De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi 8835941989, 9788835941989

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De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi
 8835941989, 9788835941989

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De Sica è Zavattini Parliamo tanto di noi

Òy QUEEN MARY da

AND WESTFIELD COLLEGE UNIVERSITY OF LONDON

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Editori Riuniti

DE SICA |

ZAVATTIN

e, in ordine di apparizione: 3

Umberto Melnati MarioMattoli Dino Falconi Maria Mercader Adolfo Franci Mario Camerini

Valentino Bompiani Giacomo Gambetti Gaetano Afeltra Ercole Patti Emi De Sica Lucio Ridenti

Elsa De Giorgi Giovanni Papini Giuditta Rissone Carlo Lizzani Callisto Cosulich

Antonio Pietrangeli Alberto Savinio Aldo Tonti Ennio Flaiano

Tommaso Quaglietti Sergio Amidei Franco Interlenghi Rinaldo Smordoni Dino Risi Orio Vergani Umberto Barbaro Adriano Bonazza Suso Cecchi D'Amico Sergio Leone

Luigi Bartolini Lamberto Maggiorani

attore regista autore teatrale di riviste attrice, seconda moglie di Vittorio giornalista, sceneggiatore regista editore, scrittore saggista

giornalista scrittore

figlia di Vittorio giornalista attrice — scrittore attrice, prima moglie di Vittorio regista

critico cinematografico regista scrittore, pittore

direttore della fotografia scrittore, sceneggiatore

storico del cinema sceneggiatore attore attore

regista giornalista saggista

storico del cinema sceneggiatrice regista scrittore, pittore

attore

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Giulio Andreotti Giuseppe Marotta Franco Fortini André Bazin

Guido Aristarco Renzo Renzi Leone Piccioni Luchino Visconti. Vasco Pratolini Indro Montanelli

Davide Lajolo Luisa Alessandri

Giuseppe Marchiori Ugo Casiraghi Gian Luigi Rondi Oreste Del Buono Felix A. Morlion O. P. Adriano Baracco Tullio Kezich

Georges Sadoul Maria Pia Casilio Carlo Battisti Gianni Toti Luis Bufiuel Tommaso Chiaretti Vittorio Bonicelli Cristano Ridomi Giancarlo Paietta Manuel De Sica Bruno Torri Lorenzo Pellizzari

politico, scrittore

scrittore, giornalista

poeta, saggista critico, saggista critico, saggista saggista saggista regista scrittore

giornalista, storico scrittore atuto regista scrittore, giornalista

critico, saggista critico cinematografico

scrittore, giornalista religioso giornalista, sceneggiatore giornalista, scrittore

critico e storico del cinema attrice

linguista, attore scrittore regista

giornalista critico, sceneggiatore

giornalista politico musicista, figlio di Vittorio saggista saggista

e altri...

— L'elal rato montaggio ha reso editorialmente impossibile il riferimento bibliografi| per ogni segmento del testo. Le citazioni, tutte rigorosamente testuali — siano esmenti bibliografici può senz'altro richiederli agli autori del libro. Casa

i

nc gliautori ringraziano: La Biblioteca Umberto Barbaro di Roma, la Biblioteca del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, la Biblioteca Panizzi di Reggio «Emilia. —

_— Un particolare ringraziamento all'Associazione Amici di Vittorio De Sica, a Maria

ì

Mercader De Sica, a Manuel De Sica e all’archivio Cesare Zavattini - Roma/Reggio Emilia, per la consultazione e l’utilizzazione dei documenti, editi e inediti, usati nella compilazione di questo libro. L'editore si dichiara disponibile nei confronti degli autori delle foto riprodotte che non è stato possibile contattare.

I edizione: marzo 1997 © Copyright Editori Riuniti di Sisifo srl Via Tomacelli, 146 - 00186 Roma Grafica: Luciano Vagaggini ISBN 88-359-4198-9

QUEENMARY & WESTFIELD | COLLEGE LIBRARY |

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Prologo Sciuscià

187

Ladri di biciclette Miracolo a Milano Umberto D.

237

Epilogo

93 143

tp

LL COTTI

All’una arrivai puntuale al banchetto. De Sica tardò ven

e si prese ugualmente gli applausi. Un columnist mi riv domanda tradizionale: «Per lavorare insieme tanti a e lei, qualche cosa avete in comune. Che cosa?». Ris È lampi dei fotografi: «La presunzione. Ciascuno di noi due cr in cuor suo di essere l'elemento determinante del successo d film».

eravamo

davvero soli...

CESARE Oggi ho ricevuto questa carissima lettera di De Sica...

E

-

VITTORIO 6 luglio 1953.

Caro Zavattini,

mi devi scusare presso gli amici del Circolo Romano del Cinema se non partecipo ai vostri dibattiti a cui mi invitate con tanta affettuosa insistenza. Non si tratta di cattiva volontà, lo sai, ma prima di tutto del fatto che io non sono un teorico e ho pertanto quasi paura delle discussioni teoriche pur riconoscendone la radicale importanza, e poi perché mi è mancato e mi manca il tempo a causa del nostro meraviglioso mestiere che non concede vacanze. Seguo però come posso l’attività culturale del Circolo attraverso le notizie di qualche collega o attraverso i vostri bollettini e penso che anche l’attività del vostro Circolo sia uno dei buoni segni della vita concreta del nostro cinema, del cinema italiano che qualcuno vorrebbe finito proprio nel momento in cui dà validissime prove di esistere sia con i suoi tentativi, sia con le sue insoddisfazioni e perfino con i suoi errotisi] La stampa può continuare a fare molto se si muove lontano dal piano della faziosità e dei fatti personali. La stampa è in grado, più di tutti noi, specialmente per la sua quotidianità, di illuminare il 11

ch

Ilospettacolo o, se si

101 dire altrimenti, che lo spettacolo ha dei compiti sempre più .

precisi nella formazione della nostra società. Questi pensieri mi ve|nivano ieri mentre avevo l’occasione di risfogliare le critiche su Sta| zione Termini e notavo che una parte, per fortuna non grandissima, __— dii queste critiche ha fatto di Stazione Termini un nuovo pretesto per

| | — | |

affermare che noi due dobbiamo separarci e troncare assolutamente la nostra più che decennale collaborazione. Ebbene, il nostro caso è significativo, anche se modesto, nei confronti del problema generale cui accennavo sopra, per come, talvolta, le passioni private o politi-.

|_— Che deviano la funzione della stampa. Noi, tu ed io, abbiamo sempre

| | _°—» ia

aspettato dalla stampa giudizi severi e abbiamo sempre letto questi giudizi con profonda attenzione e facciamo tesoro di questi giudizi; ma ci ha sempre stupito e addolorato ogni giudizio che, anziché da

un esame etico ed estetico del film, nascesse da umori o amicizia o inimicizia o peggio.

Quale minimo fondamento, per esempio, può avere questa accanita volontà di separarci? Forse la nostra collaborazione cosi naturale, cosi stretta, ha dato cattivi frutti per il cinema italiano? Ho trovato del livore addirittura in questa insistenza, della cattiveria, poiché si è cercato con molti mezzi di metterci l’uno contro l’altro, e quasi quasi ci riuscivano...

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ciociaro, anzi cafone VITTORIO Sono nato a Sora il 7 luglio 1901. Dunque sono ciociaro,

anzi cafone. Ma mio padre e mia madre, che si chiamavano Umberto De Sica e Teresa Manfredi, erano napoletani. È napoletanissima tutta la famiglia, l’intero albero genealogico. Mio padre era impiegato nella Banca d’Italia; poi lavorò nelle assicurazioni, fece anche

il giornalista; e il risultato di tutto fu una povertà sostenuta per anni e anni con una strabiliante dignità. Nessun pernicioso precedente teatrale in famiglia; mio padre mi parlava soltanto di uno zio leggendario, della cui reale esistenza io bambino non fui mai convinto, il quale dava recite in casa (immagino che cantasse canzonette napoletane) e perdette una eredità per non aver voluto troncare una recita e corre-

re al letto di morte di un parente danaroso. Comunque il teatro (anzi si diceva l’arte) era un regno misterioso e affascinante di cui si favoleggiava in casa e non so

Vittorio De Sica in una foto del 1936.

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che fosse assolutamente refrattario a quei sogni; si dodici anni, mi trovai spinto da mio padre a recitare in un film, la . faccenda non mi piacque proprio. Era capitato che un amico di fa|miglia, un certo Bencivenga, allora celebre regista di Francesca Bertini, stesse girando il film L'affaire Clemenceau con la Bertini e Gu-

| stavo Serena. Io feci Clemenceau bambino. Guadagnai 70 o 100 lire, | apprezzai molto questo aspetto pratico della cosa (servirono a pagare le tasse scolastiche presenti e future), tornai a scuola e non ci pensai più. Io sono conservatore. Allora volevo diventare ragioniere e al tea| tro nemmeno ci pensavo. Molti anni dopo ero attore di teatro ed ero ‘ decisissimo a non abbandonare mai il palcoscenico per il cinema. La faccenda dell’arte ritornò a galla durante la guerra, quando mi misi a fare il giro degli ospedali militari di Napoli con una troupe di dilettanti che davano spettacolo ai feriti La mia parte erano le canzonette napoletane; ma più che cantarle, le recitavo. Avevo 13 o 14 anni. Secondo mio padre ero molto bravo, avevo delle espressioni drammatiche, ero insomma una specie di fine dicitore. Poi la guerra finî. Intanto ci eravamo trasferiti a Roma, mi diplomai in ragioneria e mi iscrissi all’Università, nella facoltà di scienze politiche e commerciali. Perdurava in famiglia quella tragica e aristocratica povertà. E un giorno, finalmente, ciò che doveva accadere accadde. Incontro per strada un amico, Gino Sabatini. «Che fai?», dice. E io: «Sai, sono ragioniere», con un certo sussiego. E aggiungo: «Bisogna che cerchi un impiego per aiutare papà». Lui dice che ha già un lavoro: teatro. Teatro? Già, fa il generico nella Compagnia della Pavlova. Quanto pagano? Ventotto lire al giorno. E stanno appunto cercando un altro generico. Ricordo che era una domenica. Papà mi dice: «Ma certo! Hai disposizione, vai a presentarti alla Pavlova». Debuttai come cameriere nella commedia Sogno d'amore.

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concepito in una botte scoperchiata

Do:

CESARE Concepito in un letto di fortuna, una botte scoperchiata davanti alle fiamme di un forno, io nacqui a Luzzara alle sei pomeridiane del 20 settembre del 1902 mentre in piazza suonava la marcia reale per festeggiare la breccia di Porta Pia. Mio nonno si recò dal capobanda a pregarlo di spostarsi con i musicanti per non disturbare la puerpera. Ciò fu fatto. Il mio è un paese veramente comune: Luzzara sulla riva del Po; voi scrivete Luzzara e spesso la posta arriva a Suzzara invece, che è

una città vicina. Fu nominato come paludoso e ranocchioso dal Petrarca che vi passò una notte.

Cesare Zavattini nel 1928.

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Mio padre era pasticciere, aveva studiato a Milano. Una volta tornato mise su la produzione in proprio, preparava le sfoglie e poi le portava a cuocere al forno di fronte, quello dei panettieri. I Giovanardi. Fu lî che mise incinta mia madre... Panettieri straordinari i miei nonni materni.

Da ragazzo, pensandomi adulto, come mi immaginavo? Avvocato. Senza dubbi. I luzzaresi, fin da quando avevo quattro, cinque anni,

mi mettevano su tutti i tavoli da cui lanciavo i miei sproloqui, che per i miei parenti erano «arringhe», nonostante a quei tempi balbettassi notevolmente. Avevamo un caffè, era il più bello: grandi specchi, dei divani di velluto rosso, dei mobili bianchi con dell’oro, i liquori, i dolci...

Nacqui col complesso del caffettiere: quello che accorre quando è chiamato. Cosî la mia famiglia: niente di preordinato, tutto fatto al momento, su ordinazione... Ancora oggi io sono sempre a disposizione di chi mi vuole, di chi mi chiama al telefono, di chi mi viene a

visitare. Il complesso del caffettiere è una delle componenti del mio carattere. Lo metto come importanza vicino al complesso della timidità e a quello della calvizie, che non mi hanno mai abbandonato.

dolce come

un fico

VITTORIO

Nel 1930 fui primo attore in un complesso diretto da Guido Salvini, del quale facevano parte anche Giuditta Rissone, Giulio Donadio, Umberto Melnati e altri (gli «Artisti associati»); avevamo testi leggeri e spiritosi. Il teatro «vero», infatti, era in crisi. Ricordo che con

Giuditta Rissone, della quale cominciavo ad innamorarmi, dovem-

mo affrontare un periodo molto duro. UMBERTO MELNATI

Ci avevano dato il Teatro Manzoni a Milano, ma non veniva nessuno, nessuno. Io quando entravo in scena contavo i radi spettatori: uno, due, tre, sono dodici, sono. Spaventoso. Mi ricordo che a Mo-

dena, al Teatro Storchi, una sera c'era, come al solito, poca gente, ma qualche cosa bisognava fare perché eravamo li. Prima dello spet16

tacolo c’è arrivato un biglietto da due attori: noi siamo alla tal trattoria, abbiamo mangiato, ma non abbiamo da pagare il conto, se volete che veniamo a teatro, mandateci a prendere pagando il conto. Poi siamo andati a Milano al Teatro Olimpia, solita cosa, niente pubbli-

co. Noi saltavamo i pasti, ma saltavamo proprio i pasti, non c’era da mangiare. Li è venuto Mattoli, capocomico degli Spettacoli Za-Bum. MARIO MATTOLI Ero entrato per caso; c'erano una ventina di persone, e De Sica, la Rissone, Melnati e la

Chellini sotto la regia di Guido Salvini recitavano in un modo meraviglioso, però nel teatro non c’era nessuno! Io che ho fatto? Ho preso l’amministratore e ho detto: «Embè?» Lui: «Embè, sciogliamo; non ci sono i soldi neanche per un panino imbottito...». Io: «Vieni da me in ufficio». La mattina dopo rilevai la compagnia, ci aggiunsi Besozzi, Coop, tanti elementi, e

trasformai questa cosa che commercialmente era un fallimento in una cosa funzionante e di successo.

Vittorio De Sica con Umberto Melnati nel 1931 nella compagnia Za Bum n. 8.

UMBERTO MELNATI Una rivista che è stata Le lucciole della città, scritta da Dino Falconi e Oreste Biancoli.

DINO FALCONI Rivista che diverti i tre quarti dell’Italia perché ne girò le città per ben otto mesi consecutivi. E dico che diverti senza tema che mi si accusi di presuntuosa immodestia, giacché tengo a chiarire subito che i tre quarti del divertimento lo fornirono quei divertentissimi attori. Durammo quattro anni, Biancoli ed io, a scrivere riviste per loro: ma bisogna credermi, il compito non era grave. Bastava che una ila)

quegli andar visibilio gli spettatori più difficili. Come non applaudire De Sica e i Melnati quando gorgheggiavano le strofette di Lodovico-sei-dolce-come-un-fico o quando mimavano i dialoghetti di Diira r21nga?

UMBERTO MELNATI Tutta l’Italia parlò di questo spettacolo e siamo venuti qui a Roma alla Sala Umberto, dove c’éra il teatro esaurito tutte le sere. MARIA MERCADER

. Successo straordinario. Talmente grande che Vittorio ne restò se| gnato poi per tutta la sua vita professionale. Gli riuscirà difficile convincere il pubblico di non essere soltanto un attore brillante o uno smaliziato cantore di canzonette. MARIO MATTOLI De Sica aveva grandi capacità, ma anche il difetto dell’ingratitudine. Era un ingrato, soprattutto. Anche nei miei confronti. Un giorno ha scritto su un giornale che il periodo più brutto della sua vita era quello che aveva passato con me. Però aveva dimenticato che io l’avevo trovato in un teatro dove moriva di fame, e l’avevo portato a guadagnare milioni. Io non avrei avuto niente in contrario che lui avesse detto: «Nessun punto di contatto tra me, che avevo fin da allora aspirazioni artistiche e credevo che obbligo dell’attore sia di elevare e elevarsi spiritualmente, e un Mattoli con la sua caratteristica di showman». ADOLFO FRANCI Za-Bum fu il tentativo di richiamare sul teatro l’ormai stanco interesse del pubblico con metodi, dirò cosî, americani, sia di «réclame» che di regia. [...] Presto il pubblico gli dette torto e Mattoli dovette cambiar strada: dal Processo di Mary Dugan o da Kystone passò alle

riviste di Biancoli e Falconi. E qui Mattoli ebbe la fortuna di scoprire un vero talento musicale in Vittorio De Sica che, insieme a Mel-

nati, fu un po’ il genio tutelare e benefico di Za-By7 e di Mattoli. 18

ero ipnotizzatore

CESARE

Nel passato noi eravamo stati proprietari del caffè più elegante di Luzzara, poi gli affari avevano preso la via storta e ci eravamo ridotti a gestire un’osteria. Io avevo trovato a Parma un posto di istitutore

al Collegio Maria Luigia: riuscivo bene anche perché allora ero ipnotizzatore, e i ragazzi cui dovevo badare li ipnotizzavo tutti. Scrivevo le loro note di condotta, al preside parevano ben scritte e mi invitò a fare un articolo sul Collegio per la Gazzetta di Parma: cominciai cosî a lavorare un po’ per il giornale, a conoscere Attilio Bertolucci e Pietro Bianchi, insomma a entrare nel giornalismo che è sempre stato il mio mestiere. Poi dovetti andare soldato. Non ufficiale, soldato, soldatissimo: a Firenze, e lf

ebbi rapporti con i letterati di Solaria, con Bonsanti, con Montale. Scrivevo cose umoristiche, pezzi brevi, anche sul Caffè, settimanale umoristico del Tevere, il quotidiano di Roma diretto da Telesio Interlandi, uomo molto fascista e molto

intelligente che faceva collaborare i letterati, Barilli, Cecchi,

con articolini piccoli e svelti. Questi pezzi umoristici me li chiesero, mentre ero soldato a Firenze, anche per Secolo XX di Rizzoli. Quaranta lire la settimana: da disperato che ero, senza neanche i soldi per i francobolli, diventai agiato e felice. Poi, alla fine del periodo militare sono andato a casa perché il

Zavattini a Firenze nel 1929, radio telegrafista del Genio durante il servizio militare.

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mio papà stava male e allora ho passato un periodo particolare. Mio papà moriva lentamente, diciamo cosî, non ave-

vamo soldi, c’era bisogno di fare qualche cosa... andai subito a Milano. Arrivai al pomeriggio, quattro ore dopo c’era la prima di una commedia di Campanile, al Manzoni, con tutti gli scrittori di Milano presenti, vestiti benissimo. Durante l’intervallo alcuni sghignazzavano nell’atrio e mi dicevano: «Tu sei un umorista, non quello». Io vole-

vo rispondere: «Questo atto è bellissimo». Infatti era bellissimo, si rideva con un candore

costante. Ma ero sbarcato da poche ore a Milano... Mi scuotevano mi leccavano perché fossi con loro, tutti mi faceva-

De Sica nel 1922 in divisa da granatiere.

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no festa conoscendo di me dieci righe sî e no; capii che sarei diventato il padrone di Milano, ma volevano che mi associassi a loro... De Sica l’ho visto per la prima volta nel Professore di Matermatica di Campanile, al Manzoni di Milano, nella parte del bambino. In quell’occasione conobbi anche un’altra persona, il mio amico Repaci. Nella stessa serata due buoni e fedeli amici che debbo a un terzo amico, Campanile. Serata piena, dunque.

quel mio celebre naso VITTORIO L'interpretazione delle canzonette mi procurò una «piccola gloria» a tempo di primato. Dove non erano bastate le commedie per bene, riuscirono invece Ludovico e compagni. Ricevuta l'etichetta, il passo dalla Za-Bum al cinematografo si ridusse ad un saltino. Nel 1928 il primo film: La compagnia dei matti, nel 1931 il secondo: La vecchia signora. Qui mi ci volle il regista, Amleto Palermi. Il produttore, Stefano Pitta-

luga, non ne voleva sapere. Dopo avermi squadrato a lungo, mi aveva assicurato che non era il caso di parlarne: «Siete l'attore più antifotogenico che io abbia mai conosciuto. Il vostro naso ritratto di profilo in una pellicola, provocherebbe brividi di orrore al pubblico femminile». E quando qualcuno si era azzardato ancora a proporgli il mio nome, Pittaluga era andato su tutte le furie: «Per carità — gridò — non parlatemi più di quel coso!». Quel «coso», naturalmente, ero io. Ma Palermi era fissato, riusci a farmi fare nello stesso anno La segretaria di tutti. Fu un grande successo; e un grande dispetto a Pitta-

luga. Al quale poi toccò l’ultimo oltraggio: Mario Camerini cercava il protagonista de Gl uorzini, che mascalzoni! e chiese di me. MARIO CAMERINI È stato il mio primo film con De Sica. Era talmente magro che gli usciva fuori solamente il naso. Allora ebbi l’idea di mettere nelle guance di De Sica della bambagia e lo gonfiai un poco, e lui parlava sempre con questa bambagia dentro, poveretto. Però è una cosa che servi, perché diventò cosî molto più piacevole che magro com'era. VITTORIO Io ho un’adorazione per Mario Camerini. Prima di tutto l’uomo e poi l’artista, il poeta, il regista proprio delicatissimo. L'inizio della mia carriera di attore e il mio futuro di regista sono stati influenzati, appunto, dall’arte fine, delicata, di questo grande artista. Per mia fortuna, l'avvento di Cecchi alla direzione della Cines rivalutò le mie azioni cinematografiche. Anche il naso, quel mio celebre naso puntualmente esposto alle diffamazioni più sanguinose, godette in quell’occasione di una riabilitazione totale. Essendo giovane e in grado di canticchiare sospirose canzoni, produttori e registi si 21

SE

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sentirono in dovere di affidarmi invariabilmente parti di giovanotti simpatici e fatali. L’opera cosî bene iniziata da Za-Bum venne completata dal cinematografo. Il quale cinematografo mi affibbiò una reputazione amorosa che io non merito, una fama alla cui altezza, nella vita, non riesco assolutamente a rimanere.

mio padre agonizzava, io scrivevo...

CESARE Enrico Cavacchioli, che dirigeva tutti i settimanali di Rizzoli, mi of-

fri lavoro a 2.000 lire al mese. Una cosa meravigliosa: la ricchezza. Ma mio padre si aggravò e dovetti tornare di corsa a Luzzara, perché solo io in famiglia potevo tirare avanti l’osteria. Mentre lui agonizzava io scrivevo, vicino a una finestra con le inferriate, oppure di notte; e i paesani dicevano: «Quello sciupa la luce...». Non so perché mi sono messo a lavorare a Parliamo tanto di me: forse era un modo per fare comunque il mio mestiere, nonostante le circostanze; forse era una protesta contro quell’osteria in cui mi trovavo chiuso,

una rivolta di vita contro il morire di mio padre; o semplicemente c’era in me, senza che lo sapessi, una natura di scrittore. Quando morî mio padre mi ritrovai sulle spalle una grande famiglia: la madre di mio padre, mia madre, le mie due sorelle, e poi mia moglie, non eravamo sposati ma era come se fosse mia moglie, che aveva già il figlio Mario... e aveva già in braccio quell’altro figlio, Arturo. La situazione era grave, drammatica. Tornai a Milano, ma Ca-

vacchioli era stato mandato via. Mi rivolsi di nuovo a Piazzi e lui mi

aiutò a trovare un posto, alla Rizzoli, come correttore di bozze: dalle famose, incredibili, duemila lire al mese a seicento lire.

Ero tornato a Milano da Luzzara col mio libretto in tasca. Rizzoli non faceva libri (sono stato io poi a fargli stampare il primo libro) e allora sono andato a portarlo a Bompiani: non so perché proprio a lui, forse perché era giovane e aveva appena cominciato a fare l’editore, dopo aver lavorato con Mondadori. Potevo andare da Mondadori, potevo andare da qualcun altro e invece ho scelto Bompia ni, per intuito, e ho scelto proprio bene! 22

VALENTINO BOMPIANI

Quando venne da me, non lo conoscevo neppure di nome. A vedermelo davanti grosso e timido non mi ispirava fiducia. Si era seduto e taceva, intento a strapparsi con metodo le sopracciglia. Tirò fuori dal taschino o forse dalla manica un rotoletto di ritagli. Li posò sul tavolo e vi accennava col mento come se si trattasse di ciambelle che mi invitava ad assaggiare. Io mi sentivo offeso. Aspettavo Stendhal e dovevo perdere tempo con le leccornie paesane. Gli proposi di scrivere un racconto per ragazzi. Mi diceva di sî, con la testa un po’ storta e la bocca appuntita. Racimolò i pezzetti di carta e se ne andò. Dopo quindici giorni totnava con un rotolo di fogli scritti. CESARE Per risparmiare non avevo fatto una dattilografia perfetta, c'erano dei pezzi montati, incollati ma c'eravamo già capiti.

VALENTINO BOMPIANI Ogni tanto balbettava. Erano gli stessi pezzi ricopiati, forse non ci aveva aggiunto neppure una parola o aveva tolto qua e là una virgola. Il manoscritto rimase in un angolo dello scrittoio. Un giorno, sfogliandolo, l’occhio mi cadde su di una frase: «Il capo ufficio diceva all’impiegato: “Le proibisco di pensare alla morte nelle ore di ufficio”». Naturalmente andai avanti nella lettura perché era chiaro che mi trovavo di fronte all'opera di un umorista unico, eccezionale. CESARE ...€ Bompiani mi disse: «Io pubblico il libro. Non solo lo pubblico, ma lo pubblico in un certo modo». Fu lui a trovare il titolo. Sfogliando le pagine del manoscritto, tac: «Parliamo tanto di me». Nel 1931 usci Parliamo tanto di me, usci coi manifesti sui muri e fu un fatto straordinario, un successo clamoroso.

VALENTINO BOMPIANI ...immediato e clamoroso. Una ristampa appresso all’altra in un coro di elogi. 23

CESARE Ne scrissero I/ Corriere della sera, La Stampa, altri giornali, tutte critiche meravigliose. Ebbi contro quelli come Montanelli, è facile immaginarselo: io qualche barbaglio d'indipendenza ce l’avevo. #

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DICI

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il figlio dello spirito! VITTORIO Ero a Milano un giorno di autunno dell’anno 1931, le sette di sera;

andavo con Adolfo Franci nel negozio di camicie Pozzi, un amico che incontrammo attraversando la strada ci chiese se avevamo letto II figlio dello spirito (sic) di C. Zavattini che era stato pubblicato da poco, un libricino molto modesto, noi non l’avevamo letto. Gli chie-

demmo che cosa ne pensava, lui disse che di quel libro se ne sarebbe parlato molto. Ho raccontato questo perché come una melodia, un suono, un rumore del passato risvegliano in noi certe circostanze dimenticate, cosî il libro di Zavattini Parliamzo tanto di me risveglia in me i ricordi di quel pomeriggio a Milano. Ero, credo, davanti alla chiesa di S. Carlo, l'asfalto era lucido dal bagnato, sentivo il caratteristico odore

di Milano, di asfalto e dolciumi... ricordo l’incontro e le possibilità del libro di avere successo. Avevo conosciuto Cesare Zavattini quella mattina, Franci me lo aveva presentato in una redazione di una rivista di Rizzoli. Zavattini mi fece l’impressione di un uomo buono, semplice e un po’ strano; mi propose di interpretare un nuovo personaggio teatrale, «l’uomo dal saxofono». La proposta, come ho detto, mi sembrò strana, però il desiderio*di quest'uomo nel volermi in quel ruolo mi piacque. Recitavo in inglese, francese, tedesco e naturalmente in italiano, eravamo i primi a portare al successo Ugo Betti allora completamente sconosciuto. Facevamo conoscere al pubblico italiano, Noel Coward, Curt Goetz, e altri, però lui mi voleva vedere sul palcoscenico inseguito dal saxofono. Io credo che lui mi volesse strabiliare con la sua proposta. Che cosa era: il desiderio di essere originale a ogni costo? Questo semplice cittadino, dai capelli che incominciavano a diventare grigi e con un'espressione del viso dolcissima, voleva farmi pensare a un perso-

24



i 22

o

naggio insolito, e desiderava vedermi in un ruolo forse di successo o forse no, ma certamente originale. Quella stessa sera leggevo Parliamo tanto di me due volte, ed ebbi conferma della mia prima impressione. Da quel momento sono diventato amico di Cesare Zavattini...

amori, incendi, liti... CESARE E continuavo a correggere bozze, tutto quello che mi davano. Anche gli articoli di Cinerza Illustrazione, di cui si occupava Giuseppe Marotta. Ero sicuro di me, ma non come uno che vede in prospettiva e sa quello che vuole, ero sicuro di me come uno che sa di avere una forza e un’energia. Marotta si comportò in modo proprio fraterno e cosi potei non solo correggere le bozze, ma scrivere dei pezzi anche perché avevo una facilità, direi forse addirittura eccessiva. Allora cominciai, su Cirerza Ilustrazione a fare le «Cronache di Hollywood»,

firmate da Jules Parme. Inventavo delle cose scriteriate in mezz'ora di tempo: amori, incendi, liti tra attori.

«Giorni sono vi è stato all’Ambassador un banchetto cui hanno partecipato tutti i direttori presenti a Hollywood e mi è stato facile scambiare con molti di essi alcune parole. Sono riuscito a far dire venti parole al taciturno Frank Capra, sono riuscito a far arrabbiare l’uomo più pacifico del mondo, Lewis Milestone; Van Dyke, quello d’Ombre bianche, mi ha preso sotto braccio e mi ha mormorato all’orecchio insolite confidenze. Insomma, un vero eccezionale botti-

no per un reporter cinematografico. Ma ecco, in sunto, le piccole interviste...

«King Vidor: “II film che mi piacerebbe fare? Già, anche voi sapete che noi poveri direttori siamo castigati con il supplizio di Tantalo. Abbiamo a portata di mano tutti i sogni e non possiamo realizzarli per colpa del pubblico e, in prima sede, per colpa dei producers. Non possiamo fare ciò che vogliamo, ma ciò che ci lasciano fare. II mio ideale sarebbe un film che descrivesse la giornata di un uomo, dalla sveglia al momento in cui va a dormire: parlo di un uomo qualunque. La lunghezza del film dovrebbe corrispondere alla 25

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unghezza della giornata del mio eroe. E tutto riprodotto con la più grande fedeltà”». Jules Parme

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Un giorno Calogero Tuminelli, editore dell’Enciclopedia Treccani, che mi voleva molto bene, disse a Rizzoli: «Ma lei lo sa che ha presi so di sé uno scrittore molto apprezzato in Italia e ci sono anche quelli che dicono che è un grande scrittore?». A Tuminelli lo aveva | _—». detto Ugo Ojetti, che allora era una specie di santone del giornali«_—’smo. In un baleno Rizzoli organizzò nella villa di Canzo un pranzo con più di cento persone. Ero felice. Tutti pensavano che io fossi un Da

misterioso personaggio. C'era naturalmente anche Marotta.

Rizzoli ed io ci mettemmo a saltare

CESARE Marotta ebbe qualche attrito con Rizzoli, il quale poi lo mandò via, sbagliando. Al suo posto subentrò Buzzichini, molto intelligente, molto bravo come giornalista. Avevo chiesto di essere messo alla prova e fui promosso redattore, al suo fianco, ma lo stipendio restava quello di correttore di bozze. Poi andò via anche Buzzichini e Rizzoli mi diede questa prova di fiducia: «Faccia lei Cinerza Illustrazione». E li ho vinto la battaglia, mi permetto di dire, subito. Entrai

molto in confidenza con Rizzoli, molto, molto. Andavo a parlare con lui, restavo spesso con lui invece di tornare a casa a mangiare.

Apprezzava quelli che avevano, come diceva, «entusiasmo». Pian piano mi dava anche grande fiducia, che meritavo, che meritavo... Begli anni; lo stabilimento di piazza Carlo Erba (sede della casa editrice) con le numerose bobine di carta, la lunga rotativa, i precisi operai, dava il senso dei piedi per terra, che un pezzo di pane non

sarebbe mancato mai. Con Angelo Rizzoli andavamo insieme alle corse, e una domenica che arrivò primo Turiddu, un brocco, Rizzoli ed io ci mettemmo a saltare; non esagero dicendo che ci abbracciammo coram populo. E nel 1934 convinsi Rizzoli a pubblicare un libro, inventando una

collana che si chiamava «I giovani». Domandare questo a Rizzoli 26

a

sembrava a tutti una storditaggine, e non era vero perché certe cose si potevano fare con lui, l’avevo capito. Insomma ficcai nella testa di Rizzoli l’idea di tentare con l’editoria, con I tre operai (di Carlo Bernari), e il caso volle che andasse benissimo.

poi, la svolta decisiva VITTORIO Dal 1931 al 1940 interpretai 23 film e una quantità inverosimile di commedie sul palcoscenico. Poi, la svolta decisiva: il primo film mio: Rose scarlatte. Dire oggi che fin da quel momento io pensassi al realismo, sarebbe forse presunzione; ma è verità che io avevo già intuito la possibilità di portare la macchina da presa fuori dagli stabilimenti, all’aria aperta, dovunque fosse la vita vera degli uomini. Daltronde il mio incontro con Zavattini era già avvenuto e fin dal 1939 avevo acquistato un suo soggetto. Avevamo capito subito che le nostre idee camminavano insieme. CESARE [Nel 1934] ho cominciato a pensare di fare dei soggetti per il cinema. Lavoravo molto ma andavo anche molto al cinema. Al di sopra di tutti per me c’era Chaplin. Lo avevo scelto come idolo cosî, da giovane, ma ero in grado di apprezzare, di capire, di invidiare tutto il cinema americano comico. Mi piaceva anche l’altro, Buster Keaton, anzi, tutti gli altri, non me ne sfuggiva uno. Correvo per le strade di Milano per arrivare in un cinema dove stava cominciando un film, era questione di quarti d’ora. Ero insomma già nella dinamica, come dire, soggettistica e in un certo senso affaristica. Non sono mai stato un affarista, ma certe volte ho fatto gli affari senza volerlo, per forza di cose, a causa dell’abbondanza

della mia produzione. Ero francamente molto, molto ricco. Potevo stendere qualcosa con una facilità che era quasi sperpero. GAETANO AFELTRA Tu dettavi ed io scrivevo a macchina. I tuoi primi soggetti cinematografici nascevano quasi tutti di notte a Milano. Foglio sopra foglio. ZI

Mi facevi rileggere due tre volte. Quando un pezzo non correva, si ricominciava da capo. Ad un certo punto ti veniva fame e mangiavamo pane e salame. Il Lambrusco macchiava di colore amaranto i fogli di carta che tu mettevi sotto la bottiglia e sotto i bicchieri per sal-

vare il panno verde della scrivania. Sera dopo sera, finché finito il

soggetto, andavamo alla stazione verso le quattro del mattino per imbucarlo al primo treno per Roma.

CESARE Fu importante l’incontro con Giaci Mondaini, che era un umorista molto apprezzato, un disegnatore di primissimo ordine. Scrivemmo un soggetto (Buoni per un giorno): aveva qualcosa delle comiche all'americana e qualcosa di italiano mescolato. Ricordo Mattoli all'aeroporto di Milano. Ricordo un suo telegramma che dice press’a poco: «Attendola aeroporto Milano ore dodici tratteremo Buoni per un giorno costretto ripartire aereo dodici e mezza». Io e Mondaini, coautore del soggetto, troviamo in prestito i soldi per il lungo viaggio del tassî. Cantiamo, Mattoli è l’uomo del giorno nel campo dello spettacolo. Ecco l’aeroplano piccolo piccolo, poi grande, e Mattoli che scende. Ha trenta minuti di tempo. Mangia. Domanda il prezzo del soggetto. Diecimila. Mi batte la mano sulla spalla fraternamente, risponderà sî o no, entro 24 ore. Riparte, aeroplano gran-

de poi piccolo piccolo piccolo. Sembra una favola, o come in America. L'aeroplano scompare tra le nuvole, non ho saputo pit nulla. Nella redazione definitiva di questo soggetto rimasi solo. Il mio vero lavoro, del quale posso assumere piena e intera la paternità è, dunque, il soggetto che fu pubblicato in Quadrivio. Si trattava di un soggetto fortemente farsesco, in cui rientravano motivi di cartoni animati, una

scala che diventava xilofono ed altre trovate di audace comicità.

Darò un milione

CESARE

Come avevo convinto Rizzoli a pubblicare I tre operai, lo convinsi a fare questo film: Darò un milione [dal soggetto Buoni per un giorno]. 28

“ Sal

Il comm. Rizzoli, con liberalità molto moderna, accettò il lavoro in blocco, senza discuterne i particolari. Disse: ho fiducia in Zavattini e in Camerini. Si mettano, dunque, d’accordo. Andammo a sceneggiare nella villa di Rizzoli a Canzo, quella del grande pranzo in mio onore quando ero correttore di bozze. Li conobbi Mario Camerini, che doveva dirigere il film.

MARIO CAMERINI Mi incontrai con Zavattini e gli dissi. «Guarda, in questa novella c’è un sostrato, c'è qualcosa sotto; ma il film deve essere un racconto,

non si può fare un film solo su due uomini che corrono e scappano e non si fermano mai.»

CESARE Fu proprio la pagina di Quadrivio che Camerini lesse. E ricordo che, agitando il foglio, disse freddamente: «Qui non c’è una sola cosa che faccia ridere». Capirai! Dir questo a un umorista celebre! Non avevo ancora finito di ingoiare, che Camerini implacabile aggiunge: «E poi, ci vuole una trama». Qui ebbi un’improvvisa visione del guaio nel quale mi ero messo. Io credo che per molti registi la trama sia una specie di cuscino di sicurezza. Sono, in fondo, i registi più provetti che hanno l’ossessione della trama, forse perché sanno che nei suoi fondamenti economici il cinema è una grande industria e ha bisogno di un minimo di garanzie. Infatti, la trama è l'ancora di salvezza dei film brutti, il coefficiente, il diversivo che trattiene l’atten-

zione anche quando tutto va a rotoli. Ora io, e anche il resto della generazione di umoristi della quale ti ho parlato, ho un diverso concetto della trama. A me pare che il film comico moderno possa anche esser privo di trama narrativa, dialogata, cronologica, conse-

quenziale. La trama più efficace è nella satira di tutto un ambiente; e cosî appunto era concepita la prima versione di Darò un milione. MARIO CAMERINI Zavattini rimaneva su posizioni assolutamente astratte, mentre io insistevo per avere un racconto, una storia.

CESARE

Lui aveva i suoi collaboratori fissi, la sua troupe, uomini validi come

Ivo Perilli e Ercole Patti, ma io avevo il mio carattere. Non ero mai da 29

CESARE

| Con la mia solita imprudenza io volevo, a ogni costo, che portasse la commedia più verso il freddo nord. Tanto è vero che a me non an-

. dava il bravo Almirante. Per avere Totò me lo sono associato. Mi sono fatto rilasciare. una sua dichiarazione, per avere anche verso la produzione una ‘carta in mano. Ma la produzione non se la sentî. Io feci di tutto [...]. E anzi avevo proposto a Camerini anche Keaton, ma Camerini non li volle, né l’uno né l’altro. Voleva la commedia senza ri-

schi. Rizzoli e io ci eravamo montati la testa con Buster Keaton. Sf,

Buster Keaton viveva a Parigi, lo si poteva affittare. Ma Camerini temeva un Keaton indocile a causa della sua quasi costante ubriachezza, e poi temeva che la dolce storia d’amore si sarebbe avviata verso «l’esagerazione». Per me era talmente meraviglioso il fatto che si potesse prendere Buster Keaton che gli ho detto: «Guarda, ci sto vicino io dalla mattina alla sera, purché tu lo prenda». Scendo una mattina in salotto e mi sento dire da Camerini con un'aria satanica: «Senta, abbiamo pensato di far diventare ubriaco il protagonista...». Detti in urla terribili. ERCOLE PATTI : Si arrivava discutendo, a situazioni che non si sbloccavano più.

E Zavattini a un certo punto diceva: «Lasciatemi solo che ci penso». Si chiudeva, non lo vedevamo per due tre giorni di seguito.

30

dal buco della serratura...

SI

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MARIO CAMERINI

N a

Zavattini era irremovibile nel suo punto di vista e chiese 48 ore di

LSA

tempo per scrivere il testo. In fondo non ci dispiaceva, stavamo in

Sa

una magnifica villa, c’era un laghetto dove si poteva pescare, e menÈ 2 tre Zavattini lavorava noi giocavamo a bocce e pensavamo: «Quan: do Zavattini ci porterà quello che ha scritto, discuteremo». Però a un certo momento, per la responsabilità che io sentivo per il film (era il primo che facevo con Rizzoli), mentre gli altri giocavano, sgusciai di soppiatto, andai alla porta della stanza in cui lavorava Zavattini e guardai attraverso il buco della serratura dal quale si vedeva il tavolo e dietro Zavattini, seduto, col suo aspetto più serio e imponente, tale da incutere rispetto. «Beh — mi dissi — sta pensando, e quindi qualche cosa verrà fuori.» E tornai a giocare. La sera, Zavattini ci doveva portare almeno il primo tempo, invece ci disse: «Sentite, ho pensato tutto e domani scrivo». Il giorno dopo avvenne quasi una scena da pochade, perché io avevo informato tutti della possibilità di guardare attraverso il buco della serratura e cosî uno alla volta ci recavamo tutti dietro l’uscio, togliendoci le scarpe, e guardavamo Zavattini attraverso il buco della serratura. La scena sarebbe stata cinematograficamente assai interessante, poiché dopo 48 ore c’era uno Zavattini tutto sudato, che prendeva dei pezzi di carta, scriveva qualche parola e poi li buttava nel cestino; ogni tanto guardava l’orologio, poi lo tirò fuori e se lo mise davanti. Alle otto scese ad annunciarci: «Non ho scritto niente, ma rimango della mia idea».

addio. Ciao, fa!

CESARE Ricordo, in quella mattina che fu drammatica, e (Camerini) disse: «Aut aut. Insomma, qui non si può andare avanti in questo modo».

Io venivo da altre forme di esperienza, e gli dissi: «Addio. Ciao, fa!». Poi mi venne incontro lo stesso perché potei venire a Roma e lavorai a Roma e c'erano dei collaboratori di primissimo ordine.

31

De Sica sul set di Darò un milione a Verona nel 1935 con Assia Noris e, al centro, Cesare Zavattini.

Si rinnovò la rissa. Io avevo in mente un dialogo un po’ irreale. Camerini, invece, ne esigeva uno realistico e verosimile, di genere

comico-sentimentale. Ora, durante la sceneggiatura, Soldati che aveva in mente un dialogo sul genere dell’Amleto, vien fuori con una proposta: «Se togliessimo la parte dei poveri?»... Ebbi due veri travasi di bile. Insomma, in una sola settimana di lavoro, Perilli, Came-

rini ed io varammo il dialogo. Angelo Rizzoli credeva nel film comico e negli attori del varietà per i quali io spezzavo tante lance. Ma nel 1935 Macario, Totò, Riento erano considerati vitandi dai cineasti. Per Darò un milione,

oltre Vittorio De Sica prese Almirante per fare Blim, si figuri... mentre io vedevo per quella parte un Macario, che valeva dieci Almirante, perché era meno realistico. Non dimenticherò mai Macario alla Cines, una mattina di maggio, Camerini lo aveva fatto venire da Pisa, per la nostra insistenza, cercava la spalla di De Sica. Quell’anno Camerini pensava che il «ridere ridere» fosse in decadenza. Fece rivestire Macario — vedo Macario che si tira su i calzoni in un angolo, dopo il provino, e infila dentro la camicia mentre guarda ansiosamente con i grandi occhi infantili Camerini — e lo congedò senza un elogio o un biasimo. DD.

î Rizzoli mi mandò a Verona, con grande mia gioia, quando Camerini aveva cominciato a girare il film. Ma non lo disturbai mai durante le riprese. Era il nome pit autorevole! Chi si permetteva, chi poteva...? Con pazienza cercavo solo qualche volta di dargli piccoli suggerimenti, con un riguardo enorme. Fu su quel set che vidi Vittorio De Sica, uno degli interpreti. Ma le sorti di questo soggetto erano segnate: anche gli americani che lo acquistarono nel 1936, finirono con l’accentuare la parte amorosa, De Sica diventò Warner Baxter e il ruolo del suicida venne assunto da Peter Lorre, l’uomo dagli occhi bovini. Nell'edizione della Fox, il balletto spari del tutto e dei miei prediletti mendicanti non rimase che un’ombra.

andò a Venezia e io lo seguii CESARE Caro Bompiani, ti scrivo in dieci minuti perché mia madre aspetta per andare a impostare. Sono le undici, sono qui in canottiera, reduce dai giardini pubblici con la famiglia (che bravo!). Ora devo fare il sunto per la brochure di Darò un milione: una storia dolce dolce, come è ridotta.

Rizzoli mi ha detto: «Faccia una cosa umana...». ERCOLE PATTI Il film venne grazioso alla fine.

CESARE [...] andò a Venezia e io lo seguii. Ero felice, quando lo proiettarono ero in sala in piedi, in fondo. Ero felice perché qualche risata c’era, nell’ambito delle cose per cui mi ero battuto. E poi, un minuto prima che calasse il sipario, come si dice, sono andato fuori, all’Excelsior, ai giardinetti davanti al mare. Ebbene, Camerini mi cercò e mi

venne a trovare là. Fu una cosa bellissima, perché io ero incazzato con lui, anche qua esageratamente, senza senso pratico. Avrei dovuto dire: «È andata bene, ringraziamo il cielo!», invece no, dicevo: «Ah, se avessimo fatto, se fosse stato...». A me non entusiasmava 33

terpre

e



|mentreio avevo pensato a un film americano

passato attra

‘ciamo cosî, un condizionamento italiano, una cosa originale. Came-.

- rini mi disse una frase di cui gli sono stato grato, ci siamo stretti la — mano e l'episodio è finito in questa maniera. Il film ottenne la coppa del ministero delle Corporazioni per il | miglior film comico italiano, con la seguente motivazione: «Affronta

| con Sicura maestria una situazione paradossale, traendone spunti del più felice umorismo, destinati certo al favore del pubblico, senza rinunziare alle più schiette esigenze d’arte». CESARE Caro Bardi,

Non credo ti siano sfuggiti i difetti del film — le lungaggini, il tono troppo realistico, la recitazione senza le necessarie sfumature, e infine: l'occasione perduta di fare un grande film di gusto internazionale [il corsivo è di Z.]. Pensa poi alle gags che Camerini ha bocciato (ce n’erano una ventina ancora molto belle) e pensa che quel poco che c'è, l’ho fatto entrare con la rivoltella in pugno.

VITTORIO A lui [Mario Camerini] devo il mio successo, e anche il mio primo ingresso nel buon cinema lo devo a lui... Sono riconoscente a Came-

rini per avermi insegnato a essere vero sincero, e, come regista, a cu-

rare molto la recitazione, i rapporti verso i personaggi. CESARE

Ho ammirato Camerini, e lo considero, malgrado tutto, un maestro,

ma noi scrittori di cinema finiamo con l’essere poco amati dai registi. Lo scrittore di cinema e il peggior mestiere, direi un mestiere in34

naturale, per fortuna destinato a scomparire; prepariamo la donna, la adorniamo, perfino la eccitiamo, e quando la donna sta per buttarsi fra le nostre braccia si spalanca la porta, entra il regista, la possiede; del resto, è soltanto quest’ultimo l’atto veramente creativo.

Il film andò molto bene finanziariamente qui in Italia perché era il periodo che contava solamente la cinematografia americana. Era un film vivace, abbastanza bello. E poi lo volevano rifare. Rizzoli stesso lo voleva rifare, e non s’è trovato più il negativo. Pare che sia andato a fuoco in un bombardamento a Torino, stava tra i negativi a Torino. DAI GIORNALI 25 giugno 1979 - Darò un milione, di Mario Camerini, è, per tutti gli

appassionati di cinema, un film «mitico». Premiato alla Mostra di Venezia del 1935 come migliore film comico, segnava l’esordio professionale di un grande sceneggiatore, Cesare Zavattini, in coppia con un altro umorista del tempo, Giaci Mondaini (padre di Sandra). Storia bizzarra ed esilarante di un miliardario (Vittorio De Sica) che si finge povero e di un povero (Luigi Almirante) creduto ricco, segnò uno dei risultati più intelligenti della commedia italiana fra le due guerre. Ma nessuno delle nuove generazioni l’ha vista, il film essendo «scomparso» durante l’ultimo conflitto. Ora la Cineteca Nazionale l’ha ritrovato negli Stati Uniti e l’ha ottenuto dal Museum of Modern Art di New York, sicché presto nuove copie saranno a disposizione di studiosi e spettatori anche in Italia.

Vittorio e Giuditta

Lucio RIDENTI E cosi si sono sposati. La notizia, per quanto tenuta nascosta e data soltanto all’ultimo momento, è naturalmente trapelata. Ma gli sposi che avevano deciso davvero di fare un matrimonio il più modesto e segreto possibile (davvero, non come le famigerate coppie americane...) sono riusciti nel loro intento. Alla cerimonia, semplicissima, non assistevano infatti che i due testimoni, Umberto Melnati e Luigi Chiarelli (il primo per la sposa, il secondo per De Sica) e Lucio Ridenti. DD

Lo sposalizio è stato celebrato nella chiesa di S. Pietro, ad Asti, dal parroco Emilio Cavallotti che ha tenuto gelosamente segreta la data del matrimonio. Era il 10 aprile 1937. Dopo la cerimonia, v’è stata una piccola colazione in casa dei parenti della sposa. E poi subito di ritorno a Torino, al teatro Alfieri, al lavoro per la nuova commedia Una più due di Chiarelli. VITTORIO Si può dire ch’io sia nato cantando, come altri facendo strilli da dare il mal di capo. In casa, da ragazzo, dovevano impormi ogni tanto di smetterla. Perché cantavo proprio senza accorgermene.Insomma, cantavo ed ero felice di cantare. Ma poi, quando la canzonetta non bastò più alle cresciute esigenze del mio spirito, io incominciai ad averne abbastanza. Ma non vi fu verso. Non sono mai riuscito a non cantare. E il peggio

è che, in fondo, cantare mi piace sempre. Eppure mi pareva d’esercitare un’arte inferiore, mi pareva di sentirmi offeso quando al mio apparire sentivo sussurrare dagli astanti: «Facciamolo cantare, facciamolo cantare». Che ire sorde, che collere trattenute, che voglia di gridare: «E ora di finirla!». Ero giunto a un punto che stavo per impazzire. Per fortuna un fatto mi ha salvato. Protagonista di questo fatto è stata la mia bambina. L'altro giorno piangeva. Siccome non parla ancora, non siamo riusciti a sapere da qual genere di delusione morale fosse angosciata. Una cosa è certa ed è che tutti i nostri argomenti per consolarla riuscivano vani. Vani i balli che tutti cercammo di eseguire in sua presenza, vani i salti mortali che io feci sul letto, vani i musi, i versi, i gridolini che a turno facemmo. Niente. Piangeva. Io allora, per non sentire più la vocetta stridula e insistente, mi misi a cantare. Dopo tre o quattro battute la mia bambina si chetò. Mi guardava con quei suoi occhi... sapete, ha degli occhi... Be’, lasciamo andare... insomma non pianse più. Al «refrain» sorrise un poco. Sorride tanto bene che tutti diventano matti. Allora ho pensato che le mie canzoni possono consolare talvolta qualcuno. Questo pensiero mi ha in parte guarito dall’ossessione delle canzoni. E se talvolta mi lascio persuadere a eseguirne qualcuna, è proprio perché spero... anzi sono quasi sicuro che in mezzo alla folla, forse felice, che mi ascolta, c'è qualcuno a cui una canzone può dare qualche sollievo, un respiro, un singhiozzo liberatore... che so? Una consolazione, insomma. 36

Mi rattrista la convinzione di molti che, in me, l’attore di teatro sia una specie di derivato dell’attore di cinema. È invecell” opposto. To sono sempre stato un attore drammatico che, talvolta, come quasi tutti i fotogenici del teatro comico, fa anche del cinema. Che poi queste evasioni abbiano un esito insperatamente felice e mi diano notorietà, prestigio e denaro, appassionandomi ad esse ogni giorno di più, non vorrei lamentarmene. Il cinema mi piace sul serio. EMI DE SICA Papà era affettuoso, severo e gelosissimo. La prima, volta che, sedicenne, gli avevo chiesto il permesso di andare al cinema con un ragazzino che mi corteggiava, la sua risposta era stata «te spezzo ’e

ggambe». Mi trattava e mi coccolava sempre come una bambina. Mi dava affettuose pacche sul sedere dicendo: «Un giorno questo non potrò più permettermelo!». A quell’epoca avevo già ventidue anni. Era piccola e esile ma in scena sembrava alta due metri [la mamma]. Era molto brava, tanto che insegnò a mio padre a lavorare e lo con-

|

Li

Un'immagine degli anni quaranta: De Sica con la moglie Giuditta Rissone e la figlia Emy di tre anni.

37

A

e ad uscire dai ruoli

| sempre insieme.

DE [...lindubbiamente una delle attrici più straordinarie che abbiamo

ELsa DE’ GIORGI

avuto, una vera maestra. La sua modestia, il suo modo di scompari-

re, di uscire di scena dopo il suo matrimonio con De Sica e la sua appassionata maternità per la figliola, non fanno che confermare anche le [sue] doti morali... EMI DE SICA L'ultima apparizione la fece al cinema, in 8 e rzezzo di Fellini dove

faceva la parte della mamma di Marcello Mastroianni. Quando Fellini le disse: «Lei deve dare un bacio sulla bocca di Marcello», lei esclamò: «Oh, povera creatura!». Era molto ironica la mamma, e

molto intelligente.

portato alle stelle

CESARE

i

[Alla Rizzoli] continuavo a fare progetti, realizzare nuove idee, ma

continuavo anche ad occupare una posizione precaria, ad avere uno stipendio precario. E non risultavo neanche iscritto al sindacato dei giornalisti. Ero piuttosto stufo e feci uno di quegli atti di indipendenza che ogni tanto hanno segnato la mia vita. Andai a Roma dal capo del sindacato fascista dei giornalisti, Ravasio, e gli dissi: «Se non mi iscrivete, faccio uno scandalo pubblico». Ravasio mi iscrisse e quando informai Rizzoli, lui mi disse: «È licenziato». Non avevo alcuna intenzione di discutere. Mentre stavo mettendo insieme la mia roba, Rizzoli mi fece di nuovo chiamare: «Riconosce di aver sbagliato?» «No.» «Allora sa cosa le dico? Che io di lei me ne frego.» Rizzoli mi aveva licenziato e ventiquattr'ore dopo la notizia arrivò all’orecchio di Mondadori: mi fece un’offerta e andai dritto dritto 38

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DI

‘dalui. Fui portato Sé stelle, Ria ia al mese, direttore editoriale, ufficio in piazza San Babila con quelle stipade (

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abituati a vedere esaltati uomini di pensiero e di scienza italiani se non appartengano e fin tanto che restino aderenti ad un qualificato partito nazional-internazionalista.

Ogni film di De Sica è riguardato pertanto da noi con la premessa interiore che il mondo, vedendolo, parlerà oltre che di arte e di tecnica, dell’Italia, dell’Italia di oggi.

A questo punto qualcuno ci domanderà: ma non siete soddisfatti che De Sica abbia già da tempo smentito di essere comunista e che di recente abbia preventivamente declinato la candidatura ai Premi Stalin per la cosiddetta lotta per la pace? Come cattolici e come iscritti ad un partito che ha quello comunista come l’avversario più forte siamo stati veramente soddisfatti delle dichiarazioni di De Sica, che hanno troncato una piccola speculazione impostata dalla stampa socialcomunista non senza abilità e con tecnica perfezionata. Ma il problema di De Sica come uomo è — ci si consenta — del tutto secondario nei confronti della sua produzione, cosi come oggettivamente appare. E ci sembra non inutile chiarire sotto questo profilo perché da De Sica l’Italia possa attendersi un contributo specifico anche alle grandi battaglie ideali che debbono essere sostenute per rinforzare gli ordinamenti democratici all’interno, dando loro maggior contenuto sociale, e per aumentare il nostro prestigio nel mondo. Nessuno si scandalizzi. Non chiediamo davvero a De Sica di ispirare la sua produzione agli scritti di Don Sturzo o alle vicende del Partito popolare... domandiamo solo all'uomo di cultura di sentire la sua responsabilità sociale che non può limitarsi a descrivere i vizi e le miserie di un sistema e di una generazione ma deve aiutare a superarli. Missione imprescindibile del dotto è infatti l’insegnamento. De Sica mostra chiaramente — e chi potrebbe dargli torto? — di non considerare quello attuale come il migliore tra i possibili ordinamenti terreni, gravato com’è da contrasti violenti, da sperequazioni paurose, da esplosioni di odio e di insincerità. [...] Il difficile sta nel saper individuare le strade e nel riuscire a far valere i programmi per questa moderna «redenzione» che deve esser fatta senza annullare le grandi conquiste delle libertà democratiche (qui è la nostra netta differenza dagli estremisti di ogni colore). Vediamo, cosî, il pensionato Umberto D. Egli si muove in un mondo in cui manca completamente un qualunque principio se non di religione almeno di solidarietà umana. Lo Stato dà al suo antico 219

servitore un trattamento economico insufficiente a pagare il modesto alloggio e a procurarsi alle mense dell’Assistenza pubblica un pasto che il vecchio tra l’altro generosamente divide con il suo vecchio cane. Tirannica e dura l’affittacamere, gentile solo con i compiacenti avventori; asprigna la custode della mensa, esoso il compratore di libri, sgarbato il merciaiuolo richiesto soltanto di cambiar moneta,

profittatore lo stesso compagno di guai quando si veste dei panni del piccolo commerciante, spietato e convenzionale tutto l’ambiente dell'ospedale. Restano una servetta di paese ed un cane: l’una e l’altro però egualmente mossi in un solo meccanismo di sensazioni buone e di reazioni vegetative. De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l’ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento che giovi nella realtà a rendere domani meno freddo l’ambiente che circonda le moltitudini di quanti in silenzio si consumano, soffrono e muoiono.

E se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti — erroneamente — a ritenere che quella di Urzderto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale. E stato detto in questo dopoguerra che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale, bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un tipo di produzione, ma sempre con il limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni; senza del quale ci si perde nelle vie disgregatrici dello scetticismo e della disperazione. De Sica ha ora annunciato un suo giro d’Italia in cerca di cinematografiche rivelazioni. Noi ci auguriamo sinceramente che egli non si fermi a raccogliere le male arti delle donne traviate, i furtarelli della cronaca nera, l'isolamento sterile dell’una o dell’altra sottoclasse. Ma che faccia spaziare invece il suo obiettivo sopra un campo più vasto di esperienze, rammentando che ovunque ci sono rivoli di bene che, individuati, fruttificano e che bilanciano la marea del male, in una sintesi che egli può e sa comprendere e descrivere. Era, del resto, il dono divino di un suggestivo raggio di sole che faceva sorridere gente diseredata nel precedente film di De Sica tra i 220

barboni di Milano. Non dispiaccia a De Sica se noi lo preghiamo di non dimenticare mai questo minimo impegno di un ottimismo sano

e costruttivo che aiuti veramente l’umanità a sperare e a camminare. Ci sembra che il ruolo mondiale dal nostro regista meritatamente acquistato dia a noi il diritto di richiederlo e a lui il dovere di perseguirlo. (Su Libertas, 28/2/1952)

Giulio Andreotti in una vignetta sull’Avanzi del 7 marzo 1952.

GIAN LUIGI RONDI Un connubio malriuscito

II film Umberto D. ha dato una prova evidente del dissidio implicito nella collaborazione De Sica-Zavattini [...] Si è detto, cominciando, che questa volta De Sica ha voluto cedere a Zavattini, traducendo il suo testo come era stato pensato.

Ognuno, però, vive in un suo mondo, ha un suo linguaggio, si esprime secondo certe forme, sente soprattutto certi temi. De Sica non è 221

ARI SEA = esattamen esprime altri dagli nte diverso dagli altri e non diversame Zavatdi vera te solo quello che sente e quello in cui crede. La verità tini, le sue quotidiane figure, i suoi poveri ambienti, le cucine, i mercati, i pubblici refettori, gli ospedali, le strade di Roma son tutti elementi cui De Sica è sensibile. Nel film, quindi quanto si riferisce a questi argomenti, preso come parte in se stessa, è sempre rigoroso e

sapiente, sovente lirico (anche se raramente poetico); il personaggio della servetta, soprattutto, ha trovato in De Sica un evocatore affettuoso, attento, preciso: il suo risveglio in corridoio, le sue prime fac-

cende in cucina, il suo carattere di incosciente ma tenera bestiola so-

| no stati sottilmente espressi e scrupolosamente disegnati. Quando però tutti questi elementi debbono riunirsi nel giro dell’irrazionalità zavattiniana e il loro analogico coesistere deve far scaturire il clima astratto e stupito in cui l’autore li ha visti nascere, ecco che De Sica non segue più il testo, non lo filtra in se stesso, non lo supera per interpretarlo e le soluzioni di continuità diventano pause, assurdità, errori od equivoci. Il dolore del protagonista da contratto diventa querulo, i suoi casi monotoni e frigidi, il suo destino indifferente e lontano. La conclusione, cosî, non è lieta: il testo zavattiniano non è in di-

scussione: possiamo discutere il suo negro pessimismo, ma non il suo irrazionalismo letterario. Discutiamo la sceneggiatura per gli eccessi della formula e discutiamo, soprattutto, il modo con cui De Si-

ca si è accostato al testo. Vi ammiriamo i «pezzi di bravura» liricamente realisti, ma non possiamo non lamentare l’incomprensione verso uno stile letterario, incomprensione che in definitiva dà vita a

un film di ispirazione almeno equivoca in cui la confusione delle lingue nasce dall’incomprensione dell’idea. Per l’interpretazione ricorderemo soprattutto il professore universitario che si è assunto la parte del pensionato. Chiuso, freddo, distante, doveva essere la chiave di volta della situazione, forse il

punto d’incontro fra Zavattini e De Sica, ed è stato invece la pietra di paragone più evidente del loro dissenso. Al suo fianco l’esordiente bambina che interpreta la figurina della domestica si impone invece con commovente persuasione, e rimane l’unica nota viva del

film.

Da La Fiera letteraria, 9 marzo 1952. 222.

GIANCARLO PAJETTA

Che cosa rimprovera Andreotti a De Sica? Delle due l’una: o lo ammonisce perché scrive come il cuore gli detta dentro e non vende l’anima a Mobbi, o gli muove la critica di non essere ancora... un comunista.

Perché c’è qualche cosa di vero nella critica che vien fatta a molti artisti italiani, di vedere solo quanto nella vita è triste, a volte disperato, di non cogliere la speranza e la gioia che pure corrono le vie del mondo con la volontà e le lotte di quelli che per essere poveri e oppressi non rinunciano ad essere pieni di fiducia e di forza. Se, ad esempio, De Sica potesse conoscere i pensionati che ho visto io nella loro sede alla Camera del Lavoro di San Severo, con la

loro lega e la loro bandiera; se potesse «girare» la ribellione delle «Reggiane» contro il governo dei Mobbi, «il mondo non sarebbe indotto (per dirla con Andreotti) a ritenere che l’Italia del film Urzberto D. sia l’Italia della metà del secolo ventesimo». Ma non sono proprio gli Andreotti e i loro compari ad impedire con le armi più sottili che i nostri artisti prendano contatto con questo mondo positivo e lo assumano a soggetto della loro arte? Non sono proprio loro che esercitano una insidiosa censura — quella che taglia i film già fatti e quella, fatta di minacce preventive, di intimidazioni segrete, di campagne denigratorie — tesa a soffocare la ricerca, la conoscenza, il racconto di questa Italia nuova che nasce nelle

sofferenze e nella lotta?

il cane

Flak

VITTORIO & CESARE Caro Pannunzio,

abbiamo letto con molto interesse la lettera che il presidente della Rai, Cristano Ridomi, ha mandato al tuo giornale [...] spiegando come, per il carattere monopolistico dell'Ente, le critiche cinematografiche debbano mantenersi sul piano di cordialità e particolarmente di valorizzazione dei film italiani. Giorni addietro abbiamo sentito parlare dalla stazione radio trasmittente di Roma un giornalista, di cui ci sfugge il nome, sul Festi223

val di Punta del Este dove il film italiano Umberto D. è stato classificato primo da una giuria internazionale di undici critici, con dieci voti favorevoli. Il giornalista ha detto che la delegazione italiana, di cui lui faceva parte, si era stupita di questo successo e che in Urzber: to D. il solo attore che funziona è il cane. Lasciamo giudicare a te e ai tuoi lettori la veridicità delle dichiarazioni del presidente della Rai, il comportamento del suddetto membro della delegazione italiana a Punta del Este e l'opportunità di parlare in questo modo di un film quando ancora non è uscito in Italia e che comunque ha tenuto alto il prestigio della nostra cinematografia in una competizione internazionale. Vittorio De Sica Cesare Zavattini

il De Sica e lo Zavattini...

Da IL MonpDo Signor direttore, non mi sembra che la lettera di VittorioDe Sica e Cesare Zavattini, pubblicata su I{ Mondo del 1° marzo, riproduca esattamente il riferimento a Urzberto D., contenuto nell’intervista trasmessa con la

rubrica Ciak del 10 febbraio. Si tratta di un’intervista improvvisata,

e non di una cronaca cine-

matografica della Rai. Un giornalista appena tornato da Punta del Este avrebbe detto, secondo la lettera, che «la delegazione italiana

di cui lui faceva parte si era stupita di questo successo e che in Ur2berto D. il solo attore che funziona è il cane». Il giornalista, in realtà, dopo aver parlato di Isa Pola e degli squisiti spaghetti alla bolognese da lei cucinati, ha aggiunto testualmente: «La più grande delle sorprese è stata l’assenza di film interessanti. Li abbiamo ricercati con il lanternino per i venti giorni del festival, ma senza frutto. Dimenticavo la più grande delle sorprese: il cane Flak di Umberto D. Il cane Flak è veramente un acquisto per il nostro cinema». Ammettiamo che questa battuta possa non essere piaciuta a De Sica e Zavattini, ma ci corre dal sostenere, come fa l’Avarti! del 29 febbraio, che «alla Rai si trasmettono critiche dove si afferma che 224

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ttore che

funziona

è

il

anno avuto modo di parla:

molto lungamente del loro film, in un'intervista radiotrasmessa co la rubrica Prize visioni, del 16 gennaio: un’intervista ben più ampia e impegnativa delle poche frasi registrate in Ciak.

Cristano Ridomi VITTORIO & CESARE Caro Pannunzio. crediamo che sarebbe opportuno pubblicare a fianco della lettera del presidente della Rai il testo registrato dell’intervista con questo Sala. Il presidente della Rai cerca generosamente di attenuare il significato delle divagazioni di un delegato del nostro paese che si lamenta che la giuria abbia assegnato il premio proprio a un film italiano e lo denigra poi con la inqualificabile frase di chiusura. Noi comprendiamo benissimolo stato d’animo del presidente della Rai, ma ci si permetta di rilevare che compiti cosî delicati possono e devono essere affidati solo a persone qualificate. Cordiali saluti e ringraziamenti. Vittorio De Sica Cesare Zavattini Ecco il testo della trasmissione della rubrica Ciak del 10 febbraio 1952. Questo testo ci è stato inviato dal presidente della Rai, con la sua risposta.

«Vittorio Sala è arrivato proprio questa sera da Punta del Este.» «Com? è andato, Sala, il festival?»

«Lo chiamerei il festival delle sorprese. Considerato come il migliore il film giapponese Rasciorzon, la giuria dei critici ha assegnato al contrario all’ultimo momento il suo premio a Umberto D. Una sorpresa è stato il personale successo di Luciana Vedovelli. Poco nota attrice del nostro cinema, che ha raggiunto in Sud America una notorietà pari a quella di Silvana Mangano. Questo fenomeno si deve soprattutto alla grazia della giovane attrice e anche alla sua conoscenza delle lingue inglese e francese, indispensabili in un festival internazionale. Una sorpresa è stata anche rappresentata dall’arte culinaria di Isa Pola. La nostra attrice è riuscita ad organizzare una cena 225

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nostro cinema».



DAL’UNITÀ E si può comprendere facilmente perché il signor Sala consideri il cane Flak un acquisto per il cinema italiano. In questo momento — egli pensa — il cinema italiano sta facendo tali brutti acquisti, che un cane è proprio un raggio di sole. Il signor Sala ne ha un esempio in famiglia, poiché è diuturnamente portato a meditare sulla presa di. possesso, da parte del fratello Giuseppe Sala, della rivista cinematografica Bianco e Nero, dopo che la stessa azione culturale era stata esercitata sul Centro Sperimentale di Cinematografia. Ma un critico dovrebbe riuscire a sollevarsi dalle misere preoccupazioni familiari. Forse cosî riuscirebbe ad evitare di dire che a Punta del Este non c'erano film interessanti. Urzderto D. non era un film interessante? Sorvoliamo. C'era anche Bellissima a Punta del Este. Neanche questo un film interessante, per il difficile palato del Popolo. C'erano, a Punta del Este, due dei tre importantissimi film prodotti in Italia durante quest'anno, ma I/ Popolo storce il naso. Se ci fosse andato anche il terzo film, Rozza ore 11, il signor Sala forse sarebbe precipitato nella noia più nera ed atroce, ed avrebbe tentato il suicidio, come il protagonista di Urzberto D. Non lo ha fatto, ed ora se ne sta pentendo e sfoga la sua bile con frasi di questo genere: «Da quando alcune giurie più o meno rappresentative hanno dato dei premi al tandem De Sica-Zavattini, costoro hanno perduto il senso della misura e, in certi casi, dell'educazione». Ha parlato Monsignor della Casa! Ha parlato un uomo educato e compito. Sentite quest'altra: «Se non fosse stato per questo cagnolino, che forse è il primo ad essere profondamente seccato dell’antipatica grinta del professor Battisti, di Urzberto D. non si parlerebbe più».

226

or

riveduto e corretto DA LAVORO

Pubblichiamo questa pagina per dire ai lavoratori di andare a vedere e di far vedere questo nobile film. Perché il giornale della Cgilè dalla parte di Umberto D. e lo difende come uomo e come personaggio. Pure, questa specie di storia di U.D., riassunta attraverso queste otto fo-

tografie non è la stessa storia del film. È un Umberto D. riveduto e corretto, come lo avrebbero voluto i lavoratori, un Umberto D. alla rovescia, se si può dire cosi. E Zavattini e De Sica non ce ne vorranno per questo. 1. Questa e la storia di Umberto D. il

pensionato quale l’avete visto, o lo vedrete, sullo schermo e quale vi suggeriamo di vederlo noi. Ecco qui il vecchio lavoratore (35 anni di servizio al ministero dei Lavori pubblici per una pensione che non gli compra il diritto di vivere) alle prese con il primo problema della sua esistenza. Non può mai pagare tutto il fitto della sua povera stanza e scopre che la padrona l’affitta «a ore» ad amanti occasionali nelle ore in cui lui non c’è. Se non paga come può protestare? Ma Um-

berto D. protesta ugualmente. Il debitore non è lui, è lo Stato.

2. Ed ecco il secondo problema: il mangiare. Al «canile» come i poveri chiamano le loro mense e dove di nascosto egli dà il suo piatto di minestra a Flik, il suo cagnolino, è costretto a

vendere l’orologio per poter dilazionare ancora la scadenza tragica della miseria assoluta.

227

3. Soltanto una povera servetta, abbandonata alla sua ignoranza morale e sentimentale dei rapporti con gli uomini, è accanto a Umberto D. con una solidarietà silenziosa e primitiva, con la forza

di vivere delle creature semplici che vivono lo stesso nelle condi-

zioni assurde in una società nemica.

4. Anche all'ospedale andrà Umberto D. per cercare di risparmiare qualche giorno il mangiare e tentare di pagare l’affitto. Chiederà rosari mormorerà preghiere, farà il viso umile alla suora per guadagnarsi la dilazione alla fame. Poi dovrà tornare fra gli uomini come prima

5. Nessuno dimenticherà il gesto pudico e angosciato di Umberto Domenico Ferrari quando tesa la mano per l’elemosina all'ultimo momento la volta in su e in giù come se volesse accertarsi di invisibili gocce di pioggia e nascondere la sua dignità umiliata. Poi sarà Flik che, col cappello del padrone in bocca, nascosto dietro una colonna chiederà il pane per lui. 228

6. Ora Umberto D. è davanti alla sua stanza con i muri buttati giù, sconvolto. La padrona ne farà un salotto nuovo... Ma raccontiamo la scena con questa fotografia che la censura ha tagliato con le parole di Zavattini sulla intervista di otto mesi fa: «Prima di andarsene sul muro diroccato che resta della sua stanza Umberto scrive l’invettiva espresione comica e tragica della sua ribellione di servitore fedele dello Stato abbandonato alla miseria e alla fame. Sul muro la sua mano scrive: “Merda”». Il pensionato ha un sorriso di comica soddisfazione per la condanna che ha pronunciato contro la società poi si avvia...

229)

...© aggiunte 7. E qui il «nostro» uomo è già diverso. Umberto D. non va verso il suicidio ma spinge più a fondo la protesta. Come all’inizio del film, quando protestava in corteo per gli aumenti, torna a combattere sulle strade e sulle piazze. «Abbiamo lavorato tutta la vità, gridano i cartelli. Siamo i paria della nazione. Giustizia per i pensionati.» Cosî finisce il film come lo avremmo voluto noi. Cosî

continua la lotta dei pensionati.

Con loro, con tutti gli Umberto D., sono i lavoratori,

è la Cgil, il Lavoro. Tutti noi.

GIULIO ANDREOTTI La funzione educativa insita nel cinema impone ad esso anche dei compiti di altissima e perenne politica. Chi non sente l'urgenza della seminagione di parole di serenità e di pace dopo tanta propaganda di rancori e di odio? Tra i mezzi di rasserenamento degli animi lo spettacolo cinematografico è forse il più efficace, e non credo di poter essere caduto in contraddizione con me stesso, quando ho preso a rivolgere questo appello agli uomini del cinema perché sentano sempre l'impegno della loro missione: il mio articolo su Urzberto D. 230

A

e

e sulla responsabilità dei grandi autori di opere cinematografiche di fronte all’opinione che il mondo si fa di noi, del nostro paese attraverso la visione di esse, aveva tono tanto poco «minaccioso» da meritarmi, cosa che ricordo con animo soddisfatto, non solo un cortese

ringraziamento da parte di De Sica, che me ne aveva data l’occasione, ma aperte espressioni di consenso dagli altri registi di primissimo piano ai quali pure andavano dedicate le mie parole.

GUIDO ARISTARCO Nell’Eco del Cinema del 30 luglio 1953, De Sica smentiva di avermi detto alla presenza di Zavattini e di altri, in casa dello stesso Zavattini, che «il realismo cinematografico era entrato in crisi con la lettera aperta dell’on. Andreotti su Urzberto D.»: mi accusava di aver «inventato» l’affermazione attribuitagli — nel frattempo da me resa pubblica — «per speculazione politica». A una mia ferma richiesta di precisazione a riguardo («stento a credere che Lei abbia potuto fare una simile affermazione, dandomi pubblicamente del bugiardo»), cosî De Sica rispondeva il 14 agosto: «Circa la frase da me detta, io in buona fede non la ricordavo. Zavattini, al quale ho chiesto se ricordasse la cosa, afferma che io l’abbia detta e, dato che siete in due

a ricordarlo, sarà cosî». E aggiungeva: VITTORIO «Ma come l’ho detta? In qual modo? Fra tanti altri argomenti, l’avrò detta con quel gusto del paradosso, seguîta da tante altre riflessioni come avviene in una conversazione amichevole. Non mi sarei certamente espresso in quei termini se Lei mi avesse intervistato o

chiesto ufficialmente il mio pensiero sulla crisi che attraversa oggi il cinema italiano. La cosa che mi ha profondamente dispiaciuto è che Lei non era affatto autorizzato a dire pubblicamente la mia affermazione, che riferita in quella sede del Circolo Romano del Cinema, assumeva un aspetto polemico e anche politico. Se Lei oggi mi domandasse quali sono le cause della crisi del cinema Le risponderei che non prendono origine dalla lettera dell’on. Andreotti, bensî dal cattivo gusto dilagante di certo cinema, dalla impostazione eccessivamente commerciale delle coproduzioni, e anche dalle restrizioni imposte, forse troppo spesso, dalle competenti autorità. Per conto mio devo chiarire che se ho fatto qualche brutto film la colpa è tutta mia. Spero che la polemica si chiuda con questa mia lettera.» 231

E

infatti si chiuse.

— VITTORIO Estate, 1974

«Ci sono dei momenti — diceva Cesare Zavattini — nei quali abbiamo vergogna di non badare agli altri. Forse per un senso di colpa fermeremmo il primo che passa, perché ci racconti la propria storia. Può darsi che Umberto D. susciti di questi desideri.» Avevo dedicato Umberto D. alla memoria di mio padre. Il film irritò molto i ministri italiani allora in carica, e a Cannes il premio fu assegnato a Due soldi di speranza di Renato Castellani. Ancora per motivi politici il film fu ritirato in fretta dalla circolazione. Giulio Andreotti mi inviò una lettera aperta insulsa e saccente, mi accusò di essere malato di pessimismo, e fece le lodi di una struttura ospedaliera progredita e della legislazione sociale, comunque ancora da realizzare, non per merito suo. CESARE Una sera mi sono trovato al Quirinale per una cerimonia, con Gromyko e Saragat, e li incontro Andreotti che mi fa: «Buonasera, Zavattini, come va?». E io ne ho approfittato per rispondergli: «Buonasera, onorevole, Lei si era riproposto di sgarrettare il cinema italiano e c’è riuscito». Ho allungato la mano a salutare gli altri e me ne sono andato via lungo tutti quei corridoi. . Se dovessi riassumere in una parola che cosa è stato l’elemento determinante della crisi del cinema italiano direi che è stata l’azione un po’ sotterranea della burocrazia. Non si può capire né il cinema di allora né il cinema di adesso, non si può parlare di crisi senza capire fino a che punto il potere ha continuato a fare della democrazia il tramite della carica di attacco al cinema, alle sue

problematiche fondamentali e anticipatrici rispetto a tutto il mondo. Ci sono stati centinaia di interventi indiretti e ci sono state persone esplicitamente influenzate... Bisognerebbe raccontare fino a che punto la burocrazia era riuscita a influenzare uomini creduti al di sopra di ogni sospetto. Ci sono stati momenti di compromessi, momenti di viltà, momenti di coraggio, momenti che pareva ci si intendesse sull’onda del successo che aveva portato poco a poco una parte del governo a non porsi antiteticamente al 232

Pa

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noi a

re questo. Se si vanno a raccogliere oggi le loro opinioni, li si trova tutti immuni, indenni... Mi considero una delle rarissime persone che hanno pagato, poco naturalmente in rapporto a chi ha rischiato il carcere e la pelle. Io rischiavo il non lavoro, l’emarginazione. Ma ho resistito, grazie a una certa vitalità!

Umberto D.... tranquillamente in Tv

DA LA REPUBBLICA Roma, 6 settembre 1994 - «Urzberto D. può andare tranquillamente in Tv, anche in prima serata.» Lo ha affermato ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, dopo le polemiche rinnovate da Manuel De Sica in relazione alla antica censura, mai revo-

cata, per la messa in onda tv del famoso film di suo padre. Letta ha attivato il Dipartimento dello spettacolo per la revisione del film. Ma è stato accertato che il divieto ai minori di 16, posto dalla Commissione di Censura il 4 gennaio del 1952, era stato rimosso nel 1967 a seguito di una seconda edizione presentata dalla società di produzione. Il film, pertanto, non ha alcun divieto e può essere trasmesso in Tv anche in prima serata.

«...MA il film non è quello licenziato da papà»

MANUEL DE SICA Una seconda edizione del film io non la conosco, non posso valutare quanto e in che termini abbia inciso sulla versione originale licenziata da mio padre. Per questo mi riservo di chiedere all’attuale detentore dei diritti una visione per valutare l’eventuale lesione dei 233

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diritti morali dell’autore. Trovo innammissibile che, allo scopo di ottenere la rimozione del divieto, sia stato necessario presentare, dopo molti anni dall’uscita del film, un’edizione che è

diversa da quella licenziata dall’autore, e che era pienamente legittimata a ottenere il visto indiscriminato. Ecco la scena incriminata

e tagliata nella copia televisa della Rai Tv. La riproponiamo nella stesura originaria dalla sceneggiatura di Cesare Zavattini. Stanza pensione. Interno. Giorno

Squilli di tromba. Si apre repentinamente l’uscio che immette nel corridoio e piomba dentro la domestica che si precipita alla finestra. Umberto, che sta togliendosi la giacca, se la rimette fulmineamente scuotendo la testa. La serva guarda in basso: c'è la strada e una caserma di carabinieri con la sentinella all'ingresso e un ampio cortile. Uno dei carabinieri che stanno uscendo dalla caserma fa il saluto alla sentinella 234

Tre inquadrature della sequenza di Urzberto D., censurata in Rai Tv.

193; o È A un tratto laserva balza indietro dalla finestra, tira giù in frettala tapparella È. s) guarda giù attraverso le fessure della tapparella. Ha un rapido risolino, come di compiacenza, poi pentendosene, tutta agitata, fa segno oa guardare anche lui, come si trattasse di cosa di straordinaria importanza. Umberto sta dando una seconda zolletta di zucchero al cane facendogliela desiderare con tante moine. Si interrompe e va alla finestra... ...vede due carabinieri che a una trentina di metri dalla caserma litigano fra di loro indicando la finestra della serva. Stanno uscendo altri carabinieri che salutano la sentinella e ai quali la sentinella fa il presentatarm. Alcuni di questi si affollano intorno ai due litiganti e li sospingono lontano dalla caserma. La serva: Quello alto è di Napoli. Quello basso no... Umberto: Il tuo qual è? La serva: Tutti e due. Umberto: Ma il papà... il padre? La serva lentissimamente tira su a piccoli scatti qualche striscia della tapparella. La serva: Io credo quello di Napoli. Umberto: Come credo? La serva: Dicono di no... tutti e due! Mentre i due parlano si ode nella camera accanto il rumore di uno schiaffo, poi una sedia che cade e un singhiozzo.

235

l’ultimo grande film MARIA MERCADER Umberto D. fu secondo me l’ultimo grande film di Vittorio De Sica; incominciava una nuova fase, in cui egli avrebbe ceduto alle tentazioni degli americani e del denaro. Avrebbe ancora diretto delle opere egregie, insieme con altre che lo sono meno, ma non avrebbe più ritrovato l’ardore dei suoi tempi migliori, la purezza di intenti con cui, senza soldi e quasi senza speranza disuccesso, si batté per realizzare i film in cui credeva. Intanto l’idea di andare in America, di fare un film senza limita-

zione mezzo Da D. fu rezze.

di mezzi, come qualcuno gli prometteva, si era insinuata in ai progetti seri (ce n’erano) e aveva finito per prevalere. un lato non mi dispiacque che fosse lontano, quando Urzberto presentato in Italia: gli venivano cosî risparmiate molte amaL’insuccesso fu totale.

CESARE Roma, 2 marzo 1952

Caro De Sica,

credo anch'io che tu non debba perdere più tempo ora che hai il passaporto. Possiamo aspettare ancora due o tre giorni per vedere se arriva il mio, ma se il mio non arriva entro due o tre giorni 75) |

è chiaro che non me lo vogliono dare poiché sia il ministero qua che il ministero là sanno benissimo che noi due si doveva partire insieme. A ogni modo tu comprendi che se il passaporto non mi arriva in tempo utile perché io prenda l’aeroplano con te non può interessarmi più; e per troppe ragioni, lasciamelo dire, non posso avere la minima fiducia che questa lunga faccenda finirà bene. Tu dici: «Io arrivo a New York, sto lî qualche giorno e se non arrivi tu torno indietro subito». Non mi pare il caso che tu prenda impegni di questa natura e io non te li domando di certo. Suppongo che solamente quando sarai in America valuterai i tuoi interessi in concreto. Convengo con te che sarebbe sciocco che tu perdessi questa bella occasione di giovare cosî validamente alla diffusione di Miracolo a Milano in America, quindi ti ripeto il mio consiglio di non perdere tempo. Il viaggio in America l’ho desiderato moltissimo si capisce, ma non perdo la testa se resto a casa. Tu dici “anche che non intendi neppure incominciare le trattative per il film Hughes se non ci sono io. Trovo invece giusto che tu debba considerarti libero nel più completo senso della parola. Non è difficile pensare che tu avrai delle ottime occasioni al di fuori del cinema per fermarti in America, e chissà quanto tempo; c’è la radio, il teatro, la televisione ecc.; e poi tu mi hai confidato che ti farebbe comodo di restare via un anno. Insomma, in questa occasione si sommano tanti motivi di diversa natura che potranno spingerti proficuamente verso una lunga assenza, me ne rendo conto. Ora vorrei che tu comprendessi la mia situazione. Sai che ho bisogno di stabilire finalmente il mio programma 1952 che ho tenuto in sospeso fino a oggi e con un danno piuttosto grave. Mi sembra che non ci sia altra soluzione della seguente (buona per entrambi): tu mi lasci effettivamente libero, e cioè libero per quanto riguarda Italia mia. Vorrà dire che al tuo ritorno, sia esso prossimo o sia esso lontano, riprenderemo contatto e vedremo la situazione. Se tu partissi senza potere, per un qualsiasi motivo,

rispondermi concretamente, ciò significherebbe che sono autorizzato a considerarmi libero sin da questo momento e nel modo più assoluto. Non ho niente in contrario a fare in quest’altra maniera: tu prendi degli impegni precisi, contrattuali sull’inizio di Italia mia, in altre parole dobbiamo rivedere il contratto da tutti i punti di vista e farlo diventare attivo (è sottointeso che io ti domanderò in ogni caso che 238

i

ladata diinizio0 lavoro diItaliamia sia vicina, dato che se non la

fissassimo entro un breve periodo, io corro il Tola vedermi bloccato lo svolgimento dell’altra parte del mio programma che arri-. va sino ai primi mesi del 1953). Ti saluto affettuosamente in attesa di tue notizie in merito. Aggiunta a mano:

Caro V. ho qui questa lettera da 3-4 giorni. Dopo le notizie di stamattina mi pare bene mandartela (anche per farti vedere che sono un po’

profeta). NOTIZIARIO CINEMATOGRAFICO ANSA Partito De Sica Roma, 7 marzo 1952 - Vittorio De Sica è partito per gli Stati Uniti oggi alle 14,30 da Ciampino Ovest, calorosamente salutato da rappresentanti della produzione Dear e Rko e dai suoi compagni di lavoro. Visibilmente commosso, e dopo avere allegramente scherzato sulla partenza di venerdî, De Sica, richiesto di una dichiarazione per l’Ansa, ha detto: «Il mio viaggio negli Stati Uniti avviene sotto gli

auspici dell’Ife, ente per la diffusione dopo l’invito dei critici americani e di della Rko mi sarà consegnato a New americana al miglior film straniero del

del film italiano in America, Howard Hughes, presidente York il Premio della critica 1951, per Miracolo a Milano.

Per me questo, oltre ad essere un onore fatto a me e a Zavattini, ha

soprattutto il significato di una nuova affermazione del cinema italiano negli Stati Uniti. Sono particolarmente lieto, inoltre, che il mio viaggio in Usa avvenga nel momento in cui Domani è troppo tardi di Léonide Moguy, film a me molto caro, è stato preso in distribuzione nel grande circuito americano Loew. È noto, d’altra parte, che la Rkoè la distribuzione di Miracolo a Milano. Rimarrò in Usa circa un mese, e andrò forse anche a Hollywood. Potrebbe nascere, da questo primo incontro con l'America, l’idea di un mio nuovo film da realizzare proprio in tale paese, con la collaborazione di Cesare Zavattini: e Howard Hughes potrebbe non essere estraneo a tale realizzazione». 239

JAAR ent.

— VITTORIO

21 marzo. 195 00 ITALCABLE

Zavattini -Via Suorangela Merici 40 Roma PARTO CHICAGO HoTEL DRAKE LUNEDI LOSANGELES HOTEL BE- : ‘LAIR. MIO RITORNO CALIFORNIA CONTO FERMARMI \VASHINGTON OC-

CUPARMI PERSONALMENTE TUO VISTO PER CUI GIÀ FATTO PRESSIONI. QUALORA VISTO ARRIVASSE FRATTEMPO PARTI SUBITO AVVISANDO E APPOGGIANDOTI NEWYORK SABATELLO 69 EAST 57 STREET TELEFONO PLAZA 98209. ABBRACCI. DESICA

sognavo il viaggio in America

CESARE Roma, 20.3.1952

Caro De Sica,

ho ricevuto il tuo cablogramma e il tuo secondo cablogramma e ti ringrazio. Anche la Titta, e poco fa la Maria, mi hanno detto l’una che, per telefono, tu mi hai mandato a dire che stai movendoti in favore del mio «visa» e l’altra mi ha detto la stessa cosa per aver ricevuto una tua lettera. Come ho risposto alla Maria? (e mi pare, anche alla Titta). Il mio

stato d’animo oggi è più per non venire che per venire in America. Stavo per farti un telegramma cost: «Rinuncio al viaggio, segue lettera, saluti». Infatti io sognavo il viaggio in America come quando da ragazzo

leggevo 20.000 leghe sotto i mari, ma non mi deve costare né arrabbiature, né umiliazioni, né qualche cosa di peggio. Aspetto dunque volentieri tre o quattro giorni ancora e soprattut-

to aspetto una tua risposta a questa mia lettera. Il problema non è di venire in America 10 giorni prima o 10 giorni dopo. Il problema è venirci se i nostri rapporti saranno finalmente chiariti. Ho sperato sino al momento della tua partenza di avere con te un lungo e esauriente colloquio sui nostri rapporti ma non c'è stato verso, da due o tre mesi sei sempre sgusciato via, lasciatelo dire, come 240

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uno che doveva evitare con tutti imezzi un colloquio a quattrocchi. Te lo avevo chiesto dopo l'incidente Chiaretti-Italia mia [v. pag. 232] e ti dissi in quella circostanza che era meglio separarci, se dovevamo separarci, se dovevamo continuare una cosi faticosa e talvolta equivoca convivenza.

Mi rispondesti che avevi giurato di non darmi il più piccolo dispiacere invece con una gragnuola piombavano su di me notizie o ritagli della stampa che dimostravano l’incontrario. Caro De Sica, sono avvenute delle cose piuttosto gravi negli ultimi tempi, tu lo sai benissimo. Il caso di Umberto D. è molto significativo, e va dalla storiella che sarebbe la biografia di tuo padre a ciò che dicesti a l'Aquila quella sera a tavola, che cioè molta gente si ammazzava a Roma, poveri im-

piegati, e allora tu mi suggeristi di vedere un po’ se qualche cosa potevo scrivere su quei suicidi. Ti guardai con molto stupore tanto che te ne sarai accorto e non ti contraddissi perché sarebbe stato il principio della fine. E poi il tuo articolo su Copzone [v. pag. 223] dove parli di dissensi avvenuti tra noi circa il personaggio e fai altre dichiarazioni che si sforzano di far credere che io a te dò un copione cosî come lo darei a qualsiasi altro regista (anzi dici soggetto) e riduci tanti anni di collaborazione in tal modo cosi a niente che sembrerebbe che io, quando vado a vedere un tuo film sul mio copione, possa trovarci qualsiasi cosa, anche diversissima da quella che era nella mia testa, e non ci debba trovare invece, al contrario, proprio

quella cosa, cioè il frutto della nostra collaborazione che è forte per la continua identità di vedute dal principio alla fine. Ciò che hai scritto su Copione e con un tono molto deciso è una vera e propria

improvvisata da cui uno ha diritto di aspettarsi il peggio. Anche qui avrei dovuto risponderti pubblicamente, ma significava cominciare una polemica che chissà dove sarebbe andata a sbattere. Mi duoleva a dare spettacolo proprio a quella gente che tu dici che sta in agguato con le bandiere per salutare la nostra separazione. [...] Tutta la organizzazione di questo viaggio in America si è svolta in un modo curioso, diciamo cosî, in un modo per cui io ho sempre saputo le cose confuse all'ultimo momento e tu ne parlavi sempre per accenni fugacissimi per telefono, tuttavia era chiaro che tu volevi che io venissi in America per fare un film con te. Magari lo volevi in un certo modo, cioè accettando certe limitazioni andreottiane, ma lo

volevi poiché sapevi che insieme avremmo fatto qualche cosa di 241



buono. Ancora una volta eri in questa situazione psicologica; Zavattini con te cercando di non dispiacere troppo a certa gente. La quale avrebbe pagato qualche cosa di molto grosso pur di separarci. E allora io ho commesso una vigliaccheria. Ho visto, tutto questo, . ho visto e mi hanno fatto vedere il tuo modo di agire in questi ultimi mesi [...]. Ti ho scritto una lettera, la terza, annunciandoti che mi se-

paravo da te, con dolore, ma che mi separavo, e poi non te l’ho mandata. Perché? Perché pensavo al viaggio in America e non ci volevo rinunciare. Ora ti ho detto tutto e mi sento benissimo. Tu sei lî a migliaia di chilometri di distanza e puoi forse in una condizione di prospettiva privilegiata, giudicare tutto questo. Se dopo queste mie confessioni, tu senti di potermi mandare a chiamare, significa che non ho fatto male a scriverti, anzi, come diciamo sempre, a ogni nuova impresa, faremo il nostro miglior film. Ma io ho bisogno come della luce del sole di sentire che i nostri rapporti non vanno avanti sempre più in un’atmosfera diplomatica ma ritornano ai buoni tempi antichi. Altrimenti non mandarmi a chiamare e ciascuno continui la sua strada. Io sono sicuro che tu farai ottime cose e spero che anch’io farò qualche cosa di buono. Ci siamo davvero maturati uno vicino all’altro, dobbiamo essere grati davvero l’uno all’altro, quindi l’uno porterà con sé qualche cosa dell’altro, e penso che questo sarà buono e sarà giusto. [...]

Ti saluto cordialmente.

stop scrivoti VITTORIO TTALCABLE

Los Angeles Calif 53 Zavattini - Suorangela Merici 40 Rome STRETTAMENTE

CONFIDENZIALE

ET PERSONALE STOP PROFONDAMENSITUAZIONE TUO VISTO PER CUI ABBIAMO FATTO LIMSTOP MIE INSISTENZE HANNO PERFINO PROVOCATO ROTTU-

TE ADDOLORATO POSSIBILE

RA MIO IMPEGNO SONO

242

COSTRETTO

CON HUGHES CON

PREOCCUPATO

RAMMARICO

PER RAGIONI NOTE STOP TUA AFFETTUOSA

RINUNCIARE

COLLABORAZIONE LITÀ. DE SICA

ET LIBERARTI ITALIA MIA STOP SCRIVOTI CORDIA-

Cato Zavattini, Los Angeles, 7 aprile 1952

sono addolorato per due ragioni. La prima è che io non abbia potuto avere la gioia di lavorare ancora con te qui in America. La seconda è la tua lettera che ho ricevuto giorni fa. Di che cosa mi accusi? i Io non lo so ancora! Di aver dato notizie ai giornalisti, non rispondenti alla verità? Di questa nostra collaborazione quali sono i tuoi meriti e quali i miei? Ma continuamente affermo quale apporto hai sempre dato tu ai miei film, qui stesso in America ho detto cose a tuo riguardo, che ti avrebbero fatto molto piacere ascoltare. Il mio stesso atteggiamento con Hughes te lo prova. Ho tanto insistito sulla tua venuta qui che Hughes ha avuto paura e si è dileguato. L'intervista in oggetto, non la conosco. Non so che cosa abbiano scritto. Per Andeotti io non ho preso posizione ed ho rifiutato qualunque risposta. Mi riprometto di. parlare a voce con lui. Ma in fondo, caro Cesare, queste sono tutte chiacchiere. La sola cosa che funziona è la nostra collaborazione per la quale ti sarò grato per tutta la vita. E lascia che i teorici che ci circondano sussurrino frasi e giudizi non rispondenti alla verità e che nascondino il loro livore per il nostro successo. Spero che presto io possa tornare in Italia e riprendere il nostro lavoro insieme. Per «Italia mia» mi sono rassegnato ma spero che al mio ritorno tu abbia qualche bella idea. Io resterò ancora qui uno o due mesi. Nel frattempo studierò due o tre progetti di film per altra Casa. La città in America che più mi interessa è Chicago. Sarebbe piaciuta molto anche a te. Peccato! Ti confesso che sono sinceramente addolorato che tu non sia con me qui e ti chiedo scusa d’averti involontariamente fatto perdere del tempo che per te è preziosissimo.

CESARE Roma, 23 maggio 1952

Caro De Sica,

[...] Tu dici che mi sarai grato per tutta la vita. Ancora una volta a 243

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me non resta che risponderti che siamo pari, cioè io devo essere grato a te nella identica misura in cui tu devi essere grato a me. Tu sai che non ho mai avuto dubbi in proposito, né esitazioni a dichiararlo in un modo che resti. Mi accenni al tuo lavoro. Sai che conoscevo quel soggetto di Ben Hecht. Vedo che hai per collaboratori degli scrittori veramente di grande qualità e non dubito che farai un bel film, tu hai tutte le qualità per fare un bel film. E Mi hai scritto che sarei molto contento se sapessi quello che tu dici di me in America. Per essere sincero, qui giungono in proposito

delle notizie poco soddisfacenti e abbastanza strabilianti che passano da bocca in bocca, per esempio quella relativa a certe dichiarazioni tue pubbliche e private dove avresti affermato che il primo tempo di Miracolo a Milano lo avresti scritto tu e aggiungeresti che il secondo tempo — quello più accusato dagli americani di comunismo — no. [...] Sono stato a Cannes tre giorni come rappresentante degli Autori del Cinema, poi sono scappato via tanto volentieri. Ho trovato

schierati tutti i nostri nemici. In brevi parole, quello che sta succedendo a Cannes è la conclusione della lotta contro Umberto B, con-

tro la coppia De Sica-Zavattini e contro Zavattini. Non un italiano, per quei pochi momenti che sono stato in mezzo a loro, mi ha detto una parola amabile circa Urzberto D, non uno. Pensa un po’ se sarebbe mai stato concesso qualche cosa al film dopo la presa di posizione di Andreotti. Insomma tutto era consumato prima di Cannes, posso assicurartelo. [...] MANUEL DE SICA Mi ero stancato di osservarli rimanendo inerte: quell’atteggiamento di sfida, quella inutile gelosia reciproca... li avevo visti insieme molti anni prima, da bambino, nel caldo studio di Za, eccitarsi l’un l’altro

a parlare dei loro film [...]. Con papà era difficile discutere sull’argomento. Allora decisi di provare con Za...

Piombai nel suo studio un pomeriggio e senza preavviso. Lo inondavo sovrastandolo con le mie esortazioni. Dall'altra parte della scrivania Cesare continuava a fissarmi incassando sempre di più la testa incuffiata nel torace, in segno di attenzione, le sottili labbra 244

serrate a culo di gallina, le folte sopracciglia svettanti, gli occhi sbarrati oltre la circonferenza delle grandi lenti... Gli proposi di farla finita, mostrando la sua superiorità di intellettuale rispetto a mio pa-

dre... i Quando la mia sparata si concluse realizzai di aver forse esagerato. Za era rimasto con la testa rientrata nel torace, ad occhi sbarrati e bocca serrata. Non ebbe che la forza di aggiungere un timido ma accettevole «Se me lo dici tu...».

DA IL RINNOVAMENTO D'ITALIA «Non riusciranno a dividerci» ha detto De Sica a Cesare Zavattini M. Venturuoli: Come è avvenuto e come si è estrinsecato l’attacco da

parte governativa e americana alla vostra collaborazione durata ininterrottamente per dieci anni? CESARE: Io non posso dire che vi siano stati attacchi governativi e americani alla nostra collaborazione, ma attacchi di un gruppo di giornalisti; e spesso con armi tutt'altro che critiche. Costoro sono giunti pefino a scrivere che Ladri di biciclette è stato un bel film, perché io non ci entravo! Oppure hanno cercato di individuare in altri film ciò che era di De Sica da ciò che sarebbe stato di Zavattini,

con uno spirito talmente maligno da scoprire il gioco. Ma ciò che mi sembra grave e stupido è la dichiarazione di quel gruppo di giornalisti che la collaborazione De Sica-Zavattini può considerarsi un fallimento. Per poco che si sia fatto, qualche cosa si è fatto, con un lavoro appassionato e coraggioso. Anche il film che avevamo in mente di fare poco tempo fa, Italia mia, sarebbe stato una grande dichiarazione d’amore verso il nostro paese, guardando in faccia con l'entusiasmo e il coraggio consueti, i problemi e le speranze di casa nostra. M. Venturuoli: Puoi raccontarmi come De Sica ha reagito alle critiche ingiuste di quel gruppo di giornalisti, e, più in genere, al tentativo di dividere la vostra felice intesa? CESARE: Posso dire che De Sica ha visto prima ancora che me ne accorgessi io, che molta gente mirava a dividerci. Ricorderò sempre, appena arrivato da Cannes, dopo il successo di Miracolo a

Milano, che la mattina alle 8, De Sica mi telefonò, cominciando

con queste parole: «I francesi più in gamba mi hanno detto di dirti che noi due dobbiamo resistere a certi attacchi perché è chiaro che ci vogliono dividere». Anche pochi giorni prima della sua 245

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partenza, una sera che eravamo a cena insieme, De Sica citò l’arti- | colo di un giornale del Nord, fra i tanti, che, secondo lui, era

scritto col preciso scopo di irritare lui contro di me; ma aggiunse che lui aveva capito l’antifona e che pertanto l’articolo otteneva l’effetto opposto. Due ore prima della sua partenza, De Sica essendo passato da casa mia a salutarmi, commentammo per l’ennesima volta la situazione; e stavolta fui io a dire che mi pareva di ravvisare in certi atteggiamenti della stampa un rincrudimento del tentativo di separare la nostra attività. De Sica mi rispose testualmente: «Non ci riusciranno».

M. Venturuoli: Io penso che tu hai completa fiducia nella moralità di De Sica. In altre parole tu sei certo che De Sica non si assoggetterà mai a servire interessi che contraddicano il «messaggio» finora. espresso in tutti i vostri film da Sciuscià a Umberto D. CESARE: Sono sicuro che De Sica non contraddirà il messaggio finora espresso in tutti i nostri film, ne sono assolutamente convinto. Avanti, fammi altre domande.

M. Venturuoli: Consideri il viaggio di De Sica una parentesi, dopo la quale la vostra collaborazione riprenderà come prima, anzi, più stretta e cosciente di prima? CESARE: De Sica farà il suo film in America, il che significa non meno di un anno di lavoro, ed io naturalmente, nel frattempo, lavorerò a un paio di film con altri registi, perché li ho già in movimento; inoltre ho cominciato a preparare il testo di quel film che da tanto tempo vorrei provare a realizzare da solo. Lo dico da tanto tempo e

chi sa che finalmente non mi decida. Se non mi decido è per una specie di paura che mi deriva dal fatto di sembrare uno che dice «adesso arrivo io» ; e proprio in un momento che il cinema italiano,

attraverso i suoi registi e i suoi scrittori, continua a dare delle bellissime prove. Quando De Sica tornerà non c’è ragione di escludere la possibilità di un nuovo incontro di lavoro fra noi. M. Venturuoli: In che modo l'America potrebbe utilizzare De Sica senza ch’egli si comprometta? CESARE: In che senso «compromettersi»?... Io personalmente sono si-

curo che De Sica avrà la precisa volontà e la possibilità di fare in America dei film dello stesso ordine di idee e di sentimenti che hanno dato vita ai suoi film precedenti. Naturalmente bisogna che gli americani lo stiano a sentire; che abbandonino il concetto di «pessimismo», il quale inquina la quasi totalità della loro produzione filmistica. 246

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M. Venturuoli: Dato che tutti gli uomini intelligenti e disinteressati. sono convinti che la tua collaborazione con De Sica è stata ed è essenziale alla realizzazione di opere progressive, vive, di immensa portata sociale ed umana, perché, nel breve comunicato apparso sui giornali giorni fa, dici che questa collaborazione, durata per dieci anni con tanto successo, è conclusa?

CESARE: Sono molto contento che le persone intelligenti e responsabili riconoscano che la mia collaborazione con de Sica sia stata non del tutto inutile alla nostra cinematografia di questi ultimi anni, e nessuno, pertanto, doveva desiderare che cessasse. Il mio esatto

pensiero circa il comunicato che tu dici, il quale nacque attraverso una intervista telefonica improvvisata, è questo: che mi dispiaceva e mi dispiace molto di non fare il film americano con De Sica, poiché questo film avrebbe coronato dieci anni di stretta e continua collaborazione. CESARE 19 marzo, 1952

Caro Bardi, ciascuno, De Sica ed io, seguirà la sua strada avendone già fatta

parecchia insieme. [...] Allora si ripropone ancora più esplicitamente il mio dilemma: o piantarla col cinema o fare anche la regia. Nel senso che continuando il mio discorso cinematografico io mi avvicino sempre più a quel tipo di cinema che esclude i due autori. Vado sempre più verso il diario, il che, ripeto, esclude addirittura il soggetto. Significa anche andare sempre più verso un cinema analitico, verso spazi cosî piccoli che ci può stare dentro uno solo. Il mio sogno resta sempre quello di fare un film non a soggetto, ma una specie di documentario, quasi improvvisato, apparentemente improvvisato, di cui non solo soggettista e sceneggiatore sarei, ma anche regi-

sta e addirittura attore; si tratta di un tipo di film in cui l’essere attore non è un fatto istrionico, ma un fatto strutturale del film, una spe-

cie di conditio sine qua non. MARIA MERCADER Nei tre mesi e più del suo soggiorno in America mi aveva dato spesso notizie. All’inizio le sue lettere erano quelle di un emigrato che non riesce ad ambientarsi: Hollywood era un luogo pazzesco, Howard Hughes lo faceva aspettare e non concludeva. Soffriva di solitudine. 247

di unpranz Na poi il suo umore migliorò: mi scrisse ante

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onore da Merle Oberon, di un suo incontro con Chaplin. — VITTORIO Merle Oberon è una donna colta, straordinariamente gentile. Ha or-

ganizzato per me un grande pranzo, invitando l’aristocrazia del cinema, da Sam Goldwyn a Chaplin. E poiché sa che ho portato con me. una copia di Umberto D., riesce a convincermi di proiettarlo in casa sua per tutta quella gente. La proiezione si svolge regolarmente. Nessuno fiata. Proprio dietro di me, seduto in una poltrona, è Cha— plin. Ogni tanto nonresisto alla tentazione e torcendo il collo, furtivamente, lo guardo. È impassibile, col mento fra le mani. MARIA MERCADER

Alla fine del film solo Chaplin, mentre gli altri si alzavano e si congratulavano col regista, rimaneva seduto e immobile. VITTORIO Passano due minuti buoni. Mi prende un malessere sottile, una specie di panico. Poi lui allarga le braccia, apre gli occhi; mi accorgo che piange come un vitello. Dice: «Grande, De Sica, un grande film».

MARIA MERCADER Nel raccontarmi la scena, prima per iscritto e poi a voce pit volte, [...] Vittorio mimava quasi senza accorgersene l’atteggiamento di Chaplin, seduto, con gli occhi chiusi, e poi il suo gesto di allargare le braccia quasi ad esprimere la grandezza della sua ammirazione. VITTORIO Quella sera Chaplin mi invitò a visitare il suo studio.

CESARE Non avrei mai immaginato che questo uomo lo avrei ricevuto io a Roma, parlandogli a nome di tutto il cinema italiano. Questo proprio, anche la più sfrenata fantasia, vanità, non ci sarebbe arrivata

a immaginarlo. L'incontro avvenne al Centro sperimentale di cinematografia [il 22 dicembre 1952] e io detti il benvenuto a Charlot con un breve discorso. Ricordo che là, con questo foglio che mi

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De Sica con Charlie Chaplin a Hollywood nel 1952.

tremava veramente in mano, cercai di dire in poche parole che,

finché c’era Charlot, c’era la speranza che tante cose nuove potessero succedere nel mondo e dicevo anche che il cinema stava lottando, lottava per raggiungere la verità e allora lui mi interruppe e mi corresse. Disse: «Non è solo la verità che deve raggiungere ma è la bellezza». Bello, no?

VITTORIO Raccontai a Chaplin, alla fine della mia visita al suo stabilimento di Hollywood, il soggetto del film che ero venuto a girare in America. Gli piacque, ma nei suoi occhi vi era scetticismo che non voleva esprimere. Lo capii meglio più tardi. 249

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«Miracolo sotto la pioggia» VITTORIO

Il film che avrei dovuto fare in America era tratto da un racconto di.

Ben Hecht, Mzracolo sotto la pioggia. [...] Avrebbe dovuto essere la storia di due giovani sposi, gente semplice, la quale a poco a poco comprende come la felicità non si raggiunga col soddisfare i bisogni elementari, conquistando il frigidaire, la lucidatrice elettrica, la casetta col giardino — le ingenue, non certo disprezzabili tuttavia aspirazioni di quasi tutto il popolo americano — ma come essa sia soprattutto una condizione dello spirito. Poi lui muore e lei, una modesta impiegata, cede la polizza di assicurazione ai parenti del marito e per sé chiede soltanto una scatola di legno. I parenti si mettono in sospetto, pensano che dentro ci siano dollari o chi sa quale altro tesoro; e le impongono di aprire la scatola sotto i loro occhi, scoprendo, senza capirne il valore, alcuni patetici ricordi

d’un amore: una fotografia fatta a un ballo, un bottone che lui aveva perduto, i biglietti del cinema in cui erano andati insieme per la prima volta. Il produttore doveva essere Feldman, un uomo intelligente, pensavo, e sensibile, il quale aveva già realizzato Un tram che si chiama desiderio. Se ha potuto lavorare bene con Kazan, pensavo, perché non dovrebbe lavorare bene con me? Mi sbagliavo. Di girare il film a Chicago, Feldman non ne volle assolutamente sapere. «Un soggetto come questo — diceva — ha da costare tre o quattrocentomila dollari. Se lo realizzo a Chicago mi costa un milione di dollari.» In un certo senso, lo capivo. Un milione di dollari vale la pena spenderlo per un film spettacolare, con molti gladiatori e molte belle ragazze in costume da bagno; perché dunque dovrebbe spenderlo, il povero Feldman, semplicemente per un miracolo, sia pure sotto la pioggia? Diceva: «Caro De Sica, faccia tutte le sue belle fotografie, poi andiamo a Hollywood e giriamo in “trasparente”». «Senta, gli dicevo io, ne avete tanti di bravi registi a Hollywood, certamente più bravi di me a girare in teatro col “trasparente”... tanto vale che me ne torni in Italia.» 250

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De Sica con l’attrice Jennifer Jones, protagonista del film Stazione Termini (1953).

un giorno dell’agosto 1952... MARIA MERCADER ... Vittorio, che era [tornato una seconda volta] in America, fu chia-

mato al telefono da Selznick, che gli offriva di girare un film in compartecipazione, insomma producendolo insieme. Il soggetto c’era già, di Zavattini. Lui l’aveva comprato e metteva in più sua moglie, Jennifer Jones. VITTORIO Accettai. Il soggetto era Stazione Termini. Avrebbe dovuto realizzarlo Autant-Lara, il quale però alla vista della stazione di Roma si era spaventato, aveva dichiarato che per girare avrebbe avuto bisogno di una stazione ricostruita in teatro di posa. Era un soggetto molto bello, ma in verità terribilmente difficile. A me tuttavia piacciono le 251

scommesse. Sono giocatore accanito, è la mia unica passione forse, ei

abbastanza funesta, perché ho sempre perduto. Fate conto dunque che accettassi di fare quel film, con quel terribile pasticcio di produzione italo-americana, per scommessa.

MARIA MERCADER Produttore americano, divi internazionali, insomma proprio il contrario di ciò a cui egli era abituato come regista. Cosa più grave, non avrebbe goduto della stessa libertà che aveva avuto quando produceva i film in proprio, con l’aiuto finanziario di alcuni amici o a spese di un produttore italiano, disposto al rischio. [...] Il risultato fu che, alla fine del lavoro, si trovò con 110 milioni di debiti. Andai a prendere Vittorio all’aeroporto al suo ritorno. Arrivava carico di regali: giocattoli per i bambini e per me una quantità di bellissime cose, compresa una pelliccia di visone. Dovevamo pensare al suo divorzio, non perché io ci tenessi proprio ad essere sposata, ma per dare ai bambini il nome del loro padre. Oggi, può essere una preoccupazione da poco: nessuno fa più caso se un figlio porta solo il nome della madre, se è legittimo o illegittimo. [...] Ma allora la situazione di una donna che viveva con un uomo che non fosse legalmente suo marito era socialmente inferiore, e i bambini erano costretti a sentire come una menomazione la loro eventuale nascita illegittima. [...] Non volevo certo che Manuel e Christian avessero a soffrire, che venissero considerati un giorno dai loro compagni di scuola bambini diversi dagli altri. Vittorio si rese conto delle mie motivazioni. Amava anche lui moltissimo i nostri due figli, che venivano su belli e intelligenti, e non avrebbe mai voluto che un’ombra pesasse sul loro avvenire. Promise che avrebbe messo alle strette la moglie per indurla ad acconsentire al divorzio, e intanto s’impegnò a Passare a casa mia non più due, ma quattro notti la settimana. Ormai, la sua presenza presso l’altra famiglia diventava sempre più un fatto formale. Vittorio non aveva altro modo di vedere sua figlia. [...] Con una delicatezza di sentimento, di cui gli sono ancora riconoscente, egli riusci a non far capire a Manuel e a Christian, neanche quando furono un po’ più cresciuti, che passava due notti la settimana lontano da casa nostra. Aspettava ad andarsene che i bambini fossero addormentati e la mattina, non senza 252

sacrificio, si alzava prestissimo e tornava, perché svegliandosi lo trovassero li.

eravamo

davvero soli...

GUIDO ARISTARCO E proprio nel 1953 (6 luglio) — l’anno del «compromesso», di Stazione Termini, con Jennifer Jones e Montgomery Clift — che De Sica scrive una «carissima» lettera a Zavattini, e che Zavattini rende subi-

to pubblica in Cirezza Nuovo, in una puntata del suo «Diario». Sono cosî inconsueti i riconoscimenti ai grandi meriti di Zavattini contenuti nella lettera di De Sica, che, nell’inviarmela per renderla

pubblica, Zavattini mi scrive: «Ti mando il Diario. Raccomando a te personalmente le bozze; vorrei che, nella lettera di De Sica, non ci

fosse una riga di differenza. Porta pazienza e dacci tu un’occhiata». VITTORIO 6 luglio 1953

La lettera di De Sica a Zavattini, il cui inizio apre questo libro, si chiude cost: ...si è cercato con molti mezzi di metterci l’uno contro l’altro, e quasi quasi ci riuscivano.

Nessuno ci incoraggiava certo al tempo di I bambini ci guardano, della Porta del cielo, dove già erano chiari i motivi che ci accomunavano e dove già avevamo dato prova di un’intesa che non poteva essere più completa. Nessuno ci incoraggiava, lasciamelo ripetere, eravamo davvero soli con la fede che l’uno aveva nell’altro, e cosî poté

nascere Ladri di biciclette. Vidi nascere il copione di Ladri di biciclette dal tuo talento cocciuto, e fu una nascita davvero impopolare,

possiamo dirlo, e io sentivo invece che quello era il mio vero mondo e che avrei saputo esprimerlo come se lo avessi vissuto sin dall’infanzia. Ricordi che qualcuno diceva leggendo il copione «questo non è cinema»? Nessuno di costoro amava il tuo cavallo bianco di Sciuscià e non volevano che il racconto finisse cosî tragicamente e nemmeno volevano che il furto di una povera bicicletta creasse tanto dolore e che gli altri tuoi personaggi, Totò il buono o il vecchio Umberto, di253

sturbassero il quieto vivere di una collettività che aveva già dime cato la guerra. Ma io non ho avuto dubbi e credo che due fratelli non avrebbero potuto durante gli anni della guerra e del dopoguer-

ra essere più di noi due uniti e tesi allo stesso scopo. Sapevamo quello che volevamo. Quando cominciavano per me le lunghe fatiche della regia e dovevamo stare separati dei mesi, tornando per riprendere il nostro discorso ti ritrovavo sempre pronto e pieno di quella umana fantasia, di quell’entusiasmo illuminato, di quella coerenza morale che non ti vengono mai meno. Perché allora avremmo dovuto separarci? Oggi risfogliando quei ritagli dei giornali mi sembra di “avere per la prima volta in un modo tanto preciso il sentimento della grande ingiustizia che è stata fatta a te e quindi anche a me in questi anni presentando i tuoi testi in contrasto con la mia opera o togliendotene perfino la paternità, allo scopo di mettere disarmonia dove c’era armonia. Mi accorgo che una lettera che doveva essere di poche righe è diventata lunga, è diventato uno sfogo in questo pomeriggio domenicale. Non me ne dolgo perché mi ha dato l’occasione di dire ancora una volta pubblicamente quali indistruttibili legami di stima e di affetto ci leghino, e di dirlo alla vigilia di una nostra nuova collaborazione che non sarà, lo spero con tutto il cuore, l’ultima.

Salutami gli amici del Circolo e a te un arrivederci presto dal tuo De Sica.

Roma, via Merici, 24-25 marzo 1962

Lorenzo Pellizzari: Lei non pensa che ci sia una certa stanchezza nella sua collaborazione con De Sica, cioè una sua impossibilità — e un’impossibilità di De Sica — a proseguire oltre questi rapporti, che hanno dato delle cose ottime, delle cose straordinarie, ma in un tempo che ormai appartiene al passato? CESARE: Questo, guardi, è un tema estremamente, estremamente de-

licato ed estremamente difficile, perché coinvolge una propria autobiografia portata all’estremo limite della franchezza. È chiaro che in 254

tutti questi anni, De Sica e io, ci siamo giovati reciprocamente. Pro-

babilmente ci siamo anche danneggiati reciprocamente, in questo senso: che io non oso pensare che De Sica sia in grado di fare solo le mie cose. Non oso pensarlo, assolutamente. Ci sono in Italia soggettisti, sceneggiatori che, d'accordo con De Sica, avrebbero potuto fa-

re delle ottime storie che De Sica avrebbe realizzato benissimo. Io, a mia volta, avrei potuto tentare altre collaborazioni del tipo dello stesso impegno: non facili, perché — mi dico — non è facile trovare un uomo che ha verso di te la fiducia piena che ha De Sica e che accetta di essere «compromesso» anche in certi pensieri, perfino in certe ideologie qualche volta, in certi stili. Quindi, io debbo a De Sica una gratitudine sconfinata perché quel poco che ho fatto, se non avevo neanche De Sica, probabilmente continuava a restare un fatto di pensiero e non si sarebbe mai realizzato. [...] Mi dispiace di non aver forse usato la fetta di tempo messa a mia disposizione, con quella insistenza, con quella perentorietà, con quella consequenzialità che era necessaria. Magari sulla carta, anche se non con il film: perché, purtroppo, io spesso ho fatto i film che ho potuto fare, non quelli che avevo nella zucca. Se nel 1950 faceva-

mo Italia mia... ma non è stato per colpa mia, è stato per interventi estranei che, come lei sa, mi hanno bloccato sulla banchina del porto, e non ho potuto più farlo. Anzi, era giudicato un esempio tipico di antispettacolo, di antiproduzione, e avanti di questo passo. De Sica, invece, che aveva intuito e che aveva una fiducia quasi pregiudiziale in me, l’avrebbe fatto: se poi non avesse compiuto quel famoso viaggio che segnò un grosso rallentamento nello sgomitolamento del mio discorso. Lorenzo Pellizzari: Cioè, lei si riferisce a Stazione Termini...

CESARE: Si capisce. Dopo Umberto D., io avrei cominciato l’altra strada, ad assalire la realtà per una strada di «fondo inchiesta» ma con l'ambizione di giungere sempre a cose unitarie e di carattere interpretativo. DA DOMENICA DEL CORRIERE Agosto 1984

A. Torsello: Il vostro sodalizio è durato molti anni... CESARE: Direi sempre, fino alla sua morte. Anche se eravamo molto diversi come carattere. A. Torsello: Che cosa le piaceva di lui? 255

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CESARE: Di lui mi piaceva che gli piacevo molto io. E poi la sua prontezza nel comprendere ciò che di mio poteva fare bene. Io poi ero piuttosto bravo ad adattare le mie storie alla sua sensibilità. C’era fra noi una simbiosi artistica. L'amicizia è maturata negli anni su questa comprensione. Da un lato devo dire evviva, ma da un altro, se non ci fossimo andati cosî a genio reciprocamente, forse io avrei potuto fare un’altra strada, magari la regia, chi lo sa. Però se uno comincia ad andare nei se e nei ma, non si finisce più. Meglio la sostanza; è vero che insieme, sette od otto cose buone le abbiamo fat-

te. Quindi diciamo che io ho avuto una grande fortuna ad incontrare De Sica; ma anche che De Sica ha avuto una grande fortuna ad incontrare me. Fatalmente c’era intorno a noi molta invidia, aveva-

mo molti nemici che hanno desiderato ardentemente che ci separassimo, e fatto tutto quello che hanno potuto per questo. Ma noi eravamo troppo forti. A. Torsello: Eravate amici anche nella vita privata o solo sul lavoro? CESARE: Noi ci telefonavamo tutte le sere, sempre. Poi quando lui faceva un mio film, la confidenza diventava strettissima, totale. Fra

noi c'era uno scambio ininterrotto. Abbiamo avuto anche un momento di crisi pesante, favorito appunto dagli invidiosi che le dicevo, che si mettevano di mezzo con malvagità. Ma molto confidenzialmente le devo dire che ero spesso io la causa dei nostri litigi, perché infantilmente non mi accontentavo mai di essere elogiato da lui in pubblico, proprio per fare rabbia a quei disgraziati che volevano mettere zizzania. A. Torsello: Qualche bel ricordo?

CESARE: Di generosità. Quando è scoppiata una bomba a tre metri da casa mia, durante la guerra, Vittorio mi ha mandato a prendere con tutta la famiglia e abbiamo vissuto per tre mesi nella sua casa. Quello che pensava di me l’ha scritto in una paginetta. Ma è cosî trionfale nei miei confronti che mi vergogno a ripeterglielo. Lo facciamo noi per lui.

VITTORIO Sono ormai molti anni che io conosco Cesare Zavattini. La nostra collaborazione risale all’epoca in cui diressi I bambini ci guardano e precisamente all'anno 1942. Da allora la nostra amicizia e la nostra collaborazione sono diventate una cosa sola. Io non posso concepire 256

il nostro rapporto di amicizia distaccato da quello della collaborazione. Perché lavorando con Zavattini ti accorgi che è un amico e non ha altro desiderio che quello di esserti utile. Ogni suo suggerimento è fatto allo scopo che il tuo lavoro sia perfetto. Uomo e collaboratore instancabile; ostinato, nel voler modificare quella scena o quella battuta, telefona, per esempio, durante la notte quando già da parecchie ore dormi tranquillo per dirti con voce entusiasta e vibrante la modifica a quella scena o a quella battuta. Testardo, nel voler sostenere un suo punto di vista che potrebbe apparire caparbietà, puntiglio; invece non è altro che partecipazione al tuo lavoro con lo scopo unico e solo, di suggerirti bene e di far bene. Preoccupato, quando una sceneggiatura non è a buon punto e allora sono giorni e giorni di tormento per le correzioni, aggiunte, tagli, spostamenti di scene. Felice, quando il risultato è a parer suo soddisfacente. i Io, sin dal 1942, ho sentito questa viva, amichevole, partecipazio-

ne di Zavattini al mio lavoro di regista. Come si può rimanere insensibili di fronte all’amicizia di questo grande lavoratore? Prima di finire queste poche righe su Cesare debbo aggiungere che Zavattini t'insegna una cosa che è necessaria al nostro lavoro: l’entusiasmo.

la più pura espressione del neorealismo

BRUNO TORRI Giugno 1992

Dopo Umberto D. il cinema di De Sica subisce una grave involuzione, anche se in parte mascherata dall’abilità artigianale, dalla validità spettacolare di alcuni film. Ma il colloquio con la realtà coeva appare interrotto; mentre sempre più evidente risulta via via l’incapacità di rinnovarsi artisticamente. Di più: non c'è neppure il tentativo di saggiare nuovi percorsi espressivi, arrischiare nuove

proposte stilistiche. E anche l’uso di quanto è stato tesaurizzato avviene in maniera insoddisfacente: nelle poche tracce neorealistiche che si trovano in episodi di film, peraltro ben confezionati, co257

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non si ; — me L’oro di Napoli (1954) e I/ giudizio universale (1961), verte più l’urgenza dell’ispirazione e la presa sul reale; o come I/ tetto (1956), in cui De Sica è solo il poco convinto epigono di se stesso. Tuttavia, il livello esteticamente modesto della sua produ-

zione cinematografica posteriore al neorealismo, e i suoi cedimenti

al cinema commerciale, non ridimensionano l'incidenza e la centralità della sua posizione all’interno del movimento stesso. Al neorealismo, con i suoi quattro film che vi si inscrivono, De Sica ha dato un apporto fondamentale, sia quantitativamente (Rossellini ha diretto tre film che rientrano nei confini non rigidi del neorealismo e Visconti soltanto due), sia — ed è quel che più conta — qualitativamente, poiché queste opere sono quelle che più e meglio ne riflettono la specificità e, in un certo senso, l’irripetibilità. Si può attribuire a Rossellini un maggiore vigore creativo e a Visconti un maggiore respiro culturale, ma De Sica merita la definizione, il riconoscimento, di Bazin che in lui individuava «la più

pura espressione del neorealismo». É un giudizio che attesta la grande importanza di De Sica, se si ammette la grande importanza del neorealismo. Per la cultura italiana e per la storia del cinema. L'autore del saggio da cui è stato estratto questo brano precisa in una nota:

Si è parlato sempre e soltanto di De Sica con riferimento ai suoi film firmati come regista. In effetti il lavoro cinematografico di De Sica, e specialmente quello del periodo neorealistico, non può essere separato dalla collaborazione di Zavattini. E ormai un luogo comune riconoscere, non solo l’importanza e l’essenzialità del contributo di Zavattini ai film di De Sica, ma anche l’impossibilità di distinguere con sicurezza ciò che è del primo da ciò che è del secondo: neppure la più accurata e prolungata ricerca filologica ci riuscirebbe. Non c'è — non c'è soltanto — un prima (la sceneggiatura) di Zavattini e un dopo (la regia) di De Sica; ci sono dei film, come quelli qui trattati, per i quali non sarebbe sbagliato indicare come coautori De Sica e Zavattini. Dando per scontato tutto questo, si è ritenuto comunque

non scorretto, in questa sede, prendere per buona la convenzione di assegnare la paternità dei film al solo regista.

FINE LIS

Dopo Umberto D Vittorio De Sica diresse venti film di cui diciassette con soggetto e/o sceneggiatura di Cesare Zavattini. E aggiunse, ai due già conqustati, altri due premi Oscar di cui uno per il film Ieri, oggi, domani, scritto da Cesare Zavattini, oltre a numerosi premi internazionali. Il 16 aprile 1968, in Francia, a Fans, - presenti i figli Manuel e Ch-

ristian, testimone per la sposa Roberto Rossellini Vittorio De Sica sposò Maria Mercader. Cesare Zavattini nel 1977 ebbe la medaglia dell’ Associazione scrittori americana - «The Writers Guil Medaillon», premio che l’Associazione aveva assegnato, prima di Zavattini soltanto a Chaplin. Nel 1982, a ottant’anni, Cesare Zavattini scrisse,

diresse e interpretò il suo film La veritààà, e poté cosî finalmente realizzare il suo sogno di autore unico cinematografico. Vittorio De Sica morî a Parigi il 13 novembre 1974, Cesare Zavattini morî a Roma il 13 ottobre LE SISE-

QUEEN MARY& WESTFIELD COLLEGE LIBRARY

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Finito di stampare nel mese di marzo 1997 per conto degli Editori Riuniti dalla Tipo - litografia Chiovini - Roma

Paolo Nuzzi Ottavio Iemma De Sica & Zavattini Parliamo tanto di noi

Sulle tracce di una collaborazione artistica eccezionale — quella tra Vittorio De Sica e Cesare Zavattini — gli autori hanno ricostruito un puzzle intrigante, sorprendente e drammatico, perlustrando puntigliosamente un vasto materiale edito e inedito, selezionandolo e «montandolo».

Ne è risultato una sorta di copione scritto con le parole medesime dei protagonisti, dei comprimari e delle figure in penombra dietro le quinte. Sul proscenio due personalità, De Sica e Zavattini, che

coabitarono in una vera e propria simbiosi creativa, da cui nacquero opere indimenticabili e fondanti per il cinema moderno. L'arco narrativo del libro inizia negli anni Trenta e arriva, attraverso la storica tetralogia filmica (Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D.) fino al

1953, quando la «straordinaria coppia» subisce una irreversibile involuzione, dopo aver rappresentato, come scrisse André Bazin, «la più pura espressione del neorealismo». Paolo Nuzzi, regista cinematografico e televisivo, è stato assistente e aiuto regista di Federico Fellini e ha diretto tra l’altro Giovannino, sceneggiato con Cesare Zavattini. Ha ideato e curato, assieme all'Archivio C. Zavattini - Roma/Reggio Emilia, la grande mostra che sarà allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma «Zavattini. Una vita in mostra».

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Ottavio Iemma è stato direttore responsabile del periodico Cronache del cinema e della televisione. Ha scritto numerose sce-

neggiature per il cinema e la televisione, fra le quali Le italiane e l'amore, Una vita bruciata, Gott mit Uns, Malizia, Le farò da padre, Il ladrone, Il volpone e, recentemente, Pazza famiglia.

ISBN (88-359-4198-9

Lire 25.000

(IVA compresa)

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