae assurgeret atque ut avis divitem laudaret caputque populis statueret.99 [71] Affirmabat praeterea Virgilium imaginem quandam secutum pugnarum atque oppugnationum quae in rebus in Gallia gestis a Caesare describuntur; fecisse etiam Ascanium nudato capite pugnare, quod de Caesare ipso legitur.100 Deflexisse quoque in quibusdam ab Homero de industria, ut qui Romanae militiae disciplinam potius sequi vellet eamque ob rem singulos duces pugnantes minime inducere, quos nisi cum necessitas vocaverit obiectare sese periculis aut manum conserere non deceat. Quodque plures inter pugnandum nominaret qui in enumeratione auxiliorum dicti prius non essent; in hoc quoque a Romanae historiae consuetudine non recedere, siquidem Romanarum scriptores rerum, nominatis consulibus praetoribusve, aut dictatore atque equitum magistro, alios in suscipiendis expeditionibus vix nominant; at cum pugnas describunt et qui in bello desiderati sunt recensent, tunc milites, 99 Cfr. «Mantua, dives avis; set non genus omnibus unum: / gens illi triplex, populi sub gente quaterni, / ipsa caput populis, Tusco de sanguine vires» (Verg. Aen. 10, 201-203). 100 Svet. Iul., 57.

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etruschi si mantennero neutrali durante la guerra. Al contrario, ricerca per lo più le città più antiche e dimenticate, con l’intento di farle tornare alla luce. E seguendo la consuetudine degli storici latini nell’enumerare gli alleati, non descrive le regioni e considera sufficiente menzionare i comandanti e i luoghi dai quali giungono le forze alleate. E poi a quale scopo avrebbe descritto tutta l’Italia o tutta l’Etruria, se sapeva che non tutti i popoli dell’Italia e dell’Etruria presero le armi per l’una o l’altra parte? Secondo Antonio a ragion veduta si era contentato di nominare soltanto quei popoli e quei comandanti che presero parte alla spedizione. Nel riferire i nomi degli alleati non era necessario seguire l’ordine geografico, dal momento che non stava elencando tutti i popoli della regione; tra tanti popoli situati al di là degli Appennini menziona soltanto Mantova, evidentemente con lo scopo di esaltare la propria patria ed elogiarla in quanto «ricca di avi» e «capitale dei popoli». [71] Affermava, inoltre, che Virgilio seguì in qualche modo le descrizioni delle battaglie e degli assedi che si leggono nell’opera di Cesare dedicata alle guerre galliche; tant’è che fece combattere Ascanio a capo nudo, come leggiamo che era solito fare Cesare stesso. In alcuni dettagli, poi, si allontanò volutamente da Omero, in quanto preferiva seguire le consuetudini della milizia romana e per questo introduce poche volte i duelli tra i comandanti, dal momento che, se la necessità non l’imponeva, non era lecito per i comandanti romani esporsi al pericolo o combattere in prima persona. Per quanto concerne il menzionare durante la battaglia i nomi di coloro che non sono stati prima enumerati nell’elenco degli alleati, ribatteva che anche in questo Virgilio non si era allontanato dalle consuetudini della storia romana, in quanto gli storici romani, dopo aver nominato i consoli e i pretori, o pure il comandante e il comandante della cavalleria, nominano a stento gli altri che prendono parte

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centuriones, praefectique nominatim dicuntur, quorum in apparando exercitu nulla mentio facta est. Referuntur fortia tum peditum, tum equitum facta et navatae ab infimi etiam ordinis militibus operae, de quibus nihil ante dictum est. Hanc igitur fuisse rationem censebat cur Virgilius partim ad Homeri exemplum duces quosdam pugnantes induceret, ne ab illo, cuius maxime similis esse vellet omnino recederet, partim ad Romanae militiae disciplinam non omnes pugnantes faceret, sed militum potius qui sub illis militarent virtutem referret, cum invidia quaedam videri possit suis milites laudibus defraudare. [72] Ad haec, cum de Romanae militiae disciplina esset mitti supplementa, qui a Virgilio post nominantur perinde ac cum supplementis ad Aeneam Turnumve profectos intelligi vult; sic Oximum regem,101 sic alios quosdam ab eo post nominatos, ac si cum supplementis, postquam in expeditionem ab imperatoribus itum esset, in castra profecti sint. Plures quoque cognomines idest eiusdem nominis ab eo referri, quod Romanorum plurimi eodem nomine vocarentur indeque tot praenomina agnominaque inventa esse. Reges quoque sub imperatoribus militare et hoc quoque Romanum esse, cum reges multos socios haberent, quos sub imperatoribus consulibusque pugnasse satis compertum est, atque ad hoc ipsum, Homero nonnunquam relicto, voluisse Virgilium alludere. [73] Illud vero maxime nefandum esse et quovis animadvertendum supplicio praedicabat, quod essent nonnulli adeo improbi ut non

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Cfr. Verg. Aen. 10, 655.

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alla spedizione, ma allorché descrivendo le battaglie riportano quello che è successo durante la guerra, di quando in quando riferiscono il nome di soldati, centurioni e prefetti, dei quali non si era fatta alcuna menzione nel riferire i preparativi per l’esercito. Riferiscono gli atti di coraggio delle truppe e della cavalleria e persino il contributo dei fanti di infimo grado dei quali niente hanno detto in precedenza. Riteneva che questa fosse la ragione per la quale Virgilio aveva seguito in parte l’esempio di Omero relativamente ai duelli tra i comandanti, per non allontanarsi del tutto da colui al quale desiderava in sommo grado somigliare, ma allo stesso tempo, in ossequio alla consuetudine romana, non fa combattere i comandanti tutti insieme ma piuttosto riferisce la virtù dei soldati che militano sotto il loro comando, dato che defraudare i soldati della legittima lode poteva sembrare segno di invidia. [72] Inoltre, dal momento che inviare truppe ausiliarie era una prassi corrente nell’esercito romano, tali truppe sono nominate da Virgilio in un secondo momento per far capire al lettore che si tratta di truppe inviate successivamente in aiuto di Enea e di Turno; analogamente nomina in un secondo momento il re Osimio ed altri comandanti, come se fossero giunti nell’accampamento dopo che i generali avevano intrapreso la campagna militare. Virgilio utilizza più volte il medesimo cognome, ovvero il medesimo nome, in quanto molti Romani si chiamavano con il medesimo nome, motivo per il quale inventarono numerosi prenomi e soprannomi. Che anche i re combattessero sotto il comando dei generali è egualmente tipico dei Romani, i quali, com’è noto, annoveravano molti re tra le file dei loro soci120; Virgilio voleva alludere proprio a questo, allontanandosi per una volta da Omero. [73] Antonio riteneva che fosse un crimine sommamente nefando e degno di qualsivoglia supplizio che alcuni fossero a tal 120

Il termine indicava gli alleati che combattevano agli ordini degli imperatori e dei consoli.

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alia se magis ratione doctos atque in litteris claros haberi posse persuasum habeant quam si Virgilio detrahant, si in poerarum nostrorum principem dentes acuant. Qui si quando pro rei locique natura variantior et, ut ita dixerim, festivior est, hic Homeri simplicitatem magis probant; ubi simplicior atque castigatior, tum copiam illius et ornatum requirunt maiorem; nunc quod Homeri ipsius nimius sectator fuerit, nunc quod ab illius imitatione longius recesserit accusant; alias non probant tantum antiquitatis studium, alias quaedam sine ullo exemplo protulisse damnant; interdum supercilium eius, interdum iucunditatem insectantur; denique esse inventos qui dicerent scripta eius mera furta esse, qui censerent Ennium quanquam rudem et inconditum ei anteponendum, qui nullo demum ingenio, nulla inventione fuisse nugarentur. Hoc loco rei indignitate commotum exclamare Antonium memini improbos, facinorosos, detestabiles eos dicentem Iovemque ausos regnis detrudere, quippe qui Romanae poeticae principem et quasi deum quendam suo e regno, suo e solio pellere ac deturbare conarentur. [74] Sed nec meliore usum fortuna patrem ipsum poeticae omnis Homerum querebatur; laceratum, vexatum, discerptum etiam ab ignorantissimis fuisse, hocque de posteris meritum, quibus lumen accendisset, retulisse, ut etiam grammaticorum caecutienti ignorantiae obnoxius fuerit. Censebat igitur duos hos in duabus nobilissimis linguis Graeca Romanaque summum iure principatum tenere, et alterum Graecae, alterum Romanae poeticae regem esse; horum dicta inventaque locum, vim, auctoritatemque legum habere; hos venerandos, hos patres patriae publicis privatisque honoribus prosequendos, his ubique atque ab omnibus assurgendum. Qui contra sentirent rebellium atque hostium in numero habendos esse, atque uti subiectis

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punto maligni da non ritenere di poter apparire dotti e illustri nelle lettere senza screditare Virgilio e affondare i denti nelle carni del principe dei nostri poeti. Quando nell’esprimere la natura delle circostanze e delle situazioni è alquanto variegato e, come ho detto, arguto, costoro preferiscono la semplicità di Omero; quando invece è alquanto schietto e castigato, richiedono una più abbondante ricchezza espressiva e un ornato maggiore; ora l’accusano di aver seguito Omero troppo da vicino, ora di non averlo imitato a sufficienza; ora non approvano la sua attenzione nei confronti dei dettagli storici, ora l’accusano di aver introdotto dei particolari che non trovano un corrispettivo nelle fonti; talvolta accusano la sua severità, talvolta la sua piacevolezza; e così alcuni affermano che i suoi scritti non sono altro che un insieme di furti, mentre altri ritengono di anteporgli Ennio, per quanto sia un poeta rozzo e grossolano, e altri ancora si prendono gioco di lui perché non avrebbe né talento né originalità. Mi ricordo che, giunto a questo punto della sua argomentazione, Antonio li definiva maligni, malfattori, esecrandi, in quanto avevano osato buttare Giove giù dal trono, ovvero perché si sforzavano di allontanare dal trono e cacciare dal suo regno il principe della romana poesia (o per meglio dire il dio della romana poesia). [74] Ma si lamentava che persino Omero, il padre di ogni genere di poesia, non andò incontro ad una sorte migliore: venne straziato, tormentato, lacerato da uomini ignorantissimi e come ricompensa per aver illuminato i posteri ottenne di essere esposto alla cecità dei grammatici. Riteneva che Virgilio ed Omero tengono a ragion veduta il primo posto nelle lingue nobilissime dei greci e dei romani: uno è il re della poesia greca, l’altro il re della poesia latina; i loro detti e le loro invenzioni sono analoghe per autorevolezza ad una legge; questi venerandi padri della patria devono essere accolti dai privati cittadini con tutti gli onori ed acclamati ovunque e da tutti. Quanti reputano diversamente devono essere annoverati tra i ribelli ed i nemici della patria,

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populis popularibusque nullum ius, nulla iurisdictio esset in regibus quorum praescriptis, imperiis decretisque ab illis pareretur, sic a litteratis omnibus quae duo hi reges decernant iis ubique parendum esse. Qui aliter sentiret contrave auderet aqua et igni interdicendum atque in loca deserta exterminandum ferisve obiiciendum statuebat. [75] Haec, Sicule hospes, dicere Antonium in Virgilii causa memini; quae tibi propterea referenda duxi ut quod eius iudicium, quae etiam doctrina fuerit perspicere hinc possis; relaturus etiam quae aliquando in defendendo Cicerone copiose, acute magnificeque disseruit, ni Herricum hunc dicere nescio quid velle animadverterem. [76] HERR. Dii boni, videone ego Antonianum sapientem, estne ille Iuratius Suppatius? Certe ipse est. O diem iucundissimum! Per ego Ciceronem, perque divinam Ciceronis eloquentiam oro obtestorque uti, valere aliquantulum iussis grammaticis, Antonianum sapientem de sapientia disserentem placide audiatis; nihil est, mihi credite, homine hoc urbanius. Videbitis quod loquendi principium adveniens dabit.

V. SUPPATIUS, HERRICUS [77] SUPP. Et sapere vos et corde uti quam cordatissime iubeo. HERR. At nos valentissimi capitis hominem, oppido valentem advenisse gaudemus. SUPP. Estne hic Pudericus meus? O desideratissimum mihi amicum, ut cordate?

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e come i popoli soggetti e i sudditi non hanno alcun potere, alcun diritto nei confronti dei re ai quali sono soggetti per mezzo di leggi, ordini e decreti, così gli uomini di lettere devono in ogni caso obbedire a quanto è deciso da quei due re. Stabiliva che quanti ritenessero diversamente dovessero essere uccisi con l’acqua e col fuoco, deportati nei deserti e abbandonati in pasto alle fiere. [75] Caro ospite siciliano, questo è quello che, stando ai miei ricordi, Antonio diceva patrocinando la causa di Virgilio; ho ritenuto di riferirti tali argomentazioni in modo che tu possa dedurre quanto fossero grandi il suo discernimento e la sua dottrina; avrei anche riferito come discettava nel difendere copiosamente, acutamente e magnificamente Cicerone, se non avessi notato che Errico vuole dire qualcosa. [76] ERR. Santo Cielo, ma quello che vedo non è forse Giurazio Suppazio, un saggio appartenente alla schiera antoniana? Sì, è lui senza dubbio. Oh che giorno felice! Ed io, in nome di Cicerone, in nome della divina eloquenza ciceroniana, vi prego e vi supplico di abbandonare per un po’ i grammatici per ascoltare il saggio antoniano discutere in merito alla saggezza; non esiste, credetemi, un uomo più spiritoso di lui. Vedrete che non appena ci raggiungerà inizierà a parlare.

V. SUPPAZIO, ERRICO [77] SUPPAZIO Vi auguro di tutto cuore di usare il cuore e di essere saggi.121 ERRICO E noi ci rallegriamo che un uomo dalla testa così in salute come te sia giunto sano e salvo. SUP. Ma questo non è forse il mio Puderico? Amico mio, quanto mi sei mancato! Come va il tuo cuore? 121

Allusione alla dottrina stoica secondo la quale il cuore è la sede dell’intelligenza.

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HERR. Satis quidem cum corde recte, cum capite tamen parum sane; de abscessu enim vix utor oculis, amicissimum tamen ac sapientissimum hominem libentissime et video et alloquor. SUPP. Cui cum corde bene est huic valitudo nisi secunda esse non potest. HERR. Unde, bone? [78] SUPP. A sapientibus quaeritandis. Fui Senae studiorum fama ductus; ibi mirificum hoc vidi, in maximo populo, in urbe quam ipsi veterem agnominant vix unum atque alterum senem esse; qui autem rempublicam administrarent plerosque adolescentulos esse; adeo vetus Sena vix quicquam habet quod senile dicas. Fui Pisis, urbe tum antiqua, tum Graeca, ut volunt102; ibi senes plurimos, omnes quidem corio, cordi deditum esse neminem; quem enim cordatum apud eos invenies, qui domesticas ob seditiones civiliaque odia tantam tam brevi rempublicam amisere? Hinc Lucam concessi, quorum hominum deum cum tam crasso capite animadvertissem, coniecturam coepi nihil nisi crasse sapere Lucensem populum posse. Pratum

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Cfr. Ser. Aen. 10, 179.

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ERR. Col cuore me la passo abbastanza bene, ma lo stesso non può dirsi della testa; per colpa di un’infezione uso a fatica gli occhi, tuttavia vedo molto volentieri un caro amico e molto volentieri parlo con un uomo molto saggio. SUP. Chi ha un cuore in salute non può far altro che trovarsi in buona salute. ERR. Da dove ti viene questa certezza, caro amico? [78] SUP. Dalla ricerca di uomini sapienti.122 Mi recai a Siena, spinto dalla fama dell’università; qui assistetti ad un prodigio: tra una popolazione così numerosa, e in una città che gli abitanti stessi definiscono vecchia, non ci sono che uno o due anziani;123 quelli che amministrano lo stato sono per lo più giovinetti; e dunque la vecchia Siena non ha quasi niente che sia senile.124 Mi recai a Pisa, una città molto antica o persino, come vogliono alcuni, fondata dai Greci;125 lì molti vecchi si dedicano al cuoio [corio], nessuno alla saggezza [cordi]; e quale saggezza si può rintracciare presso costoro, che in così breve lasso di tempo hanno perduto l’indipendenza della loro città a causa delle divisioni interne e gli odi civili?126 Da lì mi recai a Lucca e quando vidi che la statua da loro venerata è scolpita in modo così rozzo127 dedussi che il popolo lucchese non potesse che essere altrettanto rozzo quanto all’ingegno. 122 Il viaggio di Suppazio alla ricerca di un uomo sapiente è ispirato al celebre aneddoto relativo a Diogene secondo il quale: «Durate il giorno andava in giro con la lanterna accesa, dicendo: “Cerco l’uomo”» (Diog. Laert. 6, 41, traduzione di Marcello Gigante). 123 Allusione ad una diffusa paraetimologia secondo la quale il nome Siena deriverebbe dal latino senex “anziano”. 124 L’aggettivo senile è da intendersi come sinonimo di saggio. 125 Secondo una tradizione antica attestata in Servio e Strabone, Pisa sarebbe stata fondata dai cittadini dell’omonima città greca. 126 Pontano si riferisce alla conquista di Pisa da parte dei Fiorentini nel 1407. 127 Si tratta di un’allusione irrispettosa al Volto Santo di Lucca, un crocifisso ligneo custodito nel Duomo di Lucca che, secondo una leggenda medievale, sarebbe stato scolpito da Nicodemo.

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inde profectus, quo mortales multi convenerant (festus enim dies erat); cives, incolas, advenas ita in cingulum illud divae matris intentos vidi cunctos, uti confestim inde abierim; quae enim scabies superstitione scabiosior? Veni post Florentiam, in qua quod mulieres formae nimium studerent, quosdam ab iis aliquanto alieniores animadverti. Una mihi civitatis eius mirum in modum disciplina placuit, quod singulis in domibus singulas stateras videbam appensas; eos autem qui magistratus gererent duplici etiam statera uti, altera enim civitatis altera Italiae res expendunt. Hinc Bononiam cum venissem, vivum illic sapientem inveni neminem, mortuos vero multos eosque in catenis habitos. Galliae citerioris urbes vidi tantum; quae quod tyrannis servirent, quomodo sapientem in illis quaererem? Tamen animadverti pullulare aliquando apud eas sapientiam coepisse. Consuesse enim tyrannos a popularibus occidi, libertatem vero retinere diutius cives

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Quindi prosegui per Prato, città nella quale era convenuta una grande folla (era un giorno di festa); non appena vidi che i cittadini, i forestieri residenti e quelli di passaggio erano tutti intenti ad adorare la famosa cintura della Vergine Maria,128 subito me ne andai; e infatti quale rogna è più rognosa della superstizione? Giunsi quindi a Firenze, città nella quale, dato che le donne sono ossessionate dal loro aspetto, ho notato che alcuni uomini sono indotti ad astenersi dalla loro compagnia.129 Del modo di governare tale città mi piacque soltanto questo: vidi in molte case private delle bilance sospese; quelli che gestiscono il governo utilizzano una bilancia duplice, una per le questioni interne, ed un’altra per le questioni che riguardano l’Italia.130 Giunto da Firenze a Bologna, non trovai nessun uomo sapiente che fosse in vita, tuttavia ce n’erano molti morti o ridotti in catene.131 Riguardo alle città dell’Italia settentrionale, mi limitati ad uno sguardo veloce; come si può trovare un sapiente là dove si servono i tiranni? Tuttavia mi accorsi che in quei luoghi cominciava ad attecchire la sapienza: accadeva che spesso i tiranni venissero uccisi dal popolo, anche se i cittadini non sapevano conservare 128 Riferimento alla Sacra Cintola, reliquia custodita nel Duomo di Prato che, secondo la leggenda, la Vergine avrebbe consegnato all’apostolo Tommaso poco prima di ascendere in cielo. La Cintola viene presentata solennemente ai fedeli cinque volte l’anno: a Pasqua, il primo maggio, esordio del mese Mariano, durante la festa dell’Assunta (15 agosto), l’8 settembre, in occasione della Natività di Maria, e il giorno di Natale. Considerando che il rito dell’esposizione della Cintola è festeggiato con particolare solennità in occasione della Natività di Maria, si può supporre che il soggiorno di Suppazio a Prato vada datato all’8 settembre. 129 Con una sola frase Pontano prende di mira lo sfarzo delle donne aristocratiche di Firenze e la diffusa omosessualità maschile che sarebbe propria della città. 130 Allusione sarcastica alla politica dell’equilibrio di Lorenzo il Magnifico. 131 Pontano sembra alludere alla dura repressione seguita alla rivolta contro Giovanni II Bentivoglio nel 1445.

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nescire. Volui videre Genuam, quam ubi vidi, dii boni, beluam illam multorum capitum vidi; annus ipse neque tam varius, neque adeo mutabilis quam Genuensium civium sunt ingenia. Unde secunda navigatione usus atque in Telamonis portum delatus, animadverti tertium quoddam illic hominum genus esse physicis ipsis ignotum. Nam cum hominum alii vivi, alii mortui dicantur, qui Telamone agunt eos nec vivis nec mortuis annumerandos censeo. [79] Fugi statim larvarum gregem, ac zephiro spirante Romam devectus, ibi biduum egi, tum monumentis veterum cognoscendis, tum sacris perscrutandis. Tertio die, dum sapientem quaero, venio ad Floram; praeter popinones, laenones, ganeones, vix illic video alios. Venio ad Pontem; omnia invenio plena foeneratorum. Eo Lateranum; soli ibi coqui, solae tabernae meritoriae. Perrecto diversa urbis loca, regiones, angiportus, compita, greges; cuiusque modi generis hominum incompositi passim obviam fiunt, omnes, ut mihi videbantur, ventri dediti. Dum sic per urbem vagor, duo maxime periculosa contigere: nam et meretricum manus vix evasi, pallio etiam timens, et sacerdotum mulabus pene subtritus sum. Quorum vitam, mores, instituta dum novisse curo, invenio ex his non paucos quos reliquis mortalibus ad omnem vitae partem optime agendam exemplum iure statuas, quosdam tamen quos vere dicas nihil nisi voluptatem quaerere eamque solam sequi. [80] Captus itaque fama unius atque alterius sacerdotis, dum eos quaerito, factus est mihi obviam litterator, qui me pugnis male habuit, cum inter loquendum excidisset ut dicerem

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a lungo la libertà. Decisi di vedere Genova; e quando fui lì, santo Cielo!, vidi una belva dalle molte teste; le stagioni stesse non sono tanto varie e tanto mutevoli quanto le opinioni dei genovesi.132 Da Genova, dopo una felice navigazione, giunsi sino a Talamone, e vidi una terza tipologia di uomini sconosciuta ai fisici: infatti se gli uomini si definiscono o vivi o morti, gli abitanti di Talamone, a parer mio, non possono essere ricondotti a nessuna delle due categorie.133 [79] Fuggii immediatamente da tale gregge di fantasmi e spinto dallo zefiro giunsi a Roma,134 dove mi trattenni due giorni, per visitare i monumenti degli antichi ed ammirare a pieno i luoghi sacri. Il terzo giorno, mentre mi metto alla ricerca di un uomo sapiente, giungo a Campo dei Fiori; a parte crapuloni, papponi, debosciati non c’è nessuno. Arrivo a Castel Sant’Angelo: il luogo è pieno di usurai. Vado al Laterano; ci sono soltanto cuochi e taverne equivoche. Continuo ad attraversare luoghi diversi della città, quartieri, vicoli, crocicchi, folle; mi si fa incontro una folla confusa di uomini di questa sorta, tutti, mi sembrava, dediti al ventre. Mentre vago in questo modo per la città vado incontro a due pericoli: fuggo a stento dalle mani delle meretrici, temendo di non portare in salvo il mio mantello, e per poco non sono calpestato dai muli dei sacerdoti. Mentre cerco di comprendere la vita, i costumi, le abitudini dei sacerdoti, mi accorgo che non pochi di loro potresti a ragion veduta considerarli un modello da seguire in tutti gli aspetti della vita, mentre diresti che altri perseguano soltanto il piacere. [80] Rapito dalla fama ora di un sacerdote ora di un altro, mentre proseguivo la mia ricerca mi si fa incontro un maestro di scuola che mi prende a pugni perché parlando ho detto «ocio illic mar-

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Riferimento all’instabilità politica di Genova. Talamone era scarsamente abitata alla fine del XV secolo. Suppazio naviga da Talamone al porto di Ostia.

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«ocio illic marcescere homines», quod huiusmodi verba splendesco, tabesco, liquesco, casum illum respuant; ac dum Ciceronem testem adduco: «nihil est quod non splendescat oratione»,103 dum Virgilium: «cera liquescit»,104 «uno eodemque igni et molli paulatim flavescet campus arista»,105 dum Columellam: «multa sunt, ut dixi, quae negligentia exolescant»,106 dum etiam Plinium: «igne spissatur, humore ferverci»,107 ille in iram ac iurgia prorumpens, miseris me modis habuit. Ego satis habui incolumi pallio inde me proripere. Itaque dum Romae sapientem quaero, mercedem hanc accipio. Illud etiam quam incommodissime accidit, quod dum ab hoc litteratore vix me avello, in alterum incidi; cui percunctanti iniuriamne aliquam accepissem, quod videret male me fuisse acceptum, cum responderem insignem me a grammatico iniuriam passum, «Quam rectissime» inquit grammaticus ille. «Quid, malum, non te pudet senem loqui latine nescire? ubi tu gentium reperisti iniuriam patior?» – «Atqui» inquam «apud Ciceronem in Philippica tertia: “aequo animo belli patitur iniuriam, dummodo repellat periculum servitutis”,108 et in Laelio: “is in culpa sit qui faciat, non qui patiatur iniuriam”.»109 Hoc vix dicto, quod is iam pugnos stringeret, dedi me in

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Cic. Parad. Proemium 3. Verg. Ecl. 8, 80-81. 105 Verg. Aen. 4, 28. 106 Col. 2, 17 107 Plin. Nat. 12, 23, 8. 108 Cic. Philipp. 2, 4, 9 (Pontano menziona erroneamente la Terza Filippica). 109 Cic. Amic. 21, 78. 104

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cescere homines»135 mentre i verbi come splendesco,136 tabesco,137 liquesco,138 non reggerebbero l’ablativo. Ma quando io cito in mia difesa un passo di Cicerone: «nihil est quod non splendescat oratione»,139 e un luogo di Virgilio: «cera liquescit / uno eodemque igni et molli paulatim flavescet campus arista»,140 e ancora gli cito Columella: «multa sunt, ut dixi, quae negligentia exolescant»141 e Plinio: «igne spissatur, humore fervescit»,142 costui infiammando d’ira e insultandomi mi riduce in malo modo. Riesco a mala pena ad allontanarmi con il mantello integro.143 E così mentre cerco a Roma un uomo sapiente ne ricavo un simile guadagno. Mi ero appena liberato a fatica di costui quando mi imbatto in un altro, maestro il quale, vedendomi male in arnese, mi chiede che cosa mi sia accaduto; non appena rispondo che ho subito un’ingiustizia da parte di un grammatico, «Lo hai meritato,» risponde «non ti vergogni di conoscere il latino alla tua età? Dove mai hai trovato l’espressione subire un’ingiustizia?». «In Cicerone,» rispondo «nella Filippica terza: “con animo equamine subisce l’ingiustizia, purché riesca a respingere il pericolo della servitù”, e nel Lelio: sia considerato colpevole chi compie l’ingiustizia, non chi la subisce”.» Dopo aver detto così, vedendolo stringere i pugni, me la do a gambe 135

«lì gli uomini marciscono nell’ozio». «splendere». 137 «consumarsi». 138 «liquefarsi». 139 «non c’è niente di così orrido che non splenda per l’arte oratoria». 140 «come questo fango s’indurisce, questa cera si rammollisce / al medesimo fuoco» (trad. di Vincenzo Traini)». 141 «ve ne sono molti [scilicet prati], come ho detto, che per la poca cura si isteriliscono e si perdono» (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). 142 «Diviene denso col calore, si scalda con l’umidità». 143 Durante il suo viaggio alla ricerca dei sapienti Suppazio viene più volte aggredito, verbalmente e fisicamente, dai grammatici, che gli contestano, a torto, le espressioni latine da lui adoperate. 136

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pedes, ac Roma egressus, Velitras quam citatissimo gradu petii; ex eoque decretum est mihi valere sapientem sinere. [81] HERR. Cur, obsecro, trans Alpes non profectus? SUPP. Quod scirem Gallos maxime stolidos esse corpusque curare magis quam animum colere, regemque eorum quamvis splendidissimum, tam brevi tamen vestitu incedere ut pudenda non velet, ac si Cynicorum sectator sit institutorum. HERR. Satis magna causa. Ispanias vero adire quae te ratio vetuit, ubi genus hominum acre atque ingeniosum? SUPP. Ne, dum sapientem quaero, in piratas inciderem remoque adiicerer; neque enim tam Sicilia tritici quam praedonum Ispania ferax est. [82] HERR. Venetias cur non visisti, quam sapientium urbem sunt qui dicere audeant? SUPP. Destinaveram animo ultimam hanc petere plusculumque illic temporis agere, dum mores civitatis, dum civium ingenia, leges, ritus, reipublicae temperationem noscerem, et fama quidem acceperam senes illic moderari. Nec me deterruit quod elatissimi mortalium dicuntur omnium, sed quod, ut dixi, decretum est mihi posthac meas tantum res agere nec me grammaticis credere, quos audio ibi regnare quosque malo meo fato genitos scio; neque enim Romae solum, sed Velitris, sed Terracinae pessime ab illis habitus atque acceptus sum. At videte, obsecro, quam ob causam. Adieram medicum, sciscitaturus an distillationi frictio esset utilis. Aderat forte grammaticus

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e, uscito da Roma, raggiungo di gran carriera Velletri; da quel momento in poi decisi di abbandonare la ricerca di un uomo sapiente. [81] ERR. Dimmi, perché non hai attraversato le Alpi? SUPP. Perché sapevo che i francesi sono stolti in sommo grado e coltivano il corpo più di quanto non facciano con l’animo, e il loro re, sebbene splendidissimo, incede con una veste che non nasconde le parti intime, come se fosse un seguace dei filosofi Cinici. ERR. Mi sembra una ragione sufficiente. Per quale motivo non ti sei recato in Spagna, dove si trova una razza di uomini vigorosa e intelligente? SUPP. Temevo di venire catturato dai pirati e messo ai remi mentre ricercavo un uomo sapiente; la Sicilia non è meno fertile di frumento quanto la Spagna è fertile di predoni. [82] ERR. Perché non sei andato a Venezia, dato che alcuni hanno l’ardire di definirla la città dei sapienti? SUPP. Avevo deciso in cuor mio di raggiungere quella città per ultima e di trattenermi lì un poco più a lungo per conoscere i costumi della città, gli ingegni dei cittadini, le leggi, i riti, la moderazione con cui è retto lo stato (ho sentito dire che gli anziani in quella città governano lo stato).144 Non mi ha spaventato il fatto che siano considerati gli uomini più arroganti del mondo, ma, come ti ho detto, dopo tante disavventure avevo deciso di non fidarmi dei grammatici (sono la mia maledizione!) ed avevo sentito che i grammatici prosperano in quella città, e i grammatici mi avevano già trattato in malo modo non solo a Roma, ma anche a Velletri e Terracina. Sentite, poi, per quale ragione. Mi ero recato da un medico perché potesse giovare al mio catarro con un massaggio [frictio]. Per caso 144 Riferimento al Maggior Consiglio, noto anche con il nome latino di Consilium Sapientis, il principale organo di governo della Repubblica veneziana.

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audacia tam importuna ut respondere medicum non passus, obiurgare me statim coeperit quod fricatio non frictio diceretur; nomina enim quae a primae coniugationis verbis deducerentur supinum habentibus in itum vel in ctum praeter coeterorum verbo rum legem exire in atio, non in itio, nec in ctio: itaque fricatio, non frictio dicendum esse.110 O bone, inquam, verbalia in io aut a supinis ipsis aut genitivis participiorum praeteriti temporis fiunt, quae ab ipsis ducuntur supinis, ut oratus, orati, oratio; auditus, auditi, auditio; auctus, aucti, auctio; profectus, profecti, profectio; largitus, largiti, largitio. Quocirca nomina deducta a verbis supini positionem habentibus in ctum, cuiuscunque sint coniugationis, in ctio exeunt, non in catio, ut: perfectum, perfectio, non perfecatio; distractum, distractio; lectum, lectio; actum, actio; sanctum, sanctio, nec aliter; sic frictum, frictio, non fricatio; nam ex Internetio, ut quidam volunt, c littera dempta est suavioris soni gratia.111 Simili modo sectum, sectio, non secatio. Sic Caesar, sic Quintilianus sectionem, non secationem: et Plinius Celsusque frictionem non fricationem dixere; nec te moveat explicatio et vetatio, quorum supina in ctum non exeunt; quare ne te librariorum imperitia decipiat vide”. Dii boni! ac si non verba haec, sed verbera fuissent, ita in me irruit, ut nisi medicus quique cives aderant ab illius me unguibus eripuissent, actum de Suppatio tuo fuerit! Vide pallium conscissum et faciem dissectam vide: cum urso leoneve, non cum homine mihi esse rem putavi. [83] Grammatico ab alio tumidum supercilium fero ac bene mecum actum 110

Cfr. Valla Elegantiae 1, 2. «This ostensibly pedantic observation may today seem both obscure and insignificant, but in the second half of the Quattrocento, nearly any benificiary of the new humanist education would have instantly recognized it as an excerpt from the second chapter in Valla’s first book of Elegantiae, which includes the noun fricatio in a list of anomolous verbal nouns of this type» (Marsh, Grammar and Polemics: 112). 111 Prisc. 2,122,3.

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si trovava lì un grammatico a tal punto sfacciato che, senza lasciar rispondere il medico, cominciò a rimproverarmi perché avevo utilizzato la parola fricatio e non frictio.145 «Buon uomo,» dissi io «le parole che derivate da verbi in io si formano o dai supini o dal genitivo del participio passato, come oratus, orati; auditus, auditi, auditio; actus, aucti, auctio; profectus, profecti, profectio; largitus, largiti, largitio. Per questo motivo i nomi ricavati dai supini che terminano in ctum, qualunque sia la coniugazione dei verbi dai quali derivano, escono in ctio, non in catio, come: perfectum, perfectio, e non perfecatio; distractum, distractio; lectum, lectio; actum, actio; sanctum, sanctio, e non in altro modo; analogamente frictum, frictio, non fricatio; e infatti nella parola Internetio, secondo alcuni, la lettera c è stata soppressa per ottenere un suono meno spiacevole. In modo analogo si dice sectem, sectio, non secatio. E in questo modo Cesare e Quintiliano hanno adoperato il termine sectio, non secatio, e Plinio e Celso hanno detto frictio, non fricatio; non farti portare fuori strada dal caso delle parole explicatio e vetatio, i supini dai quali esse derivano, infatti, non escono in ctum; fai dunque attenzione che l’ignoranza dei copisti non ti tragga in inganno.» Santo Cielo! Come se le mie non fossero state parole [verba] ma bastonate [verbera] mi aggredì con tale violenza che se il medico e gli altri cittadini lì presenti non mi avessero tolto dalle sue grinfie, sarebbe stata la fine del tuo Suppazio! Guarda il mio mantello a brandelli, guarda il mio volto tagliuzzato: diresti che ho discusso con un orso o con un leone, non con un uomo. [83] Per colpa di un altro grammatico mi ritrovo un sopracciglio gonfio e mi è

145 La discussione sul termine fricatio confuta quanto Valla aveva scritto nel libro primo delle Elegantie. Anche il velletrano, dunque, è un arrogante seguace di Valla come i grammatici napoletani esecrati dal Compatre e il Contrario nella scena precedente.

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puto, quod non ex eo pugno oculum amiserim. At quam ob causam? quod affirmarem post negandi adverbium licere etiam copulationem ponere quae negationem ipsam redderet, exemplo Caesaris commentario septimo: «tanto accepto incommodo neque se in occultum abdiderat et conspectum multitudinis fugerat»;112 item: «quod in conspectu omnium res gerebatur neque tegi ac turpiter celari poterat».113 Licere item dicere e contrario, auctoritate eiusdem Caesaris eodem commentario: «ut reliquorum imperatorum res adversae auctoritatem minuunt, sic huius e contrario dignitas incommodo accepto in dies augebatur».114 [84] Nec non verbis significo, addo et peto accusandi casus loco casum auferendi cum praepositione apponere auctoritate Caesaris eiusdem commentario eodem dicentis: «conclamare et significare de fuga Romanis coeperunt»;115 et quinto commentario: «addunt etiam de Sabini morte»; item: «de suis privatim rebus ab eo petere coeperunt».116

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Caes. Gall. 7, 30, 1. Caes. Gall. 7, 80, 5. Caes. Gall. 7, 30, 3. Caes. Gall. 7, 26, 4. Caes. Gall. 5, 41, 4.

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andata bene che non ho perduto un occhio a causa del suo pugno. Volete sapere per quale ragione? Perché sostenevo che dopo un avverbio negativo è possibile aggiungere una congiunzione che ribadisca la negazione, sul modello di Cesare che nel settimo libro del De bello Gallico scrive: «tanto accepto incommodo neque se in occultum abdiderat et conspectum multitudinis fugerat»;146 quindi: «quod in conspectu omnium res gerebatur neque tegi ac turpiter celari poterat»147 e ancora: «quod in conspectu omnium res gerebatur neque tegi ac turpiter celari».148 Affermai inoltre che è lecita l’espressione e contrario,149 utilizzata da Cesare nel medesimo libro: «ut reliquorum imperatorum res adversae auctoritatem minuunt, sic huius e contrario dignitas incommodo accepto in dies augebatur.»150 [84] Sostenevo che con i verbi significo,151 addo152 e peto153 si può utilizzare l’ablativo con una preposizione invece dell’accusativo come fa Cesare sempre nel medesimo libro: «conclamare et significare de fuga Romanis coeperunt»,154 e nel quinto libro: «addunt etiam de Sabini morte»155 e ancora: «de suis privatim rebus ab eo petere coeperunt».156 [85] Affermavo che 146

«dopo aver subito un insuccesso non lieve». «anche dopo aver subito un insuccesso, non si era ritirato nell’ombra ed era fuggito dal cospetto della folla». 148 «poiché lo scontro avveniva sotto gli occhi di tutti e non si potevano nascondere né gli eroismi, né le viltà» (traduzione di Carlo Carena). 149 «al contrario». 150 «mentre di solito un generale vede diminuito dai rovesci il proprio prestigio, questi al contrario cresceva di giorno in giorno in considerazione malgrado l’insuccesso subito» (traduzione di Carlo Carena). 151 «indicare». 152 «aggiungere». 153 «chiedere». 154 «gridarono per segnalare la fuga ai Romani». 155 «aggiungono ancora la morte di Sabino». 156 «iniziarono a fare domande in privato in merito ai loro affari». 147

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[85] Quin etiam nomen unus una unum plurali numero licere etiam adiungere nominibus quae singularem numerum haberent, quod Caesar etiam faceret commentario primo: «animadvertit Caesar unos ex omnibus Sequanos nihil earum rerum facere quas coeteri facerent, sed tristes capite demisso terram intueri»;117 commentario quarto: «sese unis Suevis concedere, quibus ne dii quidem immortales pares esse possint»;118 commentario sexto: «erant Menapii propinqui Eburonum finibus, perpetuis paludibus silvisque muniti, qui uni e Gallia de pace ad Caesarem legatos nunquam miserant».119 Cicero tertio Rhetoricorum: «duplices igitur similitudines esse debent, unae rerum, alterae verbo rum».120 [86] Latine etiam dici quinam et quisque de duobus, non aliter quam uter et uterque, exemplo Caesaris, qui ait commentario quinto: «erant in ea legione fortissimi viri, centuriones, qui primis ordinibus appropinquarent, Titus Pullo et Lucius Vorenus. Hi perpetuas controversias inter se habebant quinam anteferretur».121 Et commentario septimo, cum de controversia Convictolitavis et Coti Heduorum mentionem faciens inquit: «suas cuiusque eorum clientelas».122 Quintilianus libro decimo: «nam Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est ut corpus eloquentiae faciant; elegantes in sua quisque materia, sed alter humilis,

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Caes. Gall. 1, 32, 2. Caes. Gall. 4, 7, 5. Caes. Gall. 6, 5, 4. Rhet. Her. 3, 20, 1. Caes. Gall. 5, 44,1. Caes. Gall. 7, 32, 5.

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si può utilizzare l’aggettivo unus, una, unum al plurale con i nomi che indicano un singolare, dato che anche Cesare l’ha fatto nel De bello Gallico nel primo libro: «animadvertit Caesar unos ex omnibus Sequanos nihil earum rerum facere quas coeteri facerent, sed tristes capite demisso terram intueri»157 nel quarto: «sese unis Suevis concedere, quibus ne dii quidem immortales pares esse possint»:158 nel sesto: «erant Menapii propinqui Eburonum finibus, perpetuis paludibus silvisque muniti, qui uni e Gallia de pace ad Caesarem legatos nunquam miserant».159 Cicerone nel terzo libro della Retorica: «duplices igitur similitudines esse debent, unae rerum, alterae verborum».160 [86] In latino è possibile utilizzare quinam e quisque per riferirsi a due persone, come si fa nel caso di uter e uterque, seguendo l’esempio di Cesare che nel quinto libro scrive: «erant in ea legione fortissimi viri, centuriones, qui primis ordinibus appropinquarent, Titus Pullo et Lucius Vorenus. Hi perpetuas controversias inter se habebant quinam anteferretur».161 E nel settimo libro, quando menziona la controversia tra gli Edui Convittolitave e Coto, scrive: «suas cuiusque eorum clientelas».162 Anche Quintiliano nel decimo libro scrive: «nam Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est ut corpus eloquentiae faciant; elegantes in sua quisque materia, 157 «Cesare notò che i soli Sequani tra tutti non si comportavano come gli altri ma guardavano tristemente a terra col capo chino». 158 «affermavano di essere inferiori ai soli Svevi, con i quali nemmeno gli dei immortali possono competere». 159 «ai confini degli Eburoni vivevano i Menapi, protetti da paludi ininterrotte e foreste, gli unici a non aver inviato dei legati a Cesare per trattare la pace». 160 «per questo le somiglianze sono di due sorti, le une riguardano l’argomento, le altre le parole». 161 «C’erano in quella legione due ufficiali molto valorosi, Tito Pullone e Lucio Voreno; contendevano di continuamente tra loro per decidere chi doveva tenere il primo posto». 162 «ognuno con i suoi al seguito».

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alter difficilis».123 [87] Pristinum quoque diem recte dici commentario quarto docet Caesar: «milites nostri pristini diei perfidia incitati in castra irruperunt».124 Quin etiam utraeque et utraque numero plurali exemplo maiorum Romane dici de iis quae duo duaeve tantum essent aut singulari numero proferrentur; Sallustius in Catilinario: «agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque his artibus auxerat quas supra memoravi»;125 Caesar commentario primo: «duae fuerunt Ariovisti uxores, una Sueva natione, quam domo secum duxerat, altera Norica, regis Boctionis soror, quam in Galliam duxerat a fratre missam, utraeque in ea pugna perierunt».126 [88] Inique etiam accusari Lactantium, qui dixerit: «maxime tamen Erythrea, quae celebrior et nobilior inter coeteras habetur»,127 cum Caesar dicat commentario quarto: «ad alteram partem succedunt Ubii, quorum fuit civitas ampla et florens, uti est captus Germanorum, qui paulo sunt eiusdem generis etiam coeteris humaniores propterea quod Rhenum attingunt»;128

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Quint. Inst.10, 1, 87. Caes. Gall. 4, 14, 3. 125 Sall. Cat. 5, 7. 126 Caes. Gall. 1, 53, 4. Nelle edizioni moderne il nome del re è Voccione e non Boccione e la lezione è utraque e non utraeque. 127 Lact. Inst. 1, 6, 14. 128 Caes. Gall. 4, 3, 3. 124

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sed alter humilis, alter difficilis».163 [87] La forma pristinus dies [«il giorno precedente»] è corretta, come insegna Cesare nel quarto libro del De bello Gallico: «milites nostri pristini diei perfidia incitati in castra irruperunt».164 D’altronde, seguendo l’esempio dei nostri antenati Romani, è possibile utilizzare utraeque e utraque al plurale per riferirsi a cose che sono soltanto due o che sono presentate come un singolare; si veda Sallustio nel De Catilinae coniuratione: «agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque his artibus auxerat quas supra memoravi»:165 e Cesare nel quinto libro del De bello Gallico: «duae fuerunt Ariovisti uxores, una Sueva natione, quam domo secum duxerat, altera Norica, regis Boctionis soror, quam in Galliam duxerat a fratre missam, utraeque in ea pugna perierunt».166 [88] È altresì ingiusto accusare Lattanzio per aver scritto: «maxime tamen Erythrea, quae celebrior et nobilior inter coeteras habetur»,167 dal momento che Cesare aveva scritto nel quarto libro: «ad alteram partem succedunt Ubii, quorum fuit civitas ampla et florens, uti est captus Germanorum, qui paulo sunt eiusdem generis etiam coeteris humaniores propterea quod Rhenum attingunt»;168 e Plinio nella lettera a 163

«è possibile leggere Macro e Lucrezio, ma non allo scopo di formare uno stile, vale a dire la sostanza dell’eloquenza; ciascuno dei due è raffinato, nella sua materia, ma l’uno è esile, l’altro difficile». 164 «i nostri soldati incitati dal tradimento commesso il giorno precedente irruppero nell’accampamento». 165 «giorno dopo giorno il suo animo feroce era sempre più turbato dalla povertà e dalla colpa dei suoi crimini, entrambe aumentate dalle cattive abitudini come ho detto in precedenza». 166 «Ariovisto aveva due mogli una, di nazionalità Sveva, che aveva condotto da casa, e l’altra norica, la sorella del re Boccione, che aveva sposato una volta che il fratello l’aveva inviata in Gallia; entrambe morirono nel corso di quella battaglia». 167 «specialmente la sibilla Eritrea, che è considerata la più celebre e nobile tra le altre sibille». 168 «dall’altro lato giungono gli Ubi, il cui stato era grande e

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et Plinius ad Gallum: «terra malignior coeteris, hac non deterior»129 et ad Caninium: «quo in certamine puer quidam audentior coeteris in ulteriora tendebat»;130 itaque permissum esse uti comparatione etiam ad eos qui sunt complures eiusdem generis. [89] Falso etiam tradi quod instruo puerum aut instruit magister discipulum Latine non dicatur, cum libro primo Quintilianus dicat: «quae non eorum modo scientia, quibus quidam nomen artis dederunt, studiosos instruat et, ut sic dixerim, ius ipsum rhetorices interpretetur, sed alere facundiam, vires augere eloquentiae possit».131 Item libro secundo: «ita ipse quoque historiae atque etiam magis orationum lectione susceptos a se discipulos instruxerit».132 [90] Non minus falso etiam praecipi quod substantivis gerundivum tantum, non infinitivum addendum sit, cum Caesar dicat commentario septimo: «priusquam munitiones ab Romanis perficiantur, consilium capit omnem a se equitatum noctu dimittere»,133

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Plin. Epist. 2, 17, 15. Plin. Epist. 9, 33, 4. 131 Quint. Inst. Proem. 23. Nelle edizioni correnti si legge: scientia, quibus solis quidam. 132 Quint. Inst. 2, 5, 1. 133 Caes. Gall. 7, 71, 1. 130

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Gallo: «terra malignior coeteris, hac non deterior»169 e in quella a Canino: «quo in certamine puer quidam audentior coeteris in ulteriora tendebat».170 Quindi è concesso utilizzare il comparativo anche per riferirsi a molte cose dello stesso genere. [89] È inoltre falso dire che l’espressione «instruo puerum»171 o «instruit magister discepulum»172 non si adopera in latino, dal momento che Quintiliano nel primo libro scrive: «quae non eorum modo scientia, quibus quidam nomen artis dederunt, studiosos instruat et, ut sic dixerim, ius ipsum rhetorices interpretetur, sed alere facundiam, vires augere eloquentiae possit».173 Ugualmente nel libro secondo scrive: «ita ipse quoque historiae atque etiam magis orationum lectione susceptos a se discipulos instruxerit».174 [90] Non è meno sbagliato quel precetto secondo il quale soltanto un gerundio, e non un infinito, può essere aggiunto ai sostantivi, considerando che Cesare scrive nel settimo libro: «priusquam munitiones ab Romanis perficiantur, consilium capit omnem a se equitatum noctu dimittere»,175 Cicerone nel terzo libro della Retorica: «temfiorente, per quanto possano esserlo i Germani, e che sono un poco più civili degli altri dal momento che toccano le rive del Reno». 169 «una terra più avara delle altre, ma non peggiore di questa». 170 «in questa gara un ragazzo più coraggioso degli altri si spingeva più avanti». 171 «addestro il fanciullo». 172 «il maestro istruisce l’alunno». 173 «un insegnamento che non solo offra agli studiosi la conoscenza di quegli elementi ai quali soltanto alcuni hanno dato il nome della disciplina e che, per così dire, spieghi le leggi stesse della retorica, ma che sia in grado di alimentare la naturale spigliatezza oratoria e rinvigorire le forze dell’eloquenza» (traduzione di Adriano Pennacini). 174 «nello stesso modo egli [il retore] istruirà i discepoli che ha scelto nella lettura della storia e, ancor di più, nella lettura delle orazioni». 175 «[Vercingetorige] prende la decisione di far partire durante la notte tutta la cavalleria, prima che i Romani abbiano completato il blocco della città».

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Cicero tertio Rhetoricorum: «tempus est ad coeteras partes rhetoricae orationis proficisci»,134 Sallustius in Catilinario: «non fuit mihi consilium secordia atque desidia bonum otium conterere».135 Quin etiam ineptissime sentire eos qui negent Latine dici: «non habeo plus uno praedio, cum dicat Quintilianus libro tertio: simplex autem causa, etiamsi varie defenditur, non potest habere plus uno de quo pronuncietur; atque inde erit status causae».136 Item: «ideoque in eo statum esse iudicabo quod dicerem, si mihi plus quam unum dicere non liceret».137 [91] Quae quam moleste bonus hic grammaticus tulerit, meum hoc supercilium docet. An tibi videor grammaticorum furiis amplius obiectandus? Facessant posthac igitur sapientes, dum a grammaticis me in libertatem vendicem. Fundis Hytriisque fuere mihi res aliquanto quietiores, ubi nedum litteratores, nullos quidem litteratos invenio, quippe cum oppidani non urbanam colant, sed villaticam Palladem; omnes enim oleo dediti sunt. Post Caietam ingressus, obviam habui mulierculam, quae me blande appellatum deque via fessum ad umbram invitavit frigidamque qua me perluerem vitreo quam conspicatissimo protulit.

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Rhet. Her. 3, 8, 15. Sall. Cat. 4, 1. Nelle edizioni correnti non si legge mihi. Quint. Inst. 3, 6, 9. Quint. Inst. 3, 6, 10.

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pus est ad coeteras partes rhetoricae orationis proficisci»,176 Sallustio nel De Catilinae coniuratione: «non fuit mihi consilium secordia atque desidia bonum otium conterere».177 Inoltre hanno un’opinione sciocchissima quanti negano che in latino si possa utilizzare l’espressione «non habeo plus uno praedio»,178 come fa Quintiliano nel terzo libro: «simplex autem causa, etiamsi varie defenditur, non potest habere plus uno de quo pronuncietur; atque inde erit status causae».179 E più avanti: «ideoque in eo statum esse iudicabo quod dicerem, si mihi plus quam unum dicere non liceret».180 [91] Come quel buon grammatico abbia accolto i miei insegnamenti lo dimostra il mio sopracciglio. Ti sembra opportuno che io mi esponga ulteriormente alle rappresaglie dei grammatici? Non mi importa più dei sapienti, fintanto che sono libero dai grammatici. Le cose andarono in modo molto più quieto per me a Fondi e a Itri, dal momento che in quei luoghi non trovai alcun maestro e nemmeno, a maggior ragione, letterati – gli abitanti non venerano una Minerva urbana ma una Minerva contadina: si occupano tutti della produzione dell’olio.181 Dopo essere giunto a Gaeta, mi si fece incontro una donnetta la quale, dopo avermi rivolto gentilmente la parola, mi invitò a recarmi all’ombra per riposarmi dalle fatiche del viaggio182 e mi porse dell’acqua con la quale lavarmi in un recipiente di vetro limpidis176

«è tempo di passare alle altre parti del discorso retorico». «non era mia intenzione sprecare il mio prezioso tempo libero abbandonandomi alla pigrizia e all’inerzia». 178 «non ho più di un podere». 179 «una causa semplice, anche se può essere difesa in modi diversi, non può avere più di un argomento intorno al quale ci si pronuncia, e da lì deriverà lo stato della causa». 180 «e quindi giudicherò che lo stato consista in ciò che direi se non mi fosse permesse più di una cosa». 181 Secondo il mito Minerva, la dea della sapienza, è anche l’inventrice dell’olivo. 182 Suppazio siede fuori dalla casa della vecchia, molto probabilmente all’ombra di un albero. 177

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Delectavit me familiaritas coepique de patria deque re familiari percunctari, cum statim puella non inhonesta facie negricantem gallinam ac novem simul ova detulit, quae die Veneris nata esse diceret. Nec multo post venit ancillula cum anaticulo et albo filo. Abire ambas iussit, redituras accensis facibus, tertium eum lunae diem esse admonens, atque ad me conversa: «Ex quo, inquit, virum amisi, cum mihi nihil moriens reliquisset, quaestum facere hunc coepi; et profecto Caietanae mulieres cum sint superstitiosulae, satis commode hinc victitarem, ni fratres quidam proventum interciperent, dum somnia coniiciunt, dum iras deorum venditant, dum viros nubilibus, mares gravidis, prolem sterilibus promittunt; quodque scelestissimum duco, quia Caietana plebecula piscatui pleraque dedita est, noctu ad plebeiorum uxores domum ventitant, quas interdiu per speciem religionis in tempio audiunt. Ac ne decipiare, hospes, quam vidisti ancillulam, ea herae iussu, quae gravida e fraterculo est, ad me consulendam venit; quae prior venerat puella sponsum habebat, cuius forma captus bonus nescio quis Deoque percarus fraterculus suis artibus seductum induere cucullum suasit ac nunc secum habet in cellula».138 – «Improbe, inquam, factum, sed tu velim ne fratres in te commoveas, quos videam in Italiae urbibus regnare.» Tum illa: «Desine timere, obsecro; nam ex quo

138 Un aneddoto simile è narrato da Filelfo nella satira dedicata ai frati: Ipocrizio, personaggio d’invenzione che racchiude in sé tutti i difetti dei frati, prende con sé un fanciullo desideroso di apprendere le lettere e ne fa il suo amante: «Concubitus inter templi penetralia foedos / raptus sacra puer patitur discrimine magno» (Filelfo Saty. 2, 2, 43-44).

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simo. Tanta affabilità mi conquistò e cominciai a farle domande sulla sua città di provenienza e sulla sua famiglia, quando all’improvviso una fanciulla dall’aspetto rispettabile giunse davanti a noi trascinando una gallina nera e nove uova che, a quanto affermava, erano state covate nel giorno di Venere. Poco dopo giunse una servetta con un anatroccolo e una benda bianca. La donnetta comandò ad entrambe di andare via e di tornare con delle fiaccole accese, ricordando loro che era il terzo giorno della nuova luna,183 e rivolta a me disse: «Da quanto ho perduto mio marito, che è morto senza lasciarmi nulla, ho cominciato a fare questo mestiere; e senza dubbio, dal momento che le donne di Gaeta sono alquanto superstiziose, tirerei avanti abbastanza comodamente se alcuni frati non mi portassero via il guadagno: interpretano i sogni, mettono in vendita l’ira dei santi, promettono mariti alle nubili, figli maschi alle donne incinta, una prole alle donne sterili; inoltre, ed è secondo me la loro azione più scellerata, dal momento che il popolo di Gaeta si occupa per lo più di pesca, di notte frequentano le case delle donne del popolo, le stesse le quali, durante il giorno, incontrano in chiesa con il pretesto della religione. E per dirti la verità, forestiero, quella servetta che hai visto è venuta a consultarmi per conto della sua padrona, che è stata ingravidata da un fratino; la fanciulla che era venuta prima di lei aveva un marito; un caro, buon fratino di cui non conosco il nome, molto caro a Dio, catturato dalla bellezza del ragazzo dopo averlo sedotto lo convinse a prendere i voti ed ora se lo tiene nella sua celletta». «Sono azioni malvagie,» risposi «ma fai attenzione a non attirarti le antipatie dei frati, che regnano nelle città italiane.» Allora rispose: «Smetti di preoccuparti per me; conosco il custode 183 La gallina da sacrificare, le uova covate di venerdì e la benda sono altrettanti elementi di un rito magico presenziato dalla vecchia la quale, per sua stessa ammissione, esercita il «mestiere» di fattucchiera.

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iuvencula eram, conventus custodem cognovi, ac, ni fallor, is est quem huc venientem conspicaris»; confestimque hoc dicto domum ingrediens me valere iussit. [92] Abeo inde ad mare; gregem illic piscatorum invenio ac dum singulos contemplor, optimos quosque pisces seligi ab eis video. Quaero venalesne habeant; respondent asservari fraterculis seque Deo illos velle offerre. Tum ego mecum: «Macti, inquam, pietate, adulteros tam delicate qui pascitis!». Eo hinc ad meritoriam cumque inter prandendum repente in proximo muliercularum pugillatus exortus esset, harpyarum vitare iras constitui meque propter Vitruvii sepulcrum Molam, quae in Formiano est litore, atque inde Suessam contuli. Ibi mane in foro spectantem me scitulas puellas cum biferarum quasillis mulier compellat eloquentia non vulgari, et quod palliatum videbat, postquam benigne salutavit, «Amabo, inquit, quam tibi mores nostri placent? Credo admiraris scitulas has, credo Platonis legisti rempublicam, quam si cives nostri non omnino probant, vitam certe aliquanto liberiorem non improbant. Haec puellae partim nuptae, partim sponsae, quaedam etiam nondum viris collocatae sunt; licet tamen cum iis et iocari et liberius etiam ludere; ne te igitur delitiarum pudeat, blandulae sunt, virosque ad se holerum ac frugum gratia invitant, cupiunt vendere; sic se civitatis nostrae mores habent. Neque

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del convento sin da quando ero giovinetta e, se non mi sbaglio, è lui che sta venendo verso di noi», dopo aver detto queste parole mi salutò ed entrò in casa.184 [92] Mi allontano da lì e me ne vado al mare; trovo la folla dei pescatori e guardandoli attentamente uno ad uno mi accorgo che stanno scegliendo il pesce migliore. Chiedo loro se i pesci sono in vendita; mi rispondono che li stanno mettendo in serbo per i cari frati e li vogliono offrire in nome di Dio. Allora dico tra me e me: «Siete davvero insigni per pietà religiosa, voi che nutrite con cibi così ricercati gli amanti delle vostre mogli!». Quindi mi reco in una locanda e mentre sto mangiando comincio ad essere infastidito dalle sgualdrine; per evitare l’ira di quelle arpie mi sposto a Mola, sulla costa di Formia, là dove si trova il sepolcro di Vitruvio, e quindi a Sessa Aurunca. La mattina seguente, mentre sono intento ad osservare alcune ragazze graziose che con i loro cestini colmi di verdure si affollano nella piazza del mercato, una donna mi apostrofa non senza una certa ricercatezza e, avendomi visto indossare il pallio, dopo avermi salutato cortesemente mi dice: «Di grazia, che ne pensi dei nostri costumi? Avrai senza dubbio ammirato le nostre graziose ragazze e certamente hai letto la Repubblica di Platone;185 sappi che i sessani non disapprovano del tutto quelle dottrine ed apprezzano un modo di vivere alquanto libero. Alcune di queste fanciulle sono sposate, altre fidanzate, altre ancora non sono legate ad un uomo; puoi scherzare con loro e prenderti qualche libertà; non vergognarti di corteggiarle, sono piuttosto disponibili ed attraggono gli uomini a sé per vendere loro gli ortaggi e i cereali; questi sono i costumi che si osservano nella nostra città. Non dimenticarti, buon uomo, 184 In questa “novelletta” la critica della superstizione è particolarmente feroce in quanto i frati sono accomunati da Pontano alla fattucchiera nello sfruttamento della credulità popolare, cfr. Char. §§ 36-37. 185 Riferimento comunione delle donne proposta nella Repubblica di Platone cfr. Char. § 22 con relative note.

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enim, vir bone, ignoras probum improbumque pro locis, populis, nationibus iudicari, neque tam naturam quam leges atque instituta sequi aliaque alibi laudari». [93] Quid multis? coepit etiam de virtutibus deque Deo tandem disserere. Ego vix avellere me ab ea potui, tandemque digressus notumque mihi hominem percunctatus unde tantam mulier doctrinam hausisset, cum suspicerem tum rerum cognitionem tum dicendi copiam. «Neque, inquit, nostra haec fabulosum illum Musarum fontem hausit, sed theologi linguam compluribus annis ore suo versavit, neque ut priscus ille Ennius in Parnaso somniavit, sed vigilans in toro atque in theologi complexibus cubuit. Ex huius ipsius lingua manat eloquentia tam suavis, ex ore theologi orat tam copiose atque inundanter; spiritum huic ille inspiravit roremque instillavit unde oratio eius spirat stillatque tam suave.» [94] An igitur posthac, Herrice, habes quod adversus institutionem edisseras? Vides quantum ars, quantum disciplina, quantum domestica consuetudo valeat? Intelligis quantum doctorum familiaritas possit? Quanta in omni genere institutionis vis sit assuetudinis? Mulierculam eloqui! femellam sapere! Hoc est profecto cur, contempta grammaticorum importunitate, libeat sapientem adhuc quaerere. [95] HERR. O gnave ac sapiens Suppati, scis quid de

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che il concetto di ciò che è riprovevole e di ciò che non lo è muta in relazione ai luoghi, ai popoli, alle nazioni, e che i comportamenti non sono dettati dalla natura ma derivano dalle leggi e dalle convenzioni, e che il medesimo comportamento può essere in luoghi diversi esecrato o lodato». [93] Ma perché dilungarmi? Cominciò a discettare anche delle virtù e persino di Dio. Riuscii a stento a sottrarmi dalle sue grinfie; una volta allontanatomi, mi imbattei in un mio conoscente al quale chiesi da dove quella donna avesse attinto tanto sapere, dal momento che ero stato testimone della sua dottrina e della sua eloquenza. «Costei» mi disse «non si è abbeverata al favoloso fonte delle Muse186 ma ha intinto la lingua per più anni nella bocca di un teologo, e non ha sognato le cose che dice sulla cima del monte Parnaso, come l’antico Ennio, ma le ha apprese mentre giaceva ben sveglia nel letto, abbracciata al teologo. Dalla lingua del teologo scorre quell’eloquenza così soave, dalla sua bocca derivano le parole che lei copiosamente riversa nei suoi discorsi; è stato il teologo ad ispirare il suo spirito e ad instillare in lei la rugiada dalla quale si stillano discorsi tanto soavi.» [94] Caro Enrico, dopo un tale esempio potresti escogitare un’argomentazione contro l’educazione? Non vedi che cosa si riesce ad ottenere con l’arte, con la disciplina, con una frequentazione quotidiana? Non ti rendi conto di quanto possa la frequentazione dei dotti? Quanto sia efficace in ogni genere di educazione la forza dell’abitudine?187 Una donnetta che discetta! una femminetta sapiente! Questo è il motivo per il quale, a dispetto dell’impudenza dei grammatici, ho intenzione di continuare a ricercare un uomo sapiente. [95] ERR. Oh diligente e sapiente Suppazio, dal momento che sostieni che questa tua donna sessana avreb186

La fonte Castalia, che aveva il potere di tramutare in poeti quanti bevessero le sue acque. 187 Cfr. Char. § 12: «MIN. Eaco, non è straordinaria la forza dell’educazione? Ecco trasformato in un filosofo quello che un tempo era un rematore!».

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theologis his nostris sentiret Antonius, quando Suessanam istam tuam hausisse a theologo eloquentiam cum scientia dicis? Scis, inquam, quid de iis sentiret Antonius? Optime cum ipsis agi quod in claustris atque in solitudine vivant, quod plebecula vanas eorum disputationes non intelligit; fore enim, si in publico vitam agerent, si eorum dissertiones notae vulgo essent, uti sutores formulis, ferrarii malleolis, indusiarii forficibus insectarentur, primum quod minime castam agant vitam, deinde quod inanissimis de rebus ad insaniam disserunt; ac si qui sunt qui veterem probatamque theologiam sequuntur, contemptui eos habent. Verum, si placet, optime Suppati, relictis his, peregrinationem perficias oro, ac si quid Capuae, si quid Aversae videris, noveris, compereris, explica. [96] SUPP. Capuam ingressus obvium habui qui, quod physicum profiteri me crederet, consuluit quid oculis maxime conferre ducerem. Respondi: «Si causidicum advocatumque nunquam videris». – «Quid auribus?» – «Si nullam domi mulierem habueris.» – «Quid stomacho?» – «Si nunquam in mensa cum sacerdote cardinale accubueris.» Consuluit quid item rei familiari multum prodesset. – «A Catalano mercatore mutuum non accipere.» – «Quid ad vitae tranquillitatem» – «Aulas dominantium nunquam ingredi.» «Quod tempus minime esset utile» – «Quod audiendo fratri Francisco, cui Ispano cognomen est, impenderetur.» Hunc ego ubi video plura quoque paratum quaerere: «Quando, inquam, faciendo itineri occupatus sum, quaeso, mutuum mihi redde et comi-

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be attinto da un teologo eloquenza e dottrina, sai che cosa era solito dire Antonio a proposito dei teologi dei nostri tempi? Sai cosa era solito dire? Sosteneva che fanno bene a vivere reclusi nei chiostri e nella solitudine dei conventi, in modo che la plebe non possa ascoltare le loro discussioni vane; infatti se vivessero insieme agli altri uomini, se le loro dissertazioni fossero note al volgo, i calzolai li inseguirebbero con le forme, i fabbri con i magli, i sarti con le forbici, in primo luogo perché conducono una vita niente affatto casta e poi perché discutono sino alla follia di argomenti inconsistenti; quanti tra di loro seguono la teologia degli antichi vengono disprezzati dagli altri. Ma caro Suppazio, se sei d’accordo, lascia da parte costoro e, te ne prego, continua il tuo viaggio, e se hai visto, scoperto o appreso qualcosa a Capua e ad Aversa ti prego di comunicarcelo. [96] SUPP. Dopo essere entrato a Capua mi imbattei in un uomo che, scambiandomi per uno studioso di medicina, mi chiese che cosa ritenessi maggiormente utile per gli occhi. Risposi: «Non vedere mai né avvocati né assistenti legali». «E cosa per le orecchie?» «Non avere alcuna donna in casa» «E per lo stomaco?» «Non mettersi a tavola con un cardinale.» Mi chiese quindi che cosa giovasse alle finanze familiari. «Non chiedere un prestito ad un mercante catalano» risposi. «E cosa è utile per condurre una vita tranquilla?» «Non mettere piede nella corte dei potenti.» «Quale tempo è speso più inutilmente?» «Quello impiegato ad ascoltare le prediche di frate Francesco, detto lo Spagnolo.»188 Ed io, vedendolo pronto a pormi ancora altre domande gli dico: «Dal momento che sono occupato a compiere un viaggio, ti prego, rendimi il favore e dimmi quale compagno è preferibile per arrivare 188 Un frate spagnolo che, come si racconta nel De sermone (2, 17, 7), sostenendo di essere ispirato da un angelo e di prevedere il futuro, incitava nelle sue prediche a cacciare gli ebrei dal Regno di Napoli, cfr. Vitale, Ritualità monarchica: 100.

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tem quo Neapolim usque commodiore uti possim, edoce». Tum ille: «Agrum, inquit, hunc nostrum peragranti, si bene tibi consultum velis, lupum comitem adhibebis; neque enim comite alio, tot tantorumque molossorum rabiem evitaveris, atque utinam unus tibi satis sit lupus!» – «Atqui inquam, meus hic asellus uni lupo satis non est.» [97] Egressus igitur Capua, puerum, quod aliquantulum de via fessus esset, asino impositum praecedere cum iussissem, ipse post sequebar; nec multum viae progressus, audio irrideri me a viatoribus ac fatuum dici, quod senex ipse ac pannis involutus pedibus iter facerem, puerum firmis pedibus atque expeditum asino ante ducerem. Itaque haud multo post cum iussissem puerum descendere, ipse asino vehi coepi; nec ita multum itineris confeceram, ecce qui me accusare coepit, quod validis viribus puerum aetate tenera atque imbecilla ire pedibus paterer, ipse asello veherer. Equo statim, crimen ut averterem, descendi bestiolamque ducere capistro coepi; nec multum ab Aversa aberam; ibi miris me modis ab iis qui et ipsi oppidum petebant meque sequebantur condemnari atque, ut ita dixerim, excachinnari sentio, quod cum puero una ferri asello commodissime possem, vacuum tamen illum atque expeditum reste ductarem. Quibus ut satisfacerem, ascendi cum puero asellum; vix autem oppidum intraram, cum sublatis primo cachinnis, post etiam clamoribus, intelligo me a popularibus incessi: «O senem delirum, o asellum miserrimum! Non corruit infelix sub tanta sarcina? Non crepuit

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sino a Napoli». E lui mi risponde: «Se vuoi un consiglio, dato che devi attraversare i nostri campi avresti bisogno di prendere come compagno un lupo; è il solo compagno che ti permetterebbe di evitare gli assalti di così tanti cani molossi, e magari un lupo soltanto fosse sufficiente!». «Ma il mio povero asinello, faccio io, non basterebbe ad un solo lupo». [97] Dopo essere uscito da Capua, procedevo a piedi dietro l’asino, dal momento che avevo ordinato al mio giovane servitore, che era piuttosto stanco per il cammino, di cavalcarlo; non faccio molta strada che gli altri viaggiatori cominciano a prendersi gioco di me, chiamandomi sciocco perché un vecchio come me, ricoperto di stracci, si fa precedere da un ragazzo con le gambe valide che se ne sta comodamente sopra un asino. Poco dopo, dopo aver ordinato al ragazzo di scendere dall’asino, comincio a cavalcarlo; ma non faccio molta strada che ecco alcuni prendono a biasimarmi perché un uomo in forze come me cavalca un asinello e lascia che un fanciullo in un’età fragile e tenera se ne vada a piedi. Per evitare ulteriori accuse, ritengo opportuno scendere e condurre la bestiola per la cavezza; non ero molto lontano da Aversa, quando mi accorgo che quelli che si stavano recando come me in città e che si trovavano dietro di me mi stanno biasimando e, per dir così, spernacchiando perché, pur potendo viaggiare comodamente sull’asino insieme al ragazzo, lo conduco con la fune, senza che nessuno lo cavalchi. Per compiacerli salgo sull’asinello insieme al ragazzo; non appena entro in città mi accorgo che la folla mi assale, dapprima con le risate, poi con le urla: «Oh vecchio pazzo! Oh povero asinello! non crolla sotto un peso così grande? Non schiatta il poveretto? Non vedete l’asino che cavalca l’asinello?

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misellus? Videtisne asinum asello vehi? Sentitis quadrupedem beluam quam bipes belua est non adeo quidem beluam esse?». Denique pueri lapidibus me insectari coepere; quibus instigatus asinus currere cum coepisset, me curo puero una in lutum excussit; nec defuere qui pallio pedibus insultarent.139 Irrisus contemptusque, lutosam urbem luto collitus transeo, nec iam Suppatius ab iis quibus essem cognitus, sed Lutatius vocitabar. Atque hic quidem susceptae ob quaeritandum sapientem profectionis exitus ac finis fuit. [98] Habes, Herrice, bone ac vetus amice, peregrinationis meae rationem, quae utinam Antonio nostro cognita esse posset. Verum cum illo melius actum est, quod solutus humanis curis inter beatos nunc agit, nec de sapientia ulterius solicitus est, cuius me studium, ut intellexisti, ad asinum redegit, tibique persuadeas velim multos divites, non paucos doctos recte dici et quidem esse, sapientem autem neminem. Qua de re post etiam plura: nunc Pontanum nostrum ut visam eo, quem Capuanam ingressus dextrum crus fregisse accepi atque e dolore vehementer laborare.

VI. HOSPES, COMPATER, LUCIUS FILIUS [99] HOSP. Multa quidem a Siculis meis audio de Pontano hoc praedicari, eiusque in primis facilitatem atque mansuetudinem laudant cuperemque illum nosse atque alloqui ac per familiarem aliquem aditum ad eum habere, sed laenito dolore, qui dum crudior est, non tam facile visitationem admittit. Interim contentus ero qua facie sit novisse. 139 Come segnalato per primo da Scevola Mariotti, Pontano attribuisce a Suppazio un apologo, quello dell’asinus vulgi, diffusissimo e narrato anche da Petrarca (Fam. XVI 13). «Nel Pontano manca la quinta e più inverosimile “combinazione” (l’asino caricato sulle spalle dei viaggiatori) come in san Bernardino, racc. 3» secondo una variante tradizionale (Mariotti, Per lo studio: 186n).

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Non vedete che la bestia a due gambe è più bestiale della bestia quadrupede?». Quindi alcuni fanciulli cominciano a gettarmi delle pietre; l’asino, istigato dalle pietre, comincia a correre e ci getta nel fango; e non mancarono quelli che mi calpestarono. Irriso e disprezzato arrivo nella città fangosa imbrattato di fango, e quelli che mi conoscono non mi chiamo Suppazio ma Lutazio; e questa è stata la conclusione e la fine del mio viaggio alla ricerca di un uomo sapiente. [98] Ecco, caro Errico, vecchio mio, il racconto dettagliato delle mie peregrinazioni; magari Antonio avesse potuto conoscerle! Ma a dire il vero le cose per lui sono andate meglio, dal momento che ora si trova tra i beati, sciolto da ogni preoccupazione umana, e non si cura più della sapienza, la ricerca della quale, come hai visto, mi ha ridotto all’avventura dell’asino. Ti voglio persuadere che molti possono essere a ragion veduta chiamati ricchi, pochi dotti e nessuno sapiente. Discuteremo ulteriormente su questo argomento più tardi; ora vado a trovare il nostro Pontano; ho sentito dire mentre entravo in città dalla porta capuana che si è rotto il ginocchio destro ed è afflitto da un dolore lancinante.

VI. FORESTIERO SICILIANO, COMPATRE, LUCILLO FIGLIO DI PONTANO

[99] FOR. Sento dire dai miei compatrioti siciliani molte cose su Pontano: lodano soprattutto la sua disponibilità e la sua gentilezza; vorrei conoscerlo e discutere con lui, e farmi presentare da un suo amico, ma dopo che il dolore si sarà attenuato. Fintanto che è forte, infatti, non permette di ricevere visite. Per il momento mi accontenterò di conoscere qual è il suo aspetto. COMP. L’altezza è considerevole, il portamento eret-

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COMP. Bona et recta statura, fronte lata, calvo capite, superciliis demissioribus, acuto naso, glaucis oculis, mento promissiori, macilentis malis, producta cervice, ore modico, colore rufo, adolescens tamen perpalluit, reliquo corpore quadrato. Unum nunc illi male contigit, nobis amicis non incommode, quod pede altero debilior cum sit factus, in deambulationibus remissior futurus est. Sed bene habet, eius filiolus domo egreditur, quem compellasse non iniucundum fuerit, cum sit bona et laeta indole, atque, ut video, ad nos venit. Luciole, quid agit pater? [100] LUC. Cum matre litigat. Accessit ad eum adolescentulus cum mandatis; putat illum mater missum

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to, la fronte è ampia, il capo calvo, i sopraccigli sono bassi, il naso è aquilino, gli occhi sono azzurri, il mento prominente, le guance scavate, il collo lungo, la bocca piccola, l’incarnato rossiccio (sebbene in gioventù fosse alquanto pallido), il corpo nel complesso robusto. Ora gli è toccato in sorte soltanto un male, che per i suoi amici è un vantaggio: in futuro dovrà camminare più lentamente del solito, dal momento che un piede è più debole dell’altro.189 Ma siamo fortunati, ecco il suo figlioletto190 che esce da casa: è gentile ed affabile, sarà un piacere discutere con lui e, da quel che vedo, si dirige verso di noi. Caro Lucillo, cosa sta facendo tuo padre? [100] LUCILLO Litiga con la mamma.191 Si è presentato un ragazzetto con un messaggio per papà; mamma pensa che sia stato inviato dall’amante; papà reagisce ai suoi strepiti ridendo e più ride, più la mamma si irrita. Io 189 La battuta di Compatre si può intendere in due modi: o che l’andatura di Pontano, prima dell’incidente, era eccessivamente veloce, al punto da stancare i suoi amici intenti ad affannarsi dietro di lui; oppure, come appare maggiormente probabile, che Pontano in futuro, camminando più lentamente, trascorrerà più tempo discutendo insieme ai suoi amici durante il tragitto. 190 Lucio Francesco Pontano (1469-1498), figlio prediletto di Pontano, la cui nascita viene cantata nel De amore coniugali e al quale sono indirizzate le Neniae, componimenti poetici in latino che imitano le ninne-nanne in volgare. «Nonostante Lucio non avesse coltivate le lettere, e si fosse anzi mostrato avverso ad esse, “ad litteras indocilem”, dedicandosi al commercio, il padre l’aveva sempre voluto presso di sé, anche quando il figliuolo si ammogliò con una donna, di cui non conosciamo il nome. Lo aveva anche aiutato con tutti i suoi mezzi nel commercio, ottenendogli, per esempio, un privilegio dal re per la costruzione di una “sagitta” nel 1487 e una commendatizia per il suo naviglio [...]» (Percopo, Vita: 95). Lucio, che prestò servizio nel 1494 nella guerra contro Carlo VIII comandando una galea, morì quattro anni più tardi, stando ad una lettera di Antonio de Ferraris per aver ingerito la pervinca, una pianta velenosa, scambiala per una foglia di lauro. 191 Adriana Sassone (1444-1490), donna di famiglia nobile, sposata da Pontano nel 1462, vd. Cronologia.

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a pellice; eam vociferantem quo magis ridet pater eo vehementius irritat. Ego e cubiculo me proripui atque eo libentius quod sacerdos ad eum ingressus est; vult enim mater sacerdoti se ut purget ac peccata nudet, rem sane importunam; sat enim scio matrem et sua et patris peccata nudiustertius sacerdoti ordine aperuisse. Nam cum ipse ad confitentis matris genua assedissem, maternam confessionem, aut rectius questum, attente aucupatus sum: «Bone sacerdos, maritus meus amat ancillulas, si quas facie liberali vidit, sectatur ingenuas puellas. Anno superiore Tarenti cum esset, cognovit non unam; anno ante in Etruria cum Gaditanula deprehensus fuit. Iocatur etiam domi cum Aethiopissis, nec pati possum eius intemperantiam. Ille ridet, ego dirumpor; perreptat urbem ac principum aulas, ego domi inter pedissequas partior pensa. Nam quid ego illum cum sodalibus, quibus quam familiarissime dies ac noctes utitur, nisi de amoribus deque voluptate loqui atque agere putem, cum interim misera in cubiculo de re familiari solicita domesticis curis maceror?140 Dii me omnes aspexere quo die crus fregit; non licebit claudum totis diebus domo abesse, singulis horis prostibulas adire. Rideat nunc, urbem inambulet, frequentet sodalium domos, audiat via in media pellicum pueros; ego vel ex hoc deos aequissimos iudicaverim, quod tandem iusto eum supplicio affecere». Quid igitur opus patrem errores iterato confiteri, quos mater tam aperte explicaverit? Nuper notus quidam et vetus, ut arbitror, familiaris patrem cum adiret, ubi eum vidit mater, exclamare statim coepit: «Scilicet ab Etruria? Ab scortillis? Quid agunt Pisatiles 140 Il contrasto tra Adriana, chiusa in casa a macerare nella sua rabbia, e Pontano, libero di vagare per la città, insidiando le fanciulle e tracorrendo il tempo con la brigata dei suoi amici, potrebbe essere ispirato al Proemio del Decameron (Dec. Proem. 9-12) nel quale si lamenta la condizione delle donne, la «malinconia» delle quali non può essere curata con i «diporti» tipici della condizione maschile.

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sono fuggito dalla stanza e sono contento di averlo fatto dal momento che era entrato un sacerdote che cercava papà; la mamma, infatti, vuole che si purifichi al cospetto del sacerdote e metta a nudo i suoi peccati, cosa del tutto inopportuna: so bene che la mamma, due giorni or sono, ha ordinatamente esposto al prete i suoi peccati e quelli di papà. Infatti, dal momento che io stesso sedevo sulle ginocchia della mamma mentre si confessava, ho ascoltato attentamente la sua confessione, o meglio il suo lamento: «Padre buono, mio marito ama le servette, se nota in loro un nobile aspetto, e dà la caccia alle ragazze di buona famiglia. L’anno scorso, mentre si trovava a Taranto, ne conobbe più d’una; l’anno ancora precedente in Toscana è stato sorpreso con una ragazzina di Cadice. Persino dentro casa si diletta con le servette etiopi, e non riesco a sopportare la sua intemperanza. Lui ride, e io scoppio di rabbia; si trascina dappertutto nella città e nelle corti dei principi, io sono abbandonata a casa insieme alle ancelle. Di cosa debbo pensare che discuta notte e giorno con i suoi amici se non dei suoi amorazzi e dei suoi piaceri e cosa debbo pensare che faccia mentre io, poveretta, mi struggo nella mia stanza per le preoccupazioni domestiche? I santi hanno avuto pietà di me il giorno in cui si è rotto il ginocchio; ora che è zoppo non potrà uscire tutti i giorni di casa e recarsi notte e giorno nei postriboli. Che rida, adesso, e passeggi per la città, che visiti le case dei suoi amici e si metta ad ascoltare in mezzo alla strada i servetti delle sue amanti; io, anche solo per questo considero giusti i santi, perché lo hanno colpito con una giusta punizione». Ma per quale ragione papà dovrebbe confessare nuovamente i peccati che la mamma ha esposto così diffusamente? Poco fa, quando si è presentato un tale, un vecchio amico di papà credo, non ha appena lo ha visto la mamma ha cominciato a gridare: «Vieni dalla Toscana? Vieni per conto delle puttanelle? Che cosa fanno le puttane pisatili?». In preda all’ira ha detto pisatili invece

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meretriculae?». Prae ira non Pisanas, sed Pisatiles dixit. «Ut valet Gaditana illa? ut memor est amorum hirquiculi huius? Detulistine ab ea litterulas, cum mandatis? Ubi munuscula? Ubi monumenta veterum deliciarum?». Ac tantum non manum iniiciebat; quod ille veritus retro ad ianuam mature concessit atque actutum abiit. Mihi pater, ut cederem innuit; ipse carmen decantare evomium coepit. [101] HOSP. Scitum puerum! Sed, obsecro, carmen evomium quod sit edoce. LUC. Qui carmen dicit in mulierem furore percitam conversus ter despuit; illa statim bilem evomit ac rabie levatur. Ipsum autem carmen est: [Metrum III] Triceps est Cerberus, ter te ego despuo. Triplex est Eumenis, ter te ego despuo. Vomas, dico vomas, ter vome et improbam pectore purgato rabiem ad Phlegethonta remitte. Mirum huic carmini vim tantam inesse! Ipsa res docet. Sed desine, obsecro, mater est in fenestra, cuius conspectum vereor. Valete bellissime. HOSP. LUC.

VII. HERRICUS, SUPPATIUS, LYRICEN, HOSPES [102] HERR. Opinione citius redit ad nos Suppatius. SUPP. Hoc deerat ad quaeritandam sapientiam,

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di pisane. «Come sta la ragazza di Cadice? Si ricorda gli amori del suo caro caprone? Insieme al suo messaggio hai portato delle letterine? Dove sono i regalini? Dove i ricordi dei passati sollazzi?» Per poco non gli metteva le mani addosso; quello, temendo qualcosa del genere, è prontamente scappato attraverso la porta e si è messo in salvo. Papà mi ha fatto segno di andarmene ed io ho cominciato a recitare il carme vomitatorio. [101] FOR. Bravo ragazzo! Ma, ti prego, spiegaci che cos’è questo carme vomitatorio. LUC. Chi recita un carme per contrastare una donna furiosa deve sputare tre volte rivolto contro di lei; immediatamente la donna vomita la sua bile e smette di essere rabbiosa.192 Il testo del carme è il seguente: Triplice è Cerbero ed io sputo tre volte; triplice è la Furia, ed io sputo tre volte; vomita tre volte e dal petto purgato abbandona la rabbia nel Flegetonte. FOR. È straordinario che in questo carme sia racchiusa una forza così grande! LUC. Lo dimostra l’esperienza. Ma basta discutere, ti prego, mamma si è affacciata alla finestra e temo che mi veda parlare con voi. Addio, carissimi.

VII. ERRICO, SUPPAZIO, IL CANTORE, FORESTIERO [102] ERR. Suppazio è tornato da noi prima del previsto. SUP. Mancava soltanto questo alla ricerca della sapienza, l’incontro con una donna che sbraita... Giove, che è il padre 192

Il carme è analogo alla preghiera a San Vito riportata al § 4.

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mulierem irritatam adire. Ne id velit sapientiae ipsius pater Iupiter! Et disputant adhuc sapientes quidam de uxore ducenda! Non quidem si ipsa Sapientia ducenda sit uxor mihi ducenda videtur. Bonus tamen hic et constans Pontanus ridebat et vultu quidem quam maxime tranquillo; o confirmatissimi pectoris hominem! Mihi quidem, si haec vita est maritorum, ne ipsa quidem constantia videri virtus potest, quae vitae inquietudinem ac miseriam alat. Quid enim offirmatio tam constans ac perpetua, nisi continuaerixationis alimonia est? Valeat, valeat virtus ista coniugalis, litigiorum nutricula! Valeat maritalis vita! Ego me ad Herricum refero. HERR. Quaeso, cur tam cito? SUPP. Dormiscere aiebant atque a dolore paulum modo requiesse. Interea dum edormiscat, Antoniano munere, si placet, fungamur. HERR. Placet, ac perquam oportune lyricen et quidem non malus sese offert. Ades, lepide homuntio, lyram tange, amabo, sepositumque aliquid succine. LYR. Perquam libenter:

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[Metrum IV]141 Ne faciem, Telesina, colas, neu finge capillum, bella satis, soli si modo bella mihi.142 Munditiae, Telesina, iuvant, fuge candida luxum, munditiis capitur deliciosus amor. Luxus obest formae, forma est contenta pudore,

141 Distici elegiaci. Con questo componimento iniziano ad infittirsi gli inserti poetici nel dialogo; in questo modo Pontano segna il passaggio dal dialogo vero e proprio all’inserto finale in versi, vd. Introduzione: 39-40. 142 Cfr. «Desinite, o tenerae, crines ornare, puellae, / desinitte, o pexas arte ligare comas; / diffluat ipse vagus circum sua tempora crinis, / diffluat et mollis per sua colla coma» (Er. 2 9, 1-4).

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della sapienza, me ne guardi e liberi! E pensare che ci sono dei sapienti che discutono ancora se sia il caso di prendere moglie! Da parte mia non prenderei moglie nemmeno se la sposa fosse la Sapienza in persona. Quel buon uomo di Pontano, tuttavia, rideva pazientemente, con volto mirabilmente tranquillo; quale forza d’animo! Se questa è la vita che conducono i mariti, la stessa pazienza non mi sembra più una virtù, dal momento che alimenta una vita inquieta e misera. E infatti una fermezza tanto paziente e prolungata in un simile frangente cos’altro è se non il cibo del quale si nutre una lite continua? Addio, addio virtù coniugale, nutrice delle liti! Addio vita matrimoniale! Io ritorno da Errico. ERR. Perché torni così presto? SUPP. Mi hanno riferito che si stava addormentando e che aveva da poco trovato una tregua dal suo dolore. Mentre Pontano dorme, se ti va, adempiamo l’incarico antoniano.193 ERR. Va bene; giunge opportunamente un cantore,194 non disprezzabile tra l’altro. Avvicinati, uomo raffinato; di grazia prendi la lira e cantaci qualcosa di speciale. CANTORE Molto volentieri.

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Non agghindarti, Telesina, i capelli siano incolti, sei bella quanta basta se per me solo sei bella. La sobrietà diletta, Telesina, fuggi il lusso, la sobrietà procura un amore delizioso. Nuoce il lusso alla bellezza, che si compiace del pudore, il pudore è l’ornamento più prezioso. 193

Suppazio si riferisce all’abitudine di interrogare i passanti more socratico così come era solito fare il Panormita; come aveva detto il Compatre nella prima scena, i membri dell’accademia si impegnano a «recitare la parte di Antonio ed interrogare quanti passano per la via» (§ 6). 194 Letteralmente “suonatore di lira” (Lyricen). Il cantore rappresenta un’evidente controfigura dello stesso Pontano come è segnalato dalle numerose riprese dalla produzione lirica pontaniana nei componimenti da lui intonati e dalle allusioni autobiografiche che si leggono più avanti al § 106.

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ipse pudor veri iura decoris habet. Simplicitas nam culta sat est. Tu, lux mea, cultum effuge, bella quidem simplicitate tua es. HERR. LYR.

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Accipe mercedulam, et carmen ipsum itera. Quin aliud potius?

[Metrum V]143 Sirenes madidis canunt in antris, dum captas male subruunt carinas. sic mortalibus ipsa vita blande illudens canit ut dolosa Siren, donec vel gravis ingruit senecta aut mors occupat, estque nil quod ultra iam restet nisi fabula atque inane.

HERR. Lepidissime, atque utinam non tam vere; quae autem facilitas est tua, etiam aliquid quod novum sit. LYR. Quam libentissime, Suppatii praesertim gratia, senis tum iucundi, tum etiam musicae huius non imperiti:

[Metrum VI]144 Dulce dum ludit Galatea in unda et movet nudos agilis lacertos, 143

Endecasillabi faleci. Componimento mitologico composto da sette strofe saffiche analogo, per struttura ed argomento, ai due lamenti elegiaci composto in persona di Polifemo, Polyphemus ad Galateam e Polyphemus a Galatea spretus conqueritur in litore, che si leggono nella Lyra (cfr. Lyra 13 e 14). «Il componimento prende spunto [...] dai vv. 54 ss. dell’undicesimo idillio di Teocrito, dove Polifemo esprime il rammarico per non essere nato con le branchie così da poter raggiungere l’amata in mare per baciarla. È come se l’umanista dialogasse tacitamente con il testo greco, dando qui concretezza ad una possibilità nell’antecedente solo avazata e ribabilitando, in questo modo, l’amore di Polifemo fino a concedergli la meritata rivincita» (Tufano, Il Polifemo del Pontano: 28) 144

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La semplicità è elegante, fuggi amore l’ornamento, sei bella in virtù del tuo candore. ERR. CANT.

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Eccoti una mancia; ripeti il canto. Che ne dici, invece, di ascoltarne un nuovo?

Le sirene cantano negli antri marini trascinando sul fondo le navi ammaliate. In tal modo la vita come scaltra sirena dolcemente cantando inganna i mortali, sino quando c’incalza la vecchiaia esecrata e la morte ci coglie; e soltanto rimane di tanto pensare una favola vana. Davvero arguto questo componimento, e sin troppo vero, purtroppo. Dal momento che dimostri tanta prontezza,195 cantaci qualcosa di nuovo. CANT. Lo faccio volentieri, soprattutto per compiacere Suppazio che è un vecchio amabile e un conoscitore non disprezzabile di questo genere di musica: ERR.

Mentre Galatea scherza coll’onde agile muove le nude braccia

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Come ipotizza Julia Haig Gaisser, la facilitas del Cantore potrebbe alludere alla composizione estemporanea di versi (in latino o in volgare) improvvisati dai cantori con l’accompagnamento del liuto o della lira da braccio; si tenga presente che nel 1473 due dei più noti poeti estemporanei del tempo, Aurelio Lippo Brandolini (specializzato nei versi latini) e Pietrobono del Chitarino, furono ospiti della corte aragonese, cfr. Haig Gaisser, Notes: 376.

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dum latus versat fluitantque nudae aequore mammae,145 5

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surgit e vasto Poliphemus antro, linquit et solas volucer capellas; nec mora, et litus petit et sub altos desilit aestus. Impiger latis secat aequor ulnis, frangit attollens caput et per undas labitur, qualis viridi sub umbra lubricus anguis. Illa velocis movet acris artus dum peti sentit; simul et sequentem incitat labens, simul et deorum numina clamat. Illicet divum chorus hinc et illinc fert opem fessae. At Poliphemus ante non abit, lassus licet et deorum voce repulsus, quam ferox nymphae tumidis papillis iniicit dextram, roseoque ab ore osculum victor rapit. Illa moesto delitet amne.

[103] SUPP. Habetur a me tibi non parva gratia; habebitur et abunde quidem magna, si ut in Herrici gratiam sic in meam quoque adhuc aliquid dignum te, dignum hoc consessu, dignum etiam nova et rediviva ista disciplina.

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Per la descrizione dei seni nascosti tra le onde, cfr. Ad Hermionem ut papillas contegat (Baiae 1, 4).

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e voltato il fianco immerge nei flutti il tenero seno. 5

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Sorge Polifemo dal vasto antro, senza indugio il gregge abbandona; giunge sul lito ed ecco si getta nel mare alto. Solca implacabile le onde del mare, solleva il capo e si cela fra l’onde come nell’ombra verde del bosco astuta serpe. Galatea, frattanto, nuota veloce, si sente braccata; l’inseguitore spruzza con l’acqua e a un tempo invoca gli dei, Il coro divino da ogni luogo le porge aiuto, ma Polifemo per quanto stanco non s’allontana e ignora gli dei. feroce stende la destra, le afferra i tumidi seni e vittorioso un bacio le fura; la ninfa, mesta, si cela nei flutti. [103] SUPP. Ti ringrazio di cuore; ti sarò ancora più grato se per compiacere Errico e me vorrai cantare un componimento degno di te, degno di questo consesso e degno dell’arte che stai rinnovando.196 196 L’arte rinnovata dal Cantore sarebbe, secondo un’interpretazione letterale, quella dell’improvvisazione e della performance musicale ad essa associata; tuttavia, se si considera il Cantore

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LYR. Geretur a me tibi mos. Utinam tamen is essem cuius ingenio musicae ipsi aliquid collatum esset! Ac ne ex eorum sim numero qui, ut ab Horatio iure irridentur, nunquam rogati cantare inducunt animum,146 etiam hoc accipe, in tuam atque Herrici ipsius, si tibi non displicet, gratiam:

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[Metrum VII]147 Ad quaercus, Amarilli, veni, dum retia servo, aere dum timidas funda detrudo palumbes, ipsa dolo errantem per devia falle sororem. Ipsa ades, o Amarilli, recens tibi caseus et lac ad fontem pendetque gravis fiscella sub alno. Te cucumis viridisque pepon, hortensia dona, te servata cavo iampridem subere mella expectant;bini lento de vimine quali servantur, quis labra niger flaventia claudit iuncus et intexto dependent cornua cervo; percurrit medius lacrimoso flore hyacinthus, et niger auratas suspendit gracculus ansas, gracculus, a dextra serpens latet et fugit ala. Quid cessas, Amarilli? Duos tibi pascimus agnos, hinnuleosque duos, quos matris ab hubere raptos inter lactantes ipsi saturavimus hedos; nec dominum ignorant catuli veniuntque vocati. Est mihi praeterea, thalami seposta supelex, Supparus; hunc nevit Lyrineia, texuit Alcon, Palladi dilectus Alcon, cui tortile collum 146 Cfr. «ut nunquam inducant animum cantare rogati» (Hor. Serm. 1, 3, 2). 147 Esametri dattilici. L’estrema esibizione di bravura del Poeta Lirico è riservata ad un’egloga, genere particolarmente fortunato, in latino e in volgare, negli anni in cui Pontano compone il dialogo. Si tenga presente che lo stesso umanista umbro diede vita ad un libro di Eclogae. Il tema al centro di questo componimento, la celebrazione poetica dei doni offerti all’amata, tra i topoi costitutivi del genere, è sviluppato anche in Ecl. 1, 1- 34.

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CANT. Farò come desideri. Magari con il mio ingegno potessi contribuire in qualche modo all’arte musicale! Ma per non essere uno di quelli dei quali a ragion veduta si prende gioco Orazio, i quali non si decidono mai a cantare quando vengono pregati di farlo, ascolta questo componimento che, se non ti dispiace, canterò in onore di Errico e tuo.

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Raggiungi il querceto, Amarilli, mentre guardo le reti e i timidi colombi con la fionda colpisco, inganna tua sorella che vaga per appartati sentieri.197 Vieni, Amarilli, presso la fonte troverai formaggio e latte in un gran cesto che pende sotto l’ontano. T’attendono i doni dell’orto, il verde cetriolo e il melone, ed il miele nel tronco d’un sughero or ora raccolto. Conservo per te due cesti di lento vimine: un nero giunco richiude gli orli dorati e all’interno è tessuto un cervo con le corna pendenti; lungo il fianco si trova un giacinto coi fiori lacrimosi, i manici dorati son sorretti da un nero corvo, a destra si nasconde un serpente, spaventato dall’ala. Che aspetti, Amarilli? per te ho allevato due agnelli e due cerbiatti che ho strappato al seno materno e nutrito tra i capretti da latte; i cuccioli riconoscono il padrone e accorrono al richiamo. Un ornamento ancora, destinato al talamo serbo: una sopravveste, filata da Lirinea, tessuta da Alcone; Alcone, caro a Pallade, vi ha intrecciato un collare

come un alter ego di Pontano, l’arte rinnovata è quella della poesia stessa. 197 Il pastore invita l’amata, dal nome topico di Amarilli, ad abbandonare la sorveglianza della sorella per raggiungerlo presso la fonte, luogo nel quale, in cambio di doni campestri, intende congiungersi con lei.

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nectit ebur, laevi stringit nova fibula buxo; brachia ceruleae decurrunt tenuia lanae, lanae, quis medius pavo nitet intertextus, filaque purpureus miscet variantia limbus. Haec tibi servatur festis, Amarilli, diebus rara chlamis, rarum specimen, mirabile textum, vel tibi ut invideat Lalage, rumpatur ut Olcas, spectatum veniant ut munera ad ipsa Napeae, Maeonis ut tantum decus admiretur Aragne. Obvius ad corylos venio tibi, hic mihi primos amplexus, Amarilli, dabis, dabis oscula prima. lenta lego ad cerasum duo succina quae tibi servo. Altera celatum culicem stridentibus alis includunt; tenui sub cortice murmurat ales. Altera nutantem sub iniquo pondere celant formicam; illa honeri incumbens trahit horrida farra. Haec primo pro complexu tibi munera sunto. Quid moror? en coryli iam summa cacumina motant, iam strepitant virgulta, Lycas latrat, eia, age, Thyrsi. (Ipsa venit) propera, miserum me, num strepit aura?

[104] HERR. Plenos voluptatis nos relinquis ac bonae spei, suavissime homo; nam quanquam multum tibi aetas debet nostra, qui ex agresti illa musica sic emerseris, debituri tamen plura multo sunt posteri, si qui te volent imitari. Fore enim speramus, si quos tui similes reliqueris, uti pristinam in dignitatem excellentiamque restituatur; tametsi quantum ipse hac in re profeceris non ignoramus.

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d’avorio, e il singolare fermaglio è chiuso da un legno; le maniche di lana azzurra scendon sottili, tessuto tra la lana risplende un pavone, il lembo purpureo mescola fili dai mille colori. È serbata per te, Amarilli, per i giorni di festa, questa veste di rara bellezza e di fattura divina, Lalage ti porterà invidia, Olca proverà dispetto, le ninfe Napee verranno ad ammirare il dono, la lidia Aracne198 stupirà di tanta bellezza. Verrò ad incontrati nel bosco dei noccioli, dove mi concederai i primi baci, Amarilli, e i primi abbracci. Lego al ciliegio per te due pietre di fredda ambra. La prima racchiude una zanzara colle ali stridenti: sotto la superficie sottile fremon le ali. La seconda nasconde una formica schiacciata da un peso ingente: un orrido chicco di farro. Questi sono i doni destinati al primo amplesso. Perché mi attardo? si muovono le chiome dei noccioli, fremono i virgulti, Lica abbaia; vieni Tirsi! (eccola).199 Povero me! Questo è proprio il vento che soffia.200 [104] ERR. Ci lasci colmi di piacere, uomo amabilissimo, e di speranza; questa nostra età ti deve molto, perché ti sei innalzato oltre la rozzezza della musica praticata dai tuoi predecessori, e i posteri ti saranno a maggior ragione debitori se vorranno imitarti. Se i posteri saranno simili a te, crediamo fermamente che la musica sarà restaurata nella magnificenza e nell’eccellenza propria dei tempi antichi. Sappiamo, infatti, quanto sei avanzato nella pratica di quest’arte. 198 Fanciulla della Lidia abile nell’arte della tessitura, tramutata, per punizione in un ragno dalla dea Atena, da lei sfidata in una gara di abilità in quell’arte. 199 Tirsi e Lica sono le due cagne del pastore. 200 Il componimento si chiude con un riferimento ad un’imminente tempesta che minaccia di vanificare i progetti del pastore.

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LYR. Si quid profeci, gaudeo; quamvis quid profecisse potuit homo tantis tum, suis tum alienis impeditus curis? Voluntas certe non defuit, defuere ocia, quodque paucos admodum novimus qui studiis his delectarentur; qua e re voluntas ipsa non parum pertepuit et, ut verius loquar, refrixit. In magnis tamen occupationibus et saeculorum iniquitate, si quid aetati nostrae attulimus ornamenti, laetamur, nec laborum poenitet, quos gravissimos ab adolescentia ipsa suscepisse non diffitemur, qui minus quidem apparent propter castrenses molestias, quae optimam vitae partem studiis eripuere. Sed desinam de iis dicere, ne de me ea ipse praedicem quae ab aliis coram praedicari non paterer. Satis enim et olim habui si perpaucis et nunc habeo si vobis gravissimis senibus Musa nostra non displicet. Nec est quod ullas a vobis expectem gratias; tantum oro ut abire me quamprimum postquam aliqua ex parte vobis satisfeci, aequo animo feratis; invitatus enim ad amici nuptias propero, hymeneum decantaturus.148 HERR. Et abire te quam aequissimo animo patimur, quamvis utinam nobiscum esse te et saepius et diutius liceret, et gratias etiam quantas possumus maximas agimus, qui animos nostros tam suaviter varieque delinieris. LYR. Valete igitur, continentissimi senes.

148 L’imeneo è un un genere caro a Pontano: cfr. i carmina nuptialia che si leggono nel De amore coniugali (Con. 1, 2 e 1, 3) e gli imenei composti in occasione delle nozze delle figlie Aurelia e Eugenia, confluiti successivamente in Con. 2, 3.

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CANT. Se ho fatto qualche passo in avanti, me ne rallegro; ma sin dove può essersi spinto chi, come me, è impacciato da tante preoccupazioni, ora personali, ora relative ad altri? Non è mancata certo la volontà, quello che è mancato è il tempo da dedicare alle poesia; so che siamo in pochi a dilettarci in tali studi e questa circostanza, a dire il vero, non ha riscaldato la volontà ma l’ha raffreddata. Tuttavia, se tra tanti impegni e nelle condizioni ostili dell’età presente ho aggiunto un qualche ornamento alla mia epoca me ne rallegro, e non mi pento della fatica e non rinnego gli studi intrapresi sin dalla gioventù, anche se i risultati di tale fatica non sono evidenti perché sono stato costretto a trascorrere la parte migliore della vita tra le fatiche della milizia.201 Ma basta parlare di tali argomenti, altrimenti finirò col dire sulla mia condizione cose che non permetto siano dette in mia presenza.202 Sono stato ripagato a sufficienza dei miei sforzi se la mia Musa è stata apprezzata da pochi sodali, ed ora è apprezzata da voi, uomini autorevoli e seri. Da voi non mi aspetto alcun ringraziamento; tuttavia vi prego di lasciarmi andare prima ancora di aver soddisfatto completamente le vostre richieste: sono stato invitato alle nozze di un amico e devo cantare l’imeneo. ERR. Ti lasciamo andare di buon animo, anche se saremmo felici di trattenerci con te più a lungo e più di frequente; ti ringraziamo di cuore per averci allietato in modo tanto vario e tanto soave. CANT. Statemi bene, uomini morigerati. 201 Possibile allusione alla carriere diplomatica che costrinse Pontano a soggiornare a lungo lontano da Napoli, talora negli accampamenti militari, come viene lamentato nel prologo del De aspiratione. 202 Ennesimo richiamo al tema della dissimulazione (cfr. Char. § 5 e §35, Anton. § 6); si intuisce, dunque, che il Cantore/Pontano si trattiene dal criticare aspramente la condizione degli uomini di cultura nella Napoli aragonese, gravati da un numero eccessivo di negotia.

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[105] HERR. Et tu, lepidissime homo, abi quam auspicatissime. Admiraris, bone hospes, homuntionis huius canendi, ut video, suavitatem ac sub tam remisso incessu ingenii nobilitatem tantam. Scias velim usurpare solitum Antonium coeteros fere omnes huiusce artis studiosos ingenii sui ostentatores esse, hunc autem dissimulatorem et, quod ipsi saepe audivimus, cum aliis plurimum tribueret, sibi ipsi vel acerrime detrahentem. [106] Sed, quaeso, utorne ego recte oculis? Quaenam haec pompa est? Dii boni, qui grex personatorum! Et hoc quoque recens Cisalpina e Gallia allatum est. Deerat unum hoc civitatis nostrae moribus tam concinnis! Praegreditur tubicen. Sequitur hedera coronatus, quasi populo recitaturus? Quis novus hic vates, tantum secum adducens personatorum? O larvatorum urbem, o fanatica ingenia! Quid quod pul-

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[105] E tu, uomo amabilissimo, vai pure accompagnato dai nostri più sinceri auguri. (rivolto all’Ospite siciliano). Da quello che vedo, caro ospite, ammiri il canto soave di quest’ometto e ti stupisci che un ingegno così nobile sia nascosto dietro un’andatura così dimessa. Devi sapere che Antonio era solito dire che, mentre quasi tutti gli altri uomini che si dedicano a tale arte ostentano il proprio ingegno, costui lo nasconde e, come possiamo testimoniare anche noi, elogia ferventemente gli altri e sminuisce severamente se stesso. [106] Ma, ci vedo bene? Che cos’è questo corteo?203 Santo Cielo, una brigata di uomini mascherati! Si tratta di un’usanza che è giunta di recente sino a noi dalle regioni della Gallia cisalpina.204 Ci mancava soltanto questo alla nostra città così morigerata nei costumi! Il corteo è aperto da un banditore. Sbaglio o si sta avvicinando un uomo incoronato di edera,205 che sembra sul punto di recitare un componimento poetico in presenza del popolo? Ma chi è questo insolito vate che si porta con sé tanti uomini mascherati? Oh città posseduta dagli spirti, oh uomini invasati!206 Perché hanno tirato fuori un 203

Sulla piazza antistante il Portico irrompe un cantastorie, accompagnato da un banditore e scortato da un corteo di uomini mascherati; Puderico esprime il suo sdegno per lo spettacolo che rubrica senz’altro tra i «pessimi costumi» del quale il popolo è inventore (cfr. § 6) e decide di allontanarsi dalla piazza. Le ultime quattro scene del dialogo saranno interamente occupate dai lazzi del banditore e dal poemetto sulla guerra sertoriana che il cantastorie recita e Pontano “traduce” in versi latini. 204 Nome col quale i romani indicavano la regione compresa tra le Alpi e la linea Rimini-Pisa. 205 Riguardo alla maschera indossata dal cantastorie Soldati ritiene che «si trattasse d’una pittura eseguita sulla pelle stessa, forse al modo di quei ballerini del principe d’Altamura che danzavano “con le facce indorate”. Una barba, probabilmente, posticcia ed una ghirlanda di edera […] compivano la truccatura, non sconveniente certo ad un cantore di così basso rango» (Soldati, Improvvisatori e buffoni: 332). 206 Soldati ipotizza che il corteo di uomini mascherati «non fareb-

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pitum ac subsellia extruunt? An sibi audientiam parant? O iucundissime Antoni, ubi nunc es? Ubi risus ille tuus leposque tam salsus? Ascendit vates pulpitum, auditores consedere. Canit iam tubicen, audiant ocio qui abundant. Me satis quidem fuerit in adolescentia delirasse, aetati huic compositiores sunt mores induendi; atque, ut video, experrectus somno Iovianus nos per puerum ad se vocat. Licet et te, Sicule hospes, nobiscum ad amicum et perhumanum hominem ingredi. HOSP. An est quod magis cupiam? Vos praecedite, ego sequor.

VIII. ISTRIO PERSONATUS

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[Metrum VIII]149 Tacete atque silete atque animum advortite, novam afferimus vobis quae vetus est fabulam. muti tacete, mutos tam diu volo silentium dum rumpat plausus, editus lingua, manu, pedibus quam clarissimus. Hoc qui faciet plausum post editum bibet. Tacent: nimirum sitiunt omnes maxime. Atqui licet potare plausum ante editum; adest cadus, caupo, guttum atque urceus.

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Il prologo adotta il senario giambico, metro della commedia latina.

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palco e delle sedie? Si preparano forse ad ascoltare? Oh spiritosissimo Antonio, dove sei? Dove sono le tue risate e le tue battute così mordaci? Il vate sale sul palco, gli uditori si seggono. Il banditore si mette a cantare: lasciamo che chi ha tempo da perdere lo ascolti. Mi è bastato delirare in gioventù, ora devo assumere abitudini consone alla mia età; ma, ecco, Pontano si è destato dal sonno e ci fa chiamare da suo figlio. Anche tu, se lo desideri, forestiero siciliano, puoi venire con noi da un amico molto caro ed un uomo molto affabile. FOR. Non c’è niente che mi faccia maggiormente piacere. Andate avanti, vi seguo (si allontanano). VIII. IL BUFFONE MASCHERATO207

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Tacete, silenzio, le orecchie a me! Ecco una storia nuova che nuova non è. Tacete, muti, vi voglio in tensione sino a quando il silenzio romperà un’ovazione: mani e piedi faranno un frastuono divino, a chi applaude così sarà dato del vino. Stan tutti zitti: che pubblico assetato! Eppure di bere nessuno ha vietato. Ecco: c’è l’oste, il bicchiere e la brocca.208 be propriamente parte della “compagnia” del cantore, ma sarebbe composto d’un gruppo più fanatico d’ascoltatori, aiutanti improvvisati, coperti il volto di maschera o comunque adorni e dipinti, in segno di baldoria e letizia. Così si spiegherebbe anche la frase, troppo sprezzante, scagliata dal Poderigo con già contro i forestieri introduttori dell’uso nuovo, ma contro la città stessa […]» (Soldati, Improvvisatori e buffoni: 339). 207 Benedetto Soldati testimonia che diverse figure di buffoni erano solite accompagnare i cantastorie e le forme popolari di teatro ancora nei primi del Novecento, cfr. Soldati, Improvvisatori e buffoni: 334-345. 208 Il buffone e il canterino sono accompagnati da un oste che offre al pubblico bicchieri di vino.

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Caveat tamen qui bibit, ebrius ne cubet; silentium non somnum mutamus mero. Illi promito, caupo, sedet qui ultimus; vinosum eum esse non somniculosum indicat productus nasus, eminens, tuber, rufus. Ipse hoc fatetur, ridet: habent hoc ebrii, rident libenter, risus nam sitim excitat, novum tamen poetam ridere abstine. Coenabis post silentium, precium hoc erit, imo potabis large, abunde, Gallice; ridere sed iam desinas postquam satis potasti, nasum emunge, atque aures arrige, novum dum vates carmen pulpito intonat. prius tamen argumentum hoc explico tibi: dum castra haberet ultimis in finibus Ispaniae Sertorius dumque aggredi parat Pompeius ex improviso eum,

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Attenzione al troppo vino ma sotto a chi tocca! Il silenzio chiedo, non un sonno avvinazzato. Oste, sposta quello là che dal vino è crollato; è stato il vino non il sonno, si vede benone, osserva com’è rosso il gobbuto nasone! Guardatelo, ride! Perché voi direte? Ride ogni ubriaco per aumentare la sete! Ma non ridere quando entrerà in scena il vate, le vivande a tal patto ti saranno serbate e potrai bere alla grande come fossi un francese; ora smetti, soffia il naso, orecchie ben tese! Il vate intonerà sul palco il suo canto, ma prima l’argomento, un attimo soltanto:209 Mentre Sertorio210 tiene il campo ispano Pompeo211 tenta un assalto, ma in vano: Sertorio è avvertito dagli esploratori,

209 La «storia vecchia» offerta agli ascoltatori dal cantastorie non è, come ci si attenderebbe, un’avventura dei paladini di Francia ma un episodio delle guerre sertoriane (82-72 a.C.), fase conclusiva della guerra civile tra Mario e Silla. 210 Quinto Sertorio (126-72 a.C.), nipote di Gaio Mario, si distinse in giovane età combattendo al fianco dello zio nel 102 a.C. nella battaglia decisiva della guerra contro i Teutoni. Nel 97 militò in Spagna e nel 91 fu questore nella Gallia Cisalpina. Nel corso della guerre civili tra Silla e Mario si schierò dalla parte di quest’ultimo; nell’83 si recò in Spagna come rappresentante del partito mariano; la pressione delle truppe sillane che stavano invadendo la penisola iberica lo costrinse a ritirarsi nell’Africa del Nord dove condusse una campagna vittoriosa. Dalla Mauritania, agli ordini di un piccolo esercito composto di romani ed africani, occupò la Hispania ulterior (attuale Portogallo) per poi muovere alla conquista di buona parte della Hispania citerior. Per più di un decennio governò la Spagna, grazie anche all’appoggio delle popolazioni locali; fu assassinato a tradimento nel 72. 211 Gneo Pompeo Magno (106-48 a.C.), fu al fianco di Silla sin dagli esordi della guerra civile. La partecipazione alle guerre sertoriane segnò una svolta nella sua carriera militare e politica. Subito dopo la morte di Sertorio, infatti, nel 71 a.C. Pompeo, a soli 35 anni, fu eletto per la prima volta console per il 70 .

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fit per exploratores ipse certior. Cogit in campis copias; committitur ab equitatu certamen saevum, atrox, dubium, equi virique hinc illinc confossi cadunt. Duces accurrunt propere instructo agmine, pugnatur vi, dolo, fraude, audacia. Nox proelium ac Dianae nuntia dirimit. Habetis argumentum veteris fabulae. Heus, tu, qui dexter assides, subrigito oculos ac mentulum; quid spectas humum? Paulatim sic, ut video, somnum provocas. Ridetis? dixi mentulum, non mentulam; nec est peccatum; a mento, non menta editum est vocabulum.150 Novus sed vates incipit, demulsit barbam, hederam capiti implicuit. Tacete atque silete atque animum advortite.

IX. POETA PERSONATUS [Metrum IX]151 Ipse autem auratis fulgens Sertorius armis agmina cogebat campis; huic filius astat Hernicus Ispanaque satus de matre Marullus.

150 Cfr. «Rua et menta recte utrumque: volo mentam pusillam ita appellare, ut rutulam non licet» (Cic. Epist. Fam. 9, 22, 3, riscontro segnalto in Haig Gaisser, Notes: 377). 151 I frammenti epici sono entrambi in esametri.

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subito i cavalieri escono fuori; la lotta è atroce, sono indemoniati, cavalli e uomini cadono sforacchiati. Accorrono i duci e le truppe a frotte pongon fine alla lotta Diana e la notte.212 Della vecchia storia questo è l’argomento. Ehi tu sulla destra, dico a te, alza il mento! Perché guardi a terra? Alza sto’ mentolino [mentulum]! Se fai così ci addormentiam pian pianino... Non ho detto pistolino [mentulam], perché ridete? L’etimologia è ben diversa, non lo sapete?213 Ma basta, il vate dà inizio al suo canto, si liscia la barba e con l’edera intanto adorna il capo e si incorona da sé. Tacete, silenzio, le orecchie a me!

IX. IL POETA MASCHERATO [Sertorio raduna le truppe]214 Sertorio splendente nell’armi dorate conduceva le colonne nei campi; erano con lui il figlio Ernico e Marullo,215 ispano di madre. Il primo raduna i fanti, 212 L’argomento si riferisce sia agli eventi narrati nella scena IX sia a quelli narrati nella scena XI. 213 Letteralmente: «la parola deriva da mento non da menta», allusione ad una falsa etimologia di mentula che si legge nelle lettere di Cicerone. 214 Nel poemetto si affastellano i nomi di ben 115 soldati, suddivisi quasi equamente tra le due parti in lotta. Trattandosi di personaggi d’invenzione (l’onomastica è per lo più tratta dai poemi epici latini come segnalato da Haig Gaisser nel suo commento), non è sempre agevole seguire lo svolgimento della battaglia; per facilitare la lettura si è suddiviso il poemetto in sequenze narrative, precedute da una descrizione sommaria degli avvenimenti. 215 Il nome è un omaggio al greco Michele Marullo Tarcaniota (1453-1500), membro dell’accademia napoletana, raffinato poeta in latino e soldato di ventura. Nato a Costantinopoli durante

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Hic peditem, ille equitem addensat, sua signa tribuni expediunt, portis ruit indignata iuventus praevenisse hostem et montis iuga celsa teneri. Non aciem campo statui aut dare signa maniplis pompeianus eques patitur, volat agmine facto praecipitans. Primi Mariusque acerque Severus occultam nacti vallem, qua proxima ducit semita, limosumque ferunt vestigia ad amnem. Astitit in ripa Marius prior; hunc vada nantem accipiunt tranquilla, ferox sed flumina servat Mallius. Hic duro traiecit pectora conto percussitque ferum saxo; caput abdidit alveo attonitus sonipes, Marium rapit unda dehiscens atque hastae rotat infixum. Fortuna Severo haud melior fuit; acta manu cava tempora quassat funda levis cerebroque lapis compactus adhaesit; decidit exanimis vitamque effudit in undis. Ter fluvio emersit iuvenis, ter gurges anhelum hausit hians, mox et trunco suflixit acuto. At Catulus Catulique genus Quintillus et asper Tertullus patriique haeres cognominis Oscus,

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l’altro i cavalieri; i tribuni spiegano al vento gli stendardi e dai cancelli si slanciano i giovani frementi: il nemico per primo ha conquistato la cima del colle.216

[Mario e Severo, guadato il fiume, vengono uccisi dai sertoriani] La cavalleria di Pompeo non attende che l’esercito occupi il campo o consegni gli stendardi ai manipoli e si getta all’attacco. Mario e il feroce Severo per primi 10 seguendo un sentiero appartato giunsero in una valle nascosta, e avanzarono attraverso un torrente fangoso. Mario per primo s’erse sulla riva, attraversato il guado senza fatica, ma Mallio sorvegliava le acque del fiume. Con l’asta spietata trafisse il petto di Mario e con un [sasso 15 colpì il cavallo; il quadrupede in preda al terrore nasconde la testa nell’onde e le acque afferrano Mario e lo fanno roteare conficcato all’asta. Severo non ebbe sorte migliore: un proiettile veloce gli squassa le tempie e la pietra si conficca nel cerebro: 20 cadde esamine ed esalò l’anima tra l’onde. Tre volte emerse dai flutti, tre volte mentre arrancava lo ingoiò il vortice e lo spinse contro un ramo acuminato.

[Bicia raduna i cavalieri e li conduce nei pressi del ponte] Ma Catulo ed il figlio di Catulo Quintillo ed il feroce Tertullo ed Osco della terra degli Osci l’assedio turco si recò in esilio con la famiglia a Ragusa dopo la caduta della capitale bizantina. Nel 1476 si traferì a Napoli, dove approfondì la sua cultura astronomica alla base del suo futuro capolavoro, il poema Hymni naturales, ed entrò strettamente in contatto con Pontano, che lo menziona più volte negli Hendecasyllaborum libri. 216 Pompeo ha occupato la cima di un colle separato dall’accampamento dei sertoriani da un fiume, solcato da un ponte, intorno al quale si svolgerà la battaglia descritta nel poemetto.

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in levam flexere; comes simul additur illis ispanus Bicia exclamans: «Quo vertitis? huc vos, huc, iuvenes, ite ad pontem, dux ipse viarum praecedo». Dixitque et per vestigia nota delatus, pontem ingreditur; tum coetera pubes insequitur, furit immissis equitatus habenis. Obvius his equitumque ciens peditumque catervas fit Rutilus Rutilique gener Veranius et qui prima puer Musis dedit ocia, moxque secutus arma, tulit meritum primae legionis honorem, Pontius, a quo etiam ducta est Pontana propago; quem sequitur volucerque Melas alacerque Metiscus, et Pardus gladio melior, Chariteius hasta, insignes hederis meritaque ad tempora fronde,

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piegano a sinistra, a loro s’aggiunge Bicia che grida: «Dove andate? da questa parte giovani, andate al ponte, io sarò il primo, seguitemi!». Disse così e attraverso un cammino a lui noto giunge precipitando al ponte; la gioventù lo segue, infuria la cavalleria a briglia sciolta.

[Catalogo delle truppe sertoriane che difendono il ponte; presentazione di Ponzio] Per contrastarli con la cavalleria e le truppe ci sono Rutilio col genero Veranio e colui che dopo aver dedicato la giovinezza alle Muse si dedicò alle armi entrando nelle truppe scelte, 35 quel Ponzio dal quale derivò la schiatta dei Pontano;217 lo seguono il veloce Mela e l’ardente Metisco e Pardo218 abile con la spada e Cariteo219 abile con l’asta, insigniti di una corona d’alloro sulle meritevoli tempie,

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Pontano allude scherzosamente alla origine del proprio cognome, derivato da un ponte romano che si trovava nei pressi del villaggio natale di Cerreto di Spoleto, cfr. Kidwell, Pontano: 21. 218 Vd. Asinus § 9 nota 43. 219 Benet Gareth detto il Cariteo (1450-1512 ca.), nativo di Barcellona, giunse a Napoli intorno al 1466 per cercare fortuna nella corte Aragonese. Poeta in volgare italiano, fu membro di spicco dell’Accademia antoniana. La sua carriera politica fu di tutto rispetto: regio scrivano e familiare del re a partire dal 1482, dopo l’esecuzione della condanna a morte di Giovanni Petrucci divenne percettore delle entrate del regio sigillo (incarico ricoperto sino al 1495), lavorando a stretto contatto con Pontano. Caduti definitivamente gli aragonesi nel 1501 si trasferì a Roma, dove visse per due anni; nel 1503, con l’ascesa al trono di Ferdinando il Cattolico, fu nominato governatore del contado di Nola. Negli ultimi anni di vita fece parte del circolo culturale e mondano che si riuniva intorno a Costanza d’Avalos e pubblicò nel 1506 a stampa il suo importante canzoniere intitolato Endimione.

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et cui casta comas tegit infula, certus et arcu et certus conto pugnax Corvinus acuto. Primus in adversum torquet Veranius hastam Quintillum, quae praecipiti delapsa ruina per clypeumque femurque viri penetravit ad imum pectus equi; gemuit sonipes, dumque excutit illam innitens, dum ferratis hic calcibus auras verberat, excussa Quintillus labitur hasta. Accurrit pater ac, telo per tempus adacto, deturbat Rutilum. Inde Melas dum fervidus instat, dum Catulo cadit avulsus de pectore thorax, exegit medium praecordia ad intima ferrum. Labenti dum ferrum iterumque iterumque coruscat, sensit praecipitem vento stridente sagittam; quam dum declinat iuvenis, forte ilia in Oscum obvertit, lateri et telum crudele recepit. Extraxit telum obnitens ac talibus infit: «Non tibi mentitum, Osce, genus veteresque parentes profuerint, Fauno aut mater dilecta petenti». Tum clypeo assiliens ensem quatit et ferit ora nuda Osci, cum forte levis cervice reflexa cassis hiat; cruor auratis diffunditur armis. Ingeminat perque ora Melas perque ilia ferrum; ipse iterum lateri accepit moribundus acutum ensem, auratum ensem; mox corruit, acer et una corruit Oscus et ingenti premit arva fragore.

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e colui che porta i capelli coperti da una casta benda, il bellicoso Corvino,220 spavaldo con l’arco e la lancia.

[Primo scontro tra le truppe di Sertorio; Mela uccide Catulo e Osco] Verano contrastando per primo Quintillo vibra l’asta che tracciando un ampio arco attraversa lo scudo e il femore e penetra nel petto del cavallo; geme il quadrupede, premendo l’asta la scuote, 45 agitando gli zoccoli la percuote, sino a quando la lancia è estratta e Quintillo rovina a terra. Accorre il padre e con un colpo sulle tempie atterra Rutilo. Mela furibondo l’incalza e, recisa la sua corazza, lo trafigge 50 sin dentro le viscere. Mentre guizza il ferro più e più volte nel corpo del nemico caduto Mela sente stridere una freccia nel vento; la scansa e porge il fianco ad Osco e viene colpito dal giavellotto implacabile. 55 Estrasse il giavellotto senza un gemito e disse: «Non ti aiuterà, Osco, né il mentito lignaggio né gli anziani genitori, né tua madre amata da Fauno». Lo assale con lo scudo, scuote la spada e ferisce il volto di Osco lasciato scoperto dall’elmo 60 leggero: si spande il sangue sull’armatura dorata. Mela raddoppiò il colpo sul volto e sul fianco, l’altro a sua volta, seppur moribondo, lo colpì sul fianco con la spada dorata; quindi il feroce Osco crollò con fragore sul campo di battaglia. [Ponzio con un manipolo di uomini cerca di tagliare il ponte; Bicia e Tertullo si oppongono ma vengono uccisi; i pompeiani si ritirano] 220

Leonardo Corvino di Corbara (morto nel 1502), sacerdote ed umanista, fece parte dell’Accademia pontaniana.

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Attonitae stupuere acies. At Pontius instat: «Ite, viri, mecum ite, viri, succidite pontem dum trepidant, nullo et liber custode tenetur». Haec ait, et rapta primus volat ipse securi, desiliitque pedes. Sequitur cuneata iuventus. Tum Bicia increpitans: «Quo nunc, Tertulle? quid haeres? in ferrum, Romane, rue!». Atque hinc talia fatus in medium incurrit peditem; nec defuit illi Tertullus, volat aurato conspectus in ostro, nunc iaculo, nunc ense micans, fit vi via. Saevit effera vincentum rabies rabiesque cadentum. Forte ut erat prolapsus equo Veranius, alte sustulit attollens oculos telumque vibrantem suspexit Biciam. «Quo tu, quo, pessime, telum, Carpetane, vibras? en hoc» ait «accipe». Et armos una haurit, simul abreptas detruncat habenas bellatoris equi, tum cominus ense reducto perforat ingentemque alta prosternit in haerba. In Biciam se cuncta cohors stipata ferebat; pro Bicia ferus assurgit Tertullus. At illi succidit iugulum, Parca indignante, Metiscus; concidit, ut tenuis cum flos enectus aratro est152, insignis facie puer et florentibus annis. Nec mora sive aliquis, dubium, milesne deusne sustuleritque manum iaculumque intorserit; intrat loricam galeamque inter ferratilis ornus, qua cervix commissa humeris, nam fata Metisco nec sua non properant Biciae seu cana senectus, cui caput avulsum collo Maurisius Atlas atque hastae infixum ostentat; quo territa retro pompeiana acies pontem turbata petebat.153 152

Cfr. Verg. Aen. 9, 425 «cum flos succisus aratro». Cfr. «At bella, quae unius horae momento et fere quotannis multa hominum millia exhauriunt, interdum regna tota populosissimasque extinguunt nationes, qua non arte quaerunt? In his sese exercent; hic illis ludus, hae delitiae sunt; sum153

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L’esercito attonito stupisce. Ma Ponzio incalza: «Venite, compagni, venite con me, tagliate il ponte mentre sono confusi e nessuno è di guardia». Dice così e, afferrata una scure, smonta da cavallo e [per primo si slancia. Lo segue la gioventù formando un cuneo. Allora Bicia grida: «Dove vai Tertullo? Perché indugi? Corri verso il ferro, sei un Romano!». Detto così assale la fanteria; Tertullo non lo lascia da solo e si slancia splendente nelle vesti dorate, con la forza si fa strada agitando ora il giavellotto ora la spada. Si infiamma il furore selvaggio di chi vince e di chi cade. Veranio che era smontato da cavallo alzò gli occhi e vide Bicia che stava vibrando un colpo col giavellotto Disse: «Pessimo uomo, carpetano221, dove vibri il giavellotto? Prendi questo». E con un colpo tagliò le briglie e distrusse il dorso del cavallo nemico, e poi estratta la spada lo affronta corpo a corpo, lo perfora e lo getta nell’erba alta. Tutta la coorte si getta unita contro Bicia; il fiero Tertullo sorge a difesa di Bicia, ma Metisco gli taglia la gola, sdegnata la Parca; il giovane bello nel volto e nel fiore degli anni cade come un tenero fiore falciato dall’aratro. Senza indugio qualcuno, un soldato oppure un dio, sollevò la mano e scagliò un dardo; la freccia ricoperta di metallo attraversa la lorica e l’elmo là dove il collo è attaccato alle spalle; incombe anche per Metisco il fato ed incombe per Bicia il cui capo non vede le canizie ma viene troncato dal moro Atlante che lo ficca su una picca; atterrita la schiera pompeiana si ritira verso il ponte.

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I carpetani erano un antico popolo della Spagna.

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Urgebat fugientem hasta Chariteius, ut se proripit e specula; simul et clamore premebat iuncta cohors; illi abruptis referuntur habenis. Saevit at hic gladio incumbens Corvinus et harpe, ut quondam lupus in pecudes furit; omnis ab uno grex fugit, ille atrox et dente cruentat et ungui. Pontius, ut sensit strepitum, ac nutantia vidit robora et attrahere immanem tabulata ruinam, «Cede, inquit, generosa phalanx, fugientibus, ipsi ferratis ad ripam hastis incumbite, qua se volvit agens retroque vagus convertitur amnis». Hic vero turbatus eques clamante tribuno constitit. Instaurata acies; tum Pardus et Actor Sulpitiusque Aniusque et aviti nominis Arunx incumbunt, Variusque et Poeno e sanguine Hiensal, marmaridesque Mahar Atlantiadesque Maharbal, et Bostar Barceus et Pyreneus Hierus Androclidesque Maron Antenoridesque Boriscus, atque alii, decus egregium quos traxit in arma, quique repostus equo Veranius aegra trahebat corpora, sed vincit famae generosa cupido. Maeoniae nunc plectra, deae, cantusque ciete et bello decus et decori longam addite famam.

mum habetur decus caput hostis affixum hastae referre» (Char. § 32).

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[I sertoriani incalzano i pompeiani; Ponzio ordina di lasciar passare la cavalleria oltre il ponte] Cariteo, abbandonato il suo posto, incalzava i fuggitivi vibrando l’asta; la coorte incombeva con strepito; i nemici si ritirano a briglia sciolta. Ma Corvino infuriato avanza con la spada e la scimitarra 100 simile un lupo che mette in fuga un gregge ed incrudelisce con le zanne e le unghie. Ponzio, udito lo strepito, vede i tronchi ondeggiare e scorge una rovina imminente per le assi del ponte e dice: «Generosa falange lascia passare i fuggitivi 105 con le aste di ferro attendeteli sulla riva dove il fiume scorrendo torna indietro».

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[Scontro tra i due eserciti sulla riva del fiume] Qui la cavalleria agitata al grido del tribuno si arrestò. Ha inizio la battaglia; Pardo e Attore e Sulpizio e Aniso e Arunte che prende il nome dall’avo, si lanciano nella mischia, e con loro Vario e Iensale il [fenicio, il marmaride222 Maar e Maarbal discendente di Atlante, e il barcellonese Bostare e Iero dei Pirenei, e Marone figlio di Androclide e Borisco figlio [d’Antenore e altri che la sete di onore spinse a prender le armi; persino Veranio, sceso da cavallo, trascinava il corpo ferito – tanto poté il desiderio di gloria! Dive meonie, scuotete il plettro ed intonate il canto, [donate splendore alla battaglia e allo splendore aggiungete [la gloria.

222 Proveniente dalla Marmarica, un’antica regione nord africana, menzionata da Stazio e Silio Italico, situata tra la Cirenaica e l’Egitto.

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Non alias equitum maior seu maior equorum ardor, utrinque duces stimulant, utrinque tribuni: «State, viri, pugnate, viri» clamatur utrinque, «Quo ruitis? Pompeius adest, incumbite fessis. Impiger adventat Sertorius». Arma cruore sparsa madent crepitantque enses, clypeique resultant impacti clypeis fractaeque hastilibus hastae; tum varius clamorque equitum atque hinnitus equorum. Dissultant ripae154 et voces nemora alta remittunt; non aliter quam155 cum bello flagrante gigantum Aeoliam ad Liparen sudat Vulcania pubes; fit strepitus, ferrique fluunt aerisque metalla; antra sonant validis incudibus156 itque caverni immistus fumo sonitus; cava murmurat Aetna vicinaeque fremunt valles, maria ipsa resultant, ac longe fragor ingeminans defertur ad auras. Hic Pardo suffossus equus, cadit impiger actor Androclidesque Maron, traiectus et ilia conto corruit infelix Arunx Bostarque Maharque, ense Mahar, iaculo Bostar per pectus adacto. Sulpitius dextra execta levaque Maharbal inviti excedunt pugna. Veranius hastam crure trahit, dumque illam Anius convellere tentat, accipit aeratam per colla exerta bipennem. Tum vero turbata phalanx cedente Borisco, quem clypeo exutum et galea Catilina premebat, 154

Cfr. Verg. Aen. 8, 240. La similitudine che contiene una descrizione della fucina dei Ciclopi, imitata dall’Eneide (Verg. Aen. 8, 416-453), è introdotta dal sintagma «non aliter quam», hapax nel poema virgiliano (Verg. Aen. 4. 667) ma particolarmente caro ad Ovidio (ad es. Met. 3,373; Met. 3, 483; Met. 4,122, Met. 6,516). Un brano nel quale Pontano emula espressamente Virgilio, dunque, è introdotto da uno stilema ovidiano, circostanza emblematica dello stile miscidato del Bellum sertoriacum. 156 Cfr. «antra Aetnaea tonant validisque incudibus ictus» (Verg. Aen. 8, 419). 155

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Giammai si vide un ardore più grande nei cavalieri o nei cavalli; i comandanti e i tribuni dei due eserciti incalzano egualmente le truppe: «Resistete, uomini!». «Combattete!» «Dove andate? Svegliatevi, ecco [Pompeo!» «Arriva l’alacre Sertorio!» Le armi sparse grondano sangue, risuonano le spade, rimbombano gli scudi urtando gli scudi, e le aste frangendo le aste. Risuonano le grida dei cavalieri miste ai nitriti; sussultano le rive e le foreste echeggian le grida come quando durante l’ardente guerra dei giganti sudavano i fabbri di Vulcano nei pressi di Lipari:223 si ode uno strepito, il ferro e il bronzo scorrono fusi, l’antro risuona per i colpi delle incudini e nella caverna s’aggira il rumore misto al fumo; mormora il cavo Etna e fremono le valli vicine, anche i mari rimbombano e raddoppiato dai venti il fragore si diffonde lontano. Viene trafitto il cavallo di Pardo, cadono l’alacre Attore e Marone figlio di Androclide; crolla Arunte, infelice, colpito da una lancia nei lombi; giacciano a terra Maar, per un colpo di spada, e Bostare, trapassato da [una lancia. Sulpizio troncata la destra, Maarbal la sinistra, abbandonano loro malgrado la pugna. Veranio estrae un giavellotto dalla gamba; Anio tenta lo stesso e riceve sul collo scoperto il colpo d’una bronzea scure.

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[Catilina, tribuno pompeiano, fa strage di nemici] In quel momento la falange è turbata: Borisco cede il [passo, ha perduto lo scudo e l’elmo, lo incalza Catilina,

223 La tra i giganti e gli dei dell’Olimpo; in occasione di tale guerra Vulcano forgiava nel suo antro i fulmini con i quali Zeus colpiva i giganti.

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syllanum genus et rara virtute tribunus, vociferans: «En qui Hesperiam sua praemia poscunt, oceano et regnare parant!». Simul exigit harpen ore tenus dictisque ferox insultat amaris: «Hesperiam quam quaeris habes; Patavina colebas rura, miser, nunc auratis occumbis in arvis». Tum Fabium Titiumque ferit flavumque Libyscum Fonteiumque et quos Elice de matre gemellos sustulit Eleis praetor Vipsanius oris, Almonem Andronemque et Cumanum Labeonem. Dat leto Laufenum et amicum Nerea Musis, Nerea praestantem forma et puerilibus annis, quem liquidis Sebethos aquis, quem cerula flevit Parthenope, quem Nereidum chorus omnis et hudae sirenes conturbatis flevere sub antris.157 Has inter strages Variusque et fortis Hiensal stabant invicti ferro, truduntque trahuntque, vulnera dant sternuntque. Prior sic fatur Hiensal: «Macte, Vari, virtute,158 vides qua sorte ruat res? fraude opus est, hunc ipse locum cape, dum mihi segnis fit fuga». Vix haec effatus, vestigia vertit. Insequitur Catilina, fugam celerabat Hiensal, itque reditque iter inceptum, fallitque sequentem, dum Varius iaculum incoctum post terga sub ipsum infigit femur et dictis ferus increpat; ille saucius ingemuit vixque ad sua signa recepit; incumbunt tum victores victique facessunt.

157 Un’espressione simile si incontra nell’iscrizione funebre per il Panormita: «Sebethus miseros egit in amne modos; / sirenes quoque de scopulis miserabile carmen / ingeminant: planctu litora pulsa sonant» (Tum. 1 20, 10-13). 158 Cfr. «macte nova virtute, puer: sic itur ad astra, / dis genite et geniture deos» (Verg. Aen. 9, 641-642).

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di famiglia sillana, tribuno di rara virtù, gridando: «Ecco quelli che pretendono in premio l’Esperia224 e si accingono a regnar sull’Oceano!». Brandisce la scimitarra sul volto e con aspre parole feroce l’insulta: «Ecco l’Esperia di cui andavi in cerca; misero, coltivavi un campo padovano ed ora giaci in un campo dorato». Quindi colpisce Fabio, Tizio e il biondo Libisco, Fonteio e i due gemelli che il pretore Vipsanio ricevette da Elice su una spiaggia dell’Elide, Almone ed Androne, e il cumano Labeone. Spedisce nel Lete Laufeno e Nereo amico delle Muse, Nereo di bell’aspetto e giovane d’anni, lo piange il Sebeto con le sue limpide acque, lo piange Partenope azzurra e il coro delle Nereidi, lo piangono le equoree sirene nei mesti antri. [Iensale e Vario riescono a fermare Catilina] Tra tante stragi Vario e il forte Iensale si ergono non toccati dal ferro, trascinano e spingono, spargono ferite. Iensal parla per primo: «Vario, onore alla tua virtù, ma non vedi come vanno le cose? È necessaria l’astuzia, mantieni la posizione ed io fuggo pian piano». Detto così, muove i passi. Catilina l’insegue, Iensal corre più forte, va avanti e indietro, inganna il suo inseguitore mentre Vario afferra un giavellotto e lo conficca dietro le spalle, vicino la coscia, imprecando; Catilina geme ferito e ritorna a fatica alla schiera; incombono i vincitori e si ritirano i vinti.

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Antico nome della Spagna.

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Pontius interea positis vada ad ipsa maniplis, hos cogebat et hos, ut quem fors ipsa ruentem obtulerat tumulumque levis delatus in altum. Eventum pugnae ut vidit, turbatus et amens: «Huc, iuvenes» simul ad pontem vestigia vertit. insequitur pedes atque eques, agglomeratur eodem cuncta manus. Simul ecce etiam fulgentia signa Cernere erat, volat admissis Sertorius alis. Parte alia de colle procul Romana ferebat se legio, volitant aquilae; Petreius ante agmen agit primusque vias et flumina monstrat. Ut ventum ad ripam, stetit impiger et monstrato ponte, iubet primam confestim anteire cohortem. Ingemuere trabes succisaque robora nutant assultu peditum vario. Tum pulsus ad amnem cedebat Catilina omnisque equitatus habenas laxabat; praemissa cohors tabulata tenebat ultima; per medium raptat vestigia pontem pulsus eques; ruit ecce trahens peditemque equitemque pons secum praecepsque cavo devolvitur alveo. Substitit amnis: tum ripae intumuere profundae, conversusque nigras fluvius ructabat arenas. Attonitus casu tanto Petreius amnem spectabat: volat acta manu Corybantis arundo, atque ocreis illapsa femur penetravit ad imum. Pontius e ripa exclamat: «Nunc vadite, segnes,159 et ripam tentate dolo». Cum talia fatur, diffundit sese in partes ripasque relaxat turgidus amnis aquis volvitque ad litora fluctu arma, viros, tabulas et corpora quadrupedantum.160

159 Nell’Eneide il medesimo insulto («segnes») è rivolto ai troiani in fuga da Mnesteo: cfr. Verg. Aen. 9, 786. 160 «Imitazione da Virgilio (Aen. 11, 614-615) con la signifi-

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[Ponzio riorganizza le truppe sbandate] Ponzio frattanto, disposti i manipoli intorno al guado, raduna pian piano i fuggitivi che riesce a fermare e in fretta li trascina verso un alto colle. Come vide l’esito della battaglia, disse fuori di sé: «Da questa parte, giovani!» e mosse verso il ponte. Lo seguono cavalieri e soldati, si raduna ad un tempo tutta la compagnia. Ecco, si scorgono splendenti le insegne, e insieme ai soldati accorre Sertorio. Dall’altra parte volavano di lungi le aquile di una legione romana che scendeva dal colle Petreo mostra alle truppe il cammino ed il fiume. Giunto sulla riva, instancabile mostra il ponte e comanda alla prima coorte di venire subito avanti. [Il ponte crolla solto il peso dei cavalieri pompeiani] Cigolano le travi e traballano le assi di legno al passaggio di tanti piedi. Spinto verso il fiume Catilina cadeva e la cavalleria a briglia sciolta fuggiva; la coorte aveva raggiunto l’ultima trave; gli zoccoli dei cavalli devastano il ponte nel mezzo: ed ecco, trascinando cavalieri e soldati cede il ponte e trasporta i corpi con sé nelle acque profonde. Si arrestò la corrente, si gonfiarono le rive ed il fiume, invertito il suo corso, vomitava sabbia nera. [I sertoriani uccidono i nemici caduti nel fiume] Sconvolto a tale vista Petreio osservava il fiume: una freccia scoccata da Coribante percorre il cielo e penetra dentro la coscia senza che il gambale la fermi. Ponzio dalla riva esclama: «Andate avanti, smidollati, raggiungete la riva con l’astuzia». Mentre parla il fiume gonfio di acque si propaga in diverse direzioni, lambisce la riva e con le sue onde trascina sulle sponde armi, uomini, assi di legno e i quadrupedi.

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Stant pedites innisi hastis versantque ruuntque semineces, spoliant alii, passimque secundum flumina suspendunt alte spolia indita ramis. 205

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Exanimem implicitumque ulva fluctusque vomentem eructant undae Catilinam; ille aera ut almum hausit et accepit gratae spiramina vitae, apprendit ramum dextra tenuitque prehensum. Hinc illinc oritur clamor; pugna aspera surgit, fundarum crepitat lapidosis ictibus amnis turbidus et multo sub verbere dissilit aer. Exceptus tandem a sociis conamine magno curvatis trahitur contis ripaque locatus ulteriore vomit madidas de pectore arenas, cum subito rapidum affertur Sertorius amnem, et pugnam tuba terribili ciet horrida cantu.

X. ISTRIO PERSONATUS

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Quievit, ut videtis, vates istricus; sitim pati non potest, quod Homericum ait fuisse seque similem illius mero potando noctu atque interdius. Bonum poetam nisi vinosum neminem ait, et id recte et quod ait re comprobat. Heus, tu, cui nasus, ora, labra, guttura rubescunt, vin potando hoc experirier? Taces, fateris victum, nunc hoc accipe. Vides fortuna variet ut hominum vices? pugnabant illi de virtute et gloria, nos de mero; pugnabant ferro, hastilibus, cativa mediazione di Silio Italico: “collisaque quadrupedantum / pectoribus toto volvuntur corpora campo”» (Gigliucci, Lo spettacolo della morte: 76).

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I soldati appoggiati alle lance voltano e rivoltano gli uomini che stanno affogando, altri li spogliano; il fiume trascina le spoglie in alto sui rami degli alberi.

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[Catilina riesce a salvarsi e a raggiungere la riva] Le onde rovesciano Catilina esanime e ricoperto di erbe palustri; sputa l’acqua ingoiata ed ispira avidamente l’aria ed accoglie il respiro della vita, con la destra afferra un ramo e lo stringe con forza. Nasce un clamore; sorge un’aspra battaglia, il fiume risuona dei sassi lanciati dalle fionde e l’aria sussulta per il rumore dei colpi. Infine i suoi compagni con grande fatica l’afferrano con le curve pertiche e lo trasportano sulla riva opposta; qui vomita sabbia dal petto; quindi Sertorio giunge sul fiume e chiama alla battaglia suonando orribilmente la tromba.

X. IL BUFFONE MASCHERATO

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Il vate istrionico tace, lo vedete: come Omero non sopporta la sete; beve notte e giorno un vino generoso: nessun poeta vale se non è vinoso, questo sostiene e mi pare evidente. Ehi tu, naso rosso, non dici niente? Son rosse le labbra, rossa è la bocca, è per fare la prova che scoli la brocca? Stai in silenzio, ti arrendi, non dici niente, Ora ascoltami attentamente. Non vedi come è cambiata la storia? Un tempo per la virtù e per la gloria combattevano senza tirarsi indietro

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nos vitro, nos argenteis carchesiis. Hoc nunc agite, spectatores optimi, duces decoris pictos armis noscite et gesta Marte dubio certamina ac saevientes campis ignium globos vento rotatos et flamarum turbinem agros, nemora peditumque ambusta corpora una absorbentem et coelo labentis faces. Audire pulchrum est strages et cadentium acervos ac cruore stagnantis agros, ipsum tranquillo et tuto sistere in loco. illuc redeat unde est digressa oratio. Prius quievit noster hic vates siti, nunc somno, vinum ut edormiscat scilicet. Homeri hoc tantum habet, quod persaepe ebrius, Maronis unum, nimio marcet ocio; sentitis ut apertis stertit faucibus? Hiat, muscas venatur. Sane hoc est novum Aucupium! Os aperit, stringit iam, tene, tene lepidam aviculam. Heus, vitule, heus, marina belua, seliciae Oceani, surge atque expergiscere, postquam venatus. Euge, iam erigit caput, Iam defricat oculos, iam ascendit pulpitum. Taceo, vos, spectatores, animum advortite.

XI. POETA PERSONATUS Constitit hic lustrans oculis loca, mox ita fatur: «Haud parvo fraus haec steterit tibi, Magne»; nec ultra cunctatus vocat armatos ad signa tribunos. Vos, Musae, memorate,161 etenim memorare potestis, 161 Come nota Julia Haig Gassier (Notes: 380), l’appello alla Musa è un calco virgiliano, cfr.: «et meministis enim, divae, et memorare potestis» (Verg. Aen. 7, 645).

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oggi contendiamo coi bicchieri di vetro. Ma ora, spettatori, ammirare vogliate i duci con le armature argentate: ecco le contese e l’incertezza di Marte e le sfere di fuoco cader d’ogni parte! Le fiamme col vento divoran gli arbusti, i campi e i corpi dei fanti sono combusti, mentre i bagliori solcano il cielo... È bello ammirare un tale sfacelo e scorrere i campi di sangue inzuppati mentre ce ne stiamo tranquilli e beati. Riprendiamo il discorso da dove s’era interrotto: il vate taceva assetato, ora è stracotto: col sonno prova a smaltire il vino, in questo somiglia al poeta divino, come Omero è assai spesso ubriaco e come Virgilio è ben sfaticato. Come russa con quella boccaccia! Cattura le mosche! Un nuovo tipo di caccia! Apre la bocca, ecco – quasi affoga! – afferra l’uccellino! Coraggio foca, dell’oceano delizia, cara belva marina, sorgi dal sonno. Ecco che si strofina gli occhi e sale sul palco, benone! Io taccio, voi, pubblico, fate attenzione.

XI. IL POETA MASCHERATO [Sertorio riorganizza le truppe] Si fermò girando lo sguardo dintorno e disse: «Pompeo, questo stratagemma225 ti costerà caro» e senza attendere oltre richiama i tribuni alle armi. Raccontatemi, Muse, quello che accade, a voi 225

La distruzione del ponte.

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vobis Pyrene, arcitenens dea rettulit illi. Vos memori egregium facinus producite fama, quod iuvet et meminisse et commemorasse minores. Altilius fraterque Lycon prima agmina ducunt, praestantes animis iuvenes, quos Nursia mater Marte satos furtim patriis mandarat alendos montibus et succis haerbarum et lacte lyciscae; testatur nutricem auro galea alta lyciscam, at clypeo quatit ingentem Mars efferus hastam. Proxima Silvano clarus patre, clarior armis agmina agit Marsus; clypeo lacus enatat ingens, ipse antro fundit liquidas et Fucinus undas, pandit se cono advolitans argenteus anser162 addictus puero custos, cum parvus ad amnem ludit avi puer et vitreos maris innatat aestus.

162 Cfr. «volitans argenteus anser» (Verg. Aen. 8, 655). La tessera è tratta dalla descrizione dello scudo forgiato da Marte e donato da Venere ad Enea.

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lo narrò Pirene,226 che lo apprese da Diana in quei [luoghi. Voi l’inclita strage consegnate alla fama che tutto ricorda perché giova ai posteri ricordare e commemorare. [Catalogo delle truppe sertoriane: Altilio, Licone, Marso] Altilio227 e suo fratello Licone guidano la prima colonna, giovani di grande coraggio che Nursia in segreto concepì con Marte e li affidò al padre perché li allevasse sui monti con erbe e latte di lupa;228 i loro alti elmi testimoniano nell’oro che una lupa fu loro nutrice e nei loro scudi Marte agita l’asta.229 Conduce la seconda colonna Marso, famoso per Silvano suo padre ma più famoso per l’armi; un vasto lago sgorga sul suo scudo e Fucino230 dal suo antro versa acque trasparenti; sulla punta dell’elmo un’oca [d’argento spiega le ali, l’oca che lo proteggeva quando fanciullo giocava sulla riva del fiume paterno e si gettava nell’onde. 226 Ninfa ispanica immaginata da Pontano. I numerosi miti ai quali si allude nel poemetto sono creati da Pontano sulla falsariga di quelli classici: Altilio e Licone, figli di Marte, allattati da una lupa come Romolo e Remo (vv. 8-13); Aspar che da fanciullo doma una vipera come Ercole strozzò i serpenti inviati da Giunone nella sua culla (vv. 72-76); la gigantessa Birse descritta sulla falsariga della Camilla virgiliana e, al contempo, protagonista di episodi ispirati alla vita di Ercole (vv. 82-113); la spada di Anco forgiata nelle acque del fiume come quella di Turno (vv. 203-205); Ufente che sfugge alle fiamme trasportando il vecchio padre sulla schiena come Enea fece con Anchise durante l’incendio di Troia (vv. 324328). 227 Per Gabriele Altilio (1440 ca-1501) vd. Asin. § 9 nota 42. 228 Pontano utilizza il termine lycisca che indica un ibrido tra un cane ed un lupo. 229 Sulla sommità degli elmi d’oro di Altilio e Licone è raffigurata una lupa, mentre nei loro scudi è rappresentato Marte. 230 Il lago Fucino, situato nel territorio dei Marsi (odierno Abruzzo).

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Hinc iaculo bonus, ense bonus, melior tamen arcu Actius insequitur, argento auroque coruscus. Nevit acu chlamidem coniunx, quam lucus opacat hesperidum pendentque suis poma aurea ramis. Argento serpens riget et trahit horrida cauda septem orbes, micat et linguis furiata trisulcis.163 Sub levam vagina auro viridique smaragdo irradiat distincta et iaspide fulgidus ensis ad capulum, nitet et nexu nova fibula eburno. Aurea mandebat sonipes frena, aurea cassis emicat, auratos spargit sol aureus ignes, ac serpunt hederae per laevia tempora nigrae. Lunat Amazonium in morem pelta horrida monstro Lernaeo septemque illi capita alta tumescunt, et latos pandit rictus fera; defluit atrox virus et effuso livescit parma veneno. At dorso pugnacis equi terga aspera pendent illa boum, tegit et crudus genua ultima pero. Haec variat nemus Idaeum atque ad pocula raptus Dardanius puer et cupido praeda acta Tonanti. Ter puerum invadit praepes, ter praepetis alas evadit puer; hinc rostro sacer ales adunco abreptum implicitumque ungui multumque sub ala percussum, frustra auxilium divosque vocantem ante Iovem coelo statuit; mox versus in astrum inter sidereos ales micat aureus ignes.164

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Cfr. «et linguis micat ore trisulcis» (Verg. Aen. 2, 475). La descrizione del ratto di Ganimede è condotta in gara con Virgilio (Aen. 5, 250-257). 164

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[Catalogo delle truppe sertoriane: Azio] Lo seguiva Azio,231 abile col giavellotto e colla spada ma ancor più coll’arco, fulgido nelle vesti argentee e [dorate. Gli cucì la consorte un mantello sul quale ombreggia il bosco delle Esperidi porgendo sui rami i pomi d’oro. Si erge argenteo un serpente e trascina l’orrida coda sette volte intrecciata, e guizza la tripla lingua. Sul fianco sinistro risplende un fodero arricchito dall’oro e da un verde smeraldo; splende anche il pomo della [spada di fulgido diaspro e la fibbia allacciata con un nodo [eburneo. Il suo cavallo morde freni d’oro, l’elmo s’erge aureo – un sole d’oro che sparge aurei raggi – e un’edera nera cinge le delicate tempie. S’incurva il suo scudo di foggia amazzone reso orribile dal mostro lerneo che si gonfia alzando le sette teste e feroce dispiega le ampie fauci; atroce cola una bava ed il veleno versato illividisce lo scudo. Ma dal dorso del pugnace cavallo pendono aspre pelli di vacca e grezzi stivali ricoprono le gambe sino al ginocchio. Adorna gli stivali il bosco ideo e il fanciullo dardaneo rapito dal cupido Tuonante come coppiere degli dei.232 Tre volte l’aquila assalì il fanciullo, tre volte il fanciullo sfuggì alle ali dell’aquila; infine l’uccello sacro l’afferrò col becco adunco e lo strinse coll’unghie e lo percosse più volte sotto le ali e mentre invano invocava gli dei lo posò in cielo dinanzi a Giove; quindi, l’uccello fu mutato in astro ed ora risplende tra le stelle infuocate.

231 Azio Sincero, nome accademico di Iacopo Sannazaro (1457-1530). La sontuosità dell’abbigliamento di Azio allude probabilmente alla ricchezza di ornati della sua poesia. 232 Ganimede.

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Quem post venatore satus patre, maximus armis Compater; huic apri clypeo riget horrida pellis, incoctumque ursi tergus; latrat aspera cassis ora canum duraque horrent venabula dextra. Lartius hunc pater, amissa genitrice, lupina pelle fovet tectum foliis, subque hubera adactum lactantis quam cum catulis deprenderat ursae. Mox puer exagitare feras assuevit et acto venatu tolerare famem atque inhiare cruori. Qualis mane novo cum fulgidus igne nitenti Lucifer irradiat coelo, mirantur et illum oastores, gaudet caro Venus aurea signo, aeratam sic ante aciem nitet ora Camillus, insignisque coma puer et fulgentibus armis, miranturque ut tela manu atque ut torqueat hastam, ut gladium stringat dextra. Sertorius ipse concipit optatae iamdudum gaudia palmae. Tum vates Phoebo carus Saxonius Astur, idem augur, cui vox avium pennaeque patebant, et curare manu doctus cantuque levare vulnera, non tamen ense minor, minus utilis hasta; laurea cingebat galeam, tegit infula crines, serpebant hederae clypeo, viret hasta corymbis et capulo insignis radiabat acinacis aureo. Hinc Aspar Garamas, quo non praestantior alter

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[Catalogo delle truppe sertoriane: Compatre] Dopo di lui viene Compatre233 grande nelle armi, figlio di un cacciatore; il suo scudo indurisce l’irsuta pelle d’un cinghiale e il cuoio non conciato d’un orso; su [l’elmo latrano le fauci dei cani e a destra s’ergon gli spiedi. Morta sua madre, il padre Larzio lo avvolse con una pelle di lupo, lo coprì di foglie e lo spinse sotto le mammelle di un’orsa da lui catturata. Ben presto il bambino apprese a cacciare le fiere, a sfamarsi con la caccia, a bramare il sangue.

[Catalogo delle truppe sertoriane: Camillo, Asture, Aspar] 55 Come, sul far del mattino, Lucifero s’irradia splendente nel cielo e i pastori la mirano e Venere si rallegra al caro contrassegno dorato, così risplende dinanzi all’esercito bronzeo Camillo, fanciullo dalla splendida chioma e dalle armi splendenti; 60 lo ammirano mentre stringe i dardi e volteggia l’asta e stringe nella destra la spada. Sertorio stesso presagisce con piacere il premio con il quale insignirlo. Quindi viene il sassone Asture, un vate caro a Febo, un augure al quale son noti i segni degli uccelli, 65 capace di curare con la mano e guarire col canto abile anche con la spada e con l’asta; l’alloro cinge il suo elmo, una benda copre il suo crine, l’edera circonda lo scudo, l’asta verdeggia di corimbi, splende il pomo d’oro della gloriosa scimitarra. 70 Lo segue il garamante234 Aspar, il più presentante 233 Petrus Compater, nome latino di Pietro Golino (14311501), vd. § 1, n. 2. 234 I garamenti, menzionati da numerosi autori latini come Virgilio, Lucano, Plinio il Vecchio, erano una popolazione berbera che abitava il Sahara nell’attuale regione del Fezzan, a sud della Tripolitania.

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aut torquere manu iaculum aut dare vulnera funda. Ceruleus capiti trifido micat ore cerastes, Ter caudam collo implicitans; puer Aspar et illi Assuevit, cantata daret cum pabula, et aspis luderet infantis manibus, cum lambit et ora, ora genasque simul et collo lubricus errat. Horret et insutus cetrae leo, cruda draconum terga humeros crudumque tegit thoraca elephantus. Ipse arcum pharetramque humeris clavamque trinodem incoctamque sudem dextra gerit et quatit acer, marmaricoque subinde hululans vocat agmina cantu. Ecce decus belli rarum,165 Tritonia Birse,166 ipsa pedes quamvis, equites tamen eminet inter vertice iam toto et passu praevertit euntis. Nodosam lateri clavam fert, dextera pinum, ingentem quassat pinum, quam fulva bipennis asperat. Ipsa exerta humeros et brachia et ipso poplite nuda tenus; non illi pectora thorax, non galea abscondit crines, sed tornulus aureus circuit ingentem lato curvamine frontem et multo pectus communit balteus aere, Palladis armisonae donum fatale, quod illi ferre dedit, tutum armatos munimen in hostes. Hanc Fauno et nympha genitam Garamantide mater

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Per il sintagma «belli decus» cfr. Sil. 1, 618. Nel tratteggiare il personaggio di Birsa Pontano rielabora in senso grottesco il personaggio virgiliano di Camilla: «la nota gentile che era nella Camilla virgiliana cede il posto a qualcosa di rozzo, un po’ mascolino e brutale, indulgendo al gusto dell’enorme e fuori misura. Birse è una creatura che ha in sé qualcosa sia del Caco virgiliano, che di certe immagine dei giganti medievali; su questa strada, non troppo lontano, incontreremo, con altro spirito, il Morgante del Pulci» (Monti Sabia, Il Bellum Sertoriacum: 744). 166

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nello stringere il giavellotto e ferire con la fionda. Sul suo capo una vipera cerulea guizza la triplice lingua arrotolata tre volte intorno al collo; Aspar la domò fanciullo, la nutriva cantando e la vipera giocava tra le mani paffute, leccandogli il volto e le guance, errando scivolosa sul collo. Nello scudo di cuoio è cucito un leone, il dorso di serpenti ricopre le spalle, un elefante il forte torace. Indossa arco e faretra e con la destra brandisce feroce una clava nodosa ed un rozzo palo; ululando chiama a raccolta le schiere con un marmarico235 canto. [Catalogo delle truppe sertoriane: Birse] Ed ecco la tritonia236 Birse, rara gemma guerresca: marcia pedone ma supera di una testa i cavalieri e oltrepassa di un passo la loro andatura. Sul fianco tiene una clava nodosa, nella destra un pino, scuote un enorme tronco di pino abbattuto dalla sua fulva bipenne; scoperte le spalle e le braccia, nude sin ai polpacci le gambe; un’armatura non copre il torace, un elmetto non nasconde i capelli, ma una benda aurata circonda l’ampia fronte e una pesante cintura bronzea protegge il petto, dono fatale che la sonora237 Pallade238 le diede come baluardo contro i nemici armati. Nata da Fauno239 e dalla ninfa Garamante,240 235

Vd. nota n. 222. Originaria del lago Tritone, in Libia. 237 In quanto “risuonante per il rumore delle armi”, cfr. Verg. Aen. 3, 544. 238 Seguendo Apollodoro (Apollod. Epitom. 3,12, 3) Pontano si riferisce in questo passo non ad uno degli epiteti di Atena (qui nominata nella forma latina Minerva), ma alla divinità libica Pallade, figlia di Tritone, compagna di giochi di Atena e divinità guerriera. 239 Antica divinità italica delle selve. 240 Ninfa africana; nell’Eneide è la madre del re Iarba (Verg. Aen. 4, 198). 236

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dum partum celat, tergo bovis indit et aspris sentibus impositam nymphis nemorique relegat. Quam dum forte lavat Tritonide Pallas in unda, oblatam ut tenuit gremio, miratur et ora et latos humeros et membra ingentia; quodque 100 nec vagit fertque aspectum non territa divae, quodque hastam galeamque oculis atque aegida lustrat, commendat matri Tritonidi; sedula mater educat. Illa, ut primum aetas tulit, ire per altas nuda genu silvas latebrasque intrare ferarum, 105 sectari cervum cursu, venabula in aprum dirigere et fulvum iaculo attentare leonem. Finitimis etiam bellis assueta, nigrantem Gerionistheniden clava abstulit; hunc tremit omnis Aegyptus, tremit extremi domus abdita Nili, 110 egregium ac coeli columen Maurisius Atlas. Accipit ob meritum donum immortale Minervae Auratam fronti vittam atque ad pectora balteum, exultat quibus in bellis invicta virago. 95

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Hernicus extremas acies atque ultima claudit agmina; nam iussus properare in castra Marullus, communire manu vallum portasque tueri. Ipse ostro chlamidem intextam argentoque nitentem, aurea quam lato percurrit linea tractu, insignis fulvoque comam nodante pyropo irradiat, veluti roseo cum solis in ortu percussum radiis splendet mare, iam tremit unda iam feriunt sese radii, iam dissilit ardor huc illuc, nequeunt tum lumina nostra tueri.

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per celare il parto la madre la coprì con una pelle bovina e la nascose tra le spine, affidandola alle ninfe dei boschi. Un giorno Pallade, che si bagnava nelle tritonidi onde,241 presala tra le braccia si stupì del suo volto e delle forti spalle e delle membra possenti; non piangeva e non temeva il fiero aspetto della dea e dato che ammirava l’asta, l’elmo e lo scudo l’affidò a sua madre che la crebbe con premura. Non appena cresciuta, cominciò la fanciulla a solcare le selve profonde, nuda sino al ginocchio, braccando le fiere nelle tane e cacciando i cervi; muoveva gli spiedi contro i cinghiali, col giavellotto affrontava i fulvi leoni. Esperta di guerra sottrasse al nero Gerionistenide la clava; l’Egitto tremava al suo cospetto e tremavan le fonti remote del Nilo e il moro Atlante, sostegno del cielo. Meritò il dono immortale di Minerva: sulla fronte un nastro aureo, intorno al petto una cintura, con i quali esultare, vergine invitta, in battaglia.

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[Catalogo delle truppe sertoriane: Marullo] Ernico chiude l’ultima schiera delle truppe; Marullo esegue gli ordini e raggiunge l’accampamento, per rinforzare il vallo e proteggere i cancelli. Col suo mantello intessuto di porpora e argento – un’ampia cintura d’oro attraversa il fianco, i capelli raccolti in un fulvo nodo di piropo –242 egli risplende come fa il mare colpito dai raggi del sole che sorge rosato dall’acque: l’onda scintilla accogliendo i raggi e l’incendio si propaga d’intorno, e gli occhi non reggono a tanto.

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241 Le onde del leggendario lago Tritonide, situato sulla cima del monte Atlante. 242 Lega di oro e di rame.

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Quin etiam auratos spargit de casside fluctus Oceanus, splendet cano sub marmore Triton, fluctuat et clypeo per cerula concita delphin, argento assurgunt undae. Tum litora gemmis sparsa nitent, micat adverso sub lumine pontus. Hos Arno genitus nymphaque Evarchide vates, quem Musae Aonio puerum fovere sub antro, Puttius ad pugnam vocat atque hortatur euntis: «Di vobis sint tela, viri, Mars dextera cuique est; vicimus ipsa suas Victoria concutit alas, pax parta, Hesperius nobis regnabitur orbis». Ut ventum est sub signa, ducem sua quemque secuta est legio, ac densis cogit se exercitus armis. Intenti expectant signum moraque omnis iniqua est. Oceano veluti in magno cum cerula Proteus agmina agit stabulis, coeunt immania monstra sub duce quaeque suo, fervent freta, pastor ad ipsas stat caulas baculoque greges et voce coercet; non casses, ipsi nequeunt retinere magistri.

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Dal suo elmetto Oceano sparge flutti aurati, Tritone splende sotto la superfice d’argento e nel suo scudo guizza un delfino tra l’acque cerulee mentre l’onde s’elevano argentee. Le spiagge splendono sparse di gemme, palpita il mare. [Puzio arringa le truppe sertoriane] Puzio,243 vate figlio di Arno244 e della ninfa Evarchide che le Muse nutrirono fanciullo in un antro aonio,245 chiama all’armi le truppe e rincuora il loro cammino: «Siano gli dei i vostri giavellotti e nelle destre di [ognuno sia Marte; vinceremo, la Vittoria stessa agita l’ali; la Pace ha sgravato: regneremo sulla terra d’Esperia». Quando giunsero sotto le insegne, ogni legione seguì il suo duce e l’esercito serrò i ranghi. Intenti attendono un segnale e l’attesa è per tutti un fastidio. Come quando Proteo nel vasto Oceano guida le cerulee schiere fuori dall’ovile e si radunano immani mostri,246 ognuno seguendo il suo duce, ed ondeggiano i flutti, e il pastore247 dinanzi ai recinti col bastone raduna le greggi e né le reti né i capi posson tenerli.

243 Nome che allude a Francesco Pucci (1463-1512). Fiorentino, allievo di Poliziano, giunse a Napoli tra il 1485 e il 1486 dove svolse l’incarico di professore allo studio e di bibliotecario reale. Accademico pontaniano, oltre ad essere menzionato nelle Baiae e nel De sermone, figura tra gli interlocutori dell’Aegidius. 244 Personificazione del fiume Arno. 245 Della Beozia, regione centrale della Grecia. 246 Secondo il mito Proteo, suddito di Poseidone e dio marino dotato del dono della profezia, a mezzogiorno radunava il suo gregge di foche e usciva dal mare per sdraiarsi a dormire all’ombra degli scogli. 247 Il pastore è da intendersi come Proteo stesso.

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Interea caesos equites primamque cohortem haustam undis ripasque et flumen ab hoste teneri nuntius attulerat Magno, famulique ferebant impositum clypeo Petreium. Aegerque dolensque substitit ad medium collem, secum ipse volutans, incertus casu tanto, pugnamne retractet paulatim colle excedens, an flumina tentans implicitum eliciat ripis fluvialibus hostem fidentemque equite atque recenti caede tumentem. Haec secum; mox accito iubet arma Cetego inferri ripis peditemque ad signa vocari. Ipse invectus equo: «Nunc, o fortissima bello pectora, nunc certate manu; tot flumina nando emensos torrens tenet atque ignobilis amnis? Vincite iam victos unaque absolvite pugna relliquias tot bello rum». Dum talia fatur Magnus, ab impigro pugna est commissa Cetego. Nanque ultra adversam ripam vada nota secutus Pontius institerat, campo congressus iniquo, dum fossas et saxa inter versatur, equesque confossus cadit et pediti pedes additus instat. Quod postquam longe aspexit Sertorius et quae sit fortuna videt, nulla est mora, protinus agmen ire iubet, dictis stimulans «Nunc, lecta iuventus,

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[Pompeo arringa le truppe] Nel frattempo un nunzio aveva descritto a Pompeo i cavalieri fatti a pezzi, la prima coorte sommersa [dall’onde e le rive controllate dal nemico, mentre gli attendenti trasportavano Petreio sul suo scudo. Afflitto e dolente si fermò a metà del colle, riflettendo fra sé su come reagire ad una tale disfatta, se ritirarsi dalla lotta fuggendo a poco a poco dalla collina o tentare la via del fiume e chiamare in battaglia il nemico fiducioso e la cavalleria tronfia per la strage recente. Pensa tra sé; poi fa chiamare Cetego e comanda di recare le armi sulle rive e radunare i fanti. Montando anch’egli a cavallo disse: «Ora, petti saldi in battaglia, combattete con forza; voi che a nuoto avete solcato così tanti fiumi, sarete forse trattenuti da un fiumiciattolo? Vinceteli, sono già vinti, con una sola battaglia superate i resti di tante guerre»248. Mentre Pompeo così parla, l’alacre Cetego attacca [battaglia.

[Inizia lo scontro tra pompeiani e sertoriani presso il guado] 160 Dopo aver traversato le onde ben note sino alla riva [opposta Ponzio, su un terreno sfavorevole, aveva tenuto la posizione mentre si combatte tra sassi e fossati, e i cavalli cadono sforacchiati e nuove truppe incalzano le truppe. Sertorio, dopo aver osservato da lungi, vedendo 165 la fortuna dalla sua, senza perder tempo comanda alla colonna di avanzare, incitandoli con queste parole:

248 Le truppe sertoriane, formate dagli irriducibili sostenitori di Mario, sono definiti come i «resti» di una guerra civile ormai conclusa.

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nunc, victrix manus, ad ripas, vada pervia! Et ipse Pontius insultat campo, non audet et hostis aut conferre gradum aut descendere montibus altis. Hesperiam dextra gerimus; spes omnis in armis». Altilius fraterque Lycon trans flumina primi consistunt sequiturque hastis innisa iuventus. Pars capiti scuta alta gerunt, pars insita pilis, pone trahunt alii; sistunt et flumina cursum mole virum atque undis illisa remurmurat unda. Tum ripae clamore sonant collesque resultant, offensa et nemorum assultu respondet imago. Vix alias tantis animis in proelia ventum est; successus certamen alit, dum cedere neutris decretum est, urgetque ducum praesentia et ardor. Ingeminant vires, crescit certamine virtus. Crudescit gladio Mavors, nec iam eminus hasta, cominus ense agitur; humescunt sanguine campi,167 caede natant fossae. Tum territa terra cadentum Corporibus tremit et gladiis micat aereus aether. Tercentum clipeata phalanx, hinc sub duce Hiarba illinc Suffeno, stabilis pedes, arma manusque contulerant, ut forte alnus radice revulsa conciderat ramisque ingens iter occupat, ut nec aut his aut illis pateat via. Saevit utrinque effera vis, durique crepant per scuta molares, ut cum se Orionis iniquo sidere grando praecipitat, vasto crepitant sub verbere tecta. Hinc Tacio Lepidoque caput cervice revulsum168 ense Tagi ; cadit ense Remi Turnusque Ligusque; nam Liguri femur exectum, Turno ilia et ipsas 167

Cfr. Sil. 4, 162: «arva natant, altusque virum cruror» (Gigliucci, Lo spettacolo della morte: 77). 168 Cfr. «quantos ne tumores / mente gerit famulus Magni cervice revulsa! / Iam tibi, sed procul hoc avertant fata, minatur» (Luc. Phars. 10, 99-101).

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«Ora, giovani scelti, ora, manipolo vittorioso, al guado! Ponzio calpesta il suolo, e il nemico non osa ingaggiare battaglia o scendere dalle alte colline. Esperia si trova nelle nostre mani: la speranza è nel [le armi». Altilio e suo fratello Licone per primi oltre il fiume fermano i passi: li segue la gioventù poggiando sulle [lance. Chi porta gli scudi su la testa, chi sui giavellotti, chi dietro le spalle; per la mole dei soldati le acque fermano il corso e mormorano le onde urtando le onde. Sulle rive esplode un boato che i colli riecheggiano, Eco nei boschi, offesa, risponde all’assalto. [Lo scontro tra i due eserciti raggiunge il culmine] Di rado si è andati in battaglia con tanto coraggio; il successo alimenta la lotta, nessuno cede per primo, l’ardore dei duci e la loro presenza incalza i soldati. Le forze raddoppiano, cresce la virtù con la battaglia. Marte incrudelisce col gladio: non più a distanza, con le aste, ma corpo a corpo con le spade; il sangue bagna i campi, le fosse sono colme di strage. Trema atterrita la terra ed il cielo risplende col luccichio del [bronzo. Da un lato una falange di trecento, guidata da Iarba, dall’altro le salde truppe di Suffeno avevano ingaggiato battaglia, quando per caso un ontano cadde impedendo con la mole dei rami il cammino e chiudendo la strada. Si rinsalda il furore in entrambi, risuonano i duri macigni contro gli scudi, come quando sotto l’iniquo segno di Orione cade la grandine e percossi risuonano i tetti. Da questo lato la spada di Tago tronca il capo a Lepido e Tacio; cadono Turno e Ligure per la spada di Remo; la gamba di Ligure è recisa,

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traiecit costas ac pectora fervidus ensis.169 Per galeam cerebrumque ac tempora guttur ad ipsum Assaracum secat Ufentis sullata bipennis. Illinc et Marus et Basso cum fratre Faliscus thessalicusque Maroniades et Lydius Hypseus conciderant, Siculusque Corax et Maurus Iopas: idem omnes eodem gladio ferus abstulit Ancus. Hic genitus Vulcano atque Aetnea Cyanea fatiferum a patre ensem170 atque immedicabile ferrum accepit, Stygia genitor quod tinxerat unda.171 Dumque alnum truncosque super levis insilit Anser, accipit aeratam infelix per guttura cornum; spiramenta animae clausit telum; ille volutus singultantem animam pronus vomit:172 «Eia age,» Hiarbas exclamat «spolia illa viri!». Cum talia fantem ora per increpitans alis penetravit arundo; insultans cui Suffenus: «Spolia accipe, victor, Ista tibi» iaculumque quatit; sufligitur hastae dextera, dum excusso properat torquere lacerto. Hic caedes miseranda oritur super Ansere tracto, dum spolia exuviasque viri cupit hostis et hostis pro decore haud timet adversis incurrere telis. Huc omnis legio versa, huc sua signa Cetegus inferri iubet, huc contra Altiliusque Lyconque accurrunt paribusque animis certatur utrinque. Dum primam ferus ante aciem movit arma Cetegus ac iaculo ferit Iasium sternitque Volenum, 169

Per il lessema «fervidus ensis» cfr. Sil. 7, 327. Cfr. il sintagma «fatiferum ensem» è utilizzato da Virgilio nel descrivere le armi donate da Venere a Enea (Aen. 8, 621), episodio discusso da Elisio Calenzio nella scena IV, cfr. § 62. 171 La spada di Anco è forgiata nelle acque del fiume infernale come quella di Turno:«ensem, quem Dauno ignipotens deus ipse parenti / fecerat et Stygia candentem tinxerat unda» (Verg. Aen. 12, 90-91). 172 Cfr. «purpuream vomit ille animam» (Verg. Aen. 9. 349). 170

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la spada ardente trapassa il fianco e i lombi di Turno. Traversando lo scudo, il capo e le tempie sino alla gola la superba bipenne di Ufente taglia Assaraco in due. Dall’altro lato Maro e Basso con suo fratello Falisco e il tessalico Maroniade e il lidio Ipseo eran caduti, come il siculo Corace e il mauro Iopa: il fiero Anco con la medesima spada li uccise tutti. Figlio di Vulcano e della etnea Cianea ricevette dal padre una spada letale, dai colpi immedicabili, che era stata immersa dal genitore nelle onde stigie. Mentre Anser balza leggero sopra i rami dell’ontano, una lancia di bronzo, infelice!, gli trapassa la gola; l’arma gli chiude la via del respiro; rotolando, piegato in due con un gorgoglio vomita l’anima: «Avanti!» grida Iarbia «spogliamo delle armi!». Mentre parlava una freccia alata sibilando gli penetrò nella bocca. Suffeno lo ingiuriò dicendo: «Ecco le spoglie, vincitore!» e brandì il giavellotto; gli venne trafitta la destra mentre con il braccio teso tentava di far calare il colpo. Nasce una strage miseranda sopra il corpo di Anser: il nemico brama il corpo e le spoglie di quell’uomo e il nemico non teme per l’onore di affrontare i dardi. Qui, dopo che tutta la legione si è riversata, Cetego comanda di avanzare, qui accorrono Attilio e Licone, da entrambi le parti si combatte con eguale coraggio. Il fiero Cetego mentre muove la prima linea in battaglia ferisce con un dardo Iasio e abbatte Voleno,

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Murano clypeum avellit, transfigit utrunque quercenti femur, ingeminat per viscera ferrum Quintilio atque huda morientem extendit in haerba. Interea per scuta virum, per tela, per enses Altilius ruit infrendens, caput amputat Istro, brachia Segnitio, nares et labra Mecillo, tempora diffringit Catio, prosternit Omasum, Umbritioque haurit iugulum, forat ilia Cosso, praecipitemque inter fossas dat Amintora saxo173. Tum leva de parte Lycon furiatus et amens Quintilio extincto: «Quid tu, generose Cetege, in plebem furis?» exclamat. Cui talia contra ille refert: «O Mavortis praeclara propago, mentitum genus in silvis, quid proelia differs? Est clypeus, sunt tela tibi». Simul iniicit hastam; avertit venientem umbone; ea lapsa pependit Marmarici clypeo; contra venabula torquet dura Lycon; saltu devitat tela Cetegus; illa ocreis illapsa Tagi femora ultima et inguen extremum rupere; cadit Tagus, advolat Ammon elatamque alte subigit per colla securim et caput afligit conto; clamore secuta est laeta cohors; tum tela Lycon, tum saxa Cetegus ingeminat, stringunt acres et cominus enses. interea paulatim acies ac signa movebat Pompeius seque ad ripas non segnis agebat. Ipse ostro insignis humeros auroque coruscus 173 Con questo passo giunge al culmine la descrizione di mirabolanti ferite e morti, ispirata, oltre che all’epica classica, ai cantari: «[...] Qui, sospese per un po’ le trame intertestuali più acute e i richiami all’epica virgiliana e post-virgiliana, sembra proprio il meccanismo canteriro del “ben ferire” a fare le spese dell’ironia pontaniana: diciamo che la satira degli eccessi dell’epos latino si sposa alla derisione dell’ingenuo delirio guerresco-anatomico tipico della letteratura cavalleresca, soprattutto nelle sue oltranze popolaresche» (Gigliucci, Lo spettacolo della morte: 77).

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strappa lo scudo a Murano, colpisce Quercente nelle gambe e con un duplice colpo trafigge Quintilio e lo lascia morente sull’umida erba. Frattanto attraverso gli scudi, i giavellotti, le spade corre Altilio digrignando i denti e mozza il capo di Istro, le braccia di Segnizio, le narici e le labbra di Mecillo, frantuma le tempie di Cazio, stende Omasso, taglia la gola di Umbrizio, fora quella di Cosso, e con un sasso spinge Amintore nel fossato. Allora da sinistra Licone infuriato e folle, ucciso Quintilio, esclama: «Perché, generoso Cetego, infuri contro le seconde file?». A tali parole quello risponde: «Oh splendida stirpe di Marte, è mentita la nascita silvestre: perché ritardi la lotta? Hai anche tu uno scudo e un dardo». E lancia l’asta; lo ferma la borchia dello scudo; pende recisa dal marmarico scudo; Licone lancia in risposta duri spiedi; Cetego con un salto evita il colpo; non li frenano gli schinieri e penetrano le gambe di Tago squarciando l’inguine; cade Tago, Ammone si slancia e alzata l’ascia la spinge attraverso il collo e affigge su una picca il capo mozzato; con un grido festoso lo seguì la coorte; Licone col giavellotto e Cetego con i massi raddoppiano i colpi, e combattono corpo [a corpo. Nel frattempo Pompeo muoveva velocemente le truppe e le insegne e passo dopo passo si avvicinava alla riva. Splendido per la porpora e fulgido nell’oro montava

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fertur equo, quem Neptunni de gente crearat mater ab adversi conceptum flatibus euri.

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Forte ut erat de caede equitum, de caede virorum gessus et extremum servabat Pontius amnem, vidit ut incensa stipula, exagitantibus auris, haeserat arenti trunco vapor; ille volutus per frondes urgente euro conceperat ignes et late ramos fiamma crepitante cremabat. Admovit dextram trunco avulsitque trahendo Pontius et campo rapidus iacit atque ita fatur: «Eure pater, cui pars coeli pulcherrima servit, cui parent aurae Oceani, cui regia solis ampia vacat quique et terris pelagoque sonanti imperitas, quate nigrantem, rex magne, procellam, nunc exerce auras et pennis aera verre, ac mecum insidias hostemque ulciscere victor; sacra tibi ante aras statuam votiva quotannis candentis foetus ovium intactamque iuvencam». Annuit excussitque alas deus. Illicet ingens tempestas coelo exoritur, fremit arduus aether; dant silvae sonitum ingentem cavaque antra resultant; pulvereus sequitur confusa per agmina nimbus dispergitque undas flammarum atque omnia late involvit iactatque furens incendia ventus. Tolluntur coelo fumi glomerataque flamma pervolitat, simul absorbens stirpesque virosque;

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un cavallo che una puledra della stirpe di Nettuno aveva concepito unendosi al vento Euro.249 [Ponzio prega il dio Euro di intervenire in difesa dei sertoriani] Stanco della strage di cavalli e di uomini Ponzio presidiava la parte più lontana del fiume, quando 255 notò che per una stoppa andata a fuoco e agitata dal [vento il calore si era appiccato ad un tronco; al soffio dell’Euro attraversate le fronde aveva appiccato un incendio e ora le fiamme crepitando incenerivano i rami. Ponzio accostò la destra al tronco e spingendo 260 lo recise e lo gettò nel campo dicendo così: «Padre Euro, a te obbedisce la parte più bella del cielo, a te s’inchinano le brezze del mare e per te si spalanca l’ampio palazzo del sole, tu che comandi la terra e il pelago sonante, scatena, grande re, una nera 265 tempesta, agita i soffi, spazza con le ali l’aria e insieme a me vittorioso fai vendetta dei nemici; prometto che ogni anno innanzi al sacro altare votivo ti offrirò un candido agnello e un’intatta giovenca». [Una prodigiosa tempesta di fuoco si riversa sui pompeiani] Il dio annuì e scosse le ali. Subito una tempesta 270 maestosa nasce nel cielo e freme l’alto aere; fremono le selve e riecheggiano i cavi antri; un nembo polveroso attraversa le schiere confuse e disperde onde di fiamme e d’ogni lato un vento furioso involve con le fiamme ogni cosa. 275 Il fumo s’innalza al cielo e le fiamme ammassate volano d’intorno inghiottendo uomini e sterpi; 249

Figlio di Astreo e Eos, l’Aurora, personificazione del vento dell’est.

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et quamvis trepidum canerent iam signa receptum telaque proiicerent dextris clypeosque sinistris, flammatas tamen ante acies evadere non est. Varenum Iasiosque duos, liguremque Labullum, cretensemque Gian, gaditanumque Liertem, assyriumque Naban, pyreneumque Biantem, tris Alcmeonidas et clarum Hypsenora cantu erumpens atra primum de subere fumus involvit, mox flamma rubens una hausit, et alte iactati, mox flagranti cecidere ruina. Constiterat forte ad saxum tardante sagitta Narnius Himbrasius, dumque illam avellere tentat, exanimum exustumque alta suspendit in ulmo fulmineus globus, inde euro torquente rotatus Alconem rapit; huic barba crinisque reluxit, sullatumque alte coelo intulit, inde nigrantem ructantemque ignes medium deturbat in amnem.174 perstridere undae attactu fumumque dedere, ut cum versatum ardenti fornace metallum canduit exceptumque tenaci forcipe tingit ipse lacu faber, effervit lacus, obstrepit unda et fumus petit advolitans nigrantia tecta. Tercentum huic capita hirta boum totidemque iuvencae pascebant Sila in magna; famam ipse secutus deseruit patriam et dulcis cum coniuge natos. Bisseptem Aufidio nati, praeclara iuventus, surrenti domus ampIa, Aequano in litore turris, felices Baccho colles, tot iugera campi totque greges Sarnusque fluens per florida rura.

174 Cfr. «alterius flamma crinesque genasque / succendit; strident oculis ardentibus» (Luc. Phars. 6, 178-179), riscontro segnalato in Gigliucci, Lo spettacolo della morte: 78.

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e per quanto dopo il segnale di un’affannata ritirata avessero gettato armi e scudi liberando entrambe le [mani, non poterono sfuggire alle fiammeggianti schiere. Vareno e i due Iasi, il ligure Labullo e il cretese Gia, Lierte di Cadice, l’assiro Naban, Biante originario dei Pirenei, i tre figli di Alcmeone e Ipsenore, chiaro pel canto, dapprima furono avvolti dal fumo che erompeva dal sughero, quindi una sola fiamma rossa li arse e, gettatoli in alto, li lasciò cadere avvolti dalle fiamme. Imbrasio di Narni si era fermato presso una roccia, rallentato da una freccia, mentre l’estraeva un globo di fuoco lo uccise ed appese il suo corpo incenerito sulla cima di un olmo; quindi ruotando al soffio di Euro afferrò Alcone; accese la barba ed il crine, lo sollevò in alto nel cielo e infine lo lasciò cadere nel fiume eruttando fiamme. Le onde sibilarono al contatto ed emisero fumo, come quanto il fabbro preleva dall’ardente fornace il metallo bianco per il calore e con le tenaglie lo immerge nell’acqua che sibila e stride ed il fumo s’innalza a lambire il nero soffitto. Trecento capi d’ispidi buoi ed altrettante giovenche possedeva egli in Sila; inseguendo la gloria aveva lasciato la patria, insieme alla moglie e ai dolci figli. Aufidio250 aveva quattordici figli, splendidi giovani, una villa a Sorrento, una torre nella spiaggia di Equana,251 colli allietati da Bacco, innumerevoli campi fecondi, innumerevoli greggi dispersi pei floridi campi.

250 Il personaggio può essere identificato con Marino Correale (morto nel 1499), consigliere e cameriere maggiore di Alfonso il Magnanimo, che nel 1458 combatté nella guerra dei Baroni e svolse l’incarico di cameriere della regina Giovanna. L’identificazione è proposta in: Monti Sabia, Il Bellum Sertoriacum: 732, n. 9. 251 L’attuale Vico Equense.

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Et natos tamen et patriam dulcisque recessus Sirenum (potuit tantum ambitiosa cupido) posthabuit. Cui primum oculos flamma abstulit, inde torruit ambustam dextram vento acta favilla; post tortus iaculante euro per viscera truncus canduit, ipse atros spirans de vulnere fumos et Sarni fontem et liquidos reminiscitur amnes. fatidica Ursidio mater praedixit eunti in bellum, «Fuge, nate, ignes, incendia vita». Correptus flammis queritur matremque deosque veriloquos quodque humentem liquisset et Arnum et Fesulas, natale solum florentiaque arva. Tercentum sub rupe cava, sub sentibus aspris, deliterant simul, insidiis delecta iuventus, tercentum simul absumpsit glomerata favillis aura novis; ut cum frondosa in valle sub astrum Pleiadum tacta alta Iovis de fulmine quaercus; uno omnis simul afflatu per pascua circum grex cadit exitioque ruunt armenta sub uno. Ter flammam pedibus pernix evaserat Ufens; infelix ora obvertit, videt aegra trahentem crura patrem exanguemque metu; vestigia retro praecipitat prensumque manu ac cervice reclina impositum trahit et labens incendia virat; improvisum anguem pressit gravis.175 Ille repente implicuit plantae agglomerans; dum se explicat Ufens, dum saevit coluber squamosa volumina torquens, exiliit fumosa vomens incendia turbo absorpsitque Ufentem una colubrumque patremque,176 175 Cfr. «improvisum apris veluti qui sentibus anguem / pressi» (Verg. Aen. 2, 379-380), riscontro proposto in Haig Gaisser, Notes: 385. 176 Come nota Giuglicci nell’episodio di Ufente, «l’espediente del cumulo di orrori, delle moltiplicazioni di vicende tragiche ha una finalità elegantemente comica» (Gigliucci, Lo spettacolo della morte: 78).

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Eppure – tanto poté l’ambiziosa cupidigia! – abbandonò i figli, la patria e il dolce ritiro delle sirene. Le fiamme presero prima i suoi occhi, poi una favilla ravvivata dal vento gli bruciò la destra; quindi, al soffio di Euro un tronco incendiato penetrò le sue viscere e mentre il fumo spirava dalla ferita ricordò il Sarno e le fresche acque. Presaga la madre ad Ursidio che andava in guerra disse: «Evita, figlio, il fuoco, fuggi gli incendi». Afferrato dalle fiamme pianse per aver lasciato la madre e gli dei veraci252 e l’umido Arno e Fiesole, luogo natale, e i floridi campi. Sotto una roccia cava, tra i rovi aguzzi, si nascosero in trecento, giovani scelti, trecento li distrusse in un colpo un globo di fiamma alimentato dal vento; come quando in una valle [frondosa, sotto la costellazione delle Pleiadi, un’alta quercia è colpita dal fulmine di Giove e il gregge che pascola [intorno cade in un istante e perisce di una sola morte. Per tre volte l’agile Ufente era fuggito alle fiamme; voltatosi indietro, infelice, vide suo padre che trascinava la gamba, esangue per il terrore; si precipita indietro, l’afferra e lo trascina sulle spalle ed evita l’incendio che avvampa; calpesta un serpente che non aveva notato; subito stringe le gambe nelle sue spire; mentre la serpe incrudeliva torcendo le squame, si alzò emettendo fiamme un turbinio di fumo ed inghiottì Ufente, il serpente ed il padre,

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In quanto avevano predetto, per mezzo della madre, la sua morte a causa del fuoco.

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Ufentem, quem ceruleis Feronia in antris nutrirat, puer et viridi consueverat umbrae. Hunc sacrum nymphae nemus, hunc flevere Napeae, circaeique sinus, hunc Anxuris ora lacusque Setini et tacitae rupere silentia Amyclae. pervolitat turbo involvens silvasque ferasque; densatur coelum fumo, caligine montes conduntur fluitantque atrae per summa favillae; mox saevi erumpunt ignes, flammaeque coruscant, et coelum lambit rutilans et sidera vortex. Hinc rursus torquente euro per inane volutus incumbit campis, truncosque ambustaque versat robora, candentemque rapit sese ante procellam. Suffenum armigerosque duos eadem aura peremit cum geminis Vargunteiis Libicoque Gulussa. Umbronem, Hisponemque, Lacetanumque Biorem, Hastatosque Numantinos, Nomadumque cohortem, cetratamque manum, praeerat cui Turdulus Iscon, Iscon, avis atavisque genus qui ducit ab Orco; una omnis rapit unda, rapit Varumque Macrumque Gisconemque Siracusium Garamantaque Bocchum, mox raptos flammarum hausit circum acta vorago. Ut cum Trinacriae campis de vertice summo Aetna vomit rapidos aestus, it turbine denso

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Ufente che Feronia aveva nutrito negli antri azzurri, e sin da fanciullo era avvezzo alla verde ombra. Lo piansero il bosco sacro, lo piansero le ninfe napee e il golfo del Circeo, le spiagge di Anxur253 e il lago di Sezze e ruppe il silenzio la tacita Amicla. Il turbine si spande avvolgendo le selve e le fiere; il fumo si addensa nel cielo, la caligine oscura i monti e fosche fluttuano le faville sulle cime; in breve erompe feroce l’incendio e le fiamme s’arrossano e il vortice splendente lambisce il cielo. Quindi, al soffio di Euro, volto indietro attraverso il [vuoto incombe sui campi e sradica i tronchi bruciati e le querce, si precipita prima della rovente tempesta. Il medesimo vento distrusse Suffeno e due scudieri, insieme ai gemelli di Vargunti e il Libico Gulussa, Umbrone, Ispone e il lacetano Biore, gli astati numantini e la coorte numidia, e la schiera scudata, guidata dal turdolo254 Iscone, Iscone che per avi e bisavoli risale ad Orco, tutti ghermisce un solo flutto, ghermisce anche Varo e Macro, il siracusano Giscone e il garamante Bocco, e subito dopo li inghiotte una voragine di fiamme. [Descrizione della tempesta di fuoco, paragonata con l’eruzione dell’Etna]255 Come quando nei campi trinacri dalla sua cima l’Etna erutta violenti bollori e si sparge il fumo 253

Nome antico di Terracina I turdoli erano un’antica popolazione portoghese, menzionati da Strabone. 255 La descrizione dell’eruzione dell’Etna presenta elementi tratti, nella prima parte (vv. 356-363), dal terzo libro dell’Eneide, nella seconda parte (vv. 363-368) dalla descrizione di Pindaro nella prima Pitica, i due brani discussi nella da Elisio Calenzio nella scena IV, cfr. §§ 38-53. 254

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sullatus coelo fumus, mox rumpit in auras flamma furens, volitant rutilae per inane favillae, post iactante noto agglomerans flectitque rotatque huc illuc; ea lapsa faces iaculatur et altis illisa arboribus silvas saltusque vagatur incensos; ruit interea, mirabile visu, flammarum torrens rapidus177 liquefactaque saxa178 praecipitat, simul involvens stirpesque ferasque tectaque pastoresque; furit Vulcanius amnis per valles, per culta; ingens metus urget agrestes vicinaeque suis difIidunt moenibus urbes; haud aliter pavor invasit, fuga coepta per omnis est acies. «Ite,» exclamat Sertorius «ite, Ite citi, vada nota citi pervadi te»; et amnem primus obit. Sequiturque ducem sua quemque iuventus et circumstetit armatus trans flumina miles.

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Forte sub annosa quaercu in convalle silenti arcitenens dea saevarum de caede ferarum Lassa quiescebat, trepido cum excita tumultu surgit et ascendit summi iuga pinea montis. Constitit hic lustrans oculis loca, cernit utramque effusam campis aciem, videt agmina et ipsos hinc illinc instare duces, saevire protervum Eurum atque in mediis volitare incendia silvis, tot strages, tot fumantes et corporum acervos. ingemuit traxitque alto suspiria corde: adventare diem quo dux Nursinus acerbo casurus fato Hesperiis occumberet arvis. Nam puerum tempIo admotum cum sedula mater commendat Triviae atque adytis dea grata recondit,

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177 Cfr. «fonte e Phlegethontis ut atro / flammarum exundat torrens picea que procella» (Sil. 14, 61-62). 178 Cfr. «liquefactaque saxa sub auras / cum gemitu glomerat fundoque exaestuat imo» (Verg. Aen. 3, 575-576).

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nel cielo con un turbine denso, subito una fiamma furente erompe nell’aria e fluttuano le rosse faville, e poi, al soffio del Noto, l’ammasso si volge e ruota qua e là; mentre cade scaglia fiamme e toccando le cime degli alberi le foreste dei pascoli devasta col fuoco; scorre frattanto, mirabile a vedersi!, un rapido torrente di fiamme e i sassi liequefatti precipitano avvolgendo i tronchi e le fiere, le capanne e i pastori; il fiume vulcanico infuria per le valli, per i campi; un grande timore incalza i contadini e le città non si fidano delle loro mura; in questo modo il terrore invade la schiera e tutti cominciano a fuggire. «Via!» esclama Sertorio «Via, di corsa, fatevi strada attraverso il guado ben noto» e per primo andò verso il fiume. Le truppe seguirono i comandanti e l’esercitò si ammassò oltre il fiume. [Diana interviene inviando a Sertorio la ninfa Pirene] Sotto un’annosa quercia, in una valle silente, per caso la dea armata di arco256 riposava, stanca di stragi di fiere selvagge, quando destata dall’affannato tumulto si alzò e salì sulla cima di un monte coperto di pini. Si fermò girando lo sguardo d’intorno e vide entrambi gli eserciti sparsi sui campi, vide le schiere, e i duci da una parte e dall’altra, e incrudelire il protervo Euro e gli incendi diffondersi nelle selve, vide la devastazione, il fumo e le cataste di corpi. Gemette e trasse dal profondo del cuore un sospiro: era imminente il giorno nel quale il duce norcino257 sarebbe caduto nei campi dell’Esperia preda del fato. Quando la madre devota lo portò fanciullo al tempio affidandolo a Trivia258 la dea lo nascose nei penetrali 256 257 258

Diana. Sertorio, originario di Norcia. Epiteto di Diana. Si tenga presente che Sertorio, per

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consuluit fratrem; frater fata abdita pandit: ingentem fore et Ispanis per bella, per enses regnaturum oris, tamen illum haud tarda manere funera, cum pariter flammaeque undaeque faverent pugnanti armatumque eurus prosterneret hostem. Fatorum dea facta memor de valle propinqua Pyrenen iubet acciri; haec nam fida ministra, haec comes, huic omnis thalami quoque credita cura. illa volat, dictis cui sic dea fatur amicis: «Nota, soror, tibi fata ducis, quae certa propinquant; i propera, fac signa retro, fac agmina vertat; pugnatum satis est». Nec plura effatur; at illa in cervam conversa noto non segnior ibat. Ipsa arcum leva stringens dextraque sagittam lunavit, simul ut capita accurvata coirent; laxavit, simul ut flammas elapsa sagitta conciperet. Fulxere aurae, tractu illa corusco emicat, et ducis ante pedes afIixa reluxit. Obstupuit tanto monitu Sertorius. Ecce cerva per attonitas penetrat non cognita turmas. agnovit Triviae famulam dux ac prior inquit: «Nota venis, nec me fallit dea»; quadrupedemque convertit ripae approperans; praecedit euntem Pyrene pedibusque micans et cornibus aureis. signa canunt reditum. Sequitur tum ferrea pubes, Oceanoque egressa polum nox occupat atra179.

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Cfr. Verg. Aen 5, 721 «et Nox atra polum bigis subvecta tenebat».

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e si consultò col fratello259 che le svelò i segreti del fato: 390 sarebbe divenuto un eroe e con la guerra e le spade avrebbe regnato sulle ispaniche rive, ma poi il suo fato sarebbe stato la morte, quando per lui le fiamme e le onde avrebbero combattuto ed Euro sbaragliato i suoi nemici.260 Ricordando il vaticino la dea manda a chiamare 395 da una valle vicina Pirene, fida aiutante e compagna alla quale è affidata la cura della sua stanza da letto. Pirene vola e le dea le parla con parole gentili: «Sorella, ti è noto il fato del duce che ormai s’appropinqua; vai, affrettati, dai il segno della ritirata alla truppa; 400 si è combattuto abbastanza». Non disse altro; ma quella tramutatasi in cerva andava più veloce di Noto. Stringendo nella sinistra l’arco e con la destra una freccia incurvò le estremità sino a farle toccare; lasciò partire il colpo e la freccia scoccata 405 prese fuoco. L’aria s’accese e la freccia nel fulgido tragitto risplendette e brillò conficcata ai piedi del duce. [Sertorio riconosce i segni di un monito divino ed ordina la ritirata] Sertorio rimase stordito ad un tale monito. Ed ecco la cerva, non vista, penetra per le turbe attonite. Il duce riconobbe per primo la serva di Trivia e disse: 410 «Ti riconosco, la dea non mi ha abbandonato». Rivolse in fretta il cavallo verso la riva; lo precedette Pirene splendente, d’oro i piedi e d’oro i corni. Si suona la ritirata. Seguono le truppe ferrate. Nata dall’oceano la scura notte occupa il cielo. aumentare il suo ascendente sulle tribù spagnole, si professava fedele di Diana, divinità con la quale affermava di comunicare per mezzo di una cerbiatta bianca. 259 Apollo. 260 La profezia di Apollo si è dunque avverta, dato che gli elementi hanno combattuto a fianco di Sertorio: il fiume (che ha inghiottito la cavalleria pompeiana dopo che il ponte è crollato), il vento Euro e le fiamme dell’incendio provocato da Pontio.

ASINUS. SCHEMA DEL CONTENUTO

I. Viaggiatore, Oste, Banditore (La notizia della pace) Un viaggiatore bussa alla porta di una locanda nel suburbio napoletano recando la notizia di un accordo di pace tra papa Innocenzo VIII e Ferrante propiziata a Roma dall’intervento di un «poeta» (§ 1); mentre l’oste, rallegratosi per la notizia, sta giocando a dadi con gli avventori (§ 2), sopraggiunge un banditore che annuncia solennemente la pace «procurata» dallo zelo di Giovanni Pontano e la cattura dei ribelli che stavano tramando contro il re (§ 3); dopo aver raccomandato all’oste di festeggiare l’evento, il banditore si allontana; l’oste decide di recarsi a Napoli per verificare in prima persona la notizia(§ 4). II. Oste, Coro di Sacerdoti (I festeggiamenti per la pace e gli scrigni) L’oste, entrando a Napoli, si imbatte in un gruppo di sacerdoti intenti a rendere grazie a Dio con il canto (§ 5); i festeggiamenti per la pace e la notizia dell’arrivo in città di un carico di prostitute siciliane e spagnole rallegrano l’oste il quale, in preda ad un sorta di allucinazione, discute con i suoi «scrigni» (§ 6); dopo aver avvistato da lontano alcuni romei britannici che stanno passando nei pressi della sua locanda, l’oste torna indietro.

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III. Oste, Viaggiatore (I pellegrini irlandesi) Tra i romei britannici l’oste scorge un suo amico, al quale offre il necessario per rinfrescarsi e vini pregiati (§ 7); l’amico illustra all’oste il percorso dei pellegrini, provenienti dall’Irlanda, i quali, dopo aver soggiornato a Roma, stanno proseguendo alla volta di Gerusalemme; dopo uno scambio di facezie sulla paternità dal pontefice, il viaggiatore raccomanda all’oste la preparazione di una cena abbondante per i pellegrini (§ 8). IV. Altilio, Pardo, il Cariteo (Segni di follia nel comportamento di Pontano) In una strada di Napoli, Altilio narra a Pardo le sue preoccupazioni per lo stato di salute di Pontano: il vecchio, improvvisamente «rimbambito», incede per le vie della città cavalcando un asino ridicolmente parato; sopraggiunge un terzo sodale, Cariteo, il quale riferisce che Pontano gli ha chiesto di acquistare una serie di ornamenti per il suo asino (§ 9); Cariteo legge ai due amici la lettera con la quale il Pontano lo ha insignito dello sgradito compito (§ 10); dopo aver definito tale missiva «un puro delirio», Altilio e Pardo decidono di mandare a chiamare Azio per recarsi insieme a lui nella villa di Antignano dove Pontano da qualche giorno risiede. V. Azio, Pardo, Altilio (Sulla collina di Antignano) Mentre sale sul colle, Azio, testimone oculare dei fatti, descrive a Pardo ed Altilio il comportamento ineccepibile di Pontano durante la missione diplomatica a Roma (§§ 11-12); terminato il suo racconto, Azio propone di raggiungere segretamente la villa di Pontano e di osservare il suo comportamento senza essere visti (§ 13). VI. Pontano, Faselione, Pardo (Pontano e le arti agricole) Spiato da Pardo e dagli altri, nascosti dietro una siepe di rosmarino, Pontano espone al suo contadino Faselione le

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premure necessarie per l’arte dell’innesto (§ 14), la coltivazione dei cedri (§ 15) e l’interramento dei piantoni (§ 16); proprio quando i sodali si sono rallegrati credendolo esente dalla follia, Pontano comanda di far venire l’asino. VII. Pontano, Ragazzo, Pardo (Il bagno dell’asino) Pontano e il suo servitore si rallegrano scherzosamente del crepitare e delle deiezioni dell’asino (§ 17); l’asino, di nome Cillaro, assale all’improvviso il servitore (§ 18), ma viene giustificato da Pontano che accusa dell’accaduto l’imperizia del ragazzo; dopo essere stato morso e scalciato una seconda volta, il servitore si allontana imprecando contro la bestia (§ 19); rimasto solo, Pontano comincia a lavare affettuosamente il suo Cillaro (§ 20) ma viene anche egli colpito con un calcio (§ 21); amareggiato dal comportamento di Cillaro, Pontano afferma di aver appreso a sue spese che «chi lava la testa all’asino spreca la fatica insieme al sapone e chi si diletta con gli asini si trasforma in un asino»; come conseguenza di tale insegnamento, decide di sbarazzarsi dell’asino (§ 22). VIII. Faselione, Pontano (La moglie di Caserio) Il contadino, con un pretesto scherzoso (il mutamento di nome da Faselione a Caserio), spinge Pontano a contribuire alle spese per l’acquisto di una casa dove vivere con la futura sposa (§ 23); Pontano dopo avergli donato «tre once d’oro», chiede in cambio a Caserio di poter condividere il talamo nuziale; dopo alcune proteste, il contadino cede in cambio della promessa di numerosi doni (§ 24).

IX. Pontano, Caserio, Pardo (Caserio svela i segreti di Pontano) Pontano, dopo aver avvistato di lontano Pardo, Azio ed Altilio in procinto di entrare nella villa dall’ingresso principale, chiede al contadino di nascondere il loro patto relativo alla condivisione della giovane sposa (§ 25); Caserio,

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una volta raggiunti i sodali di Pontano, svela una per una le follie del suo padrone e il patto osceno siglato tra loro (§ 26). X. Pardo, Sincero, Altilio, Cariteo, Pontano (Pontano accoglie i sodali) Pontano va incontro ai sodali e li invita a discutere con lui in merito alle osservazioni astronomiche intraprese durante i giorni trascorsi nella sua villa, lontano dagli affari e dagli affanni cittadini (§ 27).

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P. SUMMONTI EPISTULA

P. SVMMONTIUS SVARDINO SVARDO FRANCISCO PORTO S.D. Suadentibus vobis meque ad editionem hanc assidue adhortantibus factum est ut prodire iam in lucem non desinant reliqua Pontani monumenta. En vobis dialogus ille ultimus, superiori excusione a me promissus, cuius lepido argumento Pontanus in cuiusdam ingratitudinem clam invehitur. Iustam itaque indignationem mandare literis cum vellet, eam salo huius libelli condiit. Quare absolutis hac editione omnibus qui supererant dialogis, ad reliqua vos accingite; quorum lectionem certo scio longe vobis fore suaviorem quam Antinianaeis e vitibus olim fuerit liquor ille ad quem vos Pontanus sobrios in primis atque abstemios ambos apud Aegidium suum invitavit, quanquam sorbil-

LETTERA DI PIETRO SUMMONTE

PIETRO SUMMONTE A SUARDINO SARDO E FRANCESCO PORTO SALUTE

Mentre voi mi esortavate di continuo a completare questa edizione, le altre opere postume di Pontano, ormai, stanno venendo alla luce. Eccovi infine l’ultimo dialogo, che vi ho promesso nella precedente prefazione, con il quale, grazie ad una parabola spiritosa, Pontano si scaglia segretamente contro l’ingratitudine di un tale.1 E così, volendo mettere per iscritto la sua giusta indignazione, la condì con le salaci invenzioni contenute in questo libretto. Per cui, terminati con questa edizione tutti i suoi dialoghi, accingetevi a leggere le opere rimanenti; tale lettura, ne sono certo, risulterà per voi di gran lunga più soave di quel vino di Anzio che un giorno Pontano, nell’abitazione di Egidio,2 costrinse a bere proprio voi, che siete morigerati ed aste1 Summonte allude ad un’interpretazione dell’Asinus come raffigurazione, indiretta e paradossale, dell’ingratitudine dimostrata da un personaggio di primo piano della corte; su tale questione vd. Introduzione: 48-51. 2 Egidio da Viterbo (1469-1532). Dotto teologo agostiniano, acclamato predicatore, studioso di Platone e accademico napoletano, al quale viene intitolato l’omonimo dialogo pontaniano. Dopo aver conseguito la laurea in teologia a Roma, dal 1499 al 1501 soggiornò a Napoli dove strinse amicizia con Sannazaro e Pontano.

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latione ex ea nunquam vel summa labia intinxistis. Sed nostis quantum liceat rerum scriptoribus. Valete.

DIALOGUS DE INGRATITUDINE QUI ASINUS INSCRIBITUR I. VIATOR, CAUPO, TABELLARIUS.

[1] VIATOR Pacem Romae factam esse aiunt eiusque poetam nescio quem auctorem referunt. Ego quidem poetae huic vel grandiusculo propinaverim. Amabo, meritoriae huius ecqui se caupo, ecqui1 se minister offerat?

1 L’abbozzo riporta la forma «ecquis» (Vat. Lat. 2840, c. 3r); il mutamento nella stampa potrebbe essere dovuto «ad uno scrupolo grammaticale del Summonte: scrupolo ingiustificato perché ecquis in analogo costruzione è autorevolmente documentato (cfr. Plaut. Men. 673 [...])» (Martellotti, Abbozzo: 6); si tratta, dunque, di uno di quei casi dubbi, nei quali si potrebbe riconoscere un intervento di Summonte, vd. Nota al testo.

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mi! Anche se poi in quell’occasione non avete fatto altro che intingere appena le labbra nel vino. Ma, come sapete, agli storici è concessa qualche licenza. State bene.

L’ASINO. DIALOGO SULL’INGRATITUDINE. I. VIAGGIATORE, OSTE, BANDITORE3

[1] VIAGGIATORE Dicono che a Roma è stata firmata la pace e riferiscono che l’artefice della pace è stato non so quale poeta.4 Io, allora, vorrei brindare alla salute di questo poeta grandicello! (bussando con insistenza alla porta della locanda) Di grazia, c’è l’oste di questa locanda, c’è un garzone? 3 A differenza dell’Antonius che si attiene all’unità di luogo e di tempo come previsto nel genere dialogico classico, l’Asinus si caratterizza per la varietà delle ambientazioni. La prima scena si svolge nei pressi di un’osteria non lontano da Napoli, o comunque nei confini del Regno, intorno a mezzogiorno dell’11 agosto 1486. 4 La notte compresa tra il 10 e l’11 agosto 1486 vennero firmati gli accordi preliminari per la pace tra Innocenzo VIII e Ferrante d’Aragona, alleato con il Ducato di Milano e con Firenze (Percopo, Vita: 46). Il faticoso accordo, negoziato da Pontano per conto degli Aragonesi con l’aiuto di un altro umanista, Gian Giacomo Trivulzio, rappresentante del Duca di Milano, metteva fine alla guerra scoppiata nel giugno del 1485, cfr. Cronologia. Giovanni Percopo sostiene che questa prima scena sarebbe ambientata «in un villaggio presso Roma» (Percopo, Vita: 48), mentre Salvatore Monti si riferisce ad «una taverna del suburbio napoletano» (Monti, Ricerche: 816); numerosi elementi portano a ritenere che Monti abbia ragione: il viaggiatore dichiara di volersi affrettare per raggiungere Napoli (§ 1), il banditore riferisce un editto di Ferrante (§ 3), editto che non potrebbe interessare gli abitanti di un villaggio nei pressi di Roma; l’oste, che per altro offrirà all’amico una serie di vini campani (§ 7), decide di recarsi in città «per avere notizie più certe sulla pace e sulle vicende del re» (§ 4), e la città in questione, nella quale tra sono appena giunte via mare delle giovani prostitute «dalla Sicilia e […] dalla Spagna» (§ 5), non può che essere Napoli.

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CAUPO Equidem pacem hanc siticulosam esse Augustus ipse abunde docet. Euge,2 pulverulente, laetare hoc nuntio et offulam hanc pepono3 e suavissimo accipe cyathumque hunc vel tertio ductandum ebibe. VIAT. Ebibo. Da, quaeso, et alterum. CAUP. Pax igitur facta est? VIAT. Pa... pa... pax.4 CAUP. Amabo, resipisce, atque inde loquere; vel pulverem quidem, bellissime homuncule,5 tibi palliolo excutiam. Hauri, puer, et secundum et tertium et quidem recentissimum. Paxne facta est? O bone Laurenti, dies hic tibi sacer est; nuces a me quotannis expectato quam plurimas. Paxne facta est? Anniversarium tibi sacrum cauponarium ex voto statuo. O misellam cauponam! Ecquandone mihi frondenti apio, laureo redimitas serto exteriores foris, internas cellulas liceat coronare? Verum ego sum stultior, occidente iam sole, diem qui ad exortum revocem.6 VIAT. Atqui felicissimum tete ipsamque cum primis tecum cauponam dicito: pax diem instaurabit. Pacem in 2 Intercalare adoperato di frequente da Plauto (24 occorrenze) che ricorre cinque volte nell’Asinus. 3 Nell’abbozzo Pontano oscilla tra la forma classica «pepono» e quella «melone»: «[Pontano] aveva cominciato a scrivere e suavissimo pepono; corresse subito in suavissimo e pepono; poi in suavissimo e melone; infine in pepono e suavissimo, dimenticando per altro di ripristinare il primo e, già cancellato, e di cancellare il secondo» (Martellotti, Abbozzo: 8, n. 3). 4 L’Asinus si apre con una tessera plautina, tratta dal finale dello Stichus: «Il balbettante pa... pa... pax dello stracco e sfiatato Viator, nella scena di apertura del dialogo [...], e il compiaciuto pape! del Caupo alla notizia che i nemici dello stato erano finalmente stati debellati e la pace (e i guadagni!) tornavano nel Regno [...] [cfr § 3] non possono che venire dal babe tate pape pax di St. 771 (si tratta del frizzante scambio di esclamazioni tra i servi Stico e Sagarino impegnati nel piroettante finale della commedia» (Cappelletto, Lectura Plauti: 97). 5 Cfr. Plaut. Capt. 50, Rud. 153; Trin. 490. 6 Nell’abbozzo la battuta si conclude nel modo seguente: «Lauream spectato ipsis in tabellis sero» (Vat. Lat. 2840, c. 3).

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OSTE (aprendo la porta) Che questa pace sia assetata lo mostra in abbondanza il fatto che siamo in Agosto. Bene, uomo polveroso, rallegrati di questa notizia; ecco, prendi una fetta di questo dolcissimo melone e bevi alzando tre volte al cielo questa coppa. VIAG. Ben volentieri! (beve) Dammene una seconda, ti prego. OSTE Quindi la pace è stata fatta? VIAG. Pa... Pa... pace. OSTE Prima torna in te, di grazia, e poi parla; io scuoterò la polvere dal tuo mantello, caro elegantone... Ragazzo! Versa una seconda e una terza coppa di quel vino novello. Dunque la pace è stata fatta? Oh buon Lorenzo, questo è il giorno a te consacrato; aspettati da me ogni anno in dono... un bel niente.5 Dunque la pace è stata fatta? Faccio voto di dedicarti ogni anno una festa degna di un oste. Povera tavernuccia mia! Quando mai mi sarà concesso ornare con ghirlande di verdeggiante prezzemolo le stanzette interne, addobbate all’esterno con corone di lauro?6 Ma sono davvero sciocco a ricondurre il giorno all’alba, mentre ormai il sole ha iniziato a declinare. VIAG. Al contrario dovrai dire che sei fortunato e insieme a te fortunata è l’osteria: la pace farà ripetere questo

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Letteralmente «un gran numero di noci», espressione che indica un oggetto di poco valore. 6 L’oste immagina una sorta di rito carnascialesco nell’ambito del quale la sua locanda, ogni 10 agosto, sarà ornata con corone di alloro e di prezzemolo.

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foribus atque in tabella pingito. Lucrum tibi vinarium emolumentumque pulmentarium omnis generis, ingens, largum opulentumque augurator. Eveniet, mihi crede, eveniet.7 Tu tibi bene habe cupasque ex urbe comportato huc vinarias, fac rideant fores, effice ut omnis et domus et hortus renideat. Pax haec imperat pacisque amicus Euhyus,8 cauponae ipsius atque cauponantium pater. Ego Neapolim propero, triente exucto. [2] CAUP. Bene mihi fore pace ex hac et libens volo et libentius auguror. Agite, qui adestis, ministri, cyathos eluite. Socii, talos iacite, hilaremus diem hunc paci. Adest quaternio: quarto tibi potandum edico. Adest rursum quaternio: rursum tibi ductandum hoc est, udum, rorans generoso e palmite. Ah! ah! cecidit canis. Tu quidem ipse sities, ut illa est siticulosa, hoc ipso praesertim tempore. En iterum canis allatravit, licet siti conficiare tam male fortunatus qui sies. Euge, euge tibi, caupo, adest senio; adest rursum et senio: mihi augurium hoc promitur, mihi ductandum est, vel septies quidem, decies iterato ductitabo, quippe qui valentibus pedibus, capite valentiori utar; compleamus hilariter numerum. At, at utorne ego recto oculis? Agglomerarine ego pulverem video agitatu equino? An ventus, meridiano tempore exciri e mari qui solet, illum exagitat? Equus certe est, quin equo satelles vehitur. Arrigite aures, inflatne iam buccinam?9 Inflat profecto, regius est tabellarius;

7 Nell’abbozzo si legge una battuta in seguito cassata: «Puer in scholis a grammatico accepi, Bacchum paci iure conciliatur: pax meritoriis gaudet: letatur cauponantibusque aderit mihi crede Bacchus et paci auctori cultoribus: diversatur in caupona hac, nihil est illi meritoria: vinariaque suavius» (Vat. Lat. 2840, c. 3r). 8 Appellativo di Bacco piuttosto ricercato, cfr. Lucr. 5, 743; Hor. Carm. 1, 18, 7 e 2, 11, 17; Stat. Ach. 1, 615, Theb. 4, 746. 9 Nell’abbozzo Pontano adopera il termine «cornum» (Vat. Lat. 2840, c. 3v).

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giorno. Fai dipingere la pace sopra la porta e su di una tavoletta votiva. Prevedo per te un guadagno dal vino e un profitto smisurato e grasso da ogni genere di cibo! Sarà così, credimi, sarà così. Tieniti pronto, fatti portare delle botti di vino dalla città qui vicino, fa’ che la porta rida, fai in modo che tutta la casa e il giardino risplendano. Questo comanda la pace, questo comanda Bacco Evio,7 amico della pace e padre degli osti. Ora che ho tracannato tre volte mi affretto verso Napoli. (parte) [2] OSTE Che le cose mi andranno bene grazie a questa pace lo desidero ardentemente e me lo auguro ancor più ardentemente. Ragazzi, muovetevi, venite qui e lavate i bicchieri. Amici, lanciate i dadi, rallegriamo questo giorno in onore della pace! Hai fatto quattro: stabilisco che tu beva quattro volte. Ancora un quattro! Devi tirare di nuovo, un tiro da ubriaco, madido di vino generoso! Ah ah! ti è uscita la cagna!8 Anche tu soffrirai la sete, come lei che è sempre assetata, soprattutto d’estate. La cagna ha ululato di nuovo! La sete finirà col consumarti, sfortunato come sei. (gettando egli stesso i dadi) Bene, Bene, oste, hai fatto sei! È ancora sei!È un buon segno, devo tirare di nuovo, tirerò ancora sette o dieci volte, chi ha buone gambe ha buona testa; completiamo allegramente la giocata. Ma, ma... ci vedo bene? Quella che vedo è forse polvere sollevata dall’incedere di un cavallo? Oppure la agita il vento che a mezzogiorno è solito alzarsi dal mare? È senza dubbio un cavallo: lo cavalca una guardia reale. Drizzate le orecchie, non sta forse suonando la tromba? Ma

7 Epiteto di Bacco, dal grido di giubilo evoè intonato dai partecipanti ai culti dionisiaci. 8 La cagna indica il punteggio più basso nel gioco dei dadi.

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poculum homini et frigidum et generosum praeparemus. Adventat; et equum calcaribus stimulat et inflavit iam cornu; buccinam buccinatorem, nec unquam quidem vidi buccinatius inflare; et inflat et cachinnatur et interim praeconium vocalissime enuntiat. [3] TABELLARIUS Captos iam scitote... CAUP. Quid captos? Auscultemus. TAB. ... qui regem prodiderunt, qui regium nomen evertere ab imo, cum ipsi infimo e loco prodiissent, conati sunt. Salvus est rex, salva patria, salvus est Alfonsus, qui salutem comparato exercitu, obsessa Roma, nobis peperit. Hilarem hunc diem facite, noctem multo hilariorem. Effulgeant ignes summis aedium culminibus, etiam quam creberrimi. Convivia ipsis in propatulis celebrentur. Demum laeta sint omnia, confecta pace ac duce ipso viatore cum exercitu domum redeunte. CAUP. Age, age, bone hospes, equum siste, potita, aestas est, pulverulenta sunt omnia, refrigera et pulmones et guttur. TAB. Nunquam, quod meminerim, nivosius. Obsecro te, poculum itera.

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sì, sta proprio suonando la tromba: è un banditore del re; prepariamogli un bicchiere di vino fresco e generoso. Si avvicina; sprona il cavallo e suona la tromba; non ho mai visto un trombettiere suonare la tromba più trombettescamente! Suona, il popolo lo acclama,9 e nel frattempo pronuncia il suo bando con voce sonora. [3] BANDITORE Ascoltate: sono stati presi... OSTE Chi è stato preso? Sentiamo. BAND. ... quanti tradirono il re, quanti, pur provenendo da infimi luoghi, tentarono di distruggere dalle fondamenta il nome regale.10 Il re è salvo, salva è la patria, salvo Alfonso,11 che, a capo del suo esercito, assediata Roma12, ha procurato la nostra salvezza. Festeggiate questo giorno e festeggiate ancor più durante la notte. Splendano i fuochi sui tetti delle case e che siano frequenti. Si celebrino conviti anche all’aperto. Insomma ogni cosa sia lieta: la pace è siglata e il comandante è in cammino con l’esercito sulla via del ritorno. OSTE Bene, bene! caro ospite, ferma il cavallo; (porgendo un bicchiere al banditore) bevi, è estate, tutto è ricoperto di polvere: rinfresca i polmoni e la gola. BAND. (dopo aver bevuto) Non ho mai bevuto qualcosa di più fresco! Ti prego, dammene ancora un pochettino. 9 Il banditore giunge nei pressi della locanda circondato da una piccola folla di contadini, richiamati nello spiazzo al centro del villaggio dal suono della tromba. 10 Il banditore annuncia la cattura del primo ministro Antonello Petrucci e di altri funzionari di corte in combutta con i baroni, avvenuta il 13 agosto 1486 (cfr. Kidwell, Pontano: 192, con relativa bibliografia). 11 Le operazioni militari erano state affidate, come in altri casi analoghi, ad Alfonso II d’Aragona, primogenito di Ferrante, che operava in stretto contatto con Pontano, suo precettore e uomo di fiducia, cfr. Cronologia. 12 Nel giugno del 1486 le truppe fiorentine, milanesi ed aragonesi si erano accampate a cinque miglia da Roma, tenendo il papa sotto pressione durante le lunghe trattative di pace (cfr. Percopo, Vita: 45-46).

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CAUP. Et quidem ampliusculum. Sed amabo, bone, postquam refrigeratus, qui tantum insperati affers, ut certum affers? TAB. Captos sceleratissimos homines, ut reos capitis, ut patriae hostes, ut maiestatis convictos.10 CAUP. Pape! TAB. Iam de illis capitis sententia aut fertur aut lata iam est. CAUP. Luant ipsi meritas poenas, quando publicam rem tam male habuerunt, ut pene regnum onme cum ipso rege liberisque pessum ierit. De pace quid autem? TAB. Nostisne Iovianum Pontanum? CAUP. Quidni noverimus? Hominem ubique notum, quippe qui paucis ante diebus de itinere ac valitudine fessus, Romam conficiendam, ut nunc sentio, ad pacem, illic ab Innocentio,11 Alfonso hinc arcessitus, meridianus hic conquieverit; et quidem miserati sumus, qui hic tunc

10 Nella stampa viene eliminato il riferimento esplicito ad Antonello Petrucci e Francesco Coppola che si legge nell’abbozzo: «Captus Antonellus Petrutius a secretis, catpus Franciscus Coppola a thesauris atque ab omni regio censu. Cau. Quid. capti? Eq. Capti iam: ut rei capitis: ut patriae hostes; ut Maiestatis convicti» (Vat. Lat. 2840, c. 4v). «La menzione esplicita dei congiurati è comprensibile a non molta distanza dal fatto, quando ancora duravano le animosità della lotta politica e l’entusiasmo del successo. Si capisce che essa sia stata evitata più tardi quando quegli avvenimenti erano visti, in altra prospettiva, più da lontano» (Martellotti, Abbozzo: 5). 11 Nell’abbozzo non viene nominato Innocenzo VIII («a pontefice», Vat. Lat. 2840, c. 4v).

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OSTE Anche più di un pochettino. (gli porge un secondo bicchiere) Ma, di grazia, buon uomo, ora che ti sei rinfrescato dimmi, tu che ci arrechi una notizia tante insperata, ce l’arrechi per certa? BAND. Sono stati catturati quegli uomini scelleratissimi, colpevoli di pena capitale, nemici della patria e rei di lesa maestà.13 OSTE Oibò! BAND. La condanna a morte viene pronunciata in questo istante oppure è imminente. OSTE Scontano una pena meritata dal momento che hanno danneggiato gravemente lo stato portando l’intero regno sul punto di andare in rovina insieme al re e ai suoi figli. Ma cosa mi dici della pace? BAND. Conosci Giovanni Pontano? OSTE E perché non dovremmo conoscerlo? Si tratta di un uomo molto noto e poi, pochi giorni fa, stanco dal viaggio e malandato, si è fermato qui a riposare a mezzogiorno; era stato convocato a Roma da Innocenzo e da Alfonso allo scopo, come ora sento dire, di concludere la pace;14 tutti noi che eravamo presenti abbiamo provato 13 Il processo ai Baroni ribelli e ad Antonello Petrucci ebbe inizio il 20 agosto 1486; nonostante gli imputati si difendessero dall’accusa di alto tradimento invocando l’autorità del Papa, formalmente feudatario del Regno di Napoli, il procedimento si concluse nell’ottobre di quell’anno con la condanna a morte di Antonello Petrucci, del Conte di Sarno e di numerosi altri nobili. Nell’ambito di una serie di ulteriori arresti che si protrassero sino a fine anno, a partire dal maggio del 1487 si procedette alle prime esecuzioni capitali, tra le quali si annoverano quelle di Petrucci e di Coppola (Galasso, Il Regno di Napoli: 711-713). Pontano, in qualità di nuovo segretario regio, redasse e sottoscrisse la lettera indirizzata da Napoli il 6 luglio 1487 a Eleonora d’Aragona con la quale Ferrante giustificava il suo operato: Corrispondenza: 383-385, n. 445. 14 Pontano, a differenza di quanto era accaduto in altri casi, non accompagnò Alfonso durante le operazioni militari perché si trovava infermo a Napoli; al momento di intraprendere le difficili trattative diplomatiche, tuttavia, il Duca di Calabria lo fece chia-

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affuimus, senis imbecillitatem ac male valentem habitum, ut qui itineri satis non esset, his praesertim caloribus.12 TAB. Dii ipsi, ut omnes praedicant atque ut rex ipse testatur, seni et quidem valitudinario affuere; pacem enim ita confecit, ut regi salva sint omnia; quae amissa prope iam erant, procerum perfidia administrorumque iniquitate. Vos autem et paci et patriae propugnatori, qui pacem populis virtute sua peperit, exornate et porticus et compita diesque festos agite. Mihi alia ad oppida properandum est publicae laetitiae gratia; rex, patriae

12 Nell’abbozzo «dopo che per la prima volta si è fatto il nome del Pontano [...] il susseguirsi di cancellature attesta la preoccupazione dell’autore di raggiungere, nella presentazione di se stesso, un ben preciso tono di autoironia» (Martellotti, Abbozzo: 7). In una primissima stesura, infatti, il tono è solenne: «hominem ipsis etiam barbarisi notissimo», «propter literas satis notum» (Vat. Lat. 2840, c. 4r).

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pena per la debolezza del vecchio e il suo aspetto malandato, come se non fossero sufficienti i disagi del cammino, soprattutto con un caldo come questo. BAND. Eppure, come tutti dicono e come testimonia lo stesso re, gli dei hanno assistito quest’uomo vecchio e per giunta malato; egli, infatti, ha stabilito la pace in modo che i beni reali sono tutti salvi, quei beni che a causa della perfidia dei nobili e della malvagità degli amministratori erano quasi perduti.15 Voi, dunque, in onore della pace e del difensore della patria il quale, con la sua virtù, ha procurato la pace al popolo,16 adornate i portici e le strade e festeggiate. Io devo recarmi in altri villaggi ad annunciare la buona notizia. Questo comanda il re, padre della patria e mare (Percopo, Vita: 46) confidando nella sua esperienza e nei suoi ottimi rapporti con il pontefice. 15 Tale allusione ai risultati disastrosi dei suoi predecessori trova un corrispettivo nella nota lettera di dimissioni indirizzata a Ferrante il 26 aprile del 1492: «Furno li ministri Vostri in tempi passati, messer Antonello lo sfortunato [Antonello Petrucci], messer Antonello d’Anversa, lo consigliero inrefragabile, el conte di Malatuni [Diomede Carafa]: certamente tutti homini degni e ben remunerati. Fecero assai bene in Vostro servitio, ma in effetto fecero per loro. [...]. Nullo di loro gran maestri ha fatto quel che forse ho facto io, solo et abandonato, et come io l’ho fatto, Voi lo sapete et remettome al Vostro iuditio» (Lettere: 42). 16 Sebbene l’espressione sia ambigua (il banditore, secondo un principio di verosimiglianza, dovrebbe riferirsi ad Alfonso o a Ferrante) ritengo che il difensore della Pace vada identificato nello stesso Pontano. Questo brano, d’altronde, come i passi analoghi che si leggono nel De prudentia e nel De sermone, ha lo scopo di rivendicare l’importanza del proprio ruolo politico-diplomatico. Al contempo, l’insistenza sul tema della pace (condotto, sia pure, in un registro serio-comico) allude all’importanza rivestita da un compresso stabile tra gli Aragonesi e lo Stato della Chiesa, indirizzo politico avversato da molti a corte e rivendicato da Pontano nella già citata lettera di dimissioni: «Vostra Maestà conosce et ha provato le differente co Papa esserli affannose non senza suo danno et infamia; et, per contrario, lo stare bene con li pontifici esserli stato con utile e reputazione» (Lettere: 39-40).

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pater publicorumque bonorum auctor, hoc sic imperat. Valete, compotores valentissimi. [4] CAUP. Et tu nuntii tam auspicati auspicatissime auctor, propera, ut pacem populis promulges, ut nos, qui ad mendicitatem prope redacti ob bellum sumus, nuntio hoc ab inopia vendicatos bees. Dii tecum eant duces et comites. Mihi certum est e suburbano in urbem properare, certiora illic de pace regisque rebus ut intelligam. Et iam, ut video, agrorum quoque facies immutari coepit, nescio quomodo aer ipse laetiora promittit. Ego quidem somnis ipsis fidem vel maximam censeo adhibendam, quando noctibus his equos in boves verti,13 castaneas arbores abire vinarias in cupas somnians viderim, quid? Somnians haec viderim? Fictile ministranti mihi aureum factum qui senserim, mox monetarium ad magistrum perlatum in numos fluere aliumque ex alio numum gigni confestimque in cumulum congeri meque eo cumulo obrui! Coniectores quidem ipsi somnium sibi coniiciant ut volunt, mihi profecto paci magis creditur. Abeo in urbem. Vos domum exornate, qualem et pax exigit et somnia haec ipsa volunt.

II. CAUPO, CHORUS SACERDOTUM [5] CAUP. Quod mihi meisque contubernalibus felix ac faustum sit, deorum supplicationibus urbem occupatam invenio; quam laeta populi frequentia! Quam canorus sacerdotum chorus!

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Cfr. il sogno di Giuseppe, nel libro della Genesi (41, 2-4).

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autore d’ogni pubblico bene. Addio, gagliardissimi bevitori. [4] OSTE E tu, latore attesissimo di una notizia tanto attesa, affrettati per annunciare la pace ai popoli e rendere felici e liberi dalla povertà con il tuo annuncio noi che siamo stati quasi ridotti sul lastrico a causa della guerra. Che il Cielo ti accompagni e ti guidi! (tra sé) Ho deciso: lascio il villaggio e mi reco in città, per avere notizie più certe sulla pace e sulle vicende del re. Ecco, mi sembra che i campi stessi stiano mutando il loro aspetto, non so come ma l’aria stessa promette eventi lieti. Io credo di dover dare la massima fiducia ai miei sogni, dal momento che le scorse notti ho visto in sogno i cavalli mutarsi in buoi e i castagni, mutati in vigne, entrare nelle botti. Dunque? Non ho forse visto queste cose in sogno? Mentre servivo da mangiare con vasellame d’argilla mi accorgevo che questo si tramutava in oro, poco dopo, una volta portato l’oro dal capo della zecca, veniva tramutato in denari d’oro e da una moneta d’oro ne nasceva un’altra, e subito si radunavano in un mucchio che crescendo mi soffocava! Gli indovini interpretino questo sogno come credono, per me riguarda senza dubbio la pace. Vado in città. (rivolto verso l’osteria) Voi ornate la casa come merita la pace e come questi sogni mi suggeriscono a fare. II. OSTE, CORO DI SACERDOTI17 [5] OSTE Dal momento che le cose vanno secondo gli auspici per me e per i miei concittadini, trovo la città impegnata a ringraziare il Cielo. Quant’è lieta e numerosa la folla! Quanto è armonioso il canto dei sacerdoti!

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La scena si sposta all’ingresso della città di Napoli, nei pressi delle mura.

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CHOR Pacem coeli rector populo pacem terrae tutor peperit. CAUP. O bene ominatum carmen! CHOR. Nobis pacem, nobis ocium pacis nobis auctor retulit. CAUP. At meritoriae meae lucrum et voluptatem et dapinationes opiperas! O me beatum! Aderunt frequentes lenonum puellae, aderunt earum sectatores, novitii satellites. Et iam audio Sicilia Hispaniaque ex intima advectum florem scortillorum, recentissimum quidem Venereum mercimonium urbanaeque iuventutis illecebras atque allectamenta, meum merum solidum cuppedinariumque peculium. Agite, sacerdotes, pacem concinite, pacem diis immortalibus acceptam referte. Ego profecto compotoribus ganeonibusque meis omnibus ita me comparabo uti basilicas apud me comessationes basilicumque me cauponem experiantur, praedicent, in coelum efferant. CHOR. Pacem rura, pacem praedia, pacem tecta et urbis sentiunt. Virgo, plaude, nuptae plaudite, paci rite, matres, plaudite [6] CAUP. Mihi quidem loculis plaudendum est meis. Ut gestitis, inanissimi! Ut animo agitatis aureolos illos Venetillos! Hosne mavultis an Florentinulos illos ampliusculos, picturatulos, hieme etiam media pernorescentes? An Oceano vectari cupitis aurea navicula, aureo malo, velis etiam aureis? Et hoc quoque praestabitur, ut in continenti

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Pace diede il Re del Cielo al popolo, pace sulla terra diede il Custode celeste. OSTE Oh canto benaugurante! CORO A noi restituì il Creatore l’ozio, la pace a noi restituì il Creatore. OSTE E alla mia osteria restituì il guadagno, il piacere, i banchetti sontuosi! Oh me beato! Verranno numerose le ragazze dei lenoni, verranno i clienti abituali e i novellini. Sento dire che dalla Sicilia e dalle regioni interne della Spagna è giunto il fiore delle giovani puttane, un nuovissimo carico di merce venerea; un’attrattiva irresistibile per i giovani della città, per me un’entrata garantita e un succulento guadagno.18 Continuate, sacerdoti, cantate la pace, diffondete il nome della pace, rendetelo gradito al Cielo! Da parte mia mi occuperò di tutti i miei debosciati clienti in modo tale da far loro dichiarare e sostenere con alte grida che presso di me si trova la reggia dei beoni e che io sono il re degli osti.19 CORO Pace sentono i campi, pace i poderi pace i tetti e le città. Vergine esulta, esultate spose! Secondo il rito madri esultate! [6] OSTE Io invece devo esultare per i miei scrigni. Sciocchi scrigni, come scalpitate! Come agitate nell’animo i cari zecchinucci d’oro veneziani! O forse preferite le monetine fiorentine, un poco più grandine e ornate di incisioni tanto belline, che fioriscono anche nel bel mezzo dell’inverno? O forse preferireste attraversare l’Oceano su una nave tutta d’oro, con un albero d’oro e le vele d’oro? Anche questo vi sarà concesso: mentre camminate nel continente solcherete CORO

18 L’Oste si interessa al carico venereo giunto dalla Sicilia e dalla Spagna in quanto le prostitute erano solite aggirarsi per le taverne malfamate, aiutando indirettamente le consumazioni; per una raffigurazione di tali ambigui ritrovi si vd. Ant. § 79. 19 Il personaggio comico dell’Oste sembra impersonare una sorta di Re del carnevale (per il topos del mondo alla rovescia nell’Asinus cfr. Haywood, “Iter asinarium”: 736-737).

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deambulantes Britannicum secetis pelagus. Agite, loculi, capite iam auras, quis sinum impleatis. Et iam, ut video, Oceano libare gliscitis. Verum agite, inspicite, noscite; Britannine hi sunt quos Roma profiscentes divertere hanc ad meritoriam video? An me oculus fallit? Profecto vestitus ipse Britannici generis eos indicat. Accedam propius; quin Britannissimi quidem ipsi sunt. Vobis et urbem et cantum, sacerdotes, relinquo; mihi quidem Oceano cauponariam rem facere decretum est, ut hodie aureola cymba piscator Britannico in freto aureum etiam rete in profundum iaciam. Heus, pueri, Bacchum in iudicium ad praetorem vocate. Dormientem tamen illum somno ne excitetis iubeo, quin Vernaciolo illum cado includite, ne somno experrectus, Britannicumque forum ac Britannum iudicem timens, fugam arripiat; nam et horrida vox sermoque ipse horridior deterrere illum abunde potest. Tu quidem concinere illos iube, quo aut somnus Baccho fiat suavior aut illo excitus ac suavitate cantus delinitus ludere argenteum ad poculum cum illis cupiat. Et id quoque praestate, pueri, ut nostro in penu sit qui Graece, qui Corsice, qui Ligustice sciat, etiamnum qui Cretice.

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il mare britannico.20 Avanti, scrigni, spalancatevi, saziatevi il ventre. Ardete, lo vedo, dal desiderio di assaggiare l’Oceano. Ma, su!, guardate, guardate bene; non sono forse Britannici quei viandanti laggiù che, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, stanno per sostare presso la mia locanda?21 Se gli occhi non mi ingannano il loro modo di vestire denota un’origine britannica. Mi avvicinerò; sono britannicissimi! Sacerdoti, vi lascio il canto e la città. Era destino che dovessi fare affari nell’Oceano: oggi, come un pescatore, su una barchetta d’oro getterò una rete d’oro nello stretto di Gibilterra.22 (rivolto ai suoi garzoni) Ehi! ragazzi, portate in giudizio Bacco presso il pretore. Sta dormendo: vi ordino, per non svegliarlo, di rinchiuderlo in un orcio di Vernaccia. Se si svegliasse, temendo un tribunale britannico e un giudice britannico, si darebbe alla fuga: quelle loro voci orrende e la loro lingua, che è persino più orrenda delle loro voci, potrebbero spaventarlo ben bene. Tu comanda loro di cantare, per addolcire il sonno di Bacco oppure per fare in modo che il dio, richiamato dal canto, desideri giocare con il bussolotto d’argento. E voi, ragazzi, fate in modo che nella nostra cantina ci sia chi parla il Greco, chi il Corso, chi il Ligure e chi ancora il Cretese.23 20 Nelle sue fantasticherie l’oste introduce il tema del viaggio, centrale nella prima parte del dialogo (scene I-III), cfr. la lettura di Haywood che interpreta tutto il dialogo, caratterizzato «da un continuo viavai di persone», «sotto il segno del viaggio» (Haywood, “Iter asinarium” : 735). 21 Pontano, disinteressandosi della verosimiglianza, immagina che l’Oste avvisti dalla porta della città un gruppo di pellegrini britannici diretti verso la sua osteria. Per l’oste è possibile riconoscere la loro provenienza in quanto i romei, ovvero i pellegrini diretti verso Roma, indossavano dei speciali contrassegni. Nella scena II al § 8 si chiarirà il percorso di tali pellegrini che, dopo aver visitato Roma, proseguono il viaggio nel Sud d’Italia (l’Abbazia di san Leonardo sui monti Apuli e la chiesa di san Nicola di Bari) per poi imbarcarsi alla volta di Gerusalemme. 22 La scena si sposta nuovamente nei pressi della locanda. 23 La metafora indica scherzosamente le tipologie di vino presenti nella cantina della locanda.

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III. CAUPO, VIATOR [7] CAUP. Antiquum et notum amicum peregre advenientem ut libens video, ut mihi iucundum est ipsum et complecti et alloqui! VIAT. At ego benivolentem compotorem invenire valentissimum et laetor et habeo diis gratiam. CAUP. Quam cum stomacho bene? VIAT. Lupum in ventriculo gero. CAUP. Ut cum siti? VIAT. Exaruere pulmones calore et pulvere. CAUP. Pueri, expeditissime afferte quo sitim levet, heus, expergiscimini. VIAT. Atqui consilium est prius pulverem pallio excutere. CAUP. Date linteolum, ministrate frigidulam, qua et os et labra et faciem totam perluat. VIAT. Ut me recreasti pocillo hoc crystallino! Nihil vidi unquam hoc ipso limpidius. Ut in eo salit nigellum tuum! An, ut puto, est Casorianum ? CAUP. Reluite, pueri, pocula; miscete recentiusculum illud intimo e penu. Afferte, Centuresium hoc est. Cape, benivolentissime homo, labra delibatim pertinxeris, pedes illico sentient. Mihi crede, illo in dolio Bacchus cum vere lusitat, totum adeo doliolum flos est merus. VIAT. Atqui putarim eo e dolio aurum scaturire; aurum profecto liquentissimum digitis teneo; fusile quidem hoc

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III. OSTE, VIAGGIATORE [7] OSTE Vedo volentieri che tra loro c’è un amico di vecchia data che viene da lontano, come è bello per me abbracciarlo e parlare con lui! (lo abbraccia) VIAG. Ed io mi rallegro e ringrazio il Cielo di ritrovare un validissimo compagno di bevute. OSTE. Come sta il tuo stomaco? VIAG. Ho un lupo nelle viscere! OSTE E la tua sete? VIAG. I miei polmoni ardono per il caldo e la polvere. OSTE Ragazzi, portate subito qui qualcosa per levare la sete, forza, sbrigatevi! VIAG. Preferisco prima ripulirmi dalla polvere. OSTE Dategli un asciugamano, porgetegli un po’ d’acqua fredda perché si possa sciacquare le labbra e il volto. (il viaggiatore si lava e l’oste gli porge un bicchiere di vino) VIAG. Mi hai proprio rimesso al mondo con questo bel bicchiere cristallino! Non ho mai visto un bicchiere più limpido di questo. Come ci spumeggia il tuo bel rosso! (restituendo il bicchiere all’oste) Ma, dimmi, è di Casoria?24 OSTE Ragazzi, pulite i bicchieri, versate il vino novello, quello che si trova in fondo alla cantina. Portatelo qui: è un vino della mia riserva.25 Prendilo, caro mio, non appena vi avrai intinto le labbra per assaggiarlo sentirai il suo effetto nelle gambe. Credimi, in quella giara Bacco scherza con la Primavera: la giara è tutta un profumo. VIAG. Ma io pensavo che da quella giara scaturisse l’oro! Tengo fra le dita l’oro liquido: è l’oro fuso, che, 24

Vino pregiato, bianco e rosso, prodotto nell’omonimo comune, attualmente in provincia di Napoli. 25 Il termine utilizzato da pontano è il neologismo centuresium che interpreto come vino di riserva (dal centuria), ovvero, in termini moderni, “millesimato”.

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est et potatile, ut dicunt; labellatim profecto ducam, non uno haustu. Euge, Bacchi deliciolum! Anima mihi ipsa congeminata est olfatu solo; viden ut ipsum aurum aurescit in cyatho? Anima mihi ipsa trigeminata14 est labellatu uno. CAUP. Salve, mi Geryones, salve, hospes Atlantice. VIAT. Quid mirum triplicem me factum, si Centuresium potito, si tuum istud mihi penu Atlanta est ipsa, illa beatorum insula? CAUP. Ah! ah! ah! Delinge, amabo, et hoc (iniuriam enim si hauseris, cadillo feceris) et quidem substrictissimis labris; Fastinianum hoc est, merum quidem Fastinianum, reliquiae non cadi modo huius, verum totius Campani penoris. Itaque sublibare te illud et quidem haustillatim volo. VIAT. An forte verendum est ne hodie Fastinianum hoc tuum nobis exhibeat negocium? Scis quam mihi non placeat fastus. Et hos quidem ipsos vereor Hibernici generis homines, fastum in naso qui gerunt. 15 [8] CAUP. Nihil Fastiniano hoc tuo suavi moratius est, rixas mirum est quantopere fastidiat, somni solius amicum atque blandiquentiae. Sed amabo, Hibernine sunt hi? VIAT. Quin horum aliquot Scotia nuper ab ultima Romam devecti. CAUP. Quaenam adventus causa ? VIAT. Animi pervicacia quaedam, dum persuadere sibi

14 Nell’abbozzo Pontano utilizza il neologismo «contriplicata» (Vat. Lat. 2480, c. 6v); la sostituzione con «trigeminata», a rigore, potrebbe rappresentare una banalizzazione di Summonte, editore non sempre scrupoloso del testo. 15 Il gioco di parole tra «faustinianum» (una tipologia di vino falerno) e l’aggettivo faustus (qui nell’accezione di “superbo”) è ispirato ad una lettera di Frontone all’imperatore Antonino: «Quid hoc verbi sit, quaeras fortasse; accipe igitur. Ut homo ego multum facundus et Senecae Annaei sectator Faustiana vina de Sullae Fauste cognomento “felicia” apello; calicem vero “sine delatori nota” cum dico, sine puncto dico» (Fronto, Epistul. 213)

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a quanto dicono, può essere bevuto.26 Lo berrò a piccoli sorsi, non tutto di un fiato. Oh delizia di Bacco! Soltanto a sentirne l’odore la mia anima diventa doppia, non vedi come l’oro stesso si indora nel bicchiere? Con un solo sorso la mia anima si è triplicata! OSTE Benvenuto, caro Gerione,27 benvenuto ospite atlantico. VIAG. Perché ti meravigli che io mi sia triplicato? Bevo il vino della tua riserva e questa tua cantina è il monte Atlante, dove si trova l’isola dei Beati.28 OSTE Ah! Ah! Ah! Di grazia, assaggia anche questo e fallo a fior di labbra (faresti un’offesa alla botte se lo bevessi in un sorso solo): è un Faustiniano, 29 Faustiniano puro, l’ultimo non solo di questa botte ma di tutte le cantine della Campania. Voglio che tu lo sorseggi poco a poco piuttosto che berlo d’un fiato. VIAG. Forse c’è da temere che questo tuo Faustiniano ci causi dei problemi... sai che non mi piace il fasto, per questo temo gli irlandesi, che sono oltre superbi. [8] OSTE Non c’è nessuno più costumato di questo Faustiniano soave che tieni tra le mani: è straordinario quanto rifugga dalle risse! È amico soltanto del sonno e delle paroline dolci. Ma, di grazia, costoro sono irlandesi? VIAG. Anzi, molti di loro provengono addirittura dalle regioni più remote della Scozia, e sono giunti poco fa a Roma. OSTE Qual è il motivo del viaggio? VIAG. La loro ostinazione: non riuscivano in nessun modo 26 Allusione all’oro che, bevuto in forma liquida, secondo la leggenda è capace di donare l’eterna giovinezza. 27 Nella mitologia greca un gigante con tre teste, tre busti e due sole gambe. 28 Monte che, secondo le leggende raccolte dagli antichi geografi, si troverebbe al di là delle Colonne d’Ercole, nelle isole dei Beati (identificabili forse con le Canarie, scoperte nel 1312). 29 Tipologia particolarmente pregiata di Falerno, di cui si ha notizia in Frontone.

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nullo modo possunt Romano Pontifici liberos esse. Itaque invenerunt Pontificem ipsum filii nuptiis praesidentem aurato in solio, filiam vero Romanas puellas invitantem ad choreas, atque iis ipsis nuptiarum diebus natam Pontifici filiolam alteram, mirificam, mihi crede, Christianae religionis comprobationem. CAUP. Quinam? VIAT. Si enim Deo nascuntur nepotuli, nunquid non necesse est Christum ipsum mulieris utero prodiisse? CAUP. Sane probatissimum argumentum!16 Proficiscendi autem Neapolim quaenam causa? VIAT. Leonardum primo Apulum, Barensem inde

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Pontano adotta lo schema della novella di Abraam giudeo (Dec. 1, 2): «anche là il viaggio a Roma da un paese straniero [...] per l’ostinatezza del mercante, la costatazione dell’immoralità del cloro romano, l’improvvisa conclusione favorevole alla verità cristiana» (Mariotti, Per lo studio: 187), dando vita ad una «boutade irriverente» che accomuna questo passo alle più feroci tra le pagine satiriche rivolte contro il clero nei Dialoghi, cfr. Charon § 18, nota 33, con relativi rimandi.

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a persuadersi del fatto che il Pontefice Romano possa avere dei figli. Così hanno trovato il Pontefice in persona che, seduto sul suo trono d’oro, assisteva alle nozze del figlio30, mentre sua figlia31 invitava le fanciulle romane a danzare con lei. In quegli stessi giorni, inoltre, proprio mentre si tenevano le nozze, al Pontefice è nata un’altra figlioletta. Si tratta, a parer mio, di una prova mirabile della verità della religione cristiana. OSTE Cosa vuoi dire? VIAG. Se a Dio nascono dei nipotini, non ne consegue forse che Cristo stesso non può che essere nato dal ventre di una donna? OSTE Davvero una prova innegabile! Ma per quale motivo si recano a Napoli? VIAG. Vogliono vedere dapprima l’Abbazia di San Leonardo sui monti Apuli,32 quindi la chiesa di San Nico-

30 Francesco Cibo (1449-1519), nato prima dell’elezione sul soglio pontificio del padre: «Prima e dopo la guerra, che oppose, allo scoppio della congiura dei baroni, Innocenzo VIII a Ferdinando d’Aragona [...] furono fatti molteplici tentativi per accasarlo con una bastarda del re di Napoli. Falliti questi approcci, il 25 febbraio 1487, a conclusione di trattative in corso dal dicembre dell’anno prima, fu celebrato per procura, alla presenza dei pontefice, il matrimonio del Cibo con Maddalena de’ Medici figlia di Lorenzo il Magnifico» (Petrucci, Cibo: 243); per festeggiare tali nozze 13 novembre del 1487 si tenne un banchetto in Vaticano, contravvenendo «alla regola secondo cui non era permesso alle donne di intervenire ai pasti del pontefice in Vaticano» (Pellegrini, Innocenzo VIII: 454). 31 Teodorina Cibo. 32 Abbazia di san Leonardo in Lama Volara, situata nel monte Gargano, nell’attuale comune di Manfredonia. Il complesso monastico è dedicato a san Leonardo, eremita di Noblac del VI secolo, il cui culto era molto diffuso in Francia e in Inghilterra. Le reliquie del santo sono custodite nel monastero di Noblac, motivo per il quale la visita dei romei scozzesi a rigore non va considerato un pellegrinaggio vero e proprio ma una sorta di omaggio ad un santo particolarmente venerato.

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Nicolaum, post Hierosolymam videre cupiunt, navi comparata. CAUP. Et probum et pium consilium. VIAT. Missa haec nunc faciamus, quando refrigeratae mihi vires sunt. Iube his apparari cenam, atque id quidem videto, coenam ut sit.17 CAUP. Quid hoc verbi «cena ut coenam sit»? Non intelligo. VIAT. Quae sit opipera quae pluribus sit satis, quae sit loquax, somnulenta. CAUP. Bellissime, habeo. Agite, benivolentissimi hospites, secedite in umbram, conquiescite, sedate et sitim et aestum, opulentissime pariter et lautissime mecum vobis erit. VIAT. Atqui Italice nihil intelligunt. CAUP. Tute igitur illis blandire, atque ut potissent et quidem quam recentissimum vide. Mihi curae id fuerit, Britannice ut discumbant.

17 Pontano nell’abbozzo scrive: «coena ut cena sit» (Vat. Lat. 2840, c. 7r), gioco di parole ripetuto nella battuta successiva dell’Oste («Quid hoc verbi coena ut cena sit?»); Summonte banalizza la lezione, correggendo in entrambi i casi «cena» con «coena»; il gioco di parole che aveva in mente Pontano è chiarito da Martellotti: «Pontano voleva dire qualche cosa di diverso dal banale “una cena che sia una cena”, cioè degna del nome; ché in tal caso non si capirebbe lo stupore dell’oste e la domanda di chiarimento [...] La spiegazione del gioco di parole si ha leggendo Isidoro (Etym. XX 2, 14): Coenam vocari a communione vescentium: κοινόν quippe Graeci commune dicunt;... Est autem cena vespertinum cibum, quam vespernam antiqui dicebant... Il Pontano dunque aveva desunto da Isidoro una essenziale distinzione tra coena e cena: sontuosa la prima e di più convitati, modesta la seconda, commiserata alle necessità quotidiane» (Martellotti, Abbozzo: 6).

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la di Bari33 e infine procurarsi una nave e recarsi a Gerusalemme.34 OSTE Intenzione buona e pia. VIAG. Lasciamo da parte queste cose. Ora che mi sono rinfrancato, comanda che sia preparata la cena e, mi raccomando, che sia una cena vera e propria. OSTE Cosa intendi dire con «una cena vera e propria»? Non capisco. VIAG. Che sia lauta, che sia sufficiente a sfamare molti, che sia innaffiata dal vino, che sia ricca di chiacchiere, che concili il sonno. OSTE Caro mio, ho capito. (rivolto ai romei) Avanti, carissimi ospiti, mettetevi all’ombra, riposatevi, calmate la sete e il caldo, vi servirò un pasto ricco ed abbondante. VIAG. Non conoscono nemmeno una parola di italiano. OSTE Bada allora di blandirli e fai in modo che bevano di continuo. Io li farò mettere a tavola all’inglese.35

33 Basilica di san Nicola, a Bari, dove sono conservate le reliquie del santo originario di Myria, il cui culto era diffuso anche nell’isola britannica. 34 Bari era uno dei centri portuali dai quali partivano regolarmente delle imbarcazioni per la Terra Santa; a partire dal XI secolo si era diffusa tra i pellegrini in partenza per Gerusalemme l’abitudine di visitare la Basilica di San Nicola nella quale si conservavano le spoglie del santo, sottratte 1087 agli arabi da alcuni marinai baresi. 35 La battuta allude alla proverbiale passione degli inglesi per il cibo e il vino.

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IV. ALTILIUS, PARDUS, CHARITEUS

[9] ALTILIUS Iudicabam actum cum Ioviano felicissime, quod, pace parta, regias res prope afflictas, magna sua cum gloria, maiore populorum tranquillitate, non restituisset modo, verum etiam stabilisset. Quanto autem secus et illi et nobis, qui eum amamus et colimus, acciderit, dicere dolor prohibet; neque enim contingere aut illi indignius aut nobis insperatius potuit. PARDUS Quid hoc est quod te tantopere solicitum ac male habet? Nam et verba metior tua et rem ipsam mirifice suspicor; neque illud me parum turbat, quod hora tam intempestiva convenire me volueris, cum praesertim noverim in agendis rebus pensitatio quae sit tua. ALT. Quid tu aut me «solicitum» aut «male habet» loqueris? Quin cruciat, torquet, vexat, animum ipsum conficit. PARD. Maline tantum ex te audio? ALT. Summum quidem malum! An non et summum

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IV. ALTILIO, PARDO, IL CARITEO36 [9] ALTILIO37 Pensavo che le cose a Pontano andassero meravigliosamente, dal momento che ha raddrizzato gli affari del re, anzi li ha consolidati, con grande gloria personale e ancor più grande sollievo del popolo. Il dolore mi impedisce di dire quello che è accaduto a lui e a noi che l’amiamo e lo veneriamo; non sarebbe potuto capitare niente che fosse più indegno di lui e più inatteso per noi. PARDO Che cosa ti preoccupa e ti fa stare male? Le tue parole mi spaventano e immagino qualcosa di terribile; mi turba non poco, inoltre, che tu mi abbia voluto vedere ad un’ora così molesta, dal momento che conosco quanta sia la tua cautela nell’agire. ALT. Perché dici che qualcosa mi «preoccupa» o «mi fa stare male»? Sarebbe più esatto dire che qualcosa mi tormenta, mi tortura, mi affligge e mi abbatte. PARD. È dunque così grande il male di cui parli? ALTIL. Un male sommo! Non ti sembra forse un male 36

La scena si sposta a Napoli, sulla strada, nei pressi delle abitazione di Pardo e di Cariteo, in un periodo non molto successivo alla firma della pace, dal momento che Pontano è da poco tornato nella sua abitazione di campagna per godere di un periodo di riposo dopo la missione diplomatica (§ 27) ed il clima è descritto come ancora estivo (Pontano chiede a Cariteo di comperare un «ventaglio col quale scacciare il caldo che tormenta l’asino» § 10), cfr. Monti, Ricerche: 816-817. 37 Gabriele Altilio (1440 ca-1501). Raffinato poeta in latino, amico di Pontano e di Sannazaro, venne protetto da Alfonso d’Aragona che gli affidò il ruolo di precettore del figlio Ferrandino. Seguì Alfonso nella guerra contro Venezia (1482-1484); accompagnò Ferrandino del quale era divenuto segretario, nel corso delle spedizioni contro i baroni ribelli nel 1485 e nel 1487. Grazie agli Aragonesi radunò un numero consistente di entrate ecclesiastiche e nel 1493 fu nominato vescovo di Policastro. A capo della segreteria politica di Ferrandino, dopo l’invasione di Carlo VIII si ritirò nel suo vescovato

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et publicum tibi videatur malum? Senem in quo tantum publice repositum esset tum opinionis tum spei coepisse iam repuerascere?18 PARD. Quid repuerascere? ALT. An non puerum tibi videatur senex agere, qui annos circiter sexaginta natus magnisque honoribus functus asinum sibi magno comparaverit sericisque instratum ornamentis ascenderit?19 Atque aurato freno, auratis habenis, versiculos etiam nescio quos amatorios cantitantem vehi asello in publico non puduerit, quodque importunissimum ducas, admotis etiam calcaribus, equitem agere procurrentem voluerit?20 Abeat sapientia, valeat senectus! An aliud expectas aut potius aut certius delirationis signum? PARD. Musae Aonides, Sebethides nymphae, ubinam gentium delituistis? Monstra mihi haec et quidem portentosissima videntur. Quis hoc credat? Aut quinam fieri potest? Quod ne dii quidem ipsi videri debeant passuri. ALT. Certa res est. PARD. Asinone vehi etiam perornato, per urbem, in publico, per regionem urbis frequentissimam, sexagena18

Cfr. «LY. Modo hercle in mentem venit, quid tu deiceres: / senex quom extemplost, iam nec sentit nec sapit, / aiunt solere eum rursum repuerascere» (Merc. 292-294), «forse una delle idee centrali dell’Asinus nasce proprio da qui, da questo repuerascere che vediamo riaffiorare nel dialogo in modi, rispetto a Plauto, ancora più insistiti» (Cappelletto, Lectura Plauti: 94-95). 19 Nell’abbozzo si legge il termine «ostenderit» (Vat. Lat. c. 2v) che conferisce alla follia di Pontano una sfumatura di divertito esibizionismo. 20 Tale comportamento ricorda quello di Tiaso, un personaggio delle Metamorfosi di Apuleio che presenta molti punti di contatto con Pontano: uomo di nobile stirpe e politicamente in vista (è insignito dell’incarico di duumviro), una volta scoperta la straordinaria intelligenza di Lucio, si compiace di incedere nella città di Corinto cavalcandolo come se fosse una raffinata cavalcatura: vd. Apul. Met. 10, 18. A differenza di Lucio, però, l’asino di Pontano non possiede alcuna dote peculiare e si limita a comportarsi con la feritas e l’ingratitudine che è propria della sua specie.

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sommo e universale che un vecchio nel quale la collettività ripone tanta stima e tanta speranza cominci ormai a rimbambire? PARD. Rimbambire, perché? ALTIL. Secondo te non si comporta forse come un bambino un anziano di circa sessant’anni, colmo di grandi onori, che compra a caro prezzo un asino e vi monta sopra dopo averlo ricoperto con una gualdrappa di seta? E che non si vergogna di cavalcarlo in pubblico, d’oro la briglia e d’oro le redini, canticchiando non so quali poesiole amorose? E che, comportamento che reputerai oltre modo inopportuno, quando muove gli speroni vorrebbe farlo andare al galoppo come un cavallo? Addio sapienza! Addio vecchiaia! Attendi forse un segno ulteriore, o per meglio dire più certo, della sua demenza? PARD. Oh Muse Aonidi!38 Oh Ninfe del Sebeto!39 In quale parte del mondo vi siete nascoste? Tali eventi mi sembrano prodigiosi e inverosimili. Chi lo crederebbe? Come può accadere qualcosa che gli dei non dovrebbero permettere? ALTIL. La cosa è certa. PARD. Dunque un uomo di sessant’anni che presiede agli affari del re, un uomo così impeccabile nei comporta-

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Appellativo delle Muse, dal nome della regione Aonia, in

Beozia. 39 Nome dell’antico fiume che, nell’età classica, attraversava la città di Napoli; nel XV il fiume era molto ridotto quanto a portata delle acque ma continuava ad indicare per antonomasia la città.

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rium hominem, regiis actionibus praesidentem, moribus tam compositis, institutis tam rigidis? Vale, vale, Apollo! Si verum esse hoc sensero, naturam ipsam credam iam repuerascere. Sed commodissime nobis offertur, ut video, Chariteus; colloquamur cum homine. Quid quod conturbatiusculum eum domo prodire intelligo? CHARITEUS Laudent qui velint senectutem, mihi quidem sapientissime institutum videtur, sexagenarii e ponte ut deiicerentur in Tiberino. Quin bene mecum actum putem, ante quam haec videam, quam hunc annum attigerim, si vel scaphariam cum Charonte exercuero. PARD. Charitee, Charitee, siste, Charitee, salve, quo properas? Quae te res tam impotenter agit? Siste gradum, amicorum res agitur iubet hoc amicitia, vel humanitas id postulat tua. CHAR. Ne, per deos, quisquis es, ne, obsecro, me ab itinere incepto revoca. PARD. Maior res agitur. Siste, salve. Quo te? CHAR. Quo asinus imperat.

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menti, così austero nel modo di vivere, non si vergogna di cavalcare in pubblico un asino, per giunta ridicolamente ornato, in città, attraversando luoghi affollatissimi? Addio Apollo, addio! Quando lo avrò visto con i miei occhi concluderò che la Natura stessa si è rimbambita. Ma ecco che giunge al momento opportuno Cariteo;40 parliamo con lui. A quel che vedo sta uscendo di casa piuttosto turbato, ma per quale motivo? CARITEO (tra sé) Lodi pure chi vuole la vecchiaia, a parer mio sarebbe un’usanza assai saggia gettare i sessantenni al fiume. Anzi mi riterrò fortunato se mi metterò ai remi sulla barca di Caronte prima di vedere tali cose e prima di compiere tale età. PARD. Cariteo, Cariteo fermati! Cariteo, salute, dove vai? Cosa ti agita così violentemente? Ferma il passo, si tratta di amici, lo impone l’amicizia e lo richiede la tua educazione. (lo afferra per le spalle) CAR. (senza voltarsi) Per gli dei, chiunque tu sia, ti prego, non interrompere il cammino che ho intrapreso. PARD. Si tratta di qualcosa di importante. Fermati, ehi! Dove vai? CAR. (sempre senza voltarsi) Dove mi comanda un asino. 40 Benet Gareth detto il Cariteo (1450-1512 ca.). Nativo di Barcellona, giunse a Napoli intorno al 1466 per cercare fortuna nella corte Aragonese. Poeta in volgare italiano, fu membro di spicco dell’Accademia napoletana. La sua carriera politica fu di tutto rispetto: regio scrivano e familiare del re a partire dal 1482, dopo l’esecuzione della condanna a morte di Giovanni Petrucci divenne percettore delle entrate del regio sigillo (incarico ricoperto sino al 1495), lavorando a stretto contatto con Pontano. Caduti definitivamente gli aragonesi, nel 1501 si trasferì a Roma, dove visse per due anni; nel 1503, in seguito all’ascesa al trono di Ferdinando il Cattolico, fu nominato governatore del contado di Nola. Negli ultimi anni di vita fece parte del circolo culturale e mondano che si riuniva intorno a Costanza d’Avalos e nel 1506 pubblicò a stampa un importante canzoniere italiano dal titolo Endimione.

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Quid? Malam in rem! Asinarium iamne agis? Quin asinus ipse me agit. Iam, ut video, deliravimus, actum atque transactum est de Sene, ut video. Explica, obsecro, quid hoc est, quod asinus tete agit? CHAR. Quinimo impellit ac proterit. Tu rem ipsam vide. Propero ad aerarios fabros, comparaturus diversi generis tintinnabula, cingulum item sericum diversicolorem, qui cum intextis tintinnabulis asini collum exornem;21 flamen quoque purpureum auro intertextum empturus, ad illius frontem appensum aurata fibula, perinde ac flabellum, asino ventum in calore quod exciat! PARD. Dii boni, quid ego e Chariteo audio! CHAR. Quid? Istis, Parde, oculis videas, domum si meam ingressus fueris, bracteolas argenteas, auratas lamellas, flosculos etiam gemmatos, auro intertextos asino parari! Usque adeo cum sapientia simul cultus quoque ac comptus ad asinum transiit! Hoc, hoc illud est quod dici solet, omnia tempus suum sortito consequi. Maiorane aut audire aut sentire vultis? Epistolam legite, quam nuper suis ex hortis vester Senex, quod gaudere oppido abunde potestis, ad pueritiam iam regressus, ad me per cursorem quam festinatissime misit. PARD. CHAR. PARD.

21 L’elenco dei fastosi paramenti che il Pontano personaggio fa acquistare per il suo asino si ispira alle Metamorfosi di Apuleio: «spretis luculentis illis suis vehiculis ac posthabitis decoris [p] raedarum carpentis, quae partim contecta, partim revelata frustra novissimis trahebantur consequiis, equis etiam Thessalicis et aliis iumentis Gallicanis, quibus generosa suboles perhibet pretiosam dignitatem, me phaleris aureis et fucatis ephippiis et purpureis tapetis et frenis argenteis et pictilibus balteis et tintinnabulis perargutis exornatum ipse residens amantissime [...]» (Apul. Met. 10, 18). Molti degli oggetti descritti da Apuleio trovano un riscontro nella pagina pontaniana: i «purpurei tapetes» corrispondono al «e tenuissimo serico stragulum» (più avanti al § 10), i «freni argentei» agli «aurati freni», i «pictiles baltei» al «cingulum sericum diversicolorem», i «tintinnabula perarguta» ai «diversi generis tintinnabula».

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PARD. Cosa? Andiamo male! Stai svolgendo una fatica asinina? CAR. (come sopra) No, è un asino che mi affatica. PARD. Ormai siamo impazziti! (rivolto ad Altilio) Da quel che vedo per il vecchio è proprio finita. (rivolto a Cariteo) Spiegati bene, ti prego, cosa intendi dire affermando che l’asino ti spinge a fare qualcosa? CAR. Sarebbe meglio dire che mi sprona e mi fa trottare. Giudica te stesso. Mi reco dai fabbri che lavorano il bronzo per comperare diversi generi di sonagli e nastri di seta multicolori e una volta inseriti i nastri nei sonagli li adopererò per adornare il collo dell’asino; comprerò anche un pennacchio rosso intessuto d’oro da attaccare con una cinta d’oro alla sua fronte; infine comprerò anche un ventaglio col quale scacciare il caldo che tormenta l’asino! PARD. Santi numi, che cosa sento da Cariteo! CAR. Come dici? Caro Pardo, se fossi entrato in casa mia mi avresti visto con i tuoi stessi occhi adornare l’asino con lamine d’argento e d’oro e con fiorellini dorati intessuti di gemme! Con la saggezza di un tempo è passato ad occuparsi dell’asino in modo così raffinato e ricercato.41 È proprio questo quello che si suole dire: ogni cosa può accadere in virtù del caso. Volete ascoltare ed intendere qualcosa di più grave? Leggete la lettera che poco fa il vostro Vecchio, ormai regredito all’infanzia, mi ha inviato in tutta fretta.

41 La raffinatezza usualmente dimostrata da Pontano nella sua produzione letteraria viene riversata sull’Asino, agghindato d’oro e d’argento così come i carmina del suo padrone sono adorni di bellezze poetiche.

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[10] EPISTOLA Amabo, Charitee, meus ocule, pectinem mihi auratum emito, qui sit eburneus, Praxitelicus, qui dum stringitur, dum dorso agitur, tinniat mihi, subblandiatur animo meo, qui risum pelliciat atque hilaritudinem, quid enim asello meo delicatius? Vult sibi applaudi, vult dici bellissima verba, facit mihi delicias, dum ei frontem defrico, dum versiculos succino. Quin te beatiorem ut faciam, et hoc accipe: apposui deliciolo meo e melle ientaculum; ubi illud delinxit, osculo me confestim petiit, tam blande, ut ei quoque amplexum cum osculo retulerim; beavit me, cupio et illum beatum esse. Tu vero, meus amicule, et illud statim cura. Timet deliciolum meum muscas, calores fugitat; perrectato institores omnes, dum e tenuissimo serico stragulum compares, quo intectus Arion meus, Cyllarus meus muscarum aut culicum aculeos ne sentiat; atque id cum primis effice, ut sit quam fulgentissimum stragulum, delicatissimum textum, solidissimum muscarum repagulum. Ne vero aut mirere aut indigne feras domini delicias, vide et contemplare ex asino atque in asino Pythagoricam disciplinam. Nam

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[10] LETTERA42

Di grazia Cariteo, tesoro mio, comprami un pettine ornato con l’oro, che sia eburneo e prassitelesco,43 tale che, mentre lo stringo tra le mani e viene agitato dal dorso dell’asino per me tintinni e mi sollevi l’animo, suscitando il riso e l’allegria – invero cosa c’è di più raffinato del mio asinello? – Vuole essere applaudito, vuole che gli si dicano parole dolcissime, mi fa mille vezzi mentre gli sfrego la fronte e canticchio dolci versi. Per renderti ancora più lieto ti dico anche questo: per colazione ho servito al mio amato del miele; non appena lo ha leccato subito mi ha dato un bacio così dolce che insieme al bacio gli ho dato un abbraccio; mi ha reso felice e desidero renderlo felice a mia volta. Tu, caro amichetto, occupatene senza perder tempo. Il mio amato teme le mosche ed ha orrore del caldo; vai di corsa in tutti i negozi finché non riesci a comperare un drappo di seta purissima, indossato il quale il mio Arione, il mio Cillaro,44 non senta le punture delle zanzare o delle mosche; e bada bene anzitutto che sia un drappo assai rilucente, tessuto con somma delicatezza ma solido, atto a porgere una barriera contro le mosche. Perché tu non ti indigni o sopporti mal volentieri tali piaceri del tuo padrone, rifletti bene su quello che sostiene la dottrina pitagorica a proposito dell’asino.45 42

La lettera viene letta ad alta voce da Pardo. Degno di Prassitele, celebre scultore greco dell’età classica. 44 L’asino di Pontano ha due nomi, entrambi di origine mitologica: Arione (cavallo immortale, figlio di Cerere tramutatasi in giumenta e violata da Nettuno mutatosi in stallone) e Cillaro (dal nome di uno dei centauri). Quest’ultimo nome allude alla natura insidiosa dell’animale, dal momento che i centauri sono violenti e intemperanti. 45 Il personaggio di Pontano si appella alla dottrina pitagorica della reincarnazione per giustificare quella che a suo parere sarebbe la straordinaria intelligenza del suo asino; in realtà con tale battuta Pontano strizza l’occhio al lettore: nel simbolismo pitagorico, infatti, l’asino intento a divorare la cor43

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haec ad te dum scribo, pellegente asello, ipse accommodatis humanam ad enuntiationem labris distichon hoc effudit. Melle meus me pascit herus: pro melle recipit oscula, complexum pro sagulo excipiet. Iudicabis aut Marsum aut Cornificium in asello meo versus edere. Illud quoque22 summo studio ac deditissima curabis opera, uti flabellum pavoninum, quod sit quam oculatissimum, per hunc ipsum puerum ad me mittas, quo in umbra atque in aestu meo deliciolo ventum faciam. Recte vale, nam et ego cum domino, sine quo vita mihi nulla est, valeo etiam valentissime. PARD. Haec quidem epistola mera est deliratio, aut merus potius nostrum omnium dolor. Quando autem delirium ipsum radices nondum altiores egit, tentandum est quam possumus diligentissime uti curetur. ALT. Mihi quidem Actius conveniendus videtur, qui nuper e Roma itineris ac laborum socius cum illo rediit, uti ex eo perscrutemur num quae signa delirium antecesserint, si qua fortasse ad sanitatem regrediundi relicta spes intelligatur.

22 Nell’abbozzo si legge il termine «corculum» (Vat. Lat. 2840, c. 2r), tessera plautina (Plaut. Most. 986; Cas. 836) che Pontano decide di sopprimere nella redazione definitiva.

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Infatti mentre ti scrivo queste cose, sotto lo sguardo dell’asino che legge queste righe, egli, adattate le labbra alla pronuncia umana, ha tirato fuori il seguente distico: Mi nutre col miele lo ricambio col bacio; in cambio del drappo avrà invece un abbraccio. Giudicherai senza dubbio che Marso o Cornificio,46 reincarnati nel mio asinello, abbiano scritto questi versi. Infine dedicati con la massima a cura a questo compito: inviami per mezzo del ragazzo che ti consegnerà la lettera un ventaglio di piume di pavone (che siano tutte occhiute!); difatti all’ombra, mentre il caldo avvampa, voglio fare il vento per il mio amore. Stammi bene, io in compagnia del mio amato despota, senza il quale la mia vita non ha alcun valore, sto assai bene. Questa lettera non è altro che un puro delirio, o meglio puro è il nostro dolore. Ma prima che questo delirio metta radici troppo profonde, dobbiamo tentare tutto quello che è in nostro potere per curarlo come è opportuno. ALT. Ho un’idea: potremmo far venire qui Azio47 che da poco è tornato da Roma dopo aver diviso con lui le fatiche del viaggio,48 per indagare quali segni abbiano preceduto la sua follia e se c’è una qualche speranza di farlo rinsavire. PARD.

da raffigurava l’anima umana presa dal vortice delle cure materiali. 46 Pontano cita due autori le cui opere sono perdute e dei quali sono noti soltanto i nomi: Domizio Marso, poeta del I secolo a.C. menzionato da Ovidio e Marziale, autore di epigrammi e di un poema epico, l’Amazonis, e Cornificio, retore del I secolo a.C. menzionato da Quintiliano come supposto autore della Rhetorica ad Herennium. 47 Iacopo Sannazaro (1457-1530), menzionato col nome accademico di Azio Sincero. 48 Sannazaro aveva preso parte alla missione militare di Alfonso sin dal 1485 (Kidwell, Pontano: 190, cfr. Sannazaro, Eleg. 2, 1); il viaggio in questione, dunque, è quello di ritorno da Roma a Napoli.

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PARD. Longe optime consultum videtur. Quocirca familiarem atque amicum hominem conveniamus, uti eo ipso comite in hortos ad Senem proficiscamur.

V. ACTIUS, PARDUS, ALTILIUS [11] ACTIUS Clivum hunc Musarum esse volebat noster Crassus, imo, pace vostra dixerim, meus; is enim me instituit, is me studiis his dedicavit, illi debentur quae in me insunt, si qua laude digna insunt, omnia. PARD. Miror Lucium Crassum corpore tam obeso, viribus non satis validis clivum hunc, quanquam amoenum, ascensu tamen non indifficilem, ut ex te tam saepe audio, pedibus frequentasse. ACT. Mira etiam cum voluptate; nam et saepicule considebat sub arbusculis, aut muscoso aliquo conquiescebat in lapide, veterum poetarum aut si quos ipse lucubrasset versiculos interim referens, multa etiam saepe aut ipse docens aut nos qui eum sequebamur percunctatus. Ad haec dicere nobis solebat, quo labor ipse ascensionis esset levior, collem hunc Heliconem et sibi et nobis esse; neque

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PARD. Mi sembra un’ottima idea. Facciamo dunque venire il nostro amico e rechiamoci insieme a lui alla villa del Vecchio.

V. AZIO, PARDO, ALTILIO49 [11] AZIO Questo colle è sacro alle Muse, secondo quanto riteneva il nostro Crasso,50 o meglio, se non vi dispiace, il mio Crasso: è lui che mi ha educato e mi ha consacrato a questi nostri studi, e se in me c’è qualcosa di degno di lode lo devo unicamente a lui. PARD. Mi meraviglio che Lucio Crasso, di corporatura così robusta e debole com’era, salisse di frequente, stando a quanto dici, su questo colle, un colle ameno, è vero, ma non agevole da scalare. AZIO Lo faceva anzi con grande piacere; si sedeva di quando in quando all’ombra di un alberello o si riposava sopra un sasso ricoperto di muschio, nel frattempo recitava alcuni versi composti dagli antichi poeti o improvvisati da lui stesso sul momento, insegnando al contempo molte cose o ponendo molte domande a noi che lo seguivamo.51 In queste occasioni, per alleviare la fatica della salita, era solito dire che per noi e per lui questo colle era l’Elico-

49 La scena si sposta sulla collina di Antignano (attuale Vomero), sulla strada che conduce alla villa acquistata da Pontano nel 1472. In uno strumento notarile del 1494 la proprietà è definita una «masseria», in quanto la proprietà includeva non soltanto una villa padronale ma anche dei terreni coltivati da alcune famiglie di contadini (Percopo, Vita: 41). 50 Lucio Crasso (1430 ca-1490), grammatico napoletano e lettore presso lo Studio, maestro, tra gli altri, di Sannazaro. 51 Alcuni tratti di Crasso, come l’abitudine di canticchiare dei versi (si intende latini) e le domande socratiche poste ai suoi interlocutori, ricordano la raffigurazione del Panormita presente nell’Antonius (cfr. in part. Ant. §§ 2-3).

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posse Musarum ad templum nisi clivo perveniri quem Virgilius ipse singulis ferme diebus ascendere esset solitus, ubi post et villam sibi comparasset et moriens humari testamento cavisset. ALT. Recte sane haec ut coetera Lucius. Quando autem aliud nunc agimus, missum illum tantisper faciamus, dum, quod nos tantopere male habet, sciscitemur illud, si qua via Senis nostri delirio obviam iri possit. Age, Acti, Romae cum ageres, qualem se in obeundis Iovianus negociis, qualem in suadenda aut componenda pace nunc in urbe, nunc in castris aut in itinere ipso egerit explica, edoce, explana, nostrum omnium una res agitur. ACT. Quem sese egerit ipsa res docet; pacem enim, obsistente cardinalium collegio, quibus voluit conditionibus perfecit. Miserati saepe sumus Senem languenti corpore, mediis diebus, ardentissimo sole, per frequentissimos latrones, quibus itinera circunsessa erant, nunc ex urbe ad Alfonsum in castra, nunc e castris ad Innocentium Romam

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na52 e che non si poteva, d’altronde, giungere al tempio delle Muse se non attraverso questo colle che Virgilio era solito scalare tutti i giorni e sul quale, più tardi, avrebbe comperato una villa e dove avrebbe stabilito per mezzo del testamento di essere sepolto. ALT. Anche in questo, come nelle altre cose, Lucio aveva assolutamente ragione. Ma dato che abbiamo altro da fare, lasciamolo da parte per il momento e cerchiamo di scoprire, cosa che ci fa stare male, se c’è una via, e quale, per affrontare la follia del nostro caro vecchio. Dimmi, Azio, come si comportava mentre ti trovavi a Roma? In che modo Gioviano53 svolgeva i suoi incarichi, come si comportava mentre con i suoi discorsi contribuiva alla pace, in città, nell’accampamento e in cammino? Esponici tutto, rendici parte di quello che sai, spiegaci tutto per bene! Ci riguarda tutti allo stesso modo. AZIO Come si sia comportato lo mostra la riuscita stessa della sua missione: ha portato a termine la pace alle condizioni che aveva stabilito, nonostante l’opposizione del collegio cardinalizio.54 Spesso abbiamo provato pietà per quel vecchio che, con il corpo malato, a mezzogiorno, sotto un sole caldissimo, attraverso strade infestate dai briganti faceva la spola dalla città agli accampamenti di Alfonso e dagli accampamenti di nuovo a Roma, alla corte

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Monte della Beozia dove scorrono due fiumi sacri alle Muse; secondo la simbologia classica, la scalata del Parnaso simboleggia gli sforzi necessari per raggiungere una perfetta padronanza dell’arte poetica. 53 Nome adottato da Pontano nelle riunione dell’Accademia. 54 Il collegio cardinalizio, con la sola eccezione di pochi prelati come Ascanio Sforza, Rodrigo Borgia, era a grande maggioranza favorevole a continuare ad appoggiare i ribelli napoletani allo scopo di porre sul trono del Regno Renato di Lorena (cfr. Percopo, Vita: 46).

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properare, ut qui illum sequebamur de Senis vita actum iam in singulas prope horas nobiscum ipsi dolentes quereremur. Itaque diligentiam si requiras, nihil illo etiam ad minima quaeque momenta attentius; si prudentiam, nihil omnino consideratius; ut non modo laudem, verum summam sibi principum hominum admirationem, cum magna etiam populi Romani benivolentia, conciliarit. PARD. Non videtur, in tam brevi praesertim spatio, parata esse potuisse aliqua ad delirationem via. ALT. Quae, obsecro, in itinere atque in reditu eius consuetudo, qui etiam sermones erant ? ACT. Consuetudo qualis antehac semper fuit, multum cogitandi, plurima secum in animo volvendi; neque enim tempus ullum labi frustra patiebatur. Erat illi post alias atque alias publicis de rebus cogitationes in ore Urania, quod a se nondum perpolita esset neque, uti saepenumero etiam querebatur, aut capillum bene cultum haberet aut faciem puellarem ad comptum satis extersam quaeque ad Hymenaeum vocata nondum dignam nuptiis vestem aut dignum Talasio mundum induisset. PARD. Nullum hactenus, ut sentio, repuerascendi signum. [12] ACT. Sermones autem post concoctas illas mentis agitationes erant quam iucundissimi, ut affirmari in eo iure potuerit Laberianum illud: «Facundum comitem in

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di Innocenzo; tanto che noi che lo seguivamo ci affliggevamo dolenti del fatto che il vecchio, in poche ore, sarebbe stato spacciato. Quindi se è lo scrupolo che cerchi, non c’è nessuno che più di lui sia attento anche ai più piccoli dettagli; se invece ricerchi la prudenza, nessuno è più prudente di lui; come conseguenza di tutto ciò è riuscito ad ottenere a un tempo la somma ammirazione dei potenti e la benevolenza del popolo di Roma. PARD. Non sembra possibile che in così poco tempo la follia possa aver fatto breccia in lui. ALT. Dimmi, ti prego, come si comportava durante il viaggio di andata e quello di ritorno? Quali erano i suoi discorsi? AZIO Si comportava come sempre: rifletteva a lungo, meditando tra sé molte cose; non permetteva, infatti, che alcun momento trascorresse invano. Dopo aver discusso di innumerevoli questioni riguardanti il pubblico bene, i suoi discorsi riguardavano la sua Urania,55 che gli sembrava non fosse limata a sufficienza; come – di ciò si lamentava di continuo – una fanciulla il giorno delle nozze che non è pettinata a dovere o non è truccata elegantemente e non indossa una veste adeguata o ornamenti degni della festa nuziale.56 PARD. Sin qui, da quel che sento, nessun segno di rimbambimento. [12] AZIO Dopo tali riflessioni inquiete i suoi discorsi si facevano quanto mai allegri, tanto che si sarebbe potuto a ragion veduta applicare a lui quel verso di Laberiano: 55

Poema astrologico in esametri composto da Pontano in un periodo congetturabile per una serie di allusioni autobiografiche tra il 1469 (nascita del figlio Lucio) e il 1479 (morte della figlia Lucia) e sottoposto a successive revisioni; il testo venne pubblicato per la prima volta postumo nel 1505. 56 La metafora nuziale allude sia allo stato di incompletezza dell’opera, mancante della summa manus, sia all’attesa spasmodica dei sodali, da anni in attesa della pubblicazione del poema.

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via pro vehiculo esse».23 Saepe etiam multa nobis ex antiquitatibus referebat, ut quem locum advertisset in quo navatum a maioribus aliquid memoria teneret. Ubi ad meritoriam perventum esset, ibi cum familiaribus quantum leporis erat, quantum hilaritatis, uti labor omnis abiret in voluptatem! In coena atque inter discumbendum nihil triste passus unquam: oportere in mensa laeta atque exhilarantia esse omnia neque iniuriam Baccho faciendam, qui laetitiae esset dator. Severitatem in foro, tristitiam in funere, cunctationem in capiendo consilio, supercilium in senatu retinendum esse dicebat. Talem itaque noster Senem in itinere, quod commendare etiam debeatis, sese ubique praestitit. PARD. Quid igitur, Altili? videnturne tibi haec delirio tam repentino convenire? Vides quantam temporis, quantam rerum ipsarum pensitationem habuerit! Quamobrem etiam atque etiam videndum nobis censeo ne delirare ipsi cum hac delirii suspicione merito videamur. [13] ACT. Quod quidem ipsum etiam atque etiam providendum duco, quando in singulis actionibus ita se suaque omnia circumspexerit, uti divina quadam providentia duce ac magistra, res magnas illas quidem ac perdifficiles confecisse videri possit. Et clivo hoc inter dicendum atque examinandum superato, illud a nobis sequendum indico, ne ad Iovianum hac cum suspitione in hortos procedamus, verum ex insidiis quasi quibusdam, quid ipse agat, quid cum villico, quod de more eius est, faciundum proponat, animadvertamus. Eius enim oratio viam nobis patefaciet, cum ineundi cum eo sermonis tum remedii cogitandi. Quocirca post contextam illam marino e rore saepiculam insidendum aut delitescendum potius nobis statuo; inde singula eius verba, gestus ac motus etiam singulos com23 Pontano si riferisce ad una sentenza di Publilio Sirio riportata da Macrobio: «Comes facundus in via pro vehiculo est» (Macr. Sat. 2, 7, 11); la sentenza è citata anche da Petrarca in una lettera a Boccaccio (Fam. 11, 1, 3).

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«avere un compagno di viaggio divertente è come viaggiare in un carro». Di frequente, inoltre, ci riferiva aneddoti tratti dalle storie antiche quando scorgeva un luogo nel quale ricordava che si fossero svolte delle imprese dei nostri antenati. Una volta giunti in una locanda, quanto era amabile con gli uomini del suo seguito, quanto era ilare! Ogni fatica si convertiva in piacere. Durante la cena, a tavola, non voleva ascoltare discorsi tristi: sosteneva che nella mensa tutto deve essere ilare per non offendere Bacco, che dona la letizia. Affermava che bisogna sforzarsi di mantenersi severi in tribunale, tristi in un funerale, cauti durante una decisione, altezzosi nel senato. Tale era il nostro Vecchio durante il viaggio: l’avreste lodato ovunque si fosse mostrato. PARD. Che cosa ne pensi Altilio? Ti sembra che questi comportamenti si possano accordare con una follia così improvvisa? Considera come trascorreva il tempo e con quanta cura si occupava dei suoi affari! Per questo mi vado convincendo che dobbiamo stare attenti a non sembrare noi i folli per questo nostro sospetto. [13] AZIO Anche io ritengo che possa essere così, considerando con quanta cura in ogni singola circostanza ha agito cautamente: sembrava compiere tali imprese grandi ed ardue sotto la guida della saggezza. E, dopo che parlando e ragionando siamo giunti sulla cima del colle, ritengo che dobbiamo seguire quel sentiero laggiù, non per giungere da Gioviano con questo sospetto, ma per verificare, come se gli tendessimo un’insidia, come si comporti e cosa abbia intenzione di fare con il contadino, secondo quello che è il suo costume. Il suo discorso ci indicherà la via per discutere con lui o per trovare un rimedio alla sua follia. Stabilisco dunque di nasconderci dietro quella siepe di rosmarino e rimanere ad ascoltare; da lì potremmo notare senza alcuna difficoltà ogni sua parola, ogni suo gesto ed ogni movimento; e vogliano gli dei, come io desiderio e come il

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modissime aucupabimur; quodque et volo et cupio ac diis bene iuvantibus spero et animus etiam praesagit, Musae ipsae sacerdotem suum, antistitem suum, sacrorum suorum arcanarium minime desertum patientur. ALT. Quod et nos onmes fore optamus et votis ac suppliciis acceptum Musis ipsis referemus. Delitescendi autem consilium mea sententia magis e re capi non posset. Quocirca per diverticulum ad saepem, magno silentio, passibus etiam minime strepentibus progredimini, duce me, qui agrum omnem singulasque arbusculas exactissime noverim. Vos autem, pueri, hic nos manete.

VI. PONTANUS, FASELIO VILLICUS, PARDUS [14] PONTANUS Tantam istam inserendi diligentiam vel admiror, Faselio, nimiam tamen illam detrimentorum lunae observationem arcessendae frugis gratia iure quidem improbaverim multum.24 Etenim ipsam illam vim qua fructus elicitur non tam ad ultimos illos properantis ad coitum lunae dies quam ad surculos ipsos referendam statuo; quippe ubi e ramo frugifero atque ad solem exposito ex ipsoque rami cacumine lecti fuerint, etiam primo insitionis anno frugem proferunt. Quodque ipsa me observatio docuit, neque aut offuerint multum aut contulerint valde lunae detrimenta, si aut despectius praeterita in insitione fuerint aut diligentius observata. Quid enim conferre possunt surculi male quidem atque infelici e parte lecti, ut qui enascantur tanquam inutiles atque superfluentes 24 In questo che Pardo definirà con sollievo il discorso di un uomo savio, Pontano esibisce la sua competenza in fatto di tecnica della coltivazione. Oltre a corrispondere ad una reale passione per la campagna e la coltivazione, tale brano, condotto attraverso un linguaggio ricercato e per mezzo di una sintassi ariosa, di stampo ciceroniano, rappresenta una virtuosista riscrittura della trattatistica de re rustica.

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mio animo presagisce, che le Muse non permetteranno che sia abbandonato il loro sacerdote, il loro profeta, il custode dei loro segreti. ALT. Con preghiere e sacrifici adoriamo le Muse affinché avverino quello che noi tutti desideriamo. Nascondersi, a parer mio, è un’ottima proposta, non ce n’è una più adatta alla situazione. Quindi, in grande silenzio, senza fare rumore con i piedi, avviciniamoci alla siepe attraverso questo viottolo; vi guiderò io, mi è ben noto questo terreno, conosco gli arbusti ad uno ad uno; e voi, servi, aspettateci qui. VI. PONTANO, FASELIONE CONTADINO, PARDO57

[14] PONTANO Caro Faselione, ammiro la grande cura con la quale hai eseguito quest’innesto, tuttavia non approvo affatto l’eccessiva attenzione alle fasi lunari per ottenere i frutti, e a ragion veduta. Ritengo, infatti, che la forza che fa scaturire i frutti dipenda non tanto dall’effettuare l’innesto negli ultimi giorni nei quali la luna è propizia, ma dalla scelta dei polloni; tant’è vero che quando sono stati scelti dalla cima di un ramo colmo di frutti ed esposto al sole recano frutti anche durante il primo anno dell’innesto. Ciò me lo ha insegnato anche l’osservazione stessa: le fasi lunari non nuocciono molto o non apportano gran che nell’innesto a differenza di quanto accade se i criteri che ho detto sono disprezzati o sono osservati diligentemente. Che cosa possono recare di buono polloni scelti

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La scena è ambientata nella villa di Antignano, nell’orto dei cedri situato nei pressi della villa padronale.

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quique in fragella solum exeant, nec, si non eruncentur, ad fructum etiam multos post annos veniant, in quibus praeter proceritatem ipsam nihil est iure quod laudes? Quam quidem provocandae fericitatis mirum in modum alienam experientia ipsa docet; inde enim fragella dicta, quod perinde ac inutilia refringenda praecipiantur ipso e stipite. Quocirca observare te cum primis velim ramum solarem, frugiferum, valentem, e quo surculum legas. Hoc ubi feceris, non est quod te oporteat detrimentorum lunae curam tantam suscipere; non quod non et hoc ipse magnopere probem, tunc enim succus ipse coactior atque vegetior est et glutinosi plus habet, sed quod nolim cuncta te ad lunam referre, quando et ars hanc ad rem plurimum conferat, cum plena etiam luna insitionem optime cedere saepiuscule sim expertus; tunc enim procerior arbor provenit atque in conum orbiculata quadam specie honestius protenditur. Nec te poeniteat, ubi luxuriosior creverit, annis insequentibus, imminuto lunae lumino amputatis ramulis, luxuriem ipsam, ne maiorem in proceritatem exeat, falce compescere. Nec vero, quod colonos nostrates latet, parum etiam conferet ad insitionis foecunditatem Signiferi orbis cognitio, hoc est quae signa inserendi tempore luna peragret, quo etiam e loco Saturnum intueatur, cuius stella inde sit dicta, quod potissimum satui praesit, cum sit vis eius terrena ac seminibus praeesse intelligatur. [15] Illud autem mirifice improbandum atque accusandum, Faselio,

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male, da una parte infelice dell’albero, da quei rami che nascono come inutili superfetazioni e spuntano dal suolo come fragelle e che, se non sono strappati via, danno frutti soltanto dopo molti anni e nei quali non si può lodare nulla se non la crescita impetuosa? L’esperienza insegna che questa velocità non è affatto propizia alla fecondità; si chiamano appunto fragelle perché devono essere frante dal tronco in quanto inutili. Per questo devi osservare bene anzitutto che sia un ramo esposto al sole, ricco di frutti, robusto e da esso sceglierai il pollone. Se avrai fatto così non c’è motivo di preoccuparti tanto dello scemare della luna; non perché io non approvi molto anche questa premura (a quel tempo, infatti, la linfa è più densa e vigorosa ed ha una consistenza maggiormente glutinosa) ma perché non vorrei che tu riferissi tutto alla luna, dal momento che l’arte di scegliere il pollone è la cosa di gran lunga più importante per quanto riguarda l’innesto, dato che ho sperimentato che spesso l’innesto riesce ottimamente anche durante la luna piena – allora, infatti, l’albero si slancia più in alto e si protende meravigliosamente intorno a formare un cono. E qualora crescesse troppo rigogliosamente, negli anni successivi, non temere di frenare con la falce tale eccesso, amputando i ramoscelli alla luce della luna calante. Inoltre, i contadini nostrani lo ignorano, la conoscenza dell’orbe stellato è altrettanto utile per la fecondità dell’innesto: è utile conoscere quale costellazione attraversi la luna al tempo dell’innesto, da quale dimora astrale si affacci Saturno (questa stella è chiamata così appunto perché è preposta alla semina58 dato che si osserva che la sua forza terrestre ha effetto sui semi). [15] Ma di questo principalmente ritengo di doverti aspramente rimproverare, Faselione: subito dopo questa gelata così improvvisa, nata

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Pontano si riferisce ad una presunta etimologia di Saturno da staus “semina, piantagione”.

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duco, quod sub haec frigora tam repente a septentrionibus excitata citrios irrigare multa etiam aqua neglexeris. Nihil enim tantopere ab hoc arboris genere frigus arcet quam, frigidissimis etiam diebus, assidua irrigatio;25 quod ratio ipsa docet, siquidem hieme ipsa, concretoque septentrionali flatu aere, qui terrae calor inest magis ac magis in se cogitur, cum evaporare, concreta gelu terrae superficie ac solo, nequeat. Quocirca cum arbor haec siticulosa sit admodum, tepescente terrae sinu, aquam ad radices appetentius trahit, qua in alimentum versa robustiorem sese adversus frigus agit; neque enim exarescere succum patitur, perinde ac materno fota sinu huberibusque nutricis admota. Ad haec arbuscula ipsa ad summam pene terram fibras etiam plurimas, capillamenta quasi quaedam agit, et quidem minutissima, quae glebulis inhaerentes, multum inde succum ebibunt; hae autem ipsae glebulae, ut magis ac magis capillamentis ipsis propter humidi vim conciliantur, sic rursus sicciores effectae penitusque exuctae capillamenta destituunt, quod assidua quidem irrigatio omnino prohibet. Hanc ob rem tum aestate tum hieme opportuna irrigatione iuvanda est.

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Nel De hortis hesperidum Pontano chiarisce l’importanza di un’abbondante irrigazione per la coltivazione dei cedri; dopo aver premesso che i cedri devono essere piantati in un terreno che si possa facilmente bagnare (Hort. 1, 127-133), si raccomanda di innaffiarli frequentemente «hieme [...] et veri» (Hort. 1, 451-464).

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con i venti del settentrione,59 hai trascurato di irrigare con abbondante acqua i cedri.60 Niente protegge con maggiore efficacia questo genere di alberi quanto una frequente irrigazione, anche nei giorni più freddi; e questo lo insegna la ragione, qualora si consideri che durante l’inverno, quando l’aria è indurita dal vento settentrionale, il calore che si trova sotto terra si raccoglie sempre di più in se stesso, non potendo evaporare perché il terreno e il suolo sono induriti dal gelo. Per tale ragione quest’albero, essendo oltre modo assetato, in quella stagione attrae più vogliosamente l’acqua dal seno caldo della Terra verso le radici e, dopo averla tramutata in nutrimento, si rafforza contro il gelo e non lascia inaridire la linfa come a un tempo fosse stato scaldato dal grembo della Terra e si fosse accostato ai suoi fertili seni. Inoltre l’arboscello stesso spinge sin quasi fuori dal terreno alcune radici, sottilissime per altro, simili a filamenti, le quali, unendosi alle zolle di terra, bevono molto succo; queste stesse zolle, come a causa dell’umidità si uniscono sempre più strettamente ai filamenti, allo stesso modo una volta inaridite e quasi secche abbandonano i filamenti, eventualità che devi impedire irrigando spesso le piante. Per questo, dunque, d’estate e d’inverno, bisogna soccorrere i cedri con l’opportuna irrigazione. 59 Come nota Monti il riferimento ad una gelata sembrerebbe alludere ad un tempo autunnale, con una incoerenza, dunque, nei confronti dell’ambientazione durante l’estate del 1486 (cfr. Monti, Ricerche: 818); si potrebbe pensare, però, da una gelata eccezionale, forse non del tutto impossibile in collina, sul finire dell’estate. Ad ogni modo è evidente che il riferimento alla gelata ha lo scopo di completare il brano dedicato alla coltivazione dei cedri. 60 Alla coltivazione del cedro Pontano avrebbe dedicato un raffinato poema in due libri, il De hortis hesperidum (composto tra il 1499 e il 1502 e pubblicato postumo nel 1505, viene ricordato in Aeg.: 261), che tiene insieme divagazioni mitologiche dedicate al mito di Adone e versi di stampo georgico destinati ad illustrare minutamente le tecniche di coltivazione degli agrumi da lui stesso sperimentate nella villa di Antignano (cfr. Percopo, Vita: 41).

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PARD. Ratio haec colendarumque citriorum cura ingenii haudquaquam delirantis videri potest. Non male igitur nobiscum agitur, nec est quod Musis gratias non agamus. [16] PONT. Te vero, mi Faselio, quod servatum etiam mirifice laudo, inspicere cum primis velim ne, terra himbribus madescente, plantas scrobibus infodias, quod, permadido solo ac liquescente terra, radices minus inhaereant nec multo post mucidae effectae corrumpantur, verum impendente pluvia. Ubi enim sicco, non tamen arescente solo plantam infoderis, radices ipsae magis ac magis terrae coniunguntur et fossa ipsa himbrem statim insequentem cupientissime pariter ac siticulosissime recipit; fit etiam ut solum ipsum magis ac magis spissetur a pluvia et radices alimentum suum terrae conciliatae huberius multo ducant. Ac ne te morer diutius, exigendo praesertim operi instructum, hoc age, mi Faselio, priusquam destinatam aggrediare operam, brasiculis illis (sunt enim perpaucae) sarculum benigne admove fimumque radicibus propine sarriendo aggere, quippe quae tanquam lacte suo destitutae videantur pallescere ac de matre queri. Tu illis opera tua subveni, nam et hero gratum feceris et tibi iusculum paraveris, quicum bubulam concinnes succidiaque pervetere. Hoc est quod te agere destinatam ante operam velim. Interea meam me operam asello reddere par est ne queri de hero suo iure possit. Heus, puer, hoc ago, siste huc ad me Cyllarum quam nitidissimum, atque id vide, ne, dum serica illum reste ductitas, dum ludere feroculus cupit, calcibus in te insiliat: novi ego Cyllarinas illecebras ac domini nostri blanditias.

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PARD. Questa riflessione e la preoccupazione in merito alla coltivazione dei cedri non possono essere considerati il parto di un uomo in preda al delirio. Le cose allora non vanno male per noi e non c’è ragione per non rendere grazie alle Muse. [16] PONT. Mio caro Faselione, vorrei anzitutto che tu ti attenessi a questo precetto che parimenti lodo mirabilmente quando viene osservato: non interrare i piantoni nella terra umida di pioggia, dato che, quando il suolo è troppo umido e la terra si liquefa, le radici fanno meno presa e in poco tempo, aggredite dalla muffa, marciscono, ma che li interrassi quando il cielo minaccia pioggia. Infatti, interrandole nel suolo secco ma non arido, le radici si uniscono poco a poco con la terra e la fossa in poco tempo riceve avidamente la pioggia che cade di lì a breve; in questo modo il suolo stesso viene impastato sempre di più dalla pioggia e le radici, unite alla terra, ricevono un nutrimento molto più fertile. E perché tu non perda altro tempo, considerando che sei stato istruito in merito al tuo compito, ti prego, mio caro Faselione, prima di intraprendere il lavoro, muovi abbondantemente il rastrello intorno a quei cavoletti (sono pochissimi) e somministra il letame alle radici sarchiando il terrapieno; quelle piantine, non vedi?, sembrano quasi impallidire e cercare la madre come se fossero state private del latte materno. Tu occupati di loro con la tua opera; farai cosa grata al padrone e ti procurerai un brodino col quale accompagnerai la salsiccia e il lardo. Questo è quanto ti comando di fare prima di eseguire l’innesto. Nel frattempo è giusto che io mi torni ad occupare del mio caro asinello perché non si abbia a lamentare a ragion veduta del suo padrone. Ehi, ragazzo! dico a te, portami Cillaro ben ripulito, e, mentre lo conduci con la fune ricoperto dalla gualdrappa di seta, fai attenzione che non ti tiri un calcio, così, per scherzare arditamente: conosco le lusinghe di Cillaro e le blandizie del nostro tesoro.

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PARD. Utinam ne hic hodie asinus nobilitate etiam Romana nos donet agnominetque Asinios. Aures arrigite idque in primis post saepiculam videte, ne mussitari a vobis quippiam sentiatur.

VII. PONTANUS, PUER, PARDUS

[17] PONT. Lepidissime illud quidem: et rudit simul et calcitrat meum delicium. Unum illud defuit, asini quod solent; an fortasse puduit hero praesente crepitulum facere ?26 Vides quid praestet domini reverentia? Blandire illi, bone puer, fac delicias, dic bellum aliquid. PUER Agedum, Cyllare, eugedum, heros Arionice, herum honora, praesta quod ludentes asini heris solent insanientibus, concrepa musicum aliquid, effice, si qui delirium aucupantur nostrum, tuum ad numerum choreas ut ductitent. Septenarium iam fudit Calliopa. Salite, hortenses deae, heus, heros Cyllarice, numeros muta. Anapesticum volo, non placet in hortis iambiciun, theatris illum ablega. PONT. Amabo, ut belle, ut in tempore omnia!

26 Comunemente adoperato da Plauto per indicare sgradevoli rumori, il termine crepitum viene declinato da Pontano con un affettuoso diminutivo (una forma non attesta negli autori latini).

ASINO

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PARD. Spero che oggi questo asino non ci faccia dono di un titolo nobiliare facendoci entrare nella famiglia degli Asinii!61 Drizzate le orecchie e soprattutto fate attenzione che non vi senta mormorare dietro la siepe.

VII. PONTANO, RAGAZZO, PARDO [17] PONT. Com’è grazioso! il mio tesoro raglia e scalcia. Manca soltanto una cosa di quelle che fanno gli asini; ma forse si vergogna di fare una scorreggina alla presenza del suo padrone? Vedi sin dove giunge il rispetto nei confronti dell’amato! Blandiscilo, caro ragazzo, fagli le coccole, digli qualcosa di dolce. RAGAZZO Avanti, Cillaro, avanti, eroico Arione, onora il padrone, concedi quello che gli asini sono soliti fare quando scherzano con i padroni impazziti: scorreggia un qualche motivetto, fai in modo che, se qualcuno stesse spiando questo nostro delirio, possa danzare al ritmo del tuo motivo. Calliope62 ha già emesso un verso settenario! Danzate, ninfe degli orti, su, Cillaro, muta metro. Voglio un anapesto,63 il giambo64 non si addice agli orti, lascialo ai teatri. PONT. Che eleganza! che ritmo! 61

Antica famiglia romana intorno al cui cognomen ironizzò Orazio (Epist. 1, 13, 8). «La battuta intellettualistica di Pardo [...] ha senso se per asino s’intenda “scemo”, “ottuso”. L’espressione suonerebbe quindi “speriamo che non ci faccia incretinire!”. Poco prima lo stesso Pardo aveva appunto temuto di “delirare” solo per aver creduto ad un fatto simile, che gli veniva raccontato» (Tateo, Asinus: 334). 62 Musa della poesia epica. 63 Piede adoperato nella metrica greca e latina, caratterizzato da un ritmo ascendente con ritmo di marcia. 64 Altro nome di un piede adoperato nella metrica antica, usato soprattutto per le poesie di carattere aggressivo e nei dialoghi teatrali.

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ASINUS

Asinus crepat, nos dirumpimur. Heus, Arion, non mihi inter crepitandum placent caudinae blanditiae. Tute tibi caudam contineto; nec est quod muscas ab ore arceas flabello tam lepido. Apage caudam a me! Hero tuo succodaneas istas blanditias tam suaves ventila! PONT. Dic illi bene, ne subirascatur vide. Age, Arionice, age, Cyllarice heros, sentiat te herus tuus hilarissimum, quando ipse hilarissimus est. PUER Choream ductitat bestiola. Secedite, Napaeae, ne dum ternarium saltat, dum septenarium crepitat, ora vostra illiniat purpurisso. Ah, ah, ah, post ingentis tonitrus ingentes pluviae! Potuitne lepidius ac magis in tempore? O Arabicam mercem Sabaeaque odoramenta! Agite, amantes, legite muscum, seligite zebethum, implete arculas Cyprio pulvillo. PONT. O delicias regias, o ludos Olympico deo dignos! Nonne ego te vel ostro instraverim Tyro abusque advecto? [18] PUER Fac venalem purpurissum prius, inde tibi pretium proveniet tantum, uti fibulas etiam aureas ostro suffigas et auratas cingulas, quibus illud subliges, here delicatissime! Sed quid hoc, Cyllare? quid, inquam, Cyllare? Disciplina haec haudquaquam mihi satis placet. Ludum ego hero, non mihi calcitronem instituo. Abi malam in rem, blanditias istas tam urbanas et lude et applaude domino tuo tam delicato. Ad illum recursa, illi concine cantilenas istas tam lepidas, asininum istud plectrum illi perpulsato. An etiam me petis? Etiam atque etiam calce petis? proripe hinc te ad regem tuum, nequissime. PARD. Quid hoc? post suavium etiam complexum PARD. PUER

ASINO

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L’Asino screpita e noi crepiamo di riso! Ohi!, Arione, non mi piacciono questi vezzi con la coda mentre scoreggi. Tieni la coda al suo posto: non c’è bisogno che mi allontani le mosche dalla faccia con un ventaglio così grazioso. Va via con quella coda! Sventola le delizie del tuo sottocoda in faccia al tuo padrone! PONT. Parlagli con garbo, non farlo arrabbiare! Su Arione, su eroico Cillaro, il tuo padrone, che è allegrissimo, ti vuole vedere allegro. RAG. La bestiola fa un girotondo. Allontanatevi ninfe Napee,65 altrimenti, mentre salta un ternario, mentre crepita un settenario, vi imbelletterà il volto. Ah ah ah, tanto tuonò che piovve! Che grazia, che tempismo! Oh che merce arabica, oh che profumi sabei!66 Su amanti, raccogliete il muschio, scegliete lo zibetto, riempite le vostre scatoline con la polvere di Cipro! PONT. Oh delizie regali, oh scherzi degni del dio di Olimpia!67 Non devo io forse coprirti con porpora fatta venire sin da Tiro? [18] RAG. Metti prima in vendita questo belletto, per guadagnare quanto basta per aggiungere alla porpora le fibbie d’oro e una catena d’oro con il quale legarlo, oh padrone raffinato! Ma cos’hai, Cillaro? Dico a te, cos’hai? (l’asino lo scalcia) Questo comportamento non mi piace affatto. Ti ordino si serbare per il tuo padrone questi calci scherzosi! Vai in malora! Con queste blandizie urbane scherza e festeggia il tuo padrone che è tanto raffinato. Ritorna di corsa da lui, canta a lui queste canzoncine così graziose, suona per lui questa lira asinina. (l’asino lo assale) Cosa fai, mi assali? Mi assali scalciando? Vattene dal tuo padrone, cattivissimo che sei! PARD. Cosa significa? Dopo il bacio quell’animale PARD. RAG.

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Ninfe dei prati. Appartenenti al regno di Saba, nell’Arabia sud-occidentale. Giove.

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ASINUS

parat quadrupes spurcissimus? Pulchrum erit videre quo asininae istae deliciae tandem, ut dici solet, evasurae sint. [19] PONT. Cur puero tam bono, mi aselle, malefecisti? Quid? Altorem tuum verberasti tam impie? An fortasse hordeum tibi negligentius exorevit? An pectinem dorso inclementius duxit? Vide, vide, amabo, ut prae pudore auriculas, ut etiam caput demisit, ut obticuit pudentissimus, pigetque poenitetque maleficii! Eum ego te, aselle, velim, qui in asino quidem asini nihil habeas, qui sis urbanitate etiam ipsa urbanior. PARD. Utinam ne in homine qui asinos sese gerant etiam plurimos invenias! pervetusta est Asiniorum familia longeque nostris in urbibus numerosa; quae enim domus quam haec ipsa tam ferax est tamque foecunda propagatu atque altu? PONT. Hoc, sis, puer, flabellum cape culicemque illum quam potes longissime abige. PUER Abegi, salvus est dominus, salva est patria. PONT. Defrica illi auriculas, manu quam levissima.27 Vides ut gestit? Ut tibi gratias agit? Tantum non tete osculatur. PUER Abi malam in rem! Osculi genus tam suave! Asininas morsiunculas tam illecebrosas! Labra pene mordicus abripuit! PONT. Ne, quaeso, irascere; titillatum tute illi concisti, tua est culpa. Duc palmam urbaniuscule ad coxam atque sub ipsis ilibus.

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Cfr. «De stagneo vasculo multo sese perungit oleo balsamo me que indidem largissime perfricat, sed multo tanta impensius cura etiam nares perfundit meas» (Apul. Met. 10, 21, passo nel quale si descrivono le cure che la matrona presta a Lucio prima dell’amplesso).

ASINO

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zozzissimo si prepara anche ad un amplesso? Sarà divertente vedere a che fine condurranno queste delizie asinine. [19] PONT. (carezzando il dorso dell’asino) Perché, asinello mio, hai fatto del male ad un ragazzo tanto buono? Per quale motivo? Per quale motivo hai percosso in modo così scellerato colui che ti dà da mangiare? Forse ti ha pettinato il dorso con mala grazia? (al ragazzo) Guarda, ti prego, guarda come per la vergogna abbassa le orecchie e il capo, come si nasconde imbarazzato e si vergogna e si pente del male che ha fatto! Io vorrei, caro asinello, che tu, che non hai niente di asinino nel tuo essere un asino, diventi più gentile della stessa gentilezza. PARD. Volesse il cielo che anche fra gli uomini non se ne trovassero così tanti che si comportano come asini! La famiglia degli Asinii è molto antica e, soprattutto nelle città del nostro regno, numerosa; quale stirpe è al pari di lei feconda e al pari di lei si diffonde? PONT. Vieni qui, ragazzo, prendi il ventaglio e scaccia più lontano che puoi quella mosca. RAG. L’ho scacciata. Il nostro caro asino è salvo, salva è la patria! PONT. Grattagli le orecchiuzze, con mano quanto puoi leggera. Vedi quant’è contento? Come ti ringrazia? Per poco non ti dà un bacio! (l’asino morde il ragazzo) RAG. Vai in malora! Proprio un bacio soave! Dei morsetti asinini assai ammalianti, non c’è che dire! Mi ha quasi staccato le labbra con un morso! PONT. Ti prego, non ti adirare; sei tu che gli hai fatto il solletico, è colpa tua. Passa il palmo della mano gentilmente sulla coscia e sull’inguine.

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Hoc ago. Cave, bestia, quid caudam ventilas? Ne time, ventrem defrica, idque quam levissime ut agas vide. PUER Istud ipsum agitur. Quid? Crepitas, nequissime? Quid? Pedem quassas? Vide, bestia! cave, bestia! siste, ingratissime! Here, tute hoc ipsum age, mihi in asino imperium nullum est. Costas pene calce diffregit. Non sensisti ut insonuit pectus? Nova haec musica asininaque harmonia placeat cuivis. Mihi cum asino posthac res nulla futura est amplius, nisi vectem etiam quercum testem adhibueris. [20] PONT. Abiit puer, et quidem exclamabundus. Vides quid egisti, mea voluptas? non te pudet, non te poenitet altorem tuum etiam liberalissimum pulsasse tam illiberaliter? Deturbasse in terram pexorem obsequentissimum tam impudenter deblanditoremque tam lepidum pene mutilum fecisse naribus, tanta cum pervicacia? Non intelligis quam inique a te factum sit quam etiam impotenter? Amabo, deliciae meae, mores istos agrestiores exue atque urbaniores indue. Quid puerum pepulisti tibi tantopere indulgentem? Abundas ocio, abundas hordeo, ornamentis etiam regiis nites. Decet in ista fortuna minime uti superbia; humanitatem atque mansuetudinem secundae par est fortunae comitem esse. Hos te mores induere velim, hanc hero gratiam tot pro beneficiis referre. Demisisti caput; heri PUER PONT.

ASINO

RAG.

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Va bene. Attenta, bestiaccia, perché sventoli la

coda? Non temere, sfregagli il ventre e cerca di farlo nel modo più leggero possibile. RAG. Va bene, faccio così. Ma cosa? Scorreggi, cattivone? (l’asino lo colpisce) Che cosa? Mi colpisci con gli zoccoli? Fai attenzione, bestiaccia! Attento a te, bestiaccia! Vai via, ingrato! Padrone, pensaci tu, io non ho nessuna autorità su questo asino. Mi ha quasi rotto le costole con un calcio. Non hai sentito come ha risuonato il petto? Di questa musica, di questa armonia asinina, si diletti pure chi vuole! Dopo questa esperienza, per quanto mi riguarda non avrò più nulla a che fare con un asino senza la compagnia di un bastone di quercia. [20] PONT. Il ragazzo se n’è andato strepitando. (carezzando l’asino) Hai visto cosa hai fatto, delizia mia? Non ti vergogni, non ti penti di aver colpito in modo così irriconoscente chi tanto generosamente ti nutre? Con quale impudenza hai gettato in terra colui che ti pettinava deferentemente, con quale malvagità hai quasi staccato il naso di chi ti diceva dolci parole? Non ti rendi conto di aver agito ingiustamente e con prepotenza? Di grazia, mia delizia, abbandona questi costumi agresti ed assumi un comportamento maggiormente urbano.68 Perché hai colpito il ragazzo che è stato tanto buono con te? Hai riposo ed orzo in abbondanza e sei parato con ornamenti regali. In una simile fortuna è giusto non montare in superbia; quando si gode della buona sorte bisogna essere umani e mansueti. Vorrei farti apprendere le buone maniere, concedi questa grazia al tuo padrone in cambio dei tanti benefici che ti ha concesso. Hai abbassato il capo; hai leccato i PONT.

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La comicità di questa scena si gioca sul contrasto tra l’urbanitas dei modi di Pontano, che tenta di ammansire l’asino, e la agrestitas della bestia, non soltanto ingrata ma incapace di comprendere gli insegnamenti del padrone (cfr. Tateo, Asinus: 334-341, con interessanti rimandi alla trattatistica pontaniana).

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ASINUS

pedes delinxisti; nunc mini places, dum te malefacti poenitet, dum erratorum pudet.28 Hoc est sapere, in manifesto peccato audire institutorem ac recto monentis praeceptis obtemperare. Atqui ego te pro poenitentia ista vel sapone etiam Arabicis odoramentis condito totum perluerim caputque et pedes laverim. Pelvem afferte, in eaque tepidiusculam plurimam, myrteo cum liquore Arabicisque condimentis, quibus meas delicias more meo inungam. Bene habet; aqua tepidiuscula est et multa, pelvis bene ampia et nitida, liquor quem ipsius Veneris ducas, condimenta quae Arabiam illam quidem Eudaemonem huc secum pertulisse videantur. Quod ultra desiderem nihil est, nisi te ut agas quam mansuetissimum, dum te perluo, dum te inungo, delicium meum. PARD. Expecto videre quo res haec tandem sit evasura. [21] PONT. Et iam blandiris, iam caudam surrigis, iam capite micas totusque toto etiam corpore, meus asine, mihi gestis. Euge, deliciae, ut ego te nitore ipso nitidiorem reddam. Siste, age caudam ad me, dum bene lotam depecto quam lepidissime depexamque multo lepidius inungo. Quid hoc, quod clunes mihi lavandas, asine, vix porrigis? Non satis placet ista pedum tam frequens agitatio. An fortasse titillatus ipse te cepit? Hoc illud est, mea animula. Verum ego longe te ineptior sum, qui non a capite loturam coeperim. Sensisti erratum; hinc mihi caput obiicis, hinc auriculis micas. Euge, lepidissime, ut te delectat tepidula,

28 Il personaggio di Pontano interpreta le movenze dell’asino come altrettanti segnali di un improbabile pentimento; probabile un’eco dalle Metamorfosi di Apuleio: «Iam que rumor publice crebruerat, quo conspectum atque famigerabilem meis miris artibus effeceram dominum: hic est, qui sodalem convivam que possidet asinum luctantem, asinum saltantem, asinum voces humanas intellegentem, sensum nutibus exprimentem» (Apul. Met. 10, 17).

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piedi al padrone; ora mi piaci: ti penti dei tuoi misfatti, ti vergogni dei tuoi sbagli. In questo consiste il buon senso, nell’ascoltare il precettore quando ci si è macchiati di una colpa evidente e nel sottostare ai consigli di chi ammonisce a ragion veduta. Ebbene io, come premio di questo tuo pentimento, voglio pulirti ben bene il capo e lavarti gli zoccoli con un sapone arricchito di arabici profumi. (rivolto ai servitori) Portatemi il catino! Riempitelo con abbondante acqua tiepida, aggiungete il liquore di mirto e i profumi arabici, ed io, secondo il mio costume, li verserò sul mio tesoro. Bene, bene: l’acqua è tiepida a sufficienza ed abbondante, il catino è ampio e lucente, il liquore si direbbe degno di Venere, i profumi sembrano quelli che porta con se l’Arabia Felice.69 Non manca proprio niente: devi soltanto, delizia mia, rimanere tranquillo mentre ti lustro e mentre ti ungo. PARD. Aspetto a vedere come andrà a finire questa faccenda. [21] PONT. Ecco che mi accarezzi, alzi la coda, agiti il capo e con tutto il corpo, asino mio, mi esprimi la tua gioia. Bene, delizia mia, ti renderò più splendente dello splendore stesso! Alza la coda verso di me, ti prego, mentre la pulisco e la pettino ben bene e dopo averla pulita la ungo. Come mai non vuoi porgermi le natiche perché te le lavi? Non mi piace come agiti gli zoccoli. Forse ti ho fatto il solletico. Ecco, è così, animuccia mia. Sono io ad essere più stupido di te per non aver iniziato il lavaggio dalla testa! Ti sei accorto che avevo sbagliato per questo mi facevi cenno col capo, per questo agitavi le orecchie. Bene, cari-

69 Termine adoperato dagli scrittori antichi per indicare le regioni più meridionali della Penisola arabica, celebri per la produzione di profumi raffinati.

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ut frictio tam minuta et lenis! [22] Nunc me beas, dum dentes restringis, dum morsiunculas tam urbanas ludis. Apage, apage, animal inertissimum, bestiam ingratissimam! Ut mihi pene manum utramque morsibus abripuit! Ut me tam offirmato capite percussum in terram atque in lutum excussit! Arbuscula haec vix praesidio mihi fuit, quominus stratum me atque humi iacentem et pedibus inculcaverit et calcibus totum diffregerit! Apage te, bestiam nequissimam! Hoc, hoc illud est, tarde illud didici senex improvidus, homo minime consideratus! Hoc hoc, inquam, illud est quam usurpatissimum, asino caput qui lavent, eos operam cum sapone amittere, in asinum abire qui asino delectetur!29 Quocirca frustra me et opera et sumptus habuit. Sero hoc didici, iuvat tamen exemplo ipso alios commonuisse. O asini, valete iam, valete posthac ipsa cum Arcadia, asini!

VIII. FASELIO VILLICUS, PONTANUS [23] FASELIO Quod sine ulla fiat fraude meoque permagno cum commodo, meum mihi nomen mutari, here, cupio, deque Faselione fieri Caselio volo. PONT. Delectat me utique nominis commutatio teque ut de marra rastrisque benemeritum donatumque Parmensi

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Tale battuta riprende «per concetto e lessico, espressioni proverbiali plautine, segnalate con molto cura in margine [scilicet: nel manoscritto Vindob. lat. 3168]: Poe. 332 (tum pol ego et oleum et operam perdidi, e vd. anche Au. 578 ego faxo et operam et vinum perdiderit simul) e Ru. 23 (et operam et sumptum perdunt...), sostituendo ai prodotti “mediterranei” del proverbio antico (olio, vino) il “sapone” del noto detto italiano (“chi vuol lavar la testa all’asino perde il ranno ed il sapone”), che trova nel testo di Pontano una così ben riuscita trasposizione scenica» (Cappelletto, Lectura Plauti: 97).

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no, come ti piace l’acqua tiepida e il massaggio delicato e leggero! [22] Ora mi rendi felice, restringi i denti e mi dai tanti morsetti scherzosi. (l’asino lo morde e lo spinge a terra) Via, via animale maldestro, ingratissima bestia! Con i tuoi morsi mi hai quasi staccato entrambe le mani! Con la tua testa dura mi hai buttato in terra e gettato nel fango! Questi arboscelli mi hanno difeso, altrimenti, mentre ero riverso a terra mi avrebbe calpestato con gli zoccoli e fatto a pezzi! In malora, bestia malvagia! È vero, è vero quello che si dice – l’ho imparato tardi, vecchio incauto e senza cervello che sono! – è proprio vero, quel proverbio trito e ritrito: chi lava la testa all’asino spreca la fatica insieme al sapone, e quell’altro: chi si diletta con gli asini si trasforma in un asino! Per questo ho sprecato tempo e denaro. L’ho imparato tardi, con il mio esempio posso ammonire gli altri. Oh asini, addio! Dopo questa esperienza, addio asini, insieme a tutta l’Arcadia!70 VIII. FASELIONE CONTADINO, PONTANO71 [23] FASELIO Padrone, dato che non comporta un inganno e mi fa molto comodo, desiderio cambiare nome, da Faselione a Caserio.72 PONT. Mi piace senz’altro questo cambiamento del nome e stabilisco di far derivare il nome Caserione da questa grande e vecchissima forma di formaggio di Parma che ora ti dono per i meriti acquisiti colla marra e il 70

Terra nota nell’antichità per essere popolata da numerosi asini, cfr. Char. § 50, nota 98. 71 La scena è ancora ambientata nella villa di Antignano; bisogna immaginare che Pardo e gli altri sodali si allontanino dal cespuglio e tornino indietro dai loro servitori per poi ritornare nella villa di Pontano dall’ingresso principale. 72 Faselione intende mutare il suo soprannome per sancire il suo passaggio alla vita matrimoniale. Pontano interpreta il nome secondo l’etimologia latina (Caserio da caseus, formaggio), mentre il servitore intendeva riferirsi alla parola italiana casa.

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illo caseo pervetere et grandi salvere Caselionem iubeo. Vale, Caselio, iam salve. Caselio, multumque ac diu salve! FAS. Nec me dono ipso indignum, here, duco, et libens volensque illud manucapio; namque et vetustulus est caseus et sarcinam prorsus asinariam exaequat. Alia tamen est novi nominis et ratio et causa. Ducere uxorem volo neque ubi cum illa inhabitem mihi casa est ulla; hac ego a te donatus dono ex ipso agnominari Caselio volo. PONT. Anne magis Uxorio, quando uxoris gratia donari a me et ipse cupis et ego te donatum opto uxoriae rei gratia? Eccas tibi unciolas tris Robertinis e liliatis. Cape libellam, siquidem et probi et iusti sunt pensi; his tute tibi casam commercator, his in suburbania locis. Vin ab hero tuo aliud? FAS. Et unciolas accipio et aliud est etiamnum, here, a te impetrare quod cupio. Tu me de rastris deque marra benemeritum donas, et recte quidem donas; verum neque te dieculae illius tam voluptariae immemorem esse decet gratiamque mihi ut referas profecto par est. Lectulus ille in quo delicias tam illecebrosas meridiator fecisti novam sibi supellectilem cupit, novas munditias, ipseque novus sum maritus, nova et illa nupta. [24] PONT. Do, volo, spondeo, hac tamen conditione, ut mihi quoque... FAS. Quid est hoc verbi? Caselio ego sum, non coquus. PONT. Hoc verbi illud quidem ipsum est, mi Caselio,

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rastrello. (gli porge una forma di formaggio) Salve Caserio, ti saluto Caserio! FAS. È un dono non indegno di me, padrone, e l’accetto molto volentieri; è un formaggio ben stagionato e molto pesante. Ma la ragione del cambiamento del nome è un’altra. Desiderio sposarmi e non ho una casa nella quale vivere con la mia bella; vorrei che tu me la donassi in modo da essere chiamato Caserio dalla casa che mi doni. PONT. E perché non Uxorio, dato che me lo chiedi per tua moglie ed io per tua moglie desidero farti tale dono? Ecco qui tre once d’oro con il giglio di re Roberto.73 Prendi le monete, se le ritieni una somma adeguata e sufficiente; con queste comprati pure una casa fuori città. Desideri altro dal tuo padrone? FAS. Prendo le monete, padrone tuttavia vorrei da te ancora una cosa. Tu dici che mi fai questi doni per quanto ho merito col rastrello e colla marra e fai bene; ma non devi dimenticare di quella giornata tanto voluttuosa ed è giusto che mi rende il favore. Quel lettuccio sul quale a mezzo giorno a casa mia hai provato piaceri deliziosi74 richiede una nuova suppellettile e biancheria nuova: il marito è nuovo ed anche la moglie è nuova. [24] PONT. Lo concedo e lo prometto, a condizione che anche io possa intingere… FAS. Di che parli? Di cibo? Sono Caserio, non un cuoco, 75 cosa significa? PONT. Significa che tu, caro Caserio, permetterai al 73

Pontano dona al suo servitore tre once di una moneta di grande valore: il saluto d’oro di Roberto d’Angiò (il giglio è quello dello stemma nobiliare angioino). 74 Come viene chiarito dalla battuta di Pardo nella scena successiva (§ 26), Faselione è solito aiutare il suo padrone nelle «pene amorose» prestandogli il letto in occasione di incontri clandestini (cfr. la scena VI dell’Antonius dove è messa in scena la giustificata gelosia della moglie Adriana, ancora viva nel 1486). 75 Gioco di parole tra l’avverbio quoque (anche) e il termine coquus (cuoco).

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ut mihi, perveteri, liberali atque indulgenti hero tuo, illud liceat etiam in luce. FAS. Tute tibi hoc videto, dum foveo, dum aro, ut luceat, nunquam enim agrum ipse nocturnis aravi in tenebris. PONT. Hoc ipsum est, mi Caselio: arare ego tecum in luce una cum uxorcula30 agellum velim. FAS. Orare profecto ad genua quoque provolutus potes; ne tu trimodio quidem cicerculae ab illa, non si quotquot horti Caietani siliquulas ferunt, vel unam solam oculorum paetulam inflexionem impetrabis, senex, edentulus, exuctis medullis senioque ipso confectus atque incanis malis. PONT. Quid si ad tris illas unciolas atque ad lectulum accesserit a me senio etiam Alfonsinorum, quis et ollas pulmentarias et patinas et pelves quaeque vasa nuper peregrina e materia allata sunt Valentia Balearibusque abusque insulis ipsa sibi uxor comparet? Teque cum videam hilarem atque uxori deditum, illam mihi et illecebrosam videre iam videor et rei familiari etiam plus nimio deditam. Cumque tenella ipsa sit atque in suburbiis nata, urbanitatem prae se ferre scitulas inter puellas festisque ut queat diebus a te ipso summopere videndum duco. Ego, mi Caselio, non deero. Vult puella crispellas aureolas capiti, vult collo redimicula pedibusque bracteatulas soleas. Ego haec illi omnia, tibi quoque natalitiis in solennibus calceos diversicolores trisque quotannis pernulas suillas dabo. FAS. Num et penulas? PONT. Et penulas tibi et subuculam lili rosacem. Verum ago, quaeso, amice Caselio, quibus est papillulis nostra animula? FAS. Tumidiusculis quasque manu vix interstringas. 30

Il diminutivo, attestato anche in Plauto (Cas. 844 e 915), si legge nelle Metamorfosi di Apuleio per indicare una donna di campagna che tradisce il marito: «Erat ei tamen uxorcula etiam satis quidem tenuis et ipsa, verum tamen postrema lascivia famigerabilis» (Apul. Met. 9, 5).

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tuo vecchio padrone, generoso e liberale, di fare quel che sai anche alla luce del giorno. FAS. Per forza! Si deve coltivare ed arare durante il giorno: non ho mai arato i campi di notte. PONT. Caro Caserio, intendo dire che io vorrei, durante il giorno, arare insieme a te il campo della tua mogliettina. FAS. Puoi anche pregarmi in ginocchio, nemmeno per tre moggi di ceci e per tutti i fagioli che nascono negli orti di Gaeta! Non ti concederò nemmeno un’occhiatina di soppiatto, brutto vecchio, sdentato, rinsecchito, consumato dagli anni e dagli acciacchi! PONT. Che ne dici se questo vecchio aggiungesse alle tre once d’oro e al lettuccio alcune monete alfonsine, con le quali la mogliettina potrebbe comprarsi pentolame, catini e anche dei vasi scelti tra quelli che poco fa sono stati portati da Valencia e dalle Baleari? Ti vedo allegro e tutto preso dalla moglie e mi sembra che la moglie sia sin troppo interessata e dedita ai beni di famiglia... E dato che è schizzinosa e nata nei pressi della città, credo proprio che vorrà superare in eleganza le fanciulle più graziose del contado e che per questo, nei giorni di festa, tu dovrai adoperarti per fare in modo che ciò accada. Ed io, caro Caserio, non mancherò di venirti in aiuto. La fanciulla vuole orecchini d’oro per il capo, una collana per il collo e sandali per i piedi. In casi del genere io ti darò tutte queste cose e a Natale ti donerò calze di diversi colori e tre prosciutti di maiale. FAS. Mi darai anche dei mantelli? PONT. A te dei mantelli e a lei una sottoveste color rosa. Ma dimmi Caserio, amico mio, come sono le tettine della nostra amata? FAS. Piccole e gonfie: stanno appena nel palmo di una mano.

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PONT. Innatane, obsecro, adhuc illic est illi lanugo? FAS. Nulla. PONT. Novaculam fortasse adhibuit. FAS. Nullum adhuc illa fecit tonsum, putula tota est

nedum glabris femurculis! PONT. Illud quoque non est quod erubescas, fateare, amabo, salitne, dum ipse salis, nostrum delicium? FAS. Et salit et sussilit et auram inspirat et scit quibus verbis paxillum surrigat, fermentillam dicas. PONT. Quid hoc verbi, mi Caselio? FAS. An ignoras fermento contumescere panificiam materiam? Habet illa in manibus, in verbis, in ocellis fermentum. PONT. Venus bona! Ut blande, ut deliciose futurum est mihi cum Fermentilla nostra! Sed heus, tu, mi Caselio, nihil ultra, continendus est sermo. Eccos philosophos, exhibe vultum gravem advenientibus, ac si de ipsorum adventu collocuti hic simus diutius.

IX. PONTANUS, CASELLIO, PARDUS [25] PONT. Videone ego heroes meos? Illi ipsi sunt, dies hic profecto mihi futurus est oppido quam iucundus. Valeat omnino res asinaria. Heus, tu, Caselio, de Fermentilla nulla sit cum heroibus nostris omnino mentio. Atque, ut illa secum magis ac magis gaudeat, asinum tam belle cultum

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PONT. E laggiù è già cresciuta la peluria? FAS. No. PONT. Forse ha adoperato il rasoio. FAS. Sino ad oggi non hai mai usato il rasoio, è

tutta liscia e le cosce sono prive di peli. PONT. Non c’è motivo di arrossire, dimmi, di grazia, la nostra delizia sussulta quando la monti? FAS. Sussulta e si agita e sospira, e conosce con quale parole far alzare il membro: è come un lievito, è come un fermento. PONT. Che intendi dire, Caserio? FAS. Non sai che il lievito fa crescere la pasta del pane? Nelle sue mani, nelle sue parole, nei suoi sguardi c’è il lievito. PONT. Oh cara Venere! Che futuro seducente e delizioso mi aspetta con la nostra Fermentilla! Ehi, Caserio, basta, interrompiamo il discorso. Ecco che arrivano dei filosofi: mostra loro un volto severo, come se fino a questo momento avessimo discusso della loro venuta.76

IX. PONTANO, CASERIO, PARDO [25] PONT. Ma quelli non sono i miei eccellenti amici? Sono proprio loro. Questo giorno sarà proprio gradevole. Addio per sempre occupazioni asinine! Ehi tu, Caserio, non fare parole della nostra Fermentilla con i nostri eccellenti amici. E perché lei si rallegri sempre di più, ti dono quest’a-

76 Pontano, rinsavito dalla stolta ed incauta predilezione per l’asino, rimane preda di una diversa follia, quella amorosa, dalla quale non ha intenzione di guarire (per la rappresentazione di Pontano come senex innamorato e lussurioso cfr. Antonius scena VI e la raccolta poetica Eridanus); è significativo che, una volta scorti i sodali, l’anziano umanista decida di dissimulare questo aspetto del suo carattere.

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cuteque tam nitida dono ad eam ducito, quo satis illam scio et ruris et suburbiorum puellas superaturam specie, comptu, stratu, dum ad nuptias vocata, dum Puteolanas it ad balneas, etiam blandientibus crepitaculis. CASELIO Here, mihi crede, hoc asello tibi ab illa et meridies hermaphroditinas comparabis et noctes. PONT. Amabo, quid nobis cum hermaphrodito? CAS. Quod illa sic tecum amplexa, innexa, implicita accumbet incumbetque in lecto, itaque inhaerescet hederescetque tecum una, hermaphroditum simul ut agatis; ego tum vobis inspergam et rosam et myrtum et quos illa e citrio deliquavit rores. Verum approperant iam philosophi, ego ad eos praecurro. Expectati advenitis, viri boni, et herus de adventu quidem solicitus erat vestro, quod diebus compluribus ad eum non venissetis. Scilicet domestica vos negocia impedierunt. Ipse vero de brasiculis diebus his solicitus fuit admodum, quod eruculis averuncandis non medicamenta, non Catonianum illud carmen quicquam profuerit; omnia exederunt holera bestiolae tam importunae. [26] PARD. Senex ergo noster etiam in hortis non caret molestia? CAS. Adite ad illum, liberabitis eum aliam etiam molestia. Diem hunc pene dimidiatum transegit in volutando coelo, quod manibus adhuc etiam versat; cui mea quidem

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sino così ben curato e con la pelle così lucida: glielo porterai: con quest’asino, lo so per certo, supererà le ragazze di campagna e del suburbio quanto a bellezza, eleganza e gualdrappa quando, accompagnata dal tintinnio dei sonagli, incederà su di lui per recarsi ad uno sposalizio o a i bagni di Pozzuoli. CASERIO Padrone, credimi, con questo asinello otterrai da lei pomeriggi e notti ermafrodite. PONT. Di grazia, che cosa c’entriamo noi con un ermafrodito?77 CAS. Perché, dopo essersi intrecciata insieme a te con un saldo abbraccio, si stenderà sopra di te sul letto e si attaccherà a te come l’edera e insieme formerete un ermafrodito; io vi aspergerò di mirto e di rose e con la rugiada che produce il cedro. Ma i filosofi ormai sono vicini: vado loro incontro.78 (rivolto a Pardo, Sincero, Altilio e Cariteo) Vi stavamo aspettando, galantuomini, e il padrone era preoccupato di non vedervi arrivare, perché da molti giorni non vi siete fatti vivi. Immagino che gli affari domestici vi abbiano trattenuto. Da parte mia in questi ultimi giorni ho avuto molti problemi con i cavoletti, dato che con nessun rimedio, nemmeno il carme di Catone, riuscivo a debellare i bruchi; queste bestiole fastidiose si sono mangiate tutto l’orto. [26] PARD. Dunque al nostro vecchio anche in villa non mancano le preoccupazioni,? CAS. Andate da lui e liberatelo da un’altra molestia. Ha trascorso metà di questa giornata voltando un cielo79 che anche ora tiene tra le mani; a parer mio gli ha dato di

77 Giovane mitologico, figlio di Ermes e di Afrodite; la ninfa Salmace se ne innamorò ed ottenne dagli dei di essere unita per sempre con lui, dando vita così ad un unico essere, per metà uomo e per metà donna. 78 La scena si sposta all’entrata della villa, poco distante da dove si trova Pontano. 79 Faselione si riferisce ad un astrolabio.

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sententia cerebrum identidem volutatur, et, ni ego accurrissem, amiculo iniecto, dum coelum suspectat et alvearia non videt, in ea illiatus, apiculae illum confecissent.31 Mihi credite, senes tandem omnes quique praesertim habiti sunt sapientiores delirio corripiuntur. Senex autem hic noster non uno delirat modo; sed non est nunc plura dicendi locus, dicam apertius alias. Amore etiam insanii ac nutrire sibi capillum coepit, qui tonso semper capite in hunc usque diem atque in publicum processerit. PARD. Faselio mi, dic, obsecro, de asino quid est actum? CAS. Perbene quod non senem ipsum confecit iam calcibus, adeo nihil defuit ad lumbifragium,32 quem dono mihi post id dedit; suboluit enim illi uxorculam mihi ducendam, nihil enim est eo salacius ac nescio quomodo in maritas foemellas magis accenditur. PARD. Parcius, oro, Faselio, quippe qui solitus sis illi subblandiri et de amore laboranti ferre suppetias. Sed venit iam ad nos Senex, conferamus gradum et hilares hilarem salutemus.

X. PARDUS, SYNCERUS, ALTILIUS, CHARITEUS

[27] PARD. Et bene et feliciter cum familiaribus his tuis agitur, dum te valentem conspicimus, dum quae ruris sunt ea te summo studio, singulari diligentia curantem intuemur, quodque quatriduum hoc in secessu procul ab negociis, vacuus etiam urbanis curis requieveris, novum te excudisse aliquid tua pro consuetudine arbitramur. Quocirca tanto etiam iucundius magisque e sententia nobiscum 31 Riscrittura dell’antico aneddoto su Talete, caduto in un pozzo mentre osservava il firmamento, riportato da Platone nel Teeteto (Plat. Theaet. 174a-174c) e da Diogene Laerzio (Diog. Laert. 1, 34), riscontro segnalato in Mariotti, Per lo studio: 187; l’aneddoto è diffuso tra gli umanisti, cfr. ad esempio Filelfo, Saty. 4, 4, 2-4. 32 Gioco di parole plautino, cfr. Plaut. Amph. 454.

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volta il cervello: se non fossi accorso a gettargli addosso un mantello le api lo avrebbero ucciso – mentre guardava il cielo non ha visto l’alveare ed è andato a sbatterci contro. Credetemi, tutti i vecchi, soprattutto quelli che sono considerati i più saggi, sono preda della follia. Questo nostro vecchio, poi, non delira in un solo modo; adesso non c’è tempo di elencarli tutti, dirò soltanto qualcosa. Impazzisce d’amore, ha iniziato a farsi crescere i capelli, lui che sino ad oggi è sempre andato in giro con il capo rasato. PARD. Dimmi, Faselione, ti prego, che cosa combina con l’asino? CAS. È andata bene che l’asino non l’abbia ucciso a calci! Poco fa è stato sul punto di spaccargli le reni; poi me lo ha donato; ha scoperto che sto per sposarmi con una giovane mogliettina, e niente, non so perché, lo eccita di più delle giovani spose. PARD. Sii più rispettoso, Faselione, dato che sei solito dargli spago ed aiutarlo nelle pene d’amore! Ma ecco che viene verso di noi il vecchio, andiamo verso di lui e salutiamolo allegramente, dal momento che, a giudicare dall’aspetto, è allegro.

X. PARDO, SINCERO, ALTILIO, CARITEO [27] PARD. Le cose vanno bene per noi che ti siamo amici fintanto che ti vediamo in buona salute e ti osserviamo prenderti cura delle attività agresti con grande impegno e straordinaria diligenza. Poiché ti sei riposato negli ultimi quattro giorni in questo ritiro appartato, lontano dai tuoi impegni, privo di occupazioni cittadine, immaginiamo che, com’è tua abitudine, tu stia lavorando a qualcosa. La prospettiva di una tua nuova opera ci rende ancora più felici e per questo ti salutiamo con animo lieto e ci

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agitur eoque et valentem salvere te hilari maxime animo iubemus et perscrutationibus gratulamur, quando ocium tibi nullum absque mentis negocio fuisse tibi unquam abunde cognitum et perspectum nobis est. PONT. Ego vero amicissimos homines ac Musarum nostrarum alunnos ea voluptate his in hortis accipio amplectorque qua coelestis res diebus his in hac ipsa solitudine vel magis secessu sum contemplatus, siquidem contemplationis ipsius communicatio cum studiosis rerum earundem viris is profecto fructus est etiam suavissimus.

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congratuliamo per le tue osservazioni celesti, dal momento che sappiamo bene che non conduci mai un ozio privo di occupazioni intellettuali. PONT. Carissimi amici ed alunni delle nostre Muse, vi accolgo nei miei orti e vi abbraccio con quel piacere col quale negli ultimi giorni ho contemplato i fenomeni celesti in questa mia solitudine, o meglio in questo mio eremo, dato che il frutto più dolce della contemplazione consiste, non ci sono dubbi, nel comunicare quanto si è scoperto a chi si occupa dei medesimi studi.80

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Il dialogo si conclude prima che abbia inizio una discussione che si può immaginare dedicata agli studi astronomici (il discorso su Saturno al § 14, il riferimento all’astrolabio al § 26) e alla poesia dell’Urania (poema menzionato al § 12): «L’Asinus [...] è sostanzialmente il lungo prologo di una conversazione scientifica, sulla cui soglia lo scrittore ha deposto la penna. All’arrivo ufficiale dei suoi interlocutori l’opera d’arte era ormai compiuta» (Mariotti: Per lo studio: 197).