David Copperfield
 9788841869581

Table of contents :
Colophon......Page 2
Frontespizio......Page 3
Il libro......Page 5
Capitolo uno. Nasce un bambino......Page 6
Capitolo due. Ricordi d’infanzia......Page 12
Capitolo tre. In collegio......Page 26
Capitolo quattro. Rimango solo......Page 40
Capitolo cinque. Da Londra a Dover......Page 49
Capitolo sei. La zia Betsey......Page 59
Capitolo sette. In casa Wickfield......Page 70
Capitolo otto. Ingresso nella vita......Page 80
Capitolo nove. Rivedo Agnes......Page 95
Capitolo dieci. Nuovi amori e vecchie amicizie......Page 107
Capitolo undici. Gioie e dolori......Page 118
Capitolo dodici. La bancarotta della zia Betsey......Page 126
Capitolo tredici. Un amore contrastato......Page 140
Capitolo quattordici. Il mio matrimonio con Dora......Page 150
Capitolo quindici. Il signor Micawber all’attacco......Page 159
Capitolo sedici. La sconfitta di Uriah Heep......Page 170
Capitolo diciassette. Di nuovo solo......Page 186
Capitolo diciotto. Si fa luce nel mio cuore......Page 200
Indice......Page 4

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Titolo originale dell’opera: David Copperfield Traduzione dall’inglese: Lucia Simonin Revisione, adattamento e realizzazione: Promus S.r.l. Grafica di collana e illustrazioni: Andrea “DrBestia” Cavallini Nella collana I Birilli © 1992, 2008 Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara Nella collana Classici Tascabili © 2008, 2010 Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara Nella collana classici Prima edizione © 2017 DeA Planeta Libri S.r.l. Nuova edizione© 2019 DeA Planeta Libri S.r.l. Redazione: Via Inverigo, 2 – 20151 Milano Prima edizione ebook: febbraio 2017 Seconda edizione ebook: novembre 2019 ISBN 978-88-418-6958-1 www.deaplanetalibri.it @DeAPlanetaLibri @DeAPlanetaLibri @DeAPlanetaLibri @DeAgostiniLibriperRagazzi Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Indice

Capitolo uno. Nasce un bambino Capitolo due. Ricordi d’infanzia Capitolo tre. In collegio Capitolo quattro. Rimango solo Capitolo cinque. Da Londra a Dover Capitolo sei. La zia Betsey Capitolo sette. In casa Wickfield Capitolo otto. Ingresso nella vita Capitolo nove. Rivedo Agnes Capitolo dieci. Nuovi amori e vecchie amicizie Capitolo undici. Gioie e dolori Capitolo dodici. La bancarotta della zia Betsey Capitolo tredici. Un amore contrastato Capitolo quattordici. Il mio matrimonio con Dora Capitolo quindici. Il signor Micawber all’attacco Capitolo sedici. La sconfitta di Uriah Heep Capitolo diciassette. Di nuovo solo Capitolo diciotto. Si fa luce nel mio cuore

Charles Dickens

DAVID COPPERFIELD Il piccolo David Copperfield non ha mai conosciuto il suo papà ed è cresciuto con la sua giovane mamma e la fida cameriera Peggotty nel Piano delle Cornacchie, a Blunderstone, nel Suffolk. La sua infanzia è gioiosa, ma quando la madre decide di risposarsi con il signor Murdstone, le cose per lui cambiano tragicamente. Davy è costretto ad andarsene dall’amata casa e a intraprendere una serie di avventure che lo mettono a dura prova. Grazie all’impetuosa zia Betsey e allo strano signor Dick, però, David riesce a superare brillantemente le mille difficoltà e a ricostruirsi alla fine una vita felice e agiata. Pubblicato a puntate su un giornale dell’epoca, questo romanzo ottenne un enorme successo popolare. Nato nel 1812 a Portsea, presso Portsmouth (Inghilterra), Charles Dickens è uno dei più grandi romanzieri inglesi. Fra i suoi numerosi capolavori ricordiamo Oliver Twist (1837-1839), Il Circolo Pickwick (1837) e La piccola Dorrit (1855-1857). Morì nel 1870.

Capitolo uno Nasce un bambino

Sono nato a Blunderstone, nel Suffolk, un venerdì di marzo. Quella sera un forte vento sibilava agitando i grandi olmi allineati lungo il viale d’accesso del Piano delle Cornacchie, la nostra casa. A ispirare a mio padre quello strano nome erano stati i vecchi nidi che ancora resistevano impigliati tra le chiome spoglie; ma, in quel luogo solitario, di cornacchie non se ne era mai vista neanche una. Quel venerdì di marzo, nella casa che sorgeva in un luogo solitario, il fuoco era acceso. Davanti al caminetto sedeva una giovane vestita di nero. Era bella come un angelo e i suoi splendidi capelli biondi erano raccolti in una cuffietta che le incorniciava il volto. Lo sguardo le si perdeva nella malinconia della sera invernale, già velata dall’imminente crepuscolo, e di tanto in tanto gli occhi le si riempivano di spavento e di lacrime. Stava per dare alla luce un bambino, e quell’avvenimento così misterioso la rendeva inquieta. Suo marito, il signor David Copperfield, che aveva vent’anni più di lei e che l’aveva sempre trattata come una bambina, era morto pochi mesi dopo il matrimonio, lasciandola con una domestica quarantenne e con quel bambino che doveva nascere. Il signor Copperfield non aveva familiari ancora in vita: l’unica parente di cui la giovane sposa aveva sentito parlare nei pochi mesi di convivenza

era una zia, la signora Betsey Trotwood. Costei, però, non si era mai fatta vedere in casa loro, proprio perché David si era sposato. Per comprendere i motivi di questo strano atteggiamento, bisogna sapere che il matrimonio della signora Betsey era stato molto infelice. Suo marito, un bell’uomo da lei sposato per amore, si ubriacava tutte le sante sere e aveva anche la pessima abitudine di picchiarla. La poveretta sopportava come meglio poteva; ma una volta che, in un accesso d’ira, quell’energumeno aveva tentato di farla volar giù dal secondo piano, la signora Betsey era corsa inorridita da un avvocato e, per suo tramite, aveva offerto una certa somma al marito purché acconsentisse alla separazione. Il bruto aveva accettato e, poco tempo dopo, era partito per le Indie, da dove non aveva più dato notizie di sé. Rimasta finalmente libera, la signora Betsey si era comprata un villino sulle coste di Dover e adesso viveva delle sue rendite, con la sola compagnia di una cameriera. David era sempre stato il suo nipote prediletto, ma quando si sparse la notizia che aveva deciso di sposarsi e, peggio ancora, che la sposa era una specie di bambola di neppure vent’anni, l’irascibile zia ruppe ogni relazione con lui, e non si fece vedere nemmeno quando le giunse l’annuncio della sua morte. La giovane vedova, dunque, non conosceva neppure di vista questa signora Trotwood; ma tutte le volte che il suo nome le veniva alla mente si sentiva invadere da uno strano timore. Si era messa in testa che la zia Betsey fosse una specie di corazziere in gonnella, un tipo bisbetico e autoritario, e soprattutto che la disprezzasse. Ma in quella ventosa serata di marzo la giovane vedova, oppressa da mille preoccupazioni, a tutto pensava meno che alla signora Trotwood; e meno che mai pensava di vedersela piombare in casa. Appoggiato il corpo stanco alla spalliera della sedia, gli occhi fissi sulla fiamma del caminetto, la madre bambina rivedeva il suo povero marito che dormiva da sei mesi nel cimitero poco distante, e rifletteva sulla propria solitudine, immaginando con terrore i dolori

che l’attendevano. Forse il suo bambino non sarebbe nato; sì, sarebbe morto con lei prima di venire al mondo, perché lei si sentiva troppo fragile, troppo fanciulla e troppo inesperta. Ma se fosse nato, chi avrebbe trovato ad accoglierlo in quella casa deserta? Sotto l’onda di quei tristi pensieri, un nodo le serrò la gola e gli occhi le si riempirono di lacrime. Quasi per distrarsi spinse lo sguardo velato di pianto fuori dalla finestra, lungo il viale degli olmi. Improvvisamente trasalì: un donnone alto e robusto avanzava verso la casa con passo militaresco. La poverina si alzò in piedi sgomenta: inspiegabilmente s’immaginò che quella donna doveva essere la signora Trotwood. E il suo sospetto divenne certezza quando il donnone, giunto davanti alla porta, sostò lì davanti per un attimo, ritornò sui suoi passi e appoggiò letteralmente il naso alla finestra illuminata. «È lei, sicuro!» mormorò spaventata. «Il povero David diceva sempre che la zia non fa quasi mai quello che tutti si aspettano!» Per un minuto buono la strana signora spiò dentro la stanza in quella maniera originale; poi, vista la giovane, le fece imperiosamente cenno di aprire la porta. La vedova ubbidì, e la signora entrò con un passo degno di un caporale della Guardia. Al braccio portava, attaccato per i nastri, un cappellino di foggia piuttosto antiquata. «La signora Copperfield, immagino» disse, dopo averla squadrata dalla testa ai piedi. «Sì, sono io. Sono la signora Copperfield» rispose timidamente la vedova. «E io sono la signora Trotwood. Il mio nome non vi sarà nuovo, spero.» «No, mio marito mi parlava spesso di voi, della zia Betsey» rispose la giovane. «Accomodatevi, signora.» Mentre sedevano entrambe davanti al camino, la poverina si mise a piangere, in silenzio, ma senza alcun ritegno.

«Su, su, fatevi coraggio» intimò la signora Trotwood. «Levatevi la cuffia perché vi veda meglio.» La giovane slegò i nastri della cuffietta annodata sotto il mento e i magnifici capelli biondi le si sciolsero di colpo sulle spalle e intorno al viso, circondandolo di un’aureola dorata. «Oh, santo cielo! Ma siete proprio una bambina!» «Purtroppo ho paura di essere molto inesperta per i doveri che mi aspettano.» «Già… già…» annuì la signora Trotwood con un tono lievemente più dolce. La povera ragazza impallidiva a vista d’occhio: era evidente che stava per svenire. La signora Trotwood se ne accorse e mentre, allungata la mano, suonava il campanello, chiese: «Come si chiama la vostra cameriera?» «Peg… Peggotty» balbettò la vedova. «Che strano nome! Sembra quello d’un gallinaceo…» Intanto sul vano della porta era apparsa la cameriera. «Peggotty» intimò la zia Betsey «la vostra padrona non si sente molto bene; portate il tè!» La cameriera sparì come un fulmine, turbata da quel tono perentorio, mentre la signora Trotwood tornò a sedersi davanti al fuoco e ricominciò a parlare: «Dunque, ragazza mia, voi avrete una bambina, e quella bambina sarà dal primo istante…» «E se fosse un maschio?» azzardò timidamente la giovane. «Vi prego di credere che sarà una femmina!» replicò categorica la signora Trotwood. «Non interrompetemi con queste sciocchezze. Sarà una femmina, io sarò la madrina e la chiameremo Betsey Trotwood Copperfield. Sul suo avvenire veglierò io, e io farò in modo che non le capitino disavventure. E voi, ditemi un po’, andavate d’accordo con David?» «Eravamo felicissimi.» «Magari vi coccolava troppo, vi viziava… Si vede.»

«Oh, credo di sì! Me ne accorgo soprattutto ora che sono rimasta sola» rispose la vedova. E, oppressa dai ricordi, scoppiò di nuovo a piangere. Intanto sopraggiunse Peggotty con il vassoio del tè. La giovane ne bevve qualche sorso, ma era così sfinita che la signora Trotwood pensò bene di metterla a letto e di chiamare subito il medico e la levatrice. Quando giunsero, i due rimasero a bocca aperta nel vedere in casa quella sconosciuta dall’aspetto tanto maestoso quanto arcigno. La trovarono davanti al camino, intenta a ficcarsi grossi batuffoli di ovatta nelle orecchie. La corazziera non li degnò d’uno sguardo, ma continuò le sue manovre con un vigore sorprendente. A quel punto il medico e la levatrice ritennero conveniente salire dalla partoriente per svolgere la loro opera di assistenza. Di quando in quando il dottore, il simpatico signor Chillip, scendeva in salotto e, con tutta l’amabilità di cui era capace, tentava di intavolare un qualche discorso con la sconosciuta; ma la zia Betsey gli rispondeva con un grugnito così minaccioso che il malcapitato a un certo punto abbandonò l’impresa. Finalmente, poco dopo mezzanotte, scese di nuovo in salotto e con un inchino e un sorriso disse: «Ebbene, signora, sono lieto di potermi congratulare con voi». La signora Trotwood si cavò il tappo di ovatta da un orecchio e gli lanciò uno sguardo così minaccioso che il povero medico fece un balzo all’indietro. «Che cosa dite?» tuonò la signora. «Dicevo, signora» balbettò ancora un po’ confuso il dottor Chillip «che sono lieto di congratularmi con voi…» «Come sta lei?» chiese brusca la Trotwood incrociando le braccia. «Oh, bene, benissimo, signora, e tutto fa prevedere che starà sempre meglio. Sta come può stare una giovane madre che ha appena partorito, capite? Se volete visitarla potete, non le recherà alcun disturbo.» «Ma lei, come sta lei?» strillò incollerita la zia Betsey. «Vi ripeto che sta bene, signora.»

«La bambina, dico! Come sta la neonata?» Il signor Chillip sorrise; poi, con la grazia di un uccellino, piegò sulla spalla la testolina pelata e rispose: «È un maschietto, signora». Non aveva ancora finito la frase che fu costretto a battere in ritirata: senza dire una parola la signora Trotwood aveva afferrato per i nastri il suo cappellino e glielo aveva sbattuto in faccia. Poi se lo mise di sghembo sulla testa e con il solito passo marziale si avviò verso l’uscita. Non si fece mai più vedere. Nella camera di sopra vagiva da qualche minuto un bambino che il mondo avrebbe conosciuto con il nome di suo padre: David Copperfield. Era nato esattamente nell’istante in cui l’orologio a muro della camera batteva il primo rintocco della mezzanotte. Quel bambino ero io, nato, come abbiamo visto, al posto di quella Betsey Trotwood Copperfield tanto ansiosamente attesa da mia zia.

Capitolo due Ricordi d’infanzia

Quando ripenso alla mia infanzia, mi si presentano alla mente due figure: la mamma e la nostra cameriera, Peggotty. Un angelo del cielo e un angelo casalingo. L’una slanciata, elegante, con un visetto sottile e una bella chioma bionda; l’altra forte, robusta, due braccia poderose, le guance rosse e gli occhi neri. Ogni volta che Peggotty si chinava per abbracciarmi, le saltava un bottone del vestito. Insieme a questi cari volti rivedo la mia casa del Piano delle Cornacchie, che allora mi appariva come un mondo misterioso e pieno di segreti. Nel cortile ricordo una colombaia senza colombi, un canile senza cani e un numero imprecisato di volatili che cantavano, correvano e chiocciavano dall’alba al tramonto. Il gallo, con una cresta che sembrava una corona reale, mi faceva una paura del diavolo. Oltre alla cucina, regno di Peggotty, c’erano due salotti: quello elegante, dove ci mettevamo a sedere la domenica, e quello dove ogni sera ci ritrovavamo io, la mamma e Peggotty. In quella sala la mamma mi lesse la storia della risurrezione di Lazzaro: era la prima volta che la sentivo e mi fece molta impressione. E poi c’era un corridoio che mi sembrava lungo come un viale, sul quale dava uno sgabuzzino pieno di cose vecchie; io ci

passavo davanti sempre di corsa perché per me era un luogo misterioso… Quanta dolcezza in quei primi ricordi! E quanta pace! Tra la mamma e Peggotty non so quale delle due mi amasse di più. Mi pareva che il mondo fosse tutto d’argento e che la felicità fosse come la luce del sole, alla portata di chiunque. Perfino l’immagine del cimitero dove riposava mio padre era circondata da un’aureola di pace e di dolcezza; dalla finestra della mia camera potevo vederlo ogni mattina e mi sembrava che in nessun prato intorno l’erba fosse altrettanto verde. La nostra chiesa parrocchiale, i banchi, il pulpito, il prete con la cotta, gli incensieri fumanti, i quadri delle navate pieni di giochi d’ombra e di volti venerabili, tutto rivive in me come in un sogno, il sogno di una vita ignara e felice. Ricordo anche l’impressione destata in me dai rapporti tra la mamma e Peggotty. La mamma era la padrona e la cara, affezionata Peggotty si sarebbe certamente fatta a pezzi per lei e per me; ma chi comandava era in realtà Peggotty. La mamma, sempre incerta sul da farsi come una bambina, chiedeva regolarmente consiglio alla cameriera; Peggotty, con le braccia forti, il faccione rubicondo e quegli occhi neri pieni di amore, per noi lavorava, consigliava, borbottava e guidava la barca con la destrezza di un vecchio marinaio. Una sera Peggotty e io eravamo rimasti in casa da soli, perché la mamma era andata a far visita a una vicina. Io avevo aperto uno dei miei libri preferiti, il Libro dei Coccodrilli e stavo leggendo qualche pagina alla buona cameriera, che gentilmente mi ascoltava senza tuttavia essere ancora riuscita a capire se i coccodrilli fossero animali… o legumi. Ad un tratto pensai di approfittare dell’occasione per provare a conoscere un poco meglio la mia Peggotty. «Tu sei mai stata sposata, Peggotty?» domandai all’improvviso. «Santo cielo, Davy, come ti viene in mente una domanda simile?»

«Ma sei stata sposata o no?» incalzai. La domanda aveva colpito particolarmente Peggotty che, anche se cercava di mostrarsi indifferente, era rimasta con l’ago a mezz’aria. «Ebbene, Davy, non ho mai preso marito né prevedo di prenderlo» rispose la gentildonna in tono piuttosto brusco. Ebbi l’impressione che fosse un po’ irritata per la mia indiscrezione, ma rispondendomi mi manifestò il suo affetto con un forte abbraccio, seguito dal colpo secco dei soliti bottoni che schizzavano via come proiettili. «Un attimo fa mi stavi leggendo il tuo libro sui coccodrilli. Perché non continui? Mi interessa» aggiunse Peggotty. La ripresa della nostra lettura fu interrotta dallo squillo del campanello. Era la mamma che tornava dalla visita accompagnata da un signore bruno, con due grossi favoriti neri. Non avevo mai visto la mamma più bella, più felice, più gioiosa di allora. Si chinò, mi prese in braccio e mi baciò, invitandomi a salutare lo sconosciuto, che intanto le mormorava qualcosa a proposito del privilegio di cui godevo rispetto a lui. Guardai quel signore con diffidenza e rifiutai di porgergli la mano. Quella sera tra la mamma e Peggotty si accese un battibecco di cui io non compresi molto, ma che mi parve ruotare proprio intorno a quel signore con i favoriti neri. Dopo quel giorno, cominciammo a vederlo tutte le domeniche in chiesa. Qualche volta veniva anche in casa, mostrandosi sempre molto gentile con la mamma e con me; una domenica, anzi, venne a prendermi con il cavallo e, con il permesso della mamma, mi portò con sé a spasso. Il signore con i favoriti neri, che come venni a sapere si chiamava signor Murdstone, mi portò in una locanda vicino al mare in mezzo a tanti suoi amici, dove cercò in tutti i modi di farmi divertire. Ricordo anche che a tavola si mise a ridacchiare con i suoi compari a proposito di un certo ragazzino che, a suo dire, si

opponeva a un suo piano; ma lui, aggiungeva, contava di portarlo a buon fine nonostante tutto. Quando gli chiesi incuriosito chi fosse quel ragazzino, mi rispose: «Brooks di Sheffield», e io non capii perché tutti si mettessero a ridere e mi guardassero ammiccando. Comunque, del signor Murdstone e dei suoi amici mi occupai ben poco; mi interessai invece moltissimo a un marinaio che portava stampato sulla maglia il nome “Allodola”. In un primo tempo credetti che quello fosse il suo nome di famiglia e che se lo fosse fatto stampare sul petto perché non aveva una casa per attaccarlo alla porta, inciso su tanto di targhetta. Appresi invece che Allodola era il nome della sua barca. Per me quella giornata fu davvero divertente. La sera, quando quel signore mi riportò dalla mamma, questa lo ringraziò con il consueto, raggiante trasporto. Ma, anche se non sapevo spiegare bene perché, io quell’uomo non lo potevo proprio soffrire. Non mi piaceva quel suo modo di insinuarsi tra me e la mamma, né i complimenti melliflui che le prodigava; non sapevo spiegarmi la sua continua presenza al nostro fianco, dovunque andassimo, e tutto questo mi rendeva inquieto. Da quando la mamma aveva conosciuto il signor Murdstone, lei usciva di frequente la sera, mentre io e la mia cara cameriera restavamo come al solito in sala da pranzo, lei a cucire, io a leggere il mio bel libro sui coccodrilli. «Mio caro Davy» mi disse una sera Peggotty «non vorresti venire con me a Yarmouth? Potremmo alloggiare per qualche settimana a casa di mio fratello, in riva al mare.» «È simpatico tuo fratello, Peggotty?» «Molto simpatico, ed è buono come il pane. Vedrai le barche, guarderai i cavalloni e giocherai con mio nipote Ham, che ti porterà a cavalluccio sulle spalle.» «Allora andiamo, Peggotty! Ma tu credi che la mamma mi lascerà venire?»

«Io credo di sì. Se vuoi gliene parlo stasera.» «E che cosa farà la mamma mentre noi saremo laggiù? Rimarrà da sola tutto questo tempo?» Peggotty mi lanciò uno sguardo imbarazzato e, subito dopo, chinò gli occhi sopra il buco della calza che stava rammendando. Imperterrito, ripetei la domanda. Allora Peggotty rispose, un po’ esitante: «Sai, caro, lei è stata invitata dalla signora Gray per un quindicina di giorni». «Andiamo a Yarmouth, allora.» Quando la mamma rientrò, Peggotty fece la sua proposta e, con mia grande sorpresa, la mamma l’accettò subito. Qualche giorno dopo partimmo. Venne un vetturino con un cavallo che sembrava dormisse in piedi. Fui issato sul calesse e, mentre salutavo la mamma con gli occhi pieni di lacrime, vidi comparire come un uccello del malaugurio il signor Murdstone, che sembrava disapprovare la sua commozione per la mia partenza. Mi accorsi che Peggotty era contrariata da quell’intrusione, ma lì per lì non ne compresi il motivo. Il viaggio fu bellissimo. Il vetturino, che sembrava più insonnolito del cavallo, non faceva che zufolare, mentre io guardavo con una gioia inesprimibile le ampie pianure verdi, i carri che ci passavano accanto sobbalzando sulla via, e poi le barche, i pescatori, le messi al sole, che mi parevano le cose più belle del mondo. Facemmo sosta a un albergo, dove trovammo ad attenderci Ham, il nipote di Peggotty. Era un ragazzone alto quasi due metri, con una testa bionda sulla quale era sistemato un cappello che mi sembrava una bolla di catrame rappreso. Mi salutò con una forte stretta di mano, mi mise a cavalluccio sulle spalle e ci avviammo verso la casa del fratello di Peggotty. Io mi immaginavo una bella palazzina vicino al mare; invece, con mia grande sorpresa, Ham si arrestò nei pressi della spiaggia, ma in

un posto dove non si vedeva neppure l’ombra di una casa. C’era invece una grossa barca nera, in cima alla quale un tubo di ferro, che fungeva da camino, esalava una sottile striscia di fumo. Se mi avessero portato in uno dei misteriosi palazzi di cui sono piene le Mille e una notte non avrei provato neanche lontanamente l’emozione che mi prese a quella vista: la barca del fratello di Peggotty mi parve il palazzo di Aladino. All’interno tutto era molto pulito e ordinato: c’erano un tavolo, un orologio a cucù, un bell’armadio a cassetti, un vassoio da tè con sopra una Bibbia e, alle pareti, alcuni quadri che non mi stancavo di rimirare. In uno c’era dipinto Abramo vestito di rosso, che andava a sacrificare Isacco vestito di azzurro; in un altro il profeta Daniele con una tunica giallo acceso in mezzo a un gruppo di leoni verdi. A poppa della barca, poi, c’era uno stanzino imbiancato a calce, nel quale avevano preparato il mio lettuccio. Sembrava una casa delle bambole. Su una parete c’era uno specchietto con la cornice fatta di piccole conchiglie incollate e, sopra una tavola, un vaso di porcellana azzurra con un mazzetto di alghe infilato dentro come un mazzolino di fiori. Su tutto dominava un odore di pesce e di acqua marina: quell’aroma, per me nuovo, mi entrava nei polmoni, dandomi una specie di ebbrezza. Fummo ricevuti da una donna con un grembiule bianco, molto garbata, e da una bellissima bambina che portava intorno al collo una collana di conchiglie azzurre. Poi venne il fratello di Peggotty, un uomo grande e grosso come tre orchi, ma con l’aria più bonaria del mondo. Mi chiese notizie della mia bella mamma e si dichiarò lieto e onorato di avermi come suo ospite per una quindicina di giorni. Dopo una cena deliziosa a base di pesce, sedetti sopra una panca e subito venne a sedersi accanto a me la bambina che portava la collana di conchiglie. Seppi che si chiamava Emily e pensai che dovesse essere la figlia del signor Peggotty. Mi dissero invece che era sua nipote, ovvero la figlia di suo fratello.

«E dov’è suo padre?» chiesi al signor Peggotty. «Morto» rispose il pescatore. «Annegato.» «E Ham… quello è vostro figlio, non è vero, signor Peggotty?» «Oh no, signorino, è il figlio di mio fratello Joe.» «E… e il signor Joe dov’è?» «Morto, signorino. Anche lui, purtroppo, inghiottito dal mare.» Io rimasi davvero molto impressionato a seguito di quelle risposte, perché il mare brontolava nella notte, schiumando intorno ai fianchi di quella strana casa, e mi dava continuamente l’idea di una specie di mostro che volesse entrare. Mi guardai intorno e, siccome nella barca abitava anche quella donna pulitissima che mi aveva accolto al mio arrivo e che mi parve la padrona di casa, chiesi ancora timidamente: «E questa signora, signor Peggotty, è vostra moglie?» «No, signorino. È la signora Gummidge, la vedova di un socio.» «Annegato anche lui?» «Annegato, signorino» mi rispose con aria solenne il pescatore. Mentre tutti ascoltavamo in silenzio il brontolio del mare, io vedevo con la fantasia un’immensa distesa di cavalloni formare un’enorme gola spalancata per inghiottire i pescatori. La notte fui messo a dormire nella cameretta di prua, quella con lo specchio contornato di conchiglie, e mi addormentai ascoltando il sibilo del vento e il fragore incessante delle onde che si abbattevano sulla spiaggia. La mattina mi alzavo all’alba e facevo colazione con Emily; poi scendevamo tutti e due sulla riva, dove restavamo fino all’ora di pranzo: camminavamo per lunghi tratti in cerca dei piccoli tesori nascosti nella sabbia, come conchiglie e pietruzze colorate, di cui ci riempivamo le tasche, e rimettevamo in acqua le stelle marine arenate. Emily era così bella e gentile, così vispa e civettuola che me ne innamorai subito e le promisi che, non appena diventato uomo,

l’avrei sposata. Lei mi diceva che quando fosse diventata una signora avrebbe regalato a suo zio un panciotto con i bottoni di diamante, un orologio d’oro e una pipa d’argento. E allora anch’io pensavo di diventare un gran signore, di regalare a Emily un vestito di seta tempestato di perle, di vivere con lei, con la mamma e con Peggotty in una palazzina vicino al mare, con le scale di marmo e i balconi fioriti. Su quella spiaggia rimasi circa due settimane e, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare nella mia vita un periodo altrettanto felice. Ma tutto finisce, e purtroppo giunse il giorno in cui dovetti ritornare a Blunderstone. In quel periodo, che mi era parso lunghissimo, avevo pensato ben poco alla mamma, assorbito com’ero dalla mia nuova felicità. Devo dire però che la mattina della partenza, benché il distacco dalla piccola Emily e dai miei nuovi amici mi provocasse un certo dispiacere, provavo una gran gioia all’idea di rivedere la mia casa al Piano delle Cornacchie e la sua bionda padrona. Per fortuna non avevo la minima idea di quel che mi attendeva laggiù, altrimenti il mio viaggio sarebbe stato assai meno allegro. Quando arrivammo, balzai giù dal calesse e andai in cerca della mamma. Era una di quelle giornate senza sole, con un cielo di un grigio uniforme che a ogni momento minacciava pioggia. Appena entrato in casa vidi una domestica sconosciuta. Questo fatto mi inquietò, ma mi inquietò ancor di più il fatto che la mamma non mi fosse venuta incontro. Mi rivolsi sorpreso a Peggotty: «Dov’è la mamma?» «Verrà, tesoro, verrà» mi rispose la mia cara cameriera. «Aspetta un attimo… ho da dirti qualcosa di molto importante.» Nelle sue parole avvertii una strana venatura di incertezza che mi mise subito in apprensione. Il cuore mi si serrò come un pugno ed ebbi, non so perché, il presentimento che Peggotty stesse per dirmi qualcosa di grave. «Dov’è la mamma, Peggotty?» chiesi ancora con ansia.

«È qui, bambino mio, non ti allarmare…» «Oh, non sarà mica successa qualche disgrazia, Peggotty?» «Nessuna disgrazia, cuor mio, solo debbo dirti una cosa… sì, una cosa molto importante…» «Parla, Peggotty, ti prego…» Pronunciando queste ultime parole avevo già gli occhi pieni di lacrime. «Non angosciarti, mio caro» fece Peggotty abbracciandomi. «La tua mamma sta bene. Solo che… vedi, tesoruccio mio, tu hai… sì… tu hai un nuovo papà!» «Un nuovo papà?» feci io sbalordito. «Sì, figlio caro, un nuovo papà. Vieni a vederlo.» E Peggotty emise un profondo sospiro, come se si fosse tolta un gran peso di dosso. «Ah no! Io non voglio vederlo!» dissi con impeto disperato. Peggotty mi fissò allora con quei suoi occhi pieni d’amore. «Ma la tua mamma, tesoro… pensa alla tua mamma…» A sentir pronunciare il nome della mamma ogni coraggio mi venne meno. Fui trascinato come un automa nella sala grande, dove mi attendeva questo spettacolo: la mamma stava in un angolo a ricamare e davanti a lei stava seduto il signor Murdstone. Quello era il mio nuovo papà. Salutai il signor Murdstone e andai a baciare la mamma. Lei ricambiò il mio gesto con dolcezza, ma subito dopo riprese ad affaccendarsi al suo ricamo. L’atmosfera era pesante: non riuscivo né a guardare la mamma né tantomeno a guardare lui. Sentivo che ci stava sorvegliando di nascosto. Appena mi fu possibile lasciai quel salotto dove un tempo avevo trascorso tanti momenti piacevoli, salii in camera mia e, gettatomi sul letto, scoppiai in un pianto dirotto. Ma peggio ancora fu la sera, quando mi chiusi nella stanzetta che mi era stata assegnata per dormire.

Da quel giorno infatti non avevo più la mia solita camera, ma un’altra, situata in fondo al corridoio. Quando aprii la porta, dal piano inferiore il cane del signor Murdstone proruppe in una furiosa scarica di latrati. Mi sedetti con le manine incrociate e mi guardai attorno, angosciato, con un nodo alla gola. Non riuscendo a rendermi conto della mia situazione e quasi non volendo soffermarmi sui motivi della mia tristezza, guardavo stralunato le macchie e le screpolature del soffitto, i fiori della tappezzeria (che nella mia mente agitata assumevano forme fantastiche di animali), le bolle d’aria sui vetri della finestra, il lavamano sul suo treppiede zoppicante, mentre le lacrime mi scendevano silenziose sul volto. Ero tanto disorientato che, in un primo tempo, attribuii la mia tristezza al fatto di aver lasciato a Yarmouth la piccola Emily, la compagna dei miei giochi in riva al mare; questo pensiero mi provocò una tale malinconia che a un tratto mi raggomitolai in un angolo del copripiedi, singhiozzai a lungo e alla fine mi addormentai. La mattina dopo fui svegliato da qualcuno che diceva: «È qui» e mi scopriva la testa. Aprii gli occhi e vidi chino su di me il volto della mamma, e accanto a lei Peggotty. «Che hai, Davy?» domandò la mamma. «Nulla» risposi. E per nascondere il tremito convulso delle labbra voltai la testa dall’altra parte. «Davy, bambino mio» disse ancora la mamma con tono accorato e allarmato insieme. Tese la mano per accarezzarmi, ma quando vide che mi sottraevo alla sua carezza nascondendo la testa sotto le coperte, se la prese con Peggotty. «Questa è opera tua, cattiva, lo vedo bene. Sei tu che aizzi mio figlio contro di me e contro la persona che mi è cara. Con che cuore, Peggotty, fai questo? E proprio adesso, durante la luna di miele…» Qui scoppiò in lacrime. Quando si fu calmata un attimo riprese: «Anche il mio più crudele

nemico avrebbe pietà di me in questo momento, invece tu insegni al mio bambino a ribellarsi contro sua madre!» La povera Peggotty alzò le mani e gli occhi al cielo e disse con voce serena ma decisa: «Dio vi perdoni, signora Copperfield, quel che avete detto in questo mom…» Ma non poté finire la frase, perché nella camera era entrato il signor Murdstone. Egli si accorse del turbamento della mamma e, dopo averla convinta a uscire dalla camera, si rivolse a Peggotty con cipiglio minaccioso: «Dunque voi ignorate ancora il nuovo nome della vostra padrona?» «Sono al suo servizio da molti anni, signore» rispose Peggotty «e credo di conoscerlo bene.» «Non mi pare. Mentre entravo ho sentito che la chiamavate con un nome che non è più il suo. Adesso la vostra padrona ha preso il mio nome: è la signora Murdstone. Non dimenticatelo.» Peggotty abbassò il capo, accennò un inchino e uscì dalla camera, rivolgendomi un’occhiata piena di compassione. Aveva capito che il nuovo padrone desiderava restar solo con me. Infatti il signor Murdstone chiuse la porta, mi si piantò davanti e si mise a fissarmi come un boa fissa un coniglio prima di divorarlo. «David» disse stringendo le labbra «se mi trovassi davanti a un cavallo recalcitrante o a un cane disubbidiente, che cosa pensi che farei?» «Non lo so…» «Ebbene, lo frusterei, lo batterei a sangue, fino a che non fosse domato.» Poi, scorgendo i segni delle lacrime che avevo sul volto, mi domandò ancora: «Che hai qui?» «Mi sono sporcato.» «Ah…» fece il signor Murdstone ironico. «Ho capito. Tu sei troppo intelligente per gli anni che hai e vedo che mi capisci. Lavati la faccia e vieni giù con me.» Quella sera io, lui e la mamma mangiammo soli e così potei rendermi conto che la mia cara mamma non era più padrona di sé,

nonostante il bene che mi voleva. Quell’uomo l’aveva stregata, e ormai lei non vedeva che con gli occhi di lui. Venni a sapere anche un’altra notizia che accrebbe la mia paura: di lì a poco sarebbe venuta a stare in casa nostra una sorella del signor Murdstone. Infatti avevamo appena finito di mangiare, e io non vedevo l’ora di rifugiarmi tra le braccia della mia buona Peggotty, quando udimmo nel giardino il rumore di un calesse in arrivo. Il signor Murdstone si alzò, la mamma lo seguì. Per un senso istintivo di paura li seguii a mia volta; appena fummo al buio nel corridoio, lei mi si accostò e, stringendomi forte tra le braccia, mi sussurrò con voce soffocata: «Tesoro, sii buono, ama il tuo nuovo papà. Se vuoi bene a me lo farai». Poi mi lasciò in fretta e raggiunse il marito in giardino. In quel momento, dal calesse scendeva la signorina Jane Murdstone. Era una donna dall’aspetto fosco, con un grosso naso a becco di falco, in cima al quale si congiungevano due sopracciglia folte come un paio di baffi. Il suo bagaglio era composto di due casse nere che avevano sul coperchio le sue iniziali formate da grossi chiodi di ottone. In mano, appesa a un’altrettanto grossa catena, portava una borsettina di maglia di acciaio, con una cerniera, anch’essa di acciaio, che si chiudeva come un paio di mandibole. Entrata in salotto rivolse alla mamma un complimento pieno di grazia. Poi, indicando me, le chiese: «Questo è il vostro ragazzo?» «Sì» rispose la mamma. «A me, in genere, non piacciono i bambini… Come stai?» aggiunse rivolgendosi a me. «Bene, e così spero di voi.» Purtroppo queste parole non riuscirono a mascherare la mia freddezza, per cui la signorina Murdstone, lanciandomi uno sguardo di disprezzo, sentenziò: «Manca di educazione». Dopodiché chiese di essere condotta nella sua camera, che un tempo era la mia.

Da quel giorno quella camera divenne per me un incubo. Le due o tre volte che mi avventurai a spiare dentro, quando lei non c’era, vidi le due casse nere ermeticamente chiuse e, appese davanti allo specchio, numerose catene e catenelle di acciaio con cui la nuova inquilina del Piano delle Cornacchie soleva adornarsi quando usciva. Sembrava l’armamentario di un carceriere. Il giorno dopo il suo arrivo la signorina Murdstone si mise a riordinare la casa a modo suo, rivoluzionando tutto, spostando mobili, sedie e cassettoni. Misteriosamente, era ossessionata dall’idea che le donne di servizio nascondessero un uomo in qualche posto: perciò si precipitava in cantina e nella carbonaia nelle ore più inattese e, quando apriva un armadio lo faceva di scatto, come nella speranza di acchiappare l’intruso che vi fosse nascosto. Nel giro di un paio di giorni la casa fu tutta in mano sua. Con la scusa di aiutarla, si fece dare dalla mamma tutte le chiavi, e la notte le custodiva sotto il cuscino. La mamma, che ormai veniva raramente consultata sulla gestione della casa, tentò di protestare per questa totale presa di possesso da parte della signorina Murdstone, ma le sue lacrime non approdarono a nulla. Il nuovo padrone la persuase della sua ingratitudine verso la signorina Jane, che a suo dire compiva un grave sacrificio addossandosi il governo della casa. La fermezza era senz’altro l’argomento forte del signor Murdstone e della sorella. Sulla base di questo principio la mamma doveva soggiacere alle loro decisioni, le più drastiche e, per ciò stesso, le più giuste. La mia opinione, invece, era che eravamo di fronte a una vera e propria tirannia. In effetti non posso ripensare ai primi mesi dopo il mio ritorno da Yarmouth senza provare ancor oggi un brivido e un sottile senso di angoscia. La mia casa, un tempo così serena e piena di affetto, era divenuta una prigione. Pareva che quella donna di ferro regolasse anche l’entrata e l’uscita del sole dalle finestre; la mamma contava meno di

nulla, Peggotty lavorava facendosi vedere il meno possibile e io, allontanato sempre più dalle persone che amavo, ero in preda a una disperata solitudine.

Capitolo tre In collegio

Subito dopo il mio arrivo si era vagamente parlato di mandarmi in collegio, ma siccome non si era deciso nulla, continuavo a studiare in casa, il che si risolveva in una specie di tortura quotidiana. Se la mia istruzione fosse continuata in quel modo per qualche anno, sarei certamente diventato un idiota fatto e finito. Le ore di lezione erano diventate un vero e proprio incubo. A interrogarmi era sempre la mamma, ma i Murdstone vi assistevano, pronti a darmi addosso alla minima esitazione. Avevo un bel tentare di esporre ciò che mi ero ficcato faticosamente in testa: alla sola vista della donna di ferro le idee prendevano il volo e io rimanevo lì come un ebete senza riuscire a spiccicare una sola parola. La mamma, disperata, congiungeva le mani: «Davy, mio caro…» «Clara» interrompeva il signor Murdstone «sii decisa con il ragazzo! Insomma: la sa la lezione o non la sa?» «Non la sa!» sentenziava l’inflessibile Jane Murdstone. Allora la mamma mi restituiva il libro tutta confusa e io mi rimettevo a studiare, con la disperata certezza che la volta successiva la prova sarebbe stata più disastrosa e alla terza peggio ancora. Qualche volta, alla terza prova, la signorina Murdstone esprimeva la sua disapprovazione con una specie di grugnito. Il signor Murdstone si alzava, mi scaldava le orecchie con un congruo

numero di ceffoni, e scaraventandomi il libro sulla testa mi afferrava per le spalle e mi spingeva fuori dal salotto. La mamma esprimeva il suo dolore con un gemito, senza osare difendermi. In quel periodo il mio unico conforto era la lettura. Mio padre aveva lasciato, in una stanzetta attigua a quella in cui dormivo ora, una piccola libreria, alla quale attingevo per trovare conforto alla mia solitudine. Tom Jones, Don Chisciotte, Gil Blas e Robinson Crusoe mi tenevano compagnia e mi trasportavano nel magico mondo delle loro avventure. Ma una mattina avvenne l’irreparabile. Entrando nel salotto con i miei libri, mi accorsi che la mamma aveva sul volto un’espressione angosciata che non le avevo mai visto. La signorina Murdstone, più arcigna del solito, mi lanciò un’occhiata sprezzante, mentre, seduto in un angolo, il signor Murdstone non alzò nemmeno lo sguardo, intento com’era a legare qualcosa in cima a una lunga bacchetta. Aveva però il viso scuro scuro. Quando ebbe finito rialzò la testa, brandì in aria la bacchetta agitandola come per provarne la resistenza e disse: «Ti ripeto, Clara, che anch’io sono stato spesso bastonato». Dopo questo preambolo ognuno può immaginare come andò la mia lezione quella mattina: non riuscii a mettere in fila più di tre parole. Davanti alla mia assoluta incapacità di rispondere in qualsiasi modo alle domande che mi venivano rivolte, la mamma si mise a piangere. «Clara!» disse la signorina Murdstone con cipiglio severo. «Mia cara Jane» gemette la mamma «non mi sento bene.» Il signor Murdstone aveva già brandito la bacchetta e l’agitava minaccioso in aria. «Vedi, Jane» spiegò alla sorella «è impossibile pretendere che Clara sopporti serenamente la pena che questo ragazzo le infligge. Abbiamo fatti grandi progressi sulla via della fermezza, ma non possiamo pretendere troppo da lei.» Poi,

rivolgendosi a me, disse: «David, seguimi!» Mi afferrò per un braccio e mi trascinò fuori dal salotto. La mamma tentò di interporsi, ma uno squittio della signorina Murdstone l’arrestò. Mentre uscivo, udii il suo gemito e vidi che si copriva le orecchie per non sentire il mio pianto. Il signor Murdstone mi guidò verso la mia camera. Quando vi fummo giunti mi afferrò e mi chiuse la testa sotto il suo braccio, come in una morsa. «No, signor Murdstone» mi misi a implorare «non mi picchiate! Ho studiato, ho fatto di tutto per imparare, ma davanti a voi e alla signorina Murdstone non riesco a dire nulla, non riesco… non riesco…» Dimenandomi come un ossesso ero riuscito a sfuggirgli; ma lui mi riprese, mi serrò ancora la testa sotto il braccio e si mise a picchiarmi senza pietà con la bacchetta. «Ah… non riesci a parlare…» diceva freddamente. «Non riesci? Allora proviamo questo!» E giù colpi. Io urlavo per il dolore e mi divincolavo. Ero diventato come un piccolo animale selvaggio. A un tratto mi trovai la sua mano davanti alla bocca e l’addentai con un furore disperato. Allora la grandinata di colpi divenne tempesta. Quando mi lasciò ero a terra sfinito, accecato dalle lacrime. Fuori udivo gente che correva, la mamma che gemeva e la mia buona Peggotty che soffocava i singhiozzi. Quando il furore e l’angoscia che mi attanagliavano si furono un po’ calmati, mi accorsi che sulla casa era sceso un silenzio pauroso. Non si udiva il minimo fruscio: tutto pareva deserto. Mi alzai da terra che era quasi buio, chiusi la finestra e, tutto pesto e indolenzito, mi guardai allo specchio. La mia faccia, ancora accesa e tumefatta, mi faceva paura: sembrava la faccia di un delinquente. Allora mi colse un vero terrore per ciò che avevo fatto. Se pensavo all’angoscia della mamma mi veniva da impazzire: mi pareva che

non avrei sopportato il suo sguardo. Quella sera, però, non la vidi. Vidi invece la signorina Murdstone, che venne poco dopo, depose sul tavolo un pezzo di pane, una fetta di carne e un bicchiere di latte e uscì silenziosa come un fantasma. Per cinque giorni rimasi chiuso in quella stanza senza vedere nessun viso eccetto quello della signorina Murdstone. Le idee che mi passarono per la testa in quei giorni sono indescrivibili. L’ultima sera della mia prigionia, mentre ero a letto e fantasticavo su quel che avrebbero fatto di me, udii qualcuno chiamarmi per nome. Balzai a sedere in preda a un’ansia mortale. «Davy» sussurrava la voce «mio caro Davy…» Scesi piano piano dal letto e raggiunsi a tentoni la porta. La voce veniva dal buco della serratura e mi parve di riconoscerla. «Sei tu, mia cara Peggotty?» domandai timoroso. «Sì, tesoro, sono io. Stai silenzioso come un topolino, altrimenti la gatta ci sente.» La gatta era la signorina Murdstone, la cui camera era attigua alla mia. «Senti, Peggotty, come sta la mamma? È molto in collera con me?» Udii Peggotty piangere dietro la porta prima di rispondere: «No, non molto». A quel punto mi misi a piangere anch’io. «Sai che cosa faranno di me, Peggotty?» «Andrai a scuola, vicino a Londra» mormorò Peggotty. Ma dovetti farglielo ripetere, perché mi ero dimenticato di appoggiare l’orecchio alla serratura. «Quando partirò, Peggotty?» «Domani.» «E potrò vedere la mamma?» «Sì, caro… la vedrai certamente domani mattina.» Seguì un breve silenzio. Io udivo i singhiozzi di Peggotty che piangeva dietro la porta. «Mio caro Davy, mi senti?»

«Sì… sì, Peggotty.» «Tesoruccio caro» continuò Peggotty attraverso il buco «se non sono venuta a vederti in questi giorni non è perché non ti voglia bene. Te ne voglio più di prima, ma l’ho fatto per il tuo bene e per il bene di un’altra persona che amo… Mi senti?» «Sì, Peggotty…» «Bambino mio, non dimenticarmi mai, perché io mi ricorderò sempre di te. Avrò cura della tua mamma e ti scriverò, anche se sono brutta, stupida e ignorante. E io… io…» E la cara Peggotty, non potendo baciarmi, si mise a baciare il buco della serratura. «Mia cara Peggotty, grazie» singhiozzavo io da dentro «ti ricorderò sempre. E tu promettimi una cosa: promettimi che scriverai al signor Peggotty e a Emily e alla signora Gummidge e a Ham… dirai loro che non sono cattivo come potrebbero pensare e che li saluto tanto tanto, specialmente Emily! Me lo prometti, Peggotty?» La mia buona Peggotty me lo promise e, dicendomi addio, baciava il buco della serratura; io lo baciavo dal di dentro e lo accarezzavo come se fosse stato il suo caro volto pieno di bontà. Il giorno successivo la signorina Murdstone venne nella mia stanza ad annunciarmi in tono gelido che dovevo partire subito per il collegio. Mi vestii e scesi in salotto. La mamma era lì ad aspettarmi con gli occhi rossi di pianto. Quando la vidi scoppiai in lacrime anch’io e mi precipitai ai suoi piedi chiedendole perdono. «Oh, Davy» mi disse «come hai potuto far tanto male a una persona che mi è cara? Ti perdono, ma non avrei mai creduto che tu potessi essere così cattivo.» Quelle parole mi provocarono un dolore atroce: avevano persuaso la mamma che io ero cattivo e lei era più addolorata per questo che per la mia partenza… Mi sedetti a tavola per far colazione, ma le lacrime mi scendevano copiose sul pane imburrato e nella tazza del tè; avevo la gola

serrata. Quando udii le ruote della vettura che veniva a prendermi mi alzai. Cercai Peggotty, ma invano. Davanti alla porta c’era il vetturino che mi aveva portato a Yarmouth. Il mio baule fu caricato sul calesse e la signorina Murdstone, dopo aver esortato duramente la mamma alla fermezza, mi accompagnò fin sulla strada. Salii sul calesse quasi senza vedere, tanto avevo gli occhi pieni di lacrime. Mi accoccolai vicino al vetturino e, mentre il cavallo si avviava, mi coprii gli occhi con il fazzoletto e diedi libero sfogo alle lacrime. Avevamo già percorso un buon miglio e io piangevo ancora con il viso nascosto nel fazzoletto, quando il calesse si arrestò all’improvviso. Contemporaneamente ebbi l’impressione che qualcuno si arrampicasse su: era Peggotty che, sbucata da una siepe, si lanciava per abbracciarmi, mentre i bottoni del corpetto le saltavano come una scarica di fucileria. Senza dire una parola la cara donna mi strinse così forte contro le stecche del busto da farmi dolere il naso per il resto del viaggio; poi si frugò in saccoccia e ne estrasse due fagottini di ciambelle, che mi mise in tasca, e un borsellino che mi serrò nel pugno. Poi, sempre nel più assoluto silenzio, mi abbracciò ancora, provocando una seconda sparatoria di bottoni, scese dal calesse e scomparve dietro una siepe. Il vetturino mi gettò uno sguardo interrogativo, come per chiedermi se sarebbe ritornata, e quando gli dissi che non credevo lanciò un fischio e riprese la marcia. Sebbene fossi ancora un po’ commosso e leggermente sbalordito da quell’improvvisa apparizione, smisi di piangere e, preso da curiosità, aprii il borsellino: dentro c’erano tre scellini così lucenti che credo fossero stati lucidati di fresco e, avvolte in un pezzo di carta, due mezze corone. L’involucro risultò molto prezioso per me. C’era scritto, con la calligrafia della mamma: “Per Davy, con tanto amore”.

Quelle parole stavano per provocarmi un violento ritorno di lacrime; ma subito mi ricordai che nessuno degli eroi della mia libreria aveva mai pianto nei momenti difficili, dunque pian piano mi calmai. Mi asciugai gli occhi e mi misi a parlare con il vetturino, il quale, è bene che lo sappiate, si chiamava Barkis. «Fin dove mi accompagni?» gli chiesi. «Fino a destinazione, vero?» «Quale destinazione?» «A Londra, dove si trova il collegio.» «Ammesso e concesso che questo ronzino sia in grado di raggiungere Londra, ci arriverebbe più morto di un pezzo di maiale arrosto. Io ti lascerò a Yarmouth, dove verrà a prenderti una diligenza.» Al nome di Yarmouth il cuore mi balzò in petto. Mi ricordai della barca del signor Peggotty, di Ham e soprattutto della piccola Emily: fui tanto contento che in segno di gratitudine presi una ciambella e la porsi a Barkis. Quello se la fece saltare in bocca e io la vidi sparire come nella gola di un elefante. «L’ha fatta lei?» mi chiese dopo essersi pulito la bocca dalle briciole con il dorso della mano. «Chi lei? Vuoi dire Peggotty?» «Ah!… lei sì, lei…» «È sempre lei che fa i dolci in casa nostra.» «Lei?» ripeté Barkis, mentre guardava pensieroso la punta delle orecchie del cavallo. «E dimmi un po’… nessun amoretto, eh?» «Amoretto… che cosa vuoi dire?» «Dico, è fidanzata? Ha uno spasimante che l’accompagna a passeggio?» «Mai! Peggotty non è mai stata fidanzata.» «Ah, lei non è mai stata…?» «Mai.» «Sicuro? Ah! Allora, senti… tu le scriverai?» «Certo che le scriverò, perché?»

«Quando le scrivi potresti scriverle così: “Barkis ha intenzione”.» «E che cosa significa?» «Tu scrivi così, solo queste parole: “Barkis ha intenzione”.» «Bene, glielo scriverò.» E così, appena giunto in albergo a Yarmouth, mentre attendevo la diligenza, chiesi un foglio di carta e scrissi: Cara Peggotty, sono arrivato felicemente. Barkis ha intenzione. Tanti baci alla mamma. Tuo affezionatissimo, David P.S. Egli desidera tanto che tu sappia questo: che ha intenzione.

A mezzogiorno mi chiamarono a tavola, dove un simpaticissimo cameriere mi servì il pasto e fu tanto gentile da aiutarmi a mangiare quelle porzioni troppo abbondanti. Si sottopose anche al pericolo di trincarsi la mia birra dicendomi che appena due giorni prima un affezionato cliente del locale era caduto morto stecchito subito dopo essersi fatto un boccale. Appena finito di pranzare, il corno della diligenza mi richiamò al mio viaggio verso una meta che, nel breve dialogo avuto con il cameriere, capii essere ben poco promettente. Quando giunsi alla stazione di Londra trovai ad aspettarmi un povero diavolo con un’aria tra il sagrestano e il mendicante. Questo tipo male in arnese mi accompagnò al collegio di Salem House, dove il signor Murdstone mi aveva destinato per provvedere alla mia rieducazione. Nonostante l’apparenza il mio accompagnatore, un certo signor Mell, si rivelò essere un insegnante del collegio. Salem House era un edificio di mattoni, tanto vasto quanto tetro, che a prima vista mi diede l’impressione di un penitenziario. Ero arrivato in un periodo di vacanza, per cui l’istituto era deserto. Mi ricevette un omaccione con il collo taurino, la testa rapata a zero e una gamba di legno.

Mi squadrò dalla testa ai piedi come avesse dovuto valutare il numero dei bocconi che gli ci sarebbe voluto per divorarmi. Poi venni riaffidato al signor Mell, accanto al quale percorsi il viale di accesso. Entrammo quindi in uno squallido stanzone, dove mi lasciò solo per alcuni minuti. Nell’attesa mi guardai intorno e, sopra un tavolo, vidi una cosa che mi mise addosso un bello spavento. Era un cartello di cartone spesso, che portava una scritta a caratteri cubitali: ATTENZIONE, MORDE! Con il cuore in gola cercai il cane, aspettandomi di essere addentato ai polpacci da un momento all’altro; ma non vidi nulla. Nello stanzone regnava un tale silenzio che si sarebbe sentita volare una mosca. Tuttavia tremavo, e quando il signor Mell fu di ritorno gli chiesi: «Scusate, signore, dov’è il cane?» «Quale cane?» «Quello» e additai il cartello. Il tizio male in arnese si mise a ghignare: «Qui non c’è nessun cane, signor Copperfield; quel cartello è per voi, e io ho l’ordine di attaccarvelo dietro la schiena». Infatti lo prese e me lo sistemò sulle spalle a mo’ di zaino. Poi mi condusse in giardino e mi lasciò solo. Rimasi talmente mortificato che non ebbi neppure la forza di piangere. Il signor Murdstone aveva riferito tutto ai miei insegnanti e io mi sarei dovuto presentare ai miei futuri compagni con quel marchio d’infamia sulle spalle! Mi sembrava già di vederli, al ritorno dalle vacanze… I nomi di alcuni erano incisi sulle porte e sui tronchi degli alberi: Steerforth, Traddles, Demple… Chissà che ragazzi dispettosi e beffardi! Si sarebbero messi a ballarmi intorno, a tirarmi per i capelli… “Uh, uh, morde… attenzione…”

Nei giorni successivi, anzi, per quasi un mese, rimasi sotto questo incubo, sempre con il mio cartello sulle spalle. Il signor Mell mi dava da fare un sacco di compiti, ma essendo ormai lontano dai signori Murdstone me la cavavo piuttosto bene. Finalmente, un giorno, l’omaccione con la gamba di legno cominciò ad agitarsi. Saltellava come un rospo, con in mano la scopa e un secchio d’acqua; spazzava, ripuliva, spolverava i mobili… Intuii che le vacanze erano finite e, infatti, qualche giorno dopo, il signor Mell mi disse che era tornato il signor Creakle, il direttore del collegio. L’incontro con questo personaggio fu per me piuttosto drammatico. Quando gli fui presentato da “Gambadilegno” il solo suo aspetto mi fece tremare come una foglia. Era infatti un uomo grande e grosso, con una pelata che cercava di mascherare con i pochi, lunghissimi capelli grigi che gli rimanevano sulle tempie. I suoi occhietti avevano un’espressione feroce e, siccome da quel gran corpo usciva una vocina impercettibile, doveva fare un tale forzo per essere udito che le vene della fronte ampia e sfuggente gli si gonfiavano come corde. Non appena mi vide mi guardò minaccioso ed esordì: «È questo il signorino cui bisogna limare i denti? Fatelo voltare». L’uomo dalla gamba di legno mi prese per le spalle e mi fece fare una mezza piroetta. Quando il signor Creakle si fu assicurato che il cartello della mia infamia era a posto secondo i suoi ordini, venni rigirato nella posizione di prima. «Che cosa avete da dirmi su questo ragazzo?» chiese il signor Creakle all’uomo dalla gamba di legno. «Nulla, è stato abbastanza docile.» «Conosco bene il vostro patrigno» disse poi il direttore rivolgendosi a me. «È una degna persona, un uomo fermo, e lui conosce me. E voi, voi non mi conoscete ancora, eh?» «Non ancora…» risposi. «Lo conoscerete presto!» interloquì Gambadilegno.

«Sapete dunque chi sono io?» aggiunse il signor Creakle. «Sono un tartaro.» «Un tartaro» ripeté Gambadilegno. «Quando voglio che una cosa sia fatta, quella cosa va fatta.» «Va fatta!» ripeté l’eco di Gambadilegno. «Mi avete capito?» fece ancora il signor Creakle. E ordinò di portarmi via. Sebbene spaventatissimo, quando fui sulla soglia mi voltai e azzardai una preghiera: «Signore, sono davvero pentito di ciò che ho fatto, ma vorrei chiedervi… per favore… che mi venga tolto questo cartello». Il direttore sobbalzò talmente sulla sedia che, ritenendomi perduto, non pensai ad altro che a scappare via il più veloce che potevo. Non mi restava che attendere l’arrivo dei miei compagni, che per fortuna si dimostrarono migliori di quanto non pensassi. Thomas Traddles, che fu il primo a rientrare, rise del mio cartello, ma non ci fece gran caso; gli altri mi presero un po’ in giro, chiamandomi Fido e danzandomi intorno come una tribù di pellirosse. Fu l’arrivo di James Steerforth a metter fine come per incanto a quella cagnara. Questo Steerforth era un bellissimo ragazzo di cinque anni più grande di me, che tutti avevano accettato come capo. Gli fui presentato sotto la tettoia del cortile; volle sapere per filo e per segno i miei precedenti e, dopo aver sentenziato che quella faccenda del cartello era una bella porcheria, mi prese definitivamente sotto la sua protezione. Si allontanò con me dagli altri compagni e mi chiese: «Quanti soldi hai, Copperfield?» «Sette scellini.» «Se posso darti un buon consiglio, è meglio che te li custodisca io.» Io glieli consegnai senza esitare. «Vuoi fare qualche spesa?» chiese. «No, grazie.»

«E se comprassimo una bottiglia di vino da bere nel dormitorio? Scommetto che ti piacerebbe.» Non avevo mai pensato a una cosa del genere, ma gli dissi che mi andava benissimo. «E scommetto anche che ti piacerebbe investire pochi scellini in qualche pezzo di mandorlato.» «Sicuro che mi piacerebbe.» «E se spendessimo un altro paio di scellini in biscotti e frutta?» «Potrebbe essere una buona idea.» «Dobbiamo stare attenti a non esagerare» disse Steerforth. «Comunque lascia fare a me. Io posso uscire quando voglio e vedrai che farò le cose per bene.» La sera, quando ci chiudemmo nel dormitorio, il simpatico capobanda mi rovesciò sul letto l’equivalente dei miei sette scellini: una bottiglia di vino, un bel cartoccio di mandorlati, biscotti e frutta. Distribuì in parti uguali ogni cosa e versò il vino in un suo bicchierino. Così i miei sette scellini se ne andarono allegramente in un colpo solo. Quella sera raccolsi molte notizie sulla scuola e sui suoi personaggi. Per prima cosa venni a sapere che il signor Creakle era il maestro più severo e ignorante che avesse mai calcato il pavimento di quelle aule, e che aveva ripiegato su quell’attività dopo aver fallito nel commercio del luppolo per la birra. Tungay, cioè Gambadilegno, era un ex dipendente di Creakle e come tale conosceva a menadito i suoi segreti; ciò gli consentiva di svolgere il ruolo di fiduciario del direttore. Creakle aveva una figlia: la ragazza era innamorata persa di Steerforth, cosa che, vista la bellezza del nostro capobanda, era più che comprensibile. Meno evidente era il motivo per cui il signor Creakle, che largheggiava in frustate con tutti gli allievi del collegio, non osava alzare le mani su uno solo: proprio Steerforth. Sul conto degli altri maestri, il signor Sharp e il signor Mell, seppi che ricevevano uno

stipendio da miseria. In particolare il signor Mell non aveva il becco di un quattrino e sua madre versava in condizioni ancora peggiori. Dopo la festicciola ci mettemmo a letto e io sognai tutta la notte di passeggiare nel giardino con il mio amico Steerforth, come fossimo stati amici da anni. La mattina dopo tutti gli allievi furono condotti in un’aula. Il signor Creakle entrò con una bacchetta in mano. «Ragazzi» disse con la sua voce quasi inintelligibile «oggi comincia il nuovo semestre. Studiate, se non volete sentire il morso della mia bacchetta.» A quel punto si avvicinò a me, mi mostrò il suo strumento e mi disse: «Tu sei quello che morde, eh? Ma anche questa morde. Non è vero? Hai sentito?» E continuò così alternando domande e colpi dolorosissimi. Così ricevetti, come diceva Steerforth, la cittadinanza di Salem House. Ma non bisogna credere che questo trattamento mi fosse riservato in esclusiva per la storia del morso dato al mio patrigno; tutti i ragazzi subivano la loro brava bastonatura quotidiana o venivano picchiati sulle mani con la riga. Sembrava che in quest’attività – se così vogliamo chiamarla – il signor Creakle provasse una sorta di strano piacere. Si accaniva specialmente sui più grassottelli; e io, che non ero magro, ne so qualcosa. Ma il più tartassato in assoluto era il povero Traddles. Come ho già detto, Steerforth era l’unico a sfuggire all’inesorabile bacchetta del signor Creakle; anzi, era trattato con tutti i riguardi e aveva il raro privilegio di accompagnare a messa la figlia del direttore. Con me era sempre gentilissimo e, benché non avesse mai osato difendermi dalle percosse del signor Creakle, mostrava per le mie faccende un’attenzione particolare, specialmente dopo che gli ebbi parlato delle mie estese letture. Mi pregò di raccontargli le storie dei romanzi che avevo letto e, da allora, diventai il novelliere ufficiale della camerata. La sera ci mettevamo tutti in circolo sopra il mio letto e io raccontavo le straordinarie avventure di Gil Blas, di Peregrine

Pickle, di don Chisciotte e di Robinson Crusoe, deliziando così i miei compagni. Per far comprendere quanta premura Steerforth mostrasse nei confronti del narratore della compagnia, basterà un aneddoto. Un giorno mi giunse una lettera di Peggotty, accompagnata da una dozzina di arance, da una torta e da tre bottiglie di vino dolce. Fui lietissimo di mettere il tutto a disposizione di Steerforth, ma lui volle che le bottiglie fossero riservate solo a me, perché mi bagnassi la gola quando raccontavo; e ogni tanto me ne faceva bere un sorso attraverso una cannuccia fatta con una penna d’oca infilata nel tappo. Ma l’avvenimento più straordinario di quel semestre fu per me la visita del signor Peggotty, il pescatore, e di Ham. Nel rivederli provai un immenso piacere; il signor Peggotty, poi, aveva un repertorio inesauribile di storielle divertenti, che raccontava con tanta vivacità da farmi ridere fino alle lacrime. Chiesi loro notizie della mia cara mamma, della mia vecchia Peggotty, della signora Gummidge e, soprattutto, della piccola Emily. Il signor Peggotty mi assicurò che stavano tutte bene e mi porse due enormi aragoste e un grosso sacco di gamberi già lessati da Peggotty. Preso dall’entusiasmo volli presentargli Steerforth, orgoglioso com’ero del mio nuovo amico. Il signor Peggotty e Ham provarono immediatamente per lui una grande simpatia, che il capobanda ricambiò amabilmente, guadagnandosi così un invito a Yarmouth. Appena lasciati i miei amici, portammo di nascosto i crostacei nel dormitorio e la sera ce li mangiammo tutti insieme con grande allegria. Purtroppo il povero Traddles si sentì male durante la notte e la mattina, dopo essersi dovuto sorbire una dose di purgante che avrebbe ammazzato un cavallo, ricevette dal signor Creakle l’immancabile bastonatura solenne.

Capitolo quattro Rimango solo

Il

tempo passava e il primo semestre della mia vita di collegio terminò. Prima di ritornare al Piano delle Cornacchie feci una visitina a Yarmouth, dove riabbracciai la famiglia Peggotty e rividi Emily, che stava crescendo a vista d’occhio, diventando sempre più carina. Poi Barkis, il vetturino, venne a prendermi con il suo cavallo insonnolito. Dopo avermi salutato cortesemente, mi chiese se avessi passato il suo messaggio a Peggotty. «Sì, le ho scritto» risposi. E lui, con grande finezza, mi fece capire che sarebbe stato lieto se l’avessi avvisata che, adesso, “Barkis aspettava una risposta”. Avvicinandomi alla casa, che sapevo non essere più mia, una folla di pensieri e di emozioni mi si accavallavano nella mente. Il ricordo dei giorni in cui io, mamma e Peggotty eravamo come una cosa sola, e nessuno poteva intromettersi fra noi, mi provocò una tale tristezza che non ero affatto certo di voler tornare al Piano delle Cornacchie. Giunti a destinazione scesi d’un balzo dal calesse e, mentre Barkis deponeva il mio baule presso il cancello, mi avviai di corsa verso l’ingresso. Già dal giardino mi parve di udire la voce sommessa della mamma che cantava. Ebbi l’impressione che fosse sola. Entrai. Era seduta vicino al fuoco e allattava un bambino, che

le teneva la manina appoggiata al collo. La chiamai; lei sobbalzò e lanciò un grido di gioia: «Mio caro Davy, piccino mio adorato!» Mi venne incontro, s’inginocchiò sul pavimento e, stringendomi, si appoggiò il mio capo sul seno e mi diede da baciare la manina del piccolo. Se fossi morto in quel momento, sarei andato fra gli angeli con il sentimento più dolce della mia vita. «È tuo fratello» mi disse mia madre indicandomi il bimbo, e continuò a baciarmi e a stringermi al petto gemendo: «Tesoro mio, mio povero bambino». In quel momento entrò Peggotty. Anche lei s’inginocchiò vicino a mia madre e si mise a fare mille carezze a me e a lei. Eravamo proprio soli. Il signor Murdstone e la donna di ferro erano andati a far visita a certi conoscenti e sarebbero tornati solo a notte fatta. Ciò mi rese ancora più felice: non avrei mai sperato di restare in casa da solo con la mamma e con Peggotty, proprio come una volta. Era bello poter manifestare in libertà tutto il nostro affetto. Quella sera mangiammo soli accanto al fuoco; io riebbi il mio vecchio piatto con una nave da guerra dipinta sul fondo e il mio coltello senza filo. La mamma volle che Peggotty sedesse a tavola con noi. Mentre eravamo a tavola mi ricordai della commissione di Barkis; ma non avevo ancora finito di riferirle il messaggio che Peggotty si mise a ridere nascondendo la faccia nel grembiule. «Che hai, Peggotty?» chiese la mamma. Ma lei continuava a ridere fra sé e sé, scuotendo le spalle. «Ma dai, che cosa ti prende, scioccona?» fece ancora la mamma. «Che matto, quell’uomo!» disse alla fine Peggotty sempre ridendo. «Vuole sposarmi.» «Ebbene, mi pare che sarebbe un buon partito.» «Oh, non lo so» fece Peggotty. «Non lo vorrei neppure se fosse carico d’oro.» «E allora perché non glielo dici?»

«Dirglielo? Ma lui non me ne ha mai parlato. Se osasse, gli darei uno schiaffo!» A quel punto mi accorsi che la mamma si faceva pensierosa. Io la guardavo e per la prima volta mi accorsi che era cambiata. Il suo bel volto angelico aveva un’espressione di stanchezza che non le avevo mai visto e come un senso di ansia inesprimibile. Le mani, bianche come la cera, le erano diventate diafane. «Dunque, mia cara Peggotty» disse a un tratto «vuoi sposarti o no?» «Io, signora? Non ci penso neanche!» «Non farlo ancora, Peggotty…» disse la mamma «non lasciarmi!» E le prese la mano con forza, quasi per trattenerla. «Ma come può venirvi in mente una cosa del genere, signora?» fece Peggotty. «Io non vi lascerò mai. Vorrei vedere! Rimarrò con voi finché non sarò vecchia, brutta, sdentata e rimbambita, e quando non potrò più esservi utile andrò dal mio caro Davy e gli chiederò di tenermi con lui.» «E io» feci «ti accoglierò e ti tratterò come una regina.» Finita la cena sedemmo accanto al fuoco e parlammo a lungo di Salem House e dei miei compagni, soprattutto di Steerforth, che era il più bello e anche il mio più grande amico. Peggotty disse che avrebbe fatto cento miglia per conoscerlo. L’indomani il signor Murdstone mi ricevette con la solita fredda fermezza. La donna di ferro finse addirittura di non avermi visto; quando mi rivolse la parola fu solo per domandarmi quanto sarebbero durate le vacanze. Quando le risposi che sarebbero durate un mese, mi parve scandalizzata. Non vedeva l’ora che io ripartissi. Del resto, sfumata la felicità dei primi istanti, e non potendo più ritrovarmi da solo con la mamma e con la buona Peggotty, quelle vacanze si trasformarono in un tormento. La mattina mi ero appena alzato che già attendevo la sera per poter andare a letto e non vedere più il signor Murdstone e sua sorella.

Così, quando giunse l’ultimo giorno, la signorina Murdstone tirò un gran sospiro di sollievo; ma lo tirai anch’io, sebbene mi dispiacesse lasciare la mamma. La donna di ferro volle assistere al nostro addio, per ammonire la mamma a non perdere la sua fermezza davanti a me. Io la baciai, baciai il mio fratellino e mi congedai; ma il mio santo angelo aveva ancora qualche cosa da dirmi. Intuiva già quel che sarebbe avvenuto? Fatto sta che volle lasciarmi di sé un ricordo dolce e triste insieme, una visione indimenticabile. Quando ero già sul calesse di Barkis mi sentii chiamare. Mi voltai e vidi mia madre sola, davanti al cancello, che sollevava il bambino sulle braccia perché lo vedessi. Il tempo era freddo, ma l’aria era immobile, e non un lembo del vestito o un capello le si mosse mentre mi guardava in quell’atto, come se volesse mostrarmi per l’ultima volta il suo povero cuore debole e innocente. Fu l’ultima volta che la vidi, e quell’immagine rimase il solo conforto dei miei sogni: così la vedrò finché sarò vivo. Ciò che avvenne in collegio dopo il ritorno dalle vacanze non ebbe per me alcuna importanza e non mi lasciò la minima traccia nella memoria. Ricordo solo che eravamo arrivati a marzo, precisamente al giorno del mio compleanno. Mentre ero con i miei compagni arrivò il signor Sharp per dirmi che Creakle voleva vedermi. Quando fui davanti al direttore, questi fece un profondo sospiro e cominciò ad accennare fugacemente alla caducità delle cose del mondo. Poi cedette la parola alla sua signora, che era lì presente e che mi fissava con una pietosa espressione materna. «Signor Copperfield» mi disse la signora «quando siete partito da casa per ritornare in collegio, stavano tutti bene a casa vostra?» «Sì» risposi «li ho lasciati tutti in buona salute.» «Anche vostra madre stava bene?» Feci di sì con un cenno della testa, perché le parole iniziavano a non uscirmi più dalla gola.

«Abbiamo saputo che vostra madre è molto, molto malata…» In quel momento parve mancarmi la terra sotto i piedi. «È morta» disse, ma io l’avevo già capito. Scoppiai a piangere disperato, sentendomi orfano e solo nel grande mondo. Quando mi fui ripreso un poco, pieno di angoscia chiesi: «E il mio fratellino?» Il signor Creakle prima esitò, poi rispose: «Nelle braccia di vostra madre». Compresi che era morto anche lui e diedi libero sfogo al mio dolore. Quella sera i miei compagni mi circondarono muti; quando fummo nel dormitorio, il buon Traddles mi offrì il suo cuscino, non sapendo che cos’altro fare per dimostrarmi la sua partecipazione. La mattina dopo venne a prendermi un ometto grasso con un calesse. Lungo la strada ci fermammo in casa di un tappezziere impresario di pompe funebri, che mi prese le misure per un vestito da lutto. Appena giunsi a casa mi venne incontro Peggotty che mi abbracciò piangendo: aveva gli occhi gonfi per le lacrime e per la stanchezza. Mi disse che non dormiva da tre giorni. Il signor Murdstone era seduto nel salotto; piangeva e parve non accorgersi di me. Sua sorella era alla scrivania, china dinnanzi a una pila di carte; mi chiese solo se avessi portato con me tutta la mia roba. Nella casa silenziosa e lugubre non si udiva che il ticchettio cadenzato degli orologi a pendolo. Anche quel che avvenne nei giorni che precedettero il funerale è avvolto nell’oblio. Ricordo solo che una sera Peggotty mi prese per mano e mi portò nella stanza dove riposava la mia povera mamma con il mio fratellino in braccio. Giaceva sotto una coperta bianca, con qualche fiore intorno. Quando Peggotty accennò a sollevare la coperta, io le gridai: «No… no…» e le trattenni la mano. Il cuore non mi reggeva. E allora la cara Peggotty mi prese fra le braccia e, asciugandosi di quando in quando gli occhi, mi raccontò dei suoi ultimi giorni: «Da tempo non era più lei, mio caro Davy, non era

felice. Amava suo marito, amava la signorina Murdstone, perché non poteva che amare tutti, ma deperiva di giorno in giorno. Quando tu partisti, alla fine delle vacanze, mi disse: “Non vedrò più il mio caro Davy, il cuore me lo dice, Peggotty, morirò presto”. A suo marito non diceva nulla, si confidava solo con me, ma era tanto stanca. Otto giorni fa la misi a letto e non si rialzò più. Voleva che le stessi vicino, pareva che avesse paura di restar sola. L’ultima notte mi baciò e mi disse: “Peggotty, ascolta, se con me dovesse morire il mio bambino, ti prego di mettermelo fra le braccia e di farlo seppellire insieme a me. Voglio che il mio Davy ci accompagni fino al cimitero, e tu gli dirai che la sua mamma, prima di morire, l’ha benedetto mille e mille volte”. Poi, sul tardi, mi chiese da bere e dopo che ebbe bevuto sorrise, sai, con quel bel sorriso di una volta, di quando eravamo soli. Visse fino all’alba. Qualche minuto prima di spirare volle che la stringessi al collo e che avvicinassi il mio viso al suo, perché mi diceva che lo vedeva sempre più lontano. Quando ebbe appoggiato la testa sul braccio della sua vecchia, stupida Peggotty, chiuse gli occhi e spirò come un bambino che si addormenta». Qui Peggotty tacque e piangemmo insieme per un bel pezzo. Quando ebbi saputo i particolari delle ultime ore di mia madre, dimenticai tutti gli avvenimenti dell’anno appena passato. Ritornò a essere la mia bella mamma dei primi ricordi, quella che in salotto mi leggeva la storia della risurrezione di Lazzaro e che mi ascoltava leggere il libro illustrato sui coccodrilli. Fu la mia mamma bambina, che cantava avvolgendosi intorno alle dita i bei riccioli biondi; e quel bambino che si portava con sé nella tomba non era il mio fratellino, ma era il suo piccolo Davy di un tempo, quello che aveva concluso la sua vita felice per cominciarne un’altra senza il conforto delle sue carezze. I giorni passavano e in casa non si parlava più di rimandarmi in collegio. Per me cominciò un periodo oscuro dal quale non vedevo come sarei uscito: ci si occupava di me non più di quanto ci si occupi

di un gatto randagio. Il signor Murdstone sembrava cupo e addolorato, ma io sentivo che il suo dolore non era il mio, e neppure quello della mia vecchia Peggotty. La signorina Murdstone non mi guardava neanche: si vedeva bene che la sua unica preoccupazione era che io non rimanessi insieme con lei e con suo fratello. Per il resto potevo restare in camera mia, leggere, dormire, andare a zonzo per la campagna: nessuno mi chiedeva conto di ciò che facevo, e se una sera mi fossi smarrito nel bosco nessuno se ne sarebbe accorto. La prospettiva di essere così abbandonato, tuttavia, non mi procurò alcun dolore. Ero ancora sconvolto per la morte della mamma e accettavo come intontito le conseguenze secondarie di quell’evento. Ricordo comunque che a volte fantasticavo su cosa sarei diventato, abbandonato in quel modo. Mi vedevo crescere senza istruzione, senza affetti, senza nessuno che si curasse di me, inselvatichito e ignorante; ero, insomma, in una di quelle situazioni che finiscono col fare di un ragazzo, soprattutto se sensibile, un pessimo soggetto. Altre volte meditavo se non fosse invece possibile liberarmi da quella sorte andandomene via, come l’eroe di un romanzo, in cerca della mia fortuna. Il giorno uscivo di casa e camminavo a lungo per i campi, con le scarpe infangate e i vestiti inzaccherati; quando ero stanco mi sedevo sulla sponda di un fosso e pensavo smarrito al mio oscuro domani. L’unica persona che si occupava di me e che mi confortava con il suo affetto era Peggotty; ma dopo qualche giorno la signorina Murdstone la licenziò, dandole un mese di preavviso. Credo che, se avesse potuto, avrebbe licenziato anche me. Dopo aver cercato invano un lavoro a Blunderstone per potermi stare vicino, la buona Peggotty decise di ritornare a Yarmouth da suo fratello e mi propose di portarmi con sé per un mese. Chiese il permesso alla donna di ferro e lei, pur di avermi il più lontano possibile, mi lasciò andare. Barkis venne a prendermi con il calesse e in una bella mattina di aprile ci mettemmo in viaggio. Durante il

percorso il vetturino fece la sua domanda di matrimonio a Peggotty in un modo veramente eloquente: dandole di quando in quando una gomitata; appena giunti a Yarmouth mi disse tutto contento che la cosa si stava mettendo bene, molto bene… Il mese che passai nella barca del signor Peggotty mi rimise in sesto. Rividi Ham, il buon Ham, che mi portava a cavalluccio sulle spalle, la signora Gummidge, sempre pulita e premurosa, e la bella Emily, che era diventata quasi una signorina. Andava a scuola ed era spigliatissima. Un giorno mi dissero che dovevamo partire per una scampagnata. Barkis venne a prenderci con il calesse e io mi accorsi che tutti, compresa la mia buona Peggotty, erano vestiti a festa. Ci fermammo davanti a una chiesa; Barkis legò il cavallo a un pilastro ed entrò nel tempio insieme con Peggotty, lasciando me ed Emily seduti sulle nostre seggioline nel calesse. I due rimasero a lungo là dentro, tanto che ebbi il tempo di dichiarare a Emily il mio amore e di darle un bacio, a cui lei, che pure da un po’ di tempo faceva un po’ la sostenuta, non si oppose. Uscirono allegri e ci rimettemmo in cammino verso la campagna. A un certo punto Barkis si voltò e, fissandomi con intenzione, mi disse, accompagnando le parole con una maliziosa strizzatina d’occhio: «Lo sai, vero, come si chiama ora Peggotty?» «Clara Peggotty!» risposi io. «No, caro Davy… Clara Peggotty Barkis» rispose il buon vetturino con aria soddisfatta, calcando l’accento sul proprio cognome. All’inizio restai un po’ confuso, ma poi capii che, dai e dai, quel brav’uomo ce l’aveva fatta a convincere Peggotty a sposarlo. Passammo una gran bella giornata; Peggotty era serena come tutti gli altri giorni e compresi che non era granché commossa dell’avvenimento perché, pur avendomi abbracciato più di una volta, non le saltò via neppure un bottone del suo vestito nuovo. Mi disse che, avendo ormai il calesse a disposizione, sarebbe venuta a

trovarmi sempre, anche in capo al mondo, che la sua casa era mia e che potevo contare su di lei per tutta la vita. Ma quello splendido mese passò presto, e quando ritornai a Blunderstone ripiombai nell’incertezza più crudele. I Murdstone non accennavano ad alcuna decisione sul mio conto e io rimanevo in casa, completamente abbandonato a me stesso. Un giorno venne a far visita al mio patrigno un signore che mi parve di riconoscere. Infatti, quando mi vide nel giardino, mi fermò ed esclamò: «Toh, guarda chi si rivede, Brooks!» «Nossignore» risposi. «Io mi chiamo David Copperfield.» «Nemmeno per sogno» ripeté l’uomo ridendo. «Tu sei Brooks di Sheffield.» Era proprio uno di quei signori che avevo visto nella trattoria dove mi aveva portato Murdstone poco tempo prima di sposare la mamma. Si chiamava Quinion. Mi interrogò su come stavo e su ciò che facevo e, quando seppe che non andavo più a scuola, si appartò in un angolo con il mio patrigno e si mise a parlare fitto fitto con lui. Da quel colloquio nacque una decisione fondamentale per il mio avvenire. Il signor Quinion, infatti, dirigeva a Londra un’azienda vinicola, nella quale il signor Murdstone aveva investito una parte del suo capitale. Fu deciso seduta stante che io andassi a lavorare in quella ditta, che aveva sede a Londra, con la mansione altamente onorifica di lavare le bottiglie e di incollarvi sopra l’etichetta. Qualche giorno dopo partivo per la capitale, verso un destino che sembrava dovermi riservare sempre maggiori dolori e umiliazioni.

Capitolo cinque Da Londra a Dover

La casa di commercio Murdstone & Grinby sorgeva sulla riva del Tamigi, nel quartiere di Blackfriars. Era un vecchio stabile lurido, sempre invaso dal fumo e semisepolto nel fango, dove grossi topi spelacchiati passeggiavano qua e là, a ogni ora del giorno, tranquilli e compassati come tanti Lord del Parlamento. Le attività commerciali della ditta erano numerose, ma la più importante consisteva nella fornitura di vini e di liquori a certi battelli che venivano a caricare merci sulla riva del fiume. Come ho già detto, la mia mansione era quella di lavare le bottiglie, di munirle di etichetta, di tapparle e di sistemarle nelle cassette per la spedizione. Per compagni di lavoro avevo due ragazzi: un certo Mike Walker, che portava sempre un grembiule straordinariamente lercio e sbrindellato, e un altro di cui non ricordo il nome vero, ma che, in virtù del fantastico pallore del volto, aveva ricevuto il soprannome di “Fecola”. Lavorando nella ditta feci una conoscenza che avrebbe avuto un certo peso nella mia vita futura. Uno dei primi giorni, mentre stavo risciacquando la centesima bottiglia del pomeriggio, il signor Quinion mi fece chiamare. Entrai nel suo ufficio e mi trovai alla presenza di un signore dall’aspetto davvero particolare. Era sui quarant’anni, tarchiato, con un testone pelato come un uovo sodo e un abito che

doveva aver conosciuto tempi migliori; in compenso sfoggiava un colletto imponente e un bastone di foggia elegante; un occhialetto appeso a un cordoncino di seta gli pendeva sul petto come una decorazione. «Copperfield» mi disse il signor Quinion presentandomi allo sconosciuto «il signor Micawber, che tu vedi, acconsente gentilmente a cederti una camera nel suo appartamento. Vedrai che ti troverai benissimo.» «Ho ricevuto una lettera dal signor Murdstone» disse con solennità lo sconosciuto «e ben volentieri vi accoglierò in casa mia, come ospite. Abito a Windsor Terrace, City Road. Poiché penso che la vostra conoscenza della babilonia londinese non sia ancora sufficiente a orientarvi… sì insomma… voglio dire, per aiutarvi a rintracciare il mio alloggio, questa sera, se non vi dispiace, verrò a prendervi io stesso.» «Grazie, signore, vi sono molto riconoscente.» «Alle otto di questa sera sarò da voi. Buongiorno.» La famiglia del signor Micawber, il mio primo padrone di casa, era una delle più amene e dignitose che io abbia avuto modo di avvicinare. Lui, sempre solenne e di alto sentire, parlava delle sue “transitorie” difficoltà economiche come di un torto che gli infliggeva la società, incapace di apprezzare le alte doti del suo spirito. La sua signora, una donna pallida e sciupata, madre di due gemelli, uno dei quali sempre attaccato al petto, non faceva che ricordare in ogni circostanza la famiglia nella quale era stata educata e che l’aveva abituata a tutte le raffinatezze proprie di un ambiente agiato. C’erano poi altri due bambini: il signorino Micawber, di quattro anni, e la signorina Micawber, di tre. La signora Micawber aveva un altissimo concetto delle qualità del marito e non dubitava minimamente che, quando gli uomini avessero imparato ad apprezzarle, tutte le loro difficoltà sarebbero finite.

Abitavano in una casa quasi priva di mobilio, con una dozzina di libri sistemati in uno scaffaletto che il signor Micawber chiamava pomposamente “la mia biblioteca”. Come vivessero non sono mai riuscito a capirlo; certo è che fin dal primo giorno la buona signora mi pregò di recarmi per lei al Monte di pietà, per impegnare qualche oggetto. Ma la cosa più strana di quei due coniugi era questa: passavano dall’abbattimento più totale all’allegria con una rapidità incredibile. Ricordo che una sera, rincasando, trovai la signora lunga distesa sul pavimento, svenuta, con i capelli scarmigliati e uno dei gemelli sul petto. Dopo averla fatta ritornare in sé con un bicchiere d’acqua, riuscii a sapere il motivo di quel mancamento: l’ufficiale giudiziario era appena venuto a operare l’ennesimo sequestro sui pochi mobili rimasti. Ma, di lì a qualche minuto, comparve il signor Micawber con un piccolo cartoccio di costolette di maiale: non vidi mai la signora tanto lieta come davanti a quella grazia di Dio. Con tutto ciò, andavo avanti un po’ confortato – e qualche volta decisamente divertito – dai casi della strana famiglia Micawber, dove la disperazione più nera si alternava alla contentezza più spensierata. Non era difficile vedere il signor Micawber piangere come una fontana su quelle che lui si ostinava a definire “le mie presenti difficoltà” e, subito dopo, udirlo intonare con brio una canzonetta in voga – aveva una voce di baritono, bella e bene impostata – e prepararsi quel punch al limone di cui era indiscusso specialista. Purtroppo il crollo, a lungo differito, arrivò. Una mattina il signor Micawber fu arrestato e trasferito nel carcere per i debitori insolventi. Fu una tragedia e io, di lì a qualche giorno, fui incaricato dalla signora di andarlo a trovare. Ricorderò sempre quella curiosa giornata. Il signor Micawber, che la prigione sembrava aver solo accresciuto in dignità, mi accolse nel modo più cordiale ed espansivo; poiché, con un altro debitore ospite

della sua stessa camera, era riuscito a procurarsi un cosciotto di montone arrosto, mi pregò di restare a pranzo con lui. Mangiammo allegramente e durante il pasto il degno personaggio non mancò di impartirmi, nel suo solito stile pomposo e fiorito, una lezione di buona amministrazione. Il principio di cui dovevo far tesoro era il seguente: a un reddito di venti sterline l’anno doveva corrispondere una spesa inferiore a quella somma; superarla anche di un solo penny voleva dire la rovina, come appunto era accaduto a lui. Quando tornai a casa per riferire la mia visita alla signora Micawber, la poverina svenne; ma poi preparò uno zabaione che ci riconfortò, mentre io le riportavo i consigli che mi aveva dato suo marito. Celebrato il processo, il signor Micawber, grazie a un accordo raggiunto con i suoi creditori, venne scarcerato. Ma l’aria di Londra cominciava ormai a farsi pesante; per di più la signora Micawber era convinta che le doti dell’ottimo consorte potessero essere meglio apprezzate e valorizzate in provincia. Contava di ottenere qualche appoggio a Plymouth, dove la famiglia della signora godeva di una certa influenza. Decisero allora di lasciare Londra e di dirigersi verso quella meta. Con la loro partenza la mia situazione di sguattero mi apparve sempre più insostenibile. Allora mi venne un’idea, che lì per lì mi sembrò disperata: mettermi alla ricerca della zia, di quella famosa, bisbetica Betsey Trotwood che conoscevo solo per il racconto, fattomi tante volte dalla mamma, della notte in cui ero nato. Dopo molte e penose esitazioni, finalmente mi decisi: avrei lasciato Londra e mi sarei impegnato a cercarla. Per avere qualche indicazione scrissi a Peggotty e, siccome non mi sarei potuto mettere in viaggio senza il becco di un quattrino, la pregai di mandarmi mezza sterlina a titolo di prestito, con l’intesa che gliel’avrei restituita non appena mi fosse stato possibile.

La cara donna non mi fece attendere a lungo: mi mandò la mezza sterlina e mi disse che mia zia abitava nei pressi di Dover, ma che non sapeva bene dove, se a Hythe, a Sandgate o a Folkestone. Mi informai e mi venne detto che queste tre località non erano lontane l’una dell’altra. Ciò non fece che rafforzare il mio proposito. Per non defraudare la ditta del salario settimanale che mi era stato anticipato al mio arrivo, attesi che venisse il sabato e, senza riscuotere quel che mi spettava per quella settimana, cercai un facchino che provvedesse a trasportarmi alla stazione il bauletto che conteneva tutti i miei averi per spedirlo a Dover; laggiù contavo di ritirarlo non appena avessi rintracciato la zia. Trovai a Blackfriars il tipo di cui avevo bisogno: un ragazzone con le gambe lunghe, che aveva un carretto tirato da un asino. «Volete farmi un piacere, signore?» gli domandai. «Quale?» «Portarmi un baule fino alla diligenza per Dover: vi darò sei pence.» «Affare fatto!» fece il ragazzone saltando sul carretto. Lo portai in camera mia, prendemmo il baule e lo caricammo sul carretto. Io avevo preparato un’etichetta con l’indirizzo, per applicarla sul coperchio. Intanto avevo tirato fuori la mia mezza sterlina per pagare e, mentre mi chinavo per attaccare l’etichetta, mi misi la moneta fra i denti. Mal me ne incolse: a un tratto un pugno formidabile mi colpì sotto il mento, la mezza sterlina mi saltò via di bocca e finì in mano al carrettiere che, come se mi avesse sorpreso a borseggiarlo, si mise a urlare a squarciagola: «Ah, vuoi dartela a gambe, eh? Te la do io, furfantello! Vieni con me, andiamo alla polizia!» «Ridatemi i miei soldi…» gemevo io, ancora sbalordito e dolorante «ridatemi i miei soldi…» «Alla polizia, alla polizia!» urlava l’altro, tirandomi per la giacca. Poi, d’improvviso, balzò sul carretto e partì all’impazzata.

Tentai di raggiungerlo, ma fu tutto inutile. Mentre quel farabutto si dileguava, io ora urtavo con la testa un passante, ora rischiavo di essere travolto da un carro, più avanti ancora andavo a sbattere contro un pilastro… In conclusione, dopo un mezzo chilometro di questo inutile inseguimento mi ritrovai solo, sulla strada di Greenwich, senza la mezza sterlina, senza il baule con le mie cose e, soprattutto, senza sapere dove sarei andato a finire. Avevo in tasca la miseria di sei soldi, che non so ancora come mi fossero rimasti. Stetti a lungo in mezzo alla strada, paralizzato dall’angoscia, senza sapere a che santo votarmi. Poi, sorretto dalla forza della disperazione, decisi di proseguire comunque il cammino: neanche per tutto l’oro del mondo sarei tornato indietro per continuare quella avvilente carriera di sguattero nella premiata casa vinicola Murdstone & Grinby. Sebbene senza speranza, continuai a camminare lungo la via di Dover e mi fermai solo quando cominciò a farsi buio. Ero giunto in una piazza, sulla strada di Kent e, mezzo sfinito, mi sedetti sullo scalino di una porta. Dopo essermi riposato una mezz’ora mi rimisi in marcia, sebbene avessi udito suonare le dieci all’orologio del municipio. Mentre procedevo, trascinandomi più che camminando, passai davanti a una botteguccia ancora aperta, nell’interno della quale vidi pendere dal soffitto un certo numero di giacche e di pantaloni vecchi, che mi fecero l’effetto di una fila di impiccati. Era la bottega di un rigattiere! Forte dell’esperienza acquisita in casa dei signori Micawber, mi venne in mente che avrei potuto vendere qualche capo dei miei pochi vestiti per ricavarne il necessario per non morire di fame. Mi rifugiai in una stradetta vicina, completamente deserta, mi tolsi il panciotto, lo piegai accuratamente ed entrai in quella bottega, su cui pendeva un’insegna mezza stinta con su scritto “Dolloby”, certo il nome del padrone. Questi mi venne incontro con la pipa in bocca e un’aria talmente sbrigativa che quasi mi tolse il fiato.

«Potrei, signore» dissi facendomi coraggio «proporvi questo panciotto?» Il signor Dolloby depose la pipa, smoccolò con le dita la candela che illuminava ben poco il locale e, dopo aver voltato e rivoltato il mio panciotto, mi chiese: «Che cosa chiedete mai per questo cencio?» «Se credete… diciotto pence.» Il signor Dolloby lo ripiegò e me lo porse dicendo: «Non più di nove pence, amico, altrimenti deruberei la mia famiglia». Ci rimasi proprio male: ero convinto che, per non derubare la sua famiglia, lui fosse deciso a derubare me. Ma che potevo farci? Se non volevo morire di fame dovevo accettare; quindi accettai i nove pence, che mi misi in tasca, e uscii pronunciando un timido «buonasera». Quella notte la passai in un fienile abbandonato e, per quanto avessi lo stomaco piuttosto leggerino, ero talmente distrutto che mi addormentai come un sasso. La mattina dopo mi alzai mezzo intirizzito, nonostante fosse estate, e mi rimisi in cammino. Non dimenticherò mai quel viaggio per strade sconosciute; vedendomi così impolverato, i passanti mi guardavano con sospetto, come se fossi stato un delinquente incallito, sia pure in erba. Continuai a camminare per tutto il giorno, pensando alle poche cose piacevoli della mia vita: ora avevo davanti la figura della mamma, ora quella di Peggotty, ora quella di Emily, ora quella dei miei compagni di Salem House. Mi rivedevo con loro nel dormitorio mentre, seduti sul mio letto, davamo fondo alle provviste comprate da Steerforth con i miei sette scellini, o alle magnifiche aragoste e ai gamberetti lessati del signor Peggotty: a quel ricordo lo stomaco vuoto mi si torceva. Per calmarlo tirai fuori di tasca un panino che avevo comprato e mi misi a sbocconcellarlo. Quando, a sera inoltrata, varcai il ponte di Rochester, ero uno straccio. Avevo percorso ventitré miglia e i piedi mi dolevano. Avevo un solo pensiero: sdraiarmi in qualche posto e chiudere gli occhi.

Mi arrampicai sopra una specie di bastione erboso, sul quale si trovava un cannone e una sentinella che andava su e giù, con il fucile in spalla; vedevo la canna profilarsi sul cielo rosso. Raggiunsi il cannone e, accanto a quel terribile ordigno, mi distesi e mi addormentai, senza che la sentinella neppure sospettasse la mia presenza. La mattina dopo fui svegliato di soprassalto da un enorme fragore. Balzai in piedi atterrito, credendo che il cannone mi fosse scoppiato addosso, e scivolai giù dal bastione. Quella specie di tuono non era altro che il rullo dei tamburi che suonavano l’adunata nella vicina caserma. Infilai un viottolo ma, prima di riprendere il cammino, feci una rapida ricognizione del mio gruzzolo: ormai mi restava solo qualche spicciolo. Finalmente, dopo sei giorni di cammino, mi trovai davanti alle nude spiagge di Dover. Ero irriconoscibile: le mie scarpe, spaventosamente impolverate, erano a pezzi; avevo il viso nero come quello di un negretto; le gambe, nei duri calzoni di fustagno, mi reggevano appena. Raccolsi le poche forze che mi restavano e mi misi a domandare ai pescatori della spiaggia se sapevano indicarmi la casa della signora Betsey Trotwood. Purtroppo tutta la mattina se ne andò in tentativi inutili: chi non ne sapeva nulla, chi non mi rispondeva neppure, chi mi prendeva in giro… Finalmente un cocchiere mi diede un po’ di speranza; quando udì il nome Trotwood aggrottò le sopracciglia e disse: «Trotwood… aspetta un po’. È una signora anziana?» «Un po’ anziana, sì» precisai. «Una tizia che va tutta impettita?» «Credo di sì…» «Porta per caso una grossa borsa e marcia come se avesse ingoiato un manico di scopa?» Mi parve poco rispettoso, ma annuii ancora, sebbene non l’avessi mai vista.

«Bene. Stai attento: lo vedi quel poggetto lassù?» e con la frusta mi indicò una collinetta poco distante. «Cerca di arrivare fin lassù, fino ai villini che sono in faccia al mare; credo che la troverai. Ma non ti darà nulla, vedrai, perciò ti regalo io un penny.» E mi porse la monetina. Lo ringraziai di cuore e, siccome ero affamatissimo, entrai in una bottega e mi comprai un panino che divorai a grandi bocconi. Intanto raggiunsi la collina che mi era stata indicata. Qui la fortuna cominciò a essermi più benigna. Entrai nella prima bottega che incontrai e domandai al padrone se sapeva indicarmi la casa nella quale abitava la signora Trotwood. Costui stava pesando un cartoccio di riso a una bella ragazza sui vent’anni la quale, quando udì il nome Trotwood, si voltò ed esclamò: «È la mia padrona! Che cosa vuoi da lei?» «Vorrei parlarle, se fosse possibile.» «Magari per chiederle l’elemosina…» fece la ragazza. «No!» risposi quasi indignato. Ma, conciato com’ero, mi guardai bene dal dirle la verità in quel locale pubblico. Intanto la ragazza mise il riso in un panierino e uscì, dicendomi che potevo seguirla. Io non me lo feci ripetere due volte e mi incamminai con lei, finché non giungemmo davanti a una villetta dall’aspetto ridente, circondata da un bel prato verde, con vialetti cosparsi di ghiaia e tutti ornati di fiori. Qui la ragazza infilò il cancello e, richiudendolo, mi disse attraverso le sbarre: «Qui abita la signora Trotwood, ora lo sai…» E si avviò di fretta dentro la casa, come per declinare ogni responsabilità riguardo alla mia comparsa. Io rimasi lì come un mendicante, smarrito, sconfortato e più incerto che mai sull’accoglienza che mi avrebbe riservato la terribile zia. Fra l’altro non mi aveva mai visto e io non avevo nessun documento per provarle che ero il figlio del defunto David Copperfield; anzi, ero così conciato che difficilmente mi avrebbe creduto. Ad accrescere la mia ansia, su un terrazzino della villa apparve un signore dai capelli grigi,

con la faccia rosea e un bel paio di pantaloni bianchi, il quale, non appena mi vide, mi fece due o tre smorfie, si mise a ridere e rientrò. Certo la servetta della zia aveva detto qualcosa in casa e quel signore era venuto a vedere chi fosse il povero mendicante che cercava la signora Trotwood. Ormai al colmo dell’avvilimento, stavo per fare marcia indietro quando vidi uscire nel giardino una vecchia signora. Aveva un cappellino legato sotto il mento da due nastri; nella destra teneva stretto un paio di guanti da giardiniere, nella sinistra impugnava un coltello e camminava diritta come un fuso. Capii al volo che si trattava di mia zia. Quando la signora mi vide alzò il coltello, lo brandì minacciosamente ed esclamò: «Vattene, qui non voglio ragazzi!» Con il coraggio della disperazione aprii il cancello, lo varcai e, poiché la signora sembrava non badarmi più, essendosi chinata in un angolo per raccogliere qualche pianta, mi avvicinai: «Signora, per favore…» Lei mi fissò burbera. «Per favore, zia» «Cooosa?» fece miss Trotwood più stupita che indignata. «Signora, sono vostro nipote.» «Oh, mio Dio!» fece la zia. E cadde a sedere sulla ghiaia del viale.

Capitolo sei La zia Betsey

«Sono David Copperfield, di Blunderstone, dove siete venuta la notte in cui sono nato. Me l’ha detto tante volte la mamma. Da quando è morta sono sempre stato infelice. Sono stato umiliato, trascurato, abbandonato a me stesso con un lavoro a cui non ero adatto. Allora sono fuggito per venire… per venirvi a trovare. Spero che avrete compassione di me.» Finito questo discorso, pronunciato trattenendo a fatica le lacrime, cominciai a piangere disperato. Per qualche istante la zia, che non si era riavuta dallo sbalordimento e che continuava a star seduta sulla ghiaia del vialetto, non si mosse da quella curiosa posizione e continuò a guardarmi. Poi, senza dire una parola, mi afferrò per il collo e mi trascinò in casa. Quando fummo in salotto aprì in fretta una credenza, afferrò alcune bottiglie e cominciò a cacciarmi in bocca qualche goccia di ciascuna. Credo che le avesse prese a caso, perché ricordo di aver sentito i sapori più svariati, dalla salsa di acciughe all’anice. Poi mi fece sedere sul sofà e mi avvolse in un vecchio scialle, mentre continuava a esclamare: «Misericordia… misericordia!» come se sparasse bordate di cannone. Alla fine la zia suonò una campanella. «Janet» disse quando apparve la cameriera «va’ a chiamare il signor Dick.»

Dopo qualche minuto vidi entrare nel salotto il signore bianco e roseo che mi aveva fatto le boccacce dal terrazzino. «Dick» lo aggredì la zia «non fate lo sciocco, perché quando volete siete pieno di saggezza! Ricordate certamente di avermi sentito parlare di David Copperfield.» «David Copperfield…» ripeté il signor Dick come un’eco. «Certamente. Sì certamente, David…» «Bene. Lo vedete questo ragazzo? È suo figlio.» «Suo figlio? Oh, sì, certo, il figlio di David!» disse il signor Dick, assentendo con grande convinzione. «Appunto!» seguitò la zia; «proprio lui. È scappato di casa. Ah, sua sorella, Betsey Trotwood Copperfield, non sarebbe scappata! Oh, no di certo!» «Dunque… voi pensate che non sarebbe scappata?» chiese il signor Dick. La zia lo fulminò con un’occhiata terribile e disse: «Oh, che Dio vi benedica e vi protegga, Dick!» disse al colmo dell’indignazione. «Ma che cosa vi salta in testa? Sarebbe scappata? Lei sarebbe vissuta con la sua madrina in questa casa e non sarebbe scappata neanche per idea. E dove sarebbe andata, Dick? Via, siate ragionevole!» «In nessun posto!» rispose convinto il signor Dick. «E allora, perché dite sciocchezze? Invece questo ragazzo è scappato e ora dovete darmi un consiglio; che cosa ne facciamo?» A questa domanda il signor Dick cominciò a grattarsi la testa. «Che cosa ne facciamo… già, che cosa… che farne del figlio di David?» «Ebbene» lo incalzò ancora la zia «ebbene, che cosa consigliate?» «Io» rispose il signor Dick con una specie di solennità «se fossi in voi… prima di tutto lo laverei.» «Dick dà sempre il consiglio giusto!» fece la zia. «Janet, scalda il bagno!»

Io guardavo la zia dal divano, dove rimanevo come un pulcino nella stoppa, e dopo tutto la trovavo simpatica. Era un po’ dura, un po’ arcigna, ma aveva un viso piuttosto bello e gli occhi, acuti e vivaci, avevano un fondo di ruvida bontà. Portava un bell’abito attillato color lavanda e sui capelli grigi un cappellino legato al collo con nastri colorati. Anche il signor Dick era simpatico, florido, con due grossi occhi sporgenti dall’espressione un po’ strana. Solo una cosa mi faceva sorridere: portava la testa curvata in un modo così curioso che mi ricordava irresistibilmente il buon Traddles del collegio di Salem House, quando aveva appena ricevuto una certa dose di scapaccioni dal signor Creakle. Anche Janet era simpatica e pulita. Era una delle tante ragazze sotto i vent’anni che la zia prendeva di quando in quando in casa per insegnar loro quanto fosse pericoloso prender marito e che rispondevano tutte con la stessa ingratitudine: sposando il garzone del fornaio. Janet era uscita a preparare il bagno, ma a un tratto la zia lanciò un urlo tremendo: «Janet, gli asini!» A quel grido la cameriera si precipitò per le scale, seguita dalla padrona di casa, come se la villa avesse preso fuoco. In effetti tre asini erano entrati nel sacro recinto del giardino, cosa che, a quanto seppi dopo, avveniva regolarmente, mandando la zia fuori della grazia di Dio. Mentre la cameriera ne scacciava due, la signora Betsey Trotwood raggiungeva il terzo, cavalcato da un ragazzotto, e lo scacciava fuori con orrore, non senza aver prima somministrato una terribile tirata di orecchie al piccolo asinaio. Calpestare il verde prato del suo giardino era l’affronto più grave che si potesse fare alla mia anziana parente. Mentre l’acqua per il bagno era a scaldare, per tre volte risuonò l’allarme; l’ultimo si risolse in una lotta che non esito a definire epica. La zia riuscì a raggiungere un altro asinaio – questa volta si trattava di un biondino

sui quindici anni – e, prima che il malcapitato potesse riaversi, gli fece sbattere tre volte la testa contro il cancello. Negli intervalli fra una battaglia e l’altra, la zia era riuscita a propinarmi a cucchiaiate una tazza di brodo; poi entrai in vasca, e quel bel bagno caldo mi ristorò tutto. Dopodiché mi sdraiai sul divano del salotto e mi addormentai profondamente. Quando mi svegliai era ora di cena. Il pasto, gustoso quanto abbondante, fu consumato con il signor Dick e con la zia che, di quando in quando, mi guardava e sbottava con l’ormai rituale: «Misericordia!» Finita la cena, la zia Betsey volle che le raccontassi la mia storia per filo e per segno e, quando ebbi finito, si abbandonò a una serie di strane considerazioni sulla condotta della mamma. «Non capisco proprio» cominciò «per quale ragione quella povera piccina si è risolta a risposarsi.» «Forse si era innamorata…» obiettò timido il signor Dick. «Innamorata? Che vuol dire? Perché doveva innamorarsi? Era un bruto: la voleva illudere e non capisco perché… La poverina aveva già avuto un marito, aveva avuto un bambino… Ah, quella notte!» Il discorso venne interrotto da una nuova irruzione di asini e nel giardino si accese l’ennesima battaglia, finché non fu notte e tutti andammo a letto. La mattina dopo, quando fui introdotto nella sala da pranzo, trovai la zia assorta in pensieri così profondi che non si era neppure accorta che l’acqua della teiera era traboccata inzuppando la tovaglia. Teneva i gomiti puntati sul tavolo e mi fissava con uno sguardo corrucciato. A un tratto mi disse un «buongiorno!» che mi parve un colpo di pistola. «Gli ho scritto!» aggiunse poi. «A chi?» chiesi timidamente. «Al tuo patrigno. Gli ho mandato una lettera con i fiocchi!» «Gli avete detto che sono qui?» «Sicuro!» «E dovrò ritornare da lui?»

«Non so. È quel che vedremo.» Mi sentii correre un brivido lungo la schiena. Piuttosto che ritornare con i Murdstone avrei fatto qualunque cosa e lo dissi piagnucolando alla zia. «Non so cosa dirti» mi rispose lei. «Almeno per ora. Vedremo. Ora fammi un piacere, va’ su dal signor Dick, portagli i miei saluti e domandagli a che punto è con il suo memoriale.» «Vado subito, zia.» «Aspetta. Suppongo che il nome “Dick” ti parrà molto corto. Bene, in effetti ha un nome più lungo, si chiama Richard Babley. Ma guardati bene dal chiamarlo così, perché lo metteresti tutto sottosopra. Suo fratello gli ha fatto molto male, e lui non può più sentire un nome che abbia qualcosa in comune con quello di suo fratello. Mi raccomando, dunque: chiamalo signor Dick!» Promisi che avrei ubbidito e andai. Lo trovai intento a scrivere su un grosso quaderno. Era tanto assorto nel suo lavoro che, prima che si accorgesse di me, ebbi modo di osservare un enorme aquilone, più alto di un uomo, appoggiato alla parete del suo studio. Appena mi vide depose la penna sorridendo e mi chiamò Febo, non so perché. «Bene» mi chiese «come va il mondo? Non dirlo a nessuno» seguitò a bassa voce «ma è un mondo pazzo, pazzo da manicomio, ragazzo mio.» E, nel dir così, estrasse una tabacchiera d’argento e fiutò una presa di tabacco. «La zia» dissi «vi manda i suoi saluti e i suoi complimenti; desidera, inoltre, sapere a che punto siete con il vostro memoriale.» «Grazie» fece il signor Dick «ricambia i saluti. In quanto al memoriale, va benino, sì… credo sia ben avviato. Solo che… vedi… c’è una data…» Si arrestò un istante volgendo gli occhi all’aquilone, poi mi chiese: «Sei stato a scuola, ragazzo mio?» «Un poco, signore.» «Allora dimmi un po’: ricordi l’anno in cui tagliarono la testa a Carlo I?» «Mi pare sia stato nel 1649.»

Il signor Dick si mise a grattarsi l’orecchio con la penna e, guardandomi con una certa curiosa preoccupazione, commentò: «Così è scritto sui libri di storia, ma io non ci credo… e senti un po’, ragazzo, che ne dici di questo aquilone?» «È bellissimo, signor Dick!» «L’ho fatto io, lo faremo volare insieme. Guarda che cosa c’è scritto sopra.» Io guardai e, nella scrittura chiara e minuta che lo ricopriva per intero, lessi qua e là il nome di Carlo I. «Ecco» proseguì il signor Dick, questa volta con aria ilare e soddisfatta. «Questo aquilone è il messaggero tra me e il mondo. Gli affido i miei pensieri e lo lancio verso il cielo; lui li porta e li diffonde. Non so dove vadano a cadere, ma lo sanno il vento, le circostanze e così via…» Rise ancora e mi raccomandò di portare i suoi complimenti alla zia. Quando ritornai giù con il messaggio del suo ospite, la zia Betsey mi chiese: «E tu, che cosa ne pensi del signor Dick?» «È un signore gentile e simpatico» risposi, ma senza troppa convinzione. Non osavo dire tutto ciò che pensavo e lei se ne accorse. «Vedi» disse «non sei sincero. Tua sorella Betsey Trotwood mi avrebbe detto tutto, liberamente.» «Se devo dire la verità, zia, mi pare che abbia le idee un po’ confuse… Insomma, credo che sia un po’ tocco.» «Ti sbagli» dichiarò perentoria la zia. «Non è pazzo per niente. Hanno voluto farlo passare per pazzo, ma è una grossa panzana. Suo fratello, sicuramente non meno pazzo di lui, voleva rinchiuderlo in manicomio. Di fronte a questa eventualità, io, che sono una sua lontana parente, intervenni e proposi di tenerlo con me. Ciò è accaduto esattamente dieci anni fa, e da allora Dick non ha mai lasciato questa casa. È una persona mite, arrendevole e molto sagace. Ha un solo problema: la data di morte di Carlo I… ma questo avviene perché lui collega la sua malattia con un

avvenimento di grande disordine, e lo racconta attraverso questa allegoria o similitudine, o quel che è. Il memoriale non è altro che la storia della sua vita e lo aiuta a tenere la mente occupata.» Poiché la zia mi pareva tanto convinta, decisi di mostrarmi convinto anch’io e così con il signor Dick diventammo subito i migliori amici del mondo. Quel pomeriggio uscimmo insieme sul prato con il maestoso aquilone e lo lanciammo nel vento; io me la godetti un sacco a vedere il signor Dick in contemplazione dei suoi pensieri che si sparpagliavano per le vie dell’etere. Il giorno dopo eravamo sul punto di metterci a tavola quando vidi la zia, che cuciva vicino alla finestra, balzar su come una palla e dare il solito allarme: «Gli asini, Janet, gli asini!» In effetti due signori, un uomo e una donna, in groppa a due asini, erano entrati nel prato antistante alla villetta. «Via, via!» strillava la zia con quanto fiato aveva in gola, agitando il pugno minacciosa. «Andate via, sfacciati! Come osate?» Io mi sentii gelare il sangue. I due nuovi arrivati, infatti, non erano altro che i Murdstone. La donna di ferro, che cavalcava il primo asino, si era fermata addirittura davanti alla casa e, senza curarsi minimamente degli strilli della zia, si guardava intorno, aggrottando le sopracciglia. «Andate via, sfacciati!» continuava a urlare la zia. Intervenni per dirle di chi si trattava, ma non ci fu verso di farla ragionare. «Non m’importa chi siano, vadano via, via!» strillava. «Janet, cacciali, mandali via!» E poiché sul prato le cose stavano prendendo una brutta piega, la signora Trotwood lasciò il lavoro e si precipitò di persona sul campo di battaglia. La scena che seguì fu piuttosto amena. Janet tirava per la briglia l’asino della signorina Murdstone e questa la tempestava di ombrellate sulla testa. Da parte sua il signor Murdstone, ritto sul suo asino, sembrava il generale Wellington sul campo di Waterloo. La zia, avendo

riconosciuto il biondino fra i piccoli scudieri della coppia, lo rincorse, lo afferrò per la giacca e lo trascinò sul prato, gridando: «La polizia! Chiamate la polizia!» Finalmente i Murdstone smontarono dall’asino, la zia rientrò in casa tutta accaldata e Janet, con i capelli arruffati, diede l’annuncio ufficiale della visita. Io ero in un mare di confusione, anche per la maniera in cui ero vestito: avevo addosso un paio di pantaloni del signor Dick, nei quali nuotavo come in una tinozza, e intorno al corpo uno scialle che mi dava un’aria di bambino in fasce. «Devo andarmene?» chiesi alla zia. «No!» fece lei in tono perentorio. «Tu rimani al tuo posto.» Poi si rivolse ai nuovi venuti: «Non sapevo a chi avessi il piacere di rivolgermi, ma io non permetto a nessuno di entrare con l’asino nel mio prato. Non tollero eccezioni». «La vostra regola è un po’ scomoda per chi non la conosce» rispose dignitoso il signor Murdstone. «Non importa, vale lo stesso.» «Signora Trotwood…» «Voi siete quel signor Murdstone che sposò la vedova del mio defunto nipote David Copperfield di Blunderstone, che abitava al Piano delle Cornacchie? Chissà poi perché “Piano delle Cornacchie”…» «Esatto: sono il vedovo di Clara Copperfield.» «Bene, sarebbe stato molto, ma molto meglio se aveste lasciato in pace quella povera piccina.» «Sono della stessa opinione» intervenne la donna di ferro «e sono d’accordo con voi che quella poveretta era proprio una bambina…» «Voi e io» rispose la zia secca secca «non corriamo il pericolo di suscitare le attenzioni di nessuno con la nostra bellezza.» «Lo credo anch’io» replicò la signorina Murdstone, ancorché di malavoglia. «Comunque sarebbe stato molto meglio che mio fratello non avesse sposato la povera Clara.»

«Siamo d’accordo. Janet, porta i miei saluti al signor Dick e pregalo di venir giù un momento.» Quando Dick fu arrivato, la zia fece le presentazioni: «Il signor Dick, un vecchio e intimo amico, che reputo il mio miglior consigliere». Il signor Dick fece un lieve inchino e quindi rimase ad ascoltare. «Signora Trotwood» cominciò Murdstone «appena ricevuta la vostra lettera ho creduto mio dovere venire di persona, anche per rispetto nei vostri confronti.» «Non preoccupatevi per me» replicò brusca la zia. «Questo disgraziato, che è fuggito dal suo posto di lavoro…» «…e che ha un aspetto orribile e scandaloso…» aggiunse la donna di ferro. «Jane Murdstone, abbi la bontà di non interrompermi. Questo ragazzo sciagurato, dunque, è stato sempre una fonte di guai e di preoccupazioni per me e per la mia povera moglie. È testardo, ribelle e vagabondo… insomma, un cattivo elemento, e Jane Murdstone, mia sorella, è del mio stesso parere.» «Esattamente» confermò la donna di ferro. «Io e mia sorella» continuò Murdstone «abbiamo fatto di tutto per avviarlo sulla buona strada. L’avevamo inserito in un commercio rispettabile…» «Già!» lo interruppe la zia. «E se fosse stato vostro figlio ce lo avreste inserito, in quel “commercio rispettabile” di lavabottiglie?» «Sono certa» intervenne Jane Murdstone «che il figlio di mio fratello avrebbe avuto un carattere ben diverso.» Per tutta risposta la zia sbuffò minacciosa e il signor Dick, che continuava a scuotere e a far tintinnare certi spiccioli che aveva in tasca, disse con la sua voce calma e, come sempre, un po’ solenne: «Scusate, signore, il bambino nato dal vostro matrimonio è morto con vostra moglie?» «Morto con lei» mormorò Murdstone.

«E la piccola proprietà del padre di questo ragazzo, la casa delle Cornacchie senza cornacchie, è del ragazzo?» «La casa era di mia moglie, lasciatale senza condizioni dal primo marito.» «Dio del cielo!» esclamò irritata la zia. «Com’era possibile che David Copperfield pensasse a una condizione? È sempre vissuto nelle nuvole… Ma quando quella povera piccina si risposò – non l’avesse mai fatto! – pensò a dare qualche disposizione in favore di suo figlio?» «Mia moglie» disse Murdstone «amava il suo secondo marito.» «Vostra moglie» interruppe la zia «era la più ingenua, la più innocente e la più infelice creatura di questo mondo, ecco quello che era. Ma veniamo al sodo: che cos’altro avete da dire?» «Semplicemente questo» rispose Murdstone. «Sono venuto a riprendermi il ragazzo, per educarlo nel modo che ritengo più conveniente. Se siete d’accordo, bene, altrimenti mi disinteresserò completamente di lui, e sarete voi a provvedere al suo avvenire.» La zia si rivolse a me e mi chiese: «Che ne dici, Davy, vuoi ritornare col signor Murdstone?» «No, zia» risposi pieno di gioia. «Preferirei morire!» «E voi, Dick, che ne pensate? Che cosa dobbiamo fare?» «Prendere subito a questo ragazzo la misura per un vestito» rispose il signor Dick con la calma più assoluta. «Bravo Dick!» esclamò la zia. «Datemi la mano! L’ho sempre detto io che siete un pozzo di saggezza. E voi, signor Murdstone, potete andarvene. Non credo a una parola di quel che avete detto su Davy e sull’eredità.» Il signor Murdstone impallidì. «Signora Trotwood, se foste un uomo…» «Uh, che sciocchezza!» fece la zia. «Non dite altro! Via, via, andatevene!» «Ma è davvero inaudito» esclamò indignata la donna di ferro. «Che educazione sopraffina!»

La zia non si degnò neanche di guardarla. «Dick, voi sarete insieme a me il tutore di questo ragazzo.» «Sarò felicissimo di diventare il tutore del figlio di David» disse con dignità il signor Dick, dando un’altra scrollatina agli spiccioli che aveva in tasca. Vedendo che non c’era più nulla da fare, i due Murdstone si presero sottobraccio e uscirono impettiti dal cancello e…, a Dio piacendo, dalla mia vita.

Capitolo sette In casa Wickfield

Liquidata la coppia Murdstone nel modo che ho appena descritto e assuntasi l’impegno della mia educazione, la zia Betsey prese sul mio conto importanti decisioni. La prima fu quella di modificare il mio cognome. Tutti sanno che, se invece di me fosse venuta al mondo mia sorella Betsey, la zia l’avrebbe presa con sé e l’avrebbe chiamata Betsey Trotwood Copperfield. Ma poiché l’aveva delusa rimanendo nel regno delle nuvole e al suo posto ero nato io, ora che diventavo grandicello dovevo subire la stessa sorte. Siccome la zia non faceva nulla senza prima consultare il signor Dick, una sera dopo cena questi fu interpellato e, dopo una breve consultazione, fu deciso che al mio cognome di famiglia sarebbe stato aggiunto quello della zia. Naturalmente lei non era abituata a stare in coda a nessuno: dispose quindi che il suo cognome precedesse quello di mio padre, per cui venni a chiamarmi David Trotwood Copperfield. Anzi, in casa, invece che col diminutivo di Davy, che mi era tanto caro perché mi ricordava la mamma e la buona Peggotty, mi soprannominarono Trot. Dopo questa, la zia prese un’altra decisione importante: stabilì di mandarmi a Canterbury, cittadina non lontana da casa, per farmi frequentare un corso regolare in una scuola. Difatti, una mattina, lei e io salimmo sopra una vettura tirata da un bel cavallino grigio, ci

caricammo sopra le mie valigie e prendemmo la via di Dover. La zia, che professava la più olimpica indifferenza per l’opinione pubblica, afferrò le redini del cavallino e lo guidò personalmente per le vie di Dover, con una maestria consumata e un polso quasi militare. Sembrava che in vita sua non avesse fatto altro che guidar carrozze. Giunti a Canterbury ci fermammo davanti a una vecchia casa, con le finestre lunghe e basse munite di inferriate, ma molto pulita, tanto che il martello di ottone sulla porta bassa e ad arco, lucidato di fresco, brillava come una stella. La persona che ci venne incontro per prima in quella casa non mi sembrò simpatica. Era un ragazzo pallido, con i capelli rossi, che non aveva più di quindici anni ma che ne dimostrava quasi venti in virtù di una faccia sfiorita e ambigua. La completa mancanza di ciglia e di sopracciglia, gli occhi bovini di un castano rossiccio, le mani inverosimilmente lunghe, le spalle alte e spioventi e un vestito nero abbottonato sino al collo gli davano un’aria tra il sagrestano e il cameriere di un ecclesiastico. Udii che la zia lo chiamava Uriah Heep. «Il signor Wickfield è in casa?» chiese la zia. «È in casa, signora» rispose Uriah Heep con fare untuoso. «Accomodatevi.» E ci indicò un salotto rettangolare munito di caminetto. Entrammo e qualche minuto dopo giunse il signor Wickfield, un bel vecchio grigio, massiccio, con il viso bonario e intelligente, ma un po’ assorto e direi quasi tormentato. «Buongiorno, signora Betsey Trotwood» disse avanzando verso la zia e porgendole la mano. «Accomodatevi. Vi chiedo scusa, ero un momento occupato. Voi sapete di che si tratta… Ma ditemi: in che cosa posso esservi utile?» Il signor Wickfield era avvocato e amministrava, insieme al patrimonio di un ricco signore di campagna, anche quello, modesto, della zia; perciò credeva che la sua fosse una visita d’affari. Ma la zia chiarì subito che quella supposizione era errata.

«Meglio così, signora» disse Wickfield. «E allora, come posso esservi utile?» «Sono venuta per presentarvi mio nipote, che vedete qui con me.» «Oh, non sapevo che aveste un nipote…» «Veramente è un pronipote.» «Non sapevo che aveste un pronipote…» «Bene, l’ho adottato» continuò la zia quasi seccata per quelle continue interruzioni. «Sono venuta per metterlo qui in qualche scuola e vorrei un consiglio. Qual è la scuola migliore di Canterbury?» «Ecco, signora» disse Wickfield «nella migliore vostro nipote potrebbe essere ammesso soltanto come esterno.» «Andrà come esterno e alloggerà altrove. Riuscirò a trovargli una stanza?» «Vedremo di trovargliela» rispose Wickfield. «Facciamo così: voi e io andiamo a visitare la scuola, che vorrei farvi vedere di persona, e il ragazzo lo lasceremo qua.» Sul momento la zia non parve del tutto convinta della necessità di questa ultima proposta, ma poi si decise e uscì con il signor Wickfield, lasciandomi nel grande salotto. Quando ritornarono la zia era contrariata. Non era riuscita a trovare in tutta la città una stanzetta per me. Ma il signor Wickfield la calmò. «Non prendetevela, signora Trotwood» le disse. «Per ora il ragazzo lo terrò io, in casa mia. Qui l’ambiente è calmo e adatto allo studio.» «Vi ringrazio dell’offerta» fece la zia «ma…» «“Ma” niente!» la interruppe Wickfield. «Lo so quel che volete dire. Non intendo farvi un favore; se volete, potete pagarmi l’incomodo con una modesta somma che converremo. Va bene?» «Così va meglio» disse la zia «e in più vi sono grata lo stesso.» «Allora andiamo a vedere la mia padroncina; la presenterò a vostro nipote.»

Imboccammo un’ampia scala con balaustra e, giunti al primo piano, il signor Wickfield bussò a una porta. Venne ad aprirci una fanciulla che doveva avere la mia età. Appena vide il signor Wickfield lo baciò su una guancia: era sua figlia, la buona, angelica Agnes Wickfield che, dopo mia madre, rimane nel mio ricordo come il secondo angelo tutelare della mia vita. Il suo volto somigliava in modo incredibile a un grande ritratto di una dama che avevo visto in sala d’aspetto; era dolce, calmo, sereno. Al fianco la fanciulla portava un panierino per tenere le chiavi e sembrava la padrona di casa più tranquilla e gentile che quella dimora potesse mai avere. Quando le fui presentato mi diede la mano; poi volle che andassimo tutti a visitare la stanza che mi sarebbe stata assegnata. Fatto questo sopralluogo la zia ripartì e io rimasi con i miei nuovi ospiti. All’indomani, dopo che ebbi consumato una buona colazione, il signor Wickfield mi accompagnò nella mia nuova scuola, in casa di un certo dottor Strong, che ne era il direttore. Nel venirmi incontro mi ricordò un vecchio cavallo cieco che avevo visto avanzare a tentoni e inciampare tra le tombe nel cimitero di Blunderstone. Era però un uomo colto e affabile e aveva una moglie molto giovane e bella, di nome Anne. Seppi in seguito che nel tempo libero il dottor Strong si occupava di ricerche di etimologia greca, con lo scopo di compilare un dizionario. Quella mattina mi accompagnò subito per presentarmi alla scolaresca. «C’è un nuovo allievo, signori!» disse entrando nella grande aula. «David Trotwood Copperfield. Accoglietelo con amicizia.» Uno degli scolari, di nome Adams, uscì dal banco e mi diede il benvenuto; poi mi presentò agli altri alunni e ai professori. Così feci l’ingresso ufficiale nella mia nuova scuola, accolto con cortese curiosità dai miei compagni, che non erano più i ragazzi di Salem House, ma nemmeno quelli della premiata ditta Murdstone & Grinby, con Walker e il povero Fecola. Da parte mia mi sforzai di essere

gentile e affabile con tutti, sebbene non riuscissi a vincere del tutto un certo timido ritegno nei loro confronti. Ma le mie preoccupazioni svanivano la sera, quando ritornavo a casa del signor Wickfield. Qui, sotto la guida della gentile Agnes, regnavano la calma e la serenità più assolute; quella ragazzina pensava a tutto, badava a tutto: sembrava una donna matura. Suo padre l’adorava, lei amava lui e gli prestava le attenzioni più squisite. La sera dopo cena preparava due bottiglie di vino e un bicchiere che collocava davanti a suo padre. Mentre il dottor Wickfield centellinava il suo vino, Agnes sedeva al piano e suonava o giocava con me a dama, tenendomi la più gentile compagnia. Questa vita ordinata e serena mi piacque tanto che scrissi alla zia per comunicarle il mio entusiasmo. In quella casa solo una persona mi provocava un senso di fastidio e quasi di repulsione istintiva: Uriah Heep. Non riuscivo, non dico a familiarizzare con lui, ma neppure a stargli insieme un momento senza cadere preda di una specie di inquietudine. Di lui mi ripugnava anche il fisico: quelle mani così lunghe e sempre umide, che pareva lasciassero appiccicata una specie di bava su quanto toccavano; quegli occhi sfuggenti e sempre in cerca di qualcosa; quei modi untuosi e falsamente gentili. Seppi che era una persona di origine molto umile: la sua casa era misera, sua madre una donnetta da nulla, suo padre, che un tempo faceva il becchino, era morto. Era da quasi cinque anni nello studio del signor Wickfield e non smetteva mai di ricamare sulla gratitudine che provava per il vecchio avvocato. Insomma, quel giovane non mi piaceva. Ma con Uriah Heep avevo poco a che fare, perciò la mia avversione non ebbe per me grande importanza. Molto più rilevante mi parve invece il fatto di riallacciare i rapporti con le persone care, a cui non avevo più scritto dopo la fuga a Dover; poiché per me la più cara di tutte era Peggotty, le scrissi non appena cominciai a frequentare la scuola del dottor Strong. La brava Peggotty mi rispose subito; e che lettera fu la sua! Non sapendo esprimere con la penna l’ansia, lo stupore e il piacere che

aveva provato per i tanti pericoli da me affrontati e felicemente superati, nonché per le avventure del mio viaggio e per la sistemazione del momento, riempì quattro pagine di punti esclamativi, di frasi lasciate a metà e di scarabocchi che volevano significare gioia o meraviglia. Io li compresi benissimo, soprattutto perché, di quando in quando, sulla carta si vedeva una macchia particolare: una lacrima! Della zia parlava poco; tuttavia era spiacente di averla giudicata male, dato che ora si era mostrata tanto generosa con me. La sua lettera conteneva anche una notizia davvero dolorosa: i Murdstone avevano venduto tutti i mobili di casa mia a Blunderstone e se n’erano andati lasciandola chiusa e vuota. Piansi nel leggere ciò. La rivedevo, la mia cara vecchia casetta del Pian delle Cornacchie, com’era quando ci viveva la mamma, con i grandi olmi, il gallo che cantava sulla pertica, i vecchi nidi, e tutto aveva per me un’anima e una voce dolce e familiare. Ora me la vedevo davanti tutta sbarrata, con le finestre battute dalla pioggia, con le erbacce che crescevano alte in giardino e le foglie morte che ne ingombravano i vialetti; con le stanze buie colme dei miei ricordi e dell’eco dei miei strilli infantili: di fronte a questa visione il cuore non mi reggeva. Della sua nuova vita di sposa Peggotty mi diceva che Barkis era un uomo eccellente, un tantino spilorcio se si vuole, ma un ottimo marito; mi parlava poi di suo fratello e di suo nipote Ham, che mi mandavano i loro saluti, e di Emily, che ormai era una signorina e che mi ricordava sempre. Insomma, la lettera di Peggotty mi fece un gran piacere. Ogni tanto la zia veniva a trovarmi, giungendo sempre alle ore più impensate. Credo che agisse in questo modo per controllare come mi comportavo; ma io studiavo, frequentavo regolarmente e i miei voti erano tali che la zia Betsey si convinse e pian piano diradò le visite, concedendomi piena fiducia. Un’altra fonte di svago erano per me gli incontri col signor Dick, che veniva ogni quindici giorni, sempre il mercoledì, e rimaneva con

me fino al giovedì sera. Si portava dietro una cartella contenente il manoscritto del suo diario, che non andava avanti per via di quella benedetta testa di Carlo I. Quando mi vedeva mi faceva mille feste: si informava dei miei studi e poi mi si chinava sull’orecchio, come per farmi una confidenza segretissima, e mi sussurrava: «Trot, non dirlo a nessuno ma… la tua zia Betsey Trotwood è la donna più straordinaria dell’orbe terracqueo… ma… ssst… non dirlo a nessuno!» Pareva geloso della soddisfazione che gli procurava questa scoperta: non voleva che altri ne godessero. Poi mi lasciava ed entrava zitto zitto in una pasticceria per comprarsi uno scellino di panpepato, di cui era ghiottissimo. Se avesse potuto ne avrebbe comprato mezzo chilo per volta, ma la zia, che lo controllava in tutte le spese, gli aveva aperto un conto in quella pasticceria, a patto che non consumasse più di uno scellino di panpepato per volta. L’angelico signor Dick non protestava, tutto contento di poter far tintinnare i soldi che aveva nelle tasche, anche se non poteva spenderli. Un giorno il caro Dick mi fece una confessione che mi turbò. «Trot» mi disse in gran segreto «tu sai chi è quell’uomo che spaventa la signora Trotwood?» «Un uomo che spaventa la zia?» chiesi perplesso. «Appunto. Io credevo che nessuno fosse capace di spaventarla, perché… non dirlo a nessuno, Trot… la signora Trotwood è una donna straordinaria. Eppure, ogni tanto un uomo appare come un fantasma e la fa tremare. La prima volta che si fece vedere fu… aspetta… era… il 1649, l’anno in cui tagliarono la testa a Carlo I. Non è così?» Il signor Dick si mise un dito in bocca e diventò pensieroso. Io confermai la data. «Non so come possa essere, Trot… io non sono poi così vecchio…» «E quell’uomo comparve in quell’anno?» chiesi io. «Credo di sì…» fece il signor Dick triste e confuso «ma non riesco a capire. Mi pare di essere sicuro che quell’uomo si fece vedere per

la prima volta proprio nell’anno in cui nella mia testa entrò la confusione che Carlo I aveva nella sua prima che gliela tagliassero. Fu dopo il tè. Io passeggiavo con tua zia… era già buio… e quell’uomo spuntò vicino alla casa.» «Passeggiava su e giù?» domandai. «Se passeggiava su e giù? Un momento, lasciami pensare. No… non mi ricordo… Non passeggiava… no… non passeggiava.» «E che faceva, allora?» «Aspetta. Non c’era affatto, lui; ma a un certo momento le sbucò alle spalle e le sussurrò qualcosa. Allora la signora Trotwood si voltò e quando lo vide mi cadde fra le braccia, svenuta!» «E lui?» «Lui… ecco, lui sparì, sotto terra credo, e non lo vidi più. È una cosa straordinaria, Trot.» «Da allora si nascose?» «Credo si sia nascosto sotto terra, ti dico. Ma, ieri sera, ecco che è ricomparso. Tua zia rabbrividisce, si afferra alla palizzata vicina, piange e poi… poi gli si avvicina e gli dà del denaro.» «Era un mendicante, allora?» chiesi di nuovo io. «No, no» fece il signor Dick scuotendo amaramente la testa. «Ti assicuro, Trot, non era un mendicante, assolutamente… non è un mendicante.» Io rimasi molto colpito dal suo racconto; credetti che quell’uomo fosse qualcuno che tentava di allontanare il signor Dick dalla casa della zia e mi nacque il sospetto che Dick potesse avere delle noie e non venir più a visitarmi. Invece continuò regolarmente a farsi vedere ogni mercoledì e a tenermi la più piacevole compagnia. Lo presentai ai miei compagni e al dottor Strong e tutti impararono ad amarlo per la sua mite bontà e per la sua ingegnosità: sapeva tagliare le arance in mille modi diversi, riusciva a fare una barchetta con qualsiasi pezzo di carta, intagliava i pezzi degli scacchi nell’osso di una costoletta e con la paglia foggiava gli oggetti più impensati.

Dick conobbe ben presto la dolce Agnes e, poiché veniva spesso a farle visita a casa, ebbe modo di vedere anche Uriah Heep. Un giorno quest’ultimo mi rimproverò di non avere ancora mantenuto la promessa, che mi aveva estorto con mille insistenze, di far visita a sua madre; così, sentito il parere del signor Wickfield, decisi di accettare l’invito e mi recai a casa di Uriah, un vero tugurio, e per di più tenuto malissimo. La madre sembrava il ritratto del figlio e mostrava per lui un grande affetto. Mentre bevevamo il tè la conversazione scivolò su questioni personali, e Uriah e la madre riuscirono con una certa abilità a cavarmi di bocca notizie su Agnes e sul signor Wickfield. Non so come avrei rimediato al crescente disagio che provavo di fronte a quel mal dissimulato interrogatorio, se non fosse accaduto un fatto tanto imprevisto quanto curioso: qualcuno che passava davanti alla porta, rimasta semiaperta, sbirciò e mi riconobbe. Era il signor Micawber! Era capitato lì nel tentativo di trovare “un’occupazione degna del suo talento”, come avrebbe sostenuto la moglie. Questa volta il genere merceologico era il carbone. «Copperfield, mio caro Copperfield!» disse il signor Micawber porgendomi la mano. «Mia moglie sarà così felice di rivedervi!» «Mi fa sempre molto piacere incontrare dei cari amici» dissi, ancora stupito dall’inaspettato incontro e ansioso di liberarmi della presenza degli Heep. «Perché non facciamo una sorpresa alla signora?» proposi. «Ne sarà lietissima!» rispose. Erano alloggiati in una piccola locanda non lontano da lì. Il signor Micawber mi portò dalla signora e poi ci lasciò soli per andare a controllare le offerte di lavoro sul giornale. La signora Micawber mi spiegò che a Plymouth non c’era stato modo di trovare un’occupazione per il marito e che i suoi parenti si erano dimostrati meno disponibili del previsto. Su suggerimento di altri suoi parenti erano venuti lì a Canterbury per studiare le prospettive di trasporto e

di commercio del carbone sul fiume Medway. Purtroppo c’era un ostacolo insormontabile: insieme al talento era necessario il capitale; e su questo fronte le condizioni non esistevano davvero… Quella sera stessa, mentre ero affacciato alla finestra, vidi camminare sottobraccio Uriah e il signor Micawber. La mia sorpresa era destinata a crescere ancora di più il giorno seguente, quando partecipai al pranzo dei signori Micawber. Fra gli invitati c’era anche Uriah, che sembrava godere della stima del signor Micawber. L’allegria di quella sera mi fece dimenticare la loro difficile situazione; ma, secondo il solito copione, la mattina seguente ricevetti una lettera in cui il signor Micawber mi informava della sua partenza e dell’impossibilità, “allo stato presente delle cose”, di onorare la cambiale con cui aveva pagato la pensione. Un’altra bancarotta era imminente.

Capitolo otto Ingresso nella vita

La mia vita di studente a Canterbury continuava tranquilla, sotto l’influenza benefica della signorina Agnes, che sempre più diventava per me un’amica, una consigliera e una sorella. I miei ricordi di quel tempo sono dolci e sereni. Le giornate scorrevano silenziose traghettandomi, senza che me ne accorgessi, dall’infanzia alla gioventù. A mano a mano che procedevo negli studi conoscevo nuove persone, facevo nuove amicizie, frequentavo la scuola di ballo e negli studi mi facevo onore, tanto che un giorno il dottor Strong, parlando di me in pubblico, mi definì “una splendida promessa”. La notizia di questo apprezzamento giunse alla zia, la quale, al colmo dell’entusiasmo, mi spedì d’urgenza il signor Dick, mandandomi in regalo addirittura una ghinea. Da parte sua il signor Dick era così contento che si era perfino dimenticato della testa di Carlo I. Ma ecco che spunta un’ombra in mezzo a questi ricordi piacevoli. Chi è? È un giovane macellaio per il quale, a un certo punto, mi prese un’invincibile antipatia. Era un ragazzone robusto e forte come un toro che dava sfoggio del suo vigore e faceva lo spaccone con tutti i giovani della città, ma che si accaniva soprattutto con gli studenti della scuola del dottor Strong.

«Bei damerini» diceva il macellaio «che vanno in giro a darsi un sacco di arie… Qualche giorno ne prendo uno e lo rimpinzo di ceffoni. Ma quello che mi fa prudere le mani più di tutti è il signorino Trotwood… ah, che gusto potergli spianare quel musetto da ragazzina!» Per un po’ riuscii a resistere a quelle provocazioni; poi non ce la feci più e decisi di affrontare l’energumeno in una specie di duello rusticano, costasse quel che costasse. Lo scontro avvenne una sera d’estate, in un angolo di verde circondato da un muro. Io ero accompagnato, secondo le regole della cavalleria, da una guardia scelta dei miei compagni, mentre il macellaio aveva come testimoni, arbitri e spettatori, altri due apprendisti macellai, il garzone di un vinaio e uno spazzacamino. Misurammo il terreno, ci togliemmo la giacca e, stabilite le regole, il duello incominciò. Fu il macellaio ad accendere per primo i fuochi d’artificio, dieci abbaglianti candele sul mio ciglio destro. Io barcollavo: vedevo il muro che andava e veniva, la terra sotto i piedi mi sembrava sapone, l’orizzonte oscillava. Mi ripresi, mi sbucciai le giunture contro i denti del mio avversario e alla fine precipitai con lui in un groviglio in cui non distinguevo più bene le mie gambe dalle sue. Io picchiavo, lui picchiava; ci rotolammo sull’erba ansimando, urlando, scorticandoci a vicenda. Finalmente vidi in una nebbia il mio avversario rialzarsi, scuotersi tutto baldanzoso – nonostante avesse un filo di sangue che gli colava sul mento – e lasciarmi per terra, mentre i suoi compagnoni si congratulavano con lui. Da ciò capii amaramente di essere stato sconfitto e ritornai a casa piuttosto malconcio. Quando mi vide, la povera, cara Agnes si spaventò a morte. Ma non mostrò di disprezzare il mio spirito cavalleresco; dopo avermi lavato e disinfettato il viso mi curò amorevolmente per tre giorni e, per farmi passare il tempo, mi lesse alcune belle pagine dalle Vite di Plutarco.

Questo, comunque, doveva essere solo il primo round della mia gara pugilistica con il giovane macellaio. Di lì a qualche mese, infatti, gli lanciai con incredibile audacia una seconda sfida regolare e, dopo uno scontro che dir movimentato è poco, lo lasciai sul terreno, intento a sputarsi un dente sul palmo della mano. E così la partita finì in un sacrosanto pareggio. Alla fine del mio diciassettesimo anno terminai i corsi, conseguendo la licenza con onore e con molte lodi del dottor Strong. Sorse allora, per me come per la zia, il problema della scelta di una professione. Non avevo ancora nessuna inclinazione particolare, ma se avessi dovuto decidere da solo avrei abbracciato la carriera del marinaio, tanto ero ansioso di lanciarmi nel vasto mondo. Il signor Dick, interpellato dalla zia, sprofondò in una lunga meditazione, al termine della quale se ne uscì con una proposta che mise a repentaglio la sua fama di uomo sagace e saggio di cui godeva presso la signora Trotwood: in una parola, mi propose di fare il calderaio. Finalmente la zia mi sottopose un’idea che, oltre a essere straordinariamente felice, mi fece balzare dalla gioia. «Trot» mi disse quella donna eccellente «mi accorgo che non è affatto facile prendere una decisione sul tuo avvenire. Sei ancora un ragazzo senza un minimo di esperienza ed è bene che ti muova un poco per conoscere il mondo. Ho pensato di metterti a disposizione una certa somma e di lasciarti libero per un paio di mesi. Partirai… andrai a Yarmouth, se credi, per rivedere quella tua vecchia cameriera con il nome di gallina. Poi andrai a Londra, visiterai i tuoi vecchi compagni di scuola, conoscerai gente nuova: insomma, fa’ quel che preferisci per arricchire la tua esperienza. Vedrai che in questo modo ti orienterai meglio sulla carriera da intraprendere. Intanto ci penserò anch’io, assistita da Dick, e al tuo ritorno decideremo.»

Al colmo dell’entusiasmo ringraziai la zia, feci i bagagli e, intascata la discreta sommetta messami generosamente a disposizione, mi congedai dalla mia famiglia adottiva. Nel momento di accomiatarmi l’impareggiabile zia Betsey mi impartì le sue istruzioni, per le quali sento ancora un’infinita gratitudine. «Trot» mi disse «va’, divertiti, osserva, studia gli uomini e impara a essere sempre più onesto e anche accorto. Ma, soprattutto, ti raccomando una cosa: in qualsiasi circostanza cerca di essere un uomo di carattere, con un tuo pensiero, una tua capacità di decidere da solo, senza farti influenzare dal primo venuto. Tuo padre era un uomo onesto, tua madre un angelo; purtroppo a entrambi mancava quella fermezza senza la quale, nella vita, si è in balia degli altri. Questo ti raccomando, figlio mio, ed è per questo che ti mando solo, perché impari a regolarti da te stesso.» La ringraziai ancora, l’abbracciai insieme al signor Dick e partii per Canterbury dove, per prima cosa, mi recai dal dottor Wickfield per salutare lui e Agnes. Quando mi vide, la mia cara amica mi accolse con l’affetto consueto e mi disse che, da quando avevo lasciato la mia stanza, la casa non sembrava più la stessa. «Anch’io» risposi «mi sento un altro da quando non ho più voi per consigliarmi. Vorrei potervi consultare spesso, durante il viaggio.» «Non esagerate!» esclamò Agnes con il suo bel sorriso aperto. «Ma se di quando in quando mi manderete qualche vostra notizia mi farete molto piacere: avrò la prova che vi ricordate ancora della vostra stanzetta di Canterbury e un pochino anche di me e di papà. Anzi, a proposito, Trot, voglio chiedervi una cosa: non vi siete accorto che negli ultimi tempi papà è molto cambiato?» Rimasi un po’ perplesso ed esitai prima di rispondere; ma lei se ne accorse, comprese il motivo della mia esitazione e gli occhi le si riempirono di lacrime. «Ecco, Agnes» dissi «non posso non essere sincero con voi. Da tempo mi ero accorto di qualcosa, ma non avevo mai osato

parlarvene perché so quanto lo amate. Credo, Agnes, che l’abitudine di bere la sera gli faccia male alla salute. È depresso, ha parecchi vuoti di memoria, gli tremano un po’ le mani e si emoziona per un nonnulla. E il peggio è che, quando si trova in questo stato, Uriah comincia ad assillarlo di continuo con il lavoro; allora si sente inadeguato ai suoi compiti e cade in una depressione ancora più profonda. Vi confesso di averlo visto piangere più di una volta con la testa china sulla scrivania.» «È vero…» mormorò Agnes «e anche la sua professione ne risente. Sono tanto preoccupata, Trot!» In quel momento la nostra conversazione venne interrotta proprio dall’arrivo del signor Wickfield. Agnes gli andò incontro e lo abbracciò; poi mi lanciò uno sguardo tenero come una preghiera, perché non facessi trapelare il minimo indizio di ciò che le avevo confessato. Anche il padre di Agnes mi fece molte feste e volle portarmi a salutare il mio vecchio professore, il dottor Strong. Compiuto questo dovere mi congedai dai miei amici di Canterbury e salii su una diligenza che partiva per Londra. In quella città, che l’ultima volta mi aveva visto in ben altre condizioni e nello stato d’animo che il lettore ricorda, feci un incontro piacevolissimo. Dopo aver preso alloggio all’albergo della Croce d’Oro, cenai e poi mi recai a teatro per assistere al Giulio Cesare di Shakespeare. Al mio ritorno all’albergo, mentre attraversavo il salone per avviarmi verso la mia camera, scorsi, seduto a un tavolo, un giovane di qualche anno più grande di me. Era bellissimo e vestiva con un’eleganza un po’ trasandata che non mi riusciva nuova. “Possibile?” mi dissi fissandolo con attenzione. “Ma sì, è proprio lui!” E lo avvicinai pieno di gioia. «Steerforth, caro Steerforth, non mi riconosci?» domandai. Lui mi guardò senza scomporsi, ma in un primo tempo non mi riconobbe. Poi scattò in piedi. «Oh, buon Dio» esclamò «tu sei il piccolo Copperfield!»

«Sono proprio io e non sono mai stato tanto contento come ora nel rivederti.» «Anch’io sono contento! Come mai sei qui?» «Sono giunto questa mattina da Canterbury, in viaggio di piacere. Una mia zia mi ha adottato e ho appena finito gli studi. E tu che ci fai a Londra?» «Be’, sono qualcosa come uno studente di Oxford, dove vado di quando in quando per fare atto di presenza. Ora sono in viaggio per tornare da mia madre. Sono stato a teatro al Covent Garden…» «Sono andato anch’io a quel teatro!» lo interruppi. «E ho ancora la testa piena di quel magnifico spettacolo.» Steerforth si mise a ridere. «Caro il mio Copperfield, sei proprio una margheritina di prato. Non ho mai visto in vita mia una rappresentazione più penosa. Ehi, voi» disse rivolto al cameriere «ditemi un po’, dove avete messo il mio amico Copperfield?» «Alla numero quarantaquattro, signore.» «Ah, sì?» fece risentito Steerforth. «E come avete osato mettere il mio amico in quella topaia sopra la stalla? Trovategli subito una camera vicino alla mia!» Il cameriere si scusò e mi diede subito un’altra camera vicina a quella del mio amico. Dopo aver chiacchierato insieme per un po’ andammo a dormire, con l’intesa che il giorno dopo l’avrei accompagnato a casa di sua madre, a Highgate, per rimanere con lui qualche giorno e per visitare Londra sotto la sua guida. La casa di Steerforth era una vecchia dimora signorile; dalle finestre si vedeva in lontananza tutta la città, velata da vapori che di quando in quando venivano squarciati da un palpitare di luci. La madre del mio amico, sebbene non più giovane, era ancora bella, piena di dignità e di finezza; ma era talmente entusiasta della bellezza, dello spirito, del carattere e dell’energia di suo figlio che lo riteneva al di sopra di tutti gli altri ragazzi della sua età. Poiché Steerforth le aveva già parlato di me quando eravamo in collegio, la signora mi trattò con grande gentilezza. «So» mi disse

«che eravate molto amico di mio figlio e che quando l’avete rivisto, l’altra sera, vi siete commosso. La cosa non mi meraviglia, perché mio figlio affascina chiunque gli sta vicino; non si può non amarlo, date le sue qualità.» «È vero, signora» confermai «Steerforth è unico al mondo!» «E tu, partendo da qui» mi chiese il mio amico «dove hai deciso di andare?» «Vado a Yarmouth, per rivedere la mia buona cameriera e suo fratello, il pescatore Peggotty.» «Fai bene, margheritina! Tu andrai sempre d’accordo con la gente semplice, perché sei candido come un giglio…» Rimasi in casa del mio amico quasi una settimana; poi, insieme con lui, che nel frattempo aveva deciso di accompagnarmi, partimmo per Yarmouth. Mi è davvero difficile descrivere il tumulto delle emozioni che provai quando giunsi in quella cittadina, piena di alcuni fra i più cari ricordi della mia fanciullezza e di quell’odore forte di mare che mi ripresentava alla mente l’immagine della barca del pescatore Peggotty, di Emily e del buon Ham. Lì abitava anche la mia vecchia Peggotty, che desideravo incontrare più di chiunque altro. Non mi vedeva da circa sette anni. Mi avrebbe riconosciuto? Molto probabilmente no, perché ero cresciuto ed ero diventato quasi un uomo. Decidemmo che sarei andato a casa di Peggotty da solo e che Steerforth mi avrebbe raggiunto dopo un paio d’ore. Quando bussai Peggotty venne ad aprirmi e, fissandomi con un certo stupore, mi domandò che cosa desiderassi. Io le sorrisi, ma lei non rispose al mio sorriso, e continuando a guardarmi con l’aria di dire: “Chi è costui?” «Scusate, signora, è in casa il signor Barkis?» «È in casa» mi rispose Peggotty «ma è a letto con i reumatismi.» «Va ancora a Blunderstone?» «Quando è in salute ci va.»

«E ci andate anche voi, signora Barkis?» A quelle parole vidi che le sue mani tendevano a congiungersi con un tremito. «Perché vedete, signora, vorrei domandarvi qualcosa su una certa casa che si chiama… come si chiama? Sì… Piano delle Cornacchie.» Lei fece un passo indietro, tendendo le mani come se volesse allontanarmi. «Peggotty!» gridai. «Davy, ragazzo mio!» La mia cara Peggotty scoppiò in lacrime. Io allargai le braccia e lei mi si attaccò al collo singhiozzando. «Caro, caro Davy…» E non finiva più di baciarmi. Piangevo anch’io e lei, un po’ ridendo e un po’ piangendo, mi abbracciava, poi si allontanava per vedermi meglio e ancora mi si precipitava addosso, ricoprendomi delle più tenere carezze. Barkis, seduto sul letto, mi ricevette con sincero entusiasmo. Dopo un po’ che ero lì, arrivò, come previsto, Steerforth. Peggotty fu conquistata dai modi gentili e dall’allegria del mio amico e ci invitò a cena. La mia buona amica preparò in nostro onore un pasto con i fiocchi e io trascorsi con lei una giornata deliziosa, descrivendole la mia nuova situazione e parlandole della zia. Una scena non meno commovente si svolse quando ci recammo sulla barca del signor Peggotty. Mentre aprivo delicatamente la porta udimmo dall’esterno un fragoroso applauso. La scena che ci trovammo davanti agli occhi, una volta entrati, era d’eccezione: il buon Peggotty era raggiante di gioia, Ham non meno entusiasta di lui, la signora Gummidge sempre linda e malinconica e la simpatica Emily, che era diventata straordinariamente bella e vivace, sembrava una fata di passaggio in quella barca. Appena entrai Ham si mise a gridare: «Il signorino Davy, il signorino Davy…»

«Oh… il signorino Davy!» ripeté il signor Peggotty. «Proprio lui… un signorino grande, ormai… Oh, che piacere… E ci ha portato anche l’amico Steerforth! Voi mi scuserete… è un grande onore per me… non mi pare possibile che questa barca abbia l’onore di ricevere due gentiluomini come voi in una serata come questa.» «Proprio così!» squillò Ham. «Ben detto, proprio così.» E tutti e due si agitavano, ridevano e allargavano le braccia, senza riuscire a esprimere adeguatamente il loro entusiasmo. «Emily, non vedi il signorino Davy?» esclamò il signor Peggotty. «È lui, sai, il tuo compagno di giochi! E quello è Steerforth, un suo caro amico» interloquì Ham. «La vedete, signorino, com’è cresciuta? Come si è fatta bella?» Emily, rossa come la brace, scappò via, ma il signor Peggotty si precipitò dietro di lei per riportarla da me, come volesse farmi ammirare il più bel tesoro che aveva nella barca. Il vecchio pescatore ci spiegò poi quale era la ragione della particolare atmosfera della serata: il fidanzamento di Emily con Ham. Sulle prime la notizia mi provocò un senso di sofferenza, ma nel profondo provai una grande gioia per quei cari ragazzi. Un certo imbarazzo che si era creato fu superato per l’intervento di Steerforth, che si complimentò con il signor Peggotty e con Ham. Rimanemmo qualche giorno con quelle care persone, che non sapevano più che cosa fare per farci onore; poi volli andare a rivedere la mia vecchia casa al Piano delle Cornacchie e ci ritornai per qualche ora quattro o cinque giorni di seguito. Steerforth, invece, che era un appassionato del mare, passava molto del suo tempo in barca con il signor Peggotty. Si era talmente affezionato al posto e ai miei amici che acquistò uno degli yacht in vendita al porto. In sua assenza, disse, la barca sarebbe stata a disposizione del signor Peggotty. La mia vecchia casa era molto cambiata. Dei vecchi nidi delle cornacchie non rimaneva traccia. Anche gli alberi, tagliati o potati

crudelmente, erano irriconoscibili: alzavano i loro moncherini verso il cielo, come se volessero salutarmi nel loro dolore. Nel giardino l’erba cresceva disordinata, soffocando i pochi fiori superstiti, e più della metà delle finestre era chiusa. I Murdstone avevano affittato la casa di Blunderstone a un vecchio signore maniaco, che vidi seduto dietro la finestra della mia cameretta, con gli occhi straniti e fissi verso il cimitero. Mi parve che, con quei suoi occhi minacciosi, inseguisse le candide emozioni che io avevo provato proprio guardando da quella finestra il cimitero quando, seguendo le pecore che brucavano in mezzo alle tombe, mi pareva che quell’erba verdissima e quegli alberi silenziosi, nel cielo turchino, fossero un angolo dell’Eliso, dove i morti dormissero felici nel loro riposo. Allora, in quel cimitero, di mio c’era soltanto la tomba di mio padre; ma ora accanto a lui riposava anche la mia cara mamma, con il suo bambino in braccio, e forse sentivano la mia presenza e parlavano di me. Con il cuore gonfio di un’emozione incontenibile, mi sedetti sopra una di quelle tombe e rimasi a lungo come smemorato, un po’ leggendo i nomi sulle lapidi, un po’ guardando l’erba che si piegava senza voce sotto il soffio del vento mattutino. Miei cari, poveri morti, come vi ho sentiti vicini in quelle ore! A voi ho chiesto ispirazione per orientarmi nella mia vita futura e sono ritornato a Yarmouth con la certezza che non mi avreste negato il vostro trepido e misterioso suggerimento. In effetti la decisione sul mio futuro non si fece attendere a lungo, perché un giorno, tornando da una delle mie gite a Blunderstone, trovai all’albergo una lettera della zia che mi attendeva a Londra, per prendere insieme accordi sul mio avvenire professionale. Salutai la mia vecchia Peggotty, che nel momento del congedo si abbandonò alle più straordinarie manifestazioni di affetto, ringraziai Barkis e la famiglia del signor Peggotty per le premure che mi avevano prodigato durante il mio soggiorno a Yarmouth, e raggiunsi la mia vulcanica zia che mi aspettava in una locanda londinese. La

sua accoglienza mi stupì, tanto fu affettuosa. Quando mi vide fu talmente contenta che si mise a piangere; ma si pentì subito della sua debolezza e, fingendo di tossire e di ridere, mi disse: «Ah, Trot… se fosse viva quella povera bambina di tua madre, a quest’ora si sarebbe… sigh… sigh… già… si sarebbe messa a piangere!» Per dissimulare la commozione mi misi a ridere anch’io e, nell’intento di distrarla, le domandai del signor Dick. La zia divenne scura in volto, si stropicciò energicamente il naso come soleva fare nei suoi momenti neri ed esclamò con aria allarmata: «Sono molto inquieta, Trot… molto, molto inquieta!» «Perché, zia? È successo qualcosa di grave?» «Dick, occupato com’è con il suo memoriale, non riuscirà a tenere lontani gli asini, ne sono sicura. Ho fatto male a portare con me anche Janet. Oggi alle quattro, vedi, un asino è entrato nel prato; l’ho sentito da lontano e io non mi sbaglio. Janet!» strillò. «Un asino… oggi alle quattro nel prato è entrato un asino!» Janet la fissava sull’attenti, come se fosse pronta a lanciarsi all’attacco. «Sai quale asino è entrato, Janet? Quello con la coda mozza, montato dalla sorella di quel Murderen… se a Dover c’è un asino che non sopporto, è quello.» E così dicendo vibrò una formidabile manata sul tavolo. «State tranquilla, signora» tentò di rassicurarla Janet. «Quell’asino è occupato a trasportare la ghiaia.» Ma la zia non volle saperne di lasciarsi rassicurare e affermò ancora che a violare il prato era stato proprio Codamozza. Il malumore l’accompagnò fino a tavola, dove fece obiezioni sul pollo (“duro come un gallo di tre anni”), sulla costoletta di maiale (“le suole degli stivali di Dick sono più morbide”) e in generale sull’intera Londra. Tutto, in quella città, era artificiale, disse; anzi, no, una cosa genuina c’era: il fango delle strade… Io, invece, mangiai volentieri. Dopo cena parlammo del mio avvenire e concludemmo che avrei intrapreso la carriera di

procuratore legale, anche perché questa era l’opinione espressa dal signor Dick. Ne avevo parlato con Steerforth e anche lui mi aveva incoraggiato a quel passo; perciò accettai di buon grado la proposta della zia. Il giorno dopo ci recammo nello studio di due procuratori molto accreditati in città, dove avrei dovuto fare il mio tirocinio professionale. Per strada facemmo un incontro che mi spiegò il famoso mistero dell’uomo che terrorizzava la zia, e di cui il signor Dick mi aveva parlato con tanta apprensione quella volta a Canterbury. Quell’incontro mi convinse definitivamente anche di un’altra cosa: della bontà d’animo di Betsey Trotwood, nonostante le sue stranezze, molte delle quali derivavano senza dubbio dal suo infelice matrimonio. La zia non mi parve mai tanto degna di affetto come quel giorno. Lungo la strada, dunque, ci eravamo fermati davanti a un negozio di giocattoli, in Fleet Street, aspettando che l’originale orologio di una chiesa vicina battesse le ore. A un tratto la zia, in preda a una visibile agitazione, mi afferrò per il braccio e mi trascinò con sé, quasi volesse sottrarre me e se stessa a qualche grave pericolo. Sul momento non ci feci caso e credetti che in lei continuasse ad agire la strana preoccupazione che, insieme con quella degli asini, l’aveva accompagnata per tutta la durata del suo soggiorno a Londra. Da quando era arrivata si era messa in testa che a ogni ora scoppiasse un incendio, tanto che al minimo rumore balzava in piedi gridando: «Aiuto! Pompieri!» “Avrà creduto che il negozio abbia preso fuoco” dissi tra me “e ora teme che le fiamme la investano da un momento all’altro.” Ma subito dopo mi accorsi che il suo spavento era di tutt’altro genere. La vidi voltarsi indietro più volte e guardare in direzione di un tipo squallido e malvestito che pareva seguirci. «Trot…» cominciò a mormorare la poveretta «caro Trot… non so come fare…»

«Non spaventatevi, zia» dissi «e non abbiate paura. Entrate un momento in un negozio e lasciate fare a me, che a quell’uomo ci penso io.» Siccome un’altra delle sue paure, a dire il vero non troppo infondata, era che Londra fosse piena di borseggiatori, credetti che avesse scambiato lo sconosciuto per un ladro. Ma la sua borsa l’aveva data da portare a me e quindi mi stupivo un po’ della sua paura. «Finché sarete con me nessuno vi farà del male» le dissi. «Perché siete così spaventata?» «Tu non sai… tu non sai… Trot, non guardarlo e chiamami subito una carrozza. Lasciami sola, devo andare con lui.» «Con quell’uomo, zia?» esclamai al colmo dello stupore. «Sì, Trot. Chiamami una carrozza, ti prego, e aspettami presso il cimitero di San Paolo.» «Devo aspettarvi, zia?» «Sì, aspettami là… ora devo andare con lui.» Per quanto sbalordito da questa decisione, chiamai una vettura pubblica e le riconsegnai la borsa. Appena la zia salì in vettura quell’uomo la seguì ed entrambi sparirono dalla mia vista. Mi ricordai dell’uomo che il signor Dick credeva scomparisse sottoterra, ma non riuscivo a capire quale strana malia potesse esercitare quel tale su una donna come la zia, e per quale ragione lei gli permettesse di accompagnarla, quasi ubbidendo a una sua tacita imposizione. Pieno di ansia mi avviai verso il cimitero di San Paolo e dopo una mezz’ora vidi la carrozza che ritornava. La zia era sola, pallida e molto emozionata. Mi invitò a salire sulla carrozza e, prima che le rivolgessi una sola domanda, mi pregò di non indagare sull’accaduto, porgendomi la sua borsa. Non potei fare altro che lasciar perdere. Se non che, prima di incontrare lo strano individuo, avevo visto nella borsa dieci sterline in oro; ma quando la riaprii per pagare il cocchiere ci trovai solo qualche moneta d’argento.

Dopo quell’episodio mi scervellai a lungo per riuscire a capire chi fosse quel tizio così male in arnese che aveva tanto potere sulla zia. Solo dopo molto tempo venni a sapere la verità: era suo marito! Quell’angelo di bontà nutriva ancora nei suoi confronti un sentimento di compassione, e la sua vista non mancava mai di turbarla. Lo sciagurato lo sapeva, e nella sua infinita miseria morale di quando in quando la ricattava per strapparle un po’ di denaro. Dopo che la zia si fu ripresa andammo nello studio legale Spenlow & Jorkins per prendere accordi sul mio lavoro di praticante procuratore. Dei due soci trovammo solo il signor Spenlow, un ometto biondiccio e impettito, vestito con cura; gli attraversava il panciotto una catena d’orologio così massiccia che ci si sarebbe potuto appendere un’ancora. L’altro, il signor Jorkins, non si fece vedere e, dalla conversazione che seguì tra Spenlow, me e la zia, mi accorsi che il signor Jorkins aveva nello studio la funzione di fare da parafulmine al signor Spenlow, che gli addossava la responsabilità della sua inflessibile politica. Quando la zia mi presentò, il signor Spenlow mi fece un’accoglienza cortese e dignitosa. «Dunque, signor Copperfield» mi chiese «avete proprio deciso di intraprendere la carriera di procuratore?» A questo punto s’inchinò così goffamente su un fianco che per poco non scoppiai a ridere: sembrava Pulcinella sulla scena. «Ho deciso così» risposi «seguendo anche il consiglio della mia eccellente zia. Sempre che, alla prova dei fatti, io riveli qualche attitudine…» «Ben detto! Noi, ai nostri praticanti, proponiamo sempre un mese di prova. Dico “noi” perché ho un socio al cui indirizzo devo uniformarmi. Fosse per me, vi accorderei anche due o tre mesi, ma in queste cose il signor Jorkins è inesorabile.» «E la tassa, signore, è di mille sterline?» «Appunto, bollo compreso.»

«E scusate» chiesi nel desiderio di far risparmiare alla zia quanto più possibile «quando l’allievo acquista una certa pratica e si rende utile all’ufficio, non è previsto un qualche compenso per la sua collaborazione?» «Capisco, capisco…» rispose Spenlow. «Uno stipendio… Vedete, signore, su questo argomento potrei anche esprimere la mia opinione, ma lo ritengo inutile; il mio socio non vuol saperne.» Restammo d’accordo che con i primi giorni della settimana avrei iniziato il mio praticantato e, dopo aver preso congedo, la zia e io uscimmo e ci avviammo verso Buckingham Street, all’Adelphi, dove ci era stato segnalato un appartamentino da affittare che poteva fare al caso mio. Ci piacque molto e la proprietaria, una certa signora Crupp, ci fece buona impressione, così decidemmo di prenderlo. Risolto anche quel problema ritornammo all’albergo, perché la zia, tra la paura degli incendi, quella dei borseggiatori e il suo disprezzo per la cucina londinese, non vedeva l’ora di ritornare a Dover. Prima di lasciarmi mi salutò, mi abbracciò, mi fece le più sagge raccomandazioni e ripartì in compagnia di Janet. Una volta arrivata a casa, avrebbe fatto al signor Dick un rapporto dettagliato della mia nuova sistemazione. Io rimanevo a Londra, per la prima volta solo in una metropoli: iniziava così un’altra, importante, fase della mia esistenza.

Capitolo nove Rivedo Agnes

L’appartamento che avevo preso in affitto per iniziare la mia nuova vita di procuratore tirocinante era, come ho già detto, all’Adelphi, ed era costituito da un piccolo ingresso semibuio, da un cucinino ancora più buio, da un salottino e una camera da letto. I mobili erano molto ordinari, ma per me, che non avevo pretese, abbastanza comodi. La maggiore attrattiva dell’appartamentino era una finestra dalla quale potevo contemplare il fiume sottostante. Quel piccolo alloggio era tutto per me. La sera, quando rientravo e chiudevo la porta, mi sentivo come Robinson Crusoe quando tornava nella sua fortezza e ritirava la scaletta d’ingresso. Girare per le strade della città con in tasca la chiave di casa mia era una sensazione meravigliosa. La signora Crupp, la mia degna padrona di casa, non si faceva mai vedere e, quando era tanto buona da rispondere ai miei reiterati appelli, avevo l’impressione che sbucasse fuori dalle viscere della terra. Qualche volta, però, il suo ingresso in casa mia si verificava spontaneamente, ma solo quando veniva a chiedermi soccorso per il mal di stomaco a cui andava soggetta. Entrava con il volto sofferente, la mano posata opportunamente sul petto e ansimava: «Signor Copperfull… (chissà poi perché si era decisa a storpiare così il mio nome) Ah, signor Copperfull, che mal di stomaco! Non potreste, per piacere, darmi un po’ di tintura di cardamomo con un

po’ di rabarbaro e una puntina di essenza di chiodi di garofano? Sette gocce mi bastano, sette… È un rimedio che mi fa bene». Quando io mi scusavo dicendole che la tintura di cardamomo e il rabarbaro non rientravano tra le mie cose di uso quotidiano, la brava signora ripiegava su un rimedio meno complicato, ma altrettanto efficace: un bicchierino di whisky. Questo strano disturbo l’assaliva puntualmente almeno una volta alla settimana e così io avevo il piacere di assicurarmi di persona che il mio whisky sostituiva a meraviglia il cardamomo profumato con i chiodi di garofano. Comunque la mia vita trascorreva serena; tutto riempiva di gioia quella mia prima giovinezza, avida di godere e di fare, e ogni cosa mi pareva preziosa e desiderabile: dalla nebbia sul fiume alle scarse razioni di sole che ci elargiva il cielo di Londra, dalle passeggiate sotto i viali alle mie letture solitarie, fatte al lume di candela nella mia bicocca robinsoniana. Qualche volta mi prendeva la nostalgia della buona Agnes; sentivo il bisogno dei suoi consigli e desideravo avere davanti il suo dolce volto, che mi pareva il più tenero dopo quello di mia madre. Un’altra persona che desideravo molto rivedere era Steerforth e, poiché non avevo da tempo sue notizie, un giorno mi recai a Highgate per sapere qualcosa da sua madre. La signora Steerforth, molto contenta del mio interessamento per il figlio, mi disse che era andato a Oxford per far visita a un amico. Ma la mattina dopo, mentre inzuppavo un panino in quella miscela nerastra che la signora Crupp si ostinava a chiamare caffè, vidi entrare Steerforth in persona. «Mio caro Steerforth, quanto sono felice che tu sia venuto!» gli dissi mentre mi precipitavo ad abbracciarlo. «Anch’io sono felice di vederti così ben sistemato in questo nido» rispose il mio amico. «È comodissimo: io farò di questo alloggio il mio approdo a Londra, finché il mio amico Copperfield non mi metterà delicatamente alla porta.»

«Allora» risposi «il mio amico Steerforth dovrà aspettare almeno sino al giorno del Giudizio. Ascolta, Steer, rimani con me a colazione?» «Molto volentieri, caro, se potessi; ma ho con me due amici, con i quali dovrò ripartire domattina.» «Allora potremmo cenare qui tutti insieme, stasera!» «Non è troppo disturbo per te, Copperfield?» «Ma che ti viene in mente! Vi aspetto tutti e tre: ho bisogno di inaugurare solennemente il mio appartamentino con una festicciola tra amici.» Steerforth accettò e, appena se ne fu andato, suonai il campanello per ordinare un bel pranzetto alla signora Crupp. La mia degna padrona parve aver compreso perfettamente la mia necessità di non far brutta figura con gli amici. Mi fece però osservare che, per via di quel benedetto mal di stomaco sempre in agguato, non avrebbe potuto servire a tavola; per fortuna conosceva un ragazzo che l’avrebbe fatto con mia piena soddisfazione, previo esborso di cinque scellini o giù di lì. Oltre a ciò mi suggerì di prendere una ragazzina per lavare i piatti; anche in questo caso aveva in mente la persona che si sarebbe prestata dietro il modico compenso di diciotto pence. Per quanto riguarda il menù mi consigliò: ostriche per antipasto, un paio di polli arrosto seguiti da un piatto di stufato di manzo con verdura, da prendere naturalmente dall’oste, sedani e patate di contorno, un po’ di formaggio e una torta. Dal momento che i consigli della signora Crupp mi sembrarono più che ragionevoli, uscii subito per ordinare tutto quanto; a quelle provviste pensai di aggiungere un paio di bottiglie di vino bianco per le ostriche, sei bottiglie di vino rosso per i polli e lo stufato, due bottiglie di Porto per il dolce. La sera Steerforth arrivò con i suoi due amici, che si chiamavano Grainger e Markham: il primo aveva qualche anno più di Steerforth, l’altro un paio più di me; entrambi erano allegri e simpatici.

«Spero che abbiate appetito!» dissi ai nuovi ospiti per metterli subito a loro agio. «Parola d’onore che il mio è di prim’ordine» disse Markham. «Pare che la città stuzzichi la fame.» Grainger, che non parlava mai in prima persona, aggiunse con molta solennità: «Abbiamo una fame discreta». Così ebbi l’impressione che la sua fame fosse una specie di bisogno collettivo. Preparata la tavola, pregai Steerforth di mettersi al posto d’onore, mentre io sedevo di fronte a lui per sorvegliare, se così si può dire, la servitù. La cena andò benissimo. Se non che, quando arrivammo alla fine, mi era venuta, non so come, una parlantina torrenziale. Chiacchieravo di tutto e ridevo di nulla; mentre sghignazzavo continuavo a mescere vino in quantità. «Ehi, Steerforth… non bevi?… È questo il modo di festeggiare il mio appartamento da scapolo? Di queste cenette voglio farne… una alla settimana… Su i bicchieri… alla salute… alla salute!» «Al futuro dottore!» aggiunse Markham porgendomi la tabacchiera aperta. Io ci affondai le dita e mi cacciai nel naso una presa così robusta che mi vidi costretto a battere in ritirata in cucina, dove starnutii con le lacrime agli occhi per oltre dieci minuti. Al mio ritorno bevemmo tre volte alla salute dei miei ospiti e una quarta alla mia. Al colmo dell’entusiasmo esclamai: «Steerforth, tu… tu sei la stella polare… del mio orizzonte!» Mi alzai per stringergli la destra, ma feci un giro su me stesso e il bicchiere mi schizzò via di mano, andando a infrangersi sul pavimento. A quel punto mi parve molto vagamente che qualcuno cantasse: era Markham che poi, finita la canzone, propose di brindare alle donne. «Prego…» obiettai «i… in casa mia non si brinda… che alle si… signore.» «Allora» disse Markham confuso «io, senza derogare alla dignità dell’uomo, proclamo che Copperfield è il più simpatico degli

anfitrioni!» «Propongo una fumatina» intervenne Steerforth e trasse fuori un astuccio d’argento pieno di grossi sigari. Senza pensarci troppo ne misi uno in bocca, questo lo ricordo bene; non ricordo, invece, chi me lo accese. A un tratto qualcuno di noi si affacciò alla finestra e posò la testa sul parapetto di pietra per rinfrescarsi la fronte. Dopo un lungo e attento esame, mi accorsi che quel qualcuno ero io. Una voce disse: «Perché non andiamo a teatro?» «Be… bene…» rispose qualcuno che potevo anche essere io. «An… andiamo a teatro. Uscite, ragazzi, che io rimango un attimo per spe… spegnere i lumi.» I miei amici uscirono; ma quando, rimasto al buio, cercai di farlo anch’io, non mi riuscì di infilare la porta. «Allora, Davy, vieni giù o no?» urlava Steerforth dalla scala. «Subito…» rispose una voce che pareva quella di Falstaff quando era nel cesto della biancheria; ma io non apparivo. Quando finalmente Steerforth venne a cercarmi mi trovò con la testa impigliata in una tenda della finestra. Tenuto per mano da Steerforth scesi, ma gli scalini mi parevano di burro. Poi arrivammo in un posto strano. Steerforth porse del danaro e ritirò qualcosa; io, non so come, mi trovai in un gran salone illuminato e gremito di folla. Si sentiva una musica e davanti a me, su una specie di palco, era tutto un viavai di gente che mi pareva si esercitasse nel nuoto. A un tratto qualcuno mi diede uno spintone, la porta di un palco si aprì all’urto della mia spalla e dentro vidi… ma era vero? Vidi, tra due signore, il dolce viso di Agnes. Mi guardava con doloroso stupore. «Agnes!» gridai. «Agnes, siete voi?» «Andate, Trot, andate» mormorò Agnes, nascondendo il viso dietro la mano inguantata. Io non capivo perché mi trattasse così, ma poiché qualcuno mi trascinava via, farfugliai un «buonasera» e uscii.

Non mi è facile stabilire con precisione quale via misteriosa seguii dopo e con quale mezzo riuscii a tornare a casa; ritengo comunque che le gambe mi siano servite come puro mezzo ausiliario. Sicuro è che a un certo punto mi ritrovai a casa e mi vidi accanto Steerforth, che mi aiutava a svestirmi e mi adagiava sul letto. Tuttavia, non appena ebbi toccato le coperte, il letto si mise a ruotare su se stesso e a precipitare nell’abisso; continuò a farlo per ore, mentre gridavo a Steerforth di porgermi un cavatappi per sturare un’altra bottiglia. La mattina dopo, appena mi risvegliai – avevo la testa in una confusione spaventosa – la prima cosa che mi si presentò alla mente fu il volto di Agnes, turbato e amareggiato. Avrei voluto alzarmi, correre da lei per chiederle perdono; ma l’appartamento era ancora devastato dai miei bagordi serali: la cucina piena di piatti rotti; la tavola invasa da bicchieri e con la tovaglia cosparsa di macchie di vino; il pavimento ingombro di bottiglie. La sola cosa vuota intorno era la mia testa, che girava ancora e mi doleva come se me l’avessero presa a martellate. Mi vergognai molto e per tutto il giorno rimasi sul letto a occhi chiusi, roso dal rimorso e persuaso di avere ormai imboccato la via della perdizione. Il giorno dopo, mentre con la bocca amara e il cuore oppresso uscivo di casa, mi venne incontro un fattorino che mi chiese se ero il signor Copperfield. Poiché questa volta ero proprio sicuro della mia identità, annuii; per tutta risposta l’uomo mi porse un biglietto su cui era scritto il mio nome. Dalla calligrafia capii subito che la lettera era di Agnes e ne rimasi tanto turbato da dover riprendere fiato prima di aprirla. C’era scritto: Mio caro Trotwood, in questi giorni sono ospite di un collaboratore di papà, il signor Waterbrook, in Ely Place, a Holborn. Venite a trovarmi oggi, a qualunque ora; mi farete piacere. La vostra affezionatissima Agnes

Poiché il fattorino attendeva la risposta, mi misi a scriverla, ma non riuscivo a mettermi d’accordo con i miei pensieri. Volevo scusarmi, chiederle perdono per la scena disgustosa della sera prima, ma non sapevo trovare la forma adatta. Una volta cominciai con questa citazione di Shakespeare: “È strano che un uomo possa mettersi un nemico in bocca”; poi arrischiai un esordio in versi, ma mi sembrò ridicolo. Finalmente, dopo una dozzina di tentativi, scrissi: Mia cara Agnes, la vostra lettera è come voi. Verrò alle quattro. Affettuoso e triste, il vostro D.T.

E consegnai il foglio al fattorino. Il tempo che dovetti trascorrere allo studio legale mi parve infinito; scoccata l’ora uscii dal lavoro come un fulmine e volai da Agnes. Alle quattro ero in casa Waterbrook; quando fui davanti alla mia amica mi prese una tale vergogna che mi misi a piangere. Agnes mi lasciò un po’ sfogare. Poi mi posò una mano sul braccio e mi disse: «Con chi vi confiderete, Trot, se non avete fiducia in me?» «Voi siete il mio angelo custode, Agnes…» mormorai sforzandomi di padroneggiarmi. «Se è così, ascoltatemi» disse Agnes. «Ho il dovere di mettervi in guardia.» «E da chi?» «Dal vostro angelo cattivo.» «E chi sarebbe, Agnes?» «Quel vostro amico…» «Volete alludere a Steerforth, per ciò che è successo ieri sera?» «Alludo proprio a lui, ma non solo per la faccenda di ieri sera.» «E perché, dunque?»

«Per mille cose. Io vi conosco, Trot, e conosco il vostro carattere. Quel giovane ha una grande influenza su di voi, e potrebbe nuocervi.» «Agnes cara» risposi «voi fate torto al mio amico. È un bravo ragazzo e mi ha sempre voluto bene.» «Non dico che non vi voglia bene, sia pure a modo suo, ma voi non dovete fare la vita che fa lui. State in guardia, Trot, e liberatevi dal suo fascino. Non vi dico altro. Avete visto Uriah?» «No, Agnes. È a Londra?» «Sì, Trot. Ci sono novità spiacevoli in vista.» «Di che genere?» chiesi allarmato. «Temo che Uriah stia per diventare socio di papà…» La cosa mi parve talmente inaudita che scattai in piedi. «Come! Quell’essere abietto, ignobile, socio di vostro padre? Ma voi dovete impedirlo, Agnes…» «Ormai è troppo tardi, mio caro Trot. Strisciando come una serpe, mettendo sempre avanti la sua umiltà, quell’uomo è riuscito a rendersi indispensabile per papà. Lui non è più quello di una volta, Trot… ha bisogno di aiuto, e quell’impostore è riuscito a persuaderlo che solo la sua collaborazione potrebbe toglierlo dai pasticci. Sono così triste…» E si mise a piangere. Io, sconvolto e commosso più di lei, le afferrai le mani tentando di confortarla. Ma Agnes aveva un carattere più forte del mio; si ricompose subito e mi pregò di mostrarmi gentile con Uriah. «So che voi non lo stimate, e a ragione, ma pensate a me, Trot, e a papà, che ha bisogno di lui. Adesso venite, che vi presento ai signori Waterbrook.» La presentazione ebbe luogo nel salone, dove i padroni di casa offrivano un tè, ed è lì che trovai fra gli ospiti Uriah Heep. Era in abito nero e, come sempre, in atteggiamento di assoluta umiltà. Quando mi vide mi venne incontro, mi porse quella sua mano umida e fredda e mi assicurò che la sua umile persona era immensamente felice di rivedermi e di presentarmi i suoi omaggi.

Essendo imminente la cena, alla quale venni invitato, non ebbi tempo di occuparmi molto di Uriah. Salutai i padroni di casa e per fortuna a tavola mi fu assegnato un posto a grande distanza da lui, vicino a una signora che assomigliava a un galeone spagnolo con tutte le vele spiegate. Mentre ci mettevamo a tavola fu annunciato un nuovo ospite, il cui cognome mi fece trasalire. «Il signor Traddles!» proclamò il maggiordomo. Subito dopo entrò nella sala un giovane più o meno della mia età, vestito modestamente, di corporatura un po’ tozza, come sono di solito gli uomini equilibrati e pacifici, e con un buon viso onesto. Ma quello che di lui mi fece più impressione furono i capelli: li portava pettinati all’insù e, spinosi com’erano, sembravano le setole di una spazzola, o meglio i peli di un porcospino spaventato. “Traddles!” dissi tra me mentre guardavo con curiosità e simpatia il nuovo venuto. In quella fisionomia bonaria mi pareva di ritrovare qualche ricordo dei miei anni di scuola. “Che sia il mio compagno Thomas Traddles di Salem House, quello che prendeva tanti scapaccioni dal signor Creakle? ” Durante il pasto non mi riuscì di accertare l’identità dell’ospite, ma alla fine lo avvicinai ed ebbi la conferma che era proprio il mio vecchio amico. Mi rivide con gran piacere; mi disse che si preparava a intraprendere la professione di avvocato e, siccome abitava a Londra, rimanemmo d’accordo che sarei andato a trovarlo a casa sua. Il mio vecchio compagno di collegio si congedò presto dalla compagnia perché il giorno dopo doveva partire per un viaggio. Ed ecco che, appena lasciato Traddles, mi si appiccica addosso Uriah Heep, senza lasciarmi la possibilità di evitarlo! Stavo uscendo, quando mi raggiunse sulle scale tutto premuroso e servile, chiamandomi signorino. Ebbi l’irresistibile impulso di dargli uno spintone e di farlo ruzzolare per le scale ma, ricordandomi le raccomandazioni di Agnes, mi sforzai di mostrarmi gentile. «Volete venire a prendere un caffè a casa mia?» proposi io.

«Oh, signorino Copperfield, quale onore! Volete essere tanto buono con una persona umile come me?» «Be’, volete venire o no? Qui l’umiltà non c’entra.» Infatti venne e, appena ebbe messo piede in casa, parve fosse entrato nel castello di Aladino. Si mise a magnificare tutto, compreso il recipiente nel quale avevo messo a scaldare l’acqua per il caffè. Ero tanto irritato da quella ipocrisia che vinsi a stento la tentazione di cantargliene quattro. Ma il peggio doveva ancora venire. Infatti, quando gli ebbi servito il caffè si mise a parlare, contorcendosi come una serpe al sole e sorvegliandomi con quegli occhi senza ciglia. «Avete saputo, signorino Copperfield, dei miei nuovi rapporti con il signor Wickfield?» «Sì, qualcosa…» risposi. «Bene, sono lieto che la signorina Agnes ve ne abbia parlato. Come avevate visto lontano, signor Copperfield! Siete stato buon profeta, sapete? Se vi ricordate, una volta mi diceste che sarei diventato il socio del mio principale. Ebbene, la cosa si è proprio avverata, lo dico a vostro onore. Qualche volta anche la persona più umile può essere strumento di bene e io sono stato molto utile al signor Wickfield… Senza di me si sarebbe trovato in gravi difficoltà… ma io l’ho fatto volentieri, specialmente per riguardo alla signorina Agnes.» Io lo fissai con un principio di sdegno nello sguardo, ma lui non si scompose e continuò a parlare: «Ricordate quello che avevate detto di lei, signorino Copperfield, nei primi tempi che ci siamo conosciuti? Avevate detto che la signorina Agnes era un angelo e che tutti avrebbero dovuto essere orgogliosi di servirla. Allora io vi ringraziai per questo…» «E perché mai avreste dovuto ringraziarmi?» chiesi brusco. «Che cosa può esserci in comune tra voi e Agnes?» «Oh, nulla allora, signorino Copperfield, allora nulla. Ma ricordo volentieri le vostre parole, perché furono proprio quelle ad accendere la grande speranza nel mio umile cuore. Ora la cara creatura è più

vicina a me, non foss’altro che per gratitudine… sì, voglio dire, per ciò che ho fatto per suo padre.» «Non capisco: spiegatevi meglio, Uriah.» «Quanto sono felice, signorino Copperfield, di sentirmi chiamare Uriah da voi, come da un vecchio amico! È per questo che mi confido tanto volentieri con voi. Ancora non lo sapete, ma il signor Wickfield è stato molto imprudente nei suoi affari.» «Molto imprudente?» «Eh, sì, molto… terribilmente imprudente. Parlo con voi in tutta segretezza, ma se io… vedete, se avessi voluto lo avrei potuto rovinare, schiacciare addirittura.» Qui Uriah scandì le sillabe con una specie di gioia feroce. «Non l’ho fatto» continuò ritornando umile «per la mia cara Agnes. Voi mi permettete di chiamarla così, signorino Copperfield?» A quelle parole il mio furore fu tale che non so come mi trattenni dall’afferrare le molle dal caminetto, roventi com’erano, e piantargliele in corpo. L’idea che quell’ignobile furfante, approfittando di qualche debolezza del signor Wickfield, pensasse a un ricatto simile e osasse insudiciare, anche solo con il pensiero, una creatura angelica come Agnes, mi sembrava la più atroce delle turpitudini. Ma ancora una volta mi ricordai della raccomandazione di Agnes e, poiché non sapevo come stavano le cose, non volli mettere quel mostro nelle condizioni di nuocere a persone che mi stavano tanto a cuore. Recuperai la calma e gli chiesi: «Ma avete manifestato in qualche modo ad Agnes i vostri nuovi sentimenti?» «Oh no, signorino Copperfield, ancora non apertamente. Ne ho parlato solo a voi, ora, perché vi stimo moltissimo. Vedete, signorino, la cosa non è ancora matura. Io sono umile e aspetto…» Ebbi la sensazione di trovarmi davanti a un ragno che insidia una farfalla. Per troncare il discorso, che mi era oltremodo penoso, guardai l’orologio. Si era fatta l’una. Uriah Heep voleva andarsene, ma io capii che a un’ora così tarda mi conveniva fare il bel gesto di

offrirgli ospitalità per la notte. Gli proposi dunque di cedergli un divano e lui, dopo molti contorcimenti, accettò. Quella notte faticai ad addormentarmi: avevo sempre davanti l’immagine malinconica di Agnes e di suo padre. E, anche dopo aver preso sonno, mi risvegliai spesso, perché l’idea di avere Uriah in casa mia era come vivere un altro incubo. La mattina dopo, quando finalmente se ne fu andato, raccomandai alla signora Crupp di tenere la finestra aperta a lungo, perché l’aria potesse purificarsi da quella disgustosa presenza.

Capitolo dieci Nuovi amori e vecchie amicizie

Le parole melliflue di Uriah Heep e le notizie che avevo appreso direttamente da Agnes continuarono a turbarmi anche dopo che la mia amica fu ripartita per Canterbury. Conoscevo troppo bene il suo animo generoso per non capire che la triste situazione in cui versava suo padre rischiava di diventare per lei una fonte di infelicità per l’avvenire. Sapevo bene quanto fosse devota al signor Wickfield, e la reputavo disposta a qualsiasi sacrificio pur di aiutarlo a risolvere le sue difficoltà. Purtroppo anche Uriah conosceva bene l’indole di Agnes, e più ripensavo ai discorsi di quel viscido individuo, più diventavo inquieto. Nel frattempo i giorni e le settimane scivolavano via e giunse così il giorno in cui, superato in modo piuttosto brillante il periodo di prova, entrai ufficialmente a far parte dello studio Spenlow & Jorkins. In ufficio l’avvenimento fu festeggiato con un piccolo rinfresco, nel corso del quale il signor Spenlow mi disse che sarebbe stato felice di invitarmi a casa sua, a Norwood, un fine settimana. Preferiva però aspettare l’imminente ritorno di sua figlia, che studiava a Parigi; così avrei potuto conoscerla e farle un po’ di compagnia. Spenlow era vedovo e questa sua premura nei miei confronti mi parve squisita. Dopo due settimane il mio nuovo socio mi disse che il sabato successivo mi avrebbe accompagnato con la sua carrozza a Norwood e che sarei rimasto lì fino al lunedì. Durante il viaggio il

signor Spenlow parlò soprattutto di lavoro e si lanciò in un elogio sperticato della nostra professione, che distingueva nettamente da quella degli avvocati. Pur essendo molto meno entusiasta di lui, mi mostrai alquanto interessato alle sue considerazioni. Dopo un paio d’ore giungemmo a destinazione. La casa, circondata da un grande giardino con ampi prati e viali alberati, era davvero incantevole. Appena entrati il signor Spenlow domandò subito di Dora alla servitù. “Che bel nome!” pensai. Il mio ospite mi introdusse in un’altra stanza dove fui presentato a Dora e a una sua amica e confidente. Fu un attimo fatale: dopo mezzo minuto ero innamorato cotto. Dora mi parve più che umana: una fata, una silfide. Fu qualcosa di irresistibile, qualcosa a cui mi abbandonai senza averne piena coscienza. Quei magici istanti, in cui il volto della stupenda fanciulla mi rapì completamente, furono interrotti all’improvviso da una voce a me ben nota che diceva: «Io lo conosco già, il signor Copperfield». Voltai lo sguardo alla confidente di Dora: era nientemeno che la signorina Murdstone! Per fortuna l’emozione che provavo nei confronti di Dora Spenlow mi impedì di rimanere di sasso; così salutai con naturalezza la signorina Murdstone e, in tono quasi indifferente, mi informai sulla sua salute e su quella del signor Murdstone: a quanto pareva stavano entrambi benissimo. «Sono lieto, Copperfield, che conosciate già la signorina Murdstone. È stata così gentile ad accettare l’incarico, se così posso dire, di amica e confidente di Dora che, disgraziatamente, non ha più la madre.» Mi sorpresi a pensare che per quel ruolo la donna di ferro non era poi tanto adatta, ma un secondo dopo la mia mente e i miei occhi erano solo e unicamente per Dora. Mi sentivo già ardere di gelosia per tutto e per tutti. Era una creatura deliziosa; la sua voce e, soprattutto, le sue risate mi incantavano. Aveva modi graziosissimi. Cenammo tutti insieme e, quando Dora lasciò la sala da pranzo, temetti che la signorina Murdstone potesse in mia assenza farle di

me un cattivo ritratto. Il mio sospetto venne fugato un attimo dopo. «David Copperfield» sussurrò la signorina Murdstone «ho bisogno di dirvi due parole. Non intendo riproporre argomenti che ormai appartengono al passato e che preferisco lasciare a quell’epoca; vorrei solo che le nostre divergenze non si manifestassero qui, viste le circostanze.» «State tranquilla. Ritengo che voi e vostro fratello abbiate maltrattato me e, più di me, mia madre; ma comunque sono d’accordo con la vostra proposta» le risposi asciutto. Dopo questo chiarimento mi ritirai nella mia camera. La mattina dopo mi alzai presto e, invogliato dal bel tempo, decisi di fare una passeggiata in giardino. Camminavo pensando alla mia dea quando, girato l’angolo di un vialetto, mi imbattei proprio nell’oggetto delle mie fantasie. Dopo un attimo di smarrimento riuscii a balbettare: «Siete… siete davvero mattiniera, signorina Spenlow». «Non mi piace affatto restar chiusa in casa e tanto meno ascoltare le sciocchezze che mi propina la signorina Murdstone. Pensate, pretenderebbe che uscissi più tardi per permettere all’aria di intiepidire. Trovo, invece, che questa sia l’ora più bella della giornata. A voi non sembra?» Volendole fare un complimento, mi lanciai in una risposta in stile barocco: quella, le dissi, era diventata l’ora più bella perché avevo incontrato lei. Mi accorsi del suo rossore e, per togliere entrambi dall’imbarazzo, le rivolsi qualche domanda sui suoi studi a Parigi. Un cagnolino, che giungeva trotterellando dal viale, interruppe i nuovi imbarazzi sorti nel frattempo; sfortunatamente, però, la bestiola era gelosa di me e mi ringhiava contro: Dora la zittì subito prendendola in braccio e accarezzandola. «Mi sembra che non abbiate una grande simpatia per la signorina Murdstone, vero?» osservò poi. «Non troppa, in effetti.» «Sì, avete ragione, è una persona noiosa e insopportabile. Ma come avrà fatto mio padre a scegliere una donna di quel genere?

Papà si ostina a considerarla la mia confidente, ma io ho un’altra opinione. Gli amici con cui confidarmi preferisco scegliermeli da sola, e fra le persone simpatiche!» Mentre continuavo ad ascoltarla mi sentivo sempre più rapito: ancora un po’ e le sarei caduto ai piedi… Parlando animatamente giungemmo quasi senza accorgercene nei pressi di una serra; qui Dora volle farmi vedere i gerani che vi crescevano. Eravamo lì da qualche minuto quando ci raggiunse la signorina Murdstone, che ci ordinò di seguirla per far colazione. La giornata trascorse tranquilla fra passeggiate e cena; il lunedì mattina io e il signor Spenlow partimmo molto presto perché avevamo un impegno di lavoro importante. Quella settimana vissi con l’immagine di Dora davanti agli occhi e con la speranza di ricevere un altro invito dal signor Spenlow, ma rimasi deluso. Nelle settimane successive passeggiai spesso per il centro di Londra, sperando di incontrare Dora. Approfittai di quei giri per acquistare panciotti, guanti e scarpe che immaginavo potessero piacerle. Intanto speravo sempre di ricevere un altro invito a Norwood, ma invano. La prima persona che si accorse del mio triste stato d’animo e delle sue cause fu la signora Crupp, che si rivelò molto intuitiva. Ad Agnes non avevo ancora trovato il coraggio di scrivere chiaramente ciò che mi era accaduto, mentre in quel periodo Steerforth, al quale avrei voluto confessare le mie pene d’amore, era a Oxford. Così, soffocato dalla malinconia, pensai di andare a far visita a Tommy Traddles, il mio vecchio compagno di Salem House, che ormai doveva essere tornato dal suo viaggio. Traddles abitava in una strada tanto malridotta che quando vi giunsi mi venne la tentazione di tornare indietro. Non so perché, ma mi ricordò la via nella quale abitavo quando ero ospite dei coniugi Micawber, a Windsor Terrace. Giunsi davanti alla porta di Traddles proprio mentre si apriva ai rudi colpi del lattaio. Ad aprire era venuta una servetta.

«Di’ un po’» chiese il lattaio alla ragazza «ce l’avete fatto o no un pensierino a saldare il mio conto? È diventato così lungo che non riesco quasi più a vederne la fine!» «Il padrone ha promesso di occuparsene subito» rispose la servetta senza scomporsi. «Ah, se se ne occupa il tuo padrone posso star tranquillo…» ribatté ironico il lattaio. Poi, allungando la mano e prendendo fra due dita il mento della ragazza, soggiunse: «E dimmi un po’, bella fanciulla, ti piace molto il latte?» «Sì che mi piace!» «Ebbene, da domani non ne berrai più neanche una goccia.» Detto ciò il lattaio, data una scrollata minacciosa al bidone che portava in mano, voltò le spalle e se ne andò. Abituata evidentemente a queste scene, la servetta non se la prese e si rivolse a me, fissandomi con espressione interrogativa. «È qui che abita il signor Thomas Traddles?» Dal fondo del corridoio una voce rispose un “sì” così fioco che lo udii a stento. «Ed è in casa?» «Sì…» rispose ancora la voce fioca. Da lì a qualche minuto Traddles apparve sull’uscio. «Oh, caro Copperfield, entra, vieni… Sono tanto lieto di vederti e di riceverti nel mio studio.» A dire il vero io, dopo aver dato un’occhiata alla stanzetta in cui ero stato introdotto, ritenni un tantino esagerato definire “studio” quel buco. Era poco più largo della celletta di un monaco; in un angolo stava un divano letto; in mezzo una tavola piena di scartoffie ammucchiate nel più pittoresco disordine; addossato a una parete uno scaffale, sul quale si vedevano, buttati lì alla rinfusa, libri, spazzole da scarpe, scatolette di lucido, una cravatta e un bricco per il caffè. Il resto era nascosto da paraventi di carta, tramezzi e mille altri espedienti ingegnosi, dietro i quali il mio amico nascondeva abilmente tutti i suoi effetti personali.

«Bravo Traddles!» gli dissi. «Sei sempre lo stesso ragazzo pieno di risorse. Dunque ti prepari a diventare avvocato?» «L’idea sarebbe quella» rispose Traddles stropicciandosi energicamente le mani. «Vorrei entrare nel Foro. Racimolare le cento sterline per la tassa è stata una gran fatica, ma ce l’ho fatta.» «Come!» esclamai. «Non avevi uno zio che ti aiutava?» «Ce l’avevo, ma quando diventai maggiorenne mi rinnegò; disse che non gli piacevo più.» «E come mai?» «Così… mi disse che da me si aspettava qualcosa di diverso, che l’avevo deluso. E sai che cosa combinò il poveretto? Sposò la propria cameriera…» «E tu come reagisti?» «Che cosa potevo fare? Rimasi con lui e la moglie, sperando che mi aiutasse; ma la gotta gli salì al cuore e se ne andò all’altro mondo, lasciando tutto alla moglie.» «E lei? Non sentì il dovere di aiutarti?» «Si risposò immediatamente.» «E tuo zio non ti ha lasciato proprio nulla?» «Sì… cinquanta sterline. Non era molto, ma io le ho tenute in serbo e, lavorando come copista, le ho raddoppiate e ho pagato la tassa. Non è bello, Copperfield?» «Eccezionale, mio caro Traddles! Sei sempre stato un caro ragazzo. Non potrò mai dimenticarmi di quando eravamo insieme a Salem House. Te lo ricordi il tuo vestitino azzurro?» «Ah, ah!» rise Traddles. «Te lo ricordi? Stretto e corto… d’inverno sembravo un cotechino. Ah, ah!… E quante ripassate mi dava il buon Creakle!» «Lo chiami buono? Ma era un bruto, specialmente con te!» «Credi?» mi chiese candidamente. «Io lo rivedrei volentieri lo stesso. Ti ricordi che scarica mi diede quella volta che feci indigestione di gamberetti?

«Ah, ah!… La vecchia canaglia! Be’, adesso non mi picchierebbe più. A proposito: sai che sono fidanzato, Copperfield?» «Sei fidanzato?» «Sì, con la più cara ragazza di questo mondo, senza offendere nessuno. È figlia di un uomo di chiesa e ha qualche anno più di me, ma è una carissima ragazza.» «Lo credo, lo credo» dissi incantato dalla sincerità delle sue parole. «Quando vi sposerete?» «Temo un po’ tardi… Eh sì, un po’ tardi. La mia Sophy ha otto sorelle e credo che il nostro fidanzamento sarà molto lungo. Ma non importa, Sophy mi aspetterà anche fino a sessant’anni: ci vogliamo tanto bene! La sera che ci siamo incontrati ti avevo parlato di un viaggio, ricordi? Ebbene, sono andato da lei, nel Devonshire… andata e ritorno a piedi!» Ero così lieto di vedere il mio amico felice, che mi abbandonai all’estro poetico. «Mio buon Traddles» gli dissi «sono straordinariamente contento di vederti camminare verso i giardini fioriti della felicità.» «Bravo Copperfield!» esclamò lui. «Ben detto! Tu hai sempre saputo dir bene le cose, fin da quando ci raccontavi le storie di Robinson Crusoe e di Tom Jones nel dormitorio di Salem House. Credo che diventerai scrittore.» «Credi davvero, Traddles?» «Proprio! Scrittore di romanzi. Ti piacerebbe?» «Oh, se mi piacerebbe! Ma non è facile, Traddles. Per adesso ti voglio dire solo quanto sono felice per il tuo fidanzamento. Anche se dovrete aspettare un po’, alla fine coronerete certamente il vostro sogno.» «Dio lo voglia, Copperfield!» disse sospirando. Subito dopo aggiunse: «Vedi, io vivo modestamente… amministro con molta cura i miei pochi guadagni. Le mie spese sono limitate. Di solito mangio in casa, con la famiglia che abita al piano di sotto. Brava gente, anche

se non naviga nell’abbondanza: i Micawber sanno che cos’è la vita e mi tengono ottima compagnia». «Ma che dici, Traddles!» esclamai con un sussulto. «Hai detto “Micawber”?» «Ebbene sì, perché?» mi chiese un po’ stupito. «Non dirmi che li conosci!» In quel momento un doppio colpo battuto alla porta rese del tutto superflua la mia risposta all’amico Traddles. Quel modo di bussare lo conoscevo da quando abitavo a Windsor Terrace: poteva essere solo il signor Micawber, che infatti apparve sull’uscio. Era sempre lo stesso: interruppe la canzonetta che stava canticchiando e salutò con la gentile loquacità che gli era propria: «Chiedo perdono! Non sapevo che nel vostro santuario vi fossero persone». E fece un inchino. Io allora lo guardai sorridendo e gli domandai: «Come state, signor Micawber?» «Grazie dell’interessamento, signore» mi rispose. «Siete molto gentile. Io sono propriamente in statu quo.» Mentre mi rispondeva, il signor Micawber mi guardava e, non avendomi riconosciuto, non capiva perché mai m’interessassi della sua salute. Ma a forza di guardarmi mi riconobbe. Allora, stringendomi calorosamente entrambe le mani, esclamò: «Gran Dio! Ho il piacere di avere davanti a me il signor Copperfield!» Si precipitò alla ringhiera e chiamò la moglie: «Mia cara, qui dal signor Traddles c’è un signore che desidera salutarti…» Poi ritornò verso di me, mi strinse di nuovo le mani e ricominciò a parlare con i consueti svolazzi: «È una contingenza oserei dire provvidenziale, quella per cui in certi momenti di transitoria difficoltà mi vien fatto d’imbattermi nel mio amico Copperfield. L’ultima volta che c’incontrammo fu a Canterbury, per così dire all’ombra dell’edificio religioso immortalato da Chaucer, e che anticamente accoglieva pellegrini provenienti da ogni angolo del mondo… sì, insomma, nei pressi della cattedrale». «Appunto, signor Micawber, ci siamo visti proprio a Canterbury.»

«Bene, mio giovane amico, io versavo allora in uno di quei frangenti della mia umana parabola, nei quali fu giocoforza che io mi fermassi ad attendere che gli eventi prendessero una diversa e più propizia direzione. Oggi mi accade di trovarmi in un’identica fase: io indietreggio per spiccare un più possente balzo in avanti. La… laralà… la… la…» A quel punto il signor Micawber si mise a canticchiare, poi si precipitò verso la porta, sulla quale era apparsa la moglie. Questa, al contrario del marito, mi riconobbe subito. Le domandai notizie dei figli e così seppi che i gemelli erano diventati due giganti. Seppi anche che il signor Micawber si occupava in quel tempo di non so quale commercio di granaglie, senza peraltro riuscire a superare certe “contingenti” difficoltà. Poi la signora mi parlò di una cambiale che suo marito aveva preparato e che intendeva farsi scontare da una banca, mediante la garanzia di un terzo; dopodiché i coniugi Micawber ci salutarono e uscirono. Quando io e Traddles fummo di nuovo soli, ritenni mio dovere metterlo in guardia. «Ascolta» gli dissi «io conosco da tempo il signor Micawber. È un buon uomo, senza cattive intenzioni, ma se fossi in te non gli presterei nulla.» «Mio caro» rispose Traddles «non ho nulla da prestargli.» «Hai il tuo nome» osservai. «Ti pare che vada considerato una cosa da prestare?» «Certamente!» «E allora, mio caro Copperfield, l’ho già prestato.» «Per la cambiale di cui parlava poco fa la signora Micawber?» «Non per quella, per un’altra…» «Hai avallato una sua cambiale?» «Sì, Copperfield. Non so quel che accadrà. L’altro giorno Micawber mi ha assicurato di avere già provveduto…» Questa notizia mi addolorò molto, ma non volli allarmare ancora di più il mio amico, sebbene fossi certo che la cosa sarebbe finita nelle mani della legge.

Purtroppo fui buon profeta. Qualche giorno dopo, infatti, ricevetti il seguente biglietto del signor Micawber: Signore, non oso più darvi l’appellativo di amico. Il sottoscritto è atterrato e giace in mezzo alle rovine delle sue speranze. Vi scrivo la presente mentre il rappresentante di un usuraio, assistito dalle patrie leggi, prende possesso dei miei effetti personali per il debito della pigione. Nel naufragio sono compresi i beni di proprietà del mio pensionante Tommy Traddles, avallante di una cambiale di 23 sterline, 4 scellini e 9 pence e mezzo. La coppa di fiele è colma e la testa del sottoscritto cosparsa di cenere. W. Micawber

Ma le risorse di Micawber erano inesauribili come le sue cadute. Qualche giorno dopo Traddles mi consegnò una lettera. «Prendi» mi disse. «È di Micawber.» «Dove diavolo è andato a finire?» domandai. «Si trova, sotto falso nome, in una topaia di Gray’s Road. Sembra però che adesso abbia trovato lavoro. Leggi. A me ne ha parlato a voce, ma credo che la lettera tratti lo stesso argomento.» Presi la lettera e lessi: Mio caro Copperfield, ritengo impossibile che non abbiate almeno il sospetto di quanto sto per comunicarvi: sono sul punto di partire per una città di questa nostra vecchia isola, dove entro come coadiutore di un dotto e abile professionista che conoscete molto bene. Si tratta del nostro comune amico Uriah Heep, socio del dottor Wickfield. Non vorreste onorarci di una visita? Potremmo così celebrare il nostro saluto ai vecchi amici e a questa moderna Babilonia con svariati bicchieri di quel punch di cui voi mi sapete abilissimo preparatore. Se ciò avverrà farete un gran regalo a uno che sarà sempre il vostro Wilkins Micawber

Quando ebbi finito di leggere rimasi con il foglio in mano e con l’aria più sbalordita che avessi mai avuto in vita mia. Il signor Micawber e Uriah Heep in rapporti di affari? La vicenda poteva presentare incognite assai pericolose. Da una parte un uomo che non era mai riuscito a stabilire una tregua con il bisogno; dall’altra un serpente capace di tutti gli inganni: non riuscivo a

immaginare che cosa sarebbe uscito da un simile connubio, ma certo qualcosa di molto complicato.

Capitolo undici Gioie e dolori

Dopo

il mio ultimo incontro con Traddles, parve che sul mio orizzonte dovessero nuovamente addensarsi nubi nere di tempesta. La prima notizia dolorosa mi giunse da Peggotty, e me la recapitò Steerforth in persona. Infatti, dopo essersi recato a Oxford, il mio amico aveva passato un’altra settimana a Yarmouth, veleggiando sottocosta con il suo yacht. Prima che ripartisse, Peggotty gli aveva consegnato una lettera per me, dove la povera donna mi comunicava che le condizioni di Barkis erano talmente peggiorate da far temere per la sua vita. Decisi di partire subito; il giorno dopo, ottenuto il permesso dal signor Spenlow, presi la diligenza e mi recai a trovarla. La mia tenerezza per lei non faceva che crescere con il tempo ed ero davvero addolorato per suo marito. Giunsi a Yarmouth che era quasi notte. Sebbene sapessi che nella casa di Peggotty la mia cameretta era sempre pronta, non osai alloggiare lì; scesi quindi all’albergo, mangiai un boccone e, alle dieci del mattino dopo, andai a trovarla. La povera donna mi strinse fra le braccia piangendo, mi ringraziò di essere venuto a portarle un po’ di conforto in quel difficile momento e mi assicurò che Barkis mi aveva sempre amato e ricordato.

«Vieni a vederlo» mi disse. «Non credo sia più in grado di riconoscerti, ma chissà…» Era presente anche il signor Peggotty. Entrammo in camera. Il povero Barkis giaceva a occhi chiusi, con la testa e le spalle fuori dal letto e con un braccio appoggiato a un baule da cui non si era mai separato in vita sua. Secondo lui non conteneva che stracci, ma in realtà vi erano custoditi i suoi beni più preziosi. La sua principale preoccupazione era sempre stata quella di serbare inviolato il suo tesoro e non si smentì neanche in quegli ultimi momenti. Peggotty gli si avvicinò e gli sussurrò affettuosamente: «Barkis caro, non vedi chi è venuto a trovarci? Il signorino Davy, quello che mi portava le tue ambasciate. Non hai nulla da dire a questo ragazzo?» Barkis rimase immobile, con gli occhi chiusi, respirando appena. «Se ne andrà, se ne andrà con la marea» sussurrò il signor Peggotty. «Con la marea?» chiesi io. «Sì, signorino. Qui sulla costa non si può morire se non con la bassa marea. Si nasce con l’alta marea e si muore con la bassa. Oggi sarà bassa alle tre e mezzo, e allora Barkis se ne andrà.» Lo vegliammo insieme a lungo, silenziosi, preoccupati di non disturbare la sua agonia. A un tratto, poco prima delle tre e mezzo, aprì gli occhi. Peggotty lo chiamò: «Barkis, mio caro!» «Cara Peggotty Barkis» mormorò lui con un filo di voce «la migliore delle donne…» «Guarda, c’è qui il signorino Davy, è venuto a trovarti.» Barkis volse verso di me lo sguardo già spento, tentò di fissarmi e di alzare il braccio. Il volto gli si contrasse nello sforzo di sorridere, e dalle labbra gli uscirono distintamente queste parole: «Barkis ha intenzione». Poi i lineamenti gli si distesero in un’espressione di triste rassegnazione;

rimase immobile nella rigidità della morte proprio quando la marea toccava il livello più basso. Rimasi accanto a Peggotty fino quando non furono celebrati i funerali. Da tempo la cara donna aveva comprato un pezzo di terra nel vecchio cimitero di Blunderstone, accanto alla tomba della sua amata padrona, come lei chiamava sempre la mamma, e dove intendeva dormire l’ultimo sonno vicino al suo uomo. Compiuta la cerimonia aprimmo il baule di Barkis e, insieme con il testamento, ci trovammo dentro tutte le sue ricchezze. In un sacchetto d’avena per il cavallo c’erano l’orologio d’oro con catena e sigilli che Barkis aveva portato nel giorno delle nozze, un nettapipe d’argento, ottantasette ghinee, duecentodieci sterline nuovissime, alcune azioni della Banca d’Inghilterra, un ferro di cavallo e perfino uno scellino falso. Tutta insieme l’eredità ammontava a tremila sterline, delle quali duemila erano destinate a Peggotty, che Barkis lasciava erede universale ed esecutrice testamentaria; dell’altro migliaio lasciava l’usufrutto, vita natural durante, al signor Peggotty; alla morte di quest’ultimo la cifra sarebbe andata divisa fra Peggotty, me ed Emily. Presa visione del testamento, Peggotty venne con me a Londra per le pratiche legali della successione. L’aiutai a mettere ordine nelle sue proprietà e, quando tutto fu sistemato, le proposi di rimanere con me nel mio appartamentino. Io ero solo, sempre alle prese con la signora Crupp. «Mi sembrerà di tornare bambino se rimani» le dissi. «Nessuno può aver cura delle mie cose meglio di te!» «Figlio caro» mi rispose Peggotty «se la tua vecchia e brutta cameriera può esserti ancora utile per qualcosa sarà felice di servirti fino alla morte.» Così, con mia grande gioia, Peggotty rimase con me a Londra, sostituendosi alla signora Crupp in tutto e per tutto… meno, naturalmente, che negli assalti al mio whisky. Purtroppo però la

padrona di casa non vide di buon occhio questa sostituzione: ferita nell’amor proprio, mi scrisse una lettera in cui alludeva a certe spie in abiti vedovili, a intrusi con i quali non voleva avere il minimo rapporto, e dichiarava di ritenersi esonerata da ogni futuro obbligo nei miei confronti. Questo per citare il lato “passivo” delle sue reazioni; quello attivo si concretizzò invece nella sistemazione lungo le scale di ogni sorta di trabocchetti, specialmente secchi pieni d’acqua. La signora Crupp sperava evidentemente che prima o poi, nell’andare su e giù, Peggotty inciampasse e si rompesse l’osso del collo. Intanto il mio amore per Dora cresceva ogni giorno di più. Il solo pensare a lei mi compensava di tutti i dolori e le preoccupazioni. Non appena fui ritornato a Londra mi precipitai a Norwood e mi misi a passeggiare in piena notte intorno alla villa degli Spenlow, immaginando il mio angelo al di là del cancello. Ero talmente innamorato che provai il bisogno di confidare i miei sentimenti a Peggotty. Lei era convinta che non dovessi scoraggiarmi per l’atteggiamento del signor Spenlow, che aveva interrotto i suoi inviti, e che la ragazza dovesse ritenersi fortunata ad avermi come corteggiatore. Avendo sbrigato tutte le pratiche relative al testamento di Barkis, un bel mattino io e Peggotty ci presentammo nello studio del signor Spenlow per saldare la parcella. Qui, a colloquio con il mio socio, trovammo un personaggio davvero inaspettato: il signor Murdstone! Il suo aspetto fisico non era molto cambiato: lo sguardo era sempre minaccioso e sprezzante come nei miei ricordi. Scambiammo un saluto freddo e sbrigativo; poi lui, che in un primo momento parve colpito dalla nostra presenza, riprese rapidamente il suo stile imperioso e si intrattenne a parlare con noi. «Spero che stiate bene, David Copperfield» disse.

«Non credo che la cosa vi interessi molto, ma se proprio ci tenete sto bene» gli risposi con uno sguardo folgorante. Il signor Murdstone si rivolse allora a Peggotty, che mostrava di volerlo ignorare: «Sono dolente per la perdita di vostro marito». «Purtroppo non è l’unica perdita che ho avuto nella vita. Tuttavia, almeno in questo caso, nessuno ne porta la responsabilità» lo rimbeccò secca secca Peggotty. Tra me e il signor Murdstone ci furono altri scambi di battute piuttosto acrimoniose finché, se Dio volle, il mio ex patrigno non ritenne conveniente andarsene. Il signor Spenlow ci spiegò che Murdstone era venuto a consultarlo per un contratto di matrimonio, che si sarebbe rivelato un ottimo affare, perché la ragazza era molto giovane e ricca. Sentendo quelle parole, Peggotty espresse pietà per la nuova vittima e lo fece con tanta passione da sconcertare non solo il signor Spenlow, ma perfino me. Passammo poi al pagamento della parcella per le pratiche testamentarie; nonostante il mio intervento, la cifra risultò piuttosto salata, della qual cosa il signor Spenlow non mancò di attribuire la responsabilità al nostro terzo socio. Sbrigata quella faccenda, Peggotty tornò a casa, mentre io mi recai in tribunale con il signor Spenlow. Al termine dell’udienza, tra una chiacchiera e l’altra, mi disse che in settimana avrebbe festeggiato il compleanno della figlia e che sarebbe stato lieto se anch’io avessi partecipato alla festa. Non c’era modo migliore per gettarmi nella massima confusione: da quel momento fino al giorno fatidico caddi in uno stato di agitazione intollerabile. Rividi Dora, dunque. Oh, com’era splendida con quell’abito azzurro! Accanto a lei c’era l’amica del cuore, una signorina sui vent’anni che si chiamava Mills, ma a cui Dora si rivolgeva con il nome di Julia. Vicino a loro Jip, l’immancabile cagnolino ringhioso, non mancò di manifestarmi la sua ostilità anche in quell’occasione. Mi avvicinai al mio angelo e le porsi un gran mazzo di fiori.

«Oh, grazie infinite, signor Copperfield! Che splendida sorpresa!» esclamò lei entusiasta. Non so spiegare il piacere che mi fece vederle quei fiori tra le mani: ero al settimo cielo. «Sapete, signor Copperfield? Quell’odiosa signorina Murdstone non è qui, oggi; è impegnata con il matrimonio del fratello e non tornerà prima di tre settimane. Non vi sembra meraviglioso?» Risposi di sì, mentre ero sempre più incantato dalla sua figura. La signorina Mills sembrava partecipare al mio stato d’animo e sorrideva con benevolenza. Dora si intrattenne ancora sulla signorina Murdstone, finché il signor Spenlow non ci invitò a salire in carrozza per andare a fare un picnic in un luogo non lontano. Mi accorsi con gran piacere che Dora aveva portato con sé i fiori che le avevo regalato e che li reggeva con delicatezza per non sciuparli. Raggiunta la nostra meta, mi resi conto però che ad attenderci c’erano molte altre persone. La cosa mi provocò subito una crisi di gelosia; in particolare mi infastidì il comportamento di un tizio con un paio di basettoni rossi, che dimostrava qualche anno più di me. “Basette rosse” si mise a corteggiare Dora piuttosto sfacciatamente e io, invelenito, mi vendicai rivolgendo tutte le mie attenzioni a un’altra ragazzetta vestita di rosa, che pareva non disdegnare la mia compagnia. Ma al momento del brindisi, quando incrociai lo sguardo di Dora, mi accorsi che era quasi supplichevole: avevo colpito nel segno, dunque! Intanto, però, la mamma della ragazzetta vestita di rosa chiamò la figlia per dirle qualcosa; così mi ritrovai solo e mi avviai a fare una passeggiatina tra gli alberi. Ero triste e stavo meditando di piantare in asso tutta la compagnia, quando sopraggiunse Dora con la signorina Mills.

«Signor Copperfield, siete di cattivo umore? C’è qualcosa che non va?» domandò quest’ultima. «Oh, no, va tutto benissimo» mentii. «Anche tu, Dora, sei malinconica, però!» proseguì la signorina Mills. «Ma insomma, voi due, smettetela di rovinare una bella festa come questa per una sciocchezza! Ne vale la pena?» Senza rendermi conto di ciò che facevo presi la mano di Dora e la baciai. Lei non si ritrasse, e in quel momento mi sentii invaso da una gioia incontenibile. Passammo tutta la serata insieme. Sul finire della festa l’amica mi si avvicinò e mi confidò che, due giorni dopo, Dora sarebbe andata a casa sua dove sarebbe stata ospitata per un certo periodo: se avessi voluto farle visita, aggiunse, sarei stato ben accetto. Quest’ultima proposta finì con lo scombussolarmi completamente. Tornato a Londra mi misi ad attendere con impazienza l’istante in cui avrei potuto rivedere Dora e, nel dolce tormento di quei giorni, presi la grande decisione: le avrei fatto una dichiarazione in piena regola. Finalmente, dopo quattro o cinque giorni che mi parvero mesi, arrivò il momento tanto desiderato: un tardo pomeriggio mi trovai davanti all’abitazione della signorina Mills. Dopo essere stato annunciato fui introdotto in un salotto, dove la signorina Mills stava suonando l’arpa e Dora era intenta a dare gli ultimi ritocchi a un acquerello. Che sorpresa meravigliosa! Il soggetto del dipinto era il mazzo di fiori che avevo regalato a Dora il giorno del suo compleanno… Passati pochi istanti la signorina Mills se ne andò e ci lasciò soli. “Ecco l’occasione buona per dichiararle il mio amore!” pensai; ma la sola idea di aprir bocca sull’argomento mi faceva arrossire di timidezza. Dora cominciò a parlare per prima. Mi fece qualche domanda sulla festa del suo compleanno e il suo discorso non mancò di cadere sul comportamento che avevo tenuto con la ragazzetta in rosa.

Non so come feci, ma in un lampo mi trovai con Dora tra le braccia: le confessai quanto l’amavo, le dissi che non potevo pensare a una vita senza di lei, che il mio amore cresceva ogni giorno di più, che avevo completamente perduto la testa… Tutto ciò mentre il solito Jip abbaiava furiosamente. Alle mie parole Dora si commosse e cominciò a tremare. Il risultato fu che ci fidanzammo e io ricordo di aver vissuto pochi momenti altrettanto felici. Comprai per Dora un anello di piccoli topazi turchini che formava un nontiscordardimé. Al primo litigio – che avvenne dopo una settimana – me lo vidi recapitare insieme a una lettera. Naturalmente ci riconciliammo ben presto e il nostro amore non fece altro che rafforzarsi.

Capitolo dodici La bancarotta della zia Betsey

Appena mi fui fidanzato scrissi ad Agnes per comunicarle i miei sentimenti per Dora e la mia immensa felicità. Scrivere a quella cara amica ebbe un effetto benefico sul mio animo agitato, tanto che finalmente, dopo giorni di ansia febbrile, potei gustare un certo senso di serenità. Pochi giorni dopo venne a farmi visita Traddles che, a quanto seppi, mi aveva cercato varie volte la settimana precedente senza mai trovarmi. Mi scusai con lui, dicendogli quanto fossi stato impegnato dopo il fidanzamento con Dora. «Vive a Londra, lei?» domandò Traddles. «A Norwood, nelle immediate vicinanze.» «Beato te! Io, come sai, ho molti meno impegni di te da questo punto di vista…» «Non riesco proprio a capire, Traddles, come tu possa sopportare di vedere la tua fidanzata così raramente. Come fai?» «Lo sopporto perché non ho alternativa, mio caro Copperfield» disse lui amaramente. Rimanemmo ancora un po’ a chiacchierare, passando a temi per lui più ameni, e poi ci lasciammo. Il giorno dopo, ritornando a casa dopo il lavoro, ebbi la sorpresa di trovare la scala letteralmente sbarrata dai più vari impedimenti; per di più la porta del mio appartamento era aperta e, sorpresa questa

ancora più grande, dall’interno del salotto udii provenire la voce inconfondibile della zia Betsey. Entrai. La zia stava seduta sopra un mucchio di bauli, con accanto la gabbia dei canarini; aveva il gatto sulle ginocchia e in mano una tazza di tè. Di fianco a lei c’era il signor Dick, anch’egli circondato di bauli e appoggiato a un aquilone gigantesco, identico a quelli che un tempo facevamo volare nei cieli di Dover. Con aria atterrita, Peggotty stava davanti alla zia e la guardava come si guarda un leone digiuno da tre giorni appena fuggito dalla gabbia di uno zoo. «Cara zia, che piacevole sorpresa!» esclamai abbracciandola. Strinsi anche la mano al signor Dick e poi mi rivolsi a Peggotty: «Peggotty, ti ricordi della zia?» «Per l’amor di Dio!» esclamò la zia. «Non chiamarla con quel nome da isola dei mari del Sud. Mi pare che adesso si sia sposata. Qual è il nome del marito?» «Barkis.» «E allora chiamala Barkis; è più umano. Come state, Barkis? Siamo vecchie amiche, mi pare. Ci siamo già incontrate giù a Blunderstone un’altra volta, vi ricordate? Abbiamo fatto un bell’affare quel giorno! Mio caro Trot, un’altra tazza, se non ti dispiace…» «Subito, zia. Ma perché ve ne state seduta sul baule? È scomodo. Aspettate che vi porti una poltrona.» «Grazie, preferisco star seduta sulla mia proprietà.» Conoscendo la zia non replicai, ma rimasi molto inquieto. Il suo arrivo in quelle condizioni non mi parve normale; ad accrescere le mie preoccupazioni contribuiva anche il signor Dick che, ogni volta che poteva farlo senza farsi notare dagli altri, mi guardava, scuoteva la testa e poi accennava in direzione della zia Betsey. Feci un rapido esame di coscienza per cercare di capire se per caso non avessi commesso qualcosa che non le andava a genio, ma non trovai nulla da rimproverarmi; comunque non chiesi spiegazioni, ben sapendo che la zia avrebbe parlato solo quando l’avesse ritenuto opportuno. E alla fine parlò. «Trot» mi disse, e poiché vide

che Peggotty accennava ad andarsene la fermò. «Potete rimanere, Barkis. Trot, sei abbastanza forte? Hai fiducia in te stesso?» «Credo di sì, zia.» «Ne sei sicuro?» «Senza dubbio.» «E allora ascoltami. Sai perché preferisco rimanere seduta sul mio baule? Perché è tutto quel che posseggo. Sono rovinata, mio caro! Tutti i miei beni sono in questa stanza, figlio mio. Mi rimane solo la villa, dove ho lasciato Janet perché l’affitti.» Se la casa fosse precipitata giù nel Tamigi con tutti noi dentro non ci sarei rimasto peggio. «Ma come, zia…?» esordii. Lei mi si buttò fra le braccia piangendo. «Sono preoccupata per te, ragazzo mio, solo per te, ma non dobbiamo scoraggiarci: affronteremo gli eventi con fermezza. Dick ci aiuterà con i suoi consigli. E voi, Barkis… ho bisogno di un letto per questo signore» disse indicando il signor Dick. «Datemi un’altra tazza di tè.» Il disastro economico della zia, di cui non avevo alcuna idea precisa, mi mise in serio imbarazzo. Lei era preoccupata per me, ma io lo ero anche per lei; subito pensai: “Mi troverò un altro lavoro. Non posso pesare su quel poco che le rimane”. Intanto, per quella sera, bisognava trovare un letto per il signor Dick. Pensammo di metterlo a dormire in casa di un droghiere che abitava poco distante, così io lo accompagnai per fargli vedere la cameretta in cui avrebbe dovuto alloggiare. Per strada gli chiesi se sapeva qualcosa di più preciso sul crollo finanziario della zia, ma lui aveva un’idea assai vaga dell’accaduto. «Ecco, Trot, tutto quello che so. Un giorno la signora Trotwood mi disse: “Dick, sei veramente filosofo come suppongo?” “Sì” risposi io. “Allora” disse lei “sappi che sono rovinata.” “Ma no…davvero?” le domandai. “Davvero, Dick, e sono molto compiaciuta del tuo coraggio.” Dopo di che abbiamo mangiato un panino, bevuto una birra e siamo partiti per Londra.»

Il poveretto non sapeva altro e non si rendeva minimamente conto delle conseguenze che quell’avvenimento avrebbe avuto. Anzi, mi parlò della necessità di lavorare al suo memoriale, che voleva terminare prima possibile. Ne convenni con lui, ma ritornai a casa più angosciato di prima. Quando rientrai la zia mi guardò con aria interrogativa. Poi mi disse: «Ho saputo che sei innamorato. Ne sei proprio sicuro?» «Amo Dora con tutta l’anima!» risposi arrossendo. «Già, Dora» replicò. «Non sarà la solita sciocchina, vero?» Mi resi conto di non aver mai considerato la questione sotto questo aspetto, ma risposi dipingendo la figura del mio angelo nella luce più favorevole. Alla fine aggiunsi: «Non potrei sopportare che Dora si innamorasse di qualcun altro, né io mi posso immaginare innamorato di qualcun’altra». «Ohi, ohi, ohi, Trot!» esclamò la zia Betsey. «Non voglio smorzare il tuo entusiasmo, ma spesso questi amori giovanili non approdano a nulla di serio… Però… insomma, staremo a vedere.» Quelle parole non erano granché incoraggianti, ragion per cui la sera stessa andai a letto un po’ triste. Il fatto di essere diventato improvvisamente povero mi preoccupava soprattutto perché avrei dovuto dirlo a Dora, lasciandola libera di decidere. Come mi sarei potuto mantenere senza stipendio e senza l’aiuto della zia? Come mi sarei potuto presentare di fronte a Dora malvestito e senza neppure un penny per farle un regalino? Quella notte dormii proprio male. Ogni tanto, quando mi svegliavo, sentivo la zia Betsey camminare su e giù nella stanza accanto. La sera prima era accaduto un fatto inconsueto. Ben conoscendo le sue abitudini, mi ero messo a prepararle un vin brulé, nel quale lei amava inzuppare qualche crostino prima di andare a letto; ma, accorgendosi dei miei preparativi, la zia aveva detto: «Trot, caro, niente vino. Birra!» Ero rimasto lì, con la bottiglia del vino in mano, a guardarla come si potrebbe guardare il sole sorgere a occidente.

La sorpresa del signor Dick non fu meno forte: il buon uomo le sgranò in faccia un paio d’occhi che parevano due piattini da tè. Subito dopo uscimmo: io per comprare la birra, il signor Dick per tornare dal droghiere – a cui lo avevo presentato qualche ora prima – in compagnia di Peggotty, poiché anche la mia vecchia domestica aveva preso un letto lì. Durante il percorso eravamo tutti e tre tanto abbattuti da non proferire parola. Dick camminava curvo, con il suo grande aquilone sulle spalle, come se si portasse addosso tutte le delusioni dell’umanità. Il giorno dopo la zia Betsey si lanciò in un grande elogio di Peggotty, che nel frattempo aveva studiato a fondo. «A me, in genere, non piacciono le facce nuove» disse «ma la tua Barkis mi piace: è una donna onesta e leale.» «Sono più contento di sentirti dir questo, zia, che se avessi vinto cento sterline alle corse dei cavalli!» «Che mondo curioso, Trot» osservò ancora. «Chissà dov’è andata a pescarsi quel nome da uccello!» «Non credo che piaccia neppure a lei, zia» risposi «ma non è colpa sua. Era il cognome di suo padre.» «Certo, certo…» disse la zia. «Tuttavia è un’ottima persona, Trot, e ti vuole un gran bene. Figurati che quella sciocca, pff… sì, voglio dire pff… pff… quella stupidella mi ha pregato e scongiurato di accettare un po’ del suo denaro, perché ha detto che ne ha troppo… pff… che stupida!» Guardai la zia e vidi che le lacrime le rigavano il volto. L’indomani feci un bagno freddo per rinfrancarmi, e poi mi recai dal signor Spenlow per vedere se fosse possibile svincolarmi dal mio contratto e recuperare le mille sterline della zia, che avevo versato tempo prima per iscrivermi all’ordine dei procuratori. Trovai il signor Spenlow gentile come sempre; ma quando gli parlai di rescindere il contratto, il mio uomo cambiò umore. «Rescindere il contratto» mi disse «non è un procedimento

ammesso, è contro la legge. E poi, voi sapete qual è la mia situazione: io ho un socio, il signor Jorkins, e quello è un uomo molto puntuale in questo genere di cose.» «Con il vostro permesso» replicai «tenterò di persuadere il signor Jorkins. Vedete, signor Spenlow, la zia ha avuto un grave rovescio finanziario, ed è mio dovere adoperarmi per recuperare almeno una parte della somma versata.» «Mi dispiace molto, Copperfield» disse il signor Spenlow «e non mi oppongo al vostro tentativo di consultare il signor Jorkins, ma temo che non riuscirete a persuaderlo a fare una cosa contraria alla legge.» Sebbene con pochissime speranze, mi recai dal signor Jorkins che, quando apprese di che cosa si trattava, mi piantò in asso adducendo la scusa di un appuntamento in banca. A quel punto decisi di tentare il tutto per tutto e così aspettai il ritorno del signor Spenlow, pregandolo di intervenire sul signor Jorkins per ammorbidirlo. «Copperfield» rispose lui con un mezzo sorriso «conosco da molto tempo il mio socio e anche il suo modo di ragionare. Credetemi: il signor Jorkins è irremovibile!» Allora mi resi conto che non avrei mai saputo chi dei due era il più tenace e mi avviai rassegnato verso casa. Più che preoccupato per l’avvenire, ero deluso. Se era vero, com’era vero, che mai e poi mai avrei potuto recuperare quelle mille sterline, avrei dovuto pensare al modo di impiegare le ore libere dopo il lavoro per cercare di guadagnare qualcosa. Assorto in questi pensieri, andavo per la strada come un automa, senza accorgermi neppure della gente che mi passava accanto, quando a un tratto scorsi una carrozza che mi veniva incontro e una mano bianca che si agitava verso di me in segno di saluto. Poi intravidi un caro viso che mi sorrideva dal finestrino. «Agnes!» esclamai avvicinandomi alla carrozza. «Agnes, mio buon angelo, siete proprio voi. Che piacere vedervi!»

«Davvero?» fece la cara fanciulla stringendomi la mano. «Vi devo proprio credere?» «Certo che potete credermi, Agnes! E voi, dove state andando in carrozza?» «All’Adelphi, per fare una visita alla signora Trotwood.» «Dio vi benedica! Come sapete che la zia è a Londra?» «Me l’ha scritto lei» rispose Agnes «in un bigliettino non più lungo di una banconota da una sterlina.» Scese dalla carrozza, mi si attaccò al braccio e ci avviammo. Non posso dire il senso di conforto che mi dava la vicinanza di quella creatura; tuttavia il fatto che la zia le avesse scritto mi dava un’altra conferma della gravità della situazione. «Siete venuta da sola, Agnes?» «No, Trot, sono qui con mio padre e con il suo socio Uriah Heep. Pensate, Trot» continuò malinconica Agnes «che ormai Uriah vive con noi insieme a sua madre. Dorme nella cameretta dove dormivate voi.» «Avessi il potere di determinare i suoi sogni, Agnes» dissi «non dormirebbe a lungo! Come mi dispiace questa notizia!» Così chiacchierando arrivammo a casa. Trovammo la zia in grande eccitazione per via di un litigio scoppiato di fresco tra lei e la signora Crupp, che giudicava sconveniente la coabitazione di una persona del gentil sesso con uno scapolo. La zia, del tutto indifferente a scrupoli del genere, aveva fatto osservare alla signora Crupp come l’alito le puzzasse di whisky e le aveva ordinato di andarsene. La mia padrona aveva considerato offensivo quel linguaggio e aveva minacciato di appellarsi alla legge; ma la minaccia non aveva avuto il minimo effetto e la vittoria era rimasta alla signora Betsey Trotwood. Orgogliosa di avere sconfitto la rivale, la zia accolse Agnes con grande affetto e intavolò subito un discorso sui suoi recenti disastri. «Il caso di Betsey Trotwood» disse «è semplicissimo… No, non alludo a tua sorella, Trot, ma a me stessa. Betsey Trotwood aveva un patrimonio: non granché, ma certo più

che sufficiente per i suoi bisogni, nonché per quelli di suo nipote e di quell’eccellente filosofo che è Dick. Per parecchio tempo amministrò molto bene il suo denaro, anche per merito di un onesto amministratore… alludo a tuo padre, Agnes.» A quel punto mi accorsi che Agnes impallidiva. «Un bel giorno» continuò la zia «quest’uomo d’affari smarrì la sua fermezza consueta; era avvenuto qualcosa di cui non riesco ancora a rendermi conto. La signora Trotwood decise allora di investire i suoi risparmi in imprese estere e, dopo aver subìto varie perdite, di impegnare il capitale rimasto nelle obbligazioni di una banca, che qualche mese dopo fallì, inghiottendo le risorse che le erano rimaste. Ora ogni cosa è perduta. Ma non parliamone più. Ormai, caro Trot, la situazione è questa: ho ancora il villino di Dover, da cui ricaverò una settantina di sterline all’anno, che è tutto ciò su cui possiamo contare. Da parte sua, Dick ne ha un centinaio, ma devono servire per lui. Noi due faremo come potremo, mio caro Trot; l’importante è non perdersi d’animo.» «Zia» ribattei con fermezza «non avete tenuto conto di me! Io ho intenzione di lavorare e di contribuire in qualche modo al nostro mantenimento.» «E che cosa intenderesti fare, Trot?» mi chiese la zia. «Arruolarti nell’esercito, andare in marina? Sciocchezze! Tu dovrai fare il procuratore e basta. Ricordati che in casa mia non voglio teste matte.» «La questione è un’altra, zia» risposi. «Lavorando nello studio Spenlow & Jorkins mi rimangono diverse ore libere da impiegare, e non voglio perderle andando a zonzo.» «A proposito» intervenne Agnes «mi viene in mente una cosa, Trot. Sapete che il dottor Strong, il vostro vecchio maestro, ha deciso di lasciare l’insegnamento e di dedicarsi, qui a Londra, a quel suo dizionario? Ha chiesto a papà di proporgli un segretario. Io penso che sarebbe contentissimo di affidare questo incarico al suo allievo preferito. Abita a Highgate: perché non andate a trovarlo?»

«Agnes» esclamai «voi siete il mio buon angelo, sì… ve lo ripeto ancora una volta! Nel buio in cui mi trovo, per me questa proposta è uno spiraglio, e sono lieto di poter dimostrare alla mia buona zia che ho voglia di lavorare anch’io.» «Bene» fece la zia; «se questo non ostacola i tuoi studi di procuratore, approvo anch’io la proposta. Il dottor Strong è un’ottima persona. Vedrai, Trot, che la provvidenza ci aiuterà.» «Ciò che mi dispiace, zia» dissi «è il fatto che sarete costretta a vivere qui, in questo appartamentino, e con la signora Crupp che è noiosa come una giornata di nebbia!» «Bah!» esclamò la zia con aria sprezzante. «Alla prima che mi fa la rendo inoffensiva per tutto il tempo che le resta da vivere!» Non feci obiezioni: sapevo che con la sua tempra la zia era capace di questo e di altro. Mentre stavamo conversando, ecco che si sentì bussare alla porta. «Credo che sia papà» disse Agnes impallidendo. «Aveva promesso di venire…» Andai ad aprire e insieme al signor Wickfield mi trovai di fronte quel viscido individuo che rispondeva al nome di Uriah Heep. Rimasi molto impressionato dal signor Wickfield: certo, Agnes mi aveva ben avvertito di alcuni cambiamenti sopravvenuti in lui, ma ciò che colpiva di più era la sua aria di sottomissione nei confronti di Uriah Heep. Sembrava di vedere una scimmia che comandava un uomo. La zia Betsey si rivolse al signor Wickfield in tono indifferente: «Ho appena spiegato a vostra figlia che da quando ho amministrato in prima persona il mio patrimonio, considerandovi un po’ arrugginito, ho perso fino all’ultimo penny. A questo punto, secondo me, lo studio meriterebbe di essere condotto da Agnes». «Se posso umilmente intervenire» osservò Uriah «sono perfettamente d’accordo con la signora Trotwood, e sarei lieto se Agnes diventasse socia.»

«Siete socio anche voi, se non sbaglio: non vi basta?» A quella battuta inattesa Uriah cominciò a contorcersi come un’anguilla. «Che il diavolo vi porti! Che cosa vi prende ora?» sbottò di nuovo la zia. «Abbiate pazienza, signora, comprendo il vostro nervosismo e…» «Nervosa un fico secco! Ma, se non siete una biscia, cercate di controllarvi: a seguire codeste contorsioni mi fate venire il mal di testa.» Uriah sembrò mortificato, ma rivolgendosi a me sottovoce mi assicurò la sua comprensione per lo stato d’animo della zia Betsey e manifestò il suo profondo rincrescimento per l’accaduto. «Sono venuto soltanto per offrirvi l’aiuto dei soci Wickfield e Heep…» riprese Uriah. «Se posso permettermi questa espressione…» aggiunse mellifluo, gettando uno sguardo in tralice al signor Wickfield. «Uriah Heep è prezioso; approvo tutto quel che dice. Per me averlo come socio è una garanzia» assentì con voce strozzata il signor Wickfield. A questo punto, visto che la sua manovra aveva funzionato alla perfezione, Uriah se ne andò via tutto contento, rivolgendo all’uditorio un sorriso circolare che somigliava al ghigno di una iena. Rimasti finalmente soli, potemmo rievocare insieme i bei tempi di Canterbury, quando il signor Wickfield era un uomo completamente diverso e Uriah era ancora e soltanto un giovane di studio. Il padre di Agnes si mostrò particolarmente soddisfatto di potersi ritrovare da solo con la figlia e con i vecchi amici. Cenammo insieme e Agnes ebbe la bontà di ascoltarmi tessere le lodi di Dora per tutta la serata. Il giorno dopo mi recai dal dottor Strong con il fermo proposito di accettare le sue eventuali proposte di lavoro. Il mio vecchio professore abitava in un villino, dalla parte opposta del sobborgo in cui sorgeva la casa del mio amico Steerforth.

Quando giunsi davanti al cancello della villa, vidi il dottore che passeggiava da solo nel giardino, in mezzo agli alberi, da sempre i suoi compagni preferiti. Poiché mi parve, come al solito, completamente assorto nei suoi pensieri, aprii il cancello e andai nella sua direzione, facendo in modo che, appena si fosse voltato, mi avrebbe trovato davanti. A un certo punto alzò lo sguardo e mi fissò senza dar segno di riconoscermi; ma subito dopo mi tese entrambe le mani, con la gioia dipinta sul volto. «Ah, caro Copperfield, come sono lieto di rivederti!» esclamò. «Sei diventato un uomo… e un bell’uomo, per giunta.» «Grazie, dottore, spero che la vostra salute vada sempre bene. E la signora Strong, come sta?» «Annie? Sta benissimo e sarà proprio contenta della tua visita. E tu, che cosa fai di bello?» «Ecco…» risposi «se vengo a trovarvi, ciò non si deve solo al piacere di salutare il mio vecchio maestro, ma anche alla triste situazione in cui mi trovo.» «Oh, davvero? Come mai, ragazzo mio?» esclamò con affettuosa preoccupazione il dottor Strong. «Parla: se il tuo vecchio professore potrà esserti utile in qualche cosa ne sarà davvero lieto.» Gli raccontai allora del disastro finanziario della zia e del mio incontro con Agnes, che mi aveva riferito della sua esigenza di trovarsi un segretario. «Figlio caro» rispose «quel che mi dici degli affari di tua zia mi addolora molto e nulla mi sarebbe tanto gradito quanto il venirti in aiuto. Ma il compenso che potrei darti per quel posto sarebbe troppo scarso per te: settanta sterline l’anno.» «Non importa, dottore, mi basterebbero. Solo che non ho tutto il giorno libero; dispongo solo di qualche ora la mattina e di poche ore la sera. Non so se la cosa vi conviene.» «Mi conviene a meraviglia!» disse il dottor Strong soddisfatto. «Come ben sai, il nostro lavoro consisterà nella compilazione del dizionario etimologico greco.»

Iniziai il lavoro la mattina dopo e da quel momento le mie giornate furono proprio intense: mi alzavo alle cinque del mattino e rientravo a casa alle nove o alle dieci di sera; dal dottor Strong passavo due ore la mattina e altre tre la sera. Malgrado i miei molti impegni non risentivo troppo della stanchezza; soprattutto perché pensavo che quella fatica mi rendesse più degno di Dora. Lei non sapeva ancora le ultime novità; contavo di parlargliene quando sarebbe ritornata, pochi giorni dopo, per passare una settimana a casa della signorina Mills. Da parte sua, la zia si dimostrò molto commossa per la buona volontà che dimostravo. Il povero signor Dick, invece, era triste come non lo avevo mai visto. Inutile come un uccello impagliato, il grande aquilone riempito dei suoi pensieri giaceva in un angolo della sua cameretta e il memoriale non procedeva più. Venne a trovarmi due o tre volte dal dottor Strong e si persuase che nemmeno i galeotti e i minatori lavorano come lavoravo io. Allora lo colse la malinconia di vedersi solo in casa, inattivo e incapace di dare un contributo per sollevare la difficile situazione della zia Betsey. A risolvere la faccenda fu nientemeno che il mio amico Traddles. Nella mia brama insaziabile di lavoro, ero andato a trovarlo per farmi suggerire qualche altro mezzo di sostentamento e mi ero portato dietro il signor Dick. Trovai Traddles al tavolo di lavoro, con un mucchio di carte davanti: venne ad accogliermi sulla porta con un volto addirittura radioso perché, come mi disse subito, era riuscito a riscattare i mobili che gli avevano pignorato per via di quell’avallo in favore del signor Micawber. Gli presentai il signor Dick, il quale ci assicurò di aver già incontrato Traddles: «… Sì, ma dove? Non ricordo bene dove… Che sia stato all’epoca di Carlo I?» Finiti i convenevoli, attaccai l’argomento che mi stava a cuore. «Ho saputo» dissi al mio amico «che un ottimo mezzo per guadagnare, e soprattutto per farsi un nome, è quello di scrivere il

resoconto giornalistico dei dibattiti parlamentari. Non sapresti indicarmi la via per arrivarci?» «È davvero un’ottima idea» approvò Traddles «e io credo che ci riusciresti a meraviglia, dati i tuoi talenti letterari. Però… però è indispensabile saper fare una cosa che non conosci: bisogna saper stenografare.» «E se imparassi?» chiesi. «Nessuno te lo vieta» fece Traddles. «Il problema è che ci vuole parecchio, direi circa due o tre anni.» «Non importa; comincio subito. Domani vado a comprarmi un manuale di stenografia e mi metto subito all’opera.» A quel punto guardai il signor Dick e vidi i suoi occhioni sporgenti fissarmi con una sorta di panico. Udendo il mio discorso gli era risaltata addosso l’idea che, mentre tutti si adoperavano a far qualcosa, solo lui se ne restava con le mani in mano. Gli pareva di esser diventato poco meno che un delinquente. Capii tutto e tentai di corrergli in aiuto. «Anche il signor Dick qui presente sarebbe lieto di trovare un lavoro adatto a lui» dissi a Traddles. «Sicuro, sicuro!» annuì il signor Dick mettendosi un dito nel naso. «Vediamo un po’…» disse Traddles. «Avete una bella calligrafia, signore?» «Bellissima» risposi io. «È un calligrafo addirittura.» «Bene, potreste copiare certe carte che io vi procurerei…» «Potrei, Trot?» chiese timido il signor Dick. «Certo che potreste!» Fu così che in una settimana riuscì a guadagnare dieci scellini e, quando poté presentare alla zia i suoi guadagni sopra un vassoietto a forma di cuore che aveva comprato in un negozio vicino, sembrava fuori di sé dalla gioia. Mi trasse in disparte e, alzando le mani e aprendo a ventaglio le dieci dita, quasi fossero stati gli sportelli di dieci banche, mi sussurrò: «Guarda! A lei provvederò io».

Con quel “lei” intendeva la zia… “la donna più meravigliosa dell’orbe terracqueo”. Traddles, lì presente, rideva felice anche lui, con quei capelli irti come i peli dorsali di un bruco.

Capitolo tredici Un amore contrastato

Una

settimana dopo, approfittando dell’assenza del signor Mills, che era uscito di casa per recarsi al club, potei incontrare Dora. La informai della mia nuova situazione senza tanti preamboli e le chiesi se se la sarebbe sentita di continuare ad amare un poveretto come me. Alle mie parole Dora reagì con un senso di fastidio: era convinta che stessi recitando una parte, per di più poco simpatica. «Come ti vengono in mente sciocchezze simili?» replicò irritata. «Dora, tesoro, non sto scherzando!» insistei. «Se continui, ti farò mordere da Jip!» continuò lei. Mi resi conto che dovevo vincere a tutti i costi il suo atteggiamento infantile, che le impediva di accettare una realtà estranea alla sua immaginazione. Alla fine, del tutto convinta dalla mia aria seria e preoccupata, la mia bella fidanzata scoppiò in un pianto dirotto. Non avrei mai voluto assistere a quella scena tanto spiacevole: il mio cuore ne soffriva troppo. Dora cominciò a esclamare: «Oh, povera me, povera me! Julia, dove sei?» E mi pregò di andarmene. Quando le mie suppliche ebbero ottenuto l’effetto di calmarla e di farmi ascoltare, la strinsi tra le braccia e le spiegai che il mio amore per lei non era cambiato, ma che non intendevo considerarla impegnata con me se lei non l’avesse più voluto. La informai anche

del fatto che mi ero già trovato un altro impiego e che avevo intenzione di lavorare il più possibile in vista del nostro matrimonio. «Mi ami ancora, Dora?» conclusi trepidante ma speranzoso. «Oh, David, il mio cuore è solo per te. Non spaventarmi con questi orribili discorsi! Non parlarmi di lavoro!» «Dora, amore!» dissi. «Un tozzo di pane guadagnato onestamente è meglio…» «Sì, però il mio Jip ha bisogno di una bistecca di montone al giorno, se no morirà!» esclamò lei. «Mia cara, Jip avrà la sua bistecca e noi potremmo vivere in una casetta modesta ma carina, che ho già adocchiato e che farebbe anche la felicità di Jip, dal momento che c’è il giardino. Ti spavento ancora?» «Oh, no, mio caro David. Spero solo che tua zia non sia troppo brontolona.» «Dora, da oggi dovrai abituarti a pensare di avere un fidanzato povero… se tu potessi magari adoperarti a imparare… per esempio a tenere i conti… sarebbe davvero utile per noi.» La mia fidanzata era sull’orlo dello svenimento e dovetti spruzzarle un po’ d’acqua sul viso per farla riavere; dopo che si fu ripresa decidemmo di lasciare da parte quei tristi argomenti e di passare a qualcosa di più allegro. A un certo punto dovetti congedarmi: la mattina dopo dovevo alzarmi alle cinque per andare dal dottor Strong. Ma Dora, dispiaciutissima di vedermi andare via, voleva trattenermi a tutti i costi, e mi fu davvero difficile liberarmi. In un baleno, pensai uscendo, si era completamente dimenticata dei discorsi appena fatti. Alcuni giorni dopo mi recai in tribunale e rimasi sorpreso nel constatare che il signor Spenlow mi trattava con una strana freddezza. Dopo la seduta mi propose di andare a bere qualcosa in un caffè, dove ci appartammo in una saletta riservata. Eravamo

appena entrati, quando la porta si aprì e il mio stupore raddoppiò nel veder avvicinarsi nientemeno che la signorina Murdstone. Invitata dal signor Spenlow a sedersi, la donna di ferro si accomodò, salutandomi con un lieve cenno del capo e trafiggendomi contemporaneamente con uno sguardo fulminante. Senza molti preamboli il mio principale le disse: «Signorina Murdstone, vorreste essere così gentile da mostrare al signor Copperfield ciò che avete portato con voi?» Senza pronunciare una parola la sorella del mio ex patrigno frugò nella borsetta ed estrasse una lettera, che posò sul tavolino. Sobbalzai: era l’ultimo, appassionato biglietto d’amore che avevo mandato a Dora! «Se non sbaglio questa è la vostra scrittura, signor Copperfield» esordì severo il signor Spenlow. Mi sentii avvampare. «Sì, è così, signore» risposi. «Anche tutte queste altre sono vostre, vero?» continuò dando un’occhiata alla Murdstone, che con calma gelida tirò fuori un pacchetto di una ventina di lettere. Ne scorsi alcune frasi iniziali e mi fu impossibile negare di esserne l’autore. Allora il signor Spenlow concesse la parola alla donna di ferro, che ricostruì le circostanze della sua scoperta. La causa involontaria era stato Jip, che aveva tentato di trasformare in prima colazione la mia ultima lettera; vedendo il cane con un foglio scritto in bocca, la signorina Murdstone aveva interpellato Dora, chiedendole di che cosa si trattasse. Colta di sorpresa, la mia promessa aveva subito portato la mano alla tasca del vestito e, accortasi che le mancava qualcosa, si era precipitata verso il cane per recuperare la refurtiva. Ma la sua “protettrice” l’aveva già anticipata e stringeva nella destra la mia lettera. Così furono cercate e trovate anche le altre, che la sagace signorina Murdstone riteneva da tempo scritte da tutt’altra persona, e non dalla signorina Mills, alla quale Dora le attribuiva.

«Avete qualcosa da dire in vostra discolpa?» chiese il signor Spenlow. «Posso dire che la colpa è mia e solo mia, signore. Dora non ha alcuna responsabilità.» «La signorina Spenlow, se permettete» mi interruppe piuttosto seccato. «Avete agito in modo deprecabile. Un gentiluomo introdotto in casa mia, qualsiasi età abbia, non può tradire la fiducia che gli è stata concessa. Se ciò avviene si tratta di un’azione disonorevole, signor Copperfield.» «Mi rendo conto della gravità dell’accaduto… me ne rendo pienamente conto solo ora, signore. Il mio grande amore per la signorina Spenlow mi aveva fin qui impedito…» «Queste sono stupidaggini! Per cortesia, non parlate di amore!» «Signor Spenlow, questo è il mio unico argomento di difesa…» «Ma vi rendete conto della vostra età e di quella di mia figlia, signor Copperfield? Avete mai pensato che cosa significhi far venir meno la fiducia che lega un genitore al figlio? Vi siete mai chiesto quali progetti possa avere io per il futuro di mia figlia?» «Temo di essere stato un po’ superficiale» fui costretto ad ammettere. Il signor Spenlow pose termine al discorso affermando categoricamente che di fidanzamento non c’era neanche da parlarne e che da ora in avanti i nostri rapporti si sarebbero limitati alle questioni di lavoro. Non potei fare a meno di avvertirlo che non sarei stato capace di rinunciare all’amore di Dora e che lei ricambiava il mio sentimento. «Riflettete su ciò che vi ho detto, Copperfield; pensateci con calma, fatevi consigliare da vostra zia e da chi ha più esperienza di voi; poi datemi una risposta definitiva.» Accettai la proposta, ma lasciai chiaramente capire che i miei sentimenti non potevano cambiare. Quel pomeriggio stesso scrissi un biglietto disperato alla signorina Mills, chiedendole un appuntamento. Quando ci incontrammo lei mi

manifestò il suo enorme dispiacere per l’accaduto, ma non mi diede grandi speranze. Parlai anche con la zia Betsey, che fece del suo meglio per consolarmi. Preso dalla disperazione, quella sera andai a letto presto e la mattina dopo mi svegliai ancora più triste e agitato della vigilia. Uscii e mi recai in ufficio. Giunto lì davanti, ebbi la sorpresa di trovare le imposte chiuse e un capannello di persone accalcate nell’ingresso. Gli impiegati erano ai loro posti, ma nessuno stava lavorando. «Che cosa succede?» chiesi a Tiffey, l’impiegato più anziano. «Come, non lo sapete?» esclamarono Tiffey e tutti gli altri. «No!» risposi, cercando di capire qualcosa dai loro sguardi. «Il signor Spenlow è morto» disse Tiffey. Ebbi un momento di confusione. Cominciò a girarmi la testa e dovetti mettermi a sedere. «Morto?» sussurrai con un filo di voce. «Ieri sera ha cenato in città, poi ha deciso di tornare a casa senza cocchiere come faceva di tanto in tanto.» «Ebbene?» domandai. «La carrozza è tornata senza di lui. Lo hanno trovato a un miglio di distanza, riverso sul ciglio della strada. Non è chiaro se sia caduto dalla carrozza in preda a un malore o se sia sceso perché si sentiva male. Quando è intervenuto il medico non c’era più nulla da fare.» Questa tragedia mi fece cadere in un profondo sconforto, aumentato dall’immaginare il dolore che provava Dora in quel momento. Poiché mi era impossibile incontrarla e starle vicino, quella sera scrissi una lettera alla signorina Mills. Oltre a esprimere il mio dispiacere per la morte del signor Spenlow, la pregai di far sapere a Dora che nel colloquio che avevo avuto con il padre poco prima della sua morte, lui non aveva espresso alcun rimprovero per lei. La signorina Mills mi rispose il giorno dopo. Dora, scriveva, era sopraffatta dal dolore e non faceva che ripetere: «Oh, papà caro! Oh povero papà!»

Mi consolai nel sapere che non era irritata con me. Qualche giorno dopo il signor Jorkins, dopo essersi consultato con Tiffey, mi chiese di esaminare insieme con loro tutte le carte personali del signor Spenlow che si trovavano in ufficio. Bisognava accertare se esistesse un testamento. Accettai con molto piacere e anche con una certa curiosità per la sorte di Dora. Ma le ricerche non approdarono a nulla: del testamento non vi era traccia alcuna. «Conoscendo il carattere del mio socio, non mi sorprende che non abbia fatto testamento!» disse il signor Jorkins in tono rassegnato. «Ma io so che l’ha fatto: una volta me lo ha detto proprio lui!» esclamai. «Non è assolutamente possibile» insistette il signor Jorkins. Alla fine risultò che il testamento non esisteva proprio, e soprattutto che il signor Spenlow, avendo sempre vissuto al di sopra delle sue possibilità, era indebitato fino al collo. Per saldare i debiti furono venduti i mobili di Norwood e la casa fu ceduta in affitto. A Dora sarebbe rimasto a malapena qualche migliaio di sterline. La mia amata non aveva altri parenti che due zie nubili, sorelle del padre, che vivevano a Putney. Queste zie, nonostante fossero state sempre in cattivi rapporti con il fratello, proposero a Dora di andare a vivere con loro: fu così che Dora si trasferì laggiù insieme al suo Jip. Di tanto in tanto riuscivo, non so come, a fare qualche scappata fin là; per il resto mi affidavo alla signorina Mills, che era la mia fedele informatrice. Mi teneva sempre al corrente degli stati d’animo di Dora, che passava da un’estrema tristezza a momenti di maggiore vivacità. In questo cupo periodo la signorina Mills fu la mia unica consolazione. Vedendomi così triste e desiderando che mi distraessi un po’, la zia Betsey mi propose di andare a Dover, con il pretesto di concordare il nuovo canone di affitto del suo villino. Accettai volentieri: quel viaggio mi avrebbe consentito di passare da Canterbury e di incontrarmi con la mia dolce Agnes, di cui sentivo

tanto la mancanza e con cui avevo bisogno di confidarmi in un momento come quello. Chiesi quindi il permesso di assentarmi dai miei due lavori e partii. Sbrigata velocemente la faccenda di Dover, la mattina seguente mi recai a Canterbury. Si era ormai in pieno inverno e il vento era gelido. Arrivai a casa di Agnes e, introdotto nello studiolo dove un tempo lavorava Uriah Heep, vi trovai il signor Micawber. Quest’ultimo fu contentissimo di vedermi, ma al tempo stesso notai in lui un malcelato imbarazzo. Mi raccontò che abitava nella casa dove un tempo alloggiava Uriah Heep; era diventato il suo inquilino. Da parte mia gli chiesi notizie del signor Wickfield e così venni a sapere che il padre di Agnes non compariva spesso nello studio e soprattutto che non era più all’altezza dei suoi compiti. Obiettai che a farlo passare da incapace era forse il suo nuovo socio, ma il signor Micawber mi ricordò con l’enfasi abituale che lui era lì in veste di collaboratore di fiducia di quest’ultimo e che non era quindi il caso di continuare una conversazione che stava assumendo un tono sconveniente. «Spero che comprendiate la mia posizione e che non vi siate offeso!» concluse preoccupato. Lo rassicurai e ci congedammo con una cordiale stretta di mano. Poi andai di sopra per salutare Agnes, che non appena entrai si illuminò in volto. «Oh, Agnes, come mi siete mancata in questi ultimi tempi!» esclamai. «Davvero?» disse lei. «È strano, ma quando siete lontana da me sono sempre agitato. È bastato entrare qui per recuperare la serenità. Come fate a esercitare questo influsso su di me, Agnes?» Quello sguardo celestiale e quella voce così soave mi indussero subito ad aprirle il mio cuore: le confidai che di fronte alle difficoltà Dora aveva mostrato di essere una creatura molto fragile, molto vulnerabile.

«Oh, Trotwood!» mi ammonì. «Siete troppo impetuoso! Una persona come lei deve essere messa a conoscenza di problemi grossi come quelli di cui mi avete parlato un poco per volta. Povera Dora!» «Che cosa fareste ora al mio posto, Agnes?» chiesi. «Vi consiglierei di scrivere alle zie che l’hanno accolta, spiegando esattamente come sono andate e come stanno andando le cose tra voi e Dora, e chiedendo il permesso di farle visita di tanto in tanto in casa loro. Ricorrere ai sotterfugi non è da voi, David.» Agnes mi convinse, pertanto decisi di scrivere alle zie della mia promessa senza tardare un giorno. Ma prima di accingermi al compito volli andare a salutare il signor Wickfield e Uriah Heep. Uriah era sistemato in un ufficio nuovo ed elegante, molto più accogliente di quello del signor Wickfield. Quest’ultimo mi invitò a fermarmi lì per la notte, così decisi di trattenermi. Poi risalii di nuovo da Agnes, sperando di poter continuare a conversare con lei, ma non mi fu possibile: la poverina, infatti, pur essendo in casa propria, aveva perso completamente la sua libertà. Uriah, che sospettava sempre di tutto e di tutti, le aveva messo la madre alle calcagna per sorvegliarla e per ascoltare ogni discorso. Anche in quell’occasione, con la scusa dei reumatismi, la donna chiese di poter venire a lavorare a maglia nella sua stanza, che era più calda. Quando poi invitai Agnes a fare una passeggiata fuori, la signora Heep si mise a lamentarsi con tanta insistenza dei suoi dolori che lei si sentì in dovere di rimanere in casa a farle compagnia. Allora io, furioso, uscii da solo. Mi ero appena incamminato quando fui raggiunto da Uriah, che mi impose una compagnia – e soprattutto una conversazione – di cui avrei fatto volentieri a meno. Dalle sue parole ricevetti comunque la conferma che egli era geloso della mia amicizia con Agnes, da lui considerata una minaccia per i suoi progetti. Uriah, infatti, aspirava ormai apertamente al matrimonio con la signorina Wickfield.

Per amore di Agnes, gli confidai che ero fidanzato con una ragazza e che dunque non potevo rappresentare una minaccia per lui; il mio rapporto con Agnes, aggiunsi, era solo una profonda amicizia. Il gaglioffo si sentì rassicurato da questa informazione e dopo un po’ ritornò sui suoi passi, lasciandomi finalmente in pace con i miei pensieri. Quella sera cenammo tutti insieme e, terminato il pasto, il signor Wickfield, Uriah e io rimanemmo da soli. L’avvocato propose un brindisi in mio onore, mentre Uriah ne propose un secondo in onore di Agnes. All’untuoso profluvio di elogi per la ragazza che l’ex giovane di studio pronunciò levando il bicchiere, il signor Wickfield si rabbuiò. «Mi rendo conto di essere troppo umile per lei…» commentò Heep accorgendosi di quella reazione «…ma l’adoro. Essere suo marito…» Un urlo disumano dell’avvocato lo interruppe. «Ma che vi prende, siete diventato matto?» gridò Uriah impallidendo. «Se la mia ambizione è quella di sposare Agnes, ne ho diritto io come chiunque altro, anzi… io ho qualche diritto in più!» Ora il signor Wickfield, in preda a un vero e proprio attacco di nervi, si agitava e tentava di strapparsi i capelli. Io cercai di calmarlo e a poco a poco vi riuscii: il pover’uomo smise di dimenarsi e mi lanciò una muta occhiata di ringraziamento. Ma poi, rivolto a Uriah che, pallido come un morto, rimaneva immobile in un angolo, esclamò: «Guarda il mio aguzzino! Si è insinuato qui come una serpe, fino a farmi perdere il buon nome di cui godevo, la serenità e perfino la casa!» Per tutta risposta Uriah si definì il suo protettore e alla fine gli intimò senza mezzi termini di tacere. «Oh, Trotwood, Trotwood!» esclamò angosciato il signor Wickfield. «Come sono caduto in basso dal giorno che mettesti piede in casa mia!»

In quel momento entrò Agnes. Si capiva benissimo che aveva sentito tutto. Senza proferire una parola abbracciò il padre e lo accompagnò nella sua stanza. «Non immaginavo che desse in escandescenze…» mi disse Uriah. «Comunque domattina saremo già riconciliati. È per il suo bene!» Ritenni opportuno astenermi da ogni commento e mi ritirai in camera mia. Dopo un po’ sentii qualcuno bussare dolcemente alla porta: era Agnes. «Partirete domattina presto, mio caro David?» mi domandò. «Sì» risposi fissando quel volto a cui le lacrime appena versate sembravano conferire una maggiore bellezza. «Salutiamoci subito, allora» disse. «Il cielo vi benedica!» Si capiva che non intendeva entrare nell’argomento di poco prima, ma io non potei trattenermi dal farle una raccomandazione: «Non sacrificatevi per un malinteso senso del dovere, cara Agnes, vi prego!» Lei ebbe uno scatto e si allontanò da me. «Non dovete preoccuparvi per me, caro David» rispose con il suo sorriso soave e si congedò definitivamente. La mattina dopo salii sulla diligenza che faceva ancora buio.

Capitolo quattordici Il mio matrimonio con Dora

La risposta alla lettera inviata alle zie di Dora mi giunse dopo una settimana. Le anziane signorine mi invitavano ad andare a trovarle, magari in compagnia di un amico di fiducia, per discutere insieme della questione. Risposi immediatamente, confermando che sarei andato all’ora e nel giorno indicati con il mio amico Tommy Traddles. Attesi con una certa inquietudine l’appuntamento, finché quel benedetto giorno non arrivò; così mi avviai con Traddles verso l’abitazione delle signorine Spenlow. Durante il tragitto feci al mio amico un sacco di domande sull’atmosfera che si era trovato a vivere al momento del suo fidanzamento, ma a dire la verità non ne ricavai grandi motivi di conforto. Traddles aveva avuto i suoi bravi ostacoli, sia da parte dei genitori che da quella delle sorelle della sua Sophy. Quando arrivammo nei pressi della casa delle zie di Dora ero ormai al culmine dell’agitazione, tanto che Traddles ritenne opportuno farmi bere un bel boccale di birra che, diceva, non manca mai di sciogliere la parlantina bloccata dalla timidezza. I boccali, però, furono tre, con il risultato che la testa mi si annebbiò tanto che a malapena ricordo le stanze in cui fummo introdotti prima di arrivare nel salottino dove le signorine Spenlow erano schierate ad attenderci.

«Accomodatevi, prego» disse una di quelle minuscole vecchiette vestite di nero, che sembravano il ritratto al femminile del defunto signor Spenlow. Prima di riuscire a prendere posto su un divanetto rischiai più volte di inciampare in Traddles e perfino di sedermi sul gatto. Le signorine erano molto più vecchie del fratello, ma avevano un portamento eretto e sembravano serene e compite. Una cosa in particolare mi colpì: Dora non c’era. «Il signor Copperfield, presumo» disse la vecchina che impugnava in mano la mia lettera, rivolgendosi a Traddles. L’inizio, come ben si comprende, non fu dei migliori, dal momento che Traddles dovette smentirle e io presentarmi, mentre in sottofondo si sentivano i furiosi latrati di Jip. «Signor Copperfield» continuò la signorina della lettera «mia sorella Lavinia, che ha esperienza di queste cose, vi esporrà la nostra opinione nell’interesse di tutti.» «Noi non abbiamo nessuna ragione di dubitare della vostra onesta né della bontà dei vostri sentimenti, signor Copperfield…» esordì Lavinia. «La mia devozione per Dora non ha confini!» sottolineai, mentre Traddles annuiva. «Abbiamo riflettuto molto, signor Copperfield, sulla vostra richiesta di venire in visita come pretendente ufficiale di nostra nipote e ne abbiamo parlato anche con la stessa Dora. Noi non dubitiamo affatto della sincerità del vostro amore, ma talvolta le passioni giovanili sfumano in un baleno. Non potendo giudicare se il vostro sentimento sia davvero solido, capirete, abbiamo qualche perplessità…» Cercai di insistere sulla profondità del mio affetto, che poteva essere confermato senza esitazione dalle persone che mi conoscevano bene. Qui Traddles mi venne mirabilmente in aiuto e riuscì a essere davvero persuasivo, soprattutto perché si presentò come persona dotata di grande esperienza in materia di sentimenti, essendo già fidanzato.

Durante tutta la conversazione la signorina Lavinia e la sorella, Clarissa, si scambiavano frequenti occhiate d’intesa, che noi peraltro non sapevamo davvero come interpretare. «Per il momento, signor Traddles, non siamo in grado di esprimerci sui sentimenti del vostro amico; tuttavia abbiamo deciso di accogliere la proposta del signor Copperfield circa le visite in casa nostra.» «Oh, gentili signorine, non sapete quanta gioia mi donate!» «Date le premesse del nostro ragionamento, signor Traddles, preferiremmo considerare queste visite come fatte a noi. Ci sembra prematuro ritenere nostra nipote e il signor Copperfield fidanzati finché non avremo avuto modo di farci un’idea più precisa.» «Mi sembra molto ragionevole, vero, Copperfield?» mi chiese Traddles. «Nulla di più ragionevole!» confermai. «Saremo liete di avere a pranzo il signor Copperfield ogni domenica. Pranziamo alle tre. Due volte la settimana saremo liete di invitarlo per il tè: alle sei e mezzo.» «La signora Trotwood, citata nella lettera» intervenne la signorina Clarissa «vorrà forse venire a farci visita. In questo caso ricambieremo.» Dissi che la zia Betsey sarebbe stata felice di fare la loro conoscenza. A quel punto la signorina Lavinia mi invitò a seguirla e andai con lei in un’altra stanza. Qui incontrai Dora, che stava lì in trepida attesa e che mi sembrava più bella che mai. «Dora, amore mio, ora sei mia per sempre!» «Sì, David, ma ho tanta paura!» «Paura? E di che cosa?» «Del tuo amico; non mi piace. Perché non lo mandi via?» «Santo cielo, Dora, è la persona migliore del mondo!» «E con ciò?» «Vedrai, tesoro mio, che presto ti piacerà moltissimo, quando lo conoscerai un po’. Sono sicuro che anche la zia Betsey ti piacerà,

quando la conoscerai.» «No, ti prego, non farla venire!» Decisi di non contraddirla oltre in quel momento, così scoppiai in una risata e mi misi a contemplarla felice. Gli incontri preannunciati si svolsero ben presto e, con mia grande sorpresa, le signorine Spenlow e la zia Betsey si piacquero; anche Dora ne rimase favorevolmente colpita. Il mio amore diventò sempre più profondo, anche se Dora si ostinava a non aprire nemmeno il libro di cucina che le avevo regalato e che consideravo di grande utilità qualora ci fossimo sposati. Mentre Dick copiava con la sua bella calligrafia ordinata e sottile le carte legali che gli procurava Traddles, io mi dedicavo alle mie diverse attività con un ardore di cui non mi credevo capace. Cominciavo con il passare un paio d’ore sul dizionario del dottor Strong; poi mi precipitavo allo studio legale o in tribunale, poi ancora dal dottore e finalmente, in piena notte, mi immergevo fino ai capelli in un manuale di stenografia, che avevo pagato dieci scellini, e ne uscivo come un pulcino caduto in una montagna di stoppa. Ciò significa che non ne uscivo affatto: rimanevo impigliato in quel groviglio di punti, apostrofi, semicerchi e lineette, senza poterne venire a capo. Tuttavia insistevo e le difficoltà incontrate non facevano che moltiplicare il mio ardore e rafforzare il mio proposito di sgominare ogni ostacolo che si frapponesse tra me e il successo. Mi pareva che, se mi fossi messo in testa di sradicare una quercia con le mani, l’avrei colta come una piantina di radicchio, pur che me lo fossi proposto. Intanto, nella casa di Buckingham Street avvenne un piccolo cambiamento: Peggotty manifestò il desiderio di tornare a Yarmouth, dove il fratello e la sua famiglia adottiva avevano bisogno di lei. Pur essendo felicissima di stare con me e la zia – anche per i buoni

rapporti che si erano stabiliti tra lei e quest’ultima – chiese il permesso di lasciarci. Quando partì la volli accompagnare alla diligenza. Nel momento degli addii Peggotty mi baciò con le lacrime agli occhi e mi fece promettere formalmente di ricorrere a lei in qualsiasi circostanza e per qualsiasi difficoltà. Lei, disse – e d’altronde, come potevo dubitarne? – sarebbe stata felicissima di offrirmi tutto ciò che aveva. Partita Peggotty la zia prese una donna per i piccoli servizi e, sotto il suo governo, la casa andava a meraviglia. Quello che andava in tutt’altro modo era lo studio della stenografia. Un giorno provai a stenografare l’arringa di un avvocato, ma dovetti interrompermi a metà, perché ciò che avevo scritto mi era più misterioso dei caratteri cuneiformi di Babilonia. Disperato, mi presentai a Traddles per chiedergli consiglio e il mio caro amico mi venne in aiuto nel modo più altruistico del mondo: si offrì addirittura di venire tutte le sere a casa mia, in Buckingham Street, per farmi fare esercizio; da quel giorno il salotto del mio appartamentino diventò una specie di parlamento in miniatura! La zia e il signor Dick rappresentavano, secondo i casi, o il governo o l’opposizione; Traddles, con un volume degli atti parlamentari in mano, tuonava contro di loro, accusandoli di corruzione, mentre io, con la matita in mano e il taccuino davanti, riempivo pagine su pagine di misteriosi uncini che più tardi mi sforzavo di decifrare. Di quando in quando, se le accuse erano troppo compromettenti, la zia, con l’aspetto enigmatico di un ministro delle finanze, emetteva un “oh!” o un “no!” pieni di dignità, a cui Dick, da perfetto deputato di un distretto rurale, rispondeva come fosse un’eco. Io, senza far caso alle interruzioni, continuavo a scrivere a precipizio punti e ganci; poi mi buttavo a capofitto nella loro interpretazione. Con un lavoro costante e metodico, senza dimenticare l’aiuto dell’ottimo Traddles, finii con il domare anche la ribelle tecnica stenografica e cominciai a frequentare le sedute parlamentari,

riassumendole per un giornale del mattino che mi pagava discretamente. Ma il tentativo per me più importante, quello che doveva costituire una svolta decisiva nella mia vita, non fu quello di diventare corrispondente parlamentare, bensì quello di darmi alla letteratura. Un bel giorno mi misi all’opera, scrissi un racconto e lo mandai a una rivista. Dopo una settimana che mi parve eterna, finalmente mi giunse la risposta: il direttore della rivista mi avvertiva che quel lavoro sarebbe stato pubblicato e convenientemente pagato. Per tutto quel giorno fui come matto: diventare scrittore era il mio sogno, e ora questo sogno cominciava ad avverarsi. Incoraggiato da quel primo tentativo, mi lanciai in un secondo e poi in un terzo; alla fine dell’anno potei constatare con somma gioia che il mio nome si andava affermando nel mondo letterario e che i miei scritti non solo venivano pubblicati, ma perfino ricercati e ben pagati. Mia zia era orgogliosa di me e le nostre condizioni finanziarie miglioravano a vista d’occhio, per cui decidemmo di lasciare l’appartamentino della signora Crupp e di trasferirci in una villetta di Buckingham Street, molto più comoda e ammobiliata meglio. In quel nuovo alloggio pensai che per diventare un vero scrittore avrei dovuto affrontare opere più impegnative; fu così che mi accinsi a scrivere un romanzo. Lo presentai a un editore e questi lo pubblicò. Il successo fu tale che ritenni opportuno tralasciare ogni altra occupazione per dedicarmi alla missione della mia esistenza: fare il romanziere, rappresentare la vita, i dolori, le speranze e le gioie degli uomini, con lo scopo di renderli migliori. La zia era felice poiché era riuscita a vendere a ottime condizioni il villino di Dover, e Dick viveva beato nella luce dei miei successi letterari e nell’ammirazione della donna più meravigliosa dell’orbe terracqueo, che come sapete era la signora Betsey Trotwood. L’unica cosa che rimaneva avvolta nel mistero era la causa per cui la

zia aveva perduto tutti i suoi averi; ma anche questo mi sarebbe stato chiarito, e prima di quanto non credessi. E finalmente venne il giorno del mio matrimonio. Avevo appena compiuto ventun anni, quando la zia mi fece sapere che si sarebbe trasferita in un villino più piccolo, proprio nelle immediate vicinanze di quello in cui abitavamo. «Che significa questo?» le domandai. «Mio caro David, la signorina Lavinia e la signorina Clarissa hanno dato il loro consenso al tuo matrimonio con Dora.» La mia gioia fu immensa. Sarebbe stato straordinario avere Dora sempre accanto e non doverla incontrare solo di tanto in tanto, sospirando nell’attesa di un prossimo appuntamento! In effetti, due mesi dopo eravamo marito e moglie: Dora venne naturalmente ad abitare in casa mia e, dal momento che la villa era abbastanza grande, ci dovemmo concedere una cameriera. Si chiamava Mary Anne; era una donna piuttosto giovane e dotata di una spiccata personalità. Se ne parlo, è perché fu proprio lei la causa del nostro primo precoce litigio da sposati. Un giorno, mentre Dora stava dedicandosi al disegno, le feci osservare che Mary Anne non rispettava gli orari dei pasti. La cosa era piuttosto fastidiosa: le chiesi quindi di intervenire e di parlarle, affinché questo suo modo di fare non diventasse un’abitudine. «Non me la sento di rimproverare Mary Anne, David. Mi dispiace» rispose lei, venendo a sedermisi in grembo. «Come sarebbe a dire, tesoro?» «Non mi prenderebbe sul serio!» Mi sentii autorizzato a dirle, senza nascondere la mia irritazione, che quello non era un buon sistema di condurre la casa. «Che brutte rughe ti vengono nel viso quando ti accigli! Non imbruttirti così!» disse Dora sottolineandomi le rughe con la matita.

«Mogliettina mia, forse non ti rendi conto che uscire di casa a stomaco vuoto non è la cosa più piacevole del mondo. Non credi?» «No» rispose lei in tono incerto. «Amore mio, ma tu tremi!» «Tremo perché mi fai paura.» «Dora, oh cara» le dissi facendola sedere accanto a me «stavamo solo ragionando!» «Sei crudele, ecco. I tuoi ragionamenti sono peggio dei rimproveri.» Cercai di calmarla, ma non fu facile. Non mi ascoltava e continuava a gridarmi: «Cattivo! Cattivo!» Dopo un po’ mi rivolsi di nuovo a lei e le dissi: «Dora, tesoro!» «Non sono più il tuo tesoro: se così fosse non mi tratteresti in questo modo… Si vede… si vede che ti sei già pentito di avermi sposata!» esclamò in tono disperato. Rimasi colpito da quelle parole che, più ancora che ingiuste, mi parevano del tutto insensate e le dissi con una certa severità: «Ti stai comportando in modo molto infantile, Dora. Sai benissimo che ieri sono dovuto uscire lasciando il pranzo a metà e che qualche giorno fa ho dovuto mangiare così in fretta che mi è venuto il mal di stomaco. Oggi, invece, non pranzerò affatto. Ma ti rendi conto?» Senza prestare ascolto a queste mie parole, Dora continuò a lanciarmi accuse di cattiveria e alla fine scoppiò in un pianto dirotto. Cominciai a girare nervosamente per la stanza, aspettando che si calmasse un po’, e dopo qualche minuto ricominciai il discorso. Ero deciso a farle capire la vera natura del problema. «Dora, non ti sto accusando di nulla, sai? Ho solo voluto farti presente che devi abituarti a sorvegliare Mary Anne.» «Oh, come sei ingrato…» replicò singhiozzando. Ma a quel punto fui costretto ad andarmene al lavoro, così ci lasciammo in quello stato d’animo. Quando rientrai, all’una o alle due di notte, trovai ad aspettarmi la zia Betsey. «È successo qualcosa, zia?» chiesi allarmato.

«Niente di grave, Trot. La tua mogliettina era triste e avvilita, allora sono venuta qua a tenerle compagnia.» «Volevo solo parlarle con tenerezza e affetto dell’andamento della casa… Oh, zia! Sono stato male tutto il giorno per questo!» «Ti capisco perfettamente, mio caro Trot, ma con Dora devi essere molto delicato… è un fiorellino, e se il vento tira appena un po’ più forte si sciupa subito.» Accompagnai la zia a casa e al rientro trovai Dora in piedi. Mi si gettò al collo piangendo, rimproverandomi ancora una volta, ma accusando anche se stessa. Facemmo la pace e ci promettemmo solennemente che quello sarebbe stato l’ultimo litigio fra noi. Il giorno dopo licenziai Mary Anne e per un certo periodo ci fu un continuo avvicendamento di cameriere, accompagnato da qualche piccola scaramuccia. Dora si sforzava di fare la brava mogliettina. Qualche volta, mentre mi concedevo una pausa di lavoro e posavo la penna, la osservavo quasi divertito. La vedevo tirar fuori il libro dei conti, deporlo con un sospirone sul tavolo e aprirlo dove la sera prima Jip lo aveva… reso illeggibile. Allora chiamava a rapporto il cagnolino perché si rendesse conto dei suoi disastri e gli sporcava il muso d’inchiostro. Poi cominciava a scrivere, ma nel pennino c’era un pelo; allora si alzava, cambiava penna e ricominciava a scrivere. Ma poiché anche in questo secondo tentativo qualcosa non andava bene, ricominciava con una terza penna e così via. Il nostro matrimonio continuò in questo stile.

Capitolo quindici Il signor Micawber all’attacco

Una

mattina, fra la mia posta abituale, trovai una lettera proveniente da Canterbury. C’era scritto: Mio caro signore, circostanze indipendenti dalla mia volontà mi avevano costretto a interrompere le relazioni epistolari con una persona il cui ricordo rimane affidato, oltre che alle prismatiche iridescenze della memoria, agli archivi della nostra casa, custoditi con cura affettuosa dalla signora Micawber. Ora il sottoscritto, piombato in una voragine di eventi nefasti, non osa rivolgersi al vecchio amico della giovinezza con il confidenziale appellativo di Copperfield. Premetto che questa volta non si tratta di un argomento di natura pecuniaria, ma di una cosa ben più grave, che investe e tocca la correttezza di un uomo che si mantenne sempre integro, anche fra le più impetuose burrasche, e che ora onesto non è più. La mia pace è infranta, il mio cuore erra ramingo nella landa della disperazione, io non cammino più eretto, con l’orgoglio di guardare in faccia il mio simile; la coppa del veleno è accostata alle mie labbra, il verme è annidato nel fiore e sta per roderne fin la più riposta corolla. Poiché mi vedo costretto ad affrettare questo evento, nonostante l’opera lenitrice della signora Micawber, desidero avvertirvi che fra due giorni mi troverò all’esterno della prigione di Ring’s Bench, che come sapete è il luogo in cui vengono imprigionati i rei dei processi civili. Non oso pregare né voi, né il mio vecchio amico e pensionante Tommy Traddles di venirmi incontro in quel luogo: mi basta lanciare ai venti questo avvertimento e dichiarare che alle sette di sera chi vorrà potrà trovare le diroccate vestigia di ciò che rimane del maniero abbattuto. Wilkins Micawber

Per quanto abituato allo stile ampolloso del signor Micawber, questa lettera mi fece una forte impressione. Il suo tono era tale che mi misi a rileggerla; mentre la rileggevo la porta della mia camera si aprì e mi venne incontro Traddles. Il mio amico era eccitato e rosso in viso, i suoi capelli, un po’ per il vento che soffiava fuori e un po’ per la loro naturale caratteristica, gli stavano impennati sulla testa come se per le scale avesse incontrato un fantasma. Anche lui aveva in mano una lettera. «Dio ti benedica, Traddles, per essere venuto!» esclamai. «Ho proprio bisogno del tuo consiglio. Ho appena ricevuto una stranissima lettera dal signor Micawber…» «Ma guarda un po’ che combinazione!» mi interruppe Traddles. «Io ne ho ricevuta un’altra dalla signora. Leggi un po’!» E mi porse la sua, prendendo quella che avevo in mano io per leggerla a sua volta. Quella della signora diceva: I miei più vivi ossequi al signor Thomas Traddles, al quale, se egli serba ancora il ricordo di una vecchia amica, desidero chiedere un minuto di attenzione, in un momento davvero drammatico della mia vita. È una manifestazione di stima e di confidenza quella che mi spinge a rivolgermi a voi, signor Traddles. Voi sapete quanto il signor Micawber sia sempre stato tenero negli affetti domestici, specie nei confronti della sottoscritta. Ora devo ammettere che mio marito è completamente cambiato e la sua freddezza mi fa vacillare la ragione. Non si confida più con la moglie; rimane sempre cupo; ogni tanto dà in escandescenze da pazzo furioso e, con mio grande spavento, va ripetendo di aver venduto l’anima al diavolo. La minima parola lo irrita e gli dà le traveggole. Mi vergogno di dirlo, ma ieri sera, solo perché i gemelli gli avevano chiesto quattro soldi per comprarsi le caramelle, è andato su tutte le furie ed è giunto perfino a brandire un coltello. A sua moglie, che non lo ha mai voluto abbandonare nei tempi difficili, dice continuamente di voler chiedere la separazione. Potete immaginare, signor Traddles, quale sia il mio stato d’animo davanti a questo inatteso crollo della mia felicità domestica! Con la presente vorrei pregare voi e il nostro vecchio amico David Copperfield – se pur questi, ormai famoso, serbi ancora ricordo della sua desolata amica Emma Micawber – vorrei, dunque, pregare ambedue di un favore. Il signor Micawber partirà dopodomani per Londra e, dall’indirizzo che ha attaccato alla valigia, l’infallibile occhio dell’affetto coniugale ha dedotto la destinazione: la Croce d’Oro.

Posso io pregare entrambi, o solo il signor Traddles, di andare a trovare mio marito e di ricondurlo alla ragione? Se ciò sarà fatto, chi lo farà voglia comunicare qualcosa – con lettera indirizzata a E.M., fermoposta Canterbury – a colei che si firma, in preda alla desolazione, Emma Micawber

Quando finimmo di leggere, io la sua lettera e lui la mia, ci guardammo in faccia con l’identica espressione di stupore e di indecisione. Né io né lui sapevamo intuire il mistero che vi si celava dietro. «Che cosa sarà mai venuto a guastare l’inossidabile solidarietà dei coniugi Micawber?» mormorò Traddles con la sua aria sempre seria e pensierosa. «Non ne ho la benché minima idea» risposi. «Comunque alla povera signora bisogna rispondere, non ti pare? Sarà un’opera di carità.» Traddles ne convenne; così scrivemmo una lettera comune, la firmammo insieme e uscimmo per imbucarla, con l’idea di presentarci puntuali all’appuntamento del signor Micawber. Arrivammo sul posto con un quarto d’ora di anticipo, ma lui era già lì, appoggiato al muro, con le braccia conserte e l’occhio che gettava sui comignoli del palazzo lo stesso tipo di sguardo che si può rivolgere ai rami di un albero già contemplato nei tempi felici della giovinezza. Indossava un vecchio cappotto e un paio di pantaloni aderenti; il colletto era sempre altissimo e solenne, ma l’occhialetto gli pendeva inerte sul petto senza la solita eleganza. Non appena ci vide, ci venne incontro con aria turbata e, dopo i convenevoli di rito, lo pregai di dirci tutto con la confidenza che si usa tra amici. «Vi ringrazio, mio giovane amico» disse Micawber. «Una simile accoglienza riservata al frammento di quel tempio che un giorno si fregiò del nome di uomo, mi commuove, ma anche mi opprime.» «Come sta la signora?» chiedemmo a una voce Traddles e io.

Il viso del signor Micawber si rannuvolò ancora di più. «Grazie, amici, sta bene… sì, così così…» rispose turbato. Poi rivolse uno sguardo quasi rapito al maestoso edificio della prigione. «Vedete, amici» cominciò con enfasi «nel tempo in cui io fui ospite di questa magione, io potevo, nonostante tutto, guardare in faccia il mio prossimo e perfino, se avesse osato rivolgermi una sola parola offensiva, rompergli il muso. Ma oggi tra me e il prossimo non corrono più gli stessi gloriosi rapporti.» Detto ciò, chinò sconfortato la testa e, poiché io e Traddles gli porgemmo il braccio, si lasciò quasi trascinare e si mise a camminare su e giù tra noi due. «Vi vedo agitato» gli dissi. «Calmatevi, signor Micawber e, giacché venite da Canterbury, datemi notizie dei miei amici Wickfield. Come sta la signorina Agnes?» «La signorina Agnes» rispose di scatto come se si afferrasse a un’ancora di salvezza «è come sempre un angelo, un raggio, l’unico raggio di luce che brilla nelle vicende di una miserabile esistenza.» «E il mio amico Uriah Heep come sta?» azzardai con una sottile ironia. A quel nome il signor Micawber reagì nello stesso modo di chi, camminando per un viottolo di campagna, si trovi all’improvviso di fronte a una vipera. «Signor Copperfield» esclamò «se mi chiedete notizie di Uriah Heep come di un vostro amico ne sono sinceramente addolorato.» Poi continuò con quella sua agitazione di prima: «Amici, vi prego, conducetemi in una strada deserta, perché nello stato in cui mi trovo, quant’è vero Iddio, non rispondo delle mie azioni!» Impressionati dalla sua condizione, lo portammo sull’angolo di una stradina solitaria. Qui il signor Micawber estrasse il fazzoletto, si appoggiò con le spalle a un muro e si mise a singhiozzare. «È destino, amici» mormorava fra le lacrime ma, ritornando ai suoi toni solenni, proseguiva «è destino che io debba soffrire della forza dei miei migliori sentimenti. Voi mi avete parlato della signorina

Wickfield; ebbene, la sola immagine di quella fanciulla è per me una punta di ferro che mi si conficca nel cuore. Signori!» urlò a un tratto; «io sono un miserabile che voi dovreste abbandonare al suo destino! Tanto i vermi della terra regoleranno presto il mio conto…» «Via, via, signor Micawber» dissi «non bisogna perdersi d’animo. Se non vi dispiace venite a casa di mia zia: ve la presenterò e, se non avete di meglio, potrà offrirvi un letto per dormire. Ci preparerete un bicchiere del vostro ottimo punch e dimenticherete le vostre malinconie.» «E se credete di potervi confidare con due amici sinceri…» soggiunse Traddles «potrete farlo con noi.» Micawber rimase pensieroso per qualche istante, poi mormorò: «Signori, fate di me quel che volete. Io sono come una pagliuzza in un gorgo, sbattuto per ogni dove dalla furia degli elefanti… oh, ehm, scusate, degli elementi!» Ci stringemmo a lui, tenendolo sempre a braccetto, e ci avviammo verso la villetta della zia. Avevo evitato di condurlo a casa mia non certo per uno scarso senso dell’ospitalità, ma perché, vedendo quello sconosciuto così alterato, Dora, che da un po’ di tempo non stava neanche troppo bene, si sarebbe certo impressionata. E infatti, in preda a cupi pensieri, il signor Micawber un po’ si trascinava accanto a noi, un po’ smaniava, dando in esclamazioni smozzicate e invettive, e un po’ cercava invano di darsi un contegno. Finalmente arrivammo a casa. La zia Betsey riservò un’accoglienza oltremodo cordiale al nuovo venuto, il quale, sebbene fosse completamente distrutto, la omaggiò di un perfetto baciamano; ma poi ebbe ancora un momento di sconforto e, cavato il fazzoletto, si chiuse in sé e cominciò ad asciugarsi gli occhi. La cosa turbò considerevolmente il signor Dick, che si precipitò sul signor Micawber e, in meno di cinque minuti, gli strinse la mano almeno cinque o sei volte. Micawber non aveva il tempo di ritirarla che Dick gliel’afferrava di nuovo e la scuoteva affettuosamente, non sapendo in che altro modo dimostrargli la propria solidarietà.

«Grazie, signore, grazie» esclamò il signor Micawber «siete davvero molto gentile!» Poi si rivolse alla zia: «Signora, la gentilezza di questo signore mi sconvolge l’animo: per uno come me, che lotta con una montagna di inquietudini e di affanni, quest’accoglienza è schiacciante, ve lo giuro». «Il mio amico Dick» fece la zia «non è certo un uomo comune: capisce le situazioni e sa come comportarsi.» «Lo credo, signora, lo credo. È un uomo eccezionalmente gen…» Ma qui il signor Dick lo assalì di nuovo per stringergli la mano e per domandargli notizie della sua salute e di quella della sua famiglia. Micawber rispose prima a lui e poi alla zia, ma rimaneva sempre cupo e inquieto; soprattutto pareva deciso a non svelare il segreto della sua inquietudine. Anche noi rimanemmo a lungo perplessi e silenziosi, tanto che io, per uscire da quello stato di disagio comune, pregai di portare un po’ di limoni al signor Micawber perché il nostro amico preparasse il punch per tutti. “Quando ne avrà bevuti quattro o cinque bicchieri” mi dicevo “magari si metterà a canticchiare.” Micawber impugnò il coltello e, mentre sbucciava i limoni, si mise a parlare con enfasi disperata. A un certo punto, rivolgendosi a Dick che gli aveva stretto la mano per la dodicesima volta, disse: «Mio buon signor Dixon…» Quel cambiamento del suo nome divertì immensamente Dick, che si mise a ridere e gli strinse ancora la mano. «Mio buon signor Dixon» continuò Micawber «sono assai desolato di dover constatare che l’avvenire della mia famiglia è quello di girare per le cittadine di provincia, ingoiando spade e mangiando l’elemento divoratore. Ma ciò avverrà solamente quando…» E qui fece un gesto espressivo con il coltello, per indicare che la rappresentazione sarebbe potuta cominciare solo dopo la sua morte. Noi lo guardavamo tutti sempre più impacciati, anche perché faceva mille stranezze. Metteva le bucce di limone nel pentolino

anziché nella brocca, dove invece versava l’alcol, e per due o tre volte fece l’atto di aggiungere l’acqua brandendo un candeliere. A quel punto ci rendemmo conto che la crisi era prossima a manifestarsi, e infatti scoppiò violenta. «Mio caro Copperfield» disse tirando fuori il fazzoletto, dopo aver scostato con una gran manata pentolino, limoni e brocca «questa operazione richiede, più di ogni altra, serenità di spirito e mente tranquilla. Io… invece… sono nel baratro della disperazione!» E scoppiò in singhiozzi. «Diamine, signor Micawber» dissi io «siete fra amici, che cosa avete? Parlate, dunque!» «Parlerò, parlerò» rispose a scatti Micawber. «La misura è colma, il vulcano è in eruzione… Che ho, signore, mi chiedete che ho? Ho l’uragano nel cuore, sono oppresso da un peso immenso di cattiveria, di vigliaccheria, di frode, di inganno… e questo peso ha un nome: Heep! Heep!» «Bene!» fece la zia battendo le mani; mentre noi tutti ci agitammo come ossessi. «Signori, ho deciso!» esclamò Micawber con aria quasi tetra. «Mi libererò, riconquisterò il cuore di mia moglie e dei miei figli! Quella che faccio in questo momento è una solenne promessa. Guardate bene in viso Micawber, un uomo che non tenderà più la mano ad anima viva, che non guarderà più in faccia un galantuomo se prima non avrà ridotto in briciole… che dico?, in minuti frammenti, in polvere volatile, in pulviscolo atmosferico quell’infame traditore, quell’ipocrita infernale di Uriah Heep! Il dado è tratto, l’ora è scoccata!» A quel punto, con il viso livido e convulso, le labbra tremanti, il signor Micawber si lasciò cadere su una sedia e chiuse gli occhi ansando, come se stesse per soccombere a un colpo apoplettico. Spaventato, mi avvicinai per soccorrerlo, ma lui mi respinse con impeto. «No, Copperfield, nessuna tregua tra me e l’umanità finché non avrò vendicato quell’angelo della signorina Agnes e il suo

infelice padre. Ora ascoltatemi, voi tutti qui presenti, compresa la dolce oasi refrigerante rappresentata dal signor Dixon. Di qui a otto giorni, all’ora di colazione, vi attendo tutti, senza eccezione, all’albergo di Canterbury. Ci sarò anch’io, in compagnia della martire Emma Micawber. Canteremo in coro il ricordo delle ore felici e io smaschererò definitivamente quel mostruoso, velenoso, vergognoso traditore. Signori, la mia permanenza qui è impossibile. Siate puntuali all’appuntamento; io corro, volo sulle orme del dannato Heep… Heep… Heep…!» E con l’impeto di un granatiere che si lancia all’assalto si precipitò fuori senza neanche salutare. Quella sera stessa, però, mi scrisse una lettera, come al solito piena di enfasi, nella quale mi pregava di chiedere scusa alla mia eccellente zia e mi raccomandava di presentarmi puntuale all’appuntamento con tutti i presenti, compreso Traddles che, in qualità di membro del Foro, avrebbe assistito Micawber negli aspetti legali della vicenda. I giorni che trascorsero tra quello in cui il signor Micawber ci diede il suo misterioso appuntamento e la data stabilita videro sorgere nella mente di noi tutti le ipotesi più straordinarie e fantasiose. Quali erano i pericolosi segreti conosciuti da Micawber e, soprattutto, perché si sentiva in dovere di svelarli proprio a noi? All’appuntamento dovevamo esserci proprio tutti o sarebbe bastato che ci fossimo andati Traddles, Dick e io, lasciando la zia a casa? Dopo esserci scambiati le più svariate idee e ipotesi in proposito, decidemmo di andare tutti. Perciò la sera della vigilia prendemmo la diligenza di Dover e arrivammo a Canterbury a tarda ora. All’albergo, dove l’appuntamento era fissato, trovai una lettera del signor Micawber, nella quale mi assicurava che la mattina dopo, alle 9.30, ci avrebbe puntualmente raggiunto. Poiché era già notte e faceva freddo, consumammo una discreta cenetta, poi ciascuno raggiunse la sua camera e ci mettemmo a dormire.

La mattina dopo mi svegliai presto e non riuscii a resistere alla tentazione di dare un’occhiata ai luoghi in cui avevo trascorso gli anni dell’adolescenza. Uscii da solo e mi trovai subito davanti il maestoso edificio della cattedrale. Rimasi un quarto d’ora a contemplarlo estatico, come fosse il volto di una persona cara. Le cornacchie svolazzavano intorno alle alte torri che si stagliavano nell’aria grigia del mattino, come se al mondo nulla potesse cambiare. Le campane, tuttavia, con il loro suono, mi raccontavano come tutto invece cambia sempre: mi parlavano della loro vecchiaia e della gioventù di Dora, e dei tanti che, senza poter andare avanti negli anni, avevano vissuto, amato, ed erano morti. Mi allontanai dalla cattedrale con il cuore gonfio di un’emozione che riversai immediatamente sulla casa che vidi subito dopo: quella dove abitava Agnes e dove anch’io avevo abitato per tanti anni, confortato e consigliato da quel caro angelo di fanciulla. Era silenziosa come sempre, con i suoi austeri cancelli rugginosi, il picchiotto del portone tirato a lucido, le persiane inondate di sole e qualche passero infreddolito che saltellava sui cornicioni come un povero in cerca di elemosina. Lasciata anche la casa dei miei amici Wickfield, andai a zonzo per le strade e nella campagna circostante, dove incontrai tante facce nuove e anche tante note. Fra queste incontrai sulla porta della macelleria il famoso garzone con il quale avevo avuto il non meno famoso duello rusticano in due riprese. Ormai era anche lui un uomo fatto, con un paio di stivali e un bambino in braccio a cui faceva mille moine. Verso le nove ritornai all’albergo e, in attesa dell’arrivo del signor Micawber, ci mettemmo a tavola per una piccola colazione, ma eravamo tutti molto tesi. Il nostro amico sarebbe venuto oppure no? La colazione era finita e lui non si faceva ancora vedere. La zia, un po’ inquieta, passeggiava su e giù con le braccia conserte e il cappellino minacciosamente per traverso; Traddles si era seduto con un

giornale spiegato davanti, ma guardava il soffitto; il signor Dick, l’unico che avesse mangiato con appetito, faceva il curioso esercizio di calcarsi il cappello a due mani fin sugli occhi e di levarselo di scatto: credo si preparasse a salutare con il dovuto entusiasmo il signor Micawber. Io ero alla finestra per spiare la strada; pochi minuti dopo le nove e trenta lo vidi arrivare frettoloso e solenne. «Signori e signora, buongiorno!» esordì entrando nella stanza. E poiché il signor Dick, dopo essersi scoperto nel modo che ho descritto, gli andò incontro e gli tese la mano, lui gliela strinse calorosamente. «Eccellente signor Dixon, voi siete sempre estremamente gentile.» «Avete fatto colazione?» chiese Dick, contento come un bambino del suo nuovo nome. «Gradite una costoletta?» «Grazie, signore, non importa» rispose maestosamente il signor Micawber. «Da qualche tempo il sottoscritto e l’appetito non sono più in buoni rapporti.» Intanto la zia si era infilata i guanti e disse a Micawber: «Eccoci pronti a partire per il Vesuvio o per qualsiasi altro luogo esplosivo a vostra scelta». «Signora» rispose Micawber «fra poco assisterete a un’eruzione in piena regola. Signor Traddles, posso riferire ai signori qui presenti che noi due ci siamo già consultati?» Guardai Traddles con una certa sorpresa. «È vero» disse il mio amico. «Il signor Micawber ha voluto consultarsi con me su ciò che gli convenisse fare in questa faccenda e io, come legale, l’ho consigliato per il meglio.» «Se non esagero, signor Traddles» continuò il signor Micawber «quel che ho deciso di fare è cosa di somma importanza.» «Molto, molto importante, in effetti» assentì Traddles. «Allora andiamo» fece Micawber. «Io vi precedo di cinque minuti in casa del dottor Wickfield, per ricevervi in qualità di impiegato dello

studio. Voi verrete insieme e chiederete notizie della signorina Agnes. Signori, arrivederci…» Il signor Micawber si esibì in un inchino collettivo e sparì. Io guardai Traddles: aveva tratto di tasca l’orologio e stava cronometrando attentamente i cinque minuti. Altrettanto faceva la zia. Appena quel breve periodo fu trascorso, Traddles, con i capelli ancora più ritti del solito, offrì il braccio alla zia e ci avviammo tutti e quattro insieme verso casa Wickfield.

Capitolo sedici La sconfitta di Uriah Heep

Il

signor Micawber ci attendeva al suo tavolo da lavoro, tutto immerso nella scrittura di non so che cosa. Aveva una riga da disegno infilata nel panciotto come una scimitarra. Il primo a parlare fui io e, fingendo di rivederlo dopo molto tempo, dissi: «Buongiorno, signor Micawber, come state?» «Bene, grazie» rispose lui. «Spero che anche voi stiate bene.» «E ditemi, la signorina Wickfield è in casa?» «Sì, è in casa di sicuro. Suo padre è a letto con i reumatismi, ma lei rivedrà con piacere i vecchi amici. Volete accomodarvi?» Si alzò dalla scrivania e ci introdusse nella sala da pranzo. Spalancò poi la porta che dava nello studio del signor Wickfield e gridò come un usciere che annuncia la corte: «La signora Betsey Trotwood, il signor David Copperfield, il signor Tommy Traddles e il signor Dixon!» Dopo qualche secondo vidi sbucare dall’uscio dello studio il triste viso di Uriah Heep. Sprovvisto com’era di ciglia e di sopracciglia, si limitò ad aggrottare la fronte, aguzzando, da sotto le palpebre arrossate, i suoi occhietti simili a quelli di un serpente velenoso. Ci fissò con un misto di sorpresa e di stupore, si grattò il mento, si contorse tutto secondo il suo stile e poi tentò di sorridere. «Oh» esclamò «quale onore e quale piacere ricevere tanti amici in una

volta sola! Signorino Copperfield, o dovrei dire signore, spero stiate bene e con voi la vostra eccellente zia, la signora Trotwood.» Mi allungò la mano, che io non potei fare a meno di stringere. Poi si rivolse a mia zia. «Come vedete, signora Trotwood, qui sono cambiate molte cose. Quando mi avete conosciuto ero un umile impiegato; oggi, per grazia di Dio, sono socio del signor Wickfield. Ma io non sono affatto cambiato, signora Trotwood, sono sempre umile come allora.» «Se debbo dirvi la verità» rispose la zia «io penso che voi abbiate mantenuto in pieno le promesse della vostra giovinezza.» Uriah Heep, che o non capì o finse di non capire il recondito significato di quelle parole, si contorse di nuovo come una biscia a cui fosse stata pestata la coda e si profuse nei più umili ringraziamenti. Poi si rivolse a Micawber con un certo tono di comando: «Prego, avvertite la signorina Agnes e mia madre. Sono sicuro che mia madre sarà felicissima di onorare la nobile compagnia». Micawber ubbidì e dopo qualche minuto ritornò preceduto da Agnes. La scrutai rapidamente in viso e, poiché la conoscevo bene, mi accorsi che era turbata e anche un po’ stanca. Tuttavia ci venne incontro sorridendo, strinse affettuosamente la mano alla zia e a me, poi a Traddles e a Dick, informandosi della nostra salute. «Noi stiamo bene» rispose la zia «ma abbiamo saputo che vostro padre è indisposto. Come va?» «Non molto bene, signora Trotwood. Ha i dolori reumatici, ma è calmo e sereno.» Mi accorsi che mentre Agnes parlava con la zia, Uriah Heep la seguiva con lo sguardo, senza darlo a vedere, come un gatto segue i movimenti del topo a cui ha dato l’illusione di lasciarlo andare. E non solo seguiva lei, ma spiava anche Traddles e Micawber, che si scambiavano fra loro certi piccoli segni d’intesa. Ad un tratto, senza dir nulla a nessuno, Traddles uscì. Uriah Heep si rivolse allora a Micawber dicendo: «Potete andare, Micawber,

adesso non ho più bisogno di voi». Il signor Micawber, con una mano sulla riga, che teneva sempre infilata nel panciotto, lo fissò con espressione di sfida e rimase al suo posto. «Be’, che cosa aspettate?» gli disse ancora Uriah. «Non avete sentito? Andate, andate pure.» «Ho sentito» rispose Micawber in tono secco. «E allora perché non ve ne andate?» «Perché mi piace così.» Uriah diventò terreo, tanto più che il signor Micawber lo fissava fremendo, con l’aria di volergli saltare addosso da un momento all’altro. «Siete stato sempre un uomo leggero di testa» disse Uriah «e non è improbabile che mi costringiate a sbarazzarmi di voi. Andatevene: riprenderemo il discorso più tardi, in privato.» Micawber strinse i pugni e si aggiustò il colletto che, seguendo il fremito di tutto il suo corpo, gli era salito fino ai capelli. «Se vi è un furfante sulla faccia della madre terra» ringhiò «con il quale peraltro ho già parlato, questo furfante si chiama Uriah Heep.» Uriah fece un balzo indietro, girò gli occhi smarriti su di noi e, dopo aver esaminato una per una le espressioni dei nostri visi, mormorò, velenoso e atterrito insieme: «Ah, è una congiura? Vi siete messi d’accordo con il mio dipendente… Questa è opera vostra, Copperfield! State attento, però, ai passi che fate. So che non vi sono simpatico, e neppure voi lo siete a me. Da quando siete entrato in questa casa siamo diventati avversari, ma ora il coltello dalla parte del manico ce l’ho io e non me lo lascerò strappare tanto facilmente. Voi, Micawber, toglietevi di qui; presto regoleremo insieme i nostri conti, state tranquillo». «Signor Micawber» dissi io «ci troviamo davanti a un vero miracolo: Uriah Heep dice finalmente la verità.» «Siete un vero gentiluomo» riprese Heep parlando di nuovo a me e asciugandosi la fronte madida di sudore. «Avete comprato il mio

impiegato, che avevate conosciuto quando facevate entrambi la fame. Conosco la vostra storia, Copperfield: prima di fare il damerino come adesso, avete vissuto per la strada. E voi, signora Trotwood, non avete nulla da guadagnare in questa faccenda; io non ho mai avuto rapporti con voi. Dei vostri rapporti con il dottor Wickfield non intendo occuparmi: non mi riguardano. Signorina Wickfield, se avete il minimo affetto per vostro padre, non favorite la manovra di questi signori, altrimenti io rovinerò lui e voi. E voi, testa matta di un Micawber, siete ancora in tempo: ritiratevi, se non volete essere schiacciato. Ma mia madre dov’è?» soggiunse in preda a una specie di panico. «E quell’altro signore, dove si è cacciato?» disse alludendo a Traddles. «Che strana maniera di agire in casa d’altri.» «Vostra madre è qui!» disse Traddles rientrando. «Eccovela, signore. Mi sono presentato da solo.» «Ma chi siete voi per prendervi queste libertà? Io non vi conosco e non vi permetto di fare il vostro comodo in casa mia.» «Non abbiate fretta» ribatté calmo Traddles «avrete il tempo di conoscermi. Intanto sappiate che mi trovo qui in veste di legale del dottor Wickfield, del quale ho in tasca una procura in base alla quale egli mi affida la difesa di tutti i suoi interessi.» «Ah…» esclamò atterrito Uriah «…una procura? Ma Wickfield è rimbambito. A furia di bere non capisce più nulla! La vostra procura non ha valore.» «Voi correte troppo, signore» osservò Traddles, freddo, metodico e compassato come un vecchio topo dei tribunali. «Voi anticipate il responso del magistrato. Per adesso mi darete conto…» «Io non do conto a nessuno!» urlò Uriah livido in volto. «Ury…» gemette a questo punto la signora Heep. «Mamma, volete tacere?» «Ma, figlio mio…» «Tacete. Lasciatemi fare. Io li schiaccio tutti!» Subito dopo si smontò come per incanto e si rivolse a me, alternando la minaccia e la preghiera: «Vi pare un comportamento

da galantuomo, Copperfield, quello che state tenendo oggi in casa mia? Sobillare un mio impiegato? Presentarsi con un procuratore» e accennò a Traddles «e ingannare un vecchio ubriacone?» A quel punto Micawber, che per quattro o cinque volte aveva arrotato fra i denti la prima sillaba della parola furfante, la buttò per intero in faccia a Uriah e, agitando la riga come un’arma, trasse dalla tasca un plico, lo spiegò e, fulminando con gli occhi Heep, disse: «Signora Trotwood e signori, ascoltate! Qui è contenuta la storia dei misfatti di questo furfante». «Quello muore se non scrive» mormorò la zia all’orecchio del signor Dick. «Signori» continuò Micawber leggendo il suo plico «nel presentarmi a voi per denunciarvi le malefatte del più consumato farabutto che mai sia stato al mondo, io non vi chiedo alcuna considerazione per me. Vittima fin dalla gioventù di innumerevoli traversie pecuniarie, alle quali non potei rimediare, fui sempre lo zimbello dei miei bisogni e delle più svariate circostanze. Per compagne di viaggio ebbi tutte le miserie di questo mondo, prese insieme o separatamente. Fu il bisogno a farmi entrare nello studio del dottor Wickfield proprio nel momento in cui il furfante Heep ne aveva assunto la direzione.» «Miserabile…» mormorò livido Uriah «…la vedremo!» «Osate negare?» si mise a urlare Micawber. «Avanti, fatevi avanti, e se la vostra testa ha qualcosa di umano, ve la romperò!» Non credo di aver visto mai nulla di più buffo di Micawber che, molleggiando le gambe come uno schermidore, con il colletto che gli copriva le orecchie, agitava in aria la riga come fosse una spada. «Avanti, avanti, schiuma della birbanteria, principe delle canaglie, venite avanti, sì che io faccia la prova, come dice il sommo Shakespeare, se è più dura la vostra testa o il mio bastone!» Uriah Heep tremava come una foglia, livido, contorcendosi furiosamente, mentre il signor Dick guardava Micawber con i suoi grandi occhi sbarrati e un sorriso di trionfo sulle labbra.

Intanto Micawber, riaggiustatosi il colletto, riprese a leggere il suo atto di accusa: «Nel momento in cui entrai al servizio di Uriah Heep, costui mi fissò uno stipendio di ventidue scellini settimanali; questo compenso doveva essere integrato da altre somme da stabilire di volta in volta, in base all’utilità della mia opera. Voi capite subito, signori, il significato di questa manovra: Heep si proponeva di compensarmi nella misura dei bassi servigi che gli avrei reso. Mi sapeva povero, alle prese con i creditori, e vide in me il docile strumento per mandare a effetto le sue trame. Tutte le volte che gli chiedevo un anticipo, egli lo condizionava alla falsificazione di un documento e all’inganno continuo del suo socio, che frodò, abbindolò e compromise in mille modi. E io, signori, io mi prestai a questo per bisogno; per un tozzo di pane io vendetti l’anima a questo demonio dell’inferno! Ma a un certo punto la lotta tra l’angelo del bene e quello del male scoppiò in me come un uragano; allora io, assistito e incoraggiato dal consiglio di un angelo in carne e ossa, cioè dalla signorina Agnes Wickfield, mi dedicai a scoprire e a registrare accuratamente le malefatte di Uriah Heep. Non intendo qui farvi inorridire elencandole tutte, mi basterà citare quelle che concernono i presenti. Approfittando delle diminuite facoltà del suo socio, il serpente Uriah ne estorse la firma per documenti di grande importanza, facendoli passare per futili; si fece autorizzare a prelevare da un fondo fiduciario la somma di lire sterline dodicimilaseicentoquattordici, due scellini e nove pence, e simulò di averle spese per lo studio e per altri oneri immaginari…» «Ma tutte queste affermazioni devono essere provate» disse Uriah rivolgendosi a me. «Lo saranno!» proruppe trionfalmente Micawber. «Signori, domandate a Uriah Heep chi è andato ad abitare in casa sua, quando lui si è trasferito in questa.» «Quello stesso imbecille che purtroppo vi abita ancora…» borbottò fra i denti Uriah.

«E ora domandategli se ha mai tenuto un’agenda e dove quest’agenda è andata a finire.» Uriah Heep trasalì. «Sì, signori, io ho in mia mano i fogli residui di un’agenda che il furfante credeva di aver bruciato; ebbene, tra quelle pagine si trovano le prove che il mascalzone faceva per falsificare la mia firma e quella del dottor Wickfield. Ho altresì in mano mia il documento originale di un atto falsificato, nel quale è contenuta un’obbligazione del signor Wickfield verso Uriah Heep, il quale avrebbe anticipato al primo una somma, guarda caso, di lire sterline dodicimilaseicentoquattordici, due scellini e nove pence, anticipo assolutamente immaginario, che appare controfirmato da me come testimone, mentre io non mi sono mai sognato di firmare documenti del genere.» A questa rivelazione Uriah Heep fece un balzo, trasse dalle tasche un mazzo di chiavi, aprì un cassetto della scrivania e, dopo avervi cacciato dentro le mani, ci guardò tutti come stralunato. «Inutile cercare» disse Micawber. «Il documento è nelle mani del signor Traddles.» Con un ultimo guizzo il furfante si accasciò, sopraffatto dalle accuse che Micawber gli lanciava addosso, mentre al mio fianco Agnes singhiozzava con una mano nelle mie. «Sì, signori!» continuava a tuonare Micawber. «Da anni tutta l’attività di questo studio è stata falsificata da Uriah Heep, ai danni del dottor Wickfield e di sua figlia, e io ho deposto le prove di quanto asserisco nelle mani di uno dei più stimati componenti del Foro di Londra, il mio amico Thomas Traddles. Ora non mi rimane che sparire da un panorama su cui sfolgora la luce dell’onestà e della verità.» Pronunciata la sua accusa con l’enfasi di un predicatore, Micawber ripiegò i fogli che teneva in mano e li porse alla zia. Nello stesso tempo Uriah Heep balzava verso la cassaforte, che era vicino alla scrivania, e l’apriva di scatto. Era vuota.

«Dove sono i registri?» chiese a Micawber. «In mano mia, state tranquillo» rispose con calma olimpica Traddles. «E come? Chi ve li ha dati?» «Io!» rispose Micawber, battendo con la mano aperta sulla riga che gli usciva dal panciotto. «Ma questo è un furto…» balbettò Uriah. Fu allora che intervenne la zia, e intervenne da par sua. Balzò sul malcapitato come una pantera, lo afferrò per il colletto e cominciò a scuoterlo come stesse lavando un fiasco. «Sapete che cosa voglio, emerita canaglia?» gli sibilava in faccia. «Sapete che cosa voglio?» «Una camicia di forza, probabilmente…» borbottò Uriah. «No. Voglio il mio denaro!» intimò la zia dandogli una nuova scrollata. «Trot, vieni a prenderglielo.» A giudicare da come lo tirava per il colletto, sembrava pensare che Heep tenesse i suoi denari nascosti lì sotto. Mi affrettai a dividerli, rassicurando la zia che avremmo fatto in modo che tutto le fosse restituito. «Agnes, mia cara» continuò «finché ho creduto che il mio denaro fosse andato perduto per colpa di tuo padre non ho parlato e non ho detto nulla a nessuno. Neppure Trot sapeva che quei soldi li avevo depositati nelle mani di tuo padre. Ora che so che me li ha rubati questo farabutto, li rivoglio. Ridammeli, furfante, ridammeli!» E ricominciò a scrollarlo con furia. Ma ormai anche Uriah Heep si era persuaso che, per come si erano messe le cose, non poteva più sottrarsi all’obbligo di render conto di ciò che aveva fatto. Si avvicinò a sua madre per calmarla; poi, con il volto buio come la notte, si rivolse a me, che considerava il perfido macchinatore di quell’intrigo poliziesco, e mi disse: «Insomma, a questo punto che cosa volete da me, che cosa devo fare?» «Ve lo dico subito io» intervenne Traddles. «Prima di tutto tirate fuori l’atto di cessione che vi siete fatto rilasciare dal dottor Wickfield e consegnatemelo subito, in questo momento.»

«E se non ce l’avessi?» «Non fate ipotesi superflue: ce l’avete, eccome. Perciò consegnatemelo e preparatevi a rendere fino all’ultimo centesimo ciò di cui vi siete indebitamente appropriato. Intanto i registri e le carte della società rimarranno nelle nostre mani.» «E se rifiutassi?» saltò su Uriah. «Be’, padronissimo di farlo. È questione di scelta: o regolare ogni cosa con noi o accettare l’ospitalità di un carcere, che è indubbiamente il posto più sicuro per custodire i furfanti come voi. Copperfield, vorresti avere la bontà di fare un salto al Guildhall e chiamare due agenti di polizia?» «Va bene, va bene» cedette Heep, che continuava ad asciugarsi la fronte madida di sudore con quella mano ossuta. «Mamma, consegnategli quel documento.» «Fatemi il favore di accompagnarla, signor Dick» pregò Traddles, che dirigeva la battaglia come un vecchio generale. Dick, tutto compreso dell’importanza di quell’incarico, la seguì come un cane da pastore segue la pecora affidata alla sua guardia e ritornò subito con la signora, la quale portò addirittura la cassetta in cui era custodito il documento. Traddles l’aprì e ne esaminò il contenuto: l’atto di cessione e un libretto di banca. Poi disse a Uriah: «Questa è sistemata; ora occorre fare il resto. Andate in camera vostra e pensateci». Uriah si alzò e, quando fu sulla soglia, si voltò di scatto, mi fissò con un’espressione di odio implacabile e disse: «Copperfield, mi siete sempre stato nemico. Vi odio!» «Siete voi, signore, che con la vostra avidità e i vostri inganni vi siete messo contro il mondo intero» risposi. «Vi sarà utile in futuro meditare sul fatto che avidità e inganni finiscono sempre per distruggersi da soli. È certo come la morte.» «E voi, Micawber, vecchio spaccone, me la pagherete cara!» disse ancora Uriah. E sparì.

Micawber gonfiò il petto orgogliosamente, senza degnarlo di una risposta. Poi mi pregò di farmi interprete del suo desiderio di chiamare tutta la compagnia a testimone della riconciliazione con la sua signora. «Mio caro Copperfield, ormai il muro dell’incomprensione, del tutto temporaneo, che in questi ultimi tempi mi ha diviso dalla signora Micawber, è crollato, e i miei bambini possono di nuovo guardare in viso il loro genitore.» La gratitudine che sentivamo verso il signor Micawber era così profonda che avremmo voluto andare in massa dalla signora per assistere alla commovente cerimonia della riconciliazione; ma Agnes dovette tornare da suo padre e Traddles decise di rimanere per sorvegliare Uriah Heep. Andammo dunque in tre: io, Dick e la zia. Non è facile descrivere la scena che seguì al nostro ingresso nella ex casa di Heep, ora casa Micawber. Appena vide la moglie, l’eroe di quella giornata spalancò le braccia e se la strinse sul cuore dicendo: «Emma cuor mio, vita mia, sono salvo!» La signora lanciò un grido e, come di consueto, svenne, mentre i suoi quattro figli, con i gemelli in prima linea, manifestavano la loro gioia con schiamazzi tanto sconvenienti quanto espressivi. «Le nuvole si sono squarciate!» urlò Micawber con gli occhi colmi di lacrime. «La colomba della pace domestica si libra fra noi!» proseguì adagiando su una sedia la sua Emma, pallida e scarmigliata. Ci radunammo tutti intorno a lei per farla rinvenire e quando riaprì gli occhi mi riconobbe subito. «Vi chiedo scusa» mi disse porgendomi languidamente la mano. «Sapete, caro Copperfield, non sono molto forte e questa riconciliazione mi ha proprio scosso: per questo mi sono sentita mancare…» «Il fatto…» aggiunse il signor Micawber con una vena di imbarazzo nella voce «…il fatto è che le ultime, difficili, seppur transitorie, contingenze hanno voluto che non navigassimo nell’oro e la mia povera consorte si è molto, molto trascurata anche dal punto di vista, ehm, alimentare. D’altronde, signori, voi capite bene come le

necessità di una numerosa quanto tenera prole vadano categoricamente anteposte a quelle genitoriali e…» «Oh, non immaginavo che versaste in tali ristrettezze, signor Micawber!» esclamò la zia. «Ma state tranquillo: faremo per voi tutto il possibile e anche di più. Però una cosa mi domando: come mai un uomo pieno di iniziativa quale voi siete non ha mai pensato di cercare la propria fortuna emigrando in un altro Paese?» «Ci ho pensato, ma ho dovuto rinunciare per mancanza di denaro, signora. Il denaro è sempre stato il mio tiranno.» «Ma se trovaste un po’ di denaro, lo fareste? Mi rivolgo anche a voi, signora Micawber.» «In un posto» rispose la signora Micawber «dove il talento e le capacità di mio marito fossero apprezzati, lo faremmo certamente.» «Potreste andare in Australia, per esempio…» «È un paese nel quale il signor Micawber potrebbe farsi apprezzare?» domandò Emma Micawber. «Sicuro, un paese vergine, dal grande avvenire.» «E il problema del denaro, signora Trotwood?» chiese il signor Micawber. «Il denaro? Ma il denaro ve lo procurerò io. Con la vostra abilità mi state facendo recuperare i miei capitali. E che potrei fare io di meglio, per esprimervi la mia gratitudine e quella di mio nipote, se non aiutarvi in questa circostanza?» «Signora» rispose il signor Micawber chiamando a raccolta tutta la sua dignità «vi esprimo la mia imperitura gratitudine per la vostra offerta, ma non posso accettare denaro in dono. Lo prenderò a titolo di prestito, con un interesse del cinque per cento, sulla mia personale garanzia, mediante cambiali con scadenza a dodici, diciotto e ventiquattro mesi.» Nell’udire tutto questo sfoggio di scienza delle finanze, la zia si divertiva un mondo, ma non lo diede a vedere. «Va bene, va bene» disse «accetto tutte le garanzie che volete e vi darò il denaro per emigrare in Australia, con la vostra famiglia.»

A quelle parole il buon Micawber tirò il collo un palmo fuori del colletto e si abbandonò alle più liriche espressioni di entusiasmo sull’Australia, sul suo clima e sulle sue risorse. Vedeva già montagne d’oro, mandrie sterminate di montoni merinos, opifici giganteschi; e, in mezzo a tante ricchezze, se stesso, finalmente padrone e dominatore. Presi questi accordi di massima con il signor Micawber, ritornammo in casa Wickfield, dove il mio impareggiabile amico, Tommy Traddles, da abile uomo di legge, stava procedendo metodicamente, ma con giustizia, a quella che Micawber chiamava “la polverizzazione di Uriah Heep”. E un giorno, alla presenza della zia, del signor Dick e della signorina Agnes, ci fece una dettagliata relazione del suo operato. «Scusatemi» disse «se vi intrattengo su questioni d’affari, ma è bene che sappiate i risultati del mio lavoro. Grazie all’importante aiuto del signor Micawber e del signor Dick, sono riuscito a dipanare la matassa che Uriah Heep aveva così accuratamente imbrogliato. Prima di tutto vi comunico che ho provveduto a riordinare i conti del signor Wickfield. Posso assicurarvi che può ritirarsi tranquillamente dagli affari, senza rimanere in perdita e senza alcun timore.» «Sia ringraziato Iddio» disse Agnes. «Sì, ma devo anche dirvi, signorina, che a conti fatti la rendita che gli rimarrebbe sarebbe di poche centinaia di sterline.» «Non importa» disse Agnes. «Quel che mi premeva era che il suo nome uscisse pulito e onorato dalla faccenda. Al resto avremo modo di pensare con calma.» «In quanto alla vostra proprietà, signora Trotwood» continuò Traddles «delle ottomila sterline, che rappresentavano il vostro deposito in origine, non mi è riuscito di recuperarne che cinque». «Cinque o cinquemila?» chiese la zia con una calma straordinaria. «Ma no!» rispose Traddles sorridendo. «Cinquemila…» «Ebbene, avete ricuperato esattamente ciò che mi era rimasto» disse la zia. «Mille, infatti, le avevo prelevate per l’iscrizione di Trot

all’ordine dei procuratori e duemila per un’altra faccenduola. Non ne parliamo.» «Allora sono contentissimo.» «E ditemi un po’» chiese ancora la zia. «Dov’è andato a finire Uriah Heep?» «Non lo so, signora. So che è partito per Londra con la madre e, credo, con un discreto gruzzolo in tasca.» «Che vada al diavolo!» esclamai. «Giuro che non mi occuperò più di lui finché avrò vita.» «Ben detto!» fece la zia. «Lasciamo Uriah al suo destino e occupiamoci del nostro bravo Micawber. Quel pover’uomo è un gran disordinato, ma ha un animo buono, onesto e generoso. A me è stato molto utile e, nei limiti delle mie possibilità, desidero aiutarlo.» «Senza dubbio, signora» confermò Traddles «l’opera di Micawber è stata veramente preziosa e gli dobbiamo tutta la nostra riconoscenza. Il poveretto ha fatto il bene senza badare al proprio interesse, perché Uriah avrebbe comprato il suo silenzio a chissà quale prezzo.» «È vero» disse la zia. «Allora, dite un po’, Traddles, che cosa mi consigliate di dargli?» «Un momento» osservò Traddles «mi sono dimenticato di dirvi, signora, che a ogni anticipo che riceveva da Uriah, Micawber gli rilasciava una cambiale.» «Bene, paghiamogliele.» «E chi lo sa quante sono e dove sono? Il signor Micawber ne ha annotate alcune in un suo taccuino – già, lui le chiama solennemente “transazioni” – che ammontano a poco più di trecento sterline, e che sono tutte quante nelle mani di terzi.» «Diamogli il denaro» disse la zia «e che paghi.» «Piano, zia, piano» intervenni io, spalleggiato convenientemente da Traddles. «Aiutarlo sì, ma di denaro in mano a Micawber bisogna darne il meno possibile. Si prepara a partire per l’Australia o no? Gli pagheremo le spese di viaggio e quelle, per così dire, di avviamento;

invece, per quanto riguarda le cambiali, a mano a mano che scadranno, le ritireremo noi.» A quel punto eravamo tutti stanchi, soprattutto la zia, che in quei giorni burrascosi, per ragioni che non ero riuscito a capire, si era spesso allontanata da Canterbury e faceva la spola tra quella cittadina e Londra, e aveva preso un’aria misteriosa e preoccupata. «Andiamocene, Trot» mi disse «sono molto affaticata e ho bisogno di riposo. Signori, arrivederci.» Lasciammo la compagnia; la zia baciò Agnes, poi con il signor Dick ritornammo all’albergo. Il giorno dopo, la zia, che appariva sempre assorta in un suo pensiero doloroso, mi chiamò e mi pregò di accompagnarla a Londra. Io, che conoscevo il suo carattere, vedendola pensierosa e quasi sofferente, non osavo chiederle la ragione del suo segreto tormento, ma il mio sguardo e anche il mio silenzio erano segni eloquenti della mia premura nei suoi confronti. Lei se ne accorse e, dopo essersi lisciata il vestito due o tre volte, come usava fare quando voleva ostentare il suo distacco dal mondo, mi chiese: «Trot, tu vuoi sapere perché mi sono assentata spesso in questi giorni e perché sono preoccupata, vero?» «Zia, se volete farmi partecipe dei vostri dolori ve ne sarò grato: sapete quanto vi voglio bene.» «Grazie, figlio mio. Puoi indovinare che, se ho taciuto, è perché non volevo aggiungere le mie preoccupazioni alle tue. Vuoi venire con me un paio di orette a Hornsey?» «Dovunque volete, zia. Sono ai vostri ordini.» «Grazie, figlio mio, andiamo.» Prendemmo una carrozza e, dopo un lungo percorso, ci fermammo davanti a un grande edificio, un ospedale. Davanti a quell’edificio era fermo un modesto carro funebre, il cui cocchiere, quando vide la zia, la salutò e, ubbidendo a un cenno che questa gli fece con la mano, frustò il cavallo. Noi lo seguimmo.

«Hai capito di che si tratta, ora, Trot?» mi chiese la zia. «Lui è morto.» «All’ospedale, zia?» «Sì.» Due grosse lacrime le scorsero sulle guance scarne. «Era ammalato da tempo. Se tu l’avessi visto, Trot: che rovina! E dire che era bello come il sole quando lo sposai. Negli ultimi tempi mi aveva mandato a chiamare per chiedermi perdono.» «E voi ci siete andata?» «Che altro potevo fare? Ci sono andata, sì, e l’ho assistito quanto ho potuto. È morto l’altra sera: pace alla sua anima, e speriamo che Dio abbia pietà di lui. Lo faccio seppellire qui, nel cimitero di Hornsey, perché qui è nato.» Giunti al cimitero, scendemmo dalla carrozza e seguimmo il feretro. Assistemmo al servizio funebre e alla sepoltura, quindi ce ne andammo in silenzio. Ero indicibilmente commosso davanti alla tenerezza di quella donna, in apparenza così dura di carattere, e alla sua bontà d’animo verso un uomo che l’aveva fatta tanto soffrire. La zia pianse un po’, pronunciando di quando in quando qualche frase spezzata: «Sono passati trentasei anni da quando lo sposai. Era un uomo così bello: Dio ci perdoni tutti». Il momento di debolezza non durò a lungo: allo sfogo delle lacrime seguì presto un umore più composto. Quando tornammo a casa nostra, in Buckingham Street, trovammo una breve lettera di Micawber. Mia cara signora Copperfield, La fortunata terra dei sogni che era apparsa all’orizzonte appare già offuscata da nubi tempestose. Dall’alta Corte di Sua Maestà di Rings Bench, a Westminster, è stato lanciato contro il sottoscritto un nuovo mandato restrittivo della libertà su istanza di Uriah Heep, e in questo preciso momento il convenuto è nelle mani del pubblico ufficiale. È questa l’ora, questo il dì fatale, che vedono in battaglia aspra e campale Edoardo disfatto e sconfortato come reo servo in ceppi trascinato.

Dio benedica tutti gli uomini e le donne di buona volontà: la pecora va al macello. Wilkins Micawber P.S. Riapro la lettera per comunicare agli amici che il signor Tommy Traddles, come sempre in ottima salute, ha ritirato la cambiale nel nome della nobile signora Trotwood, e che io e la signora Micawber siamo al colmo della terrena felicità e che tra pochi mesi partiremo per il Novissimo Continente.

Capitolo diciassette Di nuovo solo

Eravamo sposati da poco più di un anno, quando Dora cominciò a manifestare uno strano stato di prostrazione fisica. All’inizio il responso del medico fu confortante: si trattava di una semplice anemia, disse, facilmente curabile con una buona alimentazione e molto riposo. Ma le settimane passavano e, anziché migliorare, il suo stato tendeva ad aggravarsi. Dora rimaneva gran parte della giornata distesa sul divano, pallida e debole; la sua unica distrazione consisteva nel giocare con Jip. A quel punto mi preoccupai sul serio, ma altri medici, che chiamai a consulto, non parvero attribuire grande importanza alla cosa: bisognava aver pazienza, dissero, finché quello stato di debolezza non si sarebbe risolto da solo. La mia angoscia, però, toccò l’apice quando mi vidi costretto ogni mattina a portarla in braccio al pianterreno, e ogni sera a riportarla di sopra, in camera. Ogni giorno che passava la sentivo sempre più leggera tra le mie braccia. Ormai era malata da diversi mesi, e neppure i più celebri luminari della medicina se la sentivano più di dirmi che sarebbe guarita in poco tempo. Cominciavo a disperare e avevo l’impressione che il momento in cui l’avrei rivista correre felice con il suo Jip si allontanasse a vista d’occhio.

La zia Betsey era sempre presente e si occupava molto di mia moglie. Dora era ammirevole: continuava ad avere il sorriso di un tempo e non si lamentava mai. Con me amava evocare i tempi del corteggiamento, perché costituivano il periodo più felice della sua esistenza. Un giorno mi promise che, appena fosse guarita, saremmo andati a rivedere tutti i luoghi che erano stati teatro del nostro fidanzamento. «Faremo anche le stesse passeggiate, che ne dici?» disse con un sorriso che le illuminava il volto. «È una bellissima idea! È per questo che devi rimetterti presto, tesoro!» «Oh, mi sento già molto meglio, fra qualche giorno sarò in piena forma…» Ma la situazione non migliorò e un giorno Dora mi chiese di vedere Agnes. «David caro, so che il signor Wickfield non sta molto bene e che la mia domanda appare irragionevole, ma è molto importante per me.» «Le scrivo subito, tesoro, se questo può farti piacere.» «Sei molto buono, David, ci tengo tanto a incontrarla.» «Sono certo che verrà al più presto!» «Davy, in certi momenti ho l’impressione che non guarirò più!» «Non dire simili sciocchezze, cara!» «Cercherò di non pensarci, David.» Appena ricevuta la lettera Agnes si precipitò a casa nostra e stette tutto il giorno in compagnia di Dora, che sembrava più serena e allegra del solito. Quello stesso giorno avevo avuto dai medici il responso definitivo: non c’era più nulla da fare, Dora mi avrebbe lasciato presto. Era ciò che avevo sempre temuto, ma ora che quella terribile evenienza era diventata realtà non sapevo accettarla. Mi appartai più volte per dare libero sfogo al mio pianto disperato.

A un certo punto Dora volle confessarmi qualcosa a cui sembrava aver pensato molto negli ultimi tempi. «Caro Davy» mi disse «credo proprio di essere stata troppo bambina per te!» Mi avvicinai al guanciale per ascoltare meglio le parole che mi sussurrava e, guardandola negli occhi, sentii che parlava di se stessa come di un passato ormai lontano. Provai un brivido. «Sì, ne sono convinta, tesoro» riprese lei. «Non solo per l’età, ma per l’esperienza e la mentalità. Ero una bambina sciocchina, non ero pronta per diventare tua moglie.» «Oh, Dora, sei matura quanto me!» protestai trattenendo a stento le lacrime. «Non credo… E poi tu sei molto intelligente e io non lo sono mai stata.» «Siamo così felici, Dora…» dissi. «Sono stata molto felice, felicissima. Temo però che con il trascorrere del tempo ti saresti stancato di una mogliettina come me, e forse… forse alla fine è meglio che finisca così.» A quel punto non riuscii più a trattenere le lacrime e scoppiai in un pianto dirotto. Dora cercò di calmarmi e poi mi chiese di parlare di nuovo con Agnes: «Voglio parlare soltanto con Agnes… soltanto con lei. Non far salire nessuno mentre parliamo». Agnes andò subito nella sua camera, mentre io, in preda allo sconforto, ero seduto davanti al fuoco, immerso nei ricordi. Non so quanto tempo rimasi assorto in quei pensieri: ricordo solo di essere stato ridestato da Jip, che uggiolava, ansioso di poter salire nella camera della sua padrona. «Non questa sera, Jip» dissi. Subito dopo il cane si distese ai miei piedi come per dormire, lanciò un guaito lamentoso, ebbe un improvviso sussulto e si irrigidì. Era morto. «Guarda Jip!» feci ad Agnes, che stava ridiscendendo a capo chino.

Il suo viso pieno di dolore e di lacrime mi fece capire che era accaduto il peggio. «E Dora..?» Agnes mi lanciò uno sguardo fugace, pieno di affetto e di compassione. Era tutto finito, dunque. Ero di nuovo solo. Per sollevarmi dallo stato d’animo in cui ero piombato dopo la morte di Dora – e che durava ormai da alcuni mesi – decisi di fare un viaggio all’estero. Prima di partire, però, volli andare a trovare i miei amici di Yarmouth. Durante il tragitto mi venne in mente che da un pezzo non avevo più notizie del mio amico Steerforth, il bel ragazzo biondo, sicuro di sé, il mio protettore del tempo oscuro di Salem House, quello la cui sola presenza mi dava una sensazione di forza contro tutte le avversità. Attratto dal suo spirito avventuroso, che pareva destinato a dominare tutti gli eventi, Steerforth aveva lasciato la casa materna di Highgate e, almeno secondo ciò che mi era stato riferito, aveva intrapreso una crociera per visitare alcuni paesi del Sud. “Ritornerà” dicevo tra me e me. “Uno di questi giorni mi si presenterà con il suo bel sorriso luminoso, mi racconterà le avventure del suo lungo viaggio, mi parlerà dei paesi che avrà visitato, delle persone che lo avranno amato…” Infatti mi pareva impossibile che un essere umano, conoscendo Steerforth, potesse sottrarsi al suo fascino irresistibile. Quando fummo appena fuori Londra, notai che il cielo aveva un aspetto particolarmente minaccioso, di un colore giallastro che non avevo mai visto in vita mia. Le nuvole – alcune tanto basse che parevano sfiorare le cime degli alberi, altre altissime – si muovevano in direzioni opposte, in un tumulto e con una rapidità tanto più stupefacente, in quanto nell’aria bassa non si avvertiva un alito di vento. Poi gli alberi cominciarono ad agitarsi, un enorme polverone oscurò l’orizzonte e uno schianto formidabile si scaricò proprio davanti alla diligenza su cui viaggiavo. I cavalli correvano come impazziti, con le criniere svolazzanti e le orecchie diritte; parevano

avere fretta di giungere alla meta per sottrarsi a un imminente pericolo. In pochi minuti il vento diventò terribile. Dal finestrino della vettura vedevo vagare nell’aria turbini di foglie e di rami divelti, alcuni dei quali ci sorvolavano come sassi scagliati da una fionda; talvolta i cavalli si fermavano e si addossavano l’uno all’altro come se avessero paura di proseguire. Giunti al villaggio di Ipswich vedemmo la gente correre allarmata per le strade, perché il vento abbatteva i comignoli e faceva volare le tegole come foglie. Tuttavia proseguimmo il viaggio e, quando fummo in vista della spiaggia di Yarmouth, vidi, nella semioscurità, il mare tutto bianco, quasi trasformato in un’immensa distesa di schiuma. Il rombo delle onde era così assordante che non si avvertiva più né il trotto dei cavalli né il rotolio delle ruote. L’una dopo l’altra, le onde piombavano a ogni istante sulla spiaggia come colpi di cannone e facevano tremare la strada. In città, lungo la riva del mare, si vedeva una folla impressionante di donne, di marinai e di ragazzi: guardavano verso il largo e gemevano, alzavano le braccia al cielo e chiamavano i loro cari che erano stati sorpresi in mare dalla tempesta. Scesi dalla diligenza e, resistendo come potevo alla poderosa furia del vento, mi recai a casa dei miei amici, dove pensavo di trovare Peggotty: ma non c’era anima viva. Allora mi diressi all’officina dove sapevo che lavorava Ham, ma lì mi dissero che era partito per un villaggio vicino, dove doveva eseguire non so quale riparazione. Pensai allora di trascorrere qualche ora in albergo, dove il cameriere, al quale avevo chiesto una tazza di caffè bollente, mi disse: «Avete visto, signore, che tempo da lupi?» «Già» risposi. «Speriamo che quei poveri pescatori che sono ancora in mare se la cavino.»

«Sarà difficile, purtroppo. Pensi che perfino le imbarcazioni più grandi e robuste si trovano in difficoltà. Al largo ce n’è una – viene dalla Spagna, credo, o dal Portogallo – che sta facendo naufragio.» Bevvi il mio caffè, discesi di nuovo in strada e mi avviai verso la spiaggia. Quando fui di nuovo davanti al mare ebbi l’impressione che il vento fosse leggermente scemato, ma lo spettacolo delle onde era qualcosa di indescrivibile. La schiuma dei cavalloni, alti come colline, offuscava talmente l’aria che, sebbene tutti mi indicassero la nave che si dibatteva a poche centinaia di metri dalla riva, sul momento non riuscii a scorgerla. Finalmente la intravidi per un attimo, tra due montagne d’acqua, che filava come un bolide verso di noi. Uno degli alberi si era spezzato a sei o sette piedi dal ponte e giaceva ripiegato sopra un fianco, in un viluppo di cordami e di vele. La grossa imbarcazione ruotò per un istante su se stessa e poi sparì in un turbine di schiuma. In quell’attimo si videro chiaramente alcuni uomini che lavoravano d’ascia, e fra loro mi parve di scorgerne uno con i capelli biondi e ricciuti. Sentii il cuore balzarmi in petto; l’angoscia della situazione era accresciuta dal rintocco continuo, disperato, della campana di bordo, che si propagava sulle onde con un effetto terrificante. A un tratto il veliero riemerse, ma una nuova ondata lo investì in pieno e si videro volare in mare, in un miscuglio confuso, tavole, botti e uomini. «Guardate, si spacca in due! Si spacca in due!» gridò qualcuno accanto a me. Pochi istanti dopo si vide un pugno di naufraghi aggrappati a una tavola; poi anche quella scena ci scomparve dalla vista. Sulla spiaggia la commozione era al massimo: i pescatori si torcevano le mani, le donne gridavano e si nascondevano il viso.

Ora sulla nave rimaneva un uomo solo, quel biondo con i capelli ricci, che si affaccendava intorno all’albero superstite. A quel punto qualcuno giunse ansante sulla spiaggia, guardò un attimo verso le onde e subito dopo cominciò a spogliarsi, con la chiara intenzione di gettarsi in mare per salvare lo sconosciuto. Era Ham, il nipote di Peggotty! Gli corsi incontro ed esclamai: «Ham, mio buon Ham, che volete fare? Morire insieme con quel poveretto?» Per tutta risposta lui mi salutò con un sorriso e poi, guardando verso le onde, soggiunse: «Signorino Davy, se la mia ora è venuta, ben venga. Dio vi benedica e benedica tutte le anime cristiane!» Capii che qualsiasi cosa avessi potuto dire sarebbe stata inutile e con uno spasimo indicibile rimasi a guardare quel che faceva. Diversi uomini accorsero con due lunghe corde; Ham se ne legò una al polso e una alla vita, mentre la nave si avvicinava rullando, con l’uomo biondo che ancora resisteva. Il poveretto si agitava e ci tendeva le braccia; aveva la bocca aperta in un grido, ma il rombo dei marosi e il funebre rintocco della campana coprivano completamente la sua voce. Con la corda intorno alla vita Ham si buttò in mare, ma dopo aver lottato invano con le onde fu tirato di nuovo sulla spiaggia. Vidi che dalla fronte gli colava un rivolo di sangue ma, incurante di sé, quel coraggioso si deterse con il dorso della mano e si gettò ancora. Nuotando come un indemoniato aveva quasi raggiunto la meta, quando un immenso cavallone verdastro investì il relitto e lo inghiottì per sempre. Dopo qualche minuto un corpo esanime fu scagliato sulla riva dai marosi. Mi precipitai a vederlo e, quando gli fui vicino, lanciai un grido disperato: era Ham! Alcuni pescatori lo sollevarono con delicatezza e lo portarono in una casa vicina, dove fecero di tutto per rianimarlo; ma la furia del mare l’aveva colpito a morte.

Mentre ero lì a vegliarlo con le lacrime agli occhi, un tizio di Yarmouth, che conoscevo fin dall’adolescenza, si affacciò costernato alla porta e mi chiamò: «Signore, volete venire sulla spiaggia?» «Un altro cadavere portato dalla risacca?» chiesi allarmato. «Sì…» rispose. «Lo conosco?» L’uomo non rispose e mi invitò con un cenno a seguirlo fino alla riva. Supino, cereo, con la testa appoggiata su un braccio, riconobbi il mio amico Steerforth. Rimasi impietrito. Era bello come sempre, ma aveva la fronte spaccata. Lo feci portare all’albergo su una barella e ricoprire con una bandiera. Ero distrutto: mi pareva di avere lì davanti il cadavere della mia giovinezza. Ma ora un altro, triste compito mi attendeva: quello di andare da Peggotty ad annunciarle la fine del nipote. Io e la mia cara governante piangemmo a lungo insieme; poi lei si avviò alla casa-battello per consolare Emily. Per quanto mi facessi forza, mi mancò il coraggio di presentarmi come ambasciatore di sventura alla tenera compagna della mia infanzia e fuggii nella notte verso l’albergo. Lì vegliai il corpo di Steerforth e alle prime luci dell’alba lo feci chiudere nella bara per trasportarlo con me a Londra. Con quel carico doloroso giunsi a Highgate sotto un mite cielo autunnale. Lasciai per strada la vettura con il feretro ed entrai in casa di Steerforth. Dopo aver gettato uno sguardo sul mio volto disfatto, la piccola cameriera che venne ad aprirmi mi chiese: «Signore, siete forse malato?» «No» risposi «sono turbato e molto stanco.» «È successo qualcosa, signore?» fece la ragazza. «Avete notizie del signor James?» «Parlate piano» le dissi. «Sì, è accaduto qualcosa e ho bisogno di parlare con la signora Steerforth. Portatele il mio biglietto da visita e siate discreta.»

Passarono alcuni minuti che mi parvero eterni. Finalmente fui ricevuto. La signora mi aspettava nella sua camera; aveva il volto un po’ sofferente, ma mi accolse con cordialità, sebbene la mia fisionomia fosse ben poco rassicurante. «Vedo che non state troppo bene» disse. «Dovete aver avuto dei dispiaceri…» soggiunse notando che portavo il lutto. «Sono vedovo, purtroppo» risposi. «Siete molto giovane per aver subìto una perdita così grave! Spero che il tempo vi porterà conforto.» «Auguriamocelo per tutti, signora» risposi. «Ne abbiamo tutti bisogno in… in circostanze come queste.» Per quanto mi facessi forza, la voce mi si velò e gli occhi mi si riempirono di lacrime. La signora si allarmò. «Avete notizie di James?» mi chiese con ansia. «È forse malato?» «Molto malato, signora.» «L’avete visto?» «Non l’ho visto, signora. Ma ieri si trovava in mare e… e…» «Mio figlio è morto» disse lei in un soffio. Il suo bel viso, tanto somigliante a quello del figlio, si sfigurò di colpo, e con un gemito straziante la povera signora cadde riversa sulla poltrona. La morte di Steerforth fu per me il colpo più terribile dopo quelli che avevo subìto alla morte di mia madre e di Dora. Per qualche giorno rimasi come svuotato: vagavo come un’ombra per le vie di Londra e non sapevo darmi pace. Proprio per questo decisi di partire e lasciai l’Inghilterra con l’idea che il momento peggiore sarebbe passato presto. Invece la sofferenza cominciò a insidiarmi proprio quando, trascorso un certo periodo, divenne chiara la consapevolezza delle perdite subite e del vuoto che mi avevano lasciato nell’esistenza. Quel viaggio, insomma, fu molto tormentato, e il fatto di trovarmi all’estero non fece che aumentare il senso di inutilità che mi portavo

dentro e che mi fece vivere in uno stato di completa indifferenza. Visitavo posti nuovi, ma non vedevo neppure gli splendidi paesaggi e le immortali opere d’arte che mi trovavo davanti; provavo una continua sensazione di stanchezza e di apatica estraneità per tutto e per tutti. Dall’Italia, dove mi trovavo, passai in Svizzera, e con una guida mi inoltrai per gli impervi sentieri delle Alpi. In quel silenzio sovrumano, in mezzo alle cime nevose, ritrovai come per miracolo un briciolo di serenità e riuscii a piangere come non ero riuscito ancora a fare dopo la morte di Dora. Da quel momento cominciai a riprendere un po’ di vigore e mi rimisi a scrivere con lena. I lavori che spedivo in patria ebbero un grande successo e la mia fama aumentava rapidamente. Trascorsero così tre lunghi anni di esilio. Quando tornai a Londra, in una gelida sera d’autunno, non c’era nessuno ad attendermi nella mia casa vuota. La zia Betsey, infatti, non aveva mai digerito la vita nella capitale e in mia assenza aveva ripreso possesso, insieme con il fido signor Dick, della sua villetta di Dover. Pensai di recarmi dall’ultimo dei miei amici di Salem House, il buono e caro Traddles, che non vedevo dal giorno della partenza dei Micawber per l’Australia. Nella sua vecchia abitazione mi dissero che aveva cambiato casa e mi diedero il nuovo indirizzo. Ci andai. Abitava all’ultimo piano di un edificio piuttosto malandato, con una scala semibuia che sembrava fatta apposta per rompersi l’osso del collo. Infatti, a pochi passi dalla porta da cui mi parve provenissero le allegre risate di due o tre ragazze, misi un piede in fallo e precipitai in una specie di buca. Quando mi rialzai era calato il silenzio. Riguadagnai il tratto di scala fino alla porta, su cui vidi una targhetta con scritto: “Signor Traddles”. Bussai due volte. Venne ad aprirmi un ragazzino. «Il signor Traddles è in casa?»

«È in casa» rispose il giovane «ma in questo momento è occupato.» «Ditegli che un suo amico desidera vederlo.» Dopo avere esitato un poco, il ragazzo mi fece entrare e mi precedette in una piccola anticamera e poi in un salottino, dove, seduto a un tavolo, con davanti un ammasso indescrivibile di carte, stava il mio amico Traddles. Appena mi vide balzò in piedi e mi venne incontro a braccia aperte: «Dio mi aiuti, Copperfield, come sono contento di rivederti! Parola d’onore, sono proprio contento!» E mi stringeva al petto con gli occhi lucidi. Anch’io ero commosso fino alle lacrime. «Ne sono certo, mio buon Traddles» risposi. «E tu, come stai?» «Bene, bene, benissimo!» esclamò. «Sono il più felice degli uomini, sai? Anzi, prima di darti la grande notizia devo chiederti scusa per non averti invitato a presenziare alla lieta cerimonia. Mi sono sposato.» «Ti sei sposato?» «Sì, con Sophy, la più cara fanciulla del mondo. Sai, abbiamo fatto le cose in famiglia, con il consenso del suo reverendo padre. Mi era venuto in mente di invitare te e la tua eccellente zia, ma eri all’estero, e poi avevamo deciso di fare una cerimonia molto intima, modesta. Oh, come sono contento di rivederti!» «E io sono felicissimo di vederti felice!» «Sai dov’è Sophy?» disse ancora Traddles. «È là, dietro la tenda: ora te la presento.» “La più cara ragazza del mondo” venne fuori dal suo nascondiglio e io non potei fare a meno di confessare che era davvero la sposa più simpatica, allegra e spigliata che si possa immaginare. La baciai sulle guance come una sorella e augurai agli sposi la maggiore felicità possibile. «Grazie, mio caro Copperfield. Noi seguiamo i tuoi successi e sappiamo che sei diventato celebre.»

«Non posso lamentarmi» risposi. «Vado avanti abbastanza bene. E la tua professione?» «Mi arrangio» disse Traddles. «Non abbiamo grandi pretese. Abbiamo messo su casa con niente, io lavoricchio, in attesa di affermarmi. Intanto, se me lo permetti, mio glorioso Copperfield, ti voglio presentare le sorelle di Sophy.» «Mi farai molto piacere.» Le ragazze si fecero avanti. Erano quattro: Sarah, Meg, Louise e Lucy. Un vero cespuglio di rose: allegre, spigliate e simpatiche tutt’e quattro. Intanto la signora Traddles, che aveva dipinta negli occhi la bontà, si mise a tostare il pane, mentre il piccolo domestico preparava sulla tavola le tazze per il tè. C’era tanta allegria festosa, tanta serena felicità in quella casa! Prendemmo il tè in un’atmosfera di cordialità esemplare, poi io li salutai rinnovando i miei auguri e promettendo a Traddles che gli avrei dato notizie di me, dopo essere ritornato dalla zia, che mi aspettava. Mentre mi mettevo in viaggio per Dover, il ricordo della famiglia Traddles, così felice e serena, mi fece piombare in una meditazione profonda e, per me, anche alquanto dolorosa. Non avevo più né un focolare a cui fare riferimento, né l’amore di una ragazza dolce e sensibile. Di una ragazza con la testa sulle spalle. Di una ragazza che mi amasse e che… Il corso dei miei pensieri si arrestò all’improvviso: ero rimasto come folgorato all’idea che quella ragazza io la conoscevo, ma che, per chissà quale occulta ragione, avevo sempre trattato come un’amica, come una buona sorella. Ora il suo dolce volto mi stava davanti in un’altra luce. “In realtà” riflettei “mi è sempre parso di non essere abbastanza degno di lei. E soprattutto non ho mai saputo quali siano i suoi sentimenti verso di me. L’ho conosciuta quando ero ancora un ragazzo e, comportandosi come una sorella e una consigliera, ha fatto nascere in me un senso di rispetto e di ammirazione per le sue qualità. Fare di Agnes la compagna della

mia vita è stata un’aspirazione a cui non mi sono mai sentito preparato.” Assorto in queste riflessioni giunsi a Dover, dove trovai la zia in ottima salute. Altrettanto bene trovai Peggotty, che dopo la morte di Ham si era allontanata da Yarmouth e si era rimessa al servizio della zia, felice di rivedermi di tanto in tanto e di essermi vicina, e il signor Dick, allegro come un passero e ormai trasformato in un copista provetto. Tutti mi fecero una gran festa e mi narrarono del matrimonio della ex domestica Janet con un oste discretamente agiato, matrimonio che la zia, rinunciando alla sua avversione per gli uomini, aveva voluto onorare della sua presenza. Appresi anche, con grande piacere, che il signor Micawber scriveva periodicamente dall’Australia, dove si era sistemato bene, e che aveva puntualmente rispettato le scadenze del suo debito. Quella sera, quando il signor Dick si fu ritirato nella sua cameretta all’ultimo piano, e mentre Peggotty faceva le pulizie in cucina, ci ritrovammo soli, io e la zia, davanti al fuoco. Io ero pensieroso e anche la zia pareva rimuginare qualcosa. Dopo un po’ mi mise una mano sul braccio e mi chiese a bruciapelo: «Dimmi un po’, Trot, quando pensi di andare a Canterbury?» «Quando volete, zia, anche domani. Prenderò un cavallo e ci andrò.» «Ci avevi pensato da solo ad andarci?» mi chiese ancora fissandomi negli occhi. «Avevo pensato di fermarmici venendo qui da Londra, ma ho deciso di vedere prima voi.» «Hai fatto male!» fece la zia. «Queste vecchie ossa avrebbero ben potuto attendere fino a domani.» Per qualche minuto rimanemmo silenziosi, come assorti nello sforzo di indovinare i nostri reciproci pensieri. Poi la zia ruppe il silenzio: «Troverai suo padre tutto bianco» disse. «Si, è tremendamente invecchiato, ma è anche molto sereno. E troverai lei,

buona e disinteressata come sempre, un angelo del cielo. Se potessi lodarla di più lo farei, Trot… e tu devi tenerlo presente.» Il nome di Agnes non era stato pronunciato, ma era corso tra lei e me come un fluido magnetico. Il cuore si mise a battermi a precipizio. «Ditemi un po’, zia» iniziai a chiedere ora che avevo capito che i nostri pensieri coincidevano. «Sapete se per caso Agnes ha qualche…» «Che cosa?» «Sì, voglio dire, qualche pretendente, se è fidanzata?» «Fidanzata no, ma di pretendenti ne ha almeno una ventina. Se avesse voluto si sarebbe potuta sposare almeno venti volte.» «La cosa non mi meraviglia: è così buona, bella e virtuosa che i corteggiatori non possono mancarle. Volevo dire se ha un pretendente degno di lei.» «Questo non lo so, ma ho un sospetto» disse la zia. «Il sospetto che nutra un sentimento nascosto.» «E non sapete se è ricambiata?» «Non so nulla» rispose brusca la zia. «Lei non mi ha mai confidato nulla, e io sono già stata imprudente a dirti quel che ti ho detto. Tu va’ a trovarla e parlale. Adesso andiamo a letto, Trot. Buonanotte.»

Capitolo diciotto Si fa luce nel mio cuore

La mattina dopo partii a cavallo verso il luogo dove avevo trascorso gli anni più belli dell’adolescenza e dove mi attendevano tanti cari ricordi. Il tempo era splendido e i pensieri che mi accompagnarono per tutto il tragitto contribuirono ad abbreviare il viaggio. Giunto a Canterbury, lasciai il cavallo all’albergo e raggiunsi a piedi la casa dove abitava Agnes; ma la mia ansia era tale che, invece di bussare subito, tornai indietro, perché in un primo tempo non potei vincere l’impeto delle emozioni. Poi ritornai sui miei passi e, prima di entrare, feci un giro intorno all’edificio, spiando dalle finestre aperte le stanze dove per tanti anni avevo lavorato e sognato. Così gettai lo sguardo nella stanza a torretta, dove un tempo aveva lavorato Uriah Heep e dove poi si era installato il signor Micawber, e mi accorsi che era stata trasformata in un salottino. Ebbi l’impressione che la disposizione interna nell’insieme fosse ritornata com’era quando ero entrato in quella casa per la prima volta, e che ogni traccia della permanenza di Uriah Heep fosse svanita. Finalmente bussai con il cuore in tumulto. Alla domestica che venne ad aprirmi dissi di annunciare alla signorina Wickfield che un suo amico desiderava salutarla. Fui fatto passare nel salotto più piccolo; lì, con mio grande stupore, vidi i libri, i mobili, i soprammobili, ogni oggetto, insomma, nell’identico ordine in cui si

trovavano quando io e Agnes, entrambi ragazzi, vi studiavamo insieme. Mi parve di ritornare all’epoca felice in cui facevo i compiti in quella stanzetta, mentre fuori la pioggia, rovesciandosi dalle grondaie, scrosciava monotona sulle pietre del selciato. Intanto che rievocavo quei ricordi, la porticina nella parete rivestita in legno si aprì e mi venne incontro il bel viso luminoso di Agnes. «Agnes, sorella mia! Non sarò venuto troppo presto?» «No, no, Trot, voi siete sempre il benvenuto.» L’abbracciai, lei appoggiò la testa sulla mia spalla e rimanemmo per qualche istante silenziosi in quella posizione. «Dite la verità, non mi aspettavate!» le chiesi. «Non vi aspettavo oggi… perché vi aspetto sempre» mi disse con quel suo incantevole sorriso. «Questa è un po’ casa vostra, non vi pare, Trot?» «Sì, mia cara Agnes, sentivo tanto il bisogno di vedervi, di sentirvi parlare… Come sta vostro padre?» «Sta bene. È molto invecchiato, ma almeno ora è tranquillo.» «E voi» chiesi ancora. «Di voi non mi dite nulla?» «Di me non ho nulla da dirvi, caro Trot» mi rispose Agnes. «Sono qui con papà, nella casa che è ritornata nostra come una volta. Quando vi ho detto questo, vi ho detto tutto.» «Proprio tutto, Agnes?» Lei mi guardò con una leggera inquietudine, avvertendo forse il recondito significato dalla mia domanda, che tendeva a portarla sul terreno a cui aveva accennato la zia. Ma evitò di rispondere rivolgendomi uno dei suoi franchi sorrisi. «Restate con noi oggi» soggiunse «e se vorrete far piacere a me e a papà rimanete qui fino a domani. Dormirete ancora nella stanzetta che fu vostra e che noi chiamiamo ancora “la stanza di Trot”.» «Mi piacerebbe tanto, cara Agnes, ma non posso davvero. Ho promesso alla zia di ritornare stasera e non vorrei che si preoccupasse.»

In quel momento rientrò il signor Wickfield. Era reduce da una visita all’orto che possedeva non lontano da Canterbury, dove si dilettava a lavorare qualche ora ogni giorno. Mi sembrò davvero invecchiato, proprio come me l’aveva descritto la zia. Fu un vero piacere incontrarlo dopo tutto quel che era successo: ci mettemmo a chiacchierare e, mentre stavamo parlando di Agnes, il signor Wickfield finì per spostare il discorso su sua moglie. «Non vi ho mai raccontato nulla della madre di Agnes?» mi chiese. «No, mai» risposi. «Mi sposò contro il parere del padre. Quella decisione le costò cara: fu disconosciuta dalla famiglia e, nonostante avesse chiesto ripetutamente il perdono paterno, non lo ottenne mai, neppure quando venne al mondo Agnes. Ne soffrì tanto che cominciò a deperire, finché non morì, appena due settimane dopo la nascita di Agnes. Ciò detto, potete capire che cosa abbia rappresentato per me la mia cara ragazza.» Mentre stavamo parlando, Agnes era andata al pianoforte e aveva cominciato a suonare le melodie di un tempo. Emozionato, attesi che il signor Wickfield si congedasse; subito dopo mi alzai e andai a mettermi vicino a lei, in piedi accanto al pianoforte. Continuando a suonare, con lo sguardo sempre chino sulla tastiera, Agnes mi disse: «E ora, cosa contate di fare, Trot? Farete altri viaggi per accrescere le vostre esperienze di scrittore? Noi seguiamo il vostro lavoro, sapete, e siamo entusiasti delle cose che scrivete». «Che ne pensate voi, Agnes?» chiesi. «Preferireste che partissi di nuovo o che restassi?» «Oh, io vorrei che rimaneste!» mi rispose sollevando lo sguardo e fissandolo nel mio. «Per adesso, almeno. Altrimenti, chissà quanto starò senza vedervi.» «E allora io non partirò. Non partirò…» aggiunsi «perché temo che in mia assenza possa avvenire qualcosa.»

Agnes mi fissò con un’espressione alquanto interrogativa. «Siete un po’ turbato oggi, Trot» mi disse. «Che avete? Non volete confidarmi ciò che vi angustia? Non sono forse la vostra cara sorella?» «Sì che lo siete!» risposi. «E non chiedo di meglio che confidarmi con voi. Ma voi dovete promettermi di essere sincera con me, di rispondere con franchezza alle mie domande.» «Ve lo prometto, Trot.» «Ascoltatemi, Agnes. Voi sapete che non c’è uomo al mondo che abbia per voi più rispetto e più venerazione di quanta ne abbia io. Per me ogni vostro sentimento, ogni vostra decisione sono sacri. Finora io non sono stato per voi che un amico, un fratello, e sarei disposto a compiere ogni sacrificio se ciò potesse contribuire alla vostra felicità futura. Credo di aver capito che avete dato il vostro cuore a qualcuno e mi preme di sapere solo una cosa: questo qualcuno è degno di voi? La mia grande, la mia nascosta speranza – nascosta ancora ieri perfino a me stesso! – è stata sempre quella di potervi chiamare con un nome più dolce di quello di sorella. Ma se il vostro cuore è impegnato, sarò felice di rinunciare al mio sogno in virtù dell’affetto che vi porto. Ditemi dunque francamente: chi è questo essere privilegiato?» Durante il mio discorso, il volto di Agnes era diventato sempre più pallido e le labbra avevano cominciato a tremarle impercettibilmente. Quando tacqui alzò su di me uno sguardo quasi supplichevole, mentre due grosse lacrime le scendevano lungo le guance. «Perdonatemi, cara Agnes, ma non mi lasciate andar via con questa incertezza. Ditemi tutto…» dissi ancora con la tempesta nell’animo. «Oh, Trot!» esclamò lei scoppiando in un pianto dirotto e gettandomi le braccia al collo. «Com’è possibile che non l’abbiate capito da solo il mio segreto? Si può avere l’affetto che ho sempre nutrito per voi senza essere stata capita? L’uomo a cui ho dato il mio cuore da anni? Ma Trot, caro, quell’uomo… sei tu! Ti ho sempre

amato, dal momento in cui hai varcato per la prima volta la soglia di questa casa.» Rimanemmo a lungo stretti, singhiozzando di felicità, dimentichi di tutto quello che ci circondava. Quella sera, quando tornai a Dover, ero così pieno di gioia e di entusiasmo che non so come riuscii a mantenere il segreto con la zia. La trovai in salotto, tutta assorta in un lavoro di ricamo. Alzò gli occhi, mi fissò e, siccome rimanevo silenzioso, ostentando un certo imbarazzo, si tolse gli occhiali e cominciò a stropicciarsi il naso. Nel repertorio dei gesti di Betsey Trotwood quello era un pessimo segno e il signor Dick, che le teneva compagnia, si allarmò talmente da cacciarsi un dito nel naso. Comunque ero deciso a non sbottonarmi: mi limitai quindi a portare alla zia le notizie e i saluti di Agnes e del dottor Wickfield, poi aggiunsi con aria indifferente che dovevo ritornare a Canterbury l’indomani. Questo particolare parve calmare un po’ l’impazienza della zia, e così andammo a letto senza ulteriori spiegazioni. Il giorno dopo ripartii; verso l’ora di pranzo ero di ritorno con Agnes. La zia lavorava ancora in salotto, vicino alla gabbia dei canarini. Quando ci vide si tolse gli occhiali un po’ stupita e ci fissò come per dire: «Be’, che cosa c’è di nuovo?» «Zia» dissi spingendo avanti Agnes «sono lieto di presentarvi la mia fidanzata.» Il prezioso ricamo cadde sul pavimento e la zia, scattata come una molla dalla sua poltrona, strinse Agnes tra le braccia. Poi abbracciò me, poi ancora Agnes, poi tutti e due insieme. «Figlia cara, come sono contenta! Dick! Dick! Dov’è Dick? Voglio sentire il suo parere!» Il signor Dick accorse dalla sua stanza al piano di sopra e, informato della notizia, fece mille stranezze per dimostrare la sua gioia.

Venne anche Barkis, la mia cara Peggotty, che la zia si ostinava a non voler chiamare con il suo cognome. Anche lei abbracciò Agnes piangendo, e le chiese di poterla umilmente servire per amore del suo caro Davy. Quindici giorni dopo ci sposammo. I soli invitati alla cerimonia, che Agnes e io volemmo molto intima, furono Traddles e Sophy, il dottor Strong e sua moglie. Quella sera Agnes mi disse: «David, marito mio, ora che posso chiamarti così ho ancora qualcosa da dirti». «Dimmi, cara Agnes, angelo mio.» «Ricordi il giorno in cui Dora morì? Ricordi che volle restare sola con me?» «Sì che lo ricordo. Fosti tu a raccogliere il suo ultimo respiro.» «Ebbene… prima di morire lei disse… che voleva chiedermi un ultimo favore.» «Quale, Agnes?» «Mi chiese che fossi io a occupare il posto che lei aveva lasciato vuoto…» Così dicendo, Agnes mi appoggiò la testa sulla spalla e si mise a piangere dolcemente. Anch’io piansi con lei: erano lacrime di commozione e di felicità. Cominciava per me, per noi, una nuova vita; quella che ancora oggi conduciamo insieme, io e la dolce creatura che chiamavo, e chiamo, il mio angelo.

Nella collana

CLASSICI • Alice nel Paese delle Meraviglie • Canto di Natale • Cuore • David Copperfield • I pirati della Malesia • I ragazzi della via Pál • I tre moschettieri • Il giardino segreto • Il giornalino di Gian Burrasca • Il giro del mondo in ottanta giorni • Il libro della giungla • Il Mago di Oz • Il piccolo lord • Il richiamo della foresta • Kim • La capanna dello zio Tom • La freccia nera

• La piccola Dorrit • La piccola principessa • Le avventure di Pinocchio • Le avventure di Tom Sawyer • Le piccole donne crescono • L’Isola del Tesoro • L’Isola misteriosa • L’ultimo dei Mohicani • Oliver Twist • Papà Gambalunga • Pattini d’argento • Peter Pan • Piccole donne • Piccoli uomini • Pollyanna • Pollyanna cresce • Robin Hood • Robinson Crusoe • Senza famiglia • Sherlock Holmes Investigatore privato • Tre uomini in barca • Una ragazza fuori moda • Ventimila leghe sotto i mari • Zanna Bianca