Decisione-indecisione. Dramma della decisione e utopia dell'indecisione
 9788890700682, 9788898694716

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Marco Fortunato

Decisione — Indecisione Dramma della decisione e utopia dell’indecisione

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Passages

Collana diretta da:

Umberto Curi ed Elio Matassi

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Marco Fortunato

Decisione – Indecisione Dramma della decisione e utopia dell’indecisione

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© 2013, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Passages ISSN: 2282-5282 n. 2 - settembre 2013 ISBN – Edizione cartacea: 9788890700682 ISBN – E-book: 9788898694716 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: © Giordano Aita - Fotolia.com

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Introduzione

La mentalità post-greca, fortemente influenzata dal pensiero cristiano, ci ha abituati a vivere – o, almeno, a ritenere di vivere – come se quasi di continuo si presentassero davanti a noi dei bivi e ogni volta ci spettasse decidere quale delle due direzioni possibili imboccare. Però, anche ammettendo che davvero la vita si risolva in una ridda di decisioni e anche volendo riservare minore attenzione dei Greci ai massicci condizionamenti e fattori di eteronomia la cui esistenza getta un profondo dubbio sull’idea che a decidere siamo principalmente o addirittura soltanto noi, sta di fatto che almeno tre grandi ordini di considerazioni sconsigliano vivamente di sbandierare la decisione come quello per cui viene più o meno sempre fatta passare, ovvero il “punto” luminoso di quasi autocratica autonomia in cui si afferma la libertà o, se si preferisce usare un termine meno tremendamente impegnativo, l’iniziativa del soggetto decisore. In primo luogo, è evidente che il soggetto non sceglie di decidere/non decide di decidere, ma deve farlo/è destinato a farlo, all’incirca così come deve volere, cosa – quest’ultima – di cui Schopenhauer stesso è pienamente consapevole. In secondo luogo, con tutta probabilità il soggetto deve non solo decidere,

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ma anche decidere ogni volta quello che effettivamente decide/ quello a favore del quale effettivamente decide, come induce a credere l’autoesame successivo alla decisione, che pressoché senza eccezioni ci convince che non avremmo potuto comportarci diversamente da come abbiamo fatto. In terzo luogo, a dispetto della retorica dei grandi mutamenti e dei ricominciamenti radicali, il ventaglio delle possibilità fra cui il soggetto è chiamato a scegliere è angusto, ben limitato, ridotto a un repertorio perennemente riproponentesi, la cui pochezza e ripetitività esclude ogni vera sorpresa, dalla quale soltanto spirerebbe aria di effettiva libertà, e fa sì invece che ogni atto, anzi ogni individuo, sia in definitiva riconducibile a una precisa categoria fra le non molte di una griglia che non ammette ampliamenti. Appunto a motivo dell’esistenza di argomenti così pesanti da cui si è indotti a ritenere che, se per decisione si vuole intendere un eminente “fuoco” dell’attività-affermatività del soggetto, allora di fatto il soggetto non decide, in questo libro, che pure è consacrato al problema – o meglio, al dramma – della decisione, non capita quasi mai che affiorino e ricevano spicco nozioni come quella di prendere una decisione: l’uomo vi appare, assai più che nelle vesti del decidente-decisore, come la figura del de-ciso, non tanto cioè come colui che decide, quanto piuttosto come quello che viene de-ciso. E in “de-ciso” deve risuonare con la più grande nettezza la derivazione del termine dal latino caedere, che significa tagliare/recidere/staccare/strapparvia-da, e contiene quindi in modo inequivocabile la nota del trauma, della lacerazione, della violenza. L’uomo è il de-ciso nel senso adombrato già dall’epocale detto di Anassimandro, cioè in quanto, nascendo/venendo al mondo, sorge-si individualizza differenziandosi dal bianco oceano del tutto/ni-ente, dell’assoluta in-determinatezza. Ma quello che in Anassimandro è visto essenzialmente come atto s-misurato e colpevole di violenta tracotanza, è in realtà, a guardar bene, passività e fatale obbedienza da parte del soggetto, come

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deve convenire chi non dimentichi che nascere/venire al mondo è un essere chiamato, un dover venire al mondo ben più che un voler venire al mondo. Obbedienza fatale, perché il de-ciso dal corpo della madre nella nascita/l’individuo/ogni individuo va immancabilmente incontro a tutta una serie di criticità che hanno il carattere di veri e propri affronti, anzi di umiliazioni, nome sotto cui vengono tematizzate nella seconda parte del primo dei quattro saggi (Dramma della decisione) che compongono questo libro. Umiliazioni per l’individuo sono, ad esempio, la strutturale dipendenza dall’altro-dagli altri ai fini del costituirsi e del conservarsi del proprio sé; la deprimente dozzinalità-serialità attestata dall’esistenza di innumerevoli altri, che per di più vivono sostanzialmente gli stessi identici passaggi esistenziali, sia pure conditi in salse molteplici che trasmettono un’apparenza di diversità; la condanna a tenere fermo al proprio sé/a militare sempre e comunque dalla propria parte in modo fra odioso e patetico, nel tentativo di far fronte alla micidiale pressione dell’immenso circumstans/del mondo, che congiura alla demolizione del chiamato e de-ciso con la stessa forza perentoria con cui lo ha chiamato e, si può dire, già dal momento immediatamente successivo a quello in cui lo ha chiamato. È proprio nell’essere tagliato-fuori-da e posto di contro/contrapposto all’altro, nell’essere ineluttabilmente calato in un assetto al tempo stesso difensivo e offensivo-aggressivo nei confronti dell’altro-degli altri e nell’essere pertanto radicitus in-giusto, che in questo libro viene ravvisato il punctum dolentissimum della condizione del de-ciso, ossia in fin dei conti della condizione di individuazione. È così che il protagonista di questo testo sulla decisione, lungi dall’essere la figura quasi eroica del soggetto decidente-decisore più o meno tronfio del presunto esercizio di affermazione-applicazione della sua libera volontà, risulta essere piuttosto il dolente anti-eroe incarnato dal soggetto de-ciso che, intrinsecamente in-giusto e

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violento, soffre del suo essere ap-partato/della sua separatezza, ha cioè, diciamo pure, paura della sua solitudine, e perciò cercaimmagina-saggia difficili vie d’uscita dalla sua condizione; una condizione che è anche, ovviamente, ininterrotta aderenza-vero e proprio incatenamento al “macchinario” autocoscienziale che lampeggia segnali premonitori di finitudine, che cioè gli “passa” una sola informazione inequivocabile e fondamentale, la informazione che è destinato a morte. Seguendo appunto la traccia di quel cercare-immaginare-saggiare, le pagine seguenti lasceranno quindi balenare scorci, quasi abbozzi di un’utopica condizione che, in quanto in essa sarebbero almeno attenuate la violenta in-giustizia e la paura connaturate alla de-cisione, merita di essere denominata in-decisione. Una prima, basilare speranza di in-decisione viene dalla dialettica, la più alta, complessa e onesta forma di pensiero elaborata dalla tradizione filosofica occidentale. Onesta, perché non occasionalmente e sporadicamente, ma sistematicamente e senza eccezioni sciorina, per ogni posizione/per ogni momento logico-reale che chiama in causa e discute, il suo opposto, e quindi, come nessun’altra modalità e stile di pensiero, ha le carte in regola per (di)mostrare che ogni volta le ragioni dell’uno e del due, del recto e del verso si equi-valgono e si bilanciano e che logica e giustizia imporrebbero dunque di non decidere mai/di non privilegiare mai uno di essi a scapito dell’altro. Ma, come ricorda la prima parte del primo saggio di questo libro, la dialettica tradisce la sua vocazione all’in-decisione. Infatti, la versione più matura e grandiosa, in certo senso canonica, che essa offre di sé – la dialettica hegeliana – allestisce nella sintesi/nella terza proposizione, che è in verità il “ritorno” e la ri-affermazione conclusiva della tesi/della prima proposizione, il “luogo” in cui decide: ciò che prima di tutto vi viene deciso e fondato è il gesto della potenza-violenza, ovvero lo sconfinamento dal puro dire al fare gravido di conseguenze, dalla teoria alla prassi, in ultima analisi – è ovvio – a quella forma

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eccezionalmente invasiva e pervasiva di prassi che è l’asservimento scientifico-tecnico del mondo, per cui la filosofia lavora, a ben vedere, fin da prima che Bacone, il ricercatore bramoso di risultati operativi, insegnasse che sapere è potere. Se la dialettica di Hegel in definitiva delude, e delude tanto più quanto più dovrebbe – se fosse coerente con il suo stesso progetto e la sua stessa ispirazione – proporsi come l’impeccabile organon dell’in-decisione, ai diritti di quest’ultima concede invece di più il modus cogitandi ac scribendi del massimo dialettico novecentesco, Adorno. Non solo, più ovviamente, perché la sua è una dialettica diadica che non attracca alla sintesi/alla terza proposizione e quindi si astiene dal decidere, ma anche perché – come argomenta la prima parte del secondo saggio, intitolato Due casi di filosofia dell’arresto – la concitazione della sua scrittura intelligente fino quasi a frastornare, la rapinosa velocità con cui spesso l’antitesi subentra a smentire la tesi quando a questa non è stato ancora concesso altro che il tempo per incominciare a malapena a dirsi-a dipanarsi, trasforma la sua pagina in un vorticoso spazio eristico in cui quasi non si è ancora iniziato a dire che già si dis-dice e i vari, opposti momenti logico-reali vengono condotti a una contiguità talmente spinta da sconfinare quasi in vicendevole sovrapposizione-soffocamento, dimodoché nulla/nessuna tesi spicca con contorni netti e definiti(vi), anzi – si potrebbe quasi arrivare a dire – nulla di determinato si riesce a scorgere/a distinguere/a vedere, e quindi nulla, tantomeno il debordare della teoria in prassi, viene deciso, perché nulla propriamente viene detto-posto. Un suo posto fra gli autori di utopici experimenta di in-decisione spetta anche a Michelstaedter, della cui assolutamente straordinaria tesi di laurea, La persuasione e la rettorica, viene effettuato un attraversamento “mirato” nella seconda parte di Due casi di filosofia dell’arresto. Dal momento che il proprium della gigantesca instauratio di pensiero occidentale, culminata nel monumento a suo modo perfetto del sistema hegeliano, consi-

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ste nell’aver di fatto piegato il concetto ad apologia e a protesi decisionale-esecutiva dell’uomo, non stupisce che il contributo più rilevante di Michelstaedter a un possibile scardinamento del dominio della decisione venga qui ravvisato nella generalmente piuttosto trascurata o misconosciuta componente antiumanistica del suo pensiero. Proprio Michelstaedter, cui una parte della critica ha insistito (non senza qualche ragione) ad attribuire slanci di un individualismo-titanismo dal sapore vagamente superomistico, in realtà vede nitidamente nell’uomo il massimo fomite e diffusore dell’in-giustizia, attestata dall’infelice assetto sia dei rapporti interumani, che si organizzano in quei due autentici bastioni dell’istituzionalizzazione della violenza e della reciproca sopraffazione che sono la società e lo Stato (non a caso venerato da Hegel, il grande “nemico” di Michelstaedter), sia dei rapporti dell’umanità con la natura, sottomessa e sfruttata. E poiché l’uomo è l’araldo, anzi in certo modo l’“inventore” del sapere e, appunto mettendosi in “posizione conoscitiva”, fonda e alimenta il suo potere, Michelstaedter correla una serrata critica non solo alla scienza, ma più in generale alle vane pretese di qualunque atteggiamento mirante alla conoscenza, con un pathos della controparte del conoscitivo, ossia dell’ontologico, degno di Parmenide; e tale pathos si avvicina molto ad assumere i caratteri di una Sehnsucht per i quadri dell’essere-per la distesa del mondo finalmente sgravatosi dell’affaccendarsi dell’uomo, principale leva di sommovimento e di deturpazione dell’ὅλον naturale. Il terzo dei saggi che compongono questo libro, La fluidità e il soggetto empirico, rappresenta essenzialmente un’incursione in quel notevolissimo romanzo-non romanzo novecentesco che è L’uomo senza qualità di Musil. Il grande scrittore mitteleuropeo, per un verso, offre un contributo alla definizione del “volto” utopico dell’in-decisione tratteggiando con impalpabili pennellate l’asintotica approssimazione del suo protagonista Ulrich al punto di fluidificazione-abbattimento delle barriere

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che lo separano dall’altro-da-lui, alla quale si accompagna anche una sorta di estasi del ridimensionamento dell’aggressività della sua prassi in omaggio agli ideali di abnegazione e di afinalistica spesa di sé. Ma, per altro verso, nell’Uomo senza qualità si trova traccia anche di un sopravvivente interesse e, quasi, di una stupefatta ammirazione per quelle residuali figure di singoli-di privati, quindi di de-cisi, che, nella fase storica in cui ormai dilaga l’allarmante fenomeno della fantasmizzazione dell’esperienza fatto oggetto di preziose analisi soprattutto da Benjamin, sanno ancora mantenere un vivente contatto con l’empirico e caparbiamente non smettono di progettare e di prendere iniziative. Il saggio finale, Giochi di oscillazione, ha le caratteristiche di un vero e proprio redde rationem. Vi campeggiano, anzi vi giganteggiano, nella loro sostanziale incompatibilità una grande figura di in-deciso – il Professore, memorabile protagonista, impersonato da Burt Lancaster, di quel capolavoro assoluto che è Gruppo di famiglia in un interno, il penultimo film di Luchino Visconti – e una non meno affascinante figura di eroe-martire della decisione, quando per decisione s’intenda la solitaria, segreta, dolorosa grandezza dell’effusione di una forza autocoscienziale ipercomplessa e incontenibile – il Michele di Gli indifferenti, la celebre opera con cui Alberto Moravia, inaugurandola, già tocca il vertice qualitativo della sua carriera di romanziere. Il “campo” di in-decisione in cui si inscrive e da cui si lascia proteggere il Professore è la tradizione, lo stile/la Haltung di un’educazione e di una tradizione la cui altezza e rigidità lo ascrivono inequivocabilmente, benché non sia un nobile per nascita, all’area dell’aristocratico; le sue parole e i suoi gesti, che sembrano letteralmente pre-scritti da una tradizione sovraindividuale inglobante e rassicurante, escludono l’azzardo soggettivistico dell’estro e dell’improvvisazione, ma certamente anche le impennate dell’originalità e dell’an-archica acutez-

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za, tant’è vero che egli paga la sua non indifferente quiete, che è poi in ultima analisi placata rassegnazione, con una sorta di amputazione della sua brillantezza e della sua “intelligenza”, che appaiono in certo modo limitate. Quanto al Michele moraviano, nell’interpretazione che qui se ne offre non è lo smidollato unico rampollo maschio di una famiglia dell’alta società connivente col fascismo che non mostra la minima capacità di arrestare l’umiliante decadenza sua e delle due donne di casa, bensì un grande intellettuale, il campione di un raffinatissimo mentalismo che, nella sua silenziosa interiorità, sanziona e “rimodella”-capovolge la miserevole realtà in cui si trova calato; ma, com’è ovvio, proprio questa faticosa “creatività” coscienziale lo de-cide sempre più nettamente dal mondo e dagli altri, lo chiude in una sempre più dolorosa isolatezza, e quindi, pur con tutta l’ammirazione che gli va tributata, si deve però riconoscere che la sua non può essere ritenuta la strada capace di attenuare il profondo disagio che il suo essere rovesciato in sé e su di sé arreca al soggetto. E tuttavia, nel percorso di questo libro, Michele non è affatto solo una instantia negativa, perché tre tratti salienti del suo carattere – la drammaticità, l’in-concludenza/l’in-conclusività e l’ironia – sono anche fra le principali note definitorie che caratterizzano la più raffinata ed evoluta “forma” del culturaledell’intellettuale – il saggismo filosofico – e ad essa dunque rinviano infallibilmente. Del resto, nella sua stretta finale, questo libro, che da vero saggio predilige occuparsi di pensatori dalla singolare qualità di scrittura come Adorno e Michelstaedter ed è animato da analisi filosoficamente orientate di opere non filosofiche come romanzi e film, non può non mettere capo a una sorta di elogio del saggismo come “spazio” in cui trovano ampia accoglienza le istanze dell’in-decisione. Da un lato, una “metà” della posizione del grande saggismo è costituita dall’infinito sconcerto, anzi da una vera e propria

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rabbia per la rovinosa caduta delle assunzioni gnoseologicoontologiche che la ratio occidentale vincente ha per secoli e secoli imposto e sbandierato come inattaccabili punti fermi, finché a partire almeno da Nietzsche il deflagrare della Krisis ne ha smascherato l’infondatezza; questa rabies è così intensamente sentita dal grande saggismo che, ad esprimerla, viene qui con-vocato addirittura il quasi fanatico tentativo di ripristino di quella ratio, l’autentico panegirico che ne compie sulla soglia del Novecento un autore quasi totalmente inconciliabile con lo spirito del saggismo come Weininger. Ma l’altra “metà”, quella davvero caratterizzante, della verità del saggismo è come crittografata proprio nella fenomenologia weiningeriana di quella comunità delle donne cui il “grande restauratore” viennese riserva solo sprezzante dissenso. Come ciascuna individualità femminile, nel ritratto che ne delinea Weininger, è “plastica” e permeabile dalle altre fino al limite dell’indistinzione da esse, così nelle pagine del grande saggismo, in particolare in quelle del saggismo filosofico di Adorno in cui è innestato il “motore” della dialettica diadico-negativa, nulla rimane de-ciso, sia perché le varie posizioni che vi vengono passate in rassegna ed “escusse” restano in certo senso livellate e a nessuna è concesso di “sporgere” come veritativa e de-finitiva, sia perché in quelle pagine, che abbandonano le sclerotiche compartimentazioni in capitoli e paragrafi contro cui già di fatto si volgeva la protosaggistica denuncia hegeliana della quasi risibile artificiosità delle definizioni, i momenti logico-reali ricevono una movimentazione così radicale, sono condotti a una contaminatio così intima che davvero giungono a compenetrarsi l’un l’altro, fino a restituire una delle migliori immagini occidentali di quel mistero del con-fondersi delle parti della realtà che la sapienza orientale insegna come verità nella dottrina del tat tvam asi.

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Dramma della decisione

Se Piero Martinetti inizia il suo trattato sulla libertà ammonendo che quello della libertà non è un problema psicologico1, queste considerazioni sul tema della decisione (libertà e decisione si evocano reciprocamente, al punto di essere in certo modo l’una la controfigura dell’altra) devono aprirsi con l’avvertenza – e tenerne puntualmente conto nel loro svolgimento – che quella della decisione non è soltanto né principalmente una questione psicologica. Certo, non va sottovalutato il rilievo che hanno, nella quotidianità di ognuno, la sensazione in parte stimolante e in parte esasperante di trovarsi pressoché di continuo di fronte a bivî della scelta, il “tremore” e talora l’angoscia con cui ci si approssima alla decisione e la si vive, l’aperta impressione che non ci sia assolutamente nulla e nessuno a fondarla e a garantirla, la preoccupazione per la permanente possibilità di decidere-di avere deciso male, lo smarrimento ingenerato dal fatto che, per la verità, nemmeno si sa quale dovrebbe essere il criterio alla luce del quale poter stabilire se si sia deciso bene o male. Né va sottovalutato quale sofferenza e quale grandezza secerna la sindrome psichiatricamente riconosciuta dell’indecisione, cor1. P. Martinetti, La libertà, Nino Aragno, Torino 2004, p. 7.

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redo peculiare del vissuto di quell’eroe e martire dell’irresolutezza che è l’ossessivo, figura che del resto le considerazioni seguenti non mancheranno di incrociare. Ma, intanto, su tutta questa ribollente materia psicologica aleggia l’ombra di un ridimensionamento, anzi quasi di una ridicolizzazione che minaccia di ribassarla a mera parvenza, a Schein tanto coinvolgente e dispendioso per l’uomo quanto ontologicamente in-sussistente. Infatti, chiunque abbia penetrazione e sincerità sufficienti per riconoscere che, almeno ex post, ogni decisione presa appare la sola che si sarebbe potuto prendere/quella che non si sarebbe potuto non prendere, sarà fortemente inclinato a convincersi che non si dà mai un autentico e libero processo di scelta, che tutto già da sempre sta come preesistente nel libro blindato di Ananke e che l’uomo è qualcosa di simile a un automa spirituale che soffre e smania nell’elaborare una decisione in verità già scritta, in quanto vive sotto l’egida della religione, così come la intendono in modo in ultima analisi concorde due autori per altri versi fra loro lontani come Giuseppe Rensi2 e Alberto Caracciolo3, ovvero nella condizione di eteronomia di chi sa-sente di essere “giocato” e trasceso da forze che decidono per lui/hanno deciso prima di lui e sono le sole di cui si possa dire che sono effettivamente agenti. A un certo punto della ormai abbastanza famosa lettera in cui Rachel Bespaloff espone le sue notevoli prime impressioni di lettura di Sein und Zeit, si incontra la frase, riferita al Dasein/ all’Esistenza/all’uomo: «la scelta è il suo destino»4. Frase profonda, in quanto significa, o almeno può significare, non solo e non tanto che l’uomo deve scegliere, e quindi il suo scegliere è 2. G. Rensi, Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte, a cura di M. Fortunato, Orthotes, Napoli 2011, pp. 74-76. 3. A. Caracciolo, Sul rapporto religione-morale, in Id., Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica, il melangolo, Genova 2010, pp. 40-42. 4. R. Bespaloff, Su Heidegger, a cura di L. Sanò, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 20.

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un fattore di affermatività e libertà soggettiva così poco come lo è il volere in Schopenhauer il quale sa benissimo che l’uomo non può non volere/è in qualche modo costretto a volere, quanto piuttosto che l’uomo sceglie ciò che (gli) è destinato/ ciò che (gli) detta Ananke e quindi crede/si illude di scegliere. Ma soprattutto, esiste una gerarchia d’importanza e di radicalità di ordine propriamente filosofico che impone di concentrare l’attenzione dell’analisi essenzialmente su due valenze della decisione: quella logica, che implicherà un serrato confronto con il dispositivo, al tempo stesso così glorioso e tanto osteggiato e compromesso, della dialettica, intesa come il luogo elettivo che produce la decisione mentre dovrebbe invece interdirla; e quella antropogenetica-esistenziale, per cui figura della decisione, in quanto letteralmente viene al mondo come di-stacco dal bianco nulla o quasi-nulla del regno delle mere possibilità e – più visibilmente e ovviamente – dal corpo della madre, è l’uomo stesso, ogni individuo umano.

L’in-decisione come vocazione (mancata) della dialettica Il luogo, grandioso e detestabile, in cui il pensiero occidentale sistematizza la decisione/prende le sue decisioni è la triade dialettica, la sequenza “ascensionale” di tesi, antitesi e sintesi/di prima, seconda e terza (pro)posizione; e in particolare è la terza (pro)posizione che contiene, sciorina e sancisce la decisione, che spariglia tagliando il nodo gordiano. Contro questa lettura del processo dialettico si erge immediatamente l’ovvia contestazione secondo cui la sintesi, come lascia intendere il prefisso “sin-” che è una traslitterazione del greco σύν/insieme, sarebbe lo stadio del raggiunto “affratellamento” di tesi e antitesi che si asterrebbe dal privilegiare l’una a scapito dell’altra e renderebbe pariteticamente giustizia ad

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entrambe sedandone salomonicamente il conflitto. Ma contro questa contestazione ha ragione la linea degli interpreti di Hegel secondo cui la terza (pro)posizione non è che la definitiva (ri)affermazione della prima che “ritorna” e sopraffà la seconda, come osservano con più o meno grande nettezza – ad esempio, e per fare solo alcuni nomi di appartenenti a quella linea ermeneutica – Rensi5, Martinetti6 e Safranski7. Ha ragione perché, se la sintesi fosse davvero lo stadio della placata conciliazione, abbraccerebbe in sé i due opposti e implicitamente tutti i momenti intermedi fra essi, ovvero sarebbe una figura della totalità e in quanto tale non sarebbe fuori né contro altro/non avrebbe altro fuori né contro di sé; e invece il fatto che da essa, in definitiva come da una nuova tesi suscettibile di nuova opposizione, riparta il processo dialettico attesta che essa è e resta una figura della in-completezza e della finitezza, una determinatio e quindi una negatio, una concessione allo sbilanciamento e alla “partigianeria”, la persistenza dell’unilateralità e dell’in-giustizia, insomma appunto il momento della de-cisione. Che la de-cisione racchiuda in sé/sia in-giustizia e violenza – come insinua con già sufficiente chiarezza la derivazione del termine dal latino caedere/tagliare, strappare – lo sa e lo dice con particolare sincerità e smagatezza Rensi, il pensatore che riconosce limpidamente come il dialogo, il confronto delle ragioni e degli argomenti fra le parti avverse si risolva e non possa che risolversi in uno stallo, in un niente di fatto perché in esso rifulge la verità che quelle ragioni e quegli argomenti si equivalgono, sono ugualmente degni; per sparigliare, per andare avanti, per consentire al carrozzone della storia di rimettersi in 5. G. Rensi, Le ragioni dell’irrazionalismo, Guida, Napoli 1933, pp. 26-27. 6. P. Martinetti, Il metodo dialettico, in «Rivista di filosofia», anno XXII, 1931, n. 4, ottobre-dicembre, pp. 283-284. 7. R. Safranski, Il male, ovvero il dramma della libertà, trad. it. di C. De Marchi, Longanesi, Milano 2006, p. 116.

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moto, per dar vita a un nuovo, ennesimo episodio della realtà, occorre una forzatura/un atto di forza/il ricorso alla forza8. Il verso che Rensi rinviene in Eschilo e addita alla nostra ammirazione9 – Ἔρις περαίνει μῦθον ὑστάτη θεῶν10/La lotta, ultima dea, pone fine alle parole – prova come la grande sapienza tragica dell’antica Grecia avesse già messo a fuoco la coazione a questa ferale sequenza per cui prima si parla, in modo sostanzialmente inoffensivo e comunque non dirimente e non risolutivo, e poi, per così dire, la parola passa alla non-parola e si accede alle vie di fatto. Né la sapienza dei grandi tragici deve riconoscersi invecchiata a fronte del moderno in quanto inapplicabile alle procedure, che si autolodano come immuni dallo stigma della violenza, con cui approdano alla decisione le democrazie liberali dall’Ottocento in poi: Rensi infatti vede lucidamente come il rito apparentemente placato del voto che ne costituisce l’orgoglio immetta qualcuno/una delle parti contendenti nella possibilità di decidere a suo piacimento solo perché ne ha rivelato la natura di maggioranza, ne ha svelato la consistenza di gruppo più folto, membruto e agguerrito, che quindi prevedibilmente soverchierebbe quello minoritario11 qualora si addivenisse a quell’aperto scontro fisico che del resto rappresenta lo sviluppo possibile permanentemente sotteso al “normale” gioco politico-sociale di quelle democrazie e cento volte almeno sfiorato. Naturalmente, all’idea che le considerazioni fin qui proposte adombrano secondo cui, finché sono in scena e si di-spiegano solo le prime due (pro)posizioni, regnerebbe il puro dire/il puro parlare e solo l’intervento della terza segnerebbe l’irrom8. G. Rensi, La filosofia dell’autorità, De Martinis & C., Catania 1993, pp. 149-152, 164-165. 9. Id., Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte, cit., pp. 69-70. 10. Eschilo, Sette contro Tebe, v. 1051, in Eschilo – Sofocle – Euripide, Tutte le tragedie, a cura di A. Tonelli, Bompiani, Milano 2011, p. 166. 11. G. Rensi, La filosofia dell’autorità, cit., pp. 109-116.

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pere della pesantezza dei fatti/dell’agire e il ferale debordare dalla in-nocente θεωρία nella prassi, si può contrapporre la giusta osservazione che, in Hegel, tesi e antitesi, soprattutto ma non solo nella Fenomenologia, sono tipicamente momenti storico-reali di una densità e di una ricchezza tali da annoverare in sé una molteplicità di pratiche che eccede lo standard del semplice dire; ma soprattutto, l’idea, a quella congiunta, che, finché appunto tiene il campo il puro dire/il dire puro, viga la pax della non violenza, parrebbe fragile e contestabile alla luce del fin troppo noto argomento paradossale-capovolgente secondo cui, a dispetto della più immediata apparenza, la parolail λόγος sarebbero pregni di un potenziale di “cattiveria” e saprebbero arrivare a colpire e ferire tanto più profondamente di un attentato fisico-materiale da dover essere incriminati come la vera origine del male. A quest’argomento non sarebbe sufficientemente efficace e incisivo opporre quello non meno ovvio che ricorda come, nell’attuale fase di relativizzazione-polverizzazione dell’etica che è poi al tempo stesso un processo di quasi incontrollabile moltiplicazione-proliferazione degli approcci e delle impostazioni etiche, resti però parametro indiscusso per tutti – forse l’unico, ultimo parametro inconcusso – che la manomissione fisica dell’altro, e in particolare la sua soppressione materialereale, abbia i caratteri di un atto di suprema gravità, di fronte al quale sostanzialmente tacciono, o almeno dovrebbero tacere, i ghirigori interpretativi difensivi cui invece viene concesso di adoperarsi a ridimensionare la colpevolezza praticamente di ogni altra infrazione-trasgressione minore. Piuttosto, appare più pertinente e proficuo replicare che lo squadernamento hegeliano ma ancor prima sofistico delle ragioni di tesi e antitesi/ di A e di B, soprattutto nella misura in cui in esso non si dia risalto a ciò che ciascuno dei due poli denuncia aggressivamente come negatività e male dell’altro ma piuttosto a quanto ciascuno di essi ascrive onestamente come positivo e buono a se

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stesso, si propone davvero come modello di un dire equanime e non scompensato cui sia stato tolto il pungiglione dell’attacco e della cattiveria12. Almeno tale deve apparire nello sguardo e per lo sguardo d’insieme che non si cala, im-medesimandovisi, nelle ragioni di uno solo dei poli ma abbraccia quelle di entrambi o, se si preferisce, si innalza alla disciplina di immedesimarsi contemporaneamente con A e con B, arrivando a “sentire” che hanno entrambi ragione. È quest’ardua e prestigiosa disciplina che Rensi addita come distintiva del vero pensatore quando lancia la provocazione secondo cui questi dovrebbe sapere quasi gustare, almeno in momenti diversi ma preferibilmente nello stesso momento, la validità delle ragioni di una posizione-tradizione e quella altrettanto persuasiva della posizione-tradizione antagonista, ad esempio del materialismo e dello spiritualismo13, così immunizzandosi dall’umana, troppo umana unilateralità ed esclusività di ogni filosofo sistematico che reprime la capacità, che pure possiede almeno allo stadio di latenza, di porgere ascolto alle buone motivazioni di linee di pensiero alternative a quella che ha scelto come la propria e nel cui sclerotico, inflessibile sviluppo fa consistere la sua spesso pluridecennale produzione14. 12. Proprio un eccesso di tensione e un difetto di “bontà” fanno sì che all’amico dell’in-decisione desti alcune perplessità anche la dialettica di Adorno, che pure ha il grande merito di essere diadica. Essa fa quasi un puntiglio dell’inesorabilità con cui scaglia tesi e antitesi l’una contro l’altra, assolutamente ir-riducibili l’una all’altra, spasmodicamente tese in una sorta di “teatro della crudeltà” a cospetto del quale è inteso che la dignità, anche e in primo luogo etica, del filosofo è assicurata solo dal militare senza ambagi a favore di una fra le due (in linea di massima, dell’antitesi). Non a caso, il modello di una dialettica placata e neutra-neutrale che si limiti a dire “da un lato..., dall’altro...” viene sostanzialmente respinto come blando e imbelle in Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1979, p. 303 (af. 152, A scanso di abusi). 13. G. Rensi, Sic et non, Libreria Editrice Romana, Roma 1910, pp. 9-13; Id., Lineamenti di filosofia scettica, Zanichelli, Bologna 1921, p. 341. 14. Id., La filosofia dell’assurdo, Adelphi, Milano 1991, pp. 23-28.

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Quindi il pensiero dialettico – qualora, diversamente da ciò che fece Hegel, se ne arresti lo svolgimento all’altezza dell’esibizione delle ragioni della prima e della seconda (pro)posizione –, proprio quella dialettica che una vulgata molto pervasiva e certo non priva di legittimità presenta come la principale scaturigine e il protervo contrafforte della vocazione alla violenza della Kultur occidentale che alla lunga ha prodotto Auschwitz, si staglia come educazione all’in-decisione, alla duplicità-equanimità e all’ambivalenza, che è eo ipso educazione alla tolleranza e alla non-prepotenza. Non a caso la dialettica, fra tutti gli apparati di pensiero, si distingue per essere quello che, oltre e dopo A, dice-pone anche B, che cioè ha l’onestà e la disciplina di andare strutturalmente e programmaticamente a cercarsi la complicazione, di non nascondere mai che ad ogni (pro)posizione mette giustificatamente il bastone fra le ruote una (pro)posizione rivale; e, nella misura in cui nel non omettere mai di porre anche B va ravvisata la consapevolezza che limitarsi a porre A sarebbe al tempo stesso un gioco truccato e qualcosa di quasi caricaturalmente prefilosofico, ecco che esistono le condizioni affinché chi è autore del gesto dialettico pervenga alla quasi sublime culminatio della disciplina che quello stesso gesto incarna, ovvero giunga ad apprezzare, a sentire come risorsa anche propria e, quasi, ad amare quel disturbo, quel bastone fra le ruote di cui è eterna figura il sopravvenire di B. Il pensiero che resta al di qua e al di sotto del regime dell’ambivalenza, dell’oscillazione e dell’in-decisione fra A e B, quindi a ben vedere ogni pensiero che non si strutturi dialetticamente, resta in definitiva al di qua e al di sotto del livello del filosofico e relegato nell’area del giornalismo, a patto che per giornalismo non si intenda tanto la vocazione-missione di dare notizie nella loro nuda e protocollare secchezza e inequivocità (anche Rensi ammette che ferve e non può che fervere una discussione interminabile e in-decidibile su tutto tranne che sugli elementari dati empirico-percettivi, per cui, ad esempio, che in un cer-

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to punto di una certa stanza si trovi un tavolo sarà e dovrà essere riconosciuto da qualunque uomo di qualunque razza e religione che sia in qualunque momento condotto a toccarlo15; e quindi nulla potrà essere rimproverato al giornalista che, ad esempio, rende noto che, fra cinque concorrenti alla stessa carica politica, è il tale candidato ad avere vinto le elezioni), quanto piuttosto la tendenziosità che già nella brevità di un titolo “condisce” la mera notizia lasciandone trapelare faziosamente il privilegiamento di una sola linea interpretativa-valutativa, nonché l’abitudine stessa a fare della sinteticità quasi una religione che trova appunto nella tronca, breve o brevissima enunciazione dei titoli il suo rito cruciale. Alternativa al culto giornalistico della sinteticità-semplicità è proprio e di nuovo la frase dialettica che, anche quando consta di poche o pochissime parole, è nella sua vera essenza lunghissima, tendenzialmente interminabile e virtualmente infinita, perché chi parla e scrive secondo la ritmica dialettica si mantiene costantemente all’altezza di quel gesto di “raccolta” della totalità e di registrazione della piena, indiminuita complessità che è appunto lo squadernamento congiunto dei poli opposti e implicitamente anche di tutti i gradi e le sfumature che si interpongono fra essi. Il fatto che, in riferimento alla dialettica, si siano dovuti usare termini come “disciplina” ed espressioni come “educazione all’in-decisione, all’ambivalenza e alla non-prepotenza” lascia ampiamente intendere che la dialettica non è un dato principiale e quasi un possesso innato, ma una conquista e il punto d’approdo di un processo di maturazione. Pensare e scrivere dialetticamente, infatti, è in qualche modo innaturale in quanto richiede un sacrificio sia sul piano della dinamica logico-ragionativa sia su quello etico-caratteriale. Sul piano della dinamica ragionativa, perché pensare e scrivere 15. Id., La mia filosofia (Lo scetticismo), in Id., Autobiografia intellettuale – La mia filosofia (Lo scetticismo) – Testamento filosofico, dall’Oglio, Milano 1989, pp. 62-65.

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dialetticamente significa in ultima analisi emulare lo stream of consciousness del misterioso, forse umano forse non umano, protagonista del racconto kafkiano La tana, il quale, valutando la sicurezza del rifugio che si è costruito, procede con estrema, infinita circospezione, accumula formule avversative come i “d’altronde”, i “certo però” e i “ma è anche vero che”, insomma ha un passo di piombo che è pura volgarità scambiare per blocco patologico, perché è in realtà la lucidità e l’onestà di vedere-anticipare-volere costantemente il rigiro, il doppio fondo, l’altro lato, insomma la co(i)mplicazione16. E non si può mancare di riconoscere che nella pagina di Hegel, ovvero proprio di colui che ha alterato-tradito l’autentico progetto dialettico attraccando alla terza (pro)posizione e così piegandolo all’esigenza di decidere, spira tuttavia intensamente l’atmosfera, propria della Tana, di cunctatio e di divieto di ogni facile, rasserenante fluidità, ingenerata dalle linee attorte del suo incedere argomentativo, che spesso ha i tratti di un avanzare solo apparente o di un palese non avanzare, di un esasperante piétiner sur place di cui del resto si fanno garanti l’ordito di una scrittura in cui tutto ciò che è posto lo è per essere tolto immediatamente dopo e l’idea-criterio, che regge perlomeno la Fenomenologia, secondo cui nella fine si ritrova l’inizio. Sul piano etico-caratteriale, lo si è già detto, la disciplina dialettica richiede nientemeno che il sacrificio dell’accantonamento o almeno del secco ridimensionamento della prepotenza originaria, della propensione-protensione-pretesa al ben-essere, al non-disturbo, all’affermazione e alla vittoria incondizionata con cui l’essere, certo non escluso quello umano, viene al mondo. Non è un caso che il bambino, la figura umana dell’origine 16. Per una pregevole interpretazione della Tana come spazio in cui si dispiega l’ansiosa insecuritas che incute la, anche solo virtuale-presunta, pressione accerchiante esercitata-minacciata dall’altro, si veda F. Fergnani, Mondo, esistenza, trascendenza nella filosofia di Karl Jaspers, Unicopli, Milano 1980, pp. 46-49.

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o almeno più vicina all’origine che nasce e cerca di mantenersi come sodo concentrato di narcisismo e di prepotente autocentricità, sia intrinsecamente adialettico se non addirittura apertamente antidialettico, in quanto non ama e quasi non concepisce il chiaroscuro, ama e vuole indicazioni e ragionamenti inequivoci che gli diano il conforto di disegnargli un mondo in cui è netto e chiaro che qualcosa e qualcuno sta prima e avanti e qualcos’altro e qualcun altro dopo e dietro/in cui è netto e chiaro che ciascuno sta prima e davanti oppure (tertium non datur) dopo e dietro. E non è un caso che lo psicologo Mario Mikulincer abbia dichiarato che il pieno e consapevole apprezzamento dell’ambivalenza, ad esempio della possibilitàcapacità di amare e odiare allo stesso tempo, viene raggiunto dopo l’infanzia, nell’adolescenza17. Ma il sacrificio ha una contropartita molto alta, perché la capacità dell’in-decisione e dell’ambivalenza è nientemeno che un onore dell’uomo, più esattamente il massimo onore della mente dell’uomo, autentico custode della contraddizione; e al termine “capacità” va attribuito anche proprio il significato di “capienza”, al punto che la forza della mente di con-tenere e fare co-esistere in sé A e B, rendendo pariteticamente giustizia a entrambi gli opposti, si configura come una delle più rilevanti conferme del celebre detto di Eraclito secondo cui l’anima umana ha una latitudine tale che la si può percorrere in lungo e in largo senza arrivare a trovarne i confini18. In gioco c’è proprio l’orgoglio di una superiorità dell’immateriale sul materiale, del mentale/dello psichico sull’extramentale, dell’interno sull’esterno: mostra di intuirlo bene Wallenstein, quella proverbiale figura del temporeggiare, dell’esitazione e dell’ambiguità, lo specialista di infinite e complesse trame di17. Cfr. V. Mazza, Ambivalenti. Perché l’indecisione è diventata una virtù, «Corriere della Sera», 30 gennaio 2011, p. 33. 18. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 1993, tomo primo, p. 206 (Eraclito, frammento 45 Diels-Kranz).

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plomatiche il cui atteggiamento nei confronti dell’imperatore resta a lungo indefinibile e oscillante fra tradimento e fedeltà, il quale, quando nella trilogia drammatica dedicatagli da Schiller gli eventi precipitano e si canalizzano verso la soluzione che ne farà prevalere l’immagine di traditore come verso un fatale imbuto che gli costerà la vita, lamenta espressamente e amaramente i limiti inerenti alla tra-duzione nella realtà, la pochezza del reale/dell’esterno dove ogni corpo deve rimanere fuori da ogni altro, dove la presenza in un punto di un corpo esclude da quello stesso punto tutti gli altri, mentre la mente può ospitare simultaneamente i contraddittorî19. Che, lì dove vigono in-decisione e ambivalenza, ci sia margine per il profilarsi di un’aristocrazia dell’ir-reale, lo prova del resto anche la circostanza che lo psicoanalista Pontalis, in chiusura del suo singolare testo – Limbo – in cui svolge alcune variazioni su quella nozione teologicamente classica della sospensione e dell’in-decisione che designa un luogo ancor più illocalizzabile di inferno, purgatorio e paradiso, si trovi a dover evocare il regno dello sparente e dell’immateriale cui pure personalmente non riserva particolari simpatie20. Ma l’immateriale in ultimo è proprio il nulla, con quanto di anche sinistro si accompagna alla figura del nulla. Lo suggerisce Hermann Hesse in un brillantissimo saggio sull’Idiota di Dostoevskij21, in cui coglie come il principe Myškin – l’uomo che ama, che è in grado di amare contemporaneamente e veramente due donne, Nastas’ja Filippovna e Aglaja – sia la figura della duplicità, dell’equivocità e quindi della totalità, sia insieme l’uno e il due, assembliassommi in sé il diritto e il rovescio, un lato e il suo opposto; 19. Cfr. J. Vogl, Sull’esitare, trad. it. di F. Ilardi, O barra O edizioni, Milano 2010, p. 61. 20. J.-B. Pontalis, Limbo. Un piccolo inferno più dolce, trad. it. di M. Miniati, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 139-140. 21. H. Hesse, Pensieri sull’«Idiota» di Dostoevskij, trad. it. di I. A. Chiusano, in Id., Saggi – Poesie scelte, trad. it. di I. A. Chiusano, B. Arzeni, G. Pintor, D. Valeri, L. Vischi, Mondadori, Milano 1965, pp. 287-298.

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ebbene, Hesse vede lucidamente e ammette apertamente che, siccome per l’uomo e nel mondo può esserci civiltà-costruzione-consistenza-realtà solo laddove un unico polo sporga e si faccia distinguere-vedere nella sua parzialità, il conturbante portato del principe – angelo sterminatore – è in definitiva la tabula rasa, lo smantellamento, la distruzione. Che prestigio e sacrificio, grandezza e terribilità, onore e vero e proprio dolore vadano, indisgiungibili, di pari passo, lo attesta ottimamente il fatto che, fuori dal contesto più propriamente filosofico, la mente più vicina a quella esemplata dalla buona dialettica che non procede fino alla terza (pro)posizione sia la mente ossessiva/la mente dell’ossessivo, ossia dell’uomo contrassegnato da un’esperienza che dà ed è anche, e forse soprattutto, dolore. All’ossessivo spetta questa palma, intanto, perché il suo caratteristico stream of consciousness intarsiato e pluristratificato, in cui uno o più refrains “patologici” si intrecciano alla linea “sana” del pensiero e dell’attenzione cui si restringe lo stream del non ossessivo, lo propone come una mente “allargata” che concede spazio e udienza (che deve concedere spazio e udienza) a molteplici voci, come una figura del quasi-invasamento nella cui mente si parla più riccamente e più complessamente che in quella “normale”. Ma soprattutto, e ancor più ovviamente, l’ossessivo si propone come valido analogon del dialettico in quanto è per definizione l’indeciso, colui che tante volte nella sua vita rimugina e soppesa indefinitamente le ragioni favorevoli e quelle sfavorevoli all’assunzione di un certo comportamento, le ragioni favorevoli a una certa opzione e quelle favorevoli all’opzione contraria, per approdare poi il più delle volte a non abbracciare né l’una né l’altra, a un niente di fatto che sembra sottintendere l’avvenuta visione e il riconoscimento della loro isostenia ed equidignità. Una ricostruzione realistica di un accesso di in-decisione che è vertigine dell’ossessione ce la offre quel grande “malato” della

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letteratura che fu Ottieri Ottieri lì22 dove dà conto del tormento causato da un ballottaggio mentale (ad esempio, quello da lui ben conosciuto fra due o più possibili inizi di un possibile libro), un tormento non solo metaforicamente schiacciante in quanto vissuto nella posizione orizzontale e in-attiva di sdraiato; l’aspetto più istruttivo di questa ricostruzione è la lucidità da perfetto analista di se stesso con cui Ottieri annota-ricorda come lo stallo o l’Einstand – per adoperare un vocabolo mutuato dalla nomenclatura del punteggio tennistico che compare in un punto di Teoria estetica di Adorno23 – sia destinato a venire spezzato dal corpo, dallo slancio del corpo, che, esasperato, a un certo punto non ne può letteralmente più di quello stillicidio dell’incertezza sublime e penoso e, drizzandosi e muovendosi, riafferma i diritti del divenire e dell’azione. In effetti, il diretto, prosaico contraltare di quella che si è chiamata l’aristocrazia tutta mentale dell’in-decisione è il guizzo, la spinta squisitamente corporea alla semplificazione, alla ri-soluzione dei nodi che verità e giustizia imporrebbero di rispettare nella loro inestricabilità; e, volendo tradurre questa contesa nel lessico di Schopenhauer che indica nel corpo e nella sua armatura muscolare il fenomeno-l’oggettivazione della volontà in noi, diremo che essa è il dissidio fra intelletto e volontà. Quando Savater, nelle sue considerazioni sul tema della scelta, osserva che spesso, per non dire sempre, le remore suggerite da un più o meno grande difetto di informazione e di conoscenze dei dati della situazione da affrontare vengono superate dall’impellente necessità di decidere/di agire24, in fondo allude proprio alla fregola di corpo e volontà che, motori infaticabili, di continuo si occupano di assolvere alla loro funzione anti-provvidenziale di far sì che qualcosa comunque avvenga, autentici contraltari 22. O. Ottieri, L’irrealtà quotidiana, Guanda, Parma 2004, pp. 9-20. 23. Th.W. Adorno, Teoria estetica, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, trad. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1977, p. 53, nota 1. 24. F. Savater, Il coraggio di scegliere. Riflessioni sulla libertà, trad. it. di F. Saltarelli, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 16-21, 23.

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quali sono della funzione dell’Ungeschehenmachen che Freud riconobbe genialmente come la “missione” dell’ossessivo25. E nel nostro mondo, il mondo in cui c’è sempre uno svolgimento e un dopo, la forza e il primato di corpo e volontà sono così pervasivi che essi in definitiva sono all’opera anche ogni volta che parliamo, ossia quando compiamo quell’azione-non azione che alla luce delle considerazioni fin qui svolte dovrebbe essere rubricata all’attivo del mentale: infatti, è quella fregola incapace di resistere al perdurare dello stallo, e quindi di giustizia e verità, che ci incalza a infrangere il silenzio ogni volta che non abbiamo il ritegno dimostrato da un personaggio di Gita al faro, Lily Briscoe, quando rinuncia a parlare a un amico poeta in quanto sa che potrebbe dire solo qualcosa e sente che, invece, vorrebbe e avrebbe senso aprire bocca semmai solo per dire tutto26. Improba impresa, questa, alla cui altezza ci potremmo seriamente avvicinare solo se parlassimo dialetticamente, se parlassimo come scrivono Hegel e Adorno e così lasciassimo intendere che potremmo-dovremmo dire anche l’esatto opposto di ciò che effettivamente diciamo, anzi implicitamente lo dicessimo; impresa da cui ci manteniamo lontanissimi tutte le volte che, come facciamo praticamente sempre, emettiamo frasi non dialetticamente strutturate, e quindi diciamo un brandello, estrapoliamo una sola delle molteplici sfaccettature, insomma cadiamo nel giornalismo. Dunque si decide; ma non si dovrebbe decidere. Benché per la tradizione filosofica circoli la κοινή secondo cui buona è la mente che “passa” alla volontà elementi e motivi che la indirizzano chiaramente verso una certa scelta, è vero il contrario; infatti, buona, nel senso di funzionante nella pienezza del suo dispiegamento e della sua sottigliezza, sarebbe invece la mente 25. S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, trad. it. di M. Rossi, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 48-49. 26. V. Woolf, Gita al faro, a cura di A. L. Zazo, Mondadori, Milano 1994, p. 181.

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che si facesse latrice alla volontà di un dossier di indicazioni e di ragionamenti tali da “paralizzarla”, ovvero da comunicarle chiaramente il verdetto che la via vera e giusta è quella della non-scelta. Nell’enorme libro della tradizione filosofica occidentale, non si possono forse trovare riconoscimenti della giustezza-giustizia del non scegliere più significativi e probanti di quelli che quasi sfuggono ad un autore come Kierkegaard, che è fra i massimi partigiani e imbonitori della doverosità della scelta perché, oltre ad essere – al pari di tanti altri – omogeneo alla cultura cristiana che non saprebbe mai rinunciare al brivido dell’accadere e della novità perché dalla storia si aspetta tutto e crede di avere già avuto nientemeno che l’avvento dell’Assoluto in terra, concentra per di più un’enfasi particolare tutta sua sul motivo della cruciale importanza dello scegliere di scegliere e sull’idea, da quel motivo indisgiungibile, che i due corni del dilemma della scelta sarebbero separati nientemeno che dal divario che intercorre fra la salvezza e la perdizione eterne. Ebbene, questo integralista della scelta concede non poco, in almeno due passi della sua opera, all’in-decisione. Lo fa, in modo più esplicito, quando riconosce che il puro dispiegamento del pensiero, l’incondizionato funzionamento della mente non può che mettere capo allo scetticismo27. Ma lo fa, in modo più velato ma non per questo meno rilevante, anche quando osserva che, nei casi in cui siamo stretti nella morsa dell’indecisione fra due o più opzioni, l’unico modo per venire a capo dell’oscillazione consiste nel chiedere consiglio a un altro che con relativa facilità spariglierà-detterà la soluzione28. Questa seconda concessione kierkegaardiana all’in-decisione appare 27. S. Kierkegaard, Enten-Eller (Aut-Aut), a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1976-1989, tomo V, p. 90 (L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità). 28. Id., Diario, a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1948-1951, vol. II, pp. 119-120 (X1 A 66).

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più velata e discutibile perché non si può negare che tale passo del Diario potrebbe essere interpretato anche così: qualche detrito passionale, qualche indebito interesse obnubila il nostro giudizio quando siamo direttamente coinvolti in una questione, la nostra quindi non è la mente vera nella pienezza indiminuita e ininterferita delle sue facoltà ragionative e proprio perché non lo è non arriva a scegliere, mentre vi perviene l’altro cui ci appelliamo perché è spassionato e dis-interessato e quindi detentore della mente vera, il cui destino e compito risulta quindi essere proprio quello di decidere. Ma almeno altrettanto legittima appare la seguente interpretazione, in definitiva opposta: l’altro interpellato può suggerire la decisione perché proprio la sua estraneità personale alla questione comporta che ne sappia meno e la sua sostanziale indifferenza ad essa che ne penetri con minore attenzione le implicazioni (anche Heidegger sa bene che si può addivenire a una decisione solo a patto che resti occultato-trascurato qualcosa29, una parte più o meno ingente dei “dati del problema”), mentre noi, proprio in quanto vi siamo direttamente e pienamente coinvolti, al suo confronto siamo la mente vera che ne conosce tutte le sfaccettature, ne vede esaustivamente e quindi non può che vagliarne con acribia tutte le sfumature e, appunto perché è la mente nel pieno possesso della sua sottigliezza esaminatrice, non decide/ non può e non deve decidere, così come non decide e non deve decidere ogni mente vera/la mente vera.

Umiliazioni. La nascita e le sue conseguenze Dunque non si dovrebbe decidere; ma si decide. E si decide a getto continuo anche e soprattutto extralogicamente, dal mo29. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 40.

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mento che la dialettica triadica non è che il modello logicoargomentativo di ogni decisione reale, e specialmente di quella – la nascita, il ricevere la vita da qualcuno che la dà – che è di gran lunga la più saliente per l’individuo, in quanto lo origina. Nascendo, staccandosi-venendo strappato dall’inclusione nel corpo della madre, l’individuo certamente non prende una decisione, ma si de-cide, nel senso che viene de-ciso, anzi èdiviene il de-ciso, e in quanto tale il chiamato (alla vita). Già il distacco che è l’atto della nascita è trauma, in quanto è abbandono di quella vita prenatale intrauterina di cui Grunberger ha ottimamente descritto l’equilibrio quasi miracolosamente esente da scompensi e da attriti, l’appagante “rotondità”, la placida autarchia30; in quella condizione di quasi perfetta fusione col-nel corpo materno, il non ancora de-ciso poteva sentirsi come il solo/l’unico, o più esattamente viveva assaporando uno stadio posto magicamente al di qua della penosa esperienzaconoscenza dell’alternativa, che è contrasto, fra un(ic)ità e molteplicità. Ma poi e soprattutto, avvenuto il distacco, il de-ciso è chiamato-scagliato a confrontarsi con una cospicua serie di fattori di alta problematicità, a subire un vessatorio lotto di vere e proprie umiliazioni. Certo, fin dalle prime battute dell’avventura in cui è calato, il quadro-la situazione dov’è inserito appare contraddistinto da profonda ambiguità: non è sola negatività e afflizione, ma una miscela di ingredienti e di toni sorprendentemente eterogenei e cangianti. Con pochi tocchi magistrali, Terrence Malick rende quest’ambiguità nelle sequenze di The tree of life in cui ci mostra uno dei suoi protagonisti, ancora molto piccolo, scorrazzare per casa effettuandone un’altamente istruttiva esplorazione. Se l’alto specchio rettangolare, che la mamma “anima” celando dietro di esso il suo corpo e facendone sporgere solo 30. B. Grunberger, Il narcisismo. Saggio di psicoanalisi, a cura di F. Petrella, trad. it. di F. Barale e S. Ucelli di Nemi, Einaudi, Torino 1998, pp. 7-36.

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le braccia agitate come avvolgenti tentacoli e serpenti ammaliatori, può ancora apparirgli come un compagno di giochi in ultima analisi divertente e benigno anche se non privo di una nota di Unheimliche, più severo è l’incontro con la prima delle due rampe di scale che portano al piano superiore. Quando l’infante, dopo avere cominciato a salirla gattonando, a un certo punto si blocca quasi ne misurasse finalmente in modo realistico e ne accusasse l’altezza e la ripidezza, attraverso la non-proseguibilità della sua ascesa gli si preannuncia, seppure oscuramente, il cumulo di im-possibilità che, come ogni altro individuo, dovrà sperimentare, e da cui l’idea dell’uomo di essere libero resta ribassata a patetica pretesa, a quasi farneticante illusione. E l’oscurità che riempie una stanza bassa, profonda e misteriosa di cui non osa superare la soglia, lo inquieta come pegno del drammatico e del terribile che il destino infallibilmente gli somministrerà. È così fin d’ora chiaro che, se la vita, come quella scala e quella stanza, diffonde un incanto, esso è tale nel senso del greco ϑαῦμα, che è sconcerto, shock, spavento più che inebriante piacere. Certo, non si può non addebitare qualche ingenuità all’idea di Leopardi che la natura faccia all’individuo grandi e belle promesse, che faccia di tutto per con-vocarlo e, alla stregua di un menzognero pifferaio magico, per mantenerlo, sull’onda delle sue tanto melodiose quanto fallaci anticipazioni, in vita/nella sua casa, che gli si rivela proditoriamente inospitale in quanto infestata da ogni genere di molestia e di afflizione31. Viene spontaneo, ed è in certa misura anche giusto, ironizzare chiedendo: a chi e quando la natura ha mai promesso alcunché? dove sta scritto/da chi e quando mai ci è stato detto che siamo destinati alla felicità? Eppure la protesta di Leopardi non è così facilmente e sbrigativamente liquidabile; anche Simone Weil in una pagina toccante dice che l’uomo innalza sbigottito il la31. G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in Id., Operette morali, Garzanti, Milano 1986, pp. 128-129.

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mento per il male ricevuto perché in lui esiste, incoercibile, una originaria, quasi innata disposizione ad attendersi dall’incontro col mondo combinazioni positive, ad aspettarsi e a reclamare dalla vita il bene per sé32. Questa disposizione, che a dire il vero si confonde in misura non irrilevante con la prepotenza della nativa pretesa all’incondizionata vittoria di cui abbiamo già indicato nella disciplina dialettica un efficace contravveleno, è comunque destinata a venire frustrata-martellata, se non ad ogni attimo, perlomeno ogni giorno dall’esperienza dell’individuo. La prima, logico-cronologicamente, delle fatali incrinature, delle umiliazioni che disperdono e quasi ridicolizzano il suo sogno consiste nel suo non essere (al)l’origine di se stesso: come scrive con felice forzatura della lingua Pietro Piovani, io sono non-volutomi33. Il de-ciso non si è chiamato, né d’altronde ciò sarebbe mai stato logico-biologicamente possibile; è stato chiamato, in linea più diretta e prossima da quegli azzardantiazzardati che sono i genitori, ma in ultimo e in verità – non essendo mai ravvisabile-isolabile un solo responsabile perché, secondo la lezione di Spinoza, tutto è relato con tutto ed è sempre (il) tutto a concorrere a originare-determinare ogni cosa e ogni evento – dalla micidiale pressione con-vocante del mondo intero, dunque in definitiva da tutti gli altri/dall’Altro. Nel suo saggio L’eros della distruzione Silvano Petrosino chiarisce bene come l’individuo stia nei confronti dell’altro doppiamente nella dipendenza e nel debito (può dirsi ormai assodato che “de32. S. Weil, La persona e il sacro (La personnalité humaine, le juste et l’injuste), trad. it. di N. Maroger, in Adorno – Arendt – Barth – Bataille – Blanchot – Broch – Canetti – Patočka – Weil, Oltre il politico. Antologia del pensiero “impolitico”, a cura di R. Esposito, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 6667. 33. P. Piovani, Princìpi di una filosofia della morale, introduzione di G. Cantillo, in Id., Per una filosofia della morale, a cura di F. Tessitore, Bompiani, Milano 2010, p. 687. Il primo capitolo dei Princìpi si intitola Il volente non volutosi.

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bito” e non “colpa” sia la più calzante traduzione del termine “Schuld” impiegato da Heidegger in Sein und Zeit) e quindi nel rancoroso dissidio e nella forte tentazione della rivalsa violenta e distruttiva: vi sta, in primo luogo, perché, secondo la lezione dello Heidegger del grande testo del ’27, non presidia-non è egli stesso il fondamento di se stesso, e poi perché, secondo le analisi di Lacan, definisce la propria identità/letteralmente conosce e “costruisce” se stesso sulla scorta del riconoscimento che riceve dall’altro e della guida offerta da quell’altro-da-lui che è la sua stessa immagine allo specchio34. Non a caso, con distinzione esatta e preziosa, Jean-Luc Nancy ha scritto che il rapporto dell’individuo con l’altro, se non è necessariamente e in senso stretto violento, contiene comunque strutturalmente un coefficiente di violenza, in quanto è segnato dallo strappo, dal lacerante “graffio” arrecato dal fatto che l’individuo letteralmente non (c’)è prima e fuori dal rapporto/è (nel) rapporto, che l’altro lo co-costituisce, che è mediato con sé dall’immanenza-dall’incombere dell’altro35: l’individuo è assolutamente non autosussistente, è sé e l’altro/gli altri, dunque propriamente non è (quello che è). Ma gli altri sprigionano una scardinante forza di ridimensionamento e, quasi, di parodia dell’individuo già solo in quanto esistono, esistono infinitamente numerosi e però al tempo stesso tali da essere tutti essenzialmente lo stesso che è lui. Ben si comprende che, da Pascal36 a Nietzsche37, circoli il motivo del34. S. Petrosino, L’eros della distruzione, in S. Petrosino – S. Ubbiali, L’eros della distruzione. Seminario sul male, il melangolo, Genova 2010, pp. 9-64, in particolare 27-33 e 39-43. 35. J.-L. Nancy, Violenza e violenza, in Id., Tre frammenti su nichilismo e politica, trad. it. di D. Tarizzo, in R. Esposito – C. Galli – V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 12-18. 36. B. Pascal, Pensieri, trad. it. di B. Nacci, Garzanti, Milano 1994, p. 81 (pensiero 187). 37. F. Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di F. Masini, trad. it. di V. Perretta, Newton Compton, Roma 1979, pp. 162-163 (Saggio terzo, Che

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la constatazione dell’avvilimento atterrito che riversa sull’uomo la consapevolezza, maturata pienamente nella modernità, dell’immensità degli spazi cosmici e dell’abbondanza illimitata, frastornante dei corpi celesti; molto meno si comprende che non sia divenuto altrettanto canonico in filosofia e in letteratura il lamento circa l’avvilimento, a ben vedere ancor più accasciante, che non può non derivare a ciascuno dalla visione e dalla conoscenza del numero davvero astronomico dei suoi fratelli umani. Tanto più che il suo rapporto con questi fratelli è tale che essenzialmente egli ne è la replica nel momento stesso in cui essi a loro volta sono la sua copia. Infatti è sì vero che sussiste il “miracolo” per cui non è possibile reperire due soli individui perfettamente uguali fisicamente, caratterialmente, moralmente e spiritualmente, così come non si troverebbero due uomini dalle impronte digitali esattamente identiche. Ma, intanto, se ciascuno è unico, lo è come tutti gli altri (verità, questa, la cui intuizione balena a Sylvia Plath in una densa pagina del suo diario)38. E poi, se potrà parere che quest’argomento abbia la fragilità del sofisma, maggiore efficacia avrà, al fine di ridimensionare il mito dell’eccezionalità-unicità di ognuno, il rilevare che, per quanto grande possa essere il divario di qualità e di capacità intercorrente fra un individuo e un altro/e gli altri, nessuno si stacca toto genere dal gruppone, come prova il fatto che anche il più eccelso genio suscita negli altri ammirazione e dunque non è loro radicalmente in-comprensibile e alieno. Ma, soprattutto, le tappe, i camminamenti, i gesti e le abitudini attraverso cui si snodano i cursus esistenziali degli uomini sono sostanzialmente i medesimi, conformi a uno schema così fisso da arrivare a ingenerare repulsione e nausea; e questo perché tutti gli individui sono indifferentemente fasci di richiesta delle significato hanno gli ideali ascetici?, § 25). 38. S. Plath, Dai «Diari», trad. it. di S. Fefé riveduta da A. Ravano e A. Demurtas, in Id., Opere, a cura di A. Ravano, Mondadori, Milano 2002, pp. 1299-1300.

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stesse soddisfazioni, dello stesso riconoscimento, dello stesso amore e della stessa potenza. Non c’è dubbio che fra i motivi fondamentali che hanno sempre più drasticamente allontanato molta arte, e in particolare la più raffinata e avvertita arte contemporanea – da Kandinskij a Beckett –, dal rispetto per i venerandi canoni del realismo inducendola a una crescente fedeltà alla consegna di non fare accadere niente/nessun “fatto” umano, ci siano quella repulsione e quella nausea, una noia mortale, tanto forte da attizzare la ribellione alla condanna a rappresentare per la decimillesima volta la solita nascita, la solita ricerca e la solita gestione di un’occupazione, i soliti affari di cuore e di sesso, il solito matrimonio e la solita paternità o maternità, i soliti traffici di potere e di soldi, la solita decadenza, il solito invecchiamento e la solita morte: insomma la solita storia-la solita “logica” della vita. In ultima analisi, la verità – raggelante – sull’individuo è quella che gli gettano in faccia le opere di pop art di Andy Warhol che constano di numerose e invariate ripetizioni della riproduzione di uno stesso volto, ad esempio di quello di un cosiddetto vip come Marilyn Monroe. È mera lacca superficiale che qui vi sia molteplicità e un conato di distinzione in quanto molteplici sono i volti, perché ciò che veramente conta è che siano tutti uguali e che così venga suggerito l’incubo di un mondo in cui tutti sono (come) Marilyn e Marilyn è (come) tutti gli altri; nulla meglio di un simile incubo iterativo, in cui non esiste originale ma solo copie perché ogni volto è clone di ogni altro, può spiattellare e rendere quasi palpabile il desolante segreto che ogni individuo, non escluso e anzi per primo quello che il raggiungimento della celebrità dovrebbe mettere in salvo dalla dozzinalità, è segnato dal marchio della più rigorosa non-rarità e serialità. Se lo sterminio “industriale” pianificato e attuato dai nazisti ha una logica, è appunto quella di un’impennata, certo eticamente nefanda e radicalmente esecrabile, d’insofferenza per l’esisten-

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za, non, come solitamente si dice, di numerosi “diversi”, bensì piuttosto degli innumerevoli uguali, ossia di tutti gli altri esemplari umani, in quanto tali in ultima analisi intercambiabili con gli sterminatori: non a caso, gli studi più sottili sul nazismo propendono a ritenere che non si sarebbe arrestato all’eliminazione di ebrei, zingari, omosessuali e mentalmente ipodotati, ma sarebbe andato oltre mirando in definitiva nientemeno che alla soppressione di chiunque non fosse il soggetto collettivo incarnato dai soli tedeschi ariani, se non addirittura il singolo Adolf Hitler intenzionato a torreggiare nella-sulla terra bruciata di un mondo svuotato di uomini. Ma, nonostante l’identità ultima ed essenziale di ognuno con tutti possa suggerire l’idea che in compenso viga almeno una pax all’insegna dell’universale fraternità, la realtà è che l’individuo resta abbastanza de-ciso e lontano dagli altri da potersi dire che, al di là delle apparenze e al di sotto delle forme talora rispettate, domini la lotta di tutti contro tutti e che il mondoil tutto-tutti, con la stessa inarginabile veemenza con cui hanno congiurato a chiamare l’individuo in vita, si adoperino ad espellernelo quanto prima possibile. Gli essenzialmente e in ultima analisi identici sono in realtà abbastanza diversi perché fra loro si formino più o meno esplicite graduatorie, che d’altronde non fanno che ricalcare-replicare la distribuzione su piani gerarchicamente distinti della cosiddetta grande catena dell’essere/degli esseri; e così come appare vergognosamente in-giustificabile e scandalosamente volgare che il sasso stia più in basso dell’insetto e il rettile dell’uomo, altrettanta vergogna è implicata dal fatto che un uomo sia più forte o più intelligente di un altro, una vergogna che ricade sia su chi soggiace sia su chi prevale, ma che a ben vedere colpisce ancora e ben di più chi occupa la posizione sopraelevata, indubbiamente la più oscena essendo la posizione del potente (anche se, a fil di logica, disonore e vergogna spettano in effetti alla Potenza κατ’ἐξοχήν, cioè alla “regia” che ha stabilito le leggi della realtà

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che impongono appunto dislivelli e classifiche, ammesso che abbia un qualunque senso parlare di disonore e di vergogna in riferimento al ciecamente impersonale). Non a caso, proprio nella misura in cui pone irriducibilmente al centro l’individuo come suo protagonista ed eroe, il romanzo – grande creatura del moderno, l’epoca della quasi smisurata fierezza e pretesa del soggetto – ne evidenzia impietosamente l’isolatezza: se autorevoli teorici del romanzo come Kundera ne hanno ravvisato il proprium nella vocazione a una scabra sincerità che rifugge da ogni magniloquente infingimento e strappa il velo-il sipario dietro cui altre forme artistico-letterarie celano la nuda realtà, ebbene, il primo e decisivo segreto svelato dal romanzo è che l’individuo – il suo beniamino, colui di cui compie la celebrazione con generosità servizievole ma a doppio taglio – sta nell’aperta arena del mondo insanabilmente solo di fronte/di contro a tutti gli altri, è gettato senza alcun salvagente speciale nella onnilaterale competizione, è assolutamente uno dei tantissimi cui non compete alcun riguardo e alcun trattamento particolare, che infatti gli altri si guardano bene dal riservargli. Tale è la tenerezza che desta questo individuo de-ciso, assediato e vulnerato dalla folla di quelli che abbiamo voluto chiamare i suoi fattori di umiliazione, che davvero forte si delinea la tentazione di appoggiarlo incondizionatamente, di stare incrollabilmente dalla sua parte, di sposarne appieno le rivendicazioni, di accogliere con acritico entusiasmo i proclami di Spinoza, ritornanti poi con analogo vigore in Leopardi, secondo cui inviolabile e quasi sacro sarebbe il suo diritto a tenere duro e fermo a se stesso, a conservarsi e a perseguire il suo utile e la sua felicità. Ma malauguratamente la condizione dell’individuo di essere inchiodato a tenere per se stesso, a militare in ogni momento e circostanza a proprio favore, a sfoderare il proprio orgoglio, a far valere e pesare i propri “meriti”, a tenere gli altri a distanza

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e incutergli paura per non venirne sovrastato o soppresso; tutta questa tragicommedia della “dignità” deve essere anch’essa tranquillamente annoverata fra le umiliazioni gravanti su di lui. L’individuo, in quanto costretto ad essere l’indefesso professionista dell’amicizia per se stesso, desta insieme infinita pena e rabbia; tanta più rabbia in quanto lo stare oltranzisticamente schierato dalla propria parte è in definitiva politica – non a caso, l’organon e il “luogo” della decisione par excellence –, come suggerisce Benda il quale, non senza palesare una dose di giusto sprezzo per l’oggetto della sua analisi, coglie mirabilmente che (fare) politica, nei casi in cui non sia un più o meno esplicitamente belligerante battersi per il possesso di terre o di ricchezze o di potere, è persino patetica smania di perseguire e rimarcare-esaltare la propria distinzione/la propria diversitàda, contrapposizione-a e superiorità-su39, con la stessa grossolana rozzezza e illogica sfrontatezza con cui lo fa Dalì nelle pagine che, tracciando una linea verticale, divide in due colonne, a una delle quali dà per intestazione “bravo”, “grande” o “geniale” mentre all’altra “incapace”, “stupido” o “insignificante”, per poi scrivere nella prima “io” e nella seconda “gli altri”. Si capisce così come sia possibile provare qualche sim-patia esclusivamente per chi contravvenga alla coazione a tifare per se stesso e a promuoversi a ogni costo compiendo il sacrificio di sé, che è in fondo anche l’unico possibile atto umano meritevole di non essere associato a tutti gli altri triti e pedestri fatti dell’uomo che a ragione ormai molta arte contemporanea non si cura di raccontare, oppure per chi, anche solo per acre e scapestrato gusto di rovesciamento di quella coazione, persegua il proprio abbassamento, la propria degradazione, la propria indecorosa abiezione. In quest’ultima categoria di eccezioni rientrano a pieno titolo il Cioran che dichiara un bisogno addirittura fisico di ignobiltà e di infamia e scrive che, per soddisfarlo, 39. J. Benda, Il tradimento dei chierici, trad. it. di S. Teroni Menzella, Einaudi, Torino 1976, pp. 90-94.

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vorrebbe essere figlio di un boia40, e lo straniante protagonista di un racconto di Gombrowicz che tampina un altro uomo, al quale si sente legato da una sorta di devozione cui non è estranea una componente di omosessualità, e persevera nella sua mansueta fedeltà e mielosa, servile gentilezza tanto più quanto più l’altro lo tratta con burbanzosa presupponenza, lo umilia, quasi lo schifa e cerca di levarselo di torno41. Le umiliazioni fin qui passate in rassegna sono implicate con il ruolo ridimensionante dell’altro-degli altri; non è possibile astenersi dal fare ora, in conclusione, almeno un cenno a qualcuna di quelle che all’individuo/al de-ciso risultano dall’incidenza dell’altro fattore certo non meno duramente infelicitante, il tempo. Il fatto che, come si è ricordato, il tempo sfoderi sempre, inesorabilmente un dopo, proibisce all’individuo di vivere davvero, pienamente e incondizionatamente un qualunque presente. Che egli più o meno oscuramente aspiri a pervenire a un momento definitivo risparmiato dal sopravvenire di un dopo, lo attesta l’illimitata generosità con cui il bambino vive ogni volta come se fossero gli ultimi-come se credesse che lo fosserocome se volesse che lo fossero certi momenti di gioia e, forse ancor più, di dolore; il bambino tutto assorbito in un pianto inconsolabile, che vive quasi assaporandolo pur nel dolore e nella frustrazione, si spende in una sensazione e in un’emozione così intense da fargli ritenere poco credibile e in fondo anche ingiusto che dopo di esse ci sia dell’altro. Ma l’esperienza gli insegna che l’incontro con l’ultimo è sempre di nuovo aggiornato e che quindi è destino e compito dell’individuo preparare continuamente il futuro; come osserva efficacemente Ortega, 40. E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, trad. it. di L. Zilli, Adelphi, Milano 1994, p. 11. 41. W. Gombrowicz, Il ballerino dell’avvocato Kraykowski, in Id., Bacacay. Ricordi del periodo della maturazione, a cura di F. M. Cataluccio, trad. it. di R. Landau, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 13-24.

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la vita dell’uomo è costante pre-occupazione42. Il suo pensiero e la sua preoccupazione non sono né possono mai essere concentrati sull’hic et nunc; è come se fossero perpetuamente diffratti tra ora, prima e poi, fra presente, passato e futuro. Da un certo punto di vista, che il suo pensiero non si riduca a unidimensionale attenzione all’ora, che insomma egli – diversamente dall’animale – non sia circoscritto e limitato al «piolo dell’istante»43, può considerarsi una grazia: con rare eccezioni, il presente, ogni presente offre tanto poco, che un pensiero il quale fosse semplicemente ad esso fissato e in esso integralmente ri-solto e non si nutrisse dei fascinosi e angoscianti fantasmi del prima e del poi offrirebbe-sarebbe il più misero e brullo dei paesaggi mentali. Ma per altro verso, come nessun pensatore ha detto con maggiore lucidità e insistenza di Bataille, nel dover vivere ogni presente protesi nella preparazione e nella preoccupazione del dopo, nel dover costantemente subordinare-sacrificare il presente al futuro, c’è qualcosa di insopportabilmente servile, di avvilente, appunto di umiliante. Bataille rientra in definitiva nell’eletto novero degli uomini e degli autori che percepiscono una nota di bassezza, di insanabile volgarità nel fatto che ci sia lunghezza-durata-lasso-estensione, che anzi in sostanza la realtà coincida con lunghezza-durata-lasso-estensione, nonché nelle “arti” che consentono di affrontarla in quanto tale: resistenza e volontà che innervano l’autoconservazione, tenace sopportazione della distanza, accortezza previsionale che fornisce l’equipaggiamento idoneo addirittura a “uscire alla distanza”. Quegli uomini e quegli autori sentono-sanno che può esserci grandezza, bellezza, gloria solo sulla-nella breve o brevissima distanza che smentisce e frattura il solido, compatto, 42. J. Ortega y Gasset, Lezioni di metafisica, in Id., Metafisica e ragione storica, a cura di A. Savignano, SugarCo, Milano 1989, pp. 95-97, 100, 121. 43. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1979, p. 6.

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non discontinuo corpo del reale, solo nell’epifania impalpabile e quasi subito sparente, nel bagliore dell’apparizione attimale, nell’attimo che rifiuta ogni solidarietà con l’altro-da-sé perché viene vissuto come fosse l’ultimo o addirittura, forse, è effettivamente l’ultimo. Naturalmente, avendo contro di sé l’intera organizzazione del reale, l’utopia dell’anelito al poco-al breve-all’attimale deve confrontarsi con gravi problemi, soprattutto con due difficoltà che minacciano di svuotare di senso, se non perfino di tingere di grottesco la sua rivendicazione. In primo luogo, parlare dell’attimo che viene vissuto come l’ultimo o che è propriamente l’ultimo implica inesorabilmente un prioritario riferimento alla morte. Qui non si tratta solo del fatto che l’utopista del momentaneo sia, o almeno lasci intendere di essere, pronto e anzi voglioso di vivere l’attimo della culminatio come l’ultimo prima della morte, e a rinunciare così completamente agli echi che di esso potrebbero risuonare nella sua mente e nella sua psiche qualora dopo di esso ci fosse per lui quel futuro che invece appunto rifiuta, o almeno lascia intendere di essere ben disposto a rifiutare. Tutto ciò va, per così dire, da sé, dal momento che l’utopista del momentaneo – sacerdote dell’effimero – guarda come a qualcosa di spregevole, ancor prima che di disperatamente vano, a ogni insistenza nel sedimentare-accumulare, a ogni tentativo di perdurare e far perdurare, dunque anche a ogni speranza di suggere piacere dalla persistenza del ricordo. Il problema è che a imporsi e consigliarsi come la culminatio par excellence può essere l’attimo stesso della morte, ed esso non è solo l’attimo del non sentire e quindi dell’impossibilità di provare piacere, bensì più radicalmente l’attimo che per definizione non è e non può essere vissuto. Ed ecco allora che Bataille, indubbiamente con qualche ingenuità e forzatura, tenta di predisporre il modello di una morte che sia vissuta, e ritiene di rinvenirlo principalmente nell’atto sacrificale in tanto in quanto il sacrificante, che

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continua a vivere e mentre resta in vita, si identifichi con il sacrificato e faccia così, per suo tramite, l’altrimenti impossibile esperienza della morte44. In secondo luogo, per quanto l’utopista del momentaneo possa andare in cerca di attimi di culminatio e di dirompente intensità, resta il fatto che, come si è detto, il convento della realtà passa con nettissima prevalenza l’anonimo, l’insignificante, il deludente. Ed ecco allora che Bataille deve cercare di costruirsi e procurarsi le occasioni per il frisson della culminatio in circostanze del tutto stra-ordinarie di cui è instancabile, quasi maniacale “cantore”: l’estasi, la violenza sacra-sacrificale, la squassante dépense erotica magari non disgiunta dall’omicidio, il riso inteso come reciso abbandono dell’ordine del discorso e della pretesa ad esso congiunta di detenere il controllo e di sapere, il gesto poetico come radicale sregolazione-liberazione delle parole45. Ma al di là o, se si preferisce, al di qua dell’utopia, c’è la realtà dell’individuo che deve misurarsi con la lunghezza e sulla lunghezza e che allestisce l’azione rendendo il presente funzionale al futuro; quest’individuo è l’uomo che lavora, che è costretto a lavorare. Bataille lo sa bene, tanto più che fra i suoi più notevoli contemporanei e interlocutori c’è quel Kojève che, con non poco orgoglio immanentistico-umanistico, legge il sistema di Hegel, e in particolare la Fenomenologia, come saga dell’uomo agente-lavoratore, polo di negatività e di an-nientamento controllato che tratta-elabora-rimodella la materia naturale tras-formandola in quel nulla rattenuto che sono i prodotti del suo lavoro, e così prende possesso del mondo riducendolo 44. G. Bataille, Hegel, la morte e il sacrificio, in G. Bataille – A. Kojève – J. Wahl – E. Weil – R. Queneau, Sulla fine della storia. Saggi su Hegel, a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano, trad. it. di A. Sebastiani, Liguori, Napoli 1985, pp. 82-84. 45. Id., Il colpevole, in Id., Il colpevole – L’alleluia, trad. it. di A. Biancofiore, Dedalo, Bari 1989, pp. 181-182, 189-191.

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in qualche modo a propria immagine e somiglianza. Bataille non condivide nulla di quell’orgoglio, perché la prevalenza del tipo-lavoratore ha di fatto comportato che a fare la storia sia stato l’omologo-l’erede della figura del Servo della celeberrima dialettica hegeliana Servo-Signore46 e che siano state condannate ad una via via crescente marginalità quelle manifestazioni dell’in-utile, dell’im-produttivo, anzi della dissipazione e dell’aperta perdita che egli raccoglie sotto il titolo generale di sovranità e a cui va la sua assoluta sim-patia filosofico-esistenziale. E davvero la coazione a lavorare va ascritta al registro del servile e rientra quindi, come una delle più pesanti, fra le umiliazioni che andiamo enumerando. È umiliante – fonte di un’umiliazione che indigna – che l’individuo debba con la fatica meritarsi la sua stessa sopravvivenza, che debba – come si suol dire – guadagnarsi da vivere, sic et simpliciter da mangiare, ancor prima che da vivere bene o almeno nelle condizioni meno insoddisfacenti possibili: questo suo penoso stato di scolaretto perennemente sub judice è in definitiva l’incunabolo e la sciagurata giustificazione di ogni costruzione-costrizione morale gravante su di lui. Rensi trova giustamente increscioso che, diversamente dall’ossigenazione del sangue, l’alimentazione non avvenga per semplice e diretto assorbimento dell’aria47. Che le cose stiano così, che non vigano quindi im-mediatezza, fluidità e facilità, non implica soltanto che viga al contrario il rivoltante regime, al tempo stesso criminale e volgarissimo, per cui il vivente deve cibarsi del vivente, ma ricorda anche in che cosa strutturalmente consista in ultima analisi l’ingobbente, umiliante fatica del lavorare: nel doversi piegare a confrontarsi con le mediazioni, con le infinite, perennemente ripresentantisi lungaggini, tortuosità, lentezze, riprese e deviazioni imposte 46. Id., Hegel, l’uomo e la storia, in G. Bataille – A. Kojève – J. Wahl – E. Weil – R. Queneau, Sulla fine della storia. Saggi su Hegel, cit., pp. 18, 22. 47. G. Rensi, Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte, cit., p. 112.

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da tempo, spazio e materia, i tre grandi fattori dell’ostruzione e del disturbo. Non è un caso che la tecnica, nelle sue punte più avanzate fra cui va certamente annoverata la rivoluzione informatica-telematica, persegua in ultima istanza i due risultati, tanto grandiosi quanto inquietanti, della massima velocizzazione, intesa come schiacciamento dell’effetto sulla causa e della fine di un processo sul suo principio, e della dematerializzazione. Torna qui il motivo di un’aristocrazia dell’immateriale e dell’incorporeo, e di nuovo, a ben vedere, se ne fa depositario, ancor prima dei sofisticatissimi ritrovati della tecnica, il dire, il semplice parlare naturalmente alla portata di tutti. Non lo scrivere, perché, come ricorda impietosamente Rimbaud, anche la tanto decantata opera scritta è inficiata dall’indegnità di essere, in fondo non diversamente dai comuni lavori, fatica di mano e di braccio48; e lo scrivente deve mediarsi con molto di visibile, di tangibile e di esterno a sé, dal supporto su cui scrive allo strumento con cui lo fa, fino ai segni in cui si concretizza il suo operari. Se di nuovo l’aristocrazia dell’immateriale combacia con quella del mentale, non si tratta però dunque del mentale tout court, di una qualunque espressione dell’intellettualizzazione, bensì di quella sua forma in qualche modo elementare che è il parlare. È il parlare a stagliarsi come vertice dell’immediatezza e della facilità, in quanto l’individuo parla dal proprio sé/rimanendo in sé e su di sé/aderendo a sé, e può farlo senza particolare sforzo per un tempo quasi indefinito; della invisibilità, in quanto chi parli senza gesticolare lo dà a vedere quasi solo attraverso quel labile segno che è il movimento delle labbra, e soprattutto in quanto il fiotto verbale si perde radicalmente in-apparente nell’aria senza aggiungere alcuna presenza constatabile a quella del parlante; e della velocità, in quanto 48. A. Rimbaud, Una stagione all’inferno, in Id., Poesie – Ultimi versi – Una stagione all’inferno – Illuminazioni – Gli stupri, cura e trad. it. di L. Mazza, Newton Compton, Roma 1972, p. 223.

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il parlare, sebbene non raggiunga l’estrema sintesi di quel linguaggio peraltro assolutamente inarticolato che è il grido, tuttavia consente di esprimere, in uno stesso lasso di tempo, ben più di quel che possa fare la scrittura. Su questi primati del parlare, oltre che sulla già esposta idea-scommessa che il dire possa essere iniettato di violenza assai meno del fare, si fonda la utopica Sehnsucht per una condizione alleggerita, “aerea” in cui la vita fosse puro discorso. L’incidenza del tempo, della condanna al sopravvenire di un dopo, si rivela ferale anche in quelle rare occasioni in cui l’individuo/il de-ciso incontra la gioia. Si può concordare con Rensi quando teorizza che c’è storia, ossia che l’umanità attiva e vive un continuo mutamento di assetto socio-politico-istituzionale, perché non c’è uno solo degli assetti in cui si viene a trovare che in tempi più o meno brevi non le risulti insoddisfacente, deludente, doloroso; dunque l’umanità deve, ma ancor prima vuole cambiare, incalzata com’è dal male permanente e dal non meno permanente, vano sogno di uscirne una volta per tutte passando appunto a un altro assetto49. Ma, sulla scala più ridotta del vissuto individuale, per tutti esistono, benché rari o rarissimi, dei momenti di perfetta registrazione, di intensa euritmia, di quasi completa soddisfazione che si vorrebbero fermare-perpetuare. In questi pochi o pochissimi casi, l’individuo non vuole affatto cambiare, bensì si augurerebbe di “restare sul posto”, di realizzare un “fermo-immagine” da non scontare con la noia, o almeno, poiché l’esperienza gli ha insegnato che viene sempre sfornato un dopo, di poter godere di un momento successivo-di momenti successivi che siano quanto più possibile identici a quello della perfectio, cioè in definitiva di una continuazione che sia qualcosa d’altro-di diverso senza esserlo veramente. Ma tutto quel che (gli) accade è di dover prendere atto che tali auspici restano lettera morta, che la gioia 49. G. Rensi, La filosofia dell’assurdo, cit., pp. 118-121; Id., L’irrazionale, in Id., L’irrazionale – Il lavoro – L’amore, Unitas, Milano 1923, pp. 40-41.

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è drammaticamente intrattenibile, e che anzi gli tocca andare incontro all’ennesima umiliazione, a un’umiliazione che è una cocente irrisione: quanto più, nei momenti successivi a quello della gioia e già da esso irrimediabilmente diversi, tenterà di trattenerlo-di fissarlo ripensando e cercando di riassaporareruminare il suo contenuto di piacere, tanto più ne accelererà ulteriormente la dissoluzione, lo deturperà, lo convertirà addirittura nel suo opposto. Questo infame destino legittima tutte le tristi e risapute rampogne contro l’umanissimo abbandono all’indugio del compiacimento e del “guardare indietro” che l’individuo deve sorbirsi; e ha certamente condotto Cioran a scrivere «Non ho conosciuto una sola sensazione di pienezza, di felicità vera, senza pensare che era il momento, quello o mai più, di sparire per sempre»50. Ma l’individuo non trova in sé la forza di morire/ di uccidersi dopo la perfectio, così rendendola definitiva e, in qualche modo, eternandola; e l’incapacità di addivenire a una così drastica, drammatica risoluzione, la scelta di proseguire mendicando ancora quel miracolo di un piacere stabile che non gli arriderà mai (e di cui sa che non gli arriderà mai), si risolvono per lui in un’ulteriore umiliazione. Quale terribile sentimento ingeneri nell’individuo il regime dell’insanabile precarietà, degli ambigui e subito sparenti baluginii, delle improvvise e minimali aperture che immediatamente si richiudono, della schernente brevità, dell’intrattenibilità del bene, lo ha detto con insuperabile veracità e mestizia Cardarelli nei versi iniziali della poesia Arpeggi: Viviamo d’un fremito d’aria, d’un filo di luce, dei più vaghi e fuggevoli moti del tempo, 50. E. M. Cioran, op. cit., p. 142.

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di albe furtive, di amori nascenti, di sguardi inattesi. E per esprimere quel che sentiamo c’è una parola sola: disperazione51. Può innegabilmente stupire che, in pagine dedicate all’elencazione e all’analisi di alcune fra le più salienti umiliazioni in cui l’individuo incorre, non sia stato dedicato spazio alla morte, l’esito finale del micidiale lavoro del tempo. Certo, per l’individuo la morte è l’ultimo sfregio; certo, assistere ai momenti in cui il de-ciso viene irrevocabilmente reciso/assistere ai momenti della morte di un uomo, o almeno a certe morti, rende lampante come essa abbia l’aperta natura di un omicidio, non si differenzia in fondo dall’assistere a un assassinio, e in particolare a uno dei più crudeli e rivoltanti, ad esempio a quello in cui la vittima viene finita premendole sulla faccia un cuscino finché non manifesti più alcun movimento. Ma il fatto è che resta altamente dubbio fino a che punto perdere la vita funestata dalle umiliazioni debba essere considerato una disgrazia.

51. V. Cardarelli, Opere, a cura di C. Martignoni, Mondadori, Milano 1981, p. 93.

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Due casi di filosofia dell’arresto

L’idea di ravvicinare in uno stesso percorso interpretativo le figure di Adorno e Michelstaedter, due autori a prima vista distanti per la diversità degli interessi e degli stili di pensiero, viene suggerita dalla considerazione dell’analogia intercorrente fra le “fortune” critiche toccate loro: in realtà, sarebbe più calzante parlare di sfortuna critica, dal momento che pare ormai passato agli archivi come prevalente il giudizio che li bacchetta entrambi come autori irrazionalisti e antiprogressisti-reazionari. È vero che, sia pure per ora quasi esclusivamente in Italia, esiste un gruppo di anche rilevanti filosofi, studiosi e autori appassionatamente interessati al pensiero di Michelstaedter, cui hanno dedicato approfondimenti e interpretazioni sempre più consapevoli della grande levatura del Goriziano che scrisse La persuasione e la rettorica. Ma il fatto che quel gruppo, sebbene si sia andato via via discretamente infoltendo, mantenga comunque le caratteristiche di una sorta di club ristretto ed esclusivo, di un tiaso laterale rispetto ai mainstreams della cultura accademica non meno che di quella mediatica, certifica che, a distanza ormai di un secolo dalla sua morte, il tormentato, fecondamente “squilibrato” e, in conclusione, precoce suicida

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Michelstaedter rimane sostanzialmente un marginale, su cui si appunta una diffidenza o, ancor peggio, un’indifferenza che il prodigioso talento degli italiani nell’affossare i loro grandi talenti speculativi più originali ed eterodossi non basta a spiegare. Quanto poi ad Adorno, non deve sorprendere più di tanto che il giudizio tendenzialmente liquidatorio cui si è accennato colpisca anche lui, il dialettico, (forse) marxista e internazionalmente ben noto genio di Francoforte. Da quando pubblicistica, carta stampata, televisione e numerose cattedre universitarie hanno preso a diffondere, di comune e non tacito accordo, l’ideologia secondo cui l’impresa della matematizzazione-scientificizzazione-tecnologizzazione universale merita totale condivisione e alacre appoggio per il fatto che, oltre a dire la sola verità attendibile sulla realtà, incrementa benevola il livello di efficienza e razionalità delle operazioni quotidiane riducendo sempre più la fatica fisica dell’uomo, le rimostranze francofortesi, e adorniane in particolare, contro il dispotismo manipolante del “fare” scientifico sono diventate piagnucolose lamentazioni di passatisti, la cui riluttanza a servire diligentemente i desiderata dello “spirito del tempo” è da condannarsi come reazionaria. Apparentemente queste valutazioni, che mass-media e cittadella dei sapienti si palleggiano tra loro, sono confinabili nell’area bassa, in quanto speculativamente irrilevante, delle mode, che si appropriano di un autore per glorificarne o stroncarne il pensiero (sempre comunque sfigurandolo) a seconda delle spicciole contingenze socio-politiche e, per riflesso, editoriali. Ma, in realtà, l’occhio dei “giustizieri” di Adorno e di Michelstaedter coglie nei loro pensieri, seppure confusamente, la traccia di qualcosa di urtante, dinanzi a cui l’inquietudine del lettore-osservatore trascolora ben presto in freddezza, se non addirittura in riprovazione o sdegno. Quel “qualcosa” è tutto racchiuso nella caratteristica, che le due riflessioni in oggetto

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hanno in comune, di portare a serrato confronto due generalissimi paradigmi filosofici, uno dei quali è filiazione diretta della grande instaurazione metafisico-dialettica, per poi accordare, in modo più sfumato nel caso di Adorno ma chiarissimo in quello di Michelstaedter, le loro “preferenze” all’altro paradigma, allo “scomodo” modello antimetafisico. In forme che a questo punto non è possibile né utile tentare di anticipare nei dettagli, capiterà di vedere disporsi, dalla parte del paradigma metafisico, i topoi della temporalità, della processualità progrediente scandita eminentemente dalla sequenza verbale-concettuale predisposta dall’impresa conoscitiva (dunque propriamente scientifico-tecnica), e quindi di una valutatività che attiene alla sfera prassistica molto più che al versante etico, nella misura in cui provvede a distinguere l’utile dall’in-utile in vista di un raccordo operativamente vincente fra mezzo e fine, piuttosto che a discernere il buono dal cattivo. Il paradigma alternativo e, per più versi, davvero antitetico risulterà essere quello dell’intemporale, dell’immobile che trova la sua immagine privilegiata in un blocco fisso sottratto alla com-prensione (e poco importa se questo blocco si presenterà, a seconda dei luoghi indagati, come l’“essere” oppure come un non meglio determinato “tutto”), dunque, e conclusivamente, del disinteresse per l’esigenza pragmatica di distinguere quel che è da quel che non è funzionale alla costruzione nel mondo e nella storia. Si vede facilmente che il primo paradigma è quello della differenza, della determinazione, della molteplicità che, naturalmente, presuppone l’individuazione; perciò esso, come luogo di cittadinanza degli individui, è anche e primariamente il modello dell’umano, anzi è il modello cooriginario all’uomo, poiché lo fonda mentre ne è a sua volta fondato. L’altro paradigma è invece contrassegnato dallo stacco assoluto, dall’indifferenza per l’umano, le cui interne strutture e i cui giochi costitutivi appaiono desolantemente bassi e volgari se riguardati dall’altezza di un osservatorio trans-umano.

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Non c’è dubbio che tutto indurrebbe a battezzare i due modelli come quelli, inevitabilmente contrapposti, della soggettività e dell’oggettività. Ma l’enfatizzazione della dicotomia di umano e non-umano (o, appunto, trans-umano, se non addirittura anti-umano), nella sua qualità di provocatorio recupero di categorie filosoficamente poco “raffinate” perché ammissibili semmai nel “meno nobile” discorso specialistico dell’antropologia, vuole sottolineare come proprio l’esiguità (in Adorno) o l’assenza (in Michelstaedter) della disponibilità ad accettare l’intrinseca imperfezione del “fare” umano determini quello sbilanciamento, si direbbe più umorale-temperamentale che dettato da sofisticate istanze teoretiche, per cui i due autori finiscono per prediligere il paradigma più “inconsueto”. Per questo, le loro filosofie potranno essere dette filosofie dell’arresto, in quanto da esse sporgono come decisive, in modo incontrovertibile nel caso di Michelstaedter e più problematico in Adorno, figure dell’acoscienziale, dell’inanimato, dell’in-volontario, della non-continuazione e della ripetizione che se ne sta assolutamente im-produttiva e, appunto, immobile.

Adorno: la dialettica come destituzione della prassi L’eroe omerico di cui Horkheimer e Adorno ripercorrono la parabola nell’Excursus I sull’Odissea di Dialettica dell’illuminismo si rivela soggetto protomoderno (chiamarlo «protoborghese» è con ogni probabilità l’ingenuo sociologismo denunciato da Gadamer)1 quando respinge le insidie arrecategli da frammenti dell’“informe” asoggettivo-presoggettivo, quali sono le Sirene e i Lotofagi, azionando le leve di un’intelligenza tutta risolta in una disinvolta impostura: questa intelligenza 1. H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it. e cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p. 322, nota.

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che sforna brillanti espedienti e “trovate tecniche” operativamente risolutive, come può essere quella di farsi legare all’albero della nave per potere ascoltare il canto delle Sirene senza cedere alla loro esiziale lusinga, presenta già gli inconfondibili tratti di quella “sapienza” della manipolazione convenzionale dei concetti e dello sfruttamento delle cose a fini pratici che i francofortesi sono soliti designare come ragione strumentale. C’è sicuramente una ragione perché, tra questi episodi del poema in cui la lettura di Horkheimer e Adorno addita la manifestazione aurorale del “talento” dell’uomo destinato ad assoggettare l’“esterno”, quello del braccio di ferro col ciclope Polifemo abbia colpito più degli altri, come dimostra il suo ricorrere particolarmente frequente nelle citazioni scritte e orali degli studiosi. L’elemento che lo rende singolarmente epocale non è da ricercarsi nella natura dell’inganno che Ulisse confeziona per fiaccare definitivamente la furia del bruto, perché la trovata di spacciarsi per Nessuno è perfettamente equiparabile, dal punto di vista della significazione fenomenologica, a quelle sfoderate dal protagonista in altri frangenti critici del νόστος: ancora una volta, infatti, la scaltrezza priva di scrupoli con cui egli impiega ad hoc uno “stampo” terminologico, appunto il fittizio nome Nessuno, per definizione scevro di riferimento contenutistico-sostanziale, e la smagata abilità previsionaleorganizzativa che gli consente di far culminare il proprio trionfo nella scena in cui il mostro si copre di ridicolo reclamando soccorso contro Nessuno, lasciano trasparire in filigrana come qui sia in azione il prototipo dell’uomo tecnologico. Il superiore valore rivelativo di quest’episodio dipende, piuttosto, dal suo risvolto finale: Ulisse, una volta turlupinato e piegato il ciclope, gli ricorda, nella forma di una ininterrotta iterazione, di avere una storia personale le cui sequenze sono ordinate dagli schemi autoidentitari in una compagine “sensata”, e soprattutto di disporre di un “altro” nome, di quel nome “vero” Odisseo, cui deve il riconoscimento di sé e l’ammissio-

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ne-inclusione nella storia pubblica del mondo dei soggetti. Nel racconto dell’eroe che, abbandonando il luogo del trionfo, propina al mostro questa serie di informazioni, Adorno e Horkheimer intuiscono non tanto il compiaciuto tocco finale dello sberleffo, quanto piuttosto l’incancellabile angoscia di chi, per non “perdersi” come ente distinto e individuale, soggiace alla coazione di risuscitare di continuo nella memoria le modalità della propria genesi di soggetto distaccatosi per dolorosa e “incredibile” ὕβρις dal fondo dell’assoluta indistinzione2. Artefice primario dello “strappo” è l’atto di nominazione, di cui anche Foucault certamente non ignora il valore di demiurgo e conservatore del delicato equilibrio e della precaria consistenza del soggetto. Nel nome, che è protoconcetto in quanto già corrisponde alla classica definizione di concetto nel suo riunire sotto di sé come proprie note le altrimenti slegate e autonome fasi discorsivo-ragionative e le funzioni dell’organismouomo, è prefigurato per sempre il destino di asservimento alle esigenze di autoconservazione umana al quale il concetto non si sottrarrà nell’epoca della metafisica. Il concetto diventa definitivamente apologia dell’umano dal momento in cui dimostra, nell’inarrestabile eloquio di Ulisse, di doversi disporre in forma di iterazione cumulativa e di non potere che descrivere parabole ascensionali-progressive, fino all’esempio estremo dei più sofisticati edifici sistematici. Il fluire della discorsività concettuale è, fin dal suo primo echeggiare, tranquillizzante secrezione dell’uomo, che in essa si ricorda di sé e della propria capacità di costruzione e articolazione di strumenti di presa sul reale. La costitutiva, teleologicamente orientata serialità del concetto è l’anti-figura della sinistra immobilità, del totale arresto di un blocco ontologico trans-umano. 2. M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1980, p. 75 (Excursus I, Odisseo, o mito e illuminismo).

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Forse in nessun luogo del grande filosofare il paradigma dell’umano e del conoscitivo e quello del non-umano e dell’ontologico si fronteggiano più aspramente che nella pagina della Grande logica dove Hegel stigmatizza e irride la monolitica insistenza con cui il sapiente orientale (immancabile figura dell’immaturità pre-filosofica) si rifiuta di sviluppare il proprio discorso: nel sordo biascicare del santone che resta fermo alla ripetizione della formula «Om, Om, Om», Hegel scorge e condanna un’indolenza analoga, nella sostanza, a quella di chi si limiti a tenere fermo, senza trascinarlo nel vortice della dialettizzazione, il nudo, internamente indifferenziato concetto di essere3. L’intento profondo di Hegel, attraverso lo schermo di una polemica storicamente datata contro l’analiticità dei pensieri che lasciano astrattamente irrelati i vari “luoghi” ontologico-concettuali, è in realtà quello di scongiurare il rischio che la massività dell’essere, rimanendo intoccata dal discorso umano, ne sancisca sul nascere il fallimento, la vacuità: perché ci possa essere filosofia, perché il suo più alto incunabolo, la Scienza della logica, possa snodarsi, occorre che la ritmica del pensiero istituita dall’uomo consegua la vittoria di immettere nel processo il cominciamento, che così dirà la prima, ma non anche l’ultima, insuperabile parola. Solo a patto che l’essere sia limitato a puro primum passibile di elaborazione dialettica (ma, a ben vedere, esso è persino abbassato a primum apparente, poiché la prima figura a rivendicare la pienezza dell’effettualità è solo il divenire), può dischiudersi lo spazio per le parole umane, quelle parole che l’indefesso esercizio di elevare la chiacchiera a concetto impone come il rispecchiamento della verità. Adorno si ritrae, non meno turbato di Hegel, dinanzi alla prospettiva di un pensiero che, quasi dimentico di sé, innalzi l’essere a fulcro assoluto. Proprio questo terrore che possa prendere 3. G. W. F. Hegel, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni riv. da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1978, vol. I, pp. 106-107 (Vol. I, Lib. I, Sez. I, Cap. I, C. Divenire, 1. Unità di essere e nulla).

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il sopravvento un pensiero pago di pronunciare e celebrare il trans-umano rappresenta il movente e la corda teoreticamente più rilevante della sua irriducibile polemica contro Heidegger. In modo tanto sintomatico quanto semplificante, Adorno legge Heidegger prendendone implacabilmente alla lettera le dichiarazioni di distacco dall’esistenzialismo antropocentrico e trasformandolo in un sacerdote dell’accettazione e dell’abbandono alla chiamata di un essere tendenzialmente ininterpretabile dal “basso”. L’assoluto ontologico, di cui Heidegger si farebbe acritico cantore, sciocca Adorno per via dell’ostile indeterminatezza di cui si ammanta. Ad Adorno risulta intollerabile che l’ontologico, vezzeggiato-venerato come il solo che meriti la qualifica di «considerevole», faccia segnare uno stacco tanto radicale rispetto alla mondana concretezza dell’ontico da indurre il pensatore a riservare un disinteresse désengagé alla sfera di una storicità lasciata a sé, dunque indifesa anche dal rischio della irruzione della barbarie nazista. Ma a fondare le responsabilità storico-politiche di Heidegger è in definitiva quell’autolesionistica “pigrizia” di pensiero che gli fa decretare l’inattingibilità dell’essere da parte del concetto. Che qualcosa sia riconosciuto fuori della portata del lavoro dialettico ripugna a un certo Adorno, quello che riprende dalla lezione marxiana (ma forse sarebbe più corretto dire “marxista”) l’inflessione soggettivistica su cui poggiano le “grandi narrazioni”, di cui Lyotard ha annunciato l’avvenuto smantellamento. Per tutto l’arco della sua produzione intellettuale, Adorno non è mai abbandonato dall’orgogliosa fede nella possibilità dell’uomo di comprendere e orientare razionalmente l’articolazione dei fatti storico-sociali; questo Adorno che non recede dal fare assegnamento su di un uomo che, a dispetto di innumerevoli fondati sospetti d’impotenza, deve poter rimanere artefice del proprio destino, è l’Adorno che rivolge un’insofferenza smascherante, di stampo inconfondibilmente materialistico, contro ogni mistificazione metafisica mirante a

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spacciare reali concrezioni storico-culturali per immodificabili, oggettive datità. Proprio Adorno, uno dei pochi pensatori novecenteschi che continuano a sentire tanto profondamente il legame con lo “splendido” periodo idealistico da spendere accese parole in difesa dei diritti e del valore progressivo della metafisica, sottoscrive ad un tempo il memento dell’Horkheimer di Crepuscolo, secondo cui non c’è manifestazione dell’immanenza che non sia un costruito dall’uomo, un divenuto inassoggettabile alle pretese metafisiche di proporlo come un as-soluto. L’Adorno di cui qui si parla è quello nemico di ogni ipostatizzazione che disconosca la fondatività di un sempre rintracciabile, mai storico-ideologicamente “innocente” gesto umano, è l’Adorno che indaga da un’angolazione psico-sociologica e ritiene così di svelare come un’insostenibile menzogna il presunto statuto formale-trascendentale delle stesse codificazioni logico-matematiche. Questo Adorno che lavora a demitizzanti riduzioni al concreto, al limitato, all’empiricamente localizzabile e quindi, in ultima analisi, all’uomo, non poteva esimersi dal subodorare nell’insistente, decisiva sottolineatura heideggeriana della differenza ontologica un errore “metafisico”, anzi addirittura il paradigma della distorsione metafisica che disloca su due piani diversi, e a malapena comunicanti, l’“alto” e il “basso”, il trascendente e l’immanente, l’autentico e l’inautentico. Di questa lettura ingenerosa di Heidegger, del quale, se realmente fossero stati di tale schematica elementarità i suoi intenti, un Nietzsche redivivo si potrebbe vendicare accusandolo di platonismo, resta la preziosa indicazione di una linea di tendenza di Adorno, quella che risveglia in lui l’indignazione e, prima ancora, lo spavento (l’indignazione non è che la traduzione di uno spavento già razionalizzato) di fronte a spie dell’immobile, a frammenti di un non-umano in-discutibile. E infatti, è tutt’altro che casuale che Adorno creda di poter ascrivere la riflessione heideggeriana all’area di quel pensiero

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della profondità, e più precisamente a quella sottospecie che ne è il pensiero dell’originario, di cui Terminologia filosofica schizza una fenomenologia accusatoria quanto mai significativa4. Caratterizzante di questo modello di pensiero è la retorica enfatizzazione di concetti-chiave, il cui valore evocativo viene sovente garantito dall’uso dell’iniziale maiuscola da cui spira l’aura dell’incontestabile. È inessenziale che il concetto prescelto sia quello di Potenza piuttosto che quello di Saggezza, quello di Spirito invece che quello di Sangue, quello di Assoluto o, finalmente, quello di Essere, di tutti il più ricorrente per la sua peculiarità, non tanto di ricomprendere i possibili altri sotto di sé, quanto di essere il più esplicito “nome” della controparte del soggetto. Decisiva, in tutti questi casi, è una determinata cifra formale, che può dirsi della “semplicità” in un’accezione tutta particolare, ovvero nella misura in cui è intrinseca ad un pensiero che colloca i concetti (e spesso un solo ben determinato concetto) ad un’altezza e in un isolamento così radicali da sottrarli programmaticamente a qualunque intervento della dialettizzazione umana. Ma, alla lunga, il pensiero che circonfonde qualche concetto di un alone di semi-sacralità è semplice anche nell’accezione banale, perché rifugge dalla fatica dello scavo che problematizzerebbe, fino ad abbatterle, le assunzioni cui si abbarbica; così come il pensiero antagonistico ad esso si profila come quello della complessità perché, non facendo retorica (in senso pregnante) di alcuna delle proprie categorie, accetta su di sé il peso di un’analisi sempre ricominciante. Non a caso, una coppia di opposti solo lievemente sfalsata di piano è quella i cui termini sono indicati dal polemico gesto valutativo con cui la sinistra di tradizione dialettica hegelo-marxiana, mentre rivendica a sé il timbro formale-argomentativo della complessità fino ad 4. Th. W. Adorno, Terminologia filosofica, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, vol. I, pp. 124-176 (11.-15. Lezioni del 28 giugno, 3 luglio, 10 luglio, 12 luglio e 17 luglio 1962).

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avventurarsi negli esercizi di un parossistico intellettualismo stilistico alla Toni Negri, relega il pensiero di destra nell’area di un’elementare semplicità, parente abbastanza stretta della sloganistica che punta sullo shock sprigionato da tre-quattro parole-chiave. Si vede molto bene come a questo livello subentri un abbassamento di tono nell’impostazione del problema, che così si riduce sostanzialmente al distinguo tra chi ritiene, per il fatto di scrivere “difficile”, di adempiere al compito di una critica capace di staccarsi dal livello del senso comune, e chi invece punta a fare effetto sulle masse dando loro la soddisfazione di condividere quelle stesse tavole di concetti e valori che esse venerano con indolenza cripto-reazionaria come (hegelianamente) note: ma, appunto, un tale “involgarimento” della questione è assolutamente pre-contenuto nella sua stessa alta formulazione filosofica e, anzi, ne costituisce un necessario, “giusto” sbocco. La diatriba qui ricostruita è riconducibile, sul piano storicofilosofico, all’opposizione instaurata da Hegel fra pensiero dialettico, come quello che determina il concetto involgendolo nel processo e dunque assoggettandolo al movimento di un’elaborazione dissolvente, e pensiero astratto, come quello che fissa il concetto in una intoccabilità che, mentre dovrebbe assicurargli la dignità dell’universale e del sovratemporale, di fatto ne impedisce lo sviluppo e lo condanna all’imperscrutabilità. Ma introdurrà ad una lettura di portata teoretica il rilevare che, nel carteggio scambiato con Schelling a fine Settecento, Hegel correla, con grande incisività, la requisitoria contro il pensiero astratto-formale ad un atto d’accusa contro i teologi contemporanei, che innalzano la divinità ad un tale grado di positività da farne coincidere la trascendenza con la completa irriducibilità ad ogni tentativo di razionalizzazione5. Proprio a questo proposito, dalla penna di Hegel escono pa5. G. W. F. Hegel, Lettere, trad. it. di P. Manganaro e V. Spada, Laterza, Bari 1972, pp. 7-12 (lettera di fine gennaio 1795).

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role singolarmente appassionate che, per la commossa partecipazione con cui proclamano il diritto-dovere dell’uomo di riportare sulla terra quei tesori di conoscenza che la mistificante immaginazione religiosa proietta in cielo come impenetrabili contenuti dogmatici, non solo lasciano intravvedere il “colpo di mano” con cui il sistema maturo supererà-dissolverà la religione nella filosofia, ma precorrono e preparano il motivo polemico cui Feuerbach si voterà con incondizionato accanimento6. Non c’è dubbio che Hegel non avrebbe dispiegato su questo punto un’eloquenza tanto ricca e tesa, se in palio non ci fosse stata una posta altissima, cioè niente meno che la possibilità di fondare in generale l’apologia di ciò che, in quanto posto dall’uomo, è pattizio, convenzionale e culturale contro ciò che incombe sull’uomo senza esserne né condiviso né com-preso. Adorno, dal canto suo, reputa che il pensiero dell’originario, il quale mutua dai presocratici l’inclinazione a designare un’ἀρχή da cui tutto il resto discenda come il meramente apparente e venga spiegato come l’inessenziale, sia l’analogon di quella filosofia dell’astrazione che Hegel vorrebbe affondare: ambedue questi orientamenti speculativi meritano la più arcigna deprecazione perché li accomuna la colpa di stare, per così dire, dalla parte del sovra-umano nella forma di un principio affermato e “adorato” nella sua unilateralità e definitività. Proprio come moniti contro un pensiero del blocco che sopprima sul nascere il discorso, vanno letti quei punti in cui Adorno tocca l’essenziale del proprio “stile di pensiero” molto meglio di quando tematizza direttamente i motivi dell’antisistematicità e del frammento. Si tratta dei luoghi di Elementi dell’antisemitismo, in Dialettica dell’illuminismo, ove, mentre viene condannata come “folle” la presunzione di un pensiero che si vanti di tener fermo ad un singolo momento-ad una proposizione isolata come conclusiva e veritativa, si spendono 6. Ivi, pp. 12-17 (lettera del 16 aprile 1795).

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elogi per il modello alternativo di un pensiero che, non risparmiando l’autoriflessione ad alcuno dei suoi “detti”, solo così riesce a trascorrere di “detto” in “detto”7. Questo pensiero, di cui quasi tutti i manuali di storia della filosofia sottolineano che esso concepisce come scientificamente spiegabili i vari frammenti particolari solo se inquadrati e coordinati in un tutto, è naturalmente il pensiero dialettico, che si presenta nella sua caratteristica assolutamente distintiva: esso è il pensiero che continua, non è mai veramente in un punto piuttosto che in un altro, è costitutivamente proteso verso un “dopo” non meno storico-temporale che logico. Il pensiero che non si ferma, che non viene trattenuto in modo definitivo da nessuno dei “luoghi” attraverso cui si dipana, è intrinsecamente adrammatico per almeno due ragioni. In primo luogo, nemmeno il tragico in cui gli succeda di imbattersi sfugge al destino di venir mediato con l’altro da sé, da cui riceve l’affronto di vedersi abbassato ad “evidenza” soltanto momentanea, a “verità” subito suscettibile di essere controvertita (si pensi al superamento della hegeliana “coscienza infelice”); e dunque resta avvalorato il risaputissimo argomento di chi si occupa di lettere, specialmente di poesia, e preferisce tenersi lontano dalla filosofia adducendo che essa, nel momento stesso in cui tematizza il drammatico, lo tradisce per il fatto stesso di passarlo attraverso il filtro della concettualizzazione, supremo artificio consolatorio. In secondo luogo, non può sfuggire come il pensiero che inscena la polifonia della discussione tendenzialmente infinita sia irriducibile fuga dallo spettro di una conclusione, esorcismo caparbiamente ripetuto contro la prospettiva della fine. Il pensiero che non può, non deve fermarsi, disperderebbe però la carica di ottimismo, che gli compete come alla protesi-supporto dell’umano, qualora, almeno, non si soffermasse. Proprio l’Adorno che taccia di perniciosa 7. M. Horkheimer e Th.W. Adorno, op. cit., pp. 209-210 (Elementi dell’antisemitismo. Limiti dell’illuminismo).

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tracotanza il pensiero che vorrebbe erigere a soluzione assoluta un momento nella sua esclusività, non nasconde che l’interminabile catena non si articolerebbe se il filosofo-indagatore del vero non ne ponesse ogni singolo anello come finale, se non concentrasse in ciascuna delle proprie “parole” la persuasioneebbrezza di avere in essa chiuso il discorso8. La codificazione da manuale secondo cui il pensiero dialettico, mentre relativizza i suoi punti di snodo, nondimeno intende che in ognuno di essi sia contenuta la totalità, dice in definitiva che la dialettica procede come la freccia del paradosso di Zenone: l’irrequietezza del suo indefesso movimento si scandisce attraverso successive, continue fermate, la cui sfuggente percettibilità non deve spingere a sottovalutarne l’importanza. L’immanenza allo stream dialettico di questi punti d’arresto su cui, di volta in volta, si appoggia l’accento del pensiero, è lontanissima dal configurare l’infiltrazione di granelli dell’immobile non-umano nelle maglie della rete predisposta dall’uomo. Tutt’al contrario, il pensiero che, senza mai rinunciare a proseguire, tuttavia sempre di nuovo conclude e si conclude, obbedisce all’esigenza, anche questa “umana, troppo umana”, di decidere. In “de-cidere” è fondamentale cogliere la radice del latino caedere, che sta per “tagliare”, “dividere”, e quindi allude per traslato al gesto pratico-giudicativo di separare l’esatto dall’inesatto, il giusto dall’ingiusto, il progressivo dal regressivo e, in ultima analisi, l’utile dall’inutile; coppia, quest’ultima, che ricomprende tutte le altre e di tutte è la “verità”, come vede chi rifletta sul fatto che, nel gioco scientifico, qualcosa diventa esatto a patto di essere operativamente più conveniente rispetto a quello che resta perciò ribassato a inesatto, così come, nel campo morale, si erge a giusto e, in quello politico, a progressivo ciò che meglio asseconda le esigenze di conservazione delle entità individuali o collettive. La condizione poco fa descritta 8. Ivi, p. 209 (Elementi dell’antisemitismo. Limiti dell’illuminismo); Th.W. Adorno, op. cit., vol. I, p. 108 (9. Lezione del 19 giugno 1962).

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come costitutiva della dialettica, quella cioè di essere qui e là, di non “schierarsi” più da questa parte che da quell’altra e di rendere giustizia ad un certo aspetto nella stessa misura che al suo contraddittorio, appartiene all’ordine di ciò che per l’uomo è intollerabile. In-sostenibile è per lui la condizione dell’assoluta sospensione in cui non sia o, almeno, non concepisca se stesso come tutto sbilanciato in una ben netta direzione, tutto risucchiato e appropriato dalla parzialità di un giudizio, di un “progetto”. Proprio su questo problema, che è poi quello dei margini e delle forme del passaggio dalla teoria alla prassi, si misura la distanza fra il Michelstaedter di La persuasione e la rettorica e il Nietzsche della Seconda inattuale. Il primo, che certa critica insiste a dipingere come figura di un iper-individualismo assetato di titanici “superamenti”, si svela in realtà intransigente sacerdote del sovra-umano quando ricorda, conteso tra cruccio e riprovazione, lo status di inevitabile Schuld connaturato a qualunque azione-iniziativa dell’uomo nella condizione della terrestrità; e l’unico possibile topos della perfetta equità Michelstaedter crede di ravvisarlo nell’indifferenziata omogeneità di un “tutto” che, portando ad immediata compresenza (molto più che a semplice mediazione) i contrari, avvera il “miracolo” dell’assoluta in-decisione, non senza pretendere, come propria condizione di possibilità, l’estromissione-annullamento dell’uomo, irriscattabile figura dell’ingiustizia9. Di contro all’uomo che, per fare spazio all’immobilità di un quadro olistico inviolato da increspature dinamiche, imbocca la via schopenhaueriana dello smantellamento della volontà e di una tendenziale regressione all’inerzia dell’inorganico, Nietzsche propone il modello di un’attività, se non addirittura di un attivismo, cui il soggetto possa essere restituito proprio dall’accantonamento di qualunque aspirazione alla freddezza 9. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1982, pp. 76-78.

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di un habitus oggettivante che non dia né ragione né torto, non sia coinvolto passionalmente e aborrisca l’umanissima coazione a maneggiare categorie valutative. Nietzsche sa che l’opera di costruzione-mantenimento della storicità può essere affidata solo a una umanità che, per pietas verso la propria condizione di finitezza, voglia recuperare i “valori” dell’ingenuità previsionale, della sovreccitata parzialità (se non addirittura dell’intollerante faziosità), dell’ottimismo della volontà che accende la fede nelle chances di realizzazione di disegni di cui la ragione saprebbe “dimostrare” l’inattuabilità10. Traccia di un’identica pietas è, nella dialettica, la disponibilità che il pensiero intrinsecamente dissolvente e travolgente mostra per una serie di pause di relativa immobilità, ciascuna delle quali “salva” quel contenuto della storicità su cui s’impunta (che tutti i “detti” della dialettica, compresi quelli più astrusamente metafisici, investano un contenuto storico in modo tutt’altro che indiretto o secondario, lo sa perfettamente un pensatore del concreto quale Hegel, che parla di storia sempre, e non solamente là dove, nella Fenomenologia, è più trasparente che lo faccia). Il pensiero che ha la misericordia di accettare intermittenze all’implacabilità del proprio flusso, getta così un’occhiata su quelle innumerevoli Gestaltungen dell’iter dell’uomo (e non fa differenza che si tratti della Rivoluzione francese o del sistema copernicano) la cui insufficienza e perfettibilità sono, per un attimo e per sempre, “perdonate”. Non c’è dubbio che, nel sistema filosofico, l’intelaiatura smagliante degli infallibili snodi concettuali e delle interne articolazioni metodiche campeggia come quell’“assoluto” che trova la propria immagine privilegiata nel soggetto trascendentale come luogo di totale astrazione dalla qualitatività dell’approccio empirico alle cose e dalla valutatività del “fare” umano (quella

10. F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1979, pp. 16-19.

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valutatività che impregna di sé e, addirittura, spiega lo stesso impulso conoscitivo, se considerato su di un piano di originarietà). Ma la “forma” del sistema non tocca il vertice di un’autonomia tale da consentirgli di inghiottire e fare scomparire in sé e sotto di sé i “contenuti” che percorre, quasi si fosse svincolato dal controllo dell’uomo: accanto e, per così dire, internamente al sistema resta distinguibile e non va perduto quel repertorio di concreti episodi della mondanità dei quali esso pure si alimenta. In questa furbizia di lasciare dispiegare la potenza del concetto scongiurando però che essa rivolga uno sprezzo annientante ai momenti particolari, ciascuno dei quali si mostra inadeguato a soddisfare il pathos della perfectio che anima l’impresa filosofica, sta il segreto del nulla osta che il pensiero dialettico accorda alla “passione” tutta umana di eccedere dalla teoria nella prassi; di qui, da questo ribadimento del ruolo di apologeta dell’uomo-costruttore di storia che destinalmente compete al concetto nell’epoca della metafisica, può mettersi in moto quella lettura, la cui ormai quasi conformistica accettazione nell’area del pensiero della Krisis non ne intacca la penetrante lucidità, secondo cui la coerente finalizzazione dell’opus dialettico sarebbe l’impresa tecnica di conquista e asservimento all’uomo delle risorse naturali-ambientali, intesa appunto come casus supremo, di tutti il più impressionante nella sua natura di probabile punto di non ritorno, del debordare della teoria in prassi. Il Nietzsche della Seconda inattuale, il cui contributo al problema dei rapporti di teoria e prassi resta decisivo, insinuava, attraverso l’immagine della cortina fumogena da cui sarebbe avvolto il soggetto accedente all’azione, che la “commovente” temerarietà dell’artefice di storia discenda da un abbassamento della sorveglianza autocoscienziale, dall’abbandono di sé alla sprovvedutezza di una relativa cecità11. Tuttavia, la disamina 11. Ivi, pp. 10-12.

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che si è condotta della dialettica come del pensiero che, soffermandosi, è fondazione assoluta di ogni passaggio alla prassi, ha evidenziato come la pietosa condiscendenza che salva τὰ φαινόμενα sia “trucco” accortamente e consapevolmente predisposto da un’autocoscienza mai tanto vigile e solerte quanto nell’espletamento di questa sua centralissima funzione. Di simile astuzia dell’autocoscienza si lamentano i francofortesi quando imputano a Hegel (come Adorno fa specialmente in Tre studi su Hegel e Marcuse in Ragione e rivoluzione) di aver voluto far trovare pace al movimento dialettico nella costellazione, prepotentemente imposta come conclusiva, di un determinato assetto storico-politico, quello dello Stato di polizia prussiano suo contemporaneo. I francofortesi sono insofferenti della “volgarità” con cui Hegel tradisce la infinitamente sofisticata complessità della macchina dialettica facendola attraccare ad un “risultato” dai tratti di incredibile, “umiliante” contingenza. Ma ciò che specialmente Adorno intende colpire è la scelta premeditata di imporre al pensiero dell’assoluto flusso un qualunque, anche relativo arresto, di cui la stessa “fine della storia” non è che l’immagine ingigantita, il casus più clamoroso. La protesta, quindi, si dirige essenzialmente contro la coazione a de-cidere cui la dialettica obbedisce quando persevera nel confezionare sintesi. A questo livello merita di venire riconsiderato quello schema triadico cui Adorno in Dialettica negativa fa riferimento, nel tentativo di definire i termini di un suo oltrepassamento, con molto minore reticenza rispetto ai professori di liceo che si vergognano di ricorrere a simili “formulette”. Adorno, che (come si è rilevato in precedenza) già alle ordinarie “parole” dette dalla dialettica (dunque a tesi e antitesi, nel lessico mutuato dal modello della triade) riconosce quasi a malincuore il diritto a porsi come perentorie, non può concedere nulla alla pretesa, a un tempo identica e ulteriormente potenziata, di quella “parola” speciale (la sintesi come terza proposizione) che per sua natura vorrebbe sigillare, volta per volta, le fasi del processo.

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Proprio la questione del reale valore alternativo della dialettica negativa deve qui essere intavolata: e converrà abbozzarla sulla scorta di qualche considerazione suggerita dallo “stile di pensiero” di Adorno, piuttosto che sulla base delle non riuscitissime pagine di Dialettica negativa in cui lo sforzo di lumeggiare i caratteri del modello diadico va incontro a quello scacco che Hegel aveva preconizzato a chiunque si provasse a mettere mano a una definizione della dialettica. Senza dubbio, l’impressione fondamentale data dalla lettura-visione dello “spazio” saggistico adorniano è quella di una scrittura dall’ordito fittissimo: nella sovrabbondanza dei riferimenti e degli scorci analitici, nella nervosità degli scarti di un pensiero che percorre itinerari sorprendenti e raccorda figure e motivi apparentemente inaccostabili, nella corrosività di sortite polemiche davanti alla cui inflessibile lucidità si polverizzano “certezze” ormai consacrate dalla communis opinio delle masse o dei più affermati studiosi, si dispiega una discorsività iper-critica la cui irrequietezza e “incontentabilità” paiono mirare al premio inusitato di una spiegazione totale, di una comprensione della “mappa” dell’essere estesa ai suoi più oscuri risvolti. In virtù di queste caratteristiche, il dettato filosofico-letterario di Adorno si pone come paradigmatico dello sforzo di ininterrotta sorveglianza di un’autocoscienza “scientifica” che, rifiutando di inchinarsi di fronte a una qualunque presunta evidenza, si dirige sempre verso un “oltre” la cui successiva tematizzazione ne rivelerà a sua volta l’ambigua polivalenza, ne scoprirà il “doppiofondo”, così mortificandone la pretesa di porsi come un autosussistente. A una prima approssimazione, il filosofare di Adorno si manifesta dunque come l’acme dell’habitus dialettico: in esso non sarebbe allora riscontrabile la nota dell’originalità che pure attribuisce a sé, o, meglio, la sua originalità sarebbe tutta rappresa nel portare al diapason, rendendolo tambureggiante e inarrestabile, il ritmo del pensiero disgregante. Ma in questa obiezione, che vorrebbe liquidare Adorno alla stregua di uno zelantissimo epigono di una tradizione di cui

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avrebbe semplicemente condotto ad ipertrofia tratti già ben acquisiti, è implicitamente contenuto il riconoscimento di quell’“altro” dalla consueta discorsività dialettica che l’experimentum filosofico di Adorno introduce. Di nuovo risulterà illuminante rivolgere lo sguardo alla pagina adorniana: essa, se scrutata ancora più attentamente, dischiuderà lo spettacolo, assolutamente insolito, di un vorticoso pensiero eristico in cui detto e contraddetto, recto e verso, pro e contro sono costretti a una contiguità così accentuata da trapassare naturalmente in sovrapposizione, in immediato soffocamento reciproco. Nel singolo periodo, grammaticalmente inteso, scorre una tensione talmente drammatica, un’agitazione così incontenibile da consentire a ciascuno dei momenti che lo affollano di sporgere, di reggere, addirittura di farsi vedere solo per una infinitesimale battuta spazio-temporale. L’ondata di pensiero che, di volta in volta, sospinge a galla una figura, nello stesso istante la risommerge: in un batter d’occhio, contro ciò che viene posto si scatena la complicazione, l’approfondimento che lo smentisce e subito lo toglie. Qui deve ricercarsi la radice dell’“inconcepibile” periodare di Adorno, in cui tesi e antitesi sono così vicine da accavallarsi, in cui l’inciso erode completamente la consistenza di ciò che è detto nella proposizione principale, in cui la negazione persino precede, per collocazione spazio-concettuale, quel che deve venire negato. E, su più larga scala, la stessa architettura straniante di libri, come Dialettica negativa, in cui le distinzioni fra paragrafi, capitoli e sezioni vengono spessissimo fluidificate fino a sopprimerle del tutto, non mira ad altro che ad avverare il sogno “impossibile” di un quadro totalizzante in cui tutto penetra in tutto, l’individuazione è definitivamente compromessa, l’enfatizzazione di una sfaccettatura particolare è preclusa, la de-cisione diventa im-praticabile. Una volta accettata come fondamentale una simile immagine del pensiero di Adorno, al cui confronto resta ridimensionata a

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inessenziale l’immagine antitetica – che un po’ tutti abbiamo in mente – di Adorno pensatore delle rigidissime contrapposizioni e delle roventi crociate polemiche (si pensi alle “persecuzioni” contro il positivismo o contro gli artisti affermativi), diverrà possibile scorgere il capovolgimento della dialettica perpetrato dall’epigono. La dialettica negativa non solo non si ferma, ma nemmeno si sof-ferma; il suo movimento inarrestabile, che non tollera in sé il riposo della relativa immobilità, si rovescia allora nell’immobilità assoluta; essa, che vorrebbe “dire” tutto e lascia perciò pagine pullulanti di una inesauribile ricchezza di figure chiamate a raccolta dai più disparati campi disciplinari, proprio per questo è come se non dicesse nulla; in essa il fragore rassicurante dell’interminabile “dibattito” instaurato dall’uomo si disperde e si spegne nell’inquietante distesa del silenzio. Ma allora, proprio il pensiero dell’ultimo grande umanista, proprio la filosofia dell’autore di un testo ancora “scandalosamente” antropocentrico come Minima moralia è in-utile all’uomo: il pensiero che si aggroviglia su se stesso e, perciò, né procede né tantomeno conclude, nega qualunque comprensione all’esigenza dell’uomo di conservare e rinnovare-potenziare se stesso, attraverso le proprie realizzazioni, nell’alveo della storicità. La dialettica negativa attivata da Adorno riprende il progetto dialettico, che Hegel aveva ammorbidito ricordandosi dei diritti della prassi, e lo conduce ad essere quel che non era mai stato prima, l’opposto di ciò che era sempre stato: lo trasforma, per via della propria severissima consequenzialità, in s-fondazione della prassi, in revoca della possibilità di modificare il già-esistente. E che questo arresto completo sia, a dispetto dei continui richiami a scardinare la nauseante fissità del cattivo vigente storico-sociale, il telos essenziale della riflessione di Adorno, avrebbe stupito e indignato molto meno i giovani del movimento studentesco del Sessantotto, se solo essi avessero letto

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e guardato, in senso proprio materiale, le pagine del maestro “traditore” con ben altra finezza. Si sarebbero allora resi conto che, se è lecito enucleare una “dominante” in una speculazione di seducente ambiguità com’è quella di Adorno, essa deve venire individuata nella traccia di un aristocratico distacco dalle specifiche datità del “sociale” come luogo di esplicazione delle dinamiche economico-politiche: e questo è tanto vero che proprio ad Adorno, malgrado la quasi smisurata curiositas che da grandissimo saggista rivolge ai fenomeni della finitezza, potrebbe venire addebitato quel sostanziale disamore per essi che non si stanca di rimproverare a Heidegger. Alcune tra le pagine adorniane di più abbagliante bellezza sono giustificate dalla spinta di un’insofferenza assoluta per il piano intrinsecamente “maledetto” della terrestrità, i cui abitatori sono ininterrottamente chiamati dal pungolo del bisogno a mettere mano a quelle pratiche e a perfezionare quelle tecniche macchiate dalla “bassezza” di essere costitutivamente orientate verso uno scopo, perciò giudicate dalla loro capacità o incapacità di strappare un risultato. Spie del venir meno della pietas per il mondo della storicità sono le grandiose “visioni” di un regno dell’in-utilità, com’è quella che si fa largo nell’aforisma Sur l’eau di Minima moralia dove si legge di un uomo che, pago di contemplare nella perfetta immobilità la natura, lascia per sempre dietro di sé l’immagine di una umanità “inferiore”, l’unica d’altronde che a noi sia stato dato di conoscere (o forse la sola che abbia potuto e dovuto produrre filosofia), condannata ad un rapporto puramente impositivo con l’ambiente12. Né ha minore potenza evocativa l’anticipazione, pure questa affiorante da Minima moralia, di uno stato di magica regressione all’infanzia in cui sia riassaporabile l’incanto di un incontro giocoso con le cose, non compromesso dalla preoccupazione di

12. Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1979, pp. 184-185 (af. 100).

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verificarne la funzionalità né dal più vago sospetto che ad esse possa inerire un valore quantificabile che, facendole passibili di scambio, disconosce l’irripetibile unicità di ciascuna di esse13; ed è uomo che, allo stesso modo, attiva il gesto dis-interessato del gioco, anche quello che un utopico slargo di un testo di austera gnoseologia, Marginalien zu Theorie und Praxis, presenta come incondizionatamente dedito a una teoria che, in quanto svincolata dall’obbligo di preparare-legittimare la prassi, può permettersi di non servire più a niente14.

Michelstaedter: il pathos del distacco dalla storicità La topografia del pensiero dialettico e della versione che ne dà Adorno sono indagabili alla luce di un modello dicotomico che contrapponga, da una parte, umano, storico e conoscitivo e, dall’altra, non-umano, astorico e ontologico, solo a patto di far forza all’immagine che un simile pensiero tiene a dar di sé, proponendosi come luogo dell’assoluta mediazione, quindi intrinsecamente ribelle ad interpretazioni che vogliano divaricarne direttrici interne presuntivamente incomunicanti. Se un “arbitrio” del genere può almeno venire giustificato dalle inconsuete aperture interpretative di cui consente l’acquisizione, non implica invece alcun arbitrio, anzi è doveroso, studiare La persuasione e la rettorica sotto lo stimolo di una preoccupazione tutta volta a discriminare le orme depositate nella tesi di laurea di Michelstaedter dall’uno o dall’altro di quei due paradigmi: né soggiacerà ad un’accusa di semplicistica schematicità nell’analisi il tentativo di assodare se l’autore mostri maggiore sensibilità a raccogliere il richiamo dei “diritti” dell’umano, 13. Ivi, pp. 276-278 (af. 146, Bottega). 14. Th. W. Adorno, Parole chiave. Modelli critici, trad. it. di M. Agrati, SugarCo, Milano 1974, pp. 244-245.

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oppure sia dominato (come risulterà essere in effetti) da un pathos tras-gressivo dinanzi alla cui drammatica inflessibilità si frantumano, come “volgari”, le “ragioni” della temporalità umana. Già la stessa concezione di questa eterodossa tesi di laurea si sviluppa sotto l’imperativo di un radicale calo di pietas nei confronti della storicità. È Michelstaedter stesso a lasciare nell’epistolario la testimonianza di un crescente disinteresse (dichiarato con particolare esplicitezza in una lettera al padre) per l’esercizio di disciplinata pazienza ricostruttiva richiesto da quel lavoro storico-filosofico entro le cui regole doveva tuttavia sopportare di incapsulare i contributi scritti che la frequenza universitaria gli imponeva; egli meditava comunque di prendersi la clamorosa rivincita nella forma di un saggio conclusivo in cui si sarebbe concesso la licenza di tematizzare le categorie di “retorica” e di “persuasione” trascurando quasi del tutto l’impegno, che pure si era assunto presso i professori come condizione del suo accoglimento come tesi di laurea, di studiarne la significazione nel contesto del discorso filosofico di Platone e di Aristotele15. Una simile ὕβρις dello studente Michelstaedter ha la valenza di un’esplosione d’intolleranza per la storicità anche perché (come risulta ad un primo, comunque non banale, livello di considerazione) esprime una completa non-disponibilità ad assoggettarsi alle norme del gioco accademico che avrebbero suggerito, a lui come a qualunque talento magari meno sprezzante di lui, di gettare le fondamenta di una scalata universitaria rassegnandosi a mascherare, per così dire, la propria grandezza nell’ordinata fiscalità di una tesi assai meno “provocatoria”. Ma al di là di questa ribellione che si dirige contro la storicità nella misura in cui colpisce l’università come una delle sue concrezioni istituzionali, importa cogliere che la scelta di Michelstaedter di tenersi ben distinto dagli usi della ricerca storico15. Cfr. l’Introduzione di S. Campailla a C. Michelstaedter, op. cit., pp. 12-13.

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filosofica vuole avere il senso di una sovrana indifferenza per la vicenda evolutiva che categorie, concetti e valori subiscono per mano di autori i quali non possono fare altro che proporli e riproporli, ri-pensarli e ri-fondarli, lumeggiarli sotto aspetti e secondo intendimenti sempre inevitabilmente incompleti e parziali. A Michelstaedter ripugna la paziente umiltà richiesta da uno sforzo di comprensione che, diltheyanamente, miri a raggiungere con i grandi auctores del passato una sintonia, una simpatetica comunanza di sentire tale da permettere al postero di risuscitarne il punto di osservazione “prospettico”, ovvero, come ben sapeva Nietzsche, necessariamente settorializzante. In questo senso si spiega l’ampia libertà, quasi l’irrispettosa tracotanza con cui Michelstaedter si serve del patrimonio dei presocratici, dei grandi tragici greci e della tradizione biblicosapienziale, piegandolo completamente all’esigenza di incastonarne frammenti e versi nel contesto del proprio discorso e disinteressandosi di ciò che Parmenide o Sofocle avessero voluto dire in quello specifico luogo; nel gesto ricompositivo di Michelstaedter che non esita a modificare la testualità dei materiali citati (convertendo un plurale in un singolare in un passo dell’Elettra sofoclea16 o sostituendo l’impersonale soggetto «ognuno» alla fortissima accentuazione dell’«io» con cui Cristo parla di sé come del «primo e ultimo» in un brano dell’Apocalisse17) non risalta tanto, a dispetto di quanto sostiene Campailla nell’apparato critico all’edizione adelphiana, la pietas con cui un novecentesco “inattuale” tenta il recupero-salvataggio di una saggezza lontana ma ancora illuminante, quanto piuttosto l’ansia con cui Michelstaedter adatta e riconduce tutto a sé e all’episodio della propria elaborazione speculativa. Ma Michelstaedter e l’episodio di cui si fa protagonista non si confondono con le molteplici figure speculative e con gli innumerevoli prodotti intellettuali trascinati nel flusso diveniente 16. C. Michelstaedter, op. cit., p. 72. 17. Ivi, p. 73.

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del reale, che li smangia e cancella uno dopo l’altro: perché possa legittimarsi il sacrificio della dissezione decontestualizzante cui viene sottoposta la sapienza protoellenica e protocristiana, è necessario che il contesto in cui essa viene immessa e a favore del quale subisce il sacrificio non sia un contesto, un episodio tra e come gli altri, ma piuttosto il contesto e l’episodio garantito dall’assoluta paradigmaticità dell’intemporale. Michelstaedter concepisce sé e la propria testimonianza come immuni dal coinvolgimento nel gorgo del tempo: la sua parola dovrà essere così perentoriamente veritativa da inserirlo in quel Gotha di figure di mistici, fondatori di religioni, artisti e filosofi di cui si snoda la processione nella Prefazione, ciascuno dei quali ha riscattato la “colpa” di trovarsi a vivere e a operare nella terrestrità formulando e riformulando il “testo” unico di una medesima, immodificabile verità. Il fatto che anche questi grandi si incolonnino in una sequenza e paiano affetti dal topos della continuazione nella misura in cui ciascuno si richiama agli altri e muove a partire dagli altri, ha la nota dell’apparente e dell’inessenziale: la verità è che l’ordine cronologico in cui le loro presenze si scandiscono potrebbe tranquillamente essere rimescolato e capovolto, perché ognuno di essi dice l’uguale, e la modulazione particolare con cui lo dice (questa sì sempre e inevitabilmente differenziata) non apporta alcun effettivo sviluppo, non implica alcun vero perfezionamento. A dispetto del fatto accidentale che l’uno si esprima per parabole e l’altro poeticamente, ciascuno vale ed è (come) tutti gli altri; in quanto ministro e latore di un’identica verità che sovrasta la storicità ed anzi prescrive l’abbandono della storicità, ciascuno di loro concentra in sé tutto il tempo passato e futuro, e così arriva a dissolvere la dimensione temporale facendosi grumo di eternità18. Michelstaedter si propone come l’ultimo ripetitore cui spetta di 18. Ivi, pp. 35-36.

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riconfermare quella verità: il suo pensiero dell’assoluto arresto non è altro da quello di coloro che venera. Ma allora Campailla non ha del tutto torto a dare credito alle proteste di modestia della Prefazione, ove Michelstaedter descrive se stesso in posizione di servizio nei confronti delle ombre di quei titani, dunque anche dei Greci delle origini e dei primi autori cristiani le cui testimonianze affollano le pagine del libro. Il ricorso entusiasticamente omaggiante a pensieri, civiltà e personalità delle origini è realmente una delle inclinazioni-necessità distintive di un pensiero dell’arresto: il pensiero dell’arresto, che dovrebbe rimanere indifferente a qualsiasi riscontro desunto dalla sfera della temporalità, conferisce invece speciale rilevanza proprio al dato che quei pensieri vengano prima nel tempo, perché sa che, una volta “dimostrato” come dopo di allora non sia stato detto nulla di più e di nuovo, il cortocircuito così additato fra l’inizio e la definitiva chiusura porterà acqua al mulino del suo assunto anti-progressista. La scansione che bipartisce l’opera in due sezioni resta comunque il primo e più trasparente attestato della vocazione di Michelstaedter a contrapporre l’insanabile imperfezione di ciò che è umano alla totale perfezione di uno standard sovra-umano. Infatti, le categorie di “rettorica” e “persuasione” ricevono, dalla lettura trasfigurante che ne fa Michelstaedter, il potere di denotare rispettivamente proprio l’intrinseca deficienza dell’umano e l’assolutezza, ad un tempo etica e ontologica, di una cornice a-storica sbarazzatasi della corruttiva presenza dell’uomo. “Rettorica” è la condizione umana di dover reiterare continui atti di volizione con cui aprirsi lo spazio per conservarsi in vita; già Schopenhauer aveva tratteggiato con gelida puntualità questa corsa che prende le mosse dall’appetizione e si dirige verso successivi oggetti il cui possesso-consumo sprofonda il soggetto in una noia di cui esso potrà liberarsi solo ricominciando daccapo l’inseguimento. L’inarrestabilità di questo arrabattarsi

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dell’organismo vivente, che predispone attorno a sé una articolata griglia di strumenti teorico-pratici idonei a proteggerlo dalla pericolosità dell’“esterno”, ritorna in Michelstaedter nell’immagine del peso sospinto dall’inerzia verso punti successivi di caduta sempre più bassi19; data l’allusività polisemica del lessico di Michelstaedter, non si ingannerà chi consideri tutt’altro che “innocente” la trovata di introdurre l’esempio del peso, che infatti adombra la coincidenza dello spostamento verso un “oltre”, connaturato ad ogni processualità, con una condizione di caduta in cui lo slittamento avviene in direzione di gradi sempre più accentuati di “bassezza”. Per una traslazione dal descrittivo-registrante al giudicativo, la condizione della cumulatività pro-grediente si configura in Michelstaedter proprio come lo status della bassezza, dell’inautenticità e della volgarità: l’uomo che continua è quello che, dovendosi preoccupare della struttura del proprio habitat mondano, disconosce l’irripetibilità di poche, straordinarie epifanie di grandezza e genialità (non importa se il riferimento vada all’insegnamento di Cristo o alla “parola” di Leopardi) appiattendole a puro spunto per la costruzione di apparati, magari una chiesa o un’accademia, che ne proseguano e incrementino l’opera, o a pretesto per l’accensione di un dibattito critico-interpretativo in cui la devozione per colui al quale si consacra l’indagine si mescola alla pretesa di esplicitare sfaccettature e motivi di cui l’autore stesso, come si suol dire, sarebbe stato inconsapevole. È volgare, per Michelstaedter, quell’assillo, cui il soggetto storico soggiace, di approntare margini di sopravvivenza alla propria generazione e, ancor più, alle successive attraverso l’istituzione di imprese in cui possa canalizzarsi il lavoro di “commento” che l’umanità “inferiore” dei più conduce, nei termini di una vera e propria speculazione-sfruttamento, sul ceppo di cinque-sei testimonianze focali; alla non perfettibilità di queste

19. Ivi, pp. 39-40.

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ultime renderebbe davvero giustizia un’umanità che smettesse di fingere di non avvedersi che esse sono l’esatto contrario di una piattaforma su cui innestare una tradizione e rappresentano invece una radicalissima contestazione della meschinità, dell’infinita servile pazienza con cui l’uomo aziona le leve della “cultura” pur di permanere nella condizione che gli è stata assegnata20. In questo senso, si capisce come l’irrisione più aspra di Michelstaedter investa la forma ad un tempo più matura e più tronfiamente autocompiaciuta dello sforzo culturale, ossia l’impresa conoscitiva giunta allo spiegamento più impressionante dei propri mezzi nell’habitus operativo delle scienze esatte della natura, che tra l’altro Michelstaedter vedeva declinato secondo l’inflessione più forte dal contemporaneo establishment positivistico. La fenomenologia del fare scientifico che La persuasione e la rettorica ci consegna la dice lunga sul valore polemico delle istanze di un pensiero dell’arresto. In Michelstaedter, la scienza si delinea come l’instancabile esercizio di accumulazione di successive conoscenze e di definizione di sempre nuove leggi esplicative che si avvicinino asintoticamente a cogliere l’effettivo assetto del reale: la parola d’ordine degli scienziati dev’essere la ricerca di risultati e accertamenti sperimentali il cui continuo e reciproco precisarsi e correggersi alimenti la fiducia, che è comunque necessariamente presupposta alla serie delle indagini, nella possibilità di una finale adaequatio, non importa se lontanissima nel tempo. Se la scienza è luogo paradigmatico della continuazione sempre protesa verso un telos che deve rimanere (e in fondo si sa essere) inattingibile perché la frenetica inquisizione possa perpetuarsi, nulla stupisce meno del fatto che essa sia il dominio delle parole congiungentisi in tracciati formali-convenzionali, quei sistemi del cui elitario e ben limato linguaggio tecnico gli scienziati si servono a mo’ di vicendevole riconoscimento, qua20. Ivi, pp. 35, 120, 130, 179-180.

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si si scambiassero strizzate d’occhio21. Di grande pregio appare l’intuizione di Michelstaedter secondo cui il ricorso scientifico allo stillicidio delle parole, nella forma di levigati termini categoriali, rivela il disinteresse per l’eventualità di debordare, di là dalla sfera del teorico-linguistico, nella zona dell’essere22; proprio l’attività scientifica, che fa valere l’imperativo categorico di andare alle cose stesse, deve tenere fermo un netto distanziamento dall’ontologico, perché abbattere il setto divisorio e raggiungere l’aderenza di parola e oggetto implicherebbe ipso facto la cassazione della parola, resa superflua dal suo stesso trionfo. La polemica francofortese contro il formalismo della ragione strumentale, che manipola segni ormai svincolati dal raccordo con un referente significativo, trova in qualche modo un’anticipazione nelle pagine di Michelstaedter in cui viene lucidamente attribuita alla capillare diffusione dei quadri del linguaggio funzionalizzato la responsabilità di avere inaugurato un’umanità che, fermandosi a quei puri involucri segnici, si appaga ormai di riconoscere le stimolazioni convenute e di ottemperare alla rete delle istruzioni operative, da cui dipende la precisione di una prassi dalle manovre tanto più infallibili quanto più le rimane totalmente estraneo il desiderio di conoscere la realtà di quel che si stia facendo e degli interni funzionamenti delle cose usate23. La “nostalgia del concreto” che muove la requisitoria di Michelstaedter tocca la sua espressione più densa nei passi in cui, al modello di un’umanità ormai vicina all’atrofia delle proprie facoltà organico-naturali, viene contrapposto l’esempio di un’umanità, quella pre-tecnologica se non addirittura quella pre-istorica, ancora capace di ingaggiare con la natura un rapporto diretto e frontale di conoscenza, quasi una frequentazione che compatti in un unico corpus soggetto e mondo. Più 21. Ivi, pp. 130-133, 135. 22 . Ivi, pp. 100-102. 23. Ivi, p. 165.

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delle oleografiche immagini dell’uomo che non si sgomenta del baratro spalancato sotto di sé poiché può contare su di uno snodo ugualmente perfetto delle dita delle mani e dei piedi, grazie a cui asseconda fin nelle minime pieghe il disegno frastagliato e irregolare delle rocce in un’arrampicata che è anche e soprattutto una sorta di amoroso incastro-abbraccio con la montagna, ciò che interessa valorizzare è l’indicazione di Michelstaedter secondo cui, nel mondo moderno, l’uomo è trascinato, in caso di aggressione da parte della natura, nello stesso destino di salvezza o rovina in cui incorrono quei dispositivi (una casa al momento del terremoto o un dirigibile nella tempesta) cui egli rimette, come a vicari totalmente sostitutivi del proprio intervento, le chances di autoconservazione24. Ma queste protesi dell’uomo che egli frappone tra sé e l’ambiente e che nella nostra quotidianità, ma particolarmente negli istanti in cui ne va della vita o della morte, sono l’uomo, non costituiscono altro che l’ostensibile concrezione praticotecnica cui mira e in cui sbocca la torrenziale successione delle parole-concetti coordinate in edifici scientifici sistematici. Michelstaedter sa non meno bene degli autori di Dialettica dell’illuminismo che la genesi della concettualità porta con sé quella del soggetto (almeno di quello che vive nella modernità, intesa nella latissima accezione che al termine conferisce Heidegger), né gli sfugge come il concetto, autentico luogo di istituzione e apologia dell’umano, possa approdare ad una tale autosufficienza da sostituirsi al soggetto, esautorandolo (riconducibile alle medesime coordinate è il problema, già incontrato, della possibilità che il flusso dialettico, grandiosa secrezione dell’uomo, possa “dimenticarsi” di lui, travolgendo e cancellando in un ritmo senza accenno di pausa i “contenuti” della storicità). Per attribuire a Michelstaedter una simile consapevolezza non occorre fare forza al testo, animati da una stima sopravvalutante per l’autore: egli stesso sottolinea esplicitamente come alla 24 . Ivi, pp. 156-159.

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rete di nomi e parole che il soggetto getta intorno a sé inerisca il valore di consolidamento dell’identità della persona, che riproduce e ritrova se stessa in quelle inanimate formelle da cui riceve la vita e la conferma di “esserci” ancora25. L’ebreo Michelstaedter, che deride senza pietà la sicumera degli uomini che si illudono di possedere una «personalità sufficiente» per il semplice fatto di utilizzare e scambiarsi parole, non condivide nulla della “immotivata” ma non per questo meno ardente fiducia ebraica che la parola possegga una dignità tale da consentire di attingere la verità, come spera ad esempio Benjamin. Certo, la denuncia della scienza come dell’ambito in cui si perpetra un insanabile distacco dal reale attraverso la sofisticata elaborazione di quel mortuum che sono gli strumenti concettuali (già Hegel sapeva come l’avvento del concetto cali sulle cose alla stregua di una cappa oscurante che ne stinge la policroma vivacità)26, si basa sulla presupposizione metafisica delle due sostanze, dell’interno e dell’esterno, del teorico e dell’oggettivo, come di due assoluti Gegenstände di mediazione difficile e magari impossibile, al punto che, quando prevale l’uno, soccombe l’altro, o, addirittura, quando “c’è” l’uno, non “c’è” l’altro. Che il discorso di Michelstaedter sia fedele a questo topos, lo attesta il fatto che la logica integrazione del suo contra mathematicos (il richiamo a Sesto Empirico non è estrinseco in quanto i due autori, i cui discorsi sono per altri versi quasi del tutto imparagonabili, intendono però entrambi colpire non una specifica categoria di operatori scientifici, bensì l’atteggiamento stesso di perseguire la μάϑησις, la conoscenza) gli sembra senz’altro dover essere un incondizionato pathos dell’ontologico, come l’altro dal conoscitivo e, quindi, anche dall’uomo. La disamina della scienza non avrebbe perduto nulla del suo nocciolo essenziale qualora Michelstaedter si fosse limitato a scrivere le poche icastiche righe con cui essa si apre. La scien25. Ivi, pp. 98-99. 26. Cfr. R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, il Mulino, Bologna 1975, p. 57.

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za, nota Michelstaedter, si fa cogliere in fallo per il semplice fatto che, incamminandosi indefinitamente verso la realtà nella sua brama di verità, riconosce con ciò stesso di non possedere quella realtà che, appunto, si trova costretta a cercare: ma, per Michelstaedter, la realtà o la si ha immediatamente tutta intera, oppure la caponaggine di impossessarsene brano a brano, di mettere le mani prima su di una sua parte e poi su di un’altra, non porterà a nulla, resterà un vano, quasi grottesco tour de force. Non c’e forse, in tutta La persuasione e la rettorica, un momento in cui i paradigmi peculiari di un pensiero dell’arresto siano squadernati più limpidamente e senza giri di parole. Vi si ritrova la sanzione del primato dell’immediatezza sulla mediazione, della completezza sulla parzialità, del carismatico “primo e ultimo” sulla sequenza e sulla prosecuzione, della semplicità che non conosce interne articolazioni sulla complessità che invece vive di passaggi da un punto all’altro. Ma il brano si appaleserà per quello che è essenzialmente, ossia per una confutazione-rovesciamento (non importa appurare se consapevole) del luogo della Logica in cui Hegel (come si è visto) decreta la supremazia del conoscitivo sull’ontologico, qualora si presti attenzione speciale a queste parole: «Basterebbe chiedere [agli scienziati] che differenza ci sia tra realtà e verità, per la quale pur essendo in contatto con la realtà si debba ancora far via per giungere alla verità»27. La realtà è tutto, ci si deve arrestare ad essa, che ricomprende in sé anche la verità e che, anzi, è la verità, in un combaciare inestricabile dei due termini che, così, non sono più due (non essendolo, d’altronde, mai stati): se è di palmare evidenza che «verità» allude al versante dello sforzo conoscitivo attivato dall’uomo, non è meno inoppugnabile che, quando un autore come Michelstaedter dice «realtà», ha in mente, molto semplicemente, l’essere, essendo egli largamente alieno dalle raffinate puntualiz27. C. Michelstaedter, op. cit., pp. 119-120.

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zazioni proprie dei filosofi professionisti, come quella con cui Heidegger divarica ontico e ontologico. La parola «contatto» dice bene che, per Michelstaedter, il problema è esattamente e unicamente farci risucchiare, noi soggetti, dall’essere come da quello che, essendo l’altro da noi, può nutrirci, completarci, trasvalutarci in personalità sufficienti (stavolta in senso tutt’altro che polemico-sardonico). Ma siccome questa perfetta comunione è preclusa a chi (come il nuotatore che s’affanna nella vana speranza di farsi fasciare dalle acque fino al punto di trapassare in esse)28 scelga la via dell’azione, del movimento e, quindi, della vita, Michelstaedter scommette, facendosi forte di un ragionamento “e contrario”, che l’assoluta cessazione del movimento e la spasmodica concentrazione in un attimo conclusivo possano risolvere l’enigma29: e questo equivale a predicare che solo la temerarietà irremovibile dell’uomo che viene «a ferri corti con la vita» e nega di voler avere un futuro, può introdurre alla “vera” vita, quella della “persuasione”30. L’uomo che si dà tutto all’altro da sé, potrà avere tutto31: l’uomo che abbandona “questa” vita, potrà avere la vita. Chiunque si sia anche superficialmente occupato di filosofia eviterà di rimanere più di tanto sconcertato di fronte a simili deliberate “contradictiones in adjecto”, dal momento che se ne ritrovano di analoghe e paragonabili, dal punto di vista della costruzione tutta giocata su una dialettica dell’inversione fra “essenza” e “apparenza”, in filosofie dagli obiettivi differenti da quelli di Michelstaedter e di autori anche più grandi di lui. Tuttavia, non sarebbe né storiograficamente corretto né teoreticamente significativo limitarsi a far rifluire con indifferenza tali formulazioni di Michelstaedter nell’alveo di un’indistinta, confusamente onnicomprensiva “filosofia perenne”; piuttosto, 28 . Ivi, pp. 40-41. 29. Ivi, pp. 123, 162. 30. Ivi, pp. 128-129. 31. Ivi, p. 82.

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proprio quando Michelstaedter lancia queste “proposte”, cui si sarebbe molto esistenzialisticamente mostrato coerente nelle scelte di vita (si dovrebbe per la verità anche dire, senza ombra di ironia: e forse soprattutto nella scelta di darsi la morte), egli si svela fedele a una ben determinata versione della dialettica di apparenza e essenza, quella di Schopenhauer, per il quale apparenti sono gli individui e la loro dolorosa vita di entità contrapposte tra loro e al cosmo, mentre essenziale è proprio il respiro universale di un ritmo onniavvolgente in cui si riassorbono tutte le differenze che, peraltro, non ci sono propriamente mai state. Proprio la parentela con Schopenhauer fa sì che la retorizzazione di Michelstaedter del primato dell’essere sia corretta, alterata e sovrastata, in La persuasione e la rettorica, da un pathos a un tempo complementare e diverso, il pathos della verità, questo sì omogeneo agli intenti del “maestro” tedesco: ma qui dire pathos della verità, lungi dall’alludere alla reintroduzione di una qualunque considerazione celebrativa della verità come può essere perseguita dall’uomo munito dei suoi spuntati strumenti di ricerca, è lo stesso che dire pathos della totalità. Resta vero che Michelstaedter fa suo il modello contrappositivo delle due sostanze, coniato dal soggettivismo metafisico, e tenta di minare l’autorità di quella tradizione con l’enfatizzare (si potrebbe dire, in modo solo apparentemente banale: col preferire) il polo non soggettivo, l’altro da quello fino ad allora privilegiato; e resta vero che l’ontologico rivendica, in Michelstaedter, il potere di rivolgere al soggetto una chiamata perentoria, l’ingiunzione di un non procrastinabile ricongiungimento, in assenza del quale l’uomo non è niente, addirittura non c’è. Ma, a ben vedere, nemmeno l’essere, in se stesso, è quel che autenticamente c’è come l’effettuale (per strappare a Hegel, cioè a uno dei maggiori bersagli polemici di Michelstaedter, una categoria che aiuta comunque a rendere l’idea, in questo particolare contesto): ciò che davvero c’è, o meglio,

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ciò che deve esserci, è il tutto, come combaciare assolutamente unitario di soggetto e oggetto, uomo e cosmo, conoscitivo e ontologico. Questo monolito della perfetta indistinzione è certamente qualcosa di più, di molto più dell’uomo, ma esso non potrebbe neanche venir raffigurato nella glaciale, sinistra immagine della Terra o dell’immenso universo inabitati dall’uomo e da qualsiasi altra presenza vivente: esso si pone come l’assolutamente irrappresentabile che rifiuta ogni riduzione ad imaginem, cosicché solo chi lo riconosce nella sua ineffabilità potrà dirsi alla sua altezza. Ma nemmeno esprimersi in questi termini è rispondente alla concezione di Michelstaedter, perché è evidente che la costituzione (o ri-costituzione) di questo quadro olistico esclude la presenza di alcunché di determinato, perciò anche di un individuo che gli faccia l’omaggio di inchinarsi silenzioso e rassegnato all’incomprensione dinanzi ad esso. L’irrappresentabile, essendo il tutto, è il nulla; perciò, anche se Michelstaedter non sarebbe d’accordo sul farlo equivalere al semplice essere, ad esso si attaglia la fenomenologia che Hegel traccia proprio dell’essere nelle prime pagine della Logica. Resta dunque confermata la sentenza hegeliana, secondo cui le speculazioni insofferenti dell’egemonia metafisico-dialettica devono approdare alla esaltazione di un “blocco” trans-umano; ed è in sostanza marginale che Michelstaedter preferisca assegnare un diverso nome (in realtà, nessun nome) e altri filosofi dell’assoluto arresto abbiano dato (o siano destinati a dare in avvenire) una diversa etichetta definitoria a quel blocco che Hegel ha memorabilmente “fotografato” chiamandolo “essere”. Quel che conta è prendere atto di come sovente il trans-umano assuma le fattezze di un vero e proprio anti-umano, che arriva a richiedere all’uomo il sacrificio dell’autoannullamento: perché la trattazione prenda una simile piega, come succede in modo esemplare in Michelstaedter, occorre naturalmente che il dia-

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gramma apassionale delle “equilibrate” analisi gnoseologiche tramate dagli autori antimetafisici venga movimentato dall’irruzione di preoccupazioni di ordine squisitamente morale. E infatti quel “tutto” che, alla luce delle considerazioni teoretiche espresse quasi del tutto asistematicamente da Michelstaedter, è emerso come un quid totalmente indefinibile (dunque spostato né dalla parte dell’umano, né del non-umano), si fregia allo stesso tempo di un “nome” ben determinato che ne rispecchia la valenza etica: esso è la “perfezione” e, nella misura in cui si staglia come climax irraggiungibile dall’uomo imperfetto (e qui si intenda “ingiusto”), ha la sigla del non-umano, anzi dell’antiumano, che comanda all’uomo di farsi da parte. E a chi pretendesse di sapere più determinatamente come si configuri la “perfezione” in Michelstaedter, si dovrebbe innanzitutto consigliare di trarre lumi in proposito dalla anti-figura della perfezione; essa percorre un lungo tratto della prima parte del libro e ha il volto dell’uomo che cerca di soddisfare le proprie necessità particolari (non fa differenza se si tratti della fame o del desiderio di arricchirsi culturalmente, visto che non c’è “in-tenzione” umana non riconducibile in pochi passaggi all’esigenza primaria e, in certo modo, unica di conservarsi) perseguendo di volta in volta il contatto e la assimilazione con quella specie di oggetti (animati o inanimati che siano) idonei a placare il nisus. I vocaboli “particolari” e “specie” danno la chiave per intendere dove sia contenuta l’imperfezione: essa sta già tutta nel destino umano di avere, per così dire, in mente una cosa per volta, o meglio, di doversi rivolgere a una cosa dopo l’altra, di pre-occuparsi di un aspetto per volta, di darsi tutto ad una sola direttrice d’azione per volta. L’uomo che ha fame vedrà e valuterà tutto il mondo secondo il parametro della mangiabilità o non-mangiabilità delle cose, al punto che, per lui, ogni oggetto sarà cibo e, in quanto tale, utile e meritevole di considerazione, oppure non-cibo e, perciò, in-utile e tranquil-

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lamente passibile di eliminazione32. Ma l’uomo che sembra sprigionare una aggressività davvero di poco conto per il fatto che, nel momento in cui è dominato dalla fame, non gli importa nulla se l’amplissima porzione noncommestibile del mondo ci sia o meno, è in realtà già l’insanabilmente ingiusto e l’intrinsecamente offensivo. Egli è infatti lo stesso uomo che, qualunque cosa faccia e tanto più quando opera nell’ambito politico-sociale, vive nell’inossidabile convinzione di avere ragione e, anzi, vive proprio perché lo sostiene la convinzione di avere ragione: tutto quello o quelli che non siano lui o, almeno, non paiano potenzialmente funzionali alla realizzazione dei suoi intenti sono concepiti e trattati da lui come oggetti a cui e su cui imporre la propria visione, se non addirittura come oggetti da togliere, sopprimendoli, allorché osteggino l’agens. Né occorre riferirsi a casi di inimicizia e di scontro, in cui la violenza di cui l’uomo è ricettacolo viene a palese estrinsecazione, per toccare con mano l’iniquità intrinseca all’agire umano. L’esempio, su cui Michelstaedter si diffonde, dell’atomo di cloro per cui è condizione di vita il riuscire ad integrarsi con l’atomo di idrogeno, allude con fin troppa chiarezza alla sfera dell’umano quando si chiude con l’osservazione secondo cui ciascuno dei due atomi persegue nell’altro unicamente la propria affermazione-conservazione, senza minimamente interessarsi se l’altro ritragga dall’incontro un analogo vantaggio: l’amore che instaura tra i due un campo d’attrazione si rivelerà per quello che è autenticamente, cioè odio, a chi, invece di lasciarsi andare ingenuamente a decantarlo come la portentosa forza motrice dell’universo, consideri che la loro unione “amorosa” determina il passaggio e la scomparsa di cloro e idrogeno in quel tertium, l’acido cloridrico, che “uccide” i suoi stessi

32 . Ivi, pp. 44-46, 48-52.

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componenti nel momento in cui si costituisce33. Per quanto Michelstaedter non lo dica apertamente, non ci vuole molto a scorgere che la sua arrière pensée è qui l’intuizione, già tematizzata da Hegel, di come ciascun genitore, nell’amplesso, condanni a morte l’altro, nella misura in cui concorre a preparare la nascita di quel figlio che sarà immagine vivente del loro essere “superati” e massima riprova del loro procedere verso la fine34; ma è altrettanto indubbio che qui Michelstaedter vuole lasciare intendere la lezione secondo cui non c’è relazione umana, dunque non solamente quella fisica, che, sebbene sembri configurarsi come pacifica comunanza fra due che reciprocamente si ricercano, non racchiuda in sé il germe della sopraffazione. Anche lo Jaspers di Philosophie mostrerà di sapere nitidamente come qualsiasi rapporto interpersonale cada sotto il segno di una fortissima tensione, primi fra tutti quei rapporti d’amore e d’amicizia che si sarebbe tentati di escludere da una simile fenomenologia; né si salva la semplice conversazione, in cui ciascuno degli interlocutori è tanto più prevaricante nei riguardi dell’altro, quanto più, rivolgendogli l’atto di rispetto di tradurre in fluenti e cordiali parole ampi capitoli della propria Weltanschauung, gli scoperchia così il proprio “mondo interiore” al solo, effettivo scopo di annettere il giudizio dell’altro alla propria visione35. Ma allora, in conclusione, qualunque azione l’uomo compia, sia che scateni o combatta una guerra, sia che mangi una mela 33. Ivi, pp. 46-48. 34. Cfr. J. Hyppolite, Vita e presa di coscienza della vita nella filosofia hegeliana di Jena, in Id., Saggi su Marx e Hegel, trad. it. di S. T. Regazzola, Bompiani, Milano 1973, pp. 17-18 (Parte prima, Vita ed esistenza in Hegel). 35. K. Jaspers, Filosofia, a cura di U. Galimberti, 2. Chiarificazione dell’esistenza, Mursia, Milano 1978, pp. 75-77 (Sez. I, Cap. III, Comunicazione, Chiarificazione della comunicazione esistenziale), 217-220 (Sez. III, Cap. VII, Situazioni-limite, La lotta); 96 (Sez. I, Cap. III, Comunicazione, Rottura della comunicazione), 104 (Sez. I, Cap. III, Comunicazione, Situazioni comunicative).

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(così implicitamente sottraendola ad altri che abbiano fame quanto e più di lui), egli è “colpevole”; la memoria di chi volesse citare una sentenza di condanna contro l’uomo emessa con almeno analoga, se non uguale, radicalità da un altro tribunale filosofico, dovrà di nuovo andare allo Jaspers di Philosophie che riprende il motivo peculiarmente esistenzialistico per cui non c’è rottura umana della perfetta immobilità-inazione che, per insignificante che sia, non produca l’effetto, più o meno remoto e indiretto, di recare torto a qualcuno36. L’uomo è colpevole, in senso generalissimo, per il semplice fatto di mirare a sopravvivere, poiché, qualsiasi minima cosa faccia per porsi nelle condizioni di continuare a vivere (e tutto quel che fa, lo fa in vista di questo fine), riduce le chances di autoconservazione di tutti gli altri: l’uomo, che può agire solo a patto di farsi forte di una debole, angusta coscienza che focalizza sempre solo un irrisorio spicchio della realtà, è la figura dell’ingiustizia, come conferma il fatto che la società si rivela, allo sguardo di Michelstaedter, luogo di istituzionalizzazione-legittimazione della violenza dell’uomo sulla natura e sui suoi simili37. Ma se l’ingiustizia, eretta a norma universale nella società, origina quella vera e propria alienazione dell’uomo che Michelstaedter, volente o nolente, si ritrova a dover esaminare valendosi di strumenti in buona parte mutuati proprio dalla dialettica servo-padrone dell’“odiato” Hegel, è allora naturale che la perfezione, come assoluta giustizia, offra di sé l’immagine benevola di luogo della pacificazione e del livellamento “democratico” fra gli uomini (sempre che sia lecito ricorrere a un linguaggio politologico trattando di Michelstaedter): così, a una prima approssimazione, l’affermazione fatta prima, secondo cui la perfezione si porrebbe come l’inflessibile anti-umano, sembra nettamente confutata dalla forte, seducente evidenza di questo suo volto “umanistico”. 36. Ivi, pp. 220-222 (Sez. III, Cap. VII, Situazioni-limite, La colpa). 37. C. Michelstaedter, op. cit., pp. 146-152.

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Certo, si è vivamente tentati di sottoscrivere il parere di Campailla, per cui il fondamentale obiettivo di Michelstaedter sarebbe quello «di salvaguardare il valore dell’individuo, l’integrità della persona umana»38, quando si scorrano le pagine conclusive della prima parte del libro, in cui viene dipinto con grandissimo afflato l’accattivante ritratto dell’uomo persuaso, come incarnazione e centro di diffusione della giustizia. Egli non riserva ai non-persuasi quel distacco, tanto prossimo allo sprezzo, che Zarathustra, antesignano dell’Übermensch nietzscheano, non fa mistero di provare davanti allo spettacolo dell’umanità inautentica e depotenziata in cui prolifera la genia dell’«ultimo uomo»; e perciò, egli non si affianca ai “bisognosi” allo stesso modo dell’“amico” nietzscheano, che ritiene di poter attuare il recupero dell’“inferiore”, di cui si occupa, ricorrendo ad una schiettezza così assoluta da sconfinare in aggressiva intolleranza per le sue debolezze e meschinità, più che mostrandogli la disponibilità a prenderlo per mano, non si dice con melliflua condiscendenza, ma almeno con partecipe sim-patia. Il persuaso, ci assicura Michelstaedter, è colui che, con fermezza mista però all’infinita pazienza dovuta alla consapevolezza dell’improba difficoltà del suo compito, mira a condurre gli irretiti nella rettorica alla condizione di una libertà e pienezza individuali perfettamente dispiegate, dall’alto delle quali divenga normale non temere più la morte: per ottenere tanto, per arrivare a cancellare l’invincibile spauracchio, il persuaso deve provare per gli altri un rispetto così intenso, quasi una devozione, che gli faccia vedere e amare in loro, in ciascuno di loro, tutto il mondo e, soprattutto, la sua stessa personalità “perfetta”, che essi non coltivano e quindi non amano in loro39 (anche perché neppure sospettano di possederla almeno in nuce; o meglio, si sforzano disperatamente di ignorarla, subodorando che essa, nel momento stesso in cui venisse accolta, 38 . S. Campailla, Introduzione, cit., p. 24. 39. C. Michelstaedter, op. cit., pp. 83-84.

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comanderebbe loro immediatamente di scollarsi dal giro delle inveterate abitudini, prima fra tutte quella di nascondersi, pavidi e acritici, all’ombra della grande, rassicurante ala della società, illusoriamente ritenuta onnipotente argine contro la morte). Ma non bisogna sottovalutare, intanto, che l’ispirato “manuale di istruzioni” per il persuaso si conclude indicando in qualcosa che potrebbe anche evocare il suicidio l’estremo gesto ammaestrante del suo insegnamento: «Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente»40. D’altronde, non occorre tornare a intavolare la vexata quaestio se Michelstaedter fosse o non fosse un implicito istigatore al suicidio per convincersi dell’anti-umanismo di cui è venata anche la riflessione morale di La persuasione e la rettorica. Piuttosto, varrà la pena di prestare attenzione ad alcuni elementi rivelatori: la riaccensione di un ontologismo che induce Michelstaedter a lagnarsi del fatto che tutti, a loro modo, abbiano ragione, ma nessuno sia così perfetto da avere «la ragione»41, dove l’enfatizzazione dell’articolo determinativo dovrebbe alludere alla consistenza di una “sostanza” che, una volta incorporatasi al soggetto, lo trasfigurerebbe in un innocentissimo giusto; la decisione con cui Michelstaedter contrappone al mito dell’oggettività sbandierato dalla scienza una ben più seria oggettività, da intendersi proprio come il contrario della soggettività-parzialità propria di ogni giudicare e agire terreno, ovvero come quella perfezione morale accessibile solo a chi, im-medesimandosi con l’oggetto, lasci regredire se stesso allo stato acoscienziale dell’inorganico, ove, non dandosi volontà né azione, non si dà nemmeno la colpa42; 40. Ivi, p. 89. 41. Ivi, pp. 77-78. 42. Ivi, pp. 123, 128.

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il lampeggiare, emanante dall’immagine del persuaso che riconosce e ama se stesso nell’altro di cui cura l’“educazione”, del più caratteristico dei motivi mistici, quello della compenetrazione-identificazione di tutti con tutti, anzi di tutto con tutto, dalla quale gli uomini riceverebbero la spinta a stipulare la definitiva tregua con gli animali e le cose in cui comprenderebbero di colpire se stessi; e, per finire, il dettaglio decisivo delle parole scelte da Michelstaedter quando ammonisce il persuaso a onorare nei singoli individui «tutto il mondo»43, dunque l’ennesima figura dell’assoluta indeterminazione, un luogo-non luogo, una u-topia, che trascende drammaticamente la “patria” dell’uomo, cioè quella sede della sua concretissima vicenda di finitezza, di erramenti (in senso anche e non solo heideggeriano), di progetti sempre necessariamente parziali, cui avrebbe fatto riferimento se avesse scritto “questo mondo”.

43. Ivi, p. 84.

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La fluidità e il soggetto empirico

Strategie della fluidità in Michelstaedter e Musil Hegel sa che, nel momento in cui la Weltanschauung cristiana subentra a quella pagano-classica, essa si fa forte di una enfatizzazione irriducibile del ruolo e del destino del soggetto individuale: è a questa altezza dello sviluppo storico-epocale che vengono ad emergere i due topoi concettuali (la cui pregnanza trapassa immediatamente nella sfera dell’esistenziale) dell’assoluta singolarità-irripetibilità del soggetto e della linearità del tempo, sulla cui direttrice si gioca per intero la sua sorte sino a finalizzarsi in salvezza o dannazione. A patto che si sia disposti a prescindere almeno in parte dalle determinazioni dottrinaliconfessionali peculiari di una religione che concrescono con questo modello, si vedrà che esso lascia niente di meno che il distillato di una teoria del tragico, alla cui definizione si rivelano sufficienti quelle due figure che una solo veniale forzatura suggerisce di presentare così: innanzitutto, il soggetto chiuso, rinserrato in se stesso, portatore del mistero della propria responsabilità, e, per necessario corollario, il tapis roulant, la striscia temporale su cui scorre, ineluttabilmente e quasi insensibilmente tratto innanzi, mentre è esclusa ogni possibilità di

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ripetizione e di “ritorno” di gesti, atti e momenti. Che simili connotazioni già bastino a dire lo spaventoso che compete alla condizione individuale, lo indica abbastanza nitidamente il rattrappito imbarazzo con cui autori anche molto grandi paiono talora sforzarsi, per amor fati, di glorificare quei fattori di “inferiorità” e frammentazione dell’umano, quasi che, per miracolosa trasfigurazione, se ne potesse parlare come di momenti di nobile distintività. Un’obiezione che si autopone grava su pagine come Caducità, il breve brano in cui Freud assume le difese della peculiare non-replicabilità dei momenti di intensione e di pienezza che toccano all’uomo1, o come quei passi di L’insostenibile leggerezza dell’essere dove Kundera pare attribuire un quid di malioso incanto al fatto che l’esistenza umana, nei suoi episodi, manchi di “pesante” ri-dondanza e ri-sonanza e si arresti destinalmente al livello di experimentum unico cui non può preludere alcuna forma di “prova generale”2. Queste accorate apologie, da cui s’innalza immancabilmente il rintocco di una stoica e impavida humanitas, tradiscono l’imbarazzo, se non la falsità, che le inficia da cima a fondo per il fatto stesso di porsi consapevolmente come apologie del fenomeno-vita, di cui provano disperatamente a riscattare, attraverso un prestidigitatorio capovolgimento, l’accidentalità e la sostanziale non-serietà. Anche per chi voglia convincere del contrario, l’unicità, l’irripetibilità e il non-fondamento sono presupposti come lo spaventoso, lo psicologicamente insostenibile. Che su questo punto ci sia vera e propria materia per consolazione, lo dimostra proprio il fatto che, spalancando il quaderno delle testimonianze culturali, non costa certo troppa fatica 1. S. Freud, Caducità, trad. it. di S. Daniele, in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino 1969, vol. 1, pp. 219-222. 2. M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, trad. it. di A. Barbato, Adelphi, Milano 1985, pp. 16, 41, 56, 57.

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rintracciare tentativi che, a diverso titolo, cercano di dare una “soluzione” (nel senso anche di cancellazione) alla paura. Per quanto banalizzante possa parere estrapolare una singola formula dall’edificio teorico di Severino (sebbene si tratti almeno senz’altro della formula aurea su cui converge ogni sua insistenza), resta palese che la tesi da lui riproposta indefinitamente e non soltanto in sede di “disimpegnato” intervento giornalistico – gli enti (e tra questi evidentemente gli uomini) non promanano dal nulla per dirigersi di nuovo, dopo un breve intervallo di presenzialità, al nulla, ma sono eterni – ha il sapore di una reazione contro l’inquietante concezione di un tempo lineare ininterrottamente scorrente come una valanga che emetta verdetti irrevocabili a ogni istante, l’ultimo dei quali è la morte dell’ente intesa come suo annientamento. Ma, ai fini di una messa in chiaro delle strategie della consolazione, dirà qualcosa di più incisivo il confronto con la Stimmung di un classico della posata riflessione sapienziale come i Pensieri di Marco Aurelio. Qui il convincimento stoicheggiante dell’avvicendarsi dei cicli cosmici e dell’instancabile, vorticante ricambio della materia con la materia e degli esseri con gli esseri attiva qualcosa di simile a una consolazione disperata: poiché tutto si confonde in tutto, ciascuno trapassa e si scioglie in altro da sé, non c’è infrastruttura moraleggiante, non c’è retorico richiamo al dovere di ognuno di svolgere onestamente la propria parte che tolga un solo grammo di forza alla sensazione che l’imperatore suggerisca di non darsi eccessiva importanza, di obliare letteralmente se stessi come antidoto alla paura. Se è insostenibile la condizione di individuo, porterà qualche sollievo il pensiero di quanto presto verranno a smangiarsi gli effimeri contorni che tagliano fuori il soggetto dal resto del mondo: a dare forza, a conferire la resistenza psicologica all’individuo sono la consapevolezza della sua assoluta, sconfortante debolezza e la lucida premonizione del suo certo, imminente dissolvimento. Per quanto in Marco Aurelio siano solamente intravvedibili in

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filigrana i continui e intricatissimi giochi d’inversione di quella peculiare modalità difensiva che è la strategia della fluidità, di certo ci si trova già in presenza di una sua possibile applicazione. Ma solo autori contemporanei della maturità di Michelstaedter e Musil mostreranno nella sua compiutezza la tavola delle implicazioni proprie della fluidità, intesa come modus di ribellione contro la duplice condanna della segregazione entro il σῆμα della separatezza individuale e dell’incatenamento alla serie degli attimi che di continuo ricompaginano la dimensione tripartita di passato, presente e futuro. In Freud Wittgenstein Musil Gargani suggerisce che il gioco di incastri e di corrispondenze in cui si risolve ogni sistema, e a maggior ragione il grande sistema filosofico, si fondi su di un dispositivo e su di un interno “gusto” ordinativo in qualche modo mutuati dalla patologia psichica, forse più precisamente da quella modalità particolarmente complessa e “nobile” che ne è la nevrosi ossessiva3. Il sistema, non escluso e anzi primo fra tutti quello dialettico che in Hegel tocca il più compiuto dispiegamento, sembra esprimere, della nevrosi ossessiva, la medesima incoercibile necessità di ancoraggio ad uno schema di invarianti, che si tratti dell’indefinito ritorno di (e a) quella che Freud chiamava scena originaria – la cui sedimentazione nella mente dell’ossessivo si frange nel repertorio di linee d’interferenza ideativo-immaginativa che danno significato, scansione temporale e unitarietà alla giornata del “malato” –, oppure dell’incastellatura dei passaggi obbligati del sistema, che cala il materiale effettivamente vivo dell’esperienza entro le maglie di un labirinto che non rinuncia mai a ripresentare le proprie forche caudine (si pensi all’iterazione “monotona” dello schema triadico in un testo-sistema qual è la Scienza della logica hegeliana, o all’“ossessività” con cui Spinoza articola il proprio mos 3. A. Gargani, Freud Wittgenstein Musil, Shakespeare and Company, Brescia 1982, pp. 40-42.

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geometricus nell’Etica), soltanto così esorcizzando il pericolo che spira da qualunque frammento di novum immesso nel suo macchinario perfettamente calibrato. In ambedue i casi l’inserimento dell’ingranaggio a sfondo ossessivo deve sbrogliare un problema di autoriconoscimento: infinitamente innamorato di se stesso come lo è l’ossessivo, che tipicamente sconta la propria insaziabile volontà di omogeneità e di conservazione con una recisa decurtazione delle chances di messa alla prova di sé e quasi con il confinamento in una stregata immobilità, il sistema, mentre finge di macinare materiale potenzialmente infinito, ne regge l’urto, altrimenti micidiale, facendone promanare ogni volta il ribadimento di un’identica sentenza, di un medesimo stereotipo costruttivo-tematico. Adorno, particolarmente nelle analisi dei Tre studi su Hegel, ha fiutato il destinale richiudersi su se stesso del sistema in una mastodontica tautologia, persino del sistema hegeliano (davanti alla cui concretezza rimase ammirato Hyppolite) ove la conclamata formula secondo cui il vero può prodursi e spuntare unicamente come risultato sembra apparentarsi allo scherno di fronte alla sensazione che tutto l’essenziale sia pre-determinato; qualcosa di molto simile aveva intuito Nietzsche che, con la sua caratteristica secchezza aliena da ramificati accertamenti tecnici, aveva dichiarato come il sistema per antonomasia, quello hegeliano, non insceni altro che lo spettacolo del proprio ininterrotto, instancabile trionfo, risolvendosi nell’almeno presunto ritrovamento della ragione in qualunque “luogo” venga di volta in volta sondato, affinché di fronte a tanto rutilante rassicurazione non resti se non il gesto riconoscente della προσκύνησις4. Non è certo solamente in omaggio all’accostamento fatto da Horkheimer e Adorno del comportamento paranoide al rifiuto di coinvolgere ogni singola proposizione nell’autoriflessione, 4. Cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1977, p. 275.

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incunabolo di ogni contemporaneo tentativo di gettare luce sull’area del teorico visitando quella del disturbo psichico, che s’impone l’obbligo di “dimostrare” che anche le innervazioni centrali di un’opera di esemplare contestazione del sistema (se non addirittura dello sforzo culturale in senso ampio) come la michelstaedteriana La persuasione e la rettorica sono mutuate da strutture ragionativo-comportamentali peculiari della stessa nevrosi ossessiva. Minor sorpresa, in fin dei conti, procurerà la messa in chiaro di come anche l’utopia conclusiva di L’uomo senza qualità di Musil venga a collocarsi su questa stessa linea, sia pure con quella libertà di cadenze e quella relativa “imprecisione” dell’asse teorico, o almeno para-teorico, che comunque competono a un romanzo, quale nonostante tutto resta il libro sui generis del grande mitteleuropeo. Basta sottoporre ad ingrandimento quel primo sintomo dell’ossessione già preso in considerazione per inaugurare una pista che attraverso pochi passaggi argomentativi ci conduce dritti al persuaso di Michelstaedter. L’ossessivo conosce il proprio pensiero come intessuto di una linea, per così dire, aurea, portatrice dei contenuti “pubblicamente” comunicabili e quindi tale da intenzionare ciò che s’impone all’attenzione momento per momento, su cui fanno incessante interferenza altre direttrici che solo la sofferenza dell’ossessivo lo induce a bollare magari come contenuti “di scarto”. In realtà abbiamo a che fare con un pensiero intrinsecamente polifonico che riproduce in modo singolarissimo, quasi in effigie, l’oggettività-obiettività, almeno una forma di oggettività-obiettività, che non ci si deve vergognare, soprattutto qui, di intendere nell’accezione più banale di disponibilità all’ascolto e alla rispettosa registrazione di più pareri e di più posizioni. L’ossessivo è sé e più/altro da sé, cosicché, sebbene sia abbarbicato con irriducibile gelosia alla salvaguardia della propria identità, è abituato, come ad esercizio del tutto normale, a guardare e valutare sé quasi come se sgusciasse fuori di sé, così realizzando nella forma più com-

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plessa il miracolo di osservazione dell’uomo sull’uomo sulla cui realizzabilità s’interrogano da sempre le scienze umano-sociali, in sede di definizione del loro statuto epistemologico: protettore inesausto di se stesso, eroe della propria autoconservazione, l’ossessivo riserva tuttavia alla propria persona il gelo e il rigore di uno scavo analitico che quasi inevitabilmente consiglierà allo psicanalista di inaugurarne la cura invitandolo ad emanciparsi dai moduli di una severità “giudiziaria” con cui egli trasforma se stesso in un essere in qualche modo estraneo a sé. Non esiste una sola di queste determinazioni che non venga ripresa dalla figura del persuaso di Michelstaedter, centro d’irradiazione d’infinita intransigenza verso se stesso (tant’è vero che è il primissimo ad avere la consapevolezza di come su ciascun uomo incomba l’intero complesso delle colpe commesse su questa terra) e polo di uno sforzo diretto a porsi in vitale consonanza-simpatia con gli altri e, se possibile, a risucchiare in sé, cosi redimendolo, l’insipiente schiavo della rettorica5. Anche il persuaso non può tollerare l’angustia dell’individuazione, si protende oltre e fuori di sé nella scommessa di poter squarciare le pareti del proprio io; ma nella massima intensificazione del sé, nella ipertrofia soggettiva, egli incorre, del tutto necessariamente, nell’annichilimento della propria persona, tant’è vero che una ricca serie di argomentazioni parrebbe mirare a inculcargli la preferibilità-doverosità della “soluzione-suicidio”. Il prototipo dello sconfinato orgoglio individuale (anzi individualistico) – quale la critica lo ha concepito fin dalle primissime note di contemporanei –, il persuaso non sfugge al destino che un acuto aforisma del Cioran di Squartamento ha preannunciato a chiunque si ammali di obiettività, tramutandosi così, eo ipso, in un monstrum davanti a cui lo scrittore franco-rumeno arretra sgomento come cercando di scongiurare il contagio: 5. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1982, pp. 70-73, 82-85.

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l’obiettivo è minacciato di morte, è il più debole degli uomini, la sua intelligenza, che può spesso dimostrarsi smagliante per la finezza con cui coglie sfaccettature dell’animo altrui invisibili al diretto interessato stesso, gli si rovescia addosso come una pietra sepolcrale6. Ma l’uomo della fluidità che mostra di volere abbattere le barriere interposte fra soggetto e soggetto anche quando si abbandona a lunghi, ricchi exploits discorsivo-dialettici, fa tutto ciò essenzialmente per paura. Come l’ossessivo, immerso nella rete ultracomplessa delle proprie piste linguistico-mentali, pare dimenticarsi che il tempo scorra e lo trascini con sé (naturalmente) verso la morte, così il persuaso manifesta uno sprezzo assoluto per la dimensione temporale ordinaria che, per scandite e faticose mediazioni, conduce da un punto determinato ad uno ulteriore. Ad entrambi compete la “folle” e grandiosa aristocrazia di credersi e volersi immortali attraverso il pagamento di un pedaggio tutto speciale: in odio alla morte, incapaci di tollerarne anche solo il pensiero, moriranno preventivamentepremeditatamente e quella che potrebbe sembrare un’anticipata sconfitta varrà come la più straordinaria delle vittorie. Qui verranno in soccorso due riferimenti, il primo dei quali, in quanto tratto dalla pratica clinica, non per questo rivendicherà un potere di verità superiore rispetto al secondo che, di estrazione libresca, ci viene incontro da una pagina di Minima moralia. Intanto, va confermato che l’uomo della fluidità, anche nella versione in cui si presenta come l’ossessivo, è ricettacolo dell’assoluta, perfetta serietà; quindi non gli parranno affatto serie le cesure temporali, gli sbalzi d’assetto identitario come quello che lo conduce dall’infanzia alla pubertà e da cui potranno sovente originarsi i suoi sintomi. Secondo una specialissima accezione, qui serietà è il blocco monocromatico dell’as6. E. M. Cioran, Squartamento, trad. it. di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano 1981, p. 108.

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soluta identità e della perfetta, indifferenziata continuità. Già sappiamo che il secondo grande, devastante cruccio dell’eroe della fluidità, oltre a quello di essere soggetto distinto da tutti gli altri, è quello di dover morire: non importa se a quattro anni, quando pretende con straziante capriccio la restitutio in integrum di un oggetto che si sia frantumato, oppure a undicidodici, quando si blocca come di fronte all’inaccettabile dinanzi all’inaspettato avvio della propria attività sessuale (ecco il caso desunto dalla pratica clinica), egli presente il passaggio, lo scorrimento, e, per lui, il passaggio e il movimento stricto sensu sono solamente verso la morte. Michelstaedter aveva in gran dispitto ogni gradualità, ogni limacciosità così caratteristicamente umana della ricerca; egli era l’uomo dell’immediatezza che ottiene ogni cosa in un sol colpo, senza fatica, nel nunc stans mistico che abroga la “miserevole” dimensione temporale. Su di lui, per lui, in sua difesa e quasi in suo onore si direbbe che Adorno abbia scritto Pianta di serra, l’aforisma 101 di Minima moralia; stupendamente tratteggiata vi si ritrova la parabola del primo della classe, del precoce che capisce e “vede” già tutto nell’anticipazione in virtù di risorse immaginative tanto strabilianti quanto lancinante sarà poi il dolore che gli costerà venire di fatto a contatto e confronto con cose e persone7. Ma Adorno avrebbe potuto e, forse, dovuto dire qualcosa di più decisivo a proposito di questo tipo umano, nei cui lineamenti è inscritta la temperie fondamentale di tutto un filone intellettuale: l’uomo dall’intelligenza immediatistica è anche l’uomo perennemente annoiato dalle manifestazioni della terrestrità che gli si offrono. Egli si colloca agli antipodi del sentire ingenuo del meravigliato che riceve fino ab initio i complimenti e gli incoraggiamenti dell’Aristotele che va in cerca del sentimento genetico della spinta a filosofare: più di tutto lo annoieranno i “contenuti”, di 7. Th.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1979, pp. 189-190.

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cui non tarderà a scorgere come essi, nella sfera dell’umano, si raggrumino in un novero dall’umiliante limitatezza, e semmai solamente la “forma” calamiterà un quid della sua attenzione e della sua residua capacità di sorprendersi. Prodigio di questa inversione della giusta, ordinata e “progressiva” gerarchia di interessi, si staglia La persuasione e la rettorica, che tematizza solo presuntamente e di fatto quasi sprezzantemente elude le due nozioni presenti nel titolo e mutuate da Platone e da Aristotele, che utilizza con illimitata e – di nuovo – quasi irriverente libertà il materiale di citazione8, che dichiara ad ogni occasione il proprio risentito disinteresse per qualsiasi esercitazione “culturale”9; e anche al lettore di questo testo resta in mente, non meno ed anzi in modo forse più scioccante degli assunti, l’ordito fitto, tesissimo e drammaticamente sconnesso di una scrittura intervallata fino all’ossessione da quei trattini di sospensione e frattura del periodo il cui abuso non è sfuggito ai più attenti commentatori. A questo preciso punto dev’essere discussa l’antinomia forse più appariscente della feconda provocazione michelstaedteriana. Da una parte, l’afflato del testo è tutto governato dall’insofferenza per la mortuaria segmentazione dei campi d’azione culturale ed extra-culturale in disiecta membra, dall’accanita avversione per la piega che andava assumendo l’universo della parcellarizzazione totale, della specializzazione spinta fino all’ottundimento del potenziale vitale-operativo del soggetto10, ormai condannato, come Nietzsche aveva infallibilmente annotato nello Zarathustra, a fungere da semplice prolungamentoappendice di un suo singolo organo, alla stregua dei memorabili “uomini del grande orecchio”11. Ma, d’altra parte, Michelsta8. C. Michelstaedter, op. cit., p. 63, nota; assolutamente sintomatica di questa irriverente libertà e di questo annoiato disinteresse per i “contenuti”. 9. Ivi, p. 130. 10. Ivi, pp. 156-159. 11. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montinari, Adelphi,

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edter non può costituzionalmente stare al gioco dei fenomeni della mondanità, la sua aspirazione alla libertà assolutamente indivisa non si concilia in alcun modo con la coazione, cui soggiace destinalmente l’uomo, a rispettare le “strutture” dell’azione. Così dal suo libro spira per certi versi l’aere della morte, in singolarissimo contrasto con le pagine in cui Michelstaedter, il grande nuotatore che si è sempre preoccupato di conservarsi in forma fisica inappuntabile e anche per questo veniva venerato da un manipolo di amici fidatissimi come un semidio, tesse sperticati elogi della vita all’aria aperta in diretto, temerario contatto con gli elementi naturali12. Ancora una volta, l’assoluta intensificazione del sé si risolve e capovolge nella sua liquidazione; e in definitiva non è impossibile raccordare la testimonianza di Michelstaedter a quella dei maestri-profeti del noioso, del monotono, dello statico, e farne un annunciatore del regno della post-storia di cui, ancora in Squartamento, parla Cioran, descrivendolo come lo stadio di definitivo toglimento di qualsiasi nisus verso l’azione e la costruzione, e di addirittura persecutoria derisione di chi s’azzardi a violare il meraviglioso imperativo dell’ozio mettendo mano all’inammissibile esercizio di edificare un sistema filosofico13. Al regno dell’ozio e allo status dell’inazione allude anche la parte Verso il Regno Millenario di L’uomo senza qualità. Qui la strategia della fluidità, come momento della compenetrazioneidentificazione dei soggetti distinti, e lo sbocco nello stadio di deposizione d’ogni conatus, che Musil chiama significativamente “la condizione” per sottolineare come esso non solo abbia la qualità di permanere ma sia letteralmente la permanenza, si mostrano indissolubili. La strategia della fluidità è in azione Milano 1968 e 1976, vol. I, pp. 168-169 (Parte seconda, Della redenzione). 12. Cfr. A. Piromalli, Michelstaedter, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 12, 13, 17, 19. 13. E. M. Cioran, op. cit., pp. 79-80.

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in modo tanto profondo e pervasivo nel racconto delle intersezioni e degli sfioramenti più o meno ravvicinati tra i fratelli Ulrich e Agathe, che si direbbe lecita la decisione di porre tutto il testo sotto l’epigrafe del mito dell’androgino rotolante come una perfetta sfera cui si riferisce il racconto aristofanesco nel Simposio. Che si voglia, dall’“alto” del disincanto novecentesco, dare più o meno peso all’elemento “giudiziario” del mito, secondo cui il distacco delle due metà originariamente coessenziali sarebbe avvenuto per effetto di una sanzione punitiva stabilita da divinità messe in allarme dalla strapotenza degli androgini, resta comunque il dato per cui l’esistenza nella divisione, la sorte di aderire ininterrottamente non ad un altro bensì a se stesso, l’incatenamento allo stato di continuo colloquio solo e sempre con se stesso (con la propria “coscienza”), tutto questo porta, fin dall’alba della grande riflessione greca, il marchio della condanna e della maledizione. Per strategia difensiva contro la desolazione della paura, Ulrich e Agathe “giocano” nel libro al vicendevole ricongiungimento, dal momento in cui si imbattono l’uno nell’altra per i saloni della casa paterna e il comune mascheramento da Pierrot non vela l’occhio di Ulrich che già individua inquietanti-felicissimi punti di somiglianza con la sorella14, fino a quando la prosa di Musil suggerisce confusamente e di sbieco (come doveva essere) l’atto dell’incesto15. Ma Verso il Regno Millenario si pone sotto l’insegna della fluidità anche indipendentemente dal denso, reciproco corrispondersi di sentimenti e di percezioni subliminali fra i due fratelli: fin dalle prime pagine, Ulrich ci appare in immersione totale, in perfetta con-fusione con luoghi e persone della città in cui 14. R. Musil, L’uomo senza qualità, trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1982, vol. II, pp. 653-654 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 1. La sorella dimenticata e 2. Confidenza]. 15. Ivi, pp. 736 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 12. Dialoghi sacri. Alterne vicende], 1043-1045 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 45. Incomincia una serie di strane e meravigliose vicende].

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si svolgerà il funerale del padre, per le cui vie passeggia nella dissolvenza pressoché assoluta degli schemi di riconoscimento autoidentitario16. A un autore della penetrazione di Musil non poteva sfuggire ciò che sarebbe, in tempi pressoché identici, apparso indiscutibile a Benjamin: la città, ancor più la metropoli, è luogo elettivo di fluidificazione delle individualità, può arrecare quello spaesamento, insieme inebriante e turbativo, che deriva dallo spostamento, dalla relativa “eccentricità” del perno identitario. In Musil è, per così dire, istruttivo rilevare come, quando aleggia la fluidità, le si congiunga necessariamente la pax di uno stadio di medietas, se non addirittura di de-pressione, della praxis. Tanto per cominciare, gli interpreti hanno evidenziato troppo di rado e troppo incidentalmente che il carattere della sorella si presenta fin dalla prima apparizione e si conferma fino al conclusivo vagheggiamento del suicidio come quello dello snervato, dell’esangue che sta agli antipodi rispetto all’affermatività dell’uomo che impone la propria volontà battendo il pugno sul tavolo17; nemmeno il suicidio, per come viene preso “distrattamente” in considerazione da Agathe e per come (soprattutto) non viene neppure tentato realmente, è frutto di una determinazione forte seppur temporanea e quindi non si presta ad alcuna retorizzazione. Ma evidenza inoppugnabile sarà l’insistenza di Ulrich sul concetto di condizione, ovvero di uno stato per la cui impervia descrizione non si vergogna di ricorrere alle immagini catechistiche di conversatio fra spiriti ultraterreni e che gli pare tuttavia di avere forse già vissuto nella del tutto platonica avventura «con la moglie d’un maggiore», 16. Ivi, pp. 699-700 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 8. Famiglia in due], 729 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 12. Dialoghi sacri. Alterne vicende]. 17. Ivi, pp. 825-837 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 21. Getta nel fuoco tutto ciò che possiedi, anche le scarpe].

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giocata in una sospirosa “distanza”, in una infruttuosa e inutile lontananza18. Ulrich che, almeno in questa singolarissima evenienza, ha fatto esperienza di blocco e di sterilità, rifletterà perciò in modo non del tutto sorprendente, nell’ultimissimo e incompiuto capitolo dell’opera, sulla diretta opposizione fra un’inflessione del “sentire” occidentale-faustiana sfociante in azione e una sua modalità non appetitiva che arriva persino a venir definita, per una semplificazione quanto mai rivelatrice, «asiatica» od «orientale»19. Non c’è dubbio che la contrapposizione fra i due côtés assuma in Musil, come testimoniano e chiariscono ulteriormente i suoi scritti di taglio saggistico, una valenza tale da instaurare l’alternativa fra il comportamento «razioide» e quell’atteggiamento «non-razioide» che spia e coglie al volo le faglie che inevitabilmente si aprono nella massività della realtà-blocco ed è quindi amico e produttore delle corréspondances più sorprendenti, delle associazioni che, ponendosi sotto l’insegna del possibile, scardinano la pretesa dell’effettualità, “desiderosa” di proporsi come l’unica formaassetto che le cose possano ricevere. Tuttavia quel “fantasioso” che si nasconde, come ne fosse tutelato nella sua rara e preziosa integrità, sotto il titolo di «orientale» è anche, per un passaggio naturale, l’in-attivo che, su di una strada di montagna, vede snodarsi il passaggio di un armento e in quel preciso momento, come avverte Musil nel singolare ed illuminante exemplum, concepisce l’idea-folgorazione di vedere e intendere la realtà nel suo complesso sotto una luce del tutto diversa, che non ci si sbaglierà a identificare con la luce irradiata da oggetti, animali e persone quando e qualora, come direbbe Heidegger, sia18. Ivi, pp. 776 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 15. Il testamento], 847 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 22. Dalla monografia di Koniatowski sul teorema di Danielli al peccato originale. Dal peccato originale al dilemma sentimentale della sorella]. 19. Ivi, pp. 1087-1091 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 52. Respiri di un giorno d’estate].

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no “lasciati essere” e galleggino perciò nell’aura del gratuito e dell’estetico-formale20. La sospensione del tempo è complemento quasi ovvio di un quadro di tali caratteristiche: e infatti, anche se l’irruzione dell’eterno nella temporalità ordinaria e il miracolo del fondersi delle tre dimensioni cronologiche in un solo attimo di indicibile presente sono temi che in L’uomo senza qualità ricevono un dispiegamento molto meno capillare di quello che tocca loro nella tesi di laurea di Michelstaedter, non sarebbe comunque lecito sottovalutare lo sforzo di dire l’inesprimibile che governa numerosi passi del romanzo, e in particolare le ultime o ultimissime pagine, riservate all’“impossibile” tentativo di Agathe di raggiungere una tale acme di concentrazione-ripiegamento su di sé (sul vuoto invaso dell’ipseità, avrebbe commentato Schopenhauer) da far sparire le determinazioni-mediazioni di tempo e di spazio fra sé e il fratello nell’atmosfera incantata del giardino in cui s’intrecciano i loro lenti, avvolgenti conversari21. L’androgino, l’immagine antica (platonica) della completezza e della totalità, era aggressivo, lanciava sfide contro le divinità: tutt’al contrario, le figure di totalità-oggettività o, come si è a più riprese preferito dire, di fluidità rintracciate nel testo di due grandi novecenteschi quali Michelstaedter e Musil si accompagnano immancabilmente a nozioni di deflessione se non addirittura di accantonamento del nisus. Così, l’unica immagine di totalità che, nella contemporaneità, sia solidale con la determinazione tipica di quella classica resta il sistema, che però, per un gioco di chiasmi in qualche modo appassionante, diffida dell’esperienza, come si è ricordato di passaggio, non meno di quanto ne sia nemico il “luogo” di vero e proprio 20. Ivi, pp. 737-738, 742-743 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 12. Dialoghi sacri. Alterne vicende]. 21. Ivi, pp. 1085-1086 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 52. Respiri di un giorno d’estate].

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sprofondamento-estinzione dell’esperienza, ossia appunto la fluidità, che, come aggruppamento totalizzante dei soggetti, si colloca al polo opposto rispetto al proprium del soggetto empirico individuale, che è naturalmente la sua capacità e vocazione di fare esperienza.

La cattiva fluidità Qualora non si abbandoni la traccia offerta da Musil nella sua opera più complessa, capiterà certamente di imbattersi in una sorta di resurrezione-riappropriazione di diritti da parte del soggetto che, memore della lezione husserliana, Adorno suole chiamare empirico-psicologico; ma prima ancora, L’uomo senza qualità fornirà spunti sufficienti a tematizzare, in tutta la sua sfingea contraddittorietà, un diverso “strato” della fluidità, che non sarà né eccessivo né banale ribattezzare della cattiva fluidità, nella misura in cui, mentre, come ogni strategia della fluidità, contribuisce a stemperare l’impatto col drammatico dell’individuazione e dell’isolamento, al tempo stesso umilia però il fenomeno individuale in una serialità che riaccende in grado intensificato il sinistro barbaglio del tragico. Almeno la categoria, mai come qui calzante, di serialità dovrebbe avere già insinuato il sospetto che si volesse parlare del giornalismo, come infatti è. A Musil, il perlustratore dei minimi segni di avvento della modernità, allo scrittore che in uno dei primi capitoli, sotto il velame onnipresente del sarcasmo, s’indigna che il mondo abbia preso a tributare la qualifica di «genialità» al cavallo vincitore di gran premi22, non poteva sfuggire che il giornalismo, suprema incarnazione dello “spiri22. Ivi, vol. I, p. 40 (Parte prima, Una specie d’introduzione, 13. Un geniale cavallo da corsa matura in Ulrich la convinzione di essere un uomo senza qualità).

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to del tempo”, è l’esercizio, ai limiti del demenziale, dell’accumulazione d’interminabili elenchi di nomi di cose e di uomini, tutti allineati nella squallida cordata dall’indefinita iterazione della magica congiunzione “e”, come ricorda una memorabile pagina di presa in giro dell’irrefrenabile “tic” professionale del giornalista più in voga nella Cacania, il consigliere Meseritscher23. L’analisi che, quasi senza parere, viene qui a disegnarsi dell’attività-tipo del giornalista tocca un vertice di acutezza quando insinua, con smagatezza non meno captante di quella di cui fa sfoggio Kraus anche e non solo in Detti e contraddetti, che sia ormai l’occhiuta presenza della stampa, l’instancabile andare e venire del giornalista a caricare un qualsiasi fatto della qualifica-smalto di “avvenimento” degno di venire ricordato e di passare “alle cronache”24: non a caso, Kraus ha formulato il dubbio malizioso che ormai la vita cartacea del giornale addirittura preceda e quasi, per partenogenesi, “crei” la effettiva Erlebnis, d’altronde resa pressoché irrintracciabile da questa inversione di sequenza logico-temporale fra riprodotto e riproduzione25. Ma, soprattutto, importa rilevare che il giornalismo allarga fino all’insopportabile il raggio di visuale aperto all’uomo, sottoponendolo all’estremo pericolo, dal momento che egli è l’essere la cui capacità di creare, parlare, scrivere e di concepire come dotato di senso il proprio ruolo dipende in modo diretto dalla possibilità che lo spettro delle conoscenze e della consapevolezza non si dilati al di là di un certo limite, di un vero e proprio livello di guardia. Persone, situazioni e cose, che piovono rapprese in notizie, dispacci ed immagini, restano coinvolte in 23. Ivi, vol. II, p. 982 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 37. Un confronto]. 24. Ivi, pp. 964-970 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 35. Sviluppo di un grande avvenimento. Il consigliere Meseritscher]. 25. Si veda l’articolo di C. Magris Allora il poeta vendica la natura, «Corriere della sera», 13 dicembre 1980, p. 3.

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un vorticare inarrestabile che disordina di continuo gli innumerevoli frammenti precipitati nel gorgo; ne risulta la quasi-risibilità del persistente vezzo giornalistico di scandire i materiali esposti in distinte sezioni, di tenere ferma l’intercapedine fra lo spazio del “politico”, dello “spettacolo”, dello “sportivo”, e via dicendo. In realtà il giornalismo, moderno leviatano, si propone ed impone come il luogo di avveramento della più assoluta fluidità: l’affastellamento mostruoso sopprime qualsiasi gerarchia d’importanza, cosicché tutto conta e ha diritto di venire registrato alla stessa stregua di tutto, la legge della perfetta, indiscriminata simultaneità fra gli incompatibili e gli inavvicinabili trionfa fino al punto di ingenerare un drammatico capogiro. Luogo di perdita di ogni centro e di infinita diaspora, il giornalismo incarna ed inscena la fluidità cattiva e sinistra in quanto psicologicamente insostenibile: nessuno può credere che alla propria presenza ed esperienza inerisca un qualunque rilievo mentre gli si fa sapere che, nel medesimo istante, se ne danno e se ne svolgono innumerevoli altre, cosicché il giornalismo, anziché tentare di portare in salvo e di “nobilitare” il fenomeno individuale attraverso i giochi pure tanto complessi e spesso contraddittori della “buona” fluidità, semplicemente lo umilia e lo confina nella zona dell’autocancellazione, della volgare rinuncia a se stesso, dell’informe oblio di sé. Così, è lecito sostenere che il giornalismo, a distanza di qualche decennio, oppone una risposta avvilente e in qualche modo smantellante al problema, che era quello del “primo” Lukács, della modellazione assolutamente paradigmatica, grandiosa fino al possibile esito dell’isolamento tragico, dell’esperienza individuale; e come ai personaggi lukacsiani dell’assoluta elevazione individuale competeva la sigla di un irriducibile “stacco” aristocratico, così il giornalismo si offre allo sguardo analitico come macchiato dalla nota di una perdita di gusto, di un calo di stile che non è certo passato inosservato agli occhi di un saggista attento e versatile qual è Magris.

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Di Magris torna anzi spontaneo approfondire il prezioso spunto lasciato cadere nel corso di una conferenza milanese, allorché veniva detto che il massimo exemplum dell’umanità sfigurata e, appunto, quasi liquidata dall’imperium della massificazione totale, quindi dall’universale penetrazione-trionfo del giornalismo, sarebbe da ricercare nel Nashville di Altman, che qui apparirà inequivocabilmente come raggelante affresco della cattiva fluidità. Il regista vi fa muovere e dimenare per più di due ore un’umanità che vive nello scollamento ormai insanabile fra sé e la propria ultra-frammentata esperienza, squassata da un desiderio, sordamente avvertito, di diversione totale rispetto al proprium umano della meditazione consapevole sul senso della propria presenza. Ma in questo film, che ha il coraggio di assottigliare fino all’estremo il divario fra rappresentazione e reale attivando una presa diretta non meno scioccante rispetto a quella propria del Cassavetes di Una moglie, il sigillo dell’avvenuta perdizione dell’individuo viene da un accorgimento tecnico-costruttivo di straordinaria pregnanza: il sonoro del film si risolve e stempera in un ininterrotto, dequalificato brusio che non di rado preclude la possibilità di individuare quale precisa e particolare persona abbia, nell’indifferenziato tramestio, pronunciato una determinata battuta. La cattiva fluidità giunge a zittire l’individuo: nel suo alveo, non fa differenza di sorta che a vivere una certa esperienza e a distillarne il senso nell’intervento discorsivo-conversazionale sia questo piuttosto e invece di quello. Per chi poi conosca, dello stesso Altman, anche il conturbante Tre donne, non sarà sufficiente sottolineare che questo stilema della colloidale confusione dei linguaggi vi si trova confermato e, anzi, condotto fino alle estreme conseguenze; occorrerà anche segnalare che in questo secondo film, letto da non pochi critici secondo una chiave interpretativa retta da strumenti psicoanalitici, viene significativamente a re-incunearsi la scommessa utopica dell’avvicinamento degli individui fino all’identificazione perfetta, di

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cui è immagine l’inquietante indistinzione delle due gemelle che gettano una fredda, livida occhiata sulle acque della piscina del centro geriatrico già in una delle sequenze iniziali del racconto. Ma l’experimentum di un effettivo abbattimento delle frontiere interposte fra soggetto e soggetto investe direttamente due delle “tre donne” essenziali allo svolgimento, ossia la coppia costituita da Shelley Duvall e Sissy Spacek, la seconda delle quali, donna-ragazza dall’infantile e selvaggia struttura psicologica, vede il miraggio della realizzazione della propria persona tutto sostanziato nella chance di aderire, fino alla scopiazzatura del minimo gesto e della minima espressione, alla prima, amica-compagna di lavoro, erta a modello. Ma chi veda con quanto sarcasmo Altman sottolinei, scena dopo scena, come sia giunta a stagliarsi quale παράδειγμα un’individualità tanto dozzinale e inautentica qual è quella impersonata dalla Duvall, appiattitasi ad instancabile ripetitrice-riciclatrice delle convenzionali formulette diffuse dal battage pubblicitario, non faticherà ad accorgersi che uno dei problemi focali del film, anzi forse il suo tema-perno, è di nuovo il tracollo di stile esistenziale introdotto dall’affermazione planetaria del giornalismo, quando a quest’ultima nozione si voglia attribuire tutta la latitudine semantica che in effetti le compete. Nell’ambito della cattiva fluidità, sotto l’egida del giornalismo, il mito-progetto dell’omologazione dei soggetti diversi non è più consolatorio, non ha più la valenza di un salto di qualità verso la condizione originaria; allora l’individuo, che si sente minacciato di una fluidificazione che lo confina nella radicale insensatezza, assume su di sé il peso-paura della condizione in cui si trova gettato, rivendica il proprio diritto a non perdersi ed enfatizza la propria inalienabile distintività, che è quella di essere, contro ogni e qualsiasi figura della fluidità buona o cattiva, il solo polo di produzione-patimento dell’esperienza, di irradiazione sia pure magari ormai “ingenua” dell’intraprendenza, di accettazione-accoglimento dell’imprevedibile e del non-sistematizzabile.

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Riemersione del soggetto empirico: l’ironica pietas di Musil Si è già preavvisato che un più attento “passaggio” attraverso L’uomo senza qualità – e più particolarmente attraverso le sue prime due parti – avrebbe consegnato all’analisi materiali sufficienti a permettere di parlare di una riviviscenza del soggetto individuale. Contro questa opinione sarebbe fin troppo facile e immediato farsi forza dei punti del romanzo in cui, in un dettato formalmente asettico non troppo lontano dal timbro riepilogativo-tabulare proprio del manuale scientifico, la tenaglia di una dissezione fisiologico-naturalistica sminuzza fino agli effetti più stridenti la presunta, “sognata” compattezza e consistenza ontologica del soggetto singolo. Musil sembra avere chiaro come il soggetto risulti dall’assemblaggio di “funzioni” di cui lo scrutante occhio dell’analisi sa rapidamente evidenziare come esse, pur essendosi per così dire incontrate nel polo soggettivo, conservino di fatto la loro autonomia26. Resta così problematizzato, controvertito, addirittura rovesciato quel guadagno di stampo così cristallinamente umanistico che un autore dalla capacità spaziante di Walter Ullmann individua e localizza all’altezza del rivoluzionario XII secolo, quando, anche sotto la spinta di opere del prestigio dell’Etica abelardiana, decade come “superata” la concezione che voleva il soggetto tramato e intessuto di peculiarità etiche, virtù o vizi che fossero, componentisi a dare luogo al fenomeno-uomo, ma pur sempre agenti e del tutto legittimamente studiabili nella loro reciproca separatezza. Che si tratti di frammenti di montaggio di natura fisica o, secondo la freccia dei preminenti interessi medievali, etica, quel che conta è seguire la vicenda di affondamento e di riemersione in grande stile della concezione secondo cui al soggetto compete la fragilità-precarietà di una struttura che lo 26. R. Musil, op. cit., vol. I, p. 141 (Parte seconda, Le stesse cose ritornano, 39. Un uomo senza qualità è fatto di qualità senza l’uomo).

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ribassa quasi a polo fantasmatico, in quanto ne fa sic et simpliciter la risultante di componenti alle quali solamente è attribuibile il crisma dell’originarietà e un lignaggio ontologico. Ma se anche per Musil non c’è possibilità che l’analisi più attenta ed aggiornata addivenga ad una conclusione da cui il soggetto esca qualificato altrimenti che come una pura “apparenza”, non sono però poche né secondarie, nel suo capolavoro, le evidenze da cui si è indotti a ritenere che, per lui, esso sia almeno (e non è sfumatura trascurabile) “apparenza necessaria”. Almeno come tale il soggetto merita di essere tenuto ostinatamente fermo, ed anzi qualche screziatura di grandiosità inerirà alla sua coraggiosa persistenza. Proprio Musil sa, nitidamente come pochi altri, che baluardo e traccia di riconoscimento del soggetto resta, per così dire, la scia schiumosa e ricca, dunque irriducibilmente appariscente, che esso lascia attorno e dietro di sé: l’esperienza di cui è protagonista. Quando si ampli fino a questo punto lo sguardo su L’uomo senza qualità, si mostreranno nella loro straordinaria importanza quelle pagine del primo volume in cui l’autore pone nel giusto rilievo quanto raro, sempre più raro e sorprendente, sia diventato imbattersi in individui che programmino azioni anche per un immediato futuro, che facciano progetti, che si azzardino ancora ad esprimersi nei termini di frasi-assicurazioni quali “Farò questo o quello”27. Si deve disporre dell’adeguata forza teoretica per scorgere come qui non sia intavolata esclusivamente la questione, pur centralissima nel momento del primo grande dispiegamento dell’universo dell’immagine e della riproduzione in cui si trova a scrivere Musil, dei possibili margini di sopravvivenza dell’esperienza privata, la cui peculiare Stimmung cominciava a farsi elitaria, riservata a pochi “prìncipi dell’autenticità”. Più in profondità, qui è davvero tematizzata, con tutta la simpatia di 27. Ivi, p. 143 (Parte seconda, Le stesse cose ritornano, 39. Un uomo senza qualità è fatto di qualità senza l’uomo).

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cui poteva essere capace un autore emotivamente tanto sobrio come Musil, l’anti-figura di Michelstaedter o, se si preferisce, di quell’ossessivo la cui disamina ha animato le prime pagine di questo saggio: contro il risparmiatore oltranzistico di se stesso, contro l’uomo che vede un cedimento, un possibile slittamento verso la comunanza del destino umano e quindi verso la “dozzinalità” della morte, in ogni accondiscendenza ad agire e a “muoversi”, si mantiene il modello dell’individuo che osa ancora spendersi e affrontare lo spossante ordito delle manovre e dei giochi della mondanità. Come si è già osservato, l’esito naturale cui vanno incontro questi soggetti atti e volti alla “costruzione” potrà essere quello di passare per ingenui, perfino per ridicoli: lo sforzo, l’iniziativa potranno non salvarsi da una simile taccia a cospetto delle motivazioni o delle idiosincrasie iperintellettualizzate dell’“immobile”. E infatti, in Musil, l’ironia sferza di continuo le figure del nisus, quelle pletore di individui, specialmente di giovani entusiasti e infiammati da qualche lettura dernier cri meglio se di autori intrinsecamente “insoddisfatti” ed eversivi come Nietzsche, di cui ci viene riferito come, “stupidi” e testardi coadiutori dello Zeitgeist così profondamente trasformativo, perseguano palingenesi ad ogni piè sospinto, si facciano promotori e caldeggiatori di circoli, s’immergano nel vivo di appassionate discussioni sostenendo spesso tesi poco e male meditate, direttamente scaturenti dal “cuore”28. Ma non è pensabile che l’ironia solamente e impietosamente sferzi, in un autore che, nel momento stesso in cui può annoverarsi fra gli smaliziati decostruttori del soggetto, scoperchia però anche il 28. Ivi, pp. 50-51 (Parte prima, Una specie d’introduzione, 15. Rivoluzione intellettuale); dove si legge una fenomenologia di questa “sovreccitazione” a sfondo pseudoculturale così felicemente pungente da assumere un valore paradigmatico tale da offuscare la circostanza che essa voglia ritrarre il preciso momento storico coincidente con la giovinezza di Ulrich e Walter.

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forziere della sua capacità di perlustrazione psicologica dei tipi e delle “coscienze” allineando, da Clarisse a Stumm von Bordwehr, tutta una variegatissima galleria di profili. L’ironia, in realtà, sferza e protegge, umilia e capisce-perdona fino nell’intimo: a ben vedere, ci si chiede quale organo stilistico, che non sia e non debba necessariamente essere l’ironia, possa ad un tempo circuire, vezzeggiare, affondare ed estollere i paladini dell’incredibile, i cultori-conservatori dell’ingenuo, i campioni del sorpassato, coloro che, crisalidi inapparenti ma fino all’ultimo insostituibili, si scuotono sotto il giogo di evidenze tutte loro nemiche. Per dirla in termini generalissimi e volutamente indeterminati, l’ironia è, nella grande letteratura novecentesca, lo strumento stilistico che tratta il dramma raggelandolo, obiettivandolo fino a rasentare l’esito estremo di disperderlo; se così non fosse, se il dramma non fosse, almeno stando alla prima apparenza, trattato da un’arma così disseccatamente apassionale da esserne quasi “tolto”, Barilli non avrebbe mai potuto scrivere un libro intitolato nientemeno che Comicità di Kafka. Ma registri diversi d’ironia devono essere tenuti distinti in modo da riconoscere a ciascuno la specificità che lo informa e che ne costituisce l’effettivo interesse. Ad esempio, quantunque non ci sia ironia di grande autore che non condivida qualche determinazione con quella di ciascun altro e una circolazione di comuni umori epocali garantisca una precisa tavola di affinità, sarebbe imperdonabilmente approssimativo porre su un piano d’identità l’ironia di Musil e quella di Moravia, in particolare del Moravia degli ultimi anni, che scriveva di tanto in tanto racconti per la terza pagina del «Corriere della Sera». Dalle sue pagine filtra, inconfondibile, quella che potrebbe ribattezzarsi l’ironia punitiva, nella misura in cui, in queste storie di devianti e para-fallimentari rapporti di coppia, essa immancabilmente sferza il “lui” di turno. Più precisamente, in Moravia agisce un’ironia a doppio strato: prima ancora di appuntarsi contro il

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protagonista maschile, essa naturalmente assolve al compito di sconsigliare e reprimere qualunque stupore di fronte alle eventuali stramberie e alle bizzarre combinazioni che la storia ha in serbo, implicitamente ribadendo che fatti, situazioni, gesti e atteggiamenti mentali-sentimentali che hanno l’impronta dello straniante, se non dell’inconcepibile, agli occhi della borghesia avvezzi all’ipocrisia dello scandalo possono invece venir esposti nella forma del “resoconto” qualora nei loro confronti si sappia assumere una visuale ben diversamente oggettiva. Ma, poi e soprattutto, l’ironia riprende qualcosa da certo teatro di Pinter, dal momento che, senza eccezioni, “denuda” il maschio come il soggetto arretrato rispetto all’evoluzione dei costumi, condannato a quella che, in questo mondo di gesti vogliosi di scardinare la tradizione, pare configurarsi come la massima colpa di disadattamento, appunto lo stupore. Non sfugge che fare del soggetto maschile l’impacciato, il poco ricettivo, il perennemente goffo di fronte a svolgimenti di cui egli non riesce a cogliere il senso, significa solo secondariamente condividere qualcosa della provocazione alla Marco Ferreri secondo cui “il futuro è donna” e nell’universo femminile sarebbe individuabile, per nemesi contro la tradizione della grande filosofia che ha troppo spesso equiparato il λόγος femminile a quello dei fanciulli e degli idioti, un potenziale di freschezza e, si vorrebbe dire, di “svegliezza” che i maschi sarebbero ben lontani dal poter mettere a disposizione della ri-costruzione del mondo. In primo luogo, questa ironia ha per bersaglio fisso il soggetto maschile in quanto ricettacolo dell’orgoglio e della dignità, se non addirittura, come s’azzardava a sostenere Weininger, depositario esclusivo dell’unitarietà e continuità di coscienza; siccome esiste tutta una ben riconoscibile spina dorsale della speculazione occidentale per cui il soggetto maschile è tout court il soggetto, Moravia, lettore e a suo modo discepolo di Freud, sa bene in quale direzione rivolgere i propri strali allo scopo di dimostrarsi solidale con quella strategia di de-costruzione

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del soggetto, o perlomeno della sua presuntivamente traslucida iattanza, che allaccia visibilmente le più avvertite e aggiornate testimonianze filosofico-letterarie novecentesche. Se ironie come quella moraviana seguono una strategia decostruttiva, l’ironia di Musil, se studiata e compresa nella complessità delle sue risonanze, finisce per imporsi come ricostruttiva, almeno ricostruttiva di quella determinazione privilegiata del soggetto, tutt’altro che obsoleta e da “buttarsi”, per cui esso, ed esso unicamente, fa esperienza. Tutto apparirà più limpido se si farà caso al fatto che, in Musil, l’ironia medesima è trames, veicolo, motore e, addirittura, agente di esperienza. Se si guarda al dettato di L’uomo senza qualità, dove una pausa ragionativa s’alterna ad una “zoomata” visionaria che può trasferire l’accento della scrittura su di una pietra preziosa o su di un muso di cane inopinatamente irrompente come termine di un “ir-ragionevole” paragone; se si prende nella dovuta considerazione lo squarcio narrativo dedicato allo stucchevole professor Lindner, che concepisce ogni atto esterno (magari l’accurata abluzione giornaliera) come adempimento-concretizzazione di un precetto teorico-sapienziale (magari quello che vincola l’individuo alla pulizia “morale”)29; ci si rende conto di come i punti nevralgici dell’opera siano attraversati dalla tensione di una continua, “ironica” dialettica fra interno ed esterno, astratto e concreto, filosofico (o almeno suscettibile di filosofizzazione) e adiscorsivo, non-logotetico. E per il volonteroso lettore liceale o universitario che, il più delle volte avvertito dal compagno di conversazione culturale di quanto sia utile leggere un romanzo dall’intelaiatura filosofica tanto insolitamente solida per un’opera che non porti la firma di un pensatore “professionista”, aggredisce L’uomo senza qualità aspettandosi un romanzo filosofico, la più grande delle sor29. Ivi, vol. II, pp. 1012-1016 [Parte terza, Verso il Regno Millenario (I criminali), 40. L’uomo dabbene].

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prese sarà quella di accorgersi, se saprà accorgersene, di come l’opera sia strutturalmente, intrinsecamente amica dell’esterno contro l’interno, del cosale contro lo spirituale, del particolare contro l’universale. Se il linguaggio filosofico si occupa della vita rapprendendola e coagulandone i centri negli stampi, nelle formelle della concettualizzazione, se esso per questo motivo sembra ambire alla qualifica di linguaggio della totalità riepilogante e onniesplicativa, esattamente per questo cumulo di sue peculiarità Musil lo avversa, lo irride, lo detesta, lo trova tombalmente irrigidente e immobilizzante. A proposito della bivalenza dell’ironia che, come si è inizialmente osservato, non si limita a sferzare ma spesso si avvicina a celebrare i soggetti del nisus, il caso di più clamorosa applicazione di questa regola lo offre il ritratto del benpensante, bacchettone Lindner. Quello che potrebbe parere semplicemente un “doppio” dello spento conformista Hagauer viene invece scelto da Musil perché nel suo ritratto sia inscritta la crittografia del decisivo gioco opposizionale di interno ed esterno: mai come qui è “salvata” la “stupidità” di quest’uomo che organizza l’esistenza quotidiana secondo un codice rituale di atti e gesti con-in ciascuno dei quali intende concretizzare un senso “superiore”, un contenuto concettuale-spirituale. Nel suo destino di ripetitore di azioni incluse nella sfera del pratico è ricordata la verità per cui l’elemento primario, l’Umwelt dell’individuo empirico non è mai il levigatissimo sproloquiosecrezione dell’infallibile intelligenza del filosofo che scrive ed elabora al riparo della propria chiusa stanza, ma la rete degli oggetti da muovere ed entro cui muoversi. In generale e in assoluto, Musil pensa molto meno di quel che “veda”, ragiona molto meno sovente di quanto associ e agiti frammenti di immagini come in un magico shaker; così non è certo la più peregrina delle idee quella di leggere L’uomo senza qualità come una monumentale parodia della filosofia, nei confronti della quale l’ironia è davvero soltanto e rigorosamen-

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te punitiva, non tanto per motivazioni di ordine etico, quali denuncia un passo pur notevolissimo nel quale si dice che i filosofi sono i violenti che assoggettano uomini e cose con i sistemi invece che con gli eserciti30, quanto piuttosto per ragioni di spessore teoretico, poiché la filosofia pare presentarsi come il luogo di più netto allontanamento dall’originario, come la più grave distorsione-contraddizione dell’imperativo di “andare alle cose stesse”.

30. Ivi, vol. I, p. 243 (Parte seconda, Le stesse cose ritornano, 62. Anche la terra, ma specialmente Ulrich, s’inchina all’utopia del «saggismo»).

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Giochi di oscillazione

Il salvifico dissolversi dell’«eroe rosso» in Bloch La riflessione a proposito della morte come suprema e apparentemente irriducibile anti-utopia, cui Bloch non può e non vuole sottrarsi e che rende massimamente esplicita nel suo monumentale Il principio speranza, porta con sé la nota di uno spasmo autointerrogativo molto vicino ad una autentica sofferenza teoretico-esistenziale di fronte all’occlusione di sbocchi, non si dice per la soluzione, ma forse anche solo per un non banale adombramento di soluzione. Bodei e Vattimo registrano questo doloroso ondeggiare del pensiero alla ricerca di un ubi consistam senza indulgere affatto al facile gesto censorio dell’interprete quasi inorgoglito di aver potuto additare un punto di smottamento di un articolato edificio speculativo, abbastanza grave da travolgere con sé tutto il resto. La registrazione di questi “tentennamenti” inclusa da Bodei nella sua Introduzione all’edizione italiana di SoggettoOggetto, così come quella offerta da Vattimo nell’articolo pubblicato su «Il Verri» a proposito della “superstite” rilevanza attuale del marxismo utopistico, non cedono a una tale, ricor-

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rente tentazione per un paio di motivi: da un lato, una personalità speculativa dello spicco di Bloch è lontana dal meritare la mezza canzonatura rivoltagli da chi lo attendesse malevolmente al varco e, dall’altro, poca forza inerirebbe al procedimento critico di chi pretendesse di gettare, a partire dall’individuazione di una giuntura scricchiolante, una luce globalmente oscurante sul “corpo” del testo filosofico di un autore come Bloch. Infatti Bloch, sebbene non sia annoverabile fra i contemporanei che abbiano teorizzato il carattere esigenziale della dissoluzione della “forma-sistema” ed anzi proprio nel Principio speranza compagini i materiali con senso architettonico appena meno vigile rispetto a quello che governerà la struttura del quasi-sistematico Experimentum mundi, non intende però certo proporre opere dal profilo complessivo “chiuso” quali l’Enciclopedia hegeliana o l’Etica spinoziana. Tuttavia, al di là di queste motivazioni, si direbbe plausibile che ai due studiosi italiani sia parso meritorio e, in certo modo, serio che il periplo descritto dalla preoccupazione di esorcizzare la morte non abbia toccato una sponda risaputa, ossia l’argomento che, rimbalzando abbastanza “tranquillamente” da Hegel a Sartre, disloca la morte sul piano del necessario-essenziale o del definitivo-definitorio. Secondo questo argomento, la morte renderebbe “finalmente” possibile sollevare il groviglio cangiante del fenomeno-vita al di sopra dell’accidentalità che ne inficia di continuo il dipanarsi, oppure offrirlo ad uno sguardo che, se non potrà essere mai più quello di chi è scomparso, avrà in compenso il vantaggio di contemplarlo dall’angolazione privilegiata di un maggiore distanziamento, per tacere poi del fatto che questo meno coinvolto guardare si potrà posare su di un totum concluso invece che su di una pars ancora guizzante in avanti nell’autoprogetto della “trascendenza orizzontale” cara all’esistenzialismo laico/ateo. Non colpisce tanto, qui, il configurarsi dell’occasione per rimproverare a Sartre, il nemico di ogni ipostasi e in particolare di quella di una presunta

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natura umana “infusa”, di essere incorso nella contraddizione di ipostatizzare-marmorizzare la vita come possibile oggetto di più definite sentenze a partire dal momento in cui la morte la consegna allo sguardo degli Altri, quanto piuttosto la irritante, “in-umana, troppo in-umana” scioltezza con cui la grande speculazione seguita imperterrita a secernere levigati filosofemi, sostenuti dal medesimo arsenale categoriale atto a fare presa su meno abissali questioni, anche quando deve imbattersi nell’enigma-morte. Non occorre fare professione di esasperata ortodossia esistenzialistico-kierkegaardiana né dimenticarsi ad arte di tutte le buone ragioni accumulate dalla critica allo statuto ontologico del soggetto, per avvertire, in virtù di una “emozione” così perentoria da trascolorare in esigenza teorica, come, di fronte alla morte, debba venire attivato un diverso, più (nietzscheanamente) passionale registro di pensiero. In risentita polemica con tanta impassibilità intenta a confezionare l’ennesima agudeza dialettico-deduttiva a cospetto del casus della polverizzazione della vita individuale, viene fatto di spendere ben poca simpatia anche per l’“oggettività” scientifica con cui Freud, in una lettera a Rachel Berdach, semi-toglie la terribilità del problema-morte temporalizzandone restrittivamente il potere di produrre inquietudine all’altezza (principalmente/ soltanto) dell’età giovanile1. Piuttosto, ci si sente singolarmente vicini alla mezza maledizione, così poco imbevuta di amor fati, scagliata dal pensatore dell’amor fati che, nello Zarathustra, ammette quanta iracondia accenderebbe in lui la “possibilità reale” che esistano dei immortali superiori a lui, escluso dalla divinità e dall’immortalità2. Che il periplo descritto dalla tesa riflessione di Bloch non ap1. S. Freud, Lettere 1873-1939, a cura di E. L. Freud, trad. it. di M. Montinari, Boringhieri, Torino 1960, p. 420. 2. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968 e 1976, vol. I, p. 101 (Parte seconda, Sulle isole Beate).

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prodi a zone di “splendida” ma plastificata ricomposizione filosofica del problema, non esclude tuttavia che esso paghi, alla sua prima tappa, un prezzo ad un’ovvietà tanto convenzionale da allinearsi con le più scontate assunzioni del senso comune e, alla seconda, lo scotto di una troppo meccanica applicazione alla questione-morte di uno stampo concettuale consustanziale al pensiero dell’“utopia concreta” e non di rado chiamato in aiuto alla stregua di un deus ex machina che tolga le castagne dal fuoco. Si vuole dire che, in prima istanza, Bloch ritiene di poter sfoderare l’argomento per cui non è escluso che le «migliori intenzioni» e i «contenuti» del singolo individuo continuino, anche dopo la sua morte, a germinare nell’alveo di una Überlieferung sovrapersonale potenzialmente indefinita3. Se si vorrà salvare una simile fides dalla taccia di non valere più degli stereotipi autoconsolatori propri della coscienza comune, si dovrà ricorrere al rilievo che essa presenta affinità con quella dichiarata da Adorno allorché, incalzato dalle accuse di quegli allievi che al tempo della contestazione studentesca avevano dovuto prendere atto dell’illusorietà della prospettiva di farsene forti come di un compagno di battaglia, si era trincerato dietro l’etichetta di intellettuale squisitamente teorico ed aveva espresso, appunto, il caldo auspicio che ciò che da lui fosse stato «pensato bene» potesse trasmigrare in altre menti con cui sussistesse qualcosa di paragonabile ad una feconda “armonia prestabilita”4. Tuttavia, anche questo caso di apparente collimanza fra due luoghi di Bloch e di Adorno in realtà lumeggia istruttivamente, attraverso la discrepanza fra l’espressione «pensieri» e quella «intenzioni e contenuti» (dove i contenuti, nel contesto blochiano, 3. Cfr. l’Introduzione di R. Bodei a E. Bloch, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, trad. it. di R. Bodei, il Mulino, Bologna 1982, p. XXXV. 4. Cfr. M. Jimenez, Adorno: arte, ideologia e teoria dell’arte, trad. it. di R. Mangaroni, Cappelli, Bologna 1979, p. 29.

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sono eminentemente quelli prassistici dell’azione e della lotta; anche, determinatamente, della lotta di classe proletaria), come Bloch innesti la marcia del più rimbombante registro “ontologico” laddove Adorno sembra trattenersi sul piano di quello che, al confronto, si presenta alla stregua di un più guardingo parlare “sotto le righe” di stampo gnoseologico. E questa pura e semplice parvenza di collimanza si ripresenta abbastanza sovente anche circa temi di tanto rilievo da autorizzare a centrare un eventuale lavoro di confronto tra i due filosofi sulla ideafulcro che, soprattutto quando paiono dire il medesimo, essi sono in realtà divaricati dal contrasto fra una temperie che urge di continuo verso l’immediatezza, così attirandosi da parte del Rino Genovese di Dell’ideologia inconsapevole la censura di inscenare un’utopia troppo fiduciosa di sé e dunque “ostensivocontenutistica”5, e un’inclinazione a ritrarsi a riccio nel recinto delle mediazioni teoretiche, così disattendendo l’imperativo di assaporare il gusto asprigno dello «shock dell’aperto» a tutto vantaggio di un ossequio alle regole saldamente acquisite di una meno compromettente “esecuzione dialettica”. In ogni caso, non si potrà negare che la “banale” scommessa blochiana sembra intramarsi con il richiamo di Dilthey ad instaurare, anche lacerando le barriere spazio-temporali, cortocircuiti simpatetici con altri-da-sé. E questa parentela con lo spunto di Dilthey risulterà più convincente se si terrà conto dell’indicazione, adombrata da Bodei durante una conversazione televisiva, secondo cui a Dilthey non sarebbe solo premuto di promuovere un metodo, attagliato alle scienze dello spirito, che garantisse una comprensione, un’intima penetrazione “rivivente” i determinanti quadri ideativi e moventi comportamentali degli artefici della grande storia, bensì anche di additare, almeno implicitamente, la via di un’“uscita da sé” e 5. R. Genovese, Dell’ideologia inconsapevole. Studio attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno, Liguori, Napoli 1979, pp. 134-138.

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di un relativo superamento dei limiti in qualche modo meschini entro cui rimarrebbe cristallizzata l’esperienza di ciascuno qualora non accettasse di nutrirsi di quella di altri, quanto più possibile numerosi. Spingendosi oltre alla ricerca di una risposta di più solida armatura teorica, Bloch alza gli occhi verso la stella polare del suo pensiero, la quale consiste nella predilezione, già così fermamente manifestata nel giovanile Spirito dell’utopia, per le linee sfrangiate, indefinite e “aperte”. Il dire filosofico di Bloch resta speculativo nell’accezione ad un tempo più elementare e teoreticamente decisiva del termine, ovvero nella misura in cui si sforza di rispecchiare il travaglio di un mondo ritenuto per ora e chissà ancora per quanto in fieri, agitato e lentamente condotto a maturazione da una sua interna peculiare dialettica oltreché dalla leva tras-formativa della prassi umana. Ma un mondo che si propone come un laboratorium possibilis salutis ove esso ricerca se stesso, se corre senz’altro il rischio di inabissarsi – come Bloch è più incline a riconoscere nella fase finale della sua speculazione e in particolare nelle pagine conclusive di Experimentum mundi – nella tenebrosa desensizzazione decretata dal trionfo dell’Avversante, può però anche evolversi fino al punto di riservare la sorpresa di avverare la condizione, per il momento inconcepibile, della perfetta conciliazione, entro cui si inscriverebbe la revoca della condanna alla mortalità. Se il mondo come si dà adesso non è che una tranche, una fotografia dai tratti già e sempre sfocati e mobili scattata ad una delle innumerevoli configurazioni attraversate dal suo processo di complicatissima incubazione, si capisce che perda il suo “presunto” carattere di inallontanabile fatalità, tra l’altro, anche la morte6. L’onnipresenza, in Bloch, della 6. Cfr. G. Pirola, «In questo modo si compie l’antico detto di Epicuro...», in B. Schmidt – L. Boella – R. Bodei – G. Pirola – G.L. Brena, Ernst Bloch. L’oscurità dell’attimo vissuto, FrancoAngeli, Milano 1986; in particolare si vedano le pp. 119-126.

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pre-assunzione dell’esistenza di uno “sfumato leonardesco” che fa incessantemente vibrare i contorni delle presenti datità, facendone presagire e insieme azionandone la μετάβασις verso ulteriori e diversi assetti, interviene a colorare l’arrovellarsi filosofico sulla questione-morte di nuances che qualcuno potrebbe ritenere, non del tutto a torto, troppo facilmente ottimistiche. Tuttavia, a “difesa” di Bloch varrà la pena di notare che, in lui, la “possibilizzazione” dello stato di non-morte resta contemplata fin dall’inizio dalle coordinate di una mappa teorica che non perde valori di pregevole consistenza filosofica per il fatto di essere stata disegnata da una mano mossa da impulsi non poco immaginifico-visionari. Invece, molte pagine di Canetti (per esempio numerosi segmenti di La provincia dell’uomo) si accendono dell’annuncio di una senz’altro sopravvenuta condizione di non-morte, im-mediatamente “posta” dal traboccare di un veemente rancore che “fonda” l’eternità per l’uomo e riprende a ragionare a partire da questa incredibile acquisizione, trattata come la subentrata normalità con un gesto che associa il difetto di un’assenza di fondazione filosofica (o almeno utopico-filosofica) con il fascino della perentorietà di una passione che non si sogna neppure di battere in ritirata davanti alle più brevettate evidenze empiriche. Ma, oltre a ciò, si dovrà almeno riconoscere che altrove il serissimo gioco concettuale blochiano delle linee aperte e delle incompiutezze si innesta nel flusso del filosofare con esiti più felici. Così accade, ad esempio, dove Bloch tocca vertici di considerevole finezza argomentativa mettendo il suo “solito” stereotipo al servizio di un utile ridimensionamento della supponenza che gli alfieri delle cosiddette scienze esatte, a partire dalla “rivoluzione secentesca”, rivolgono agli incorreggibili anacronisticamente abbarbicati alla sfera “umanistica”, ossia di quella stessa supponenza contro cui pare appuntarsi l’infastidita perplessità del musiliano giovane Törless, che obietta al suo professore di matematica quanto sia frivolo vantarsi di ammini-

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strare il linguaggio rispecchiante la vera tassonomia ontologica dell’universo quando ad oliare gli ingranaggi di quel linguaggio e a consentirgli di parlare si rende così spesso indispensabile fare scendere nella mischia il numero immaginario, segno della voragine e dell’assenza, del convenzionalismo ultra-soggettivistico che si scioglie da ogni referente oggettivo nell’ansia di adeguare l’oggettività7. All’argomento apparentemente inattaccabile secondo cui il linguaggio varato da Galileo (liquidatore degli orpelli della valutazione qualitativa a favore dell’unilaterale impiego dei riscontri quantizzanti) relegherebbe tra le irriproponibili cianfrusaglie il discorso filosofico avendone realizzato il sogno di attingere la speculatività, come garantirebbe l’esibizione delle realizzazioni tecniche, Bloch oppone l’elevata probabilità che i matematici e i fisici della modernità abbiano avuto a che fare con un “ritaglio ellittico” di un ὅλον naturale di cui la “volta” non sarebbe ancora venuta ad epifania nella sua interezza. E Bloch non manca di ammonire come, di fronte al possibile futuro squadernamento di questa figura naturale a corpo intero, non basterebbe, al fine di disbrigarne la decifrazione, intestardirsi a maneggiare unicamente gli strumenti della Rationalisierung, ma si renderebbe necessario mettere a punto un multiversum ermeneutico abbastanza duttile da avvedersi di non potere attingere la lettura di ampi e numerosi settori di quella integra “cupola” se non riattivando una sapienza affine all’intus legere tutto qualitativo di un Angelo Silesius o di un von Baader8. Resta indiscutibile, ad ogni modo, che è il terzo “schizzo di risposta”, in cui si semi-acquieta la convulsione speculativa di Bloch davanti alla questione-morte, a rivendicare il più 7. R. Musil, I turbamenti del giovane Törless, trad. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1985, pp. 106-113. 8. E. Bloch, Marxismo e utopia, a cura di V. Marzocchi, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 164-165; inoltre cfr. l’Introduzione cit. di Bodei, pp. XXXI-XXXIV.

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alto tasso d’interesse, come sottolinea specialmente Vattimo. Infatti, l’idea di un possibile “potenziamento antropologico” che innalzi il soggetto fino ad un asintotico avvicinamento al paradigma dell’«eroe rosso» va utilmente al di là di una segnalazione della superiore fecondità di un operare teorico-pratico (criticamente) interno all’area socialista, ciò che non saprebbe intendere chi concentrasse ogni attenzione sull’aggettivo che costituisce la seconda metà di questa denotazione di lignaggio assai vicino a quello di una vera e propria categoria. Molto più senso si sprigionerà da quell’«eroe», che pure ci si dovrà guardare dall’archiviare come termine meramente evocativo di una figura cui fin troppo canonicamente compete il crisma dell’esemplarità dal punto di vista di un pensare segnato da una sciropposa vocazione moraleggiante o, per dirla più chiaramente passando al concreto, di uno Stato etico-educativo in cui proliferi la prassi della premiazione e del panegirico alla memoria. Piuttosto, dal centro terminologico-concettuale «eroe» si irradiano le direttrici di un “medaglione” filosofico ove sta visibilmente incisa la nozione del sacrificio, dunque della consapevole, spaventosa ma anche, in un certo qual senso, salvifica rinuncia a tenere stabilmente delineati i margini-limiti di sé, che il soggetto contrappone come argini alla mareggiata di quell’incalcolabilmente molteplice “altro” da cui l’eroe accetta invece di farsi pervadere. Certo, pare giustificata la sensazione che qui Bloch abbia eminentemente di mira la costruzione di un tipo categoriale in ultima analisi alludente alla formulazione più classica di quell’utopia della conciliazione cui è francamente fastidioso che egli si riferisca con un troppo copioso, opulento “stock” di “nomi”, pronti, per di più, a riversarsi talora come una gragnuola sulla pagina, così da instillare il sospetto che il profluvio voglia tappare la bocca a chiunque non creda che, sulla spinta delle controtendenze ottimistiche di lukacsiana memoria, la conciliazione sia alla fin fine a portata di mano molto più di quanto non si ostinino a ritenere i pensatori rela-

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tivistici, scetticheggianti, negativi o nichilistici. In una parola, il destino dell’«eroe rosso», il suo generoso dis-perdersi nella natura adombrerebbe l’exitus di una naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura, cui accennano anche (sebbene in un lessico di meno ortodossa osservanza marxiana) le formule che parlano di rimozione del cuneo interposto fra uomo e mondo, fra soggetto e oggetto. È merito di Vattimo non badare più del necessario al fatto che, con buona probabilità, l’entrata in gioco dell’«eroe rosso» sia appunto funzionale, nelle esplicite intenzioni di Bloch, a ravvivare di una nuova, originale sceneggiatura una delle numerose facce del prisma dell’utopia che, come si è detto, il filosofo nomina in molte e sostanzialmente coerenti (e perciò ridondanti) forme. A Vattimo non sembra un’indebita forzatura interpretativa di questo luogo blochiano suggerirne una parentela con quel presagio-auspicio del Benjamin di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica secondo cui sarebbe possibile e giovevole arrivare al punto in cui lo spettatore fruisca distrattamente e nella dis-tensione9. La scelta di Vattimo di lasciare intravvedere un tale collegamento impone di rivolgere un’occhiata di più attento controllo a quel “medaglione” al cui centro sta la sigla dell’«eroe rosso», così da riuscire a scorgere come vi si trovi incisa anche una supplementare nozione che può considerarsi addirittura, a sua volta, il “fuoco” di un diverso medaglione filosofico su cui si affollano testimonianze, provocazioni o sofferte predizioni teoriche pronunciate da alcune grandi voci filosofico-letterarie dell’Ottocento e, in particolare, del Novecento. Si tratta della nozione della deflessione dell’autocoscienza, della liberazione dall’instancabile esercizio di quella vigilanza “chiarente e distinguente” per il cui affinamento Spinoza e Cartesio scrivevano “manuali d’istruzioni” con una fiducia e un’ostinazione in 9. G. Vattimo, Origine e significato del marxismo utopistico (Materialismo e spirito dell’avanguardia), «Il Verri», n. 9, 1975, pp. 134-136.

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cui, due-trecento anni più tardi, ravvisano una screziatura di vera e propria malvagità gli intellettuali che hanno raggiunto la quasi-certezza di poter individuare, in quella inconfondibilmente umana e “nobile” facoltà, lo scrigno più intimo della sofferenza soggettiva e che esternano, in forme diversificate ma sostanzialmente omogenee, Sehnsucht per uno stato di vitalità non autoriflettente o addirittura di inanimata quiescenza. Un sondaggio volutamente rapsodico è in grado di raccogliere un plesso di spunti già sufficientemente probanti di autori di alto livello, anche se certo non può evitare di fare torto, tacendone il contributo, a qualche altro autore dai cui lavori traspaia un interessante sforzo di tematizzazione rivolto a questo Leitmotiv. Così, si può saltare dall’accorata “dichiarazione di invidia” per la condizione animale formulata dal Leopardi del Canto notturno, amaramente stupito di quale problematizzazione-smentita abbatta sull’orgoglio antropocentrico l’esenzione delle greggi da quel tormentoso risvolto della presenza a sé che è il pungolo incessantemente rinnovantesi della noia10, fino alla figura mitica, utopico-sperimentale ed anche extra-letterariamente esemplare-educativa dell’“idiota” che Dostoevskij intendeva proporre come modello di un’umanità trasvalutata, in cui cuore, passione ed istinto tornassero finalmente a soffiare a cervello e intelletto il ruolo di coordinamento dell’“organismo”-uomo. Solo un’inaccettabile disponibilità agli appiattimenti interpretativi potrebbe far affermare che abbiano detto la stessa cosa Dostoevskij, il quale voleva costringere alla ritirata il “tipo” dell’indistruttibile raziocinio ergendo a suo contraltare il “tipo” dell’assoluta bontà, e Freud, che nel carteggio scambiato nel 1932 con Einstein circa cause e possibili antidoti della guerra congelava l’afflato umanistico spirante dalle assennatis10. G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 105-132.

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sime osservazioni e proposte del grande fisico, inviandogli una risposta la cui parte finale rileva quale godimento potessero assaporare i «nostri progenitori» dando sfogo alle pulsioni di distruttività e alla connaturata inclinazione a “frequentare” lo sporco e il laidamente sanguinolento, ovvero scatenando liberamente quelle tendenze che la Bildung civile si sforza in ogni modo di farci reprimere come colpevoli e “schifose”, ben consapevole di incrementare le chances di scongiurare fenomeni come la guerra a misura che perfezioni questo lavoro di dolorosa riconversione-stravolgimento del naturale in culturale11. Non si fatica a scorgere come le posizioni del grande scrittore russo e del fondatore della psicanalisi siano tra loro tanto divaricate che, se il primo vuole arginare le pretese di una dilagante cerebralizzazione costruendo il modello del perfetto candore e della “santa” inoffensività, il secondo assume sì, seppur cautamente, a referente polemico un processo simile a quello avversato da Dostoevskij, ma gli contrappone i diritti della non-virtù, della non differita né sublimata soddisfazione delle pulsioni d’aggressività, insomma di una “cattiveria” conculcabile solo a patto di pagare un alto prezzo di infelicità. E tuttavia non è uno sterile escamotage il sottolineare che, sia pure in contesti assai arduamente ravvicinabili, entrambi rivolgono la punta di un’allarmata diffidenza contro una stessa evoluzione, che privilegia i “valori” dell’autocontrollo capace di centellinare e dosare le reazioni e del sorvegliato dominio di sé che stempera i richiami di quel che im-mediatamente “ditta dentro” per allenarsi ad estendere un saldo rapporto impositivo anche alla natura esterna. Queste ultime considerazioni valgono a meglio convincere che Dostoevskij e Freud, a dispetto di ogni importante riscontro in contrario, di fatto spingono abbastanza chia11. S. Freud, Perché la guerra?, trad. it. di S. Candreva ed E. Sagittario, in Id., Perché la guerra? (carteggio con Einstein) e altri scritti, trad. it. di C. L. Musatti, S. Daniele, S. Candreva, E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1975, pp. 78-87.

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ramente nella stessa direzione. Infatti – per dirla “rubando” a Bloch stampi terminologico-concettuali radicalmente connotativi del suo pensiero – tutti e due si preoccupano di contrastare l’avanzata di una «corrente fredda» chiedendo soccorso ad una «corrente calda», poiché “caldo” è, in certo modo, sia il palpitare traboccante sensitività del completamente buono, sia lo sbrigliarsi para-ferino di incontenibili Triebe che conducono i corpi ad un intenso incontro tattile (foss’anche conflittuale) invece di costringerli nell’asettico distanziamento regolato dai sensi “alti” della vista e dell’udito. Ma chi introduca categorie come quella del dominio di sé funzionale a preparare il dominio della natura evoca infallibilmente la Dialettica dell’illuminismo, il cui Excursus I trascende la protesta contro il dilagare di una ratio utilitaristicamente calcolante per affondare lo scandaglio, in virtù di un gesto che contrae debiti non marginali con il fiuto genealogico di Nietzsche, a profondità sufficienti per dissotterrare il segreto dell’originario manifestarsi di quel bilanciamento sensoriale-percettivo e di quell’angoscioso ma “indispensabile” auto-incatenamento alla continuità di una storia personale, espressa dal possesso di un nome, dai quali poi discende la sicurezza, non di rado irridente in Odisseo, nella manipolazione di quell’intelligenza strumentale-calcolante. Insomma, in barba alle falangi di detrattori dei francofortesi, che non si accorgono di quanto sia ridicolo tentare di negare spessore teoretico all’Excursus I riducendolo a poco più di una scopiazzatura dei lavori esegetico-filologici di Wilamowitz-Moellendorff, qui si disegna nientemeno che la traiettoria di genesi dell’autocoscienza, cui impartisce un frammento del suo certificato di nascita e un’“iniezione” tonificante ognuno dei confronti drammatici e vincenti del protosoggetto Odisseo con le conturbanti schegge dell’informe disseminate sul suo itinerario. Né occorre superlativa capacità di penetrazione del testo per avvedersi di come i suoi due autori riversino “simpatia filosofica” proprio sulle figure del precoscienziale:

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sul Ciclope, che col suo unico occhio rimane al di sotto del livello della simmetria del gioco di reciproca certificazione percettiva intercorrente fra le due parti in cui l’organo visivo si scinde nell’uomo; sulle Sirene, che cantano la paralizzante litania del sempre-uguale e dell’avulsione dal dovere di andare oltre e di “continuare”; sui Lotofagi, che sospendono qualsiasi frequentazione con la sfera dello storico e del costruttivo e si imbevono dell’in-concludenza di un oblio di sé e del mondo cui non è certo estranea la loro dispiegata attivazione del gusto e dell’olfatto, due dei tre sensi su cui pesantemente calerà la scure della condanna all’atrofia emessa dalla legge organizzativa del soggetto post-mitico12. Ma che le figure dello sfilacciamento o, addirittura, della evanescenza autocoscienziale appaiano, agli occhi di Horkheimer e Adorno, imbozzolate in una quasi ieratica dignità a cospetto del sommovimento sottilmente volgare introdotto da Odisseo, non si spiega probabilmente solo alla luce della consapevolezza dei due autori che l’intelligenza dell’eroe omerico non è altro se non l’incunabolo di quella immiserita ratio avalutativa, tutta protesa a meditare tranelli atti ad incasellare i rapporti interumani e ad amministrare quelli egemonici con la natura-sulla natura, contro cui essi schierano il modello alternativo della ragione sostanziale. Rimarrebbe un pizzico di delusione se non fosse credibile che i due studiosi si trovino in cordata con altri autori di spicco, dei cui attestati di sgomenta sfiducia per l’autocoscienza si è offerta una parziale rassegna, alla quale merita di venire aggregata la mozione nietzscheana di diffidenza per la sovreccitazione autoriflessiva contenuta in un prezioso passo di Al di là del bene e del male: in esso si avverte che è tanto più “normale” che la ricerca di un dotto non centri il bersaglio 12. M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1980, pp. 65-67, 69-72 (Excursus I, Odisseo, o mito e illuminismo).

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della verità quanto più egli, essendo oggetto di un’incalzante persecuzione o addirittura futuro martire della scienza, è portato a tornire al grado più alto della sofisticazione riflessiva la sua idea, ad abbarbicarvisi irriducibilmente facendone ragione di vita e proiezione del proprio puntiglio e della propria onorabilità, ovvero quel quid che non si può né si deve mai e poi mai “perdere di vista”13. Ma un passo davvero radicale e decisivo si compirà qualora si soppesi attentamente la natura tagliente e impressionante delle grandiose, “indimostrabili” parole di Freud che stanno confitte quasi perfettamente al centro del suo Al di là del principio di piacere del 1920: «In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota. Forse si è trattato di un processo analogo a quello che in seguito ha determinato lo sviluppo della coscienza in un certo strato della materia vivente. La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato»14. Il penetrante rilievo di Nietzsche che si è ritenuto di allegare al dossier di spunti anticoscienzialistici può senz’altro rimanere al suo posto, anche se è innegabile che potrebbe giocare il tiro di deviare il percorso intrapreso dalla direttrice che deve essere, e si vuole sia, la sua peculiare. Infatti, il sarcasmo nietzscheano, che investe come altamente sospetta di vacuità la concentrazione su di una idea sbandierata come presuntamente esatta e accorda un più alto tasso di probabilità di riuscita veritativa alle intuizioni “espettorate” dalla zona più umorale della passione 13. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1983, pp. 31-33 (Capitolo secondo, Lo spirito libero, af. 25). 14. S. Freud, Al di là del principio di piacere, trad. it. di A. M. Marietti e R. Colorni, Boringhieri, Torino 1983, p. 63.

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che percorre piste di ricerca senza troppa ponderazione e può così prendere spesso granchi geniali e lasciarsi abbacinare da abbagli vincenti15, potrebbe indurre a svoltare verso un ordine di considerazioni di grande interesse ma di stampo indubbiamente gnoseologico, dunque in qualche misura restrittive della latitudine di questo studio, che vuole invece toccare gangli nevralgici pertinenti alla organizzazione complessiva del soggetto e alla sua “esistenzialità”.

Breve détour sul metodo La migliore insegna sotto cui porre questo scritto sarà costituita dalle parole citate di Freud, che sporgono, alla stregua di un’alta lamentazione appena corretta dalla limpida compostezza del suo consueto magistero stilistico, dall’ordito di quel breve ma notevolissimo contributo che proprio il fondatore della psicanalisi ebbe l’ingenuità di difendere a spada tratta e con insistenti ripetizioni dalla possibile obiezione di essere stato scritto, così cupo e “pessimistico”, sotto l’impressione ultrapersonale del dolore causatogli dalla morte della figlia Sophie proprio all’inizio del 192016. Lascia quasi increduli che Freud non abbia “fatto caso” al destino in cui incorreva proprio sulla base di un insegnamento smascherante portato al massimo affinamento (se non tout court coniato) dalla dottrina psicanalitica, il destino cioè di servire su un piatto d’argento, a uso e consumo di avversari o secessionisti “parricidi”, la messa a nudo di moventi, almeno co-determinanti la stesura, inaccettabili dalla 15. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pp. 9-10 (Capitolo primo, Dei pregiudizi dei filosofi, aff. 3, 4 e 5), 21-22 (Capitolo primo, Dei pregiudizi dei filosofi, af. 17). 16. Cfr. l’Avvertenza a S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., pp. 9-12.

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cittadella dei sapienti e tanto più svelati come profondamente rilevanti quanto più Freud si è irrigidito nel minimizzarne l’importanza. Questa ingenuità di Freud lascia tanto più stupiti se si rileva la coincidenza che proprio il lavoro di sistemazione teorica, tratteggiato in Al di là del principio di piacere, di un bipolarismo che arricchisce la dottrina delle pulsioni opponendo alla pulsione erotica tesa all’alimentazione e alla generazione della vita una differente (in senso hegeliano) pulsione di morte dalle finalità conservative e recessivo-distruttive, conferisce alla psicologia dinamica da lui varata un tocco di dialetticità, obbligando Freud a calarsi nei vorticosi problemi di vicendevole dis-locamento di due pulsioni fondamentali, ciascuna delle quali si “maschera” con le fattezze dell’altra e assolve alle sue stesse funzioni troppo sovente per non far balenare la conclusione che l’una e l’altra siano “la (lo) stessa (-o)”. Certo, Freud aveva già avuto modo di frequentare i serissimi giochi di capovolgimento (para-)dialettico, tant’è vero che ne aveva studiati e “formalizzati” non pochi in L’interpretazione dei sogni e ad uno fra essi aveva dato centralità nella struttura di Il motto di spirito, riconducendo l’apparentemente frivolo per antonomasia, ossia il riso, all’urgenza di stornare il timore della morte, ossia di ciò che “ci concerne” con la più irriducibile serietà. Comunque, rimane la sensazione che, forse proprio a partire dallo scritto del 1920, Freud si innalzi ad un apprezzamento meglio fondato e meditato teoreticamente di tali giochi: e ciò lascia intatta la sorpresa per la sua “svista”, se non la acuisce addirittura. Ma tale sorpresa si stempererà qualora si tenga presente quanto profondamente egli aderisca alla κοινή intellettuale del suo tempo (ulteriormente rinforzatasi, se possibile, nel nostro), che rifiutava di prendere sul serio, in omaggio a un ideale di “scientificità” quasi ridicolmente risolventesi nell’assolutezza di una chimerica obiettività-oggettività, contributi teorici che più o meno apertamente raccontano, magari molto, dell’autore e

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scaturiscono con violenta e non di rado felicissima indimostrabilità dalla sua Weltanschauung. Si tratta della stessa κοινή cui si attiene l’Elémire Zolla di Storia del fantasticare allorché condanna pressoché scandalizzato l’affermazione-provocazione di Friedrich Schlegel secondo cui il filosofo dovrebbe parlare di se stesso né più né meno del poeta lirico17. Questa eterodossa uscita, che certo avrebbe necessitato di una più controllata “limatura” per risultare accoglibile, rivendica però il merito di contribuire in qualche maniera a mettere la pulce nell’orecchio alla corporazione dei filosofi che perseverano nell’usare agli “scienziati veri” l’impagabile cortesia di uniformarsi alla loro stessa logica, facendo quasi ad ogni libro alte proteste di avere rettificato in qualche aspetto rilevantissimo e quindi “migliorato” e “superato” il pensiero di grandi predecessori. Ma questa certezza sbandierata di essersi dimostrati “più avanti” di altri autori – che d’altronde avevano fatto a loro volta quasi una ragione di vita di questa specie di coazione a millantare superamenti inglobanti (o peggio, dissolventi) il portato teorico di altri ancora – defilosofizza il nocciolo dell’autentico filosofare, definito dalla tensione fra personalissima Weltanschauung e spinta verso una sua meglio comunicabile-generalizzabile mediazione logica; e ancor peggio sarà quando il filosofo che si autoelegge, con maggiore o minore intransigenza, a vivente ri-cominciamento giura di scrivere nell’ascolto della “cosa stessa” o sotto la dettatura di un testo necessariamente introdotto dall’aprirsi di un nuovo, trans-soggettivo “quadro epocale”. È qui trasparente l’allusione al rischio di indulgere a quella che Adorno percepiva come l’“aura di incontestabilità” spirante da non pochi tratti di rigidità insiti nel sistema di Hegel, oppure al tono indigeribilmente sacramentale-oracolare tipico dell’argomentare limaccioso che, in tante cose del cosiddetto secondo Heidegger, vorrebbe persuadere che solo l’incedere di un 17. E. Zolla, Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1973, pp. 97-98. 

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“pensare plantigrado”, spinto fino a mimare il ritmo con cui il bambino o il vecchio si appropriano “faticosamente” di una catena ragionativa trascorrente dal semplice al semplice, possa strappare il premio di raggiungere l’abissale, quasi-ineffabile complessità. E si comprende come sia tanto meno salutare correre il rischio in questione qualora non si disponga della potenza di concettualizzazione di uno Hegel, o di risorse sufficienti a farsi perdonare una cadenza pensante studiatamente greve come quella di Heidegger iniettandovi la segnalazione, senz’altro coglibile da parte di una lettura sintomale esercitata ad esempio su Introduzione alla metafisica o su Saggi e discorsi, che la ripresa di una modalità “infantile” di accostarsi a contenuti e a parole, nomi e concetti li trasvaluta, svelandoli di nuovo degni di un sacralmente stupito contemplare che non rinuncia a tentare di comprenderli, ma aborrisce dal tenere ferme le griglie definitorie in cui li aveva imprigionati un filosofare abbandonato da ogni traccia di emozione o di autentica curiosità. Occorre spezzare una lancia a favore della giustezza metodologica della reintroduzione di un’ottica psicologistica che, nella valutazione della produzione filosofica, corregga l’invincibile vezzo dei filosofi di volersi intendere, cripto-storicisticamente, incolonnati in una sequenza, di cui si segue la presunta traiettoria ascensionale alla fine “infallibilmente” sfociante nella determinazione della verità con una preoccupazione non meno ansimante di quella con cui è naturale e, in certo modo, doveroso che gli scienziati sorveglino che il sedimentarsi delle loro ricerche e sperimentazioni sfoci, volta per volta, in un’acquisizione teorico-pratica più funzionale di tutte le precedenti, perché garante di migliori margini di sicurezza nella costruzione e nel lancio di razzi o nel trapianto di organi. Il giusto colpo di diapason a questa rivendicazione verrà assicurato dalle osservazioni di taluni autori: il Bloch che rifiuta di instaurare fisse gerarchie fra i molteplici contributi speculativi, ben pochi dei

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quali giacciono irrecuperabili e incapaci di risorgere e di far risplendere la loro inattualità di una vis euristico-analitica decisamente superiore a quella di altri, pur freschi di conio; il Sartre di Questioni di metodo che riconosce come al determinismo interpretativo, secondo cui le condizioni socio-economiche della borghesia capitalistica necessiterebbero i suoi rampolli a produrre arte di contenuto e forma ben prevedibili, rechi un sacrosanto affronto il “dato residuale” per cui l’arte del borghese Paul Valéry è grande arte, mentre quella di molti altri borghesi non lo è18; infine il Dürrenmatt che ama confessare di avere potuto suggere un “premio di seduzione”, garantito da un genuino gusto (auto-)narrativo, da testi da sempre ascritti al genere scientifico, ovvero da opere filosofiche relegate magari tra le più aride come l’Etica spinoziana, in cui Dürrenmatt vede dipanarsi il labirinto di un “romanzesco” di gran lunga più coinvolgente rispetto a quello rinvenibile nei libri di tanti hommes de lettres professionisti19. Alle coordinate problematiche di questa questione, implicata con gli stereotipi dell’autopresentazione di scienziati e filosofi non meno che con delicate scelte metodologiche, appare riconducibile la polemica che negli anni Ottanta, a proposito del primo volume della Letteratura italiana di Siciliano, oppose il suo autore a Sanguineti, il quale rimproverò a Siciliano di avere troppo smancerosamente concesso nella sua ricostruzione storica allo psicologismo-biografismo estetizzante, che getta fumo negli occhi al lettore facendogli credere che da un tratto della personalità o da un episodio dell’esistenza di uno scrittore discenda la presunta Stimmung caratterizzante tutta la sua opera. In sostanza, Siciliano venne accusato di sapere fin trop18. J.-P. Sartre, Questioni di metodo, a cura di F. Fergnani, il Saggiatore, Milano 1976, pp. 118-122. 19. Si veda l’intervista a Dürrenmatt Coraggio, siamo in un labirinto, “Tuttolibri”, inserto culturale de «La Stampa» del 9 ottobre 1982, pp. 4-5.

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po smaliziatamente quanto paghi presso il pubblico non specialista alimentare la mitologia del genio quasi biologicamente estraneo al contesto delle appiattenti determinazioni della vita materiale della sua epoca. Egli però si difese con un argomento penetrante, rinfacciando a Sanguineti di mantenersi fedele ad un determinismo interpretativo paleo-strutturalistico senza nemmeno rendersi conto dell’alto grado di saturazione cui sarebbe stata condotta, dal lungo imperare di spiegazioni ben poco émouvantes nella loro prosaicità, la comunità stessa degli studiosi e non solo la platea dei non addetti ai lavori, per suo conto aprioristicamente amica di una critica lanciata nell’auscultazione dei palpiti di una “storia dell’anima”, da cui distillare suggestioni paradidascaliche e mozioni caldamente valutative buone per comporre il puzzle della storia dell’anima del critico stesso20. Perché il richiamo di Siciliano non rischi di finire “imbarbarito” fino al punto di meritare di venire scaraventato nell’indifferenziato fascio delle spie di un “riflusso” verso il privato, che nel periodo della diatriba stampa e televisione ci comandavano di credere dilagante così giungendo infallibilmente ad ottenere che fosse realmente tale, esso dovrà essere mediato con l’istanza rivendicata da Sanguineti: il perseguimento, così foriero di emozioni, dei nessi di travasamento di connotazioni inalienabilmente individuali dal piano dell’esistenza a quello della creazione non solo letteraria, dovrà accettare di convivere con una storiografia che, nella tediosità dei suoi accertamenti sociopolitici ed economico-tecnici, racchiude quello che Bloch chiamerebbe un prezioso potenziale investigativo e non si esime dal rendere omaggio al disincantamento fino al punto di emanare, se occorre, il gelo di un’analisi squisitamente “tabulare”. E ad entrambe queste vie percorribili dall’indagine gioverà av20. Si veda l’articolo a cura di M. Serri Dannunziano sarà lei!, «L’Espresso», 23 novembre 1986, pp. 177-181.

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valersi del gesto ermeneutico di stampo krausiano, cui Adorno attribuiva la forza di elevarsi fino alla stringenza di un’analisi di insuperabile aderenza all’oggetto per il tramite stesso dell’iper-soggettivo scatenamento di un fiuto metodicamente alieno dal disciplinarsi sotto la coordinazione di un metodo dai topoi ampiamente brevettati e aureolati dall’autorità derivante dai successi applicativi ottenuti21. Tenere presente questa “lezione” farà bene in modo particolare alla via che più vuole puntare i riflettori sul relativo in-determinismo dell’esistenzialità, poiché solo una krausiana “sensibilità da mimosa”, che coglie nel segno anche meglio allorché più “altezzosamente” prende le distanze dagli strumenti che soli parrebbero immunizzare dal rischio del fallimento, aiuterebbe i fautori di un sorvegliato psicologismo a non piegarsi a produrre pedissequamente referti di stretta osservanza psicanalitica, ma ad accogliere dalla psicanalisi solo alcune “chiavi”, di cui vagliare la maneggiabilità caso per caso e con cui lasciare spesso interagire un fluido intuitivo-ricostruttivo squisitamente in-codificabile. Così si potrebbe stornare l’esito vagamente grottesco di ricongiungersi alla preminente inflessione deterministica dell’altra via, perché si prenderebbero le distanze dal latente determinismo della psicanalisi puntualmente registrato da Adorno in Terminologia filosofica, dove si avverte che essa tende a polverizzare la policromia e la complessità delle sfaccettature soggettive di cui ciascun individuo va orgoglioso come dell’attestato della propria originalità, riducendone la costituzione all’intelaiatura di «un paio di determinazioni relativamente povere» a tutti comuni22.

21. Th. W. Adorno, Introduzione, in Th.W. Adorno – K. R. Popper – R. Dahrendorf – J. Habermas – H. Albert – H. Pilot,  Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di H. Maus e F. Fürstenberg, trad. it. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1977, pp. 58-60. 22. Th. W. Adorno, Terminologia filosofica, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 173 (15. Lezione del 17 luglio 1962).

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Il Professore di Gruppo di famiglia in un interno: la deflessione dell’autocoscienza La citata frase-perno di Al di là del principio di piacere può assolvere egregiamente al compito di catalizzare i frammenti e le eterogenee risultanze di uno scavo fenomenologico che, da questo momento in poi, si addentrerà in due “luoghi” ove affiora con ricchezza di sfumature il tema della repulsione contro la condanna all’autocoscienza e delle possibili modalità di (perigliosa) convivenza con essa, se non addirittura con l’ipertrofia dell’autoriflessione. Sarà assolvibile come una licenza inerente agli stili esecutivi del lavoro teoretico la “bizzarria” che le due opere su cui sosteremo più a lungo siano scelte secondo il gusto, si direbbe, di un contro-allineamento cronologico, dal momento che l’opportunità dell’indagine consiglierà una “andatura a gambero”, procedente dalla considerazione di un’opera cinematografica del 1974, il film Gruppo di famiglia in un interno di Luchino Visconti, all’esame di un testo letterario del 1929, il romanzo Gli indifferenti di Alberto Moravia. L’esplicito intento di filosofizzazione delle due opere, concepite dagli autori come extra-filosofiche, comporterà poi che la disamina di Gruppo di famiglia in un interno possa dare la (legittima) impressione di fare tornare i suoi interni conti a condizione di spremere da immagini e dialoghi determinazioni di senso e anche semplici informazioni che essi “dicono” soltanto se sottoposti a un occhio “insinuante”, oppure che la lettura di Gli indifferenti si caratterizzi per un gusto dissezionante (imputabile magari di freddezza intellettualistica) capace di lasciare intravvedere nel libro una trama concettuale in certo modo indiscutibile alla cui luce, però, determinati personaggi e spaccati ambientali e talune scelte esistenziali escono “giudicati” in modo finanche contrario a quello contemplato dagli intenti dell’autore e ratificato da tanti autorevoli critici letterari.

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Gruppo di famiglia in un interno si apre con le immagini della violenta irruzione che la scombiccherata, vociante e apparentemente “spensierata” quadriglia composta dalla marchesa, da sua figlia, da quella sorta di ambiguo cicisbeo che ne sarebbe il “fidanzato” e dalla conturbante figura di Konrad perpetra ai danni della quiete di cui si fascia il Professore nelle signorili stanze dell’appartamento di quella casa nel centro di Roma da cui, ormai da tempo, gli è diventato “impossibile” uscire. Certo, questa polarità annunciata fin dal principio fra il Professore, che ci si presenta coinvolto suo malgrado in una complessa trattativa di affari per l’acquisto di una preziosa tela del genere pittorico della conversation piece di cui è esperto collezionista, e il gruppo di invasori, che approfittano della nonchalance della sua sorveglianza per infilarglisi in casa nell’intento di fare in qualche modo proprio l’appartamento posseduto dal Professore al piano superiore e lasciato lungamente inutilizzato, pare avere tutte le carte in regola per essere studiata, se non altro in prima battuta, come possibile caso della contrapposizione paradigmatica fra un’aristocrazia giunta intorpidita al crepuscolo della sua parabola e una dinamica borghesia che, anche qui come nel cechoviano Giardino dei ciliegi, mostra di conoscere a perfezione l’arte di ronzare attorno agli onorevolissimi “tardigradi”, frastornandoli fino ad ottenere di incastrare nel cuore della loro proprietà fondiaria-immobiliare una piazzaforte da cui si sprigioni l’energia che porta al disfacimento delle già marcescenti strutture circostanti e all’inesorabile cambio della guardia. La circostanza che, stando al testo filmico, non si possa attribuire sangue blu al Professore e invece proprio la “nocchiera” della quadricipite figura della borghesia, in quanto marchesa, sia appunto una nobile, è talmente inessenziale da non possedere nemmeno un briciolo della forza necessaria a instillare il timore di avere sbagliato la distribuzione delle parti nell’instaurare la contrapposizione. Altri indizi hanno di fatto rilevanza essenziale.

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Innanzitutto, mentre il Professore è figura del moderato orrore nei confronti del repertorio di piccole scaltrezze costitutive di quell’intelligenza parente dell’impostura che forse gli eviterebbe di concludere su di uno stallo il tentativo di transazione commerciale, la marchesa e sua figlia si dimostrano sacerdotesse del modus economico-esistenziale fondato sul valore di scambio inaugurando ad hoc e in ben poco tempo chiudendo un circuito di contrattazioni coi venditori che finirà per fargli piovere sulla scrivania il quadro. E merita attenzione che l’“aristocratico”, per parte sua, avesse respinto come inacquistabile quel quadro per via di un prezzo da lui ritenuto iniquo e inaccettabile non certo nella previsione di una spesa eccessiva e nociva ai suoi bilanci, bensì nel timore della caduta di prestigio che avrebbe colpito il colto intenditore qualora si fosse rivelato incapace di stimare il reale, più modesto valore intrinseco del dipinto. Inutile dire poi che la “cortesia” usata al Professore a sua insaputa dalle due donne non ha nulla da spartire con la finezza di un intervento discreto di qualcuno che rompa il silenzio per abbozzare un autoelogio semmai solo “a missione compiuta”, ma mira abilmente ad incatenarlo ad una ben concreta gratitudine, dalle cui posizioni egli indulgerà ad una maggiore condiscendenza verso la richiesta di cessione di quell’appartamento che, infatti, si lascerà sfuggire di mano, una volta di più, quasi inavvertitamente. Mentre il Professore, anche durante il match con i funzionari della galleria d’arte contraddistinti da un linguaggio spicciativo e sforzato a sfiorare le aree della raffinatezza solo per ipocrita convenienza di mimesi con l’interlocutore, non rinuncia ad opporre loro un’espressività sobria ed elegante che si direbbe frapporsi fra il parlante e il suo obiettivo fino a dilatarne i tempi di conseguimento, l’interessatissima cortesia improvvisata dalle “borghesi” si pone al contrario come modello di una perfetta funzionalizzazione dei mezzi allo scopo, che coglie due piccioni con una fava in virtù di una dimestichezza a vivere nella sincope temporale e, anzi, a “crear-

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la” addirittura. D’altronde, inconcepibilmente sincopati, per il Professore, sono anche i tempi rapidissimi in cui l’amante della marchesa, quel Konrad che finisce per installarsi nella “terra” conquistata dall’arrabattarsi dei suoi soci, vara una ristrutturazione dell’appartamento, annunciandola con una serie di fragorosi schianti che valgono come terrificante presagio che quelle presenze repentinamente subentrate incomberanno ormai sul Professore come la materializzazione stessa del destino di morte cui egli già per conto suo si avviava. Concorre a meglio definire il contrasto anche la sostanziale inconfrontabilità tra la raffinatezza e l’elevatezza della cultura del Professore, resa solida da una sistematica educazione, e l’informe conatus a tenergli testa almeno sul piano della erudizione che manifestano, con una certa dose di quella fiduciosa sfacciataggine mai estranea all’arsenale dei parvenus, i quattro aggressori. Essi comunque non possono evitare di oscillare, nelle loro sortite, fra il punto di massima depressione toccato dalle due donne allorché danno a vedere di ignorare totalmente i nomi delle massime case d’aste internazionali, proferiti dal Professore con un tono di araldica deferenza, e il livello della “bella figura” rimediata da Konrad, il quale è quanto meno spigliato nell’associare la visione di un quadro inglese settecentesco appartenente alla collezione dell’“aristocratico” con il ricordo, che gli affiora rapsodicamente e “impressionisticamente” alla mente, di un dipinto analogo notato di passaggio in casa di amici stranieri, distinto da quello per via di un particolare compositivo. Ma questi rilievi circa l’imparagonabilità fra i modi di vivere e “sentire” il tempo del Professore e dei suoi “ospiti”, oltreché circa il dislivello fra le loro diverse forme di frequentazione del patrimonio culturale, meritano di venir rifusi in una fenomenologia più alta rispetto a quella delineata fin qui, in certo modo puramente preparatoria. Bisogna allora fare più decisamente caso a come strutturano la giornata, parlano, gesticolano e, in

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una parola, si comportano rispettivamente i quattro invasori e il Professore. I primi danno complessiva omogeneità alla figura dell’irrequietezza, rendendosi protagonisti di movimenti vorticosi e sovente del tutto imprevedibili, attirando movimento verso la casa da loro occupata – così come fa Konrad quando viene “visitato” per una sorta di regolamento di conti da due o tre drogati, i quali violano le solitamente incalpestate scale del palazzo imbrattando, nella fuga, i loro candidi marmi di una scia di sangue – e tracciando le traiettorie di un movimento di forzata uscita dalla casa al Professore, trascinato dalla garbata ma inesorabile insistenza della polizia a raggiungere un commissariato dove fornire la sua versione della dinamica dell’aggressione. L’irrequietezza dei quattro è poi scandita, come da un inequivocabile metronomo, dal ritmo di un parlare che, se è martellante fino alla logorrea nella marchesa e spinto al limite di una petulanza ignara dei beni del silenzio nella figlia, si corruga di vibrazioni di nevrastenica asprezza allorché sono i due uomini ad aprire bocca. Essi disperdono in una sorta di dissolvenza frasi i cui ultimi, indistinguibili accenti sono pronunciati ormai all’esterno della stanza (se non addirittura della casa) ove ne erano state dette le prime parole, già squassate dall’urgenza di uscire; oppure imprimono alle singole parole l’alterazione di un rintocco di montante furore destinato a sfociare in un “corpo a corpo” come quello che i due giovani ingaggiano nel finale. È proprio l’inarrestabile fluire di questo parlare che svela la natura drammatica dell’irrequietezza dei “borghesi”, di cui si coglierà la vera natura se la si vorrà chiamare paura. I quattro sono figure dell’intraprendenza, dell’affermatività soggettiva o almeno dell’accettata navigazione entro le sponde del vitale, ed è perciò inevitabile che palesino un divorante timore di poterne essere sbalzati fuori e siano condannati a temperarlo pungolandosi incessantemente ad accorgersi e ricordarsi di se stessi, ricavando la sempre rinnovata consapevolezza di posse-

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dere una propria collocazione in quell’alveo storico-pubblico proprio da ciascuna delle parole-proiezioni di sé che emettono compulsivamente. Essi non sostengono la solitudine, come testimonia il loro involgersi in una spirale di sentimenti spinti al “calor bianco” che origina un balletto di rotture e riconciliazioni senza però che venga mai messo seriamente in discussione l’ἄγραφος νόμος per cui, a qualsiasi errabonda separazione dei loro corpi, segue comunque il ricomporsi della gelatinosa societas di partenza. Ma la loro incapacità di stare soli traspare anche da quell’indefesso chiacchierare ed altercare con cui ciascuno si protende a “cercare” disperatamente gli altri e si sprofonda in un brusio dis-traente, da cui si attende l’allucinazione salvifica di fare esodo da sé proprio nel momento in cui, in quanto parla, il “macchinario” dell’autocoscienza lampeggia i più inesorabili segnali del riconoscimento di sé. Essi sono tanto più incatenati ad assicurarsi di continuo di rimanere presso di sé, quanto più l’abitudine al divertissement, del quale è ottimo esempio il convulso viaggiare in aereo da cui derivano poi il “castigo” di dover compiere sempre di nuovo l’operazione di ritrovamento di sé, increspa di alti picchi e di vertiginosi sprofondamenti il diagramma del loro tempo interno e della loro “intensione percettivo-emozionale”. Danno insomma vita ad una figura internamente antinomica, in quanto si mettono a repentaglio continuamente dandosi in pasto ai segni del decentramento fino a bordeggiare l’aperta eteronomia, per poi ricomporsi nella concentrazione e nell’attenzione. Ma rimane irreprimibile l’impressione che, a dire l’ultima parola circa la coloritura dominante della loro fenomenologia, siano proprio le loro parole, alla cui profusione ricorrono come ad un fattore di zavorramento di sé, puntare sul quale costituisce comunque un azzardo già per via della volatilizzabilità e dell’istantanea consumabilità di un simile “materiale”. Se poi si considera che essi, parlando, sconfinano senza sosta da un registro all’altro sul piano formale, svariando dal triviale all’af-

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fettato non senza stazionare per lunghi tratti nelle secche del più insipido timbro conversazionale, così come, sul piano contenutistico, si affannano a innalzarsi, appena ne intravvedano un’occasione, ad uno standard di almeno accettabile spessore, si comprende che il “fondamento” cui, in certo modo, si aggrappano è per loro – “borghesi” impossibilitati ad appoggiarsi alla tradizione di un canovaccio espressivo-comportamentale definito fin nei minimi particolari – ulteriormente sdrucciolevole, al punto da dover diventare oggetto di una continua invenzione e reinvenzione. Ma se essi quindi sono costretti, per conservarsi “in piedi”, a una continua “fatica della chiacchiera” appesantita dalla tensione di un’improvvisazione pronta a sguinzagliarsi sotto la sferza di innumerevoli e imprevedibili sollecitazioni, allora le complicazioni antinomiche di cui è intessuta la loro figura, lungi dal venir tolte, si avvicinano però almeno ad una ri-soluzione consentendo ad un versante di sporgere rispetto all’altro: ci troviamo di fronte ad una figura s-fondata che deve di continuo “raschiare” un’autocoscienza tenuta costantemente all’erta per secernere piattaforme dall’effimera consistenza del più fragile compensato, quindi ad una figura dell’autonomia, anzi della più rischiosa autonomia. Non c’è dubbio che, nell’elaborare l’analisi, sia lecito anche enfatizzare il rilievo di quei momenti in cui il Professore lancia con speranzosa cautela una sonda conoscitiva in direzione dei quattro, oppure di quelli in cui sono loro a fare altrettanto verso di lui, seppure con maggiore sfrontatezza: il gusto di un’avventura di reciproca scoperta si intensifica talora nella vera e propria passione di una ricerca di comunicazione umana. Ciò avviene con la massima chiarezza nel sottofinale del film, nella cena in cui tutti seggono assieme in armonia alla stessa tavola: è questo il punto di più sentito avvicinamento fra i “borghesi” e l’“aristocratico”. In questa occasione, infatti, il bisogno che i primi hanno del secondo si squaderna nella confessione “a cuore aperto” della ragazza che, dimenticata da un padre perso

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per le remote piste di mene politico-finanziarie d’alto bordo, lascia intendere come la molesta petulanza riversata sul Professore fin dal primo incontro non abbia mai avuto altro senso che quello di lottare per attirare su di sé la intenerita attenzione di una figura paterna sostitutiva, capace di sedare e redimere in sé l’irrisolto “errare” suo e degli altri tre. Dal canto suo, il Professore non tace, dopo la cena, di avere accarezzato il sogno di arrivare a conciliarsi con i quattro, a dispetto della loro turbolenza, come con i componenti di quella famiglia che, mai costruita deliberatamente da lui, il destino pareva avere provveduto ad assegnargli allo scadere di ogni “tempo massimo” e proprio per questo in modo particolarmente amorevole. Questi indiscutibili fattori di mediazione fra il padrone di casa e i suoi “ospiti” non devono dissuadere dall’esercitare un approfondimento fenomenologico che prenda e mantenga in una sorta di as-solutezza l’“oggetto”-Professore; solo grazie a un tale studio “mirato” sarà possibile pervenire a una precisazione della definizione di aristocratico. Quando i due “fidanzati” provano a stanarlo facendo a gara nel comunicargli l’elettricità che trasmette loro la prospettiva di passare un week-end in barca con amici, il Professore, dichiarando la propria indisponibilità a imbarcarsi con loro, mostra di non potere-volere più rivolgere neppure un briciolo di tolleranza all’interminabile, stanchevole gioco dello stare insieme imparando a conoscersi e sottoponendosi al giudizio di nuove, imponderabili conoscenze a loro volta attiranti su di sé l’irresistibile tentazione di un giudizio, se non addirittura l’affaticante investimento emotivo di una viva ammirazione o di una risentita disistima, di un’attiva avversione o di una predilezione passibile di tingersi di screziature erotico-sensuali. Il Professore assolutamente non si immette nel circuito che si dipana attraverso l’impegno di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di ciascuno degli altri nella conversazione, attraverso lo sforzo di gestire entro i termini consentiti dall’“occhio pubblico” rapporti la cui fervida tensio-

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nalità tenderebbe a mandare all’aria in ogni momento quegli steccati, attraverso l’incatenamento a rispettare la prassi che, irrispettosa della privacy e sottilmente volgare nel misconoscerne le zone di mistero, costringe ognuno a sentirsi tenuto a raccontare di sé, delle proprie realizzazioni e dei propri progetti a chiunque gli sia capitato di conoscere, con un tono di tanto maggiore grinta e proiezione verso il futuro quanto più irrilevante e sporadica è la frequentazione con l’altro di turno. Il Professore che non concede più nulla a questa giostra merita di essere qualificato meno distrattamente di quanto farebbe chi si contentasse di archiviarne la personalità come quella di un misantropo. Più determinatamente, egli va vicino ad esternare, nel monologo pronunciato davanti alla finestra spalancata su quell’esterno cui si è abituato a raccordarsi solo con la vista (il senso della più accentuata e “nobile” anti-immediatezza), la consapevolezza di incarnare qualcosa di simile a una risposta al quesito, canonico nella riflessione sei-settecentesca, se gli strumenti linguistici siano naturalmente infusi oppure culturalmente acquisiti, se un infante possa “crescere bene” fino a intrattenere poi una vita relazionale con il prossimo anche qualora sia stato confinato in una stanza impenetrabile a suoni e stimolazioni sensoriali di sorta, ovvero posto in una condizione di solipsistico distanziamento affine a quella in cui si è trincerato il Professore. Questo riferimento perderebbe poco della sua suggestione anche qualora gli si opponesse il rilievo che il Professore è un uomo maturo, un anziano non lontano dalla morte e non certo un neonato, e quindi si deve dare per scontato che egli abbia alle spalle decenni di storia individuale, di apprendimento linguistico-conoscitivo ed esistenziale, alimentato da gesti presumibilmente numerosi di condiscendenza per il vorticare di quella giostra con cui, da un certo momento in poi, non ha più sopportato di scendere a compromessi. Ma il fatto che Visconti sia assai parco nel proporre non più di un paio di flash-back stemperati in una bruma oniroide sul passato

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di figlio e di marito del Professore, nonché la coincidenza che il regista avvolga in un mistero non facilmente penetrabile il senso delle motivazioni che lo avrebbero sospinto a scegliere il ritiro a un certo momento della sua vita, ci incoraggiano a ritenere che il grande regista non si sarebbe irrigidito nel dissenso di fronte a chi volesse assegnare al Professore la radicale valenza di vivente experimentum mentis considerandolo modello “utopico-sperimentale” di un soggetto dislocato in un’area altra da quella del soggetto “normalmente” concepito. Però questo parlare di soggettività “altra” può parere un arbitrio se non si comincia coll’osservare che il Professore sembra aver carpito qualcosa del segreto del kafkiano Odradek, che è il «cruccio del padre di famiglia», ovvero della personalità autoritaria (per dirla servendosi di un’espressione dei francofortesi fatta equivalere alla sigla di un modello di soggettività “forte”, occupata a stendere le sue reti progettuali-amministrative), anche e soprattutto perché esibisce se stesso come un polo di organizzazione individuale a struttura ben difficilmente riconducibile alle coordinate dell’ordinaria affermatività soggettiva con tutto il suo angosciante corteggio di tormenti e di corrodenti pre-occupazioni, che la placata e vagamente irridente neutralità di Odradek mostra di avere disciolto e convertito in un’opaca in-sensibilità, aliena da ogni appassionamento al punto da instillare nell’invidioso osservatore il sospetto che quella stramba, indefinibile “cosa” non possa consumarsi e sia quindi consegnata ad un destino di immortalità23. Anche il Professore pare stagliarsi come l’inconsumabile, e questa sua Stimmung è confermata dalla circospezione con cui si limita a relazionarsi esclusivamente con quegli oggetti d’arte e quei prodotti spirituali (i numerosi libri che vediamo ammessi 23. F. Kafka, Il cruccio del padre di famiglia, trad. it. di A. Rho, in Opere di Franz Kafka (Il processo – Racconti), a cura di G. Baioni, Bompiani, Milano 1974, pp. 376-377.

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a fargli compagnia, il ricco arredamento che assicura la scenografia dei suoi contenutissimi spostamenti, le pregiate tele ritraenti volti di trapassati col cui muto conversare si sente in dimestichezza, per sua esplicita ammissione, molto più che con quello “violentemente” risuonante dei vivi) che non solo gareggiano con lui in inconsumabilità, ma si offrono anche come le ben sagomate “forme” in cui si è cristallizzato il fiotto della vita, ovvero, per dirla concedendo meno al lessico di Simmel, come il definitivo precipitato dell’agitato “patire” creativo degli autori. Il Professore si cautela dall’immergersi nelle acque smangianti della vita per subentrare poi, a giochi fatti, in veste di conoscitore e “amico” di ciò che il centrifugo carosello ha sedimentato come contemplabile, fruibile mortuum: un sapore che i fautori della dottrina dell’“opera aperta” chiamerebbero deteriormente museale informa fin nel profondo la modalità con cui il Professore frequenta le opere nella sua qualità di erudito piuttosto che di intellettuale, nella sua veste di quasialessandrino collezionista di un bello che non oserebbe mai discutere, con-creare o ri-creare sotto il pungolo di un’autocoscienza critico-interpretativa, la quale calerebbe sull’opera uno spontaneo, originale intervento completante-trasformativo cui egli (figura dell’eteronomia, come meglio si vedrà) non si lascerebbe mai andare. Giuseppe Marti, Jakob von Gunten e tutta la stupefacente galleria di “assistenti” da cui sono affollate le pagine di Robert Walser, nel loro zelante affaccendarsi a seguire corsi propedeutici a mansioni servili o impiegatizie o nella serietà con cui si dilungano a leggere e rileggere quel capolavoro di formalismo e manierismo educativo che è l’opuscolo “Quale meta si propone la nostra scuola?” circolante nell’Istituto Benjamenta, sembrano ribaltare e quasi ridicolizzare la raccomandazione antiformalistica contenuta nell’Introduzione alla Fenomenologia dello spirito e si aggrappano proprio alla risorsa di sottoporre a interminabili check-up gli strumenti con cui “fare presa”, in

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senso gnoseologico ma anche e soprattutto in senso esistenziale, per non arrivare mai a fare presa, per non entrare mai in medias res a causa del timore di non reggere al peso di occuparsi di “contenuti” e non più di pura “forma”, insomma per trattenersi indefinitamente al di qua della vita24. Il Professore arriva a conseguire il medesimo risultato di porsi, per così dire, di sbieco rispetto alla linea maestra dello storico-temporale e del vitale attivando una strategia in certo modo opposta a quella dei personaggi di Walser: egli subentra e si installa felpatamente in una radura che si direbbe con-secutiva alla buia e inestricabile savana del vitale, “dimora” dopo la vita, non recede dal trattenersi al di là della vita. Prima di abbandonare il parallelo tra il Professore e gli antieroi walseriani, non sarà una forzatura prendere spunto, per un ulteriore avanzamento dell’analisi, da quel tratto saliente degli “assistenti” che ne fa figure dell’“abbandono”, che non assumono autonome iniziative e preferiscono anzi attenersi scrupolosamente a codici pre-scritti25 fino a diluire nell’amorfo dell’understatement quelle parole che dovrebbero definire a vivaci colpi di scalpello le loro prese di posizione ma si attorcigliano invece in uno “smidollato” circolo vizioso con cui parlano senza dire incisivamente alcunché26. Questi maestri dell’autoccultamento sfoggiano una sovrumana pazienza, si preoccupano di spegnere all’istante incendi di anticonformismo giudicativo-comportamentale di cui non possono talora impedire il repentino divampare, “pongono” la caustica stoc24. R. Walser, Jakob von Gunten. Un diario, trad. it. di E. Castellani, Bompiani, Milano 1982, pp. 69, 98. 25. Ivi, pp. 68-69. 26. R. Walser, L’assistente, trad. it. di E. Pocar, Einaudi, Torino 1978, pp. 104-107, 195-202; fra i tanti, due casi esemplari di questo gioco di sfoghi ed esplosioni polemiche cui segue o addirittura già si sovrappone la ritrattazione e il pentimento come anticamera all’assunzione di un’attitudine onniaccettante.

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cata (tanto più pungente quanto più si cela dietro a un lessico scimmiottante la più irritante pedanteria da bacchettone, com’è quello che percorre La passeggiata da cima a fondo) e si precipitano a “toglierla” per poter seguitare a farsi schermo degli impersonali pannelli del senso comune, si garantiscono di continuo che attraverso le inferriate del dormiveglia27 non filtrino dolorosi pensieri28 tali da incrinare l’abitudine di cercare conforto in un’immersione totale nelle vigenze storico-sociali e soprattutto nei cangianti scenari stagionali della natura29. In particolare, è proprio questo ringraziante e stupendamente “ebete” suggere consolazioni dalla fratellanza con la neve come con la luce sfolgorante del sole, con la plumbea cupezza delle nebbie come con l’emozionante infuriare del temporale, che dà l’esatta calibratura della modulazione secondo cui i protagonisti di Walser stanno, si custodiscono e si beano nell’eteronomia. Connotazioni certo peculiari, sottratte ad ogni possibile omologazione confusiva, ma non inconfrontabili definiranno anche il Professore come figura dell’eteronomia. Forse l’aristocraticità in generale, sicuramente quella del Professore, implica l’eteronomia e la deflessione della vigilanza autocoscienziale. Egli parla poco e molto misuratamente, gesti27. Il dormiveglia è glorificato soprattutto da Jakob von Gunten, che raccomanda di tenere le palpebre abbassate per produrre un assetto mimico bloccato che non può non richiamarci le sculture elleniche dall’occhio “cieco”, non a caso collocate da Hegel in uno spazio epocale anteriore all’esplosione soggettivistica del romantico. Si veda G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Feltrinelli, Milano 1978, tomo I, p. 688 (Parte seconda, Sviluppo dell’ideale nelle forme particolari del bello artistico, Sezione terza, La forma d’arte romantica, Introduzione, Del romantico in generale). 28. R. Walser, Jakob von Gunten, cit., pp. 60, 76. 29. R. Walser, L’assistente, cit., p. 166, dove si legge un breve ma appassionato inno alla magia di cui ogni stagione si fa portatrice. Ma è evidente che è l’opera di Walser nel suo complesso a documentare questo motivo dell’assaporata immersione nel flusso naturale.

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cola assai parsimoniosamente e con posata lentezza, si attiene ad una griglia di riferimenti culturali il cui taglio nozionistico stende una patina di scolasticismo sul suo sapere, non si “sporca le mani” nel contatto con quella cultura oscillante dell’oralità e dell’improvvisazione “retorica” di cui i quattro “borghesi” sono i pirotecnici (ma già si è visto quanto angosciati) vessilliferi, bensì, per riprendere pari pari la dicotomia costitutiva del titolo di uno testo di Walter Ong, si è staccato dalle seducenti in-determinazioni dell’oralità per insediarsi al livello delle fisse determinazioni della scrittura, il cui spiritus pervade ciascuno dei numerosissimi libri di cui si circonda. Ma, oltre a questo, non può sfuggire quanto sia importante che, per dirla spingendo sul pedale dell’iperbolico e del paradossale, il Professore sia “poco intelligente”, cioè non si mostri particolarmente brillante e capace di ispessire i suoi interventi conversazionali di originali intuizioni e di pregevoli squarci di interpretazione personale, tali da inaugurare vie d’approccio sino allora non praticate a situazioni, fatti e problemi. Allorché, dopo la cena del sottofinale, deflagra una fitta discussione che, chiamando i cinque a definire le loro posizioni circa avvenimenti politicosociali dell’Italia investita dal maroso sessantottesco e minacciata dalle indecifrabili trame neofasciste, tende gli animi e le intelligenze fino a provocare lo scontro fisico fra i due giovani, il Professore non va oltre due-tre frasi che posseggono poco della potenza rischiarante di aforismi pienamente indovinati pur nella loro laconicità, sa-vuole e, in certo senso, deve commentare e spiegare poco. Nell’articolo La storia concettualizzante di Paul Veyne (raccolto nel volume Fare storia curato da Le Goff e Nora) si legge che rilevantissime dinastie si sono perpetuate per lassi di tempo anche molto lunghi facendo di volta in volta affidamento, per l’espletamento delle pratiche del potere, su rampolli che venivano chiamati a mostrarsi all’altezza del loro ruolo fin da giovani o giovanissimi e, tanto più se sorretti dai consigli di un valido

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“staff” di più maturi collaboratori, vi riuscivano in generale ottimamente, pur essendo di statura intellettuale anche piuttosto modesta o comunque certo non eclatante. Veyne individua la causa principale di tale sistematica e semi-scontata riuscita nel beneficio che, a questi discendenti di frondosi alberi genealogici aristocratici, derivava dall’imprimersi socio-psicologico nella loro memoria dell’immagine della buona prova data dagli antenati, dei quali diventavano praticamente certi che non sarebbero stati da meno, protetti com’erano dalla nonchalance e dal «distacco» (così scrive letteralmente Veyne) di chi può disperdere ogni patema nella consapevolezza di appartenere ad una verticalità di tradizione che inscrive in tutti i suoi esponenti la (pre-)cognizione di non fallire, già di per sé coincidente con il non fallire stesso30. Anche il nostro “aristocratico” pare una ben regolata “banca-dati” in cui sta impressa la memoria di chiavi comportamentali, di codici orientativi del contegno mimico-vocale, di incunaboli formativo-educativi che, senza arrivare certamente a svilirlo a manichino, tuttavia lo eterodirigono pre-modellando falde ampie e rilevantissime della sua esperienza. Ma in questi codici e in queste chiavi il Professore, esemplare di un “tipo” umano che pare annunciarsi come il futuro e la possibile salvazione di ogni altro proprio mentre (e proprio perché) lo si direbbe in estinzione, sta saldamente fondato, libero dalla coazione ad esercitare la sfiancante libertà di conquistare punti d’appoggio per poi, perdutili, rimettersi in caccia di qualche loro analogon. Esiste certo il margine per una lettura sociologizzante del fenomeno per cui Adorno notoriamente amava dare alle sue aperture “mondane” i connotati di incontri con aristocratici piuttosto che con borghesi. Da considerazioni sparse in Minima moralia si percepisce quale sollievo procurasse ad Adorno 30. P. Veyne, La storia concettualizzante, in AA. VV., Fare storia, a cura di J. Le Goff e P. Nora, trad. it. di I. Mariani, Einaudi, Torino 1982, p. 45.

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il contatto con ambienti la cui persistenza a erigere a valori il loisir, l’otium, il decus e la gratuità di un gusto rivolto all’esibizione-contemplazione di oggetti per lo più collocati nella sfera del fine antiquariato agiva come un sortilegio che tenesse a distanza di sicurezza, magari per una serata soltanto, lo spettro dell’incombente Zeitgeist segnato dal dominio di una funzionalizzazione-commercializzazione talmente stritolante da avviare all’ossequio per i comandamenti della sfera della circolazione, come egli annota, persino i bambini, che, specialmente se statunitensi, trovano ben presto “naturale” considerare un’offesa che non si compensi in moneta sonante qualsiasi prestazione (si riduce ad un anacronismo usare il vocabolo “piacere”) abbiano fornito a chiunque, famigliari inesorabilmente inclusi31. Ma è evidente che una simile predilezione di Adorno merita di venir considerata da un angolo visuale che trascenda l’interpretazione sociologica per sollevare la discussione fino ad enucleare le (filosoficamente) interessantissime motivazioni di un atteggiamento di cui Bloch è lontanissimo dal cogliere il nocciolo. Infatti Bloch condisce l’insipido ritratto di Adorno, affiorante da una delle interviste rivoltegli non molto prima della morte e raccolte in Marxismo e utopia, del giudizio secondo cui la fascinazione esercitata su Adorno dalle signore ingioiellate dell’alta società sarebbe da ricondurre ad un ambiguo tratto di amoralismo inestirpabile dalla sua personalità32; la povertà di questo giudizio è spiegabile solo alla luce di un soprassalto della peggiore ottusità da engagé scatenata da Bloch contro quel francofortese che anni prima aveva bollato con sprezzo il credo comunista suo e di Lukács accomunandoli nell’epiteto di Turkistaner33. Ma il plausibile sospetto che, anche al di là 31. Th.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1979, pp. 233-235 (af. 125, Olet). 32. E. Bloch, Marxismo e utopia, cit., pp. 77-78. 33. N. Tertulian, Lukács/Adorno – La riconciliazione impossibile, trad. it. di

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delle ragioni di attrito politico-ideologico, fra i pensatori di prima grandezza corra un’invidia competitiva, mai così scoperta come là dove si avvede dell’affiorare di un motivo del “rivale” di notevole rilievo speculativo e si arrabatta per farlo passare inosservato affibbiandogli una “nota a margine” scheletrita e immiserente, contribuisce a confermare l’opportunità di gettare un’occhiata più penetrante su questo motivo della simpatia di Adorno per l’aristocratico. La dolce, deliziosa “stupidità” dell’aristocratico; il suo liberatorio abdicare a impugnare le redini per incapsularsi in una “incantevole” in-concludenza che gli sconsiglia di fare bella figura (naturalmente non solo quando si tratterebbe di dotare di stimolanti contenuti la conversazione, ma anche e più radicalmente nell’ambito dell’intera sfera della “costruzione”) e gli suggerisce piuttosto di lasciare contorcersi quei soggetti “imprenditoriali” che inseguono una chimerica distintività personale; queste componenti, agli occhi di Adorno, devono molto probabilmente aver concorso ad allineare l’aristocratico a quelle figure della quiescenza, della placata conciliazione che sporgono talora dai luoghi più insospettabili del suo testo filosofico e che non si fanno scrupolo di ammonire che il premio della cassazione del dolore sta in cima ad una discesa, al culmine di una china, scivolando per la quale il soggetto deve lasciar cadere il macchinario inesorabilmente lampeggiante dell’autocoscienza. E c’è persino da chiedersi se la spenta luce dell’“aristocratico” non sia la paradossale spia dell’emergere di un polo d’organizzazione che, proprio in quanto lascia dubbiosi sulla liceità teorica di continuare a chiamarlo soggettivo, rivolge nei confronti del soggetto “moderno” una carica eversiva-superante molto più forte di quella che sappiano sprigionare l’opera e la S. Torino, in AA. VV., György Lukács nel centenario della nascita 1885-1985, a cura di D. Losurdo, P. Salvucci e L. Sichirollo, Quattroventi, Urbino 1986, pp. 64-65.  

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lezione esistenziale di tutti gli artisti non-affermativi, tanto cari ad Adorno, messi assieme. Ciò sia detto, ad esempio, per quel Kafka che, figlio di un commerciante e quindi di un soggetto dell’amministrazione, mostra, a dispetto di ogni dinamitarda protesta antipaterna, di averne in qualche modo assimilato l’insegnamento allorché, nelle ultime settimane di vita, rifiuta le cure e si propone come inflessibile amministratore del suo tempo e delle residue risorse della sua frenetica autocoscienza creativa non perdendo nemmeno un minuto dedicabile alla stesura delle estreme pagine di un corpus letterario insuperabile nel puntare un indice accusatorio contro il mondo dell’amministrazione totale. Il giudizio che fissa il Professore come figura dell’eteronomia merita però di essere riconsiderato. Non si può sottovalutare che, come già si è rilevato, i quattro “borghesi” vivono, come direbbero gli inglesi, in bursts, alternando momenti di risucchiante partecipazione e di emozione totale ad altri di ripiegamento e di scollegamento comunicativo tanto desolante da aprire le decompressioni della melanconia; e questo termine è da prendersi nell’accezione denotativa di quella condizione psichica nel cui quadro descrittivo rientra il dato di una disposizione suicidale (non a caso Konrad, che è “individuo di sbalzi” più radicalmente degli altri tre, alla fine si suicida). Il Professore, al contrario, non conosce increspature del diagramma della propria “intensione percettivo-emozionale” e dunque è escluso dal potere sperimentare quei suggestionanti effetti di accelerazione-condensazione e di distensione-srotolamento della temporalità tra cui si muove senza requie il “pendolo” dei quattro. Il Professore, il quale non si abbassa mai alla pratica del divertissement che in certo modo altera, rimescola, spezza e quasi sconfigge l’unilinearità del “tempo degli orologi” per poi tornare a farlo impietosamente “sentire” come quello davvero reale, non può venire ghermito dallo sgomento che attanaglia Konrad nel momento in cui dice che tutto quel suo

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vivere veloce e nella con-fusione con gli altri tre, fino a toccare le vette di massima intensione nell’orgia documentata da una sequenza del film, non gli evita di dover riconoscere che, alla fine, “torna” – così come loro, del resto – ad essere (dopo esserlo sempre stato?) irrimediabilmente solo con se stesso, murato nell’ascolto di sé. Ma se al Professore viene risparmiato un tale sgomento, ciò dipende dal fatto che egli vive in modo da sapere saldamente e permanentemente ciò che si rivela con piena chiarezza a Konrad, facendogli correre un brivido per la schiena, solo dopo che ha dato fondo al repertorio completo delle sue “fughe” e dei suoi di-vertimenti. Poco invidiabile e, in certo senso, tragico pare essere il vantaggio del Professore, poiché esso si sostanzia nella condizione di “sentire” continuativamente, senza equivoci, di trovarsi confrontato con se stesso, sicuro di aderire inevadibilmente a quella ipseità che Bloch, in una pagina di Tracce, ricorda di avere riconosciuto, al primo risvegliarsi adolescenziale di una più penetrante autoriflessione, come la “cosa” destinata ad accompagnarlo senza concedergli di potersene disfare anche per un attimo solo34. Ma il Professore “sente” tutto ciò con tanto più massiva uniformità quanto più l’immodificabile diagramma del suo tempo interno, a dispetto di tutti quei salienti tratti che sembrano fare di lui una figura largamente ribelle alla topografia ingabbiante in cui il senso comune dei più “splendidi” sistemi filosofici vuole chiudere il soggetto, è solidale con quel tempo lineare di cui Agamben, in Infanzia e storia, documenta la natura epocalmente divenuta35 e contro cui autori della sottigliezza di Bergson, Bloch e Heidegger scatenano una quantità di “obiezioni” nel tentativo di ribassarlo a mistificante effetto di superficie.

34. E. Bloch, Tracce, a cura di L. Boella, Coliseum, Milano 1989, pp. 60-61 (Destino, La prima formazione dello spirito, La finestra rossa). 35. G. Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino 1978, pp. 91-107.

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Questo tempo interno, che non si “accartoccia” per poi ridispiegarsi e non svaria da punti di solare messa a fuoco ad altri di straniante in-definitezza, è il tempo della più minuziosa ponderatio che non recede nemmeno per un attimo dal ricordare al soggetto, con angosciante ridondanza, l’essenza stessa della sua individuazione, ovvero il suo essere finito e perituro, scaraventato sul rettifilo ove non si muove un solo passo che non equivalga ad un avanzamento verso la morte. Un simile tempo interno è “misurato” dal flusso d’autocoscienza, la cui corrente procede alla stregua di una fiumana su cui ha qualcosa di grandiosamente patetico e di sontuosamente sterile calare lo strumento dell’indagine introspettiva (forse da nessuno fatta oggetto di tanta fiducia come da Locke, eroe del periodo dell’anelito alla chiarificazione totale) che pretenderebbe di scoprirvi-introdurvi ordine e legalità compaginante, di spiegare l’ampiamente misterioso “sciogliersi” di un’ondata in quella certa ondata successiva sulla base di uno schema delle regole di associazione dei pensieri. Il Professore deve difendersi da quel particolare fattore di eteronomia che lo investe nella misura in cui si sente senza sosta attraversato da un flusso d’autocoscienza che sventaglia la successione dei suoi contenuti sottraendosi an-archicamente a qualsiasi velleità sia “organizzativa” sia, più modestamente, previsionale dell’individuo. Non è per una questione di vacuo orgoglio che il fondo residuale di ordinaria soggettività ancora operante nel Professore si impunta contro la datità per cui la lunga processione dei diversificatissimi contenuti di coscienza “si prende gioco” del soggetto, invasandolo e facendone un medio impotente a statuirvi il semplice accenno di una tassonomia; piuttosto, quel fondo reagisce per paura all’evidenza per cui il fattore di eteronomia costituito da quella processione offre di sé l’immagine di un franare omologo (se non addirittura identico) a quello che dà l’esatta impressione di essere trascinati verso la morte. A questo fattore di eteronomia, che la figura dell’eteronomia non può tollerare poiché ne

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ritrae paura e sofferenza, il Professore contrappone le risorse di una sua specialissima “autonomia”, che arriva ad impartire decisive alterazioni all’insostenibile piattezza del diagramma del suo tempo interno. Il Professore dovrà, vorrà essere un ossessivo, quale infatti lo rivelano proprio le sue movenze cadenzate e iterative, in cui non è necessario smettere di leggere il segno dell’accettazione e dell’abbandono adesso che vi si scopre anche la traccia della protesta: lo stesso rituale che evoca le terse radure della quiescenza di chi “si lascia essere” esprime però anche lo spasmo di una ossessività che vuole dare scacco, almeno in imagine, alla eteronomia trascinante immettendo nel flusso grumi e punti di coagulo che, in qualche modo, lo rallentino e, in virtù dello zelo di una ripetizione che non si dimentica di inscenare le sue strategie neppure per un giorno, giungano se possibile addirittura ad arrestarlo. Sarebbe tuttavia un errore lasciarsi indurre, dal forte sbalzo in cui vengono a trovarsi nel film i rituali visibili predisposti dal Professore, a concludere che egli soffra e goda di un’ossessività tutta gestuale ed “estrovertita”. Il fatto che egli “non possa più” passeggiare all’aperto, in particolare quando l’eventuale passeggiata si annuncia come non-finalizzata, dice che al Professore risulta chiaro quale nucleo di terribilità e di tensione sia racchiuso nella condizione di flâneur, che ha ispirato tante suggestive pagine romantiche e sembra, a prima vista, lo status della più incondizionata dis-tensione. Soprattutto qualora si piegasse a passeggiare, il Professore si esporrebbe alla paratassi del mero giustapporsi dei contenuti di coscienza e dovrebbe reagire facendo leva sulla “creatività” di quel gusto psico-esistenziale sin-tattico che assume le fattezze di un horror vacui insofferente del pur infinitesimale interstizio temporale che – ogni volta, innumerevoli volte – si spalanca tra il lasso di tempo posto sotto la “giurisdizione” di un certo contenuto di coscienza e quello “occupato” dal susseguente: questo interstizio ha il senso di un “trasalimento” incessantemente riproponentesi

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che non è immotivato paragonare a una “normalissima” perdita di sensi, insomma di un raccordo tra le sequenze del “film interiore” talmente labile da parere al Professore piuttosto un vero e proprio allarmante non-raccordo. Non per niente, egli si direbbe impegnato in un’azione di tamponamento contro tali interstizi già anche nel più rassicurante chiuso della sua casa, dove lo vediamo assorbito dalla lettura con troppa sistematicità per non formulare l’ipotesi che egli pretenda di caricare la lettura anche e soprattutto del valore di un fattore di incanalamento coordinante dello stream of consciousness. All’obiezione di chi credesse di relativizzare l’importanza di questo abituale tuffarsi e rituffarsi del Professore nella lettura facendo notare che egli ci appare chino su di un libro solo per brevissime sequenze cui compete in generale la semplice funzione di fissare una nota d’ambiente preparatoria di nuovi avvenimenti che vengano a coinvolgere il protagonista, sarebbe banale ribattere ricordando che non fa certo molto spettacolo tener lungamente puntata la macchina da presa su di un uomo assorto nella lettura. Piuttosto, occorre rilevare la grande importanza fenomenologica del fatto che il Professore ci appaia in lettura sempre e soltanto nelle “poco importanti” pause cui sussegue l’azione che davvero “conta”: è infatti naturale che la necessità di fare il possibile per inquadrare gli imponderabili scarti del flusso d’autocoscienza nella disciplina di una linea di pensiero dominante informi tutta la sua giornata, ma in modo particolarissimo quegli “spazi vuoti”, intermedi fra un “vero” avvenimento e l’altro, che più nettamente stendono una passatoia all’avvento imperioso del tempo della ponderatio, inseparabile dal suo memento mori, e che, a ben vedere, si pongono come immagini ingigantite proprio degli interstizi paurosi che il flâneur deve temere con tale intensità da trasformare, all’occorrenza, il suo girovagare in un’autentica “seduta di lavoro”. Una simile trasformazione è ciò che compie Walser nella Passeggiata. È indispensabile percepire, nelle parole con cui Walser rivendica

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i valori di sia pure oltremodo atipica “operosità” immanenti al suo afinalistico muoversi36, non solo la preoccupazione di chi si sente in dovere di accampare argomenti atti a respingere lo sprezzo che l’artista immagina rivolto contro la “colpa” del suo rescindersi dalla comunità dei “costruttivi” fino al punto di vestire i panni del perdigiorno, ma anche il sollievo di chi ha raggiunto la consapevolezza di poter fronteggiare le insidie intrinseche al lusso che si concede. Il Professore avverte dunque la necessità di conferire sintassi alle fasi dell’esperienza “esterna” attraverso l’inscenamento di un rituale visibile e ai contenuti autocoscienziali mediante una rete tutta interiore-ideativa di riferimenti e refrains ossessivi; e questa rete si dipana ed è operante senza soluzione di continuità, poiché viene in soccorso al Professore sempre, e specialmente quando la costrizione a passeggiare oppure l’impossibilità di accedere alla consueta risorsa di immergersi nella lettura danno più bruciante scacco alla sua esigenza di garantire serietà all’articolarsi della sua esistenza. In questo caso, garantire serietà significa emendare l’umiliante situazione per cui ogni piega dell’esistenza appare soggiacente al dominio di un’accidentalità tanto più scatenata e inaccettabile in quanto bolla col suo marchio non solo il farsi avanti degli eventi “esterni”, ma anche la proliferazione delle sequenze dello “spettacolo interno”: questo destino (che non è sicuramente l’ultimo dei motivi che suggeriscono di dissolvere la veneranda antinomia fra la striscia dei “fatti” esterni e quella delle “immagini” interne) di secca esclusione del soggetto dalla possibilità di esercitare una qualunque signoria sull’“esterno” come sull’“interno” accende nel Professore la forza di una protesta il cui senso è solidale con l’imperativo-progetto, peculiare dei grandi sistemi filosofici (dispiegato nell’assoluta chiarezza, ad esempio, dallo Hegel 36. R. Walser, La passeggiata. Racconto, trad. it. di E. Castellani, Adelphi, Milano 1986, pp. 64-70.

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della Logica o dei Lineamenti), che il necessario preceda, prepari e informi di sé l’accidentale, e che il possibile, inteso come il logoteticamente programmabile e il discorribile, consumi sul reale l’estrema vittoria mostrando di valere di più e di stare più in alto nella misura in cui lo pro-duce. Certo, questo progetto non pare meno venerando dell’antinomia che si è appena definita-deprecata come tale. Chiaramente, con venerabilità si intende qui l’ascrivibilità all’area dei marchingegni metafisici per eccellenza, come li chiamerebbe Heidegger, fermamente persuaso (e con lui tutta una serie di studiosi anche rilevantissimi) che si debba trovare la via e il modo di un loro, per quanto arduo, superamento. Il progetto di sbarrare l’impetuosa piena della fatticità erigendole contro la diga del possibile e facendola rifluire nel bacino del pre-vedibile merita certamente di essere accusato, su di un piano generale, di quella “cattiva” venerabilità, dal momento che è più o meno sempre stato asservito a fare da punto archimedeo per la costruzione di “massimi sistemi” approvanti qualunque contingenza, odiosamente sollevata a “razionale” e “provvidenziale” in ogni sorta di teodicea (anche laica e non per questo depotenziata; semmai il contrario). Questo stesso progetto, se trasferito e circoscritto al piano dell’esistenziale, reclama però una sua urgenza irriducibile al punto da prevalere sulla tutto sommato impietosa pretesa di superarlo. È precisamente questa urgenza che impone al Professore di incastrare di continuo nel flusso autocoscienziale i torniti “quarzi” dei suoi ritornelli ossessivi, dei suoi arci-noti contenuti d’interferenza, fra i quali siamo autorizzati a supporre che rientri anche quel pensiero ossessivo che, in certo modo, ricomprende tutti i possibili altri come il loro “trascendentale”, in cui si svela il senso profondo cui essi rinviano e di cui, in effetti, non ce n’è uno che non “parli”, sebbene obliquamente e come in modo cifrato. Il “trascendentale” di ogni pensiero ossessivo del soggetto è l’ossessione, indefinitamente riproponentesi, di sentire, temere intensamente

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e, ad un tempo, desiderare prepotentemente che la “carovana” autocoscienziale si tronchi di punto in bianco, così da liberarlo dalla dolorosa, irridente contraddizione fra quella (sia pure ingannevole) promessa di il-limitatezza e di in-finitudine che la carovana stessa è (provoca davvero angoscia soffermarsi a riflettere su come essa non soggiaccia alla presa di alcuno sforzo inteso a cancellarla o almeno a piegarla ad un’“andatura intermittente” alternante inabissamenti e riaffioramenti) e l’anticipato avvertimento del destino di finitudine che proprio in essa sta inscritto. Contro questa contraddizione, che assume le sembianze di un maligno scherzo, si leva l’apparato dell’ossessività, il cui senso decisivo sta riposto nell’esigenza di affrettare i tempi chiudendo una volta per tutte il “bocchettone” da cui sgorga tempo, non necessariamente suicidandosi e facendo così (hegelianamente) della morte un’opera sottratta al casuale, ma appunto incastonando nel flusso i “quarzi” di cui, come si è visto, il Professore pare disporre. E non è certo per il gusto di esibire una bella immagine a caso che si è parlato dei contenuti ossessivi del Professore come di quarzi. Infatti essi sembrano realmente avere, dei quarzi, la durezza, nella misura in cui, duri come lo sono i quarzi (in alto grado, cioè, ma non al punto di uguagliare in questa qualità le vere e proprie pietre dure), possono sì continuamente riproporre l’impressione di introdurre “impaludamenti” nello stream ma non hanno la forza di causarne il blocco effettivo, mentre, d’altra parte, posseggono quella sufficiente a causare sofferenza all’ossessivo. In effetti, a ben vedere, si potrebbe descrivere validamente la strategia dell’ossessivo anche dicendo che egli, sicuro di subire comunque in extremis il colpo di grazia della morte, ad ogni attimo anticipa quella sofferenza, così cadendo sotto il giogo di un disadattamento (per dirla con il linguaggio della psicologia) che però ha a un tempo anche il valore di un trionfo. Esso infatti oppone allo sberleffo del destino, che non “prende sul serio” l’individuo e aspetta di abbatterlo in

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circostanze da lui impronosticabili, il contro-sberleffo di rinserrare l’ossessivo nella corazza di una sofferenza trasformata nell’assoluta, permanente normalità, che pre-inscena con enorme anticipo e per innumerevoli volte la sofferenza che verrà apportata dalla morte, così ottenendo di diluirne in qualche misura la carica dolorifica e, soprattutto, di toglierne in parte il valore di eccezionalità spaventosa sottraendola alla totale inconcepibilità. Per l’ossessivo, la morte non è più una cesura in toto in-concepibile: infatti, se continua a valere anche per lui la verità che il “punto” della morte fa registrare una delle più perentorie rivincite del reale sul possibile in quanto nessun uomo e nessun dettato filosofico potranno discorrere e descrivere mai la morte cui ciascuno è ammesso realmente per una sola e irriferibile volta, è però non meno vero che l’ossessivo per grandissima parte della sua esistenza non ha fatto che “concepire” la morte, si è enormemente avvicinato a “possibilizzare” quell’im-possibile ancorato all’ermeticità di un hic et nunc dai lineamenti modali e dalla dislocazione temporale avvolti nel mistero, è insomma vissuto in modo da “morire” in ogni attimo in cui, intanto, viveva. Dei quarzi, infine, i pensieri ossessivi paiono condividere la limpida trasparenza, diciamo pure la bellezza: i pensieri ossessivi possono a ragione essere ritenuti punti di luminosità e “bellezza” dell’organizzazione individuale del Professore in quanto sembrano esprimerne il versante dell’autonomia. A questo punto, potrebbe però entrare in gioco una risentita reticenza ad accettare che i risultati di uno scavo analitico che aveva conquistato una sua pietra angolare nell’assunto secondo cui il Professore è una figura altamente significativa dell’eteronomia sembrino ora smentiti dall’approdo alla nozione dell’autonomia come all’ultima, determinante parola. Non però il puntiglio di una soggettiva reticenza, bensì un’oggettiva necessità intrinseca a questa stessa analisi impedirà che essa si areni anzitempo sulla così accattivante parola magica “autonomia”,

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in quanto la sospingerà innanzi quanto basta perché venga ribadito (e si dice “ribadito” perché tutto ciò è già ampiamente emerso) che l’autonomia qui in oggetto non ha nulla da spartire con quell’idea dell’affermatività personale con cui la nozione di autonomia è pressoché immancabilmente fatta coincidere dalla concezione tradizionale. Si vede infatti benissimo che la particolare autonomia ascrivibile al Professore, nella misura in cui trova la sua espressione nell’arsenale dei pensieri ossessivi, instaura il circuito della ripetizione e del sempre-uguale, con cui il Professore si garantisce di dislocarsi di sbieco rispetto al corso dello storico-temporale, se non addirittura in una “stregata” avulsione completa da esso; con ciò restano confermate e anzi vengono, per così dire, estremizzate talune conclusioni tirate all’altezza di uno stadio meno complesso e perciò, in certo senso, “inferiore” di questo iter analitico, così come viene sgombrato il campo da ogni dubbio circa il fatto che ci si trovi a cospetto di una variante dell’autonomia in buona parte antipodale rispetto a ciò che solitamente si “legge” a colpo sicuro sotto quella sigla categoriale. A chi poi obiettasse che conclusioni così impegnative coronano una fenomenologia troppo pretenziosa a fronte della sua debolezza di prendere le mosse da una condizione di ossessività solo “congetturata”, si potrà replicare con un argomento ancora più risolutivo di quello già anticipato, secondo cui la lettura del film non rischia di venire deviata nelle zone dell’arbitrarietà elucubrante a ruota libera, ma viene anzi arricchita di esiti densi di implicazioni dalla scelta di fare “dire” a parole e immagini più/altro rispetto a ciò che esse esprimono se riguardate piazzandosi, per così dire, scleroticamente di fronte ad esse. Si potrà, cioè, smantellare quell’obiezione evidenziando come quelle impegnative conclusioni possano venir derivate anche da qualcuno dei dati indiscutibili di cui il film mette tutti pacificamente al corrente: infatti non si fatica a scorgere come a partire da due “segni” filmici appartenenti a questa privile-

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giata categoria si possa inaugurare una sequenza argomentativa che, in pochi affascinanti passaggi, metta capo precisamente a quelle conclusioni. Ci si vuole riferire al “segno” della casa, la cui inerziale e inesorabile presenza domina e articola il plot innanzitutto nella misura in cui esercita sul protagonista un potere attrattivo così assoluto da “proibirgli” di distaccarsene, e al “segno” di quello stesso nome elusivo fino a negarsi come tale e a proporsi semmai come index anti-nominale che è la sigla “Professore”, con cui Visconti procura che l’“aristocratico” venga assolutamente sempre, senza alcuna alternativa, (non-) denotato nel film. Quanto alla casa, si troverebbe di sicuro nell’imbarazzo della scelta chi volesse esibire materiale narrativo letterario oppure cinematografico-teatrale in cui essa si fa valere come quel tetragono, silenzioso “personaggio aggiunto” che, ad un esame appena più che superficiale, si rivela più focale di tutti gli altri, di quegli individui, cioè, che sfrecciano al suo interno e, viaggiando anche molto lontano, danno la fallace impressione di potersi sottrarre alle spire della sua fascinazione, orientata in senso re-gressivo, in cui invece restano comunque impaniati. Per questa via, è giocoforza richiamarsi al freudismo secondo cui dietro la casa si celerebbe tutta la griglia di simboli e di significati che va dall’immagine del grembo materno al desiderio di rassicurazione, di ritiro e di recessione allo stato prenatale e dunque pre-(a-)spazio-temporale (pane psicanalitico, questo, già da tempo spezzato anche per le lettrici di «Grand Hotel»; una circostanza che non è qui la sede per discutere se abbia eventualmente scalfito l’effettivo nucleo scientifico di questa divulgatissima Deutung). Tuttavia, con tutto il rispetto per Freud, si propizierà un guadagno in determinatezza analitica qualora si voglia dire qualcosa di più, osservando che, ovunque il fisso e muto incombere della casa gode di un’enfatizzazione tale da elevarla a “protagonista”, ciò de-signa con speciale risalto una verità che in

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ogni caso quasi non ammette eccezioni: la casa esercita sui suoi abitatori un influsso tanto subdolamente “incantante” da risolversi in un invisibile ma non per questo meno inesorabile comando paralizzante, che ribassa a inessenziale ogni spostarsi, uscire, socializzare e integrarsi lavorativo-professionale del soggetto che si lasci alle spalle quella casa da cui tuttavia tutto questo costruire e irrequieto storicizzarsi resta assolutamente inghiottito, come se non fosse mai stato o contasse così poco da rinviare di continuo a quella “presenza” come alla sua sfingea verità. Proprio un effetto di dissolvente assimilazione attuato dal lento, compassato macinio delle fauci di una raffinatissima casa-villa, isolata sulle colline “accerchianti” Firenze (la cittàpolo brulicante di vita) e “certa” di far sparire e an-nullare senza fretta i contenuti di esperienza accumulati fuori di lei dal suo giovanissimo abitatore generosamente lanciato nel vano tentativo di raggiungere un’intesa sentimentale con il padre gelido ambasciatore, è ciò cui si assiste nell’Incompreso cinematografico di Comencini. Può insistere a considerare questo film niente più che uno scaltro fumettone strappalacrime solo chi non veda con quanta esattezza di tocco il regista vi metta in scena appunto il destino per cui le linee del movimento e dell’azione del bambino, che disegnano improvvisate traiettorie eccentriche rispetto al focus della villa, vengono tutte là ricondotte nel momento in cui, al verificarsi dell’incidente fatale, si fa evidente che tutto il dinamismo acceso dalla sua sete di riconoscimento, mai come in questo caso perfettamente “mascherato” da indomito desiderio di sopravvivenza sia per la verdissima età del protagonista sia per l’orgoglio e la tenacia da “vero uomo” con cui lotta per il suo impossibile obiettivo di riconciliarsi col padre, in-tenzionava in verità da sempre la morte, in attesa ai bordi del laghetto interno alla tenuta della villa. Il venire meno del nome, il suo farsi irrevocabilmente da parte per lasciare che la sigla “Professore” occupi in toto il campo, richiama indubbiamente la scelta di certa arte d’avanguardia

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che incontra il favore di Adorno allorché inscena il mutismo o, almeno, l’inafferrabile enigmaticità di espressione di soggetti che si rendono criptici e distanti: tali soggetti, lacerando i convenzionali quadri comunicativi statuiti dal mondo dell’amministrazione globale, si ripiegano, per così dire, su se stessi, si “autoriducono” ed offrono una meno ampia superficie d’incidenza ai colpi inferti dal maglio del vigente, alla cui brutalità di leviatano è possibile sottrarsi forse soltanto opponendo, appunto, indecifrabilità ed ermetismo all’arcano racchiuso nel “testo” delle sue ingiunzioni, che inganna ammantandosi di un’abbacinante parvenza di onnicomprensibilità e di onnicondivisibilità. Ma, come suggerisce l’insegnamento di Foucault secondo cui il segno stesso dell’integrazione ontologica dell’individuo sarebbe da ricercarsi primariamente nel suo portare un nome (dove questo stesso verbo “portare” vuole evocare la passività del soggetto su cui tutta una rete di apparati del potere si occupa di imprimere e di mantenere impresso un marchio che è di continuo tenuto ad esibire), l’operazione imprescindibile per il soggetto che persegue il proprio “rimpicciolimento” è quella di ricusare la nominazione, di spogliarsi del nome, o almeno di rapprenderlo in un grumo compendioso. Naturalmente, il primo risultato che una simile operazione di “amputazione” può conseguire è quello di traslare il soggetto nell’area della non-ottemperanza e dell’indifferenza a tutta la gragnuola di richiami istituzionali socio-politici, tanto simili a posti di blocco sparsi in abbondanza sulla sua via di attraversamento della cittadella di quello che Hegel chiamerebbe lo spirito oggettivo. Merita attenzione il dato per cui a cadere è, per la precisione, il cognome, ovvero la parte del blocco nominale che più inesorabilmente svela lo status del soggetto come anello della catena di una tradizione che, annunciandosi attraverso il sigillo dell’appartenenza ad una linea familiare, richiama estensivamente tutti i condizionamenti che fanno dell’individuo un “abitatore del tempo”. Per converso, il sopravvivere svettante

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nella propria isolatezza del nome proprio o di un “monoblocco” nominale che può considerarsi analogon del nome proprio (ed è questo il caso della sigla “Professore”) si presta a venire inteso come spia di un’avvenuta operazione di essenzializzazione del soggetto, che, così intransigentemente iper-determinato e irriducibilmente “indicato a dito”, si può immaginare restituito alla purezza inquietante di una condizione di “primalità” almeno parente di quella cui alludono, con la più grande potenza, tre “luoghi” mitico-speculativi che occupano una poltrona nobile nella storia della filosofia occidentale: l’immagine, evocata nel Gorgia platonico dal ragionare affabulante di Socrate, degli uomini “nudi” che, dopo la morte, conoscono l’esperienza della completa decantazione delle incrostazioni arrecate dall’attraversamento della terrestrità e avvolgenti, come polpa inessenziale agli effetti del giudizio finale, il Kern della loro natura profonda; l’idea kierkegaardiana dello stadio religioso come del momento dell’inderogabile confronto dell’individuo con la propria destinazione, nell’avulsione da tutte le corazze protettive offerte dai ruoli socio-professionali che sono comodamente a sua disposizione nell’alveo dell’eticità; e, infine, il suggerimento husserliano dell’esigenzialità di un experimentum mentis che intenda e studi il soggetto come restituito ad una Lebenswelt ove si parli quella peculiare “lingua”, tutt’altro che sostanziata di sole parole, che ancora non si irrigidisce nell’aplomb altamente artificioso della formalizzazione concettuale-categoriale del logos scientifico, insensibile alle sfumature differenzianti del qualitativo. Però, queste tre direzioni in cui parrebbe potere o, addirittura, dovere incanalarsi il senso del casus della nominazione decurtata chiamano in causa con troppa veemenza il pathos dell’autenticità e della verità (“suprema” categoria, questa, che peraltro piega, nelle “provocazioni” di Platone e di Kierkegaard, verso una valenza di stampo squisitamente morale-giudicativo, mentre Husserl pare animato da preoccupazioni di natura più

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propriamente euristico-gnoseologica) perché non si imponga di ricordare che l’inalberarsi as-soluto del nome proprio vale sì, da un lato, a collocare il soggetto nel cono di una luce che punta abbagliante su di lui fino a causare l’esito di una sua scarnificazione rivelatrice, ma d’altro lato introduce anche l’effetto complementare-opposto di dis-identificarlo avvolgendolo in una fitta cortina fumogena che lo emancipa perentoriamente dal piano dello storico-temporale, rispetto a cui risulta decisamente anti-determinato. Ed è su questo secondo effetto di antideterminazione, su questo effetto di apertura dello squarcio dell’unheimliche alieno dall’implicare smascheramenti veritativi di sorta, che si deve insistere. Se l’autoriconoscersi del soggetto come av-viato in una storia pubblica ordinata dal pulsare della temporalità lineare, contrappuntata e in certo modo fondata dal disporsi avanzante-ascendente del logos (che si tratti del parlare “chiacchierante” o del più alto parlare concettualizzante, che non smette di sforzarsi di elevare la chiacchiera a concetto), deve ritenersi l’elemento di dignificazione faticosamente conquistato dal soggetto “moderno”, è naturale che i poli d’organizzazione soggettiva “altra” da quella ordinaria, i quali vengono sovente annunciati proprio dalla intrusione della nominazione decurtata, si fascino della penombra di quello che può essere chiamato un processo di de-dignificazione, di provocatoria e feconda de-dignificazione. Non a caso, a proposito di feconde e provocatorie de-dignificazioni, non si può mancare di rilevare come i casi estremi, nella schiera di (parzialmente o totalmente) in-nominati cui appartiene il Professore, siano i soggetti che popolano le opere della letteratura e della cinematografia erotiche o anche apertamente pornografiche. Essi, come la Simona, la Marcella e lo stesso io narrante di Storia dell’occhio di Bataille, innescano il circuito del sempre-uguale ripetendo in modo accumulatorio le loro pratiche sessuali fino a contrarre in unum il tempo. Così celebrano una peculiare vittoria sul tempo rinunciando recisamente a compaginare le

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fasi e le sequenze di una storia, anzi, in qualche modo, disfano la dimensione dello storico-temporale, che, come osserva Moravia nella prefazione al romanzo di Bataille, è posta in iscacco dalla sintomatica brevità in cui si consumano, quasi senza eccezioni, le opere infiammate dalla vampa della materia erotica37; tale brevità non è sciattezza né, contro ogni apparenza, volgarità, neppure nei casi in cui l’estrema umiliazione del linguaggio, ri(con)dotto all’iterativa elementarità di frasette, monosillabi o puri mugolii di piacere, impartisce in realtà un colpo mortale al logos con-sequenziale che è l’immancabile fattore misurantefondante il flusso stesso della temporalità.

Il Michele di Gli indifferenti: l’impennata dell’autocoscienza Il discorso su un’opera come Gli indifferenti deve quasi obbligatoriamente muovere dalla constatazione che essa ricade, stando al dettato della riflessione estetica di Hegel, entro lo spazio epocale del romantico, che fa registrare la prevaricazione dell’“interno” sull’“esterno”, della incodificabile fluttuazione delle forme d’espressione soggettive sulla fissità, così densa di stabili contenuti onnicondivisibili almeno all’interno di una certa civiltà, di un “grande stile” insensibile alle più fini vibrazioni che minacciano di imprimergli gli “estri” dei singoli, fatalmente ribelli alla legge dello spirito oggettivo e fedeli piuttosto alla (per Hegel, debole e inessenziale) “autorità” di un loro privato sentire. La profezia hegeliana che lo stadio di tale prevaricare dell’“interno” coincida con il punto di estrema consunzione delle ri37. A. Moravia, Prefazione a G. Bataille, Storia dell’occhio, trad. it. di D. Bellezza, Gremese, Roma 1980, pp. 14-15.

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sorse dell’arte di esprimere l’Assoluto e quindi del suo necessario farsi da parte e “morire” al subentrare della filosofia come standard del più maturo afferramento dell’Assoluto stesso, ha suscitato un dibattito animato da varianti interpretative certo numerose, ma nondimeno passibili di venir riguardate con un gusto panoramico che si limiti a trasceglierne due che si impongono per singolare valore euristico. La prima lettura, che si trova rappresentata anche in Italia particolarmente negli scritti di Papi e della sua scuola, ha il pregio di mediare l’acutezza con un’aderenza sostanziale al testo hegeliano, da cui altre letture si discostano invece con eccessiva disinvoltura e anche con radicalità. Questa ipotesi ermeneutica asserisce che, agli occhi di Hegel, la spia rossa che prelude alla deflessione della parabola evolutiva dell’arte sarebbe fondamentalmente accesa dall’intrusione nella macchina compositiva della fictio (non importa se letteraria, scultorea, teatrale, e così via) di materiali “ignobili”, tratti dal repertorio di quella che un gergo ancora piuttosto in voga chiamerebbe la multimedialità postmoderna. Hegel, affezionato all’alta compostezza di quell’hortus conclusus di elementi “costruttivi” baciati in fronte dalla tradizione cui talora si allude (con un pizzico d’ironia) ricordando la sua predilezione per la insuperabile politezza del marmo pario elevato a materiale scultoreo per eccellenza, avrebbe profetizzato che il contaminarsi dell’arte con i piani “bassi” dei materiali forniti dalla moda o dalla nascente produzione industriale avrebbe snaturato e, infine, fatto deperire fino alla morte l’arte, almeno un certo modello “normativo” di arte38; tale contaminatio è stata fiutata da Hegel con lungimiranza, mentre noi la possiamo vedere confermata e assurta a sistematicità ora, in tempi in cui costituirebbe un compito ingrato anche solo abbozzare un censimento di ciò che debba 38. L. Bonesio, Filosofia dell’arte, in F. Papi, La filosofia contemporanea, Zanichelli, Bologna 1981, p. 178.

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e di ciò che non debba ritenersi interno alla sfera dell’artistico. La seconda lettura, che in Italia è stata sviluppata con particolare coerenza da Formaggio, riecheggia con minore fedeltà le preoccupazioni effettivamente denunciate nel testo di Hegel, ma ha il merito di concentrarsi sul dato inequivocabile che, nell’architettura del sistema, l’arte cede la “staffetta” (sia pure attraverso l’ulteriore, interlocutoria interposizione della religione) alla filosofia e dunque, in qualche modo, “passa” in filosofia. E allora, sebbene il percorrimento di questa via sia suffragato solo da un paio di significativi accenti affioranti dal testo della Grande estetica39, non manca di una sua legittimità la scelta di enfatizzare che l’arte viene, se non stricto sensu esalando l’ultimo respiro, almeno mutando i suoi connotati nella misura in cui, per dirla con le parole su cui si apre la Teoria estetica di Adorno, lascia sempre più visibilmente cadere l’originaria «ovvietà» per farsi carico di una (in certo modo davvero filosofica) “fatica del concetto” rivolta a e su se stessa nella ricerca di una autocomprensione40. Questo sforzo trova i suoi punti di massima tensione in operazioni ad alto tasso d’intellettualizzazione quali sono, ad esempio, la compilazione di un manifesto che leghi ad un quadro di linee programmatiche accuratamente riflesse gli artisti riuniti sotto l’insegna di un “ismo”, oppure quella sorta di autoframmentazione e autosmontaggio cui inclinano le opere che (siano o non siano ascrivibili all’area dell’arte battezzata letteralmente come “concettuale”) ostendono gli artifici tecnico-costruttivi da cui sono “tenute assieme”, fino a costringere il fruitore ad occuparsi in qualche modo del problema del rapporto che esse intrattengono con l’ambiente 39. Si veda, ad es., lo spunto presente in G. W. F. Hegel, Estetica, cit., tomo I, p. 796 (Parte seconda, Sviluppo dell’ideale nelle forme particolari del bello artistico, Sezione terza, La forma d’arte romantica, Capitolo terzo, L’autonomia formale delle particolarità individuali). 40. D. Formaggio, Arte, Mondadori, Milano 1981, pp. 60, 62.

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circostante e con i condizionamenti socio-produttivi imposti dall’industria tout court, dall’industria culturale e dal mercato. L’alternativa fra questi due moduli di lettura può risolversi in alleanza e integrazione se si tiene conto che il prevaricare del discorrere e dell’autoscandagliarsi coscienziale dello “sbrigliato” soggetto della modernità entra, nella sua polimorfa arbitrarietà, a fare letteralmente parte, come ingrediente costitutivo, delle opere d’arte, almeno di quelle appartenenti alla sfera del letterario e più particolarmente (com’è naturale) del narrativo. In esse, secondo l’inflessibile requisitoria dello Zolla di Storia del fantasticare, si infiltrano, con l’effetto di un intollerabile tracollo del decus dell’opera, tutti i possibili e immaginabili squarci di dialogo da cucina o da scompartimento ferroviario e tutti i più riposti rimuginii “interni”, tra l’altro conducibili ad appropriata resa espressiva solo tramite l’introduzione di rivoluzionarie tecniche stilistiche di stampo joyceano o woolfiano, capaci di aderire allo svariare anguillesco dello stream of consciousness, alla peculiare natura del suo dis-ordinarsi fratto e accumulatorio. Il grido di allarme e di dolore, in cui si condensa l’anatema scagliato da Zolla contro queste deviazioni dalla strada maestra di un saldo canone preposto alla creazione poetico-romanzesca, si inquadra nel contesto di un pamphlet che fa discendere questi “traviamenti” più strettamente inerenti alla sfera dell’estetico e altri ancora dall’attecchire, giudicato nefasto, delle facoltà della trasfigurazione immaginativa, della cui “fortuna” viene schizzata la parabola ascensionale come quella di una potenza del maligno, alla cui affermazione si sarebbe opposto, in remoti tempi di ben altra saggezza e virtù, tutto l’apparato esorcizzante di un repertorio mitico attento ad ascrivere il “fantastico” all’area dello stregonesco e del riottoso anti-divino41.

41. E. Zolla, op. cit., pp. 25-44.

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D’altronde, in Storia del fantasticare, la lunga filippica non ha il suo punto debole nel fatto che conceda senz’altro, come veri e fondativi di tutto lo snodarsi del saggio, credenze e assunti che, nella misura in cui fanno del fantastico poco meno di un principio cosmico collocabile dalla parte dell’oscura negatività in un quadro cripto-manicheistico, si distanziano assai bruscamente dall’ordinario sentire attuale. Se l’opinabilità del testo di Zolla si riducesse a questo, esso potrebbe anzi venire apprezzato per aver almeno dato uno scossone alla prepotenza della moderna “immagine del mondo”, intollerante nel precludersi ogni ascolto dei richiami di una sapienza fin troppo disinvoltamente irrisa come inservibile e superata e invece recuperata con un’operazione di interessante e, in certo modo, coraggiosa inattualità da Zolla. Piuttosto, nel saggio è da respingersi quella adialetticità con cui le categorie di reale e di immaginario vengono svuotate di convincente sostanza teorica schierandole “l’una contro l’altra armate” in modo tanto schematico che l’autore, lanciato in una destructio dei valori dell’immaginazione con tale perentorietà da ricorrere anche a un argomento come quello dell’opportunità di distogliere i fanciulli dall’abitudine all’indugio fantasticante42, è convinto di potere impartire i colpi decisivi all’immaginazione profondendo elogi dell’adattamento al vigente, dall’alto di una netta vocazione “realistica”. Questo non chiaroscurato “realismo” fa sostanzialmente tutt’uno con l’idea che il vigile sintonizzarsi degli uomini “giusti” sulla ininterferita linea aurea dell’attenzione rivolta al nucleo di pensieroazione volta per volta dominante sia sinonimo del rapportarsi ad una tavola di significati di sicura pregnanza ultrapersonale, anche perché mutuata dal codice di vita più genuinamente rispondente ai comandi delle scritture43. Analogamente, la scelta 42. Ivi, p. 240. 43. Ivi, pp. 27, 34-36.

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“realistica” vorrebbe nobilitarsi, allorché la discussione si circoscrive a temi di valutazione estetica e a problemi di critica letteraria, puntellandosi su quella teoria di Goethe che “assolve” l’immaginazione applicata al lavoro di ricerca artisticoscientifica solo a condizione che essa si pieghi ad asservirsi al reale-naturale, di cui dovrebbe disciplinatamente prevedere e pro-durre le linee di sviluppo e le nervature evolutive destinate poi infallibilmente ad emergere allo scoperto come effettuali, senza concedersi alcun percorrimento di traiettorie eccentriche e stravolgenti-contestanti l’immagine di quel “bello” svilupparsi e di quel lento, plasticamente trionfante crescere e dispiegarsi44. Così, in qualche modo, Zolla dà un suo personale nulla osta al lavoro di costruzione-conservazione, già intrapreso da numerosi interpreti, dell’immagine di Goethe come corifeo della pacata, equilibrata “maturità” che, svincolatasi dalle torbide suggestioni di quella passione eversiva (nell’accezione non tanto politica, quanto piuttosto metafisica del termine) che celebrava i suoi fasti nella confessione di de Sade di sentirsi ciecamente bramoso di abbattere l’ordine del moto dei pianeti45, privilegerebbe sistematicamente la casta seduzione sprigionata dall’esattezza delle corrispondenze, dalla precisione delle simmetrie e dalla raggiunta stabilità degli assetti, non importa se temperamentali-esistenziali, politico-civili o, al più alto grado di assolutezza, cosmico-naturali. Si può ben dire che Zolla introduca una utilizzazione in chiave conservatrice di Goethe, di cui ritorna a giocare decisivamente la valenza, peraltro suffragata da non irrilevanti dati biografici, di timorato suddito, preoccupato di integrarsi nel sistema dato con la devozione che si spende per il migliore dei mondi possibili. Non sorprende che gli uomini-paradigma di Zolla versino appunto in condizioni di 44. Ivi, pp. 84-87. 45. Cfr. A. Camus, L’uomo in rivolta, trad. it. di L. Magrini, in Opere di Albert Camus, Bompiani, Milano 1973, vol. II, p. 376.

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acquiescenza assoluta ai comandamenti che insegnano a pregare e a rendere omaggio di continuo, attraverso un linearissimo e grigiamente iterativo operari domestico ed extra-domestico, al migliore dei mondi possibili, di cui la Tradizione assicura la avverata immanenza. Quegli uomini, stregati da un cattivo inebetimento, si inebriano di rispettare per filo e per segno le scansioni del loro tempo quotidiano, scivolando da una ben prefissata fase operativa all’altra sotto l’invisibile sferza di prescrizioni del tipo di quelle contenute (ad esempio) nei “manuali d’istruzioni” approntati dai dottrinari puritani meno intelligentemente anti-modernisti46. Così essi inevitabilmente contraddicono nientemeno che la direttrice fondamentale dello sforzo saggistico e del “magistero” di Zolla, che tutti conosciamo (soprattutto, ma certo non solo, tramite la lettura del ben noto Eclissi dell’intellettuale) come ardente e acuto smascheratore delle miserie del mondo della massificazione e modernizzazione generalizzata. Infatti genera una singolare sorpresa rilevare come un polemista tutt’altro che inconsapevole della lezione francofortese non si sia avveduto che quegli uomini esemplari, intatti da qualunque distrazione e macchinalmente trasportantisi da un “dovere” all’altro, non evocano la compostezza di una gens i cui gesti rimandino al nocciolo rituale-cultuale di una tradizione abbastanza avvolgente da restaurare i legami “organici” disciolti dalla modernità, ma piuttosto la muta e, proprio perché iniettata di ottusità conformistica, febbrile organizzazione produttiva di quei moderni staff e di quelle “squadre” (anche sportive) che proprio Horkheimer e Adorno scorgevano come internamente indifferenziate, scevre di faglie e di “orifizi” e inossidabili nel loro funzionalizzare la scaltra alternanza di fatica e riposo/di tempo lavorativo e tempo libero all’ottenimento

46. E. Zolla, op. cit., p. 142.

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di un fine tecnicamente significativo47. E non c’è dubbio che termini come faglia od orifizio richiamino alla mente il termine “decompressione”, che Sartre utilizza quando vuole esplicitare la sua teoria secondo cui il fluido dell’immaginazione arriva a introdurre veri e propri svuotamenti nell’opaca fatticità, di cui “trafora” il macigno apparentemente inscalfibile fino a porre il reale, in qualche modo, fra parentesi e a generare un bianco spazio di apertura su cui far liberamente evoluire le sue “pedine”. A cospetto dell’abdicazione ad ogni anche esile filo di pensiero autonomo e critico-rielaborante cui si riducono gli eroi zolliani dell’Ossequio alla in-discutibile positività (in senso hegeliano) della Tradizione, non riesce di stornare un moto di nostalgia per quell’insegnamento sartriano, che pure è stato ripetutamente e giustificatamente imputato di germinare da un’inclinazione filosoggettivistica troppo infiammata, incapace di tenere nel debito conto l’irriducibilità di certi decisivi ingombri opposti al “per sé” dall’“in sé”. Resta il fatto che, depurata dal suo catastrofismo, la lettura data da Zolla delle scosse telluriche da cui è stato corrugato il concepire-comporre narrativo e poetico dello stadio avanzato del romantico concilia le due più lucide visuali interpretative del problema della “morte dell’arte”, perché lumeggia come il fattore su cui insiste una delle due, ossia il sopravvenire di un più complesso “rimbalzo autoriflessivo”, penetri nelle commessure delle opere proprio come se fosse uno di quei materiali montanti dal “basso” dell’area immeritevole (per Hegel) del crisma dell’artisticità, sui quali l’altra interpretazione incentra la sua attenzione. Ma quel particolarissimo “materiale”, che solo la proficuità del fare risaltare le sotterranee concordanze fra quelle due visuali all’apparenza incomunicanti può convincere ad etichettare 47. M. Horkheimer e Th.W. Adorno, op. cit., p. 94 (Excursus II, Juliette, o illuminismo e morale).

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provvisoriamente così, non si configura come “basso” per i motivi addotti da Zolla, che lo intende e condanna come germinazione della “mala pianta” dell’abbandono immaginativo agli sfuggenti arabeschi mentali, bensì piuttosto per più nodali ragioni, tutte peraltro individuabili a condizione che ci si mantenga interni alla mappa dell’argomentare hegeliano. L’affluire nel corpo delle opere di sempre più frequenti e sofisticatamente torniti brani del “discorso” autocoscienziale delle dramatis personae (sia che quel discorso venga tutto consumato nella segretezza del “chiuso” del soggetto, sia che esso passi a far parte di uno scambio dialogico per effetto del sollevarsi al registro dell’udibile oralità) è “basso” nella misura in cui rivela la pretesa di evidenziare i loro vissuti individuali avanzata da un campionario profondamente diasporatico di soggetti, ciascuno dei quali si emancipa dalla linea direttiva di un sentire, vivere e “significare” canonico per concorrere ad affermare il caleidoscopico panorama delle più intimamente determinate sensazioni, passioni, predilezioni e idiosincrasie. Tutte queste nuances si compongono nel quadro inafferrabilmente ambiguo di una molteplicità di Weltanschauungen incuranti di mediarsi con un intero sovraordinato, cui anzi possono sovente opporre la carica lacerante dello spleen, del dis-adattamento e della rancorosa od accorata protesta negatrice. Non c’è dubbio che anche Gli indifferenti possano venir letti come luogo artistico di caduta del “grande stile”, un luogo ove si accorda udienza, anzi sbalzo amplificante alle disparate “coloriture” esistenziali di personaggi ognuno dei quali parla, esprime privatissimi progetti, denuncia umbratili assaporamenti di istanti di gioia e di pienezza oppure registra enigmatici incontri con la gelida ala dell’assurdo e dell’insensato, quindi, in una parola, vive “divisionisticamente” (per mutuare un termine dalla storia dell’arte e deliberatamente piegarlo ad un diverso significato). Nessuno di questi personaggi si preoccupa che il gradino da cui innalza la sua “voce” sia più o meno ele-

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vato, a seconda del livello di più o meno tersa consapevolezza con cui egli coglie il proprio an-archico esperire, e tanto meno cura che esso sia saldabile al gradino su cui sta e recita la sua parte un altro “atomo” umano. Ma prima di intraprendere l’attraversamento di Gli indifferenti e aprire grazie ad esso uno spazio idoneo alla ripresa di una discussione che investe le implicazioni connesse alla invadenza dello specialissimo materiale artistico “basso” di cui si è detto e che quindi si riannoda al Leitfaden di questo scritto, teso appunto ad indagare salienti sfaccettature del proteiforme “oggetto”-autocoscienza, costituisce già di per sé un problema la stessa operazione di attraversamento di un testo che, per dirla con il Rella di Metamorfosi, afferisce al versante del pensare immaginale-rappresentativo e su cui ci si prefigge di calare strumenti d’investigazione solidali invece con i topoi del pensiero astraente-concettualizzante. In effetti, taluni esponenti della più avvertita riflessione teorica producono testi in cui, con esiti più o meno fruttuosi, si concentra lo sforzo di lasciare interagire preziose strutture inquadranti, riprese dal lascito della speculazione stricto sensu filosofica, con lo sfrecciare di seducenti richiami desunti dalla tradizione di un “pensiero letterario” capace di raggiungere, nelle punte più alte, una stringenza assai preziosa a proposito di temi attorno a cui si arrovella talora vacuamente quella speculazione. Nel momento in cui il pensiero concettualizzante avverte nella forma più pressante l’esigenza di realizzare una contaminatio con la meno “decorata” ma forse non meno vivace né, a suo modo, meno rigorosa tradizione di pensiero che per tanto tempo, semi-ignorata, gli è scorsa accanto, meritano attenzione spunti metateorici come quello contenuto nella recensione di Rovatti a Tempo e racconto di Ricoeur, nella quale ci si chiede se per caso tutta la buona volontà esibita dal filosofo francese nell’inglobare, entro la cornice del suo ponderoso scritto, indagini anche molto fini a proposito della “trattazio-

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ne” della temporalità attuata-inscenata dal Mann di La montagna incantata nonché dal Proust della Recherche non si debba in ultima analisi rivelare un omaggio astutamente “biforcuto” alle istanze del pensiero immaginale. Rovatti considera la possibilità che tanto zelo analitico celi la verità di un progetto egemonico della ragione filosofica “propriamente detta”, tesa a risucchiare sotto di sé quel patrimonio “altro”, cui si accosterebbe con tanto maggiore disponibilità quanto più questa “umiltà” d’approccio predisporrebbe le condizioni per il ribadimento di gerarchie e priorità da lungo tempo, a torto o a ragione, stabilizzate48. Se anche Ricoeur è sospetto di mobilitare un macchinario subdolamente finalizzato a sostenere le mire di un espansionismo della ragione astraente ai danni della “ragione narrante” proprio allorché propone un libro in cui la tensione ermeneutica parrebbe innocentemente orientata alla ricerca di una equa calibratura del delicato rapporto di contaminatio cui si è alluso, allora è altamente probabile che nessuno, articolando un tentativo in qualche modo accostabile a quello ricoeuriano (pur se magari molto meno pretenzioso), possa sfuggire a sospetti analoghi. Tanto meno vi sfuggirà l’essay di contaminatio che qui si vuole far ruotare attorno a Gli indifferenti, se si pensa che esso, a costo di venire respinto da qualcuno come instantia negativa sulla faticosa strada di avvicinamento ad un regime di convivenza de-gerarchizzato (o, addirittura, ancora gerarchizzato, ma secondo una scala preferenziale rovesciata) fra le “due ragioni”, si impegna a distillare le determinazioni di senso più “convenzionalmente” filosofico dal romanzo moraviano. Del resto, trasfigurare il romanzo in un vasto palcoscenico ove si muovono personaggi nei quali è contenuto il deposito crittografato di nodi problematici e di autentiche categorie intrinse48. Si veda l’articolo di P. A. Rovatti Raccontala al filosofo, «L’Espresso», 11 gennaio 1987, p. 111.

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che al più classico philosophicum appare un esercizio interpretativo necessario cui induce l’intelaiatura stessa del romanzo. L’opera moraviana possiede una sua “trama concettuale” che reclama, per così dire, di essere posta finalmente allo scoperto, affinché prenda forma una lettura che, per il tramite dei suoi tratti di opinabile “convenzionalità”, si segnali per la brusca anticonvenzionalità con cui si offre come un’alternativa a quella risaputissima che, con piglio severamente storicizzante, ha pacificamente incamerato Gli indifferenti come atto d’accusa rivolto contro la gretta ipocrisia di un milieu alto-borghese ulteriormente corrotto ed espropriato di genuini slanci dal clima sordido e intorpidente diffuso dal regime fascista. Il perseguimento di rilevanti tracce e sedimentazioni del philosophicum fra le pieghe del romanzo mette capo innanzitutto al disseppellimento dei “segni” garanti del fatto che, in esso, non accade che “del nulla non ne è nulla”; Moravia, si direbbe, non dubita che il nulla ci concerna massimamente da vicino, esattamente come da più parti e in più forme colpisce la percezione, i nervi e la mente dei suoi personaggi. Tutto ciò comincia a farsi chiaro a chi consideri quanto spesso stati di bordeggiamento della morte raggelino i due fratelli e, ad un tempo, li sollevino a un piano d’osservazione privilegiato da cui diviene possibile intravvedere i barbagli di una indefinibile salvazione. Carla torna dal tennis ed è costretta a respirare a piene boccate l’aria viziata dei consueti interni domestici, tanto da provare un senso di soffocamento e di non-proseguibilità della sua condizione; così, essa “incontra” la morte nella misura in cui le sembra di desiderare di smarrirsi in un gorgo senza fondo e di ripiegarsi su se stessa fino a giacere morta con le braccia in croce49. Michele si sente a più riprese afferrare da uno stato di svuotamento che sembra annunciarglisi come di49. A. Moravia, Gli indifferenti, in Opere di Alberto Moravia, Bompiani, Milano 1973-1974, vol. I (Gli indifferenti – Le ambizioni sbagliate), p. 240.

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retto preludio dello sprofondamento nella morte se non come l’anchilosi definitiva della morte stessa, che fa venire i sudori freddi ma intanto avanza la promessa di una resa incondizionata che garantisca riposo. Ma Michele intrattiene un suo personale rapporto di attrazione-repulsione con la morte anche perché l’insoddisfazione, comune a tutti nel romanzo tranne forse che a Leo Merumeci, si modula in lui come una molla dolorosissimamente compressa, un rodimento e uno stillicidio su cui si innesta una cupa aggressività, incessantemente attiva nel rivolgersi contro lui stesso tenendolo avvinto nei ceppi di una masochistica inettitudine, ma di tanto in tanto capace di sboccare nella violenza “estrovertita” da cui viene repentinamente accelerato il greve scorrere del tempo narrativo, così come avviene quando egli scaglia di colpo un portacenere contro Leo50 o, soprattutto, quando gli “spara” addosso in uno stato semi-sonnambolico cui si mischia la nota di una feroce determinazione a uccidere51. Ma nel romanzo aleggiano segnali del nulla non certo solo perché la morte vi rivendica la sua presenza più nettamente ancora che se qualche suo protagonista ne fosse realmente colpito. L’aura del nulla circuisce e quasi modella i contorni di cose, oggetti, ambiances, situazioni e persone in un modo del tutto particolare, ossia sistematicamente smangiando, sfocando e dissolvendo quei contorni. L’occhio “esterno” dell’autore e quello stesso dei due protagonisti, Carla e Michele, che assolutamente non si assoggettano a prestare banalmente fede alla rassicurante ma in verità ingannevole danza degli oggetti, che un cattivo realismo vorrebbe far credere pacificamente alla portata della presa abitudinaria dei soggetti, vedono un mondo in frammentazione, evanescente nelle sue presuntamente salde connessioni, monocromatico o persino decolorato là dove 50. Ivi, p. 184. 51. Ivi, pp. 317-318.

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più squillanti dovrebbero essere le sue tinte. Bicchieri, finestre, specchi, tendaggi, marciapiedi e tutta una serie di altre cose mandano rintocchi profondamente stranianti e paiono sfigurarsi, si offrono alla visione, al tatto e all’udito ma al tempo stesso paiono rinchiudersi in una loro insidiosa enigmaticità sottolineata dalla luce abbacinante che irraggiano, così accentuando lo stato di assorta e stuporosa sospensione dell’applicazione dei più ovvi schemi percettivi in cui già spesso vengono a trovarsi i personaggi-osservatori. In una simile predisposizione a subire l’impatto di una lucentezza ambientale “alterata”, che circonfonde di mistero e sommuove dotandole di una indecifrabile animazione le cose più normali, si cala Carla nel giorno del suo compleanno, quando, subendo passivamente l’incalzare di Leo, beve fino ad ubriacarsi e solo allora può rendersi conto di come anche gli oggetti, in certo modo, stillino lacrime e gemano52. Il romanzo è percorso dalla rappresentazione di stati di acuta derealizzazione che scaraventano il peso di una sinistra atmosfera sui protagonisti. Così a Lisa e Mariagrazia tocca di udire, in una gelida mattinata che aggiunge un tocco di desolazione alla spettrale deserticità dei periferici quartieri alti dove esse stanno arroccate, il suono della palla rimbalzante fra due tamburelli in uno scenario di gioco che resta occultato ai loro occhi, solamente intuibile sul retro della villa di fronte alla quale si erano soffermate nel vivo di un penoso alterco a sfondo “sentimentale”53. Alla banalità delle battute di quel litigio, esse sono strappate quasi da una folgorazione sinestetica che assume il senso di un richiamo alla verità dell’incombere di un destino annunciantesi da lontano e, per così dire, alle spalle dei soggetti, che, immobilizzati nella rigidità dei loro vani contegni con vivo effetto espressionistico-caricaturale, vengono irrevocabil52. Ivi, pp. 112-126. 53. Ivi, p. 233.

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mente ghermiti e “giocati” dall’irruzione di quel “segno”. Ma poi non c’è quasi interno borghese, sia che si tratti del salone di casa Ardengo dove sta il pianoforte a cui si esibisce controvoglia Carla oppure del boudoir in cui Lisa vorrebbe piegare mellifluamente Michele a corrispondere alle sue voglie, che non sia letteralmente contro-disegnato e, quando è già scrostato e sfatto nelle finiture e nei colori, ulteriormente destrutturato e quasi totalmente svuotato della sua consistenza oggettuale dall’ingerenza di una meteorologia autunnale che letteralmente entra dalle finestre, confondendo tutto sotto la cappa di violenti, impressionanti chiaroscuri che, stampandosi sulle pareti e sui mobili, determinano l’immancabile effetto di inabissare nelle tenebre interi settori delle stanze e di accendere gli altri di una luce livida e stomachevole54. È evidente che questo impietoso uso di un contrasto in bianco e nero, dove il bianco stesso non evoca mai purezza bensì una freddezza così perentoria da dare il malessere, svela il consapevole proposito di Moravia di commentare-raddoppiare, sulla scorta di una lezione ben esemplata dalle piogge “purificatrici” che nei Promessi sposi sottolineavano il risolversi in bonum di topici frangenti narrativi, la meschinità petulante e auto-commiserativa delle sue disgraziate creature, avvolgendole in una meteorologia che racchiuda un’analoga nota di piagnucolosa e slavata trasandatezza. Tuttavia, dal punto di vista filosofico, riveste ben altro interesse il risvolto per cui questa opprimente presenza del tempo attesta l’ininterrotto e autonomo svolgersi di una vicenda cosmico-naturale che ha i tratti di una processualità oggettiva radicalmente trascendente l’uomo e a lui indifferente; essa ricorda così l’illusorietà della pretesa umana di rapportarsi al mondo e alle cose con la sicurezza gestionale di chi si trovi “a casa propria”. Del resto, nel romanzo, gli oggetti stessi, se considerati dalla massima vicinanza, smarriscono tutta la loro 54. Ivi, pp. 53-54, 78, 281, 284. 

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ovvietà e palesano un doppio fondo che, nel momento stesso in cui la sonda inviata dal soggetto vi batte contro, sfuma, scompare, togliendo sé e insieme travolgendo la superficiale “lacca” della cosa, insomma lasciando il soggetto attanagliato (sartrianamente) dalla nausea connessa all’appercezione dello sradicamento e della perdita di “patria”. Leo che si arrabatta per riuscire a sedurre Carla e intanto gioca con cinica accortezza le chances di impossessarsi della villa degli Ardengo; Mariagrazia che lotta con astuzie teatrali per tenersi stretto Leo come amante senza nemmeno avvedersi che il suo occhio concupiscente si è posato su Carla e non certo sulle carni già “degustate” di Lisa; e, infine, Lisa stessa che interpreta con pieno investimento emotivo il suo ruolo di volonterosa adescatrice di Michele, su cui si illude di poter contare come su di una sorgente di freschezza fisica e morale a cui abbeverarsi per realizzare una palingenesi che la sollevi dalla stagnazione esistenziale venata di laidezza in cui si dibatte55; insomma i tre protagonisti che si ostinano a “progettare”, conservandosi in un rapporto di familiarità più o meno autocompiaciuta con l’ambito del quotidiano e dello storico-temporale sentito ottusamente come inattaccabile Heimat entro cui svolgere le proprie manovre, sono le figure più apertamente patetiche, grette e neanche sfiorate dalle “rivelazioni” che sconvolgono i due fratelli. Quei tre, e specialmente Leo, la cui squadrata compattezza fisica da solido atticciato e le cui coriacee carni ben rasate di colorito rubizzo lo ascrivono al novero degli psicosomaticamente “sani”56 categorizzati dal Landolfi di Rien va57 non meno bene che da Svevo, meriterebbero di vedere smantellate le loro certezze dalle parole con cui proprio Zeno Cosini-Svevo, in La coscienza di Zeno, contrappone un mesto scetticismo alla 55. Ivi, pp. 77-78. 56. Ivi, pp. 98, 111, 317. 57. T. Landolfi, Rien va, Longanesi, Milano 1970, pp. 149-150.

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pimpante ingenuità della moglie, persuasa di potere proseguire, per così dire, ad infinitum la propria navigazione terrena grazie alla protezione di quegli appoggi socio-assistenziali (e magari fideistico-provvidenziali)58 che sono poi pressappoco i medesimi di cui si inebria il tronfio borghese progressista che ingaggia, in uno scorcio dialogato di La persuasione e la rettorica, un umoristico-drammatico “braccio di ferro” con il “deuteragonista” Michelstaedter, i cui argomenti sottraggono, zolla dopo zolla, Grund da sotto i piedi del benpensante59. Insistendo nella ricerca di tracce del philosophicum, non c’è dubbio che le scoperte di maggior peso saranno rese possibili da una più specifica concentrazione dell’analisi sulle due figure di Carla e di Michele. Dopo che, nell’articolare la fenomenologia del film di Visconti, si è battuto l’accento sulle “cifre” para-categoriali della ritualità, della casa e della nominazione decurtata, saprebbe di riproposizione di temi già lumeggiati diffondersi sulle analogie per cui anche nel romanzo di Moravia circola un’aura claustrale che assegna alla villa de-centrata in una desolata quanto elegante zona periferica di Roma e al giostrare dei meri nomi propri dei componenti della famiglia (che ci viene detto chiamarsi Ardengo a romanzo ben inoltrato e in un modo incidentale e “distratto” che pare voler continuare a velare quel cognome anche mentre vi accenna), nonché alla massività di un cerimoniale domestico-mondano che serra in una morsa glaciale ogni minimo gesto, la funzione di “anestetizzare” le persone e imprimere il marchio della iteratività alle situazioni, anzi, più pregnantemente, di sospendere tutto nell’in-determinazione spazio-temporale celebrando il trionfo di un radicale solipsismo. Ma lo stendersi della tela di ragno di un cerimoniale onniper58. I. Svevo, La coscienza di Zeno, dall’Oglio, Milano 1983, pp. 182-184. 59. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1982, pp. 137-140.

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vasivo, cui si attengono con dolorante scrupolosità figure che spendono talmente poco di sé da dare l’impressione di non fare nulla e di esserci solo come riassorbite nell’“assenza”, non è l’unico segno, e neppure il più inequivocabile, che ci faccia reimbattere in quel “volto” del philosophicum che fa tutt’uno con il problema dell’imperialismo esercitato dal possibile e dal logoteticamente pre-contemplato ai danni dell’empirico come imponderabile apportatore di novum. Piuttosto, molti segnali interni al libro ci mettono in grado di scoprire in Carla l’eroina, in parte trionfatrice e in parte martire, di un aspro confronto-scontro con il novum, perché nel mazzo dei protagonisti, ciascuno dei quali si industria con pachidermico impaccio ad inseguire un qualche “mutamento”, proprio Carla è toccata più frontalmente e irriducibilmente degli altri dal dardeggiare della luce insostenibile del novum. È Carla che, dalle minime sfumature dell’atteggiamento di Leo o dalle sue più grossolane avances, si vede venire incontro un novum che, per quanto “annunciato” e facilmente riconoscibile come l’azzardo di una possibile tresca con l’amante della madre, mobilita in lei una complessa reazione bifronte, scissa, per un verso, nell’anelito quasi disperato verso una nuova vita preferibile comunque, per il solo fatto di essere nuova e diversa, a quella inerzia in cui si trova impaniata, e, per l’altro, in un autentico panico a cospetto della prospettiva di una situazione che sarebbe foriera di un equilibrio fatalmente instabile e, probabilmente, di un senso di colpa indotto dalla consapevolezza di avere dato alla agognata “catarsi” i connotati paradossali di un abbandono tra le braccia dell’impuro Leo. Ma qui interessa privare della “polpa” circostanziale questo nodo narrativo, che alla fin fine si fa carico di reggere sulle proprie spalle tutto il peso di garantire una trama e un filo di suspense ad un romanzo al quale, qualora si guardi ad esso da un’angolazione estetica ancora solidale con un metro interpretativo pre-novecentesco, diventa giocoforza “rimprovera-

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re” che non vi accade nient’altro se non lo sgranarsi dei fatti più o meno inappariscenti che preparano la resa della giovane all’ingordigia di Leo, lasciando di volta in volta intravvedere lo sbocco in un assenso di Carla oppure in un suo eventuale ritrarsi. Se però, appunto, si bada alla scheletratura di questa situazione romanzesca in fondo piuttosto convenzionale, balza all’occhio che un senso oltremodo privilegiato sta racchiuso nell’esasperante riproposizione dell’idea, concepita da Carla fin dal momento in cui le si svelano le mire di Leo, della vita nuova, un’idea che seduce Carla molto meno di quanto la chiami al lavoro di costruzione di una “linea Maginot” anticipatamente difensiva. E questo lavoro si specifica solo in minima parte nell’adozione di un contegno indecifrabile che tenga sulle spine il pretendente, perché è piuttosto il “lavorio” di un parossistico sforzo previsionale e di una sfiancante sollecitazione delle forze autocoscienziali, ossia del “materiale basso” dell’autoriflessione (così come lo si è chiamato precedentemente), a predisporre i contrafforti alla linea Maginot di Carla. Carla studia le conseguenze che potrebbero derivare a lei e alla sua famiglia dalla scelta di aprirsi al novum che la sovrasta e la minaccia, ma soprattutto si sfibra nell’experimentum mentis di montare fin nei minimi particolari lo scenario su cui rappresentare il dipanarsi del novum, così come le pare plausibile oppure auspicabile che esso si manifesti60. Il momento dell’irruzione del novum è impaginato e reimpaginato con una così solerte, insonne “produttività autocoscienziale” affinché venga in conclusione raggiunta la vittoria di avere metabolizzato il novum fino al punto che, per via di un ribaltamento dell’ordine consueto delle dimensioni temporali, l’anticiparlo col pensiero equivalga ad effettuare un ripasso delle sue modalità d’attuazione e delle ripercussioni da esso determinate, ovvero un ripasso di quello che non è ancora accaduto e di cui però si 60. A. Moravia, op. cit., pp. 36, 68, 73-74, 106-107, 142-143, 190-193.

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vuole, si può (forse) già definire e sapere ogni particolare. In Carla è crittografato quel philosophicum che coincide con l’irreprimibile sogno e conatus del pensiero di tutelarsi dall’urto di ciò che gli è altro, predeterminandone il “che” e, quel che più conta, il “come”. Ma Carla, allorché finalmente si concede a Leo nell’appartamento di lui, deve sorbire il succo asprigno del novum, non tanto nella misura in cui la memorabile nottata è segnata da continue e impronosticabili variazioni della tonalità interiore slittante dal tepore oniroide di una semi-inconsapevolezza dei fatti all’attenzione che ne spreme soddisfazione o atterrita costernazione, quanto piuttosto perché, ben più significativamente, non può fingere di non avvedersi che minuti particolari “cosali” la prendono alla sprovvista, contraendola nel freddo di un pigiama maschile indossato per l’occasione oppure depotenziando del tutto le facoltà della sua “memoria corporea”, costretta ad inviare segnali di non-riconoscimento al contatto con lenzuola dall’insolita temperatura o durante l’esplorazione del peculiare spazio interno del letto, che ha delle dimensioni e una collocazione tra gli altri mobili restie a lasciarsi “misurare” con la sicurezza con cui, da lunghissimo tempo, Carla svolge analoghe operazioni nella cameretta di casa sua61. In un’opera dove soggetti e oggetti sono investiti dall’accesa inflessione moraleggiante dell’autore, al punto da venire ribassati ad uno statuto di fantasmaticità, le punte e le spigolosità “cosali” del novum si sottraggono all’erosione dematerializzante, hanno la forza di scrollare da sé lo strato di polvere che sembra depositarsi su tutti gli oggetti di scena di questa tragedia piegata a romanzo e così ricordano i diritti di quell’ampio lembo dell’esperibile che fa di continuo segnare un’eccedenza rispetto alle reti com-prensive che l’autocoscienza filosofica vorrebbe tenere ferme, appagandosene e ritraendone rassicurazione come da fagocitanti “forme” del reale disciolto e devitalizzato in possibile. 61. Ivi, pp. 206-210.

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Lo sforzo di filosofizzazione del romanzo ha già riservato la “sorpresa” consistente nel fatto che, a cospetto del dovere critico di tematizzare il motivo del rinnovamento esistenziale così com’è vissuto da Carla che mastica e rimastica mentalmente le due inscindibili parole “vita nuova”, non si sia imboccata la via di discettare circa i nessi di traslazione dei temi dell’opera di Dante che ha proprio quel binomio per titolo nell’atmosfera a prima vista inconfrontabile di Gli indifferenti, inteso come “spazio” dell’umanità compiutamente de-spiritualizzata e, a maggior ragione, de-misticizzata. La scelta di prendere le mosse dal motivo della “vita nuova” per sviluppare implicazioni esplicitamente afferenti al piano del philosophicum prepara anche il colpo di mano che consentirà di “cancellare” la risaputa lettura critica secondo cui Carla incarna il destino di infelice non-liberazione, se non addirittura di dolorosa non-scoperta, della fisicità e della sessualità, in quanto, essendo una donna con una spinta all’emancipazione ben più blanda di quella mostrata da altre protagoniste moraviane che (come la Desideria di La vita interiore) si pongono sulla temeraria via della disubbidienza e della rivolta, resta sostanzialmente partecipe di quel contesto medio-alto borghese in cui è una triste legge che l’estrinsecazione della sessualità sia compressa dal suo intersecarsi (e imbrattarsi) con le “ragioni” della sfera del capitale o, se si preferisce una parola più agra e volgare, del denaro. Cancellare completamente questa lettura non sarebbe in realtà corretto e nemmeno possibile, per via dell’indiscutibile importanza del dato per cui, in questo romanzo, il “sogno d’amore” di Carla si abbassa alla sordida dimensione cui lo assegna proprio il suo contaminarsi indistricabilmente con la trama delle mene che Leo ordisce per ergersi dispoticamente a soggetto del possesso non soltanto di Carla e del suo corpo, ma anche, attraverso quel possesso, della casa degli indebitati, decadenti Ardengo. Ma di cancellazione non è lecito parlare anche per via della grande importanza che, per tutto il corso della sua produzione

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intellettuale, ha rivestito per Moravia proprio la diade “sesso e denaro”, intesa come chiave di lettura di quella deteriore realtà borghese in cui, in accordo con un classico topos del fenomenologizzare psicanalitico, l’amplesso è destinato ad assumere i connotati di un sordo atto di violenza, quasi di un autentico stupro perpetrato ai danni della donna dal soggetto maschile, che inietta il fiele della sua inclinazione al dominio, tanto pesantemente esercitato nella sfera economico-lavorativa, anche nei risvolti di uno scambio fisico che altrimenti potrebbe condividere con il ludico la levità liberatoria consustanziale alle sue manifestazioni. Se sono troppi e troppo rilevanti i motivi che sconsigliano di pretendere di mettere mano ad una cancellazione della lettura critica consueta del personaggio di Carla, la linea interpretativa filosofizzante apre comunque il margine per una significativa correzione di tiro. Diventa cioè possibile “dedurre” il fatto che la fisicità e l’eros di Carla, per così dire, gemono e stridono dolorosamente; e “dedurlo” significa metterlo al riparo da qualunque giudizio più o meno apertamente moraleggiante. Si può cioè “dedurre” come necessario che Carla si trovi in una condizione di conflittualità, al tempo stesso “desiderosa” di revocare se stessa, nei confronti della sfera della corporeità e della sensualità: lo si può fare se si tiene presente che, qualora si faccia del romanzo uno scacchiere su cui si muovono individui-pedine che portano crittografati in sé motivi e note categoriali propri del philosophicum, a Carla spetta di incarnare la diffidenza dell’autocoscienza filosofica a rapportarsi e ad entrare in contatto con ciò che contrapponga il volto oscuro dell’alterità alla “bava” del logos, che essa indefinitamente secerne in funzione autodifensiva e omologante. E non è un caso che, conducendo la sua penetrante polemica contro il “platonismo”, Nietzsche abbia individuato nella sfera del corporeo e dell’erotico, inteso nell’accezione più pregnante del termine, uno di quei poli “spaventosi” e perciò rimossi e inesplorati, anzi forse il polo

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in assoluto più inquietante e de-stabilizzante, verso cui il logos non si è mai mosso altrimenti che a tentoni, incapace di forgiarsi gli strumenti per instaurare con quella sfera un rapporto per lo meno paritetico e, anzi, costantemente preoccupato di negare a se stesso la potentissima seduzione che ne ha subìto sempre, e forse soprattutto allorché questi insinceri “esercizi” di negazione e di disconoscimento toccavano le più elevate vette di formalizzazione teorica, ad esempio nella decretazione platonica della dicotomia fra noumenico e fenomenico, oppure nella inventio cartesiana di un punto (la ghiandola pituitaria) di “tangenza” fra gli scissi mondi dell’ideale e dell’esteso. E, a ben guardare, i tratti di impacciata approssimazione e di ingenuità di questa inventio cartesiana non mettono allo scoperto tanto la fatalità dell’imballarsi della macchina del logos quando, per regolata e diretta che sia da un genio, si scontri con l’arretratezza della scienza del suo tempo, quanto piuttosto l’invincibile metus, questo sì realmente annebbiante e ottenebrante, con cui quella macchina, in questo caso come in innumerevoli altri, si è accostata al corporeo, che è la immagine dell’intera costellazione del suo proprio “altro”. La deliberata, necessaria avalutatività dell’approccio filosofizzante al romanzo farà sì che Michele passi per ben altro dallo snervato soggetto colpevolmente impotente a dare efficace estrinsecazione all’anelito di libertà e di rinnovata dignità, per sé e per la sua famiglia, che si agita in lui e che viene alla luce solo nella forma di scomposte esplosioni, venate di ridicolo nel loro velleitarismo stridulamente “dilettantesco”: Michele potrà cioè elevarsi al rango di una figura del culturale e, più specificamente, in lui si potrà vedere crittografata la gamma delle determinazioni che sostanziano l’autocoscienza saggistica, intesa come l’elemento su cui il philosophicum ferma la sua lancetta come sulla propria espressione più esatta, sulla propria “verità”. Già dalla cerebrale freddura che a Michele viene spontaneo

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pronunciare allorché tocca anche a lui assecondare Carla, desiderosa di farsi fasciare nel giorno del suo compleanno da un fuoco d’artificio di banali agudezas che sovrappongano per qualche momento inautentica serenità all’aura di pietrificato dolore e di latente esasperazione allignante nella casa, filtrano gli inconfondibili segni della non-spontaneità, della tortuosità che aborrisce la troppo piana semplicità caratterizzante le linee rette e della predisposizione allo scavo in profondità che insinua un moto di panico nel momento in cui l’affondare della sonda agitata dal lavorio autoriflessivo trasfigura l’obiettivo supremo della verità nel paesaggio di innumerevoli cerchi concentrici che spalancano un gorgo di risucchiante inesauribilità. Michele racconta: «Era la sera del venerdì santo, i briganti calabresi stavano riuniti intorno al fuoco; ed ecco uno di essi disse: “Tu Beppe che ne sai tante, dicci una bella storia” e Beppe con voce cavernosa incominciò: “Era la sera del venerdì santo...”». Non meno significativamente la madre replica: «Basta, basta per carità... non finisce più… abbiamo capito»62. Se questo è il biglietto da visita di Michele, non c’è dubbio che esso lo qualifichi come la figura dell’ipertrofia autoriflessiva che, attorcigliandosi nelle proprie spirali, segna il passo e rimane “sul posto”, in condizioni di dimestichezza tanto bassa con l’operazione di passare dal teorico-ragionativo al praticoattuativo quanto è invece eletta la sua abitudine all’insaziabile intellettualizzazione, che di continuo sortisce il (non-)risultato di s-piazzare i suoi piedi sull’orlo di quella stessa voragine sul cui bordo notiamo che anche la madre, pur essendosi limitata ad ascoltarlo, si sente scaraventare e dinanzi alla quale essa, che domanda letteralmente grazia, non ha la forza di sostare. Che Michele, qualora anche di lui si voglia fare una pedina collocata sullo “scacchiere filosofico” del romanzo, debba figurare come un intellettuale, anzi, a suo modo, un grande intellettuale, 62. Ivi, p. 105 (corsivo nostro).

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non è connotazione che abbia in alcun modo a che vedere con il dato miseramente circostanziale per cui, come si ricava da taluni accenni sparsi nel libro, egli figura iscritto all’università, e dovrebbe quindi sovrastare per preparazione culturale gli altri protagonisti grazie alla frequentazione di lezioni e allo studio di tomi d’esame. D’altronde, quand’anche egli frequentasse lezioni e studiasse tomi (una frequentazione e uno studio di cui non si trova peraltro alcun cenno nel romanzo; e comunque, se anche intere pagine ci presentassero un Michele inserito nell’ambiente universitario, la nostra analisi potrebbe rimanere inalterata), sarebbe ugualmente come se non le frequentasse e non li studiasse, perché tutto questo suo eventuale esperire, avente luogo all’esterno della casa o comunque legato alle sollecitazioni di un’istituzione estranea alla casa, rimarrebbe fagocitato e annullato da quella non-istituzione, da quel segno di extra-temporalità e di a-culturale fissità (dunque, forse, di naturalità?) che, qui come nel film di Visconti, è la casa stessa. Michele è l’eroe dell’intellettualizzazione, in primo luogo, nella misura in cui il suo potentissimo mentalismo lo trasforma letteralmente nel controcanto della vicenda di mestizia e corruzione che gli si dipana intorno. Noi vediamo che la lucidità, tagliente come diamante, dell’“occhio della mente” di Michele lo pone pressoché sistematicamente nelle condizioni di trapassare da parte a parte le situazioni, le parole e gli atteggiamenti da manichini degli altri quattro e di accendere tutta questa “materia” dei barbagli di una intelligenza che, prima di avere ascoltato una frase o un solo istante dopo averla ascoltata, la rielabora, la svuota dal di dentro e la riformula, “creando” così una realtà alternativa a quella deprimente che lo investe di continuo da ogni lato. Michele, che nel profondo incasso della propria interiorità non lascia scampo ad uno solo degli innumerevoli segni di meschinità che costellano il parlare e l’atteggiarsi degli altri e anche suo, funge da leva di trasfigurazione-rovesciamento di tutti quei patetici “atti mancati”, di tutte quelle volgari e false

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risate, di tutti quei ributtanti ammiccamenti e di tutte quelle omissioni verbali decise in omaggio ad una squallida ricerca del quieto vivere e all’accettazione della prospettiva di un’indefinita conservazione dello status quo, per quanto insostenibile per tutti esso sia. Nel momento stesso in cui i dati constatabili del “gioco a cinque” registrato nel romanzo si saldano a generare lo scenario della più irrimediabile abiezione, Michele esercita silenziosamente una propria peculiare funzione di censore dei mores, che non è nelle sue corde sforzarsi di rettificare con il verificabile intervento prassistico, ma di cui egli comunque trionfa mediandoli e alla fine schiacciandoli con la secrezione del lavorio autocoscienziale: questo è talmente fervido che, se solo si incolonnassero l’uno dopo l’altro i finissimi “nota bene” e le perentorie demistificazioni che assesta quasi ad ogni uscita espressivo-comportamentale percepita come sfalsata rispetto al piano della giustezza tonale e della dignità morale, se ne trarrebbero le fondamentali linee di articolazione di un altro possibile romanzo, di un’altra possibile storia ove i protagonisti direbbero parole e compirebbero atti opposti a quelli che concorrono a marchiarli come “indifferenti”. Qui non è il caso di insistere sul contrasto fra la sterilità delle maldestre fiammate in cui d’improvviso si estroverte il disgusto di Michele e il brillante lussureggiare delle iniziative di rimodellazione del reale che egli assume “dentro di sé”, perché seguendo questa via si attraccherebbe alla scontata conclusione che Michele è il più colpevole e, se così si vuol dire, il più indifferente degli “indifferenti”, in quanto stempera in un acre ludus intellettualistico, e così spreca, la sua rara chiarezza di lettura della umiliante situazione e il suo infallibile fiuto, irraggiungibile dagli altri protagonisti, per i punti di anche più inappariscente affioramento degli scricchiolii e dei vacillamenti. E l’irruzione dell’inflessione giudicativa nell’approccio alla figura di Michele si completerebbe poi in un batter d’occhio sottolineando che la sua inettitudine a tenere le redini di tutto

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quel potenziale di chiaroveggenza fino a farne una forza che introduca una trasformazione reale appare ancora più colpevole in rapporto alle aspettative che sarebbe molto naturale riporre in lui come nel più giovane dei protagonisti: si stenta a credere che, così giovane, non sappia scrollarsi di dosso il bacillo dell’indugio cerebralistico e dell’anchilosi riflessiva, comprensibili e giustificabili semmai come prerogative peculiarmente senili. In questa sede, deve continuare a fare da guida nell’analisi una certa “freddezza” dissezionante. E allora deve piuttosto richiamare l’attenzione il fatto che il vivente framework di specchi tra i quali rimbalza freneticamente luce di pensiero che ci si è rivelato Michele dà l’impressione, a prima vista, di racchiudere in sé la crittografia del più classico e forse invincibile sogno della filosofia, il sogno cioè di abbracciare e com-prendere la totalità. Non c’è bisogno di rievocare quali precisi tratti di detestabile protervia abbiano riconosciuto e stigmatizzato in questo sogno gli alfieri novecenteschi della riflessione antisistematica, fra i quali figurano con pieno diritto anche pensatori “non-professionisti”, se è vero che, ad esempio, Musil ha detto parole magistrali in proposito. Con Michele, dunque, ci si troverebbe a cospetto della più grandiosa e, insieme, “cattiva” traccia del philosophicum. Il sospetto che l’incontro con lui nasconda questi significati nasce dall’osservare come Michele paia assumere le funzioni della figura che ricomprende e concilia in sé gli opposti e gli altrimenti scissi emisferi di una totalità che egli sarebbe, più che limitarsi ad albergarla. Già si è rilevato come Michele sia, in qualche modo, il punto di ricompaginazione di due opposti mondi, quello della non-purezza e della falsità e quello, che egli addiziona al primo, della sincerità e dell’autenticità. Di questo secondo mondo del candore egli costruisce e fissa l’immagine non solo allorché si abbandona alla creatività visionaria del suo silenzioso affabulare, da cui un po’ tutti i momenti della vicenda sono contra-puntati, ma anche quando si

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incanta davanti alle volute disegnate nell’aria del salotto da una chimerica ballerina dall’incontaminata euritmia, il cui profilo fantasticato si disegna davanti al suo sguardo alla stregua della figura alternativa a Carla impegnata al piano con un orecchio però miserevolmente teso a carpire i bassi pettegolezzi della madre e dell’amante63, oppure quando rielabora il flash visivo di una coppia di fidanzati teneramente allacciati dentro una macchina facendone la miracolosa apparizione simboleggiante un mondo di slanci e di vincoli interumani incorrotti, tale perciò da evocare per contrasto quello gelidamente ipocrita, falso e “sbagliato” in cui egli si trova a sospettare di essere caduto appunto per via di un perfido errore64. Il sospetto che in Michele sia crittografato il conatus filosofico verso l’afferramento della totalità sembra tuttavia dissiparsi qualora si noti che gli scissi emisferi contrapposti sono, da lui e in lui, non tanto ricongiunti nella forma di una conciliazione (termine, questo, che qui deve assumere tutta la pregnanza denotativa del livello della ricomposizione e del superamento degli opposti, allestito dal sistema dialettico come stadio per antonomasia del perseguimento-avveramento della totalità), quanto piuttosto soltanto giustapposti e irresolubilmente tesi in una dialettica di oscillazione. Ma, sulla scorta di altri riscontri da non sottovalutare, il sospetto risorge, in primo luogo perché Michele sembra, per così dire, dare ragione alle osservazioni acutamente relativistiche di alcune pagine di La persuasione e la rettorica, ove si rileva come uno stesso soggetto osservante-valutante possa concepire sentimenti persino antitetici per un medesimo referente soggettivo od oggettivo di giudizio, a seconda del variare del suo stato d’animo modellato dalle sue mutevoli vicissitudini65: infatti, le protratte e sofferte “sedute” di focalizzazione mentale della 63. Ivi, p. 178. 64. Ivi, pp. 151-152, 109-110. 65. C. Michelstaedter, op. cit., p. 121.

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persona di Leo in cui Michele si sprofonda sono segnate da una mutevolezza umorale che permette al giovane di accogliere in sé e assaporare con pari intensità i sentimenti opposti dell’intenerimento, se non tout court dell’amore per quella sorta di patrigno rozzo ma in fondo benefico e rassicurante, e dell’iroso risentimento, anzi decisamente dell’odio per quell’“invasore” convinto di potere far giostrare secondo i propri sporchi calcoli un’intera famiglia schiacciando sotto i tacchi la dignità di tutti e tre i suoi componenti66. D’altronde, come soggetto della com-prensione e ricompattazione degli opposti (nella fattispecie, della coppia di opposti dolore-piacere) in un totum Michele si propone anche allorché, pochi secondi dopo avere pateticamente “sparato” a pistola scarica contro Leo, pare trasformarsi in un casus citabile a meraviglia come esempio in un manuale di psicanalisi. Nel momento in cui il convulso dinamismo della brevissima colluttazione accesasi tra lui e Leo si risolve e irrigidisce nella posa sforzata di Michele coi polsi immobilizzati dalla dura stretta dell’uomo, Michele è investito dall’onda di prostrazione fisico-morale che deriva da quello stato di costrizione, ma anche da una corrente gratificante di impalpabili sensazioni e di riaffioranti depositi mnestici, che lo riconducono in imagine al corroborante, edenico status di ovattato abbandono puerile alle attenzioni anche fisiche, cioè ai teneri baci e alle carezze, che la madre sempre riserva al bambino67. Così Michele dà ragione alla scoperta psicanalitica secondo cui sono spessissimo compresenti le pulsioni di amore/piacere e di odio/dolore, apparentemente divaricate da un imperforabile setto divisorio ma in realtà congiunte con grande forza coesiva a sostanziare le singole frazioni del vissuto; ne consegue che di nuovo la “verità” di Michele sembra consistere nel fare tutt’uno con la figura dell’intero che si pone come 66. A. Moravia, op. cit., p. 277. 67. Ivi, p. 318.

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con-tenitore/mediazione degli opposti. Ma ora si possono e si devono raccogliere elementi tali da orientare l’analisi verso un’immagine diversa, e per certi versi opposta, di Michele. Egli si interroga dolorosamente e con grande frequenza, nel corso dei suoi segreti monologhi, circa la sua temperie troppo lucida e raziocinante che gli causa il disturbo di dovere reiteratamente sforzarsi di riscaldarsi e scuotersi da quell’habitus ipercritico che, proprio in quanto non smette di tenere “oggettivamente” sott’occhio le molteplici implicazioni di ogni singolo problema, priva i suoi sentimenti e le sue volizioni di quel “rostro” che garantirebbe al mareggiare dei suoi stati “interni” di attingere il piano dell’ostensione e della di-mostrazione reale. Michele sente nitidamente che l’indignazione, il trasporto passionale, l’affetto o la potentissima ira che di volta in volta prova soggiacciono all’inquietante sortilegio di non riuscire praticamente mai a passare all’estrinsecazione; anzi, arrivano a dare adito ad un ancor più radicale problema, in quanto tutti quei moti dell’animo non sono nemmeno agevolmente stabilizzabili, bensì fluttuano e giocano di continuo l’amaro scherzo di dileguare/di “squagliarsi” un solo istante dopo avere dato l’impressione di aver raggiunto un’intensità “al calor bianco” tale da preludere alla loro traduzione in gesti, prese di posizione e azioni risolute-risolutive. Michele si trova ricacciato nella massima lontananza dal punto di snodo ove l’“interno” eccede il proprio recinto e si squaderna nell’“esterno”, perché è intrappolato nel destino di dover effettuare sistematici test persino sul tasso di persistenza di quei sentimenti, che si danno non più di quanto si sottraggano e si configurano non più di quanto comunichino il sospetto che per lui non ci sia assolutamente verso di aderire ad essi e di percepirli come i veri elementi costitutivi del suo paesaggio interiore. Michele versa nella condizione di doversi affaticare ogni volta a inseguire la conferma che quel che prova lo prova autenticamente, ricorrendo a impercettibili gesti e a minimali “sistemazioni”

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del timbro vocale o della mimica facciale tali da rendere abbastanza plausibile (innanzitutto a se stesso, come all’artefice della verifica più inflessibile) che egli sia davvero occupato da quella particolare passione che, nelle altre persone, viene di norma rivelata e sottolineata precisamente da quei certi dettagli dell’atteggiarsi. E non è eccessivo affermare che Michele, il soggetto che sente a malapena e deve rinfocolare di continuo la propria bassa “temperatura” interiore, tenda incessantemente l’occhio e l’orecchio verso gli altri per carpire loro l’indicazione di ciò che egli propriamente non sa, ossia il segreto di quale inarcarsi delle sopracciglia e torcersi delle labbra, di quale tonalità vocale e comporsi o scomporsi delle linee tracciate dalla mano si accompagnino naturalmente all’insorgere e al rinsaldarsi delle varie emozioni, ciascuna delle quali, pensa Michele, deve fare scattare il macchinario di tutta una serie di constatabili re-azioni. Proprio questo disperato desiderio di apprendere dagli altri come una “lezione” ciò che a Michele pare impressionante che quelli “sappiano” alla stregua di una irriflessa ovvietà da esibire ogniqualvolta se ne offra l’occasione, spiega la tersa consapevolezza che egli ha dei lineamenti connotativi dell’habitus nei cui confronti è destinato a rimanere eterno apprendista, ma, appunto, apprendista dall’infallibile esattezza di osservazione e di comprensione. Figura dell’habitus im-praticabile da Michele, ma certo tutt’altro che in-concepibile dalla sua sottilissima intelligenza, è quella del marito che, invasato da un sentimento di gelosia per la moglie traditrice fino al punto di essere tutto gelosia/di perdersi nell’unilateralità di quel sentimento radicalmente incapace di mediarsi con altri richiami umorali o ragionativi, uccide senz’altro la peccatrice, con un atto tanto teatrale quanto intensamente drammatico nel suo scaturire naturale, perfettamente omogeneo al normale andamento di un mondo dove le cose, semplicemente, vanno come vanno, e quel “come vanno” equivale a niente di più né di meno di “come debbono

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andare”68. La nota di un’identica semplicità e acquiescenza a una legge che trae la forza di regolare il sentire e il conseguente agire proprio dal suo essere lasciata in-dubitata e persino impensata da soggetti che sic et simpliciter la trovano impressa in sé e operante, spira da una seconda, imprevedibile figura dell’habitus negato a Michele, cioè da quel pupazzo-réclame che, occhieggiando dalla vetrina di una profumeria, richiama l’attenzione del giovane ad un certo punto della “navigazione” di via in via e di piazza in piazza che lo conduce prima da Lisa e poi a tendere l’agguato in casa di Leo; tale navigazione pare distendersi nell’angosciante interminabilità, non tanto per la lunghezza del tratto realmente percorso quanto piuttosto perché il tempo “cronometrico” di questo girovagare è movimentato-rimpiazzato dall’impennarsi di un’autocoscienza mai così drammaticamente tesa come in questo frangente. Michele crede di ravvisare la figura più smaccatamente rappresentativa dell’irriflessione conformistica in quell’homunculus di cartone, che si appaga, si placa e, a giudicare dall’espressione assegnatagli da chi l’ha fabbricato, si compiace nell’esecuzione del solo atto di affilare beatamente la lama del suo rasoio, la cui incessante ripetizione allude proprio alla scelta di improntare la propria intera esistenza al rispetto per una certa griglia di “istruzioni” sottratta a una qualsiasi problematizzazione, che ne scoprirebbe quasi sicuramente una inquietante sfumatura di ridicolo e di avvilente in-consistenza69. Così Michele è consapevole di due Gegenstände. Da una parte, infatti, vede aprirsi lo spazio del drammatico impennarsi dell’autocoscienza che risucchia in sé l’intero spettro del reale fino ad autorizzare la conturbante ipotesi che il suo «pensare» sia «vivere»70, dell’ironica e corrosiva lucidità che percorre Wege inesauribili senza mai fissarsi su di un “punto” conclusi68. Ivi, p. 239. 69. Ivi, pp. 278-279. 70. Ivi, p. 274.

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vo, insomma dell’irresolutezza. Dall’altra parte, invece, osserva lo spazio dell’attitudine a decidere (inteso come de-caedere, tagliare, spartire e scegliere un “polo” nella sua esclusività, al riparo dalle estenuanti finezze del chiaroscuro), dell’habitus di orientarsi verso un telos percorrendo linee rette sfocianti in risultati, la cui realizzazione è glorificata da una retorica dell’atto. Tale retorica vorrebbe imporre come punto di massima condensazione del drammatico quel δρᾶμα (termine la cui radice è sintomaticamente la stessa del verbo che in greco significa “fare”) che invece appare, dall’angolo visuale dello spazio dell’in-decisione, come l’attestato dell’ingenuità semi-ridicola che abbraccia “astrattamente” una scelta, a scapito delle tante altre possibili, con lo slancio violento dell’agens. Ma è evidente che, a questo punto, va in frantumi l’immagine di Michele come crittografia del “velenoso” sogno-delirio di totalità proprio della filosofia, perché, mentre quella totalità vuole e deve essere totalità conciliata, qui accade invece che Michele disattenda, con assoluta chiarezza, l’“imperativo” di porre la conciliazione. Qui Michele non concilia in duplice senso: in primo luogo perché gli scissi, opposti emisferi sono due habitus che il suo occhio necessariamente vede scagliati l’uno contro l’altro secondo il ritmo di un’oscillazione che passa dall’uno all’altro (e, per così dire, li passa in rassegna) senza rinvenire alcuna intersezione fra essi; e, in secondo luogo, perché Michele sta spostato dalla parte dell’emisfero che letteralmente è la dialettica dell’oscillazione, si inscrive nello spazio dell’irresolutezza e, pur senza fingere di non subire la seduzione emanata dalle semplificazioni decidenti, vi si inscrive con una punta di fierezza, abbastanza forte da suggerire che i due emisferi siano ordinati secondo una gerarchia di tipo “evolutivo” che, in certo modo, assegna la posizione più primitiva e inferiore a quello da cui Michele resta escluso. L’osservazione che Mariagrazia fa a proposito della superiore serenità dei poveri rispetto ai ricchi, inviluppati nelle spire di

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un “sentire” più nuancé71, ha nel romanzo la funzione di illustrare a quale punto di perfidia si spinga l’albagia della dama d’alto bordo che, al solo pensiero di poter venire riassorbita nell’anonimato della massa, mobilita una serie di odiose argomentazioni che vorrebbero esorcizzare una simile possibilità, fra le quali rientra questo “pensierino” secondo cui nel suo ceto il vantaggio di una maggiore agiatezza materiale sarebbe controbilanciato, e in quanto tale benedetto da un imprimatur che ne garantisca l’indefinito mantenimento, dall’evidenza che ai più ricchi, in quanto più “complessi”, toccherebbe la croce di venire sistematicamente ai ferri corti con una più vibrante sensibilità, a suo modo foriera di una sofferenza risparmiata ai “semplici”. Per Michele sarebbe totalmente fuori luogo parlare di albagia rivolta contro classi economicamente inferiori; resta però il fatto che qualcosa di una simile rivendicazione di supremazia si potrebbe immaginare condiviso anche da lui, qualora essa, con sostanziosa ma non totale correzione di termini, venisse piegata ad esprimere l’orgoglio di chi sia consapevole di potersi riconoscere in uno spazio, quello dell’irresolutezza e dell’oscillazione, che ha tutta l’aria di lasciare alle proprie spalle l’opposto spazio della decisione. Michele non può non dolorare a causa della sua costituzionale impotenza ad imboccare, scegliendo-tagliando, un unico Weg, come risulta con icasticità da quel momento della storia che ce lo mostra colto da un sottile panico al constatare come il fiume di persone che lo attornia nella città si incanali ordinatamente in direzioni imboccate da ognuno con quel piglio decisionale rispecchiante il teleologico perseguimento di un obiettivo che in lui invece si stempera, si perde e si ribalta in una vocazione a muoversi sondando tutti gli snodi della topografia, ben sapendo però di non volersi, di non potersi indirizzare verso alcuna

71. Ivi, p. 55.

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meta determinata72. Però, niente può distogliere Michele dal ritenere che una simile sofferenza sia il prezzo richiesto a chi goda del privilegio, pur spinoso, di albergare in sé un’autocoscienza innalzatasi a tale complessità da far apparire ribassato all’area del preculturale il più scarno “operare autocoscienziale” di chi sia interno allo spazio decisionale. È insopprimibile l’impressione che là dove sta Michele, là dove l’autocoscienza s’impenna e disegna quel diagramma di linee erratiche e attorte su se stesse che è apertamente drammatico seguire e “frequentare”, là stia lo spazio del culturale, o almeno di quella modulazione del culturale che si situa fra tutte più in alto, per raffinatezza di tornitura e per maturità nel farsi carico dei problemi nell’unico modo che ancora paia accessibile al pensiero nell’epoca della contemporaneità. D’altronde, l’immanenza alla parola “cultura” di una radice indoeuropea che accenna all’atto dell’accudire, e quindi al muoversi circu-ente e non rettilineo che accompagna e innerva quell’atto73, pare insinuare che lo spazio dove si descrivono traiettorie diritte e dirittamente/direttamente si decide corrisponda appunto ad un modus cogitandi di più grezza concezione, che mutua qualcosa dalla ferinità del naturale nella misura in cui conosce la violenza del debordare del teorico in pratico, di cui predispone le condizioni. Il drammatico, l’ironico e l’in-concludenza sono le note definitorie dello spazio ove si configge la figura di Michele; poiché quelle note sono le salienti determinazioni del saggismo, resta assodato che, se anche in Michele è crittografata una traccia del philosophicum, essa coincide con l’autocoscienza saggistica come autocoscienza che, nel suo parossistico impennarsi e nella sua inesausta irrequietezza, è sì l’anti-figura dell’autocoscien72. Ivi, pp. 150-151. 73. P. D’Alessandro, Natura Cultura Gioco, Unicopli, Milano 1981, pp. 1920.

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za deflessa studiata nell’“aristocratico”, ma al tempo stesso rappresenta una modalità di affrontamento, uguale e contraria, dell’identico problema della paura e, come si vedrà alla luce di una più mirata disamina del saggismo come forma, di un lutto dal prisma sfaccettato.

Il saggismo, Weininger Il saggismo filosofico è lo spazio del drammatico in quanto gli compete di elaborare un lutto i cui diversi strati sono comunque complessivamente riconducibili al nodo problematico della “perdita di centro”. Poiché il saggismo non si fa scrupolo di obbedire solo per metà alla lezione hegeliana, così polemica contro il modus scribendi tipico del “concepire” filosofico dell’illuminismo (e più che mai dell’illuminismo francese), secondo la quale al filosofo dovrebbe essere proibito dire “io”, nel saggismo è offerta cittadinanza anche a una riflessione che intavola i “casi” del soggetto empirico-individuale scrivente, sebbene attraverso l’obliquità di scelte tematiche che valgono come schermi capaci di generare l’impressione di un netto allontanamento dall’urgenza di quei “casi”; e questa riflessione versa lacrime, invisibili quanto basta perché la pagina non ne resti inondata con l’effetto di un collasso della stringenza argomentativa, su quella perdita di centro che in definitiva fa tutt’uno con l’amara sconfitta del narcisismo. Non si indulge ad uno psicologismo che la filosofia possa permettersi di respingere come una trascurabile sollecitazione montante dall’area inferiore delle scienze umane, se si sostiene che ogni più “adulto” e maturo articolarsi di un lutto espresso dalle parole del livello alto della concettualizzazione si radica nell’esperienza di “espropriazione” che il soggetto vive allorché il suo stesso sviluppo lo obbliga al confronto-

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scontro, di volta in volta, con la condizione di non-unicità, con la condizione di non-onnipotenza e con l’intrappolamento in un processo di inarrestabile scivolamento da fase esistenziale a fase esistenziale, tutte condannate ad una dispersione del loro inconfondibile “aroma” disciolto dall’accelerazione onnicancellante di un fluire che sbocca ineluttabilmente nella morte. Tutti questi affronti che colpiscono al cuore il sogno del soggetto individuale di reggersi e di governare autocraticamente sono silenziosamente registrati dal saggismo, il quale solamente può avere la finezza di assumere all’interno del suo anche più “epurato” discorrere la traccia del compianto, tra stuporoso e rancoroso, per la intrattenibilità delle successive “figure” del soggetto, che il tempo prima pro-duce e fissa e poi dissolve, ribassandole ad uno status di impalpabilità non dissimile da quello delle immagini che appassiscono in quegli scrigni dell’insalvabilmente evaporato che sono le fotografie. Che le note più esatte su cui intonare un simile compianto possano venire apprese leggendo Proust, attesta la precisione della diagnosi di un autore come Adorno, che ha sempre saputo come la filosofia, per modularsi in saggismo, non possa fare a meno di riconoscere e di “vivere” la necessità di porsi in tensione con sollecitazioni mutuate da branche del lavoro spirituale cui una lunga tradizione discriminatoria ha negato il crisma della “profondità” senza sapere apprezzare come esse assai spesso rasentassero e talora attingessero il livello della trattazione, eventualmente anche extra-verbale, di quegli stessi temi di portata assoluta per la cui discussione la filosofia si sforza da sempre di predisporre i più levigati strumenti. È certamente il saggismo quella “forma” del filosofare cui pertiene l’atto di estrema umiltà di accordare non poco credito alla sentenza espressa dal luogo comune secondo cui la filosofia avrebbe la forza ma anche tutta la debolezza di un habitus di pensiero e di una Bildung speculativa la cui natura, per così dire, formaleastratta di arsenale di stampi concettuali in attesa di “fare pre-

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sa” la costringerebbe ad andar mendicando contenuti fuori da quella sorta di sfavillante ma vuoto involucro che essa stessa sarebbe. Dovere del saggismo è raggiungere la più elevata fusione di un discorrere che si emancipa dall’attrazione esclusiva esercitata dai “casi” del doloroso disinganno del soggetto o, meglio, dei soggetti, per fare convergere la propria riflessione su eventi di rilievo epocale contrassegnanti la perdita di centro del Soggetto. Così, sconvolgimenti di memorabile portata, come la secentesca “rivoluzione copernicana” o l’appercezione tardo-ottocentesca e primo-novecentesca (quindi in primis nietzscheana, ma poi anche kafkiana, musiliana e adorniana, per limitarsi a pochi riferimenti essenziali) della angosciante precarietà dello statuto ontognoseologico di un Soggetto che si era intestardito ad autoproporsi come polo irradiante “luce” di conoscenza e di prassi, costituiscono la materia stessa su cui concresce il discorso saggistico, anzi, a ben vedere, la vera e propria ratio essendi di questo discorso come luogo di elaborazione di un lutto. Ma il saggismo, essendo “forma” filosofica della contemporaneità come conferma il fatto che esso sia studiato nella maniera più esplicitamente tematica da tre grandi novecenteschi come il “primo” Lukács, Musil e Adorno, manifesta la massima sensibilità anche per i problemi introdotti dai mutamenti verificatisi nella sfera del lavoro e della comunicazione. Vede infatti con chiarezza che un ennesimo processo di de-centramento e di “schizofrenica” frammentazione del Soggetto e delle sue “tavole delle leggi” ha luogo sia attraverso la sistematica parcellarizzazione, che incatena il soggetto lavorativo a spazi d’azione e di competenza avaramente settoriali e per questo destitutivi dell’indivisa integrità delle sue δυνάμεις, sia attraverso l’ipertrofia e il gigantismo dell’apparato dei massmedia, che istituisce nel giornalismo quello che potrebbe venire chiamato il “sistema” dell’epoca della contemporaneità, un sistema che dà il capogiro perché i numerosissimi centri di cui

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si compone, lanciati in un processo di inarrestabile moltiplicazione, riverberano sul soggetto la prostrante sentenza secondo cui non ci sarebbe in realtà nessun centro cui possa aderire per soddisfare l’esigenza dell’autoriconoscimento. Questi eminenti fattori di frammentazione, che rendono necessario che lo spazio del saggismo sia listato a lutto, sono gli stessi da cui discende per il saggismo la possibilità, che esso fa propria con giocosa e acremente autocompiaciuta ironia, di muoversi fra spezzoni, ritagli e inquietanti “segni” dell’incompiutezza, fino a fare del frammento stesso il prodotto elettivo in cui si compone la sua tormentata veste stilistica. Proprio in questa irrisolta contraddizione sta la verità del saggismo: esso “sanguina” e si dibatte nella più rabbiosa non-accettazione a cospetto di quel paesaggio di de-composizione di cui però anche, nella misura in cui sa elaborare il lutto e attraversare la sofferenza, si compiace di prendere atto, per poterlo rivendicare come clamorosa smentita dell’ottimismo pianificante che ha alimentato l’impresa filosofica, dalla quale si è sempre levato il rintocco di quell’odiosa falsità cui allude Adorno quando, riprendendo uno spunto di Simmel, denuncia quanto poco della sofferenza storica dei soggetti traspaia dal “grande testo” della filosofia74. Che una “metà” della verità del saggismo consista nel suo puntare i piedi contro il destino di sentirsi sfuggire di mano la possibilità di placarsi nella ricostituzione di una totalità non fratta e conciliata, è testimoniato dalla nostalgia che esso prova per l’immagine, che richiama qualcosa del gusto burckhardtiano per la perfetta euritmia del “rinascimentale”, di una persona non diminuita. Tale sarebbe quella che si scopre nascosta sotto il nome di Übermensch, qualora nell’annuncio nietzscheano del 74. Th. W. Adorno, Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, p. 139 (Parte seconda, Dialettica negativa. Il concetto e le categorie, L’oggettività della contraddizione).

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suo avvento si voglia leggere l’aspirazione verso un modello di uomo capace di valorizzare il parco completo delle sue facoltà, oppure quella in difesa della quale Adorno scrive un libro assetato di ri-composizioni come Minima moralia, la cui accidentata “architettura” svela però ad un tempo la consapevolezza adorniana delle effrazioni e delle “offese” che incrinano senza rimedio, nella contemporaneità, il profilo del soggetto inviolato, verso cui ormai può protendersi solo l’occhio del pensiero utopico, colmo di rimpianto e iniettato di ira. Analogamente, il saggismo fa propria tutta la costernazione che naturalmente si accompagna al crollo di plausibilità delle grandi sintesi speculative chiuse da maestosi fastigi riepiloganti, dalle quali spira l’aura di insindacabilità che compete al dettato stesso della verità. Non a caso, nell’atto stesso di polemizzare in generale contro la “violenza” dei sistemi e in particolare contro la facies dittatoriale della sintesi dialettica intesa come spazio in cui il sistema hegeliano pronuncia le sue decisioni, Adorno non manca tuttavia di mettere in risalto che autentico nerbo speculativo può essere riconosciuto solamente al pensiero che si nutra di continuo e inietti ogni suo “detto” di una sia pur disperata tensione alla totalità sistematizzante75. E anche Simmel, ovvero l’autore da cui dovrebbe con ogni probabilità prendere le mosse una storia delle vicende del saggismo filosofico, ha in serbo argomenti a favore della “rotondità” delle ricapitolazioni sistematiche quasi altrettanto numerosi dei capi d’accusa che rivolge al principio di omologazione che le impronta, tant’è vero che Lukács non può esimersi dall’osservare, pur nel contesto complessivamente non troppo lusinghiero del suo Ricordo di Simmel, come quel grande “impressionista” della filosofia avesse l’onestà e la saldezza di pensiero di aderi75. Ivi, pp. 22-25 (Introduzione, La posizione rispetto al sistema, L’idealismo come furia e L’ambivalenza del sistema), 135-136 (Parte seconda, Dialettica negativa. Il concetto e le categorie, L’autoriflessione del pensiero).

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re a ciascuna delle posizioni da lui “attraversate” e analizzate, prima di relativizzarla mediandola con gli altri momenti, come se in essa si condensassero l’assoluto, l’incondizionato e la verità76. Il fatto che nel discorso saggistico sia ricompreso in pieno il lutto per la “perdita di centro” forse più inquietante, ovvero per la perdita della possibilità di definire-stabilire-stabilizzare la verità, merita di essere sottolineato al punto che l’espressione di questa “metà” della temperie saggistica potrebbe venire affidata addirittura all’opera di un autore certamente esterno allo spazio saggistico come Weininger, un’opera che è di fatto un monumento alla rabbia con cui la filosofia vorrebbe tenersi abbarbicata alle presunte certezze della ratio autotrasparente. Nel suo scritto Otto Weininger e la vertigine del senso, preposto al testo di Sesso e carattere, Rella vede bene che Weininger incarna lo sforzo poderoso di respingere la mareggiata di quei segni di crisi che mettono in discussione la stabilità del senso garantito da una piramide di “ricettacoli del vero” che sale dalla base, al cui livello si colloca il soggetto maschile come polo di chiarezza coscienziale-conoscitiva e di virtù morale, fino al culmine, dove riluce la plancia delle leggi istituite dalla ragione trascendentale del philosophus philosophorum Kant. In Weininger colpisce l’accanimento con cui un kantismo semplificato fino a spremerne una concezione decisamente metafisicizzante della cosa in sé, attorno alla quale ruotavano tutte le più raffinate cautele e riserve teoretiche di Kant (prima fra tutte, quella costituita dal conio della nozione del “regolativo” come livello affiancato-abbassato rispetto al livello del “costitutivo”), apre la breccia al massiccio ritorno del topos filosofico più classico, davvero dotato di mille vite a dispetto delle bordate nietzscheane che potevano averlo fatto credere liquidato, ovvero di quel 76. G. Lukács, Ricordo di Simmel, trad. it. di L. Perucchi, in G. Simmel, Arte e civiltà, a cura di D. Formaggio e L. Perucchi, Isedi, Milano 1976, p. 120.

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platonismo che si risolve nella creazione di un “secondo mondo” ove si situerebbe l’ὄντως ὄν essenziale, sporgente sul piano tassonomicamente inferiore del transeunte. Attraverso la ripresa semi-irriflessa, l’accettazione supina di questo sempreverde topos che il senso comune, sintomaticamente, non smetterà forse mai di rispettare come il portato e l’insegnamento distintivo della filosofia (anzi addirittura come l’insegnamento che assicura la filosoficità della filosofia, ovvero quella sua austerità che porta le stimmate del contemptus mundi), Weininger getta clamorosamente una ciambella di salvataggio alle “figure” del logos occidentale più classiche e, come tali, più onuste di gloria e più duramente compromesse e corrose dal dispiegarsi di un pensiero del legittimo, insinuante sospetto. Ogni “centro” viene quasi magicamente riguadagnato. Traslati e “salvati” nel cielo delle stelle fisse della realtà sovraempirica, nel testo di Weininger campeggiano: il Soggetto dalla visione cristallina; la Libertà e l’autonoma determinazione del Soggetto, che il quasi folleggiante moralismo di Weininger incatena alla Responsabilità al punto da scorgere un colpevole esercizio della sua Volontà addirittura nella «viltà» che dimostrerebbe nascendo, ossia ricongiungendosi ad altri uomini per mancanza del coraggio di starsene solo con sé77; la sacralità del Mondo, il cui stuolo di parvenze è riscattato e, quasi, santificato dall’immanenza a quella ridda di cose di una nota di mistero, dinanzi a cui (come leggiamo in Delle cose ultime) può azzardarsi a non genuflettersi solo il «delinquente» prototipico, che manipola, trasforma e condanna a morte le cose trattandole come se non (ci) fossero, mentre invece esse (ci) sono a pieno titolo e sono anzi Cose, in virtù di quell’“Anima arcana” che le pone in relazione col piano dell’essenza e, anzi, le trasvaluta direttamente

77. O. Weininger, Delle cose ultime, trad. it. di F. Cicoira, Studio Tesi, Pordenone 1985, p. 93 (Aforismi).

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a “cittadine” di quel piano sopraelevato78; e, infine, la Verità, sancita dal valore eterno dell’indiscutibile Principio Di Non Contraddizione che si fa carico di garantire che i rapporti di antecedente e conseguente e di causa ed effetto, cardini della Logica, informino del loro stesso Ordine una realtà in cui scorre senza intoppi la linfa del Senso e le cui giunture costitutive si compongono a formare un libro aperto di assoluta interpretabilità79. Ma Weininger è l’eroe del tentativo del grande ripristino anche e, forse, soprattutto perché il suo gesto tremendamente decisionale non si limita a cantare le lodi di un Pantheon di cui non c’è quasi esponente che venga dimenticato, ma provvede anche a forgiarsi le fosche anti-figure di quelle “divinità filosofiche” nella Donna, nell’Ebreo, nel Folle, nel Delinquente e, alla fine, nel Nulla desensizzante per potere esorcizzarle e trionfare su di esse dipanando la pretenziosissima dimostrazione della loro irrilevanza e insanabile debolezza, da cui sarebbero sprofondate nella dipendenza da quelle “luminose” figure che avrebbero la facoltà di ricacciarle nell’inesistenza o di farle finalmente esistere come dignificate e trasfigurate. Così, il confronto irriducibile che attraversa tutto Sesso e carattere, quello fra l’Uomo come Principio formante-plasmante e la Donna come Principio materiale-inerte, può risolversi in un patto di alleanza quando l’Uomo, avvezzo ad accondiscendere al richiamo della Donna che avverte la propria nullità e quindi estorce al suo dominatore l’atto del coito che in qualche modo La “crei”, smetta finalmente di soggiacere alla schiavitù della materialità corporea e della sessualità per additare alla Donna la strada della castità. E le implicazioni metafisiche connesse

78. Ivi, pp. 82 (Aforismi), 180-182 (Metafisica, Psicologia animale), 268 (Ultimi aforismi). 79. Ivi, pp. 206-209 [La cultura, Scienza e cultura, I) Natura della scienza].

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alla scelta di tacitare l’impulso al congiungimento carnale sarebbero di tale portata che ne conseguirebbero, nell’Uomo, la cancellazione di quella traccia allotria di “Donnesco” che in Lui ha storicamente sempre allignato e, nella Donna, l’esaltazione di quella striatura di “Maschile” che, nella forma di una propensione alla spiritualizzazione sia pur schiacciata dalla consuetudine a fare del coito il Suo telos incondizionato, è sempre stata, nonostante tutto, rintracciabile in Lei80. Ma è chiaro che la compiuta maschilizzazione dell’Uomo e l’attuazione del faticoso processo di maschilizzazione della Donna, affermando anche nella sfera sessuale quel monismo che è perfettamente naturale venga privilegiato e “imposto” in qualsiasi comparto logico-ontologico da un pensatore della decisione quale Weininger, vengono a configurarsi come un progetto dell’Uomo, cui non è estranea la benignità tirannica dell’intervento educativo. E il progetto è quello di ribadire in altro modo, nel giusto modo, la eteronomia che mina la Donna, continuando sì a farla esistere e a “crearla”, ma ora come l’opposto di quel terrificante simulacro del Nulla e dell’Abisso del non-senso che è sempre stata, un simulacro che così l’Uomo arriverebbe a togliere dalla circolazione, con il vantaggio di non dovere più tremargli davanti atterrito e di inaugurare uno status in cui verrebbe tranquillizzato dallo spettacolo dell’occhieggiare, da un mondo tramutato in un grandioso specchio riflettente il suo Sé, della conferma delle certezze normative che in Lui trovano il loro polo di coagulazione e il loro alfiere. Alla luce di tutto quanto si è detto, può stupire che un clima di resa della ratio venerata da Weininger paia contrassegnare le pagine finali di Sesso e carattere, dove viene negato che con-

80. Id., Sesso e carattere. Una ricerca di base, trad. it. di G. Fenoglio riveduta e corretta da F. Maccabruni, Feltrinelli-Bocca, Milano 1978, pp. 335-341 (Parte seconda, I tipi sessuali, XIV. La donna e l’umanità).

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servare la vita della specie umana abbia il valore di imperativo realmente vincolante per la ragione81; la domanda circa le cause di questa apparente “svolta” si presenta appassionante anche perché questo indizio, interno all’opera, di un’inclinazione ad optare per l’abbandono assoluto trova una inquietante amplificazione nella scelta weiningeriana del precoce, meditatissimo suicidio. L’enigma dello stemperarsi in “debolezza” della lezione teorico-esistenziale di quel Weininger che offre di sé l’immagine dello strenuo portacolori di un pensiero “forte” e affermativo quant’altri mai si avvicina ad una plausibile risoluzione qualora si tenga conto della puntuale osservazione di Rella secondo cui era fatale che un tragico spasmo sottolineasse la caduta del paraocchi che Weininger deve pur essersi imposto per poter scrivere e argomentare come se ancora fosse in piedi lo “splendido” edificio della ratio autocentrica e autocratica, mentre la contemporaneità squadernava il paesaggio delle rovine di quell’edificio. Non si può sottovalutare Weininger fino al punto di credere che non si sia reso via via più consapevole, nel breve ma densissimo arco della sua vicenda di pensiero, della desolante inanità di un’impresa ricompositiva il cui sfarzo e la cui tracotanza, con ogni probabilità, debbono essergli parsi inficiati da un doloroso donchisciottismo già durante l’elaborazione di Sesso e carattere. Ma Weininger non è solo l’incoerente che è andato poderosamente lavorando di scalpello per centinaia di pagine alla costruzione di un monumento per poi mandarlo in pezzi contro-suggellando quel lavoro con poche ma inesorabilmente smantellanti formulazioni rapprese nelle ultimissime pagine, come fa chi tragga solo in extremis, in modo leggermente ridicolo, le conseguenze della consapevolezza, tutto sommato 81. Ivi, pp. 341-342 (Parte seconda, I tipi sessuali, XIV. La donna e l’umanità).

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posseduta fin dal principio, di sprecare il proprio tempo sciogliendo un panegirico e predisponendo un’armatura difensiva ad una “stella polare” irrimediabilmente perduta, svanita in una incolmabile lontananza logico-temporale. Weininger l’incoerente è anche, per altro verso, coerentissimo, e prepara con innegabile stringenza il circuito argomentativo che immette nella dichiarazione della superfluità, anzi, più recisamente, della colpevolezza della volontà di conservazione e di generazione della vita. Infatti, se è vero che ogni invenzione di un retromondo racchiude in sé la nota di un contemptus rivolto a questo mondo finito, ingombro di materia e squassato da passioni, incluse quelle della carne, si comprende come l’infiammato “platonismo” di Weininger potesse, dovesse condurlo a conferire rilievo esclusivo al (presuntamente) ben più dignitoso piano dell’essenziale, ove verrebbero a “sublimazione” le grevi e crasse vicende della terrestrità, per la cui preservazione diventa allora naturale che, abbracciato questo punto di vista, si esprima una sovrana indifferenza priva di qualunque pietas per il transeunte. E poi si deve anche dire che, al di là di ogni possibile querelle tra chi voglia riconoscere coerenza e chi incoerenza nel gesto dell’acerrimo nemico del Nulla che pare dire l’ultima parola a favore di quell’inghiottente fantasma, Weininger ha motivi di disgusto abbastanza consistenti per mitigare l’impressione di puerilità che può suggerire quel suo estremo “dire di no” e per fugare la sensazione che tale rifiuto mutui qualcosa dall’immaturità del bambino che, di punto in bianco, si rinserra in un caparbio “non gioco più”. Non si può non scorgere che Weininger ha le sue ragioni di deprecare, fino al limite della decisione di “non volerci stare”, la svolta introdotta dal moderno Zeitgeist nel trattamento riservato agli enti naturali, che egli vede ormai “seviziati” dai giochi di prestigio di una scienza lanciata indiscriminatamente al galoppo da soggetti bramosi di trasformare molto più che di conoscere. Nelle pagine di

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Weininger che, in Delle cose ultime, adombrano l’immagine di una scienza capace di reprimere la propria volontà di potenza a vantaggio di un approccio alle cose rispettoso del loro diritto alla non-violazione82, si concentra il rimpianto di un pensatore che non ha perso una battuta del “passaggio di consegne” che ha ormai eretto a scienziato-tipo l’individuo da lui categorizzato sotto la sigla dell’Ebreo, del quale dice che è il campione della chimica intesa come figura di un’infida perizia, di una τέχνη mai sazia di allestire esperimenti disinteressati a conoscere le naturae delle cose, o interessati a questa conoscenza solo nella misura in cui da essa sia possibile prendere l’abbrivio per attingere lo stadio operativo del comporre e dello scomporre, dunque della trasformazione che viola83. Il Weininger cui si è sempre legittimamente rimproverato di aver montato un castello di Note poscritte a Sesso e carattere immettendovi a profusione e con autocompiaciuta passività ricettiva la registrazione di tutte le “acquisizioni” del naturalismo-positivismo dell’Ottocento (incluse quelle più rozzamente schematizzanti) che servissero come pezze d’appoggio per i suoi assunti84, è però anche sufficientemente lucido per cogliere che proprio in quel secolo ha preso definitivamente il sopravvento una scienza cui egli non può perdonare di adoperarsi per “sfigurare” un mondo non più lasciato essere nella sua intatta dignitas. Perché l’esperimento scientifico, in cui si annida la volontà manipolatoria, sia infine riconosciuto come eminente segno della Stimmung della “modernità”, antitetica alla vocazione contemplante comune tanto alla sapienza della grecità quanto all’aurorale experimentum dell’epoca medioevale, occorrerà attendere che su questi 82. Id., Delle cose ultime, cit., pp. 245-250 [La cultura, Scienza e cultura, III) Gli intenti possibili della scienza in rapporto alla cultura]. 83. Id., Sesso e carattere, cit., pp. 314-316 (Parte seconda, I tipi sessuali, XIII. Il Giudaismo). 84. F. Rella, Otto Weininger e la vertigine del senso, Introduzione a O. Weininger, Sesso e carattere, cit., pp. 20-23.

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temi si concentri la più consapevole analisi di Heidegger, in particolare dello Heidegger di Holzwege85. Però, ciò che qui più importa è verificare quali aspetti del contenuto o, altrettanto significativamente, dello stile di Weininger rendano necessario parlare di lui come di un autore interno allo spazio della decisione, la cui “lezione” è attraversata da quella nota di semplicità che si trova congiunta, come già si è osservato, alle manifestazioni scaturenti da quello che, con lieve inflessione immaginifica, potrebbe venir ribattezzato lo spirito della rettilineità. Senza dubbio, si potrebbe ritenere che la di-mostrazione della inequivocabilità e, ancor più, della prepotenza dell’habitus decisionale di Weininger sia già del tutto svolta quando si siano specificate, come appunto abbiamo fatto, le linee teoriche portanti di quello che abbiamo chiamato il suo iper-affermativo tentativo di ripristino. E davvero quella di-mostrazione sarebbe esauriente ed esaurita una volta esposte quelle linee portanti, se non fosse che, tra le pagine di Weininger, sono rintracciabili particolarità che possono ulteriormente irrobustirla, ma anche e soprattutto avviare ad un chiarimento definitivo circa la natura dei rapporti intercorrenti fra il saggismo filosofico e Weininger, ossia fra due termini che, nel momento stesso in cui sono collegati – come già s’è detto – da qualcosa di simile a una relazione fra comprendente e compreso, sono però anche e soprattutto divaricati, come si arriverà a vedere, dall’incompatibilità dell’antitesi. Dato che la ricognizione delle suddette “particolarità” toccherà un ordine di considerazioni stilistiche che, in quanto attengono alla questione dello stile di pensiero, assumono naturalmente anche rilievo metaformale, non parrà sorprendente se tale ricognizione, destinata a smascherare taluni aspetti di sprovvedutezza imputabili a Weininger quale scrittore di filo85. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 77-78.

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sofia, vorrà trarre parte della sua ispirazione dalla penetrante diagnosi contenuta nel saggio adorniano Conciliazione sforzata. In esso Adorno, richiamandosi al contrasto fra la pregevolezza della scrittura filosofico-saggistica del “primo” Lukács e una certa trascurata serialità di stesura riscontrabile nelle sue opere successive, ritiene di poter indicare (in via generale, e non solamente con riferimento al “caso” Lukács) nelle deficienze in fatto di cura stilistica il sintomatico correlato e perciò la spia infallibile del processo di irrigidimento e di cattiva semplificazione cui va incontro il pensiero quando si fa prono a una griglia di in-discusse “verità”, di veri e propri dogmi, mortali nemici del libero sprigionamento della più pura forza speculativa86. Ebbene, non si può non cominciare con l’osservare che nel testo filosofico di Weininger, pur nobilitato dalla finezza con cui egli sa elevare quelle sigle agitate come stendardi (l’Uomo, la Donna, l’Ebreo e così via) a designazioni di una costellazione concettuale talora sfaccettata con ingegnosa complessità (per cui la Donna non è affatto il piatto ritratto categoriale dell’insieme dei soggetti femminili, e altrettanto dicasi per le altre sigle), si fa avanti, come segno fastidiosamente appariscente di cattiva semplicità, la disinvolta passività con cui egli incastra nel flusso del suo argomentare “isolotti concettuali” di grande portata, ripresi di sana pianta dal pensiero di autori ai quali, in quanto sono colonne portanti della linea più “classica” del logos occidentale, viene così reso un acritico omaggio rasentante il plagio che svela platealmente la disperata adesione di Weininger a quella linea. Gli “isolotti concettuali” plagiati da Weininger sono nientemeno che la concezione lato sensu platonica del carattere di inessenza della sfera del sensibile rispetto al retromondo; la levigata codificazione operata da Aristotele del topos, già studiato da Platone, della complementarità-pola86. Th.W. Adorno, Conciliazione sforzata, trad. it. di E. De Angelis, in Id., Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979,  pp. 241-242.

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rità fra il principio formale-modellante “maschile” e l’ἄπειρον informe del principio materiale-plasmabile “femminile”; l’idea di Kant della cosa in sé come referente della conoscenza pura extra-sensibile; e, ancora, la difesa, che lo stesso Kant ha creduto opportuno affidare alla sua filosofia pratica, delle “verità” cristiane della libertà del volere soggettivo e dell’immortalità dell’anima. Accade così inevitabilmente che l’operazione di Weininger di trasferire di peso nel suo testo topoi di tale importanza, provvedendo sovente a sfrondarli di tutto il corteggio di implicazioni problematizzanti e di implicite “auto-obiezioni” da cui essi sono accompagnati nelle sedi originali, finisca per risolversi in un plagio che a sua volta plagia il suo pensiero, nel senso che lo schiaccia sotto l’autorità da ipse dixit di lasciti troppo invadenti per non ingenerare la sensazione che esso difetti dell’originalità peculiare del “pensiero pensante” e si avvicini, proprio nei suoi gangli nevralgici, al basso rango del centone di “pensiero pensato” che recita una diligente ripetizione ignara di qualunque vera genialità. Ma qui non importa tanto diffondersi circa il notevole fattore di distinzione fra Michelstaedter e Weininger (i due enigmatici autori che la comune scelta del suicidio alla stessa età di ventitré anni può suggerire di affiancare in un ideale dittico), che consiste nella ben più elastica capacità del primo di padroneggiare con fine talento i pur innegabili influssi ricevuti dai suoi auctores, quanto piuttosto insistere nel perseguire ulteriori tracce della cattiva semplicità decisionale di Weininger. Una di queste ulteriori tracce è la struttura stessa di Sesso e carattere in quanto “spazio” di pensiero concepito essenzialmente in forma di trattato suddiviso in capitoli, il cui incolonnarsi vuole suggerire l’idea della processualità scevra di lacune che metta capo a un de-finitivo esito dimostrativo, preparato da una congerie di sotto-dimostrazioni secondo un gusto costruttivo dell’ascesa dal semplice al complesso in fondo ancora omogeneo ai dettami del Discorso sul metodo. Altro indizio di cattiva semplicità

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è la premeditazione con cui Weininger fa di continuo “sporgere” dal complessivo ordito del testo singole proposizioni, il cui forte sbalzo annunciato dal corsivo, che nell’edizione a stampa corrisponde alla sottolineatura presente nel manoscritto, avverte che non tutti i “detti” dell’opera contano egualmente. E infatti tutte le sfumature argomentative dei tratti antecedenti quei “picchi” vengono in essi compendiate, o meglio risucchiate e “tolte” con tale affermatività da insinuare il sospetto che sarebbe sostanzialmente conforme ai desiderata di Weininger una lettura di Sesso e carattere limitata esclusivamente alla serie di quei punti di massima condensazione decisionale; una simile lettura immiserirebbe il testo solo in apparenza, e in realtà esalterebbe la prepotente assertorietà di cui ognuno dei “detti” privilegiati è immagine, quell’assoluta assertorietà che il libro stesso, per così dire, è. Inoltre, prendendo spunto dalla critica di Cases che lamenta l’intrusione in Sesso e carattere di incauti giudizi trinciati circa la superiorità di una certa razza o di un certo ceppo etnico e di caratterizzazioni a dir poco schematiche di qualche categoria sociale o di qualche popolo87, vale la pena di rilevare che la nota della semplicità (che in questi casi, in accordo con la severa censura di Cases, si può reputare coincidente con lo sciorinamento di un autentico campionario di idiozie) filtra anche attraverso l’indulgenza per quegli incontrollati lampi giudicativi, così come attraverso la corrività con cui vengono stilate graduatorie di merito e classifiche di grandezza coinvolgenti letterati, scienziati e filosofi senza arretrare dinanzi alla prospettiva di liquidarne molti (tra cui Hegel e Nietzsche) come figure di «settimo rango»88. E qui, ancor più che ribadire l’osservazione secondo cui Weininger, proprio lasciandosi andare a simili colpevoli infortuni, avrebbe contribu87. Cfr. F. Rella, Otto Weininger e la vertigine del senso, cit., p. 21. 88. O. Weininger, Delle cose ultime, cit., p. 251 [La cultura, Scienza e cultura, III) Gli intenti possibili della scienza in rapporto alla cultura].

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ito a facilitare l’opera di ascrizione di Sesso e carattere al novero dei suoi “lari” filosofici intrapresa dalla violenza nazista, preme evidenziare che questo gusto dell’elencazione meritocratica ben si accorda con la violenza attivata dallo spazio decisionale, che non a caso ci è parso passibile di venire sospettato di extraculturalità-inculturalità. Questo sospetto viene ad avvalorarsi alla luce del fatto che simili ingenue classificazioni evocano il piano dello “sportivo”, che, in quanto luogo nel quale per definizione i contrasti sono inscenati in modo tale da garantire che una sentenza irrevocabile sopravvenga a risolverli a favore di uno dei poli contrapposti, non può appunto rivendicare tangenze con lo spazio del culturale, inteso, secondo quanto già si è detto, come lo stadio posto, almeno nel caso del saggismo come sua più evoluta esplicitazione, sotto l’insegna dell’inesauribilità di un “errare” che non si arresta a nessuna fissazione assegnante inferiorità e superiorità. Ma per gettare piena luce sulla questione dei rapporti fra il saggismo e Weininger occorre spostare l’attenzione su due determinazioni contenutistiche di Sesso e carattere, ossia su due suoi assunti, il primo dei quali contiene il rifiuto del saggismo solamente crittografato, mentre il secondo “dice” più apertamente quel rifiuto. Il primo assunto si risolve nell’idea di una contrapposizione netta fra la comunità maschile e quella femminile. La comunità degli uomini, per Weininger, consta di un insieme di individui, ciascuno dei quali viene dipinto come una monade autosussistente e ricomprendente in sé il tutto di una comunità e, ancor più, di un mondo internamente intessuti di un’unica relazione altamente simbolica, quella cioè per cui gli uomini sono affratellati dal concorde procedere all’ombra di uno stesso ideale di libertà e di ossequio per le “divinità” logico-ontologiche del Pantheon venerato da Weininger89. Di vere e proprie relazioni 89. Id., Sesso e carattere, cit., pp. 290 (Parte seconda, I tipi sessuali, XII.

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interumane non si può parlare, perché ognuna di quelle incomunicanti monadi è concentrata su se stessa con così prepotente assolutezza da effettuare, nell’ambito sessuale, la scelta di ritrarsi semi-inorridita (almeno così è nella fenomenologia dell’Uomo ideale) a cospetto della possibilità di un congiungimento fisico con altri-da-sé, una scelta che Weininger reputa degna di concorrere ad appagare la brama di autodistinzione dell’individualità eccezionale/del genio che, come un’aquila solitaria, vola alto sulle lande affollate dagli «schiavi del coito»90. Non è qui il caso di sviluppare questi spunti nel senso della messa a fuoco di quella teoria del tragico weiningeriana che pare legittimo distillare dalla fenomenologia di questi uomini, rinserrati nella loro isolatezza fino al punto di doversi confrontare con il problema della possibile verità ontologica ed etica del solipsismo, che assegna all’esistenza degli altri-da-sé lo statuto dell’ingannevole Schein; rinunciamo a seguire questa via interpretativa, sebbene essa si annunci tanto più accattivante in quanto individuare nella fenomenologia degli uomini offerta da Sesso e carattere una teoria, anzi forse la teoria del tragico di Weininger implicherebbe una demistificazione di quegli accenti di fierezza e, quasi, di spavalderia che in lui vorrebbero dissolvere il solipsismo in quanto problema, ossia in quanto configurante una condizione umana almeno potenzialmente contraddistinta dallo spaesamento e dalla paura91. Decisivo è piuttosto passare a considerare i caratteri che Weininger assegna alla comunità delle donne, contro cui si rivolge la sua sarcastica avversione. Antifigura della comunità maschile, la societas femminile ha le fattezze di una massa gelatinosa L’essenza della donna e il suo senso nell’universo), 309 (Parte seconda, I tipi sessuali, XIII. Il Giudaismo). 90. Ivi, p. 290, nota (Parte seconda, I tipi sessuali, XII. L’essenza della donna e il suo senso nell’universo). 91. Id., Delle cose ultime, cit., p. 210 [La cultura, Scienza e cultura, I) Natura della scienza].

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in seno alla quale nemmeno sono riconoscibili veri e propri individui nobilitati dalla loro separatezza, perché vocazione di ogni donna è anzi quella di sopperire alla propria non-autosussistenza, che le preclude di riassumere in sé un totum, entrando in un cortocircuito sim-patetico, spinto fino al reciproco influenzarsi della telepatia, con tutte le altre, nelle quali essa “passa” e vive con trasporto così incondizionato che, al confronto, scivola quasi in secondo piano quel vampiresco orgoglio di sedurre l’uomo prima e a dispetto di tutte le concorrenti in cui si concentra il proprium (peraltro disgustosamente disonorevole, per Weininger) della donna, la sua più peculiare pulsione e insieme il suo più intimo telos, da cui essa si attende di ricevere la spinta tonificante che letteralmente la tiene in esistenza. In effetti, nella con-fusionalità della “tribù” donnesca anche l’abbarbicamento a questo elemento di affermazione di sé va vicinissimo a dileguarsi, perché l’ens femminile è talmente permeabile e permeante, ha le “pareti” tanto squarciate che combatte sì per arrivare a strappare nel più breve lasso di tempo il “trofeo” di indurre un uomo al coito, ma si direbbe che lo faccia più che altro per potere entrare altrettanto sollecitamente, una volta ottenuto per sé l’appagamento, in un rapporto di conciliazione con le compagne; una conciliazione che, a ben vedere, è addirittura com-penetrazione, ossia uno status in cui ciascuna si fa ruffiana adoperandosi perché anche un’altra (se possibile, tutte le altre) viva un coito in cui si attende e sa di vibrare e di godere in sintonia con lei, che in realtà esperisce non da sola, bensì come se con lei esperissero tutte le altre e tutte fossero (in) lei92. Per quanto Weininger si preoccupi di mantenere costantemente l’analisi al livello dell’argomentare categorizzante anche quando tocca questi temi, non c’è dubbio che al lettore sia ri92. Id., Sesso e carattere, cit., pp. 262-267, 290-292 (Parte seconda, I tipi sessuali, XII. L’essenza della donna e il suo senso nell’universo).

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chiesto qualche sforzo per realizzare uno stacco dalla “corposità” di una materia che pare fatta apposta per suggerire sconfinamenti nell’area di un gesto fenomenologizzante incline alla macchiettistica; e infatti qualcosa di sapidamente macchiettistico ha soprattutto lo schizzo della vecchia che, giunta alla pace dei sensi e ormai avulsa dalla mischia, può serenamente fare una ragione di vita di una scatenata ruffianeria posta indefessamente al servizio della creazione di opportunità di matrimonio e quindi di soddisfacimento sessuale per le figlie o anche, più indeterminatamente, per le donne più giovani, quasi senza favoritismi per le figlie e, anzi, con l’equanimità di chi sa che godrà all’unisono con tutte con la stessa intensità. Ma qualora si sia in grado di realizzare uno stacco fortemente astraente, diventa possibile scorgere che la fenomenologia delle due diverse comunità, letta con un pizzico di spregiudicatezza “radiografica”, può intendersi come la messa a fuoco di due ampi modelli, di due paradigmi suscettibili di venire declinati, tra l’altro, anche con riferimento a questioni attinenti alla sfera del concepire e dello scrivere filosofico. Allora si vede come il primo modello, sotteso alla figura della comunità maschile, è quello monistico che, tradotto sul piano del modus cogitandi ac scribendi, implica un monocromatismo affine a quello invocato, in funzione più o meno consapevolmente antisaggistica, dal Lukács di Cultura estetica, che esterna nostalgia per uno spazio di scrittura composto nella veste di una certa quale ieraticità rispecchiante l’ordo di un campo storico-etico-ontologico, insomma di una Kultur, i cui momenti e frammenti costitutivi dicano tutti il medesimo alludendo ad un unico centro normativo d’irradiazione, così forte da “togliere” la molteplicità e la multilateralità di quei frammenti, ognuno dei quali diviene quasi il puro ridondare di quel centro93. Alla 93. G. Lukács, Cultura estetica, trad. it. di M. D’Alessandro, Newton Compton, Roma 1977, pp. 14-15.

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ricerca di una simile ieraticità va scientemente anche il Bloch che, con Spirito dell’utopia, genera uno spazio di scrittura la cui rocciosità, enfatizzata da un lessico di sostenutezza quasi oracolare, precipita sul lettore la compattezza di un dettato veritativo (per niente indebolito, anzi semmai rafforzato dall’inflessione utopica) che è sempre lo stesso, come attesta la circostanza che esso viene espresso del tutto concordemente da variazioni tematiche in realtà impossibilitate a introdurre un qualsiasi policromatismo, perché riassorbite nell’architettura di un testo la cui vera Stimmung è un’omogeneità evocativa delle ben connesse “cattedrali di pensiero” che la riflessione medievale incaricava di rispecchiare un mondo chiuso, una Kultur non scissa. Il secondo modello, sotteso alla figura della comunità femminile, è invece quello di una molteplicità i cui frammenti danno vita ad una non sedabile ridda di contatti, di intersezioni, di cozzi e di sovrapposizioni vicendevoli, che, tradotta sul piano della scrittura filosofica, suggerisce l’idea di uno spazio caleidoscopico agitato da una vivacità di movimento che rende con suprema oggettività, per il tramite stesso dello scatenamento dell’ipersoggettiva sensibilità dell’autore che lo allestisce, proprio la vita, colta nella sua determinazione nevralgica, ovvero nella sua misteriosità che si fa beffe di ogni tentativo di addensare nell’univocità di un fixum la polisensa ambiguità del suo flusso. Qualcosa della stizza del logos quasi esautorato dallo spettacolo di questa inafferrabilità, nonché del risentimento (che è poi il riflesso di una quasi inconfessabile ammirazione) nei riguardi di Simmel, che meglio di ogni contemporaneo mostrava di saperlo rispettare e “riprodurre” nello scorrere ininterrotto delle sue pagine prive di note e mosse da una curiosità tanto versatile e (lo si può ben dire; anzi, lo si deve dire) volubile da proporsi come il correlato soggettivo di quell’implacabile vibrare oggettivo, è certamente racchiuso nel sussiego con cui Lukács e Bloch prendono le distanze dal maestro

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rinfacciandogli, pur tra mille guardinghi riconoscimenti della sua grandezza, di essere stato niente di più del «filosofo della crisi», impotente a librarsi fino all’individuazione di un senso concepito e affermato sub specie aeternitatis o almeno sub specie metaphysicae, insomma di un assoluto che non fosse quello ricercato nella «trincea», con patetica condiscendenza a scambiare la circostanzialità (fra l’altro cattiva) con lo standard dell’essenzialità. A quel provocatorio vocabolo ricorre Bloch, nell’intento di deprecare sarcasticamente la scelta di Simmel di gettarsi nella difesa della causa dell’interventismo tedesco nella prima guerra mondiale con impeto tale da instillare appunto il sospetto che a lui, il pensatore antiaffermativo, fosse balenato il miraggio di dire finalmente una parola affermativa proprio innervando la propaganda bellicista94. Ed è molto interessante che, nel suo Ricordo di Simmel, Lukács insista nel classificarlo come «filosofo dell’impressionismo» e ricordi maliziosamente come i detrattori di Simmel solessero esternare la loro diffidente disapprovazione etichettandolo come geistvoll95. Esiste una suggestiva relazione tra il fatto che Weininger (più o meno consapevolmente) alluda al saggismo e lo condanni nel momento in cui esprime tutto il suo dissenso per le prerogative della comunità femminile, e il fatto che la nota della “femminilità”, intesa come deteriore, informi sia quella nozione di impressionismo nel cui impiego – in quanto essa è sotto sotto piegata a coincidere quasi perfettamente con quella di impressionabilità – si cela la riprovazione per l’attitudine a farsi impregnare dal flusso del vitale senza tenerlo “virilmente” sotto controllo, sia la definizione di geistvoll, termine in cui si vuole fare echeggiare la valenza “femminile” del concetto di Geist, il quale può evocare non soltanto la “virilità” del fundamentum inconcussum glorificato dall’idealismo tedesco fino a farne il principio 94. E. Bloch, Marxismo e utopia, cit., pp. 60-61. 95. G. Lukács, Ricordo di Simmel, cit., pp. 117-118.

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esplicativo-generativo del reale, ma anche, e contraddittoriamente, lo svariare multiverso della vita che soffia o, appunto, spira sconcertante in ogni direzione. E si vede subito che la contraddizione è, anche e correlativamente, fra un’immagine dello spirito inteso come il principio, se non della solidità, almeno della stabilità e della gravitas, e una sua diversa accezione che, alla luce dell’appartenenza del termine “spirito” alla griglia semantica in cui troviamo anche “anima” (e la grecità concepiva l’anima come soffio e ventoso principio di vita), ne fa il principio, per così dire, aeriforme della leggerezza e della levità, nozioni in certo modo apparentate a quella (per noi tutt’altro che ignobile) della femminilità. Ma se gli argomenti addotti non bastassero a convincere che nella fenomenologia delle due contrapposte societates degli uomini e delle donne sia crittografato il rifiuto del saggismo, ci si potrà riferire alla seconda determinazione contenutistica, al secondo assunto di Sesso e carattere di cui si era preannunciata l’ispezione, per comprovare l’opzione antisaggistica di Weininger, che in questo secondo “luogo” viene più riconoscibilmente a galla. Il concetto dell’Ebreo si presenta a Weininger sfuggente, materiato di pieni e di vuoti, sospeso fra l’essere e il nulla, indeciso fra autonomia ed eteronomia, definibile solo appigliandosi a note raccolte in endiadi che, in quanto si risolvono in coppie di opposti il cui accostamento degenera fatalmente in elisione reciproca, finiscono per lasciarlo in-definito96. E, in più, l’Ebreo, il cui concetto svaria in tutte le direzioni e si frange in una molteplicità di sensi che impediscono di comporlo entro precisi limiti, è egli stesso a sua volta figura dell’erosione dei limiti, perché non si arresta di fronte alla venerabilità delle cose né, ciò che qui più importa, dei concetti, di cui anzi sempre dubita e che “aggredisce” relativizzandoli e facendone 96. O. Weininger, Sesso e carattere, cit., pp. 324-325 (Parte seconda, I tipi sessuali, XIII. Il Giudaismo).

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sprizzare un multiversum di sensi che li scardina senza troppi scrupoli dal perno su cui Weininger pretende e ritiene logicoeticamente giusto che poggino97. Davanti all’ambiguità dell’idea di Ebreo, Weininger deve suo malgrado piegarsi, con infastidito disagio, all’“inverecondo” esercizio di affastellare note definitorie destitutive le une delle altre, senza potere giungere ad “incassare” quell’idea come uno qualsiasi degli univoci “gettoni concettuali” di un saldo patrimonio definitorio-classificatorio. E con non minore disagio egli si confronta con la complessità senza fondo dell’Ebreo che, centro instancabile di diffusione del movimento come attesta anche la circostanza rivelatrice che egli sceglie solitamente per titolo dei suoi giornali nomi di insetti dalla frastornante irrequietezza (ad esempio, la mosca e la zanzara)98, non lascia “riposare” i concetti su se stessi e dubita della loro facies austeramente non-contraddittoria, per potere poi passare a dubitare di quello stesso dubbio. Nella disapprovazione tradita da quel disagio si legge l’anatema che, dalla soglia del secolo, Weininger scaglia lontano fino a colpire la concitazione del saggismo, che farà proprio dell’habitus della profonda, insaziabile complicazione-problematizzazione dei concetti la sua vocazione, contesa fra dramma e ironia come fra le componenti, insensibilmente trascoloranti l’una nell’altra, di un’unica, inconfondibile temperie. Ma allora è venuto il momento di tirare le somme a proposito del rapporto instaurabile fra il saggismo e Weininger. Per un verso, Weininger è, per così dire, ricompreso nel saggismo, perché la rabbiosa sofferenza, esemplata in lui nel modo più lampante, per il disperdersi del centro, anzi dei grandi “centri” attorno a cui ha sempre ruotato ogni com-posizione

97. Ivi, pp. 312, 321, 323 (Parte seconda, I tipi sessuali, XIII. Il Giudaismo). 98. Ivi, p. 320 (Parte seconda, I tipi sessuali, XIII. Il Giudaismo) e Delle cose ultime, cit., p. 275 (Ultimi aforismi). 

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sistematica, è parte integrante della temperie saggistica al punto da rappresentare, come già si è notato, una metà della “verità” del saggismo. Ma, per altro verso, il saggismo filosofico è davvero tutt’altra cosa rispetto a Weininger, perché, a cospetto di quel franare dei “centri”, non sceglie come Weininger di autocostringersi a passare un colpo di spugna sulla sofferenza, facendo come se il crollo non fosse avvenuto o come se si potesse esercitare una retroazione capace di restituire l’immagine dell’integrità dell’edificio ormai segnato da incancellabili fenditure, bensì attraversa quella sofferenza, si muove fra le macerie come se un simile percorrimento dei meandri fosse perfettamente naturale e imbocca, con un incedere drammaticamente ironico, proprio le vie in cui a Weininger parrebbe non meno colpevole che illogico inoltrarsi, prima fra tutte quella di attaccare i concetti da ogni parte, di accettare che ci siano ormai solo frammenti per potersi abbandonare al “gioco” di farli indefinitamente reagire sul fondo della “provetta” del pensiero. Per un verso, quindi, il saggismo è lungi dal fare propria la capziosità di quei mezzi piagnistei, riportati da Rella nel suo Otto Weininger e la vertigine del senso, in cui Freud fa professione di dolore per l’impossibilità che la ricerca attracchi ad un risultato definitivo, perché al saggismo ripugna condividere l’orgoglio lato sensu ermeneutico che si cela in quelle formulazioni, le quali, mentre sembrano voler denunciare la debolezza di un sapere condannato alla perenne in-compiutezza, mirano in realtà a rivendicare la dignità con cui esso accoglie stoicamente tale condanna e ad esprimere un sostanziale compiacimento per la condizione in cui, divenuto impraticabile il linguaggio decisionale della verità, ci si limita ad emettere “verità” interlocutorie e passibili di revoca99. Se poi è vero che tali semi-camuffati elogi della dignità del procedere a piccoli passi, che caratterizza 99. Cfr. F. Rella, Otto Weininger e la vertigine del senso, cit., pp. 24, 32.

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una ricerca umilmente rassegnata a campare di continue congetture e sistematiche confutazioni, possono venire piegati a comunicare anche la soddisfazione di quanti ritengono (e non ha importanza se fra loro ci sia o no il Freud che ha scritto quegli elogi) che il dipanarsi di una ricerca e di un sapere così poco tronfi sia nel giusto in quanto non può non essere insieme causa ed effetto del diffondersi del clima di tolleranza e di aperta discussione peculiare dell’ordinamento politico giusto, ovvero della democrazia, allora il saggismo a maggior ragione ricusa la caramellosità di questo “doppio orgoglio”, perché è troppo drammaticamente sentito il suo rimpianto per le cornici epocali (magari il Medioevo) in cui la carenza di “apertura” veniva controbilanciata dal rilucere di una omologante verità il cui stesso “dispotismo” valeva come balsamo contro la paura, l’incertezza e l’oscillazione. Ma, per altro verso, il saggismo filosofico, che a questo punto deve immaginarsi incarnato al suo livello più alto dalla “pagina” di Adorno, ha perso ogni interesse per la verità, passa da un concetto all’altro smangiandoli tutti con la concitata, vagamente satanica ironia di chi vuole affastellare il più vasto e variopinto materiale non tanto per esaltare questa policromia, quanto piuttosto per avvilirla dimostrando come il fascio di luce racchiudente svariatissime tonalità di colore, che da quel materiale si irraggia, venga riassorbito nella monocromia della luce bianca una volta che la leva di un’insaziabile dialettizzazione si sia messa in moto e abbia rivoltato da cima a fondo tutti i momenti costitutivi di quel materiale. Questo saggismo, che ordisce lo spazio dell’inarrestabile oscillazione, spiana una grinta inconfondibilmente nichilistica nella misura in cui maneggia una congerie di “figure” tanto più prodigiosamente ricca quanto più è pervaso dalla velenosa preoccupazione di poter addurre, nel momento in cui emetterà la sentenza che la verità sta nello Scheitern/nella non-attingibilità della verità, di avere allestito una lunghissima serie di “esperimenti” di reperimento

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della verità, uno per ciascuna delle figure tematizzate. Così la vorticante oscillazione, che sa e pregusta che il suo attraccare allo scacco dell’interrogazione assoluta sarà creduto come exitus tanto più necessario e vero quanto più titanico sarà stato lo sforzo da essa attivato per scongiurarlo, si sobbarca la fatica enorme del suo macinio per riservare, come ultimo effetto frappant, la sorpresa di un’estrema oscillazione che è addirittura un rovesciamento, quella cioè per cui lo spazio ove si è svolto lo spettacolo del “moto browniano” di frammenti infinitamente molteplici deve necessariamente capovolgersi nello spazio monistico dove ogni movimento si arresta per lasciare che vi regnino una pace, una sazietà e una Gelassenheit che additano il nulla. Nelle pagine finali di Eclissi dell’intellettuale, Zolla rimprovera all’utopismo dialettico di Adorno di amare la destructio e il negativo proprio come John Stuart Mill, il quale aveva il coraggio autoaccusatorio di riconoscere che, qualora tutto lo strepitare protestatario della sua riflessione avesse contribuito realmente all’instaurazione di un quadro socio-esistenziale compiutamente felice perché liberato da tutte le storture alla cui abrogazione aspirava la punta utopica del suo pensiero, non gliene sarebbe derivata gioia, bensì un amaro senso di vuotezza e di risentita insoddisfazione100. In effetti il saggismo si protende davvero verso il nulla, e, anche se l’interna oscillazione che lo fa pencolare di continuo fra i due poli del finito-particolare e dell’infinito-universale sembra essere risolta nel senso di una inusitatamente amorosa immersione nel finito e nel micrologico, in ultima analisi volge l’occhio, se si bada alla sua vocazione essenziale, verso scenari ben diversi da quelle empiriche fattispecie della terrestrità, cui riserva in conclusione altero distacco e quasi infastidito sprezzo; e questo accade forse proprio perché ha frequentato quelle fattispecie da una vicinanza 100. E. Zolla, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, Milano 1971, pp. 206-207. 

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più serrata di quanto si sia mai degnata di fare qualsiasi altra “forma” di scrittura filosofica, una vicinanza troppo grande per non avvedersi della nota di non-senso che le inficia. Il saggismo giura di mantenersi in equilibrio fra la caparbietà “privata” della Weltanschauung e la pacatezza logicizzabile della deontologia filosofica di perseguire l’“oggettiva” verità, ma il dilemma di questa sua oscillazione, cui Adorno accenna in Terminologia filosofica101, è in esso decisamente risolto a favore dell’umoralità della Weltanschauung. Siccome questa Weltanschauung assume le fattezze di una rancorosa protesta, che vede fondamentalmente-soltanto il dolore e l’assurdo della “gettatezza” e della morte e resta affezionata alla propria acredine al punto da detestare l’idea di un qualunque risarcimento (non fa differenza se terreno o trascendente) che possa intaccare la persistenza e la giustezza della sua posizione negativa, è chiaro che viene ad instaurarsi una parentela fortissima fra il saggista filosofico e il letterato (adornianamente) non-affermativo, il quale gode del libero destino della letteratura, su cui – diversamente dalla filosofia – non pesa la coazione ad inseguire la verità, e si avvale di quella franchigia per dire la sua verità, in quanto letterato vivente al tempo della crisi, nel rifiuto e nel disgusto, così spendendo se stesso in quel compito di dire il dramma che comunque la letteratura ha onorato in ogni tempo con sincerità ben più grande di quella che abbia mai mostrato la filosofia. E allora, poiché la filosofia non può essere solidale con la letteratura più di quando è saggismo filosofico, a nulla vale contro la scrittura di Adorno l’obiezione di chi ha ritenuto di stigmatizzare in essa la cedevolezza con cui sovente piega verso effetti squisitamente “formali” di contorsione dialettica: l’acme

101. Th. W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., vol. I, pp. 77-87 (7. Lezione del 5 giugno 1962).

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dell’originalità di Adorno sta probabilmente proprio in questo elitario e beffardo culto della parola che si avvolge a spirale su di sé, in questo disperato e giocoso compiacimento di fare di una frase o di un’intera pagina un mulinello verbale da cui non ci si deve attendere nessun risultato teorico-veritativo convenzionalmente inteso, in quanto esso lascia invece intravvedere l’impianto di una “scena” speculativa restituita all’oscillazione irriducibile del pensiero eristico dei sofisti e (fino a un certo punto) di Socrate, un pensiero che mette capo al “contro-risultato” di spalancare continue aporie. Anche quei pochi autori dotati dell’esprit de finesse necessario per accostarsi ad Adorno fruttuosamente e senza alcuna preconcetta ostilità continueranno a lamentare che egli abbia perduto il confronto in fatto di “creatività” con i tre-quattro (Wittgenstein, Heidegger, Husserl e qualche altro) immancabilmente citati come i sommi novecenteschi (non a caso Sergio Moravia stesso, che rientra fra quei pochi, esprime una simile riserva in Il pungolo dell’umano)102, finché non ci si renderà conto che Adorno è un pensatore la cui “creatività” va ricercata non tanto nelle tesi e, appunto, nei risultati acquisiti, quanto piuttosto nello stile di pensiero, alle cui sottili innervazioni formali, che intanto però asseriscono implicitamente “tesi” non meno delle pagine più irte di assunti “innovativi” di altri filosofi, gli studiosi di filosofia sono abituati a concedere poca attenzione, nel distorto timore di trovarsi “ribassati”, se facessero altrimenti, a critici letterari. Ma se ci si predispone a studiare in Adorno l’espressione più coerente dell’in-concludenza come nota intrinseca al saggismo filosofico, si vede bene che è proprio l’esasperazione dello stilema dell’“esercitazione dialettica”, circolarmente richiudentesi su se stessa, a sostenere quella peculiare forma dell’in-con102. S. Moravia, Il pungolo dell’umano. Conversazione su un impegno filosofico 1964-1984, a cura di G. Invitto, FrancoAngeli, Milano 1984, p. 76.

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cludenza o, meglio, dell’in-conclusione che ne fa comunque un modus di conclusione. La prima impressione è che questa conclusione sia una conclusione sfociante nel nulla perché, esistendo qualcosa di simile ad un rapporto fra padre e figlia fra l’incunabolo fornito dal pensiero eristico (che abbiamo visto riaffiorare in Adorno) e l’atmosfera di ironica e “spaventosa” oscillazione diffusa da quel maestro occidentale della sospensione che è lo psicanalista, la pagina adorniana pare ospitare lo svolgimento di un vero e proprio trattamento psicanalitico, anzi precisamente di un’autoanalisi. Adorno riverserebbe dunque la effusione della sua tormentosa, straordinaria, sovreccitata autocoscienza filosofica verso e contro di sé, cosicché sarebbe egli stesso ad assumere verso di sé la valenza assunta di fronte al paziente dallo psicanalista, il quale catalizza e disperde in sé come in un profondo, nero imbuto e, quindi, dissolve in nulla il fiotto discorsivo dell’altro, che, per quanta incoercibilità paia spirare dall’effusione torrenziale della sua parola magari geniale, deve alla lunga “arrendersi” di fronte alla resistenza di quella figura in ascolto che, al confronto, incarna la “modestia” invincibilmente at-traente del nulla. Se tale suggestiva ipotesi ha il merito di contribuire a rendere conto del fatto che la pagina adorniana, per così dire, provveda a riassorbire nel silenzio gli innumerevoli accenti dell’animatissima “discussione” da cui è attraversata e pervasa, essa ha però anche il difetto di propendere a uno spinto soggettivismo e coscienzialismo, inducendo a credere che tutto ciò che di essenziale avviene in quella pagina non sia se non l’esito di un gioco giocato sic et simpliciter da Adorno con se stesso. Determinante è invece tenere conto che la non conclusività della dialettica negativa, così com’è attivata da Adorno, schiude, rispetto alle conseguenze della consueta discorsività dialettica, orizzonti di alterità cui non rende giustizia la posizione interpretativa che Vattimo espone nel suo contributo compreso nel volume Che cosa fanno oggi i filosofi? Qui egli, volendo confe-

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rire inattaccabilità alla propria tesi secondo cui l’ermeneutica sarebbe il solo grande indirizzo filosofico contemporaneo non afflitto dall’allucinazione di rapportarsi ad un fondamento, ritiene di poter respingere l’obiezione di chi gli opponesse che anche la dialettica, nella sua versione negativa, si emancipa da quella allucinazione adducendo che alla totalità sintetica, ossia a quel certo fondamento in cui la dialettica ha sempre preteso di radicarsi, non saprebbe rinunciare nemmeno la dialettica negativa, in quanto il suo utopico protendersi verso la “totalità assente” sarebbe alla fin fine un gesto teorico non meno “forte” ed enfatico di quello con cui la ordinaria dialettica decidente intenziona la totalità (presuntamente) inverata103. Dall’accenno di Vattimo trapela il convincimento che qualsiasi dialettica sia impotente a fare a meno di quel Grund, al punto che persino la “totalità mancante” verrebbe conservata nel suo ruolo privilegiato di ingranaggio focale del pensiero dalla dialettica negativa, che, subodorando di non potersi reggere senza di essa, la nomina con tanto accorata insistenza da arrivare, per così dire, a presenzializzarla. E invece i suddetti orizzonti di alterità si impongono nella loro evidenza a chi osservi come l’oltranzismo dell’“esercitazione dialettica” instancabilmente dipanantesi nella pagina adorniana lasci recisamente decadere la sintesi come spazio in cui la filosofia decide e fonda il passaggio di sé in prassi. Siccome poi la prassi che la filosofia prepara-legittima e in cui passa è fondamentalmente l’impresa della scientificizzazionetecnologizzazione universale giunta alla sua più capillare manifestazione nell’epoca della contemporaneità, ha una sua logica che il saggismo filosofico modulato in dialettica negativa, accendendosi di un ultimo barbaglio di ironia, compia un gesto radicale: rescindere il proprio destino da quello cui la 103. AA. VV., Che cosa fanno oggi i filosofi?, Bompiani, Milano 1982, pp. 188-189.

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filosofia occidentale, culminante e come riassunta nella “grande instaurazione” della dialettica, si è incatenata ponendosi da lunghissimo tempo (certo anche da prima che spuntasse Bacone, nel quale si riconosce convenzionalmente il primo filosofo scienziato, o forse, piuttosto, scienziato filosofo) al servizio di quella gigantesca impresa, salvo poi abbandonarsi a qualche penoso rigurgito di orgoglio “autonomistico” nei periodi in cui il suo asservimento, facendosi tanto soffocante da ribassarla a mera “scienza tra scienze”, la espropria di quel ruolo di coordinazione e di supervisione al cui discutibile prestigio le è tuttavia terribilmente difficile rinunciare. Questi patetici ondeggiamenti della filosofia tra stati di alacre predisposizione a seguire le rotte indicate dalla scienza, invidiata per l’esemplare “precisione” del suo linguaggio, e momenti di risentita rivendicazione di una propria peculiare “supremazia”, tirata in ballo sotto il pungolo del timore di venire riassorbita in un semi-indifferenziato gruppone interdisciplinare, non possono riguardare il saggismo filosofico; esso segue il suo destino, che è quello di suscitare un’estrema sorpresa nella misura in cui, pur seguitando a muoversi secondo quella cadenza dialettica di pensiero che resta legata a doppio filo agli splendori e alle miserie dell’“occidentale”, oscilla, fino a ricongiungerglisi, verso il cuore pulsante della sapienza dell’“orientale”. Infatti il saggismo filosofico in cui è innestato il circuito dell’“esercitazione dialettica”, che ha l’assolutamente onesta consequenzialità di pensiero di non costringere in grumi de-finenti il libero fluire dei momenti trapassanti l’uno nell’altro, si configura come il sapere, anzi come la sapienza che sosta incantata davanti alla con-fusionalità di quel penetrare di tutto in tutto/di quell’identificarsi di tutto a tutto che viene annunciato dalla verità delle Upanishad, dal monito del tat tvam asi. Ma questo approdo alla contemplazione del quadro della con-fusione non equivale, per il saggismo filosofico, all’impossessamento di una formula veritativa, da cui spiri la perentorietà precettistica che circonfonde

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nella tradizione buddistica il tat tvam asi: il saggismo filosofico si ri-solve nella con-fusione come nella più alta manifestazione del mistero, che apre il varco all’arresto, insieme inebriante e straniante, della quiescenza come sospensione di ogni accanimento coscienzialistico-volontaristico e di ogni fatica teorica macchiata dalla violenza della sua attuazione. Così, se l’in-conclusione intrinseca al saggismo filosofico resta pur sempre un modus di concludere, ora si vede che ciò in cui esso conclude è il mistero, questo mistero.

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Indice Introduzione

p. 9

DRAMMA DELLA DECISIONE L’in-decisione come vocazione (mancata) della dialettica Umiliazioni. La nascita e le sue conseguenze

p. 19 p. 21 p. 35

DUE CASI DI FILOSOFIA DELL’ARRESTO Adorno: la dialettica come destituzione della prassi Michelstaedter: il pathos del distacco dalla storicità

p. 55 p. 58 p. 77

LA FLUIDITÀ E IL SOGGETTO EMPIRICO Strategie della fluidità in Michelstaedter e Musil La cattiva fluidità Riemersione del soggetto empirico: l’ironica pietas di Musil

p. 99 p. 99 p. 114

GIOCHI DI OSCILLAZIONE Il salvifico dissolversi dell’ «eroe rosso» in Bloch Breve détour sul metodo Il Professore di Gruppo di famiglia in un interno: la deflessione dell’autocoscienza Il Michele di Gli Indifferenti: l’impennata dell’autocoscienza Il saggismo, Weininger

p. 127 p. 127 p. 142

p. 119

p. 149 p. 181 p. 216

778

Passages | 2

Protagonista di questo libro non è il soggetto, in realtà inesistente, che prende decisioni dispiegando la sua libertà, bensì quello che esiste davvero, cioè il soggetto de-ciso che, come indica la derivazione di "decidere" dal latino caedere=strappare via, è chiamato alla vita e la inizia venendo divelto dal corpo della madre o, se si preferisce, di-staccandosi dal tutto-niente dell'indifferenziato e così individuandosiidentificandosi. Da un lato, il soggetto de-ciso, in quanto si origina di-staccandosi, sta fuori-contro l'altro e gli altri da sé, deve difendersene ed è indotto ad attaccarli. D'altro lato, è solo con se stesso e quindi costantemente in ascolto della sua autocoscienza, da cui riceve una notizia essenziale: che è finito, destinato a morire. In risposta al primo problema, il de-ciso decide, cioè riduce parola e concetto a sue "protesi" ricavandone quelle grandiose costruzioni che sono i sistemi filosoficoscientifici, il più complesso dei quali, quello dialettico, nella sintesi decide il passaggio dal puro dire alla prassi; e questa, organizzata in tecnoscienza, soggioga il mondo. In risposta al secondo problema, il de-ciso cerca conforto e oblio in stati di con-fusione nel sovra-individuale o di aperta destituzione dell'individualità: di tali stati di in-decisione questo libro offre una rassegna in un percorso saggistico tra filosofia, letteratura e cinema che tocca La persuasione e la rettorica di Michelstaedter, L'uomo senza qualità di Musil e Gruppo di famiglia in un interno di Luchino Visconti. Proprio il saggismo si rivela il più alto modello di in-decisione: in particolare, il saggismo filosofico improntato alla dialettica diadica di Adorno. Esso, non approdando alla sintesi, nega il nulla osta al debordare della teoria nella violenza della prassi; e, grazie alla "frenesia" della scrittura adorniana, allestisce una pagina in cui talora tesi e antitesi sono condotte a una tale contiguità spaziale che quasi si "incorporano" l'una nell'altra fino a risultare indistinguibili, impedire ogni individuazione e togliere così il dramma della de-cisione. Marco Fortunato si è occupato della problematica esistenziale, dei temi del pensiero negativo, del valore della dialettica e dei rapporti tra filosofia, letteratura e cinema. È autore di Il soggetto e la necessità. Akronos, Leopardi, Nietzsche e il problema del dolore (1994), Il mondo giudicato. L'immediato e la distanza nel pensiero di Rensi e di Kierkegaard (1998), Alternative alla vita. Esistenza e filosofia (2004), La protesta e l'impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter (2013).

€ 11,00

ISBN E-book 9788898694716