Di fantasmi, incantesimi e destino. Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità

Potermi confrontare con Emanuele Severino – quello che considero uno dei massimi esponenti del pensiero contemporaneo –

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Di fantasmi, incantesimi e destino. Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità

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Massimo Donà

Di fantasmi, incantesimi e destino Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità

Ai miei studenti:, per tutto quello che mi hanrw insegnato e ancora continuano ad insegnanni

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Preludio

Se per Severino l'errore, ossia l'alienazione della verità, «è il terrenoin cui vanno via via crescendo le opere, le istituzioni, le res gestae - e quindi anche, e certo innanzitutto, le molteplici forme culturali - deirOccidente e quindi anche ogni historia rerum gestarom» 1, e se, sempre per il filosofo bresciano, come già per Vico, «la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall'errore» 2, è anche vero che il contenuto dell'errore si costituisce per il filosofo bresciano come qualcosa di rigorosamente impossibile. Ma se le cose stanno così, chi potrebbe sensatamente mettere in dubbio che sia «impossibile che l'impossibile abbia a manifestarsi in una qualsiasi esperiell7.a»3? Ecco perché le motivazioni che sembrano sorreggere la negazione della verità sono «soltanto apparenze di motivazioni: non sono motivazioni reali, vere, perché per essere tali do-

1. E. Severino, I.A potenza dell1'errare. Sulla storia dell1'Occidente, Rizzoli, Milano 2013, p. 8.

2. Ivi, p. 201.

3. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2008, p.194.

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vrebbero fondarsi su quella verità originaria, che invece esse intendono negare»4 • Insomma, il contenuto dell'errore non appare; e non può apparire proprio in quanto sussiste solo come persuasione relativa a quel certo contenuto. Ad apparire è cioè, per Severino, sempre e solamente la persuasione in cui consiste quella che chiamiamo erranza, ma mai il contenuto di tale persuasione: ossia l'errore. Per questo il nostro filosofo avrebbe potuto affermare che il distruggersi e il diventar niente delle cose viene affennato non già in quanto questo lnro esser niente apt1aia - e cioè in quanto si esprima fedelmente il contenuto delrapparire -, bensì in quanto questo contenuto oiene interpretato secondo le categorie di quella saggezza pratica che sinora ha favorito la vita dell'uomo nel mondo.:s

Insomma, tutti gli errori in cui l'Occidente ha creduto e continua a credere, pensando addirittura si tratti di contenuti effettivamente manifesti, sono meri «fantasmi». Ossia esistono solo in quanto determinati contenuti (pur costituendosi come contenuti di per se stessi «inesistenti») vengono ritenuti esistenti. Esistono, cioè, solo come contenuti di fede - di quella fede che, sola, può farli in qualche modo esistere. Ecco perché tutta la storia dell'Occidente è, per Severino, una semplice storia di fantasmi e incantesimi (in grado di incantare una miriade di esseri umani e di far loro credere che, ad essere, sia anzitutto quel che non-è) che, peraltro, sono e possono svelare quel che sono solo alla luce della verità. Sì, perché, a dimostrare la loro radicale inconsisten7~, può essere solamente il Destino. Solo quest'ultimo potendo cioè mo-

4. E. Severino, Essenza del nichilisrrw, Paideia, Brescia 1972, p. 91. 5. Ivi,. p. 94.

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strare la loro impossibilità; e per ciò stesso la loro costitutiva fantasmaticità. Ecco perché la verità concepita e pensata con tanto rigore da Emanuele Severino (il suo concetto di verità costituendosi come il più rigoroso tra tutti quelli elaborati nel recente o nel più lontano passato dal pensiero occidentale) è sempre stata un vero e proprio, nonché accanito ghostbuster. Un vero e proprio acchiappa-fantasmi, chiamato ad operare a partire dalla «serena» consapevolezza secondo cui tutto (e dunque anche ogni persuasione malata, ma anzitutto ogni errore, e dunque ogni fantasma) sarebbe perfettamente illuminato dalla luce della verità; perché «l'apparire infinito del destino èla Cioia>>6 • E l'umano è destinato ad inoltrarsi all'infinito nell'apparire infinito; e a sperimentare così «l'eterno oltrepassamento di tutte le contraddizioni del finito»7•

6. E. Severino, I.A potenza dell'errare, cit., p. 153. 1. Ibidem.

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In memoria del mio Maestro

Non è stato un semplice professore di filosofia. O almeno, non lo è stato per me. Ho avuto la fortuna di incrociarlo, nel mio percorso di vita a Venezia, nella seconda metà degli anni Settanta. È stato e continuerà a essere la prova del fatto che, là dove il discorso si impone, e non ti lascia vie di scampo - là dove a disegnarsi è cioè la verità, ossia qualcosa che non si lascia confutare, ma nello stesso tempo ti persuade senza farti sentire ''incatenato", ossia conducendoti per mano verso la luce di una Gloria "liberatrice" (che, lungi dal renderti schiavo, mostra la tua originaria "regalità") -, ecco, là dove accade tutto questo, non è un semplice essere umano a parlare o a scrivere; ma il Destino in quanto tale a lasciarsi disegnare. Di tutto ciò è stato la prova Emanuele Severino, un filosofo che ha cominciato la sua carriera nelle aule dell'Università Cattolica, per proseguirla poi a Venezia e concluderla in quelle dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano; dove ha lasciato il segno, più o meno dai settanta ai novanta anni, su ancora tante altre generazioni di giovani studenti. Quando lo sentivi parlare non avevi l'impressione di aver a che fare solo con un uomo coltissimo e intelligentissimo;

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ma molto di più. A disegnarsi, davanti ai tuoi occhi e alle tue orecchie, era infatti il 'logos in quanto tale; qualcosa di non riducibile ali"opinione (per quanto ben fondata) di un filosofo. Severino ha deciso della mia vita; me ne sono reso conto quando, dopo averlo ascoltato per la prima volta nell'aula A di San Sebastiano a Venezia, ho capito che quello sarebbe stato il mio destino. Che non mi ci sarei potuto sottrarre. Credo di poter immaginare, dunque - e solo perché ho avuto la fortuna di essere allievo di Emanuele Severino-, cosa potesse voler dire aver la fortuna di seguire le lezioni di Kant, di Hegel o di Heidegger. Severino è uno dei pochissimi, credo, che rimarrà nella memoria dei secoli a venire come un vero e proprio «gigante» del pensiero. Non ci ha mai raccontato la «storia della filosofia»; più precisamente, ci ha insegnato a pensare. Insegnava a porsi le domande che contano; e a farsi inquietare dalla potenza di una verità nei cui confronti non ci si può che fare testimoni, cercando di seguirne diligentemente il "dettato". Ma, se la sua parola si annunciava e voleva essere fedele alla «verità», è bene ricordare che, per lui, farsi testimoni della verità significava porsi in ascolto di qualcosa che ben poco avrebbe avuto a che fare con ciò che per la tradizione occidentale aveva sempre significato una tale parola. Per lui, infatti, testimoniare la verità, ossia il Destino, significava riconoscere la regalità di ogni manifestazione dell'essente, e non - come si è sempre creduto, lungo la storia dell'Occidente - solo di una parte dell'essente (chiamata di volta in volta, «idea», «essenza», «Dio», «legge scientifica», ecc.). Perciò ci ha insegnato a considerare divina ogni esistenza. E ad averne un sacro rispetto.

Su Severino

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La «verità» e il mago Frestone

Ricordo ancora, come fosse oggi, la prima lezione che mi capitò di seguire, da studente, nella mitica Aula A di San Sebastiano a Venezia - una lezione che ha segnato la mia vita, anzi che l'ha letteralmente de-cisa. Decidendo del mio futuro, e consegnandomi anzitutto ad una inossidabile ossessione per la «verità». D'altro canto, la verità - lo capivo anch'io, già allora - non poteva evidentemente essere né mia né di Severino, essendo la medesima, nello stesso tempo, di tutti (essendone tutti gli essenti originaria manifestazione) e di nessuno (ché non è posseduta da nessuno degli umani che si impegnano a testimoniarla, allo stesso modo in cui nessuno degli essenti è posseduto da essa, come da una catena che in qualche modo lo «costringa»). La potenza di quelle parole - la ricordo come fosse ieri ... i riferimenti alla lampada accesa (una lampada effettivamente appesa al soffitto dell'aula A), al suo apparire, al suo costituirsi come apparire dell'eterno. Ecco: tutto ciò metteva chiarissimamente in luce come quel che Emanuele Severino stava cercando di far capire, a noi studenti, non fosse affatto la semplice opinione di un pur bravissimo professo re di filosofia, ma, ben più radicalmente, qualcosa che si sarebbe dovuto poter riconoscere come significato originario dell"essente tutto inte-

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ro. Si badi bene, un significato già allora (per quanto fossimo solo verso la fine degli anni Settanta) concepito da Severino come di gran lunga eccedente l'imperfezione delle parole e dei concetti che avessero voluto farsene testimoni. Insomma, qualcosa mi stava facendo capire che, finalmente, avevo incontrato non solo un Maestro - al quale, peraltro, devo ancora tutto quel poco o tanto che sono riuscito a fare in seguito -, ma la concreta occasione per ricondurre la mia vita a quella che oggi Severino chiamerebbe, forse, «la Gioia originaria». Un concetto, quest"ultimo, che ancora non era stato tematizzato dagli scritti pubblicati sino quel momento; ma che già vibrava nelle parole tanto di Essenza del nichilisnw quanto di Destino della necessità (uscito, quest'ultimo, non molto tempo prima della mia tesi di laurea, awenuta nel 1981). Un concetto che vibrava già, nelle parole di quegli scritti, quale loro ultima e più autentica «destinazione». Per quanto solo in seguito - devo anche riconoscere - l'avrei dawero compreso. Capivo infatti che non si trattava solo di un'occasione per imprimere una svolta alla mia vita, per trasformarla e magari renderla più autentica (come sarebbe stato facile dire), ma del palesarsi del suo «essere già da sempre stata» {la mia vita) quel che peraltro solo allora cominciavo a vedere. Perché, proprio della possibilità che si trattasse di una «trasformazione» ... quel discorso costituiva la più radicale messa in questione. Ma soprattutto, di quel discorso, mi affascinava il desiderio di venire criticato o interrogato, quasi auspicando di venire messo concretamente in questione. Di questo, le parole del Maestro si facevano già allora testimoni, conformandosi ad una dinamica argomentativa dawero straordinaria. È cosa nota, infatti - e il Maestro continua a ribadirlo anche nei volumi più recenti -, che, nell'orizzonte del Destino,

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«tutti i critici, con maggiore o minore poten7.a, sviluppano il Contenuto a cui si rivolgono i suoi scritti» 1• Un contenuto che già allora veniva inteso come «verità», anzi come destino della verità. Ma già allora il Maestro sapeva bene che, se è vero che «sen7.a errore non c'è verità ... (ancor più vero è) che proprio l'errorecon-ferma la verità, (ossia) la rende ferma>~. Insomma, la verità «sarà tanto più concreta quanto più l'errore sarà concreto, fiorirà e sarà robusto, coerente, razionale e suggestivo»3 • Insomma, giàallora avrebbe riconosciutoche «la verità non abbandona a se stesso l'errore: (solo perché) esso cresce secondo le leggi della verità»4 • Insomma, Severino non ha mai temuto i discorsi volti a confutarlo, impegnati a scorgere dei supposti punti deboli all'interno del suo sistema filosofico; anzi li ha (in modo solo apparentemente paradossale) sempre cercati e reclamati ... con grande avidità e assai curiosa soddisfazione. Questo mi sembrò sin da subito sconcertante; anch'io, infatti, come tutti, ero abituato a credere che, invece, nessuno che fosse convinto di sapere qualcosa in modo certo, anzi vero, potesse addirittura desiderare d'essere messo in questione, o quanto meno in difficoltà. Ma in realtà, come ho capito assai presto, anche se non subito, Severino amava (e lo ama ancora) che ci si impegnasse a confutarlo per un semplice, ma fondamentale motivo: perché già allora era perfettamente convinto di quello che ho appena ricordato: ossia, del fatto che l,errore non può che crescere confonnemente alle leggi della verità.

1. E. Severino, La potenza deltermre, cit., p. 178.

2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 179.

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Che l'errore, in senso proprio, non esiste (ad esserci essendo sempre e solamente l'errare, e mai l'errore ... allo stesso modo in cui c'è il contraddirsi, ma mai la contraddizione). Cito da Tautotes (ma potrei citare da molti altri testi); «L'identità dei non identici è il nulla; ma nell'isolamento della terra il pensiero dei mortali, che in verità pensa il nulla (pensa il nulla, diciamo: non diciamo che non pensa nulla), crede di pensare che questa superficie è bianca, che questo è Socrate ... e ciò che è morto e nullo, i mortali lo intendono come un certo significare non nullo -il significare in cui consiste z:'identificazione dei non identici - il positivo significare del nulla ... Che è un essente, certo ... mentre non 'lo è, in alcun modo, l'identità dei non identici» - così si esprime Severino, in Tautotes5. Ma potremmo citare anche Ritornare a Pannenide: Il pensiero vive anche quando si contraddice: quando si contraddice, cioè, non si annulla. Ma ... eccoci al punto: il contraddirsi ·non è un non pensar nulla, ma è un pensare il nulla. [ ... ] Il pensiero che si contraddice guarda il nulla. Si intenda: la negazione delropposizione nega il proprio fondamento e quindi nega se stessa: ciò che viene effettivamente pensato, in questa negazione (che è anche autonegazione), è il nulla. E in quanto il nulla si lascia guardare, indossa la veste del positivo.6

Ma se non c'è errore, owero, se c'è solo un errare perfettamente confonne alle leggi della. verità (che cresce in modo perfettamente conforme alle leggi della verità), la verità non confuterà mai rerrore. Ma sempre e solamente il suo fantasma; il vero e proprio fantasma dell'errore.

5. E. Severino, Tautotes, Adelphi, Milano 1995, p. 156. 6. E. Severino, &senza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 57.

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È di quest'ultimo, cioè, che essa mostra I'autotogliersi. Sempre che il suo autotogliersi non dica altro che la sua originaria conformità al, «vero». O meglio, l'errore mostra di non esserci, e lo mostra nell'atto stesso del suo autotogliersi; perciò in questo autotogliersi, a darsi, è semplicemente l'errare - fatto impropriamente valere come espressione dell'originario autotogliersi dell'errore. Il quale, in verità, in virtù del proprio autotogliersi, non dovrebbe neppure riuscire a costituirsi. Eppure, è Severino stesso ad avercelo insegnato: se il soggetto deII'autotogliersi fosse nulla, ossia, non fosse, di cosa potremmo mai dire «che si autotoglie»? Per autotogliersi, dunque, l'errore deve esserci, per quanto, appunto, come I'autotoglientesi. Ma se I'autotoglientesi «è» - perché «deve» esserci, pena il non costituirsi neppure del suo autotogliersi -, in che senso verrebbe ad autotogliersi quel che, in ogni caso, «deve esserci», se non altro per potersi autotogliere (anche se non si sa bene in che senso, però, il medesimo verrebbe ad autotogliersi)? In che senso, cioè, si autotoglierebbe quel che comunque deve esserci? Non potendo certo costituirsi, l'autotogliersi, come un semplice annichilirsi (sempre stando al discorso testimoniato da Severino). Insomma, Severino mi ha fatto capire (e questo è quel che conta) ... proprio seguendo rigorosamente il «cosiddetto» suo ragionamento, che se l'errore non è, a non essere sarà anzitutto il nulla, e non qualcosa di esistente ... sarà il nulla, insomma, a costituirsi come il primariamente autotoglientesi. Lasciando, peraltro, del tutto inspiegato il senso di tale autotogliersi - che non può certo coincidere con l'annullarsi dell'autotoglientesi, ma con il semplice non fungere da contraddizione da parte del contraddirsi. Eccoci, dunque, alla questione decisiva: se il nulla non è (stante che esso non può essere), da cosa verrà mai determinato r essere?

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Cioè, da cosa viene determinata la sua verità? Eppure tale verità altro non dice che l'esser sé di tutto; I'esser se di un tutto che sarà se stesso solo in quanto distinguentesi da qualcosa di altro da sé. Ma, insisto, da cosa potrà mai distinguersi la verità, se I'errore, di fatto, non c'è? Non è, dunque, proprio seguendo il discorso testimoniato dai testi di Severino che ci si trova a dover riconoscere che, da ultimo, l'unico vero errore consiste nell'erranza della verità medesima? La quale si ritroverebbe ad errare, in quanto costituentesi proprio essa, anzitutto, come non conforme al proprio no1TWS - non avendo di là da sé nulla che possa determinarla come verità? Come verità distinta dall'errore? Insomma, Severino mi ha insegnato tutto; anzitutto mi ha insegnato - nonostante e nello stesso tempo grazie al costituirsi, da parte del cosiddetto «suo discorso», quale testimonianza del Destino - che propri.o l"errare è il senso originario della verità. Che proprio l'erranza, cioè, è l'inconscio di una verità che pur vorrebbe (vana pretesa!) distinguersi da quell'errare che è anzitutto il suo. Lo so ... il discorso del Destino potrebbe redarguirmi, come fa Don Chisciotte con Sancio Panza, ed evocare un analogon del mago Frestone, che potrebbe esser stato proprio lui ad aver subdolamente convertito quei giganti (le contraddizioni) in mulini (in un semplice contraddirsi), per togliergli la gloria di vincerli (tale è l'inimicizia che gli tiene). Ma non è così ... il «vero» «vince» su qualcosa che non si contrappone mai ad esso, proprio perché destinato a crescere secondo l,e sue l,eggi. Ad ogni modo, cari amici e care amiche, e caro Professore, chiuderei questa brevissima riflessione ponendomi (e ponendoLe) una domanda: e se fosse necessario (proprio per il

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suo stesso costituirsi come intrascendibile «erranza»), che - ad immagine del Chisciotte - anche il Destino (destinato, appunto, a vedere il contraddirsi come contraddizione, e a indicare il suo togliersi) non possa rinunciare, per nulla al mondo, a credere che: «alla resa dei conti, poco varranno le male arti di Frestone (cioè, le mie) contro la bontà della sua spada?»

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Follia e verità del divenire Il pensiero di Emanuele Severino

Vessell7.3. delr alienazione non ha nulla a che vedere con le forme di alienazione denunciate dal pensiero occidentale, quali il distacco da dio, dalla natura, dalla coscien~ morale, dal possesso dei mezzi di produzione, dalla normalità psichica, dalla verità definitiva dell1'episteme, perché tutte queste denuncie sono completamente immerse nell'essen~ delralienazione. Da tempo nei miei scritti si tenta di mostrare che r essen~ dell'alienazione è la persuasione e insieme la volontà che le cose della terra, in quanto cose, siano niente. Emanuele Severino, Legge e caso

Introduzione Che quella di Emanuele Severino sia una delle proposte 6losofìche più originali del nostro tempo è fuor di dubbio; valgano, ad attestarlo, gli «scandali» da essa provocati e i non pochi attacchi dalla medesima subiti da parte delle più diverse scuole filosofiche, sialaiche che cattoliche. Metafisici e teologi, alfieri del pensiero debole e dell"ermeneutica, analitici e continentali, tutti uniti in un incessante tentativo di demolizione di quello che resta - di là da tutto - uno degli impianti speculativi più potenti che la contemporaneità abbia sinora saputo offrire. Quella di Severino è infatti una 6loso6a che volteggia sulle vette e non ama brucare a fondo valle 1•

1. E questo è vero sin dalle prime manifestazioni della medesima. Già negli anni '50che Emanuele Severino si dedica ad opere assai impegnative ed

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Pensiero allo stato puro, che sin dai suoi primi passi, ha ritenuto di doversi misurare con la filosofia classica, facendone un punto di riferimento costante - nella ferma convinzione che, solo tornando a confrontarsi con i venerandi maestri delle origini, sarebbe stato possibile corrispondere degnamente alle sfide che hanno sempre fatto grande la filosofìa2•

oltremodo pretenziose. Si pensi che un volume come La struttura originaria esce nella sua prima edizione nel 1958. È dunque già a ventinove anni che il nostro pone le basi essenziali di tutto il suo sistema filosofico - alle pagine di quest'opera tutti i suoi scritti successivi infatti rimandano come al loro terreno fondante. In esse Severino delinea i primi tratti della struttura originaria della verità delressere - il luogo alrintemo del quale, solamente, può diventare chiaro in che senso l'essen7.a dell'Occidente sarebbe «il nichilismo». Lo sguardo che vede l'essen7.a dell'Occidente, e quindi l'essen7.a del nichilismo {su tale concetto il nostro si soffermerà. in un'altra sua grande opera, intitolata, per l'appunto, &senza del nichUismo, 1972), non può che essere esterno alla medesima - esso, infatti, vede la follia dell'Occidente alla luce della Necessità e del suo Destino, e solo in quanto cosl situato, può portare alla luce l'inconscio che starebbe alle spalle della stessa struttura inconscia dell'Occidente: ossia la folle persuasione relativa alla nientità dell'essere - ciò che la fede nell'eviden7.a del divenire inevitabilmente sottintende e che costituisce appunto rimpossibile sfondo di una vicenda di cui ha comunque continua ancora oggi a decidere le sorti. 2. In questo senso il pensiero di Severino si propone anche come una delle più «grandi» letture dei classici della filosofia occidentale. La sua proposta assolutamente originale nasce cioè da un continuo e radicale confronto con i maestri dell'Occidente - un confronto che sin dalle prime opere giovanili viene portato avanti con grande maestria. Si pensi agli scritti che, tra il '48 e il '58 {ora raccolti in Heideggere la metafisica, Adelphi, Milano 1994), e tra il '55 e il '63 il nostro compone in qualche modo a ritroso - dalla filosofia contemporanea alla metafisica classica. Da Heidegger e Gentile, da Fichte a Kant e Aristotele. Ma Severino continuerà. a dialogare con i grandi classici {Nietzsche, Hegel, Tommaso, Platone, Anassimandro, Eraclito ... ) ancoranelle sue opere più recenti. Si pensi solo alla grande opera su Nietzsche (L'anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999). Dialogherà. quindi con l'epistemologia contemporanea {Schlick, Camap, Russel}, con Habermas e con tutti i grandi della contemporaneità. Un confronto dawero incessante, che infonde di nuova luce quella che lui definisce la storia della follia. Mostran-

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Ma, se agli occhi di Severino il sapere filosofico non si configura come doxa, non si può neppure dire che gli si prospetti come una delle tante forme di episteme sinora succedutesi sulla scena dell'agone speculativo. Questo va chiarito fin da subito: se quella di Severino non si propone come una qualsiasi episteme, ciò è dovuto al fatto che non in essa non si fa riferimento ad un immutabile valevole come «rimedio» contro la precarietà e la contraddittorietà del cosiddetto mondo della vita reale. In questo senso la sua elaborazione filosofica è sempre stata anche una grande critica alla tradizione teologica cristiana3 - il cui rimedio sarebbe stato ai suoi occhi irrimediabilmente destinato ad essere sempre più decisamente accantonato. Nessuna cura potendo guarire la malattia, se non altro in quanto radicata su quel medesimo veleno da cui avrebbe dovuto in qualche modo guarire. E per ciò stesso impossibilitata a renderci «sicuri». Insomma, quella di Severino non è un'ennesima forma di episteme perché non si propone come «cura»; il suo logos, infatti, non vuole lenire alcun «dolore». D'altro canto, se il dolore, ossia il «tremendo» da cui ogni forma di episteme avrebbe voluto metterci in salvo, ha a che fare con quel divenire che nasconde il cuore stesso della follia metafisica (l'identificazione dell'essere e del nulla) - quello che purtuttavia ha accompagnato come un basso continuo le pur diversissime metafisiche dispiegatesi sino ad oggi nel corso della storia dell'Occidente -, allora nessuna cura potrà mai avere una qualche, sia pur blanda, efficacia.

done nel contempo la grandez,.a. Ché la follia delrOccidente è per lui una «grande» follia.

3. Per quanto riguarda il suo confronto con il Cristianesimo ci limitiamo a ricordare qui un bel volume edito da RiZ1.0li e intitolato Pensieri sul cristianesinw (Rizzoli, Milano 1995).

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Ai suoi occhi è infatti la struttura stessa della malattia a rendere originariamente impotente qualsivoglia farmaco. Severino ha da tempo mostrato come, stante l'originarietà della fede nel divenire, stante la sua irrinunciabilità, qualsivoglia rimedio, proprio in quanto «secondo» rispetto a tale struttura, e soprattutto in quanto radicalmente «contraddetto» dalla medesima, è destinato a farsi da parte, ed a lasciare quindi spazio al pieno dispiegamento di rimedi efficaci proprio in quanto capaci di conformarsi alla effettiva contingenza del reale ed alla sua strutturale mutevolezza. Ossia, a rimedi «ipotetici», probabilistici - e mai assoluti. Antitetici, dunque, rispetto alla pretesa assolutezza del Dio della fede. Da cui la possibilità di un eccezionale dispiegamento della poten7.a della tecnica4, ossia di uno strumento vincente proprio in quanto fondato su una scienza da tempo libera da qualsivoglia pretesa di verità assoluta. Il fatto è che ogni possibile declinazione della scien7.a dell"immutabile, e quindi ogni teologia, un tempo costruite quali affidabili argini contro il potenziale distruttivo custodito dal 4. Per quanto riguarda tale questione rinviamo invece a Teclme. Le radici della oiolenza, originariamente edito da Rusconi, Milano 1979 (da cui citiamo; ristampato da Rizzali, Milano 2002). Volume nel quale Severino, dopo aver sviluppato un"analisi straordinariamente anticipatrice intorno a rilevanti questioni di attualità politico-culturale, mostra il senso autentico della civiltà della tecnica. Quel senso che può apparire solo là dove ci si riesca a porre dal punto di vista del Destino e della sua verità. Quel senso in base al quale è inevitabile «che rincantesimo degli immutabili sia rotto, che cioè rOccidente si liberi da ogni dio che rende impossibile la soipresa del niente, e quindi da ogni dio che gli stessi abitatori delrOccidente hanno evocato dal proprio terrore e cioè dalla propria volontà di dominio» (E. Severino, Tecnhe, cit., p. 378). Solo a partire dalla comprensione di tale inevitabilità è possibile comprendere anche rinevitabilità del dominio della tecnica - perché, solo rorgani728Zione della liberazione da ogni immutabile {in cui consiste appunto la "felicità" che la tecnica può dare agli uomini) può assicurare una efficace «organi728Zione della possibilità di consumare tutto, ossia della possibilità di liberarsi di tutto» {ivi, p. 273).

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divenire (e soprattutto dalla sua struttura ontologicamente determinata), si sarebbero progressivamente mostrate incapaci di consentire l'effettivo dispiegamento di una dinamica (quella del divenire, per l'appunto) per "salvare" la quale erano comunque stati posti in essere. Insomma, o il divenire o l'essere; questo, il radicale aut aut che, sempre secondo Severino, ci si sarebbe sempre più chiaramente trovati costretti a dirimere. Ma l'Occidente non avrebbe saputo fare a meno di optare per il divenire - soprattutto di fronte alla constatazione di un sorprendente potenziamento dei rimedi realizzatosi in forma direttamente proporzionale alla sempre più decisa rinuncia alla loro epistemicità. Questo, il quadro entro cui si inscrive di fatto la proposta filosofica di Severino - che, pur mostrando con la massima lucidità all'Occidente intero il senso del suo destino, e la sua assoluta ineludibilità, non avrebbe comunque rinunciato a farsi testimone di un altro possibile percorso; anzi, di un vero e proprio altro Destino. Entro i cui confini, sempre e solamente, si sarebbero potuti accogliere tutti i sentieri che l'Occidente ha di fatto percorso e tutti quelli che lo stesso potrebbe comunque ancora percorrere, in quanto forma estrema del Nichilismo, ossia in quanto terra "isolata" da parte del mortale.

Le radici della Follia Che la volontà di poten7.a dovesse trovare nella Tecnica il suo più pieno e libero sviluppo, sempre secondo Severino, sarebbe stato già "scritto" nelle prime parole con cui il pensiero filosofico occidentale si affacciava sulla scena della storia. Parole grandiose, che avrebbero dato corpo ad un non meno grande "errore" - quello su cui sarebbe cresciuta una intera civiltà. Parole che, a partire da Parmenide, passando attraverso Platone ed Aristotele, avrebbero dato forma a quel sistema

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categoriale che costituisce di fatto ciò che ancora oggi chiamiamo «linguaggio dell'Occidente», e che si sarebbe incarnato, epoca dopo epoca, anche in tutte le sue opere, owero in tutte le sue più diverse espressioni. Severino comprende molto bene - e sin da subito - come sia stata la stessa indicazione parmenidea di qualcosa come un Sentiero della Notte a far sì che la follia metafisica (di cui siamo ancora tutti figli legittimi) potesse avere in qualche modo luogo. Certo, il Poema parmenideo indica anche un'altra possibilità- ma il suo linguaggio (o meglio, i frammenti linguistici che di esso ci sono di fatto rimasti) non esce dall'ambiguità5• Fermo restando che già in tale aurora si comprende e si esplicita la radicale impossibilità di qualsivoglia pensiero che intenda fare dell'essere e del nulla le componenti di una medesima dimensione; e quindi viene indicata con nettezza la nefasta

5. Se non altro in quanto - come rileva bene Severino in Essenza del ni-

chiliSJTW (la ed. Paideia, Brescia 1972, da cui cito; 2- ed. Adelphi, Milano 1982}- lascia apparire ciò che, «sovrapponendosi alle cose che appaiono, ha impedito di vedere come un comparire e uno sparire delressere, e ha portato alla convinzione che rannullamento delressere sia qualcosa di immediatamente dato nel divenire» (E. Severino, Il sentiero del Giorno, in Id, Essenza del nichilismo, cit., pp. 197-198}. Da ciò la necessità del parricidio platonico - per rendere appunto pensabile il divenire. Insomma, fermo restando che per Severino il senso della doxa in Parmenide rimane un problema, se si intende che la doxa sia lo stesso apparire del molteplice e del divenire, e che la non verità della doxa sia costituita dalropposizione tra il contenuto delrapparire e il contenuto del logo veritativo, «allora - conclude Severino - la responsabilità delralienazione del senso del divenire risale a Parmenide, giacché si può affermare che il divenire che appare si opponga al logo che proclama l'immutabilità dell'essere, si può affermare questo solo se si ritiene che l'apparire attesti remergere e il ritornare nel nulla da parte dell'essere, e cioè solo se si interpreta inautenticamente il divenire che appare» {Id, Poscritto, ivi, pp. 98-99}. E poi Parmenide è il primo ad evocare il senso ontologico della follia - e quindi a rendere possibile la sua assunzione come criterio guida di un possibile percorso (anche se da lui tale percorso è ritenuto assolutamente impercorribile).

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doppiezza caratteriZ7..ante chiunque intenda inoltrarsi per la via della "contaminazione ontologica"" - quella che, per l"appunto, avrebbe finito per far credere che le cose possano tranquillamente oscillare dal nulla all'essere e dall'essere al nulla. Questa, la radicale «impossibilità» di cui solo un logos «vero» avrebbe potuto farsi testimonian7Al. E proprio nell"intento di delineare i tratti fondamentali di un tale logos Severino porta a compimento il suo primo "capolavoro"" teoretico: La struttura originaria (1958). Un discorso che doveva mostrarsi in grado di delineare i tratti essenziali del Destino (che a quel tempo Severino chiamava appunto «struttura originaria della verità») - inteso come dimensione in forza della quale ogni ente riposerebbe eternamente sicuro entro i confini di una "positività" necessariamente '1ibera"" dalla propria negazione. Dove, a rendere la negazione della verità un che di immediatamente autonegantesi è proprio ciò che in quel volume viene ancora chiamato «principio di non contraddizione» - pur avendo di fatto ben poco ha a che vedere con ciò che storicamente era stato indicato con tale nome. D" altro canto, l"incontrovertibilità dell"ente e il suo necessario legame con il proprio essere non sottintendono, nel discorso testimoniato da Severino, la radicale identificazione dell"essere e del nulla operata invece dalle versioni classiche del medesimo principio; owero, da Platone e da Aristotele. Anzi, in esso ci si propone addirittura di risolvere l"aporia che già da Platone veniva riconosciuta quale estremo ed irrisolvibile ostacolo alla declinazione ontologica del "principio primo"". Importantissimo, a questo proposito, è il capitolo IV della «Struttura originaria»; dove Severino si propone di venire a capo della cosiddetta "aporia del nulla". Certo, già nel Sofista Platone definiva i contorni del cosiddetto problema del "nulla"" - rendendosi perfettamente conto che, per distinguere l'essere da quello (in conformità a quanto sancito dalla forma stessa del principiumfinnissimum), non si sarebbe potuto

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fare a meno di fare del "negativo'' un "positivo". Ossia, di fare del nulla "un essere". E, per ciò stesso, di istituire quello che sarebbe diventato un nuovo senso del "non-essere": I'eteron. Il "non-essere" come esser-altro. Ma il fondatore dell'Accademia, proprio così facendo, lungi dal risolvere il problema del "nulla", avrebbe più semplicemente rimosso la sua carica destabilizzante, finendo per far valere il "principio della distinzione" come principiopuramente ontico. Sono gli enti determinati, cioè, a potersi distinguere secondo il principium finnissimum - di certo non la pura positività e la pura negatività. Come a dire che, agli occhi di Platone, la potenza del "principio" sembra trovare un limite assolutamente insuperabile proprio là dove si sarebbe dovuta annidare invece la sua formulazione più radicale e originariamente fon dativa. Non è forse vero, infatti, che, per potersi distinguere dall'altro-da-sé, un qualsivoglia ente deve poggiare innanzitutto sull'originaria distinzione tra la propria positività e il totalmente altro dalla medesima (ossia il nihil absolutum)? Severino, dunque, lucidamente consapevole di tutto ciò, torna a porsi la questione rimossa da Platone e ritiene di poterla risolvere mostrando anzitutto la differenza che distingue la positività del significare autocontraddittorio dal negativo che quest'ultimo comunque significa. Sì che del nulla si possa infine dire che ciò che esso significa è perfettamente distinto, anche se non separato, dalla positività di questo stesso significare. Insomma, ferma restando l'assoluta negatività del nulla, ossia la sua non significanza, il principio di non contraddizione - sempre secondo Severino - vale anche per esso nella misura in cui, appunto, la sua positività non venga impropriamente sovrapposta alla negatività in esso comunque significata6 •

6. Una critica radicale a tale soluzione riteniamo di averla comunque formulata nel secondo capitolo della prima parte del nostro Aporia delJondamen-

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Dunque, mentre nel filosofo bresciano la deriva nichilistica sarebbe stata accuratamente evitata, tanto in Platone quanto in Aristotele, di contro all"intenzione di distinguere nettamente il positivo dal negativo, avrebbe finito per farsi strada - in modo sempre più evidente, peraltro- una convinzione che, in quanto relativa all'assoluta eviden7.a dell'esser-altro, si sarebbe mantenuta tutta interna ali'orizzonte di un nichilismo originariamente inficiante tanto la positività del positivo quanto la negatività del negativo. Insomma, se da un Iato è sicuramente vero che già Platone aveva ben inteso la gravità del monito parmenideo, Severino mostra bene come, proprio in fo17~ di questa comprensione, Platone avesse poi finito per concettualiZ7.are e dare forma compiuta a quel medesimo «impossibile» da cui Parmenide aveva cercato di metterci in guardia. Platone, cioè, proprio nel tentativo di mostrare che la realtà del molteplice e del divenire (le due dimensioni che Parmenide avrebbe voluto rimuovere) può venire categorixl'.ata al riparo dai pericoli così attentamente indicati da Parmenide, avrebbe finito per inscrivere, anche se ben nascosta, nel cuore stesso dell'evidenza originaria, la follia consistente nella più radicale identificazione dell'essere e del nulla. L'ente, cioè, liberato dall'immediata identificazione con il nulla, rimane - sempre nell'orizzonte della prospettiva platonica - ancora perfettamente capace di farsi-nulla, e di venire ali'essere a partire dal nulla. E Severino mostra bene come, se da un Iato sia così riuscito a dar voce ad un senso del non-essere non immediatamente vocato al nulla (in quanto molteplice ed in quanto diveniente, l"ente "non-è" in quanto tale un niente), dall'altro il fondatore dell'Accademia, già per il semplice fatto di aver tollerato anche la semplice possibilità del suo divenire

to (La Città del Sole, Napoli 2000). E precisamente nello spazio compreso tra la p. 210 e la p. 280.

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altro da sé, avesse fatto dell'ente qualcosa di originariamente identico al niente. Ma neppure Aristotele sarebbe sfuggito, ai suoi occhi, a un tale destino; anche lo Stagirita avrebbe finito per far valere il principio parmenideo (quello costituente l'ineludibilità della differen7.a tra essere e nulla) - lo stesso che nelle sue mani doveva trasformarsi nel cosiddetto «principio di non contraddizione» -, come legge valida per l'ente "sin tanto che esso non si sia fatto un niente". Perché, quando l'ente non è più, ad essere niente è il niente, e non l'essente - come viene attentamente precisato da Aristotele nel Liber de intepretatione. Là dove il fondatore del Liceo specificaappunto che, certamente, l'essere è - ma solo quando è; allo stesso modo in cui anche il non-essere non è, ma anch'esso, solo quando non è. Ciò significando che si potrebbe senz'altro ipoti7.7_.are un tempo in cui l'essere, fattosi non-essere, per l'appunto, non sia. Per questo, se per un verso l'essere certamente "è", per un altro verso, invece, tale esistew_.a gli competerebbe solo in quanto e per quel tanto che esso per l'appunto ''fosse". Fatto sta che anche Aristotele, e proprio nel disperato tentativo di evitare una qualsiasi nullificazione dell'essere, ovvero nel tentativo di risemantiz7_.are il divenire, trasformandolo da passaggio dal nulla ali'essere a passaggio dalla potenza ali'atto, torna a dar corpo a quel divenir-altri-da-sé che implica, sempre e comunque, il non esser più di ciò che era (e che ora è, certamente, ma come "altro da ciò che era"). Questa, la struttura che avrebbe sempre più esplicitamente reso impossibile qualsivoglia forma di immutabile; stante che quest'ultimo, proprio in quanto strutturalmente "legiferante" anche sul non esser ancora di ciò che non è, non può evitare di vanificare la radicale imprevedibilità implicata da ogni divenire radicalmente inteso. Infatti, il divenire è originariamente '1ibero" - tutto potendo essere, a partire dal nulla. Ossia: nulla potendo essere pre-visto, di fronte ali'abisso del negativo. Nes-

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suna catena può insomma vincolare la libertà intrinsecamente connessa alla follia relativa alla fede nell'impossibile nullità dell'essere (quello che ancora non è). Severino, insomma, proprio come Heidegger, anche se per ragioni assolutamente diverse dalle sue, vede nell'origine stessa del pensiero occidentale la ragione di un destino che ha per nome "nichilismo"7. Dunque, l'Occidente è interpretato come terra del nichilismo dall'uno per ragioni assolutamente diverse da quelle evocate dall'altro (se per Heidegger il nichilismo ha la sua condizione di possibilità nell'oblio del vero senso dell'essere in quanto ridotto ad "ente", ossia in quanto non più inteso come "essenzialmente" identico al niente, per Severino, al contrario, proprio in tale identificazione consiste appunto la quintessenza del nichilismo, più o meno consapevole, dell'Occidente tutto intero). Ma la stessa soluzione al problema costituito dal nichilismo si prospetta nei due pensatori in modo radicalmente diverso. Infatti, là dove da Heidegger la possibilità di una effettiva fuoriuscita dal nichilismo viene affidata ad una sorta di ritrovata cura per l'ente concepito nella sua pura eventualità, e quindi nella sua originaria libertà, ossia ad un sostanziale ritorno alla parola pre-fìlosofìca, in Severino il realizzarsi di tale possibilità dipende non tanto da una libera decisione del mortale, owero dalla libera assunzione di un diverso atteggiamento nei confronti dell'ente, quanto piuttosto da una originaria verità scolpita quale sfon-

7. Anche se, fermo restando raccezione severiniana di "nichilismo» - secondo la quale, ad essere pensato, assunto e vissuto come niente, sarebbe appunto ciò che non è un niente-, «nessuna forma della cultura occidentale (nemmeno Nietzsche) è disposta a riconoscersi nichilista e tanto meno a tessere una apologia del nichilismo, ossia delratteggiamento che vive, pensa, assume come niente gli enti (le cose, le determinazioni concrete che ci stanno attorno: i non-niente) in quanto e perquel tanto che essi sono enti» (E. Severino, Lafollia (1), in Id., La strada, Rizzoli, Milano 1983, p. 78).

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do intramontabile dell'infinito dispiegarsi di un essente tutto costitutivamente necessario. La filosofia di Severino si svolge tutta, dunque, in un continuo confronto con la prepotenza del nichilismo dell'Occidente ed indica, senza inopportune timidezze, la dimensione inamovibile entro cui ogni errore - e quindi anche quello dell'Occidente - sarebbe comunque stato costretto a costituirsi. Una dimensione che, pur dicendo la più radicale impossibilità della contraddizione (e dunque di tutto ciò che la fede nichilistica continua a ritener per vero), non solo tollera, ma implica l'accadimento del contraddirsi; e quindi il manifestarsi del discorso che vuole l'impossibile. Altro è la contraddizione, infatti, altro il contraddirsi. D'altro canto, per il Hlosofo bresciano la verità non sarebbe neppure tale se non si contrapponesse all'errore come ad un dire originariamente autotoglientesi. Ossia, se non si realiz7.asse in quanto tale nello stesso originario togliersi da parte dell'errore. È solo alla luce della verità, infatti, che l'errore può manifestare la propria erroneità, e dunque mostrarsi come I'originariamente autotoglientesi. Ecco perché la verità cui dà voce la filosofia severiniana altro non è che Io strutturarsi, massimamente radicale, di una forma già portata alla luce nella sua essen7.a, anche se in un senso puramente "formale" - e per ciò stesso ancora nichilistico -, dal]'elenchos aristotelico8• Una verità che dice per ciò 8. In questo senso ci sembra opportuno sottolineare che, se da un lato già in Gli abitatori del tempo, Armando, Roma 1978 (2a ed. Armando, Roma 1996), Severino prosegue nel suo tentativo di condurre nel linguaggio la struttura della civiltà occidentale, mostrando come ogni elemento specifico della nostra storia sia dalla medesima permanentemente awolta - e peraltro, in un senso assai più radicale di quanto sarebbe potuto mai essere rilevato da Hegel o dal marxismo, dalla psicoanalisi o dalrermeneutica heideggeriana (rispetto alle cui pur straordinarie analisi tale struttura è rimasta di fatto inesplorata, rimossa in un inconscio assai più profondo di quello individuato da Freud), dall'altro è anche evidente che neppure il principio di non contraddizione avrebbe potuto evitare di farsi espressione di quella

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stesso l'insuperabile positività del positivo e la corrispettiva e non meno insuperabile negatività del negativo. Una verità che implica cioè l"originario ed eterno essere identici a sé da parte di tutti egli enti. Una verità che, però, lungidall"immobilizzare il tempoed il suo inarrestabile scorrimento, contribuisce ad un suo ben più raffinato, nonché autentico intendimento. Infatti, quella di Severino non si costituisce - come troppi "critici" un po' distratti continuano ancora credere - come una 6losofia dell'assolu-

struttura profonda. Insomma, anche nel principio di non contraddizione, rigorosamente formulato da Aristotele nel IV libro della Metafisica, sarebbe rimasta viva ed operante, al fondo della sua struttura originariamente elenchica, la convinzione che l'ente sia niente; una convinzione che però entra nel linguaggio «nella forma mascherata della convinzione che il divenire dell'ente appare, o della convinzione che al di fuori dell'apparire l'ente può essere un niente» (E. Severino, Introduzione, in Id., La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 17). E questo vale, nella storia dell'Occidente - ed in primis in Aristotele -, anche quando si awerte che il principium .finnissimum non vale solo per il pensare, ma anche per l'essere. Ché, ogni volta si intende poi l'essere (l'incontraddittorio) come di per sé indifferente a che sia o non sia. Non è un caso che, col principio di non contraddizione, si venga a dire semplicemente questo: che «quando l'essere è, è, e quando non è, non è». Insomma, già in Aristotele l'incontraddittorietà è intesa in senso semplicemente «formale» - e proprio per questo la si nega. «Appunto perché si lascia valere la supposizione di un momento in cui essere non sia» (ibidem). Insomma, agli occhi di Severino, «la concezione formalistica dell'incontraddittorietà dell'ente, che è in verità negazione dell'incontraddittorietà dell'ente, domina l'intera esisten7.a storica del principio di non contraddizione; sl che, in questo libro [Severino si riferisce qui alla Struttura originaria], si continua a chiamare «principio di non contraddizione» ciò che si mantiene al di fuori non solo del significato storico, ma dell'essen7.a stessa di tale principio» (ivi, p. 18). In questo senso, per Severino va addirittura rilevato che, se risiede nel significato stesso dell"essere, che l"essere abbia ad essere, allora «il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l'identità dell"essen7.a con sé medesima (o la sua differen7.a dalle altre essenze), ma l'identità dell'essen7.a con l"esisten7.a (o l"alterità dell'essen7.a dall'inesisten7.a)» (ivi, p. 517).

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ta immobilità9; come una sorta di riproposizione, magari un po' aggiornata, dell'astratta ontologia parmenidea. No, quella di Severino è una filosofia che vuole ammonirci a prendere coscienza del fatto che, assai più semplicemente, il divenire 9. In relazione a tale equivoco suggeriamo di leggere il dialogo tra Severino e Vattimo riportato in La legna e la cenere. Discussioni sul sign!ficato deltesistenza (Rizzoli, Milano 2000). Anche in questo confronto appare chiaro, infatti, come le obiezioni mosse a Severino da parte di Gianni Vattimo muovano non solo, e non tanto a partire dalla convinzione che ad apparire sia davvero il divenire in senso ontologico. Certo, Vattimo sostiene anche questa accezione del divenire; ma la sua preoccupazione fondamentale sembra piuttosto quella legata alla necessità di salvaguardare la ricchez,.a e la complessità dell'esperiema intesa nel suo scorrere infinito. Vattimo sottolinea come si sia sempre sospesi tra un prima e un dopo ... come il passato che ci sta a cuore non sia tanto il niente che eravamo, quanto piuttosto la nostra infanzia, come il futuro che ci sta a cuore non sia tanto il niente che tutti ci attende, quanto piuttosto la nostra vita futura, ancora da costruire. E in questo senso gli appare impossibile dare un senso a tale esisten7.a a partire dalla convinzione dell'eternità dell'essere. A Vattimo, insomma, preme sottolineare come la nostra esistema sia fatta di bisogni, aspettative, desideri ... ; ma egli sembra non prendere in considerazione la quintessema della tesi sostenuta nei testi di Severino: una tesi che non intende affatto mostrare la nullità di tali bisogni, di tali aspettative, del passato, del futuro, ma, assai più radicalmente (e quindi, al contrario di quanto crede Vattimo ), sostenere non solo la rileva117.a di questi ultimi, ma la loro originaria divinità, per dir cosl. La loro eternità - quella che compete loro là anche dove li si intenda come "elementi della vicenda storica di cui facciamo tutti parte". Fermo restando che, sempre secondo Severino, si tratta appunto di ripensare alla radice il senso di tale "storicità", ossia il senso del divenire. E quindi di cominciare pensare il divenire come l'entrare e l'uscire dall'apparire da parte dell'eterno apparire di ogni desiderio, aspettativa e bisogno. Ossia, di ogni passato e di ogni futuro. E, per ciò stesso, di pensare la loro eternità insieme alla follia di cui, nell'orizzonte del Nichilismo occidentale, sono tutti comunque espressione. Perciò Severino può sostenere che, venendo al tema della "spiegazione" dell'esperien7.a e della storia, va precisato come «negare la fede nella storia, non significhi negare l'esisten7.a di quel mondo di progetti, bisogni, angosce in cui consiste la nostra esperiema concreta. Significa negare che in esso si manifesti la verità» (E. Severino, Scetticismo e ontologia, in Id., La legna e la cenere, Rizzali, Milano 2000, p. 91).

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non appare così come noi siamo ancora convinti di esperirlo, e che, proprio per questo, non si tratta affatto di convincersi della sua illusorietà. Anzi, il divenire, per il nostro, è assolutamente reale - potremmo addirittura dire "necessario" (da cui la tesi, portata rigorosamente a compimento in La Gloria, dell'infinità del divenire). Solo, non si deve intenderlo come un divenire annientante, ossia, come una dinamica in cui ne vada in qualche modo dell'essere e del nulla. Il divenire di cui la nostra esperienza è continua e fedele attestazione altro non è, insomma, che l'apparire e lo scomparire dell'eterno; anzi, l'apparire e lo scomparire dell'eterno apparire dell'ente. Da ciò una costante e rigorosa attenzione rivolta da Severino al tema dell'apparire dal 1964 al 2001, a partire da Essenza del nichilismo, passando attraverso Studi di filosofia della prassi e Destino della necessità, sino a La Gloria. Un'attenzione fondata sulla precisa consapevolezza del rischio che qualsivoglia (non sufficientemente rigorosa) elaborazione di tale tematica sempre comporta, se non altro in quanto si è comunque tentati a fare di ogni quidditas - ovvero, di ognuna delle infinite determinazioni di volta in volta accolte nel cerchio dell'apparire - un diveniente che, proprio in quanto tale, prima non sarebbe stato e poi non sarebbe più potuto essere. Insomma, stante l'incontrovertibilità del principio priTTW (vero e proprio cuore del Destino), Severino comprende molto bene come ogni modalità della manifestazione debba essere fatta cor-rispondere a quel NOTTWs, ovvero alla rigorizzazione logico-ontologica del principium.finnissimum. Dunque, ciò che occorre fare, anzitutto, è intendere con la massima precisione possibile la struttura dell'apparire in quanto sempre duplicantesi in apparire non incominciante ed apparire incominciante. L'apparire di qualcosa è infatti sempre un incominciare ad apparire. O meglio, un apparire incominciante - ché, ad apparire, e quindi ad incominciare ad apparire, non è mai solo la cosa, ma sem-

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pre anche il suo apparire. Ma, ai suoi occhi, in tale cominciare non ne va dell'essere e del nulla. Ed è proprio a mostrare questa verità che buona parte dei suoi scritti è giustamente impegnata, nella lucida consapevolezza che proprio intorno alla questione del divenire si decide l'abissale differenza che separa (pur tenendole "insieme") le voci della follia dal timbro del Destino.

Il senso del divenire Se la struttura originaria della verità, ossia la verità del Destino, implica l'eternità del tutto - in fo17..a dell'abissale distan7.a che tiene separati il nulla dall'essere e che impedisce al primo di contaminare la stabile pienezza del secondo -, è evidente che l'entrare e l'uscire dal cerchio dell'apparire (ossia, il divenire) non possono coincidere con l'entrare e l'uscire dall'essere (al contrario di quanto riteneva invece Heidegger, per il quale, appunto, l'essere è lo stesso che l'apparire). Nulla entra ed esce dall'essere; neppure l'apparire. Tutto ciò che è, e quindi anche l'apparire (che, in quanto tale, non è un niente), è eternamente connesso all'essere. In che senso, dunque, gli enti si inoltrerebbero nel cerchio dell'apparire? E in che sensone uscirebbero? E quindi: in che senso si avrebbe esperien7..a del mutare e della storia? Eterno è lo stesso incominciante apparire - la relazione tra il cerchio dell'apparire e la terra intesa nel suo incominciante apparire, ossia nel suo incominciante relazionarsi ali'apparire, ossia, la relazione stessa "in quanto incominciante". Ma, se la terra è tutto ciò che incomincia ad apparire, e quindi appartiene alla terra anche l'incominciante apparire della terra, alla luce del fatto che tutto è eterno, anche l'incominciante apparire lo è. Perciò, ad incominciare ad apparire è il non aver mai cominciato ad apparire da parte dell'incominciante apparire.

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Lo stesso dicasi del cessare. L'incominciare e il cessare né aggiungono né tolgono nulla al tutto eterno. D'altro canto, l'apparire incominciante è lo stesso suo apparire come così incominciante - ché, l'apparire è sempre apparire dell'apparire, ossia apparire di se medesimo. Esso implica una trinità originaria: e quindi è sempre apparire dell'apparire dell'apparire. Insomma, ad entrare e ad uscire dal cerchio dell'apparire è sempre l'apparire dell'apparire delle cose della terra. Anzi, l'eterno cerchio dell'apparire accoglie sempre e solamente l'eterno apparire dell'eterno apparire delle cose della terra, ossia l'eterno apparire del loro eterno apparire incominciante. Sì che, ad entrare nell'eterno cerchio dell'apparire, quando questo cielo azzurro comincia ad apparire, non è - come solitamente si crede - il cielo azzurro che era assente. Mai l'assenza potendo diventare presenza. La precedente assenza del cielo azzurro è anch'essa eterna - come la sua attuale presenza (come la sua incominciante presen7.a). Perciò, ad entrare nel cerchio dell'apparire, è un cielo azzurro eternamente presente. Ossia, l'eterna presen7.a del cielo azzurro. E non la sua assenza eterna. Il passaggio dal prima al poi si dà dunque come passaggio dalla presenza dell'assenza eterna del cielo azzurro alla presen7.a della sua eterna presen7.a. Ciò che appare è sempre l'eterno apparire del proprio apparire - e quindi, se ad apparire è l'assenza di qualcosa, l'apparire sarà l'eterno apparire dell'apparire di tale assen7.a. Mai tale assenza, "eternamente apparente come tale", potrà trasformarsi in eterna presen7~ della presen7~ dell'esser presente di ciò che è presente. Se, ad apparire è un'assen7.a, ad esser eterno sarà per l'appunto l'apparire dell'apparire di tale assen7~. A farsi presente, ad incominciare ad apparire, è, dunque, sempre l'eternamente presente - mai l'eternamente assente. Perciò, anche là dove, ad apparire, sia un'assenza, ad incominciare ad apparire sarà ancora una volta l'eterna presenza di una eterna assenza.

42 Per lo stesso motivo il passare non è uno scomparire di ciò che in precedenza appariva - e quindi, quando appare I'eterno apparire dell'apparire del cielo azzurro, l'eterna assen7~ del cielo azzurro non scompare affatto. L'assenza del cielo azzurro non è stata dimenticata. Anche se essa si costituisce, in relazione ali'apparire dell'eterno apparire della sua presen7.a, come un passato. Essa cioè continua ad apparire; solo, in modo diverso. Ossia, essa non cresce più - come a dire che i diversi modi dell"assen7.a del cielo azzurro (quelli che manifestavano comunque una identità nel diverso modo del loro apparire, tanto da consentirci di riconoscerli sempre come "assenza del cielo azzurro") non mostrano più quell'identità che rendeva possibile il loro manifestarsi appunto come il dispiegarsi della medesima "assen7.a del cielo azzurro'". Perciò, nel suo farsi "passato", l'ente rimane tutto ciò che esso, nella sua destinazione ali'apparire, è riuscito a mostrare di sé. Anzi, nel configurarsi, da parte di qualcosa, come un "passato", ad accadere è addirittura il compimento di un'identità. Ad apparire è in tal caso la totalità compiuta di un diverso, o meglio, l'essersi compiutamente portata nel cerchio dell'apparire da parte di una identità del diverso - che, per ciò stesso, si sarà fatto perfectum. Per questo stesso motivo, il presente altro non potrà essere che l'incompiutezza di tale crescita - ciò il cui essere la totalità di questo differen7.iarsi rimane un problema. Insomma, quando sopraggiunge il cielo azzurro, a sopraggiungere non è propriamente il cielo azzurro che era assente - infatti, esso appariva già, sia pur "come assente'". Quel cielo azzurro, ossia quello che era assente (e che appariva appunto nella propria assen7~), si sarà piuttosto compiuto. A sopraggiungere, dunque, quando si fa innanzi il cielo azzurro, è il compimento del permanere di ciò che i diversi modi dell'assenza del cielo azzurro avevano di identico. Così come, a passare, quando sopraggiunge il cielo azzurro (quando appare il suo eterno apparire), non sarà la sua assen7~ - la quale deve

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anzi continuare ad apparire, affinché appaia il suo essersi fatta "perfetta". Tale assenza non passa, dunque, ma si fa "passato", e, in quanto tale, continua ad apparire. E quindi, a sopraggiungere è in tal caso solo il "suo esser passata"; sì che ciò che appare sia solo l'incominciante apparire del suo essersi fatta «passato», owero, l'essersi compiuto della sua identità (dell"identità dei suoi diversi modi di apparire) - ciò che implica tanto il continuare ad apparire dell'assenza del cielo azzurro, quanto il sopraggiungere del suo essersi compiuta, e quindi del suo essersi fatta peifecta. O anche: l'apparire della differenza tra l'incompiutezza dell'identità dei diversi modi dell'assen7.a del cielo azzurro e la sua compiutezza. La differenza tra il presente e il passato; o anche, la clifferen7.a tra il presente esser passato (della compiuteZ7.a) e il passato esser presente (dell'incompiute7.7.a). Mal'apparire di tale differen7.a non può non esser anche l'apparire di una qualche identità. U n'identità che sarà anzitutto la struttura originaria della verità, ma anche il cerchio intramontabile dell'apparire, in quanto esso stesso appartiene alla struttura della verità (ossia, al proprio contenuto intramontabile). Un'identità che è sempre anche identità determinata - quella che, nel succedersi costituito dal divenire ci consente cli ri-conoscere la permanenza di questo o quell'essente, sen7.a che si sia per ciò stesso costretti ad ammettere che qualcosa, in questo stesso divenire, appunto, divenga in qualche modo altro-da-sé. Infatti, sempre per Severino, «come divenire altro, il divenire è impossibile» 10• D'altro canto, è solo isolando gli essenti, che il pensiero dei mortali dice che questa lampada, che era spenta, ora viene accesa (per esempio con un movimento della mano); il destino della verità invece vede che il "venire accesa'' della lampada è il sopraggiungere di quelreterno, che è la lampada accesa,

10. E. Severino, Tautotes, cit., p. 93.

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nel cerchio delJ> apparire (e di quegli eterni che sono le diverse posizioni assunte dalla mano in ciò che i mortali pensano come "movimento della mano"). 11

Insomma, se da un lato il cerchio dell'apparire che non include questa lampada accesa è certamente isolato da essa e dal proprio includerla (in quanto il destino della verità è l'apparire finito del tutto - e nell'apparire finito il tutto non appare), dal]'altro ciò che va tenuto ben presente è che, con l'apparire della lampada accesa, non sarà l'apparire che non include questa lampada a diventare includente la medesima. Anche l'apparire non includente, infatti, è un eterno - e, in quanto tale, «non può diventare altro da sé» 12• Non può diventarlo in quanto è eternamente isolato dalla lampada accesa. Ecomunque, rileva sempre Severino, il divenire - inteso alla luce del destino della verità - non ha alcun bisogno che «quando la lampada accesa incomincia ad apparire (incomincia ad essere insieme all'apparire), sia il cerchio dell'apparire che non la include a diventare inclusivo di essa. Anzi, lo esclude» 13• Perché, ad incominciare ad apparire, quando la lampada accesa comincia ad apparire, è appunto la lampada accesa, ma anche il suo incominciare ad apparire, ossia la sua inclusione nel cerchio dell'apparire ... ; insomma, ad incominciare ad apparire è quell'identità eterna che è il cerchio dell'apparire che include questa lampada accesa. Ma, per l'appunto, il cerchio dell'apparire che incomincia ad apparire «si distingue dal cerchio che lo accoglie, ossia è una parte di esso, che è la totalità dell'apparire» 14• Sì che, nella indiveniente totalità dell'apparire, sono di fatto inclusi sia il cerchio che non include la

11. lvi, pp.185-186. 12. Ivi, p. 187. 13. Ibidem. 14. Ibidem.

45 lampada accesa, appunto come "passato'', sia il cerchio che la include - appunto come "presente". Dove, si badi bene, non si può obiettare che per lo meno la totalità dell'apparire, in quanto non includente l'incominciante apparire della lampada accesa, diventerebbe altro da sé, in quanto includente quell'incominciante apparire della lampada accesa. Infatti, l'incominciare ad apparire della lampada accesa ha come contenuto anche se medesimo. E quindi, quando la lampada accesa comincia ad apparire, l'incominciante apparire non ha bisogno di abbandonare un suo supposto non esser ancora contenuto dell'apparire. «Quando questa lampada accesa incomincia ad apparire, questo incominciante apparire ha già come contenuto se stesso» 15• Ogni regressus in idenfinitum è in questo senso effetto dell'isolamento che separa «l'apparire, di ciò che incomincia ad apparire, dall'apparire dello stesso apparire» 16• Ciò che accade, nel manifestarsi del divenire è dunque questo: stante che r apparire non includente la lampada accesa è eternamente isolato dalla lampada accesa, «quando questa lampada accesa incomincia ad apparire, il cerchio dell'apparire che non la include non appare più solo, ma insieme ad esso comincia ad apparire il cerchio che la include, ossia la totalità dell'apparire è l'apparire dell'incominciare ad apparire» 17• Insomma, l'apparire del comparire dell'eterno non può essere risolto nella trasformazione dell'esser non includente in esser includente il cerchio dell'apparire che include questa lampada accesa; tale apparire è piuttosto «l'indiveniente apparire del divenire, ossia del processo in cui dapprima appare quell'eterno che è il cerchio non includente, e poi appare il cerchio che include questa lampada accesa» 18• 15. Ivi, p. 190. 16. Ivi, p. 191. 17. Ibidem 18. Ibidem.

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Insomma, per Severino l'apparire del divenire non diviene; e «non solo nel senso, che è proprio di ogni essente, che non esce dal nulla e non vi ritorna, ma nemmeno nel senso che incomincia e cessa di apparire; e proprio per questo non si trasforma da qualcosa che non include in qualcosa che include il sopraggiungente, ma è l'indiveniente apparire del sopraggiungere» 19• Insomma, è solo nell'indiveniente apparire che può venire ad apparire questo: ossia, che ali'eterno che non include il sopraggiungente «si aggiunga l'eterno che lo include»2. Perciò l'indiveniente apparire del divenire manifesto dell'eterno non sopraggiunge - ma può costituirsi solo come l'indiveniente apparire del sopraggiungere di ciò che, incominciando ad apparire, appare appunto come I'eternamente incominciante, ossia come ciò che, in quanto tale, non è mai stato al,tro da tale suo esser così incominciante. E che dunque non è il risultato del divenir altro da parte del non apparire di tale cominciare - ché, anche quest'ultimo è il suo stesso eterno non apparire. In questo senso, allora, dawero «l'incominciare ad apparire non aggiunge nulla a ciò che appare»2 1• A dover venire riconosciuto è cioè il fatto che l'incominciante apparire non si aggiunge al qualcosa, e neppure aggiunge nulla alla totalità di ciò che appare - che, in quanto totalità, non può che comprendere anche tale incominciante apparire. Insomma, quando un essente comincia ad apparire accade che, «nell'indiveniente totalità dell'apparire incomincia ad apparire quell'eterno che è questo stesso incominciante apparire»22• E che è eterno nel proprio esser incominciante. Perciò esso deve cominciare ad apparire; ossia, l'incomincia-

19. Ibidem. 20. Ibidem. 21. Ivi, p. 193. 22. Ivi, p. 194.

47 re ad apparire non è altro che l'incominciare ad apparire di quell"eterno che è lo stesso incominciante apparire di ciò che comincia ad apparire. Per questo, mai l'apparire si aggiunge a «ciò» che appare - d" altro canto, una tale eventualità impedirebbe allo stesso «qualcosa» di apparire. Per tutto questo, poi, va anche rilevato - sempre secondo Severino - come l"essente che appare sia sempre e solamente «l'identità con sé della relazione originaria dell"essente al proprio essere insieme al proprio apparire»2.1. Eppure l'identità, nel divenire, non può non costituirsi- anche se l'incominciante è il proprio eterno esser incominciante. Tra i diversi incomincianti insomma si costituisce di fatto una qualche identità. Certo, il succedersi è sempre il succedersi di eterni comincianti, dove mai qualcosa diventa altro da sé - mai il cominciare dell"incominciante valendo come il diventar cominciante da parte del non ancora cominciante. Eppure una determinata successione di comincianti può manifestarsi come pennanenza di qualcosa - nel suo costituirsi comunque come identità di "diversi" comincianti, ognuno in se stesso eternamente cominciante. Un"identità si costituisce - al punto che ad un certo momento appare il farsi peifecta da parte di tale identità. Come a dire che una determinata situazione s'è compiuta. Dove, l'identità, però, non esclude, ma comprende lo stesso sopraggiungere del suo infinito differenziarsi. Di un differenziarsi che comunque non comporta, neppure per l'identità così differenziatesi, il suo divenir sempre altra da sé2'1. Tale

23. Ivi, p. 195. 24. Come Severino spiega bene in Destino della necessità (Adelphi, Milano 1980), e nella fattispecie nel capitolo intitolato Il pennanere delndentità: risoloimento di un'aporia, che inizia a p. 204 del medesimo volume. A questo proposito va ricordata, sia pur in sintesi, l'importante soluzione che Severino dà dell'aporia della permanew.a - ripetendo in sostan7.a l'argomentazione già svolta in Studi di fil,osofia della prassi (1a ed. 1962, 211 ed. ampliata Adelphi, Milano 1984). Severino cerca di mostrare che il rilievo

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identità, infatti, non è mai separata, ovvero isolata dal proprio differenziarsi (sì che il differenziarsi si aggiunga ad essa, rendendo impossibile il suo essere ciò che è). Per questo il suo differenziarsi (che è «originario» - essendo la medesima eternamente compresa in un contesto che dice appunto la sua vera identità con sé, ossia il suo originario determinarsi o differenziarsi) è l'originario differenziarsi del legame tra l'intramontabile struttura della verità, l'apparire, il determinatamente identico e ciò che via via sopraggiunge. Un tema, quest'ultimo, specificamente analizzato anche nelle straordinarie pagine che, in Oltre il linguaggio (Adelphi, Mi-

secondo cui il permanere di una qualche determinazione nel corso del divenire sarebbe impossibile (perii semplice fatto che il legame sempre diverso con il sopraggiungente renderebbe per ciò stesso diverso ciò che dovrebbe invece rimanere, in quanto permanente, identico) si fonda sull'isolamento astratto del permanente rispetto al contesto di appartenen7.a. Cerca di mostrare, cioè, che, solo in quanto isolato dal proprio contesto, e quindi in quanto considerato come indifferente a tale contesto, l'identico può subire - per dir cosl - l'azione differenziante provocata dal mutare del contesto. E quindi vedere smentita la propria identità dal semplice mutare dei contesti. Quando il discorso aporetico afferma il differenziarsi di M> da M» dice il vero - ma dice appunto solo che M> differisce da M». Il che è vero anche alla luce della verità del Destino - ossia, per il discorso che non separa M dal proprio contesto. Ma per l'appunto come semplice differire di M> da M» - differenza che non esclude però che si tratti pur sempre del differire di M, ossia di qualcosa di permanente. Il discorso apiretico, cioè, non dice ciò checrededi dire: ossiachevèanche unaltro differenziarsi diM, diverso appunto dal differenziarsi di M> da M». Il fatto è che - sottolinea Severino: «M è certamente distinto dal contesto in cui si trova, ma non ne è separato; e, appunto perché non ne è separato, M, in quanto appartiene all'insieme di enti che include l'imminen7.a della pioggia, significa M>, e in quanto appartiene all>insieme di enti che include la pioggia, significa M». Se invece M viene separato dagli insiemi cui esso appartiene, accade che nonostante il differenziarsi di M> da M», M appaia come qualcosa di indifferente alla sua appartenenza a un insieme piuttosto che a un altro, e cioè come un significare che si mantiene identico a sé, indipendentemente dalrinsieme in cui esso si trova» (E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 209).

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lano 1992), vengono appunto dedicate al rapporto tra identità e differenza (parte III, cap. I). In esse il filosofo bresciano mostra molto bene in che senso la stessa struttura originaria della verità del Destino si costituisca come rapporto tra le identità di cui le differenze sono differenze e il loro differenziarsi - per Severino, infatti, «tale struttura è l'apparire del rapporto tra le identità (differenziantisi) della non verità e le identità (differenziantisi) della verità, che essendo innegabili (in quanto la loro negazione è autonegazione)» 95, non possono venire travolte e tantomeno smentite dal loro differenziarsi. Per questo, nonostante tale suo differenziarsi, «l'originario è la struttura delle identità la cui negazione e autonegazione»26 • Un differenziarsi che è infinito in quanto, mai, l'incominciare ad apparire da parte di un essente può impedire il sopraggiungere di qualsiasi altro essente. Ed è proprio a partire da tale acquisizione che Severino può rilevare - come viene chiarito in La Gloria, Adelphi, Milano 2001-, come il divenire, pensato al di fuori della follia dell'Occidente (in conformità a quanto già chiarito in Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980), implichi la necessità del manifestarsi da parte del superamento della follia. O meglio, come sia la stessa relazione tra eternità dell'essente e struttura del divenire a comportare un legame necessario tra l'infinità del divenire e il necessario apparire del compimento della follia dell'Occidente - e quindi tra il divenire e l'apparire della Gloria. Infatti, se è vero che l'unione necessaria non può incominciare (necessario essendo ciò che non è soggetto ai limiti di questa o quella condizione), tutto quel che comincia può per ciò stesso anche venire oltrepassato; ossia, deve poter essere oltrepassato. Anche se, sia pur come"oltrepassato", un permanente può cominciare ad appartenere necessariamente allo sfondo.

25. E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 158. 26. Ibidem.

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Ora, la contraddizione del finito è da sempre superata nel]'apparire infinito del Tutto concreto; e non potrebbe che essere così - stante che ogni contraddizione deve esser già da sempre superata nella verità, ossia in quell,originario autotogliersi della contraddizione in cui quella appunto consiste. Ma, tale tutto concreto è custodito nell'inconscio dell'apparire finito e della sua contraddizione; ché, mail'apparire finito potrà esaurire in sé la totalità concreta ed infinita dell'essente. Ogni determinazione specifica della totalità dell'apparire finito potendo essere cli fatto superata. Per questo all'infinito si dispiegherà il superamento della contraddizione costitutiva del finito. In questo senso, la totalità che appare attualmente è una totalità sempre e solo formale. D'altro canto, se fosse in qualche modo determinabile la figura definitiva della totalità, si darebbe una contraddizione non superata. Ossia, l'impossibile. Perciò esiste un apparire infinito e concreto del Tutto che, solo, può rendere infinito il dispiegarsi dell'apparire finito; ossia il progressivo superamento della contraddizione del finito. Infinito ... perché l'apparire infinito e concreto del Tutto non può sopraggiungere nel cerchio finito dell'apparire - altrimenti l'apparire finito (il cerchio finito del Destino) verrebbe annientato. Su queste basi si dovrà allora riconoscere che la Gioia - che per Severino coincide con l'apparire infinito del destino - è in senso proprio l'inconscio dell'apparire finito; ossia, che è questo stesso in quanto già da sempre libero dall'esser in contraddizione con se medesimo, ed in quanto da sempre costretto a manifestarsi nella forma contraddittoria dell'apparire finito. Ossia, costretto a dispiegarsi infinitamente nell'infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie di quest'ultimo. Dove, proprio questo infinito dispiegarsi è ciò che Severino chiama «la Gloria». Ed è proprio in questo percorso che lo stesso isolamento della terra appare destinato al tramonto - come tutto ciò che entra nel cerchio finito dell'apparire. Infatti, se la terra non può imbattersi in un luogo inoltrepassabile, è necessario che anche il nichilismo (la terra isolata)

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venga oltrepassato. Oltrepassato continuando ad apparire, si badi bene. Ché, l'oltrepassato non è un dimenticato - come già abbiamovisto. Tutte le espressioni del nichilismo sono dunque condannate a venire oltrepassate in quanto conservate: ogni angoscia, ogni dolore, ogni felicità, ogni morte ... - conservate nella luce che le oltrepassa. Perciò la gloria è il dispiegamento infinito oltre la solitudine della terra. E, conseguentemente, il luogo della totalità concreta è destinato a non apparire - mai apparirà, nel dispiegarsi infinito dell'apparire finito, il compimento dell'oltrepassamento eternamente compiuto della totalità delle contraddizioni. Anche se ognuno di noi "lo è". Ognuno di noi - sempre per Severino - è questo luogo; e dunque è la Gioia. Ma per ciò stesso tale Gioia è nella nostra esperienza solo nella forma della Gloria. Questo siamo tutti noi: il luogo inaccessibile, che non può non contenere, come oltrepassato, il dispiegamento infinito della terra - che non può non contenerlo, se non altro in quanto infinità contenente l'infinità del dispiegamento compiuto dell'apparire finito. Ma, proprio per questo, noi stessi, nel nostro coincidere con tale totalità concreta, mai potremo accedere ad un tale luogo, se non all'infinito - ossia in quanto destinati ad un infinito superamento della nostra contraddittorietà. Perciò l'infinito concreto vive sempre e solamente nell'infinito astratto che compete all'apparire finito. Vi vive, appunto, come il suo eternamente inaccessibile inconscio. Perciò l'infinito di Severino ha tanto a che fare - ci sembra - con l'infinità 6chtiana27 •

27. A proposito di Fichte e del suo rapporto con Kant, ricordiamo qui rimportante studio pubblicato da Severino già nel 1960 e intitolato: Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia jichtiana, La Scuola, Brescia 1960.

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Coerenza del divenire l. Etica e Destino Quando ci si chiede quale etica debba essere oggi adottata dalla scienza e dalla tecnica, non si scorge che la tecnica, guidata dalla scienza moderna, è ormai la forma suprema di etica, e che l "etica della tradizione occidentale è una tecnica la cui potenza è stata oltrepassata dalla potenza della tecnica scientifica.98

Se, come precisa Severino, «"etica" è riconoscere che l'agire è sottoposto a vincoli»29, altamente problematica risulterà la tematizzazione di qualcosa come un'etica del Destino. È evidente, comunque, il fatto che un tale rilievo apre a diverse possibili letture o interpretazioni. Infatti, se da un lato lo si può intendere come riferimento ad un agire conforme al Destino (ossia, alla verità incontrovertibile della struttura originaria dell'essere), dall'altro vi potrebbe anche essere in esso il riferimento ad un ipotetico ethos connaturato al Destino inteso come vero e proprio soggetto dell'agire in quanto tale. Proviamo ad immaginare cosa potrebbe voler dire agire conformemente al Destino. E quindi ad ipotizzare un agire che corrisponda a quella struttura che dice appunto l'alienazione dell'agire - ovvero, la sua impossibilità. Non potrà non apparire chiaramente ed immediatamente l'aporeticità di una tale ipotesi. La semplice persuasione di poter agire conformemente al Destino è infatti la più radicale delle follie - più radicale ancora di ogni persuasione ignara del Destino, ossia di tutte quelle persuasioni secondo cui l'agire libero sarebbe fenomenologicamente evidente. Appunto perché vuole fare della follia dell'agire qualcosa che sia in grado di adeguarsi 28. E. Severino, Etica e tecnica, in Id, lAbuonafede, Rizzoli, Milano 1999,

p.47. 29. E. Severino, L'etica della scienza, in Id., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988, p. 69.

53 ad una verità nel cui nome è proprio l'agire libero a mostrarsi come radicale espressione della follia. Che ci si possa adeguare, nelle azioni di qualsiasi genere - e che lo si possa fare liberamente, in fon.a di una deliberazione consapevole -, alla struttura del Destino è assolutamente impossibile. È infatti la semplice possibilità di una scelta libera, ossia di un'azione liberamente realiz7.ata, a costituirsi come impossibile, alla luce della verità del Destino. Insomma, il Destino non si esplica in un insieme di regole e vincoli osservando i quali l'agire possa farsi in qualche modo «buono». Il Destino non fonda alcun ethos. E quindi non si può chiedere alla parola del Destino come ci si debba comportare per essere fedeli testimoni della sua "verità". Non meno improbabile è poi che ci si possa riferire al Destino come "soggetto". Certo, l'accadere è sempre un accadere conforme al Destino - anche là dove l'accadere si manifesta nella forma di ciò che Severino chiama "isolamento della terra". Ma non si tratta di un accadere che possa venire inteso come "azione" del Destino. E neppure come un agire etico. Il Destino non agisce nella misura in cui esso non è un soggetto in qualche modo distinto dall'accadere di tutto ciò che accade - sì che quest'ultimo possa venire inteso come l'effetto del suo agire, e magari del suo agire volontario (o libero). Innanzitutto: nessun accadimento accade come ciò che sarebbe anche potuto non accadere - stante che l'accadere, ossia I'apparire di tutto ciò che appare è l'eterno apparire di sé medesimo. Anche le cosiddette possibilità alternative - se fossero tali (là dove si voglia concepirle come tali) - sarebbero eternamente tali. Ovvero, ciò che eternamente accade, appunto, nell'apparire del proprio apparire, come eterna possibilità alternativa. E poi, come concepire l'accadere di tutto ciò che accade al modo di un'azione? Dell'azione di un soggetto? Cosa sarebbe il Destino come soggetto distinto dal proprio agire? Il Destino come sostanza distinta dai propri accidenti?

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Il fatto è che il Destino cui si riferiscono i testi di Severino è piuttosto l"accadere stesso di tutto ciò che accade, dove l'accadere va inteso appunto come l'apparire di un apparire eternamente incominciante, in se stesso eterno (ossia, eterno nel proprio esser incominciante) e tale per cui ogni sua determinata configurazione, apparendo, è destinata a venire oltrepassata in conformità a quell'infinito succedersi di sempre diverse declinazioni della totalità dell'apparire, ognuna delle quali è sempre necessariamente se medesima. Solo in tal modo esso può farsi perfetta espressione di una Gioia valevole come già da sempre risolto superamento di ogni contraddizione. Insomma, il Destino non agisce, non si fa altro da sé (al modo dellessere di Heidegger), magari ritrovandosi in una onticità mai esauriente quanto in essa venisse comunque a manifestarsi. No, il Destino cui danno voce i testi di Severino non è altro che l'eterno esser presso se stessi da parte di tutti gli enti che di volta in volta accadono, e quindi il loro già da sempre risolto esserci, da sempre libero dalla contraddizione e da ogni forma di impossibile negazione della loro originaria ed eterna positività. Il Destino è la totalità dell'accadere che ogni volta, in ogni sua specifica determinazione, abita ed incarna, per dir così, l'eterno oltrepassamento dell'errore che comunque deve apparire (affinché la verità possa essere ciò che è - ossia, eterna negazione dell'errore). Esso è l'eterno superamento del male e del dolore al medesimo comunque sempre e necessariamente connessi. Un oltrepassamento eterno che però non si manifesta se non nell'infinito dispiegarsi del progressivo oltrepassamento delle contraddizioni del finito, e quindi infine anche di quella contraddizione consistente appunto nell'isolamento della terra (condi7jone originaria del nostro essere-mortale). Perciò il nichilismo è destinato a venire oltrepassato, anche se, pur nella forma di un passato, continuerà ad apparire nella "trasfigurazione" operatane dalla Gioia. Certo, Severino non ci dice

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cosa signifìchi "in concreto", per dir così, cosa comporti cioè l'apparire come un "passato" negato dalla Gioia; purtuttavia la destinazione alla Gloria da parte del tutto è conforme alla struttura originaria del Destino. II Destino non agisce; il suo articolarsi non è eticamente valutabile. Il suo manifestarsi è infatti il semplice venire alla luce da parte di una verità in se stessa già salva; e che, in quanto tale, non "salva" affatto gli enti, ma dice piuttosto il loro stesso originario articolarsi veritativo, o anche, un articolarsi nel cui orizzonte i medesimi sono invero già da sempre salvi. Un agire etico è dunque pensabile solo in relazione all'uomo; anzi, all'uomo in quanto "libero". L'ha compreso molto bene Kant; solo sul presupposto di una originaria libertà (ossia, per la presupposizione del f actum della sua libertà), l'agire umano può essere giudicato buono o cattivo. Solo là dove la scelta si determini in relazione ad una possibile alternativa, e venga operata in base ad una precisa conoscen7.a della differen7.a tra bene e male, avrà senso chiamare in causa l'etica. Ossia, solo là dove a strutturarsi sia ciò che la fìlosofìa ha defìnito appunto orizzonte del "libero arbitrio". Ma alla luce dell'orizzonte ontologico delineato da Severino tutto ciò non ha senso alcuno - né l'uomo né il Destino possono accogliere il dispiegarsi di qualcosa come «il libero arbitrio». Owero, la semplice apertura alla supposizione che qualcosa sarebbe potuta essere diversamente da come è. Infatti, è solo per l'isolamento della terra che tale persuasione ha potuto crescere sino a venire addirittura considerata come un contenuto dell'eviden7.a fenomenologica. L'isolamento della terra, owero la persuasione che l'incominciare e il terminare determinino, quale suo limite ultimo, l'essere dell'essente; ciò sul cui fondamento, solamente, può accadere l'essere mortale del mortale. Ecco, è solo in relazione all'accadimento di tale dimensione e della persuasione connessa a quest'ultima che l'uomo si sarebbe potuto pensare

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"libero". Libero di percorrere questa o quella strada. Di errare o di mantenersi al riparo del bene. È solo sul fondamento dell'isolamento della terra che l'uomo avrebbe potuto dar vita a quell'immenso corpo di riflessioni su di sé e sul proprio agire che chiamiamo "etica". Stabilendo così il corpus delle regole conformandosi alle quali il nostro libero agire avrebbe potuto ritenersi eticamente buono. Eppure, è sempre Severino a dimostrare, e sempre con inflessibile rigore logico, come questo stesso isolamento stia nello stesso tempo alla base della progressiva consumazione di qualsivoglia possibilità del darsi di qualcosa come un'etica. Se l'originario è infatti la terra isolata, ossia il divenire pensato come unico terreno percorribile e in qualche modo affidabile, nessun valore (nessuna regola) può sfuggire alla potenza demolitrice della progressiva presa di coscienza del fatto che, già per il suo semplice voler valere anche in relazione a ciò che non è ancora accaduto, il valore etico (qualsivoglia valore etico) rende costitutivamente impossibile quel divenire che vorrebbe appunto regolare e rendere conforme a sé. D'altro canto, l'evidenza prima è, nell'orizzonte della terra isolata, il divenire; sì che ogni tentativo di difendersi dall'insostenibile imprevedibilità da quest'ultimo sempre e comunque implicata non potrà che venire destituito, almeno là dove esso mostri di rendere impossibile il contenuto dell'evidenza originaria. Ma il fatto è che ogni forma di stabilità - sia pur in misura diversa, a seconda che si tratti di un immutabile o di un parzialmente durevole - contraddice l'assoluta imprevedibilità implicata dalla fede costituente l'essere mortale del mortale. E quindi, sia pur progressivamente (innan7Jtutto liberandosi dagli immutabili, ma poi, necessariamente, anche da tutto ciò che in qualche modo - anche se ipotetico-parziale - finisce per depotenziare l'assolutezza dell'imprevedibile), ogni regola in qualche modo «stabile», che voglia aiutarci ad affrontare l'imprevedibilità dell'accadere, insinuandosi in quanto tale là

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dove il non esser ancora di ciò che è rende totalmente impossibile qualsiasi tipo di "pre-visione",dovrà essere abbandonata. Insomma, alla luce della prospettiva delineata da Severino, non solo l'etica è destinata a farsi contingente, parziale e relativa; ossia, non solo il nichilismo è costretto a rinunciare a qualsivoglia forma di salvezza assoluta e definitiva - di più, esso non potrà che dirigersi verso una situazione nel cui ambito nessun valore (neppure un valore ispirato alla semplice ragionevolezza, al buon senso ... e, in quanto tale, "relativo") potrà venire assunto quale regola comportamentale o venire evocato per condannare questo o quel gesto (di quelli un tempo considerati criminali o comunque malvagi). Anche la forma ipotetica della previsione, infatti, implica il riconoscimento di qualcosa che, nell'orizzonte del nichilismo, non potrà essere in alcun modo riconosciuto. Ossia, il riconoscimento del fatto che l'accadere futuro sarebbe più consistentemente connesso ad una piuttosto che ad un'altra possibilità- in ciò consistendo uno dei significati della legge della probabilità. Certo, che un valore non venga vissuto come assoluto non implica, sic et simpliciter, che ad esso ci si rapporti in modo del tutto gratuito e libero. Ma, il valore che volesse regolare l'agire relativamente ad una determinata situazione storica, a certe condizioni culturali e sociali, e magari entro i limiti costituiti dall'accettazione di questo o quel costume di vita, non smetterebbe per ciò stesso di essere un valore esprimentesi intorno a ciò che non è ancora stato fatto - e quindi trascende il limite costituito dal già esistente. Altrimenti non sarebbe neppure un valore etico - ma un semplice contenuto storico, descrivibile e rinvenibile nell'ambito del già accaduto, e quindi privo di qualsivoglia potenza normativa nei confronti del "non ancora accaduto". L'etica è tale, infatti, solo in quanto i suoi paradigmi assiologici si proiettano nel futuro, imponendosi sull'agire non ancora realizzatosi, e sappiano farsi capaci di orientarci in tale prospettiva.

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Ma allora, proprio per quanto appena indicato, anche nel1'orizzonte del nichilismo l'etica è destinata a farsi puro flatus vocis, in se stesso privo di qualsivoglia potewa persuasiva. Come a dire che, se già nell'orizzonte eterno del Destino l'etica è da sempre oltrepassata e destituita di ogni, anche flebile, potema, è sempre in relazione al medesimo Destino che si dovrà riconoscere come, anche nel contesto della vicenda inaugurata dall'isolamento della terra (i cui presupposti, solamente, avrebbero reso possibile il suo trionfo e la sua enorme rilevan7a storica), l'etica sia destinata a svuotarsi di ogni potenza normativa, e quindi a riconoscere (sia pur per tutt'altri motivi) la propria radicale impossibilità. Certo, l'etica comunque più resistente rispetto all'incombere del definitivo compimento di un tale destino è quella scientifica - e quindi assolutamente inevitabile è la subordinazione di ogni altro valore (religioso, morale ... ) a quell'unico valore che è la potenza indefinitamente incrementabile dell'Apparato tecnico-scientifico. Infatti, stante che la scien7.a e la tecnica si propongono da ultimo - come ogni altra etica, peraltro - una sempre più efficace difesa dai rischi dell'imprevedibilità del divenire, è evidente che la loro etica sarà l'ultima a cedere il passo, se non altro in quanto in grado di adeguare al massimo grado il proprio apparato previsionale e normativo alla contingen7a del possibile. Ma anche la scien7a, in quando fondata sulla persuasione relativa alla dominabilità dell'essente, e quindi su quel divenire che di tale dominabilità è l'ultimo fondamento e l'imprescindibile condizione di possibilità, è destinata a riconoscere che il semplice fatto di essere dotati di un apparato normativo (per quanto ipotetico-deduttivo) costituisce un "limite" per l'espansione infinita della volontà di potenza in cui essa medesima consiste. Ossia, un limite anzitutto per quel divenire assoluto su cui, solamente, l'infinita potewa della tecnica può realmente esplicarsi.

59 Da ciò, comunque, un paradosso oltremodo radicale - cui l'impostazione severiniana sembra necessariamente condurre: se l'efficacia del dominio è direttamente proponionale alla libertà del divenire (ossia al suo non essere vincolato a nessuna legge in qualche modo stabile), ossia alla debolezza delle regole a cui quest'ultimo finisce per essere vincolato, è evidente che il dominio possa farsi massimamente efficace solo là dove la regola abbia condotto al massimo grado possibile la debole7.7.a sua propria. Ossia, là dove quest'ultima si sia fatta totalmente impotente; o anche, dove essa abbia rinunciato in toto a regolamentare il "non ancora". E quindi dove la sua impoten7.a si sia fatta dawero radicale. Insomma, la tecnica potrà farsi massimamente potente solo là dove riesca a sperimentare la propria più radicale impoten7~. Paradosso irrisolvibile della tecnica e di ogni forma di dominio - quel dominio che è reso possibile, anzi necessario ed urgente, proprio da quella struttura del divenire che è nello stesso tempo destinata a manifestare la sua più radicale impossibilità. Ossia, la sua krisis definitiva. D'altro canto, ogni etica- per quanto relativa e contingente (come quelle dei pragmatismi contemporanei) - può sussistere solo in base all'assunzione assolutamente irrazionale di alcuni presupposti quali principi morali di ogni argomentazione. Ossia, sul fondamento di una fede - che, in quanto tale, non può che essere "irrazionale" ed "ingiustificata":.>. Ma, dawero nell'ontologia severiniana nessun'etica trova diritto di cittadinanza? O, nello stesso definire l'eterno superamento di tutte le contraddizioni del finito in termini di "Gioia" si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che è stato fatto uscire dalla porta?

30. Tematica affrontata da E. Severino nel saggio Élenchos, in Id., La tendenza fondamentale, cit., pp. 89-109.

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Dawero, cioè, nel concetto di "Gioia" non fa comunque capolino qualcosa che ha intimamente a che fare con quanto è sempre stato al fondo delle diverse etiche elaborate dalla storia dell'Occidente? Quella di "Gioia" è espressione che rinvia sen:z.a mezzi termini ad una determinazione toto cael,o soggettiva del "sentimento" - quella stessa che aveva fatto della filosofia, sin dalle sue origini, una sostanziale eudaimonia. Quella di Severino è d'altra parte una filosofia che mette fuori gioco il fondamento di ogni male e di ogni dolore: la morte. Indicandone non solo la non eviden7.a, ma addirittura la strutturale impossibilità. Per Severino, infatti, alla luce della «Gioia>>, non solo il male e il dolore manifestano il loro già da sempre accaduto oltrepassamento; un analogo destino attende in questo senso anche ciò che nell'orizzonte del nichilismo chiamiamo felicità o piacere. Eppure, per dire il risplendere eterno della compiuta verità dell'essere, Severino sembra non poter fare a meno di utilizzare una delle categorie che hanno più fortemente determinato le varie opposizioni categoriali, in primis quelle etico-morali, elaborate nel corso della storia dell'Occidente. Proprio quelle oppositività di cui il Destino dice la più radicale destituzione. Riconsegnando così la propria parola proprio a quelle istanze di cui la medesima si pone appunto come la più radicale delle messe in questione.

2. Tecnica e Destino Severino è molto chiaro a questo proposito: «se l'ente è ciò che oscilla tra essere e niente, allora appartiene ali'essenza stessa dell'ente il suo essere prodotto, distrutto, creato, annientato, manipolato, trasformato, devastato, controllato, dominato, sfruttato senza alcun limite. Il limite, infatti, arresterebbe l'oscillazione dell'ente. La fede nell'esisten:z.a del

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divenire, cioè nell'esistenza dell'oscillazione dell'ente, è fede nella dominabilità dell'ente e quindi è fede nell'esistenza delle forze che si contendono il dominio dell'ente»31 • Perciò il limite, da epistemico, s'è fatto sempre più consapevolmente ipotetico e provvisorio - l'Occidente ha cioè preso coscien7.a del fatto che «il logos può avere soltanto la verità ipotetica e provvisoria del sapere scientifico. Cioè che può essere soltanto - anche ai propri occhi - una fede ... e non perché la razionalità analitica sia «più vera», ma perché essa sembra più capace di ogni altra di trasformare il mondo conformemente agli scopi prefissi»32• La questione, cioè, non è più quella della verità, ma piuttosto quella della funzionalità del sapere. Il sapere tecnico-scientifico ha vinto la partita3.1, determinando la sconfitta della metafisica, per dir così, solo perché più funzionale ed efficace in rapporto all'ottenimento degli scopi che di volta in volta i mortali si propongono di raggiungere - appunto perché, adeguandosi sempre più coerentemente al senso ontologico del divenire ed alle sue reali implicazioni, il sapere tecnico rende meno incerta la vita degli umani, difendendola più efficacemente dal rischio che il divenire in

31. E. Severino, L''Occidente come storia del, nichilismo., in Id., La tendenza fondamentale., cit., pp. 172-173. 32. E. Severino, La violenza del dialogo, in Id.., Il parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985, p. 127. 33. Severino avanza una tesi assolutamente originale e meritevole della massima attenzione: che J>età della tecnica abbia avuto il suo primo grande interprete in Leopardi, un "poeta". Allo stesso modo in cui sempre un poeta, o meglio un poeta tragico - vale a dire: Eschilo-, sarebbe stato riniziatore delJ>Occidentein quanto tale., owero deirOccidentein quanto dispiegamento cli un grande, straordinario Errore (costituito appunto clal nichilismo). A questo proposito rinviamo a tre importanti opere di Severino, due dedicate a Leopardi ed una a Eschilo: 1) Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989; 2) Il nulla e la poesia. Alla fine deltetà della tecnica: Leopardi., Rizzoli., Milano 1990; 3) Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi., Rizzoli., Milano 1997.

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quanto tale sempre implica. Insomma, il sapere ha preso coscienza della sua natura fondamentalmente pratica, lasciando spazio al manifestarsi della natura omnicomprensiva della "tecnica''34 - non più concepibile, dunque, come semplice attività specifica, distinta dalla p ~ o dalla praxis, e neppure dalla theoria. Una modalità che ha quindi finito per abbracciare ogni ambito delle cosiddette espressioni umane - anche il linguaggio. Ed è proprio a questo proposito che vanno assolutamente lette le bellissime pagine dedicate da Severino a tale tema in Oltre il linguaggio (Adelphi, Milano 1992) - dove si mostra appunto il senso autentico della cosiddetta "svolta linguistica" determinatasi nel corso del Novecento. Anche quella techne costituita dal "linguaggio", infatti, partecipa del destino proprio di ogni forma di episteme, e quindi, proprio in quanto coerente rispetto al proprio fondamento - owero alla fede nel divenire -, e definitivamente convinta del fatto che, «nonostante il suo distinguersi dalla parola, il pensiero si presenta nella forma della parola»·15, essa deve riconoscere l'impossibi-

34. Va dunque comunque precisato che per Severino il destino "tecnico" delrOccidente non è tanto la "causa" - come sembrerebbe volerci dire invece Umberto Galimberti (che rimane comunque uno dei più significativi pensatori «educatisi» alla scuola di Severino) - dei cambiamenti culturali e filosofici che abbiamo sotto gli occhi, ma piuttosto f>effetto della piega presa dal pensiero filosofico negli ultimi due secoli. Certo, anche repisteme era una "tecnica" - lo riconosce esplicitamente Severino-, ossia uno strumento atto a difendere i mortali dal pericolo costituito dal nulla, ma è il modo in cui si è sviluppato il pensiero moderno (sempre più consapevole, in questo senso, dell'inefficacia del rimedio metaftsico) ad aver «reso possibile la tecnica del nostro tempo, cioè il nuovo rimedio con cui ruomo tenta oggi di salvarsi dal nulla» (E. Severino, Le tracce e la terra, in Id., La legna e la cenere, cit., p. 131). È sempre nel medesimo saggio che, Severino- bontà sua-discute anche il mio Sull'assoluto. Peruna reinterpretazione dell'idealismo hegeliano, Einaudi, Torino 1992) 35. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 147.

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lità di qualsiasi nesso necessario. E quindi la tesi dell'insuperabilità della dimensione linguistica non può essere fondata sul riconoscimento di un nesso necessario tra l'uomo (pensiero) e il linguaggio, ma solo sulla loro inseparabilità dal divenire. Infatti, per l'Occidente l'unico nesso necessario che compete all'essente è quello con il divenire (il quale si configura comunque come una continua separazione degli essenti). Per questo, se è vero che «la riflessione sul rapporto tra la parola e la cosa non esce mai dalla parola» 36, è anche vero che questo implica l'abolizione di ogni nesso immutabile solo per un motivo: quello per cui, nel vedere la cosa come già linguisticamente determinata, la si vede per ciò stesso inscritta in una lingua storicamente determinata, e quindi in una lingua cangiante, sempre diversa da sé, per tempo e luogo, ossia in una dimensione linguistica tutta dominata dal divenire (una dimensione linguistica che appare come tale, però, «solo all'interno dell'interpretazione che pone la parola, a cui il pensiero appare unito, come parola storica»37 ). D'altro canto, per Severino, la storicità della parola non appare se non per l'esercizio (mai definitivo, ma sempre e solamente problematico) dell'interpretazione; essa cioè non è qualcosa che appaia incontrovertibilmente. Insomma, «è sul fondamento di un atto problematico- l'interpretazione - che si afferma la problematicità della parola e dunque del pensiero» 38• Ovvero: è per l'accadere di una certa "tecnica" - anche l'interpretazione è una "tecnica", infatti - che appare la possibilità che la parola, in cui il pensiero respira, «sia storicamente determinata»39 •

36. Ivi,. p. 143. 37. Ivi,. p. 143. 38. Ivi,. p. 144. 39. Ivi,. p. 145.

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D'altro canto, è certamente vero che la parola «è diveniente anche indipendentemente dal suo venire inserita, a opera dell'interpretazione, nel "contesto storico"»"°, ma non per questo è impossibile che si dia un'identità dei diversi modi di parlare (pur non potendosi quest'ultima manifestare se non all'interno di un certo modo di parlare). Dal fatto che l'identità delle differenze non può manifestarsi se non all'interno di una differenza, non consegue infatti che «l'identità delle differenze non esista e non appaia» 41 • L'unica conseguen7~ di tale fatto è infatti che «essa è identità delle differenze non in quanto è una differenza, ma in quanto è l'identità che è e appare all'interno di una certa differen7~»42• Certo, qualsivoglia espressione io usi, essa sarà un'espressione della lingua italiana, ma non per questo il significato da essa espresso sarà "l'identità che è" semplicemente per il suo essere un'espressione della lingua italiana. Certo, anche tale significato è assunto come identità nel suo ritrovarsi comunque avvolto da una delle differenze in cui si manifesta la lingua italiana, ma, ancora una volta, esso è assunto «come identità delle differenze non in quanto essa è una differen7.a, ma in quanto tale suo esser differente avvolge comunque una identità»..., - così come «le differenze sono e appaiono, solo in quanto non sono e non appaiono come differenze pure, separate dall'identità, ma in quanto avvolgono l'identità e appaiono in questo avvolgerla»44 • Anche il linguaggio, insomma, di là da quanto reso evidente dall'eterna ed inviolabile luce del Destino, è una tecnica, e in quanto tale è destinato a non tollerare più alcun limite assoluto al proprio dispiegamento. Al proprio trasformarsi. Nessuna 40. Ibidem. 41. lvi, p. 150. 42. Ibidem. 43. Ivi, p. 151. 44. Ibidem.

65 "cosa'' può costringerlo a sé, ossia alla propria fattualità. Nessuna cosa può cioè indirizzare e regolare il linguaggio, quale suo ultimo punto di riferimento. Così come la produttività resa possibile dalla tecnica contemporanea non tollera più alcun vincolo "etico", estraneo alla semplice esigenza di sviluppo della potenza tecnica in quanto tale, allo stesso modo nessuna la tecnica linguistica si pensa più come semplice ancilla rerum. «All'interno della fede dell'Occidente nel divenire, la parola non riesce a essere parola della cosa. È inevitabile che finisca col rendersi conto di essere sempre parola di altre parole» 45• Techne è termine greco che dice il senso originario del "fare'' -del fare "produttivo", s'intende. Quello stesso fare cui allude, sia pur secondo una diversa sfumatura, anche la poiesis. Techne e poiesis, però, non esauriscono la totalità delle possibili forme del fare. Non è un caso che i Greci dovessero tematizzare un'altra categoria, atta ad indicare appunto tutte quelle modalità dell'agire non-produttivo di cui è pur sostanziata la nostra esistenza: la praxis. Ovvero, ciò che costituisce la nostra esisten7~ in quanto insieme di "comportamnenti". Aristotele avrebbe rigorizzato tali distinzioni con grande maestria. Eppure, sia pur nella loro reciproca distinzione, tali determinazioni del fare umano sono tutte accomunate dal fatto di essere comunque espressioni di una medesima delirante volontà - delirante, sempre secondo Severino, appunto in quanto pervicacemente persuasa di poter liberamente perseguire questo o quello scopo attraverso l'utilizzo di determinati strumenti (ma potremmo anche dire: per l'attivazione di determinati e specifici comportamenti). Certo, non sempre tali forme del fare producono "oggetti" concreti, oggettivati e sussistenti al di fuori di noi secondo una qualche determinazione materiale. Eppure, anche quando ci comportiamo in un certo modo, ed entriamo per ciò stesso in

45. Ivi, p. 160.

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relazione con l'altro-da-noi (sia tale "altro" fatto di cose, persone, idee ... ), tutti noi miriamo - consapevolmente o meno- al perseguimento di un certo "fine". Sì che il nostro comportamento sarà sempre e comunque "teleologico". E quindi diretto al perseguimento di uno stato inizialmente non-dato. Ha ragione, dunque, Severino, a mostrare - attraverso il dispiegamento di unalogica davvero ferrea-come ogni "azione" esprima, volente o nolente, la quintessenza stessa della "volontà di potenza"; secondo cui, appunto, qualcosa che non-è dovrà poter essere condotta ali'essere. Secondo cui, dunque, il contenuto ontologico del divenire costituirebbe l'evidenza suprema. Ma soprattutto, l'agente (chiunque sia persuaso di "agire") vuole che il non essere "sia", di là dalla possibilità che ciò accada indipendentemente dalla propria volontà, costituendo per ciò stesso una costante e radicale minaccia rispetto alla propria esistenza. Insomma, colui il quale agisce (o meglio, appare persuaso di poter/dover agire), lo fa cercando di guidare il passaggio dal niente ali'essere in conformità ai propri desideri - sì che l'ilTl.17.ione dell'assolutamente imprevedibile non lo travolga, magari ponendo fine alla sua stessa esistenza (o ai progetti di cui la medesima è sempre e comunque sostanziata). Chiunque agisca, in questo senso, è perfettamente convinto che la propria volontà, libera e volta alla reali7.7.azione del proprio bene, possa trasformare la libertà del divenire ontologicamente inteso (del divenire in quanto passaggio dal niente ali'essere e viceversa) in un'occasione fertile e propizia per la reali7.7.azione di un dominio sicuro perché libero dal pericolo originariamente inscritto in quella stessa libertà - ossia, possa trasformare la libertà del divenire in straordinaria occasione per l'estrinsecazione più gratificante della propria libertà. Come a dire: dalla libertà dell'ente alla libertà dell'agente. Perciò ogni "azione" è tecnica. Ed ogni agente è un technites non meno potente, quindi, né del demiurgos platonico né del Dio cristiano. Ogni technites, infatti, decide del modo

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specifico in cui il niente ha da diventare essente - facendo di tale modo un ineludibile prodotto della propria techne. Ogni technites, nel far essere il niente, decide della «forma>> dell'essente di volta in volta così costituentesi. E quindi anticipa ciò che altrimenti, owero in quanto liberamente insorgente, potrebbe destituire qualsivoglia "potenza" progettuale. Ma l'agente, divenendo sempre più consapevole della radicale novitas del diveniente, deve iniziare a convincersi del fatto che il prodotto del proprio "fare" potrebbe anche non essere quello da lui pro-gettato nella dimensione della volontà non ancora realizzata. E non è tutto - ché, se l'assoluta novitas istituita da ogni diveniente, per il semplice fatto del suo venire ad essere a partire dal niente, rende impossibile e folle qualsiasi fede epistemicamente anticipatoria, un destino analogo sarà riservato anche alla progettualità più debole, quella comunque disposta a farsi smentire e falsificare. Insomma, affinché la tecnica possa farsi dawero conforme alla struttura del divenire ontologicamente inteso, è necessario che l'agire prenda coscien7.a del fatto che i propri prodotti possono costituirsi come effettiva realiz7.azione solo del comportamento specifico che di volta in volta saprà di fatto realiz7~rsi. Per questo, non solo il Dio delle religioni epistemiche doveva tramontare; destinato ad abbandonare la scena essendo anche quel Dio minore che è lo stesso agente mortale, in quanto comunque persuaso di "poter" realizzare almeno qualcosa, e almeno secondo una qualche probabilità, di quanto inizialmente pre-visto, ossia del già-voluto prima che l'agire trovi la propria definitiva attuazione. Perciò la tecnica deve, in conformità al proprio progressivo ed inevitabile coerentiZ7~rsi - secondo un'ottica rigorosamente severiniana - rinunciare non solo ad ogni progetto epistemico, ma infine anche alla forma ipoteticistico-probabilistica che oggi appare comunque vincente. Appunto perché già la semplice possibilità che il prodotto dell'agire (della techne)

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corrisponda alla libera progettazione anticipatrice è qualcosa che ostacola il pieno dispiegamento della libertà del divenire. E appunto per questo il destino della tecnica non può che coincidere con l'immediateZ7~ del semplice farsi essente del niente, in quanto lasciata alla puntuale e gratuita coinciden7.a di volontà e risultato della sua azione. Dove, però, la volontà stessa coincide appunto con il semplice "comportamento'' di fatto manifesto, ossia con l'azione di fatto manifestatasi là dove qualcosa sia venuto ad essere a partire dal proprio esser stato un niente. In questo senso, il destino della tecnica viene a coincidere con la totale espropriazione di ogni volontà progettante, ossia con il puro e semplice funzionamento di un agire risoltosi tutto nella perfezione del suo nudo, semplice e gratuito accadere. Ma allora, non si dovrà forse anche riconoscere, di là da quanto sostenuto sin qui da Severino, che vero destino della tecnica è quello disegnato dalla concezione heideggeriana dell'evento (Ereignis), e non il contrario? Ossia, le cose non potrebbero stare in modo tale che non tanto la tecnica venga a costituire il vero compimento del nichilismo, ma piuttosto che anche quest'ultima sia destinata prima o poi risolversi in quella gratuità del venire ali'essere così ben tematizzata da Heidegger soprattutto in relazione alla questione dell'origine dell'opera d'arte?

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Rilevanza del concetto di «necessità»

Theorein: questa parola rimanda ad un ambito tematico che, se da un lato è fortemente connesso all'esercizio (o arte) del "vedere", cioè a quell'esercizio che dell'a~ architettonica è la cifra più significativa, dall'altro allude ad un modo del "vedere" che forse, di quello sensibile, si costituisce come condizione di "possibilità" e pre-supposto imprescindibile, ed in cui anzi, solamente, quest'ultimo riesce ad essere tale. D'altra parte, quando diciamo di contemplare (theorein) qualcosa (il filosofo contempla il mondo e dà voce alla "meraviglia" che quest'ultimo avrebbe fatto insorgere nel suo animo) non abbiamo essenzialmente a che fare con l'esser in qualche modo "visto" da parte di ciò che diciamo di contemplare? Contempliamo, senz'altro, nell'atto stesso in cui vediamo ciò che stiamo contemplando. Eppure, "vedere" non è, tout court, contemplare. Il vedere con gli occhi del corpo, infatti, è ciò su cui il contemplare si sofferma, si acquieta, appunto nel comprendere. Il contemplare, che è innanzitutto un "pensare", dà nome e si interroga su ciò che il "vedere" vede, su ciò che il vedere sensibile incontra. Non pro-cedendo instancabilmente oltre, in certa di novitas, sempre inappagato da ciò che avrebbe già di fronte a

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sé, il contemplare è un gesto di arresto inevitabilmente "critico" nei confronti di tale frenesia- esso arresta ed interroga il "veduto'', e perciò «sta». Il suo fare è un fare che sta; è il fare nella sua originaria purezza, il faredel "presente", dell'ora. Un fare il cui pro-cedere "procede" sempre sullo stesso, e proprio perciò è pre-supposto da ogni techne. Se la techne, infatti, è l'azione che si propone il raggiungimento di un fine che non era presente al suo inizio (un fare essenzialmente produttivo, dunque), il contemplare (theorein) è praxis allo stato puro; un fare che ha il proprio fine in se stesso, come sapeva bene già Aristotele - ma, di più, il fare della praxis teoretica è un fare che sprofonda nel medesimo, è sempre lì, ab origine, sin dal suo darsi originario, fermo sullo stesso, e proprio di questo perfetto «stare» in-forma il suo stesso incessante procedere. Cioè, non va neppure oltre se stessa, verso un oggetto esterno (per poi soffermarvisi), perché è essa stessa ad istituire l'oggetto in quanto tale. Essa è atto di pensiero, e dunque originaria posizione del proprio o"bjectum; in questo senso il suo procedere è il procedere della riflessione filosofica, perché, sin dal suo cominciare, essa pone il proprio oggetto come determinatamente istituito. Diremo dunque, tornando così ali'affermazione iniziale relativa al presupposto di ogni vedere determinato, che solo in tale procedere il vedere (con gli occhi del corpo) è ciò che è, ossia è un "vedere". È il contemplare, infatti, che, riflettendo, piega e Ti-piega in mille modi lo stesso, il suo "veduto", e così lo connette al mondo, anzi lo fa mondo e lo "nomina", cioè lo significa come veduto; e dunque significa un determinato atto come "vedere". Solo allora il "veduto" diventa numdo, e viene riconosciuto come tale, potendo diventare oggetto di techne volta a buon fine, che sa che quel "veduto", in quanto così significante, è predisposto a questo o quel genere di manipolazione tecnica. Ma, se il contemplare, che dà significato e dunque nomina, opera sul quid (che il vedere degli occhi del corpo - la sensi-

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bilità, direbbe Kant - semplicemente "riceve" ed "accoglie") ab origine, ciò accade perché già il semplice fatto che un quid mi sia dato pre-suppone l'atto di un pensiero (il theorein) che, nel contemplare, appunto (nell'istituire qualcosa come la posizione di un "contemplato"), dia un sia pur minimo significato ali'evento in quanto consistente anzitutto nel suo essermi dato. lo ricevo solo in quanto so di ricevere, cioè in quanto riconosco il ricevuto come un "ricevuto": in ciò il fare originario del "vedere" di cui si diceva all'inizio - il "vedere" con gli occhi della mente (perciò Kant doveva istituire l'attività dell'Io già nella sfera passiva del conoscere - la sensibilità-, e strutturarla nelle due "intuizioni pure" dello spazio e del tempo, concepite come ciò attraverso cui renderemmo possibile l'esserci di un "mondo" quale quello della nostra esperienza). Dunque, proprio in base a quanto abbiamo visto sino a questo punto, dovrebbepoter venire facilmente compreso perché il concetto di «necessità» vada interrogato, nel suo stesso statuto di possibilità originante, da un theorein il cui "procedere arrestante" si propone come proprio compito quello di sviluppare una riflessione autonoma e rigorosa. Anzi, ci si dovrà interrogare sulla "morte""; sì, perché la vita sulla terra ha nella morte non solo il suo telos (fine), ma anche la sua vera arché (origine, principio) - nulla di più comprensibile ed in sintonia con un"autentica comprensione del mondo che sappia dawero interrogare la meraviglia da questo pro-vocata, di una riflessione sulla morte. Certo, perché, se la morte è "destino" eterno di una vita che in essa (nella morte), e solo in essa, trova la propria compiuta peifectio, il suo "stato" definitivo, è alla morte, appunto, che si tratta di pensare nell"atto in cui si edifica «la» dimora, l'autentica e sacra dimore dell'uomo. Se la morte è il vero oikos della "vita eterna", di una vita che è dawero eternata solo in quell'ormai passata peifectio (una perfe7Jone non più incrementabile) che coincide con il ni-ente della morte, e se ogni nascita, nel suo atto sorgivo originario, è possibi-

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le solo grazie al mettersi da parte, al ritrarsi del ni-ente di ciò che nasce, e dunque al morire della sua (del nascituro) morte originaria (perciò la vita è sempre "morte"; vita come perdita della peifectio originaria in cui l'ente, in quanto "morto", era già perfettamente compiuto, ma, insieme, come inevitabile, perché unica possibile, modalità d'esistenza del nulla di quell'ente - perché è solo l'esistere, l'essere di un ente, il suo vivere, che può istituire la sua origine come "eterno passato" della sua perfetta ni-entità: solo di ciò che vive è infatti possibile dire che "era morto", e che "morirà". Mentre di ciò che, sic et simpliciter, non è, non è possibile dire alcunché, perché il mero nulla non è né morto né vivo), abitare secondo verità, autenticamente, la vita, è abitare la morte (di quello stesso che vive, nel suo stesso vivere). Ma, comprendere tutto ciò vuol dire appunto comprendere la «necessità» con cui la vita stessa si dice ai "mortali", indicando l'abisso sempre incombente (perché già da sempre vivente "in noi") di Thanatos. Comprendere tutto ciò esige anzitutto un'autentica comprensione della Necessità, che già secondo i Greci governava il mondo. Perciò è necessario riflettere sul concetto di «necessità». Sulla necessità di ciò che, in quanto necessario, ha perfettamente comprese, nel suo attuale determinarsi, anche tutte le altre infinite possibilità, che non possono realizzarsi altrimenti. Infatti, se nulla ha potuto configurarsi diversamente, il ''tutto" delle altrepossibilità (altre rispetto aquella posta come "necessaria") è lì, in quella necessaria realtà attuale che è il ni-ente di ogni altra possibilità (ogni altra possibilità essendo in essa come ni-ente, appunto perché non è "altra"). Ogni altra possibilità è in quell'atto anch'essa come perfettamente realiz7.ata - secondo necessità-, se davvero nulla è possibile altrimenti, ed ogni altro è dunque nella forma del medesimo; che è come dire che tutta la linea cronologica degli atti di volta in volta reali7:7.antisi è in se stessa la totalità delle linee cronolo-

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giche possibili; infinito de-lirio delrunica perfectio originaria, oltre la quale nulla è dawero in alcun modo pensabile. Ma proprio per questo ratto, secondo diverse modalità, è sempre come positivo "ni-ente" di ciò che era ed è possibile: sua 11Wrte originaria. Infatti, se è vero che ogni ente è, secondo necessità, originaria morte della sua passata possibilità, nullificatasi nell'atto, è anche vero che r essere di ogni ente è insieme morte di ciò che ora, in quanto negativum dell'esistente, è in quest'ultimo come toùo (owero nella forma dell'impossibile). Questo, per quanto riguarda il concetto lineare di Necessità - quello per cui ogni evento è radicale negazione della possibilità del proprio non -: ma è dawero, questa (da sempreolijectum privilegiato delle grandi speculazioni filosofiche), runica modalità possibile dell'«esser necessario»?

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Oltre il giogo Colloquio con Emanuele Severino (1989)

La verità, come rimedio, soggioga il divenire angosciante del mondo. Questo giogo è ciò che la tradizione delr'Occidente chiama «Ragione». Poi, l'Occidente vorrà liberarsi dal giogo. Ma anche la liberazione dal giogo, come l'imposizione di esso, si mantiene in rapporto al senso greco del divenire, cioè del dolore che angoscia. 1

Al di fuori dell'isolamento della terra, nel linguaggio che indica il non isolamento, la parola «destino» indica lo «stare» che I'episteme non può riuscire ad essere: lo «stare» che, quindi, ha un senso essenzialmente diverso da tutto ciò che lungo la storia dell'Occidente è stato chiamato «destino», «necessità», «stare», «episteme», «eternità», «inevitabilità» - le forme, queste, del soggiogamento del divenire e dell'andare nel niente.2 Il destino non è la semplice negazione della libertà: è una regione diversa da quella in cui la necessità e la libertà coincidono. 3 La verità è il dire con necessità la necessità del Tutto - e questo «dire» è l'apparire della necessità che il tutto sia necessariamente (e della necessità di questo stesso apparire). Questo dire è necessario perché nemmeno un dio onnipotente può smentirlo; ciò che questo dire dice è la necessità del Tutto, ossia l'impossibilità

1. E. Severino, Il giogo, cit., p. 145.

2. Ivi, p. 384. 3. E. Severino, Destino della nec-essità, cit., p. 15.

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che J>ente non sia. La verità della necessità è la relazione necessaria di questi due sensi della necessità.-t La verità del Tutto, eterno, appare. Abita eternamente nel cerchio eterno dell'apparire. Anche l'apparire, come ogni ente, è destinato alJ>essere e quindi è eterno. E la verità del Tutto, in quanto essa è ciò che di necessità è detto di ogni ente, è lo sfondo senza di cui non può apparire alcun ente. Essa è lo spettacolo eterno, che non sorge e non tramonta. Il destino della verità sta da sempre e per sempre alla luce ... Ma il Tutto, di cui eternamente appare la verità, non appare tutto insieme, in ogni suo tratto, ma si inoltra nella luce dell'apparire ... Come il sole che, immobile, si inoltra nel cielo ... Il «divenire» (J>accadimento) è l'inoltrarsi della terra nel cerchio dell'apparire. E anche il divenire è eterno. Per la verità, il divenire non è indipendentemente dal suo apparire, giacché il divenire è l'apparire dell'entrare e dell'uscire dal cerchio dell'apparire. E questo apparire, come ogni ente, è eterno ... La destinazione della terra ali'apparire appartiene a ciò che la verità dice delle cose e quindi è in accordo col loro cuore - giacché il vero cuore delle cose è ciò che di esse la verità dice.~

Donà Non c'è dubbio, professore, la speculazione filosofica, così come viene a delinearsi nei suoi scritti, è testimonian7.a della verità; di una verità esplicitamente istituentesi come apertura di una dimensione originaria all'interno della quale di ogni cosa va detta l'assoluta Necessità. Dire la verità, in questo senso, equivale a dire l'eternità del tutto, dell'eterna costellazione dell'essere, il cui stesso apparire e scomparire (lo spettacolo continuamente mutevole della vita) va dunque inteso come l'apparire e lo scomparire dell'eterno apparire dell'ente. 4. Ivi,. p. 88.

5. Ivi,. pp. 126-128.

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Insomma, parlare di Necessità vuol dire qui parlare di ciò che è NOTTWs incontrovertibile dell'essere in un modo - ci sembra di poter sostenere - che è radicalmente al,tro, diverso rispetto a quello in cui questa espressione è stata di volta in volta intesa lungo la storia dell'Occidente; basti pensare, a questo proposito, a ciò che con l'espressione «Necessità» intendevano nominare i greci, oppure i grandi protagonisti di quel mare magnum che è il mondo della cristianità. Potrebbe tratteggiare brevemente il senso fondamentale di questa differenza?

Severino Certo, dover riassumere in poche parole una questione di tale portata non è cosa da poco; proviamo comunque ad indicare i tratti essenziali con cui il concetto di Necessità si è presentato nella storia dell'Occidente, affinché sia più facile poi delineare, non più che per cenni, comunque, il senso inaudito che lo stesso concetto assume all'interno dei miei scritti. Già dai greci l'espressione Necessità veniva usata per indicare la dimensione che è sovrastante e dominante il divenire. La Necessità, dunque, in funzione di comando, di dominio; la Necessità nella figura del "padrone" - il necessario è ciò che padroneggia il divenire. E ci si potrebbe servire qui della figura hegeliana del servo-padrone: il divenire è il servo e la Necessità è il padrone. Invece, nei miei scritti questa contrapposizione cade in quanto si rivela l'inesistenza della figura del servo, quindi l'inesistenza della figura del padrone (perché sono due termini correlativi). Là la Necessità è I'Arché, che padroneggia il servo (il divenire), e invece nei miei testi si indica l'irrealtà del divenire, cade la figura del "servo-padrone", e dunque il necessario non

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è ciò che soffoca la libertà del divenire. La Necessità va allora

intesa come il cuore delle cose.

Gasparotti A questo proposito, quando Parmenide parla del cuore che non trema della ben rotonda verità si sta forse riferendo a qualcosa di analogo al senso non nichilistico che la Verità incontrovertibile (che lei ama definire come il cuore più autentico di ogni cosa) assume all'interno dei suoi scritti?

Severino Questo lo volevo dire in uno scritto a parte, ma ... vi do la primizia. La cosa va intesa in questo modo: il cuore non tremante della verità, in Parmenide, allude ad un tremore, che è l'angoscia del divenire. Nel mio libro su Eschilo (Il giogo), ad esempio, dico che Parmenide è sul punto di rendere esplicito il rapporto tra"dolore" e "verità". Ma, ciò che è massimamente importante è il fatto che il cuore non tremante non ha una semplice connotazione logico-ontologica, ma va posto in correlazione al tremore della non-verità (collegandoci cosi ali'amechanle del frammento 4, su cui mi soffermo nel quinto capitolo del libro su Eschilo). E il tremore della non-verità è l'angoscia per il divenire che attraversa i dikranoi, che offusca la loro mente. Parmenide sta per parlare del rapporto tra verità e dolore, ma ancora non ne parla esplicitamente: d'altra parte l'espressione «il cuore che non trema della ben rotonda verità» è impensabile se non in rapporto a un «tremare». Da questo punto di vista Parmenide sta per dire quello che Eschilo dirà in modo definitivo ed esplicito, dando così forma a quello che diventerà il tema centrale della filosofia. Anche in Aristotele,

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nel Cristianesimo, in Hegel, e nel Marxismo verrà istituito un nesso essenziale tra felicità e verità (si pensi al marxismo: la felicità della società senza classi è in relazione alla "verità" di questa condizione). Perché solo nell'orizzonte della verità ci si può liberare dal dolore che angoscia, ovvero si può porre un rimedio al divenire inteso come nientifìcazione dell'essere; anche se la stessa liberazione dall'angoscia si mantiene in un essenziale rapporto al senso greco del divenire, cioè al tremore per l'impossibile. Laddove nei miei testi l'espressione "Necessità" indica quella Gioia (la Cioia del Tutto) in cui il mortale, ed il suo tremore, sono già da sempre "passati"; in cui l'impossibile evidenza del divenire nullificante non va neppure dominata, proprio in quanto è da sempre saputa come ciò che non ha alcun valore di verità.

Donà Come si determina ciò che lei chiama "Necessità" in relazione alle due classiche modalità in cui la medesima è sempre stata pensata nella storia dell'Occidente? Cioè, se da un Iato la Necessità è stata pensata come Nomos incontrovertibile relativo a ciò che è immutabile, o meglio come espressione originaria di tale immutabilità, e dall'altro la si è anche fatta valere come ferreo Nomos del divenire, cioè di ciò che non è, in quanto tale, immutabile, bensì contingente (legge necessaria della storia, ovvero di ciò che è temporalmente determinato), qual è l'articolazione che questo stesso concetto assume all'interno dei suoi scritti?

Severino Innanzitutto, va detto questo: nei miei scritti la Necessità non è né astratto nomos di uno "stare" separato dalla mutevo-

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lezza, né astratto nomos del divenire, cli un mutare inteso come irreparabile contingenza di ciò che è, ma non era e non sarà. Una Necessità, dunque, esprimibile in termini di «eternità del diveniente», una Necessità, cioè, in cui l'eterno non è mera soppressione della realtà del movimento, del cangiamento. Da ciò, la figura, accuratamente analiv~ta in Destino della necessità, dell'apparire come apparire (e scomparire) dell' eterno apparire dell'ente (esso stesso eterno). Il movimento, il divenire, sono infatti impossibili solo in quanto implicanti la n ullificazione dell'essere. In questo senso l'impossibilità del non essere dell'essente è la stessa impossibilità che l'essente si manifesti in modo diverso da come si manifesta: questa, la doppia articolazione del concetto di Necessità presente nei miei scritti. Una doppia articolazione, però, in cui la "seconda" necessità non è in realtà seconda, ma è connessa necessariamente alla prima, è un altro modo di dire il senso della prima, è ciò che, insieme alla prima, viene a costituire il senso originario, e più autentico, della Necessità. Infatti, se si affermasse una via contingente dell'apparire, si negherebbe la necessità come impossibilità che l'essente non sia, si negherebbe l'eternità. Dunque: Necessità vuol dire "eternità" dell'essente: eternità vuol dire impossibilità del non essere. Se si affermasse che la storia è una delle possibili storie che si sarebbero potute mostrare, si negherebbe l'eternità dell'essente: da ciò l'inevitabilità del percorso.

Donà Veniamo ad affrontare ora il problema specifico della nonverità. Nei suoi scritti si mostra che la verità, in quanto tale, non è tale indipendentemente dal costituirsi del suo "non",

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della non-verità, dunque. La non-verità, cioè, si rivela in qualche modo coessenziale alla verità. La non-verità come reale negazione della verità, come ciò con cui la verità deve incessantemente misurarsi nel suo stesso darsi come davvero incontrovertibile, in quanto implicante l'autonegarsi (in ciò la for7.a della struttura elenchica della verità) della non-verità, di una non-verità che, però, se non si strutturasse realmente, non potrebbe neppure mostrarsi come autotoglientesi. Ma, la non-verità è fede nell'esistenza dell'impossibile; il contenuto della non-verità è l'assurdo. Da qui il problema essenziale che la non-verità è per il pensiero, e dunque la domanda che a questo punto ritengo opporhmo rivolgerle. La non-verità è pura persuasione dell'esistenza del modo non vero di essere da parte dell'essente, oppure va intesa come esisten7.a vera del modo non vero di essere?

Severino La persuasione alienata è la persuasione che ha come contenuto l'impossibile. Però come persuasione essente sottostà alla legislazione dell'essente. La persuasione il cui contenuto è l'impossibile, è un essente che implica d'altra parte una «chiamata». Dove, con l'espressione "chiamare" alludiamo al fatto che la totalità dell'essente (o del Destino), risponde a questa chiamata con l'apparire di essenti che sono correlati al modo in cui sono chiamati; che sono cioè gli spettacoli essenti configurantisi come gli eterni della Notte (o del Negativo). Quindi l'alienazione non è semplicemente una persuasione; essa è una persuasione il cui statuto ontologico è sì quello di ogni essente, ma si configura appunto come una chiamata alla quale la totalità dell'essente risponde con gli spettacoli dell'alienazione. Spettacoli che sono essi stessi degli essenti, ma si costituiscono come ciò che appare in re'lazione alla follia. Quando

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la follia esplode, appaiono gli spettacoli della follia. Dunque, non si tratta né di una semplice persuasione, né di uno statuto che sarebbe la realtà dell'impossibile: la non-verità non è la realtà dell'impossibile, ma quell"eterno che resterebbe nascosto se non fosse "pro-vocato" da questa chiamata in cui consiste la persuasione. Ma, per evitare le solite ed ingiustificate accuse di heideggerismo che ultimamente sembrano costituire una facile scorciatoia per evitare aprioristicamente l"impegno di un serio confronto con la proposta filosofica emergente dalle mie opere, forse è opportuno riformulare la risposta in questi termini (eliminando espressioni come «chiamata>>, «risposta>> ... ): la persuasione isolante (che isola la Terra dalla Verità) è accompagnata dal]"apparire di contenuti che sono i contenuti del «negativo» dove, ciò che val la pena ribadire è che il loro statuto è lo statuto della Necessità. Essi sono ciò che appare in relazione alla persuasione isolante (d"altra parte la parola «chiamata>> non faceva altro che enfatizzare l"essere in relazione). Là dove c"è la persuasione di distruggere, ad esempio, appaiono quegli spettacoli che noi definiamo «catastrofe», «orrore», «distruzione», «guerra>>. Spettacoli che, comunque, sono essi stessi degli «eterni».

Gasparotti Come interpreta, professore, la dilagante enfatizzazione del nostro tempo come tempo della libertà (enfatiz7.azione che forse finisce per lasciare assolutamente "impensato"" un tale concetto)? Lei stesso, nei suoi testi, parla del moderno come tempo del tramonto degli immutabili. È veramente, il nostro, il tempo in cui Ananke (la Necessità come «giogo» della dominazione di cui lei parla nel volume su Eschilo) ha abbandonato definitivamente la scena per lasciare spazio all"incontrollabile sviluppo di una «libertà» ormai priva di ogni «vincolo»?

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Severino

Ma ... direi che non è vero. No, non siamo nel tempo dell"assoluta libertà; per esempio, nel senso delle equiparazioni - che fa anche F eyerabend - tra libertà scientifica, libertà metodologica e libertà politica. Perché, quel che rimane, nel tempo del tramonto degli immutabili, è la "fo17_.a". Caduta la verità, è rimasta la fo17_.a_ Owero, c"è una selezione delle libertà in cui domina quel tipo di libertà che consente la realizzazione (o meglio, ciò che si crede «la realizz.azione») degli scopi che si vogliono perseguire. C"è la libertà totale, certo, che è una conseguenza del nichilismo, ma organiz7_.ata all"interno di una gerarchia guidata dalla potenza.

Donà È un gioco di forze, in realtà; e dunque i "vincoli" non vengono assolutamente eliminati ...

Severino Certo, i vincoli non vengono tolti di mezzo. Perciò, mi sembra che Feyerabend non si renda conto del fatto che non c"è equiparazione tra le varie forme di libertà, o di svincolamento dalle strutture rigide, perché ci sono le strutture libere che "dominano"" e le strutture libere che restano impotenti e dominate.

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Sul «niente»: voce delirante della necessità

Tutte le cose, in relazione alla previsione divina, si dice abbiano necessità assoluta ... Se pur potesse avvenire qualcosa che poi non awerrà mai, non si aggiungerebbe nulla alla previsione divina, perché essa complica sia le cose che avvengono, sia quelle che non avvengono e pur potrebbero avvenire. Come nella materia molte cose sono allo stato potenziale, e non si realizzeranno mai, così al contrario tutte quelle cose che non avverranno, ma pur possono awenire, se sono nella previsione di Dio, vi sono non allo steso potenziale, ma in atto ... E tutto ciò che viene concepito il lui come essere, non c'è ragione che sia piuttosto che non sia. E tutto ciò che si concepisce in lui come non-essere, non c'è ragione che non sia piuttosto che sia. 1

Già con Kant la contrapposizione libertà-necessità cominciava ad assumere una luce del tutto nuova. Rispetto al consolidarsi di una quaestio che, sia pur di antichissima memoria, continuava a ripresentarsi nella forma di una netta contrapposizione tra "imprevedibile libertà dell'accadere" e "sua inviolabile (e magari rigorosamente predeterminabile) necessità"', si prospettava infatti per la prima volta la possibilità di un'ipotesi di segno completamente diverso: e se libertà e necessità non si rapportassero conformemente ad un rigido aut aut come re1. N. Cusano, La dotta ignoranza, in Id., La dotta ignoranza - Le congetture, tr. it., a cura di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988, pp. 74-112.

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ciprocamente escludentisi? Se, cioè, il mondo della libertà si costituisse come senso essenziale ed ultimo dello stesso mondo da tutti esperito conformemente alla statica ripetitività nomotetica di un grande meccanismo dominato da una inflessibile «necessità>> (che nella legge di causa-effetto avrebbe appunto la propria più perfetta imago sensibile)? A questo proposito la Critica del giudizio è un testo dawero esplosivo - non a caso tutto il Romanticismo tedesco doveva trovarvi la radice e la condizione di possibilità per un nuovo sentire e un'esperien7.a in questo senso sì autenticamente rivoluzionaria. Nella tel7~ Critica, infatti, Kant sottopone il mondo fenomenico ad uno sguardo in grado di rilevarne il senso essenzialmente noumenico, e dunque «libero», di cui il finalismo possa fungere da cifra determinante. Il mondo, «esteticamente» considerato, cioè, è per Kant destinato a perdere quel carattere di mera necessità meccanicistica attribuitogli dalla Ragion pura. Ma, d'altra parte, già in quell'opera v'erano gli evidenti presupposti per una tale riconsiderazione; infatti, già nel primo grande testo kantiano l'insuperabile egoità delle strutture del fenomenico (owero, l'impossibilità di distinguere struttura soggettiva e struttura oggettiva, come se si trattasse di due ambiti ben distinti e contrapponentisi - si pensi alla necessità che Kant sa benissimo essere destinata a determinare soggettivisticamente anche il contenuto sensibile immediato, indicando un'originaria operazione che gli a-priori dell'Io metterebbero in atto già nel fare, del dato empirico, un qualcosa di temporalmente e spazialmente determinato) è condizione sufficiente per farci comprendere che il noumeno non è al di là dei fenomeni, delle cose, ma si costituisce piuttosto come struttura essenziale e veritativa di queste ultime; condizione sufficiente a comprendere che il modus della libertà (proprio del noumenico soggettivo, come verrà mostrato nella Ragion pratica) non è «altro»,

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tout court, dall'orizzonte in cui si costituiscono i fenomeni in quanto tali. Se essa (la libertà) è modalità esistenziale dell'Io, lo è per ciò stesso tutto ciò che, in esso, owero nel suo orizzonte categoriale, prende forma. Necessità deterministica e libertà incondizionata come oggettivo o soggettivo, dunque - modalità inseparabili, anzi addirittura in-differenziabili, dell'essere. Un essere che, nel farsi fenomenicamente necessitato da leggi causalistiche e determinabili, è quindi neUo stesso tempo libero di non essere quel che è; nulla, cioè, avrebbe potuto farlo essere così come è venuto ad essere, così come nulla potrà farlo essere così piuttosto che altrimenti. Un essere che, però, può «non essere» così come è, solo in quanto è così come è; l'altra possibilità potendo cioè essere «altra» solo in quanto esista ciò rispetto a cui essa si dice appunto «altra». D'altronde, per l'Io essere liberi non può che voler dire essere liberi di scegliere qualcosa piuttosto che qualcos'altro. O meglio, la libertà dell'accadere di x implica che l'esser accaduto da parte della medesima non impedisca affatto di affermare che sarebbe anche potuto accadere, al posto di x, non-x. Insomma, qualcosa come una x accade «liberamente» solo se nulla lo costringe ad esser tale, e dunque se risulta effettivamente pensabile che esso sarebbe anche potuto non accadere (dove l'accadere di non-x è appunto il non accadere di x). Eppure, si diceva, in Kant il mondo di cui si rileva la strutturale libertà è lo stesso caratterizzato dalla necessità fenomenica; quello le cui x, per altro verso, non sarebbero potute non esser tali. Ma, non abbiamo appena rilevato che, affinché si possa dire che x sarebbe potuto non accadere (owero che il suo è un accadere libero), è necessario presupporre che quella stessa x - qualcosa come una x - sia veramente accaduta? La x, cioè, è libera solo in quanto accaduta; per questo, quel che accade - nel nostro esempio, la x - è libero solo in quanto

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non abbia lasciato essere quel che esso non è («non-X>>); owero, solo in quanto sia necessariamente accaduto (per essere libero, owero, per potersi costituire come ciò che sarebbe anche potuto non accadere, deve essere necessariamente accaduto). Il non accadere di x sarebbe in questo senso il suo stesso (di x) non poter essere libero. D'altro canto, la stessa libertà di non-x (che invece non è accaduto), owero, la stessa libertà del non essere accaduto da parte dix (non-x non sta qui per y, z ... o altro; ma dice il semplice non-esserci di x; owero non dice cosa ci sia al posto di x), il suo poter essere accaduto (che è poi il poter non esser accaduto del non esser accaduto da parte di non-x, l'essere accaduto di non-x, owero, il non essere accaduto di x) - ché, per l'accadere di x, il non accadere di x, ossia il non-x, non è propriamente accaduto - implica anche qui il non accadere di ciò che avrebbe anche potuto non accadere solo in quanto accaduto (anche a proposito di non-x, cioè, ci troviamo ancora una volta di fronte alla libertà di ciò che può non esser accaduto - come si deve dire, di non-x - solo in quanto accaduto: anche per non-x, cioè, devesi dire quanto già detto a proposito di x). O meglio, il non-x (che costituisce il non accaduto) è libero solo a condizione che il suo "non esser accaduto" sia accaduto. Perché, è dell'accaduto suo "non esser accaduto", e solo di esso, che si può dire che sarebbe potuto non accadere. Owero, che sarebbepotuto accadere il non esser accaduto di x; cioè, che x sarebbe potuto non accadere. Ma, come abbiamo già visto, è solo di una x che sia accaduta (ancora una volta, dunque, dobbiamo presupporre la necessità di quello stesso di cui si vuole dire la libertà) che possiamo dire il poter non essere accaduta. Cioè, l'ipotesi relativa al non-x può essere evidentemente ricondotta - nel suo autentico signifìcato - a quella già sviluppata a proposito della x. Infatti, se quel che sarebbe potuto accadere è il non esser accaduto del non accadere di non-x, quel che deve essere accaduto è quel non esser accaduto da parte di non-x che è lo stesso es-

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ser accaduto di x. E dunque, solo di quel che è, owero, di un positivo (necessariamente), si può dire l'esser libero, owero il suo poter non essere. Ma, quel che è è libero se e solo se il non-essere è ad esso attribuibile non solo in quanto possibilità futura, ma anche e più radicalmente nel suo attuale costituirsi come essente. Esso è libero, cioè, perché sarebbe già ora potuto essere diversamente; il non-essere può dunque essergli predicato ora, in quanto essente attuale. Ecco perché lo stesso non accadere dix (non-x) è, in quanto tale, un positivo significare, se non altro per il fatto che si costituisce come l'attuale possibile negatività di un "positivo"'. Laddove, se x può essere posto come ciò che sarebbe potuto non accadere solo in quanto accaduto (allo stesso modo in cui può essere ipotizzato il non essere accaduto del non essere accaduto di non-x, in modo tale che anche per il non-x solo l'essere accaduto del suo non esser accaduto renda possibile la predicazione della sua libertà}, è chiaro che la necessità non può costituirsi se non come inevitabile presupposto della libertà; insomma, non solo è il mondo necessario a potersi costituire come libero, ma, ciò che più conta, in questo caso, è il fatto che la libertà si costituisce come una radicaliz7.azione, o un compimento, della necessità. La priorità, I'originarietà, sono dunque del necesse. Libertà, quindi, come possibile "estensione" della necessità, e non come altra possibilità, meramente opposta ad essa. Ma questo significa affermare che il nulla non ha senso se non in quanto predicato dell"essere. Infatti, se condi7jone di libertà per l'essente è il non-essere (il poter non-essere così come è), quest"ultimo potrà essere pensato solo come possibilità, o meglio come positiva possibilità dell'essente, owero come attributo dell"essere - e mai come soggetto di una struttura meramente autopredicativa. L"affermazione nulla = nulla è infatti un dire sen7..a significato; che non ha senso proprio

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in quanto il nulla posto come soggetto non implica qualcosa in grado di fungere da soggetto di una predicazione - nessuna libertà, insomma, per il non essere da parte di alcunché. D'altra parte, dire che il nulla è nulla, che il non esistere di qualcosa è un non esistente, che esso cioè non esiste, equivale a dire che solo l'esistere esiste, e solo il positivo è esistente; e che proprio per ciò può darsi come soggetto di una predicazione. Ma questo vuol dire, paradossalmente, che non si può dire «nulla = (cioè è, ovvero esiste come) nulla». Solo di una positiva esistenza ha senso negare (o affermare) l'esistenza; mentre, del non esistere di quel che non esiste non si può dire che «non esiste» - perché ciò vorrebbe dire che solo l'esistente esiste. Ecco perché il non esistente si costituisce come un dire autotoglientesi; così costituendosi, il medesimo, proprio in quanto esplicitamente vocato a predicare la negatività del negativo, ma di fatto costituentesi come semplice predicazione positiva di un positivo. E poi, non è mai il nulla ad essere libero di essere (il nulla non ha possibilità negative rispetto alla propria assoluta negatività), perché, dicendo del nulla «che è» (la negatività del negativo è il positivo), verremmo in realtà a presupporre - già all'interno del soggetto - una struttura predicativa; infatti, il «nulla» soggetto di tale predicazione (positiva o negativa che sia) sta in realtà per «il non essere da parte di alcunché» - dove, se il soggetto è il «non essere», ci troviamo di fronte alla mancan7.a di un soggetto "positivo", alla mancawAl di qualcosa di cui predicare l'alcunché (come abbiamo appena visto a proposito della struttura autopredicativa del nulla). Ma se il soggetto è l'alcunché (di cui verrebbe ad essere predicato il non essere), allora la predicazione è possibile. Ma non solo ... ché la positività originaria di tale struttura predicativa rende immediatamente "positiva", e dunque possibile, anche la predicazione di cui quella struttura si costituisce appunto come soggetto - ovvero, la predicazione che è significante solo in

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quanto presupponente (già a livello dell'apparente negatività del suo soggetto - il nulla) l'esser noto del senso della positività quale originario soggetto di ogni possibile predicazione. La libertà è dunque sempre libertà di non essere quel che si è; libertà è sempre apertura di una possibilità negativa (per un positivo). Non può perciò esservi libertà d'essere per la negatività assoluta; se predicare l'essere del nulla - ormai dovrebbe esser chiaro- equivale ad istituire o una "apparente" struttura predicativa (che non è tale in quanto mancante del "soggetto"), oppure una struttura predicativa che in se stessa (nelsuo soggetto) rivela una più originaria predicazione (quella in cui consiste il soggetto medesimo) la cui positività (il suo soggetto è "positivo"), solamente, funge da condizione di possibilità della positiva o negativa predicabilità del nulla (di una predicazione avente come soggetto il nulla). Ecco perché, se del nulla si può dire che è, questo va inteso solo quale conseguenza immediata della predicabilità negativa dell'essere (quella negativa predicabilità in cui consiste la sua - sempre dell'essere - libertà). Proprio perché il nulla «è», cioè per il fatto che è sempre una positiva determinazione, si dovrà paradossalmente anche dire l'impossibilità di qualcosa come la predicabilità (positiva o negativa) del nulla - e dunque si dovrà per ciò stesso riconoscere l'impossibilità di affermare che "il nulla è". Tale giudizio, dunque, allude al fatto che l'essere è nulla. Insomma, il «nulla» è, perché esiste come possibilità concreta della libertà dell'essere; laddove, del nulla, non si può invece dire né che «è» né che «non-è». In ciò la "presupposizionalità" della necessità rispetto alla libertà, o, che è lo stesso, la presupposizionalità del necessario esistere di qualcosa che è, rispetto alla libera possibilità del suo " non-essere,, . Il nulla, posto come soggetto di un giudizio, significa dunquesempre essere; ma- ciò che più conta-, se e vero questo, è anche vero che il suo (del nulla) valere solo come predicato di-

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ce, tout court, il suo ineludibile costituirsi come ni-ente, owero il suo originario costituirsi nella forma del "negativo-relativo". Consideriamo, ad esempio, questo tavolo. Esso, è ciò che sarebbe potuto essere nulla, nel senso che "altro"' sarebbe potuto esistere, al suo posto: in ciò il costituirsi della libertà del suo accadere. Se c'è libertà, infatti, c'è sempre perlomeno un'altra positiva possibilità; e mai il mero nulla. Perciò, come predicato, il nulla non è mai nulla, ma sempre ni-ente, cioè negazionedeterminata (nella forma del possibile) di quel che è; negazione che, dunque, non si spalanca sull'abisso del "nulla", perché nel suo negare la determinateZ7.a, si costituisce pur sempre come modo del positivo-determinarsi (sia pur altrimenti rispetto a ciò che viene negato). Il non-tavolo dice cioè la libertà del tavolo perché è apertura al determinarsi, da parte di tale negati.o, come tutto ciò che non è tavolo. Apertura illimitata, per il fatto che ogni determinatezza possibile è, in quanto de-terminata, possibùità di sempre nuove modalità del determinarsi. Ma, se il tavolo è libero (si intenda per tavolo: 1'accadere del tavolo), lo è proprio in quanto avrebbe potuto costituirsi, fin da ora, diversamente; il tempo dell'altro è per esso il tempo del medesi100. In quanto libero, esso è fin da ora (cioè nel suo esser quel tavolo che è) tutte le possibili determinazioni «altre» rispetto alla propria - nella forma della possibilità, appunto. Laddove, se la possibilità in cui il tavolo si apre ali'altro ha come termine di perfetta realiz7~one già l'ora (e non solo il «futuro»), essa (tale possibilità) ha, già in quanto tale, la sua perfetta attualizzazione (in quanto sua "attuale" possibilità - come non impossibile, e dunque capace di realiz7.arsi nell'hic et nunc) nella forma di una perfetta, attuale e contraddittoria, identificazione con l'esser tavolo di questo tavolo. Il realiz7.arsi del suo (del tavolo) poter essere albero, nuvola, penna, può cioè venire pensato come il concreto e attuale realizzarsi del suo esser tavolo nella forma dell'altro; come il suo potersi contemporaneamente realizzare come tavolo e albero,

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tavolo e nuvola ... Perché è del tavoÙJ., appunto., che sta dicendo il poter non essere tavolo., ma altro. Il tavolo è libero non solo., cioè., in quanto potrà attuali7.7.arsi come albero., ma., più radicalmente., in quanto si sarebbe potuto già attualmente realiZ7.are come albero. Ciò di cui è pensabile la possibilità è ciò cli cui è pensabile il diventar atto (solo dell'impossibile devesi dire che non può., sic et simpliciter., attualiZ7.arsi). E qui è lo stesso "ora" del tavolo, l'ora in cui il tavolo è tavolo, a potersi realizzare come "albero". Ciò che si sarebbe potuto costituire diversamente da come cli fatto si costituisce è libero in quanto la sua attualità è identità cli ciò che cli fatto è e della diversa possibilità non già realiZ7.atasi, eppure in grado cli realiZ7.arsi in perfetta coinciden7.a con l'esser tavolo del tavolo. La libertà dell'ente, pensata in modo davvero rigoroso, è dunque apertura al suo potersi costituire come contraddictio in rebus, come fenomenicoesser uno da parte del tutto (infatti la libertà, pensata nella sua massima apertura, è per A possibilità cli essere ogni possibile NON-A -il tavolo, cioè, è libero, davvero libero., se può essere insieme albero, nuvola, penna, e tutto il resto). Ma è anche chiaro, a questo punto, che solo tale possibilità riuscirebbe a configurarsi come "non poter esser altrimenti" da parte del qualcosa; ovvero come perfetta realizzazione dell'assolutamente altro dalla libertà: ossia del necesse. Infatti, secondo la concezione lineare classica della Necessità, il "necessario" è ciò la cui esistenza è indiscutibile negazione di ogni altra possibilità; solo in questo senso la necessità è radicalmente escludente ed anticamente determinata. Secondo tale concezione (concezione portata ad un'estrema rigoriv.azione da E. Severino), l'esclusione delle altre possibilità esistenziali (altre rispetto ali'esistente fattuale) non è immediata esclusione del loro significato positivo, e dunque non è cli per sé impossibilità del loro costituirsi come altre possibilità direzionali del necesse; impossibilità che deve proprio per ciò fondarsi su un Nomos altro dal mero esistere di quel che

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esiste. Da ciò, ad esempio, la fondazione spinoziana del necesse, tutta riportata ad un fondamento teologico di cui quello si costituisce appunto come conseguenza immediata: oppure obiezione severiniana al concetto aristotelico di "libertà"2, anche qui, fondata su un'originaria struttura elenchica messa in atto per mostrare l'impossibilità della contraddizione. Secondo tali modalità di pensiero, cioè, l'esser necessario non è mai resser necessario di quel che è necessario in quanto fondato sulla semplice sua esistenza (di ciò che è necessario in quanto semplicemente "esistente"); in esse la necessità non è mai evidenza immediata del mero essere di ciò che è; di quel che, solamente, potrebbe costituirsi come immediata ed innegabile eviden7~ della sua necessità; e ciò perché ivi l'esser necessario non è mai eviden7~ o principio primo, ma sempre conseguenza di un Nomos che riguarda solo una determinata sfera dell'essere: le determinazioni esistenti di fatto, e solo per ciò necessarie (il necessario, in questo contesto, dunque, non è comprensivo del non-essente di fatto).

r

Laddove, ciò che qui si tratta di comprendere è appunto un senso della necessità in virtù del quale il "necessario" si costituisca veramente come qualcosa di là dal quale non sia pensabile alcunché. Un senso della necessità non lineare e cronologico - per cui l'esistere del tavolo, sia, sic et simpliciter, l'esistere di tutto ciò che poteva e dunque "doveva" esistere. L'esistere di là dal quale nessuna ipotesi sia in qualche modo formulabile, neppure "per assurdo". Perché, solo un accadere capace di costituirsi come accadere della totalità del "possibile" (e, più precisamente, di un possibile che non lasci fuori di sé nulla, neppure la sua "esisten7..a attuale" - cioè di una poten7..a che sia,sub eodem, anche "atto") può esser detto «necessario». 2. Si rimanda a questo proposito al teno capitolo di E. Severino, Destino della necessità, cit.

95 L'esser nulla dell'essere di ciò che è è dunque la nientità di un ente il cui determinato «ni» risulta appunto dal]'originario ed a-temporale suo costituirsi come "identico" alle infinite altre possibilità positive che esso, in quanto tale, non è. Una ni-entità tutta positiva, dunque, quella in cui si determina la possibile libertà di tutto quel che è; possibilità in cui verrebbe a realizzarsi pienamente il non poter essere altrimenti da parte di un essente la cui «necessità» si costituisca come autentica, e perciò non ulteriormente incrementabile, perfectio. Libertà come estrema ed adeguata perfectio di un ineludibile necesse la cui apertura originariamente totalizzante si darebbe appunto come rinvenimento di una mai superata "origine",owero di un esser già da sempre compiuto in cui l'ente potrebbe davvero fare esperienza della morte come dell'originario superamento di ogni "finitudine", e dunque della penìa che fa della vita l'infinito ripetersi dell'originario e folle delirio di Eros. Ma, in questo senso, se ogni ente è I'a-temporale farsi di una totalità oltre cui nulla è più possibile, la cui necessità è vero volto di Dio nell'aprirsi di un infinito "altro" sancito dalla radicale libertà che del necesse è originaria condizione d'esistenza, l'esser scelto del tutto in ogni evento particolare e determinato è il perfetto coincidere di necessità e libertà - ciò che, in termini hegeliani, sarebbe diventato poi l' «originaria in finitudine del finito» (di un finito che non ad-tende più un te'los di là dai propri confini, che non aspira più ad una vita oltre la vita - ogni fuoriuscita finirebbe infatti per determinarsi come mera estensione della propria finite7.7.a, vano delirio infinito dovuto ad una fondamentale incomprensione del fatto che il proprio telos è già da sempre realizzato nella perfetta infinitudine custode della sua più perfetta "verità"). Perciò, se kantianamente diciamo che l'ente presente, o comunque fenomenologicamente esperibile, è in qualche modo (in quanto fattoolJjectum di un giudizio "riflettente", o comunque "estetico") anche libero, non diciamo - secondo l'ottica

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kantiana - che il fenomenico non è esclusivamente dominato dal necesse, e dunque che è anche «libero», bensì che la sua necessità trova proprio in ciò il suo radicale inveramento, ovvero il radicale svelamento della propria tragica ineludibilità. In ciò essa si fa ab-soluta, owero sciolta da ogni oppositio determinata. Smascheramento della tracotanza di un falso necesse che nel meccanicismo causale e lineare del fenomenico ha non più che un'illusoria imago dell'autentica ed irriducibile fo17.a del non poter essere altrimenti - di quella fo17~ che ogni ente realizza originariamente nella contraddictio che già la struttura della 11Wnade leibniziana faceva in qualche modo presagire. Cioè, se Kant cercava una via d'uscita al peso insopportabile di un mondo fenomenicamente tutto già prevedibile e ormai sen7.a incanto in uno sguardo finalistico inteso come «condizione soggettiva dell'uso della nostra ragione, quando essa non vuol giudicare degli oggetti in quanto semplici fenomeni, ma vuol riferirli, insieme coi loro principi, al sostrato soprasensibile»3, in uno sguardo che sapesse in qualche modo essente è J>appariredeU>identità dell>essente ... o anche che «ressente è ridentità della relazione con se stessa» (ivi, p. 123).

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koinonia, e dunque di identità tra i diversi, ossia un "impossibile"), allora r esser altro non può che costituirsi come r esseraltro di un qualcosa rispetto a se medesimo. Ma allora, solo ciò che non risulta in alcun modo diverso da A, può esser altro da A: ossia r essere. Infatti, non ha alcun senso dire che A è diverso da B - stante che ogni relazione implica una qualche identità, e che l"identità non è in alcun modo determinata. Non ha alcun senso dire che A è diverso da B in quanto tale relazione implicherebbe una qualche identità tra A e B - ossia tra due determinati -, e per ciò stesso la determinatezza dell'identico così istituentesi. Ma non si può neppure dire che, di «identico», in A e in B, vi sarebbe da un Iato il NON-esser A da parte di Be dall"altro il NON-esser B da parte di A; perlomeno dal punto di vista del pensiero occidentale (ossia di quel pensiero che ha sempre fatto del "negativo" il semplice rinvio ad un "altro" positivo) ... in quanto, nella prospettiva disegnata da quest'ultimo, dire NON-A o NON-B significa semplicemente indicare da un lato tutte insieme le forme positive del NON-A, ossia B, C, D, E ... e dall"altro tutte insieme le forme positive del NONB, ossia A, C, D, E. Come non accorgersi, dunque, che da questo punto di vistaresser NON-A non è r esser NON-B? Ossia che si tratta di due negazioni determinate, dove la determinazione dell'una non è quella dell'altra, anzitutto in quanto, di là dalla determinateZ7.a in esse "negata", tanto nell'uno quanto nell'altro caso viene indicato solamente un insieme infinito di altre "determinatezze", tutte peraltro specificamente individuabili e nominabili (sì che NON-A significhi davvero solo in quanto sostituito di volta in volta da B, da C, da D ... ). Insomma, se NON-A sta per C, NON-B può esser detto "identico" a NON-A solo se anche NON-B sta per C.

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Ma tanto NON-A che NON-B dicono in verità un insieme di determinatezze che da un lato escludono A e dall'altro escludono B. D'altro canto, nemmeno l'esser diverse delle determinatezze l"una rispetto all'altra può identificarle - appunto perché indica il loro esser-diverse, e non il loro esser identiche. Diverso, insomma, può esser dawero solo l'identico. Ossia ciò che non si distingue ... ciò che non si distingue dal distinto, ma solo dall'identico. Ma il distinto è appunto la "determinatezza". Cosa, dunque, non si distinguerebbe dalla determinatezza? Di certo non un'altra determinatezza. Ma solo l'essere ... ossia ciò che non è in alcun modo determinato (ciò che non è "un determinato"). Ed in che senso l'essere si distinguerebbe solo dall'identico? Appunto, distinguendosi da se medesimo - ché solo esso è l'identico, ossia il non-distinguentesi. E come si realizzerebbe tale distinzione? Appunto, nel suo farsi "determinato" -ossia distinto da sé in quanto non semplicemente distinto dalla propria determinatezza (ché esso non è determinato, e dunque non può distinguersi da sé facendo di se stesso una determinatezza), ma identico alla medesima. L'essere, insomma, è distinto dalla propria indeterminatez7.a, in quanto dalla stessa perfettamente indistinguibile - ossia, in quanto originariamente "determinato", e dunque altro da sé (dalla propria indeterminateZ7.a). Insomma, solo per il suo essere già da sempre determinato (ed in quanto tale, "altro" solo dalle altre determinatezze - ché in rapporto a sé esso deve porsi come identico alla propria indeterminatez7.a, ossia indistinguibile da essa, e proprio per ciò nello stesso tempo originariamente altro da sé), l"essere si distingue. Distingue sé da se stesso, senza per

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ciò stesso lasciarsi concepire come semplicemente "detenninato" - ossia come "un" determinato (pur essendo da sempre "determinato" ... ma appunto in quanto perfettamente in-determinato). L'aporia dell'essere è quindi radicale; per ciò esso riesce a costituirsi come l'unico distinguentesi. Perciò diciamo male quando ci riferiamo alle determinatezze come ai «distinguentisi»; non sono esse, infatti, a distinguersi l'una l'altra - come già abbiamo rilevato. Esse non possono distinguersi l'una rispetto all'altra. Ché, davvero, nulla esse hanno in comune; e dunque nessuna "relazione" può venire istituita come relazione tra di esse. Insomma, solo l'identico può distinguer-si; distinguendo appunto sé da se medesimo. E solo in quanto il risultato di tale distinguersi sia l'essersi distinto da parte dell'identico nei confronti di se medesimo, solo per questo, ossia solo perché il distinto è l'identico (ossia ciò che è sempre identico a sé), solo per questo, il distinto così costituitosi può relazionarsi a ciò rispetto a cui esso si pone appunto come "distinto''; ossia il distinto può trovarsi in relazione all'essere-cioè, all'identico che è sempre se stesso, in ogni forma del suo determinato distinguersi. Questa, dunque, l'unica possibile relazione; quella in cui l'esser-altro è sempre l'esser altro dell'identico nei confronti di se medesimo. Quella dell'essere con le proprie detenninazioni - che sono appunto i modi del suo essere "sempre" altro-da-sé ... senza peraltro determinarsi mai come semplice «altro» (nel senso della non-contraddizione) rispetto alle proprie determinazioni. In questo senso l'essere dice davvero l'identico - quel che è tale (come avrebbe riconosciuto anche Hegel) solo nel distinguere sé da sé medesimo; conformemente a quanto accade in ogni tautologia (che neppure Severino riesca a pensare la tautologicità evitando di fare i conti con l'esser altro da sé

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da parte dell'identico, l'abbiamo già mostrato nel nostro Aporia del fondamento1 ). Perciò di A, B, C ... ossia, di tutto, dobbiamo dire che «è». Perciò ogni determinazione (A, B, C ... ) altro non è che l'effetto originario dell'imprescindibile distinguere sé da sé da parte dell'essere - un effetto talmente originario da non riuscire neppure a costituire (nessuna determinazione vi riesce) qualcosa come un non-contraddittoriamente «altro» dall'essere in quanto tale. D'altra parte, il non-contraddittoriamente altro si troverebbe in quella situazione impossibile che abbiamo visto non consentirci di affermare, di alcuna determinazione, che essa possa essere «altra» da qualcos"altro - stante che in tal modo verrebbe appunto a costituirsi quella "relazione"' di alterità che, in quanto "relazione", finirebbe per negare la stessa alterità da essa chiamata in causa ... quella che, dal punto di vista della non-contraddizione, dovrebbe propriamente impedire qualsiasi "identità"' determinata, e dunque anche quella implicata dalla "assoluta alterità" (che, come abbiamo visto, dice che tra due al,tri, deve esservi perlomeno questo in comune: che entrambi non siano il proprio altro ... o anche, che abbiano in comune il medesimo mondo- quello di cui entrambi fanno parte e che, solo, consente loro di inscriversi nella relazione che dice appunto la loro reciproca alterità). Insomma, l'alterità possibile o reale è non solo e non tanto quella che non rende impossibile una qualche identità (l'identità è sempre "determinata" ... anche quella di segno negativo, secondo quanto abbiamo già rilevato), ma, ancora più radicalmente, quella che non si distingue affatto dall'identità. Quella che si propone come articolazione dell'identità medesima,

7. Cfr. M. Donà, Aporia del fondamento, La Cittàdel Sole, Napoli 2000 (testo ristampatoin una nuova versione, con raggiunta di un capitolo, dalla casa editrice Mimesis, Milano-Udin 2008, con il titolo L~aporia delfondamento).

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facendosi così sua perfetta espressione. E che, solo in quanto non distinguentesi dall'identità, non è costretta a sancire un ferreo divieto nei confronti di quest'ultima. Perciò, ritenere che la legge secondo cui «A non è NON-A» possa essere tradotta - senza problema alcuno, anzi in modo perfettamente logico e consequen7jale - nella forma «A non è B», o «A non è C» ... , è quanto di più lontano dal vero possa essere pensato. In questo senso, l'Occidente ha finito per obliare il «vero»; insomma, lo ha obliato per aver pensato che questa fosse l'unica possibile traduzione della formula generale «Anon è NON-A». Ecco perché l'Occidente non avrebbe saputo pensare la "negazione". Anzi, proprio traducendo quest'ultima in una sorta di allusione ad altre positività, non sarebbe riuscito a comprendere che 1) dicendo che «A non è NON-A» si dice in verità che A non è l'essere - stante che nessun determinato è dawero ''altro" dalla negazione di se medesimo, ossia da quell'unica negazione di sé che, per ogni determinato, vale appunto come il semplice «essere», e che non può condurre verso altre determinatezze, ossia verso una qualche forma di alterità che non sia quella di sé rispetto a se stessi (stante che il negare è sempre un "negare sé medesimi", e che, per negare un'altra determinatezza, dovrei avere qualcosa in comune con essa - ma ciò è impossibile -, allora è evidente: nei confronti del proprio negativum, A è diverso nella perfetta identità o indistinguibilità da esso) -, e quindi che A non è se stesso in quanto non è l'essere, ma nello stesso tempo in quanto in esso, ad essere, è appunto il NON della propria determinatezza (perciò A è NON-A; dove ciò significa che A è quella negazione della determinatezza che non è un altro determinato, ma ciò che fa "essere" NON-A nell'essere stesso - nell'è - di A; insomma, A è NON-A in quanto «A è essere»; ossia in quanto la negazione di A, quella negazione che non è un altro determinato, e quindi coincide con «l'essere»,

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in quanto negazione, "esiste" appunto come «A», esiste nell'è che sempre predichiamo di ogni «A», ossia di ogni determinatezza), e che 2) traducendo il non esser NON/A da parte di A come il suo non esser B, C, D, si finisce per fare della già astratta ed improponibile distinzione di A dalla propria originaria "negatività" l'altrettanto impossibile distinzione tra un determinato ed altri determinati. A questo proposito va rilevata l'improprietà dell'espressione «altri determinati», la quale presuppone appunto che possa darsi una qualche alterità tra determinati, e che dunque i determinati possano relazionarsi (per dire appunto l'alterità dell'uno rispetto all'altro), violando così l'inviolabile: ossia l'assolutezza della loro alterità. Ciò che è inviolabile non tanto per il suo costituirsi come legge incontrovertibile od epistemica, quanto perché perfettamente insussistente ed impossibile in se stesso (come violare ciò che non si dà proprio, né come incontrovertibile né come controvertibile? Come violare una relazione di alterità assoluta che in quanto tale è un perfetto non senso, stante che ogni relazione, per quanto ipostatizzata, implicherebbe, per essere in quanto tale, una qualche identità tra i reali - o meglio, come abbiamo già visto, la loro perfetta identità?). Insomma, non esiste qualcosa come A, come B o come C - ad esistere è infatti sempre e solamente NON-A, NONB .. ., ossia il mondo in-finito in B, il mondo in-finito in A, ecc. ecc. Ad esistere è sempre e solamente quel negarsi dell'essere che dice l'identità sua propria: ossia il farsi NON-A da parte dell'essere, il suo farsi NON-B, il suo farsi NON-C. E per questo stesso motivo il vero soggetto di ogni proposizione è l'essere - di là da quanto siamo abituati a credere per il semplice fatto di usare un concetto come quello di «essere» sempre e solamente in qualità di "predica.to''. Insomma, non è tanto questa sedia ad «essere»; quanto piuttosto"]'essere a sedieggiare", "a finestreggiare", per dir così.

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Certo, il tentativo di Severino è perfettamente comprensibile; ma rappresenta appunto l'extrema ratio dellafonna mentis occidentale, ossia di quel pensiero che non ha ancora deciso di confrontarsi con la «negazione» in quanto tale (avendola sempre trattata come semplice apertura ad un "altropositivo"), e che forse non ha saputo farlo anche perché, pensando l'essere come "predicato", ha dovuto porsi anzitutto il problema della sua "assicurazione", o meglio dell'assicurazione delle determinatezze... concepite appunto come ciò cui semplicemente capita di "essere" (magari eternamente). II fatto è che Severino vuole salvare gli enti - e lo fa nella forma più radicale, più estrema: dimostrando che gli enti sono già da sempre salvi. Che essi non vanno cioè salvati da un qualche pericolo. Ma tutto ciò, Io fa appunto a partire dalla convin7jone secondo cui l'essere «non sarebbe» il determinato; e dunque a partire dalla convinzione secondo cui esso vale come "predicato" della determinazione in questione. Ecco il punto: se l'essere «capita» agli enti, nel senso che essi non sono l'essere, sic et simpliciter - anche se capita ad essi da sempre, secondo necessità - è comunque pensabile o in qualche modo ipotizzabile il loro separarsi dall'essere. O almeno la pretesa di poterli separare dall'essere. Certo, se l'essere si costituisce come un «predicato»,. e dunque "cade" sulle determinazioni,. relazionandosi ad esse (anche nella forma «necessitante» teorizzata da Severino),. è possibile sfidare la supposta epistemicità di un tale "legame". Ovvero, è possibile proporsi l'impossibile (ossia: rompere la relazione,. anche là dove essa venga intesa come incorruttibile). II fatto è che, se l'uno non è l'altro, sic et simpliciter, tale differen7.a,. per il suo semplice darsi come "differen7.a",. legittima la folle e diabolica (dia-ballein) impresa del principe della "separazione",. della "divisione" (come l'onnipotenza divina aveva reso possibile la folle impresa di Lucifero - che, cer-

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to, non avrebbe potuto scardinare l'ordine divino, ma, come di fatto è successo, anche per la teologia cristiana, avrebbe senz'altro potuto tentare di farlo, e avrebbe potuto proporsi di farlo all'infinito ... ). No; f essere è soggetto, soggetto di ogni proposizione - solo esso, il sempre identico a sé può infatti distinguersi da se medesimo, senza far venire mai meno la propria originaria identità. Anzi, confermandola all'infinito. D'altro canto, chi potrebbe essere diverso, se non l'identico? E da chi potrebbe esserlo, se non da se medesimo? Ecco che l'essere si presenta quindi come sedia, come finestra, ecc. ecc. E non si distingue dalla finestra, «in quanto sedia». Ché, a distinguersi non è mai questa o quella determinatezza - la quale, in quanto tale, è già il distinguersi dell'essere da se medesimo ... dell'essere in quanto identico a sé in questa stessa perfetta distinzione. A distinguersi, casomai, è la negazione della determinatezza - cioè la non-sedia-, ossia l'essere in quanto tale, in quanto identico. È sempre e solamente esso a distinguersi; e non dalla finestra; ma, ancora una volta, sempre e solamente dalla non-finestra. Ossia dallo stesso essere; che è appunto «negazione» di ogni determinatezza, e che anche nella finestra "si nega" affermandosi (negando cioè la propria perfetta «negatività»), dicendo così la propria perfetta identità con sé. Insomma, è solo la non-sedia a potersi distinguere dalla non-finestra; e non la sedia dalla finestra. Ché, come rileva giustamente anche Jean-Luc Nancy, non si deve risolvere la negazione in un'altra affermazione8. La

8. Si leggasoprattutto J.-L. Nancy, &sere singolareplurale, cit. Dilà dalrorigine come abisso, come grande Altro, in queste pagine Nancy propone un altro senso della "negatività". Propone cioè di accedere ad un "negati-

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non-sedia non può dunque risolversi nell"esser finestra della finestra (il "negativo"" non può risolversi in un positivo detenninato), ma solo nel non esser non-finestra da parte della non-sedia - dove, però, ancora una volta, dovremmo tener presente che, in tale non-essere «differenziante», a dirsi è solo questo: che l"essere non è «essere» solo in quanto identico a se medesimo. Ossia, che, solo in quanto identico, l"essere può esser diverso da sé (posto che non-sedia e non-finestra dicano appunto «essere»; ossia non un"altra detenninazione, ma semplicemente l"esser-negato di entrambe, ossia il loro esser se stesse in quanto espressioni dell"identità con sé ... di quell"identità con sé che, nel negarsi, non produce mai un vero e proprio "altro'" positivo, ma l"alterità della semplice positività - quella stessa che dice sempre e solamente il costituirsi come «determinato» da parte dell"assolutamente non-determinato, ossia dell'essere). E dunque, la "relazione" non dice mai l"alterità dei diversi, ma solo l"alterità dell"identico - nessuna relazione connette cioè i diversi. D"altro canto, già il semplice riconoscere qualcosa come "diverso" è impossibile, se non a patto di vanificare l"assoluta differenza che l" esser diverso appunto dovrebbe implicare. Conformemente a quanto messo così ben in luce dallo Hegel - secondo il quale, appunto, la differen7.a è sempre differew.a assoluta, e la "sintesi" dice non tanto il determinatamente positivo che accomunerebbe i diversi, quanto la vuota differenza tra essi, in se stessa assolutamente indeterminata, e quindi dialetticamente rovesciantesi in una perfetta identità. Salvaguardando la differenza assoluta, infatti, non ci si può non involvere nell'irrisolute7.7~ propria del "dialettico"' hegelia-

vo" che «non si converta più in positività, ma corrisponda al modo d>essere della disposizione-comparizione, che non è in senso proprio né negativo né positivo» (ivi, p. 21).

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no - quella che fa, appunto, del rovesciamento della differen7.a in identità indeterminata, la condizione incondizionata ed in-concepibile di ogni differenza, sempre costituentesi come differen7.a tra diversi ''sen7.a identità'\ semplicemente "de-terminati", e quindi sospesi sull'abisso della loro perfettamente inattingibile identità (come ho fatto vedere nel mio Sull"Assoluto, Einaudi, Torino 1992). In Hegel, quindi, il pensiero occidentaletrova uno dei propri punti culminanti, in quanto nella sua filosofia il "negativo" in quanto possibilità di al,tro positivo viene portato alle estreme conseguenze. Il «negativo» vi viene pensato (almeno, a livello della sua espressione più alta - costituita dall'idea assoluta) come immediatamente rovesciantesi in una sorta di assoluta positività - in una positività senza alterità. Da cui lo scacco del suo dialettismo radicale (come abbiamo rilevato in un nostro lavoro sul "negativo" in Hegel9) e il paradosso dell'aporetico autonegarsi del «negativo» - che dunque "non viene pensato come tale", proprio nel suo venire ipostatiz7.ato nella forma di un trascendentale assoluto. Questo, dunque, il portato della prospettiva hegeliana: per un verso, il negativo originario comporta che, nella relazione d'alterità - quella che distingue ogni determinazione da ogni altra -, ad esplicitarsi sia appunto la contraddizione di un essere che è sempre e solamente diverso da sé (e mai identico a sé - per Hegel, infatti, l'essere non riesce ad essere ciò che è), e, per un altro verso, tale negatività "priva di identità", ossia la negatività dell'essere, di ciò che è sempre e solamente altro-da-sé, si realizza sempre in una positività che, nell'ente determinato (nel Da-sein), ha solo una pmvenza di relazionalità - stante che il non esser il proprio "altro" da parte del 9. Cfr. M. Don~ Fenomenologia del negativo, in «Il Pensiero», XXXIX, n. I, 2000,pp. 47-73.

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determinato ha, secondo Hegel, la propria verità nell'assoluta irrelazionalità di un essere che è sempre e solamente uguale al "nulla" (anche a questo proposito rinviamo alle analisi più dettagliate svolte da noi nel già citato Fenomenologia del negativo). Laddove, secondo la nostra direzione di ricerca, invece, dell'essere si deve dire che il suo rapporto con il proprio negativo (con il non-essere o nulla) è tale per cui, nel nulla, I'essere non dice solamente il proprio astratto esser aùro da se medesimo; ma l'essere peifettamente identico a sé, appunto in tale "negarsi". Solo per questo, il suo negativo si mostra da sempre come "determinato", e non come nulla. Perché, per essere "identico a sé" nel proprio non-essere, esso deve "rapportarsi" o "relazionarsi" ad un realmente "altro" da sé, ossia dalla propria in-determinate7.7~ o negatività: e quindi al "determinato". Solo in relazione a quest'ultimo, infatti, l'indeterminatez7.a dell'essere può non ritrovarsi costretta a farsi essa stessa "determinata" (ossia: semplicemente "altra" rispetto alla determinatezza). Ineludibile conseguen7~ di tutto ciò è dunque l'assoluta impossibilità di affermare qualcosa come l'identità dei diversi. A poter essere detto, in questa prospettiva, è infatti solo l'esser diverso dell'identico. O meglio, l'identità dell'esser-diverso. L'identità dell'universo, della totalità dell'esistente ... inteso però, si badi bene, non tanto come infinita molteplicità di diversi (tutti originariamente relazionantisi), quanto come presen7~ di un determinato già da sempre negato - ossia valevole come presen7~ della semplice identità dell'essere con se medesimo (d'altronde, che ad essere presente sia sempre e solamente "un" determinato l'abbiamo analiticamente dimostrato in «Aporia del fondamento» - La Città del Sole, 2000; ristampato, in versione rivista e ampliata da Mimesis nel 2008).

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Nulla distinguendo, in senso proprio, questa sedia (la nonsedia che è qui presente, o meglio, la non-sedia in cui l'essere è di fatto qui presente) da quella finestra, da questa luce, .... in quanto, in ognuna, ad esser presente è di fatto sempre il medesimo mondo - ogni cosiddetta aùra esisten7.a, infatti, non fa altro che confermare la presenza della sempre identica determinatezza. Nel senso che, a ben vedere, quella finestra, se analizzata come "altro" rispetto a questa-sedia, ossia se concepita a partire dalla persuasione che la vuole intendere come correlata, nella forma dell:, esser-aùro, appunto, a questa-sedia, mostrerebbe assai presto di non costituirsi come "un altro" -ma come l'apparire sempre della medesima sedia (vedi il già citato Aporia del fondamento'). La tesi secondo cui non si darebbe mai rapporto di alterità tra determinati, dunque, non si contrappone aprioristicamente alla tesi secondo cui, invece, «vero» sarebbe il loro esser realmente "altre" l'una dall'altra; ma riesce a costituirsi come originario risultato di un discorso capace di condurre alle sue estreme conseguen7.e la stessa tesi della possibilità dell'alterità tra determinati. Fare dawero i conti con l'essere diverso, da parte di un determinato, rispetto ad ogni altro determinato, significa quindi dover da ultimo riconoscere che funo è f altro - o meglio che l'altro è resser altro da parte delruno. In ciò una straordinaria possibilità di sviluppo della monadologia leibniziana - secondo cui l'universo è fatto di monadi, ognuna perfettamente indivisibile, eppure comprensiva della totalità delruniverso. Ognuna "sola:,:,, senza porte e senza finestre, infinita - tale, cioè, da comprendere tutto in se medesima, pur rimanendo sempre perfettamente identica a sé in questa o quella sua "determinazione", e dunque nello stesso tempo non-composta ... e in questo senso, dunque, perfettamente "spirituale". Valevole cioè come luogo della perfetta identità di identità e differenza.

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In essa, infatti, identità e differenza sono davvero '1o stesso". Insomma, ogni reale è così come io sono - cosa sono io, infatti, se non sempre "lo stesso", in questa o quella mia determinazione? In questo o quel mio sentimento, in questa o quella mia azione? In questa o quella mia manifestazione? Sì, sempre io, al punto che mi è assolutamente impossibile concepire questa mia azione come semplicemente "correlata" o connessa a questo mio sentimento di paura. L'Io frantumato, messo in luce dal pensiero Novecentesco, non attesta insomma alcuna tragica scomposi7Jone o deflagrazione dell"unità dell"lo; ma piuttosto dimostra una volta per tutte che, solo nell"assoluto mio esser sempre altro da me, io sono davvero me stesso. Dove, d"altro canto, potrei riconoscere di essere ancora io, se non là dove sono altro da ciò che ero prima di questo stesso riconoscimento? Spaesato potrà dunque essere solo chi pensava di potersi identificare con questa o quella sua determinatezza; mai, invece, chi sappia cor-rispondere ad un senso del "negativo"" tale per cui, "attraverso di esso", non ci si debba più sentire trasportati "altrove"", in un "fuori" che invero non è di fatto mai esistito.

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Grande trionfo, grande naufragio Il «destino» di un'errante verità

Considerai che anche nei linguaggi umani non c•è proposizione che non implichi runiverso intero; dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra. Considerai che nel linguaggio di un dio ogni parola deve enunciare questa infinita concatenazione dei fatti, e non in modo implicito, ma esplicito, non progressivo ma immediato. Con il tempo, ridea di una sentenza divina mi parve puerile o empia. Un dio - riflettei - deve dire solo una parola, e in quella parola la pienezza. Nessuna voce articolata da lui può essere inferiore alruniverso o minore della somma del tempo. Ombre o simulacri di quella voce che equivale a un linguaggio, sono le ambiziose e povere voci umane tutto, mondo, u-niverso. 1

Prologo Con questa riflessione ci proponiamo di mostrare in quale senso e per quali ragioni la struttura del Destino (o della verità) venga a configurarsi nello stesso tempo come luogo della perfetta incontrovertibilità e come evento dell"irredimibile naufragio della verità incontrovertibile. Un naufragio che peraltro si dispiegherebbe e si paleserebbe non tanto vanificando il trionfo della sua incontrovertibilità, quanto piuttosto «nel» e 1. J.L. Borges, L'aleph, tr. it. di F. Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 117-118.

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«con» il disegnarsi di quello stesso trionfo (ossia, nel mostrarsi concreto e reale dell'incontrovertibilità). Una struttura "aporetica" è dunque quella di cui vorremmo rendere ragione; che ha forse anche a che fare (come tenteremo di far vedere) con l'infinita e assoluta assolutezza che pertiene all'identità che nessun discorso riesce a dire, ossia, con quel significato puro in cui «risuona>> la contraddizione C, ossia ciò che rende il percorso tracciato dall'apparire finito irresolubilmente «infinito». Perché, forse - ma anche questo va appunto mostrato (e dunque, in quanto qui semplicemente annunciato, non potrà che apparire del tutto infondato), l'irrisolvibile identità in cui si raccolgono tutti i significati, non è «tutt'altra cosa>> rispetto al nulla (o alla negazione della verità, in quanto impossibile - in quanto non costituentesi, cioè, se non come modo del contraddirsi, e mai come reale contraddizione) che sempre la struttura originaria deve indicare, ma mai sembra riuscire a "catturare".

1 Il proposito che ci ha mossi a scrivere queste pagine può sembrare - e giustamente (in quanto semplicemente "annunciato") -assai bizzarro, se non addirittura «insensato». Eppure riteniamo che quanto andremo mostrando dovrebbe renderne adeguatamente ragione ... rendendo altresì ragione di questa stessa insensatezza. D'altronde, non è proprio con la più radicale «insensatez7.a» che ha forse a che fare, e originariamente, la verità ... ? Se è vero che nessuno può permettersi di definiresensata una verità destinata a fungere da condizione di ogni «senso». Ma procediamo con ordine. Cominciamo col ricordare come, per Severino, aver a che fare con la struttura del Destino significhi anzitutto aver a

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che fare con r'impossibilità di essere persuasi della contraddittorietà deU/ente; owero con qualcosa che ha la medesima struttura formale dell'evidenza riconosciuta già da Aristotele come propria del principiumfinnissirnum, ma che, in quanto espressione del destino della necessità, ossia, in quanto situata «già da sempre al di là del nichilismo dell'isolamento della terra dal destino della verità>>, dice tutt'altro da quel che tale struttura finisce per indicare nel testo aristotelico (il IV libro della Meta.fisica). Ma, se in virtù di questa struttura, è necessario che quel che appare nell'apparenza e nell'illusione sia negato dalla verità, resta fermo che, secondo Severino, «nell'illusione apparirà come non negato ciò che invece può e deve esser negato»2• Eppure (ibidem). La quale, insomma, appare, in-uno, con l'apparire - che è sempre anche apparire dell'identità della relazione con se stessa -, da parte del negarsi della differenzatraquel soggettoe quel predicatoche"sono appuntoidentici,.solo nell'esser identica a sé da parte della loro relazione. Una relazione, quest'ultima, che dice sempre, in-uno, anche il loro differenziarsi. Quello stesso che, in virtù dell'esser identica a sé da parte della loro relazione, appare appunto «come negato». L'identità con sé della loro relazione mostrerebbe dunque, in quanto tale, il non esser invero diversi da parte dei diversi - la cui «relazione», solamente, sembra poter essere definita identica a sé. Essendo essi, in quanto distintamente considerati, l'uno diverso dall'altro - d'altronde, è solo per questo loro esser diversi, che può darsi quella relazione che va riconosciuta appunto come l'unico vero soggetto dell'esser identici a sé (owero, quella relazione che, in quanto relazione tra differenziantisi, si nega, e, nel negarsi, dice appunto quell'identità che, solamente, è identica a sé}. Solo a partire da tale rilievo, si può realmente comprendere in che senso, nel dirsi identica a sé da parte della loro (di quei diversi) relazione, sia anche detto che quei diversi, in verità non sono diversi - a partire dal fatto che l'uno è l'uno considerato nel suo esser originariamente insieme all'altro e l'altro, allo stesso modo, è anch'esso considerato nel suo essere originariamente relato all'uno. Ecco perché il differire dell'identico da se stesso, ci dice Severino, owero anche il differire della relazione da se stessa, «appare come negato» (ibidem). Ma come non riconoscere, allora - sembra chiedersi giustamente il nostro - che, «per apparire come negato, il negato deve comunque apparire» (ibidern)? Per quanto - ed è sempre Severino ad esprimersi in questi termini - il differire che appare «come negato», «deve sl apparire» ... ma, appunto, «come negato» (ibidem). Per quanto, cioè, «la differell7.8. che appa-

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esser sé (in virtù dell"originario autonegarsi implicato dal suo

re non appaia mai isolata dal suo esser negata» (ibidem). Ossia, si costituisca per ciò stesso come l'impossibile. Ed è noto che l'impossibile - sempre secondo Severino - «non è e non appare» (ibidem). Eppure, qui, sia pur come negato, «l'impossibile appare (e, come positivo significare, è)» (ibidem). ff altro canto, le differenze «sono ed appaiono»; mai dimenticare, insomma(sembra ammonirci Severino}, che «le differenze sono e appaiono» (ivi, p. 123). Per quanto le medesime appaiano «solo in quanto è ed appare l'identità della loro relazione con se stesse» (ibidem). Insomma, tutto quel che appare, sempre secondo il nostro, non sarebbe se stesso, «se non fosse negazione del suo differire da sé» (ibidem). Ecco in che senso non è vero, sempre secondo Severino, che il soggetto e il predicato considerati in se stessi, come puri noemi, non sarebbero; nonèvero che essi, consideratiisolatamente l'unodall'altro, non esisterebbero neppure. Tutto questo, infatti, sempre secondo Severino, «non significa che il puro noema non esista» (ibidem). Ovvero, che non esista la molteplicità dei puri noemi. Questi ultimi, infatti, non esistono solo in relazione al loro costituirsi come soggetti di una relazione astratta dal predicato. Insomma, «solo nella sua relazione al predicato il puro noema è nulla» (ibidem). Là dove, invece, qualsivoglia significato «non è un nulla nella sua relazione al predicato», ossia, solo «nell'elemento della dianoeticità» (ibidem). Ma cosa significa, verrebbe anche qui da chiedere, che il differire, nel mostrarsi da parte dell'identità con sé, si neghi? I differenti appaiono, e, sia pur in quanto inscritti in una originaria e tautologica identità con sé che è poi quella della loro stessa relazione, quella stessa che si determina appunto in relazione all'originarionegan-i da parte di differenti che, in verità (in forza dell'appena evocata tautologicità), non sono mai realmente differenti l'uno dall'altro. Severino, insomma risolve l'identità in questo originario negarsi della differenza tra l'uno e l'altro; che dunque si configura necessariamente come orizzonte intrascendibile, ossia come orizzonte dal quale mai sarà possibile sporgersi, come se si potesse trascendere la determinateZl.a del finito -per quanto quest'ultima si neghi. Stante che, è solo nel sempre possibile superamento di qualsivoglia determinatez7.a, edi qualsivoglia limite, cioè nel suo stesso farsi parola originaria dell'identità non nichilisticamente intesa, che questo superamento può farci sperimentare la concreta intrascendibilità dell'orizzonte disegnato da un differenziarsi che è intrascendibile, appunto, proprio in quanto, è sempre e solamente in relazione ad esso, in quanto negantesi, che, a mostrarsi è sempre e solamente l'identità. Perché, nel costituirsi di qualsivoglia ulteriore forma del differenziarsi (ottenuta per il superamento dell'attuale forma del differenziarsi}, a determinarsi non potrà essere che il negarsi anche di questo ulteriore mododel differenziarsi. Almeno,

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immediato rapporto con il destino). È un eterno, ma questo eterno dice appunto il suo semplice e originario negarsi; ossia, esso appare come «un autonegantesi». Val la pena rilevare, a questo proposito, come ad un certo punto del già citato volume, Severino si impegni a precisare come quel che «è necessario che appaia come negato» sia quello stesso di cui si può anche dire che «non appare»29 • «Infatti, la contraddizione - il positivo significare del nulla-, come tale, non appare: è necessario cioè che appaia come negata, nel suo esser negata»:3. Non a caso, Severino può anche rilevare che «ciò che, in quanto isolata, la terra isolata mostra di sé, è l'Errore, ciò che non è, che è nulla, e la cui positività è pertanto il positivo significare del nulla»46 • Ma nello stesso tempo, «il linguaggio che testimonia il destino rileva che anche ogni essente della terra isolata è un eterno»47• Anche perché «l'isolamento implica l'apparire della terra non isolata»48 • Certo, il nostro sa bene che, «nonostante l'apparire, nel cerchio originario del destino, del linguaggio che lo testimonia ... , la terra appare isolata» 49, e che, essa, in quanto tale «contrasta la pura terra>>50 • E sa anche che «questo contrasto è il prevalere della terra isolata>> - sì che sembri che «lo sfondo rimanga nel non apparire»51 _ Sembra dunque che anche la pura terra «rimanga nel non apparire»52 • E - sottolinea Severino - «è inevitabile che così sembri»53•

44. Ivi, p. 88.

45. Ibidem. 46. Ivi, p. 67. 47. Ivi, p. 68. 48. Ibidem. 49. Ivi, pp. 6.5-66.

50. Ivi, p. 65. 51. Ibidem. 52. Ibidem. 53. Ivi, p. 66.

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Insomma, anche quando il linguaggio testimonia il destino, mostrando la non verità della fede, «la fede non tramonta, ed essa e il suo prevalere sono appena incrinati»54 • Ecco ... Severino denuncia qui una vera e propria asimmetria, dovuta al fatto che «il linguaggio che testimonia il destino non porta al tramonto l'isolamento della terra»55 • Ma nello stesso tempo il filosofo bresciano rileva come I'esiguità di tale riduzione (la riduzione delle barriere che la fede pone tra sé e il dubbio) non impedisce che, «con l'apparire del linguaggio che testimonia il destino, tutto ciò che appare, quindi anche la terra isolata, mostri un significato diverso da quello mostrato in assen7.a di tale linguaggio»56• Dunque, la terra isolata non solo è altro, in verità, da quel che, di essa, appare in quanto isolata- non solo essa è "altro" là dove appaia awolta dalla luce del destino. Non solo, cioè, è «altro» da quel che di essa appare in virtù dell/iso'lamento, là dove essa venga considerata alla luce della persintassi del destino ... non solo questo va detto, ma anche che essa è «altro» (sempre da quel che della medesima appare in virtù dell'isolamento) .finanche in fo17.a della pur fragile asimmetria prodotta da una testimonian7~ del destino che, comunque, non impedisce il prevalere della terra isolata. Talmente altro, da rendere infine «indicibile» il destino in quanto tale. Per Severino, infatti, è relativamente alla distinzione tra linguaggio e destino che «il destino, in quanto distinto dal linguaggio, è l'indicibile»57 • D'altro canto, per il nostro, non va neppure dimenticato che anche il linguaggio che testimonia la terra che salva - il

54. Ibidem.

55. Ivi, p. 65. 56. lvi, p. 67. 57. Ivi, p. 128.

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linguaggio, cioè, che non contrasta più la totalità infinita delle determinazioni persintattiche - «è una testimonianza finita che, per quanto ampia, lascia pur sempre al di fuori di sé la totalità infinita della persintassi»58 • Insomma, il cerchio del destino si troverà pur sempre avvolto dalla contraddi7jone C «implicata dalla differenza tra cerchio finito del destino e apparire infinito del destino»59 • Non solo; ché, in tale cerchio è assente anche «la totalità dell'iposintassi»6(). Tutto questo, prima del tramonto della terra isolata. Ché, fino ad allora, la fede in cui consiste la terra isola permane, inestirpabile, «anche quando il linguaggio che testimonia il destino mostra l'esser fede di tale fede, cioè la sua non verità, il suo essere negazione del destino»61 • Permane, ma - rileva sempre Severino - «quando e in quanto appare come siffatta negazione, tale fede differisce da sé stessa quando e in quanto non appare con questo carattere»62 • Ancora una volta, dunque, si indica una differenza; ma non se ne mostra il concreto costituirsi; non si mostra cioè il modo del «suo» costituirsi. Si dice infatti che la terra isolata, in virtù dell'oltrepassamento della medesima, per come quest'ultimo viene testimoniato dal linguaggio, si fa nuova; ché, un tale oltrepassamento, secondo la testimonianza che ne dà il linguaggio che indica il destino, «conduce nel cerchio originario una terra isolata che è nuova in ogni sua parte, sebbene essa venga e vada come quel gesto» 63; ed «è nuova in un senso essenzialmente diver58. Ivi, p. 134. 59. Ivi, p. 135. 60. Ibidem. 61. Ivi, p. 460. 62. Ibidem. 63. Ivi, pp. 462-463.

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so da quello per cui basta che questa lampada si accenda o si senta una voce lontana perché incominci ad apparire una terra che è nuova rispetto a quella che circondava questa lampada spenta o il silenzio» 64 • D'altro canto, cosa renda non concretamente definibile la relazione tra le determinazioni iposintattiche della terra, e dunque lo stesso vero volto della terra isolata - o meglio, il vero volto di quella terra, che nello sguardo che nega il destino, appare appunto «come terra isolata» - appare problematico a dirsi. Conformemente ad un problema che, comunque, sempre per Severino dipende solo dal fatto che il linguaggio che testimonia il destino non è l'apparire del destino. «L'assew.a delle determinazioni persintattiche può sussistere, infatti, solo in relazione al linguaggio che testimonia il destino, non in relazione all"apparire del destino, essendo essa la concrete7.7.a, appunto, del destino - la concrete7:za senza il cui apparire non potrebbe apparire alcunché» 65• Ma è dawero e solo per questo che Severino definisce il destino, in quanto distinto dal linguaggio che lo testimonia, «indicibile»? A ben vedere, non si tratta di un problema semplicemente linguistico. Il problema, infatti, chiama in causa piuttosto la stessa possibilità che questa «concreteZ7.a>> appaia - riguarda cioè il fatto che, ad apparire, «nell'apparire trascendentale originario e nella totalità attuale dell'incominciante è la forma astratta di tale contenuto»66 • Ed è proprio tale forma astratta a consentirci di affennare «che tale contenuto rimane nascosto»67• Il fatto è che «appare la forma astratta, e non il contenuto concreto, anche dell"apparire infinito della totalità concreta 64. Ivi, p. 463.

65. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 254. 66. E. Severino, La Gloria, cit., p. 177. 61. Ibidem.

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dell'essente»68 • Stante che tale apparire è comunque «l'oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto della totalità delle contraddizioni del finito e dunque, innanzitutto, delle contraddizioni del cerchio finito originario, dell'apparire del destino»00 ••• ecco, stante tutto questo, si tratta di rilevare che ciò accade perché «lo sfondo (che ha un'unica struttura) - essendo esso la regione sen7~ di cui non può apparire alcunché ... ossia, essendo la stessa struttura originaria del destino della verità, e soprattutto essendo esso identico nell'apparire finito e nell'apparire infinito del destino ... - , in quanto sfondo dell'apparire non attuale, è comunque un apparire diverso dall'apparire dello sfondo dell'apparire originariamente attuale»70_ Perciò tutto quel che appare, nel modo in cui esso appare - non solo, dunque, le cose che appaiono avvolte dall'isolamento della terra-, non può che essere diverso da quel che apparirebbe là dove lo sfondo persintattico dell'essente apparisse, e non rimanesse nascosto all'apparire attuale. Insomma, la questione riguarda da ultimo la «determinatez7~» in quanto inscritta nell'orizzonte attuale dell'apparire; e non solo l'essente così come esso viene vissuto al,la luce dell'isolamento della 'terra - là dove esso si configuri appunto come «negazione del destino». La questione è cioè quella dell'identità dell'essente in quanto semplicemente «determinato»; ossia, dell'identità di tutto quel che appare, e il cui apparire lascerebbe comunque nascosta la totalità concreta e infinita della persintassi dell'essente. E non solo; ché essa lascia nascosta anche una totalità incominciante che comunque oltrepassa la totalità attuale di quanto è destinato ad apparire. E che, comunque, non coincide

68. Ibidem. 69. Ibidem. 70. Ivi~ p. 179.

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con l'apparire infinito («giacché l'apparire infinito non è un oltrepassamento incominciante, ma è I'oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto della totalità del finito» 71 ). Anche questa totalità incominciante che oltrepassa la totalità attuale di quello che è destinato ad apparire è destinata a non apparire attualmente «quanto al proprio contenuto concretamente determinato» 72• Anch'essa, cioè, appare attualmente solo in relazione alla «sua forma astratta>>73 • Da cui la necessità di una molteplicità infinita di cerchi diversi dal cerchio originario; o meglio, la necessità di «un oltrepassamento infinito» 74 che appartiene, in quanto tale, alla struttura del destino, e che costituisce quella che Severino definisce appunto la Gloria della terra. Un oltrepassamento infinito che, comunque, «non appare nella sua infinità» - stante che quel che appare concretamente nel cerchio originario dell'apparire è solo «un tratto infinitamente crescente, ma sempre finito» 75 • Secondo un gioco infinito in cui visibile e invisibile sembrano procedere in modo perfettamente complementare. Perché la terra «è accolta dal cerchio originario e dall'infinità degli altri cerchi, ed è accolta sia nel suo dispiegamento visibile sia in quello invisibile» 76 • D'altra parte, Severino è perfettamente consapevole anche del fatto che, col tramonto della terra isolata, la contraddizione della terra isolata non sarebbe totalmente oltrepassata. Il toglimento totale della

71. Ivi, p. 181.

72. Ibidem.

13. 74. 15. 76.

Ibidem. Ivi, p. 197. Ibidem. Ivi, p. 198.

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contraddizione che compete alrapparire di un qualsiasi essente finito è infatti r apparire infinito della totalità concreta delressente; e tale apparire non può sopraggiungere nei cerchi finiti dell' apparire, come loro oltrepassamento.77

Solo la traccia cli tale infinitucline può dunque essere presente nel finito; e solo nella forma della contraddizione C «il cui oltrepassamento è appunto un percorso infinito» 78 • Infatti, proprio perché «questa concrete7.7Jl è il Tutto, che non può sopraggiungere nel cerchio finito, tale oltrepassamento è infinito»79 • Insomma, «la terra è immersa in una contraddizione il cui oltrepassamento è infinito»80• Per cui, anche dopo il proprio tramonto, «essa (la terra isolata) si sviluppa all'infinito» 81 • Sì che ogni cosa sia, lungo questo percorso infinito, «sempre più se stessa e sempre meno in contraddizione con se stessa - il luogo in cui ogni essente è se stesso sen7a essere insieme in contraddizione con se stesso essendo l'apparire infinito della totalità degli essenti»82• Lungo uno sviluppo che però va tenuto insieme con la necessità che «la terra isolata nella totalità infinita dei cerchi compaia da ultimo, in ogni cerchio, non come un dispiegamento infinito - che, come tale, non potrebbe mai sfociare nel tramonto dell'isolamento della terra-, ma come un unico evento»83 • Un unico evento implicante il fatto che «la questità totale della terra isolata sia da ultimo definitivamente conservata

77. Ivi, p. 309. 18. Ibidem. 79. Ivi, p. 310. 80. Ivi, p. 311. 81. Ibidem. 82. Ivi, p. 312. 83. Ivi, p. 316.

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nella Gloria della terra»84; conservata come oltrepassata, precisa Severino; «cioè, come passato, perfectum»&'>. In un unico evento non sopraggiungente, all'interno del quale quel che si differenzia (differenziandosi sempre e comunque in relazione al contesto di appartenen7.a) disegni sì, nel suo riapparire, una qualche differen7~ tra l'essente che appare e l'essente che riappare, ma sen7.a che tale differenziarsi implichi «l'assenza, nel riapparire, di qualche aspetto di ciò che è apparso» 86 • Il problema è però che tutto quel che appariva, prima di riapparire, e che nel riapparire, dovrebbe rimanere conservato integralmente, è ora connesso, in virtù del suo ri-apparire, a quel che prima ancora non era apparso, e che, solo nel suo apparire ora connesso a quel che dice il suo costituirsi come un ri-apparire, consente di stabilire il suo essere ora diverso da quel che il medesimo sarebbe stato prima; insomma, la mancan7.a di ciò che rende ora il suo apparire un ri-apparire è tale solo alla luce di quel che ora lo determina come un riapparire - solo nell'orizzonte del ri-apparire, cioè, possiamo stabilire una differen7.a tra l'apparire e il riapparire. Si tratta di una questione che avrebbe creato più di qualche problema già a Hegel. Perché, è solo dal punto di vista del «concreto», che possiamo stabilire la differen7~ tra astratto e concreto - stante che l'astratto appare come tale solo in quanto separato da un concreto che, per quanto «come separato», appare; e dunque dice la concretezza, l'ineludibile concretezza di quel che definiamo «ancora privo di quel che avrebbe reso riconoscibile la sua astrattez7~». L'astratto, insomma, appare sempre e comunque come concetto concreto dell'astratto; perché il concetto astratto dell'astratto può apparire come tale solo in relazione ad un concreto già connesso ali'astratto

84. Ivi, p. 320. &5. Ivi, p. 321. 86. lvi, p. 323.

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che si dice concepito astrattamente, ossia indipendentemente da ciò rispetto a cui non è affatto indipendente. Insomma, l'astratto, la terra isolata, non guadagna nel tempo la sua concretezza; ma è originariamente resa possibile da quest'ultima. E connessa, dunque, alla medesima, conformemente ad una intrascendibile immediatev~ alla luce della quale, solamente, può apparire quella che abbiamo definito «la sua stessa astrattev~»; ossia il suo costituirsi come un "passato". O anche, come un presente che si dice "passato" (in quanto «astratto» dalla concretezza che conviene solo al presente alla luce del quale esso appare comunque come "un passato"). Ma questo originariamente «concreto» si dice appunto distinto da quel che in esso si determina come il suo passato. Distinguendovisi in modo tale che quel passato (la terra isolata, nel nostro caso) appaia come I'originariamente negantesi; in quanto esso medesimo «originariamente concreto». In quanto, cioè, per distinguersi dal concreto, deve esso medesimo riconoscere, da ultimo, di essere totalmente inscritto in esso; di essere cioè una sua originaria espressione. Da cui il suo originario autonegarsi. Che potremmo anche definire «il suo non esser il finito che è». Fermo restando che la sua "determinate72~" è sempre e comunque la detenninatezza che conviene alla sua «astrattez7~»: a quell'astrattezza che dice l'originario negarsi della medesima, in quanto comunque appartenente all'infinita totalità dell'essente (che, in quanto tale, non può sopraggiungere), e dunque sua perfetta manifestazione. Sì che in essa, a manifestarsi sia sempre e comunque «il concreto»; quello stesso da cui la medesima si dice distinta, in quanto parte; ossia, in quanto astrattezza che sarà tale, comunque, solo in quanto distinta da un concreto di fatto già da sempre manifesto. Manifesto come infinità del concreto che in ogni astratto continuerebbe a dirsi e ridirsi all'infinito.

202 Perché, sempre per dirla con Severino, «il dispiegamento infinito della terra è già, eternamente»87; per quanto il dispiegamento della terra sia «destinato a inoltrarsi nel cerchio dell'apparire del destino lungo un percorso che non è mai compiuto»88 • Quel che va tenuto ben fermo è dunque che «la totalità della terra non può entrare compiutamente nel cerchio dell'apparire»89• Perciò Severino parla di una «interminabile trascenden7.a della terra rispetto a ciò che della terra va dispiegandosi nel cerchio dell'apparire» 90• Eccoci così tornati ali'invisibile, ossia al dualismo che sembra costringere la verità nel suo senso più concreto a non potersi mai fare presente così come sono presenti gli essenti nella loro impropria parzialità; ossia, in quella parzialità che dice appunto il loro essere di fatto sempre anche espressioni della terra isolata. E il loro essere in verità già da sempre «altri» da quel che, dei medesimi, si mostra nell'orizzonte finito della terra isolata. Ancora una volta, dunque, il dualismo che dice la sostanziale noumenicità del vero volto dell'essente. Sen7~ che, di questo «altro» e più vero modo d'essere - anzi del suo unico «vero e concreto volto" -, si possa sapere alcunché ... sempre a partire dal fatto che la finitev.a del finito non può fare a meno di comportare la trascendenza del suo «vero». Per questo, la terra «come totalità infinita, non è destinata ad apparire; appunto perché l'insieme infinito di essenti che

87. Ivi, p. 155. 88. Ibidem. 89. Ivi, p. 159. 90. Ibidem.

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la costituiscono non può entrare compiutamente nel cerchio dell"apparire» 91 • Perciò, sempre secondo Severino, «noi saremmo il luogo inaccessibile alla nostra fìniteT.Z.a, ossia al cerchio finito dell"apparire in cui ogni esser lo del destino consiste»~ Perché il luogo inaccessibile è infinito; anzi «è la forma assoluta dell"infìnità»00 • Peccato che Severino intenda questa trascenden7.a come l"esser assente da parte di qualcosa che, nell"orizzonte dell"apparire finito, sarebbe appunto impossibilitato ad a'PParire. Là dove è stato lui stesso a spiegarci come, proprio in virtù della contraddizione C, si debba invece riconoscere che la verità del finito sta appunto nella sua stessa (del finito) originaria infinitudine94. Ecco il punto. Il fatto è che Severino, per tenere fermo il proprio sistema speculativo, non può che rimuovere il fatto che l'infinito non è in alcun modo "altro" dal finito; o meglio, lo è, ma in forma

91. Ibidem. 92. Ivi, p. 161.

93. Ibidem. 94. Solo che, già in Destino della necessità, Severino poteva anche affermare che «il Tutto è come apparire del Tutto, ossia come apparire infinito, e quindi si illumina nascondendosi al destino come apparire finito del Tutto» (E. Severino, Destino della necessità, cit., p.588), a partire da un ben precisa convinzione: secondo cui J>essere come apparire infinito da parte delJ>apparire del Tutto può costituirsi come oltrepassamento di ogni contraddizione solo in virtù di un,infinitudine che rende il destino fatalmente nascosto a se medesimo. Conseguen7.a, questa della tematizzazione già operata, da Severino, della contraddizione C, nelle pagine giovanili di La struttura originaria, là dove il nostro affermava che «la contraddizione C consiste nel porre S formalmente e nel non porlo concretamente» (Id, La struttura originaria, cit., p. 348). Stante S per un significato qualsiasi, si dice infatti che «la posizione di S non implicante la posizione di una o più costanti di S, è una posizione formale, nel senso che in questa posizione la totalità delle costanti non è determinatamente posta» (ibidem).

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«contraddittoria>>, dovendosi appunto dire che esso è quell"altro dal finito che avrebbe come caratteristica quella di non esser affatto «un al,tro» (ché altrimenti sarebbe anch"esso un semplice «finito» - e non l'infinito che invece dice di essere). O meglio, Severino sa bene che l"infìnitudine che compete al dispiegamento infinito della terra nel cerchio finito dell"apparire non può coincidere «con la totalità concreta dell"essente»95• Ma, per lui, l"incompatibilità tra un qualsiasi tipo di totalità e l"infìnito è tale solo nell"orizzonte del nichilismo, ossia per lo sguardo che caratteri7.7.a la terra isolata. Ché, in verità, il dispiegamento infinito della terra non è per lui che un tratto della totalità concreta dell"essente. Stante che «la totalità concreta dell"essente non è identica, ma include questo insieme infinito (e anzi, un"infinità di insiemi infiniti)»06 • Peccato che subito dopo lo stesso Severino, pur avendo negato che si possa parlare di incompatibilità tra infinitudine e totalità, e dunque avendo fatto valere la prima come semplice tratto della seconda ... nel riferirsi più specificamente alla totalità concreta dell"essente, evochi qualcosa come «quell''insieme infinito di determinazioni di cui il dispiegamento infinito della terra sarebbe manifestazione»97 • Insomma, quel che sembrava compreso o incluso nella totalità concreta (ossia, l"infinitudine), torna a qualificare la stessa totalità concreta. Ossia peccato che, dopo aver opportunamente distinto la totalità dall"infìnitudine, Severino riproponga - come nulla fosse - la perfetta coincidenza dei due concetti. Certo, l'infinità in cui consisterebbe la totalità concreta dell" essente non è una totalità che chiude il dispiegamento infinito della terra entro un limite arbitrariamente posto; ma

95. E. Severino, 1A Gloria, cit., p. 156. 96. Ibidem. 97. Ibidem.

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rimane comunque intesa, nelle sue pagine, come «il contenuto eterno di questo stesso infinito dispiegamento»98• Che, proprio in quanto in-finito - ed è Severino stesso a riconoscerlo - «non può entrare compiutamente nel cerchio dell'apparire»00• Ma ancora una volta, l'implicito di questa affermazione è che la totalità infinita sia qualcosa di «compiuto»; ossia di necessariamente "finito". Eppure «il compiuto» è proprio ciò che "finisce" nel proprio compiersi; d'altro canto, come potrebbe qualcosa apparire, se non si «de-terminasse» e dunque se non finisse là dove qualcos'altro da esso fosse in grado, proprio in quanto altro dal medesimo, di disegnarsi come «altro», sì da renderlo distinguibile come tale, sancendone in uno l'ineludibile "finitezza"? Perciò non si dovrà dire - come fa Severino - che la terra come totalità infinita «non è destinata ad apparire» H>O; che essa non è destinata ad apparire perché l'insieme infinito di essenti che la costituiscono sarebbe impossibilitato ad «entrare compiutamente nel cerchio dell'apparire» 101 • Anche perché non c'è alcuna compiuta infinitudine cui sia vietato di entrare nell'apparire; stante che l'infinito non è qualcosa che possa o meno entrare nell'apparire. Ad entrare nell'apparire essendo piuttosto sempre e solamente «la finitezza»; in relazione a cui, appunto, l'infinito indica solo la verità del suo apparire, che è sempre manifesta come tale là dove il finito venga appunto riconosciuto come quel che non è mai quel che è, e dunque là dove questa sua strutturale in-finitudine (da intendersi quindi come semplice negazione di una finitezza destinata a dire la determinatezza con cui esso sempre si manifesta) venga riconosciuta come 98. Ivi? p. 158. 99. Ivi? p. 159.

100. Ibidem. 101. Ibidem.

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palese e perfettamente presente «verità» cli tutto quel che si manifesta. Perciò il vero volto del finito non è "altro" da quello che si presenta nel cerchio finito dell'apparire. O meglio, non può esserlo. Perciò l'esser sé dell'essente si costituisce in verità come il suo stesso originario non-esser-sé; un non esser sé che non può esser concepito come il suo esser altro da quel che è - è lo stesso Severino, d'altro canto, ad averci insegnato che l'esser se, non puo' esser altro da se.' Il punto è che il non esser sé dell'essente, considerato alla luce della concreta infinità della Gioia, non indica affatto «altro» da quel che appare alla luce dell'apparire finito. O ancora, non può indicare un altro. Ovvero, si può credere che esso indichi "altro", solo là dove si creda che l'apparire dell'esser sé dell'essente comporti «I'apparire della totalità dei tratti persintattici che appunto costituirebbero la concretezza dell'esser sé» 1m. Ma, come stiamo vedendo, anche per Severino quella totalità indica una semplice infinitudine - e dunque qualcosa che non può assolutamente indicare una qualche, per quanto estesa e immensa, quantità di tratti ... anzitutto perché l'infinito dice, come tale, la semplice «negazione» cli qualsivoglia compiuta o definita parzialità (fermo restando che, a compiersi, può essere solo una parzialità, anche perché il compiersi indica comunque una qualche de-finitività ... o anche, il non doversi in alcun modo più sviluppare ... d'altronde, l'utilizzo del concetto di «compimento» può risultare familiare e comprensibile solo agli occhi cli colui il quale abbia una qualche familiarità con l'esperien7.a dello «sviluppo», ossia cli ciò che, solo, può mirare ad un qualche compimento).

102. E. Severino, Lanwrte eia terra, cit., p. 43.

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Ecco perché non è affatto vero che, alla luce di quella «infinità di infinità» 100 in cui consisterebbe il luogo inaccessibile della totalità dell'essente, si debba dire che aùro è il «vero» modo d'essere di quel che, nell'orizzonte della terra isolata, appare come «mondo». Anche in ragione del fatto che, dicendo questo, Severino contrawerrebbe al principio da lui stesso stabilito; secondo il quale è appunto impossibile che qualcosa sia aùro da sé. In verità, sempre in conformità alla potenza della struttura originaria che Severino stesso ha saputo disegnare, riconoscendo in primis l'ineludibilità della contraddizione C e il suo costituirsi come momento imprescindibile della struttura originaria dell'essente, si dovrà dire, sempre di ogni essente, che esso in verità non sarà mai quel che, del medesimo, può apparire nell'orizzonte dell'isolamento della terra ... senza che ciò ci autorizzi comunque ad affermare l'esser-altro di quel che, nel cerchio dell'apparire finito, appare nel modo in cui appare. Eppure, è lo stesso Severino a non corrispondere a questa impossibilità; affermando, per esempio, che «l'isolamento del qualcosa da ciò a cui esso è così unito implica che il qualcosa appaia in modo diverso, ossia come altro da come il qualcosa appare quando appare nella sua unione al qualcos'altro» 104 • In modo tale che questo rovesciamento comporti anche «I'alterazione della traccia del destino nella terra» 1as. Il fatto è che, in verità, se il destino awolge già da sempre ogni essente ed ogni interpretazione, è impossibile che appaia aùro da quel che I'omniawolgente abbraccio del destino fa essere 106; essendo proprio quest'ultimo (I'abbraccio del desti-

103. E. Severino, 1A Gloria, cit., p. 161. 104. Ivi, p. 69. 105. Ivi, p. 70. 106. Scriveva a questo proposito Severino che «la verità non si oppone al contenuto delrerrore come a qualcosa che sia riuscito ad essere e che, es-

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no) necessariamente responsabile anche del modo in cui appaiono le cose della terra isolata. Eterne, anch'esse, e inscritte nella Gioia del tutto, come lo stesso Severino ci spiega bene già in La morte e la terra. Solo che, quel che è, nel modo in cui il destino lo fa essere, dice, in-uno, anche il suo non essere mai quel che viene detto dalla sua (di quel che è, anzi, di tutto quel che è) detenninatezza. Sen7~ che ciò significhi che, della verità che di esso sancirebbe il destino, possa apparire solo una traccia; stante che la traccia, per apparire come traccia del destino, implica necessariamente l'apparire del destino in quanto tale. Ossia, del destino nella sua «concretezza»; in conformità a quella che non potremo mai ricondurre a una semplice > da parte di X, significasse una semplice esclusione del suo - sempre di X- esser X, verrebbe da dubitare che possa esservi, da qualche parte, una X capace di esser la X che è. Owero, che possa esservi una X di cui si possa dire, proprio in quanto è quella X che è, il suo «non esser X>>. D"altro canto, se la X escludesse di poter essere X (in quanto posta come negante di esserla X che è), di cosa potremmo dire che «non è X»? E poi, cosa starebbe ad indicare la X evocata del dire secondo cui, comunque, «qualcosa non sarebbe X>>. Ad ogni modo, il fatto è che nessuno può credere che il trovarsi incluso altinterno di un orizzonte di senso ben preciso possa e tanto meno «debba» necessariamente «escludere» la sua esclusione. E non tanto perché lo diciamo noi o per qualche misterioso motivo ... ma perché, proprio nel venire esclusa, r esclusione finirebbe non ritrovarsi affatto esclusa. Insomma, fermo restando che ogni escluso è anche incluso, non ha senso alcuno affermare che qualcosa, se incluso, escluderebbe la «propria esclusione»; perché esclusione non sarebbe per ciò stesso mai stata esclusa. E proprio perché escludere l"esclusione signifìca affermarla, più che escluderla; ossia, com-

r

porta il non essere ancora stata esclusa da parte dell'esclusione; proprio escludendola, infatti, finiremmo per rendere evidente che l'esclusione funziona ancora all'interno dell'orizzonte da cui la si sarebbe voluta/dovuta escludere. E dunque, in quanto funzionante, non può certo venire riconosciuta come «esclusa» dall'orizzonte da cui la si sarebbe invece voluta escludere. Perciò l'inclusione di quel che viene negato (inclusione necessaria già per il fatto che finanche il semplice esser negato, se non includesse quel che nega, non potrebbe neppure porsi come sua «negazione») non può escludere la sua esclusione. E sempre perché, proprio escludendola, non la escluderebbe affatto, ma finirebbe per riproporla (escludendola, cioè, mostrerebbe di non averla affatto esclusa); la riproporrebbe cioè come suo atto originario, tutt'altro che escluso, dunque ... e proprio per averla voluta escludere, ribadiamo! Ma... si badi bene, l'escluderla non viene per ciò stesso meno, ma conferma piuttosto il suo (dell'esclusione) non essere stata affatto esclusa, e proprio in virtù dell'atto con cui la si sarebbe > nella forma del suo (di ogni determinatezza) semplice ed enigmatico «negarsi».

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Il respiro del destino

Quando ci troviamo di fronte a ciò che diciamo bello, a ciò che definiamo opera d•arte, non possiamo aggiungere o togliere nulla, o almeno poco: ropera d•arte è in qualche modo intoccabile. Che cosa significa questo pensiero che ognuno di noi è in grado di pronunciare? Che cosacontiene questo pensiero apparentemente banale? Che cosa contiene di radicalmente profondo? Prendiamo per esempio Mozart: la sonorità della sinfoniaJu71iter mostra il significato ultimo del contenuto sonoro della sinfonia, che in questo caso è stato nominato con il nome di un dio, ma che è da considerarsi come significato ultimo non in quanto è dio, ma perché rimmagine ha la potenza di evocare ciò che a noi appare come significato ultimo. Ci sono allora delle situazioni in cui rimmagine in quanto immagine è in grado di persuaderci che in essa si sta manifestando il significato ultimo di ciò che essa esibisce, ma che esibisce insieme nascondendo, perché una montagna esibisce sì il significato ultimo dei monti, in determinate ore della giornata e non per tutti, ma il significato totale, il significato ultimo del mondo rimane nascosto sullo sfondo. 1

Non prenderemo in considerazione il rapporto tra la Zirkus Suité1- e l'opera fìlosoflca (edita in quegli stessi anni - cioè nella seconda metà degli anni Quaranta) che venne pubblicata da

1. E. Severino, Del bello, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 18.

2. Si tratta di una suite in sette movimenti per strumenti a fiato, marimba e timpani, composta dal giovanissimo Emanuele Severino negli anni Quaranta e incisa su disco solo nel 2017.

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Emanuele Severino con il titolo La coscienza (un testo che, come dice lo stesso Severino, è ancora sostanzialmente inff uen7.ato dal magistero schopenhaueriano). Proveremo piuttosto a capire se possa esserci, anche nella prospettiva filosofica elaborata a partire dalla Struttura originaria (che risale al 1958), su su, sino ai testi più recenti (come, ad esempio, La C"loria, Oltrepassare, La morte e la terra, Intorno al, senso del nulla, Dike e Storia, Gioia) - in cui la parola del Destino si fa sempre più «precisa>>-, un qualche legame con quella pratica musicale che un tempo, come ama spesso ricordare Severino, sembrava dovesse diventare la sua principale attività. Soprattutto, cercheremo di capire sino a che punto e in che misura il pensiero che si vuole testimonian7.a del Destino risenta di ciò che la musica era stata per alcuni dei grandi Romantici operanti tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento. Ma quel che più ci interessa, forse, è mostrare per quali ragioni sia forse proprio (e «solo») quello musicale l'unico linguaggio in grado di offrirsi come soluzione del «problema>> che, nel discorso filosofico di Severino - perfettamente consapevole, peraltro, anche del fatto che, se «il tentativo del linguaggio di indicare il destino non è un fallimento totale, il destino, in quanto appare in se stesso, libero dalla volontà e dal linguaggio, è comunque indicibile ... infatti, f ernw restando che l'indicibilità è detta, e quindi non è assolutamente indicibile, il suo esser detta non la risolve totalmente nel dicibile»3 -, si apre già con la Struttura originaria, e rimane sostanzialmente irrisolto sino alle opere più recenti. Il problema sorge a partire da quella che Severino definisce «contraddizione C» - la quale sarebbe determinata «dal non apparire di un certo ambito dell'essente»4 • Il fatto è che il suo (di tale contraddizione) oltrepassamento totale «è (sem-

3. E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, p. 200. 4. E. Severino, La Gloria, cit., p. 83.

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pre per Severino) impossibile, in quanto comporterebbe il sopraggiungere, nell'apparire, del Tutto concreto dell'essente»5• Insomma, il tutto concreto dell'essente non può entrare nel cerchio finito dell'apparire. Sì che, non solo «ogni permanenza degli essenti della terra sia destinata ad essere oltrepassata>>6, in quanto «I'oltrepassamento eternamente compiuto e concretamente totale non può sopraggiungere»7, ma - e in questo modo Severino fuga immediatamente ogni possibilepeiplessità- «I'oltrepassamento eternamente compiuto della contraddizione non può essere qualcosa che la terra riesca a raggiungere»8• Fermo restando che, sempre secondo il filosofo bresciano, «è necessario che l'essente appaia anche in un apparire che è l'apparire in-finito e concreto del Tutto, dove la totalità concreta della contraddizione è oltrepassata, e concretamente oltrepassata>>9• Dunque, l'apparire finito rimane eternamente ali'oscuro di cosa sia l'apparire concreto del Tutto; ché «l'apparire permane come apparire finito dell'infinito» 10• A questo proposito, Severino è molto chiaro; ed è per questo che, a manifestarsi, nel cerchio finito dell'apparire, è per lui sempre un tutto solamente formale. Sì che «l'apparire infinito del destino non appaia nel cerchio finito del destino» 11 • Perciò la Gioia del destino (connessa per Severino all'apparire concreto del tutto, ossia, ali'eterna soluzione della contraddizione C) «è l'inconscio della contraddizione del cerchio finito del destino» 12• 5. Ibidem. 6. Ivi, p. 98. 7. Ivi, p. 102. 8. Ivi, p. 91. 9. lvi, p. 82. 10. Ivi, p. 83. 11. Ibidem.

12. Ibidem.

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Insomma, per il nostro «è contraddittorio che il sentiero percorso dalla terra giunga in un luogo che non possa venire oltrepassato; ossia è necessario che la terra si dispieghi all'infinito» 13. E permanga infinitamente nella contraddizione che le impedisce di conoscere la Gioia infinita del tutto. Allo stesso modo è per lui consustanziale al Destino lo scarto tra l'apparire concreto del Tutto (la Gioia) e l'apparire finito che di quest'ultimo ha una cognizione necessariamente astratta (o puramente «formale»), per quanto della medesima costituisca appunto l'indefinita e insieme irrisolvibile espressione (la Gloria). Dunque, siamo quella Gioia, per quanto ce la si rappresenti nella forma finita e contraddittoria che compete ali'apparire finito; «noi siamo il luogo inaccessibile alla nostra finitezza, ossia al cerchio finito dell'apparire in cui ogni esser lo del destino consiste. Noi siamo la Cioia» 14; ma la siamo nell'esperirla appunto come luogo inaccessibile. Proprio per questo, precisa subito dopo il nostro: «noi siamo la Cloria» I5• Ecco perché «è necessario che la terra si dispieghi all'infinito nella Gloria» 16. Così come è necessario che «la concretezza concreta del dispiegamento infinito della terra che è isolata in ogni cerchio e nella infinita costellazione dei cerchi sia destinata ad apparire nell'evento stesso in cui tramonta l'isolamento della terra» 17• Dunque, la concretezza del dispiegamento infinito della terra isolata «è destinata ad apparire nella verità del destino che non è più contrastata dall'isolamento della terra>> 18• Appunto

13. Ivi, p. 86. 14. Ivi, p. 161. 15. Ibidem. 16. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 236. 17. Ivi, p. 476. 18. Ivi, pp. 476-477.

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perché «l'inoltrepassabilità di quel sopraggiungente che è la terra isolata è contraddittoria» 19 Edèproprio su questosottilissimo ma decisivo legame che tiene insieme la Gioia e la Gloria - che le tiene insieme come qualcosa che, lungi dall'indicare una semplice differenza, dice che tutto ciò che si dispiega nella forma della Gloria è lo stesso che sussiste, come già da sempre salvo e vero, nella sua concretezza, nel sottofondo costituito dalla Gioia -, è su questo sottilissimo legame che si gioca anche il rapporto tra quella forma imperfetta in cui manifesta il Destino in quanto restituito dalle parole dell"'apparire finito e quella forma perfetta del suo esistere che, comunque, l'apparire finito continuerà a vivere come costitutivamente «inaccessibile». Però, Severino sa anche che il linguaggio che testimonia il destino - e che lo testimonia nel tempo delrisolamento, giacché è in questo tempo che appare ogni linguaggio - non sa ancora indicare quali configurazioni abbiano a mostrare gli eterni della terra che appaiono nel tempo intermedio, quello cioè in cui gli eterni della terra appaiono tra la configurazione attuale della terra (dove la terra isolata contrasta il destino- ma alrinterno del cerchio stesso dell'apparire del destino) e il tramonto della terra isolata.m

Insomma, è chiara, nel discorso che viene concepito come espressione del Destino, la consapevoleZ7.a di uno scarto abissale tra la consapevolezza che la terra isolata debba tramontare e ciò che questo tramonto dovrà comportare rispetto a tutto ciò che, in quanto illuminato dal senso concreto del Destino, non apparirà più come appare ora, alla luce dell,isolamento in cui versa ogni discorso fatto nel tempo dell,isolamento. Alla luce,

19. Ivi, p. 522. 20. Ibidem.

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cioè, di un senso dell'infinito che, sempre secondo Severino, non ha nulla a che fare con l'infinito matematico o con quello della scienza e di ogni sapien7.a dei mortali. Alla luce di un senso dell'infinito che non coincide neppure con quello riconducibile all'infinito dispiegamento «che è la massima concrete72.a e non contraddizione dell'esser sé in quanto si mostra nel finito, cioè nella costellazione dei cerchi finiti del destino» 21 • Perché, «l'infinito, in quanto totalità concreta dell'essente che si mostra nell'apparire infinito, è, assolutamente, quel massimo della concretezza e della non contraddizione dell' esser sé dell'essente» 22 • Certo, del senso autentico dell'infinito il dire del Destino, in quanto fatto di parole pronunciate nel tempo dell'isolamento, non può dire alcunché - e qui sarebbe anche da rilevare la problematicità costituita dal fatto che il senso autentico (o meglio, il semplice fatto che un senso autentico dell'infinito debba esserci), o il fatto che debba accadere qualcosa come il tramonto della terra isolata, siano tutte enunciazioni fatte con un linguaggio ancora inscritto nell'orizzonte della terra isolata. Stante che ogni volta si fa cenno alla non accessibilità, per il linguaggio della terra isolata, al senso autentico della Gioia. Non meno problematico è poi il convincimento secondo cui le determinatezze valevoli come espressioni della terra isolata non verrebbero meno, con il concreto configurarsi del tramonto della terra isolata. Secondo cui, cioè, il dolore esperito nell'orizzonte del nichilismo, rimarrebbe tale (rimanendo davvero quello che era) anche quando la luce della Gioia avesse dispiegato un senso che per noi, oggi, è ancora sostanzialmente inaccessibile. Infatti, quando sarà avvolto dalla luce salvifica, esso non potrà più apparire ignaro di quanto reso manifesto da tale luce. O

21. Ivi, p. 436. 22. Ibidem.

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meglio, quel suo essere ignaro non sarà più «ancora mancante» della luce che, sola, avrebbe potuto mostrare il suo senso autentico - appunto perché ormai illuminato da quella luce (come a dire che l'astratto concretamente inteso non può apparire così come esso appariva quando veniva astrattamente inteso - allora, infatti, nessuna comprensione concreta poteva illuminare ancora, rendendola «vera», cioè concretamente intesa, la sua astrattezza). In ogni caso, anche nelle più mature rivisitazioni della struttura del Destino - come quella articolata nella pagine di Oltrepassare-, rimane fermo che «quando la terra isolata tramonta e la persintassi è libera dal contrasto con essa, la decifrazione delle tracce del Tutto nella persintassi e di questa nel Tutto (come la decifrazione delle tracce del Tutto nella terra isolata e di questa nel Tutto), è sì totale, ma è totale in relazione alle tracce in quanto determinazioni dell"isolamento, mentre questa totale decifrazione è impossibile in relazione alle tracce in quanto determinazioni che sono distinte dal loro esser isolate, giacché questa decifrazione sarebbe, daccapo, quell'apparire infinito del Tutto che non può entrare nella costellazione dei cerchi finiti del destino»23 • Insomma, il linguaggio che pur testimonia il Destino (e dice l'essere già da sempre salvo di tutto l'essente) non può decifrare le tracce che il Destino lascia sul volto di ogni essente. Non può decifrarle, e quindi neppure può toccare con mano (per dir così), o comprendere, le concrete implicazioni dell'esser già da sempre salve da parte di tutte le configura7Joni della terra isolata. Quelle tracce verranno finalmente decifrate solo quanto la terrà isolata sarà tramontata; sì, perché proprio il tramonto della terra isolata «implica anche la decifrazione delle tracce che il Tutto lascia da sempre nella terra isolata»24 •

23. Ivi, p. 552. 24. Ivi, p. 553.

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Fermo restando che, se per un verso ogni configurazione deve poter venire oltrepassata, per un altro verso ogni decifrazione - comprende bene Severino - è awolta dalla contraddizione C. E proprio per questo è astratta. Fino alla fine, cioè, il filosofo bresciano tiene fermo che «la decifrazione totale implica l'impossibile sopraggiungere dell'infinito nel finito» 25 • Eppure, ogni definizione e ogni contraddizione custodiscono realmente le tracce del Tutto, dell'Immenso. Di certo non le custodiscono, potremmo aggiungere a questo punto, come compiutamente decifrate o decifrabili (in conformità a quanto potrebbe scaturire solo dall'apparire da parte del Tutto infinitamente concreto della Gioia). Ma le custodiscono. La storia dell'essere, ossia il dispiegarsi del Destino, mostra insomma quel che insieme cela. Lo mostra perché rende riconoscibili le tracce della "struttura originaria", e rende riconoscibile la destinazione del tutto alla Gioia; ma nello stesso tempo non consente mai la compiuta decifrazione di quelle tracce. Se non nella forma di una determinazione puramente «formale» della necessità di un certo esito. E se cominciassimo a sospettare che, forse, proprio questo abbia molto a che fare (assai più di quanto potrebbe sembrare) con il timbro più fortemente caratterizzante la Stimmung romantica, soprattutto in relazione al potentissimo convincimento (che avrebbe accomunato molti dei protagonisti di quella straordinaria awentura culturale) della superiorità del linguaggio musicale rispetto ad una "parola" sempre e comunque destinata - per dirla usando la metafora giovannea - ad essere «inizio», ma non compimento di un'opera di salvezza mai "concretamente" e autenticamente decifrabile da parte di un logos comunque impossibilitato a farsi «parola della cosa>> ... per dirla con il Severino di Oltre il linguaggio. 25. Ivi, p. 556.

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Certo, per Severino «la parola può essere parola della cosa, solo se la cosa è il destino della verità e dell'essere - solo se la fede dell'Occidente tramonta»26 • Ma, all'interno di questa fede, la parola è destinata a vedere sfumare in modo sempre più radicale il proprio rapporto con la cosa. Perché, la poten7~ della fede nel divenire (che indica il cuore del Nichilismo) è tale da costringere l'Occidente a liberarsi anche di quell'immutabile costituito dal «reale» concepito come unico vero oggetto del discorso (perché anche l'identità esterna alla parola, in quanto esterna alle differenze segniche, in quanto identità che non è a sua volta differen7~, è destinata, nell'orizzonte disegnato dal nichilismo, a tramontare in virtù del tramonto di ogni forma di immutabile; un tramonto che non può non implicare anche il tramonto di quelle identità o strutture semantiche «che pretendono di porsi al di sopra del movimento storico di cui riconoscono l'esistenza»27). Per Severino, infatti, c'è senz'altro un senso nichilistico del costituirsi come altra dal linguaggio da parte della realtà- ed è all'interno di questo senso nichilistico che il linguaggio è destinato a rivelarsi semplice parola di (del) nulla, che nulla ha di contro a sé come reale contenuto del proprio dire, risolvendosi da ultimo in semplice parola di parole (da cui il topos dell'ermeneutica infinita di tanto post-heideggerismo). Ma c'è anche un senso non nichilistico in virtù del quale l'alterità di parola e cosa è non solo salvaguardata, ma riconosciuta come originariamente responsabile di uno scarto incolmabile che ci impone di distinguere non solo la dimensione che appare da quella del linguaggio, ma anche la totalità dell'essente da quella che appare. Consentendoci così di evocare il Destino (che è tale oltre il linguaggio che lo dice) come ciò che, per quanto «avvolto da una parola "storica" - cioè 26. E. Severino, Otre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 161. 27. Ivi, p. 159.

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dall'infinito differenziarsi di una parola che viene interpretata come parola storica -, è l'identità a cui si riferiscono le diverse lingue che possono parlare di esso, in quanto la lingua che qui parla del destino è una lingua qualsiasi, che, in quanto qualsiasi, è quel che vi è di identico in ciò a cui si riferiscono tutte le lingue che possono parlare del destino della verità» 28 • D'altronde, a nulla servirebbe obiettare che l'identità è indicibile; se non altro in quanto anche questo verrebbe «detto». La sporgenza dell'identità cui ogni differente «dire» fa riferimento è infatti «proprio quel che viene detto» 29 • Insomma «essa si distingue dalle differenze del dire non perché sia l'indicibile, ma perché differisce dalle differenze»30• E, quel che più conta, è che per Severino, da ultimo (lo ricordiamo anche senza poterne rendere qui compiutamente ragione, in quanto non possiamo certo seguire tutto il complesso ragionamento che viene svolto nelle pagine di Oltre il, linguaggio) «il significato oltrepassa la parola non solo in quanto esso è il significato in cui consiste il toglimento della totalità della contraddizione - il toglimento che già da sempre è presente nell'apparire infinito del Tutto, la forma infinita del destino della verità-, ma anche in quanto è il destino come apparire finito del Tutto. Non testimoniato dal linguaggio, esso ne è «l'inconscio» ... E, come toglimento della contraddizione del finito, l'infinito è ciò che il finito in verità è (per quanto come apparire infinito del Tutto esso non appaia nel cerchio dell'apparire che appartiene al destino in quanto apparire finito del Tutto)» 31 • Insomma, il timbro di questi ragionamenti non può non far tornare in mente i grandi turbamenti vissuti dagli artisti e dagli

28. Ivi, p. 231. 29. lvi, p. 230. 30. Ibidem. 31. Ivi, p. 244.

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intellettuali tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento in quella congerie di opere, riflessioni e testimonianze che va sotto il nome di Romanticismo. Lo ricorda bene anche Enrico Fubini, che almeno sino all'Illuminismo si sarebbe continuato a collocare la musica all'ultimo gradino nella gerarchia delle arti, e che fosse necessario, o quanto meno opportuno, ritrovare l'innocen7.a degli antichi e della loro semplicissima monodia (conformemente anche all'idea rousseauiana di una musica vocata a consentire il recupero di un linguaggio originario capace di esprimere un'umanità ancora incorrotta); anche con l'Illuminismo, dunque - ne sarebbe rimasto convinto anche Wagner -, cioè con il suo melodramma, invece di restituire all'uomo l'espressione originaria, invece di redimerlo, si sarebbe finito per accentuare e riconfermare la scissione tra linguaggio proposizionale e linguaggio dei suoni: Il linguaggio s>era fatto duro e articolato, atto a esprimere esclusivamente concetti; la musica era diventata un fatto puramente edonistico, una piacevole~ da salotto, inadatta a comunicare passioni. La loro unione nel melodramma non poteva essere quindi che un fatto estrinseco, un accostamento eterogeneo. 32

Solo con Rousseau il linguaggio musicale, da semplice tecnica d'intrattenimento, cominciava a proporsi come fondamento di ogni linguaggio. È con Rousseau, cioè, che avrebbe avuto inizio, in senso proprio, il Romanticismo. Unica lingua capace di esprimere l'assoluto e il divino, quella musicale sarebbe cominciata ad apparire come l'unica lingua capace di trascendere le particolarità a cui apparivano legati tutti gli altri linguaggi.

32. E. Fubini, Il pensiero musicale del Romanticismo, EDT, Torino 2005,

p.3.

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Per quanto alcuni romantici avessero più propriamente privilegiato il recupero della vocalità e del teatro musicale come sole autentiche espressioni dell'uomo. Resta fermo, comunque, che almeno Wackenroder, Hoffmann e Schopenhauer si mostravano convinti che solo la musica potesse consentirci di guadagnare l'universale e di trascendere così le sue concrezioni sempre individuali e particolari (potremmo anche dire: astratte). Una svolta, insomma, rispetto alla scarsa considerazione, a lungo imperante (almeno sino all'illuminismo, come abbiamo appena ricordato), e sino ad allora indiscussa, della musica, soprattutto in relazione alla sua costitutiva impotenza a «significare». Il fatto è che ogni significazione è in quanto tale un'astrazione; perché nessun significato, di quelli configurabili con il linguaggio proposizionale, riesce a dire la cosa rendendo manifesta la totalità delle relazioni che la fanno essere quella che è. E di questo ci si dimostra perfettamente consapevoli nelle grandi riflessioni dei Romantici. Se musica e linguaggio proposizionale avevano finito per divorziare, facendo dell'universo dei suoni un semplice trastullo per individui annoiati da un linguaggio ormai irrimediabilmente malato, molti, e da ultimo anche Wagner e Nietl.sche, si sarebbero convinti che solo l'arte musicale potesse salvare l'essere umano da quella che appariva come una sempre più devastata e ormai tragica condizione di alienazione. Ma già Wackenroder aveva individuato proprio nella magìa e nell'incanto esercitato dalla musica la possibilità di liberarsi dal vortice insensato cui sembra destinarci la ruota del tempo. Lo rileva con chiarezza anche Fubini che: «la superiorità della musica sulla parola è sancita senza mezzi termini nelle pagine di WackenrodeD>33 •

33. lvi, p. 15.

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Appena risuonarono la musica e il canto, la rombante ruota sparì di mano al santo ignudo; e colui il quale era sempre vissuto in una grotta, a girare senza posa e senza pace la ruota del tempo ... «che con fragore scrosciante lo trascinava nel suo assurdo vortice, esperl la trasfigurazione e l'ascesa al cielo ... che awennero al suono della musica che, come notte incantata di luna, segnava l'amore dei due innamorati»34 • Ma a quale tipo di musica si riferisce qui Wackenroder? r;autore di questa favola (La meravigliosa favola orientale di un santo ignudo) era lo stesso che aveva sempre sostenuto la netta superiorità della musica strumentale su quella vocale. Certo, il Romanticismo nel suo complesso aveva visto crescere due tipi di convincimenti: da un lato l'apologia della musica strumentale pura (nel sonatismo romantico, nel sinfonismo) e dall'altro una convinta predilezione per la sinfonia a programma, per il poema sinfonico e il Lied ... per non parlare del fiorire di melodrammi romantici, a rimarcare la necessità di una proficua collaborazione-contaminazione tra il linguaggio delle parole e quello dei suoni. Più chiaro di tutti, però, sarebbe stato Hoffmann che, parlando di Beethoven, ebbe a dire che la musica è la più romantica di tutte le arti perché ha per oggetto l'infinito. Essa, dunque, solo in quanto musica puramente strumentale, «esprimerebbe un indistinto "anelito infinito''»3.li. Insomma, la musica che aveva consentito al santo ignudo di elevarsi verso il cielo, affrancandosi così dalla ruota del tempo, poteva anche essere vocale, ma, se anche così fosse stato, rileva acutamente Fubini, «il testo poetico si sarebbe stemperato nel puramente musicale, nell'indeterminato, nel «mondo ruotante di suoni» in cui andavano riflettendosi i sentimenti

34. Ivi, p. 14. 35. Ivi, p. 20.

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degli innamorati che «si scioglievano e fluttuavano come un unico fiume senza rive»36• Interessante anche la caratterizzazione del mondo sonoro in termini di mondo ruotante di suoni. A liberarci dalla malata circolarità cui anche il santo era sempre stato costretto dalla ruota del tempo, sarebbe stata dunque un'altra circolarità- in questo caso, però, liberatoria, perché capace di farci riconoscere il pulsare dell'infinito in quanto tale. Sempre per rimanere alla leggenda narrata da Wackenroder, può essere utile rilevare come la musica rivelatasi capace di liberare le mani del santo dalla rombante ruota del tempo e di quietare lo sconosciuto desiderio che continuava ad affiiggere la sua anima, nonché di far scomparire la sua forma umana, e di trasfigurarla, trasformandola in «un'immagine spirituale bella come un angelo, intessuta di vapore leggero, un'immagine che stava sospesa fuori della grotta, e stendeva, piena di nostalgia, le braccia snelle al cielo, e s'innalzava secondo le note della musica in un movimento di danza, dalla terra verso l'alto»37, era una musica eseguita da «incantevoli istrumenti che suscitavano un mondo nuotante di suoni che ora scendevano ora salivano, a ondate»38; una musica eterea che, soprattutto, «saliva ondeggiando nell'ampiezza del cielo dalla barca»39 • La musica proveniva da una barca; la barca a bordo della quale due innamorati si erano abbandonati alle meraviglie della solitudine notturna; una «barchetta leggera con la quale risalivano in quella notte il fiume che scorreva accanto alla grotta rocciosa del santo»40•

36. Ivi, p. 22. 37. W.H. Wackenroder, La meraoigliosafavola orientale diun santo ignudo, in «Scritti cli poesia e cli estetica», tr. it., Sansoni, Firenze 1967, p. 142. 38. lvi, p. 141. 39. Ibidem. 40. Ibidem.

Insomma, era come se la musica andasse dispiegandosi per effetto dell"amore dei due; o meglio, a partire «dal» loro amore. Dall"amore che li aveva spinti ad abbandonarsi alle meraviglie della physis, o meglio della sua notte - nella solitudine che solo la notte, molto probabilmente, avrebbe potuto consentire, quale incantevole donazione ali"amore corrisposto. Sembra di sentire l"eco della notte novalisiana; quella degli inni dedicati dal più grande poeta romantico ad una oscurità che tutto sarebbe riuscita a custodire per l"eternità, sottraendo gli essenti a quella incessante nientifìcazione con cui l"impulso fabbrile che ci domina durante il giorno sembra travolgere tutto. Solo la notte, insomma, o meglio la «vera» notte, per dirla sempre con Novalis, può custodire ciò che luce del giorno sempre e comunque fìnisce per de-terminare, e dunque per restituire allo sguardo degli umani nella forma astratta che di ogni cosa è destinato a testimoniare l"isolamento costitutivo. D"altronde, è di notte che gli amori si compiono, che si compiono in un atto che suggella l" unità che durante il giorno può essere solo astrattamente significata. Perciò la musica evocata dalle parole della leggenda wackenroderiana non sarebbe potuta sorgere se non quale frutto di un amore che, in ogni caso, avrebbe atteso la notte per cantare ed elevare al cielo le melodie di una gioia sconosciuta agli umani, o, per dirla con Severino, agli abitatori del tempo della terra isolata. Che era fuggita dalla luce accecante di un sole che nulla avrebbe potuto rendere vera mente visibile, se non nella forma isolata che fìnisce per alimentare un"insopprimibile nostalgia «di cose belle e sconosciute»·11 ; una nostalgia che solo l"amore di quei due giovani avrebbe potuto in qualche modo placare - di quei due giovani che, con la loro barca, stavano provando a risalire il nume. Una nostalgia che invano il vecchio santo aveva a più

41. Ivi, p. 140.

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riprese tentato di soddisfare ab.andosi su, dando «alle mani e ai piedi un movimento dolce e tranquillo, ma inutilmente!» 42• Il vecchio santo «cercava qualcosa di sicuro che prima di allora non aveva conosciuto, alla quale afferrarsi e tenersi attaccato»-1.,. Ma prima di quella visione d'incanto non sarebbe stato possibile venirne a capo; su qualsiasi "verità" avesse cercato di far confluire la propria nostalgia, si sarebbe trattato di un appiglio costitutivamente insicuro, destinato a franargli tra le mani, come era sempre accaduto a tutte le vecchie verità metafisiche, travolte tutte, una dopo dall'altra, dall'infernale incedere del tempo e dalla poten7.a incondizionata del divenire. Il vecchio sapeva che quel «girare inesausto dell'eterna ruota, la continua corsa uniforme e ritmica del tempo» 44 non poteva venire interrotto. Lo sapeva bene; perciò «scoppiava selvaggiamente a ridere pel fatto che in mezzo al terribile minare del tempo ci fosse qualcuno che potesse pensare a piccole occupazioni terrestri»"5. Si sentiva trascinato da quella ruota - rileva Wackenroder -; ma sapeva anche che non poteva far nulla a causa di quel frastuono, niente poteva intraprendere; la violenta angoscia, che lo affaticava in un lavoro senza riposo, gli impediva di vedere o di udire qualunque cosa... ché tutti i sensi ne erano avvinti e la sua angoscia faticosa sempre più era presa e trascinata nel vortice di quella selvaggia impressione. -1 5

E «sempre più mostruosi si scatenavano l'un sopra l'altro i suoni uniformi»47 •

42. Ibidem. 43. Ibidem. 44. Ivi, p. 139.

45. Ibidem. 46. Ivi, p. 138. 41. Ibidem.

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Ecco, di contro all'incanto sonoro che, solo, avrebbe potuto innalzarlo al cielo, liberandolo dall'insostenibile frastuono generato dalla ruota del tempo, di contro a quella liberatoria melodia, il suono del giorno, e del tempo che in esso sempre si dipana, sarebbero apparsi come necessari ma insopportabili suoni unifonni. Pure astrazioni isolate dal «vero», essi non avrebbero fatto altro che ripetere sempre il medesimo rumore, risonante come inintonabile stridìo, owero come baccano privo di qualsivoglia identità - alla luce del quale nulla si sarebbe reso udibile nella propria inimitabile ed irripetibile sonorità. Conformemente, cioè, alla sua vera e propria «identità con sé»; la stessa che, solo nel riflesso delle infinite corrispondenze o relazioni che ogni cosa intrattiene con il tutto, si sarebbe lasciata riconoscere. E che, più di ogni altra arte, proprio la musica sembra in grado di rendere sensibilmente «percepibile». Perché, proprio in quanto non destinata alla significazione sempre parziale del logos (già con Hoffmann viene messa a tema la questione della non significatività della musica), la musica ha forse a che fare con quel significato «che oltrepassa la parola» 48 e che consente a Severino di affermare che «proprio perché il significato oltrepassa originariamente la parola, la volontà isolante può dargli la parola»49 • Ma non questo accade alla musica, alla quale sono stati dati e continuano ad esser dati infiniti significati che mai, peraltro, riusciranno a risolvere in sé l'identità della forma musicale a cui fanno tutti riferimento, quasi sempre nel tentativo di dirne il significato (o meglio di affidarne il significato alla parola). E ... se proprio la musica avesse a che fare con «quel toglimento della contraddizione che proviene dalla volontà che isola la terra ed evoca la parola ... con quel toglimento che è

48. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 242. 49. Ivi, p. 243.

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l'eterno apparire infinito del significato puro, che già da sempre oltrepassa, eterno, la parola»5()? Con quel significato puro che Severino connette all'identità che tutte le parole non fanno altro che «distinguere» o «differire»51 , dicendola appunto in modo sempre diverso? D'altro canto, già per Friedrich Schlegel, uno dei fondatori del Romanticismo, «la prerogativa dell'arte era l'unità»52 • Insomma, è nel pieno del Romanticismo tedesco che si fa strada un'idea di arte caratterizzata da ciò che Schlegel tematizza rivendicando sì una sua «peculiare regolarità»53, ma concependo l'arte non come l'avrebbero intesa gli antichi - ossia, come caratteristica esprimente un'aurea misura toto caelo sconosciuta alla natura, perché sempre contraddetta dalle sue mai evitabili deformità e stravaganze -, e neppure come l'avrebbe concepita unafonnamentis tutta votata al «particolare» ed assoggettata alla regola che vincola e limita54 , ma a partire dalla consapevole72.a che «non solo il tutto si diffonde senza limiti in ogni direzione, ma anche il più piccolo particolare è doppiamente inesauribile ... sì che ogni punto nello spazio, ogni momento del tempo (e ve ne sono infiniti) sia ricolmo»55 • Ecco ... quanto di questa Stimmung risuona nell'idea severiniana di un «Immenso che comincerebbe ad indicare (nelle pagine di Oltrepassare) che il Tutto infinito della Gioia - quel50. Ibidem. 51. Non a caso Severino può dire che «la parola parla della cosa, parlando invero dell'identità a cui si riferiscono le differenze della parola che parla della cosa» (E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 235). 52. F. Schlegel, Frammenti di estetica, tr. it., a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo 1989, p. 27. 53. lvi, p. 28. 54. «L'ardente bramosia di penetrare il particolare sconvolgono cosl violentemente l'uomo che spesso il potere della natura gli sottrae ogni libertà» (ibidem).

55. Ibidem.

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lo destinato ad apparire col tramonto della terra isolata - è destinato ad apparire in un'infinità di modi diversi»56? E che è così destinato in quanto inscritto in una «sequenza infinita in cui consiste la configurazione suprema della Gloria, dove ognuna delle forme infinite della Gioia oltrepassa e conserva nell'apparire quelle da cui è preceduta»57? In modo tale che, per quanto la costellazione infinita dei cerchi dell'apparire rimanga comunque awolta «dalla contraddizione C - in quanto non si potrà mai pervenire a quella decifrazione totale delle tracce lasciate in ogni parte dal Tutto che implicherebbe l'impossibile sopraggiungere dell'infinito nel finito» 58 - questa decifrazione totale sia comunque destinata a sopraggiungere ... «perché altrimenti le parti sopraggiungenti non sarebbero concretamente oltrepassate, cioè sarebbero degli inoltrepassabili»59? Il fatto è che, per Severino, così come «è necessario l'oltrepassamento di quel sopraggiungente che è la terra isolata, allo stesso modo la concretezza cli tale oltrepassamento richiede il concreto apparire della terra isolata, cioè l'apparire e la deeffrazione delle tracce lasciate in essa dal Tutto»00, e «l'apparire dell'infinita ricchezza e concretezza del Tutto, in quanto esso è in relazione a quella sua parte che è la terra isolata>>61 • Certo, ogni immecliate7.7.a fenomenologica - lo si diceva già ne La struttura originaria ( 1958) - si presenta come originariamente oltrepassata dall'essere (in virtù dell'immediatezza logica), ma non per ciò si potrà credere che questo comporti «la presen7.a del contenuto concreto dell'essere oltrepassante, 56. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 551. 57. Ivi, p. 554.

58. Ivi, pp. 555-556. 59. Ivi, p. 557. 60. Ibidem. 61. Ivi, pp. 557-558.

262 in 11Wdo tale, cioè, che il significato "essere" resti disponibile per la presentazione di quel contenuto concreto»62• Intuizioni, queste, che verranno adeguatamente sviluppate nei volumi seguenti, fino a La C"loria, ad Oltrepassare e oltre - sino a Storia, Cioia - nei termini di una destinazione alla Gioia concepita come luogo inaccessibile della totalità, che però non solo «abita nell'inconscio dei mortali», ma «ogni Io del destino è»63 • Un luogo che va concepito da ultimo come quell'infinità di infinità (perché anche il cerchio finito dell'apparire «è un'infinità di cerchi finiti» 64 ) che ognuno di noi già da sempre sarebbe. Perché, «al di sotto della nostra fede di essere uomini - una fede legata alla fede nell"esistenza del divenire -, noi siamo l"occhio eterno che eternamente vede la verità assolutamente innegabile del Tutto» 65 • Siamo già abitatori della verità, siamo già da sempre sue originarie espressioni. Così come lo è ogni essente. Perché la sintassi totale e pertanto infinita delressente in quanto essente è un sapere infinito, una ricchezza infinita che nessun Dio ha mai posseduto e che invece appare anche in quei cerchi che, voltando le spalle allo spettacolo supremo che sta loro dinanzi, hanno evocato gli Dei, cioè le volontà che guidano nel modo più potente il divenir altro.66

Che appare ovunque - di cui, cioè, appare sempre e comunque la verità, per quanto la medesima «non appaia tutta insieme, in ogni suo tratto, ma si inoltri nella luce dell'appari-

62. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 416. 63. E. Severino, La Gloria, cit., pp. 160-161. 64. Ivi, p. 161. 6.5. E. Severino, Lafilosofia fatura, cit., p. 15. 66. E. Severino, La Gloria, cit., p. 467.

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re. Vi si inoltri rimanendo ciò che è, inalterabile e immutabile, come il sole che, immobile, si inoltra nel cielo»67 • Eterno è l'essente, ma anche il suo apparire, insieme a tutte le cose che appaiono; eterna ogni identità (ogni cosa), il cui apparire sempre e comunque avvolta dalle differenze dice semplicemente che essa (l'identità) non si presenta mai al di fuori della difTerenza - «anche se non in quanto così awolta, essa è l'identità delle differenze»68 • Come la musica, che appare sempre awolta dai significati che la dicono (siano questi ultimi anche le semplici sigle con cui indichiamo le note - Do, Re, Mi, ecc.), ma non in quanto così significata, essa è ciò che queste sigle pur indicano. Un'identità, questa, di cui proprio l'incanto del suono sa farsi speciale testimone, annunciandosi nella forma dello «svolgimento» - che compete a ciò che mai può apparire tutto insieme, nel cerchio finito dell'apparire in cui anche la musica si inoltra, pur annunciando qualcosa che "incanta" solo in relazione alla totalità del suo svolgimento. Fermo restando - ecco il punto - che questo incanto la musica lo rende possibile e percepibile finanche nella parzialità che, di ogni nota, dice insieme il suo non riuscire mai a restituire la propria verità concreta e totale {la stessa di cui il suo incanto è sempre anche «sensibile» testimonian7.a). D'altro canto, già nella Struttura originaria si rilevava - sia pur in altro contesto - che «il diverso è identico, ma per accidens: in quanto cioè il diverso è il contenuto astratto dell'identico ... insomma, il momento del significato complesso non è immediatamente gli altri momenti, ma è gli altri momenti mediante un superamento del proprio immediato determinarsi»69 • I momenti, insomma, si distinguono affinché possa costituirsi

67. E. Severino, Destino della necessità., cit.., p.127. 68. E. Severino, Oltre il linguaggio., cit., p. 151. 69. E. Severino, La struttura originaria., cit., p. 276.

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l"identità che dice il loro esser identici «in quanto distinti» ... ossia, in quanto momenti distinti di un'apofansi. Insomma, i diversi sono identici; ma possono esserlo solo in virtù di quel distinguersi di là dal quale, e indipendentemente dal quale, nessuna identità riuscirebbe mai ad essere. Ciò che Severino, nelle pagine de La struttura originaria, dice a proposito del «significato originario», è quanto mai utile per capire quanto lo stesso filosofo bresciano avrebbe finito per dire, nel corso degli anni, a proposito del rapporto tra linguaggio e realtà. La realtà, owero la cosa che il linguaggio dice - che quest'ultimo dice come altra da sé - è appunto un'identità che, certo, non si costituisce mai indipendentemente dal suo distinguersi nel linguaggio che la dice, ma non per questo, in quanto identità, dovrà rinunciare a porsi come negazione del differire di cui è comunque fatto il linguaggio. Ecco, proprio questa «identità», è ciò che il differire di cui èfatto il linguaggio continua necessariamente ad indicare, là dove si dispiega rendendo manifeste le proprie distinzioni, ovvero il distinguersi in cui consiste il suo svolgimento. Là dove distingue, cioè, quello di cui rimane nostro compito intendere appunto l"esser identico. Ma, di ciò di cui dice l'esser identico, il linguaggio può solo mostrare il distinguersi; ché, anche l'uguaglianza o identità che esso pone - che esso pone nell'apofansi in cui consiste il significato originario - esibisce una «complessità», e dunque chiama in causa il differenziarsi ... come ciò di cui rimane comunque possibile testimoniare l'esser-negato (in quanto differenziarsi). Ecco in che senso «il momento del significato complesso non è immediatamente gli altri momenti, ma li è mediante un superamento del proprio immediato determinarsi (quello che Severino definisce «inclusione del distinto nell'apofansi» )»70 •

70. Ibidem.

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Ogni significato, per Severino, è posto «solo se tutte le sue costanti sono poste»71 - per costanti di «S» Severino intende tutti quei significati che costituiscono il significato «S» -; ma, sempre secondo il nostro, «S è di fatto posto anche se quel significato (tutte le sue costanti) non è posto; ed è appunto questa posizione di S, in cui S è di fatto posto, e insieme non può essere posto, che costituisce la contraddizione C» 72• Per dirla in modo più semplice, potremmo rilevare come, proprio in questa prospettiva, venga a configurarsi una contraddizione di questo genere: ogni cosa appare come ciò che chiama in causa la totalità di quel che va a costituire il suo significato, il suo esser quello che è (perché il suo esser quello che viene reso possibile dalla totalità infinita dell'essente), ma nessuna cosa, nel suo mostrarsi, rende mai manifesta la totalità concreta dell'essente. A venire evocata è cioè solo la f orma di tale totalità. Sì che la contraddizione così costituentesi sia comunque una contraddizione «in sé», e non una contraddizione «posta» - se è vero che non appare, perché non viene mai posto, «quel significato la cui non posizione provoca la contraddizione»73• Ecco perché, proprio in virtù di tale contraddizione, secondo Severino, si viene «a dire qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre dicendolo (questo stesso qualcosa)»74• Si viene a dire cioè la totalità concreta dell'essente (perché ogni essente chiama in causa la totalità dell'essente) - per quanto quel che appare sia sempre e comunque un certo essente in relazione solo ad alcune delle sue condizioni. Perciò, quel che si viene a dire evocando la totalità dell'essente (quella che ogni essente evoca come ciò che in esso viene comunque a mostrarsi), non è mai la totalità dell'essen71. Ivi, p. 340. 72. Ivi, p. 345. 73. Ibidem. 74. Ivi, p. 347.

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te; e quel certo essente, che, non apparendo come concreta manifestazione della totalità, può finanche venire isolato da quest'ultima, e venir trattato come se fosse qualcosa di autonomo e libero dal vincolo costituito da un tutto che in verità né condiziona né vincola (ché non indica cioè nulla di estrinseco od esterno rispetto a quel che appare quale suo semplice elemento). Nelle sue ultime opere, Severino definisce questa totalità concreta «orizzonte della Gioia» - orizzonte il cui progressivo manifestarsi darebbe luogo ad un processo che viene definito "glorioso" proprio perché vocato alla manifestazione della verità di tutto quel che già appare, pur non apparendo ancora (nel cerchio finito dell'apparire) per come esso sarebbe vera mente (già da sempre, peraltro) alla luce della totalità concreta; quella che risulta dal già da sempre realizzato oltrepassamento di ogni determinazione finita, cioè di ogni determinazione che sarà, proprio in quanto finita, inevitabilmente assoggettata alla contraddi7Jone C. Ed è proprio intorno a tale scarto - allo scarto tra apparire finito e apparire infinito, tra l'essente concepito come distinto e l'essente concepito nella sua identità (quella che potrebbe apparire solo là dove tutte le distinzioni si conformassero a disegnare la concretezza del significato originario) -, che si muove e si concentra tutta la grande riflessione romantica sulla musica. Cifra della consapevolezza che i grandi protagonisti del Romanticismo tedesco hanno avuto della pratica musicale tout court. Elio Matassi l'ha spiegato molto bene in un volume dedicato appunto alla Musica; l'ha spiegato, mostrando anzitutto come fosse proprio questa la cifra di tutta la grande ricerca musicale svoltasi tra Haydn, Mozart e Beethoven. Matassi ripercorre, in quelle pagine, il grande commento di Hoffmann alla Quinta di Beethoven, mostrandoci con grande lucidità come lo sforzo di E.T.A. Hoffmann sia stato sostan7Jalmente

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e anzitutto quello di rendere ragione dell"assoluta esemplarità della forma d" arte musicale. È solo con Hoffmann, ci spiega Matassi, che la musica romantica, con il suo ben noto privilegio della forma espressiva puramente strumentale, «apre le porte di un regno sconosciuto scandito dall"ineffabilità del suo linguaggio» 75 • E l"apice di questa poten7.a rivelativa sarebbe stato raggiunto, sempre secondo Hoffmann, proprio dalla musica di Beethoven: «anche la musica strumentale di Beethoven ci introduce nel regno del misterioso e dello smisurato. Raggi incandescenti trafiggono la notte profonda di questo regno così che noi percepiamo ombre giganti, che ondeggiano su e giù, ci circondano soffocandoci sempre di più, e distruggono tutto in noi eccetto il dolore dell"immensa malinconia nella quale ogni piacere, prima cresciuto fulmineamente con suoni giubilanti, ora sprofonda e scompare; e solamente in questo dolore, che nutrendosi di amore, speranza e piacere - sen7.a però distruggerli - vuol far scoppiare il nostro petto nel pieno fragore armonico di tutte le passioni, noi continuiamo a vivere da incantati visionari»76. Passo quanto mai interessante, questo di Hoffmann. Che dice molto, di quello che stiamo cercando di mostrare. La musica (e quella di Beethoven in forma particolarmente potente, sempre secondo Hoffmann) avrebbe il potere di introdurci nel regno dello «smisurato» - che è in quant;o tale misterioso. D'altronde, cosa può esservi, di smisurato, se non «l"apparire dell"infinito dispiegamento della Gloria della Gioia (che, peraltro, pur apparendo nel suo dispiegamento infinito, non dice mai tutti gli infiniti modi in cui il Tutto concreto appare in relazione a ciò che, pur essendo un dispiegamento infinito, 75. E. Matassi, Musica, Guida, Napoli 2004, p. 12.

76. E.T.A.Hoffmann, Ludwig oanBeethooen, 5. Sinfonie(ApriYMai 1810), in Id., Schriftenzur Musik. Nachlese, WinklerVerlag, Mtlnchen 1963,p. 36.

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è pur sempre un finito rispetto all"inesauribilità del Tutto, e quindi non esaurisce l'inesauribile sopraggiungere della Gloria della Gioia)»77? Dove, dunque,se non in questo regno smisurato (eccedente ogni misura e dunque ogni determinazione anche persintattica) - esperito da Hoffmann come notte profonda - può risuonare qualcosa di «analogo» all"inesauribile sopraggiungere della Gloria della terra? Che, in quanto «inesauribile», allude al già da sempre avvenuto oltrepassamento dell"esser contraddittorio (nel senso della contraddizione C) da parte dell"esser se stesso caratterizzante il finito ... un oltrepassamento che però «non può sopraggiungere»78 - stante che non può certo sopraggiungere «la concretezza massima già da sempre manifesta nel Tutto inesauribile» 79 • Insomma, il Tutto assolutamente concreto non può sopraggiungere, «perché il Tutto in relazione ad una parte (cioè alla terra isolata) non è il tutto assolutamente concreto, ma è, esso stesso, che è l"infinita concretezza del Tutto, una parte dell"infinito Tutto assolutamente concreto» 00• Ecco la notte oscura che mai sopraggiungerà e mai si farà illuminare dalla luce che testimonia il sopraggiungere di tutto quel che sopraggiunge; che ci attende, certo, ma come ciò di cui mai potremo fare esperienza nei termini di un «sopraggiungente». Di cui mai, cioè, il tempo, ovvero lo svolgimento secondo il prima e il poi - in cui consiste appunto l"esperiew.a custodita da quello che Severino definisce «il cerchio finito dell"apparire» -, potrà disegnare i confini (appunto perché costitutivamente sconfinato o smisurato), mostrandone la "determinate7.7.a"". Rendendola cioè traducibile in «concetto», ossia in parola. In quella 77. 78. 79. 80.

E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 677. Ivi, p. 683. Ibidem. Ivi, p. 544.

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parola che, come abbiamo già visto, altro non è che il velo destinato a coprire l'identità ad essa già da sempre connessa, ma mai riducibile alla medesima. Il tempo, infatti, per quanto non consenta di determinare i confini dell'identità originaria (che non ha confini, e perciò ha a che fare con lo «smisurato»), dello smisurato comunque parla - anzi, sempre e solamente di quest'ultimo parla, ogni volta che qualcosa sopraggiunge. Parlando di ciò che, rispetto al sopraggiungente e al suo manifestarsi, costituirà sempre e comunque il non manifestantesi, dal punto di vista del cerchio finito dell'apparire. Parla cioè di una notte trafitta da raggi incandescenti - quelli che Severino chiamerebbe le «tracce» del Destino. I quali producono ombre giganti che ondeggiano su e giù come un alone ... che circonda ogni essente, ma che lo sguardo della terra isolata non sa riconoscere. Quell'ombra che ha forse a che fare con il senso più autentico della morte - quella stessa che i mortali interpretano come semplice annichilimento della vita e del vivente ... ma che in verità indica la possibilità di una vera nascita. Quella attesa all'interno dell'orizzonte che i mortali chiamano vita, ma che, in verità, è proprio essa la vera morte (perciò Severino può dire, in modo solo apparentemente paradossale, che «nei cerchi dell'apparire del destino, non sono i nati ad attendere la morte, ma i morti ad attendere la loro nascita, ossia il sopraggiungere della terra che salva»81 - vera morte è infatti, per il filosofo bresciano, «la vita vissuta all'interno dell'isolamento della terra»82). Quel sonno il cui significato autentico indica «il mantenersi al di fuori dello sguardo del destino della verità, il chiudersi in un luogo dove non appare il destino»83 - quel sonno popolato dai sogni di cui è fatto un mondo che, mantenendosi al di fuori dello sguardo

81. Ivi,. p. 694. 82. Ivi,. p. 690. 83. Ivi,. p. 692.

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del destino, «è diverso dal contenuto che appare nello sguardo del destino, ed è diverso perché si è isolato dal destino»84 • Ombre giganti sono dunque quelle che circondano le cose della terra isolata (i sogni prodotti dal sonno in cui consiste la vita dei mortali, in quanto da ultimo riconducibile, dal punto di vista del destino, ad una vera morte), perché del tutto sproporzionate rispetto alle misure "oniriche" che le cose presentano al cospetto dello sguardo della terra isolata. Rispetto alla loro pochezza, e dunque alla maschera errante in cui va ogni volta a depositarsi la follia dei mortali. Ma, allo sguardo dei mortali, esse non possono che apparire come ombre. Infatti, la loro configurazione concreta è toto caelo ignota al nostro sguardo; e lo è proprio in virtù dell'isolamento da quest'ultimo originariamente prodotto. Ombre oscure, dunque, sono quelle generate dai raggi incandescenti del Destino. Pure ombre; ché di semplici «tracce» si tratta. Sì, di tracce della verità del Destino; che, in quanto tali, dovranno comunque apparire, e soprattutto apparire anche là dove, a darsi, sia la terra isolata che il Destino concede allo sguardo del mortale. E che appaiono in ogni caso come segni (per quanto ancora imperfetti) di quel che non è segno di nulla, senon di sé. O meglio, del proprio semplicissimo «esser-sé». Del significato di cui ogni parola, comunque, può farsi - perché lo è - originaria testimonianza. Di quell'identità sotto la cui ombra, dunque, ogni piacere sprofonda e scompare - per dirla con Hoffinann -, lasciando spazio ad una malinconia mai priva, comunque, di «amore», «speran7..a>> e «piacere». Appunto perché attesa dalla terra che salva. Vale a dire: dal necessario oltrepassamento della terra isolata; e dunque dal «totale e concreto apparire delle tracce del Tutto nella terra isolata e delle tracce di questa in quello» &'S_

84. Ibidem.

&5. Ivi, p. 544.

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Amore, ~eranza e piacere che, pur non implicando la sparizione «nemmeno di un filo d'erba dell'infinito dolore della terra isolata>>86, consentono da un lato alla speranza di procurare vero piacere (in quanto del tutto estranea alla vana e infondata speran7.a familiare ai mortali. .. almeno a partire dall'impruden7.a di Pandora; una spernn7.a, quest'ultima, radicata nella convinzione che nulla in verità li attenda oltre una vita da miserevoli condannati a morte), e dall'altro, all'amore, di farsi espressione di quella infinità di connessioni in cui l'identità non vive come meta di fatto irraggiungibile (quale è per il filosofo platonico, amante per definizione condannato a non poter soddisfare il proprio tragico desiderio), ma come risultato già da sempre guadagnato in virtù di un Destino che nulla mai abbandona a se stesso. Perciò il piacere procurato da queste inaudite accezioni della speran7.a e dell'amore sarà sì infinito, ma, in virtù del medesimo, non si darà mai qualcosa come l'annientamento del dolore; infatti, «I'oltrepassamento della volontà, del piacere, del dolore e della contraddizione non è il loro annientamento. Tutto ciò che è oltrepassato è conservato eternamente. E dunque nessuna morte può essere annientamento di ciò che muore»87 • Questo è infatti per Severino la Gloria: l'autentico senso del tempo. Il senso, cioè, che il tempo mostra nello sguardo del destino. L"autentico senso del passato e del futuro. Del passato, che nel dispiegamento della terra è totalmente e definitivamente conservato, in ogni cerchio del destino, non solo nell'essere ma anche nell'apparire.88

In attesa della Gioia, ossia di quell'infinito «che non appare nel cerchio finito, ma ne è l'inconscio»89; e che, dunque, nel 86. Ivi, p. 545. 87. E. Severino, La Giona, cit., p. 36.5.

88. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 205. 89. Ivi, p. 176.

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cerchio finito dell'apparire, non potràche sembrare una notte. Molto simile, dal punto di vista formale, al buio dell'inconscio freudiano. Buio inestiipabile, nell'ottica del cerchio finito; ché la Gloria altro non è che «il mai compiuto allargarsi della terra nella luce del cerchio del destino»90 • Quel buio in cui tutti i dolori di cui è manifestazione il cerchio finito sono già da sempre manifestazioni della Gioia del cerchio infinito del destino; pur non potendola illuminare iuxta propria principia ... ma solo in forma indiretta, in quanto illuminati da raggi incandescenti che trafiggono la notte che cela il cerchio infinito dell'apparire, restituendone una semplice «traccia». Eppure queste figure dell'isolamento «si conservano nel loro essere oltrepassate»91 ; perché «nell'oltrepassamento concreto e compiuto della contraddizione, del dolore e dell'angoscia non appare soltanto la loro «rappresentazione» o la loro «idea», ma la contraddizione, il dolore e l'angoscia in carne ed ossa»92 • Fermo restando, ribadiamo, che nella struttura originaria del destino la contraddizione è avvolta da un oltrepassamento dove tale struttura è soltanto oltrepassamento formale, ossia è negazione della contraddizione ma non appare ancora come lo stato in cui la contraddizione è concretamente oltrepassato; mentre nella totalità delressente la contraddizione è avvolta dalla Gioia, ossia dal proprio oltrepassamento eternamente compiuto e concreto - giacché la Gioia, come apparire infinito del Tutto, è rapparire dell'oltrepassamento eterno della totalità e cioè della concretezza della contraddizione.m

90. Ivi, p. 177. 91. E. Severino, La gloria, cit., p. 123. 92. Ivi, p. 78. 93. Ivi, pp. 123-124.

273 Perciò ogni esperienza del dolore è insieme esperienza della Gioia. Sebbene inconscia (ché non appare nel cerchio finito del destino), esperienza della Gioia stabilisce così i tratti di ogni forma visibile dell~esperire, e quindi anche i tratti del dolore e delrangoscia.9-1

r

Sistole e diastole; ogni dolore e ogni contraddizione sono eterni e vengono conseivati come tali anche nell'oltrepassamento già da sempre compiuto nell'orizzonte dell'apparire infinito del Destino; ma nello stesso tempo, alla luce di un oltrepassamento solamente inconscio - almeno, dal punto di vista dell'apparire finito-, l'esser awolto dalla Gioia, anche da parte del dolore più lancinante, proietta un'ombra gigante, sempre per dirla con Hoffinann. Imago di un'oscurità che solo pochi raggi ("tracce", nel linguaggio severiniano) riescono a trafiggere alimentando un'incrollabile speranza (che sarà tale, cioè ~eranza, non per l'irredimibile dubitabilità che minerebbe l'effettiva costituzione del suo volto concreto, ma in virtù della specifica configurazione di questa stessa concretezza - non in relazione al "che", ma al "come" di tale configurazione). Una notte che chiama in causa un'esisten7.a che «non diviene secondo il tipo di divenire di cui l'apparire è apparire»95, ma che, pur evocando la totalità del divenire, non comporta affatto - è sempre Severino a precisarlo - «che resti annullato il "perdurare" e la "sequen7.a temporale" ... e non significa neppure che resti annullato il divenire e il tempo intesi in senso non nichilistico»96 • Il divenire indica infatti una processualità infinita (un'infinita serie di oltrepassamenti) che mai potrà, facendosi defini-

94. Ivi, p. 124. 95. E. Severino, La nwrte e la terra, cit., p. 300. 96. Ibidem.

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tiva, impedire ulteriori oltrepassamenti di quel che di volta in volta sarà giunto ad apparire. Per questo - e ciò è molto importante - la struttura del destino dice anche l'eternità del divenire. Se è vero che, solo in virtù di questa processualità infìnita, I'oltrepassamento della terra isolata può farsi svolgimento della Gloria; e la Gioia può trafìggere la notte che allude alla sua natura inconscia (in rapporto al cerchio finito dell'apparire), rendendoci fondatamente speranzosi in relazione al fatto che, se «la destinazione è l'apparire della necessità della Gloria (ossia della necessità che in ogni cerchio del destino sopraggiunga, in modo appropriato a quel cerchio, la terra che salva)» 97, e se, comunque, l'Infinito assolutamente assoluto non potrà mai essere decifrato totalmente («la decifrazione totale delle tracce dell'Infìnito assolutamente assoluto è impossibile»98), le sue tracce troveranno comunque una plausibile decifrazione «nell'apparire come tracce dell'Indecifrabile»99 • Insomma, l'oltrepassamento della terra isolata da parte dalla terra che salva può accadere «senza che sia necessario (e anzi essendo impossibile) che appaia il contenuto concreto dell'Indecifrabile» •00 • L'identità, che i diversi modi del dire dicono «distingµendola», fanno sì che essa- non essendo nessuno dei modi in cui la medesima sempre continuerà a dirsi - riesca a dirsi in ognuno di essi, senza risolversi in nessuno dei medesimi. Sen7.a, cioè, lasciarsi catturare da questa o quella signifìca7jone, da questa o quella parola, ma in tutte le parole continuando a «risuonare» come Infìnità concreta di un Infìnito assolutamente assoluto che, lungi dal prescindere dalle parole che lo dicono, e dunque dai distinti di cui continua a fungere da identità, solo 97. Ivi, p. 425. 98. Ivi, p. 499. 99. Ibidem. 100. Ivi, p. 500.

275 in essi potrà farsi presente come pura traccia sonora - crediamo di poterci a questo punto permettere di dire. Quella che, sola, a qualsivoglia parola, consente di farsi espressione di uno spirito puramente strumentale (ammesso che il "puramente strumentale"' indichi non tanto la musica concretamente priva di parole - come le sinfonie, i quartetti, ecc. -, quanto quella capace di elevare le parole e trasfigurarle, sino a renderle puro segno dell'Infinito assolutamente assoluto). Perciò, per tornare alla Meravigliosa favola orientale di un santo ignudo messa in forma da Wackenroder, diventa del tutto inessenziale chiedersi - come pur si è fatto, e fin troppo spesso - se la musica evocata dal testo del grande romantico fosse strumentale o vocale. Quella ascoltata nella notte stellata dal santo, rileva giustamente Fubini, era indubitabilmente musica vocale (poteva essere un Lied), forse intonata dai due amanti sulla barca che risaliva il fiume, ma una lettura meno letterale del testo ci può permettere un'interpretazione assai più estensiva: è vero che vi è la presenza di un testo poetico, ma esso si stempera nel "puramente musicale", nelrindeterminato, nel "mondo nuotante di suoni" in cui si riflettono i sentimenti degli innamorati che "si scioglievano e fluttuavano come un unico fiume senza rive".' 01

Così, peraltro, si ridimensiona finanche la vexata quaestio tipicamente romantica relativa al più o meno fon dato primato della musica strumentale; potendoci sempre riconoscere nell'individm17Jone dell'inaudita potenza dell' esperien7.a musicale, riconosciuta finalmente capace di rendere anche sensibilmente percepibile (anzi, in primis, sensibilmente percepibile - ché l'intelletto è capace solo di parole) una dimensione (l'identità) in cui i distinti (come gli innamorati) fluttuino come 101. E. Fubini, Il pensiero musicale del Romanticismo, cit., p. 22.

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un unico fiume senza rive. Ossia, come identità non determinata ... come smisurata arché che, in ogni distinto, continuerà a dire la propria assolutamente assoluta infinità. Molto interessante, poi, il fatto che la traccia del Destino - nel fluttuare sempre differenziantesi delle parole (del "logos) che se ne fanno testimonianza - sia riconosciuta come vero e proprio appannaggio del "sentire"; nella fattispecie, del senso dell'udito. Molto interessante anche in relazione alle raffinatissime riflessioni di un altro importante protagonista dell'epopea romantica: K.W.F. Solger. Secondo il quale si sarebbe anzitutto trattato di capire come, «nella percezione del molteplice, essa (la bellezza) ad un tempo conosca l'essenza e l'unità, e come, in essa, anche la percezione e la sua unità siano del tutto una sola ed unica cosa: e ciò proprio nella percezione e per suo tramite» •00• Contingenza del molteplice e mutevole aspetto delle cose, ed essenzialità dell'unità - che però sempre secondo Solger, non va risolta nella «vuota forma del concetto, bensì nel concetto ch'è tutto nella cosa» 100• Ossia, nella realtà a cui ogni concetto cerca di far segno, ma che, rispetto ad ogni segno (cioè, ad ogni parola), indica un' unità (quella della cosa stessa, che viene in ogni caso percepita come un «questo») necessariamente «altra» dal concetto che comunque la significherà. Dove, la contingenza attribuita al mutevole, e dunque alle infinite parole vocate a dire la cosa, non allude affatto all'irrilevan7.a di questa stessa mutevolezz.a, ma, ben più semplicemente, al suo non poter mai catturare quel che la medesima continuerà comunque, imperterrita, ad indicare. Al suo riconoscersi vocata a salvarsi attraverso la morte. Quella che i mortali considerano morte, direbbe Severino, ma che in ve-

102. K.W.F. Solger, Envin. Quattro dialoghi sul, bello e sultarte, tr. it. di M. Ravera, Morcelliana, Brescia 2004, p. 12.1. 103. Ivi, p. 122.

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rità consiste «nell'apparire, non più contrastato dal prevalere della terra isolata, da parte dello sfondo del cerchio del destino, e dunque nell'apparire, non più contrastata da quel prevalere, da parte della destinazione di questo cerchio» (fermo restando che «il prevalere della terra isolata è il suo non apparire come isolata, ma come terreno sicuro, testimoniato dal linguaggio» )104. D'altro canto, «la destinazione è una dimensione che, destinando al dispiegamento infinito che compete alla terra, ne oltrepassa l'isolamento» aas. Perciò il dispiegamento è infinito. Perché «la struttura originaria del destino non è la totalità della persintassi infinita della verità, e non lo è perché si mostra nella forma limitante del linguaggio» 106• Insomma, con la cosiddetta morte «sarebbe compiuto il sopraggiungere della terra non in quanto esso è tale: in quanto esso è tale, infatti, è infinitamente incompiuto: ossia, è Cloria»107. Compiuto può essere infatti solo il sopraggiungere della terra isolata. Perciò rivolgersi ai morti, sempre dal medesimo punto di vista, è rivolgersi agli eterni, ai loro troni eterni - precisa ancora Severino. Perché «i troni dei morti sono la sapienza del destino, non più contrastato dall'isolamento della terra; mentre nei troni dei vivi questa sapienza è ancora contrastata da tale isolamento» 108. Una configurazione del discorso sulla morte, questa, che mostra evidenti consonanze (che poi queste consonanze implichino che il discorso dei Romantici e quello di Severino dicano realmente lo stesso, conformemente, appunto, alla verità essenziale di questo inconfutabile con-suonare, è altra faccenda, ossia è cosa che qui non possiamo evidentemente approfon104. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 419. 105. Ibidem.

106. Ivi, p. 421. 107. Ivi, p. 429. 108. Ivi, p. 430.

278 dire - per quanto mi sembri già interessante che determinate consonanze vi siano ... e che una prospettiva che riconosca la verità nell'infinito, e nello scarto incolmabile tra finito e infinito-, fermo restando che ogni finito, anche per Severino, è ciò da cui il finito continua a sentirsi abissalmente separato, destinato com'è ad un infinito oltrepassamento che mai riuscirà a coincidere con l'Infinito assolutamente assoluto del Destino) con il discorso di molti tra i protagonisti del Romanticismo. Si pensi solo al componimento holderliniano An die Ruhe, dove la morte viene identificata, herderianamente, con il «sonno» ristoratore. Ce lo ricorda anche Michele Cometa, nel suo bel volume Il romanzo dell/infinito. Nelle cui pagine si precisa che ridea che la morte non fosse che un passaggio, un momento cruciale della metamorfosi dei viventi in creature sempre più complesse e «divine» era per altro un adagio della filosofia dei «germi» à la Bonnet, condivisa poi dagli illuministi tedeschi da Lessing a Mendelssohn. 109

Già Herder, comunque- cui guarda con attenzione anche il giovane Holderlin (negli anni di Tubinga), e precisamente nel saggio Tithonu.nd Aurora, svolge una lunga dissertazione «sulla necessitàd"una morte che salvi dal "sopravvivere a se stessi", dal trascinarsi in un'interminabile vecchiaia e decaden7~» 1IO. Ma- ed è bene precisarlo subito-, che la morte possa salvare (anzi, che essa debba salvarci) non è un'idea che va concepita come semplice rievocazione dell'antica tesi platonico-socratica che vedeva la morte soccombere a favore dell'immortalità dell'anima. In quel contesto, infatti, la supposta provvidenzia-

109. M. Cometa, Il romanzo delt'infmito, Aesthetica, Palermo 1990, pp. 91-92. 110. Ivi, p. 91.

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lità del morire aveva la sua ragione nel fatto che solo un tale evento avrebbe consentito all"anima di liberarsi da un corpo ingombrante e inadatto alla sua (dell'anima) costitutiva immortalità. Mentre, qui, la valenza salvifica del morire dipende dal suo salvarci dal sopravvivere a noi stessi. Dal suo salvarci in quanto tali. In quanto «sonno che prelude ad un vigoroso risveglio» 111 • Il fatto è che non si dovrebbe sopravvivere a se stessi-ciò, infatti, significherebbe rinunciare a se stessi; come ebbe aprecisare, con potentissima intuizione, Novalis. Secondo quest'ultimo, infatti (quanto severiniana una tale affermazione!): «I'uomo consiste nella verità- Se rinuncia alla verità rinuncia anche a se stesso. Chi tradisce la verità tradisce se stesso» 112• Perciò, solo «il poeta resta eternamente vero. Egli persiste nel ciclo della natura» 113• Perché solo il poeta «riunisce l"infinito» 114 • Ma il poeta - va anche detto - è tale solo in quanto vocato a superare la rigidità che vincola !"infinito differenziarsi delle parole alla pluralità contenuta nella pagina; ossia, è tale solo in quanto anela alla musicalità del verso. Ecco perché Novalis avrebbe potuto affermare: «i rapporti musicali mi sembrano proprio i rapporti fondamentali della natura» 115• Cli essenti, infatti, vanno concepiti come infinite individualità connesse ad un senso originariamente musicale («infinite individualità di questi esseri - loro senso musicale e individuale» 116). Ciò che, dal punto di vista figurale, ha il suo corrispettivo (in quanto musica visibile) negli arabeschi, nei disegni e negli ornamenti. 111. Ivi, p. 90.

112. Novalis!' Opera filosofica, tr. it., Einaudi, Torino 1993, voi. I, p. 374. 113. lvi, p. 269. 114. lvi, p. 268. 115. Novalis, Opera filosofica, cit, voi. II, p. 648. 116. Ibidem.

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È infatti la loro infinità a rendere infinito il significato originario; quello che ogni dire vorrebbe forse dire, ma non riesce a dire nella sua concretezza, in quanto costitutivamente infinito. «Riguardo all'infinito - infatti-, ogni giudizio determinante è un giudizio infinito, nel senso in cui si dice che ogni negazione di un particolare nel particolare è un giudizio infìnito» 117• Sì, perché «apparenza e verità assieme costituiscono soltanto una realtà vera e propria» 118• Eccolo,. l'Infinito assolutamente assoluto di Severino. Rispetto a cui tanto la parola (I"apparenza) quanto la verità (il contenuto che l"apparenza manifesta, distinguendolo anzitutto da se stessa) finiscono per costituire una semplice astrazione. Stante che «il principio d'identità è principio della verità - della realtà» 119• Ragion per cui l"apparen7.a altro non è che «verità relazionata a se stessa» 120• Da cui il principio di contraddizione (che sta per «principio di non contraddizione») - «principio appunto dell"apparenza» 121 , sempre secondo Novalis. Ma l"unità di realtà (verità) e apparen7.a (espressione - in genere linguistica - della verità), ancora una volta chiamata in causa, non dice né parola né cosa: dice piuttosto (come avrebbe detto anche F. Schlegel) qualcosa cui ogni arte forse tende, da ultimo. Dice «musica>>. Dice qualcosa che, anche secondo il già più volte citato Wackenroder, potremmo anche concepire come lingua che nessuno ha mai parlato e di cui nessuno conosce la patria. E che pur tuttavia penetra nei cuori e nei più riposti nervi di ognuno. Che, guarda caso, tutti in qualche

117. Novalis, Opera filosofica, cit., voi. I, p. 128. 118. Ivi, p. 144.

119. Ivi, p. 145. 120. Ibidem. 121. Ibidem.

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modo comprendono, quand'anche non ne conoscano I'alfabeto. La comprendono e quindi ne godono. Per quanto riguarda il linguaggio verbale, invece, va rilevato come l'ignoranza delle sue regole formative renda assolutamente impossibile esprimersi e farsi comprendere con il medesimo; ma anche toccare il cuore di qualcuno che ci stia ascoltando o quanto meno leggendo. Per questo E.T.A. Hoffmann parlava della musica concependola, proprio in quanto musica strumentale, come unica arte in grado di esprimere con assoluta purez:za la propria essenza peculiare, non reperibile al,trove. Quella che troverebbe un perfetto controcanto nella forma letteraria e pittorica dell'arabesco o nella grottesca; quella che caratterizza, ad esempio, i romanzi di Jean Paul odi Diderot, le opere di Sterne, ma anche le opere pittoriche che sarebbero esplose con gli arabeschi floreali dello Jugendstil, nella seconda metà dell'Ottocento. Forme aperte, fondate su un principio costruttivo assolutamente libero; espressioni di quella assolutamente incondizionataidentità che ogni forma chiusa è destinata a testimoniare in virtù di un vero e proprio tradimento. Forme aperte, consegnate all'infinito oltrepassamento di ogni confine-chiusura, e consapevoli di poter solo così trovare quel timbro «eterno» che in esse si annuncia, quale destinazione vocata a consentire l'apparire incontrovertibile «dell'identità sottesa ai differenti e delle differenze dell'identità ad esse sottesa»; e quindi a rendere esperibile «l'apparire di quell'identità suprema che è l'esser essente di ogni essente» 122• Ad infuturarsi secondo una ritmica che dice la più lucida consapevoleZ7.a del fatto che sì, l'isolamento della terra deve tramontare, per quanto nello stesso tempo, tale tramonto non possa apparire; se è vero che, per «poter tramontare totalmente, esso rinvia all'infinito il proprio tramonto» 19..1.

122. E. Severino, La terra e la nwrte, cit., p. 544. 123. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 435.

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Per questo l'eterno,, che comunque lascia le proprie tracce in ogni espressione della terra isolata e in tutte le sue parole,, non potrà che farsi suono,, ritmo,, owero libero svolgimento di più o meno complesse corrispondenze (come un vero e proprio "arabesco",, dunque) - quelle che nessuna parola potrà mai con-tenere e subordinare a sé. E che purtuttavia delle parole,, di tutte le parole,, si fa costante «negazione» - allo stesso modo in cui si fa negazione in.finita di tutte le differenze destinate a svolgerne l'eterna e intramontabile struttura,, l'identità in cui consiste propriamente l'eterno. Non a caso, di lì a non molto,, doveva venire alla luce la riflessione con cui Hanslick doveva provare a fondare la tesi relativa all'assoluta insignificanza (o autosignificanza - che poi significa che nessuna parola potrà mai dirne il significato) della musica; concepita come il manifestarsi di quell'identico che supporta ogni parola, eccedendo in ogni caso l'atto con cui quest'ultima vorrebbe comprehenderlo. E che mai giungerà alla propria fine,, nell'orizzonte del cerchio finito dell'apparire,, proprio perché nel medesimo,, essa rimane l'unica voce in grado di fungere da traccia reale e concreta dell'Infinito assolutamente assoluto in cui consiste l'Eterno. O anche, dell'infinito apparire disegnato dal cerchio infinito dell'apparire in cui consiste l'Io del Destino. Vale a dire: «l'apparire concreto,, in ogni cerchio del destino, dell'Infinito, che però non potrà mai essere l'Infinito assolutamente assoluto (altrimenti si affermerebbe l'impossibile sopraggiungere,, nel finito,, dell'Infinito assolutamente assoluto),, in quanto costituentesi come l'Infinito assoluto e concreto in quanto è in relazione ai cerchi finiti» 124 • Testimonianza autentica, comunque,, dell'Indecifrabile identità che sembra legittimata a riconoscere le proprie tracce solo in ciò che,, di ogni significazione, indica appunto l'ineliminabi-

124. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 499.

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le «oltre». Non come significato, comunque; ma come pura risonanza, in quest'ultimo, di quanto, molto più semplicemente, nega di essere il significato che vorrebbe comunque farsene testimonianza. Che nega cioè di esser qualsivoglia "significato". Secondo quanto, agli occhi dell'antiromantico Hanslick, ci si sarebbe dovuti afTrettare a comprendere, riconoscendolo una volta per tutte (un antiromanticismo - o formalismo puro - il suo, che paradossalmente, viene a configurarsi come rigorizz.azione ultima della medesima tensione che aveva animato tutti i grandi autori romantici), a partire dalla convinzione secondo cui le leggi del bello in arte sarebbero inseparabili dalle caratteristiche particolari del suo materiale. A partire da tale convinzione, infatti, Hanslick ritiene che la tecnica musicale non vada intesa come semplice strumento per consentire al compositore di esprimere i propri sentimenti o per suscitare nell'ascoltatore determinate emozioni, e tanto meno per significare questo o quello. Per Hanslick, cioè, la musica è musica; musica e basta. Affermando che le idee espresse dal compositore sono anzitutto e soprattutto idee musicali, il nostro teorico e profondo conoscitore della musica, intende quindi la scrittura musicale come semplice simbolo della dinamica dei sentimenti o dei significati. Ossia, del loro «ritmo». Rileva Fubini, commentando Il bello musicale di Hanslick, che per il teorico tedesco «la musica avrebbe accompagnato bene anche testi opposti, proprio perché la musica non esprime la collera di Orfeo che ha perduti Euridice, ma null'altro che un movimento rapido e appassionato che può adattarsi altrettanto bene alla collera come ad un'intensa gioia» 125• Certo, da tale impostazione non poteva non derivare il primato della musica strumentale - in cui l'equivoco della subordinazione al significato (che è proprio esso, invece, stando

125. E. Fubini, L"estetica musicale dal Settecento a oggi, Einaudi, Torino 1973, p. 136.

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quello che stiamo vedendo, a venire subordinato al ritmo e ai timbri dell'evento sonoro) sarebbe necessariamente stato superato. In ogni caso, va anche sottolineato come quello che avrebbe sempre potuto risolversi in un astratto formalismo alla Herbart, destinato a ridurre il bello musicale a mera simmetria proporzionale, si mantiene invece all'interno di una prospettiva che, alla musica, crede di poter/dover consegnare un vero e proprio contenuto - o, per dirla secondo la nostra reinterpretazione di Severino, di doverle consegnare «il contenuto». Non si tratta, infatti, di mere forme vuote, risolvibili in puri rapporti matematici, ma del ritmo e delle dinamiche dello Spirito, dice Hanlsick con linguaggio tipicamente ottocentesco; ma noi potremmo tranquillamente tradurre: della dinamica dell'Infinito assolutamente assoluto, o dell'identità- che è anzitutto identità tra forma e contenuto. D'altronde, già per Hanslick, la musica non è affatto risolvibile in semplice forma vuota - che sarebbe spettato al musicista-paroliere riempire di significato: perché destinata ad esaurire in sé i propri significati, se è vero che tutto quello che vi è, in essa, si risolve in musica. Insomma, la musica nega qualsivoglia significato nella misura in cui quest'ultimo venga concepito come estrinseco al materiale sonoro, come un «di più» rispetto ad esso, di cui quest'ultimo finirebbe cioè per avere disperato bisogno ... al fine di poter «significare qualcosa». Essa nega qualsivoglia significato e dunque si presenta come arte «asemantica», perfettamente intraducibile nel linguaggio ordinario, anche se «pensieri e sentimenti scorrono come sangue nelle vene del bello e ben proporzionato corpo sonoro» 126• In essa, infatti, scorre la vita, perché altro non dice, la medesima, se non lo scorrere della vita medesima; i suoi inciampi, le

126. E. Hanslick, Il bello musicale, tr. it. di M. Donà, a cura di L. Rognoni, Minuziano, Milano 1945, p. 197.

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sue accelerazioni, le sue dilatazioni e le sue divagazioni, owero il suo ribno. Dicendo per ciò stesso l'identico che, proprio in tali digressioni e in tali dinamiche, continua a mostrarsi: la cosa di cui ogni significato dice appunto il ripresentarsi, offrendosi senza sconti o «gelosie'' all'eterno differenziarsi che è la vita della sua identità. Mostrandoci così che l'eterno, pur rimanendo eterno, «vive»; mostrando, da ultimo, di vivere nella vita di ogni dinamica esistenziale, di ogni sopraggiungimento, di ogni compimento, di ogni digressione e di ogni spegnimento, di ogni accelerazione e di ogni rallentamento. Rendendo altresì evidente che non vi sono mai da una parte l'eterno e dall'altra la vita come divenire; mostrandoci insomma quello stesso che da sempre i testi di Severino si impegnano a mostrare, e a mostrarlo con un linguaggio sempre più coerente: che la vita è sempre e solamente vita «dell/eterno». Un eterno che è insieme già da sempre compiuto e sempre ancora da compiersi, in modo tale che la terra isolata, ossia la contraddizione C possa palesarsi nel suo esser tolta, alla luce dell'eterno concepito come «Infinito assolutamente assoluto»; ciò che era chiaro, quale compito paradossale del vero musicista, già agli occhi di Beethoven - che perciò poteva scrivere alla giovanissima Emilie che il vero artista «vede che l'arte non ha limiti; eppure avverte anche oscuramente quanto lontano egli sia dalla meta e, mentreviene forse ammirato dagli altri, si rattrista di non essere ancora giunto là dove il suo genio migliore gli illumina il cammino soltanto come un sole lontano» 127• Vera e propria «attesa del tramonto della terra isolata ... come Gloria della Cioia» 128• L'artista non può fare a meno di spingersi tanto lontano, secondo Beethoven; che, guarda caso, si sentiva proprio per que-

127. L. van Beethoven, Autobiogrojia di un genio, tr. it., a cura di M. Porzio, Mondadori, Milano 2005, p. 70. 128. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 599.

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sto afferrato dal Destino («Ma ora mi afferra il destino!» 129). E riteneva che bisognasse abbandonare qualsiasi preoccupazione «circa l'esito delle proprie azioni e considerare identico qualsiasi avvenimento» 130• Vera e propria testimonianza del «destino», che, in ogni sua differente manifestazione, continua a dire sempre lo Stesso. Saggezza estrema, degna di un vero testimone del Destino della necessità. Perciò il compositore poteva rilevare che gli uomini che possiedono la vera saggezza «non si curano del bene e del male di questo mondo» 131 • Beato, dunque, colui che è in grado di assolvere a tutti i compiti della vita «nella perfetta indifferenza al loro esito!» 132 - scriveva con grande convinzione il nostro. Invitando per ciò stesso il destino a mostrare tutta la propria potenza: «Mostra la tua poten7.a, destino! Noi non siamo padroni di noi stessi; ciò che è stato deciso deve essere, e allora sia così» 13.1. Non è un caso che, proprio in questa fiduciosa attesa, il genio beethoveniano ritrovasse la potenza dell'eterno, ossia del Destino in quanto struttura atta a garantire l'eternità di ogni essente; e che, ad esempio, nella Nona Sinfonia, tutto fosse pensato come presagio dell'esplosione della Gioia nella famosissima Ode. Lo vide bene un allievo di Wagner, Aleksandr Serov, che vi colse un procedimento da lui descritto come trasformazione di una singola idea attraverso una catena di metamorfosi, che non ci avrebbero mai deviato o distolto dall'immagine principale del tema. «Egli riteneva che la sinfonia consistesse in una serie di momenti all'interno di un grande progetto monotematico, at129. L. van Beethoven, Autobiografia di un genio, cit., p. 117. 130. Ivi, p. 121. 131. Ibidem. 132. Ibidem. 133. Ivi, p. 123.

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traverso il quale Beethoven aveva dischiuso l'Ode alla Gioia quale simbolo dell'Elisio» 134 • L'uso implacabile del motivo non poteva lasciare dubbio alcuno, sempre secondo Solomon. Cli sembrava infatti oltremodoevidente: non poteva che trattarsi di un disegno intenzionale. Per la similitudine di profili melodici «che si muovevano verso l'alto o verso il basso in figurazioni di scale per grado congiunto» 135• Sforzi ascensionali che venivano ogni volta frustrati, tanto da ricondurre l'ascoltatore ad uno stato di sempre ripristinata tensione o instabilità. Tutto volgendo a presagire la figura ricmva che doveva caratterizzare la melodia della Gioia. Quel tema Beethoven lo stava attendendo, paziente e inquieto nello stesso tempo, e quando arrivò, scrisse: «Questo sì. Ah! Adesso è scoperto» 136• D'altro canto, ogni frammento era stato vissuto dal genio beethoveniano come variazione anticipatrice dell'Ode alla Gioia, come sua divinazione - precisa ancora una volta Salomon. Tutta la sinfonia appariva cioè come una ricerca del Re maggiore; «ogni passaggio in Re maggiore implicava infatti un momentaneo punto d'arrivo - ma non un asilo permanente - nel viaggio che procedeva verso il tema in Re maggiore della Cioia» 137• Ossia verso l'identità di cui tutto èspeculum in aenigmate; falsa e vera nello stesso tempo. La cui falsità o veridicità, cioè, fungono da semplici proprietà delle parole con cui la medesima si lascia sempre anche evocare, ma mai render presente in quanto tale - perché continuamente contrastata dall'isolamento che ce la fa attendere e vivere come sempre di làda venire (dal punto di vista del cerchio finito dell'apparire).

134. M. Solomon, Su Beethoven. Musica, mito!> psicoanalisi, utopia, tr. it. di G. ~ccagnini, Einaudi, Torino 1998, p. 20. 135. Ivi, p. 21. 136. lvi, p. 23. 137. Ivi, p. 25.

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Eppure proprio il Re maggiore sembra qui volersi far intendere come «simbolo di una potenziale trascendenza» 138; della trascendenza, cioè, rispetto ad ogni parola e ad ogni significato (i quali rimarranno sempre ignari del senso custodito dalla Gioia che da sempre li attende). Beethoven lo sapeva bene, che ogni giorno lo avrebbe condotto (come scrisse in una letteraa Wegeler) sempre più vicino alla metache percepiva, ma che non era in grado di descrivere. Ma solo di suonare. Rendendola esperibile in virtù di sequenze sonore, melodico-ritmico-armoniche, il cui divenire (il cui essere incessantemente oltrepassate) non poteva venire vissuto come progressiva nientificazione - e dunque all'insegna del dolore che accompagna l'assen7.a di quel che scompare nientifìcandosi, e di quel che comincia ad apparire come costitutivamente instabile e destinato esso stesso al nulla -, ma come musica che non avrebbe mai cessato di apparire; che passando, non sarebbe passata, venendo piuttosto a confìgurare, con i suoni di volta in volta sopraggiungenti, un'unica armonia. Vale a dire un'identità che solo i suoni sarebbero riusciti a far vibrare nell'aria, sen7.a soffocarla o tradirla, magari incatenandola alla rigidità di signifìcati irrimediabilmente «isolati» - che il linguaggio da sempre cerca di connettere e articolare, unificandoli, ma che ogni volta finiscono per reclamare una propria autonomia. Significando anche indipendentemente dalla sintassi che li vuole tenere insieme - che dicono ognuno, cioè, la mancaw.a degli altri, per la solitudine connessa ad un originario non conformarsi allo svolgimento che li "vuole" fon.atamente e violentemente uniti. D'altronde, nel linguaggio dei suoni (continuiamo a chiamare «linguaggio» quello musicale, anche se quello che stiamo rilevando non ci consentirebbe di trattare quello proposizionale e quello musicale come linguaggi secondo un medesimo

138. Ibidem.

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significato del termine), nessun suono significa indipendentemente dal legame che lo mostra insieme ad altri suoni - i quali, anche se passati, suonano, con quelli di volta in volta sopraggiunti, in una indissolubile unità -, anzi esso è suono solo in quanto connesso ad altri suoni conformemente a questa o quella determinata unità. Si prenda ad esempio l'incipit della famosissima Quinta Sinfonia (opera tanto felicemente commentata da Hoffinann): Sol Sol Sol Mib. Tre Sol della durata di un ottavo l'uno e un mi bemolle, della durata, invece, di due quarti. Ecco, il primo Sol (quello che avvia il tema dopo una pausa di un ottavo) non è musica; perché esso non porta all'apparire nulla, indipendentemente dalla collocazione rihnico-armonica che lo vede inscritto nel contesto di quelle prime due battute (di due quarti l'una). E soprattutto, con il sopraggiungere del mi bemolle a scendere, i primi tre Sol ribattuti (tutti con la medesima durata, peraltro) non escono affatto di scena. Come sembra accadere, invece, quando una persona, dopo aver fatto tre passi per entrare nella stan7.a da cui non era stata ancora accolta, una volta entrata, si ritrova a vivere il proprio esser ancora fuori dalla porta con struggente nostalgia - perché l'esser ancora in corridoio sembrerà a quella persona una situazione ormai uscita dall'apparire (pur potendovi rimanere nella forma del ricordo). Solo per il loro (di quei tre suoni) continuare ad apparire, cioè- ossia, per il loro non esser affatto usciti di scena-, l'unità sonora costituita dalla sequen7.a qui presa in considerazione riesce a costituirsi; e a farsi musica, da cui ogni forma di «privazione» e di «dolore» (ragioni della nostalgia) saranno necessariamente negati. Quella prima frase della Quinta Sinfonia non dice insomma l'uscire dall'apparire e l'entrare nell'apparire da parte di questa o quella nota; ma piuttosto lo svolgersi di un'unità che, lungi dal costituirsi come «ineffabile» (se non per il linguaggio che voglia descriverla - come

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quello che stiamo articolando in queste pagine) rispetto alla luce che su di essa riesce a diffondere il cerchio finito dell'apparire, sarà concretamente restituita proprio dal comporsi in peifetta unità da parte di quelle note. Che suonano davvero insieme. Nel motivo che suona come un ta ta ta taaaa, passato, presente e futuro non sopraggiungono l'uno sull'altro, o peggio ancora l'uno scalzando l'altro, ma si fanno presenti in un'attesa che, neppure essa, mancherà mai di quel che verrà ad aggiungervisi. Ma che, in quel che verrà, troverà appunto il proprio suono; il quale si lascerà rinvenire solo grazie a quel che «verrà>> - che verrà, ma non venendo dopo, sì da costringere a farsi «passato» (e dunque a risolversi in un semplicemente ricordato) quella determinata cellula sonora. Ma consegnando piuttosto alla medesima una espansione in cui quel supposto passato non rimarrà come semplicemente rammemorato, ma suonerà conformemente ad una perfezione come quella che solo la composizione nel suo insieme avrebbe potuto consegnargli. La musica dice insomma un'unità nel cui orizzonte i differenti davvero «non sono differenti», pur sen7.a mancare della distinzione che li distingue l'uno dall'altro, ma che né all'uno né all'altro consente di essere una determinatev.a che si possa anche concepire separatamente dall'intero compositivo. La musica non consente l'errore costituito dall'astrazione ... così frequente, invece, nel linguaggio proposizionale. Così frequente, cioè, là dove i momenti astratti di una unità (ossia di una esistenza - che è sempre il dispiegarsi di una serie di differenti) possono lasciar credere di riuscire a manifestare quella esistenza anche se separatamente considerati. Ad esempio noi tutti crediamo che la determinata immagine (spazialiv.ata) di una persona (la persona che ho incontrato in quella stan7.a due ore fa, e con la quale posso aver chiacchierato magari per cinque minuti) - un'immagine che è sempre relativa a questo o quel momento del mio confronto

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con la medesima (un momento che peraltro non esiste, se non nell'illusione dello scatto fotografico), e che io riesco comunque (o credo di poterlo fare) ad astrarre dalle infinite immagini che di quella persona possono essermi state consegnate nel corso di una vita - mi restituisca ciò che quella persona è. In verità quella persona e la sua vita non si offrono mai in immagini spaziali fisse (come nei fotogrammi di una pellicola, o nelle istantanee che possono essermi state restituite dalla macchina fotografica); tali immagini sono una semplice «illusione». Sono il frutto di un'astrazione che pensa di poter esibire un'immagine in grado di valere come presenza di quella certa persona, ma in realtà esibisce un mero simulacro della medesima. Si tratta infatti un'immagine funerea che nulla potrà mai restituirmi della vita di quella persona (una persona che non è mai «altro» dalla sua vita - ossia dallo svolgimento che ne disegna appunto l'identità). Come una vera e propria natura morta. Quasi una statua priva di vita che, di quella persona (o meglio della sua vita), potrà costituire solo una infedelissima immagine. Mentre nella musica, ossia nell'orizzonte temporale in cui si dispiega una realtà che non prende mai spazio (se non nella rappresentazione sempre impropria restituita dalla partitura), non si dà neppure la possibilità di confondere l'astratto col concreto. L'astratto, infatti, nellosvolgimento musicale, in senso proprio non si dà. O meglio si dà come I'originariamente negato; come ciò che, dunque, non può certo venire confuso con l'esistenza di quel che per esso verrà di volta in volta alla luce. Quel Sol ribattuto tre volte, anzi, il singolo Sol che sopraggiunge nel secondo ottavo della prima battuta, non può venire confuso con la musica di cui sembra costituirsi come semplice momento, e venire concepito come immagine astratta dell'intero costituito dalla Quinta Sinfonia. Quel singolo Sol, se estrapolato dal contesto disegnato da tutte le battute di cui è composta la Quinta Sinfonia, non restituisce alcunché della

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Quinta Sinfonia. Esso, infatti, è il Sol della Quinta Sinfonia; e, in quanto separato dalla Quinta Sinfonia, non appare neppure come momento astratto di tale composizione. Se suonato come singolo e isolato Sol esso è infatti una semplice nota (e forse non è neppure musica). Se così estrapolato, esso non è altro che un Sol. E non si dà neppure la possibilità che lo si fraintenda e si pensi che, a presentarsi, in esso, sia una cellula o una parte della Quin"ta Sinfonia. Solo se prendo in considerazione una cellula che sia già in sé uno svolgimento, per quanto minimo (si tratti anche solo della prima battuta), io posso infatti riconoscere, in essa, una traccia della Quinta Sinfonia. Il singolo Sol, insomma, non dice nulla di ciò che, solo nel contesto della Sinfonia, contribuisce al costituirsi di un'armonia esperibile appunto come identità vivente. Un'armonia in grado di esser «vita>>. Che contribuisce al costituirsi di tale «identità» non in quanto sopraggiungente che spetterebbe al sopraggiungere delle note, una dopo l'altra, unificare - quasi avessimo originariamente a che fare con delle cellule originariamente separate. Che contribuisce a tale costituirsi, cioè, solo in quanto si manifesti per quel che esso (quel Sol) è ab origine: nota necessaria al palesarsi di quell'eterno costituito ad esempio dalla Quinta Sinfonia. Di un eterno che non si palesa, mai - e quindi non è mai tale-, se non nello svolgimento di cui è fatta qualsiasi musica, così come qualsiasi esisten7.a. Nessuna nota prende spazio, infatti, se non nel contesto di unasequenza temporale in virtù della quale, solamente,l'identità con sé di una determinata Sinfonia può restituire ad ogni nota la sua più propria identità - che non sarà mai «la sua», quella di una determinata e singola nota (anche se le conviene originariamente), ma che solo per essa potrà comunque dispiegarsi ad immagine e somiglianza dell'identità in cui consiste invero il significato originario, ossia l'Infinito assolutamente

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assoluto in cui è custodito il Destino. Come ciò che, nel dispiegarsi di un infinito oltrepassamento, dunque, va verso ciò che mai, di fatto, gli sarà comunque mancato (come non mancano le note che seguiranno, alle prime quattro; quelle in cui si disegna appunto r incipit della Quinta Sinfonia), stante che il significato originario, che ad ogni nota compete, affida ogni nota alla Gioia di un destino che, lungi dal temporalizzarsi (e dunque lungi dal farsi altro, in quanto temporalizzantesi, dalla propria eternità), è sempre perfettamente se stesso, tutto intero, e mai mancante, proprio nello svolgersi di un essere che vive solo nell'infinito oltrepassamento di qualcosa che, in ogni caso, mai sarà venuto in alcun modo a mancare (pur facendosi passato). Ciò che al linguaggio, e alla forma sempre spazializ7~ta delle sue concettualità, mai sarà dato comprendere ... e tanto meno ancorare alla propria determinatezza - d'altronde Severino è chiarissimo a questo proposito: «la struttura originaria è l'essenza linguistica dell'originario, che è indicato dal linguaggio ma non vi è contenuto» 139 • Perché la medesima, nei suoi infiniti momenti, mai sarà riducibile al differire in cui tali concettualità si lasciano anche risolvere, ma solo ad un distinguersi tale per cui l'esser sé - che per esso verrà comunque a disegnarsi - né cominci né finisca; in modo tale che né cominci né finisca alcuno dei suoi tratti (alcuno dei momenti specifici del suo perenne svolgimento). Momenti specifici che, infatti, non sussistono mai come fisse datità valevoli come tali, «nonostante» lo svolgimento della loro distinzione - ma vivono appunto solo nell'infinito inoltrepassabile che ogni oltrepassamento specifico finisce per inverare, mostrando di fatto che nessuna determinate7.7.a, ossia nessun confine, può dawero limitare la sua intrascendibile infinitudine. Anche solo per l'insuperabilità della contraddizione C; ché, anche quella che

139. E. Severino, Storia. Gioia, Adelphi, Milano 2016, p. 242.

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appare dopo il tramonto della terra isolata, cioè della volontà, e che non può essere costituita dalla volontà della terra isolata, ma dalla volontà del destino, ossia dalrapparire della necessità della contraddizione C ... è contraddizione tra il modo, peraltro sempre più concreto, in cui la totalità infinita degli essenti appare nei 140 cerchi del destino e l'inesauribile concretezza di tale totalità.

Insomma, quello informante di sé ogni determinazione del vivente (ed evocante il disegno temporale in cui tutti i momenti statici - che vorrebbero «prendere spazio» e lo prendono, di fatto - si risolvono, affidandosi ab origine alla propria «negazione» ... facendosi, cioè, da un lato passato, nella forma del non-esser-più, e dall'altro futuro, nella forma del non-esser ancora) è un anelito - come quello già sperimentato da Mo7.art - a «mutare il significato in suono, la costruzione linguistica in musicale, facendo sì che il senso minacciato approdi in salvo nel porto sicuro dell'arte» 141 • Un anelito a negare gli infiniti significati in cui si disegna il destino della terra isolata, e alludere per ciò stesso ad un'eternità che non è quella che appare nella dimensione non veritativa della terra isolata (pur non avendo un significato soltanto diverso dalla medesima, come Severino precisa in Intorno al, senso del nulla), ma quella che non può non apparire nel cerchio originario del destino della verità. E che, anche nel cerchio della terra isolata, dovrà comunque risuonare - ché, se non esistesse una qualche comunanza o risonanza tra l'eternità che si manifesta nell'orizzonte della terra isolata e quella resa manifesta dal cerchio del Destino, si dovrebbe ammettere che il destino, negando la non verità, non sarebbe negazione della negazione di ciò che esso afferma e che in esso appare, ma sa-

140. E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., pp. 209-210. 141. J. VogeL Lettera sguercia I scritto inzuppato, postfaz. a W.A. M07.art, Lettere alla cugina, tr. it. di C. Goff, SE, Milano 2000, p. 72.

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rebbe negazione di qualcosa di diverso da ciò che esso afferma ... e quindi la negazione di ciò che il destino della verità afferma rimarrebbe come non negata dal destino - che peraltro non sarebbe il destino. 1-12

L'infinito inaccessibile (in virtù della contraddizione C) deve insomma risuonare in ognuno dei passi necessari ad approssimarsi (all'infinito) alla sua già da sempre realizzata Gioia - quella di cui ogni risonante passo potrà dunque farsi manifestazione, anzitutto negando di essere quello che è, e facendosi per ciò stesso «decifrabile» traccia dell'eterno che continua a sopraggiungere (nello sguardo costituito dal cerchio finito dell'apparire), e che ci spinge sempre più lontano di quanto potremmo aspettarci. Come sapeva molto bene Beethoven, che non si vergognava certo di essersi spinto tanto lontano; e di «amare la verità sopra ogni altra cosa» 143• Che amava incondizionatamente Goethe, peraltro, il quale aveva già capito (da cui la sconfinata ammirazione nei suoi confronti, da parte del compositore) che, solo in virtù dello svolgimento essenzialmente metamorfico dell'identità, il mondo guadagna e si approssima sempre di più al principio dei principi (che Goethe definisce Ur-phiinomen) e alla sua infinita assoluta assolutezza. Goethe, infatti, aveva già intuito che il divenire non implica affatto caduta o dispersione, e tanto meno allontanamento dalla pienezza dell'origine (come un certo romanticismo di impostazione fichtiana - debitore di una certa lettura del pensiero aurorale di Anassimandro - ha sempre rischiato di credere), ma ha piuttosto a che fare con quell'infinito dispiegamento connesso alla natura sempre finita dell'infinito - che d'altro canto non potrebbe neppure essere tale (cioè in-finito) se non in relazione ad un finito di cui riconoscere l'esser già

142. E. Severino, Intorno al, senso del nulla, cit., p. 196 143. Luclwig van Beethoven, Autobiografia di un genio, cit., p. 86.

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da sempre negato, e di cui continuare a mostrare l'inconscia (e inaccessibile, dal punto di vista del cerchio finito dell'apparire) «infinitudine». Ossia di cui, lungi dal poter restituire il volto concettualmente determinato (e dunque linguistico), potremo al massimo intonare il respiro.

Severino e gli altri

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Leopardi, tra filosofia e poesia In dialogo con la lettura severiniana di Leopardi 0

La nobile natura, unendo la ragione alla poesia (avendo rardire di non detrarre alcunché alla verità) diventa e sa di diventare la suprema forma di volontà di potenza: la nobile natura è la ginestra che col suo profumo consola il deserto, pur sapendo che "preso" soccomberà anch'essa alla potenza del fuoco annientante (La ginestra, w. 300-01). 1

Prologo L'Occidente ha sempre pensato che l'essere delle cose fosse intimamente legato al nulla che lo precede; lo stesso cui tutte da ultimo si consegnano. Ha sempre pensato, conseguentemente, che solo un Dio potesse salvarci. Che solo un'episteme, mostrando il fondamento incontrovertibile di tutto, potesse donarci felicità. Uno sguardo epistemico a cui sembrano potersi sollevare, comunque, solo i vivi, almeno secondo Leopardi - che, agli

Volevamo render noto subito al lettore come questo saggio vada concepito quale ripresa e parziale sviluppo della critica da noi già impostata alla lettura severiniana di Leopardi; come ripresa e sviluppo, cioè, di quanto da noi già argomentato nella nota 15 del teno capitolo (Il canto della mimesi) di Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, Bompiani, Milano 2013. 1. E. Severino, In oiaggio con Leopardi. La partita sul destino deltuonw, Rizzoli, Milano 2015, pp. 91-92. 0

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occhi di Severino, incarna una delle forme di massima coeren7.a del nichilismo occidentale. Eppure, la verità dell'Occidente è vista davvero, secondo il recanatese, solo dai morti. Da coloro, cioè, che si trovano definitivamente affidati a quel nulla da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna senza motivo alcuno. Da questo punto di vista (quello dei morti), a meravigliare e ad apparire stupefacente, nonché stupenda, è la dunque vita, e non la morte. Perché nella morte non v'è nulla che possa generare insicurezza; l'ignuda natura, nella morte, appare infatti «sicura»; a stupire potendo essere, invece, sempre e solamente la vita. A differenza di quanto accade ai vivi, che si meravigliano invece per il nulla da cui tutto proviene e in cui tutto sprofonda. Insomma, che qualcosa sia: questo è veramente assurdo; inspiegabile, dal punto di vista più alto. Quello che vede il cuore più profondo delle cose tutte. Anche perché solo là dove ci si solleva al punto più alto della sapienza, secondo Leopardi, ci si inoltra in quel pensiero dei morti a partire dal quale lo sguardo oltrepassa ogni limite e raggiunge i suoi estremi confini. È qui che la vita appare come I'assolutamente inspiegabile ed insensato. Ma insieme stupefacente - «cosa arcana e stupenda», appunto. Ché in verità tutto è nulla; lo capisce bene Leopardi, sempre secondo Severino. Anche il principio di Dio, infatti - agli occhi di Leopardi - è costituito dal nulla. Ogni cosa, cioè, si volge ab origine al nulla; e non ad un certo punto, ovvero, solo prima cli morire. Tutto è creato dal nulla e al nulla le cose tornano come al loro tefus naturale. Anche perché solo questa materia-nulla è infinita, senza limiti; da nessun esistente potendo la medesima venire limitata, o costretta in qualche modo a ritirarsi. Il mondo dell'esistente non può nulla contro di essa; se è vero che anche «l'arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale» svanirà prima di lasciarsi intendere.

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Per questo l'essere è puro caso; caso che, solo, può accadere nel nulla che tutto abbraccia. E il cui accadimento non ha appunto alcuna spiegazione; né potrebbe mai averla. L'unico «perché» (l'unica ragione) dell'esistere essendo appunto costituito(a) dal nulla; che rende nulla, quindi, lo stesso essere, come «pensier grave» costituito da semplice "dolore", che può anelare solamente alla morte; quale unico rimedio (per quanto paradossale) ali'angoscia per la morte. La morte è dunque, da questo punto di vista, sia il male più temuto che il sommo rimedio del male. Ma poi Severino mostra anche come, in Leopardi, venga a disegnarsi la figura costituita dal «coro dei morti» quale metafora contrapposta a quella riconducibile all'Inno a Zeus dell'Agamennone, in cui ci si rivolge al sacro seggio dell'eternità - quello su cui siede il Padre degli dèi. Il coro dei morti, lungi dal cantare il Dio vincitore eterno sulla morte (in virtù del quale ci si propone di cacciare il dolore che culmina nella morte), spegne ogni illusione, tra quelle di norma allestite dalla tradizione fìlosofìca occidentale. Merita anche precisare, comunque, che in esso, a cantare non sono affatto i morti, bensì il genio che vede il «vero» vedendo, in-uno, lo spegnimento di tutte le illusioni generate dalla tradizione fìlosofìca occidentale. Il genio è insomma il vero morto; anzi, l'unica voce con le cui inflessioni ai morti sembra consentito cantare. Ché questi ultimi, in quanto tali, non avrebbero nulla da dirsi o da dire. D'altronde, se l'essere esce provvisoriamente e casualmente dal nulla, nulla sarà anche la sua capacità di contrapporsi al nulla medesimo e di arginare la morte. Solo il genio, cioè, nella fantasia immaginativa di Leopardi, funge da espressione massimamente intensa della forza dell'esisten7.a; che, nel vedere la morte e la nullità di tutte le cose, riesce a guadagnare quella vicinan7.a estrema al nulla che, sola, sembra consentirgli di vedere, di là da ogni illusione, l'unica verità non smentibile,

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costituita appunto dall'infinita vanità del tutto. Nel canto dei morti, ormai l'episteme non vede altro eterno che «il nulla da cui provengono e in cui ritornano le cose». 1 Perché solo nel niente «è niente anche l'estrema angoscia del niente» 2• D"altronde, «i morti risvegliati dal canto del genio tentano di parlare del nulla rimanendo nel nulla>> 3; fermo restando che (ed è quel che più ci interessa) questa immagine, e quel che c"è, di impossibile, in essa (ossia nel nulla che parla, cioè nella voce del genio), è per Leopardi (sempre secondo la lettura di Severino) dotata di una «fot7.a» che, sola, in quanto «fo17.a della visione del nulla, sembra consentirci di sopportare il nulla che in essa si mostra»4• Perché, come dice lo stesso Leopardi, qui citato da Severino, «l'anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa fo17_.a con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria>>5• Passo misterioso, questo ... che cercheremo di interrogare; cercando anzitutto di capire cosa implichi il fatto che «il poetico che canta l'eternità del nulla si presenta appunto come il canto che viene cantato dal nulla, cioè come immagine massimamente difforme dalla verità che vede la nullità del nulla»6• Il fatto è che, per sopravvivere alla visione vera del nulla, il mortale «si solleva nella fo17_.a della voce che canta la nullità del tutto»7• Ossia, si consegna alla voce del «genio». Che solleva dal nulla, proprio cantando e guardando al nulla. Ma come è possibile? Beli'enigma! 1. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 47.

2. Ibidem. 3. Ivi, p. 48. 4. Ivi, p. 49.

5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Ivi, p. 50.

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Sopportare il nulla, cantandolo e conoscendone l'eternità Abbiamo già ricordato come, secondo il filosofo bresciano, quella di Leopardi si costituisca come una delle più vertiginose espressioni del pensiero occidentale proprio perché capace di portarne alla luce il fondo autenticamente nichilistico. Quello che, a lungo, la nostra tradizione avrebbe invece continuato a rimuovere, sen7.a riconoscerlo mai nella sua reale abissalità. Con Leopardi, insomma, ben prima che con Nietzsche, sarebbe venuto in chiaro come, agli occhi dell'Occidente, il contenuto della verità si fosse quasi sempre risolto nella esibizione «della nullità di tutte le cose e dell'infelicità della vita»8 • Ma ora, nella voce del «genio» la vicenda costituita dal pensiero del nostro tempo viene inaugurata da una forma di episteme agli occhi della quale non si vede altro eterno che il nulla. Il mortale si trova al sicuro, nel nulla cantato dal genio; liberato, com'è, dall'angoscia per il nulla. La liberazione della mente dall'angoscia per il nulla - precisa infatti Severino - è data proprio dalla profonda notte del nulla medesimo. Sì, perché «nel niente è niente anche l'estrema angoscia del niente»9• Ed è abbastanza comprensibile che una consapevolezza di questo genere, se lasciata «sola», per dir così, rischiasse di rendere impossibile la vita. Se nulla fosse mai venuto a soccorrere questa lucida consapevolezza, rileva Leopardi (giustamente citato da Severino), «ogni uomo, ogni fanciullo, infatti, alla prima facoltà di ragionare ... si sarebbe ucciso infallibilmente di propria mano» (Zibaldone, 216). Il fatto è che, fortunatamente (potremmo sen7.'altro dire),

8. Ivi, p. 285. 9. lvi, p. 47.

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tra la seconda metà delJ>agosto e i primi giorni dell"ottobre 1820, i Pensieri 10, rendono completamente esplicito il principio secondo cui sarebbero già la semplice 71ositività del sentimento e della cognizione del nu11a - cioè il loro essere non un nulla, ma un essere - a produrre una dimensione (il1usoria) capace di consentire ali"esistenza di non soccombere e sprofondare immediatamente nel nulla. 11

Certo, per Leopardi - ci ricorda sempre Severino - la «sventura» è l'apparire della verità; ma prima o poi le illusioni sembrano destinate a tornare. A consentire alresisten7.a di non soccombere e sprofondare nel nulla è infatti r emersione di determinate illusioni; illusioni che consisterebbero «nel mirare a certi "illusori vantaggi" proprio attraverso la descrizione dell'infelicità e della nullità della vita» 12• In ogni caso, non si tratta, sempre secondo il filosofo bresciano, dell'emersione di uno spettacolo o di una prospettiva diversi o in qualche modo alternativi rispetto a quelli messi a fuoco dalla visione veritativa concernente appunto la nullità di tutte le cose. Importante sottolineare questo fatto, perché non vengano a prodursi pericolosi fraintendimenti relativi al possibile configurarsi di uno scenario realmente e positivamente "alternativo" rispetto a quello messo in luce dalla verità. Che da Leopardi, sempre secondo la lettura severiniana, non viene invece assolutamente disegnato. La radice dell'illusione - quella che non resta comunque mai distrutta (neppure nel tempo della sventura, precisa sempre Severino) - custodisce dunque un segreto: che la sventura

10. Di nonna, Severino, citando i Pensieri, fa riferimento allo 'Zibaldone. 11. E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell"età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, p. 135. 12. Ivi, p. 136.

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stessa sia «un dolore pieno di vita» 13, almeno, quando non affoghi nella noia. Che la piene7:7.a della vita e dunque la capacità di disegnare illusioni "rasserenanti" non si contrappongono astrattamente alla visione dolorosa della nullità dell'essente. Ma sono come miracolosamente generate dal modo in cui quest'ultima finisce per imporsi allo sguardo del Hlosofo. Una stranissima pienezza sembra essere, dunque, quella connessa al dolore provocato dal tempo della sventura e dalla visione del «vero»; sì, perché si tratta, ed è sempre Severino a dircelo, commentando Leopardi, di «una piene7.7.a che in verità è vuoto e nulla, ma che non è sentita come vuoto e nulla, sì che sentire il pieno della vita, nella sventura, è ancora una volta un illudersi» 14• Infatti, se tale pieneZ7.a è il volto del nulla, sentire in essa qualcosa di rasserenante equivale a sentire come rasserenante quello stesso nulla che, sempre secondo Leopardi, è quanto di più doloroso vi sia. Ma, se le cose stessero dawero così, Leopardi si contraddirebbe nella forma più eclatante. E proporrebbe una tesi del tutto scombiccherata. Assurda e insostenibile. Diversamente da come noi, nel nostro Misterio grande. La filosofia di Giacomo Leopardi, abbiamo cercato di rendere ragione del fatto che, all'uomo di genio - pur mettendo lui in luce la medesima nullità (il nulla di senso) riconosciuta dalla 6loso6a nel cuore delle cose e tutte e dell'umana esistenza15 -,

13. Ibidem. 14. Ibidem. 15. A parte il fatto che, nel libro (già citato) da noi dedicato a Leopardi, abbiamo preliminannente messo in questione il modo in cui Severino interpreta il nulla delle cose tematizz.ato da Leopardi (il quale non intendeva affatto riferirsi alrassolutamente altro dalJ>essere, bensl al "nulla di senso"), volevamo qui ricordare anche che, sempre nel medesimo volume, avevamo altresl cercato di mostrare come J>effetto benefico delle opere del genio non dipenda tanto da una misteriosa intensificazione della visione del nulla delle cose, e neppure dalla capacità di costruire mondi fittizi in cui ci si possa

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lo spettacolo terribile della nullità procuri un qualche sollievo ali'animo umano, secondo Severino questo stesso sollievo (destinato a rendere in qualche modo - sia pur temporaneamente - sopportabile l'esistenza) avrebbe a che fare con una non ben determinata «pienezza» paradossalmente prodotta proprio dal sentimento vocato in realtà a sentire e riconoscere, nel modo più lucido e potente, la nullità delle cose. E dunque con una semplice illusione di pienezza, valevole come maschera fuorviante della nullità; che non si capisce come possa rallegrare il cuore, se, nonostante le incomprensibili illusioni offerte dalla poesia, lo sguardo della filosofia continua ad avere davanti agli occhi quel che più fa male, ali'animo degli umani. Il fatto è che, secondo il filosofo bresciano, è sufficiente riconoscere che «la stessa visione del nulla, quanto più essa è intensa e profonda - quanto più è autentica la sua verità-, tanto più essa avverte la propria forza, e cioè, daccapo, avverte come pieneZ7.a la propria nullità, e dunque si illude» 16• D'altro canto, il semplice fatto di avvertire come pienezza la propria nullità significa «illudersi»; ché, propriamente parlando, tale «nullità>> non è la «pienezza» che viene avvertita in relazione alla medesima. Perciò, vivere come piene7.7.a quella nullità significa non rendersi conto di quel che si ha di fronte agli occhi; significa

ritrovare finalmente liberi dalle limitazioni di questo mondo, quanto piuttosto dal fatto che rarte non si costituisce come forma di conoscenza. «Insomma, in quanto artista, oppure in quanto fruitore, posto al cospetto delropera d>arte, ruomo non è mai soggetto di conoscenza (fermo restando che «ruomo soffre solo perché "conosce"») - ossia, non è "soggetto", tout court. Ma "vive", finalmente, e si entusiasma - perché non "conosce", ma "è". È cioè quel nulla di senso che la sua stessa conoscenza gli ha fatto incontrare - ma lo è nella forma del suo stesso esser negato. Ossia, nel suo tornare a farsi "cosa", sia pur nello specchio delranima. Anzi, ad essa (alresser cosa della cosa) ormai resosi perfettamente identico» (M. Donà, Misterio grande, cit., p. 224). 16. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 136.

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non vedere quel che i prapri occhi comunque vedono. Cioè, significa commettere un radicale errore; e non un errore qualsiasi, ma l'errore essenziale - lo stesso che avrebbe corrotto l'intero Occidente, non a caso ... costantemente illuso cli avere di fronte agli occhi l'essere del nulla e il nulla dell'essere (prodotti dal divenire nichilisticamente inteso). L'errore essenziale che avrebbe autorizzato Severino a definire «follia» l'intero pensiero dell'Occidente - da sempre convinto, per l'appunto, sia pur illudendosi, di aver quotidianamente a che fare con il diventar essere da parte del nulla e il diventar nulla da parte dell'essere; ovvero, con l'essere cli quel che non-è e con il non-essere di quel che è. D'altro canto, il vedere la pienezza come nullità o il vedere la nullità come pienezza non dicono proprio questo? Ossia, non reclamano entrambe queste visioni un medesimo impossibile vedere? Il vedere quel che, secondo il Destino, non dovrebbe essere in alcun modo possibile vedere? E che, proprio in quanto impossibile, costituisce una vera e propria illusione. Vedere che l'essere e la sua pienezza non sono, e che il non. ' essere, mvece, e. Allo stesso modo in cui è illusoria, sempre secondo Severino, la persuasione consistente nel vedere il diventar nulla da parte dell'essere e il diventar essere da parte cli quel che sarebbe stato nulla (il morire e il nascere). Ma il fatto è che chi vede la pienezza del nulla, sempre dal punto cli vista leopardiano, non si illude affatto; perché vede le cose per come esse stanno veramente. Insomma (questo, il punto!), sempre secondo Severino interprete cli Leopardi, costui né nasconde né dissimula la verità. Questo, il punto. In che senso, dunque intensificando questa stessa visione, dovremmo riuscire a produrre una serie di illusioni capaci cli rendere sopportabile la vita? «L'opera del genio viene intesa, da Leopardi, come una coscienza e un linguaggio che non si nascondono e non clis-

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simulano mai la verità» 17• Fermo restando che la verità, sempre per lo sguardo nichilistico di chi riconosce la reale nullità dell'essente, è qualcosa che non viene affatto nascosto dall'illusione prodotta dal genio. Lo sguardo del genio, infatti, vede lo stesso nulla già riconosciuto dallo sguardo della filosofia. Leopardi lo dice chiaramente nello Ziba'ldone. Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullitàdelle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire rinevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un'anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noiae scoraggimento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie, servono sempre di consolazione, raccendono entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide ranima, veduto nelrimitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio apre il cuore e ravviva. (Zibaldone, 259/260)

r

E come spiega Severino questa capacità, attribuita ali'opera di genio, di aprire il cuore e ravvivare, se, quel che l'opera di genio finisce per mettere in luce è di fatto la stessa nullità dell'essente ... destinata a rendere sempre e necessariamente infelice la vita? Come spiega cioè questa sua capacità di farsi «rimedio»? Rimedio «contro l'angoscia provocata dalla visione del nulla». Quello che anch'essa ha di fatto davanti agli occhi. Severino la spiega chiamando in causa una sorta di vaghissimo processo di «intensificazione»; evocando cioè «l'intensità di tale visione». Un'intensità che avrebbe anzitutto a che fare con «la purezzadella verità della visione,precisa Severino. Ma

17. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 281.

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anche con la potenza con cui l'opera di genio sarebbe in grado di esprimere la purezza della verità del linguaggio» 18• Interessante questa precisazione. Interessante perché destinata ad evocare una "misteriosa" capacità, da parte del nulla riconosciuto dalla visione del nichilismo,, di farsi oggetto di una visione che non è semplicemente vera,, ma altresì «intensa>>; di una visione,, cioè,, che,, proprio in quanto intensa,, sarebbe in grado di trasformarsi in rimedio. Rimedio nei confronti di quella stessa infelicità che proprio la visione del nulla dell'essente è destinata a provocare - se messa in luce e rilevata, però, da uno sguardo puramente e astrattamente filosofico. Ossia,, se non supportata dalle illusioni generate dalla poesia; che poi - ed è questo il punto! -supporterebbero lo sguardo filosofico (insistiamo) ... in modo alquanto singolare: limitandosi a confermare la medesima nullità da quest'ultimo tanto lucidamente riconosciuta. Solo ... rendendola «più intensa>>! Una visione in grado di «aprire il cuore e ravvivarlo» proprio in virtù di tale processo di intensificazione; e che la rende capace di sollevare l'anima al di sopra del nulla e della fìniteZ7.a da essa medesima messi così lucidamente a fuoco. «Verso l'eterno»,, anzi come «il porsi stesso nella dimensione dell'eterno» 19 • Insomma,, la vita si potenzia, e si innah.a «al di sopra del nulla>>; per quanto,, a dimostrarsi capace di ingrandire l'anima,, sarebbe proprio lo spettacolo di questa stessa nullità: «lo stesso spettacolo della nullità ... par che ingrandisca l'anima ... ,, e la innalzi» (Ziba"ldone,, 260). Il porsi nella dimensione dell'eterno, insomma, verrebbe a coincidere con lo stesso spettacolo della nullità. Come spiegarselo?

18. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 148. 19. Ivi, p. 149.

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Vedere la nullità e - come per un gioco di prestigio - intensificare questa stessa visione al punto da trasformarla nel porsi stesso dell'eterno in quanto tale. Uno sporgersi «verso l'eterno» in cui sarebbe l'eterno stesso ad offrirsi per contribuire a sollevare l'anima al di sopra del nulla così intensamente messo a fuoco. In ogni caso, l'anima riuscirebbe a sentirsi eterna per poco; fermo restando che, per quanto affidata ad un tale sentimento per poco, ossia, in un momento passeggero, l'anima non si senta affatto semplicemente passeggera. Essa, infatti, si sente eterna; sia pur - ribadiamo - in un momento passeggero. Sì, sia pur in questo momento passeggiero, l'anima si sente eterna. Leopardi è chiarissimo a questo proposito: «l'anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa fo17.a con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria>> (Zibaldone, 261). Insomma, è proprio e solo la visione della nullità dell' essente a far sentire l'anima eterna; a farla sentire sollevata, quindi, dalla tristitia comunque generata da quella medesima visione (quella della nullità delle cose). Ma soprattutto, l'anima si trova vivificata e raff017.ata - e intensificato si ritrova anche il suo sentire -, proprio là dove, a spalancarsi, davanti ai suoi occhi, sia la nullità di ogni cosa. Ossia, di fronte allo spettacolo in cui, a mostrarsi evidente è di fatto la sostanziale inconsistenza e la nullità di tutto, di ogni forza e di ogni anima. Certo, Severino precisa: «soddisfazione e consolazione non provengono dalla visione del nulla, in quanto visione del nulla, ma dalla/orza e vi"talità della visione del nulla - che sono sì fo17.a e vitalità di tale visione, ma proprio per questo anche differiscono da essa, poiché sono la purezza della verità della visione, e il suo riverbero nell'anima>>2(). Il fatto è che-ci dice appunto Severino- «la fo17.a e la vitalità della visione del nulla differiscono dalla visione del nulla ... appunto perché sono la pure7.7.a della verità della visione,

20. Ibidem.

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e il suo riverbero nelranima»21 • Ma, proprio per questo, nello stesso tempo, aggiungiamo noi, «non differiscono». Se è vero che, a riverberarsi nell'anima, altro non è che la pure7.7.a di una visione in cui, a venire messo a fuoco, altro non è che il nulla. Severino, insomma, è costretto a distinguere la visione del nulla in quanto tale - riconosciuto appunto dalla filosofia moderna - dalla forza e dalla vitalità di tale visione. Le stesse che verrebbero a disegnare appunto l'illusione che il genio non può mai separare dalla visione di quel medesimo nulla. Si tratta però di capire bene perché mai la/orza e la vitalità connesse alla visione del nulla, in cui nulla di diverso dal nulla verrebbe di fatto reso manifesto, dovrebbero procurare soddisfazione e consolazione. Forza e vitalità che Severino, d'altro canto, identifica con «la pure7.7.a della verità della visione, e il suo riverbero nell'anima» 22 • Dove, peraltro, quel che si fa dawero fatica a capire, è perché mai una forza coincidente con la purezza della visione (del nulla) - con una visione in cui, a venire riconosciuto, sembra essere propriamente e solamente il nulla (da cui la "purez7.a" di tale visione, in cui nulla di diverso dal nulla, appunto, sembra poter rendere impuro il nulla resosi così manifesto) - possa differire dalla visione del nulla, se tale f017.a e tale vitalità non dipendono da altro che dalla purez7.a della visione. Ossia, dal fatto che, in tale visione, a lasciarsi vedere sarebbe nient'altro che il «nulla». Da dove, quindi, ladifferew.a appenaevocata da Severino? Se, a venire riverberato nell'anima, è il puro nulla; se si tratta appunto di una visione la cui intensità sembra non dipendere da altro che dalla sua purev.a. Ossia, dal fatto che, in essa, a lasciarsi vedere sarebbe propriamente e semplicemente il nulla.

21. Ibidem. 22. Ibidem.

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Se le cose stanno così, davvero questa domanda non può avere risposta. Ma Severino precisa ulteriormente la questione. E afferma che la già citata «intensità» della visione in questione (di per sé dolorosissima) dipende dal fatto che il genio poetico «non può separarsi dall'illusione di essere eterno»23 • Insomma, la for7.a e l'intensità della visione del genio sembrano in grado di condurre l'anima «al di sopra del nulla al quale l'anima pur si vede consegnata: insomma, l'anima sa il proprio nulla; ciò nonostante si innalza aldi sopra di esso, nell'eterno»24. Dove resta del tutto incomprensibile, dunque, come da una intensificazione della visione del nulla, possa scaturire l'illusione di eternità. Il cuore si rallegra, spiega Severino, e all'anima si apre il cuore, perché «esce dal finito, dall'effimero in cui era rinchiuso, ed è soddisfatta di se stessa»; della propria disperazione - anche se, aggiunge Severino: «non della disperazione in quanto tale, ma del modo in cui anch'essa si mostra nel linguaggio del genio»2'>. In questa situazione esso, il cuore, è felice, perché si sente sottratto «alla nullità del tutto e si sente eterno - ossia si illude» 26• Si illude, dunque; ed è felice perché non vede le cose per come esse stanno. La felicità, infatti - è sempre Severino a precisarlo-, è ciò che «la conoscen7.a vera dell'annientamento e della nullità del tutto vede impossibile»27 • Il cuore del genio si crede eterno - questa l'illusione essemjale, per l'Occidente. L'anima si sente innafaata ed eterna; ma si sente tale, per l'appunto, in virtù di un'illusione. Ché scambiare la nullità delle cose per una promessa di eternità è

23. Ivi, p. 150. 24. Ibidem.

25. Ibidem. 26. Ibidem.

27. Ibidem.

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illusorio, ma anzitutto ha a che fare con l'impossibile. Impossibile essendo infatti che, proprio vedendo il nulla che si è, ci si possa sentire sospinti verso l'eterno. Non si tratta cioè solo di riconoscere - come fa Leopardi, secondo Severino - l'ineludibile illusorietà di una promessa di eternità generata dalla visione del nulla; ché bisognerebbe piuttosto riconoscere che la trasfigurazione del nulla in eterna positività è un'operazione costitutivamente impossibile; impossibile essendo anzitutto non solo che il nulla «sia», ma addirittura che sia eternamente. «Oh, infinita vanità del vero» (Zibaklone, 69 ). Furore dei poeti, dei poeti lirici, che infiamma l'animo e illude. Ma agli occhi di Leopardi, sempre secondo Severino, anche la calamità, a volte, sembra avere la fo17.a di rivelare al nostro animo la verità sgombra dalle illusioni e insieme di generare un furore simile a quello dei poeti lirici. E dunque una potentissima illusione. Anche nella Comparazione del'le sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a 11Wrte ( 1822), Leopardi evoca - soprattutto nella conclusione - i sapienti che, pur «vedendo la sventura e la nullità della vita, tentano di consolarsi con le illusioni della vita futura» 28 • Per quanto le illusioni come svaniscono nel tempo della sventura, così svaniscono nel tempo del genio;e precisamente: nel tempo del geniosvaniscono tutte le illusioni fuorché quelle legate alla fori;a e alla grandezza con cui il genio mostra la form e la vanità di tutte le illusioni (e quindi anche di quelle che non possono essere separate da questo suo mostrare la verità). 29

Il genio desidera la «gloria>>; e alla luce di questo desiderio, ossia mascherate con il suo volto, rifioriscono le illusioni, rileva sempre Severino in Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi. Gloria e felicità che il genio crede di poter ottenere 28. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 281. 29. Ivi, pp. 281-282.

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«dalla sua stessa capacità di esprimere la vanità delle illusioni e il nulla delle cose»~. Ancora una voltail medesimo problema;e dunque la stessa domanda di prima: cosa ci consentirebbe di "illuderci" intorno al fatto che, per il semplice fatto di esprimere il nulla delle cose, ci si possa "salvare" da quel medesimo nulla, sentendosi addirittura «eterni»? Certo, il genio ardisce sollevare gli occhi mortali incontro alla verità; e proprio questo ardimento sembra consentirgli di affidarsi ad imprescindibili illusioni. Verità generatrice di illusioni, insomma(?). Illusioni che, «per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione restano ancora nel mondo e compongono la massima parte della nostra vita»31 • Insomma, la ragione vede il nulla delle cose, e dunque il «vero» che tutte le abbraccia, ma, nello stesso tempo, e proprio a partire da questa visione, sembra in grado di far attraversare buona parte della vita degli umani dalle illusioni. Sì, perché «non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane»·12• Per quanto si possa perderle, infatti, prima o poi esse riaffiorano; tornano a fiorire, a dispetto di tutta l'esperienza. Anche a Leopardi era accaduto: di essersi disperato «propriamente per non poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura»3.1. Le illusioni tornano; «svaniscono nel tempo della sventura ... ma ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e dall'assuefazione» 34 • 30. Ivi, p. 282. 31. Ibidem.

32. Ibidem. 33. Ivi, p. 283. 34. Ibidem.

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Cenerate dall'intensificazione di cui abbiamo detto poco sopra; sintetizzate con la lucida visione del vero che la filosofia moderna sembra aver da tempo guadagnato. Anche qui, comunque, un altro punto particolarmente interessante; perché Severino insiste a sostenere (ritornandovi più volte nelle pagine seguenti) che là dove la ragione e la filosofia si unissero all'illusione poetica, le medesime (cioè la ragione e la filosofia), in quanto separate dall'illusione (ossia la verità in quanto separata dall"errore, cioè la filosofia moderna), non potrebbero evitare di venire dissimulate, nascoste e dimenticate. E ha ragione; perché la ragione e la filosofia, in quanto separate dall'illusione poetica, non appaiono certo all"intemo di un orizzonte caratterizzato dalla relazione tra ragione e illusione poetica. Nella relazione, infatti, i relati non possono apparire così come apparirebbero in quanto «privi della relazione» in cui si trovano propriamente inscritti. A parte il fatto che lo stesso esser privi di quella determinata relazione ha a che fare con l'«impossibile», in quanto il medesimo sembra sì poter apparire, ma solo se appare la relazione di cui, nell'esserne privi, ci si dice propriamente privi; e dunque, solo in quanto quelli che dovrebbero esser separati dalla relazione, non lo siano affatto. Ma per lo stesso motivo neppure si può dire che dal genio (fermo restando il suo saper tenere insieme «vero» e «illusione poetica») il vero separato dall'illusione sia stato realmente nascosto, dissimulato o dimenticato - come invece afferma Severino. Certo, le opere del genio fanno sentire la nullità delle cose, la «rappresentano al vivo»; rappresentano la verità con forza e grandezza, così come rappresentano «il vano delle illusioni». Sollevano gli occhi sulla verità; ma è appunto questo stesso ardimento (che fa puntare gli occhi sulla verità) «la fo17_.a e

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la grandezza dell'illusione poetica alla quale la verità rimane unita»35• Infatti, se «in quanto separata dalla vita, la verità annienta la vita che la guarda e che si pone in rapporto con essa; unita alla vita della poesia, invece, la medesima fornisce piuttosto il contenuto alla forza e alla grandezza con cui l'illusione poetica canta il nulla e l'infelicità umana>> 36 • Insomma, il contenuto che viene messo a disposizione della forza e della grandezza con cui l'illusione poetica canta il nulla, altro non è che questo stesso nulla così cantato. Si tratta di un nulla trasfigurato, certamente; un nulla capace di rovesciarsi nell'eterno della vecchia metafisica. Ma come si fa a dimenticare quella visione che, certo, nello sguardo del genio, è ormai connessa alle illusioni della poesia, ma che può sempre venire concepita come isolata da queste ultime? Per quanto questo stesso suo esser così concepita non dica il suo esser vera mente isolata dalle illusioni della poesia. Il dimenticato, infatti (ossia, la nullità delle cose isolata dalle illusioni poetiche) non può esserlo. Fermo restando che quel che non può essere dimenticato, deve in qualche modo anche esserlo; deve cioè darsi anche nel suo esser dimenticato, affinché, di questo stesso esser dimenticato, si possa negare l'esser dimenticato. Certo, la nullità è qui (nelle opere di genio) dimenticata nella sua pura astrattezza; in quanto è unita alla vita della poesia. Comunque, proprio in quanto così unita, «fornisce il contenuto alla forza e alla grande7.7a con cui l'illusione poetica canta il nulla e l'infelicità poetica»37• L'illusione poetica, insom-

35. Ivi, p. 285. 36. Ibidem. 31. Ibidem.

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ma, sembra nutrirsi di quello stesso nulla che ci si può anche limitare a "cantare''. Senza poterlo peraltro mai sostituire con altri contenuti, per quanto meno spettrali. Insomma, a rallegrare il cor sarebbe, nelle opere del genio, quello stesso nulla che, allo sguardo della 6losofia moderna, sempre secondo Severino, appare latore di dolore e tristitia inconsolabili. Quello stesso nulla, solo ... intensificato dalle illusioni poetiche; che poi, sempre secondo il Leopardi interpretato da Severino, non dicono nulla di diverso da tale «nulla» ... solo, lo rendono capace di trasfigurarsi, e fanno giungere la 6losofìa a quella sommità resa possibile dal tentativo «di rimettere l'uomo in quella condizione in cui sarebbe stato, s'ella (la 6losofia, cioè la natura in quanto corrotta) non fosse mai nata»38 • Qui Severino cita Leopardi; e rileva: certo, l'uomo non può tornare indietro, perché quello che si è imparato non si dimentica. Insomma, lo stato naturale non può essere restaurato; eppure, la filosofia, se unita alla poesia, può consolare: può aprire il cuore e ravvivare. Insomma, da essa l'anima del lettore può venire ravvivata, ma soprattutto nobilitata, come se potesse tornare ad una sorta di stato naturale (pur non potendo farlo); ma può venire ravvivata solo per breve tempo (per mezz'ora, dice Eleandro nel Dialogo di Timandro e di Eleandro ), spinta «dalla stessa fo17~ con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria» (Zibaldone, 261). Una fo17~ che impedisce al genio di avere un pensier vile o di compiere un'azione indegna. Ma che indica in ogni caso una fo17~ che è la stessa posseduta dallo sguardo rivolto alla morte perpetua di tutto; quello capace di riconoscere il nulla delle cose tutte. Anche il genio, d'altronde, si duole del fato, nel riconoscere «I'eviden7..a dell'uscire e del risprofondare nel nulla, nel riconoscere l'evidenza

38. Ivi, p. 297.

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dell'infelicità del vivente»39; la vede e ne sostiene la vista, ma, ma,giromente (cioè, incomprensibilmente, anche dal punto di vista severiniano), ingrandisce l'anima del lettore, la innalza e la soddisfa in se stessa. Riuscendo a farlo in virtù di una non meno misteriosa «forza>> in grado di trasfigurare quel nulla che di norma affiigge e nuoce in un nulla rigeneratore. Una fo17.a di cui non sarebbe dotata - anche, qui, del tutto incomprensibilmente - la filosofia moderna, o meglio la filosofia in quanto separata dalla poesia. Al punto che Leopardi (cfr. Il dialogo di Timandro e di Eleandro) ritiene che sarebbe meglio dimenticare la verità, ossia la filosofia. «L'ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è che non bisogna filosofare».«>. Severino, qui, cita Leopardi, sottolineando, con il sommo poeta, come la filosofia cerchi e desideri invano di rimediare al male da essa stessa messo in luce; perché «non può riuscire a dimenticare se stessa>> 41 • Insomma, «la filosofia si riduce ormai (come filosofia moderna) a desiderare invano di rimediare a se stessa»42 • Ma - ecco il punto! -, sempre secondo Severino, anche se unita al genio poetico, e dunque alle illusioni della poesia, «la filosofia non cessa di essere dannosissima; e non cessa nemmeno di desiderare invano di rimediare a se stessa>> 43 • Quanto al contenuto, infatti, anche la filosofia del genio (ossia quella unita alle illusioni della poesia) sa che il desiderio di rimediare a se stessa è vano. Sa che ogni tentativo in questa direzione «è destinato a fallire» 44 • 39. Ivi, p. 303.

40. Ivi, p. 307. 41. Ivi, p. 308.

42. lvi, p. 309. 43. Ivi, p. 310. 44. Ivi, p. 311.

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Eppure, aggiunge Severino, «solo unendosi alrillusionepoetica la filosofia raggiunge il punto più avanzato nella direzione di quel tentativo» 45 • Il discorso qui oscilla paurosamente. E allude ad un punto avanzato del tentativo di porre rimedio al male originario, senza spiegare cosa consenta di definire tale tentativo «un punto avanzato», per r appunto.

r

Tuttavia la for.t.a con cui la poesia esprime, nel genio, estrema distruttività della filosofia e l'infinita grandezza del "gran nulla" rende possibile l'ultima forma di sopravvivenza consentita a chi sa che "il tempo delle grandi illusioni è finito". Non solo - continua Severino-. Il genio sa che la filosofia non può essere dimenticata, ma egli non tralascia di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio del misero e freddo vero, come dice Eleandro nel suo ultimo intervento.-16

Certo, una volta conosciuta, la verità non può venire dimenticata - rileva altresì Severino. Eppure, tentare di far dimenticare lo studio del misero e freddo vero «non è una semplice velleità, propria di chi non conoscerebbe il rigore del pensiero fìlosofico»47 • Perché «runione della verità alla poesia è una forma di dimentican7.asolo della verità in quanto separata dalla poesia»48 • Cioè, a venire dimenticata non sarebbela verità in quanto tale, ma (insistiamo) solo la verità in quanto separata dalla poesia. Come abbiamo già più volte ricordato. Solo la verità separata da quella poesia «che ormai è il solo grembo che consente il fiorire e rifiorire delle illusioni»49 • 45. Ibidem. 46. Ibidem.

47. Ivi, p. 312. 48. Ibidem. 49. Ivi, p. 313.

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Eppure, ed è lo stesso Eleandro a riconoscerlo, la verità dura, trista, misera, fredda (quella sconsigliata e deplorata) costituisce anche «il contenuto delle opere di Eleandro, ossia dell'opera stessa del genio»50• D'altronde, è lo stesso Severino a rilevarlo: la verità può produrre questi effetti contraddittori, appunto perché quando produce la nobiltà e la lontanan~ dalla viltà e indegnità essa è unita alla poesia, è il contenuto delle opere poeticomorali che giovano "massimamente"; mentre quando è fonte di bassezza d'animo, iniquità, disonestà e perversità, e insomma dell'opposto della nobiltà, essa può produrre questi effetto appunto in quanto è separata dalla poesia.:$1

Peccato che non vi sia alcuna ragione capace di rendere comprensibile questo doppio possibile esito; che non si capisca affatto, cioè, per quale ragione, se «unita alla poesia, la verità renda nobili, mentre, separata, tolga ogni nobiltà»52• Stante che il contenuto di quella verità che dovrebbe rendere nobili (in quanto unita la poesia) è il medesimo di quella che sembra destinata invece a togliere ogni nobiltà. D'altronde, in quanto detto poeticamente, quel contenuto viene (lo ribadiamo) semplicemente «intensificato»; ragion per cui dovremmo al limite riconoscere, al contrario (almeno, dal punto di vista logico), che il dolore provocato da/,le opere di genio è ancor più intenso di quello provocato dalla filosofia 11Wdema (dalla filosofia separata dalla poesia). Perché procurato da una visione ancora più intensa del male di vivere.

50. Ibidem. 51. Ivi, pp. 313-314. 52. Ivi, p. 314.

321

Come può Severino giustificare insomma il fatto che veder quel nulla più intensamente (appunto, grazie al geniopoetico) produca illusioni, e soprattutto conduca il lettore verso quell'eterno che del nulla costituisce appunto la più radicale antitesi? Eterno è infatti l'essere; che mai, secondo il logos, può diventare nulla. Eppure, tale intensificazione, già per il fatto di produrre qualcosa di positivo (le illusioni, per l'appunto), è illusoria; ché comporta che si ritenga possibile che il nulla generi qualcosa di essente (le illusioni). O si faccia «essere». Dal nulla ali'essere, insomma: questo il fondamento dell'illusorietà della rigenerazione provocata dall'unione di poesia e filosofia. Forse, allora, che il cor si rallegri, in virtù di tale illusoria poiesis, dipende dalla semplice possibilità (intorno a cui ci si illuderebbe, per l'appunto) che quel che non è nulla, sembri qualcosa. Ma Leopardi, sempre secondo Severino, rappresenta il punto estremo della coeren7.a dell'Occidente. Per questo che «il nulla sia e l'essere non sia» costituisce ai suoi occhi (quelli di Leopardi) l'unica verità, che non possiamo più rimuovere o nascondere, al punto in cui si profila la testimonianza del genio recanatese. Per questo, quel che la poesia può fare, nel venire in soccorso della filosofia - destinata al paesaggio deprimente illuminato, di fatto, dal suo sguardo -, non è altro che intensificarne la visione. Non certo sostituirne il contenuto, o nasconderlo. Ma rendere più intensa, e dunque più lucida, la consapevolezza di quel male originario. Che esibisce appunto la nullità di tutto. Che questa azione intensificatrice può solo rendere ancora più "evidente", dunque. Più intensamente evidente. E più vivida. Capace perciò stesso - ecco il punto! - di produrre una pienezza che in verità è vuoto e nulla, ma che non è sentita come vuoto e nulla, sì che sentire ù pieno della vita, nella sventura, è ancora una volta un illudersi - secondo quanto già rilevavamo all'inizio di queste pagine.

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Fermo restando che Leopardi non parla mai cli quella unità di filosofia e poesia che gli attribuisce Severino. E tanto meno di una unità che determinerebbe la rimozione della filosofia separata dalla poesia. Leopardi si limita infatti ad attribuire un potere meclicamentale agli scritti poetici e alle opere di genio (questo fa anche nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, così come nello Zibaldone). Per lui, la filosofia dovrebbe venire cancellata dal mondo; e non, semplicemente, la filosofia in quanto separata dalla poesia. Ma la filosofia tout court. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro lo dice chiaramente, il recanatese; che la filosofia è «dannosissima»; anche solo per il fatto che non è in arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute. Certo, anche la poesia (le opere cli genio) vede il nulla che causa tanta infelicità (senza bisogno di unirsi alla filosofia); ma, a clifferenza della filosofia, che se ne dispera (perché essendo chiamata a conoscere, e riconoscendo, da ultimo, che nulla è realmente conoscibile - perché nulla ha senso -, non può che generare affiizione), non patisce alcuno scacco. Insomma, nulla cli simile alla delusione esperita in relazione al bisogno cli conoscere. D,altronde, il poeta può non patirlo solo per un motivo: perché ha rinunciato ad interrogarsi. Come a dire che, in quanto poeti, non si è più soggetti di conoscenz.a.

Il poeta, infatti, non vuole un senso (come abbiamo spiegato in modo ben più articolato nel già citato Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi); il poeta, cioè, si fa cosa tra le cose. E non domanda. Non si interroga più animato dalla speran7.a di trovare delle risposte; ossia, cli rinvenire, prima o poi, un senso positivo (che mai potrà essere rinvenuto) che possa fungere da credibile risposta alle nostre domande. Perciò, nel Dialogo già citato, Leopardi dice chiaramente che il poeta

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(cioè lui stesso) potrà anche ridere di questa intrascendibile insensateZ7.a. Come aveva fatto Democritd>-1. Non interrogandosi più, il poeta vede da fuori, la ridicolaggine del filosofo che vive il nulla di senso, ossia, il nulla che abbraccia ogni cosa, come una prova provata dell'inimicizia della natura; come un suo dispetto nei nostri confronti. Come una messa in questione delle nostre pretese pratico conoscitive. Solo «ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo» - afferma esplicitamente Leopardi. Sa bene, infatti, il nostro, che «ridere dei nostri mali è l'unico profitto che se ne possa cavare e l'unico rimedio che vi si trovi» 54• Come a dire che la vera disperazione «ha sempre nella bocca un sorriso», e proprio in ragione della lucida consapevolezza - attribuibile appunto al filosofo, ma anche al poeta - del fatto che a tale infelicità «non si possa riparare in nessun modo»55• Cosa fare, dunque, se non ridere, di fronte ali'assurdità della vita, ma ancor di più, di fronte ali'assurdità della nostra pretesa che la vita non sia assurda? Come sapeva bene anche Kafka, che, non a caso, leggendo agli amici i propri "destabili7.7.anti" e "agghiaccianti" racconti, finiva sempre per ridere a crepapelle.

53. Il riferimento è al dialogo di Luciano in cui vengono contrapposti il riso di Democrito al pianto di Eraclito (Una vendita di vite alt-incanto).

54. G. Leopardi, Dialogo di Timandro e di Fleandro, in Id., Operette morali, Garzanti, Milano 1988, p. 266.

55. Ibidem.

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Emanuele Severino, lettore di Giacomo Leopardi e Giovanni Gentile

In che cosa consisteressenziale della metafisica? Nel legame che essa stringe (o che, più esattamente, cerca di stringere) fra la dimensione empirica delrapparenza e la dimensione soprasensibile della verità. L,.esperien~, dunque, come uno dei due poli tra i quali si instaura (o si assume che debba instaurarsi) questo rapporto, è non meno importante per rindiri:ao continentale che per quello empiristico della metafisica europea.•

Cominciamo ricordando anzitutto questo: che, per Emanuele Severino, il cosiddetto tramonto degli immutabili è determinato, in modo necessario, dalla fede nel divenire; una fede che peraltro «è fondamento del legame che unisce il pensiero al divenire e all'instabilità del linguaggio ... un legame che rompe ogni altro legame e ogni altro nesso necessario che l'episteme si illude di stabilire tra le cose»2• E dunque anche quello che connette pensiero ed essere (un legame condotto alla sua massima radicalizzazione dalla prospettiva idealistica). Proprio a questo proposito, giunge quanto mai opportuno l'idealismo attualista di Giovanni Gentile a mostrarci che l'affermazione di un essere trascendente il pensiero richiede

1. M. Visentin, Il neopamumidismo italiano., voi. I, Le premesse storiche e .filoso.fiche. Croce e Gentile., Bibliopolis., Napoli 2005, p. 12. 2. E. Severino, Cosa arcana e stupenda. VCkcidente e Leopardi., Rizzali, Milano 1997, p. 105.

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che tale essere si comporti come un immutabile, rispetto al divenire evidente dell'esperienza, cioè del pensiero: un immutabile che quindi anticipi il divenire, e lo vanifichi: vanifì. t'" can done la "sene a . Sì, perché, se per un verso, sin dalle proprie origini il pensiero occidentale sembra essersi fondato sull'eviden7.a del divenire, «solo un poco alla volta quest'ultimo sarebbe riuscito a liberarsi da ciò che, lungo la storia dell'Occidente, lo aveva ostacolato, rendendolo impossibile e inintellegibile, in quanto in contrasto con la sua evidenza originaria»3• Una volta riconosciuta l'eviden7.a del divenire, il divenire non si sarebbe potuto accontentare di rimanere una parte del tutto; doveva cioè diventarlo, il tutto; e lo sarebbe diventato proprio grazie alla distruzione di ogni immutabile. Insomma, se il divenire c'è, e appare, allora «l'unico che può esistere è il divenire»4 • Il divenire, dunque, non può che essere "assoluto", nulla potendo normarlo, condizionarlo o limitarne la portata innovativa - «il sopraggiungente è novità assoluta, non anticipata e non predeterminata, nella misura in cui esso è un niente che diventa essere»5• In quanto predeterminato dall'immutabile, infatti, il divenire - rileva sempre Severino- sarebbe «solo apparenza»6• Eppure, lungo lastoria dell'Occidente, «la persuasione che il divenire sia l'evidenza originaria è stata contrastata dalla persuasione che gli immutabili e gli eterni esistono» 7• Una persuasione che avrebbe finito per rendere impossibile la stessa

3. E. Severino, Gli abitatori del, tempo. Cristianesinw> marxismo> tecnica, Armando Editore Milano 1996, p. 117. 4. Ibidem.

5. Ibidem. 6. Ivi, p. 118. 1. Ibidem.

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eviden7..a del divenire. Per questo, da ultimo, il divenire avrebbe finito per distruggere gli immutabili, da sempre ineluttabilmente vocati a depotenziarne l'assolute7.7.a. Ecco perché l'attualismo gentiliano sarebbe pervenuto alla definitiva distruzione della realtà presupposta al pensiero- con cui, peraltro, il divenire era stato da ultimo identificato. Pervenendovi a partire dalla consapevolezza secondo cui quest'ultima (la realtà presupposta al pensiero) non avrebbe potuto fare a meno di impedire lo sviluppo del pensiero(= divenire). Cioè, del pensiero in quanto pensiero in atto. Quest'ultimo, infatti, sarebbe stato costretto ad adeguarsi ad una realtà presupposta rispetto alla quale avrebbe dovuto necessariamente riconoscere la propria sostan7..iale impotenza. Il pensiero e il divenire avrebbero finito per riconoscersi come totalità del reale. Insomma, neppure il divenire (il divenire della realtà concepita come esterna al pensiero) poteva venire presupposto al pensiero; neppure esso si sarebbe lasciato concepire come antecedente del pensiero, ché in questo modo avrebbe finito per rovesciarsi in immutabile «che daccapo e in modo altrettanto inflessibile avrebbe reso impossibile l'autentico divenire in cui consiste il pensiero in atto»8 • Le sue leggi, cioè, si sarebbero rivelate in ogni caso prestabilite - al punto da farsi limiti invalicabili per le manifestazioni empiriche del divenire della realtà. E il suo divenire sarebbe diventato un semplice «divenire dipinto»9 • Da ciò la serietà della storia temati7..7.ata da Gentile; una storia che tutto sarebbe destinata a travolgere, rispetto a cui nulla, cioè, sembra potersi imporre quale condizione immutabile (permanente) della storia medesima. Una storia costretta a riconoscere quindi un unico immutabile: il proprio divenire.

8. Ivi, p. 119. 9. Ivi, p. 121.

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Da cui, peraltro, la debole7.7.a delle critiche rivolte da Spirito a Gentile. La fedenell'evidenza del divenire, infatti, «è certamente un immutabile - rileva Severino - ma è quell'unico immutabile che consente al divenire di mantenersi aperto come divenire» •0• D'altro canto, cosa anticiperebbe questa anticipazione?, si chiede il filosofo bresciano. «Di tutto ciò che sopraggiunge anticipa che esso esce dal niente, ossia anticipa il suo non essere anticipabile» 11 • Insomma, l'anticipazione in cui consiste la coscienza che tutto è divenire, «è quell'anticipazione che riconosce e conferma la nientità originaria di ciò che sopraggiunge, e quindi non la trasforma in un già esistente, e quindi non vanifica il processo del divenire» 12• Certo, poi la filosofia - che, in quanto attualismo, apre lo spazio ad una volontà di potenza destinata a separare I'ente dall'essere, e a non poter più tollerare alcun immutabile diverso dall'assolutizzazione del divenire medesimo - è essa medesima destinata a venire travolta dalle forze cui lo spazio così apertosi avrebbe consentito di manifestarsi: le forze della prassi. E in particolare «la dominazione del mondo che ha ormai distrutto ogni altra forma di dominazione del mondo ... la domim17jone tecnologica» 13• Lo spazio da essa aperto è infatti lo spazio della «separazione di ciò che è dal suo «è»; ossia è il divenire, la dialettica, la storia» 14 • Uno spazio in cui ha necessariamente maggior gioco la potenza che crea e produce con maggior libertà- in quanto libera da qualsivoglia ipotetica limitazione alla poten7.a della sua creatività. Come quelle religiose o economiche; rispetto a 10. Ivi, p. 123. 11. lvi, pp.123-124. 12. Ivi, p. 124. 13. Ivi, p. 127. 14. lvi, p. 126.

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cui solo la tecnica può dirsi indifferente, sì da travolgerle tutte, senza alcun tentennamento. Finendo per travolgere «tutti gli dèi immutabili dell'Occidente, ed anche la Verborgenheit heideggeriana, così come la teoria e l'escatologia marxista che, come gli altri dèi immutabili, rendono anch'essi impossibile la storia .... mentre la produzione scientifico-tecnologica non si sovrappone al processo creativo e distruttivo della storia, ma vi si immedesima e lo guida dall'interno» 15• Insomma, la scienza, con le sue previsioni ipotetiche, lascia comunque l'ultima parola al divenire; inscrivendovisi e cercando sì di guidarlo, ma senza porre al medesimo alcun limite invalicabile. È lo stesso Severino, d'altro canto, a ritenere questo esito inevitabile proprio a partire dalla convinzione relativa all'evidenza del divenire, o meglio, del pensiero concepito come divenire (nell'accezione gentiliana, in particolare-quella più radicale, che meglio di ogni altra sembra preparare il terreno al dominio incontrastato della tecnica). Un esito inevitabile, che avrebbe costretto l'Occidente a liberarsi di tutto ciò che, in quanto determinazione dell'immutabile, avrebbe limitato la potenza creativo-distruttiva del divenire. Limitandola al punto tale da rendere il divenire "mera apparen7.a" - come abbiamo visto poco sopra, riferendoci a quanto scritto dallo stesso Severino. Insomma, se c'è l'immutabile, il divenire viene da ultimo afferrato dall'immutabile, che lo incatena e lo pre-comprende, impedendogli di essere quello che è. Infatti, in quanto afferrato dall'immutabile, quel che ancora non è, è già qualcosa; e dunque non è nulla. E dunque il divenire non è divenire. Ché, c'è divenire solo dove si dia un vero e proprio passaggio dal nulla al]' essere. Insomma, se v'è un immutabile, il divenire diventa impossibile; di là dal-

15. Ivi, p. 131.

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la convinzione che ha formato il senso comune e che, anche a partire dal]'eviden7.a del divenire, fa credere ai più che un Dio vi sia e sovrintenda alle vicissitudini della storia, o che un senso unitario della storia possa profilarsi, e si tratti solo di rintracciarne le coordinate. Ecco, di là da tali convinzioni, quel che ognuno dovrebbe ammettere è invece che il divenire a partire dal quale (o per difenderci dal quale) siamo tutti ricorsi all'idea di una realtà immutabile, viene da quest'ultima destituito di qualsiasi fondamento. Ossia, viene reso letteralmente impossibile. Perciò, chi crede dawero nell'esisten7.a di una realtà immutabile, e non intende rinunciare a questa persuasione, dovrebbe da ultimo rinunciare al divenire - pur essendo proprio a partire dalla convinzione di aver a che fare con il divenire, che si è giunti all'ipostatizzazione di una realtà immutabile. Anche Leopardi, come Gentile, sempre secondo Severino, ritiene che si possa essere felici solo voltando le spalle alla verità secondo cui tutto sarebbe nulla; secondo cui, cioè, saremmo tutti circondati dal nulla del passato e dal nulla del futuro. E dunque da una identità di essere e nulla cui sembra destinarci la stessa natura temporale che ci rende così originariamente sospesi tra un passato e un futuro. Anche Leopardi, cioè, proprio come Gentile, ritiene che la verità coincida con la coscienza relativa all'intrascendibilità del divenire. Stante che, ovunque si provi a fuggire, nel passato o nel futuro, non ci si potrà che trovare nella medesima nullità; e dunque nel non essere dell'essere - nel non essere da parte di quel che solo ora, nel presente, per l'appunto saremmo. Anzi, Leopardi è il primo che, in piena modernità, si rende lucidamente consapevole del fatto che «I'esisten7.a del divenire implica l'inesisten7.a di ogni eterno e di ogni immutabile, sì che la ragione non ha più come contenuto l'eterno, l'immutabile e l'infinito; ma permane (la ragione) come esperienza, visione evidente e incontrovertibile del divenire dell'essen-

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te e quindi della struttura che compete ali'essente in quanto esso diviene» 16• Insomma, Leopardi e Gentile: due tra le più coraggiose radicalizzazioni del Nichilismo. E dall'altro Severino. Ed è proprio nei testi dei primi due giganti che l'Occidente si lascia definitivamente alle spalle (ma la stessa cosa sarebbe accaduta anche con Nietzsche, che andrebbe dunque aggiunto ai due italiani) l'illusione secondo cui la nullifìcazione universale sarebbe evitabile grazie al provvidenziale intervento di un eterno finalmente capace di precomprendere ogni accadimento e ogni solo apparente novità. O meglio, in Leopardi tale illusione rimane in vita, ossia un eterno si profila all'orizzonte, ma solo nell'orizzonte disegnato dallo sguardo incantato e in qualche modo «sereno» del poeta o dell'artista. Dall'altro lato, dicevamo: Severino. Solo lui. Sì, perché nelle forme classiche di episteme (quanto meno da Platone a Hegel) si cerca di tenere ancora insieme l'evidenza del divenire e la posizione dell'immutabile (concepito e temafu.7.ato per salvaguardare il divenire da un esito inevitabilmente catastrofico). Ma questo è impossibile, e Severino lo spiega con grande chiarezz.a ne Il sentiero del Giorno. Nella storia del pensiero metafisico, "Dio'' viene dapprima pensato come ciò senza di cui il "mondo" non potrebbe esistere; ma poi ci si rende conto che "Dio" non può esistere, perché altrimenti impedirebbe resistenza del "mondo". Giacché le cose del "mondo" possono essere state per davvero un niente e possono per davvero ridiventare niente, solo se non sono pre-contenute in "Dio" (solo cioè se non esiste la dimensione divina, rispetto alla quale la nientifìcazione e la creazione degli enti - che sono ritenute un dato evidente - sarebbero irreali). 17

16. E. Severino, Il nulla e la poesia alla fine dell'età della tecnica: Leopardi, Rizzali, Milano 1990, p. 170. 17. E. Severino, Il sentiero del Giorno, cit., p. 181.

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Insomma, se esistesse un immutabile, nessuna contingen7.a sarebbe consentita - in quanto destinata a farsi mera apparenza. L'Occidente, comunque, ha optato per la contingen7.a come cifra della totalità dell'essente; solo Severino avrebbe scelto l'immutabile. O meglio, l'immutabilità della totalità delI'essente. Le posizioni intermedie, infatti, come Severino ha mostrato con grande potenza argomentativa nel corso di tutta la sua riflessione, sono destinate a tramontare. Cioè, ferma restando la fede nell'eviden7.a del divenire, il destino avrebbe necessariamente fatto, di quest'ultima, l'unica fede dell'Occidente. Mettendo fuori gioco come totalmente residuali le forme di ancoraggio a qualcosa di immutabile. E dunque l'Occidente in toto, per quel tanto che esso pretenda di «affermare l'Essere immutabile sulla base della fede che l'essente sia nel tempo» 18• L'Occidente non ha mai voluto rinunciare alla fede nell' evidenza del divenire; ali'eviden7.a di ciò che nella nostra tradizione hanno sempre significato parole come storia, processo e "dignità dell'uomo" (il riferimento, qui, è a Pico della Mirandola, e al suo De hominis dignita,te) 19 • Solo Emanuele Severino, dunque, ha preso sul serio le conseguenze di un pensiero vocato ad affermare l'eternità dell'es-

18. E. Severino, Dike, Adelphi, Milano 2015, p. 58. 19. Imprescindibile, insomma, il riferimento al magnifico JJiscorso sulla dignità dell/uomo di Giovanni Pico della Mirandola, che proprio deU>infinita metamorfìcità della natura umana fa una vera e propria condizione di felicità. Per Pico, infatti, «ruomo è il più felice degli esseri animati ... un miracolo grande ... opera di natura indefinita ... non costretto da nessuna barriera ... quasi libero e sovrano artefice si plasma e si scolpisce nella forma che avrà prescelto ... » ( Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla digni-tà dell"uomo, Editrice la Scuola, Brescia 1987, pp. 3-7). Potremmo definire "nichilismo felice'° una prospettiva di questo genere, che ritiene ressere umano capace di diventare qualsiasi cosa in quanto non ancorato ad alcuna forma immutabile.

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sente (e anzitutto la conseguente affermazione dell'eternità del tutto); o meglio della totalità dell'essente - anche perché se qualcosa è eterno, il divenire è destinato a rivelarsi apparente. Per quanto, nelle opere del filosofo bresciano l'affermazione dell'eternità dell'essente (in quanto essente) non venga assunta come «vera» solo perché, stante la sua veridicità, il divenire sarebbe destinato a mostrarsi in tutta la sua illusorietà. Nei testi di Severino si mostra, più semplicemente, che l'essente non può non essere eterno. Neppure si pone qualcosa di eternoper alleviarel'angoscia provocata dal divenire; dove anche l'eterno così posto rimarrebbe oggetto di una fede del tutto ingiustificata. Per quanto non di rado, perlomeno in actu signato, I'eterno sembri essere reclamato dal divenire come ciò sen7.a di cui quest'ultimo non avrebbe neppure potuto costituirsi come divenire. La metafisicaclassica (in particolare quella tomista, ma in verità già a partire da Melisso - come si mostra in Ritornare a Pannenide) ha cercato l'essere immutabile, sfo17~ndosi di dimostrarlo a partire dalla convinzione secondo cui «l'immutabilità dell'essere sarebbe fondata sul principio dell'ex nihilo nihù»m. Insomma, si dice: se l'essere è stato nulla - e non si vede neppure l'assurdità di tale ipotesi-, nulla si sarebbe potuto generare. Perciò vi dev'essere un principio che renda possibile tale generazione. Un principio, per l'appunto, immutabile. Anche nel discorso di Bontadini, rileva Severino - un discorso secondo cui, se l'essere diviene, è naturale che in qualche tempo non sia stato -, si afferma che l'essere non è originariamente limitato dal non-essere, anche perché, se fosse così, quest'ultimo diventerebbe una positività (nella misura in cui fosse in grado di arginare il positivo). Ma il positivo non è il negativo; dunque, il non-essere non limita affatto l'essere ...

20. E. Severino, Ritornare a Pannenide, Paideia, Brescia 1972, p. 33.

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e solo per questo il divenire (in cui l'essere è limitato dal nonessere) non è l'originario, «ossia è trasceso dall'essere illimitato (immutabile) e limitante»21 • Insomma, dall'antichità sino al Novecento, là dove si evochi la necessità di un essere immutabile, la si evoca perché senza di esso - così, almeno, si crede - il divenire risulterebbe contraddittorio. Peccato che - come mostra in lungo e in largo Severino - il divenire è contraddittorio in quanto tale, e non per le conseguenze ricavabili dalla sua struttura in rapporto al principio dell'ex nihilo nihil. Il fatto è che - in ciò la radicalità della tesi che viene a disegnarsi nelle opere del bresciano -, se l'essere non può non essere, allora l'essere (ogni essente) «è» eterno; ossia è per l'eternità. Insomma, l'essere immutabile (nella prospettiva disegnata da Severino) è l'essere in quanto tale; e non solo un certo tipo di essere - ossia, quello salvato dalle conseguenze cui l'essere sarebbe destinato in quanto diveniente (quello reso manifesto dalla nostra esperienza). La sua cioè non è l'episteme evocata ad esempio in Legge e caso 22; quella che precede l'accadimento dei puri fatti; e che apre «il Senso immutabile ed eterno al quale ogni fatto deve adeguarsi» 23• Quella, cioè, ritenuta intollerabile anche da Leopardi (che la definiva «amor di sistema>>), anche se per motivi opposti rispetto a quelli evocati da Severino. Per Leopardi, infatti, non è possibile giudicare le cose avanti le cose, prima che esse siano; per questo il recanatese è il primo (prima di Nietzsche, prima di Gentile e di chiunque altro) a condurre il nichilismo alle proprie conseguenze più radicali. È il tema specifico e fondamentale «che sarà sviluppato da tutta la filosofia contemporanea e che Leopardi porta per pri-

21. E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., p. 39.

22. Opera di Severino pubblicata da Adelphi nel 1979. 23. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 53.

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mo alla luce»24 : quello dell'impossibilità di dire alcunché delle cose, prima che esse siano. Che poi significa riferirsi all'impossibilità di qualsivoglia episteme (moderna o antica). Fermo restando che Leopardi crede sia possibile un Essere onnipotente; possibilità che ai suoi occhi resta comunque unita alla tesi secondo cui «nulla sarebbe assoluto né quindi necessario» - insomma, quell'Essere può sussistere ab aetemo. Anche se lo stesso Dio, per lui, sarebbe potuto non esistere. Da cui l'infelicità costitutivamente caratterizzante l'umana esistenza; alleviata solo dal canto della poesia, che, pur «dicendo il proprio annientamento, s'innalza al di sopra di esso e s'illude, in silenzio, di essere eterno»25 • Ma per l'appunto, s'illude. Oltre la nullità dell'essere, infatti, vi sono pure illusioni. Pure fantasie sono dunque quelle che ci fanno credere di essere «in qualche modo» eterni. Agli antipodi del pensiero oltre-metafisico proposto da Emanuele Severino, dunque; per quest'ultimo, infatti, illusorio (radicalmente illusorio) è piuttosto che l'essente possa non essere. Ossia, che vi siano dei tempi (il passato e il futuro) in cui l'essente non sia. Insomma, Leopardi (insieme a Niet7.sche e a Gentile; comunque successivi al recanatese) contra Severino. Tutto il resto, qualsiasi altra posizione, mediana tra questi due opposti convincimenti, si sarebbe rivelata impossibile. E perciò stesso destinata a naufragare; in quanto fondata su un"insostenibile "polarità'". Eccolo, uno dei guadagni più importanti dell"esegesi operata da Severino nei confronti della storia della metafisica: per lui, cioè, oltre il nichilismo radicale rigoriv.ato da Leopardi, Niet7.sche e Gentile, può esservi solo il discorso del Destino. O la contingen7~ universale e il caso oppure la necessità; nel gergo severiniano, il Destino.

24. Ivi,. p. 54. 25. Ivi,. p. 155.

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Questo, l'esito cui le stringenti argomenbuJoni severiniane conducono il lettore. Perciò le moltissime obiezioni "parziali"' al discorso di Severino sono risultate tutte tragicamente fallimentari. Non è possibile smussare il senso epistemico dell'essere; ossia, tenere in piedi tanto uno spazio per la libertà dell'agire quanto la potenza del logos severiniano; oppure, uno spazio per il Dio cristiano e uno spazio per la cogenza dell'argomentazione severiniana. In troppi hanno tentato mediazioni di questo genere. Perché il discorso di Severino è assolutamente stringente; ineleudibile. Se l'essere è eterno, tutto è eterno. Se dobbiamo affermare l'eterno, non possiamo affermare - per quanto parzialmente - la contingenza dell'essere. Se l'essere è eterno, nessun Creatore può esser tenuto in vita. Il Creatore, infatti, presuppone il nichilismo, ossia la fede nel divenire, e dunque la convinzione (più o meno consapevole) relativa alla nullità dell'essere; ma è anche destinato a naufragare proprio in base a tale convinzione. Sì, perché il Nichilismo non lascia spazio ad alcun rigurgito epistemico; l'hanno definitivamente mostrato tanto Leopardi quanto Gentile. Se il nulla e l'essere trafficano, contaminandosi reciprocamente, e se questo è il senso dell'originario, nulla sembra poter depotenziare o sanare le ferite determinate da tale contaminazione. Nessun vaccino sembra poter salvare l'essere o predeterminarlo, sottraendolo ad una destinale e irrimediabile nullificazione. Così come nessuna legge e nessun principio sembrano capaci di depotenziare (condizionare o limitare) la potenza creativa di una volontà intenta ad operare su quel che, in quanto nulla, deve sì potersi offrire ad una manipolazione assolutamente libera da vincoli di sorta, ma sen7.a riuscire a liberare l'uomo dall'infelicità: come mostra bene Leopardi. Ché, è proprio la cognizione del vero (del «vero» nichilisticamente inteso - relativo, cioè, alla consapevoleZ7~ della nullità del tutto) a destinare gli umani ad una irrimediabile infelicità.

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Ma proviamo ad utilizzare proprio Leopardi per cercare di capire se, dawero, questo esito tragico - messo così potentemente a tema da Severino - sia dawero ineludibile. E chiediamoci anzitutto: è proprio vero che, come rileva sempre Severino, «là dove la ragione raggiunge il più grande dei suoi "grandi effetti'' - là dove essa si unisce alla poesia-, là essa avrebbe bisogno di ciò che essa stessa distrugge e da cui essa è distrutta»~ Che là essa avrebbe bisogno dell'immaginazione; ossia delle illusioni che essa medesima sembra aver anche il compito di distruggere. Come rileva lo stesso Leopardi. Certo, essa {la ragione), unendosi alla poesia, riesce a sopportare la visione del nulla. Infatti, come dice Leopardi - opportunamente citato, qui, da Severino-, «l'anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa fo17_.a con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria» 27 • Insomma, il canto della poesia sarebbe in grado di dare fo17_.a alla visione della morte - secondo quanto ci suggerisce l'allievo di Bontadini. Il poetico, cioè, proprio differenziandosi dalla verità, sembra in grado di far crescere la fo17_.a da cui l'animo riceve vita. Certo, si tratta del poetico «che canta l'eternità del nulla», ma «si presenta come canto intonato dal nulla, e dunque come immagine massimamente difforme dalla verità che vede la nullità del nulla»28 • Infatti, qui il nulla non è nulla; ma canta, addirittura. Il canto, cioè, si propone di difenderci dalla visione della verità, da cui il canto del genio, peraltro, neppure può separarsi - in quanto questo canto svela tutti i perché della vita, svelando che «essi non possono ricevere alcuna risposta dal nulla che circonda la vita e I' esisten7--a; e questa è la risposta che li risolve tutti» 29 • 26. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 387.

27. Ivi, p. 49. 28. Ibidem. 29. Ivi, p. 51.

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La vita è ignota> perché nulla può farla presagire> fondata> com'è, sul nulla. Infatti, «che l'essere sopraggiunga ''in mezzo al nulla" è puro caso»30• La voce che libera dalla paura della morte illude, certo; perché fa del nulla un essente ... facendolo addirittura cantare; ma «per liberarmi con verità da questa angoscia non posso che pensare all'eternità della morte> risponde il coro dei morti» 31 • Insomma, «il mortale è posto al sicuro non nell'eternità di Dio, ma nell'eternità della morte» 32• Sarebbe il nulla, insomma, a salvarci dalla profonda notte del nulla. Ma in un modo assolutamente paradossale. Ché, se il nulla presente davanti allo sguardo della poesia fosse il nulla concepito come "assolutamente" altro dal]'essere, davvero non si capirebbe come tale visione, «quanto più sia intensa e profond~ tanto più possa avvertire la propria forza, avvertire come pienezza la propria nullit~ e per ciò stesso illudersi»33 • D'altro canto, è lo stesso Severino a precisarlo, citando Leopardi: questa visione del nulla di tutto è la "morte della vita" ... il nulla dell'esistenza. Ma aggiunge, subito dopo - in modo difficilmente concepibile -, che comunque «l'esistenza e la vita possono essere o senza vigore o intense e vigorose nel loro sguardo sul nulla: la noia è il loro indebolimento estremo; I'opera del genio, nell'unità di poesia e filosofi~ è il loro estremo vigore»34 • Certo, anche Leopardi lo riconosce. È il recanatese, infatti, ad affermare:

30. Ivi, p. 53. 31. Ivi, p. 47. 32. Ibidem.

33. E. Severino, Il nulla e la poesia alla fine deltetà della tecnica: Leopardi, cit., p. 136. 34. Ibidem.

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le sue opere, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l'inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un'anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita ... servono sempre di consolazione, raccendono entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio, apre il cuore e ravviva.~

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Ma, insistiamo, cosa può rendere uno spettacolo tanto avvilente (quel'lo stesso che veduto nella realtà delle cose accora e uccide) vera e propria fonte di entusiasmo, rendendolo addirittura capace di aprire il cuore e ravvivare? Come può la coscienza della verità, ossia la visione della nullità di tutto, «awertire come pienezza la propria nullità, e dunque illudersi»36? Evidentemente, accade qualcosa (che però va spiegato) in grado di rendere rincuorante quel che, di norma (ossia, nella «noia»), sembra destinato ad accorare e uccidere fanima. O meglio a consentire «il prevalere sulla noia, da parte della forza del sentimento del nulla ... ossia il prevalere dell'illusione sulla ragione»37 • Eppure, il sentimento del nulla sembra non potersi ritrovare dotato di alcuna forz.a particolare, stando al contenuto della visione che nella noia appare destinato ad accorare e uccidere l'anima. Non v'è motivo perché quel che rende infelici possa, se detto poeticamente, entusiasmare e rallegrare il cuore; se

35. G. Leopardi, 7ibaldone, Mondadori, Milano 1997, voi. I, pp. 270-271. 36. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 136. 37. Ivi, p. 147.

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non guardando al modo in cui si struttura il vedere che lo vede. Un vedere che può sì volgersi ad un medesimo spettacolo, ma dovrà necessariamente differenziarsi in quanto strutturantesi come vedere del poeta o della poesia. Lo abbiamo mostrato anche nel nostro Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi (Bompiani, Milano 2015), che lo sguardo del poeta è caratteriz7.ato dal suo non costituirsi se non come appreZ7.amento della natura imitativa del nulla rappresentato poeticamente. D'altronde, lo dice chiaramente il poeta recanatese: «il fonte del diletto nelle arti non è il bello, ma l'imitazione» 38 • Insomma, il nulla provocherebbe piacereproprio in quanto imitato; in quanto capace di distinguersi dal nulla che di norma rende infelici. E dunque, a piacere, è qui anzitutto l'essersimile del simile - «il simile di tutte le imitazioni (pensiero notabile )»39 • A piacerci e a rallegrarci il cuore sarebbe insomma la costitutiva indeterminatezza caratterizzante l'oggetto indicato quale ragione del diletto estetico. A piacerci sarebbe il puro e semplice rapporto d'imitazione. Ossia, la lontanan7.a del nulla "poeticamente detto". «Così sempre nel presente ci piace e par bello solamente il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezioni di somiglianze e di rapporti» 40• Ci piace cioè quel che rende radicalmente inutilizzabile la cosa imitata. Rendendola lontana e vaga; come vago è appunto il linguaggio poetico. Rendendola lontana e vaga in quanto «immagine» ... destinata a negare la propria determinate7.7.a. Ma quale sarebbe la determinatezza del nulla cui sembrano rivolti tanto lo sguardo del filosofo quanto quello del poeta? Quella che lo fa essere radicalmente opposto all'essere; ma che, 38. G. Leopardi, 7ibaldone, cit., voi. I, p. 6.

39. Ivi, p. 3054. 40. Ivi, voi. II, p. 3054.

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proprio in quanto così determinato, lo rende anche capace di cancellare l'essere da esso per l'appunto negato. Di sostituirvisi. Dando vita al divenire, ossia all'incessante cancellazionesostituzione dell'essere da parte del nulla e del nulla da parte dell'essere. E dunque all'implicita identificazione di essere e nulla. Ché, quando l'essere diventa nulla (facendosi cancellare-sostituire dal nulla), l'essere è nulla; così come quando il nulla diventa essere (facendosi cancellare-sostituire dall'essere), l'essere è nulla. Tutto quello che è, insomma, almeno per chi crede neirevidenza del divenire, è nulla. Ecco lo spettacolo che accora e uccide l'anima. Ecco, è proprio di questa aporetica determinazione, che implica un'inconscia identificazione dell'essere col nulla, che l'imitazione poetico-artistica (l'opera di genio) è negazione. "Imitazione,,, e dunque «negazione», destinata a rendere vago e lontano l'imitato. Facendo, per ciò stesso, di tale "replica", un'incantevole messa in luce del non-essere dell'essere e dell'essere del non-essere. Una messa in luce dell'illusorietà del reciproco annientarsi e sostituirsi dell'essere e del nulla. Fondata peraltro sul loro non riuscire mai davvero a determinarsi; cui consegue il non-essere dell'essere e l'essere del non-essere. Che potremmo anche ridurre a manifestazione del non-essere dell'essere. Ché l'essere del non-essere non dice nulla di più o di diverso rispetto al «non-essere»; da cui I'essere è evidentemente già implicato. Ma allora va anche riconosciuto che, ad accorare e uccidere l'anima, nella situazione di noia, non è tanto la nullità dell'essere in quanto «negazione della positività» (ciò che è detto appunto dall'imitazione prodotta dal genio); quanto piuttosto la convinzione che l'essere e il mondo siano in verità pura apparen7.a; perché, ad esserci, davanti ai nostri occhi, sarebbe il semplice nulla in quanto assolutamente altro dal//essere. Mentre, davanti agli occhi del genio si profilerebbe il semplice non-essere quel che è da parte di tutto quel che è. Un

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«non-essere» che verrebbe a configurarsi come prowidenziale liberazione dall'incubo di una irrimediabile nullificazione dell'essere. La quale, per poter accadere, presuppone che altro sia il nulla, altro l'essere; che il nulla sia qualcosa di "semplicemente altro" dall'essere (anzi, l'assolutamente altro da quest'ultimo). Che il nulla sia un eteron. Fermo restando che, se dicesse un semplicemente altro dall'essere, il nulla non sarebbe nulla, e la contrapposizione tra essere e nulla chiamerebbe in causa la semplice contrapposizione tra due positività. Che, sole, potrebbero sostituirsi l'una all'altra, in virtù di una inclinazione sostitutiva valevole come inflessibile "aut aut". D'altro canto, siamo proprio sicuri che le espressioni più radicali del nichilismo moderno-contemporaneo si siano fatte testimoni di tale strutturazione oppositiva (potremmo anche dire: astrattamente oppositiva)? Che in esse, cioè, l'intrascendibilità del divenire sia stata davvero concepita (secondo quanto ha sempre voluto farci intendere Severino) come evidenza del passaggio dal nulla ali'essere e dall'essere al nulla (quasi che le cose, divenendo, passassero davvero da un opposto all'altro ... quasi che, facendosi altro, l'uno escludesse di essere quel che è, e si lasciasse sostituire dall'altro)? Siamo davvero sicuri che le cose stiano così? Torniamo a Gentile; e in particolare al modo in cui è stata da lui operata l'identificazione del divenire con l'inquietudine del pensiero in atto. Il tema da cui abbiamo preso il via in queste pagine. Tema centrale anche nella lettura severiniana del divenire "secondo Gentile". Il fatto è che, per il filosofo di Castelvetrano, l'essere che Hegel aveva reso identico al non-essere nel divenire, e che, solo, è reale, non è quello che il tedesco aveva definito assoluto indeterminato, «mal'essere del pensiero che è soggetto del definire e, in generale, pensa: ed è, come vide Cartesio, in quanto pensa, ossia non essendo (perché, se fosse

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il pensiero non sarebbe quello che è, ossia un atto), e perciò ponendosi, divenendo»41 • Sulla scia di Spaventa, insomma, anche per Gentile il pensare è un negare; un negare quel che viene pensato. Un negare che non annichila, comunque, e quindi non sostituisce r essere con il nulla. Ma afferma negando. Nelle ultime pagine del suo capolavoro (la Teoria generale dell,o Spirito come Atto Puro), Gentile sostiene, a proposito della natura, che essa «è lo stesso non-essere della nostra vita interiore; dell'atto per cui siamo a noi stessi»42 ; un non essere «interno al nostro atto medesimo: come ciò che noi dobbiamo pur non essere, e diventare, con ratto stesso onde ci poniamo»43 • Forma determinata del nostro non essere, ossia di quell'ideale momento a cui dobbiamo contrapporci, «e che dobbiamo a noi contrapporre per essere un determinato reale»44 • Insomma, lo spirito umano non può raggiungere «come reale niente che sia fuori di sé stesso»4.'>. Eppure si trova sempre alle prese con qualche cosa; vuoi il fatto, vuoi la natura, «con cui ripugna alle sue più profonde esigenze che s'identifìchi»46 • Ma quella di «fatto» è per Gentile una categoria astratta; che si risolve sempre e solamente nell'atto spirituale che lo pone. Perciò ratto è negazione; negazione senza di cui nessun positum (nessun fatto) potrebbe mai venire riconosciuto; an-

41. G. Gentile, Teoria generale dello Spirito come Atto Puro, Le Lettere, Firew.e 2003, p. 56. 42. Ivi, p. 241. 43. Ibidem. 44. Ibidem.

45. Ivi, p. 233. 46. Ibidem.

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che solo in quanto oggettivazione della poten7.a in-condizionata dell'Io. Insomma, «il positivo, di cui il pensiero, come puro universale, ha bisogno, non può essere il positivo posto dal soggetto»47: ma nello stesso tempo «l'universale non è mai positivo in quanto adempie alla sua funzione nella conoscen7~. Non è qualcosa di estraneo al soggetto e presupposto da esso, ma una posizione ed esplicazione reale della sua stessa attività»48• Insomma, per Gentile non si danno mai da un lato un puro essere e dall'altro un puro non-essere, astrattamente contrapposti, ché «l'essere come puro essere sarebbe estraneo al nonessere come puro non-essere, e non ci sarebbe quell'incontro e quell'urto dei due, da cui Hegel vede spri7:7.are la scintilla della vita>>49 • Per Gentile, cioè, «il divenire è identità di essere e non essere; poiché diviene l'essere che non è»50• Per questo è alquanto problematico sostenere, come fa Severino, che il divenire in Gentile indicherebbe lo stesso contenuto già concepito dal pensiero greco come unità di essere e non essere; per quanto ottenuto abbandonando «ciò che nel pensiero greco e in ogni prospettiva realistico-naturalistica avrebbe impedito a questo contenuto di porsi come legge della realtà e come eviden7.a originaria>>51 • E d'altro canto è lo stesso Severino ad offrirci l'occasione per mettere in questione tale idea; quella secondo cui il divenire tematiz7.ato da Gentile equivarrebbe al divenire concepito come passaggio dal nulla ali'essere e dall'essere al nulla.

47. Ivi, p. 84. 48. lvi, p. 85. 49. Ivi, pp. 55-56. 50. Ivi, p. 55. 51. E. Severino,. Gli abitatori del tempo, cit., p. 117.

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Un divenire che tanto faceva problema, comunque, già agli antichi - tanto da convincerli a sostenere, a salvaguardia dalla contraddizione, il principio dell'ex nihflo nihil. Sì, perché è lo stesso Severino che, in Gli abitatori del tempo, e più precisamente nel capitolo dedicato a Gentile, ci ricorda come nei Sistemi di logica come teoria del conoscere il fondatore dell'attualismo si limitasse a ribadire la convinzione secondo cui «la presupposizione del divenire renderebbe il divenire un immediato e un immutabile, anche se le differenze che lo costituiscono sono successive» 52• E cita Gentile, quanto mai chiaro a tale proposito: Né importa che queste differenze si spieghino successivamente, nel tempo, una dopo altra: poiché tutti i momenti del tempo al pensiero, che se li rappresenta nella serie per cui si stende lo sviluppo della realtà nel suo insieme, sono compresenti, e formano quell'istante estratemporale in cui s'intuisce la realtà pensata, tutta insieme. :n

r

Insomma, per Gentile: il divenire con cui si ragguaglia la verità, è il divenire dell'unità, che è il vero divenire, non quello del molteplice (dei molti fatti, che sorgono e cadono, nel regno aristotelico dell'alterna vicenda cli phtorà e di genesis... declino e generazione): che è quel divenire apparente e reale essere, che abbiamo visto ... e l'unità è eterna.:s-1

Come già per Agostino, quindi, anche per il fondatore del]'attualismo, immediato e intrascendibile è proprio l'eterno

52. Ivi, p. 121. 53. G. Gentile, Sistemadl logica come teoria del conoscere, voi. I, Le Lettere, Firenze 2003, p. 99. 54. Ivi, p. 109.

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presente in cui l'essere in ogni caso non è. Insomma, «la verità è assoluto eterno valore appunto perché divenire» 55 • D'altronde, già per Agostino parlare del divenire signifìca parlare di quel contraddittorio ma intrascendibile presente in cui, a mostrarsi, sono sempre e solamente l'essere di quel che non è più (il passato) e l'essere di quel che non è ancora (il futuro). E in cui il presente-presente non indica nulla di diverso da tali forme della negatività (che solitamente chiamiamo passato e futuro, ma in verità dicono un medesimo presente). Secondo quanto il vescovo d'Ippona scrive nell'undicesimo libro de Le Confessioni. Ma allora anche in Gentile viene a profilarsi un'altra idea di «negazione»; non riducibile a semplice opposto dell'essere. Così come nella nega7jone o indifferenza immaginata dall'illusione poetica leopardiana, anche in Gentile, a svelarsi non è altro che una verità di norma oscurata da quell'alternan7.a di positivo e negativo di cui crediamo d'essere tutti quotidianamente spettatori. Relativa al negarsi sen7.a annientarsi da parte di un essere che, se non è, è divenire (piuttosto che «divenire»).

55. Ivi, p. 110.

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Essere e totalità Severino-Rosmini: critica di una critica

Rimane che ridea dell'essere sia innata nell'anima nostra; sicché noi nasciamo colla presen~, colla visione dell'essere possibile, sebbene non ci badiamo che assai tardi. 1

Dichiariamo subito rintenzione di questo saggio: quel che ci proponiamo di mostrare è che possono essere rivolte al discorso della struttura originaria le medesime (o almeno in parte «medesime») obiezioni che il discorso della struttura originaria (il pensiero di Emanuele Severino) rivolge all'innatismo rosminiano. D'altro canto, ranno di stesura di questo testo dedicato al Rosmini ( 1955) ci consente cli rivolgere al pensiero di Severino le medesime obiezioni da lui rivolte a Rosmini, in quanto in quegli anni il filosofo bresciano stava già elaborando il contenuto de La struttura originaria (pubblicato nella sua interez7~, comunque, solo nel 1958). È lo stesso Severino a dircelo, nella prefazione del volume Adelphi che ripropone il saggio uscito originariamente nel 1955, in un volume di saggi dedicati al roveretano (e pubblicato, in occasione del centenario della sua morte, dalla casa editrice Vitae Pensiero di Milano), e al-

1. A. Rosmini., Nuovo saggio sull'origine delle idee, in Opere di Antonio Rosmini., voi. IV, Città Nuova, Roma 2004, p. 62.

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tri saggi giovanili (il volume, che si intitola Heidegger e la metafisica, è stato pubblicato da Adelphi nel 1994, e comprende la tesi di laurea di Severino dedicata appunto a Heidegger e altri saggi pubblicati tra il 1948 e il 1958). Così si esprime infatti il nostro: Il saggio su Rosmini è, o meglio contiene un ampliamento, nella dimensione storica, di temi di La struttura originaria. Si tratta di temi che appartengono al periodo iniziale della composizione di questo libro, e le pagine in cui erano stati formulati sono stati soppressi nella seconda edizione. 2

Severino mette in questione, dunque, la possibilità, sostenuta dal roveretano, che il significato «essere» possa apparire «indipendentemente» da tutte le sue determinazioni; o anche: che l'astratto possa apparire indipendentemente dal concreto - ossia, come astrattamente astratto. Senza essere originariamente sussunto all'interno del concreto - e fatto così valere come concetto concreto dell'astratto. Ma cominciamo ricordando come Severino istituisce la contraddizione C; e come, per essa e in relazione ad essa, la struttura originaria dovesse venire riconosciuta quale apertura originaria della contraddizione. Rileviamo anzitutto che, per il filosofo bresciano, «porre un qualsiasi significato appartenente alla totalità dell'immediato senza porre tutte le costanti di questo significato importa che ciò che effettivamente si pone nella posizione di quel significato, non sia quanto si intende porre»3• O anche: «il fondamento è certamente l'apertura originaria della contraddizione, ma nel senso ben preciso che la posizione della totalità dell'immediato non è posizione di tutti quei significati {le costanti),

2. E. Severino, Heidegger e la metafisica., cit., p. 28. 3. E. Severino, La strutturo originaria., cit., p. 356.

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la cui posizione è necessariamente implicata dalla posizione di tale totalità>>4 • Dunque, anche Severino, come Rosmini, riconosce che originaria è la parzialità che caratteriz7.a ogni semantizzazione, owero la posizione di ogni significato (e dunque che la posizione di un significato è posizione di un limite semantico, come Severino stesso rileva nel saggio su Rosmini). Rosmini, però, direbbe che è parziale in quanto "altra" almeno da quel significato «essere» che sta prima di ogni significazione e posizione semantica, e che può essere concepito come inconsapevolmente presente in noi, sen7.a che l'intelletto ne sia consapevole. Presente in noi, cioè, come non «posto» da noi. Mentre, per Severino, la parzialità di ogni semantizzazione è la parzialità di ogni contenuto in quanto non manifesto insieme a tutte le sue determinanti; cioè, insieme a tutti quei significa.ti (le costanti) la cui posizione è nee,essariamente im,... plicata dalla posizione della total,ità. Per Severino, insomma, ogni semantizzazione (la posizione di un significato) è posizione di un limite semantico; per quel tanto che - come rileva ancora il fìlosofo bresciano nel saggio sull'Innatismo rosminiano - quel significato non è l'intero semantico. Ma - e questo è quel che più conta, per lui - se è vero che ogni contenuto è limitato, è anche vero che l'intero semantico (ciò che quel significato sempre parziale non-è) deve essere in qualche modo posto, nella e con la posizione dello stesso contenuto limitato. Il limitante, cioè, verrà posto, ogniqualvolta venga posto il significato limitato (non si può, cioè, porre il significato limitato senza porre l'orizzonte limitante - perché porlo in questi termini «è contraddittorio»5). 4. Ivi, p. 352. 5. E. Severino, D'innatismo rosminiano, in Id, Heidegger e la metafisica, cit., p. 554.

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Resta dunque da chiarire in che senso verrebbe a prcxlursi la contraddizione C; ossia, in che senso il limitante debba esser posto, ma nello stesso tempo non riesca a farsi posizione di tutti i significati (il limitante) senza i quali nulla sarebbe posto. Sen7.a i quali, cioè, quel che effettivamente si pone nella posizione di quel significato, non sarebbe quel che si intende porre. In che senso, cioè, si prcxluca questa assen7.a, stante che non si può porre il significato limitato sew.a porre I'orizzonte limitante6 • Ad ogni modo, è sempre Severino a rilevarlo: «tener fermo un certo significato sen7.a porre l'orizzonte semantico che lo oltrepassa significa ammettere che la limitatez7.a in cui consiste tale significato è determinata dal nulla>> 7• E dunque che la limitate7.7.a del significato, insieme al significato, svanisce nel nulla. Insomma, v'è qualcosa, nella struttura stessa dell'immediata presen7.a di quel che è presente, che spinge la presen7.a immediata oltre di sé. Senza spingere peraltro oltre l'esperien7.a; ma facendoci sprofondare piuttosto nel cuore della stessa struttura essenziale dell'immediate7.7.a. In quella struttura in fo17_.a della quale si dovrà anche riconoscere che «l'orizzonte dell'immediatezza è l'orizzonte rispetto al quale (e dentro al quale) può sopraggiungere ogni mediazione»8 • Rispetto al quale, cioè, si può parlare, sempre secondo Severino, di una contraddizione infinita: quella «provocata dal non apparire della totalità dell'essente - la contraddizione cioè il cui toglimento è l'apparire del Tutto compiuto e concreto»9• D'altronde, si può parlare della contraddizione della verità solo in quanto si abbia presente la contraddizione 6. Cfr. ibidem.

7. Ivi, p. 556. 8. E. Severino, La struttura originari~ cit., p. 354. 9. E. Severino, La Glori~ cit., p. 45.

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del cerchio finito delrapparire del destino della verità. Che consiste nella manifestazione finita del Tutto, ossia nel non essere, tale manifestazione, rapparire del Tuttoche d'altra parte, come significato formale, è manifesto nel cerchio del destino come luogo semantico in cui appaiono tutte le determinazioni che appaiono. 10

Insomma, v'è qualcosa che eccede il contenuto dell'immediatezza; e che Severino concepisce come contenuto concreto del Tutto; il quale appare sì nell'orizzonte dell'immediatezza (e non la eccede, dunque, in senso astratto), ma solo nel suo significato «formale» - per questo, all'interno dell'immediatezza, nulla, di quel che appare, appare come potrebbe apparire se il tutto apparisse nella sua determinazione anche contenutistica (e non solo in quella «formale»). Eccoci di nuovo, così, ali'originaria pai✓.jalità e limitatezza del contenuto effettivamente esibito dall'immediatez7.a esperienziale. Parzialità che non riesce a comprendere il tutto; che in esso è infatti compreso solo in senso formale. Insomma, cosa sia il tutto contenutisticamente inteso non ci è dato sapere; perché la valen7.a contenutistica di questo tutto eccede l'originario. Ecco, è proprio in questo senso che possiamo cominciare ad intrawedere una nascosta solidarietà tra la prospettiva rosminiana e quella severiniana. Ché, anche in Severino, sembra venire a costituirsi una posizione astratta indipendente da ciò che, non apparendo, non è implicato (anche se lo è - «implicato» - dal punto di vista formale) dal concretamente manifesto, quantomento da.l punto di vista contenutistico; non è implicato, cioè, dall'apparire di quel che appare. Se, per Rosmini, quindi, il separare è distinto dal distinguere nel senso che «per separarlo (il separato) basta percepire lui

10. Ivi, p. 52.

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stesso e nulla più; mentre per distinguerlo da noi dovremmo negare noi stessi, e quindi esserci percepiti, giacché non si può negare ciò che non si conosce» 11 , anche in Severino - che pur ritiene quantomeno problematico e discutibile che l'indipendenza semantica sia anch'essa, come il distinguere, un fatto («che l'indipendenza semantica sia «un fatto», che sia contenuto di esperienza, è cosa discutibile» 12) -, nonostante la contraddittorietà da lui riconosciuta ed attribuita al concetto di «significato indipendente», viene comunque a costituirsi una sorta di significato «indipendente»: quello costituito appunto dall'apparire del destino, o meglio dal destino che originariamente appare, e che «è l'apparire finito del Tutto, ossia è I'apparire finito di sé stesso in quanto Totalità concreta e infinita dell'essente» 13• Insomma, se l'apertura originaria dell'intero è puramente formale (come Severino ribadisce anche in La Gloria), l'apparire del Tutto, o meglio l'apparire formale del Tutto non può essere il Tutto; ossia, il Tutto concretamente inteso - inteso come tutto formale e insieme contenutistico (comprendente tutte le determinazioni che lo compongono), non appare. Ossia, non è posto; «posto» essendo solo il significato f omuile del tutto. Il tutto contenutisticamente inteso è infatti posto come ciò che, proprio in quanto «non appare», può essere definito come «il toglimento eterno della totalità delle contraddizioni dell'apparire, dunque anche di quelle che competono al cerchio dell'apparire finito del destino» 14• Ad apparire è infatti solo il suo esser destinato (all'infinito) ad apparire in relazione al toglimento di quella totalità delle contraddizioni che, nell'originario, nell'immediatamente pre11. A. Rosmini, Sistema filosofico, Paravia, Torino 1924, 75, p. 45.

12. E. Severino, L'innatismo rosminiano, cit., p. 560. 13. E. Severino, La Gloria, cit., p. 28. 14. Ibidem.

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sente, non sono ancora tolte (per quanto nella Gioia, quel medesimo toglimento - il toglimento della totalità delle contraddizioni -, che è la Gioia concepita come toglimento eterno della totalità delle contraddizioni -, sia già da sempre realizzato). Un toglimento totale che, per Severino è «l'essen7.a inconsciadell'uomo»15. Che, certo, si inoltra nella terra, ossia nel cerchio finito dell'apparire del destino, ma mai, nel dispiegarsi del cerchio finito dell'apparire, potrà costituirsi come orizzonte inoltrepassabile (perché ogni determinazione del tutto che si inoltri nel cerchio finito dell'apparire sarà diversa da quel che essa è alla luce del cerchio dell'apparire infinito o della Gioia). Mai mostrerà, dunque, quanto meno allo sguardo determinante che fa di ogni essere un distinto, la propria concreta determinatezza. La quale si costituirà sempre (nel dispiegarsi del cerchio finito dell'apparire) come "significato limitato"; anzi, come quel significato limitato che, non sapendo nulla di ciò che esso già è alla luce dell'apparire infinito (o della Gioia), dovrà essere necessariamente riconosciuto come concetto astratto dell'astratto. Il concreto, infatti, evoca la semplice esigenza che una valenza contenutistica della totalità vi sia, ma non appare mai come tale (nella sua valenza contenutistica) nell'orizzonte dell'apparire finito; e lascia dunque i significati limitati che appaiono nell'orizzonte finito dell'appariredel tutto "drammaticamente" privi di quel che li eccede dawero (ad eccederli dawero non essendo il significato formale del tutto, che essi invece implicano esplicitamente, ma solo il suo contenuto). Nel saggio sull'innatismo rosminiano, dunque, Severino denuncia la contraddittorietà del significato indipendente (e dunque la sua ineffettualità), denunciando di fatto, senza rendersene conto, anche la contraddittorietà, ossia l'assenza, di quel significato limitato in cui consiste l'essente reso manife-

15. Ivi,. p. 29.

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sto dal cerchio finito dell'apparire. O meglio, l'assenza di quel che esso sarebbe veramente (alla luce della Gioia, ossia della già da sempre guadagnata totalità concreta di cui l'apparire finito patisce ]'assen7.a).

Denunciando già, di fatto, la separazione che rende il contenuto manifesto (nell'orizzonte dell'apparire finito) «astrattamente astratto» (in quanto non manifesto in relazione alla limitazione intesa come unità del limitante e del limitato l'intero semantico). In quanto separato, cioè, da quel concreto che, nell'orizzonte dell'apparire finito, mai potrà manifestarsi in quanto tale. Di cui l'apparire finito, cioè, non sa nulla. E che in esso, dunque, vive solo come «inconscio». Così come inconscio è, sempre secondo Rosmini, il significato «essere», valevole quale condizione di possibilità di ogni conoscenza. Il rilievo mosso da Severino a Rosmini si struttura quindi in questo modo: «l'innatismo rosminiano implica l'ammissione dell'indipenden7.a semantica del significato «essere». Poiché questo è un significato limitato, quell'ammissione è contraddittoria, e quindi tale innatismo si risolve in una contraddizione» 16• Insomma, il concetto rosminiano di essere non avrebbe nulla a che fare con il "concetto classico di essere" (in virtù del quale l'essere viene concepito come sintesi concreta di essere e determinazioni dell'essere, come sintesi assoluta che occupa l'intero); e dunque un essere, come quello rosminiano, sciolto dalla sua relazione con l'altro momento (quello costituito dalle determinazioni dell'essere), si configura come concetto astratto dell'astratto (quello che il concetto classico dell'essere esclude; in quanto escludente sia I'indipenden7~ che I'astrattamente astratto). Come quel concetto astratto che Hegel avrebbe voluto originariamente risolto nel concreto (perché dal suo punto

16. E. Severino, Vinnatismo rosminiano, cit., p. 562.

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di vista, ci dice Severino, l'indipenden7~ semantica si risolve in una contraddizione che rende l'essere astratto originariamente superato dall'essere determinato, concepito appunto come verità del divenire). E che invece Rosmini ritiene in grado di permanere come incontraddittorio. Per Rosmini, infatti, «l'idea dell'essere non ha bisogno di alcuna altra idea ad essa aggiunta per essere intuita» onde ella «soprastà nella mente, anche tutta sola e nuda come la si giunge a contemplare a forz.a di quelle astrazioni. Dunque, ella non ha bisogno d'altro per essere intuita, è intuibile e conoscibile per se stessa» 17.» Insomma, l'essenza dell'ente è conoscibile per sé; e per essa conosciamo tutte le cose - sempre secondo Rosmini. Per questo si tratta di una idea innata. Insomma, ci dice Severino, Rosmini identifica l'innatezza con l'indipenden7.a semantica. Ma non solo; perché in Rosmini si dà anche la preceden7.a della posizione del significato «essere» rispetto a qualsivoglia orizzonte posizionale. Ed in effetti per Rosmini «I'osserva7jone del fatto ci attesta che la notizia dell'essen7~ dell'ente è data al nostro spirito prima di ogni altra cognizione» 18• Cioè, per lui, l'essen7~ dell'ente «è nota ali' uomo prima di tutti gli atti del suo pensiero» 19• Severino, però, ritiene che, rilevare che qualcosa debba esser noto affinché si possa affermare che qualcosa esiste (sostenere che debba esser noto il significato di esisten7.a), non significa che questo suo dover essere noto sia un esser noto «prima» del giudizio. E poi, se per Rosmini la presen7.a del significato essere non equivale alla consapevolezza di tale presenza, porre l'essere

17. A. Rosmini, Nuovo saggio sull~origine delle id~ cit., pp. 28-29. 18. A. Rosmini, Sistema filosofico, cit., 34, p. 15. 19. Ibidem.

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non è porre la posizione dell'essere. E soprattutto l'intuizione dell'idea dell'essere sembra precedere il momento in cui si diventa consapevoli di questo stesso intuire. Ma a Severino tutto ciò sembra assolutamente insostenibile; e non solo perché il fatto che un significato debba esser posto non significa che esso esista «prima» di ciò che reclama il suo esser posto! Ma anche perché in Rosmini l'isolamento dell'idea dell'essere non accade (a suo parere) sul piano posizionale; ma su quello del semplice esistere, da parte di questa idea. Del suo esistere come «non posta». Perciò nel discorso del roveretano non riesce neppure a costituirsi quella indipenden7.a semantica che lo stesso Rosmini vorrebbe per altro verso assolutamente sostenere. E dunque neppure viene a costituirsi la contraddittorietà connessa alla «posizione» del semantema che si vorrebbe indipendente. Ma viene piuttosto ad agire il presupposto gnoseologistico relativo all'esisten7.a di un significato «non presente». Che sarebbe presente nella mente, sen7.a che sia presente il suo esser presente. Ma qui Rosmini, ci dice ancora Severino, avrebbe dovuto allearsi più a Locke che a Leibniz, e mostrarsi quanto meno consapevole del fatto che «non si apre orizzonte di pensiero se l'essere non è intuito»20• Doveva cioè schierarsi contro Leibniz; «per quel tanto che il principio leibniziano dell'esistere nella mente sen7.a essere attualmente inteso contiene una valenza contraria al concetto, fondamentale per la filosofia rosminiana, che non si apre orizzonte di pensiero se l'«essere» non è intuito» 21 • Nulla intuiamo senza accorgercene, avrebbe detto Locke! Ma proprio a questo proposito lo stesso Severino sembra non accorgersi che nessun significato appare riuscendo a rendere contenutistica-

20. E. Severino, L"innatismo rosminiano, cit., p. 568. 21. Ibidem.

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mente manifesta la totalità di quel che lo limita (come limitante, come ecceden7.a rispetto al significato limitato che sempre viene posto). E dunque sembra non accorgersi del fatto che c"è sempre qualcosa di cui si deve riconoscere I'esisten7.a, ma di cui non si riesce a dire l'esser posto -se non a livello puramente formale. Dove, ad esser posta è cioè solo I'esigen7.a che un tutto concreto e contenutisticamente determinato si dia: ma non il suo darsi concreto. Eppure Severino dice che essere nelrintelletto senza essere inteso significa stare al di fuori dell'orizzonte dell'intendere, o dell'esperienza. Per quel tanto che qualcosa è affermato al di fuori dell'esperienza, cioè dell'immediato, è necessario mediare tale affermazione ... per cui tutte le considerazioni che promuovono a proposito dell'essere nella mente senza essere attualmente inteso, hanno un valore di assoluta gratuità nella misura in cui intendono valere come affermazioni immediata di un contenuto metaempirico. 22

Ma - ribadiamo -, non è un contenuto metaempirico anche il senso concreto della totalità? Il quale dovrebbe comprendere tanto il valore formale quanto quello contenutistico del concetto in questione (che per il Severino maturo sarà appannaggio solo dell'apparire infinito del tutto). Quel senso concreto che peraltro, sempre per Severino, vale come già da sempre risolto nell"apparire infinito. Per questo, il disvelamento della Gioia indica un passato (un «eterno passato», ovviamente) rispetto al dispiegamento infinito che non si arresta in alcuna configurazione definitiva della terra. Severino è chiarissimo a questo proposito: «in quanto è a sua volta un essente, il togli mento della totalità delle contraddizioni non è un futuro che ancora non esista, ma 22. Ivi, pp. 568-569.

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è a sua volta un eterno, un percorso già sempre e per sempre tracciato»2.1. Già da sempre tracciato, e dunque già accaduto, rispetto ad ogni tappa del dispiegamento infinito della gloria. Passato rispetto ad ogni tappa di quel percorso, perché l'immutabile oltrepassa l'originario. Perché «l'apparire formale del Tutto non può essere il Tutto»24 • E il Tutto concepito nella sua massima concretezza, come togli mento eterno della totalità delle contraddizioni, «è l'essenza inconscia dell'uomo» 95 • L'abbiamo già rilevato; ma meritava ribadirlo, per mostrare come anche in Severino finisca per agire il presupposto gnoseologico. Nonostante tutto. In fondo, in un passo dei Nuovi saggi sull'intelletto umano citato da Severino, viene disegnato lo stesso rapporto che Severino vede costituirsi tra apparire infinito e apparire finito. Anche Leibniz, infatti, finisce per distinguere(sia purin forma linguisticamente diversa) l'apparire di un contenuto sempre limitato (dal punto di vista dell'apparire finito) dal costituirsi della totalità dei contenuti che potrei comunque pensare (apparire infinito); quella totalità che, se riuscissi a pensare, mi impedirebbe di pensare pensieri sempre nuovi. Infatti se riuscissi a pensarla, ciò determinerebbe il «toglimento della totalità del finito» 26 • Ma l'apparire finito è dato; ed è il contenuto dell'immediatezza. È il contenuto originario. E con esso si dice originaria anche la contraddizione che mi fa ammettere che quel che appare non è mai così come appare nell'assenza della totalità di quel che lo limita e lo determina; e quindi l'apparire fini23. E. Severino, I.A Gloria, cit., p. 28. 24. Ibidem. 2.5. lvi, p. 299. 26. Ivi, p. 29.

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to non è tolto; e d'altro canto, se fosse tolta la contraddizione dell'immediato, vi sarebbero gravi conseguenze anche per il concreto. Infatti, verrebbe a costituirsi un concreto che, non conoscendo I'astrattamente astratto - in quanto, dal suo punto di vista, il finito, ossia l'astratto, sarebbe sempre concretamente inteso -, neppure esso potrebbe pensarsi veramente "come tale", non avendo più un astrattamente astratto da cui distinguersi (stante che l'esser tolto dell'astrattamente astratto coinciderebbe con il suo originario costituirsi come concretamente astratto). E dunque sarebbe costretto a riconoscereanch'esso la propria irredimibile astratte7.7.a. Il concetto concreto dell'astratto si rovescerebbe facendosi astrattamente astratto. E l'apparire infinito si rovescerebbe, catastroficamente, in un intrascendibile apparire finito rispetto a cui l'apparire infinito non potrebbe che costituirsi al modo di un contenuto eternamente inconscio e irraggiungibile; ma non perché - come vorrebbe Severino - già da sempre raggiunto, dal punto di vista dell'apparire infinito. Infatti, l'apparire infinito si mostrerebbe come irrimediabilmente finito. Dice Leibniz: Non è possibile che riflettiamo sempre espressamente su tutti i nostri pensieri: altrimenti lo spirito riflettendo all'infinito su ciascuna riflessione non potrebbe passar mai ad un nuovo pensiero. Per esempio, acquistando coscienza di un certo pensiero presente, dovrei pensare che vi penso e pensare che penso di pensarvi, e così all"infinito. È invece necessario che si tralasci la riflessione su tutte queste riflessioni, e che vi sia qualche pensiero cui si dà corso senza fermarvisi; altrimenti si resterebbe sempre sullo stesso contenuto.27

27. G.W. Leibniz Nuooisaggisultintellettoumano, tr. it., acuradi M. Mugnai, Editori Riuniti, Roma 1982, libro Il, § 19, p. 112.

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Non vi sarebbe svolgimento, infatti; e penseremmo dawero sempre il medesimo: e peraltro un medesimo paradossalmente finito (per i motivi appena addotti). Ma, cosa vuol dire che l'idea dell'essere sarebbe intuita sen7.a che ce ne si accorga? Rileva Severino: «basta distinguere, come del resto è fatto da Rosmini, tra posizione del significato e posizione di questa posizione del significato»28 • L'esperiew.a attesta il passaggio da un pensiero all'altro; ma, se la posizione dell'idea dell'essere potesse non venire posta, si darebbe un rimando all'infinito; perché «se tutti i pensieri fossero pensati, sussisterebbe il rimando all'infinito»29; ma I'esperien7.a attesa il passaggio da un pensiero all'altro; ossia, il rimando ad un altro finito. Sempre finito. Che destituisce l'ipotesi di un pensiero dawero in grado di pensare tutti i pensieri pensabili. D'altro canto, per Rosmini, noi «nasciamo colla presenza, e colla visione dell'essere»!I>. L'uomo non esiste mai come essere inconscio; cioè non è mai un "semplice esistere". È sempre come l'esser posto dell'esistere. Eppure, per il roveretano l'idea dell'essere gode di una fantomatica indipendenza semantica assolutamente contraddittoria; per lui, cioè, l'idea dell'essere 31 • Ma soprattutto, l'innatez7.a che Rosmini vorrebbe attribuire all'idea dell'essere, è sostenuta in base ad argomenti che potrebbero «dimostrare l'innatev.a di tutte le idee»32• Severino ne è convintissimo: tutto quanto «si dice qui dell'idea dell' essere può essere detto di ogni altra idea>>3.1. 28. E. Severino, L"innatismo rosminiano, cit., p. 569. 29. Ibidem. 30. A. Rosmini, Nuovo saggio sull"origine delle idee, cit., p. 62.

31. E. Severino, L"innatismo rosminiano, cit., p. 572. 32. Ivi, p. 573. 33. Ibidem.

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Ma, sempre per Severino, nessuna convenienza di un predicato ad un determinato soggetto giustifica il dover essere già precedentemente noti da parte dell'universale che funge da predicato di una qualsiasi affermazione determinata. Per Severino, cioè, «la manifestazione della convenienza in questione è appunto essa il giudizio, che, dunque, per reallZ7.arsi, non solo non presuppone che il significato predicato sia noto prima del giudizio, ma rende possibile che il significato, in quanto eventualmente antecedente, sia riferito al soggetto del giudizio». Insomma, che il significato posto come predicato anteceda il giudizio non è richiesto dalla struttura del giudizio in quanto tale. «Ma è un semplice accadimento o una semplice effettualità dell'orizzonte posizionale che precede il giudizio» 34 • Eppure, là dove concepissimo in questo modo anche il rapporto tra apparire finito e apparire infinito nell'ultimo Severino, dovremmo riconoscere che, anche nel suo discorso, la semplice implicazione trascendentale del Tutto concretamente inteso da parte del significato limitato in cui consiste la determinazione che appare nel dispiegarsi infinito dell'apparire finito, non si limita a valere come implicazione logico-ontologica all'interno di una semplice e reciproca implicazione di natura sostanzialmente atemporale tra apparire finito e apparire infinito. Ma costringe a riconoscere che, ogni volta, il sopraggiungere del sopraggiungente puòvenire concepito come espressione e manifesta7Jone della verità del Destino (della Gioia) solo se il Destino concepito come totalità concreta dell'apparire infinito, dal punto di vista dell'apparire finito, precede il cominciamento di tale sopraggiungere. Adogni modo, preceden7~ o anteceden7~hanno sensosolo dal punto di vista dell'apparire finito. Peccato che questo sia l'unico punto di vista da cui può essere espresso il contenuto dell'immediato o dell'esperienza!

34. Ivi, p. 575.

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O anche, dell'originario. L'unico punto di vista possibile (dato che quello dell'apparire infinito è un punto di vista inconscio - anche per Severino, come abbiamo già visto); quello a partire dal quale si dovrebbe ogni volta riconoscere che r orizzonte della Gioia precede il dispiegarsi della Gloria. Infatti, il dispiegarsi della Gioia, dal punto di vista dell'apparire finito (l'unico a partire dal quale abbia senso qualcosa come un dispiegarsi), è comunque un già accaduto - anche se non in qualche momento determinato dello sviluppo infinito. Già accaduto, cioè, rispetto ad ogni ipotetico cominciamento dello sviluppo; che, in quanto cominciamento, dunque, smentirà di essere il cominciamento che dice di essere; anche solo per il fatto che la determinazione del suo accadimento istituisce, in quanto tale, un «prima»; un inaggirabile "prima" rispetto al tempo del suo accadimento. Già accaduto, dunque, ma - ribadiamo - non in qualche tempo determinato. Secondo una nozione di è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce. Le 8,17

Che, per certi versi, la prospettiva filosofica di Heidegger e quella di Severino si trovino agli antipodi, appare evidente anche solo leggendo il seguente passo tratto da DeU-1'essenza della verità: «L'essenza della verità si svela come libertà, e questa come il lasciar-essere e-sistente che svela l'ente. Ogni comportarsi che si tiene aperto si libera nel lasciar-essere l'ente, e di volta in volta si comporta in rapporto a questo o quell'ente» 1• Insomma, l'essenza della verità avrebbe a che fare, per il filosofo tedesco, con quella che, agli occhi di Severino, costituisce invece il cuore stesso dell'alienazione che domina, inawertita, tutto lo sviluppo della storia dell'Occidente. Così comincia infatti Destino della necessità: «La libertà appartiene all'essenza del nichilismo, ossia all'alienazione che, completamente inavvertita, guida e domina lo sviluppo della civiltà occidentale»2•

1. M. Heidegger, Deltessenza della verità, in Id., Segnaoia, tr. it. di F. Volpi,

Adelphi, Milano 1994, p. 147. 2. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 19.

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Da un lato il «vero», obliato dalla metafisica occidentale (e, nella forma forse più radicale, dalla modalità tecnica di rapportarsi al]"essente), avrebbe a che fare con la «libertà» - una libertà peraltro intesa (assai "curiosamente") da Heidegger come un lasciar essere che, solo, ci metterebbe in rapporto con la totalità dell'essente («la libertà, come lasciarsi coinvolgere nello svelamento dell'ente nella sua totalità in quanto tale, ha già disposto ogni comportarsi in uno stato d'animo in relazione al]"ente nella sua totalità»3) -, dall'altro invece la convinzione (riconducibile a Severino) secondo cui il «vero» avrebbe a che fare con quel rapporto intrinseco con la totalità che, al contrario, finisceper fare, di ogni essente, un "eterno". Il quale, lungi dal rendersi disponibile a quel modo di comportarsi che avrebbe a che fare con il "lasciar-essere", e dunque con la libertà (che per Severino «appartiene, come la non libertà, all'essenza della terra isolata e del nichilismo» 4), dice per il filosofo bresciano l'assoluta infondatezza finanche della semplice persuasione di poter disporre di un qualche comportamento, da parte dell'essere umano. E a maggior ragione di quel comportamento esemplificato dalla tecnica, che tanto per Severino quanto per Heidegger sembra non avere comunque l"ultima parola. Una cosa è certa, comunque: tanto per Severino (secondo il quale «che la volontà voglia avere poten7.a sul divenire del mondo e che il mondo sia un divenire che è disponibile alle diverse forme di potenza che intendono determinarlo e dominarlo, sarebbe qualcosa che da sempre è considerato come l"eviden7.a e la verità assolutamente indiscutibile»5) quanto per Heidegger (secondo il quale, allo stesso modo, «l"uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si vie-

3. M. Heidegger, Dell"essenzadella verità, cit., p. 147. 4. E. Severino, TestitTWniando il destino, Adelphi, Milano 2019, p. 183. 5. E. Severino, Immortalità e destino, cit., p. 128.

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ne diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo» 6), anche l'oblio della verità (incarnato anche dalla "tecnica" in quanto modo specifico di rapportarsi all'essente), che pur accade, può essere un nwdo di manifestarsi della Verità (o del Destino, in termini severiniani): anche per Heidegger infatti «se ci apriamo autenticamente all'essen7~ della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore»7• Severino direbbe che, anche nell'orizzonte costituito dalla terra isolata, vengono a disegnarsi quelle che lui intende come delle vere e proprie "tracce" della verità(che, secondolui, appunto,devonodarsi!). Ma la consonan7.a tra la prospettiva disegnata da Heidegger e quella disegnata da Severino non riguarda solo una concezione della tecnica concepita come oblio che può anche finire per disegnare le condizioni di possibilità per una sorprendente liberazione dall'oblio. La consonan7.a è infatti assai più radicale. Il fatto è che, secondo Heidegger questa doppia possibilità dell'oblio (di nascondere ma nello stesso tempo anche di manifestare), ha la propria condizione di possibilità nella stessa struttura di un «Aperto» che, dell'Essere, ci dice appunto questo: che, nel suo manifestarsi come ente e nell'ente, finisce per custodire anche una propria costitutiva ascosità - connessa al fatto che, a manifestarsi, nel suo stesso manifestarsi, è sempre e solamente l'essente (l'ente). Heidegger lo dice con la massima esplicitev~, che «la verità è lotta originaria in cui, sempre in un particolare modo, viene conquistato l'Aperto in cui sta dentro ogni cosa e da cui emerge, ritirandovisi, ciò che si manifesta e si costituisce come ente. Comunque questa lotta erompa e si storicizzi, sempre, 6. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 21. 7. lvi, p. 19.

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attraverso di essa, si costituiscono, separandosi, i lottanti: l'illuminazione e il nascondimento» 8• Perché «il sorgere è come tale già sempre incline al chiudersi. In quest'ultimo esso rimane albergato ... (così, il nostro traduce Eraclito) il, sorgere (dal nascondersi) concede il suo favore al nascondersi»0• Insomma, anche per Heidegger, così come per Severino, alla struttura originaria del Vero sembra convenire un aver a chefare con l'ente nella sua totalità. Lo dice bene, il pensatore tedesco, nel saggio Dell'essenza della verità (compreso in Segnavia); dove si propone di rendere conto, in modo peraltro abbastanza "convincente" (per dir così), della doppia natura della verità - quella che ce la fa apparire sempre come "doppia", ossia come costitutivamente ambivalente. Affidata, com'è, ad una offerta in cui quel che verrebbe di volta in volta offerto, sembra essere nello stesso tempo sottratto, e dunque non offerto. In molti testi Heidegger riferisce questa originaria ambivalen7.a della verità (in relazione a cui il manifestare è sempre anche un nascondere) a quella che egli stesso definisce «differen7.a ontologica>>. In Essenza del fondamento, ad esempio, Heidegger rivendica con fo17.a il ruolo essenziale, nel suo pensiero, della differenza tra verità ontica e verità ontologica - fermo restando il loro costituirsi come tali anche in uno stretto rapporto, in quanto si appartengono l'una ali'altra. Ma, in Dell'essenza della verità, invece di istituire una differen7.a assoluta tra l'essere e l'essente, in modo tale da trattare il loro rapporto come semplice «ipostatiz7~one» del rapporto che regola le differenze (sempre relative) tra gli essenti (differenti, infatti, sono sempre e solamente gli essenti gli uni dagli altri ... Insomma, non basta dire che quella che distingue l'es-

8. M. Heidegger, Vorigine dell'opera d~arte., in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 45. 9. M. Heidegger, Aletheia, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 185.

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sente dall'Essere è una «differenza assoluta», ipostatiz7.ando una forma che pertiene agli essenti in quanto essenti ... Per non dire che poi, sarebbe anche possibile mostrare come le stesse differenze determinate - quelle che distinguono gli essenti gli uni dagli altri - siano tutte, in verità, delle «differenze assolute» ... dove, la differenza assoluta che sempree solamente viene indicata ed evocata si presenta appunto come «negata» in ragione della sua costitutiva «impossibilità») Heidegger «ragiona» in modo abbastanza simile a Severino. Certo, a proposito della cosiddetta «differenza ontologica», basterebbe ricordare ad Heidegger che l'essere non è altro dall'ente. Solo tra enti ci si può dire altri, gli uni dagli altri. L'essere è infatti tutto negli enti che appaiono; è in essi come l'originariamente negantesi (in quanto «essere» - anche solo per il suo non riuscire a distinguersi dal nulla) nel Da-sein che sempre e solamente si presenta. Nell'«è», in un «è» che si presenta sempre e solamente come predicato di una qualche determinatezza. Ma, nel testo compreso in Segnavia, Heidegger svolge il proprio ragionamento in modo sorprendentemente diverso da quanto avrebbe continuato a fare in più di qualche saggio; e rileva anzitutto come «il comportarsi dell'uomo sia pervaso nel suo stato d'animo dall'evidenza dell'ente nella sua totalità» 10• Una cosa è certa, rileva sempre Heidegger: questa totalità «non si lascia mai comprendere dall'ente che di volta in volta è manifesto, appartenga esso alla natura o alla storia» 11 • E precisa: nonostante determini costantemente la disposizione di tutto, questa totalità rimane sempre rindetenninato e rindetenninabile, e coincide allora per lo più, di nuovo, con ciò che vi è di più cor-

10. M. Heidegger, Delt'essertta della oorità, cit., p. 148. Il. Ibidem

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rente e di meno pensato. Essa non è un niente, ma un velamento delrente nella sua totalità. 12

Non è un semplice niente-nullo, direbbe lo Heidegger di altri testi. Ed è ancora a questa velatezza che il nostro si riferisce in La questione delfessere (sempre compreso in Segnavia), là dove afferma che «la svelatezza riposa nella velate7.7.a del]'essere-presente» 13• Insomma, anche il lasciar-essere «è in sé contemporaneamente un velare» 14 • Anche «il dire» in grado di lasciarsi alle spalle l'approccio impositivo caratterizzante la tecnica, ossia anche il dire poetico, quello che lascia-essere (Severino direbbe: anche il dire del Destino), sembra comportare il velamento della totalità. Anche il dire veritativo comporta - direbbe dal canto suo Severino - il manifestarsi "astrattamente" da parte della totalità concreta dell'essente (che nelle ultime opere Severino identifica con l'apparire infinito del Destino). Perché condannata a dare luogo a quella che Severino chiama appunto «contraddizione C». D'altro canto, Severino lo precisa bene già in La struttura originaria, che il fatto «che la struttura originaria sia contraddizione è essa stessa a mostrarlo - è essa stessa a mostrarsi come contraddizione» 15• Una contraddizione connessa al fatto che la determinazione «tutto», valevole come "costante" di ogni determinazione, non si manifesta totalmente, o concretamente, nella struttura originaria. Il tutto si manifesta cioè come tutto solamente «formale». E dunque non si manifesta nella sua verità.

12. Ibidem. 13. M. Heidegger, La questione dell~essere, in Id., Segnavia, cit., p. 364. 14. M. Heidegger,. Dell~essenza della verità, cit.,. p. 148. 15. E. Severino,. La struttura originaria, cit.,. p. 73.

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Ma proprio questo rende ogni essente diverso da quello che il medesimo sarebbe, se apparisse alla luce della totalità concreta. Insomma, poiché l'originario è e significa ciò che esso è e significa solo nel suo legarne col tutto, nel non manifestarsi del tutto, l'originario non è l'originario. Ogni essente chiama in causa la totalità degli essenti; indipendentemente da tale totalità, nessun essente sarebbe quello che è. Ma il tutto concreto non appare. E dunque non dovrebbe apparire neppure ciò che può dire quel che esso è veramente solo in relazione al manifestarsi della totalità. Eppure le cose appaiono. Ma necessariamente - si dovrà anche rilevare - esse appaiono diversamente da come apparirebbero se il tutto concreto (che, solo, le fa essere quello che sono) apparisse nella sua concrete7.7.a. In actu signato ogni ente chiama in causa la totalità concreta, ma in actu exercito esso finisce per chiamare in causa una totalità ineludibilmente astratta. Non molto diversamente, nel testo su cui ci stiamo soffermando, Martin Heidegger rileva che «nel lasciar essere che svela e contemporaneamente vela l'ente nella sua totalità, accade che il velamento appaia come ciò che è in primo luogo velato» 16• Severino direbbe che, in virtù del non manifestarsi da parte del tutto concreto, non solo a configurarsi è la differen7.a tra apparire finito ed apparire infinito, ma anche la necessità, per l'apparire finito, di non potersi mai risolvere in un inoltrepassabile, e dunque nel suo non potersi mai trasformare in apparire infinito. Perciò, anche secondo Severino, alla luce dell'apparire finito, a rimanere velato è il senso stesso del velamento. Del nascondi mento. Insomma, non potendo accedere all'apparire infinito (non potendosi risolvere in esso), l'apparire finito 16. M. Heidegger, Dell~essenza della verità, cit., p. 149.

374 rimarrà "eternamente ignaro'' del vero senso del velarsi da parte dell'apparire infinito, o anche, della totalità concreta). Perciò, ad essere velato, è anzitutto il velamento. O meglio, il suo senso concreto. Perciò la terra isolata può accogliere anche la non consapevolez:,_Jl che il tutto sia costitutivamente velato; l'errore può sempre trasformarsi nella non consapevolezza di essere nell'errore. Solo per questo è possibile lo sguardo implicato dal fare tecnico. Che non potrebbe neppure darsi, indipendentemente dall'isolamento della parte dal tutto. E dunque dalla rimozione del fatto che, ogni volta che appare una parte, a mostrarsi è sempre il tutto (sia pur in forma astratta). Heidegger rileva poi che la non-essenza essenziale all'essenza «non diventa mai inessenziale nel senso di indifferente»17. Ma chiama in causa un ambito «non ancora esperito della verità dell'essere (e non solo dell'ente )»18. Epperò, sempre per Heidegger, «questo rapporto col velamento vela se stesso, lasciando la precedenza all'oblio del mistero e scomparendo in esso» 19. Perciò l'essere umano, per lo più, si contenta di questo o quell'ente o della sua rispettiva evidenza. Insomma, «si attiene a ciò che è praticabile e controllabile, anche là dove è in gioco la realtà prima e ultima»2(). Perciò lo sguardo scientifico, il modo rappresentativo di rapportarsi all'essente, il modo isolante e parcellizz.ante, tanto per Severino quanto per Heidegger avrebbero potuto finire per dominare la scena. Perché l'ente non appare mai per quel che è; così come esso apparirebbe, cioè, alla luce della manifestazione dell'apparire infinito. Alla luce della totalità dispiegata.

17. Ibidem. 18. Ivi, p. 150. 19. Ibidem. 20. Ibidem.

375 Perciò, tanto per Heidegger quanto per Severino, a rendere possibile l'alienazione e il nichilismo è la stessa verità; owero la sua contraddizione intrinseca (la contraddizione C per Severino e l'ambivalenza di un essere che appare sempre e solamente nell'ente e come ente, per Heidegger), owero, la sua costitutiva ambivalen7..a o doppieZJ'..a. Perciò, di fatto, tanto Heidegger quanto Severino finiscono per perpetuare quell'antichissima idea (risalente a Platone, ma ancora più chiaramente a Plotino, ma forse già ad Eraclito e ad Anassimandro), costitutivamente metafisica, secondo cui l'essenziale, da ultimo, avrebbe a che fare con una sorta di misteriosa ed indecifrabile «identità» che tutte le parole continuano indefesse a distinguere e differire. Ma che, in quanto awolta dalle differenze che la indicano, non si presenta mai al di fuori della differen7.a; «anche se non in quanto così awolta, essa è l'identità delle differenze»21 • D'altro canto, l'infinito assolutamente assoluto non potrà per Severino mai essere decifrato totalmente. Fermo restando che, se l'Infinito assolutamente assoluto non potrà mai essere decifrato totalmente («la decifrazione totale delle tracce dell'Infinito assolutamente assoluto è impossibile»), le sue tracce troveranno comunque una plausibile decifrazione «nell'apparire come tracce dell'Indecifrabile» 22 • Heidegger e Severino, insomma, si mostrano perfettamente sodali nel costituirsi come estreme radicalizzazioni di un percorso che mai avrebbe condotto il pensiero occidentale di là dalla convinzione che si parla e si scrive sempre e solamente di ciò di cui non si potrebbe né parlare né scrivere - con buona pace del tormentato Wittgenstein e dei suoi un po' avventati verdetti aforismatici.

21. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 151. 22. E. Severino, La nwrte e la terra, cit., p. 499.

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Contro la metafisica Severino interprete del Neopositivismo logico

Sul rifiuto della metafisica esplicita e delr occulta varietà di apriorismi, tutti gli aderenti alla concezione scientifica del mondo sono d'accordo. 1

1 Potremmo cominciare rilevando che l'interesse dimostrato da Emanuele Severino per la scuola neopositivista, e in particolare per il Circolo di Vienna - cioè, per filosofi e scienziati del calibro di Carnap e Schlick, di Wittgenstein e Neurath, e per tutti gli altri importantissimi esponenti di una delle più grandi proposte antimeta6siche della modernità - non è così strano come potrebbe sembrare a prima vista. E non è affatto strano anzitutto per un motivo. Ossia, per il fatto che solo una 6Ioso6a che si è sempre fatta carico di restituire al sapere un fondamento finalmente e davvero inconcusso poteva essere proficuamente intrigata da una proposta epistemologica che poteva dirsi «antimeta6siCID> proprio per una simmetrica pretesa di indicare anch'essa

1. L. Lentini - E. Severino, Il Circolo di Vienna, in A. Bausola (a cura di),

Questioni di storiografiafilosofica, voi. IV/I, Il pensiero contemporaneo, La Scuola, Brescia 1978, p. 746.

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il vero fondamento della conoscen7.a; solo, a partire dalla convinzione secondo cui il medesimo avrebbe dovuto farsi "rigorosamente" empirico. E questo, a partire da unaconvinzione fondamentale: quella secondo cui qualsivoglia conoscen7.a pretenda di "varcare" il limite costituito dall'esperienza, è destinata a naufragare - e non certo per imparare a navigare. Ritrovandosi piuttosto a formulare delle proposizioni del tutto insensate; owero, non tanto e non solamente scorrette o infondate, quanto del tutto prive di senso. Appunto perché non riferibili ad alcun fatto empirico intorno a cui ci si possa, se non intendere, quanto meno confrontare. Severino lo dice chiaramente nella bellissima ed esemplare introduzione al saggio dedicato da Schlick alla questione del "fondamento della conoscen7.a"". Ce lo dice ricordandoci che la critica neopositivistica alla metafisica raggiunge un punto limite; «una radicalità difficilmente superabile»2• Dai protagonisti di questa scuola filosofica, infatti, «la metafisica viene bandita non già perché proceda da principi infondati, o perché contenga affermazioni false o illegittime, ma perché le proposizioni di cui è composta sarebbero assolutamente prive di significato» 3• Proposizioni che non si riferiscono all'esperien7.a - come sarebbero appunto le proposizioni metafisiche - non sono infatti né verificabili né falsificabili. In relazione a tali asserti, cioè, sembrano non esservi fatti di cui l'esperien7.a possa dirci se esistano o meno. In questo senso essa si riferisce a qualcosa che esisterebbe «al di là di ogni esperienza possibile»4 • Perciò i suoi (della metafisica) problemi sarebbero solo degli pseudo-problemi. Che equivalgono a

2. E. Severino, Introduzione, in M. Schlick, Sul fondamento della conoscenza, tr. it. di E. Severino, La Scuola, Brescia 1983, p. XII.

3. Ibidem. 4. Ivi, p. XIII.

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domandarsi se Cesare sia o meno un numero primo, «o se Re prillico esista o no»5• Insomma, quale sfida avrebbe potuto farsi più radicale di quella elaborata dal Neopositivismo logico? Quale obiezione più radicale alle pretese della Metafisica, di quella fondata sulla convinzione di poter mostrare che la Metafisica non parla affatto del mondo o della realtà ... ma si limita ad «esprimere un sentimento della vita posseduto dal metafisico»6 • Da ciò la convinzione dichiarata di Carnap secondo cui i metafisici non sarebbero altro che musicisti falliti; se non altro perché la musica sembra capace di esprimere in modo molto più raffinato e potente il semplice sentimento della vita. È noto come il pensiero severiniano abbia sempre sottolineato il fatto che alla verità competa essenzialmente misurarsi con le infinite possibili forme dell'errore; e che solo in rapporto ali'errore, la verità possa palesare la propria supposta incontrovertibilità. Ecco perché nessuna sfida avrebbe potuto appassionarlo più di quella provocata da una prospettiva filosofica intenzionata a mettere fuori gioco la metafisica proprio in rapporto alla struttura del fonda.mento. Contrapponendosi nella forma più radicale possibile alla non empiricità attribuita alla metafisica, sì da costituirsi, agli occhi di quest'ultima (e, nella fattispecie, della prospettiva severiniana), come un vero e proprio «grande» errore. Meritevole, per ciò stesso, della massima attenzione. Severino ha capito perfettamente che, se per un verso «le critiche più radicali e più rigorose mosse alla filosofia e alla metafisica, che è il cuore del filosofare, vanno ricercate nella filosofia stessa e nella sua storia»7, per altro verso, più del-

5. Ibidem. 6. Ibidem, p. XIV. 7. lvi, p. IX.

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la sofistica, dello scetticismo, dell"empirismo e del criticismo kantiano, più del positivismo e di tanta 61osofia ermeneutica, si sarebbe dimostrato capace di sferrare veri e propri colpi mortali alla metafisica proprio il risultato di quel processo di purificazione interna del positivismo (ancora minato da «ingenti infiltrazioni e persistenze della metafisica»8) che siamo soliti definire «neopositivismo». E che doveva configurarsi al termine di un ben preciso itinerario avente, tra le sue tappe fondamentali, le filosofie di Stuart Mili, di Ernst Mach e di Bertrand Russel. Dunque, Severinoè lucidamente convinto del fatto che proprio «col neopositivismo la critica alla metafisica raggiunga un punto limite, ossia una radicalità difficilmente superabile»9• In quanto finisce per trattare le proposizioni della metafisica allo stesso modo in cui Aristotele aveva trattato i negatori del principio di non contraddizione. Considerandoli sostanzialmente come delle piante; ossia come degli esseri non dotati di parole; che credono di significare qualcosa, articolando le loro proposizioni, mentre in verità non dicono alcunché. Così fa dunque anche la metafisica, quantomeno agli occhi di Carnap. Che emette dei semplici suoni, sen7.a riuscire a significare alcunché. Ossia, non articolando, di fatto, alcun significato. Come il negatore del principio di non contraddizione; che, a rigor di logica, non sembra neppure autoriz7.ato a definirsi negatore del principio. Una critica alla metafisica avviata da Wittgenstein e ripresa subito dopo da Schlick e da Carnap, in particolare. Una critica che, precisa ancora Severino, «avviene sulla base di una riflessione sulla natura del linguaggio» 10•

8. Ivi, p. XII. 9. Ibidem. 10. Ivi, p. XIV.

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2 Sì, perché, ritengono i neopositivisti logici, solo ruso corretto del linguaggio sembra consentirci di costruire un sapere fondato. Perciò si è anche ritenuto che fosse quanto mai opportuno liberarsi anzitutto dell'arbitrarietà e dell'equivocità caratterizzanti i linguaggi naturali (quelli comunemente parlati dagli esseri umani); e dunque di procedere alla costruzione di un linguaggio artificiale determinato, e soprattutto da tutte le imperfezioni e le incongruenze che inficiano quello quotidiano. O quanto meno di purificare il più possibile la sua supposta naturalità. Da ciò l'uso sempre più massiccio del linguaggio simbolico (capace di rappresentare tutti le tipologie di relazioni logiche); i cui simboli e le cui connessioni possiederebbero «esclusivamente il significato univoco che, mediante regole univoche, si è deciso di conferir loro» 11 • Insomma, a partire da Wittgenstein si doveva decidere di fondare il sapere umano su una serie di proposizioni atomiche, da cui sarebbe dipesa la verità o la falsità delle proposizioni molecolari. Le uniche ritenute capaci di «parlare della realtà (e cioè di affermare qualcosa intorno alla realtà)» 12• Ma il fatto è che tanto Wittgenstein quanto Schlick, ed anche il primo Carnap, finiscono per fondare la conoscenza su qualcosa di troppo simile alle proposizioni della metafisica; ossia, su proposizioni atomiche o elementari che rifletterebbero un semplice "dato" della «mia» esperien7Al; dell'esperiewAl cioè del parlante o dello scrivente - che non può certo fondare un sapere intersoggettivo e pubblico, controllabile e valido per tutti.

11. Ivi, p. XVI. 12. Ivi, p. XVIII.

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Sì, perché un linguaggio che voglia essere realmente intersoggettivo, non potrà essere commisurato alle mie esperienze, sempre rigorosamente individuali (ossia, percepibili solo da me); owero, a quelle di nessuno dei parlanti. Il linguaggio potrà cioè farsi realmente intersoggettivo - e dare vita ad un sapere comune - solo là dove rinvenga la sua base nel linguaggio medesimo. E non, dunque, in una realtà extralinguistica, che per ognuno sarà «la sua». Ecco perché proposizioni fondamentali potranno essere considerate solo quelle che sono costantemente formulate dalla maggioran7~ degli uomini; o, meglio ancora, «dalla maggioran7~ di quegli uomini (gli scienziati) che tra gli uomini godono di un credito particolare come osservatori dell'esperienza» 13• Eccole, dunque, le mitiche «proposizioni protocollari»; che avrebbero il compito di indicare le circostanze di luogo, tempo ecc. in cui sono state formulate. Ma, soprattutto, in virtù della svolta operata da N eurath, l'eventuale contrasto tra una proposizione protocollare e un'altra proposizione qualsiasi non poteva più prevedere (come avrebbero voluto Wittgenstein, Schlick e il primo Carnap) che venisse espulsa dal sistema del sapere l'altra proposizione (confermando l'inamovibilità delle proposizioni protocollari). Con Neurath sarebbe cambiato tutto. Con N eurath, infatti, si accetta che possa anche essere tolta una proposizione protocollare. Sì, perché anche una proposizione protocollare o di osservazione potrebbe essere falsa. Se una determinata proposizione protocollare dice che «N ha percepito un certo oggetto in un certo luogo e in un certo tempo», chi può rendermi persuaso della veridicità di una tale osservazione? «Non può essersi sbagliato chi ha redatto il protocollo? Non può aver volutoscherz.are o ingannare?» 14 •

13. Ivi, p. XX. 14. lvi, p. XXI.

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Il fatto è che v'è un margine di incertezza in tutto quel che diciamo e di cui possiamo anche aver fatto esperienza; perciò Neurath avrebbe proposto di utilizzare il linguaggio della fisica per formulare le proposizioni protocollari; da cui la qualifica della prospettiva fatta propria da N eurath in termini di vero e proprio «fisicalismo». A questa posizione poi si sarebbe aggregato anche Carnap. Ma cosa fa di specifico la fisica? Risolve ogni espressione linguistica in termini quantitativo-calcolabili. Sulla scia di quanto già stabilito a suo tempo da Descartes e Galilei. Insomma, solo riducendo l'esprimibile al «quantitativo», il linguaggio della scien7.asembra potersi fare realmente universale, nonché oggettivo e intersoggettivo. Una cosa, comunque, sarebbe rimasta ferma, agli occhi dei neopositivisti: che tali proposizioni descrivono semplici