Dei miei sospiri estremi 8877103752, 9788877103758

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Dei miei sospiri estremi
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SE LUIS BUNUEL DEI MIEI SOSPIRI ESTREMI TASCABILI • SAGGI

In copertina: Salvador Dali, La persistenza della memoria, 1904 (particolare) Retro di copertina: Luis Bunuel nel 1929 in una fotografia di Man Ray



TASCABILI *



SAGGI

LUIS BUNUEL DEI MIEI SOSPIRI ESTREMI TRADUZIONE DI DIANELLA SELVATICO ESTENSE



SE



Titolo originale: Mott dernier soupir

Prima edizione nella collana « Saggi e Documenti del Novecento », 1991

© 1991 e 1997 SE SRL VIA MANIN 13 - 20121 MILANO ISBN 88-77IO-37J-2

INDICE

MEMORIA

13

RICORDI DEL MEDIOEVO

17

I TAMBURI DI CALANDA

29

SARAGOZZA

33

I RICORDI DI CONCHITA

45

I PIACERI TERRENI

51

MADRID, LA RESIDENZA UNIVERSITARIA (1917-I925)

6l

PARIGI (1925-1929)

89

SOGNI E FANTASTICHERIE

103

IL SURREALISMO

III

AMERICA

137

SPAGNA E FRANCIA (1931-1936)

I47

AMORI, AMORI

157

LA GUERRA DI SPAGNA (1936-1939)

l6l

ATEO PER GRAZIA DI DIO

183

DI NUOVO IN AMERICA

189

HOLLYWOOD SEGUITO E FINE

199

MESSICO (1946-1961)

209

PRO E CONTRO

229

SPAGNA-MESSICO-FRANCIA (1960-1977)

243

IL CANTO DEL CIGNO

263

Indice dei nomi

269

DEI MIEI SOSPIRI ESTREMI

A Jeanne, la mia donna, la mia compagna

Non sono un uomo di penna. Dopo lunghe conversazioni, Jean-Qaude Carriè­ re, fedele a tutto quello che gli ho detto, mi ha aiutato a scrivere questo libro.

RICORDI DEL MEDIOEVO

Avevo già tredici o quattordici anni quando uscii per la pri­ ma volta dall’Aragona. Invitato da certi amici di famiglia che passavano l’estate a Vega de Pas, vicino a Santander, nella Spagna del Nord, scoprivo con stupore, attraversando le pro­ vince basche, un paesaggio nuovo, insospettato, compietamente diverso da quello che avevo conosciuto finora. Vedevo nuvole, pioggia, foreste abitate dalla nebbia, umido muschio sulle pietre. Sensazione deliziosa che non mi abbandonerà mai. Adorerò il Nord per sempre, il freddo, la neve e i grandi torrenti di montagna. La terra della bassa Aragona è fertile, ma polverosa e terri­ bilmente arida. Potevamo passare un anno, e anche due, senza vedere le nuvole accalcarsi nel cielo impassibile. Quando per caso un cumulo audace si mostrava sopra le montagne, dei vi­ cini, che lavoravano in una drogheria, venivano a bussare da noi perché sul tetto di casa avevamo un piccolo osservatorio. Di là osservavano per ore il lento cammino della nuvola e di­ cevano tristemente, scuotendo la testa: « Vento del Sud. Pas­ serà lontana ». Avevano ragione. La nuvola si allontanava ac­ comiatandosi dalla terra senza una sola goccia di pioggia. In un’annata di siccità angosciosa, nel villaggio vicino, Castelceras, la popolazione, preti in testa, organizzò una proces­ sione (una rogativa) per implorare dal cielo un acquazzone. Nuvole scure si accalcavano sul villaggio, quel giorno. La rogazione sembrava quasi inutile. Disgraziatamente, le nuvole si dispersero prima che finisse la processione e il sole rovente riapparve. Allora i poco di buono che esistono in tutti i villaggi si impadronirono della statua della Vergine che si trovava alla testa del corteo e, pas­ sando sopra un ponte, la scaraventarono nel fiume, il Guadalupe. Nel mio villaggio, dove sono nato il 22 febbraio 1900, si può dire che il Medioevo sia arrivato fino alla prima guerra mondiale. Società isolata, immobile, con una netta distinzione tra le varie classi. II rispetto, la subordinazione del popolo la­ voratore nei confronti dei signori, dei grandi proprietari, sem­ bravano immutabili, profondamente radicati nelle antiche abi­ tudini. Guidata dalle campane della chiesa del Pilar, la vita

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DEI MIEI SOSPIRI ESTREMI

mi ha tanto interessato, sei mesi fa? Non ricordo più, cerco a lungo, invano. E finalmente arriva l’amnesia retrograda, che può cancellare una vita intera, come è accaduto a mia madre. Quanto a me, non ho ancora subito i colpi di questa terza forma di amnesia. Del mio passato remoto, dell’infanzia, della giovinezza, serbo ancora ricordi molteplici e precisi, così co­ me una gran quantità di volti e di nomi. Se mi capita di di­ menticarne uno, non mi preoccupo troppo. So che tornerà improvvisamente, per uno dei molti capricci dell’inconscio, che lavora instancabile nell’ombra. In compenso mi capita di avvertire una grande preoccupa­ zione, angoscia direi, quando non riesco a ricordare un av­ venimento recente, che ho vissuto, oppure il nome di una per­ sona incontrata negli ultimi mesi, e perfino di una cosa. D’un tratto la mia personalità si sgretola, si sfascia. Non mi riesce di pensare ad altro, eppure tutti i miei sforzi, le mie ire sono inu­ tili. Che sia l’inizio di una scomparsa totale? Sensazione tre­ menda, dover usare una metafora per dire « tavolo ». E oltre ogni limite, l’angoscia peggiore: esser vivo, ma non riconoscer­ ti più, non sapere chi sei. Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa me­ mòria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sareb­ be una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente. Ho immaginato spesso d’inserire in un film una scena con un uomo che cerchi di raccontare una storia a un amico. Ma dimentica una parola su quattro, parole generalmente molto semplici, come « automobile », « via », « poliziotto ». Farfu­ glia, esita, gesticola, cerca degli equivalenti patetici, fino a quando l’amico irritatissimo lo schiaffeggia e se ne va. Mi ca­ pita anche, per difendermi ridendo dalle crisi di panico, di raccontare l’aneddoto del tizio che va da uno psichiatra e la­ menta disturbi della memoria, lacune. Lo psichiatra gli fa un paio di domande formali, poi gli dice: « E allora? Queste lacune? ». « Quali lacune? » risponde l’altro. Indispensabile e onnipotente, la memoria è anche fragile e minacciata. Minacciata non solo dalla dimenticanza, sua vec­ chia nemica, ma anche dai ricordi fasulli che la sommergono, e l’invadono ogni giorno di più. Un esempio: ho raccontato per anni agli amici (e in questo libro lo cito) il matrimonio di

MEMORIA

U

Paul Nizan, brillante intellettuale marxista degli anni Trenta. Rivedevo chiaramente la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, il pubblico di cui facevo parte, l’altare, il prete, Jean-Paul Sartre testimone dello sposo. Un giorno, l’anno scorso, mi dissi im­ provvisamente: ma è impossibile! Paul Nizan, marxista con­ vinto, e sua moglie, che apparteneva a una famiglia di agnosti­ ci, non si sarebbero mai sposati in chiesa! Una cosa assolutamente impensabile. Avevo quindi trasformato un ricordo? Si trattava di un ricordo inventato? Di una confusione? Ho rive­ stito di un ambiente familiare, chiesastico una scena soltanto orecchiata? Non lo so, non sono mai riuscito a capire. La memoria è perennemente invasa dall’immaginazione e dalla fantasticheria, e poiché esiste una tentazione di credere nella realtà dell’immaginario, finiamo col fare delle nostre menzogne una verità. Il che del resto ha un’importanza molto relativa, dato che sono anch’esse cose vissute, e personali. In questo libro semibiografico, nel quale mi capiterà di per­ dermi come in un romanzo picaresco, di abbandonarmi al fa­ scino irresistibile del racconto inaspettato, forse, malgrado la mia vigilanza, continuerà a sussistere qualche ricordo fasullo. Ma la cosa ha veramente poca importanza, ripeto. Sono fatto dei miei errori e dei miei dubbi, come delle mie certezze. Non essendo uno storico, non mi sono aiutato con appunti né libri, e il ritratto proposto è comunque il mio, con tutte le mie af­ fermazioni, esitazioni, ripetizioni, lacune, con le mie verità e le mie bugie, in una parola: la mia memoria.

MEMORIA

Negli ultimi dieci anni di vita, mia madre perse a poco a poco la memoria. Quando andavo a trovarla, a Saragozza, do­ ve abitava con i miei fratelli, ci capitava di darle una rivista che lei sfogliava minuziosamente dalla prima all’ultima pagina. Dopo di che gliela riprendevamo per dargliene un’altra, che in realtà era la stessa. Ricominciava a sfogliarla con la medesima cura. Arrivò a non riconoscere più i figli, a non sapere più chi eravamo, chi era. Entravo, la baciavo, passavo un po’ di tem­ po con lei - la salute fìsica restava intatta, era anzi piuttosto agile per la sua età - poi uscivo, rientravo subito dopo, e mi accoglieva con lo stesso sorriso, mi pregava di accomodarmi, come se mi vedesse per la prima volta. Del resto, non ricorda­ va neanche più il mio nome. In collegio, a Saragozza, ero in grado di recitare a memoria l’elenco dei re visigoti spagnoli, superfici e popolazioni di tutti gli stati europei, e molte altre futilità. Questo genere di memo­ ria meccanica è generalmente disprezzato nei collegi. In Spa­ gna questo tipo di allievo si chiama memorion. Ed io, memorion com’ero, ero bersagliato da sarcasmi per quelle esibizioni mediocri. A mano a mano, col passar degli anni, questa memoria un tempo così disdegnata ci diventa preziosa nella vita. I ricordi si accumulano a nostra insaputa e un giorno, all’improvviso, cerchiamo inutilmente il nome di un amico, di un parente. Lo abbiamo dimenticato. Può capitarci di diventare furiosi, alla vana ricerca di una parola che conoscevamo, che abbiamo sul­ la punta della lingua, e che si ostina a non ritornare. Con questa dimenticanza, e le altre che non tarderanno a farsi avanti, incominciamo a capire e ammettere l’importanza della memoria. L’amnesia - di cui, per quanto mi riguarda, ho incominciato a soffrire verso i settantanni - inizia con i nomi propri e i ricordi più vicini: dove ho messo l’accendino, cin­ que minuti fa? Cosa volevo dire avventurandomi in questa fra­ se? È l’amnesia anterograda, cui segue quella antero-retrograda che si riferisce agli avvenimenti degli ultimi mesi, degli ulti­ mi anni: come si chiamava il mio albergo, quando sono anda­ to a Madrid, nel maggio del 1980? E il titolo di quel libro che

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DEI MIEI SOSPIRI ESTREMI

scorreva sempre uguale, orizzontale, regolata fino alla fine dei tempi. Le campane segnalavano le cerimonie religiose (messe, vespri, angelus) ma anche gli avvenimenti della vita quotidia­ na, suonavano a morto, e quei rintocchi particolari che si chia­ mano toque de agonia, il rintocco dell’agonia. Quando un abi­ tante del villaggio arrivava alle soglie della morte, una campa­ na suonava lenta per lui, grande campana profonda e grave per l’ultima lotta di un adulto, campana di un bronzo più leg­ gero per l’agonia di un bambino. Nei campi, sui sentieri, nelle vie, la gente si fermava chiedendosi: « Chi mai starà per mori­ re? ». Ricordo anche le campane a martello, in caso d’incendio, e lo scampanìo glorioso dei giorni di festa. Calanda contava meno di cinquemila abitanti. Questo paesotto in provincia di Teruel, che non offre niente di notevole a un turismo frettoloso, è situato a diciotto chilometri da Alcaniz. Ad Alcaniz si fermava il treno che ci portava da Saragoz­ za. Alla stazione ci aspettavano tre carrozze a cavalli: la più grande si chiamava jardinera. La galera era una carrozza co­ perta. C’era anche un calessino a due ruote. Famiglia numero­ sa, carica di bagagli, accompagnata dai domestici, ci ammuc­ chiavamo nelle tre carrozze. Ci volevano quasi tre ore, sotto un sole torrido, per percorrere i diciotto chilometri fino a Ca­ landa, ma non ricordo un solo minuto di noia. Tranne che per la festa del Pilar e le fiere di settembre, po­ chissimi stranieri passavano da Calanda. Tutti i giorni, verso mezzogiorno e mezzo, appariva in una nuvola di polvere la di­ ligenza di Macan, tirata da uh equipaggio di mule. Trasporta­ va la posta e qualche volta dei commessi viaggiatori a zonzo. Prima del 1919 non si vide un’automobile in paese. Chi la comprò si chiamava don Luis Gonzalez, uomo libe­ rale e moderno, e perfino anticlericale. Dona Trinidad, sua madre, vedova di un generale, apparteneva a una famiglia ari­ stocratica di Siviglia. Questa raffinata signora fu vittima delle indiscrezioni della servitù. Infatti, per le abluzioni intime, adoperava un arnese scandaloso del quale le signore della buona società di Calanda, pudiche e sdegnate, disegnavano, con ampio gesto, la forma piuttosto simile a quella di una chi­ tarra. Per via di quel bidet evitarono di parlare a dona Trini­ dad per parecchio tempo. Lo stesso don Luis Gonzalez svolse un ruolo decisivo quan­ do le viti di Calanda furono colpite dalla fillossera. I ceppi morivano irrimediabilmente, ma i contadini si ostinavano a non sostituirli con vitigni americani, come fu fatto in tutta

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l’Europa. Un dottore in agraria, venuto apposta da Teruel, si­ stemò nel salone del municipio un microscopio che permette­ va di esaminare i parassiti. Ma non c’era niente da fare. I con­ tadini continuavano a rifiutarsi di sostituire i vecchi ceppi. Al­ lora don Luis sradicò tutti i suoi per dare l’esempio. Dato che era stato minacciato di morte, girava per i vigneti con il fucile in mano. Ostinazione collettiva, tipicamente aragonese, tardi­ vamente vinta. La bassa Aragona produce il miglior olio d’oliva della Spa­ gna, e forse del mondo. Il raccolto, in certi anni ricchissimo, temeva la siccità che poteva sfrondare gli alberi. Considerati grandi esperti, alcuni contadini di Calanda andavano ogni an­ no in Andalusia, vicino a Jaén e a Cordoba, per fare la potatu­ ra. All’inizio dell’inverno si cominciavano a raccogliere le olive e durante il lavoro i contadini cantavano la Jota olivarera. Mentre gli uomini, in cima alle scale, colpivano con un basto­ ne i rami carichi di frutti, le donne, a terra, li raccoglievano. La Jota olivarera è dolce e melodiosa, delicata - nel mio ricor­ do, perlomeno. Contrasta stranamente con la forza brutale del canto regionale dell’Aragona. Un altro canto di quei tempi m’è rimasto nella memoria, tra sogno e veglia. Credo che oggi sia scomparso, perché la melo­ dia si trasmetteva oralmente di generazione in generazione, senza niente di scritto. Si chiamava 11 canto dell’aurora. Prima che spuntasse il giorno, un gruppo di ragazzi percorreva le vie per svegliare i mietitori che dovevano mettersi al lavoro pre­ stissimo. Forse, qualcuno di quegli « svegliatori » sarà ancora vivo, e ricorderà le parole e la melodia, perché quel canto non scompaia, canto meraviglioso, mezzo sacro mezzo profano, venuto da un’epoca già remota. Mi svegliava in piena notte, al tempo dei raccolti. Poi mi riaddormentavo. Per tutto il resto dell’anno una coppia di guardiani nottur­ ni, ben equipaggiati con le loro lampade Quinquet e i piccoli giavellotti, cullavano il nostro sonno: « Sia lodato Dio » grida­ va uno (Alabado sea Dios) e l’altro rispondeva: « Sempre sia lodato » (Por siempre sea alabado). Dicevano anche, per esem­ pio: « Le undici, sereno » (Las once, serenò) e, molto più rara­ mente - ma che gioia! « Nuvoloso » (Nubladó) e qualche vol­ ta, miracolo: « Piove! » (Lloviendo!). Calanda aveva otto frantoi. Uno di questi era già idraulico, ma gli altri funzionavano esattamente come ai tempi dei roma­ ni: una pesante pietra conica, trascinata da cavalli o da mule, frantumava le olive sopra un’altra pietra. Tutto sembrava im­ mutabile. Gli stessi gesti e gli stessi desideri si ripetevano di

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padre in figlio, di madre in figlia. Non si sentiva o quasi parla­ re del progresso, che passava al largo, come le nuvole.

LA MORTE, LA FEDE, IL SESSO

Tutti i venerdì, al mattino, una dozzina di uomini e donne in età avanzata si sedevano lentamente contro i muri della chiesa, di fronte a casa nostra. Erano i più poveri dei poveri, los pobres de solemnidad. Uno dei nostri domestici usciva e dava a ciascuno un pezzo di pane che baciavano rispettosa­ mente, e anche una moneta da dieci centesimi, elemosina ge­ nerosa se paragonata al « centesimo a barba » - cioè a testa generalmente dato dagli altri ricchi del paese. Proprio a Calanda devo i miei primi incontri con la morte che, insieme a una fede profonda e al risveglio dell’istinto ses­ suale, compongono le forze vive della mia adolescenza. Un giorno, passeggiavo con mio padre in un oliveto quando la brezza mi portò un odore dolciastro e ripugnante. A un centi­ naio di metri da noi un asino morto, orrendamente gonfio e dilaniato, fungeva da banchetto per una dozzina di avvoltoi e qualche cane. Lo spettacolo mi attirava e respingeva nello stesso tempo. Pesantemente sazi, gli uccelli stentavano a ri­ prendere il volo. I contadini non seppellivano le bestie morte, convinti che la loro putrefazione arricchisse la terra. Rimasi come affascinato da quella visione, intuendo, al di là della ma­ teria decomposta, un vago significato metafisico. Mio padre mi afferrò per il braccio, allontanandomi. Un’altra volta, uno dei pastori del nostro gregge, in seguito a una stupida discussione, si prese una coltellata nella schiena e morì. Infilato nell’alta cintura, la faja, gli uomini portavano sempre il loro bravo coltello. L’autopsia venne eseguita nella cappella del cimitero dal medico del paese, aiutato dal suo assistente, che faceva anche il barbiere. C’erano anche altre quattro o cinque persone, ami­ ci del dottore. Riuscii a intrufolarmi. La bottiglia d’acquavite passava di mano in mano e io beve­ vo ansiosamente per ritrovare il mio coraggio, venuto meno allo stridìo della sega che apriva il cranio o delle costole che venivano spezzate a una a una. Alla fine, completamente ubriaco, dovettero riportarmi a casa, dove mio padre mi punì severamente per ubriachezza e anche per « sadismo ». Nei funerali del popolo si metteva la bara di fronte alla por­

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ta aperta della chiesa. Dei preti cantavano. Un vicario girava intorno al misero catafalco aspergendolo di acqua santa e but­ tava una palata di cenere sul petto del cadavere, sollevando per un attimo il velo che lo ricopriva - gesto che si ritrova nel­ la scena finale di Cumbres borrascosas o Abismos de pasión (Cime tempestose o Abissi di passione). La campana suonava cupamente a morto. Non appena gli uomini incominciavano a portare, a braccia, la bara verso il cimitero situato a poche centinaia di metri dal paese, echeggiavano le urla laceranti della madre: « Ah, figlio mio! Mi lasci sola! Non ti vedrò mai più! ». Le sorelle del defunto, altre donne della famiglia, per­ fino qualche vicina o amica, a volte, si univano alle lamenta­ zioni materne formando il coro delle planideras, le lamenta­ toci. La morte affermava di continuo la sua presenza, faceva par­ te della vita, come nel Medioevo. E così la fede. Profondamente radicati nel cattolicesimo ro­ mano, non potevamo mettere in dubbio neanche per un atti­ mo questa verità universale. Avevo uno zio dolcissimo, e caro, che era sacerdote. Lo chiamavamo Tio Santos, lo zio Santos. Ogni estate mi insegnava il latino e il francese. In chiesa gli servivo da accolito, e facevo parte del coro musicale della Vir­ gen del Carmen. Eravamo in sette o otto. Io suonavo il violi­ no, un mio amico il contrabbasso, il rettore di un istituto reli­ gioso di Alcaniz (los Escolapios} suonava il violoncello. Insie­ me, con dei cantori della nostra età, abbiamo suonato e canta­ to una buona ventina di volte. Ci invitarono a più riprese nel convento dei carmelitani - in seguito dei domenicani - che si ergeva poco fuori dal paese, convento fondato verso la fine del xix secolo da un certo Forton, abitante di Calanda, marito di un’aristocratica signora della famiglia dei Cascajares. Una coppia di devoti di ferro, che non si perdeva mai una messa. Più tardi, all’inizio della guerra civile, i domenicani di quel convento furono fucilati. Calanda contava due chiese e sette preti. Più Tio Santos, il quale, dopo un incidente - la caduta in un burrone durante una partita di caccia - si era fatto assumere da mio padre co­ me amministratore delle proprietà. L’onnipresenza della religione si manifestava in tutti i parti­ colari della vita. Così, mi divertivo a celebrare la messa nella soffitta di casa davanti alle mie sorelle. Possedevo vari oggetti cultuali di piombo, insieme a un camice e a una pianeta.

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IL MIRACOLO DI CALANDA

La nostra fede era talmente cieca - perlomeno fino all’età di quattordici anni - che credevamo tutti alla veridicità del fa­ moso miracolo di Calanda, nell’anno di grazia 1640. Miracolo dovuto alla Vergine del Pilar, così chiamata in quanto apparve a san Giacomo, nei lontani tempi dell’occupazione romana, a Saragozza, sopra un pilastro. La Vergine del Pilar, patrona di Spagna, è una delle due grandi Vergini spagnole, essendo l’al­ tra, ovviamente, quella di Guadalupe, che mi sembra di quali­ tà molto inferiore (è la patrona del Messico). Nel 1640 dunque un abitante di Calanda, Miguel Juan Pellicer, si maciullò una gamba sotto la ruota di un carretto. Fu necessario amputargliela. Ora, si trattava di un uomo molto pio che andava tutti i santi giorni in chiesa a immergere un di­ to nell’olio della lampada che ardeva davanti alla statua della Vergine, per poi strofinarsi il moncherino. Una notte, la Ver­ gine e qualche angelo discesero dai cieli e gli misero una gam­ ba nuova. Come tutti i miracoli - che altrimenti non sarebbero mira­ coli - questo venne certificato da numerose autorità religiose e mediche dell’epoca. E fu all’origine di un’abbondante icono­ grafia, di parecchi libri. Miracolo meraviglioso, rispetto al quale quelli della Madonna di Lourdes mi sembrano quasi pietosi. Un uomo, « la cui gamba era morta e sepolta », che si ritrova con una gamba intatta! Mio padre regalò alla parroc­ chia di Calanda uno splendido poso, una di quelle effigi che vengono portate in processione, e che gli anarchici bruciarono durante la guerra civile. In paese - dove nessuno di noi metteva minimamente in dubbio questa storia - si diceva che re Felipe IV in persona fosse venuto a baciare la gamba riattaccata dagli angeli. Non crediate che esageri parlando di rivalità tra le varie Vergini. A Saragozza, in quello stesso periodo, un prete fece una predica durante la quale parlò della Madonna di Lourdes, riconoscendone i meriti ma aggiungendo subito dopo che tali meriti erano inferiori a quelli della Vergine del Pilar. Tra i fe­ deli c’erano una dozzina di francesi, che vivevano in qualità di istitutrici, e lettrici, nelle buone famiglie di Saragozza. Urtate dai discorsi del sacerdote, protestarono con l’arcivescovo Soldevilla Romero (ammazzato qualche anno dopo dagli anar­ chici). Non tolleravano che si potesse denigrare in quel modo la celebre Vergine francese. A Città del Messico, verso il i960, ho raccontato a un do­ menicano francese il miracolo di Calanda.

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Ha sorriso e mi ha detto: « Amico mio, ma non le sembra di calcare un po’ la ma­ no? ». Morte e fede. Presenza e potenza. In contrasto, la gioia di vivere ne usciva ancora più forte. I piaceri, sempre desiderati, aumentavano d’intensità quando riuscivi a soddisfarli. Gli ostacoli rafforzano la gioia. Malgrado la nostra fede sincera, niente poteva quietare una curiosità sessuale impaziente e un desiderio continuo, osses­ sionante. A dodici anni credevo ancora che i bambini venisse­ ro da Parigi (ma senza cicogna, arrivavano molto semplicemente col treno, o in carrozza) fino a quando un compagno che aveva due anni più di me - doveva finire fucilato dai re­ pubblicani - m’iniziò al grande mistero. Cominciò allora quel­ lo che tutti i ragazzini del mondo hanno passato: le discussio­ ni, le supposizioni, le informazioni imprecise, l’apprendistato dell’onanismo, e insomma la funzione tirannica del sesso. La più alta virtù, ci insegnavano, è la castità. Indispensabile a qualsiasi vita lodevole. Le durissime lotte dell’istinto contro la castità ci sfinivano, anche se si trattava soltanto di pensieri, di un opprimente senso di colpa. I gesuiti ci dicevano, per esem­ pio: « Sapete perché il Cristo non ha risposto a Erode che lo in­ terrogava? Perché Erode era un uomo lascivo, vizio per il qua­ le il nostro salvatore provava un orrore profondo ». Perché quest’orrore del sesso nella religione cattolica? Me lo sono chiesto molte volte. Per parecchi e svariati motivi pro­ babilmente, teologici, storici, morali e anche sociali. In una società organizzata e gerarchizzata il sesso, che non rispetta né barriere né leggi, può diventare in ogni momento un fattore di disordine e un pericolo autentico. Proprio per questo, credo, alcuni padri della Chiesa e san Tommaso d’ASo hanno manifestato, nel campo torbido e minaccioso carne, una notevole severità. San Tommaso arrivava per­ fino a pensare che l’atto d’amore tra marito e moglie costitui­ sca quasi sempre un peccato veniale, è impossibile infatti spazzar via dalla mente ogni concupiscenza. Ora, la concupi­ scenza è per sua natura malvagia. Desiderio e piacere sono ne­ cessari, poiché Dio lo ha voluto, ma ogni immagine di concu­ piscenza (che è il semplice volere d’amore), ogni pensiero im­ puro dovrebbe essere bandito dall’opera della carne a benefì­ cio di un’unica idea: far nascere su questa terra un nuovo ser­ vo di Dio.

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È chiaro, lo dico spesso, che quel divieto implacabile crea una sensazione di peccato che può diventare deliziosa. E que­ sto fu a lungo il mio caso. Però, per qualche motivo che mi sfugge, ho sempre trovato nell’atto sessuale una certa somi­ glianza con la morte, un rapporto segreto ma costante. Ho an­ che tentato di tradurre in immagini quest’inspiegabile sensa­ zione, quando in Un chien andalou l’uomo accarezza il seno nudo della donna, e poi all’improvviso il suo volto diventa quello di un cadavere. Che sia perché, nell’infanzia e nella gio­ vinezza, sono stato vittima della più feroce oppressione ses­ suale mai conosciuta nella storia? A Calanda, i giovani che potevano permetterselo andavano due volte all’anno nel bordello di Saragozza. Un anno - ma si era già nel 1917 - in occasione della grande festa della Vergine del Pilar, delle camareras, cameriere ritenute di facili costumi, vennero assunte da un caffè di Calanda. Per due giorni resi­ stettero ai molteplici e rudi pizzicotti dei clienti (el pizco, in aragonese), poi dovettero rinunciare e andarsene. Non ne po­ tevano più. Certo, Ì clienti si limitavano al semplice pizzico. Se avessero tentato qualcos’altro, sarebbe intervenuta immediata­ mente la Guardia civile. Quel piacere maledetto, tanto più gustoso in quanto ce lo presentavano come un peccato mortale, tentavamo d’immaginarcelo, e si giocava al dottore con le ragazzina, si osservava gli animali. Uno dei miei compagni cercò perfino di conoscere l’intimità di una giumenta, con l’unico risultato di una bella caduta dallo sgabello dove si era arrampicato. Fortunatamen­ te, non sapevamo nemmeno che esistesse la sodomia. D’estate, durante la siesta, nelle ore più calde e pesanti, quando le mosche ronzavano nelle vie deserte, ci riunivamo nella penombra di un negozio di stoffe. Porte chiuse, tende ti­ rate. Il commesso del negozio ci prestava allora qualche rivista « erotica » (lo sa Dio per quali vie erano approdate in quel po­ sto), la Hoja de Parra per esempio, e k.d.t., le cui riproduzio­ ni erano più realistiche. Quelle riviste proibite sembrerebbero oggi di un’innocenza angelica. Si poteva a mala pena distin­ guere l’attaccatura di una gamba o di un seno, il che bastava a infiammare i desideri, ad accendere le confidenze. La separa­ zione totale tra uomini è donne dava un eccesso di ardore ai nostri impulsi maldestri. Ancora oggi, quando ripenso alle mie prime emozioni sessuali, mi ricompaiono intorno odori di stoffa. A San Sebastian, quando arrivai ai tredici o quattordici an­ ni, le cabine balneari ci offrivano un altro mezzo d’informa­

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zione. Le cabine erano divise a metà da un tramezzo. Era faci­ le sgusciare in uno dei due stanzini e, attraverso un foro prati­ cato nel tramezzo, osservare le signore che si spogliavano nel­ l’altro. Però, in quell’epoca, la moda appuntò lunghi spilloni nei cappelli femminili, e le signore, sapendosi osservate, infilava­ no gli spilloni nei fori, senza timore di bucare un occhio curio­ so (più tardi, in El, ho ricordato questo particolare). Per di­ fenderci dagli spilloni, mettevamo nei fori dei pezzetti di ve­ tro. Un animo indipendente di Calanda, che sarebbe morto dal ridere ascoltando i nostri problemi di coscienza, era uno dei due medici, don Leoncio. Repubblicano arrabbiato, aveva tappezzato tutto il suo studio con pagine a colori della rivista El Motin, periodico anarchico e ferocemente anticlericale, po­ polarissimo nella Spagna di allora. Ricordo uno di quei dise­ gni. Due preti bene in carne sono seduti in un calessino. Cri­ sto, tra le stanghe, suda e fa smorfie per lo sforzo. Per dare un’idea del tono di quella rivista, ecco un esempio di come descriveva una manifestazione, a Madrid, durante la quale degli operai se la presero violentemente con dei preti, ferendo alcuni passanti, rompendo delle vetrine: « Ieri pomeriggio un gruppo di operai stava risalendo tran­ quillamente via de la Monterà, quando videro due preti che, sull’altro marciapiede, camminavano in senso opposto. Di fronte a questa provocazione... ». Ho citato spesso questo articolo, come un bell’esempio di « provocazione ». Venivamo a Calanda solo per la settimana santa e per pas­ sarci l’estate - questo fino al 1913, anno in cui scoprii il Nord e San Sebastian. La casa recentemente costruita da mio padre attirava i curiosi. Qualcuno, per vederla, arrivava perfino dai villaggi vicini. Era arredata e decorata secondo il gusto dell’e­ poca, quel « cattivo gusto » oggi rivendicato dalla storia del­ l’arte, il cui più celebre rappresentante, in Spagna, fu il grande catalano Gaudi. Quando l’ingresso principale si apriva, per lasciar entrare o uscire qualcuno, si vedevano, seduti o in piedi sui gradini da­ vanti al portone, un gruppo di bambini poveri dagli otto ai dieci anni, che lanciavano sguardi stupiti verso 1’interno « lus­ suoso ». Quasi tutti avevano in braccio un fratellino, o una so­ rellina, incapaci di cacciar via le mosche che gli si posavano al­

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l’angolo degli occhi, allo sbocco delle ghiandole lacrimali, o alla commessura delle labbra. Le madri di quei piccoli lavora­ vano nei campi, a meno che non si trovassero già a casa, per preparare le patate e i fagioli, cibo fondamentale e perenne degli operai agricoli. A meno di tre chilometri dal paese, vicino al fiume, mio pa­ dre fece costruire una casa di campagna, chiamata La Torre. Tutt’intorno, sistemò un giardino lussureggiante e alberi da frutto che scendevano verso un piccolo stagno, dove ci aspet­ tava una barca, e verso il fiume. Un piccolo canale d’irrigazio­ ne scorreva attraverso l’orto-giardino, nel quale il custode col­ tivava legumi. La famiglia al gran completo - una decina di persorte mini­ mo - si recava a La Torre quasi tutti i giorni, nelle due jardineras. Una carrettata di bambini felici, noi, incontrava abba­ stanza spesso per via qualche bambino magro e cencioso che, in un cesto sformato, raccoglieva lo sterco di cavallo del quale suo padre si sarebbe servito per concimare i pochi arpenti di terra che possedeva. Immagini di miseria che, mi sembra, ci lasciavano completamente indifferenti. La sera, si pranzava spesso abbondantemente nel giardino della Torre, al tenue chiarore di qualche lampada ad acetilene, e poi si rientrava in piena notte. Vita oziosa, senza rischi. Se avessi fatto parte di quelli che innaffiavano la terra con il loro sudore, e che raccoglievano lo sterco, quali sarebbero oggi i miei ricordi di allora? Eravamo probabilmente gli ultimi rappresentanti di un an­ tichissimo sistema di cose. Rari scambi commerciali. Obbe­ dienza ai cicli. Immobilità di pensiero. L’industria dell’olio era l’unica risorsa del paese. Era da fuori che ci arrivavano le stof­ fe, gli oggetti di metallo, le medicine, o meglio i prodotti di base sui quali poi lavorava lo speziale, secondo le prescrizioni del medico. L’artigianato locale seguiva le necessità più immediate: un maniscalco, un calderaio, dei fabbricanti di orci e vasi, un sel­ laio, dei muratori, un fornaio, un tessitore. L’economia agricola era rimasta semifeudale. Il proprietario affidava la terra a un mezzadro che gli cedeva metà del rac­ colto. Ho conservato una ventina di fotografìe scattate da un ami­ co di famiglia nel 1904 e nel 1905. Si vedono in rilievo, grazie a un apparecchio dell’epoca. Ecco mio padre, piuttosto robu­ sto, folti baffi bianchi e quasi sempre cappello cubano in testa (con l’eccezione di una paglietta). Ecco mia madre a venti­

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quattro anni, bruna e sorridente all’uscita dalla messa, salutata da tutti i notabili del paese. Ecco mio padre e mia madre in posa con un parasole, e mia madre a cavallo di un asino (foto chiamata « la fuga in Egitto »). Eccomi, a sei anni, in un cam­ po di mais con altri bambini. E poi lavandaie; contadini che tosano le pecore; mia sorella Conchita piccolissima tra le gam­ be di papà che chiacchiera con don Macario, mio nonno, che sta dando da mangiare al suo cane; un bellissimo uccello nel nido. Oggi, a Calanda, i poveri non siedono più vicino alla chiesa per elemosinare un pezzo di pane, il venerdì. Il paese è relati­ vamente ricco, la gente vive bene. Da molto tempo è scom­ parso il costume tradizionale: cintura alta, cachinolo sulla testa, calzoni stretti. Le vie sono asfaltate e illuminate. C’è l’acqua córrente, un sistema fognario a scarico diretto, cinematografi e bar. Come in tutto il resto del mondo, la televisione contribuisce efficace­ mente alla perdita di sé degli spettatori. Ci sono automobili, motociclette, frigoriferi, un benessere materiale accuratamente elaborato, equilibrato dalla società cui apparteniamo, nella quale il progresso scientifico e tecnologico ha relegato in zone lontane la morale e lo spirito dell’uomo. L’entropia - il caos ha assunto la forma, ogni giorno più terrorizzante, dell’esplo­ sione demografica. Ho avuto la fortuna di passare la mia infanzia nel Medioe­ vo, quell’epoca « dolorosa e squisita », come scriveva Huysmans. Dolorosa per la vita materiale. Squisita per la vita spiri­ tuale. Proprio il contrario dei nostri giorni.

I TAMBURI DI CALANDA

In parecchi villaggi dell’Aragona esiste una consuetudine forse unica al mondo, quella dei tamburi del venerdì santo. Si suona il tamburo a Alcaniz, a Hijar. Ma in nessun luogo con una forza così misteriosa, così irresistibile come a Calanda. Questa consuetudine, che risalirebbe alla fine del xvni se­ colo, non esisteva più verso il 1900. Uno dei preti di Calanda, Mosen Vicente Allanegui, la riportò in vita. I tamburi di Calanda suonano in continuazione, o quasi, dal mezzogiorno del venerdì santo fino al giorno dopo, sabato santo, alla stessa ora. Commemorano le tenebre che ricopriro­ no tutta la terra nell’attimo in cui Cristo morì, così come il ter­ remoto che la percosse, le rocce crollate, il velo del tempio squarciato da cima a fondo. Cerimonia collettiva impressio­ nante, stranamente emozionante, che udii per la prima volta dalla culla quando avevo due mesi. In seguito, vi ho partecipa­ to parecchie volte, fino a questi ultimi anni, facendo conosce­ re quei tamburi a molti amici che, tutti, sono rimasti colpiti come me. Nel 1980, durante il mio ultimo viaggio in Spagna, un certo numero di invitati venne riunito in un castello me­ dioevale, poco distante da Madrid, dove fu loro offerta la sor­ presa di una mattinata di tamburi, arrivati appositamente da Calanda. Tra gli invitati c’erano anche dei carissimi amici, Ju­ lio Alejandro, Fernando Rey, José-Luis Barros. Si dichiararono tutti molto commossi, senza alcun motivo particolare. Cinque di loro confessarono di avere perfino pianto. Ignoro la causa di questa emozione, che rassomiglia abba­ stanza a quella provocata talvolta dalla musica. Probabilmente è dovuta alle pulsazioni di un ritmo segreto, che ci colpisce dall’esterno trasmettendoci una specie di brivido fìsico, al di là di ogni ragione. Mio figlio Juan-Luis ha realizzato un corto­ metraggio, I tamburi di Calanda, e io stesso mi sono servito di quei battiti profondi e indimenticabili in parecchi film, e par­ ticolarmente in L'àge d'or e in Nazarin. Ai tempi della mia infanzia si potevano contare a malapena due o trecento partecipanti. Oggi, sono più di mille, tra i quali sei o settecento tamburi e quattrocento bombos (grancasse). Il venerdì santo, a fine mattina, la folla si raduna sulla piaz­ za principale, di fronte alla chiesa. E aspettano tutti nel silen­

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zio più totale, con il tamburo appeso al collo. Se per caso un impaziente si lascia sfuggire qualche colpo di bacchetta, l’inte­ ra folla lo zittisce. A mezzogiorno, al primo rintocco dalla chiesa, un rumore immenso, come il rombo di un tuono gigantesco, colpisce e schiaccia il villaggio. Tutti Ì tamburi si mettono a suonare con­ temporaneamente. Un’emozione indefinibile, che presto di­ venta una specie di ebbrezza, s’impadronisce dei suonatori. Passano così due ore, poi si forma una processione detta di El Prego» (il prego» è il tamburo ufficiale, il banditore pubblico), e questa processione lascia la piazza principale per fare il giro del paese. Gli ultimi non hanno ancora lasciato la piazza, così fìtta è la folla, che già i primi ricompaiono dall’altra parte. Nella processione si vedono soldati romani con barbe fìnte (chiamati putuntones, parola che, pronunciata, ricorda il ritmo del tamburo), centurioni, un generale sempre romano e un al­ tro personaggio di nome Longinos, chiuso in un’armatura me­ dioevale. Quest’ultimo, che in teoria difende il corpo di Cristo dai profanatori, a un certo punto si batte in duello con il gene­ rale romano. La folla dei tamburi circonda i due combattenti. Il generale romano, girando su se stesso, indica di essere mor­ to, e Longinos sigilla il sepolcro sul quale deve vegliare. Cristo è rappresentato da una statua che giace in una teca di vetro. Durante l’intera cerimonia si cantilena il testo della Passio­ ne, testo in cui ricorreva più volte l’espressione « sciagurati ebrei », poi cancellata da Giovanni XXIII. Verso le cinque, tutto è finito. Per un attimo, allora, silen­ zio. E poi i tamburi ricominciano a suonare per fermarsi solo l’indomani mattina. Il loro rullìo ubbidisce a cinque o sei ritmi diversi, che non ho dimenticato. Quando due gruppi, ciascuno con il suo rit­ mo preciso, arrivano all’angolo di una via, si fermano fronteg­ giandosi e allora si assiste a una vera e propria battaglia di rit­ mi, che può durare un’ora o più. Alla fine, il gruppo più de­ bole muore in quello più forte. Fenomeno straordinario, potente, cosmico, riguardante il nostro inconscio collettivo, i tamburi fanno tremare la terra sotto i piedi. Basta appoggiare una mano contro il muro di una casa per sentirla vibrare. La natura è unisona al ritmo dei tamburi, che va avanti per tutta la notte. Se qualcuno si ad­ dormenta, ravvolto nei battiti, si sveglia di colpo quando quei battiti si allontanano lasciandolo solo. Sul finire della notte la pelle dei tamburi è tutta macchiata

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di sangue. A forza di battere, le mani si feriscono e sanguina­ no. Eppure, si tratta di durissime mani contadine. Il sabato mattina alcuni vanno a commemorare l’ascesa al calvario su una collina, vicino al villaggio, dove c’è una via crucis. Gli altri continuano a battere sui loro tamburi. Alle sette, ci si ritrova tutti per la processione detta del entierro. Al primo rintocco di mezzogiorno, tutto si ferma fino all’anno se­ guente. Ma due o tre giorni dopo, involontariamente, quando la vita quotidiana si è riassestata, qualche abitante di Calanda continua a parlare in modo strano, a scatti e scossoni, come se ancora ubbidisse al ritmo dei tamburi muti.

SARAGOZZA

II padre di mio padre era un « contadino abbiente », il che significava avere tre mule. Ebbe due figli. Uno diventò farma­ cista, e l’altro - mio padre - lasciò Calanda per fare il servizio militare a Cuba, che apparteneva ancora alla Spagna. Quando arrivò a Cuba, gli dissero di riempire e firmare un pezzo di carta. Dato che, grazie al suo maestro elementare, aveva una grafìa di grande qualità, lo tennero in ufficio. I suoi compagni morirono tutti di malaria. A ferma scaduta, decise di rimanere sul posto. Assunto come capo commesso in un’a­ zienda, si dimostrò abile e serio. Poco tempo dopo fondò una ferreteria propria, specie di bottega bazar in cui si vendevano attrezzi, armi, spugne, un po’ di tutto. Diventò amico di un lustrascarpe che andava a trovarlo ogni mattina e di un altro impiegato. Mio padre gli affidò la società in accomandita, pre­ se con sé il denaro che aveva guadagnato e se ne tornò in Spa­ gna pochissimo tempo prima dell’indipendenza di Cuba. Si era fatto un piccolo patrimonio. (L’indipendenza interessò scarsamente gli spagnoli. La gente andava alla corrida, quel giorno, come se niente fosse.) Tornato a Calanda, aveva quarantatre anni, sposò una ra­ gazza di diciotto, mia madre. Acquistò molte terre e fece co­ struire la casa a La Torre. Primogenito della famiglia, fui concepito durante un viag­ gio a Parigi, all’hòtel Ronceray, nei pressi di Richelieu-Drouot. Ho avuto quattro sorelle e due fratelli. Il più vecchio dei due maschi, Leonardo, radiologo a Saragozza, è morto nel 1980. L’altro, Alfonso, di quindici anni meno di me, architetto, morì nel 1961 mentre giravo Viridiana. Mia sorella Alicia è decedu­ ta nel 1977. Siamo rimasti in quattro. Le altre sorelle, Conchi­ ta, Margarita e Maria, sono vive e vegete. Dal tempo degli iberi e dei romani - Calanda era già un vil­ laggio romano - si sono succeduti tanti di quegli invasori sul suolo di Spagna, dai visigoti agli arabi, che mille stirpi si sono mischiate. A Calanda, nel xv secolo, abitava una sola famiglia di vecchi cristiani. Tutte le altre erano arabe. All’interno di una stessa famiglia potevano saltar fuori dei tipi notevolmente diversi. Mia sorella Conchita, per esempio, poteva passare per una bella scandinava dai capelli chiari e gli occhi azzurri.

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Quanto a mia sorella Maria, invece, sembrava che fosse scam­ pata da qualche harem. Quando partì da Cuba, mio padre lasciò sull’isola i suoi due soci. Nel 1912, fiutando ravvicinarsi di una guerra euro­ pea, decise di tornare a Cuba e ricordo tutte le preghiere sera­ li in famiglia « per il buon viaggio di papà ». I due soci non vollero più riprenderlo negli affari. Tornò in Spagna esacer­ bato. Col favore della guerra, quei due guadagnarono milioni di dollari. Uno di loro, in carrozza scoperta, incontrò mio pa­ dre sulla Castellana, a Madrid, pochi anni dòpo. Non si scam­ biarono una parola, né un saluto. Mio padre era alto un metro e settantaquattro. Era robusto e aveva gli occhi verdi. Un uomo severo ma molto buono, che perdonava presto. Nel 1900, appena quattro mesi dopo la mia nascita, un po’ stanco di Calanda, decise di trasferirsi a Saragozza con tutta la famiglia. Ci sistemammo in un grande appartamento signorile oggi scomparso, un’ex capitaneria generale, che occupava tut­ to un primo piano e contava non meno di dieci balconi. Tran­ ne che per le vacanze a Calanda, e poi a San Sebastian, ho abi­ tato in quell’appartamento fino alla mia partenza per Madrid, nel 1917, dopo la maturità. L’antica città di Saragozza fu quasi completamente distrutta all’epoca dei due assedi sostenuti contro le truppe di Napoleo­ ne. Nel 1900, capitale dell’Aragona, con una popolazione di quasi centomila abitanti, Saragozza era una città tranquilla e ordinata. Malgrado la presenza di una fabbrica di vagoni fer­ roviari, nessuna agitazione operaia si era ancora manifestata in quella che un giorno gli anarchici avrebbero chiamato « la perla del sindacalismo ». I primi scioperi e le prime manifesta­ zioni serie che la Spagna abbia conosciuto scoppiarono a Bar­ cellona nel 1909 e videro la fucilazione del mite anarchico Fer­ rer (il quale, non sono mai riuscito a sapere perché, ha una statua a Bruxelles). Saragozza fu raggiunta un poco più tardi, nel 1917, soprattutto, quando si organizzò il primo grande sciopero socialista di Spagna. Città tranquilla e senza problemi, dove le carrozze e i caval­ li già fiancheggiavano i tram. La parte mediana delle vie era asfaltata, ma i lati restavano in balìa del fango. Impossibile at­ traversarle, quando pioveva. Mille campane, in mille chiese. Il giorno dei morti tutte le campane della città riempivano la notte del loro canto, dalle otto della sera alle otto del mattino.

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« Una povera donna svenuta è uccisa da un fiacre »: questa la notizia che faceva titolo sui giornali. Fino alla guerra del 1914 il mondo appariva come una terra immensa e lontana, scossa da avvenimenti che non ci toccavano, ci interessavano appena e ci arrivavano come una debole eco. Così, sono venuto a sa­ pere della guerra russo-giapponese, nel 1905, solo attraverso le figurine che trovavo nelle tavolette di cioccolato. Come molti ragazzi della mia età, avevo un album di figurine che sapevano di cioccolato. Fino ai tredici o quattordici anni, non ho mai vi­ sto un nero né un asiatico - tranne, forse, al circo. Il nostro unico odio organizzato - parlo di noi bambini - convergeva sui protestanti, per istigazione maligna dei gesuiti. Durante la grande fiera del Pilar ci è capitato di prendere a sassate un di­ sgraziato che vendeva bibbie per pochi centesimi. In compenso, nessuna traccia di antisemitismo. Fu solo molto tempo dopo, in Francia, che scoprii questa forma di razzismo. Nelle preghiere e nei racconti della Passione, gli spagnoli potevano colmare di disprezzo gli ebrei persecutori di Cristo. Ma non identificarono mai gli ebrei di quell’epoca con i loro contemporanei. La senora Covarrubias passava per la persona più agiata di Saragozza. Si diceva che possedesse beni per un valore di sei milioni di pesetas (a titolo di paragone, il patrimonio del con­ te di Romanones, l’uomo più ricco di Spagna, ammontava a cento milioni di pesetas). A Saragozza, mio padre doveva tro­ varsi al terzo o quarto posto. Poiché la banca ispano-america­ na era in difficoltà, le mise a disposizione il suo conto corren­ te, il che fu sufficiente, si raccontava in famiglia, a salvarla dal fallimento. Per dirla franca, mio padre non faceva niente. Alzarsi, pri­ ma colazione, toilette, lettura quotidiana dei giornali (abitudi­ ne che ho conservato). Dopo di che, andava a vedere se le sue casse di sigari erano arrivate dall’Avana, faceva qualche spesetta, comprava ogni tanto del vino o del caviale, prendeva re­ golarmente l’aperitivo. Il pacchetto delicatamente legato che conteneva il caviale era l’unico oggetto che mio padre consentisse a portare. Così volevano le convenzioni sociali, il suo posto nella società: un uomo nella sua posizione non portava niente. C’erano i dome­ stici per questo. Ugualmente, quando andavo dall’insegnante di musica, accompagnato dalla mia bambinaia, era lei a por­ tarmi la custodia del violino. Nel pomeriggio, dopo la colazione e il riposo che seguiva obbligatoriamente la colazione, mio padre si cambiava e anda­

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va al circolo. Dove giocava a bridge e a tresillo con gli amici, aspettando l’ora di pranzo. La sera, ogni tanto, i miei genitori andavano a teatro. Sara­ gozza aveva quattro teatri, quello principale, che esiste ancora, molto bello, carico di dorature, dove loro occupavano un pal­ co d’abbonamento e applaudivano ora un’opera ora una com­ media o un dramma rappresentati da attori in tournée, ora un concerto. Di stile quasi altrettanto nobile, il teatro « Pignatelli »> oggi scomparso. Più frivolo, specializzato in operette, il « Parisiana ». E infine un circo - che talvolta ospitava dei la­ vori teatrali - dove mi portavano abbastanza spesso. Uno dei miei ricordi più belli rimane la spettacolare operet­ ta tratta dai Figli del capitano Grant di Jules Verne. Devo averla vista cinque o sei volte, sempre impressionato dalla ca­ duta sul palcoscenico del grande condor. Uno dei grandi avvenimenti della vita di Saragozza fu il ra­ duno aereo dell’aviatore francese Védrines. Per la prima volta si sarebbe visto volare un uomo. Tutta la città si affollò in lo­ calità Buena Vista ricoprendo un’intera collina. Da lassù ve­ demmo effettivamente l’apparecchio di Védrines sollevarsi a una ventina di metri da terra, sotto gli applausi della folla. La cosa non m’interessava per niente. Acchiappavo lucertole e gli tagliavo la punta della coda, che continuava a muoversi per un po’ fra le pietre. Giovanissimo, avevo già una grande passione per le armi da fuoco. A soli quattordici anni, mi ero procurato una piccola browning che mi portavo sempre dietro - clandestinamente, inutile dirlo. Un giorno, sospettando qualcosa di losco, mia madre mi fece alzare le braccia, mi passò le mani sul corpo e sentì la pistola. Scappai a precipizio, scesi di corsa nel cortile dello stabile e buttai la browning nel deposito delle immondi­ zie - per recuperarla più tardi. Un’altra volta, sono seduto con un amico su una panchina. Arrivano due golfos, due giovani sfaccendati trottapiano, che si siedono sulla stessa panchina e incominciano a spingerci in là, tanto che il mio compagno cade a terra. Mi alzo e li minac­ cio di una punizione. Uno dei due allora afferra una banderilla insanguinata (era facile procurarsela dopo una corrida) e me la ficca sotto il naso. Tiro fuori la mia browning, in piena strada, e prendo la mira. Quelli si calmano immediatamente. Poco dopo, mentre se ne andavano, ho domandato scusa. Le mie collere non durano a lungo. Mi capitava perfino di prendere per una giornata la grossa pistola di mio padre e allenarmi a sparare in campagna. Chie-

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devo a un amico, che si chiamava Pelayo, di mettersi tipo cro­ cifìsso, con una mela o un barattolo di conserva su entrambe le mani, e sparavo. Credo di non aver mai sfiorato né la mela né la mano. Un’altra storia di allora: un giorno, qualcuno regalò ai miei genitori un intero servizio di piatti che veniva dalla Germania (rivedo ancora l’arrivo di quella scatola immensa). Su ogni pezzo c’era il ritratto di mia madre. In seguito, durante la guerra civile, tutto il servizio andò rotto e perduto. Molti anni dopo la fine della guerra, mia cognata trovò per caso uno di quei piatti da un antiquario di Saragozza. Lo comperò, me lo diede - ce l’ho ancora.

DAI GESUITI

I miei studi iniziarono presso i corazonistas, che si potrebbe tradurre: i fratelli del Sacro Cuore di Gesù. Erano quasi tutti francesi e tenuti in maggior considerazione dei lazzaristi, dalla buona società. Mi hanno insegnato a leggere in spagnolo, e perfino in francese, dato che ricordo ancora qualche celebre verso come: Où va le volume d’eau Que roule ainsi ce ruisseau? Dit un enfant à sa mère. Sur cette rivière si chère D’où nous le voyons partir Le verrons-nous revenir? *

Dopo il primo anno, entrai come esterno nel Colegio del Salvador, dai gesuiti, per rimanervi sette anni. L’enorme edifì­ cio del collegio è stato distrutto. Oggi, al suo posto si trova come dovunque - quello che chiamano un centro commercia­ le. Tutte le mattine verso le sette una carrozza - posso ancora udire il rumore dei vetri dalle giunture sconnesse - veniva a prendermi sotto casa e mi portava in collegio con gli altri esterni. La stessa carrozza mi riportava a fine giornata, a meno che non avessi preferito rientrare a piedi: il collegio infatti si trovava a soli cinque minuti da casa. * Dove va il volume dell'acqua / Che porta così il mio ruscello? / Dice un bambino alla mamma. / Su questo dolcissimo fiume / Dal quale vediamo che va / Lo vedremo se mai tornerà?

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Tutte le giornate iniziavano con la messa, alle sette e trenta, e terminavano con il rosario della sera. Solo gli interni indos­ savano la divisa completa. Gli esterni erano riconoscibili dal berretto, ornato da una spighetta. Il mio primo ricordo è un freddo paralizzante, grandi sciar­ pe, geloni alle orecchie, alle dita delle mani e dei piedi. Non c’era un solo ambiente riscaldato. Al freddo si aggiungeva una disciplina di altri tempi. Alla minima infrazione, l’allievo si ri­ trovava in ginocchio dietro al banco, oppure in mezzo alla stanza, le braccia tipo crocifisso, un libro pesante su entrambe le mani. In sala studio, il sorvegliante se ne stava su una peda­ na molto alta, fiancheggiata a destra e a sinistra da una scala con ringhiera. Da lassù, sorvegliava attento tutta la sala a volo d’uccello. Non ci concedevano un attimo di solitudine. Quando si studiava, per esempio, se qualche allievo usciva per andare al­ la toilette - uno alla volta, il che poteva durare parecchio tem­ po - il sorvegliante lo seguiva con gli occhi fino alla porta. Ap­ pena fuori, l’allievo si trovava sotto lo sguardo di un altro pre­ te che lo seguiva con gli occhi per tutto il corridoio. In fondo al corridoio, davanti alla porta del gabinetto, c’era un terzo prete. In compenso, facevano di tutto per evitare i contatti tra compagni. Si camminava sempre in fila per due, a braccia conserte (per impedire qualsiasi passaggio di biglietti, oltretut­ to), distanziati di circa un metro l’uno dall’altro. Ed è così che si arrivava nel cortile della ricreazione, in fila e in silenzio, fino a quando una campanella scioglieva voci e gambe. Sorveglianza continua, assenza di ogni contatto pericoloso tra allievi, e silenzio. Silenzio nello studio e in refettorio, come nella cappella. Su questi princìpi di base, rigorosamente osservati, si svi­ luppava un insegnamento naturalmente e ampiamente occu­ pato dalla religione. Studiavamo il catechismo, la vita dei san­ ti, l’apologetica. Il latino ci era familiare. Alcune tecniche anzi non erano che pure e semplici sopravvivenze dell’argomenta­ zione scolastica. Il desafio, per esempio, la sfida. Se ne avevo voglia, potevo lanciare una sfida a un compagno su questa o quella lezione del giorno. Chiamavo il suo nome, si alzava, gli facevo una do­ manda, gli lanciavo una sfida. U linguaggio usato in questi cer­ tami oratori era ancora quello medioevale: « Contra te! Super te! » (Contro di te! Sopra di te!) e anche: « Vis cento? » (Vuoi cento? cioè: Vuoi scommettere cento?) con la risposta: « Vo­ lo » (Lo voglio).

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Finita la sfida, il professore designava il vincitore. I due an­ tagonisti tornavano al loro posto. Ricordo anche le lezioni di filosofìa, in cui il professore ci spiegava con una specie di sorriso misericordioso la dottrina di quel povero Kant, per esempio, che si era così pietosamen­ te sbagliato nei suoi ragionamenti metafìsici. Prendevamo fret­ tolosamente appunti. Dopo di che, nella lezione seguente, il professore chiamava uno di noi e gli diceva: « Mantecon! Mi confuti Kant! ». Se l’allievo Mantecon aveva capito bene la le­ zione, la confutazione durava meno di due minuti. Fu intorno ai quattordici anni che incominciai ad avere i primi dubbi riguardo la religione della quale eravamo tutti co­ sì caldamente ammantellati. L’origine di quei dubbi fu la real­ tà dell’inferno e soprattutto del giudizio universale, una scena inconcepibile. Non riuscivo a immaginarmi tutti i morti e tut­ te le morte, di tutti i tempi e di tutti i paesi, nell’atto di alzarsi improvvisamente dal cuore della terra, come nei dipinti del Medioevo, per la resurrezione finale. Mi sembrava una cosa assurda, impossibile. Mi domandavo: dov’è che si troverebbe­ ro ammucchiati quei miliardi e miliardi di corpi? E anche: se esiste un giudizio universale, a cosa serve allora quell’altro, il giudizio che viene subito dopo la morte e che, in teoria, è de­ finitivo e irrevocabile? È anche vero che, oggi come oggi, molti preti non credono né all’inferno né al diavolo né al giudizio universale. I miei dubbi di allora li divertirebbero. Malgrado la severità, il silenzio e il freddo, conservo un ri­ cordo abbastanza buono del Colegio del Salvador. Nessuno scandalo sessuale è mai venuto a turbare l’ordine stabilito, sia tra allievi sia tra allievi e professori. Studente piuttosto bravo, la mia condotta era tra le più indegne di tutto il collegio. L’ul­ timo anno, ho passato la maggior parte delle ricreazioni in piedi in un angolo del cortile, punito. Una volta, l’ho fatta proprio grossa. Spettacolare! Avevo circa tredici anni. Era il martedì santo e il giorno do­ po dovevo partire per andare a battere con tutte le mie forze sui tamburi di Calanda. La mattina presto, mentre sto andan­ do in collegio a piedi, mezz’ora prima della messa, incontro due compagni. Di fronte al collegio ci sono un velodromo e un’infame taverna. I miei due cattivi ladroni mi spingono a entrare nella suddetta taverna per comprare una bottiglia di temibile aguardiente, quell’acquavite da quattro soldi che chia­

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mano matarratas (ammazzatopi). All’uscita dalla taverna, vici­ no a un piccolo canale, le due pesti mi incitano a bere, e lo sanno tutti quanto mi è difficile resistere a un invito del gene­ re. Io mi attacco alla bottiglia, mentre loro si bagnano appena le labbra: d’un tratto vedo tutto confuso e barcollo. I due cari compagni mi conducono in cappella dove m’ingi­ nocchio. Durante la prima parte della messa rimango in gi­ nocchio, a occhi chiusi, come tutti. Ma ecco la lettura del Vangelo, e i fedeli devono alzarsi. Faccio uno sforzo, mi alzo, e improvvisamente il mio stomaco va sottosopra e vomito tut­ to quello che ho bevuto sui sacri lastroni. Quel giorno - giorno in cui incontrai per la prima volta l’a­ mico Mantecon - mi portarono all’infermeria, e poi a casa. Si parlava di espellermi dal collegio. Molto scontento, mio padre minacciò di annullare il viaggio a Calanda, poi vi rinunciò, per bontà credo. A quindici anni, mentre andavamo a dare l’esame di fine anno all’istituto d’insegnamento secondario, che poi sarebbe il liceo laico, il nostro istitutore mi diede per non so quale mo­ tivo un calcio molto umiliante, tacciandomi di payaso (pagliac­ cio, clown). Uscii dalla fila, andai a dare l’esame da solo e la sera annun­ ciai a mia madre che i gesuiti mi avevano espulso. Mia madre andò dal direttore del collegio, il quale si dichiarò prontissimo a tenermi, dato che avevo ottenuto « l’iscrizione sull’albo d’onore », il premio più alto, in storia universale. Ma rifiutai di tornare in collegio. Allora m’iscrissero all’istituto, dove avrei passato due anni, fino alla maturità. Durante quei due anni, uno studente di diritto mi fece co­ noscere una collana non troppo cara di opere di filosofia, sto­ ria e letteratura, che nel Colegio del Salvador non avevo mai sentito nominare. Il campo delle mie letture si ampliò di col­ po. Scoprivo Spencer, Rousseau e perfino Marx. La lettura && Origine della specie di Darwin, che fu una folgorazione, contribuì a farmi perdere definitivamente gli ultimi residui di fede. Quanto alla verginità, se n’era appena andata in un pic­ colo bordello di Saragozza. Nello stesso tempo, dall’inizio del­ la guerra europea, tutto cambiava, tutto crollava, tutto si divi­ deva intorno a noi. In occasione di quella guerra, la Spagna già si spaccava in due opposte tendenze, fazioni irriducibili che, vent’anni dopo, si sarebbero massacrate tra loro. Tutta la destra, tutti gli elementi conservatori del paese si schierarono radicalmente per la Germania. Tutta la sinistra, tutti quelli

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che si dichiaravano liberali e moderni, facevano fuoco e fiam­ me per la Francia e gli Alleati. La tranquillità provinciale, i rit­ mi lenti e ripetuti, la gerarchia sociale che non si discute: tutto finito. Il xix secolo era morto. Avevo diciassette anni.

IL PRIMO CINEMA

Nel 1908, ancora bambino, scoprii il cinema. Il locale si chiamava « Farrucini ». All’esterno, su una bella facciata di legno in cui si aprivano due porte, una per entrare, l’altra per uscire, i cinque automi di un organetto di Barberia, con i loro bravi strumenti musicali, attiravano fragorosamente i perdigiorno. All’interno della baracca, coperta da un sempli­ ce telone, il pubblico sedeva su panche. Naturalmente, ero ac­ compagnato dalla bambinaia. Che mi accompagnava sempre, perfino quando andavo a trovare il mio amico Pelayo che abi­ tava di fronte a casa. Le prime immagini animate che vidi, e che mi stordirono dalla meraviglia, furono quelle di un maiale. Era un disegno animato. Cinto da una sciarpa tricolore, il maiale cantava. Un fonografo, sistemato dietro lo schermo, faceva perfino sentire la sua canzone. Il film era a colori, lo ricordo benissimo, il che vuol dire che avevano colorato le immagini ad una ad una. In quell’epoca si trattava semplicemente di un’attrazione da fiera, di una scoperta della tecnica. Fatta eccezione per la fer­ rovia e i tram, già entrati nella consuetudine, la tecnica cosid­ detta moderna aveva solo una minuscola parte nella vita di Sa­ ragozza. Credo che nel 1908 esistesse un’unica automobile, e per di più elettrica, in tutta la città. Il cinema, be’, era l’irru­ zione di un elemento assolutamente nuovo nel nostro universo medioevale. Negli anni successivi si aprirono delle sale cinematografiche permanenti, con poltrone e panche, a seconda del prezzo. Verso il 1914 esistevano tre cinema abbastanza belli, « Le Sa­ lon dorè », il « Coinè » (dal nome di un celebre fotografo) e l’« Ena Victoria ». Ho dimenticato il nome di un quarto, in via de Los Estebanes. In quella via abitava una mia cugina e dalla finestra della sua cucina si potevano vedere i film. Poi la finestra venne murata e la cucina fu ricoperta da un tetto di vetro, per lasciar passare la luce. Ma noi avevamo praticato un foro nella parete di mattoni e da lì, dandoci il turno, guarda­ vamo le immagini mute che si muovevano laggiù, in fondo.

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Non ricordo molto bene i film visti in quel periodo. Mi ca­ pita di confonderli con altri film che devo aver visto a Madrid. Ma rammento un comico francese che tombolava continuamente. In Spagna lo chiamavano Toribio (che fosse Onésime?). Davano anche film di Max Linder e di Méliès, come 11 viaggio sulla luna. I primi film americani arrivarono un po’ più tardi, sotto forma di comiche o romanzi d’avventura. Ricordo anche dei melodrammi romantici italiani, che strappavano le lacrime. Rivedo ancora Francesca Bertini, grande star italiana, la Greta Garbo del tempo, che piangeva tormentando la lunga tenda di una finestra. Una cosa patetica e alquanto barbosa. Conde Hugo (il conte Hugo) e Lucilla Love (che in spa­ gnolo si pronuncia « lové »), americani, furono gli attori più popolari di quel periodo. Partecipavano alle avventure senti­ mentali e movimentate dei feuilletons filmati. A Saragozza, oltre al tradizionale pianista, ogni sala aveva il suo explicador, un uomo cioè che, in piedi di fianco allo scher­ mo, spiegava a voce alta l’azione. Diceva per esempio: « Allora il conte Hugo vede passare sua moglie a braccetto con un altro uomo, che non è lui. E adesso vedrete, signore e signori, che aprirà il cassetto della scrivania per prendere la ri­ voltella e assassinare la moglie infedele ». Il cinema introduceva una forma di racconto talmente nuo­ va, talmente insolita, che la stragrande maggioranza del pub­ blico faticava parecchio a capire cosa succedeva sullo scher­ mo, e come si potessero concatenare gli avvenimenti, da una scena all’altra. Noi ci siamo abituati inconsciamente al lin­ guaggio cinematografico, al montaggio, alle azioni simultanee e successive, perfino al flash-back. Ma allora, il pubblico sten­ tava a decifrare un nuovo linguaggio. Di qui la presenza àeXTexplicador. Non posso dimenticare il mio terrore, condiviso del resto da tutta la sala, quando vidi per la prima volta una carrellata avanti. Sullo schermo una testa ci veniva addosso, sempre più grossa, come per divorarci. Impossibile immaginare per un so­ lo momento che la cinepresa si avvicinasse alla testa - o che quest’ultima ingrandisse per via di un trucco, come nei film di Méliès. Quello che vedevamo, era solo una testa che avanzava gonfiandosi a dismisura. E, proprio come san Tommaso, cre­ devamo a quello che vedevamo. Credo che mia madre sia andata al cinema un po’ più tardi, ma sono quasi certo che mio padre, morto nel 1923, non abbia mai visto un film in vita sua. Pure, nel 1909, venne a trovarlo un suo amico, proveniente da Palma di Maiorca, il quale gli

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propose di finanziare la sistemazione di varie baracche cine­ matografiche in quasi tutte le città di Spagna. Mio padre rifiu­ tò, provando solo disprezzo per quella che gli sembrava un’at­ tività da saltimbanchi. Se avesse accettato, oggi sarei forse il più grande distributore spagnolo. Nei primi venti o trent’anni della sua esistenza, il cinema fu considerato un semplice svago da fiera, alquanto volgare, buo­ no per il popolino, senza alcun avvenire artistico. Non interes­ sava nessun critico. Nel ’28 e ’29, quando annunciai a mia ma­ dre che intendevo realizzare un primo film, rimase sconvolta, fin quasi a piangere, come se le avessi detto: « Mamma, voglio fare il clown ». Ci volle l’intervento di un notaio, amico di fa­ miglia, il quale spiegò gravemente che il cinema permetteva di guadagnare somme non trascurabili e perfino di realizzare opere interessanti, come i grandi film sull’antichità girati in Italia. Mia madre si lasciò convincere, ma non vide mai il film che aveva pagato.

I RICORDI DI CONCHITA

Circa vent’anni fa, anche mia sorella Conchita scrisse qual­ che ricordo per la rivista francese Positif. Ed ecco, nella tradu­ zione di Marcel Oms, cosa diceva della nostra infanzia:

« Eravamo sette fratelli. Luis, il maggiore, e subito dopo tre sorelle, di cui la terza e più sciocca ero io. Luis nacque a Calanda per puro caso, ma crebbe e studiò a Saragozza. Poiché mi accusa spesso e volentieri di far risalire i miei racconti al periodo prenatale, preciso che i miei più lontani ri­ cordi sono un’arancia in un corridoio e una bella ragazza che si gratta una coscia bianca dietro a una porta. Avevo cinque anni. Luis studiava già dai gesuiti. La mattina presto litigava sem­ pre un po’ con mia madre perché voleva assolutamente anda­ re a scuola senza il berretto obbligatorio della divisa. Assai po­ co severa con il suo preferito, mia madre, su questo punto, era di un’intransigenza assoluta. Non ho mai capito bene perché. Quando Luis aveva già quattordici o quindici anni, lo face­ va seguire da una delle ragazze per assicurarsi che, come ave­ va promesso, non nascondesse il berretto sotto la giacca. Cosa che puntualmente faceva. Per intelligenza naturale e senza alcuno sforzo, Luis ottene­ va i voti migliori. Al punto che poco prima della fine dell’anno commetteva volontariamente qualche misfatto per evitare l’u­ miliazione di risultare il primo dei primi durante la pubblica distribuzione dei premi. Era durante il pasto serale che noi di famiglia ci informava­ mo, emozionati, della sua vita in collegio. Una volta Luis af­ fermò di aver tirato fuori dalla minestra, durante il pasto di mezzogiorno, un fetido e nero paio di mutandoni gesuitici. Mio padre, che in qualsiasi circostanza difendeva sempre e co­ munque collegio e professori, si rifiutò di credergli. Dato che Luis insisteva venne espulso dalla sala da pranzo, e uscì tutto dignitoso, dicendo, come Galileo: “Eppure, le mutande c’era­ no”. Verso i tredici anni, Luis incominciò a studiare violino per­ ché ne aveva una voglia matta e oltretutto sembrava portato per quello strumento. Aspettava che andassimo a letto e poi,

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col violino in mano, veniva nella stanza dove dormivamo noi tre sorelle; cominciava con l’esporci il “tema” che, me ne ren­ do conto ricordandolo oggi, era molto wagneriano anche se allora non lo sapeva certo nessuno dei quattro. Non credo che la sua musica fosse veramente musica, ma per me era l’illustra­ zione che arricchiva le mie avventure immaginarie. Luis riuscì a formare un’orchestra e nelle grandi solennità religiose insie­ me ai suoi compagni lanciava dall’alto dei cori, sulle folle esta­ tiche, le note della messa di Perosi e dell’Ade Maria di Schu­ bert. I miei genitori andavano spesso a Parigi e, al ritorno, ci riempivano di giocattoli. Da uno di quei viaggi mio fratello ebbe un teatrino che - a tanta distanza di tempo - mi sembra misurasse all’incirca un metro quadrato. Aveva fondali e sce­ nari. Ne ricordo due: il primo, la sala del trono; il secondo, una foresta. I personaggi di cartone raffiguravano un re, la sua regina, un buffone e degli scudieri. Non erano più alti di dieci centimetri e si muovevano solo frontalmente anche se cammi­ navano di lato tirati da un filo di ferro. Per aumentare il nu­ mero dei personaggi, Luis aveva anche un leone di zinco pronto a balzare che, in giorni migliori, era stato un fermacar­ te su una base di alabastro. Poi c’era una torre Eiffel dorata che fino a quel momento aveva prestato servizio ora in salotto, ora in cucina, ora nel ripostiglio. Non riesco a ricordare se la torre rappresentasse qualche bieco personaggio o una rocca­ forte. Ma ricordo bene di averla vista entrare in scena, nella sala del trono, saltellando legata alla rigida coda del leone ter­ ribile. Luis iniziava i suoi preparativi otto giorni prima della rap­ presentazione. Faceva le prove con gli eletti che, come nella Bibbia, erano alquanto scarsi; sistemava qualche sedia in una delle soffitte, e diramava gli inviti ai ragazzi e alle ragazze del paese, maggiori di dodici anni. All’ultimo momento si prepa­ rava un piccolo festino con caramelle, spumiglie e acqua e aceto zuccherata. Bevanda che, credendola originaria di qual­ che paese esotico, bevevamo con piacere e compunzione. Perché Luis lasciasse entrare anche noi sorelle, papà doveva minacciarlo di proibire la rappresentazione. Pochi anni dopo e per qualche motivo importante, il sinda­ co organizzò dei festeggiamenti nella scuola municipale. Mio fratello con altri due ragazzi entrò in scena vestito da mezzo gitano e mezzo bandito, brandendo un enorme paio di forbici da tosatore e cantando. A dispetto degli anni passati ricordo ancora le parole: “Con questo paio di forbici e il mio ardor di

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tagliare, me ne vado in Ispagna a tramare una piccola rivo­ luzione”. Oggi, quelle forbici, be’, sembrano Viridiana. Gli spettatori applaudirono fragorosamente, lanciandogli sigari e sigarette. Più tardi, dato che trionfava a “braccio di ferro” sui più forti del paese, organizzò degli incontri di boxe, soprannomi­ nando se stesso “il leone di Calanda”. A Madrid poi diventò campione dilettante dei pesi leggeri, ma ne so molto poco. In casa, Luis aveva incominciato a parlare del suo desiderio di laurearsi in agraria. L’idea piaceva a mio padre, che lo ve­ deva già apportare delle migliorie nelle nostre proprietà della bassa Aragona. Mia madre invece non ne voleva sapere: era una carriera che non si poteva “studiare” a Saragozza. Ma era proprio quello che Luis desiderava di più: lasciare Saragozza e la famiglia. Prese la maturità a pieni voti. In quell’epoca passavamo l’estate a San Sebastian. Luis or­ mai tornava a Saragozza solo per le vacanze, o in occasione di qualche disgrazia, come quando morì mio padre e lui aveva ventidue anni. A Madrid, trascorse tutto il periodo studentesco alla Resi­ denza, fondata da poco. La maggior parte dei suoi ospiti si sa­ rebbe poi grandemente distinta nelle lettere, nelle scienze o nelle arti, e l’amicizia con loro continua a essere una delle cose più belle nella vita di mio fratello. La biologia lo affascinò su­ bito, e per qualche anno aiutò Bolivar nei suoi lavori. Dev’es­ sere diventato un naturalista proprio in quell’epoca, credo. Il suo cibo quotidiano era paragonabile a quello di uno scoiattolo, e con temperature sottozero, malgrado la neve, an­ dava in giro vestito leggero e camminava a piedi nudi nei san­ dali. Mio padre ne era molto contrariato. Orgoglioso in fondo al cuore di avere un figlio capace di simili cose, lo negava e si arrabbiava quando lo vedeva alzare una gamba dopo l’altra per lavarsi Ì piedi nell’acqua gelida di un lavandino, tanto spesso quanto le mani. In quel periodo (o forse era prima: so­ no in eterno bisticcio con il calendario) trattavamo come un membro della famiglia un enorme topo grosso come una le­ pre, sporco, e con la coda tutta rasposa. Lo facevamo viaggia­ re con noi dentro a una gabbia per i pappagalli e per molto tempo ci complicò grandemente la vita. Morì, poveretto, co­ me un santo, manifestando tutti i sintomi dell’avvelenamento. Avevamo cinque cameriere e non riuscimmo a scoprire l’assas­ sina. Comunque, lo dimenticammo ancor prima che il suo odore fosse completamente scomparso. Avevamo sempre qualche animale: scimmie, pappagalli, fai-

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chi, rospi e rane, un paio di bisce, una grande lucertola africa­ na che la cuoca, in un moto di terrore, uccise sadicamente sul­ la piastra del fornello, colpendola con l’attizzatoio. Non dimentico la pecora Gregorio che per poco non mi maciullò il femore e il bacino, quando avevo dieci anni. Credo l’avessero portata, giovanissima, dall’Italia. Fu sempre un’ipo­ crita. Il mio grande amore era Nené, il cavallo. Avevamo una cappelliera piena di topolini grigi. Apparte­ nevano a Luis, ma ce li lasciava guardare una volta al giorno. Ne aveva selezionato qualche coppia che, ben nutrita e abbru­ tita, non faceva che procreare e procreare. Prima di andarse­ ne, li portò su in soffitta, e con grave danno dell’addetto ai luoghi rese loro la libertà, raccomandandogli di “crescere e moltiplicarsi”. Tutti noi abbiamo amato e rispettato qualsiasi forma viven­ te, anche di vita vegetale. Credo che anche loro ci rispettino e ci amino. Potremmo attraversare una foresta brulicante di be­ stie feroci senza il minimo rischio. Una sola eccezione: i ra­ gni. Mostri orrendi e terrificanti che in ogni momento possono privarci della gioia di vivere. Una strana morbosità bunuelesca ne fa il soggetto principale delle conversazioni famigliati. I no­ stri racconti sui ragni sono fiabeschi. Si favoleggia che mio fratello Luis, vedendo un mostro con otto occhi e la bocca munita di pedipalpi a uncino, in una lo­ canda toledana dove stava mangiando, svenne per tornare in sé solo alle porte di Madrid. È stata mia sorella maggiore a non trovare un foglio abba­ stanza grande per disegnarci la testa e il torace del ragno che la spiava in un albergo. Quasi in lacrime, ci raccontava le quattro paia di sguardi che le lanciò la belva quando un came­ riere ai piani, incomprensibilmente calmo, lo portò fuori dalla camera tenendolo per una zampa. Questa stessa sorella imita con la sua mano graziosa il passo barcollante e terribile dei vecchi ragni pelosi e impolverati che tirandosi dietro sporchi brandelli della propria materia e am­ putati di una zampa attraversano i ricordi della nostra infan­ zia. L’ultima avventura mi capitò non molto tempo fa. Stavo scendendo le scale, quando udii alle mie spalle un tonfo spor­ co e molliccio. Intuii subito cos’era. Sì, era proprio lui, l’or­ rendo nemico ereditario dei Bunuel. Credetti di morire, e non dimenticherò mai l’orrendo, infernale rumore di vescica scop­ piata che fece quando il piede del ragazzino che portava i

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giornali lo schiacciò. Ero sul punto di dirgli: “Mi hai salvato più della vita”. Mi domando ancora per quale spaventoso di­ segno mi stesse seguendo. I ragni! Quegli incubi, come hanno riempito le nostre con­ versazioni tra fratelli! Quasi tutti gli animali di cui ho parlato appartenevano a Luis e non ho mai visto alcuna creatura trattata e curata me­ glio, ciascuna a seconda delle proprie necessità biologiche. Ancora oggi, continua ad amare gli animali e ho perfino il so­ spetto che stia tentando di cancellare il suo odio verso i ragni. In Viridiana c’è una lunga strada, dove si vede un povero cane legato a corda corta, sotto un carretto. Alla ricerca di idee per il film, Luis soffrì molto per aver assistito realmente a quella scena e fece di tutto per evitarla, ma è un’usanza così radicata nel paesaggio spagnolo che sarebbe stato come lotta­ re contro i mulini a vento. Per tutte le riprese di quella scena, ho comperato dietro suo ordine un chilo di carne per i cani, e per qualsiasi altro cane che passasse per caso di là. Durante una delle estati trascorse a Calanda, ci è capitata la “grande avventura” della nostra infanzia. Luis avrà avuto sui tredici o quattordici anni. Avevamo deciso di andare in un vil­ laggio vicino senza il permesso dei genitori. In compagnia di certi cugini della stessa età, siamo partiti - non so perché - ve­ stiti a festa. Il villaggio, distante cinque chilometri circa, si chiama Foz. Ci avevamo proprietà e fittavoli. Siamo andati a trovare tutti quanti e tutti quanti ci hanno offerto vino dolce e biscotti. Il vino ci diede una tale euforia e un tale coraggio che decidemmo di andare al cimitero. Ricordo Luis lungo disteso sul tavolo delle autopsie, che chiedeva a gran voce di togliergli i visceri. Ricordo anche i nostri sforzi per aiutare una delle mie sorelle a tirar fuori la testa da un foro che il tempo aveva aperto in una tomba. Era incastrata talmente bene che Luis dovette strappar via il gesso con le unghie per poterla liberare. Dopo la guerra sono tornata in quel cimitero per ritrovarvi i miei ricordi. Mi è sembrato più piccolo e più vecchio. Mi ha fatto una grande impressione vedere, buttata in un angolo, una piccola bara bianca, tutta smantellata, con dentro i resti mummificati di un piccino. Attraverso quello che era stato il suo ventre, cresceva un grande ciuffo di papaveri scarlatti. Dopo la nostra visita inconsapevolmente sacrilega al cimite­ ro abbiamo preso la via del ritorno attraverso le montagne spelacchiate, arse dal sole, in cerca di qualche grotta fiabesca. Poiché il vino dolce continuava ad agire, fummo capaci di au­ dacie di fronte alle quali indietreggiano anche i più grandi:



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saltare in un burrone stretto e profondo, arrampicarci su per un altro, orizzontale, e raggiungere la prima caverna. Tutto il nostro equipaggiamento da speleologi consisteva in un pezzo di candela recuperato nel cimitero. Fino a quando durò quella luce continuammo a camminare e poi, di colpo, più niente, né luce, né coraggio, né gioia. I battiti d’ali dei pipistrelli: Luis diceva che si trattava di semplici pterodattili preistorici e che ci avrebbe difeso lui dai loro attacchi. Poi, a uno di noi venne fame, e Luis si offrì eroicamente in pasto. Era già il mio idolo e, piangendo, proposi di essere mangiata al suo posto: ero la più giovane, la più tenera e la più sciocca del primo gruppo di fratelli e sorelle... Ho dimenticato l’angoscia di quelle ore, come si dimentica il dolore fìsico. Ma ricordo benissimo la nostra felicità, quan­ do ci ritrovarono, insieme alla paura del castigo. Non ci fu al­ cun castigo dato che eravamo conciati davvero molto male; siamo tornati al “dolce focolare” su una carrozza tirata da Nené. Mio fratello aveva perso conoscenza. Non so se fosse un colpo di sole, la sbronza, o pura tattica. Per due o tre giorni i nostri genitori ci rivolsero la parola in terza persona. Quando credeva che non lo udissimo, mio pa­ dre raccontava a quelli che venivano a trovarlo la nostra av­ ventura, esagerandone le difficoltà ed esaltando il sacrifìcio di Luis. Nessuno citò mai il mio, perlomeno altrettanto eroico. È sempre andata così, in famiglia, e solo mio fratello Luis ha sempre riconosciuto e lodato i miei pochi pregi. Passarono gli anni. Ci vedevamo pochissimo, Luis per i suoi studi e noi per la nostra inutile educazione di ragazze di buona famiglia. Le mie due sorelle maggiori, anche se molto giovani, si erano sposate. A Luis piaceva giocare a dama con la secon­ da. Le loro partite finivano sempre male tanto s’incaponivano a vincere, sia l’uno sia l’altra. Non giocavano a soldi ma si face­ vano una specie di guerra fredda. Se vinceva lei, le spettava il diritto di torcere e tirare quella specie di baffi inesistenti che Luis aveva sotto il naso, fino al limite della sua sopportazione. Luis resisteva per ore e poi esplodeva, buttando all’aria la scac­ chiera e tutto quello che trovava a portata di mano. Se vinceva lui, gli spettava il diritto di avvicinare alla bocca di mia sorella un fiammifero acceso per costringerla a dire una parolaccia che avevamo imparato da un ex cocchiere. Que­ st’ultimo ci raccontava, quando eravamo ancora molto piccoli, che il pipistrello al quale bruci il muso dice: “Coglione, co­ glione”. Mia sorella si rifiutava di fare il pipistrello e la cosa fi­ niva sempre male ».

I PIACERI TERRENI

Ho trascorso ore deliziose nei bar. Il bar è per me un luogo di meditazione e raccoglimento, senza il quale la vita è incon­ cepibile. Abitudine antica che si è rafforzata nel corso degli anni. Come san Simone stilita che, appollaiato sulla colonna, conversa con il suo invisibile dio, ho trascorso nei bar lunghi momenti di sogno, o meglio di fantasticheria, parlando rara­ mente con i camerieri e quasi sempre con me stesso, tutto pre­ so da cortei di immagini che non finiranno mai di sorprender­ mi. Oggi, vecchio come il secolo, non esco più di casa. E solo, nella mia stanzetta, all’ora sacra dell’aperitivo, con tutte le mie bottiglie intorno, mi piace ricordare i bar che ho amato. Voglio innanzitutto precisare che faccio una netta distinzio­ ne tra bar e caffè. A Parigi, per esempio, non sono mai riuscito a trovare un bar decente. In compenso, è una città ricca di bellissimi caffè. Dovunque vai, da Belleville a Auteuil, non ti verrà mai l’angoscia di non trovare un tavolo, un cameriere e qualcosa da bere. Si può forse immaginare Parigi senza i caffè, senza quei meravigliosi tavolini all’aperto, senza le rivendite di tabacchi? Tanto varrebbe vivere in una città distrutta da un’e­ splosione atomica. Gran parte dell’attività surrealista si è svolta al caffè « Cyra­ no », in place Bianche. Mi piaceva anche il « Select », agli Champs-Elysées. E non sono stato invitato all’inaugurazione della « Coupole », a Montparnasse, dove Man Ray e Aragon mi diedero appuntamento per organizzare la prima proiezione di Un chien andalou. Non posso citare tutti gli altri. Dico sol­ tanto che il caffè presuppone la discussione, l’andirivieni e l’a­ micizia, a volte rumorosa, delle donne. Il bar invece è un esercizio di solitudine. Deve innanzitutto essere tranquillo, piuttosto buio, molto comodo. Qualsiasi musica dev’essere severamente bandita (contrariamente all’abitudine infame che prevale oggi). Al massimo una dozzina di tavoli con, se possibile, dei clienti abituali che parlino poco. Mi piace per esempio il bar dell’hótel Plaza, a Madrid. Che si trova nel seminterrato, ottima cosa, in quanto bisogna diffi­ dare dei paesaggi. Il maitre mi conosce bene e mi porta subito al mio tavolo preferito, spalle al muro. Dopo l’aperitivo, vo-

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tendo, ti servono il pranzo. La luce è complessivamente molto discreta, ma i tavoli sono abbastanza illuminati. A Madrid, mi piaceva molto anche il « Chicote », pieno di preziosi ricordi. Ma ci si va più volentieri con gli amici che per una meditazione solitaria. All’hótel del Paular, a nord di Madrid, che è sistemato in uno dei cortili di un magnifico monastero gotico, avevo l’abi­ tudine di prendere l’aperitivo, la sera, in un lungo salone dove si alzano delle colonne di granito. Tranne il sabato e la dome­ nica, giorni sempre nefandi in cui turisti e bambini urlacchianti si affollavano ovunque, ero praticamente solo, attor­ niato da riproduzioni dei quadri di Zurbaràn, uno dei miei pittori preferiti. Ogni tanto l’ombra silente di un cameriere passava lontano, rispettando il mio raccoglimento alcolico. Posso dire di aver adorato quel posto quanto un carissimo amico. Al termine di una giornata di passeggiate e lavoro, Jean-Claude Carrière, che collaborava alle sceneggiature, mi lasciava solo per quarantacinque minuti. Quando tornava, udivo il suo passo puntuale sui lastroni di pietra. Si sedeva di fronte a me, e allora dovevo - per reciproco accordo, infatti sono convinto che l’immaginazione sia una facoltà della mente passibile di allenamento e sviluppo, proprio come la memoria - raccontargli una storia, breve o sintetica, immaginata duran­ te quei tre quarti d’ora passati a fantasticare. Storia che poteva avere o non avere attinenza con la sceneggiatura cui stavamo lavorando. Poteva essere comica o melodrammatica, sangui­ nosa o celestiale. L’importante era raccontarla. Solo, con le riproduzioni di Zurbaràn e le colonne di grani­ to - questa straordinaria pietra di Castiglia - in compagnia della mia bevanda preferita (ne riparlerò fra poco), mi lascia­ vo andare, fuori del tempo, senza sforzo, aprendomi alle im­ magini che quasi subito sgusciavano nella stanza. Mi capitava di pensare a cose di famiglia, a progetti prosaici, e d’un tratto accadeva qualcosa, un’azione, molto spesso sorprendente, si precisava, apparivano dei personaggi, che parlavano, espone­ vano i loro conflitti, i loro problemi. Mi capitava di ridere, so­ lo soletto nel mio angolino. A volte, quando sentivo che quel­ l’azione inattesa avrebbe potuto servire per la sceneggiatura, facevo marcia indietro, mi sforzavo di organizzare le cose, con più o meno successo, e di dirigere le mie idee vagabonde. A New York, conservo un bellissimo ricordo del bar dell’hótel Plaza, anche se si trattava di un posto molto frequenta­ to (e proibito alle donne). Ero solito dire agli amici, che han­ no potuto constatarlo varie volte: « Se passate da New York e

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volete sapere se ci sono, andate al bar del Plaza a mezzogior­ no. Se sono a New York, sono là ». Oggi, quel magnifico bar, con vista sul Central Park, è malauguratamente invaso dal ri­ storante. Al bar vero e proprio, restano solo due tavolini. Una parola sui bar messicani che frequento: mi piace mol­ to, a Città del Messico, quello di « E1 Parador », dove però è meglio andare con gli amici, come da « Chicote ». Per molto tempo mi sono sentito completamente a mio agio nel bar dell’hótel di San José Purua, nel Michoacàn, dove ho scritto sce­ neggiature per più di trent’anni. L’albergo si trova sul fianco di un grande canyon semitropi­ cale. Di conseguenza le finestre del bar davano su un bellissi­ mo paesaggio, cosa generalmente deleteria. Per fortuna, pro­ prio davanti alla finestra, c’era un enorme albero tropicale, una ziranda, dai rami flessibili e tutti intrecciati come un nodo di serpenti giganti, che nascondeva in parte il paesaggio verde. Lasciavo i miei occhi smarrirsi nei mille e mille crocicchi dei rami, che seguivo come i fili sinuosi di molteplici storie, e sui quali vedevo ogni tanto posarsi un gufo, una donna nuda, o altro. Sfortunatamente, e senz’alcun motivo valido, hanno chiuso quel bar. Mi rivedo ancora, insieme a Silberman e Jean-Claude, nel 1980, vagabondare disperatamente nei meandri dell’al­ bergo alla ricerca di un posto possibile. È un ricordo penoso. La nostra epoca devastatrice, che distrugge tutto, non rispar­ mia neanche i bar. E adesso devo parlare delle bevande. Trattandosi di un ar­ gomento per me praticamente inestinguibile - una conversa­ zione di questo genere con il produttore Serge Silberman può andare letteralmente avanti per ore - mi sforzerò di essere il più conciso possibile. Un consiglio ai non interessati - che, ahimè!, esistono saltate qualche pagina! Al di sopra di tutto, metto il vino e in particolare quello rosso. In Francia si trova il migliore e il peggiore (niente è più ignobile del « bicchierotto di rosso » dei bistrots parigini). Ho una grande tenerezza per il Valdepenas spagnolo che si beve bello fresco, da un otre di pelle di capra, e per lo Yepes bian­ co del toledano. I vini italiani mi sembrano adulterati. Negli Stati Uniti esistono dei buoni vini californiani, il Ca­ bernet e altri. Qualche volta bevo un vino cileno o messicano. È tutto, o quasi. Naturalmente, non bevo mai vino in un bar. Il vino è un piacere puramente fìsico, che non eccita in alcun modo l’im­ maginazione.

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In un bar, per provocare e alimentare una fantasticheria, ci vuole del gin inglese. La mia bevanda preferita è il martini dry. Dato il ruolo primordiale svolto dal martini dry nella vita che sto raccontando, devo proprio dedicargli un paio di pagine. Come tutti i cocktail, il martini dry è probabilmente un’inven­ zione americana. Composto essenzialmente di gin e poche gocce di vermut, meglio se Noilly-Prat. I suoi veri cultori, che lo preferivano molto secco, arrivavano al punto di sostenere che si doveva semplicemente lasciar passare un raggio di sole attraverso una bottiglia di Noilly-Prat, prima di accostare il bicchiere di gin. Un buon martini dry, dicevano un tempo in America, deve assomigliare alla concezione di Maria Vergine. Di fatto, lo sanno tutti che secondo san Tommaso d’Aquino il potere generatore dello Spirito Santo attraversò l’imene della Vergine « come un raggio di sole passa attraverso un vetro, senza spezzarlo ». Stessa cosa per il Noilly-Prat, dicevano. Sa­ rà, ma lo trovo decisamente eccessivo. Altra raccomandazione: il ghiaccio dev’essere molto freddo, e molto duro, per evitare la più piccola goccia d’acqua. Non c’è niente di peggio che un martini annacquato. Permettetemi di dare la mia ricetta personale, frutto di una lunga esperienza, con la quale ottengo sempre un certo suc­ cesso. Il giorno che precede l’invito, metto tutto l’occorrente in frigorifero: bicchieri, gin e shaker. Un termometro mi permet­ te di regolare la temperatura del ghiaccio, mantenendola sui venti sottozero costanti. Il giorno dopo, quando gli amici sono già in casa, tiro fuori tutto. Sul ghiaccio durissimo verso dapprima qualche goccia di Noilly-Prat e un mezzo cucchiaino da caffè di angostura. Scuoto e butto via. Trattengo solo il ghiaccio, che conserva la traccia leggera dei due profumi, e sul ghiaccio verso direttamente il gin puro. Scuoto un altro po’ e servo. Tutto qua, ma è una delizia. A New York, negli anni Quaranta, il direttore del Museo d’arte moderna mi insegnò una versione leggermente modifi­ cata. Invece dell’angostura, aggiungeva qualche goccia di pernod. Mi sembrò un’eresia, e del resto quella moda è passata. Oltre al martini dry, che resta il mio preferito, sono il mo­ desto inventore di un cocktail che si chiama Bunueloni. In realtà, ho semplicemente plagiato il famoso Negroni, solo che, invece di mischiare Campari, gin e Cinzano dolce, sostituisco il Campari con il Carpano. È un cockatil che bevo preferibilmente la sera, prima di

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mettermi a tavola. E qui, ancora una volta, il gin, che la fa da leone sugli altri due elementi, garantisce un buon funziona­ mento dell’immaginazione. Perché? Non lo so. Ma l’ho con­ statato. Come avrete capito, non sono certo un alcolizzato. In alcu­ ne occasioni ho bevuto fino a rotolare sotto il tavolo. D’accor­ do. Ma il più delle volte si tratta di un rituale delicato, che non dà una vera ubriacatura ma solo una specie di ebbrezza, di tranquillo benessere, che forse somiglia all’effetto di una droga leggera. E questo mi aiuta a vivere e a lavorare. Se qual­ cuno mi domandasse se, anche per un unico giorno in vita mia, ho mai avuto la sventura di ritrovarmi senza la possibilità di bere, risponderei che non ricordo proprio. Ho sempre avu­ to qualcosa da bere, perché ho sempre preso le mie precau­ zioni. Nel 1930, per esempio, in pieno proibizionismo, ho passato cinque mesi negli Stati Uniti, e credo di non aver mai bevuto di più. Avevo, a Los Angeles, un amico bootlegger * - lo ricor­ do bene, gli mancavano tre dita di una mano - che m’insegnò a distinguere il gin fasullo da quello autentico. Bastava agitare la bottiglia in un certo modo: il gin autentico faceva bollicine. Potevi trovare del whisky anche nelle farmacie, dietro pre­ scrizione medica, e in certi ristoranti servivano il vino nelle tazzine da caffè. A New York, conoscevo un fornitissimo speak-easy ** dove si trovava di tutto. Bussavi a una piccola porta in un certo modo, si apriva uno spioncino, entravi rapi­ damente. Dentro, era un bar come tanti. Vi si trovava tutto quel che si voleva. Il proibizionismo fu veramente una delle idee più assurde del secolo. Bisogna anche dire che allora gli americani prende­ vano delle sbronze terrificanti. Credo che, dopo, abbiano im­ parato a bere. Avevo anche un debole per gli aperitivi francesi, il Piconbirra-granatina per esempio (la bibita preferita del pittore Tanguy) e soprattutto il mandarino-curacjao-birra che, molto più forte del martini dry, mi dava subito alla testa. Queste straordinarie misture sono malauguratamente in via di estin­ zione. Stiamo assistendo a una terribile decadenza dell’aperiti­ vo, triste segno dei tempi, insieme ad altri. Naturalmente, ogni tanto bevo vodka con il caviale e ac­ quavite con il salmone affumicato. Mi piacciono gli alcolici * Contrabbandiere d’alcol, ai tempi del proibizionismo. ** Rivendita clandestina di alcolici.

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messicani, la tequila e il mezcal, ma sono semplici succedanei. Quanto al whisky, non mi ha mai interessato. È un alcolico che non capisco. Una volta, in una di quelle rubriche mediche che si trovano nelle riviste francesi - Marie-France, mi sembra - ho letto che il gin è un magnifico calmante e combatte con grande efficacia l’angoscia che spesso accompagna i viaggi aerei. Decisi di veri­ ficare immediatamente la veridicità di quest’affermazione. Avevo sempre avuto paura dell’aereo, una paura costante e incontrollabile. Se per esempio vedevo passare uno dei piloti nel corridoio, con aria seria, mi dicevo: « Ci siamo, è finita, glielo leggo in faccia ». Se invece passava tutto sorridente e gentile, mi dicevo: « Male, malissimo, vuole rassicurarci ». Tutti timori che sparirono come per incanto il giorno in cui decisi di seguire gli eccellenti consigli di Marie-France. Presi l’abitudine di preparare, a ogni viaggio, una fiaschetta di gin che avvolgevo in un foglio di giornale per tenerla al fresco. Nel salone d’imbarco, aspettando che chiamassero i passegge­ ri, tracannavo furtivamente qualche bel bicchiere di gin e, su­ bito, mi sentivo tranquillo, sicuro, pronto ad affrontare le tur­ bolenze più orrende col sorriso sulle labbra. Mi ci vorrebbe una vita per enumerare tutti i vantaggi del­ l’alcol. A Madrid, nel 1978, quando, in disaccordo totale con un’attrice, disperavo di proseguire le riprese di Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio) e Serge Sil­ berman, il produttore, decideva di interrompere il film, il che avrebbe rappresentato una grossa perdita, una sera, mentre ci trovavamo entrambi e piuttosto abbattuti in un bar, mi venne di colpo un’idea, ma solo dopo il secondo martini dry: perché non prendere due attrici per recitare la stessa parte? Mai fatto prima, ma Serge si buttò sull’idea, che gli prospettavo come una battuta, e il film, grazie a un bar, fu salvo. A New York una volta, negli anni Quaranta, con Juan Negrin, figlio dell’ex presidente del consiglio repubblicano, e con sua moglie, l’attrice Rosita Diaz, due carissimi amici, elabo­ rammo il progetto di aprire un bar che avrebbe dovuto chia­ marsi « Au coup de canon » e che sarebbe stato scandalosa­ mente caro, il più caro del mondo. Nel quale si sarebbero po­ tute trovare sempre e soltanto bevande prelibate, di una raffi­ natezza incredibile, provenienti dai quattro angoli della terra. Avrebbe dovuto essere un bar intimo, molto confortevole, e com’è ovvio di un gusto squisito, con una decina di tavoli in tutto. Davanti alla porta, per giustificarne il nome, avremmo piazzato un’antica bombarda, con miccia e polvere da sparo,

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che avrebbe esploso un colpo fortissimo, a qualsiasi ora del giorno o della notte, tutte le volte che un cliente avesse sbor­ sato mille dollari. Quest’idea seducente, ma direi scarsamente democratica, non arrivò mai in porto. Il progetto rimane a chi lo sfrutterà. È interessante immaginare un modesto impiegato, in qualche edifìcio vicino, svegliato di colpo alle quattro del mattino da una cannonata che dice alla moglie, sdraiata accanto a lui: « Ecco un altro fetente che si è appena bevuto mille dollari! ». Impossibile bere senza fumare. Quanto a me, ho incomin­ ciato a fumare verso i sedici anni e da allora continuo. E an­ che vero che non ho mai fumato - quasi mai - più di venti si­ garette al giorno. Cosa ho fumato? Di tutto. Sigarette spagno­ le dal forte tabacco nero. Da una ventina d’anni a questa parte mi sono affezionato alle sigarette francesi, le Gitanes e soprat­ tutto le Celtiques, che sono il meglio del meglio. Il tabacco, che si sposa meravigliosamente con l’alcol (se l’alcol è la regina, il tabacco è il suo re), è un affettuoso com­ pagno di qualsiasi avvenimento della vita. Accendi una siga­ retta per festeggiare una gioia o per nascondere un’amarezza. Quando sei solo, o in compagnia. Il tabacco è un piacere di tutti i sensi, della vista (che bel­ lezza, le bianche sigarette schierate come soldatini sotto la car­ ta stagnola), dell’odorato, del tatto. Se mi bendassero gli occhi e m’infilassero in bocca una sigaretta accesa, rifiuterei di fu­ mare. Mi piace toccarmi il pacchetto in tasca, aprirlo, saggiare tra due dita la consistenza di una sigaretta, sentire la carta sul­ le labbra, il sapore del tabacco contro la lingua, veder sprizza­ re la fiamma, avvicinarla, e poi riempirmi tutto di calore. Dorronsoro, un tale di origine basca che conoscevo dai tempi dell’università, repubblicano spagnolo esule in Messico, ingegnere, morì di quello che chiamano il « cancro del fuma­ tore ». A Città del Messico andavo a trovarlo in ospedale. Aveva cannule dappertutto e una maschera per l’ossigeno che ogni tanto si toglieva per dare una rapida tiratina, di nascosto. Ha fumato fino all’ultimo, fedele al piacere che lo uccideva. Perciò, gentili lettori, nel chiudere queste mie considerazio­ ni sull’alcol e il tabacco, padri di amicizie potenti e di sogni fe­ condi, mi permetterò di darvi un duplice consiglio: non beve­ te e non fumate. Fa male alla salute.

Aggiungo che alcol e tabacco accompagnano molto piace­ volmente l’atto d’amore. In genere, l’alcol prima e il tabacco

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dopo. Non aspettatevi però chissà quali confidenze erotiche. Gli uomini della mia generazione, e per di più spagnoli, soffri­ vano di una timidezza ancestrale nei confronti delle donne e di un desiderio sessuale che, come ho già detto, era forse il più forte del mondo. Quel desiderio era, ovviamente, frutto di pesanti secoli di cattolicesimo castrante. La proibizione assoluta dei rapporti sessuali al di fuori del matrimonio, la messa al bando di qual­ siasi immagine, di qualsiasi parola che potesse riferirsi da vici­ no o da lontano all’atto amoroso, tutto contribuiva a originare un desiderio eccezionalmente violento. Quando, a dispetto di tutte le proibizioni, quel desiderio trovava finalmente modo di soddisfarsi, procurava un godimento fìsico incomparabile, perché inestricabilmente mischiato alla gioia segreta del pec­ cato. Il piacere copularono di uno spagnolo era, senza ombra di dubbio, superiore a quello di un cinese o di un eschimese. Quand’ero giovane, in Spagna, tranne in rarissime eccezio­ ni, esistevano solo due modi per fare l’amore: il bordello e il matrimonio. Quando sono venuto in Francia per la prima vol­ ta, nel 1925, mi è sembrato assolutamente incredibile, e direi anche rivoltante, vedere un uomo e una donna baciarsi per strada. Inoltre, il fatto che un ragazzo e una ragazza potessero vivere insieme senza essere sposati era per me veramente as­ surdo. Cose che non stavano né in cielo né in terra. E che tro­ vavo oscene. Da quei giorni lontani, è successo di tutto. Molta acqua è passata sotto i ponti. In particolare, da un po’, di anni a questa parte, ho assistito alla lenta regressione e infine alla completa scomparsa del mio istinto sessuale, perfino in sogno. Ne sono felicissimo, come se mi fossi finalmente liberato da un tiranno. Se Mefìstofele apparisse proponendomi una nuova fioritura di quella che chiamano virilità, gli direi: « No grazie, non so pro­ prio che farmene, rinvigorisci il fegato e i polmoni piuttosto, per darmi la possibilità di bere e fumare di più ». Al riparo dalle perversioni che aspettano al varco i vecchi impotenti, è con occhio sereno, senz’alcun particolare rim­ pianto, che ricordo le puttane madrilene, i bordelli parigini e le taxi-girl di New York. Con l’eccezione di qualche quadro vivente, a Parigi, credo di aver visto un unico film pomografi­ co in tutta la mia vita, deliziosamente intitolato Sceur Vaseline. Vi si contemplava una suora nel giardino di un convento, che si faceva fottere dal giardiniere il quale, a sua volta, veniva sodomizzato da un frate, prima che i tre diventassero tutt’uno. Rivedo ancora le calze di cotone nero della monaca, calze

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che si fermavano sopra il ginocchio. Jean Mauclair, dello « Studio 28 », mi regalò quel film, ma l’ho perduto. Insieme a René Char, di fìsico molto robusto, come me, avevamo pro­ gettato di entrare in un cinema per bambini, di impadronirci del proiezionista, di legarlo come un salame, imbavagliarlo, per poi proiettare Soeur Vaseline a un pubblico di giovanissi­ mi. O tempora, o mores! L’idea di profanare l’infanzia ci sem­ brava una delle forme più attraenti di sovversione. È chiaro che poi non abbiamo fatto niente di niente. Vorrei anche dire qualcosa sulle mie orge mancate. Allora, l’idea di partecipare a un’orgia ci eccitava immensamente. Un giorno, a Hollywood, Charlie Chaplin ne organizzò una appo­ sta per me e per due amici spagnoli. Da Pasadena arrivarono tre deliziose ragazze, ma sfortunatamente incominciarono a li­ tigare, perché tutte e tre volevano Chaplin, dopo di che se ne andarono. Un’altra volta, a Los Angeles, con l’amico Ugarte, invitam­ mo a casa mia Lya Lys, che recitava nell’Age d'or, insieme a una sua amica. Era tutto pronto, con fiori e champagne. Altro bel fiasco. Le due donne restarono un’oretta e poi, ritirata. Nella stessa epoca, un regista sovietico di cui mi sfugge il nome, che aveva avuto il permesso di venire a Parigi, mi chie­ se di organizzargli una piccola orgia tutta parigina. Capitò piuttosto male! Mi rivolsi a Aragon, che mi domandò: « Senti un po’, amico mio, ti piacerebbe farti...? ». E qui, con estrema delicatezza, usò una parola facilmente intuibile, ma che non posso scrivere. Secondo me, le sconcezze che da qualche anno a questa parte, e senza alcun motivo, proliferano nelle opere e sulla bocca dei nostri scrittori sono un puro abominio. Pseudo liberalizzazione che è solo una spregevole mistificazione della libertà. Ecco perché rifuggo qualsiasi insolenza sessuale, qual­ siasi esibizionismo verbale. In ogni caso, alla domanda di Aragon risposi: « Assolutamente no ». Dopo di che, Aragon mi consigliò di evitare l’or­ gia e il russo se ne tornò in Russia con le pive nel sacco.

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19171925

Mi ero recato a Madrid solo una volta, con mio padre, per un breve soggiorno. Tornandoci nel 1917, insieme a papà e mamma, per cercare un posto dove poter proseguire gli studi, incominciai col sentirmi intimidito, come paralizzato dal mio provincialismo. Osservavo con discrezione, per imitarlo, il modo di vestire e di comportarsi della gente. Ricordo ancora mio padre, con la paglietta in testa, che mi dava grandi spiega­ zioni a voce alta, aiutandosi con il bastone, in via d’Alcalà. Le mani in tasca, voltandogli un po’ le spalle, facevo fìnta di non conoscerlo. Visitammo varie pensioni madrilene di tipo classico, in cui si mangiava tutti i giorni cocido a la madrilena, ceci e patate lesse, con un po’ di lardo, chorizo e qualche volta un pezzo di pollo o di carne. Mia madre non ne volle sapere, tanto più che, in quelle pensioni, temeva per me una certa libertà di co­ stumi. Finalmente, grazie alle raccomandazioni di un senatore, don Bartolomé Esteban, fui accettato alla Residenza universi­ taria, dove sarei rimasto sette anni. I miei ricordi di quel pe­ riodo sono talmente ricchi e vivi che posso dire, senza alcun timore di sbagliarmi, che senza la Residenza la mia vita sareb­ be stata completamente diversa. Simile a un campus universi­ tario all’inglese, sovvenzionato da fondazioni private, la Resi­ denza costava solo sette pesetas al giorno per una camera sin­ gola - quattro, per una da dividere con un altro studente. I miei genitori pagavano la retta e mi davano inoltre venti pese­ tas alla settimana per le piccole spese, cifra di tutto rispetto che però non mi bastava mai. Ogni volta che tornavo a Sara­ gozza in vacanza, pregavo mia madre di sanare i debiti am­ messi dal contabile durante il trimestre. Mio padre non ne seppe mai nulla. Diretta da un uomo di grande cultura originario di Malaga, don Alberto Jiménez, la Residenza, dove potevi preparare qualsiasi disciplina ti andasse a genio, comprendeva saloni per conferenze, cinque laboratori, una biblioteca e numerosi cam­ pi sportivi. Potevi restarci quanto volevi e cambiare facoltà anche a studi iniziati. Prima di lasciare Saragozza, quando mio padre mi doman­

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dò cosa intendessi fare della mia vita, risposi che volevo di­ ventare un compositore e, desiderando scapparmene al più presto dalla Spagna, andare a Parigi per frequentare la Schola cantorum. Rifiuto categorico da parte sua. Mi ci voleva un me­ stiere serio, e lo sanno tutti che i compositori sono dei morti di fame. Gli parlai allora della mia inclinazione per le scienze natu­ rali e l’entomologia. « Studia agraria » mi consigliò. E fu così che incominciai, preparandomi a diventare un dottore in agra­ ria. Sfortunatamente, se risultai primo in biologia, per tre anni consecutivi ottenni dei pessimi voti in matematica. Mi sono sempre smarrito nel pensiero astratto. Certe verità matemati­ che mi saltavano agli occhi, ma ero assolutamente incapace di seguire e riprodurre le tortuosità di una dimostrazione. Mio padre, irritato da quei voti vergognosi, mi tenne per qualche mese a Saragozza, facendomi dare lezioni private. Quando tornai a Madrid, nel mese di marzo, poiché alla Resi­ denza non c’erano più camere libere, accettai l’offerta di Juan Centeno, fratello del mio buon amico Augusto, di andare a stare con lui. Sistemammo un letto supplementare in camera sua. Ci sono rimasto un mese. Studente di medicina, Juan Centeno se ne andava la mattina presto. Prima di uscire, si pettinava a lungo davanti allo specchio, ma si fermava in cima al cranio, lasciando in disordine e nel più completo abbando­ no i capelli che non vedeva, dietro alla testa. Per questo gesto assurdo, ripetuto ogni giorno, dopo due o tre settimane, sono arrivato a odiarlo, malgrado tutta la riconoscenza dovutagli. Odio inspiegabile, sbucato da qualche oscuro meandro del­ l’inconscio, che una breve scena di El dngel exterminador (L’angelo sterminatore) ricorda. Per far piacere a mio padre, cambiai strada, imboccando quella dell’ingegneria industriale, che comportava tutte le di­ scipline tecniche, la meccanica, l’elettromagnetismo, e richie­ deva sei anni di studio. Venni promosso agli esami di disegno industriale e, in parte, a quelli di matematica (grazie alle lezio­ ni private); poi, a San Sebastian, durante l’estate, mi consultai con due amici di mio padre, uno dei quali, Acin Palacios, go­ deva ottima fama come arabista. L’altro era stato mio inse­ gnante al liceo di Saragozza. Confidai loro tutto il mio orrore per la matematica, la noia e il disgusto per quegli studi lun­ ghissimi. Intervennero presso mio padre, che accettò di la­ sciarmi andare per la mia strada: le scienze naturali. H museo di storia naturale si trovava a poche decine di me­ tri dalla Residenza. Ci ho studiato per un anno, con vivissimo interesse, sotto la direzione del grande Ignacio Bolivar, che al­ l’epoca era il più celebre ortotterista del mondo. A tutt’oggi,

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sono ancora capace di riconoscere a prima vista numerosi in­ setti, classificandoli con il loro nome latino. Alla fine dell’anno, durante un’escursione a Alcalà de Henares guidata da Americo Castro, professore al centro di studi storici, lo udii improvvisamente parlare di paesi stranieri che richiedevano lettori di spagnolo. Avevo una tale voglia di an­ darmene che feci subito il mio nome. Ma non accettavano stu­ denti di scienze naturali. Per poter essere scelti, bisognava stu­ diare lettere o filosofìa. Di qui un rapido e ultimo cambiamento. Incominciai a stu­ diare filosofìa, corso di laurea che comprendeva tre discipline: storia, lettere e filosofìa vera e propria. Come materia facolta­ tiva, scelsi storia. Sono particolari barbosi, lo so. Ma se vogliamo tentare di seguire, passo dopo passo, il cammino avventuroso di una vi­ ta, vedere da dove viene e dove va, come si fa a scegliere tra il superfluo e l’indispensabile?

E sempre alla Residenza che sono diventato sportivo. Tutte le mattine, in calzoncini corti e a piedi nudi anche quando uno strato di ghiaccio copriva il terreno, correvo su un campo di allenamento della cavalleria della Guardia civile. Ho anche creato la squadra di atletica del college, che partecipò a varie competizioni universitarie, e ho perfino praticato la boxe per dilettanti. Ho combattuto due volte in tutto. La prima, vin­ cendo per ritiro dell’avversario (che non si era neanche pre­ sentato), e la seconda, perdendo ai punti in cinque riprese, per scarsa combattività. In realtà, pensavo solo a proteggermi il viso. Mi andava bene qualsiasi esercizio: ho perfino scalato la facciata della Residenza. Mi sono fatto una muscolatura sulla quale ho vissuto di rendita per tutta la vita. I muscoli della pancia soprattutto, e quelli dello stomaco, così duri da farmi improvvisare una spe­ cie di esibizione: mi sdraiavo per terra e gli amici mi saltavano sulla pancia. Altra specialità: il braccio di ferro. Ho fatto in­ numerevoli tornei su tavoli di bar e di ristorante, fino a un’età più che rispettabile. Alla Residenza universitaria mi sono trovato di fronte a una scelta inevitabile. L’ambiente in cui vivevo, il movimento lette-

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ratio che allora agitava Madrid, e l’incontro con amici inesti­ mabili, tutte cose che hanno pesato su quella scelta. In quale preciso momento ho deciso della mia vita? Oggi, è quasi im­ possibile dirlo. La Spagna viveva un periodo che adesso - paragonandolo a quello che venne dopo - mi sembra relativamente tranquillo, tì grande avvenimento fu la rivolta di Abd-el-Krim in Maroc­ co e la disfatta delle truppe spagnole a Annual, nel 1921, lo stesso anno in cui ero stato richiamato sotto le armi. Poco tempo prima, avevo conosciuto alla Residenza l’onesto fratello di Abd-el-Krim, ragione per cui, più tardi, avrebbero voluto mandarmi in missione in Marocco - missione che rifiutai. La legge spagnola permetteva alle famiglie ricche, dietro lauto compenso, di ridurre il servizio militare dei loro figli. Ma quell’anno la legge venne sospesa, per via della guerra ma­ rocchina. Mi ritrovai arruolato in un reggimento di artiglieria che, essendosi distinto nella guerra coloniale, era esonerato dall’andare in Marocco. Un giorno però, date le circostanze, ci annunciarono: « Domani si parte ». Serissimamente, quella se­ ra ho contemplato l’eventualità di disertare. Due miei compa­ gni lo hanno fatto e uno dei due è finito ingegnere in Brasile. Alla fin fine poi l’ordine di partenza fu rinviato e passai tut­ to il periodo della ferma a Madrid. Niente d’interessante. Continuavo a vedere gli amici, dato che avevamo il permesso di uscire tutte le sere, e dormire fuori, tranne quando eravamo di guardia. Il tutto durò quattordici mesi. In quelle notti di guardia ho conosciuto invidie fortissime. Dormivamo vestiti di tutto punto, perfino con le giberne, in mezzo alle cimici del corpo di guardia, aspettando l’ora del turno. Nella topaia accanto, vedevo i sergenti intorno a una bella stufa, che giocavano a carte, con un bicchiere di vino a portata di mano. Più di ogni altra cosa al mondo avrei voluto essere un sergente. Così - come tutti del resto - per certi periodi della mia vita ricordo un’unica immagine, una sensazione a volte, e perfino un’impressione: il mio odio per Juan Centeno e i suoi capelli malamente pettinati, l’invidia per la stufa dei sergenti. Al contrario di quasi tutti i miei compagni, malgrado certe condizioni di vita piuttosto dure, malgrado il freddo, malgra­ do la noia, ho un bel ricordo del soggiorno dai gesuiti e del servizio militare. Ho visto e imparato cose che non si possono imparare altrove. Dopo la liberazione, ho incontrato il mio capitano a un concerto. Ha saputo dirmi soltanto:

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« È stato un bravo artigliere ». La Spagna visse per qualche anno la dittatura familiare di Primo de Rivera, padre del fondatore della Falange. Il movi­ mento operaio, sindacale e anarchico, si sviluppa contempora­ neamente alla timida nascita del partito comunista spagnolo. Un giorno, tornando da Saragozza, vengo a sapere in stazione che il giorno prima gli anarchici hanno ferito a morte Dato, il presidente del consiglio, abbattendolo in mezzo alla strada e alla luce del sole. Prendo una carrozzella e il vetturino mi fa vedere i fori delle pallottole, in via d’Alcalà. Un’altra volta, venimmo a sapere con grandissima gioia che degli anarchici, guidati - se ben ricordo - da Ascaso e Durruti, avevano appena assassinato l’arcivescovo di Saragozza, Soldevilla Romero, persona detestabile e detestata da tutti, perfino da un mio zio canonico. Quella sera, alla Residenza, abbiamo bevuto alla dannazione dell’anima sua. Quanto al resto, devo dire che la nostra coscienza politica, ancora sull’addormentato, accennava appena a svegliarsi. Fat­ ta eccezione per tre o quattro di noi, bisognò aspettare fino agli anni ’27’28, pochissimo tempo prima della proclamazio­ ne della repubblica, perché quella coscienza si manifestasse. Nel frattempo - tranne qualche eccezione - guardavamo con animo tiepido e scarsa attenzione le prime riviste anarchiche e comuniste. Queste ultime ci facevano conoscere i testi di Le­ nin e di Trotzkij. Le uniche discussioni politiche cui ho partecipato - forse anche le uniche in tutta Madrid - si svolgevano nella pena del « Café de Platerias », in calle Mayor. La pena è una riunione che si svolge regolarmente in un caffè. Usanza che ha avuto un ruolo essenziale nella vita ma­ drilena, e non solo in quella letteraria. Ci si riuniva, per pro­ fessioni, sempre nello stesso posto, di pomeriggio dalle tre alle cinque o di sera dalle nove in poi. Una pena normale poteva contare tra gli otto e i quindici partecipanti, tutti uomini. Le prime donne comparvero solo verso i primissimi anni Trenta, a scapito della loro reputazione. Al « Café de Platerias », dove la pena era politica, si incon­ trava spesso Sam Blancat, un aragonese anarcoide che scriveva su varie riviste, tra le quali Espana Nueva. L’estremismo delle sue idee era talmente notorio che all’indomani di qualsiasi at­ tentato veniva sistematicamente arrestato. Come accadde per il caso Dato.

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A quella pena partecipava anche Santolaria, che dirigeva a Siviglia un giornale con tendenze anarchiche, quando si trova * va a Madrid. Eugenio d’Ors ci veniva qualche volta. Infine vi conobbi quello strano e meraviglioso poeta che si chiamava Pedro Garfìas, un uomo che poteva passare quindi­ ci giorni alla ricerca di un aggettivo. Quando lo vedevo, gli domandavo per esempio: « E allora, quell’aggettivo, lo hai poi trovato? ». « No, continuo a cercarlo » rispondeva lui, prima di allon­ tanarsi tùtto pensieroso. Ricordo ancora a memoria una delle sue poesie intitolata Peregrino, tratta dalla raccolta Bajo el ala. del Sur (Sotto l’ala del Sud): Flufan horizontes de sus ojos Trafa rumor de arenas en los dedos Y un haz de suenos rotos Sobre sus hombros trémulos La montana y el mar sus dos lebreles Le saltaban al paso La montana asombrada, el mar encantabrido... *

Garfìas divideva una misera camera, in calle Humilladero, con il suo amico Eugenio Montes. Una mattina verso le undici andai a trovarli. Con mano distratta, mentre si chiacchierava Garfìas toglieva le cimici che gli passeggiavano sul petto. Durante la guerra civile pubblicò delle poesie patriottiche, meno belle. Emigrò in Inghilterra, senza sapere una parola d’inglese, e trovò rifugio da un inglese che ignorava totalmen­ te lo spagnolo. Ciò nonostante, sembra che conversassero ani­ matamente per ore. Dopo la guerra civile venne in Messico, come parecchi spa­ gnoli repubblicani. Lo si vedeva, tipo barbone e sporchissimo, entrare nei caffè per leggere le sue poesie a voce alta. Morì in miseria.

Madrid era ancora una città piuttosto piccola, capitale am­ ministrativa e artistica. Bisognava camminare parecchio per andare da un posto all’altro. Ci si conosceva un po’ tutti, e qualsiasi incontro era possibile. * Gli scorrevano orizzonti dagli occhi / Si portava un fìrusdo di sabbia tra le dita / E un fascio di sogni spezzati / Sulle spalle tremanti / La montagna e il mare, i suoi due levrieri / Gli saltavano al passo / La montagna incantata, il mare impennato...

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Una sera, vado al « Café Castilla » insieme a un amico. Ve­ do dei paraventi disposti in modo da isolare una parte della sala, e il cameriere ci annuncia che deve venire a pranzo Pri­ mo de Rivera, con due o tre persone. Quest’ultimo in effetti arriva, fa togliere immediatamente i paraventi e, vedendoci, ci chiama: « Hola, jovenes! Una copila! ». Il direttore ci offre da bere. Ho incontrato anche re Alfonso XIII. Sono alla finestra di camera mia, alla Residenza. Ho i capelli tutti impomatati sotto la paglietta. Improvvisamente, la carrozza reale si ferma pro­ prio sotto la finestra, con due conducenti e una terza persona (da giovanissimo, ero innamorato pazzo, della regina, la bella Victoria). Il re scende e mi fa una domanda. Cercava la strada. Interdetto, e anche se in quel momento teoricamente anarchi­ co, gli rispondo con grande cortesia, e una certa vergogna, chiamandolo perfino Majestad. Quando la carrozza si allonta­ na, mi rendo conto di non essermi tolto la paglietta. L’onore è salvo. Raccontai l’avventura al direttore della Residenza. La mia fama di burlone era ormai consolidata al punto da fargli verifi­ care l’esattezza delle mie ciance presso un segretario del palaz­ zo reale.

A volte, durante una pena, succedeva che tutti tacessero di colpo abbassando gli occhi con aria imbarazzata. Era entrato qualcuno, e quell’uomo passava per un gafe. Un gafe è uno iettatore, uno che butta il malocchio o più precisamente che porta male. A Madrid, si credeva fermamen­ te che fosse meglio evitare la vicinanza di certe persone. Mio cognato, il marito di Conchita, ha conosciuto un capitano di stato maggiore la cui presenza era temutissima dai collabora­ tori. Quanto al drammaturgo Jacinto Brau, molto meglio evi­ tare di pronunciarne perfino il nome. Pareva tirarsi dietro tut­ te le disgrazie, con strana perseveranza, senza spiccicarsele mai di dosso. Durante una conferenza da lui tenuta a Buenos Aires, il lampadario piombò giù dal soffitto, ferendo grave­ mente parecchie persone. Con il pretesto che vari attori morirono dopo aver girato con me, alcuni amici mi accusarono di essere un gafe. Non è affatto vero, e protesto con tutte le forze. Altri amici potreb­ bero, se necessario, farmi da testimoni. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la Spa­ gna ebbe una generazione di scrittori eccelsi che furono le

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guide intellettuali della nostra. Li ho conosciuti quasi tutti, Ortega y Gasset, Unamuno, Valle-Indàn, Eugenio d’Ors tan­ to per citarne quattro. Grandi maestri che ci influenzarono profondamente. Ho conosciuto anche il grandissimo Galdós dal quale in seguito avrei tratto, liberamente, Nazarin e Tristana - che, più vecchio degli altri, occupava un posto a parte. A dire il vero, l’ho visto un’unica volta, a casa sua, vecchissimo e quasi cieco, accanto a un braciere, con una coperta sulle gi­ nocchia. Anche Pio Baroja fu un celebre romanziere, che personal­ mente non m’interessa per niente. Ma devo citare ancora An­ tonio Machado, il grande poeta Juan Ramon Jiménez, Jorge Guillén, Salinas. A quella generazione famosa, che oggi si può ammirare, im­ mobile, con l’occhio fìsso, in tutti i musei delle cere spagnoli, seguì la mia, detta del 1927, che conta uomini come Lorca, Al­ berti, il poeta Altolaguirre, Cernuda, José Bergamin, Pedro Garfias. Tra queste due generazioni si collocano due uomini che ho conosciuto bene, Moreno Villa e Ramón Gómez de la Serna. Pur avendo una quindicina d’anni più di me, Moreno Villa, un andaluso di Malaga (come Bergamin e Picasso), si accom­ pagnava al nostro gruppo. Usciva molto spesso con noi. Per qualche grazia ricevuta, viveva perfino alla Residenza. Duran­ te l’epidemia influenzale del 1919, la perniciosa « spagnola » che uccise tanta gente, eravamo rimasti quasi soli nella Resi­ denza. Pittore e scrittore molto dotato, mi prestò dei libri, e in particolare 11 rosso e il nero, che lessi durante l’epidemia. Nel­ lo stesso periodo scoprivo anche Apollinaire, con L’incantato­ re imputridito. Abbiamo passato tutti quegli anni insieme, affettuosamente uniti. Con l’avvento della Repubblica, nel 1931, Moreno Villa venne assegnato alla biblioteca del Palazzo Reale. Poi, durante la guerra civile, si trasferì a Valencia e fu evacuato, come tutti gli intellettuali di una certa importanza. L’ho ritrovato a Pari­ gi, e poi a Città del Messico dove morì verso il 1955. Veniva a trovarmi spesso. Ho ancora un ritratto che mi fece in Messico, verso il 1948, anno in cui ero disoccupato. Avrò occasione di riparlare di Ramón Gómez de la Sema, dato che pochi anni dopo stavo per muovere i miei primi passi da cineasta proprio con lui. All’epoca della Residenza, Gómez de la Serna era una gran­ de personalità, la figura più celebre della letteratura spagnola, forse. Autore d’innumerevoli opere, scriveva su tutte le riviste. Un giorno, invitato da certi intellettuali francesi, comparve in

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un circo parigino - lo stesso circo dove lavoravano gli applauditissimi Fratellini. A cavallo di un elefante, Ramón doveva re­ citare qualcuna delle sue greguerias, una specie di considera­ zioni umoristiche, brevissime, in cui era maestro. Non ha neanche finito la prima frase che tutto il pubblico si torce dal ridere. È un po’ sorpreso da tanto successo. Non aveva notato che l’elefante si era, diciamo così, liberato in mezzo alla pista. Tutti i sabati, dalle nove di sera all’una del mattino, Gómez de la Serna teneva cenacolo al caffè « Pombo », a due passi dalla Puerta del Sol. Non mi perdevo una sola di quelle riu­ nioni dove incontravo quasi tutti gli amici, e altri ancora. A volte, veniva anche Jorge-Luis Borges. La sorella di Borges sposò Guiljermo de Torre, poeta e so­ prattutto critico, che conosceva a fondo l’avanguardia france­ se e fu uno degli elementi più importanti deU’« ultraismo » spagnolo. Ammiratore di Marinetti, e dichiarando come lui che una locomotiva può essere più bella di un quadro di Ve­ lazquez, gli capitava di scrivere: Yo quiero por amante La helice turgente hydro-avion... *

I principali caffè letterari di Madrid erano il « Café Gijon », che esiste ancora, la « Granja del Henar », il « Café Castilla », « Fornos », « Kutz », il « Café de la Montana », nel quale do­ vettero cambiare i tavoli di marmo, abbondantemente insudi­ ciati dai disegnatori (ci andavo da solo nel pomeriggio, dopo le lezioni, per continuare a studiare), e il « Pombo » dove Gó­ mez de la Serna pontificava ogni sabato sera. Entrando, ci si salutava, ci si sedeva, si ordinava da bere - quasi sempre caffè e molta acqua (i camerieri non la smettevano mai di portare acqua). Dopo di che iniziava una conversazione errabonda, commento letterario delle ultime pubblicazioni, delle ultime letture, a volte delle notizie politiche. Ci si prestava libri e rivi­ ste straniere. Si parlava male degli amici assenti. Qualche volta capitava che un autore leggesse ad alta voce una sua poesia o un articolo, e che Ramón desse il suo parere, sempre ascolta­ to, a volte discusso. Il tempo passava in fretta. Di tanto in tan­ to un gruppetto di amici si ritrovava a vagabondare per le vie, in piena notte, sempre chiacchierando. Tutti i pomeriggi, il neurologo Santiago Ramon y Cajal, premio Nobel, uno dei più grandi scienziati del suo tempo, * Io voglio come amante / L’elica turgescente di un idrovolante...

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veniva a passare qualche minuto solitario a un tavolo di fon­ do del « Café del Prado ». In quello stesso caffè, pochi tavoli più in là, si teneva una pena di poeti ultraisti cui partecipavo anch’io. Accadde che un nostro amico, il giornalista e scrittore Ara­ quistain (più tardi, durante la guerra civile, lo avrei ritrovato ambasciatore a Parigi), incontrò per via un certo José Maria Carretero, romanziere d’infimo rango, e colosso alto due me­ tri, il quale firmava i suoi prodotti con lo pseudonimo di El Caballero Audaz (Il cavaliere audace). Carretero prese per il collo Araquistain, insultandolo e rimproverandogli un articolo sfavorevole (peraltro giustissimo); Araquistain replicò con una sberla e dei passanti dovettero dividerli. L’episodio ebbe una certa risonanza nel piccolo mondo let­ terario. Decidemmo di organizzare un banchetto per sostene­ re Araquistain e di far circolare una lista di firme in suo favo­ re. Sapendo che avevo avvicinato Cajal al museo di storia na­ turale dove gli preparavo i vetrini per l’osservazione microsco­ pica nel reparto di entomologia, gli amici ultraisti mi pregaro­ no di chiedere la sua firma, che sarebbe stata la più prestigiosa di tutte. Cosa che feci. Ma Cajal, già molto vecchio, rifiutò di firma­ re, adducendo la scusa che il giornale abc, nel quale El Cabal­ lero Audaz scriveva regolarmente, doveva pubblicare le sue memorie. Ragione per cui temeva che, firmando, il giornale gli avrebbe poi ricusato il contratto. Anch’io, ma per altri motivi, rifiuto sempre di firmare le petizioni che mi vengono presentate. Serve soltanto a rattop­ parsi la coscienza. Atteggiamento che può essere discutibile, lo so. Per questo, se mi dovesse capitare qualcosa, se per esempio mi mettessero in prigione, se scomparissi, chiedo che nessuno firmi in mio favore.

ALBERTI, LORCA, DALÌ

Originario di Puerto de Santa Maria, vicino a Cadice, Ra­ fael Alberti fu uno dei grandi personaggi del nostro gruppo. Più giovane di me - di un paio d’anni, credo - all’inizio lo cre­ devamo un pittore. Molti suoi disegni, lumeggiati in oro, or­ navano le pareti della mia stanza. Un giorno, mentre ci faceva­ mo un bicchierino, un altro amico, Damaso Alonso (attuale presidente dell’Accademia della lingua spagnola) mi disse:

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« Lo sai chi è un grande poeta? Alberti! ». Vedendomi sorpreso, mi diede un foglio di carta dove lessi una poesia il cui inizio ricordo ancora a memoria: La noche ajusticiada eri el patibolo de un arbol alegrias arodilladas le besan y ungen las sandalias... *

Allora, i poeti spagnoli tentavano di trovare aggettivi sinte­ tici e imprevisti, forse un po’ forzati, come la notte ajusticiada, e certe sorprese come las sandalias. Questa poesia, che fu pub­ blicata sulla rivista Horizonte' e segnò i primi passi di Alberti, mi piacque immediatamente. La nostra amicizia si fece più salda. Dopo gli anni della Residenza, in cui eravamo sempre insieme, dovevamo rivederci a Madrid all’inizio della guerra civile. In seguito, decorato da Stalin durante un suo viaggio a Mosca, Alberti visse in Argentina e in Italia, per tutto il perio­ do franchista. Adesso, è tornato in Spagna. Gentile, imprevedibile, aragonese di Huesca, studente di medicina che non riuscì mai a dare un esame con esito positi­ vo, figlio del direttore del Servizio Acque di Madrid, né pitto­ re né poeta, Pepin Bello era semplicemente il nostro insepara­ bile amico. Ho ben poco da dire di lui, tranne il fatto che a Madrid, nel 1936, all’inizio della guerra, propagava cattive no­ tizie: « Franco arriva, sta per passare il Manzanarre! ». Suo fratello Manolo venne fucilato dai repubblicani. Quanto a Pe­ pin visse tutta la fine della guerra rifugiato in un’ambasciata. Il poeta Hinojosa invece apparteneva a una ricchissima fa­ miglia di proprietari terrieri della zona di Malaga (un altro an­ daluso!). Moderno e temerario nella poesia quant’era conser­ vatore nelle idee e nella condotta politica, aderì al partito d’e­ strema destra di Lamanie de Clairac e finì fucilato dai repub­ blicani. Quando lo conobbi, alla Residenza, aveva già pubbli­ cato due o tre raccolte. Federico Garcia Lorca arrivò alla Residenza solo due anni dopo di me. Veniva da Granada, raccomandato dal suo pro­ fessore di sociologia, don Fernando de los Rios, e aveva già pubblicato un’opera in prosa, Impressioni e paesaggi, dove rac­ contava i suoi viaggi con don Fernando e altri studenti anda­ lusi. Molto brillante, fascinoso, con una visibile volontà di ele. * La none giustiziata / sul patibolo di un albero / e gioie inginocchiate / che baciano i sandali ungendoli...

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ganza, cravatta impeccabile, occhi scuri e luminosi, Federico esercitava un’attrazione, un magnetismo cui non resisteva nes­ suno. Due anni più di me, figlio di un ricco proprietario ter­ riero, venuto a Madrid con l’idea di studiare filosofìa, ma di­ sertando ben presto le lezioni per lanciarsi nella vita letteraria, conobbe quasi subito tutti e tutti conobbero lui. La sua came­ ra, alla Residenza, diventò uno dei posti di ritrovo più ambiti di Madrid. La nostra amicizia, che fu profonda, risale al primo incon­ tro. Malgrado tutti i contrasti che dividevano l’aragonese ripu­ lito e l’andaluso raffinato - o forse proprio per questi - erava­ mo quasi sempre insieme. La sera mi portava dietro la Resi­ denza, ci sedevamo sull’erba (allora, prati e terreni incolti si allungavano a perdita d’occhio) e mi leggeva delle poesie. Era un lettore magnifico. A contatto con Federico, mi trasformavo lentamente e vedevo spalancarsi un mondo tutto nuovo, che lui mi svelava ogni giorno. Mi riferirono che un certo Martin Dominguez, un basco fi­ sicamente molto robusto, affermava che Lorca era un omoses­ suale. Non riuscivo a crederci. A quei tempi, si conoscevano solo due o tre pederasti in tutta Madrid e niente poteva farmi pensare che Federico lo fosse. Ed eccoci fianco a fianco nel refettorio di fronte al tavolo presidenziale dove, quel giorno, si trovavano Unamuno, Euge­ nio d’Ors e don Alberto, il nostro direttore. Dopo la minestra, dico sottovoce a Federico: « Usciamo. Devo parlarti di una cosa molto seria ». Un po’ sorpreso, accetta. Ci alziamo. Ci danno il permesso di uscire durante il pasto. Andiamo in una taverna vicina dove annuncio a Federico la mia decisione di battermi con Martin Dominguez, il basco. « E perché? » mi chiede Lorca. Un attimo di esitazione, non so come esprimermi, poi gli domando a bruciapelo: « È vero che sei un maricon (un pederasta)? ». Profondamente ferito, salta in piedi e mi dice: « Fra te e me, è finita ». E se ne va. Ovviamente, abbiamo fatto pace la sera stessa. Federico non aveva niente di effeminato nel suo comportamento, nes­ suna affettazione. D’altra parte non gli piacevano le parodie e le battute a questo proposito - come quella di Aragon per esempio che, venuto pochi anni dopo a Madrid per una con­ ferenza, domandò al direttore della Residenza dove avrebbe

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dovuto parlare, con l’intenzione di scandalizzarlo - intenzione coronata da pieno successo « Non mi saprebbe per caso in­ dicare un pisciatoio interessante? ». Abbiamo passato ore indimenticabili insieme, soli o con al­ tri. Lorca mi ha fatto scoprire la poesia, quella spagnola so­ prattutto, che conosceva alla perfezione, e anche altri libri. Mi fece leggere per esempio La legenda aurea, nella quale trovai per la prima volta qualche riga sulla vita di san Simone stilila, che in seguito sarebbe diventato Simón del desierto (Simon del deserto), Federico non credeva in Dio, ma conservava e nutri­ va un grande sentimento artistico della religione. Ho ancora una fotografia dove posiamo entrambi sulla mo­ tocicletta dipinta di un fotografo, nel 1924, alla Verbena de San Antonio, la grande fiera di Madrid. Sul rovescio di quella foto, verso le tre del mattino (tutti e due ubriachi), Federico improvvisò una poesia in meno di tre minuti, e me la diede. Il tempo cancella lentamente la matita. Ho ricopiato la poesia perché non vada perduta. Eccola: La primera verbena que Dios envia Es la de San Antonio de la Florida Luis: en el encanto de la madrugada Canta mi amistad siempre florecida la luna grande luce y rueda por las altas nubes tranquilas mi corazon luce y rueda en la noche verde y amartlla Luis mi amistad apasionada hace una trenza con la brisa El nino toca el piantilo triste, sin una sonrisa bajo los arcos de papel estrecho tu mano amigo. *

Più tardi, nel 1929, su un libro che mi regalò, scrisse un’al­ tra breve poesia, anche questa inedita, che mi piace molto: Cielo azul Campo amarillo * La prima fiera che Dio ha mandato / è Sant’Antonio della Florida / Luis: nell’incanto del primo chiarore / canta la mia amicizia perennemente in fiore / la grande luna rotola e brilla / su nelle alte nubi tranquille / il mio cuo­ re rotola e brilla / in questa notte verde e gialla / Luis, la mia amicizia appas­ sionata / è una treccia con la brezza intrecciata / il bimbo suona l’organetto / triste, senza un sorriso / sotto gli archi di carta / stringo la tua mano, amico.

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Monte azul Campo amarillo

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Por la llanura desierta Va caminando un olivo Un solo * Olivo.

Figlio di un notaio di Figueras, in Catalogna, Salvador Dall arrivò alla Residenza tre anni dopo di me. Si destinava alle Belle Arti e noi lo chiamavamo, non so perché, « il pittore ce­ coslovacco ». Una mattina, mentre passavo per un corridoio della Resi­ denza, vedendo la porta della sua camera aperta, diedi un’oc­ chiata. Vidi un grande ritratto quasi ultimato, che mi piacque molto. Dissi subito a Lorca e agli altri: « Il pittore cecoslovacco sta per finire un bellissimo ri­ tratto ». Andarono tutti in camera sua, ammirarono il quadro e Dall venne ammesso nel nostro gruppo. A dire il vero diventò, con Federico, il mio migliore amico. Eravamo quasi inseparabili, noi tre, tanto più che Lorca nutriva nei confronti di Dall una vera e propria passione, che lasciava quest’ultimo indifferente. Era un ragazzo timido, con una voce grave e profonda, ca­ pelli lunghissimi che si fece tagliare, piuttosto a disagio con le esigenze della vita quotidiana e vestito stranamente: cappello a larghe tese, cravattone a farfalla, una lunga giacca che gli ar­ rivava fino alle ginocchia e per finire delle fasce gambiere. Il suo abbigliamento faceva pensare a una provocazione, e inve­ ce si vestiva così solo perché gli piaceva - la qual cosa non im­ pediva alla gente di insultarlo per strada, ogni tanto. Scriveva anche delle poesie, che furono pubblicate. Giova­ nissimo, verso il 1926 o ’27, partecipò a un’esposizione a Ma­ drid con altri pittori, come Peinado e Vines. Quando dovette dare l’esame alle Belle Arti, nel mese di giugno, e lo fecero se­ dere davanti agli esaminatori per l’orale, esclamò di botto: « Non riconosco a nessuno di voi il diritto di giudicarmi. Me ne vado ». E se ne andò sul serio. Suo padre venne a Madrid dalla Ca­ talogna per cercare un accomodamento con la direzione delle Belle Arti. Invano. Dall fu espulso. * Cielo azzurro / Campo giallo / Monte azzurro / Campo giallo / Per la piana deserta / Va camminando un ulivo / Un solo / Ulivo.

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Non posso raccontare giorno per giorno cosa furono quegli anni di formazione e di incontri, i nostri colloqui, lo studio, le passeggiate, le sbronze, i bordelli di Madrid (probabilmente i migliori del mondo) e le lunghe serate alla Residenza. Inna­ morato cotto del jazz, al punto da mettermi a suonare il banjo, avevo comprato un grammofono e dei dischi americani. Li ascoltavamo con entusiasmo, bevendo grog al rum che prepa­ ravo io stesso (l’alcol era proibito alla Residenza, perfino il vi­ no a tavola con la scusa di non sporcare le tovaglie bianche). Di tanto in tanto allestivamo un’opera teatrale, generalmente Don Juan Tenorio di Zorrilla, che credo di conoscere ancora a memoria. Conservo una fotografia dove interpreto la parte di don Juan, con Lorca che fa lo scultore nel terzo atto. Avevo anche istituito quelle che chiamavamo las mojadures de primavera (le annaffiature di primavera). Il che consisteva nella scempiaggine di rovesciare un secchio d’acqua sulla testa del primo venuto. Alberti se ne sarebbe ricordato vedendo, in Quell’oscuro oggetto del desiderio, Fernando Rey che annaffia Carole Bouquet sulla banchina di una stazione.

La chuleria è un modo di comportarsi tipicamente spagno­ lo, fatto di aggressività, insolenza virile, sicurezza di sé. Ne fui colpevole anch’io qualche volta, soprattutto all’epoca della Residenza, per poi pentirmene subito. Un esempio: mi piace­ vano molto il portamento e la grazia di una ballerina del « Pa­ lace del Hielo » che chiamavo, senza conoscerla, la Rubia (la Bionda). Andavo piuttosto spesso in quel dancing per il puro piacere di vederla danzare. Si trattava di una cliente abituale, e non di una ballerina di professione. A forza di parlare di lei con gli amici, un giorno Dali e Pepin Bello mi accompagnaro­ no. Quel giorno la Rubia ballava con un tipo serio, occhiali e baffetti, che chiamavo « il dottore ». Dall si dichiarò orrenda­ mente deluso. Perché lo avevo disturbato? Trovava la Rubia senza un grammo di fascino, niente grazia, niente di niente. « Colpa del suo cavaliere, » dissi « che non vale una cicca ». Mi alzai, mi avvicinai al tavolo dove era appena tornata a sedere con « il dottore » e lo apostrofai seccamente: « Sono venuto insieme a due amici per veder ballare questa ragazza, ma lei me la rovina. Perciò adesso la pianti, punto e basta ». Feci dietrofront e tornai al nostro tavolo, convinto di pren­ dermi una bottigliata in testa, cosa che succedeva abbastanza spesso a quei tempi. Ma non accadde niente. « Il dottore »,

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che non mi aveva risposto, si alzò e si mise a ballare con un’al­ tra. Vergognandomi alquanto, e già pentito, mi avvicinai alla Rubia e le dissi: « Sono spiacente di quello che ho fatto. E poi, ballo ancora peggio di lui ». Cosa verissima. Del resto, non ho mai ballato con la Rubia.

D’estate, quando gli spagnoli lasciavano la Residenza per andare in vacanza, arrivavano gruppi d’insegnanti americani in compagnia di donne a volte bellissime, che venivano a per­ fezionare il loro spagnolo. Allora si organizzavano visite e con­ ferenze. Sul tabellone nell’atrio, per esempio, c’erano scritte di questo tenore: « Domani, visita a Toledo con Americo Ca­ stro ». Un giorno, la scritta fu: « Domani visita al Prado con Luis Bunuel ». Un folto gruppo di americani mi seguì al museo, senza so­ spettare l’imbroglio, fornendomi un primo saggio dell’inno­ cenza americana. Accompagnandoli di sala in sala, gli raccon­ tavo tutto quello che mi passava per la testa: Goya era un to­ reador che intratteneva relazioni funeste con la duchessa d’Alba e il quadro di Berruguete, Auto da Fé, è un dipinto magni­ fico perché vi si possono contare ben centocinquanta perso­ naggi. E lo sanno tutti che è proprio il numero dei personaggi a fare la bellezza di un’opera pittorica. Gli americani mi ascol­ tavano serissimi, alcuni prendevano anche appunti. Qualcuno però si lamentò con il direttore.

IPNOTISMO

In quel periodo, mi diedi all’ipnotismo. Riuscii ad addor­ mentare con discreta facilità un certo numero di persone, e in particolare l’aiuto contabile della Residenza, un certo Lizcano, chiedendogli di fissarmi un dito. Una volta sudai sette camicie prima di riuscire a svegliarlo. In seguito ho studiato opere serie sull’ipnotismo, tentato vari metodi, ma non ho mai trovato un caso eccezionale come quello di Rafaela. In un bordello piuttosto su di calle de la Reina lavoravano allora, tra le altre, due ragazze particolarmente attraenti. Una si chiamava Lola Madrid e l’altra Teresita.

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L’« amante del cuore » di Teresita era Pepe, basco robusto e simpatico, studente di medicina. Una sera, mentre sto be­ vendo un bicchiere alla pena degli studenti di medicina, nel « Café Fornos », all’angolo tra via Peligros e via d’Alcalà, ci ri­ feriscono che alla Casa de Leonor (u nome del bordello) è successo un piccolo dramma. Pepe, sempre tollerante quando Teresita lo lasciava un attimo per soddisfare un cliente, aveva saputo che si era data gratis a un altro. E questo, non poteva sopportarlo. Così era andato su tutte le furie, arrivando perfi­ no a picchiarla. Gli studenti di medicina si precipitano subito alla Casa de Leonor. E io con loro. Troviamo Teresita in lacrime, sull’orlo di una crisi isterica. La guardo, le parlo, le prendo le mani, le chiedo di calmarsi e dormire, cosa che fa immediatamente. Ed eccola in uno stato di quasi sonnambulismo, ascolta solo me e risponde solo a me. Le dico parole tranquillizzanti, portando­ la piano piano alla calma e al risveglio, quando qualcuno mi riferisce una cosa incredibile: una certa Rafaela, sorella di Lo­ la Madrid, si è addormentata di colpo in cucina, dove lavora, proprio mentre stavo ipnotizzando Teresita. Corro in cucina e vedo in effetti una ragazza in stato di se­ micatalessi. E piccola, deforme e mezzo cieca da un occhio. Mi siedo davanti a lei, faccio qualche gesto ipnotico, le parlo con calma, la sveglio. Rafaela fu un caso veramente straordinario. Un giorno, cad­ de in catalessi mentre passavo semplicemente per via, davanti al bordello. E tutto vero, lo giuro, e l’ho anche verificato in tutti i modi possibili. Ho fatto un certo numero di esperimen­ ti, con Rafaela. L’ho perfino guarita da una ritenzione urina­ ria, passandole lentamente le mani sulla pancia e parlandole. Ma l’esperimento più straordinario di tutti si svolse proprio al « Café Fornos ». Gli studenti di medicina, che conoscevano Rafaela, non si fidavano di me, esattamente come io diffidavo di loro. Per evi­ tare ogni possibile imbroglio, non faccio parola di quello che sta per succedere. Mi siedo al loro tavolo - il caffè « Fornos » distava dal bordello due minuti a piedi - e penso intensamen­ te a Rafaela, chiedendole - ma senza parlare - di alzarsi e ve­ nire da me, al caffè. Dieci minuti dopo, con gli occhi smarriti, senza sapere dove si trova, Rafaela entra. Le domando di veni­ re a sedersi accanto a me, mi ubbidisce, le parlo, la rassicuro, si sveglia lentamente. Morì all’ospedale sette o otto mesi dopo questo esperimen­ to, che posso certificare. La sua morte mi turbò. Smisi di pra­ ticare l’ipnotismo.

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In compenso, mi sono divertito per tutta la vita a far ballare i tavoli senza cercarvi niente di soprannaturale. Ho visto tavoli alzarsi da terra e levitare, obbedendo a qualche ignota forza magnetica emanata dai partecipanti. Ho visto anche tavoli da­ re risposte esatte, a condizione che uno dei partecipanti, a sua insaputa oppure reticente, le conoscesse. Movimento leggero e automatico, manifestazione fìsica e attiva dell’inconscio. Mi sono prestato abbastanza spesso anche a giochi di divi­ nazione. Come il gioco dell’assassino, per esempio: in una stanza dove si trovano una dozzina di persone, scelgo una donna particolarmente sensibile (due o tre test molto sempli­ ci, e si capisce subito). Chiedo agli altri di scegliere tra loro un assassino, una vittima, e di nascondere da qualche parte un’ar­ ma del delitto. Mentre quelli scelgono, io esco, poi torno, mi bendano gli occhi e prendo per mano la donna. Con lei, fac­ cio lentamente il giro della stanza. In genere (ma non sempre), trovo abbastanza facilmente le due persone designate, e il na­ scondiglio dell’arma del delitto, guidato, senza che la donna lo sappia, da pressioni molto leggere, quasi impercettibili, della sua mano. Un altro gioco, più diffìcile: esco dalla stanza proprio come prima. Ciascuno dei presenti deve allora scegliere e toccare un oggetto - mobile, quadro, libro, ninnolo - cercando di trovare un rapporto autentico, un’affinità con l’oggetto stesso, sfor­ zandosi di non scegliere a caso. Torno dentro e indovino chi ha scelto questo o quell’oggetto. Miscuglio di riflessione, istin­ to e forse telepatia. A New York durante la guerra ho fatto va­ rie volte questo esperimento con parecchi membri del gruppo surrealista di esuli negli Stati Uniti, André Breton, Marcel Du­ champ, Max Ernst, Tanguy. Senza fare errori. Altre volte inve­ ce mi sono sbagliato. Un ultimo ricordo: a Parigi, una sera, trovandomi al bar del « Sélect » con Claude Jaeger, abbiamo fatto sloggiare tutti i clienti quasi di forza. Restava solo una donna. Alquanto ubria­ co, mi avvicino, mi siedo e immediatamente le dico che è rus­ sa, nata a Mosca. Aggiunsi poi altri particolari, tutti veri. Ri­ mase di stucco, e anch’io, dato che non la conoscevo. Credo che il cinema eserciti sugli spettatori un certo potere ipnotico. Basta guardare la gente che esce da una sala cinema­ tografica, sempre in silenzio, a testa bassa e l’aria assente. Il pubblico teatrale, quello della corrida e quello sportivo sono molto più vivi, più energici. L’ipnosi cinematografica, leggera

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e inconscia, è dovuta probabilmente al buio della sala, ma an * che ai mutamenti di piani, di luci e ai movimenti della macchi­ na da presa, che indeboliscono l’intelligenza critica dello spet­ tatore, esercitando su di lui una specie d’incantamento, come uno stupro. Parlando degli amici di Madrid, vorrei ricordare anche Juan Negrin, futuro presidente del consiglio della Repubblica. Dopo parecchi anni di studio in Germania, era diventato un ottimo professore di fisiologia. Un giorno tentai d’intercedere presso di lui per il mio amico Pepìn Bello, candidato sempre sfortunato agli esami di medicina. Tutta fatica sprecata. Vorrei commemorare il grande Eugenio d’Ors, filosofo ca­ talano, apostolo del barocco (riconosciuto da lui come una tendenza fondamentale dell’arte e della vita, e non come feno­ meno passeggero) e autore di una frase che cito spesso contro chi vuol essere originale a tutti i costi: « Tutto quello che non è tradizione è plagio ». Un paradosso che per me ha sempre avuto qualcosa di profondamente vero. D’Ors, che insegnava a Barcellona in un istituto operaio, si sentiva un po’ isolato quando andava a Madrid. Pertanto gli piaceva venire alla Residenza, stare con noi e partecipare qual­ che volta alla pena del « Café Gijon ». Esisteva allora a Madrid un cimitero sconsacrato da venti o trentanni, dove c’era la tomba di Lara, il nostro grande poeta romantico. Aveva più di cento cipressi, i più belli del mondo. Si chiamava il Sacramentai de San Martin. Una sera, con Euge­ nio d’Ors e la pena al completo, decidemmo di andarlo a ve­ dere. Nel pomeriggio mi ero messo d’accordo con il custode, dandogli dieci pesetas. Nell’ora più buia, penetriamo in silenzio nel vecchio cimite­ ro abbandonato. Chiaro di luna. Vedo una cripta socchiusa, scendo qualche gradino e là, in un raggio lunare, scorgo il co­ perchio di un feretro, leggermente scostato, che lascia uscire una chioma di donna, secca e sporca. Molto scosso, chiamo gli altri che mi raggiungono subito. Quella capigliatura morta al chiaro di luna, della quale mi sono ricordato in Le fantóme de la liberté (Il fantasma della li­ bertà) - i capelli crescono ancora nella tomba? -, è una delle immagini più impressionanti incontrate in vita mia. Esile, acuto, andaluso di Malaga, grande amico di Picasso e più tardi di Malraux, José Bergamm aveva qualche anno più di me. Già noto come poeta e saggista, sposato con una figlia

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del drammaturgo Arnices (l’altra sua figlia sposò il mio amico Ugarte), Bergamm era un senorito, figlio di un ex ministro. Coltivava già, con il gusto del preziosismo, dei giochi di paro­ le e del paradosso, qualche vecchia chimera spagnola, come don Juan e la tauromachia. Ci siamo visti poche volte in quel periodo. Più tardi, avremmo fraternizzato durante la guerra civile. Più tardi ancora, dopo il mio ritorno in Spagna per gi­ rare Viridiana, nel 1961, mi scrisse una bellissima lettera in cui mi paragonava ad Anteo, dicendo che traevo vigore dal con­ tatto con la terra natale. Anche lui, come tanti altri, conobbe un lunghissimo esilio. Negli ultimi anni ci siamo rivisti spesso. Abita a Madrid. Continua a scrivere e a lottare. Vorrei anche rievocare Unamuno, il filosofo professore a Salamanca. Anche lui, come Eugenio d’Ors, veniva a trovarci piuttosto spesso a Madrid, dove succedevano tante cose. Fu esiliato nelle Canarie da Primo de Rivera. Più tardi, lo avrei ri­ visto in esilio a Parigi. Un uomo celebre e serio, piuttosto pe­ dante, senza la minima traccia di umorismo. E finalmente vorrei parlare di Toledo.

L’ORDINE DI TOLEDO

È stato nel 1921, credo, che ho scoperto Toledo, in compa­ gnia del filologo Solaiinde. Partiti da Madrid in treno, ci sia­ mo rimasti due o tre giorni. Ricordo una rappresentazione di Don Juan Tenorio a teatro e una serata al bordello. Dove, non avendo nessuna voglia di stare con la ragazza che era con me, la ipnotizzai spedendola a bussare alla porta del filologo. Affascinato fin dal primo giorno, molto più dall’atmosfera indefinibile della città che dalle sue bellezze turistiche, vi tor­ nai spesso con gli amici della Residenza e il 19 marzo 1923, fe­ sta di san Giuseppe, fondai l’Ordine di Toledo, del quale mi nominai Conestabile. Quest’Ordine ha funzionato e iscritto nuovi membri fino al 1936. Il segretario era Pepin Bello. Tra i padri fondatori, Lor­ ca e suo fratello Paquito, Sanchez Ventura, Pedro Garfìas, Augusto Centeno, il pittore basco José Uzelay e un’unica don­ na, alquanto esagitata, allieva di Unamuno a Salamanca, la bi­ bliotecaria Ernestina Gonzalez Subito dopo venivano i « cavalieri » (Los caballeros). Fra i quali, sfogliando un vecchio elenco, vedo Hernando e Loulou Vines, Alberti, Ugarte, mia moglie Jeanne, Urgoì'ti, Soialinde,

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Salvador Dall (con la menzione, posteriore, di « degradato »), Hinojosa « fucilato », Maria-Teresa Leon, moglie di Alberti, e i francesi René Crével e Pierre Unik. Seguivano, a livello più basso, gli « scudieri » (escuderos), tra i quali Georges Sadoul, Roger Désormières e sua moglie Colette, l’operatore Elie Lotar, Aliette Legendre, figlia del di­ rettore dell’istituto francese di Madrid, il pittore Ortiz, AnnaMaria Custodie. Il capo degli invitati degli scudieri era Moreno Villa, che in seguito avrebbe scritto un grande articolo Sull’Ordine di Tole­ do. Gli ultimi, che però precedevano gli ultimissimi, invitati degli invitati degli scudieri, Juan Vicens e Marcellino Pascua, erano i quattro invitati degli scudieri. Per accedere al rango di caballero, bisognava adorare Tole­ do senza riserve, ubriacarsi perlomeno una notte e vagabon­ dare a lungo per le vie. Chi preferiva andare a letto presto po­ teva essere solo escudero. Non starò neanche a parlare degli « invitati » e degli « invitati degli invitati ». La decisione di fondare l’Ordine mi venne, come succede a tutti i fondatori, da una visione. Due gruppi di amici, che si sono incontrati per caso, inco­ minciano a bere nelle taverne di Toledo. Faccio parte di uno dei due gruppi. Sbronzo duro, sto camminando nel chiostro gotico della cattedrale quando d’un tratto sento migliaia di uc­ celli cantare e qualcosa mi dice che devo tornare immediata­ mente al Carmelo, no, non per farmi frate, ma per rubare la cassa del convento. Corro, il portinaio mi fa entrare, arriva un frate, al quale partecipo il mio desiderio improvviso e violento di entrare in convento. Il frate, che ha già fiutato la mia puzza di vino, mi caccia via. Il giorno dopo, ero fermamente deciso a fondare l’Ordine di Toledo. Una regola semplicissima: ciascuno era tenuto a versare dieci pesetas nella cassa comune, che poi ero io, per vitto e al­ loggio. Dopo di che bisognava andare a Toledo il più spesso possibile e fare in modo di cogliervi le esperienze più indi­ menticabili. La locanda dove alloggiavamo, ben lontana dagli alberghi convenzionali, era quasi sempre la « Posada de la Sangre » (la Locanda del Sangue), dove Cervantes ha ambientato La nobile sguattera. La locanda non era quasi cambiata da allora: asini nel cortile, carrettieri, lenzuola sporche e studenti. Niente ac­ qua corrente, ovvio, cosa d’importanza molto relativa dato

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che i membri dell’Ordine avevano la proibizione di lavarsi du­ rante il soggiorno nella città santa. I pasti si svolgevano sia nelle taverne, sia alla « Venta de Ai­ res », un po’ fuori porta, dove si mangiava sempre una frittata di carne (mista) e una pernice, bevendo vino bianco di Yepes. Sulla via del ritorno, a piedi, una fermata obbligatoria ci por­ tava accanto alla tomba del cardinale Tavera, scolpita da Berruguete. Qualche minuto di raccoglimento davanti al corpo giacente del cardinale, morto di alabastro con guance pallide già scavate, eternato dallo scultore appena un paio d’ore pri­ ma della putrefazione. Volto che si vede in Tristana. Catheri­ ne Deneuve si china su questa immagine fissa della morte. Dopo di che, si risaliva in città per perderci nel labirinto delle stradine, guatando ogni possibile avventura. Un giorno, un cieco ci portò a casa sua, presentandoci la sua famiglia tut­ ta di ciechi. Nessuna fonte di luce in quella casa, nessuna lam­ pada. Ma alle pareti dei quadri raffiguranti solo cimiteri, qua­ dri fatti di capelli. Tombe di capelli, cipressi di capelli. In uno stato spesso vicino al delirio, ben alimentato dall’al­ col e dal vino, baciavamo la terra, salivamo in cima al campa­ nile della cattedrale, andavamo a svegliare la figlia di un co­ lonnello, di cui si sapeva l’indirizzo, ascoltavamo in piena not­ te i canti delle religiose e dei frati attraverso i muri del con­ vento di Santo Domingo. Camminavamo, leggevamo ad alta voce poesie che rimbombavano sui muri dell’ex capitale di Spagna, città iberica, romana, visigota, ebrea e cristiana. Una notte, tardissimo, sotto la neve, mentre vagabondava­ mo, Ugarte e io udimmo improvvisamente delle voci infantili, piuttosto numerose, che cantavano in cadenza la tavola pita­ gorica. Di tanto in tanto le voci cessavano, si udivano delle ri­ satine e la voce più grave del maestro. Dopo di che, il canto aritmetico ricominciava. Riuscii a issarmi grazie alle spalle del mio amico fino a una finestra, ma i canti cessarono di colpo. Non vidi nient’altro che oscurità, non udii nient’altro che il silenzio. Altre avventure avevano un carattere meno allucinatorio. Toledo ospitava una scuola di allievi ufficiali, di cadetti. Quando scoppiava una rissa tra un cittadino e un cadetto, i compagni di quest’ultimo facevano corpo con lui e si precipi­ tavano a vendicarsi - in modo brutale - sull’insolente che ave­ va osato minacciare uno dei loro. Godevano di una pessima fama. Un giorno, troviamo per strada due cadetti, uno dei quali agguanta il braccio di Maria-Teresa, la moglie di Alberti, dicendole: « Que cachonda estasi » (specie di complimento fì­ sico). Lei si ritiene insultata e protesta; arrivo alla riscossa e

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sbatto per terra i due cadetti a suon di pugni. Pierre Unik mi viene in aiuto e tira un calcio a uno dei due, già lungo disteso. Non abbiamo niente di che vantarci, dato che siamo in sette o otto e loro, solo in due. Ci allontaniamo. Arrivano due guar­ die civili che hanno assistito da lontano al tafferuglio e che, in­ vece di ammonirci, ci consigliano di lasciare Toledo il più pre­ sto possibile, temendo una vendetta dei cadetti. Non abbiamo seguito il consiglio, e quella volta non è successo niente. Ricordo fra le altre una conversazione con Lorca, una mat­ tina alla « Posada de la Sangre ». Gli dichiaro d’un tratto, con la bocca piuttosto impastata: « Federico, devo assolutamente dirti la verità. La verità su di te ». Mi lasciò parlare per un po’ e poi disse: « Hai finito? ». « Sì ». « Bene, adesso tocca a me. Ti dirò quello che penso di te. Per esempio, tu dici che sono pigro. Niente affatto. Non sono veramente pigro. Sono... ». E si mise a parlare di sé per dieci minuti. Dopo il 1936 e la presa eli Toledo da parte di Franco (quei combattimenti videro la distruzione della « Posada de la San­ gre »), smisi di andare a Toledo fino al 1961 quando, tornato in Spagna, ripresi i miei pellegrinaggi. Moreno Villa raccontò nel suo articolo che a Madrid, durante una perquisizione all’i­ nizio della guerra civile, una brigata anarchica scoprì in un cassetto un titolo dell’Ordine di Toledo. Il malcapitato pos­ sessore della pergamena sudò sette camicie per spiegare che non si trattava di un vero titolo nobiliare. Riuscì per un pelo a salvarsi la vita. Nel 1963, sulla collina che domina Toledo e il Tago, rispon­ devo alle domande di André Labarthe e Jeanine Bazin per una trasmissione televisiva francese. La più classica delle quali fu naturalmente: « Quali sono secondo lei i rapporti tra la cultura francese e la cultura spagnola? ». « Ma è semplicissimo » risposi. « Gli spagnoli, io per esem­ pio, sanno tutto della cultura francese. I francesi invece igno­ rano tutto della cultura spagnola. Prenda il signor Carrière, ?er esempio (che era presente). È stato professore di storia e ino a quando è arrivato qui, fino a ieri, era convinto che “Toedo” fosse una marca di motociclette ».

Un giorno, a Madrid, Lorca mi invita a colazione con il compositore Manuel de Falla, appena arrivato da Granada.

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Federico gli chiede notizie degli amici comuni. E così, una pa­ rola tira l’altra, parlano anche di un pittore andaluso che si chiama Morcillo. « Sono andato a trovarlo pochi giorni fa » dice Falla. E racconta una storia che mi sembra rivelatrice di una certa tendenza generale. Morcillo riceve Falla nel suo studio. Il compositore esamina tutti i quadri che il pittore si affretta a mostrargli, dicendo ogni volta qualche parola di elogio, senza alcuna riserva. Do­ po di che, notando vari dipinti messi per terra e girati verso il muro, chiede se può vedere anche quelli. Il pittore risponde di no. Sono dei quadri che non gli piacciono e che preferisce non vengano visti. Falla insiste tanto che alla fine il pittore si lascia convincere. Di malavoglia, rigira uno dei quadri messi per terra dicendo: « Non vale niente, come vede ». Falla protesta. Lo trova molto interessante. « Ma no, no » continua Morcillo. « L’idea complessiva mi piace, alcuni particolari non sono male, ma lo sfondo è tutto sbagliato ». « Lo sfondo? » domanda Falla, esaminandolo meglio. « Sì, lo sfondo, cielo, nuvole. Le nuvole non valgono un ac­ cidente, non trova? ». « Be’, » finisce con l’ammettere il compositore « forse ha ra­ gione. Forse, le nuvole non sono all’altezza del resto ». « Trova? ». « Sì ». « Bene, » conclude il pittore « sono proprio le nuvole, la cosa che mi piace di più. E direi la migliore di questi ultimi anni ». Ho trovato per tutta la vita esempi più o meno nascosti di questo atteggiamento mentale, che chiamo « morcillismo ». Siamo tutti un po’ « morcillisti ». Un caso molto tipico è il bel personaggio del vescovo di Granada, nel Gil Bias di Lesage. Il « morcillismo » nasce da un desiderio profondissimo di adula­ zione sconfinata. Bisogna esaurire ogni possibilità di essere lo­ dati. Perciò, si autoprovoca la critica altrui - una critica gene­ ralmente giustificata - e questo non senza una punta di maso­ chismo, solo per confondere meglio l’incauto che non ha sa­ puto fiutare la trappola.

In tutti quegli anni, a Madrid, si andavano aprendo nuove sale cinematografiche, che attiravano un pubblico sempre più

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fedele. Andavamo al cinema con una fidanzata, per poterla av­ vicinare nella penombra, nel qual caso si andava a vedere qualsiasi cosa, il film non aveva importanza, oppure con gli amici della Residenza. In quest’ultimo caso, preferivamo di gran lunga le comiche americane che ci affascinavano: Ben Turpin, Harold Lloyd, Buster Keaton, tutti i comici della troupe di Mack Sennett. Chaplin era quello che ci piaceva di meno. Il cinema era ancora un semplice svago. Nessuno di noi pensava che si trattasse di un nuovo modo di esprimersi, e tanto meno di un’arte. Le uniche cose importanti erano la poesia, la letteratura, la pittura. Non ho mai pensato, a quei tempi, che sarei diventato un cineasta. Come gli altri scrivevo poesie. La prima che fu pubblicata, nella rivista Ultra (o forse era un’altra, Horizonte), s’intitolava Orquestación e presentava una trentina di strumenti musicali. Con qualche parola, qualche riga per ogni strumento. Poesia che Gómez de la Serna sommerse di complimenti e congratu­ lazioni. Anche perché aveva riscontrato in essa la sua influen­ za, credo. Il movimento cui bene o male mi riallacciavo si chiamava degli « ultraisti » e si autocollocava all’estrema avanguardia dell’espressione artistica. Conoscevamo il dadaismo, Cocteau, ammiravamo Marinetti. Il surrealismo non esisteva ancora. La rivista più importante, alla quale abbiamo collaborato tutti, si chiamava La Gaceta Literaria. Diretta da Giménez Ca­ ballero, quella rivista ha riunito tutta la generazione del ’27, e anche autori più vecchi. Ha aperto le sue pagine ai poeti cata­ lani che non conoscevamo, e anche agli autori portoghesi - il Portogallo era per noi più lontano dell’india. Devo molto a Giménez Caballero, che vive ancora, a Ma­ drid. Ma l’amicizia si scontra spesso con la politica. Il diretto­ re della Gaceta Literaria, che rievocava a ogni piè sospinto il grande impero spagnolo, aveva tendenze fasciste. Una decina d’anni dopo, mentre la guerra civile si avvicinava e ciascuno di noi doveva ormai scegliere da che parte schierarsi, ho incon­ trato Giménez Caballero sulla banchina della stazione del Nord, a Madrid. Ci siamo sfiorati senza salutarci. Nella Gaceta, ho pubblicato altre poesie e in seguito, da Pa­ rigi, spedivo a Madrid delle recensioni cinematografiche. Nel frattempo, continuavo le mie attività sportive. Per il tramite di un certo Lorenzana, campione dilettante di boxe, conobbi il magnifico Johnson. Quel negro, bello come una ti­ gre, che era stato campione del mondo per parecchi anni. Di­

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cevano che, nel corso dell’ultimo combattimento, era andato al tappeto per denaro. Ritiratosi, viveva a Madrid, al « Pala­ ce », con la moglie Lucilla. La loro condotta era tutt’altro che irreprensibile. Molte volte, al mattino, ho fatto del footing con Johnson e Lorenzana. Andavamo dal « Palace » fino all’ippo­ dromo, lontano tre o quattro chilometri. E battevo il pugile a braccio di ferro. Mio padre morì nel 1923. Ricevetti un telegramma da Saragozza, che diceva: « Papà molto malato, vieni subito ». Riuscii a vederlo ancora vivo, molto debole (è morto di polmonite), e gli dissi che ero venu­ to da quelle parti per una ricerca entomologica sul terreno. Mi chiese di comportarmi bene con la mamma e morì quattro ore dopo. La sera, l’intera famiglia era riunita. Non c’era più posto. Il giardiniere e il cocchiere di Calanda dormivano su materassi in salotto. Una delle cameriere mi aiutò a vestire mio padre morto, a mettergli la cravatta. Per infilargli gli stivali, bisognò tagliarli di fianco. Poi, andarono tutti a dormire e rimasi solo a vegliarlo. Un cugino, José Amoros, doveva arrivare da Barcellona con il tre­ no dell’una. Avevo bevuto un bel po’ di cognac e, seduto ac­ canto al letto di mio padre, mi sembrava che respirasse. Andai a fumarmi una sigaretta sul balcone, aspettando l’arrivo della carrozza che doveva portare quel cugino dalla stazione - era maggio, si respirava l’odore delle acacie in fiore - quando, d’un tratto, udii distintamente un rumore nella sala da pranzo, come una sedia sbattuta contro il muro. Mi voltai e vidi appa­ rire mio padre, in piedi, con l’aria piuttosto aggressiva, le ma­ ni tese verso di me. Quest’allucinazione - l’unica che ebbi in vita mia - durò una decina di secondi e poi svanì. Andai nella stanza dove dormivano i domestici e mi sdraiai accanto a loro. Non ero veramente impaurito, sapevo che si trattava di un’al­ lucinazione, ma non volevo restare solo. Il funerale si svolse il giorno dopo. L’indomani dormii nel letto dov’era morto mio padre. Per precauzione misi sotto il cuscino la sua rivoltella - bellissima, con il monogramma d’o­ ro e madreperla - per sparare allo spettro, nel caso si fosse ri­ presentato. Ma non tornò mai più. Quella morte fu per me una data decisiva. Il mio vecchio amico Mantecon ricorda ancora che, pochi giorni dopo, ho in­ filato gli stivali di mio padre, aperto la sua scrivania e fumato i

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suoi sigari avana. Ero diventato il capofamiglia. Mia madre aveva appena quarant’anni. Poco più tardi comprai un’auto­ mobile, una Renault. Se mio padre non fosse morto, forse sarei rimasto molto più a lungo a Madrid. Avevo preso la laurea in filosofìa e ri­ nunciato a proseguire gli studi fino al dottorato. Volevo an­ darmene a tutti i costi, aspettavo solo un’occasione. Che mi si presentò nel 1925.

PARIGI

1925-1929

Nel 1925 venni a sapere che a Parigi, sotto il patrocinio del­ la Società delle Nazioni, stavano per creare un organismo de­ nominato Società intemazionale di cooperazione intellettuale. Eugenio d’Ors era già stato designato a rappresentare la Spa­ gna. Annunciai al direttore della Residenza il mio desiderio di accompagnare d’Ors come una specie di segretario. Candida­ tura accettata. Dato però che la Società non esisteva ancora, mi pregarono di andare a Parigi e aspettare sul posto. Unica raccomandazione: leggere ogni giorno Le Temps e il Times per prendere confidenza con il francese, che conoscevo un po’, e fare i primi approcci con l’inglese, che non conoscevo affatto. Mia madre mi pagò il viaggio e promise di mandarmi dei soldi ogni mese. Arrivato a Parigi, non sapendo dove andare, mi sistemai senza esitare all’hótel Ronceray, passage Jouffroy, dove i miei genitori erano stati in viaggio di nozze, nel 1899, e mi avevano concepito.

NOI, GLI STRANIERI

Tre giorni dopo il mio arrivo venni a sapere che Unamuno era a Parigi. Alcuni intellettuali francesi, noleggiando un bat­ tello, lo avevano appena portato via dal suo esilio alle Canarie. Tutti i giorni partecipava a una pena nel caffè « La Rotonde ». Proprio dove ho preso i primi contatti con quelli che la destra francese chiamava con disprezzo « gli stranieri », e cioè i fore­ stieri che vivevano a Parigi e affollavano i caffè all’aperto. Andavo a « La Rotonde » quasi ogni giorno, riprendendo tranquillamente le solite abitudini madrilene. Due o tre volte, riaccompagnai anche Unamuno, a piedi, fino a casa sua, vici­ no all’Etoile. Due ore buone di passeggiata, e conversazione. Alla « Rotonde », solo una settimana dopo il mio arrivo, co­ nobbi un certo Angulo, che studiava pediatria. Mi mostrò l’al­ bergo dove abitava, il Saint-Pierre, in rue de l’Ecole de Médecine, a due passi dal boulevard Saint-Michel. Modesto e sim­

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patico, situato vicino a un cabaret cinese, l’albergo mi piac­ que. Feci trasloco. Il giorno dopo avevo l’influenza e mi misi a letto. La sera, attraverso la parete della stanza, udivo la grancassa del cabaret cinese. Dirimpetto, dall’altra parte della via, vedevo dalla fine­ stra un ristorante greco e una bottiglieria. Angulo mi consigliò di curare l’influenza bevendo champagne. Detto fatto. In quell’occasione, scoprii una delle ragioni del disprezzo, leggi odio, che la destra ostentava contro gli « stranieri ». In seguito a non so quale svalutazione, il franco aveva subito un collasso. Le monete straniere, e particolarmente la peseta, ci permette­ vano di vivere come principi o quasi. Perciò la bottiglia di champagne che combattè vittoriosamente la mia influenza mi costò undici franchi - solo una peseta. Sugli autobus parigini c’erano dei cartelli che dicevano: Non sprecate il pane! E noi bevevamo Moet et Chandon a una peseta la bottiglia. Guarito, una sera andai da solo al cabaret cinese. Una delle entraineuse venne a sedersi al mio tavolo e incominciò a parla­ re, come di dovere. Seconda strabiliante sorpresa di uno spa­ gnolo a Parigi: quella donna si esprimeva benissimo, con un senso sottile e spontaneo della conversazione, Naturalmente, non parlava di letteratura né di filosofìa. Parlava del vino, di Parigi, delle cose di tutti i giorni, ma con tanta disinvoltura, senza la minima affettazione o pedanteria, che rimasi stupefat­ to. Avevo scoperto una cosa che non conoscevo, un nuovo rapporto tra il linguaggio e la vita. Non sono andato a Ietto con quella donna, ignoro il suo nome, e non l’ho mai più rivi­ sta, ma rimane il mio primo vero contatto con la cultura fran­ cese. Altra sorpresa, già raccontata varie volte, le coppie che si baciavano per via. Comportamento che scavava un abisso tra la Francia e la Spagna, così come il fatto che un uomo e una donna potessero vivere insieme senza la benedizione nuziale. Dicevano allora che Parigi, capitale indiscussa del mondo artistico, contasse quarantacinquemila pittori - un numero portentoso - molti dei quali frequentavano Montparnasse (la moda aveva abbandonato Montmartre dopo la prima guerra mondiale). Les Cahiers d’Art, indubbiamente la migliore rivista dell’e­ poca, dedicò un intero numero ai pittori spagnoli che lavora­ vano a Parigi, e che frequentavo quasi quotidianamente. Fra i quali Ismael de la Sema, un andaluso poco più vecchio di me, Castanyer, un catalano che aprì il ristorante « Le Catalan » di

PARIGI

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fronte allo studio-di Picasso, in rue des Grands-Augustins, Juan Gris che andai a trovare solo una volta in periferia e che morì poco dopo il mio arrivo a Parigi. Vedevo anche Cosio, piccolo, zoppo e cieco da un occhio, che provava una specie di amarezza nei confronti degli uomini forti e sani. Sarebbe poi diventato un centurione della Falange, acquistando una certa fama come pittore prima di morire, a Madrid. Bores in compenso è sepolto a Parigi, nel cimitero Mont­ parnasse. Veniva dal gruppo ultraista. Pittore serio, già noto, che fece un viaggio a Bruges, in Belgio, con Hernando Vines e me, viaggio in cui visitò accuratamente tutti i musei. Questi pittori si radunavano in una pena cui partecipavano anche Huidobro, il celebre poeta cileno, e uno scrittore basco che si chiamava Miliena, piccolo e magro. Non so bene per­ ché in seguito, dopo la proiezione dell’Age d'or, alcuni di lo­ ro - come Huidobro, Castanyer, Cosio - mi mandarono una lettera d’insulti. Per qualche tempo i nostri rapporti rimasero tesi, poi ci riconciliammo. I miei migliori amici pittori erano Joaquim Peinado e Her­ nando Vines. Di origine catalana e con tre anni meno di me, Hemando diventò un amico di tutta la vita. Sposò una donna cui voglio molto ma molto bene, Loulou, figlia di Francis Jourdain, uno scrittore che aveva frequentato intimamente gli impressionisti ed era grande amico di Huysmans. La nonna di Loulou, alla fine del secolo scorso, aveva un salotto letterario. Loulou mi ha regalato un oggetto straordi­ nario che apparteneva a sua nonna. Si tratta di un ventaglio sul quale quasi tutti i grandi scrittori di fine secolo, e anche qualche musicista (Massenet, Gounod), hanno scritto due pa­ role, due note musicali, un paio di versi, o semplicemente il proprio nome. Così, Mistral, Alphonse Daudet, Heredia, Banville, Mallarmé, Zola, Octave Mirbeau, Pierre Loti, Huysmans e altri come lo scultore Rodin, si trovano riuniti fianco a fian­ co su questo ventaglio, oggetto futile, riassunto di un mondo. Lo guardo piuttosto spesso, leggendovi per esempio una frase di Alphonse Daudet: « Salendo verso il nord, gli occhi si aguzzano e si spengono ». Poco più in là, ecco una scritta de­ cisiva di Edmond de Goncourt: « Nessun essere che non ab­ bia in sé un capitale d’amore, rivolto alle donne, ai fiori, ai ninnoli, anche al vino, e insomma a qualsiasi cosa, nessun es­ sere che non sia in qualche modo un po’ irragionevole, nessun essere borghesemente equilibrato, avrà mai, mai, mai, alcun talento letterario. Forte pensiero inedito ». Infine, sempre copiati dal ventaglio, cito dei versi di Zola (sono rari):

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Ce que je veux pour mon royaume C’est à ma porte un vert sentier, Berceau formé d’un églantier Et long comme trois brins de chaume. *

In rue Vercingétorix, nello studio del pittore Manolo An­ geles Ortiz, poco tempo dopo il mio arrivo, conobbi il già ce­ lebre e discusso Picasso. Benché mi sembrasse, pur essendo allegro e alla mano, piuttosto freddo ed egocentrico - è di­ ventato umano solo durante la guerra civile, quando prese posizione -, ci rivedemmo piuttosto spesso. Mi regalò un pic­ colo quadro - una donna sulla spiaggia - perduto durante la guerra. Si raccontava di lui che all’epoca del famoso furto della Gioconda, prima della guerra ’i4-’i8, quando il suo amico Apollinaire venne interrogato da un poliziotto, Picasso, con­ vocato a sua volta, rinnegò il poeta, come san Pietro Cristo. Più tardi, verso il 1934, il ceramista catalano Artigas, amico intimo di Picasso, e un mercante di quadri andarono a Barcel­ lona a trovare la madre del pittore, che li invitò a colazione. Mentre erano a tavola la signora rivelò ai due l’esistenza, in soffitta, di una cassa piena di disegni fatti da Picasso bambino e adolescente. Chiedono di vederli, si fanno portare in soffitta, aprono la cassa, il mercante di quadri fa un’offerta, l’affare è concluso. Si porta via una trentina di disegni. Poco dopo, a Parigi, organizza una mostra in una galleria di Saint-Germain-des-Prés. Picasso è invitato alla vernice, viene, passa da un disegno all’altro, li riconosce, sembra molto com­ mosso. Cosa che non gl’impedisce, appena uscito, di correre alla polizia per denunciare mercante di quadri e ceramista. Quest’ultimo fu fotografato da un giornale, come un truffato­ re internazionale. Non chiedetemi un parere in fatto di pittura: non ne ho. Le preoccupazioni estetiche non hanno mai avuto un posto im­ portante nella mia vita e sorrido quando per esempio un criti­ co parla della mia « tavolozza ». Non sono uno che riesce a re­ stare per ore in una galleria di quadri, parlando e gesticolando come un matto. Quanto a Picasso, per esempio, vedevo la sua leggendaria « facilità », che a volte mi urtava. Tutto quello che posso dire, è che Guernica non mi piace affatto. Anche se ho * Quello che voglio, il mio regno / È alla porta un verde sentiero / Una pergola di rosa canina / Lunga tre fuscelli di stoppia.

PARIGI

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contribuito a metterlo in mostra. Detesto tutto di quel quadro, dalla fattura magniloquente alla politicizzazione a ogni costo della pittura. Condivido quest’avversione con Alberti e José Bergamfn, cosa che ho scoperto da pochissimo tempo. An­ dremmo volentieri, tutti e tre, a far saltare Guernica, ma siamo ormai troppo vecchi per andare in giro mettendo bombe.

Avevo già le mie abitudini a Montparnasse, dove « La Coupole » non esisteva ancora. Andavamo al « Dome », a « La Rotonde », al « Select » e in tutti i cabaret più famosi di allora. Una festa che consideravo piuttosto straordinaria era il bal­ lo organizzato tutti gli anni dalle diciannove scuole delle Belle Arti. Alcuni amici pittori me ne avevano parlato come della più bella orgia del mondo, unica nel suo genere, e decisi di parteciparvi. Si chiamava le Bai des Quat'zarts. Fui presentato a uno dei sedicenti organizzatori che mi ven­ dette a caro prezzo dei biglietti bellissimi, molto grandi. Deci­ demmo di andarci in quattro: Juan Vicens, un amico di Sara­ gozza, il grande scultore spagnolo José de Creeft con la mo­ glie, un cileno di cui non ricordo il nome - in compagnia di un’amica - e io. Per entrare, mi aveva detto il venditore di bi­ glietti, bisognava appartenere a una scuola, cosicché ci affib­ biarono quella di Saint-Julien. E viene il gran giorno. La serata inizia con un banchetto or­ ganizzato dalla scuola Saint-Julien in un ristorante. Mentre mangiamo, vedo che uno degli studenti si alza, appoggia deli­ catamente i testicoli su un piatto e poi fa il giro del locale. Mai visto niente di simile in Spagna. Sono un po’ spaventato. Più tardi arriviamo all’ingresso della sala Wagram, dove de­ ve svolgersi il ballo. Un cordone di poliziotti cerca di contene­ re la calca dei curiosi. Ed ecco un’altra scena, ai miei occhi in­ credibile: arriva uno studente vestito da assiro che porta sulle spalle una donna completamente nuda. La testa dello studen­ te fa da coprisesso alla donna, che entra così nella sala fra gli urli della folla. A bocca aperta, mi chiedo: « Ma dove diavolo sono capita­ to? ». L’ingresso è piantonato dagli studenti più muscolosi di ogni scuola. Ci avviciniamo, presentiamo i nostri bellissimi biglietti. Niente da fare. Si rifiutano di lasciarci entrare. Qualcuno dice: « Vi hanno fatto lo scherzo del va-in-bianco! ». E ci mettono bellamente alla porta, i nostri biglietti non so­ no validi.

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De Creeft, indignato, si fa sentire e strepita al punto che lo lasciano passare insieme alla moglie. Quanto a Vicens, al cile­ no e a me, impossibile. Gli studenti avrebbero lasciato entrare volentieri la compagna del cileno, che indossava una splendi­ da pelliccia. Ma, dato che non voleva entrare da sola, le dise­ gnarono una grande croce di pece sulla pelliccia. Fu così che non potei partecipare all’orgia più bella del mondo, consuetudine oggi morta e sepolta. Su quello che suc­ cedeva all’interno correvano voci scandalose. I professori, tut­ ti invitati, restavano fino a mezzanotte, poi se ne andavano. La vera orgia, pare, incominciava allora. Verso le quattro o le cin­ que del mattino i superstiti, notevolmente sbronzi, andavano a buttarsi nelle fontane di place de la Concorde. Due o tre settimane dopo, incontrai il venditore di biglietti fasulli che mi aveva fatto fesso. Si era appena beccato una bel­ la blenorragia e camminava talmente a fatica, appoggiato a un bastone, che non ho avuto il coraggio di vendicarmi. « La Closerie des Lilas » era ancora un semplice caffè, dove andavo quasi ogni giorno. Proprio di fianco, c’era il « Bai Bullier » che frequentavamo sempre mascherati. Una sera mi so­ no vestito da monachella. Ottimo travestimento, molto elabo­ rato, con un po’ di rossetto e perfino ciglia finte. Sto cammi­ nando lungo il boulevard Montparnasse con degli amici, fra i quali Juan Vicens travestito da frate, quando d’un tratto ve­ diamo due poliziotti che si avvicinano. Mi metto a tremare sotto la cuffia alata, perché in Spagna gli scherzetti di questo genere sono puniti con cinque anni di prigione. Ma i due agenti si fermano, con grandi sorrisi, e uno di loro mi dice tut­ to gentile: « Buonasera, madre. Posso fare qualcosa per lei? ». Ogni tanto veniva con noi al « Bai Bullier » anche Orbea, il viceconsole spagnolo. Una sera, poiché mi chiedeva un costu­ me, mi tolsi quello da suora e glielo passai. Sotto, mi ero pre­ videntemente vestito da calciatore. Con Juan Vicens, ci venne perfino l’idea di aprire un caba­ ret in boulevard Raspai!. Feci anche un viaggio a Saragozza per chiedere fondi a mia madre, che però non ne volle sapere. Poco tempo dopo Vicens si sarebbe occupato della libreria spagnola, in rue Gay-Lussac. Morì a Pechino, di malattia, do­ po la guerra. Fu a Parigi che imparai a ballare in modo decente. Ho se­ guito dei corsi in un’apposita scuola. Ballavo di tutto, compre­

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sa la giava, malgrado la mia avversione per la fisarmonica. Ri­ cordo ancora la musichetta, e le parole: « On fait une petite belote, et puis voilà... ». Parigi era piena di fisarmoniche. Il jazz continuava a piacermi e non avevo smesso di strim­ pellare il banjo. Avevo perlomeno sessanta dischi, niente male per quei tempi. Andavamo ad ascoltare il jazz alThótel Mac­ Mahon e a ballare allo « Chateau de Madrid », al Bois de Bou­ logne. Infine, nel pomeriggio, come tutti gli « stranieri » che si rispettino, seguivo dei corsi di francese. Ho già detto che arrivando in Francia ignoravo tutto del­ l’antisemitismo, non sapevo nemmeno che esistesse. Lo avrei scoperto più tardi, a Parigi, con mia grande sorpresa. Un gior­ no, un tale raccontò davanti a molti amici che fi giorno prima suo fratello era andato in un ristorante vicino all’Etofie e, ve­ dendo un ebreo che stava mangiando, lo aveva preso a schiaffi buttandolo giù dalla sedia. Feci qualche domanda ingenua, cui risposero malamente. Fu così che scoprii l’esistenza di una questione ebraica, impiegabile per uno spagnolo. In quello stesso periodo dei gruppi di destra, Camelots du Roi e Jeunesses Patriotiques, organizzavano dei raid a Mont­ parnasse. Saltavano giù dai camion, bastoni gialli alla mano, e si mettevano a picchiare gli « stranieri » sistemati ai tavolini esterni dei caffè più importanti. Mi sono azzuffato varie volte con loro. Mi ero appena trasferito in una camera ammobiliata al 3 bis di place de la Sorbonne, una piccola piazza di provincia, tran­ quilla e tutta alberata. Nelle vie si vedevano ancora le carroz­ zelle, e qualche rara automobile. Piuttosto elegante, portavo le ghette, un gilè con quattro tasche e una bombetta. Tutti gli uomini portavano un cappello o un berretto. A San Sebastian, dei giovani che passeggiavano a testa nuda erano stati aggredi­ ti e tacciati di tnaricones (pederasti). E poi, un giorno, ho mes­ so la mia bombetta sull’orlo del marciapiede, in boulevard Saint-Michel, e le sono saltato sopra a piedi uniti. Un addio definitivo. A quell’epoca conobbi anche una donna piccola e bruna, una francese che si chiamava Rita. La incontravo al « Select ». Aveva un amante argentino che non ho mai visto e abitava in un albergo di rue Delambre. Uscivamo insieme piuttosto spes­ so, per andare al cabaret o al cinema. Tutto qui. Capivo d’interessarle. Quanto a me, non mi era indifferente. Parto per Saragozza per chiedere soldi a mia madre (la fa­ mosa pensata del cabaret). Appena arrivato, un telegramma di Vicens mi dice che Rita si è suicidata. L’inchiesta appurò che

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le cose andavano malissimo, tra lei e l’amante argentino (un po’ per causa mia, forse). Il giorno stesso della mia partenza, lui la vide entrare in albergo e la seguì fino in camera sua. Do­ ve non si sa bene cosa accadde. Ma alla fine Rita prese una piccola pistola che le apparteneva, sparò sull’amante e si uc­ cise. Joaquim Peinado e Hernando Vines avevano uno studio in comune. Appena una settimana dopo il mio arrivo a Parigi, mi trovavo da loro quando arrivarono tre deliziose ragazze che studiavano anatomia nel quartiere. Una delle tre si chiamava Jeanne Rucar. Mi sembrò bellissi­ ma. Originaria del Nord della Francia, conosceva già l’am­ biente spagnolo parigino grazie alla sua sarta, e faceva ginna­ stica ritmica. Durante le Olimpiadi del 1924, a Parigi, aveva perfino vinto una medaglia di bronzo. Allenata da Irène Poppart. Mi venne subito un’idea machiavellica - e in fondo molto ingenua - per disporre a piacere delle tre ragazze. Una volta, a Saragozza, un tenente di cavalleria mi aveva parlato di un po­ tente afrodisiaco, il cloridrato di Yoimbin, capace di spuntare le resistenze più ostinate. Ne parlai subito con Peinado e Vi­ nes; l’idea era di far tornare le tre ragazze, offrirgli dello champagne e versare nelle loro coppe qualche goccia di clori­ drato di Yoimbin. Ci credevo sul serio. Hernando Vines però mi rispose che era cattolico e che non si sarebbe mai prestato a una canagliata del genere. In poche parole, non accadde un bel niente - se non che avrei rivisto Jeanne Rucar piuttosto spesso dato che diventò mia moglie, e lo è ancora.

PRIME REGIE

In quei primi anni di vita parigina, quando frequentavo quasi solo spagnoli, ho sentito parlare poco dei surrealisti. Una sera, passando davanti alla « Closerie des Lilas », vidi il marciapiede coperto di pezzi di vetro. C’era stato un pranzo in onore della signora Rachilde, e due surrealisti - non ricordo più quali - l’avevano insultata e schiaffeggiata, scatenando quindi una rissa generale. A dire il vero, nei primi tempi, il surrealismo m’interessava poco. Avevo scritto un lavoro teatrale, una decina di pagine in tutto, che si chiamava semplicemente Amleto, e l’avevamo

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rappresentato tra noi nella cantina del « Sélect ». Fu questo il mio esordio come regista. Sul finire del 1926, mi si presentò un’occasione vera e pro­ pria. Hernando Vines era nipote di un pianista molto famoso, Ricardo Vines, il primo che fece conoscere Erik Satie. Nella città di Amsterdam esistevano allora due grandi com­ plessi musicali, fra i più importanti d’Europa. Il primo aveva appena eseguito con grande successo Storia di un soldato di Stravinskij. Il secondo era diretto dal grande Mengelberg. Per replicare al successo dell’altra formazione sinfonica, volevano mettere in scena il Retablo de Maese Pedro di Manuel de Falla, opera corta, tratta da un episodio del Don Chisciotte, che avrebbe dovuto chiudere un concerto. E cercavano un regista. Ricardo Vines conosceva Mengelberg. Grazie a Amleto ave­ vo delle referenze, alquanto misere in verità. A dirla in breve, mi proposero la regia che accettai. Si trattava di lavorare con un direttore d’orchestra di fama mondiale e con dei cantanti notevoli. Provammo a Parigi, per quindici giorni, in casa di Hernando. II Retablo è in realtà il teatrino di un burattinaio. In teoria, tutti i personaggi sono delle marionette doppiate dalle voci dei cantanti. Feci un’in­ novazione inserendo quattro personaggi in carne e ossa che, nascosti sotto altrettante maschere, assistevano allo spettacolo di Maese Pedro, il burattinaio, e ogni tanto intervenivano, sempre doppiati dai cantanti, i quali se ne stavano nella buca dell’orchestra. Naturalmente scelsi degli amici per recitare le parti - mute - dei quattro personaggi. Fu così che PeinadpJoterpretò il locandiere e mio cugino, Rafael Sauras, Don Chi­ sciotte. Anche un altro pittore, Cosio, faceva parte del cast. Lo spettacolo venne rappresentato tre o quattro volte ad Amsterdam, di fronte a sale gremite. La prima sera, avevo semplicemente dimenticato di regolare le luci. Non si vedeva un accidente! Dopo lunghe ore di lavoro, con l’aiuto di un tecnico, le luci furono messe a punto per la seconda rappre­ sentazione che si svolse normalmente. Avrei rifatto regia teatrale solo una volta, a Città del Messico, molto più tardi, verso il i960. L’opera era l’eterno Don Juan Tenorio di Zorrilla che, scritta in soli otto giorni, mi sem­ bra composta in modo veramente mirabile. Finisce in paradi­ so dove don Juan, ucciso in duello, si trova redento dall’amore di dona Ines. Regia molto classica, molto lontana dalle rappresentazioni parodistiche che davamo alla Residenza universitaria. A Città del Messico, dove si recitò per tre giorni in occasione della Fe­

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sta dei Morti (è una tradizione spagnola), ebbe un successo enorme. Un pigia pigia ruppe tutti i vetri del teatro. In quella rappresentazione, nella quale Luis Alcoriza interpretava la parte di don Luis, mi ero riservato quella di don Diego, il pa­ dre di don Juan. Ma la sordità mi disturbava al punto che fati­ cavo parecchio a seguire il testo. Giocherellavo distrattamente con i guanti, tanto che Alcoriza dovette improvvisare e darmi un colpetto sul gomito, per avvertirmi che toccava a me.

FARE CINEMA

Dal mio arrivo a Parigi, andavo spesso al cinema, molto più che a Madrid, fino a tre volte al giorno. La mattina, grazie a una tessera stampa procurata da un amico, vedevo dei film americani in proiezione privata, dalle parti della sala Wagram. Nel pomeriggio, un film in un cinema rionale. La sera, andavo al « Vieux Colombier » o allo « Studio des Ursulines ». La mia tessera stampa non era completamente usurpata. Grazie a Zervos, qualche critica la scrivevo sul serio, nei « fo­ gli volanti » di Les Cahiers d'Art, e qualcuna la mandavo a Madrid. Ho scritto su Adolphe Menjou, Buster Keaton e su Greed di Stroheim. Tra i film che mi colpirono, impossibile dimenticare la grande emozione per La corazzata Potèmkin. All’uscita - in una via dalle parti di rue d’Alésia - eravamo pronti a fare le barricate e dovette intervenire la polizia. Ho detto per anni che quel film mi sembrava il più bello di tutta la storia del ci­ nema. Oggi, non ne sono più tanto sicuro. Ricordo anche i film di Pabst, L'ultimo uomo di Murnau, ma soprattutto i film di Fritz Lang. Proprio vedendo Destino capii, chiaramente, che volevo fa­ re del cinema. Non m’interessavano tanto le tre storie in sé quanto piuttosto l’episodio centrale, l’arrivo dell’uomo col cappello nero - intuii subito che era la morte - in un villaggio fiammingo, e la scena del cimitero. Qualcosa in quel film mi toccò profondamente, portando una luce nella mia vita. Sen­ sazione poi confermata da altri film di Fritz Lang, come I ni­ belunghi e Metropolis. Fare del cinema. Ma come? Spagnolo, critico occasionale, non avevo denaro né quelle che chiamano relazioni. Fin da Madrid conoscevo di nome Jean Epstein, che scrive­ va su L’Esprit nouveau. Questo regista di origine russa era tra i

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più celebri del cinema francese, insieme ad Abel Gance e Marcel L’Herbier. Venni a sapere che con la collaborazione di un attore russo emigrato e di un attore francese - ho dimenti­ cato i loro nomi - aveva fondato una specie di accademia d’ar­ te drammatica. Andai subito a iscrivermi. Gli allievi erano quasi tutti russi bianchi. Per due o tre settimane, ho partecipato ai loro eserci­ zi, alle improvvisazioni. Epstein ci diceva, per esempio: « Siete dei condannati a morte alla vigilia dell’esecuzione ». Qualcuno doveva fare il patetico e il disperato, altri dovevano mostrarsi disinvolti e insolenti. Eseguivamo, il meglio possibile. Al migliore allievo, prometteva delle piccole parti nei suoi film. Quando m’iscrissi stava ultimando II cavaliere della notte ed era troppo tardi perché mi prendesse con sé. Dopo il film, andai un giorno in autobus ai teatri di posa Albatros, a Montreuil-sous-Bois, sapendo che stava preparandone un altro, Mauprat. Mi ricevette e gli dissi: « Senta, so che sta per girare un film. Il cinema m’interessa molto, ma tecnicamente ci capisco pochino. Non posso esserle utile. D’altra parte, non voglio denaro. Perciò mi prenda per spazzare il set, fare le commissioni, e insomma qualsiasi co­ sa ». Accettò. Mauprat (girato a Parigi, ma anche a Romorantin e a Chàteauroux) fu la mia prima esperienza cinematografica. In quel film ho fatto un po’ di tutto, perfino una tombola da ca­ scatore. Impersonando, in una scena di battaglia, un gendar­ me dei tempi di Luigi XV (o XVI che fosse), dovevo essere colpito, in cima a un muro, da una pallottola e cadere da circa tre metri d’altezza. Un materasso avrebbe dovuto attutire la caduta, ma mi feci male lo stesso. Durante la lavorazione, dove feci amicizia con l’attore Mau­ rice Schultz e l’attrice Sandra Milovanov, m’interessavo princi­ palmente alla macchina da presa, oggetto per me sconosciuto. L’operatore - Albert Duverger - lavorava da solo, senza assi­ stenti. Sostituiva lui stesso i magazzini e stampava. E senza cambiare ritmo, girava anche la manovella della macchina da presa. Trattandosi di film muti, i teatri di posa non avevano isola­ mento acustico. Qualcuno - quello di Epinay per esempio presentava intere pareti vetrate. Proiettori e riflettori erano talmente potenti che dovevamo portare tutti gli occhiali « piombati » per proteggerci gli occhi ed evitare gravi disturbi alla vista. Epstein mi teneva un po’ in disparte, forse per via della mia

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tendenza a far ridere gli attori. Un curioso ricordo di lavora­ zione è l’incontro con Maurice Maeterlinck, già vecchio, a Romorantin. Abitava nel nostro stesso albergo, con la sua segre­ taria. Abbiamo preso un caffè insieme. Dopo Mauprat, Epstein, che preparava La caduta della casa Usher tratto da Edgar A. Poe, con Jean Debucourt e la moglie di Abel Gance come diva, mi assunse come secondo aiuto. Girai tutti gli interni a Epinay. Un giorno che il segretario di produzione, Maurice Morlot, mi aveva mandato a comprare dell’emoglobina in una farmacia vicina, incappai in un farma­ cista xenofobo il quale, riconoscendo lo « straniero » dall’ac­ cento, si rifiutò con urla e minacce di vendermi quello che gli chiedevo. La stessa sera in cui finivano le riprese degli interni, mentre Morlot dava appuntamento a tutti per il giorno dopo, in sta­ zione (andavamo a girare gli esterni in Dordogna), Epstein mi disse: « Rimanga un minuto con l’operatore. Abel Gance viene a girare un provino con due ragazze. Vorrei che gli desse una mano ». Gli risposi con la mia solita brutalità che ero il suo aiuto ma non avevo niente a che fare con il signor Abel Gance, il cui ci­ nema non mi piaceva per niente (affermazione alquanto ine­ satta, perché ero rimasto piuttosto impressionato dal suo Na­ poleone su tre schermi). Aggiunsi che trovavo Gance un po’ « pompiere ». Allora Jean Epstein mi rispose - ci sono frasi di mille anni fa, che ricordo parola per parola: « Come osa un fessacchiotto come lei parlare così di un grandissimo regista? ». Aggiunse che da quel momento la nostra collaborazione era finita, e così fu. Non ho partecipato agli esterni della Caduta della casa Usher. Poco dopo però, calmatosi, Epstein m’invitò nella sua automobile per riaccompagnarmi a Parigi. Strada fa­ cendo, mi diede qualche consiglio: « Attento, sento in lei delle tendenze surrealiste. Stia lonta­ no da quella gente ».

Continuavo a lavorare qua e là, nel cinema. Nei teatri di posa Albatros, a Montreuil, ho recitato una particina di contrabbandiere in Carmen, con Raquel Meller, diretta da Jacques Feyder, un regista che non ho mai smesso di ammirare. Pochi mesi prima, quando studiavo all’Accade­ mia d’arte drammatica, ero andato a trovare sua moglie, Fran-

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qoise Rosay, insieme a una russa bianca molto elegante» che si faceva chiamare stranamente Ada Brazil. Fran» 33. 34» 39, 40» 45» 47, 49, 86, 104, 179, 180, 181, 266 Calder, Alexandre 193, 266 Camoes, Luis Vaz de 229 Camelots du Rot 93,127 Camus, Marcel 226 Candide 173 Cannes 203, 237, 250 Cannes (festival di) 122, 163, 172, 213, 213, 216, 221, 228, 236, 240

INDICE DEI NOMI

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Canti di Maldoror 127

Charme discret de la bourgeoisie, Le

Canyon, Laurei 145 Capri, Agnès 120 Cardenas, Lazaro 223 Carlsen, Henning 256 Cargo of Innocents 189 Carmen 100,101 Caro estinto, Il 204 Carranza (arcivescovo di Toledo)

(Il fascino discreto della bor­ ghesia) 104, 105, 206, 250, 258, 259, 260 Charpentier, Gustave 123 « Chateau de Madrid » 95 Chàteauroux 99 Chiappe 127, 251 Chicago 241 « Chicote » 52, 53 Chien andalou, Un 24, 51, 101, 103, 113, 114, 115, 117, 118, 119, 124, 125,126,127,132,135,144,167, 168, 195, 198, 200, 230, 259 Chopin, Fryderik 168 Churubusco (teatri di posa) 203, 239 « Cine de la Prensa » 150 Città del Messico 22, 53, 57, 68, 97, 107, no, 135, 154, 200, 201, 203, 204, 209, 211, 212, 214, 216, 221, 223, 224, 227, 228, 232, 233, 239, 242, 248, 249 Clair, Bronja 132 Clair, René 112, 121, 132, 190, 191,

255 Carretero, José Maria 70 Carrière, Jean-Claude 11, 52, 53, 83, 105, 198, 206, 234, 235, 252, 254. 255> 259, 266 Carrillo, Santiago 163 Carrington, Leonora 175, 193 Casa Campo 162,166, 246 Casa degli incubi, La 236 Casa de Leonor 77 Casa di Bemarda Alba, La 200 Casanellas 148 Casanova 236 Casas Viejas 155 Cascajares, famiglia dei 21 Castanyer 90, 91 Castelceras 17 Castro, Americo 63, 76 Caudillo 163 Caupenne, Jean 129,130 Cavalcanti, Alberto 112 Cavaliere della notte, Il 99 Cavalieri della vendetta, I 237 Cayatte, André 214 Caza, La 235 Cazorla 255 Cela s’appelle l'aurore (Amanti di do­ mani) 116, 205, 226 Centeno, Augusto 62, 80 Centeno, Juan 62, 64 Centinela aierta! (Sentinella attenti!)

155

Centoventi giornate di Sodoma, Le 229, 230 Cemuda, Luis 68 Cervantes, Miguel de 81, 229 Cet obscur objet du désir (Quell’oscu­ ro oggetto del desiderio) 56, 75, 186, 230, 250, 261 C.g.t. (Confédération Générale du Travail) 171 Chaplin, Charlie 59, 85, 138, 139, 140,141,143,144,190, 191,192 Chaplin, Géraldine 144 Chapultepec 218 Char, René 59,115,123

Claude^ Paul 226 Clément, René 236 Clementi, Pierre 256 Clouzot, Henry-Georges 236, 239 c.n.t. (Confederazione Nazionale del Lavoro) 162 « Cochon de lait » 152 Cocteau, Jean 85, 113, 128, 129, 215, 216 « Coinè » 41 Colegio del Salvador 37, 39, 40 Collé, Pierre 131 Congresso degli Intellettuali Rivolu­ zionari 137 Copenaghen 256

Coquille et le clergyman, La 116 Corazzata Potèmkin, La 98, 140, 236 Cordoba 19 Cordoba, Arturo 216 Corniglion-Molinier 172 Cortàzar, Julio 256 Cosio 91, 97 Covarrubias, senora 33 Creeft, José de 93, 94 CréveI, René 81, 117, 120, 122, 128, 230 Cria Cuervos 237

Cuando los hijos nos juzgan o Una mujer sine amor (Quando i figli ci ingannano o Una donna sen­ za amore) 214

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Cuba 33, 34 Cuenca 166 Cuernavaca 205 Cukor, George 206, 207

Cumbres borrascosas o Abismos de pasión (Cime tempestose o Abissi di passione) 21, 217 Custodie, Arma-Maria 81, 133 « Cyrano » 51, 115,116, 117

Dakar 147 Dall, Arma-Maria 125 Dall, Gala 106, 107, 120, 123, 193, 193,196,197 Dall, Salvador 70, 74, 73, 81, 103, 106, 107, in, 113, 114,113,117, 120,123,124,123,126,128,131, 133,148,168,173,180,193,194, 195. 197.198» 230 Damita, Lily 144 Dandgers, Oscar 201, 202, 209, 210, 211, 212, 214, 216-217 Dante 229 Da qui all'eternità 236 Darwin, Charles 40, 229 Dato, Eduardo 63, 148 Daudet, Alphonse 91 Davis, Frank 138,144,145, 189 Debucourt, Jean 100 Debussy, Claude 231 De Gaulle, Charles 172, 239 Deneuve, Catherine 82, 253, 257 Denise (fotografa) 121 Derain, André 131 Deray, Jacques 226 De Sica, Vittorio 211, 236, 248 Desnos, Robert 229 Désormières, Colette 81,129 Désormières, Roger 81,128, 129 Destino 98, 207 « Deux Magots » 201

Dialogo fra un prete e un moribondo 228, 230 Diaz, Rosita 36 Dietrich, Marlene 142,133 DiUian, Irosema 217 Dishonoured 142 Divina Commedia, La 229 Dizionario delle eresie 233 Dolce vita, La 236 Dolores del Rio 140 « Dome » 93, 114 Dominguez, Martin 72 Dominguin, Luis-Miguel 226, 247

Don Chisciotte 97

Don Juan Tenorio 73, 80, 97 Donna e il fantoccio, La 261 Don Quintin el amargao 133, 214, 245 Doriot, Jacques 151 Dorronsoro 57 Dos Passos, John 172, 234 Dostoevskij, Fèdor 234 Ducay, Eduardo 237 Duchamp, Marcel 78,193 Dulac, Germaine 116 Durremberger, Suzanne 232 Durruti, Buenaventura 63, 136, 131, 167 Duverger, Albert 99, 101,114, 126 Echeverria, Luis 224 Eisenstein, Sergej 126, 140, 236 El 23, 215, 216, 253 El Bruto 223 El Caballero Audaz (v. Carretero, J.M.) El gran Calavera 211 El Molin 23 « El Parador » 53 El Paular (monastero) 168, 234, 233,

259 Eluard, Cécile 106, 107 Eluard, Paul 106, 107, 113, 117, 118, 119,120,123,126,131, 132,133, 147, 148, 230 « Ena Victoria » 41 Ensayo de un crimen (Estasi di un delitto) 220, 223, 243, 230 Entr'acte 112 Epinay 99, 100,140 Epstein, Jean 98, 99, 100, 101, 112,

113. 250 Epstein, Marie 113 Ernst, Max 78, 113, 117, 120, 123, 126, 131, 133, 167,193, 266 Erode 23 Escolapios 21 Espana libre 203

Espana Nuova 65 Esprit nouveau, L' 98 Esteban, Bartolomé 61

Eterodossi spagnoli, Gli 235 Etiévant 101

>

Fabre, Jean Henri 229 F.A.I. (Federazione Anarchica Iberi­ ca) 166 Falla, Manuel de 83,84, 97 Fantóme de la liberté, Le (Il fantasma

INDICE DEI NOMI

della libertà) 79, 152, 183, 199, 260, 261 Faure, Elie 161 Febbre dell’oro, £4 138 Federazione Anarchica 162 Felipe, Berta 212 Felipe, Leon 212 Fellini, Federico 236 Fernandez, Emilio (« Indio ») 221 Ferrer, Francisco 34 Ferreri, Marco 236 « Farrucini » 41 Ferry, Jean 226 Festugières, padre André-Jean 251 Feyder, Jacques 100, roi, 140 Fidanzata di mezzanotte, La 200

Fièvre monte à el Pao, La o Los Ambiciosós (L’isola che scotta) 238, 252

Figli del capitano Grant, I 36 Figueras 74, 113,125 Figueroa, Gabriel 221, 227, 246, 252 Fille de l’eau 112 Film Society 170 Filmsono 165

Filosofia nel boudoir, La 250 Fitzgerald (scenografo) zìi Florey, Robert 200 Fonda, Henry 189 Ford, John 206, 207 « Fomos » 69, 77 Forton 21 Foz 49 Franck, Cesar Auguste 231 Franco, Francisco 71, 83, 152, 161, 163,164,168,174,181,190, 224, 242, 245, 248, 268 Franco, ese hombre 163 Frankeur (teatri di posa) tot Frankeur, Paul 255 Fratellini (attori di circo) 69 Freud, Sigmund 240, 241 Fuentes, Carlos 197, 256

Gaceta Literaria, La 85, 154, 213 Gali (meccanico) 190 Gallimard, Gaston 118, 119 Gance, Abel 99, 100 Gaos, José 187 Garbo, Greta 42, 139,144 Garda 178,179 Garda, Ernesto 242 Garda Lorca, Federico 68, 70, 71, 72, 73, 74, 73, 80, 83, 84, in, 157,158,167,168,195,197, 200, 239, 250

273

Garda Lorca, Paquito 80, 201 Garfìas, Pedro 66, 68, 80 Gaudi, Antonio 25 Gavarnf 178 Gerusalemme liberata, La 229 Giacometti, Alberto 128 Gibuti 147 Gide, André 149, 170, 238 Gigante, Il 206 Gil Bias 84, 232 Ginevra 169,170 Giochi proibiti 236 Gioconda, La 92 Giono, Jean 254 Giovanni XXIII 30, 228 Gioventù Socialiste Unificate 163 Giraffa, Una 128 Gironella 107 Giuda 183 Goebbels, Joseph Paul 108, 191 Goémans 106 Goering, Hermann 108 Gómez de la Serna, Ramón 68, 69, 85, 113, 232 Goncourt, Edmond de 91 Gonzalez, Ernestine 80 Gonzalez, Luis 18, 19 Gounod, Charles-Francois 91 Gouraud 130 Goya, Francisco 76, 113 Granada 71, 83, 168 Granadilla 150 Gran Calavera, El (Il grande teschio) 211 Gran Casino 120, 209, 210 Gran Jeu 120 Grande abbuffata, La 236 Grande dittatore, Il 190, 192 « Granja del Henar » 69 Grau, Giacinto 67

Greed 98 Grémillon, Jean 155 Gringoire 175 Gris, Juan 91 Grunewald 253 Guanajuato 242 Guernica 92, 93 Guillén, Jorge 68 Gurruchaga (produttore) 257

Hakim, fratelli 253 Hale, Georgia 138,143 Harlem 203 Has, Wojciech 236 Heine, Maurice 230

274

DEI MIEI SOSPIRI ESTREMI

Hemingway, Ernest 172, 234 Heredia, José-Maria 91 Heredia, Saènz de 163 Hija de Juan Simon, La 154,163 Hija del Engano, La (La figlia dell’in­ ganno) 214 Hijar 29 Hinojosa 71, 81,154 Hiroshima 235 Hitchcock, Alfred 206 Hitler, Adolf 108,191 Hoja de Parra 24 Hollywood 59, 137, 138, 141, 189, 190, 199, 201, 204, 206, 259, Horizonte 71, 85 Ho sposato una strega 190 Huesca 71,149,175 Hugo (attore) 42 Hugo, Valentine 126 Huidobro, Vicente 91

Humanité, L' 175 Hurdes, Las o Tierra sin pan (Las Hurdes o Terra senza pane) 149, 150, 151,166 Huston, John 205, 237 Huxley, Aldous 190 Huysmans, Joris-Karl 27, 91 Hyères 115, 125, 128 Ibanez, Juan 197, 263 llegible hijo de fiuta (Illeggibile figlio di un flauto) 211 Ilusion viaja en tranvia, La (L’illusio­ ne viaggia in tranvai) 218 Immacolata Concezione, L‘ 148

Impressioni e paesaggi 71 Incantatore imputridito, L‘ 68 Io e Annie 205 Ionesco, Eugène 123 Ippocrate 267 Isaac (umorista) 245 Isla, padre 232 Ivens, Joris 172

Jaeger, Claude 78, 226 Jaén 19, 255 James, Edward 175, 176 Jeanne (moglie di L. Bufiuel) 80, 122, 125,146,154, 195, 248 Jeunesses Patriotiques 95, 127 Jiménez, Alberto 61 Jiménez, Augustin 220, 221 Jiménez, Juan Ramón 68 Jockey-Club 127 Johnny prese il fucile 204

Johnson, Jack 85, 86 Johnson, Lucilla 86 Jones, Jennifer 237 Jordan, Jack 144 José, don 152 Jourdain, Francis 91 Jourdain, Loulou 91

Journal d’une femme de chambre, Le (Diario di una cameriera) 252,

253, 254, 257 Julia, dona 247 Juliette 230 Jung, Cari Gustav 241 Justine 230

Kant, Immanuel 39 Kareen 171 k.d.t. 24 Keaton, Buster 85, 98, 236 Keller 130 Kessel, Joseph 253 Kharkov 137 Kilkpatrick, Thomas 144, 145 Kubrick, Stanley 236 Kuprine, Elsa 126 « Kutz » 69 Kyrou, Ado 252 La Alberca 151 Labarthe, André 83 Lacan, Jacques 132, 215 « La Closerie des Lilas » 94, 96, 112, 258 « La Coupole» 51, 93, 115, 173, 174, 176, 258 Ladri di biciclette 236 Ladro di Parigi, Il 254 Lamanie de Clairac 71 Lamarque, Libertad 210 Lanchester, Elsa 192 Landra 223 Lang, Fritz 98, 207, 236 « La Palette » 258 Lara 79 « La Rotonde » 89, 93 Larrea, Juan 211 Lary, Pierre 252 Las Heras 232, 233 La Torre 26, 33 Laughton, Charles 192 Lautréamont (Isidore Ducasse) 127 Lazarillo de Tormes 232 Le Corbusier 115 Leduc, Renato 193 Lega dei diritti dell’uomo 220

INDICE DEI NOMI

Legenda aurea, La 72, 250 Legendre 149 Legendre, Aliene 81 Léger, Fernand 130,193 Legione Condor 173 Le Havre 114, 137 Leiris, Michel 147 Lenin 63 Leon, Maria-Teresa 81, 82 Leoncio, don 25 Leonor (moglie di Tono) 137, 143 Lesage, Alain-René 84, 232 « Le Salon dorè » 41 Leviathan 137 Lévi-Strauss, Qaude 193 Lewine (produttore e regista) 138 Lewis, Monk 252 L’Herbier, Marcel 99

Libro dei morti 266 Ligne, principe di 147 Lindbergh (figlio dell’aviatore) 196, 197 Linder, Max 42 Lizcano 76 Lloyd, Harold 83 Lola Madrid 76, 77 Londra 170, 251 Longinos 30 Lorenzana 85, 86 Lorre, Peter 200 Los Angeles 55, 59, 138, 145, 199, 200, 202, 206, 209, 242, 259, 261 Losey, Joseph 192 Lotar, Elie 81,149 Loti, Pierre 91 Louise 123 Lourdes 231 Louys, Pierre 261 Love, Lucilla 42 Lowry, Malcolm 205 Luci della città 144 Luigi XV 99 Lusiadi 229 Lys, Lya 59, 126, 145 Macan 18 Macario, don (nonno di L. Bunuel)

27 Machado, Antonio 68 Madrid 13, 29, 34, 42, 47, 48, 51, 52, 56, 61,62, 64, 63, 66, 67, 69, 71, 72» 73» 74» 75» 79» 80» 81, 83, 84, 85, 86, 87, 91, 98,104,106,109, in, 112,117,146, 147,149,150,

275

152, 154»