Dall’imitazione alla cooperazione. La ricerca sociale e le sue sfide 9788833971605

Le scienze sociali rilevano spesso fenomeni di marca tendenzialmente opposta, separati appena dalla linea sottile dell&#

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Dall’imitazione alla cooperazione. La ricerca sociale e le sue sfide
 9788833971605

Table of contents :
Indice
......Page 135
Frontespizio......Page 4
Presentazione
......Page 2
Premessa
......Page 6
Alcune riflessioni sui cambiamenti della società......Page 11
...e sui mutamenti dell’individuo contemporaneo......Page 18
Dalla moda del piercing a quella del tatuaggio: costruirsi una propria identità per assomigliare agli altri?......Page 21
Dominare il tempo o diventarne schiavi?......Page 24
Cosa insegna il trionfo di Facebook......Page 27
Come si studia il rapporto tra individuo e società......Page 30
Esiste davvero una «sindrome di Zelig»?......Page 34
Le molteplici forme dell’imitazione nel mondo vivente......Page 36
L'imitazione negli esseri umani: un tipo di apprendimento meccanico o ragionato?......Page 40
Imitare l'aggressività......Page 44
L’imitazione tra natura e cultura......Page 49
Come la pressione sociale può influire sul desiderio di essere uguali agli altri......Page 54
Persuasione, propaganda mediatica e imitazione......Page 61
Dalla persuasione alla ricerca di conferme: ulteriori riflessioni sulla tendenza umana a fare quello che fanno gli altri......Page 68
Fino a che punto si spingono il conformismo e l’obbedienza? Riflessioni sul fenomeno dell’acquiescenza volontaria agli ordini......Page 74
C’è chi dice no!......Page 80
Perché si coopera con gli altri? La prospettiva razionalista......Page 83
Strettamente razionale o genuinamente ragionevole? Il comportamento individuale di
fronte alla quotidianità......Page 85
Dalla logica dell’interesse a quella della reciprocità: quando cooperare non comporta vantaggi e può addirittura essere costoso......Page 91
Ma allora a cosa serve cooperare con gli altri? Uno sguardo alla prospettiva evolutiva......Page 92
Razionalità vs emozioni. Alle origini del senso morale......Page 97
Studiare l’individuo oggi dal punto di vista delle neuroscienze......Page 103
Bibliografìa
......Page 111
Indice dei nomi
......Page 130

Citation preview

ALBERTINA OLIVERIO

DALL'IMITAZIONE ALLA COOPERAZIONE LA RICERCA SOCIALE E LE SUE SFIDE PROGRAMMA DI SCIENZE UMANE

Bollati Boringhieri

Presentazione Le scienze sociali rilevano spesso fenomeni di marca tendenzialmente opposta, separati appena dalla linea sottile dell’ambivalenza. È il caso delle

spinte individualizzanti, che esprimono il desiderio di distinguersi dagli

altri, e dei multiformi comportamenti di tipo imitativo, attraverso i quali viene invece ribadito il vincolo con la collettività. La vita quotidiana offre

infiniti esempi del loro incessante negoziato, tanto che in queste

«conciliazioni lentamente conquistate e rapidamente perdute» secondo Georg Simmel si dipana la storia stessa della società. Sulle ragioni che

inducono gli individui a munirsi, con contraddizione solo apparente, di segni distintivi di appartenenza sociale, e a mettere in opera strategie di

imitazione e di cooperazione, si interroga Albertina Oliverio, in un saggio

esauriente e accurato che accanto alle interpretazioni classiche arruola le tendenze più innovative della ricerca, dalle prospettive sociobiologiche e

Emulazione di natura aggressiva, acquiescenza agli ordini, conformismi di ogni genere, empatia, altruismo: il

psicosociali

alle

neuroscienze.

repertorio dell’interazione umana è qui scandagliato nelle sue logiche differenti, che grazie agli ultimi studi risultano adesso meno enigmatiche. Albertina Oliverio insegna Filosofia della scienza aH’Università Gabriele

D’Annunzio

di

Chieti-Pescara

e

Metodologia

delle

scienze

sociali

aH’Università LUISS Guido Carli di Roma e Logica. Tra i suoi saggi: Teorie

della razionalità e scienze sociali (con Raymond Boudon e Dario Antiseri, 2002), Strategie della scelta. Introduzione alla teoria della decisione (2007), L'idealtipo

weheriano. Attualità teorica e potenzialità empiriche (2010), Scienze umane.

Elementi di psicologia, antropologia, pedagogia, sociologia e A piedi nudi nel verde.

Giocare per imparare a vivere (entrambi con Anna Oliverio Ferraris, rispettivamente 2010 e 2011).

Programma di Scienze Umane

Albertina Oliverio

DaH'imitazione alla cooperazione La ricerca sociale e le sue sfide

CI.

Bollati Boringhieri

© 2012 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN 978-88-339-7160-5

www.bollatiboringhieri.it Prima edizione digitale settembre 2012

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

Premessa Secondo il sociologo Zygmunt Bauman, uno dei tratti caratterizzanti della

società occidentale contemporanea è la continua tensione individuale che esiste tra il bisogno di autoaffermarsi distinguendosi dagli altri e l’esigenza di sentire di far parte di un insieme più grande riconoscendosi negli altri.

L’individuo sarebbe quindi oggi più che mai soggetto a due spinte

altrettanto forti: da un lato, quella riconducibile al desiderio e, spesso, all’imposizione di una crescente individualizzazione che si esprime

attraverso l’acquisizione di una sempre maggiore autonomia e libertà di

azione sul piano individuale; dall’altro lato, quella identificabile nella

necessità, se non addirittura nell’impulso istintivo, di una uniformizzazione

e di una partecipazione sociale forse in grado di garantire sicurezze e certezza minate o perse proprio a seguito della pressione esercitata dalla

precedente spinta individualizzante. Come si vedrà, la quotidianità è in

effetti

lo

specchio

di

questa

ambivalenza

tra

individualismo

e

massificazione, tra l’esigenza tipica dell’uomo contemporaneo di sentirsi

libero di vivere, esprimersi e scegliere autonomamente dagli altri, e la pressione che su di lui esercita la prospettiva rassicurante di sentirsi uguale agli altri che lo circondano e con cui vive a contatto. Basti considerare per un momento come sia mutato rispetto al passato il

rapporto dell’individuo con il proprio corpo: per esempio, sono sempre di più le donne e gli uomini che decidono di sottoporsi a drastiche diete, a duri

allenamenti in palestra, a interventi di chirurgia estetica, o che si fanno tatuare o fare dei piercing per modellare, controllare e gestire in base ai

propri gusti e preferenze il loro fisico e la loro identità. Queste scelte sono totalmente libere e frutto della consapevolezza e del desiderio di distinzione

individuale? Oppure esse non sono piuttosto l’esito di una forte e talvolta ineludibile pressione sociale che spinge l’individuo, anche a sua insaputa o

contro i suoi desideri, a imitare gli altri per conformarsi a un modello fisico socialmente diffuso e approvato? E cosa dire allora delle mode? Si tratta

forse di fenomeni che al di fuori delle scelte e delle azioni degli individui non esisterebbero, oppure una volta affermatesi non esercitano forse una influenza sociale talmente forte che diviene pressoché illusorio pensare di

poter mantenere una propria individualità e autonomia di scelta rispetto a esse? 0, ancora, come hanno sostenuto molti filosofi e scienziati sociali, di

fronte alle potenti macchine persuasive di tipo mediatico e pubblicitario la

presunta libertà di agire conquistata dall’uomo contemporaneo rispetto al

proprio passato va considerata solo un miraggio?

Nel celebre saggio dal titolo La moda, Georg Simmel scriveva che «la storia della società si svolge nella lotta, nel compromesso, nelle conciliazioni

lentamente conquistate e rapidamente perdute che intervengono fra la fusione con il nostro gruppo e il distinguersene individualmente». Egli precisava poi che la moda è «imitazione di un modello dato e appaga il

bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un

mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi». Proprio Bauman

sottolinea come, a suo giudizio, il compromesso di cui parlava Simmel si fondi

su

una

linea

di

confine

molto

sottile

tra

desiderio

di

autodeterminazione della propria individualità e perdita di autonomia di azione rispetto alla realtà sociale circostante.

D’altro canto, il fenomeno dell’uniformizzazione dei gusti e dei comportamenti nell’ambito della società aveva già attirato l’attenzione di Alexis de Tocqueville, che nel secondo libro della Democrazia in America

scriveva: «A mano a mano che i cittadini divengono più uguali e più simili, la tendenza di ognuno a credere ciecamente in un certo uomo o in una certa classe, diminuisce. La disposizione a credere nella massa aumenta, ed è

sempre più l’opinione comune a guidare il mondo. Non solo l’opinione comune è l’unica guida che rimanga alla ragione individuale presso i popoli

democratici, ma essa gode anche tra loro di un potere infinitamente

maggiore che presso tutti gli altri». E subito dopo aggiungeva che l’opinione pubblica «non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca

pressione dello spirito di tutti suH’intelligenza di ciascuno». Il problema della spiegazione del rapporto tra individuale e collettivo, tra

libertà di agire del singolo e limiti imposti a essa da vincoli di tipo sociale e non solo, è centrale per le scienze sociali e sarà oggetto di questo volume.

Esso riguarda da vicino temi estremamente affascinanti e tra loro collegati, come quelli dell’imitazione, dell’obbedienza, della cooperazione, attorno ai quali si sono sviluppati dei filoni di ricerca che, in alcuni casi, hanno

riscosso un notevole interesse proprio negli ultimi anni. Gli sforzi tesi a

capire, per esempio, perché esista una tendenza umana a fare quello che fanno gli altri, hanno coinvolto le diverse anime della ricerca sociale interessate non solo a stabilire il peso che le componenti individuali e quelle

sociali rivestono nel comportamento di tipo imitativo, ma anche a valutare l’importanza di ulteriori fattori esplicativi utili a una riflessione più ampia e interdisciplinare sul fenomeno. In tal senso, un posto importante lo

occupano gli studi centrati su una particolare forma di uniformizzazione sociale che implica un conformismo di tipo etico e che coinvolge quei

comportamenti di obbedienza (a un leader, un gruppo, una ideologia) che sul piano morale possono suscitare perplessità, incredulità, condanna.

Come si vedrà, molti sono gli spunti teorici che forniscono tasselli di riflessione estremamente validi, alla luce dei quali esaminare e cercare di comprendere alcuni comportamenti individuali apparentemente irrazionali, folli, deplorevoli come possono essere, per esempio, la scelta di alcuni di

aderire incondizionatamente ai valori di una setta fanatica, o quella di un kamikaze che decida di sacrificare la propria vita o, ancora, quella di obbedire a degli ordini impartiti da un’autorità superiore mettendo in atto

azioni socialmente ed eticamente oggetto di disapprovazione.

Sono poi molti coloro che ritengono che sia importante «aprire» le scienze sociali ai progressi compiuti dalle neuroscienze, al punto che un numero

sempre

maggiore

di

studi

sembra

propendere

per

una

«naturalizzazione» della ricerca sociale, nel senso di privilegiare spiegazioni di tipo biologico-evolutivo piuttosto che psicosociali. Attorno a questo

approccio si sta sviluppando un acceso dibattito. Esso viene infatti ampiamente criticato sia da quanti ritengono che releghi a un ruolo

marginale il posto dell’individuo, della sua autonomia, della sua razionalità, sia da quanti credono invece che a esserne penalizzata sia l’influenza che

sull’individuo esercitano alcuni processi e fattori sociali a partire dalle norme. Nonostante le perplessità e le critiche, vi sono alcuni ambiti in cui sembra

proprio

che

tenere

conto

dei

fondamenti

biologici

del

comportamento umano costituisca un’opportunità di ricerca che le scienze sociali non devono farsi sfuggire. In tal senso, oggi si assiste a un’esplosione di studi che sottolineano l’importanza delle emozioni nella vita sociale e che si interrogano sulle radici naturali di comportamenti quali la cooperazione, l’empatia, l’altruismo.

Questa tendenza a studiare i comportamenti individuali e i fenomeni

sociali in termini relazionali, ovvero tenendo conto dello stretto legame in termini di fiducia, reciprocità e solidarietà che tiene assieme gli esseri

umani tra loro, sembra essere rafforzata da un analogo processo in atto

anche nelle scienze della natura, nell’ambito delle quali si è passati da una

lettura prevalentemente individualista dell’evoluzione a una chiave interpretativa che mette al centro fenomeni di altruismo, cooperazione,

simbiosi e coevoluzione. Ecco dunque un altro orientamento di ricerca al quale si guarderà in questo volume, muovendo sempre dalla convinzione

che il progresso nelle scienze sociali dipenda dalle potenzialità di un

approccio interdisciplinare alla ricerca sia teorica sia empirica.

DaH’imitazione alla cooperazione

1. Dove va Puomo contemporaneo? Le scienze sociali e il

rapporto tra individuo e società Alcune riflessioni sui cambiamenti della società

Una serie di profonde trasformazioni prevalentemente di natura economico-sociale, prodottasi nell’ambito della società occidentale negli

ultimi decenni, ha spinto una parte delle scienze sociali a riflettere sui

mutamenti avvenuti e su quelli ancora in atto, sulle possibili conseguenze per la figura dell’individuo contemporaneo e la sua relazione con la realtà

sociale in cui vive. Da ciò ne è emerso con chiarezza un fenomeno diffuso: ossia che, ormai da tempo, l’individuo si trova oggi sempre più a fare i conti sia con una forte pressione alla «globalizzazione» che delocalizza usi e

costumi e che lo sradica dalle appartenenze di classe sociale e dai propri

legami tradizionali uniformandolo alla massa, sia con un’altrettanto vigorosa spinta alla «individualizzazione» che si traduce, tra l’altro, in un

notevole aumento dell’autonomia personale nell’affrontare scelte che

riguardano la gestione della propria vita e nell’intraprendere sforzi tesi a

garantirgli una propria specificità identitaria. Come mette in luce la storia del pensiero delle scienze sociali, il tema del rapporto tra individuo e società in termini di uniformizzazione e/o di affrancamento del primo rispetto alla seconda è centrale già nell’opera di

alcuni classici tra cui, per esempio, Émile Durkheim, Ferdinand Tònnies e Georg Simmel.

Durkheim considerava da un lato che la società fosse un’entità autonoma e prioritaria rispetto all’individuo, e dall’altro lato che l’individuo andasse concepito come un costrutto storico e sociale prodotto della modernità. Il

suo approccio fondato sul primato del sociale non consisteva dunque nello spiegare il passaggio dagli individui alla realizzazione della società, bensì

nel

capire

come

quest’ultima,

con

l’avvento

della modernità,

si

individualizzasse. Egli riteneva infatti che segno distintivo della società moderna fosse proprio la sua crescente tendenza all’individualizzazione, che egli credeva innanzitutto manifestarsi nel declino della «integrazione

sociale», ossia di quei legami sociali e culturali che rendono gli individui membri di una società.

Nella Divisione del lavoro sociale^ il sociologo francese analizza il passaggio

dalla

«solidarietà

meccanica»,

tipica

delle

società

premoderne

o

tradizionali, alla «solidarietà organica», propria delle società moderne. Le

società tradizionali si caratterizzerebbero per una bassa divisione del lavoro e, appunto, per una solidarietà di tipo meccanico, ovvero una coesione

sociale fondata su una forte «coscienza collettiva» e sulla condivisione degli stessi valori. Al contrario, le società moderne si fonderebbero su una elevata

divisione del lavoro e, conseguentemente, su una solidarietà di tipo

organico, ovvero una coesione sociale indotta dalla complementarità delle

funzioni, ma caratterizzata da un indebolimento della coscienza collettiva e da un aumento deH’individualismo. Sulla base di queste considerazioni, Durkheim riteneva che la solidarietà sociale non potesse essere garantita

dalla divisione del lavoro, e che fosse necessario ristabilire una nuova base

morale per la società rivolgendosi soprattutto all’etica delle corporazioni professionali in grado di assicurare, a suo giudizio, il legame tra individuo e

società nel suo insieme. Anche nel celebre studio II suicidio il tema dell’individualizzazione sociale

è centrale e, ancora una volta, viene messo in relazione con quello dell’integrazione sociale, ovvero del legame tra l’individuo e la società e del

controllo che la seconda esercita sul primo. Una delle tesi avanzate è infatti

quella secondo cui la forma tipica del suicidio «egoistico» va considerata come un sintomo deH’insufificienza o della parzialità di integrazione sociale

nell’ambito della società moderna: un’integrazione sociale troppo debole sarebbe causa di alienazione, di solitudine, di una sensazione di inutilità e

isolamento

rispetto

alla comunità di

appartenenza, cosa che,

di

conseguenza, spiegherebbe la variazione del tasso di questo particolare tipo di mortalità suicida nell’ambito della società. In pratica, con l’indebolirsi o il

disintegrarsi del legame sociale, l’individuo dipende sempre meno dal gruppo e sempre più da se stesso, finendo per trovarsi in uno stato di

eccessivo individualismo e di distacco dalla società che Durkheim definiva,

appunto, di «egoismo». In base alla visione durkheimiana, il suicidio avrebbe origine da una difficoltà interna al processo di socializzazione e, quindi, la sua spiegazione

andrebbe ricollegata al funzionamento dei gruppi sociali di cui i singoli

individui fanno parte (società politica, comunità religiose, famiglia, gruppi professionali). È ciò che porta per esempio il sociologo francese a

individuare una relazione causale tra la mancata o la scarsa integrazione degli individui nella comunità religiosa di appartenenza e l’atto suicida.

Analizzando i dati empirici riscontrati a livello europeo, egli rileva, tra l’altro, come il suicidio abbia un’incidenza maggiore tra i protestanti che tra

i

cattolici.

Ma

in

che

senso

le

differenti

confessioni

religiose

influenzerebbero la tendenza suicida? La risposta che fornisce Durkheim

guarda alla struttura dei due sistemi religiosi. Il cattolicesimo è molto strutturato, gerarchizzato e rigido nelle sue tradizioni, cosa che sembra

lasciare all’individuo un’autonomia assai limitata nella gestione del proprio

rapporto con la fede. Al contrario, il protestantesimo ammette il libero esame, che lascia ampio spazio al rapporto diretto del fedele con Dio e che

implica un individualismo religioso del tutto sconosciuto al cattolicesimo.

Da quanto detto segue che «la tendenza del protestantesimo per il suicidio deve essere in rapporto con lo spirito di libero esame di cui questa religione

è animata» e con il crollo delle credenze tradizionali da cui esso trae origine: «più cose il gruppo confessionale lascia al giudizio dei singoli, più esso rimane fuori dalla loro vita, con minor coesione e vitalità».^ La

maggiore integrazione dei fedeli cattolici alla propria Chiesa rispetto a quella dei fedeli protestanti alla loro spiegherebbe dunque la minore incidenza del suicidio tra i primi rispetto ai secondi. In breve, a una

maggiore individualizzazione religiosa corrisponderebbe un più elevato

tasso di mortalità suicida. La società religiosa preserverebbe dunque dal suicidio, ma unicamente nella misura in cui essa lascia all’individuo solo un’autonomia limitata rispetto a essa.^

Al problema del processo di individualizzazione in corso nella società

moderna sono legate anche le celebri riflessioni di Ferdinand Tònnies, il quale, in Comunità e società^ guardava al passaggio dal passato al presente

non in termini di progresso, bensì in termini di modalità dell’azione

corrispondenti a due tipi di volontà: la volontà «essenziale», specifica del comportamento individuale nell’ambito della comunità e caratterizzata dall’attaccamento e dall’affetto, e quella «arbitraria», frutto del pensiero, della razionalità. Secondo il sociologo tedesco, su questi due tipi di volontà si fonderebbero rispettivamente la «comunità» e la «società». La prima

sarebbe organica in un senso diverso da quello durkheimiano: essa

coinciderebbe con la famiglia per poi estendersi ai rapporti di vicinato, di

amicizia e religiosi, e sarebbe caratterizzata da relazioni inglobanti di tipo

personale

basate

suH’intimità,

sull’abitudine,

sui ricordi,

che non

sfocerebbero nella specializzazione dei ruoli. Su questa scia anche l’organizzazione economica viene interpretata in senso comunitaristico e,

anche là dove essa debba dipendere dallo scambio, rimane comunque vivo

«uno spirito fraterno di partecipazione e di dono benevolo, contro il naturale desiderio di tenere stretta la cosa propria o di ottenere la maggiore

quantità possibile dei beni altrui». Al contrario la seconda, la società moderna, sarebbe razionale, artificiale, caratterizzata da isolamento degli

individui e da tensioni tra loro, dove i rapporti interpersonali sarebbero

principalmente impersonali e fondati suH’interesse, sul calcolo, sullo scambio, al punto che «nessuno vorrà concedere e dare qualcosa all’altro, se

non in cambio di una prestazione o di una donazione reciproca che egli

ritenga almeno pari alla sua».^ Nella Filosofìa del denaro^ Georg Simmel associa l’individualizzazione al

massiccio sviluppo di scambi sociali legati al denaro: la dipendenza nei confronti di quest’ultimo sostituisce infatti la dipendenza nei confronti

degli individui e ogni cosa viene omologata alle altre in base al valore monetario. È poi in Le metropoli e la vita dello spirito che il sociologo tedesco

rintraccia

nel

processo

di

urbanizzazione

alcuni

elementi

dell’individualizzazione moderna, processo che, a suo giudizio, renderebbe gli individui isolati, uguali, superficiali, distanti e anonimi. Si tratterebbe

dunque di un fattore che, se da un lato aumenta il livello di libertà individuale riducendo i vincoli di dipendenza dell’individuo

dalle

obbligazioni sociali, dall’altro lato crea dei rapporti con gli altri sempre più

fondati sul calcolo e sulla strumentalità. L’esponente tipico della modernità

e delle nuove metropoli che scaturiscono dall’urbanizzazione sarebbe, secondo Simmel, l’individuo che ha un atteggiamento «cinico» e blasé, ovvero indifferente rispetto alla diversità delle cose e delle persone

nell’ambito della grande quantità e rapidità di stimoli che impongono i contesti urbani della modernità: «L’essenza dell’essere blasé consiste

nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze tra le cose ... Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare

preferenze».^ E questo atteggiamento, secondo il sociologo tedesco, altro non è se non una diretta conseguenza dell’economia monetaria che, attraverso il denaro «livellatore», fa venir meno qualsiasi differenza

qualitativa tra le cose, poiché tutte le differenze tra esse vengono espresse

solo in termini quantitativi. Nelle città moderne si è visibili se ci si distingue e, in tal senso, un fenomeno come quello della moda, che affianca strategie di imitazione a strategie di differenziazione, può essere compreso come un

modo di rispondere agli stimoli dell’urbanizzazione. Se si va oltre queste analisi classiche per fare un salto in avanti nel tempo sino agli anni sessanta e settanta del secolo scorso, si trovano alcuni tra i contributi teorici più significativi di questa riflessione sulle grandi trasformazioni anche in termini di processi di individualizzazione e di uniformizzazione che hanno riguardato, e che riguardano tuttora, la società

contemporanea e gli individui che ne fanno parte. L’analisi dell’avvento della «società postindustriale» intrapresa da Daniel Bell si colloca senza dubbio tra i più importanti studi in questo ambito. Il sociologo statunitense riteneva che il tratto distintivo della società occidentale contemporanea

fosse da rintracciare nella sua trasformazione da società industriale a società postindustriale, la prima organizzata attorno a fattori materiali tradizionali, come le materie prime e le macchine, la seconda invece attorno

a fattori immateriali come i servizi, la conoscenza e l’informazione. A tale

proposito, nel 1967 egli avanzava una previsione che avrebbe trovato piena

conferma negli anni a venire: «Vedremo probabilmente un sistema nazionale di servizi basati su computer e informazione, con decine di migliaia di terminali nelle case e negli uffici agganciati a giganti computer centrali che forniranno servizi di archivio e d’informazione, permetteranno

di ordinare e pagare a livello retali, e così via».^

La società postindustriale si caratterizzerebbe per quella che Bell definiva

la «contraddizione» tra la sfera produttiva tecnico-economica fondata suH’efficienza

e

sulla

«razionalità

funzionale»

(nonché

su

una

gerarchizzazione e specializzazione dei ruoli che richiede grande dedizione nei confronti del lavoro), da un lato, e la sfera culturale che valorizza sempre più un’etica deH’edonismo e un desiderio di gratificazione personale

immediato, dall’altro. Questi ultimi tratti sarebbero in netto contrasto con i valori, gli atteggiamenti e la sensibilità tipici di quella cultura moderna di matrice protestante alla quale si fa risalire l’origine della visione borghese

del mondo,

frutto

di un miscuglio

di utilitarismo,

razionalismo,

conservatorismo morale e culturale, e sentimento del dovere nei confronti della collettività inteso in termini di sforzi e lavoro.

Rispetto alle osservazioni di Bell non sono certo meno rilevanti quelle di

Alain Touraine, sempre sulla società postindustriale (tra l’altro, tra i due

sociologi vi fu anche una polemica tesa a rivendicare la paternità del concetto), e quelle di Fredric Jameson sul rapporto tra logica culturale

postmoderna

e

tardo

capitalismo:

la

prima

intesa

come

una

«sovrastruttura» del secondo senza però implicare, al contrario di quanto

sostenuto da Bell, una qualche contraddizione tra le due sfere. Per rendere conto della «sovrabbondanza di avvenimenti» del mondo

contemporaneo, deir«eccesso» che lo caratterizza in termini di tempo, di spazio, di individualizzazione dei riferimenti, l’antropologo Marc Augé ha invece coniato il termine di «surmodernità». Sua è anche Formai celebre

definizione di «nonluoghi» (tra i quali rientrano per esempio gli aeroporti, gli autogrill, i centri commerciali, i parchi di divertimento e così via),

fenomeni distintivi della società contemporanea la cui caratteristica

principale starebbe nell’assenza di una localizzazione spaziale e temporale in una cultura specifica, nonché nella sensazione di familiarità, e talvolta di

rassicurazione, che essi inducono, per esempio perché vi si trovano situazioni, oggetti, marche e caratteristiche che già si conoscono e rispetto alle quali ci si muove in modo disinvolto. «Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definisce un nonluogo»,^ A titolo di

esempio, basti solo pensare a quanto sia facile sentirsi in un ambiente

conosciuto quando si entra in un McDonald’s, indipendentemente dal fatto che ci si trovi in Piazza di Spagna a Roma, a Disneyland a Orlando,

all’aereoporto di Sydney, o in un grande centro commerciale di Pechino. Le sensazioni che può suscitare un nonluogo, nonché la percezione dei

tratti tipici che lo rendono tale, sono ben rappresentate in ambito cinematografico dal film di Steven Spielberg The Terminal (2004). Ispirandosi a una storia vera, il film narra la travagliata vicenda di un passeggero di un

immaginario Stato dell’Europa dell’Est (Tom Hanks) che sbarca a New York e, a causa di una serie di complicazioni burocratiche legate alla validità del

suo passaporto, si ritrova a dover sostare dentro l’aereoporto JFK per diversi

mesi, entrando in contatto con una realtà (quella del terminal, appunto) che per la gran parte delle persone è solo un luogo di passaggio anonimo e

uguale a tanti altri (un nonluogo, appunto) nell’ambito del quale lui, invece,

si adatta a vivere. Tra coloro che hanno analizzato le trasformazioni in atto nella società

occidentale contemporanea, un posto centrale lo ha Ulrich Beck, che

ipotizza l’avvento di una «seconda modernità» strutturata attorno alle tematiche del rischio e del declino delle classi sociali, nonché della famiglia

nucleare e della produzione di massa. Secondo il sociologo tedesco, il processo di modernizzazione favorisce raffermarsi di una «società del rischio», il cui tratto distintivo starebbe nel passaggio da una società basata sulla suddivisione delle ricchezze a una società fondata sulla suddivisione

del rischio. Il rischio diviene in tal senso la chiave di lettura delle trasformazioni delle società industriali avanzate e coinvolge tutti i settori

della vita sociale. Esso, pur essendo difficile da individuare, è però anche frutto diretto della modernità: mentre in passato i rischi provenivano

essenzialmente dalla natura, oggi essi sono infatti sempre più dei prodotti umani (basti pensare al nucleare, alla mucca pazza, all’amianto, al sangue

contaminato, alle manipolazioni genetiche) e vanno dunque gestiti alla luce del progresso scientifico-tecnologico, il quale, come in un moto circolare,

non fa che contribuire alla loro crescita. In tal senso, rispetto alla tradizione e al passato, «il processo di modernizzazione diventa “riflessivo”, si fa tema e problema di se stesso». In merito Beck parla di un effetto boomerang tale per cui «gli stessi autori della modernizzazione

finiscono

molto

concretamente coll’essere vittime dei pericoli che provocano e dai quali traggono profitto».^

Questo passaggio a una seconda modernità ha poi, sempre secondo Beck, anche dei risvolti sugli individui. La crescente individualizzazione della

società contemporanea che diviene «istituzionalizzata» comporta infatti il venir meno delle forme tradizionali di appartenenza e delle scelte che

venivano date per scontate, e lascia ampio spazio all’ambito della

«decisione» individuale in contesti di cui è sempre più difficile prevedere gli sviluppi (carriere professionali, rapporti di coppia e familiari, divisione dei

ruoli sessuali,

scelta del momento

in

cui

avere

dei figli

ecc.).

«Individualizzazione, in questo senso, significa che la biografia delle persone è staccata da determinazioni prefissate e viene messa nelle loro mani, aperta e dipendente dalle loro decisioni. La proporzione di

opportunità di vita che sono fondamentalmente chiuse alla possibilità di prendere decisioni è in ribasso, mentre cresce la componente della biografia

che è aperta e deve essere costruita personalmente. Individualizzazione

delle situazioni e dei processi di vita significa dunque che le biografie

diventano autoriflessive; la biografia prescritta socialmente si trasforma nella

biografia che è - e continua a essere - autoprodotta».^ Il termine «riflessività» sta a indicare un insieme di conseguenze

impreviste, di incertezze, di problemi e di rischi relativi alla società

contemporanea e specifici della nostra epoca. Su questo concetto ha molto insistito Anthony Giddens, che guarda soprattutto al ruolo decisivo dell’informazione, della cultura e della scienza nello sviluppo di una

riflessività: «La riflessività della vita sociale moderna consiste nel fatto che le pratiche sociali vengono costantemente esaminate e riformate alla luce

dei nuovi dati acquisiti in merito a queste stesse pratiche, alterandone così

il carattere in maniera sostanziale». E ancora: «il punto non è dato dall’inesistenza di un mondo sociale stabile da conoscere, ma dal fatto che la

conoscenza di questo mondo contribuisce al suo carattere instabile o mutevole».^ Anche il sociologo britannico, come Beck, è un acuto osservatore dei mutamenti che subiscono le istituzioni familiari, ed è riferendosi al matrimonio che dà un chiaro esempio di cosa esprima il

concetto di riflessività. Oggi, spiega Giddens, coloro i quali scelgono di unirsi

in matrimonio sono a conoscenza delle statistiche relative al tasso di divorzi, che è molto elevato. È quindi plausibile ritenere che questa

informazione (assieme a quella relativa alle modalità in base a cui è mutata l’istituzione familiare per quanto riguarda ruoli uomo/donna, costumi

sessuali ecc.) influenzi la decisione di sposarsi. ...e sui mutamenti deirindividuo contemporaneo

Una crescente globalizzazione economica e il primato acquisito dai mercati finanziari su quelli più tradizionali hanno intensificato logiche di

vita e di lavoro improntate al breve termine, nonché alla maggiore competitività e redditività. La conseguente diffusione di una cultura

liberista e consumista, nel corso degli anni ottanta del secolo scorso, ha favorito il moltiplicarsi degli studi nell’ambito delle scienze sociali

interessati ad analizzare la vita privata degli individui nei suoi più diversi

ambiti - dagli svaghi allo sport, dal turismo di massa al culto del corpo -,

nonché le sue relazioni con il sociale. In questo filone si pone per esempio Formai classica analisi di Christopher Lasch sulla cultura del narcisismo, che

egli concepisce come un tratto culturale associato all’individualismo

estremo tipico della società contemporanea che si caratterizzerebbe, a suo

giudizio, per un declino dei sentimenti e per una fuga dal sociale. Diversi autori hanno poi attirato l’attenzione sulla nascita di una nuova

figura di individuo contemporaneo, specchio di un certo numero di cambiamenti economici, tecnologici, sociali e culturali, quali alcune

scoperte scientifiche, la mondializzazione dell’economia e la conseguente

flessibilità

lavorativa

e

sociale,

i

progressi

nel

mondo

delle

telecomunicazioni. Come sostenuto a più riprese, tra gli altri da Alain Ehrenberg, mentre nella società del passato l’individuo accettava un sistema

pressoché connaturato di ruoli, cultura, norme, classi sociali che gli consentiva di vivere una certa stabilità, nella società contemporanea tutto

ciò viene meno, in quanto l’individuo è considerato invece totalmente

autosufficiente e in grado di gestire autonomamente il perseguimento dei propri obiettivi e la ricerca faticosa di una collocazione e di un ruolo. Da ciò

emerge il ritratto di un individuo dapprima in cerca della propria identità e teso costantemente alla realizzazione personale, e successivamente angosciato dalla sensazione di incertezza associata a questa condizione. Nell’ambito di una società sempre più esigente e competitiva, la preoccupazione di non essere all’altezza di performance elevate, di non riuscire a dare il meglio di sé, di incorrere negli insuccessi, lo rende

psichicamente fragile e gli trasmette un «sentimento di insufficienza». Questo nuovo individuo si porta dentro un’angoscia latente che trova

sollievo, per esempio, nel ricorso agli antidepressivi, nella televisione e nella realtà virtuale di Internet che è in grado di mediare le relazioni sociali.

Anche Richard Sennett ritiene che un tratto tipico dell’esistenza

individuale nella società che emerge dal capitalismo contemporaneo sia quello del declino della vita sociale. Egli descrive una società «a breve

termine» che si svuota di obiettivi comuni condivisi e che è caratterizzata da forme economico-lavorative sempre più mobili, flessibili, incerte, che in nome della realizzazione di un profitto immediato rispondono al motto «basta con il lungo termine». Ciò è responsabile di una «corrosione» dell’identità e del carattere personale e porta all’alienazione dai legami

familiari, affettivi e, più in generale, sociali. «Per buona parte della storia gli uomini hanno accettato il fatto che la loro vita potesse trasformarsi di colpo a causa di guerre, carestie, o altri disastri ... Il tratto caratteristico dell’incertezza attuale, invece, è il fatto che esiste senza che ci siano disastri

storici incombenti. Al contrario, la sua esistenza è integrata nella vita quotidiana di un vigoroso capitalismo: si dà per scontato che l’instabilità sia normale ... Forse la corrosione della personalità è una conseguenza inevitabile di questo stato di cose. Il “basta col lungo termine” scombussola

le azioni di lungo periodo, allenta i legami di fiducia e di impegno e separa

la volontà dalle azioni pratiche».^®

Gilles Lipovetsky fa invece ruotare la sua analisi attorno all’idea di una nuova

logica

sociale,

identificabile

con

un

processo

di

personalizzazione/individualizzazione che, rispetto all’ideale moderno

ormai superato della subordinazione individuale alle regole razionali collettive,

promuoverebbe

un

nuovo

valore

fondamentale:

quello

dell’autorealizzazione del singolo, ovvero del diritto di poter godere al

massimo della propria esistenza. Si tratta di un processo reso possibile dalle trasformazioni degli stili di vita legate alla rivoluzione nel consumo e alla

sua crescita esponenziale, e all’origine di quello che il filosofo francese definisce un «iperinvestimento» nella vita privata che, al posto dei grandi

principi e ideali della modernità, lascia una condizione di vuoto emotivo: «Poiché i modi di vivere si detradizionalizzano e le vite private e

professionali diventano incerte e precarie, si moltiplicano le occasioni di sentirsi amareggiati, di dubitare di sé, di giudicare negativamente la propria

esistenza ... l’individuo è condannato a vivere l’esperienza di una sensazione di fallimento personale».^^

Anche Zygmunt Bauman associa al processo di individualizzazione sociale

uno stato di inquietudine. Secondo il celebre sociologo, infatti, la società contemporanea starebbe attraversando una nuova fase della modernità che

egli definisce «liquida». Mentre la prima modernità, quella «solida», avrebbe sviluppato certezze e forme sociali aspiranti a una maggiore solidità rispetto a quella fornita dalle società tradizionali, la modernità liquida implicherebbe una società in cui mutano tutti i fondamenti, le certezze e le forme superiori di autorità.^^ In un saggio del 1977 dal titolo La

Précarité est aujourd'hui partoat, Pierre Bourdieu sottolineava come, a suo

giudizio, la precarietà, rendendo l’avvenire incerto, impedirebbe qualsiasi anticipazione razionale del futuro. È proprio riprendendo parte di queste considerazioni che Bauman sottolinea come la precarietà, l’insicurezza, l’incertezza, la vulnerabilità siano le caratteristiche principali della società

contemporanea: «Il fenomeno ... è l’esperienza congiunta di insicurezza

(della propria posizione, diritti, qualità di vita), di incertezza (rispetto alla

loro stabilità presente e futura) e di vulnerabilità (del proprio corpo, della propria persona e relative appendici: i possedimenti, il quartiere, la

comunità)».^^

Secondo Bauman il problema dell’identità individuale in questa nuova fase della modernità «è innanzitutto quello di come evitare ogni tipo di

fissazione e come lasciare aperte le possibilità».^^ L’individuo di questo mondo liquido-moderno vive in condizioni di costante incertezza, in quanto

è inserito in una società che non può mai fermarsi: «Le preoccupazioni più

acute e ostinate che l’affliggono nascono dal timore di esser colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti che si muovono velocemente, di rimanere indietro, di non accorgersi delle “date di

scadenza”, di appesantirsi con il possesso di qualcosa che non è più

desiderabile, di perdere il momento in cui occorre voltare pagina prima di

superare il punto di non ritorno».^^ Ciò comporta un progressivo indebolimento del ruolo della tradizione e della religione nella vita sociale,

un affievolirsi delle rappresentazioni, dei modelli, delle norme di riferimento della modernità, oltre all’affermarsi di una precarietà identitaria che riguarda prevalentemente i più svantaggiati, ora sempre più

abbandonati a se stessi e sottomessi a nuove forme di dominazione quali, tra le altre, quella dei consumi e delle mode che, come in un circolo vizioso,

alimentano un processo di massificazione e di imitazione sociale che ha la

meglio su quello di individualizzazione. Dalla moda del piercing a quella del tatuaggio: costruirsi una propria identità per assomigliare agli altri?

Nel 1959 Charles Wright Mills introdusse l’importante concetto di «immaginazione sociologica», che egli concepiva come un atteggiamento

mentale che consente, a chi lo possiede, di trovare un legame tra esperienze individuali e relazioni sociali neH’ambito di specifiche situazioni storico­ sociali. Egli scriveva: «L’immaginazione sociologica permette a chi la

possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi

riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane ... Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l’ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama

psicologica di tutta una gamma di uomini e di donne».^^ Alla luce di questo concetto e in base alle riflessioni sui mutamenti sociali e individuali finora sviluppate, si consideri per un momento un fenomeno

molto diffuso nella società contemporanea: la scelta di farsi un piercing o un

tatuaggio. Questo è un comportamento che, quando viene messo in atto nell’ambito di un contesto di gruppo come può essere quello di un certo

numero di ragazzi adolescenti, può assumere un valore simbolico quale, per esempio, quello associato a un «rito» di accettazione. Facendo però riferimento all’idea di immaginazione sociologica, si può ragionare su

pratiche come questa anche alla luce dei mutamenti a cui è andata incontro

la società contemporanea. In tal senso, la scelta di farsi un piercing o un tatuaggio

può

essere

interpretata

alla

luce

del

processo

di

individualizzazione in atto nella società. L’acquisizione di ampi margini di

autonomia individuale può infatti tradursi, come sottolinea Ehrenberg, in

un iperinvestimento su se stessi, in un’attenzione sempre più centrata sul proprio io e sul proprio corpo (anche svincolata dal narcisismo fisiologico tipico della fase adolescenziale). Ciò può esprimersi col desiderio di costruire e cambiare la propria identità differenziandola da quella altrui

anche con il ricorso a pratiche di manipolazione del proprio corpo quali

sono, appunto, i piercing e i tatuaggi. È fuori dubbio che il corpo umano è sempre più «autogestito» rispetto al

passato, quando esso era maggiormente soggetto ai ritmi e ai tempi della natura. Ciò, molto probabilmente, è in buona parte dovuto al fatto che, come dice Beck, nella società contemporanea, in cui l’individualizzazione

diviene istituzionalizzata, la crescente disgregazione di molti ruoli e valori di riferimento comporta di pari passo che il controllo della vita sia sempre

più lasciato al singolo individuo anche nella ricerca di una propria identità

specifica. Christopher Lasch aveva sottolineato come questo tipo di iperinvestimento su se stessi da parte dell’individuo contemporaneo

avrebbe potuto condurre a un narcisismo estremo, a una fuga dal sociale che si esprime in una sorta di ricerca senza fine della gratificazione

immediata attraverso il controllo della salute, del benessere e del

miglioramento fisico (sport, diete alimentari, medicine, psichiatria e via dicendo). Egli scriveva: «La medicina e psichiatria - e più in generale, la

prospettiva e la sensibilità terapeutiche che permeano la società moderna rinforzano il modello creato da altri condizionamenti culturali, all’interno

del quale l’individuo si esamina continuamente per scoprire segni di invecchiamento e di cattiva salute, sintomi indicativi di stress psichico,

difetti e imperfezioni che potrebbero diminuire la sua attrattiva, oppure, diversamente, indizi rassicuranti che confermino che la sua vita sta procedendo in sintonia col programma. La medicina ha sconfitto i flagelli e le epidemie che in passato rendevano la vita così precaria, solo per dare vita a nuove forme di insicurezza».^^ La spinta all’individualizzazione coesiste però con un’altrettanto forte

pressione alla massificazione, a un conformismo sociale che da molti viene

interpretato come una diretta conseguenza dei messaggi provocatori,

accattivanti e seduttivi inviati dalla società dei consumi che, anche ricorrendo al potere persuasivo del mondo mediatico e pubblicitario,

incanala gli individui verso modelli apparentemente unici, ma in realtà comuni. Costruire la propria identità (almeno esteriore) facendosi un

piercing o un tatuaggio può dunque celare l’esigenza di sentirsi simili agli altri, di aderire a una moda, perché questo è un segno distintivo di appartenenza sociale e consente, paradossalmente, di marcare una propria specificità e, allo stesso tempo, di essere uguali agli altri.^^ «In una società di

individui ciascuno deve essere un individuo: almeno in questo senso, chi fa parte di una simile società è tutto fuorché un individuo diverso dagli altri, o addirittura unico. Al contrario, ciascuno è incredibilmente uguale agli altri,

in quanto deve seguire la stessa strategia di vita e deve utilizzare segni

condivisi - ossia comunemente riconoscibili e intelligibili - per convincere gli altri che lo stanno facendo».^^

È proprio a tale proposito che Bauman nota una contraddizione, ossia

quella per cui l’individualità per emanciparsi e autodefinirsi non può fare a meno della società. Si vive in una società in cui, paradossalmente,

coesistono appunto individualismo e massificazione e, spesso e volentieri,

non è chiaro quale processo prevalga tra i due: il desiderio narcisistico di differenziarsi e costruirsi come persona autonoma e libera sembra molte

volte realizzarsi attraverso scelte individuali che rispondono a canoni

veicolati da una società massificata dalla logica del consumo e dell’apparenza proprio come nel caso di pratiche alla moda quali i piercing

o i tatuaggi: «Paradossalmente, l’“individualità” è legata allo “spirito della folla”: è quest’ultima a imporla. Essere un individuo significa essere uguale^

anzi identico, a chiunque altro faccia parte della folla».La precarietà che

caratterizza l’esistenza umana «ispira una percezione del mondo che ci

circonda come un aggregato di prodotti per il consumo immediato».^^ Si

tratta di una società in cui si consuma soprattutto per esistere (per costruirsi una propria identità) e non tanto per vivere (per soddisfare dei bisogni vitali),22 e tutto ciò avviene con quella velocità tipica della contemporaneità, tale per cui l’identità individuale è sempre meno il frutto di scelte ponderate e maturate nel tempo, ma si imprime all’istante

sull’individuo (e sul suo corpo) in modo da stare al passo con un mondo che

si muove sempre più in fretta. Dominare il tempo o diventarne schiavi? Si consideri per un momento proprio il rapporto che l’individuo

contemporaneo ha con il tempo. È condizione diffusa che egli viva in quello che è stato definito «culto dell’urgenza», ovvero una sorta di regola di vita

collettiva che lo spinge a fare quante più cose nel minor tempo possibile. Nel passato i ritmi di vita erano meno frenetici di quanto non lo siano oggi, e questo, tra l’altro, può essere riconducibile a un duplice ordine di ragioni.

Da un lato c’è la diffusione di una logica del profitto immediato che trova origine nei mercati finanziari che svincolano il «valore» dai beni materiali e secondo

la

quale

«il

tempo

è

denaro»;

dall’altro

lato

c’è

un’istantaneizzazione della vita quotidiana causata prevalentemente dalla massiccia diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione (l’e-mail, il telefono

cellulare. Internet). Un mondo del lavoro sempre più virtuale, flessibile, orientato al profitto

immediato, caratterizzato da fusioni e riconversioni delle aziende e delle figure professionali, coinvolge necessariamente le modalità e i ritmi della

vita dei singoli nel senso di una loro sempre maggiore accelerazione. Ma sono state soprattutto le nuove tecnologie della comunicazione che hanno

contribuito a modificare il rapporto che la gran parte degli individui contemporanei ha con il tempo. Abolendo le distanze spaziali e temporali e offrendo la possibilità di risolvere molti problemi nell’immediato, esse hanno infatti alimentato la percezione di poter dominare il tempo,

appropriandosene, controllandolo e manipolandolo. La dipendenza dai telefoni cellulari è senza dubbio una delle

manifestazioni più evidenti di come si concretizzi questo «culto

dell’urgenza». Essi rendono autonomo chi li usa e lo avvicinano agli altri:

sono un mezzo comunicativo dagli indubbi risvolti positivi immediati in

quanto rendono liberi dal tempo perché conferiscono una sorta di ubiquità

permanente che permette di essere in più posti nello stesso momento, di accelerare i ritmi, di scegliere quando comunicare, di gestire più situazioni

contemporaneamente senza dover essere fisicamente in un posto specifico.

Tuttavia, l’istantaneizzazione della vita e la separazione spaziale dal luogo in cui si è fisicamente che è in grado di procurare l’uso del cellulare

comporta, sui tempi più lunghi, anche degli «effetti perversi» negativi sul piano della comunicazione interpersonale: è a proposito dello «svuotamento

del tempo» e dello «svuotamento dello spazio» tipico della società

contemporanea, che Giddens scrive infatti che «l’avvento della modernità separa sempre più lo spazio dal luogo favorendo i rapporti tra persone

“assenti”, localmente distanti da ogni data situazione di interazione “faccia a faccia”».^^ Il desiderio di comunicazioni efficaci, dirette, essenziali, implica l’instaurarsi di comunicazioni brevi, rapide, immediate. Tutto ciò,

evidentemente, spesso si ripercuote negativamente sulla profondità e sullo spessore delle interazioni: il cellulare ha permesso di comunicare molto più di prima e con molti più interlocutori rispetto al passato, ma le conversazioni in media sono molto più rapide e superficiali.^^ Non è un caso

che questa tendenza sia spinta alle estreme conseguenze dall’espansione dell’ormai pervasivo uso degli SMS (Short Message Service)^ ovvero di quella

forma comunicativa consentita dalla telefonia cellulare che non consiste nemmeno più in conversazioni orali, bensì riduce queste ultime a brevissimi

messaggi scritti quasi in codice. Simili considerazioni si possono fare per la

comunicazione via e-mail o per mezzo di social network quali Facebook o Twitter. Per esempio, sebbene l’e-mail aiuti ad accorciare i tempi lavorativi

e comunicativi, allo stesso tempo, quando il suo uso quotidiano sfocia in un

abuso, ciò si traduce in una «invasione» comunicativa per lo più superflua e superficiale oltre che, talvolta, in una vera e propria patologia.

Negli ultimi anni si parla addirittura di nuove forme di dipendenza che sono paragonabili alla dipendenza da droghe, anche nei metodi di

disintossicazione che gli esperti individuano per curarle. Si tratta di

dipendenze da Internet (videogiochi, siti pornografici, social network), da email e da Blackberry. In quest’ultimo caso si tratta di un cellulare in grado

di telefonare, ma anche di inviare e ricevere posta elettronica e di navigare sul web (vi sono molti altri telefoni simili a questo, ma essendo il più diffuso

nel suo genere si parla proprio di «Blackberry addiction» o «sindrome da Blackberry»). Secondo uno studio della Rutgers University School del New

Jersey, questo particolare tipo di telefono cellulare, potendo essere

utilizzato per lavoro, per svago e per interagire con gli altri, esporrebbe chi 10 adopera al rischio di diventare eccessivamente dipendente dal desiderio di connessione e raggiungibilità, al punto da non poter stare che qualche

minuto senza controllare, per esempio, l’arrivo di nuove e-mail. Segno

evidente di tale dipendenza è che ci si concentra sul proprio telefono ignorando chi sta attorno. Proprio come con altre forme di dipendenza, anche quella da Blackberry si accompagna a una serie di sintomi e

conseguenze psicofisiche diverse. In seguito all’impiego eccessivo del

cellulare possono così comparire emicrania, vertigini, nausea, arrossamento oculare, squilibri del sonno, ansia, crisi di panico. E poi, assuefazione al telefono che scaturisce dall’esigenza di usarlo sempre di più per riceverne le

sensazioni già provate, astinenza con conseguenti reazioni psicofisiche negative legate al suo non utilizzo, pensieri ossessivi circa i modi, i tempi e i

luoghi del suo uso.

Se nel passato il tempo veniva «subito» sotto forma di obblighi lavorativi e sociali che riempivano la vita individuale, oggi si è passati a un «dominio» sul tempo: si desidera «trionfare» su di esso, si è convinti di poterlo gestire

in funzione delle proprie aspirazioni, e si vive nel continuo sforzo di trarne

11 massimo beneficio possibile. Questo mutamento rispetto al passato nel rapporto con il tempo influenza profondamente lo stile di vita nelle società contemporanee e contribuisce all’affermarsi di un individuo improntato alla flessibilità, sempre di corsa, centrato sull’immediato e, paradossalmente,

troppo spesso «dominato» dall’instabilità, dall’incertezza e dal tempo. Egli si caratterizza infatti per l’incapacità di differenziare in tutti gli ambiti

l’urgente dall’importante, l’accessorio dall’essenziale; e così, fa notare

Bauman, tutto diviene velocemente superfluo come, per esempio, nell’ambito della moda, in cui «tutti gli oggetti del desiderio diventano

obsoleti, sgradevoli e finanche ripugnanti ancor prima di essere goduti

appieno».25 Un simile individuo è in un certo senso «malato di urgenza», teso a vivere l’intensità senza la durata e a ottenere dei risultati immediatamente efficaci

senza curarsi della solidità futura delle loro conseguenze. Tornando per un

istante alle pratiche del piercing e del tatuaggio, anche in questo caso conta di più l’immediatezza del risultato rispetto a una riflessione sui suoi risvolti

futuri. Piercing e tatuaggi consentono infatti a chi li fa di dotarsi all’istante di una «carta d’identità», con cui presentarsi agli altri in un mondo che

procede rapidamente e in cui si fanno continuamente incontri. Questa immediatezza del risultato rende spesso miopi coloro che scelgono queste

forme di body art rispetto, per esempio, ai possibili rischi medico-sanitari che esse comportano e che, invece, non vanno sottovalutati. La logica dell’urgenza fonda una sorta di illusione di poter abolire il

tempo creando spazio disponibile per fare più cose di prima. Ma ciò è,

appunto, solo illusorio, in quanto da un lato si rischia di scivolare in una spirale senza fine nella quale, in realtà, si «sovraccarica» il tempo a

disposizione facendo un numero sempre maggiore di cose, e da un altro lato

si spoglia l’azione umana di un senso più profondo, lasciandola spesso ancorata all’istantaneità del presente senza legarla a prospettive future più consistenti. L’urgenza può allora divenire una forma di «perversione del tempo» all’origine di una serie di patologie che possono comportare quella

che Sennett, come si è visto, riferendosi al problema del lavoro e alla sua

flessibilità, ha definito «corrosione» del carattere. Si tratta di alcune alterazioni che la personalità può subire come il nervosismo, l’aggressività e

la collera frequente, ma anche disordini psicosomatici come frequenti emicranie, insonnia, mal di schiena. E, ancora, erpes cutanei, eczemi del viso, psoriasi immediate, patologie gastrointestinali, coliche, sino ad

arrivare a forme più o meno gravi di depressione. Insomma, una vera e propria valanga di effetti indesiderati che travolgono r«uomo insufficiente»

di Ehrenberg, il quale soffre in quanto non si sente all’altezza delle

situazioni e non sa rispondere abbastanza rapidamente e in modo adeguato alle pressioni provenienti dal mondo esterno. Cosa insegna il trionfo di Facebook

Secondo Ferdinand Tònnies, la vita in società sarebbe dominata dal

«freddo intelletto», e ciò rappresenterebbe un costo elevato in termini di aumento dell’insoddisfazione individuale e di perdita di quei valori autentici di solidarietà che potrebbero invece trovare una realizzazione

compiuta soltanto nell’ambito della comunità in cui la vita risponde ai «caldi impulsi del cuore» e gli individui sono uniti emotivamente e non contrattualmente. Questa riflessione offre uno spunto ancora oggi quanto

mai attuale, se si ragiona nei termini delle ricadute che può avere

sull’individuo una società come quella contemporanea, sempre più

orientata alla razionalizzazione e alla specializzazione. Se in passato la stabilità era socialmente e culturalmente valorizzata, oggi essa viene invece

considerata negativa e rigida, mentre decisive sono divenute flessibilità e capacità di adattamento.

Queste trasformazioni riguardano anche le relazioni interpersonali. Esse divengono infatti sempre più «fluide», ovvero distaccate e disimpegnate, e anche in questo caso l’origine del cambiamento può essere in gran parte

rintracciata nella massiccia diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione e nella conseguente istantaneizzazione delle modalità

comunicative che esse comportano, nonché nell’affermarsi di uno stile di

vita che, come si è detto, impone standard sempre più elevati di flessibilità, efficienza e immediatezza. E qui ecco emergere di nuovo il paradosso di

prima: da un lato si vive in una sorta di convinzione di «esistere in quanto

connessi» agli altri, dall’altro, però, questo stile di vita fondato

sull’istantaneità mette a rischio la capacità di instaurare relazioni durature e di provare sentimenti profondi. In realtà, a giudicare dal grande successo di modalità comunicative quali i telefoni cellulari, le chat line virtuali, l’e-

mail, i social network come Facebook, sembrerebbe che oggi l’esistenza

soggettiva dipenda molto dall’esterno e dal rapporto con gli altri. Come si è detto, però, ciò può a lungo andare sia sfociare in una vera e propria

dipendenza dal mezzo comunicativo, sia realizzare solo apparentemente una continuità nelle relazioni interpersonali che in realtà restano molto

spesso ancorate a un livello immediato e superficiale. Si consideri per un momento il caso del trionfo di Facebook.

Nato nel 2004, oggi Facebook conta oltre 900 milioni di utenti: l’Italia, in base a dati in continuo aggiornamento, è l’undicesimo paese al mondo come

numero di iscritti (oltre 21 milioni). Questo social network ha rivoluzionato

la vita sociale degli individui in tutto il mondo e presenta molti risvolti più che positivi: è senz’altro comodo, veloce e divertente nelle modalità

comunicative, permette a chi lo utilizza di ritrovare amici e parenti lontani con i quali si erano persi i contatti, di far nascere nuove amicizie, nonché di

tenere aggiornati gli altri su ciò che piace o non piace, su ciò che si fa o sui propri interessi. Sebbene sia un ottimo strumento di condivisione e

visibilità, esso nasconde però anche dei risvolti problematici, legati da un lato al tipo di comunicazione che avalla e che, proprio perché rapida e immediata, è spesso troppo sintetica e di superficie, e da un altro lato a dei veri e propri casi di dipendenza.

Si parla di «social network addiction» per indicare una dipendenza da

connessione alla propria pagina web e da amicizie virtuali (il desiderio di

aumentare continuamente il numero di queste ultime sul proprio profilo, che può comportare una distorsione nei «veri» rapporti d’amicizia). La

dipendenza pare essere dovuta al forte senso di sicurezza in se stessi e nelle

proprie capacità relazionali che social network come Facebook sembrano infondere: si possono nascondere agli altri e a se stessi ansie, difetti

personali, problemi relazionali e trovare conferme e rafforzamenti del

proprio ego. Tuttavia, essendo le dinamiche interpersonali che si instaurano quasi sempre puramente virtuali (si possono avere centinaia di «amici» su

Facebook e non frequentare nessuno nella vita di tutti i giorni), anche

sicurezza e autostima non trovano spesso un riscontro nella realtà. A ciò si aggiunga che una tale dipendenza da relazioni virtuali può tradursi in isolamento da relazioni reali, con ripercussioni anche sulla sfera lavorativa,

familiare, affettiva. Nella società contemporanea si ha dunque spesso l’impressione di essere

costantemente connessi con gli altri, sebbene in realtà si sia molto distanti dalla maggior parte di essi. Diviene sempre più facile e meno impegnativo

soffermarsi sull’immagine piuttosto che usare i propri sensi (tatto, udito ecc.) e comunicare senza la presenza fisica presentandosi nel modo che fa

sentire ognuno più sicuro e in possesso del controllo della situazione, senza

dover rendere conto all’interlocutore della realtà. Ciò va di pari passo con il diffondersi di una vera e propria difficoltà, se non addirittura impossibilità, a vivere situazioni e valori a lungo termine (fedeltà, legami, lealtà e così via). E questo anche perché, in una società

dominata dall’insicurezza e dall’instabilità, la «gratificazione immediata»

diviene una strategia di vita sempre più diffusa. Non è un caso che i rapporti interpersonali stabili e duraturi vengano spesso sostituiti da incontri brevi,

ordinari, effimeri e interscambiabili, in cui le relazioni finiscono molto più in fretta di quanto non comincino: il piacere legato all’immediato ha spesso

e volentieri sostituito quello del coinvolgimento a lungo termine. Si è connessi ma distanti, si prova il bisogno della presenza altrui, ma non nel

coinvolgimento, bensì nel distacco.^^ Si consideri per esempio il caso dei rapporti di coppia. Sebbene forse oggi, rispetto al passato, le possibilità che ognuno ha di cercare autonomamente

un partner, nonché le probabilità reali di incontrarlo, siano molto più elevate (basti solo pensare a quante possibilità di incontro offrano chat line

e social network), nella gran parte dei casi, però, questa facilitazione negli incontri sfocia non di rado in rapporti senza alcuna durata. Bauman ha a

tale proposito parlato di «amore liquido»: una «liquidità» che, nell’era

deir«individualismo rampante», investe anche il settore delle relazioni affettive, familiari e di coppia.^^ I rapporti sono sempre più caratterizzati da

temporaneità, in quanto «se il legame umano, al pari di tutti gli altri oggetti di consumo, non è qualcosa che va costruito attraverso sforzi continui e

occasionali sacrifici, ma qualcosa da cui ci si attende soddisfazione immediata, istantanea, al momento dell’acquisto - nonché qualcosa da rifiutare qualora non soddisfi, da tenere e usare solo fintantoché ... continua

a gratificare - allora non c’è alcun senso nello “sprecare soldi per nulla”, nel

tentare con tutte le forze - anche a costo di pene e sacrifici - di salvare il rapporto».^^ Molti anelano alla sicurezza dell’aggregazione e a un appoggio nel momento del bisogno, e sono quindi ansiosi di «instaurare relazioni», ma allo stesso tempo hanno paura di restare impigliati in relazioni stabili e

durature, se non addirittura definitive, in quanto temono che ciò possa implicare costi, impegni, oneri e tensioni che preferiscono non affrontare

all’origine. In breve, paradossalmente, oggi è frequente il non volersi legare in relazioni per rimanere liberi proprio di instaurare relazioni! Come si studia il rapporto tra individuo e società La forte spinta all’individualizzazione che caratterizza la società

contemporanea, e che si traduce nell’acquisizione di una grande libertà e autonomia di azione e di autodeterminazione per l’individuo rispetto a

vincoli, ruoli, e istituzioni sociali del passato, è reale o è solo un’illusione? Si è visto infatti come, da un lato, gli ampi margini di autonomia di scelta e di

azione di cui gode l’individuo oggi sembrino svincolarlo dal sociale e dall’influenza deterministica che questo può esercitare su di lui; ma come.

da un altro lato, le modalità con cui questa autonomia viene esercitata e le

forme che essa assume appaiano molte volte rispondere a una logica

sovraindividuale di uniformizzazione collettiva. Viene allora da chiedersi: come pensa e secondo quali modalità agisce l’individuo in società? Detto

altrimenti, i suoi comportamenti possono essere spiegati come il frutto di

ragionamenti consapevoli più o meno articolati o, al contrario, sono di fatto l’esito dell’influenza di diversi tipi di meccanismi, fattori e processi sociali

(per esempio le ideologie, le credenze, le norme, l’imitazione) rispetto ai

quali egli gode di un’autonomia scarsa se non addirittura nulla?

Nell’ambito delle scienze sociali il tema del rapporto e delle eventuali contraddizioni tra comportamenti individuali e componenti macrosociali,

tra individuo e società, ovvero quello dell’individuazione dei confini dell’autonomia e della libertà di azione individuali rispetto ai vincoli e alle costrizioni di natura sociale, è stato affrontato da diversi punti di vista,

sebbene di fatto si faccia principalmente riferimento a due paradigmi teorici tra loro contrapposti. Il primo paradigma considera che i fenomeni

macrosociali non possano essere ridotti alle singole azioni individuali, ma che abbiano un’esistenza autonoma dagli individui che li compongono e che si impongano a essi come delle forze autonome; il secondo ritiene al contrario che realtà e fenomeni sociali e collettivi siano il semplice esito di

scelte e comportamenti individuali. Sul piano metodologico questi due

approcci sono noti come «olismo» (o «collettivismo») e «individualismo».^^

Nel collettivismo metodologico l’individuo sarebbe una pura illusione e a esistere sarebbero solo i fenomeni collettivi (società, classi sociali,

istituzioni, mercati, gruppi, mode ecc.), mentre i comportamenti individuali sarebbero solo apparentemente l’esito di scelte individuali autonome in quanto le loro vere cause sarebbero sociali. Durkheim fu tra i primi a

sostenere tale posizione, sottolineando il primato del sociale sull’individuo e considerando quest’ultimo come un costrutto storico-sociale. Egli riteneva infatti che la società determinasse i comportamenti individuali, e definiva i

fenomeni sociali «fatti sociali», ossia «modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la notevole proprietà di esistere al di fuori delle coscienze

individuali... sono esterni all’individuo, ma sono anche dotati di un potere imperativo e coercitivo in virtù del quale si impongono a lui, con o senza il

suo consenso».^® La concezione del sociologo francese del rapporto tra individuo e fenomeni sociali è ancora più chiara quando afferma che «le

tendenze collettive hanno un’esistenza propria, sono forze altrettanto reali

quanto le forze cosmiche pur se di diversa natura; esse pur usando altre vie

agiscono sull’individuo, come quelle, dall’esterno»?^ Secondo un’altra parte degli scienziati sociali, invece, il sociale e i

fenomeni collettivi sono sempre la conseguenza di azioni individuali. Sul piano ontologico, gli individualisti metodologici ritengono che non esistano

insiemi o entità collettive impersonali che trascendono i singoli individui, ma che esistano solo questi ultimi, i quali agiscono e interagiscono tra loro

dando luogo a conseguenze intenzionali e non intenzionali, ovvero spontanee, non programmate. Ecco così che la nascita di un’istituzione, raffermarsi di una moda, o il verificarsi di una crisi finanziaria altro non

sono se non l’esito dell’aggregazione di comportamenti individuali. In tal

senso, questi ultimi sono considerati l’esito di preferenze, credenze, ragioni di quello che viene definito r«attore sociale», ossia l’individuo, e non il

risultato di pressioni deterministiche da parte di forze inconsce a matrice istintiva, culturale o sociale. Il metodo individualistico e, quindi, la centralità dell’azione umana per la

spiegazione dei fenomeni sociali, è stato ed è tuttora considerato da molti

un principio fondamentale delle scienze sociali in grado di dare risposta al problema del rapporto e delle eventuali contraddizioni tra comportamenti individuali e fenomeni sociali o collettivi. Tra i sociologi classici è stato forse

proprio Max Weber più di chiunque altro ad averne riconosciuto l’importanza. Raymond Boudon scrive che Weber «è stato il primo ad accorgersi che non c’era nessuna ragione di lasciare il paradigma dell’azione

confinato alla sola economia, nella quale, da Adam Smith in poi, esso viene largamente accettato, e a considerarlo invece applicabile a tutte le scienze

sociali».^^ E infatti, quando formula la celebre definizione di «sociologia

comprendente» Weber scrive che essa «deve guardare all’individuo singolo e al suo agire come al proprio “atomo”».^^

Per spiegare l’azione e per darle un senso non sarebbe dunque necessario rinunciare all’autonomia individuale negando che l’individuo rifletta,

ragioni, valuti e calcoli prima di agire. Ciò è ribadito in tempi recenti anche

dai teorici della riflessività, i quali, come si è visto, ritengono che il venir meno dei riferimenti sociali del passato abbia aperto tutti gli ambiti della

vita individuale a una maggiore autonomia di scelta, cosa che spinge gli individui a una intensa riflessività senza che si possano invocare norme

sociali, quadri di socializzazione o abitudini che si imporrebbero

dall’esterno. Si tratta di tesi che vanno in una direzione necessariamente opposta a quelle riconducibili alla celebre teoria del «senso pratico»

sviluppata da Pierre Bourdieu. Il sociologo francese ha infatti ampiamente insistito sul carattere non ragionato, non intenzionale, non calcolato, non

riflessivo dell’azione. A suo giudizio, ciò che spinge l’individuo ad agire sarebbe innanzitutto l’incorporazione di regolarità del mondo sociale sotto

forma di «habitus», ossia schemi di azione o percettivi, modi di pensare, sentire e agire predeterminati che l’individuo acquisisce attraverso la socializzazione o, per usare le parole di Bourdieu, «sistemi di disposizioni

durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto principi generatori e

organizzatori di pratiche e rappresentazioni».^^ Insomma, è alle pressioni sociali o alle ragioni individuali che bisogna

guardare per spiegare i fenomeni sociali, tra i quali alcuni molto attuali nel dibattito delle scienze sociali contemporanee come i comportamenti di

imitazione, di obbedienza, di cooperazione sociale? L’individuo che imita, obbedisce, coopera, lo fa perché nell’ambito di una sovrastante logica di uniformizzazione sociale lo fanno tutti gli altri che lo circondano e non

potrebbe

non

adeguarsi

anch’egli,

o

perché

mette

in

atto

un

comportamento frutto di un ragionamento e di una scelta autonoma e libera? 0 vi sono forse ulteriori chiavi esplicative più adeguate, come quelle che scaturiscono dalla recente collaborazione delle scienze sociali con la biologia e le neuroscienze e che riconducono la spiegazione di una serie di

comportamenti sociali a una visione evolutiva che riduce il ruolo sia alla spiegazione individualista sia a quella collettivista? È proprio ai tentativi di dare delle risposte a tali quesiti attualmente al centro del dibattito della ricerca sociale, che si guarderà nei capitoli successivi di questo volume.

2. L’imitazione sociale tra scelta e necessità: come si spiega la tendenza umana a essere uguali agli altri Esiste davvero una «sindrome di Zelig»? Molti lettori ricorderanno forse il divertente film di Woody Alien Zelig

(1983), ambientato tra gli anni venti e trenta del secolo scorso, in cui il protagonista, Léonard Zelig, è un uomo camaleonte che esprime il bisogno sociale di conformarsi agli altri. Egli è affetto da un incredibile disturbo

mentale che lo costringe a trasformare le proprie sembianze fisiche in quelle delle persone che lo circondano (dalle caratteristiche etniche alle proporzioni corporali), e a imitarne abitudini e comportamenti: tra i

componenti di un complesso jazz Zelig diviene un trombettista nero, in una squadra di baseball diventa un giocatore, tra i pellerossa un indiano d’America e così via. I medici si interessano al suo caso e, in particolare, c’è

una psichiatra, la dottoressa Eudora Fletcher (Mia Farrow), che ricorrendo all’uso dell’ipnosi scopre che il trasformismo di Zelig esprime una fortissima

esigenza di approvazione sociale. Sia pur riuscendo a far crescere l’autostima di Zelig, le cure della dottoressa producono però un effetto

perverso, in quanto il paziente sviluppa temporaneamente una personalità

estremamente intollerante nei confronti delle opinioni altrui. I due poi si innamorano, ma Zelig diviene un caso alla moda e la troppa notorietà sociale è causa della loro separazione. Zelig si ammala nuovamente e scappa

in Germania dove la dottoressa lo ritrova che, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale,

collabora

con

i

nazisti,

dei

quali

ha

inevitabilmente assunto comportamenti e mimiche. Finalmente i due protagonisti del film riescono a fuggire assieme e a tornare in America.

Al di là della finzione cinematografica, è lecito chiedersi se esista davvero

una «sindrome di Zelig», tale per cui chi ne è affetto non può fare a meno di

imitare chi gli sta intorno. Nel 2005 una équipe di medici italiani studiò il

caso di un paziente che, dopo un arresto cardiaco con ipossia cerebrale, riportò danni al lobo fronto-temporale del cervello, ossia quella parte

deputata a controllare i comportamenti. I ricercatori constatarono che da quel momento in poi il paziente aveva manifestato un vero e proprio

trasformismo identitario, immedesimandosi di volta in volta nelle persone

con cui entrava in contatto: in un bar diventava un barista, in una cucina un cuoco, in un ospedale un medico. Ogni volta che questo paziente assumeva

una nuova identità, dimenticava quella precedente, sebbene fosse comunque possibile rilevare i tratti salienti della sua personalità di base. Gli studiosi che seguirono questo caso lo battezzarono appunto «sindrome di

Zelig». Dato che i soggetti affetti da tale sindrome sono costretti a una

immersione totale in ogni contesto in cui si trovano, questo tipo di patologia sembrerebbe essere addirittura più importante della «sindrome da

dipendenza ambientale» (o «sindrome d’uso»). Quest’ultima, così definita

dal neurologo Francois Lhermitte che la osservò in alcuni suoi pazienti, denota un particolare disturbo del comportamento, relativo a individui che

presentano lesioni al lobo frontale della corteccia cerebrale. Essa si caratterizza per un deficit del controllo che un soggetto colpito dalla

sindrome riesce a esercitare nei confronti di stimoli ambientali, sociali e fisici; chi ne è colpito imita i gesti o i movimenti dei propri interlocutori o tende a usare tutti gli oggetti che ha davanti anche qualora tale comportamento sia inopportuno o inadeguato (se ha davanti del cibo si

mette a mangiarlo, se si trova di fronte una matita comincia a scrivere), e ciò senza riuscire a smettere anche nel caso in cui gli venga chiesto

esplicitamente di farlo. Questo tipo di comportamento di imitazione, così come quello del paziente studiato dai ricercatori italiani, sembrerebbe suggerire che la persona che lo mette in atto non eserciti alcuna volontà e

autonomia propria, ma che reagisca inconsapevolmente a persone, oggetti e ambiente che la circondano sotto il totale effetto di processi cerebrali che

non può controllare.

Le basi neurobiologiche dell’imitazione potrebbero trovarsi in una speciale classe di neuroni, i cosiddetti «neuroni specchio», dotati della

capacità di attivarsi alla vista di un compito motorio (o azione) eseguito da

un altro soggetto (da qui la loro denominazione). Questi neuroni sono stati casualmente scoperti aH’inizio degli anni novanta del secolo scorso da un

team di ricercatori italiani guidato da Giacomo Rizzolatti, che in un primo momento li rilevarono nella corteccia premotoria delle scimmie. La

scoperta ha suggerito l’idea che un sistema di corrispondenza simile dovesse esistere anche nell’uomo, cosa che, in effetti, fu successivamente

confermata. I neuroscienziati dell’équipe di Rizzolatti ritengono che i

neuroni specchio si attivino, facilitando una imitazione automatica delle espressioni altrui, e che contemporaneamente inviino dei segnali ai centri

emozionali situati nel sistema limbico del cervello: a questo punto, l’attività

neurale da essi innescata consentirebbe al soggetto di provare le emozioni osservate. Sarebbe soltanto dopo che ci si è trovati nella condizione di provare queste emozioni, avendole fatte proprie, che si sarebbe in grado di

comprenderle. In sostanza, Rizzolatti e colleghi sostengono che «in alcune aree vi sono neuroni che si attivano in relazione non a semplici movimenti,

bensì ad atti motori finalizzati (come l’afferrare, il tenere, il manipolare ecc.) e che rispondono selettivamente alle forme e alle dimensioni degli

oggetti sia quando stiamo per interagire con essi, sia quando ci limitiamo a osservarli. Questi neuroni appaiono in grado di discriminare l’informazione sensoriale, selezionandola in base alle possibilità d’atto che essa offre,

indipendentemente dal fatto che tali possibilità vengano concretamente

realizzate o meno».^ Questo tipo di ipotesi esplicative di natura neurobiologica di alcune forme imitative sembrerebbe utile a rintracciare le origini nervose di determinati

comportamenti à la Zelig. Esse sono divenute ormai centrali nel dibattito

relativo ai fondamenti dell’imitazione e, come si vedrà, anche dell’empatia, della scelta, dell’altruismo, della volontà, della morale. Tornando però ora alla tendenza umana a imitare gli altri, è possibile sostenere che essa sia solo frutto di patologie o processi di tipo neurologico? E ancora, è lecito

parlare di una propensione umana al mimetismo? Oppure la spiegazione dell’origine e della diffusione di fenomeni sociali basati sull’imitazione,

come per esempio le mode, non richiede forse l’entrata in gioco di altre

ipotesi esplicative di natura psicosociale? Per cercare di fare maggiore

chiarezza attorno a questi temi oggi centrali nell’ambito della ricerca sociale, il primo passo è capire a grandi linee a cosa serva imitare in natura. Le molteplici forme deirimitazione nel mondo vivente

Nel mondo naturale, animale e vegetale, l’imitazione è innanzitutto diffusa sotto forma di «mimetismo», ossia una strategia adattiva che, per esempio, permette a una specie di sfuggire a eventuali predatori e, quindi, di sopravvivere e riprodursi. Le strategie mimetiche sono di diversi tipi.

Alcune specie riescono a rendersi praticamente invisibili ai predatori

assumendo forme e colori dello sfondo ambientale in cui vivono (è il «mimetismo criptico», il cui successo negli animali è assicurato anche da

comportamenti quali il restare immobili o il muoversi molto lentamente). Tra gli altri, questo è sia il caso di quegli insetti appartenenti all’ordine dei

Fasmidi («Phasmatodea», dal greco phasma, «fantasma») che assumono la forma di una foglia o di un rametto, divenendo pressoché indistinguibili dalle altre foglie o rametti a cui sono vicini o su cui si poggiano, sia il caso del polpo che si rende invisibile confondendosi con il fondo marino,

imitandone colori, trame e simulando appendici sul proprio manto, sia

ancora il caso di molti pesci che sono di colorazione azzurra sul dorso e argentea sul ventre, in modo da imitare il colore dell’acqua del mare se visti

dall’alto e quello della superficie dell’acqua se visti dal basso. Altre specie,

invece, si mimetizzano per nascondersi alla preda durante ravvicinamento, come alcune piante carnivore che esalano un profumo di carne in putrefazione per attirare le mosche di cui si nutrono.

Le specie più grandi non imitano un oggetto particolare (pietre, foglie ecc.), ma una tonalità, motivi e colori, come le pellicce maculate dei leopardi

che si confondono nella savana o quelle a strisce delle zebre che sono

adattate alla vista del loro predatore più pericoloso, il leone. Vi sono poi casi in cui delle specie inoffensive aposematiche (ossia dotate di un corpo

colorato in modo più o meno netto, che fùnge da deterrente nei confronti dei possibili predatori in quanto segnala la tossicità o la sgradevolezza della potenziale

preda)

adottano

l’apparenza

fisica

(motivi,

colori,

comportamenti) di specie nocive o non appetibili (e con le quali condividono gli stessi predatori) al fine di sfuggire ai predatori che hanno

imparato a evitare le vere specie nocive in quanto non commestibili o

pericolose (questo è il «mimetismo batesiano», dal nome del naturalista inglese Henry Bates che per primo ne descrisse le caratteristiche). Per esempio, alcuni insetti imitano le strisce nere e gialle di api e vespe che sono ben più pericolose di loro; mentre vi è una specie di serpente non velenoso

il quale imita il serpente corallo che, invece, è estremamente velenoso. Ma l’imitazione può anche riguardare solo una parte del corpo di un predatore:

numerose farfalle o specie di pesci di acqua dolce presentano delle macchie

simili a degli occhi, dette «ocelli», che hanno come effetto quello di creare la sorpresa nel predatore e dare alla preda il tempo di fuggire. Vi sono poi forme di somiglianza in cui una specie biologica tossica o non

appetibile imita caratteristiche vantaggiose di un’altra specie tossica o non appetibile per dimezzare le predazioni, come nel caso di alcune specie di farfalle molto simili tra loro che si differenziano solo in base al numero delle

macchie presenti sulle ali, caratteristica che è vantaggiosa per tutte le specie che condividono la somiglianza (questo si definisce «mimetismo miilleriano», dallo zoologo tedesco Fritz Muller che lo ha scoperto). Il mimetismo può anche rispondere a vincoli riproduttivi. Esistono per

esempio alcune specie di orchidee che imitano meravigliosamente le forme

e il colore dell’addome della femmina dell’ape, della vespa o del ragno,

nonché l’odore dei feromoni della femmina. I maschi di questi insetti vi si lasciano attrarre, vengono a copulare sulle piante, e trasportano a loro

insaputa il polline da un fiore all’altro.

In natura queste forme di imitazione sotto forma di mimetismo si sono affermate nel corso dell’evoluzione e non presuppongono né attività

cosciente né apprendimento da parte delle specie interessate. Diverso è chiaramente il discorso per quanto riguarda i comportamenti imitativi che hanno come obiettivo proprio quello di copiare un modello. Questi

riguardano principalmente i processi di apprendimento in un gran numero di animali sociali, ossia quelle specie, tra cui l’uomo, i cui membri tendono a

vivere in gruppi organizzati e a costituire sistemi sociali di diversa

complessità. Così, per esempio, i ratti tendono ad assaggiare alcuni alimenti

nuovi solo dopo che un loro conspecifico - più coraggioso o affamato - non l’abbia fatto prima. I leoncini, invece, imparano a cacciare osservando la

madre. Mentre i piccoli scimpanzé copiano i loro genitori per sapere quali

piante siano commestibili e quali animali debbano essere evitati o quali cacciati. In tutti questi casi è senz’altro più economico ed efficace fare ciò che fanno gli altri simili piuttosto che sperimentare direttamente di volta in volta le diverse situazioni che si presentano. In tal senso il comportamento

imitativo costituisce senza dubbio un vantaggio della vita di gruppo; si può così parlare di forme di «trasmissione culturale» tra gli animali che, all’interno di un gruppo, acquisiscono in tal modo informazioni importanti

e apprendono.

Come mostrano i lavori di un celebre primatologo, Frans de Waal, è soprattutto tra i primati non umani che vi sono degli esempi classici di trasmissione culturale riconducibile a situazioni in cui un animale giovane apprende per imitazione alcune abitudini dai genitori o dai membri del

proprio gruppo, che si trasmettono di generazione in generazione realizzando un patrimonio culturale che si arricchisce progressivamente.

Grazie alla loro plasticità gli individui più giovani sono spesso in grado di produrre delle innovazioni, cioè dei comportamenti che fino a quel

momento non erano presenti nel repertorio usuale e vengono assunti come

modello dagli altri membri del branco i quali, invece di esplorare nuove soluzioni, preferiscono fare ciò che fanno tutti gli altri, secondo quello che de Waal definisce una sorta di «conformismo culturale».

Lo scimpanzé, per esempio, apprende imitando i propri simili a introdurre un bastoncino in un termitaio per poterne estrarre gli insetti che

vi si attaccano e poi mangiarli. Ma la storia di Imo, una giovane femmina di

macaco giapponese, è forse il caso che più di ogni altro aiuta a comprendere questo tipo di apprendimento imitativo. Come riassume una importante

pubblicazione del primatologo Masao Kawai, nel 1953 alcuni ricercatori giapponesi che studiavano i diversi membri di un gruppo di macachi sull’isola di Koshima, a Kyushu, osservarono un po’ casualmente l’inizio di

un comportamento appreso per imitazione. Al fine di facilitare le proprie osservazioni decisero di attirare i macachi disseminando su una spiaggia sabbiosa del grano e delle patate dolci. Un giorno, mentre osservavano i

macachi che mangiavano le patate, videro una giovane femmina (imo,

appunto) prendere una patata dolce tra le sue mani e, invece di mangiarla, immergerla nell’acqua e sfregarla con le mani per togliere la sabbia che la

ricopriva. I giorni seguenti Imo ripetè il suo comportamento e poco a poco,

con il passare del tempo, questa pratica fu appresa per imitazione dalla quasi totalità dei membri del suo branco. Imo fece poi un’altra importante

scoperta. Il grano gettato sulla spiaggia dai ricercatori si mischiava con la sabbia e così non era commestibile, né era pensabile di lavare i chicchi uno a uno. Il macaco mise alla prova un principio della fisica: comprese che il

grano, che era più leggero, galleggiava sull’acqua mentre i granelli di sabbia affondavano. Era così possibile isolare i chicchi di grano puliti e nutrirsene.

Anche questa innovazione fu subito imitata dai più giovani membri del

branco, e nel tempo si è ripetuta di generazione in generazione attraverso una forma di trasmissione culturale che è ben diversa dalla trasmissione per

via ereditaria tipica, per esempio, dei comportamenti istintivi, o da forme di apprendimento elementari riconducibili al meccanismo stimolo-risposta, considerato centrale dalla psicologia comportamentista che considera il

cervello come una «scatola nera» all’interno della quale entrano appunto gli stimoli e dalla quale escono le risposte, senza che sia però possibile coglierne i meccanismi interni.

L'imitazione negli esseri umani: un tipo di apprendimento meccanico o ragionato? AlPinizio del Novecento, il fisiologo russo Ivan Pavlov pose le basi deH’analisi

sperimentale

dell’apprendimento

meccanico

o

per

«condizionamento». Nelle sue ricerche sulla fisiologia della digestione egli si concentrò sull’osservazione della «secrezione psichica» nei cani, ossia quel

fenomeno per cui al solo rumore delle ciotole posate sul pavimento prima

della distribuzione del cibo, nei cani scatta il riflesso della salivazione, anche se il cibo è fuori dalla portata del loro sguardo e del loro olfatto.

Attraverso alcuni esperimenti in laboratorio, Pavlov constatò come fosse possibile trasformare un riflesso naturale o «incondizionato» (la salivazione

in presenza di cibo è infatti una risposta naturale) in un «riflesso

condizionato» (la salivazione in risposta al solo rumore della ciotola posata sul pavimento, oppure in risposta al suono di un campanello che preceda

ogni volta la distribuzione del cibo). Il semplice fatto di associare allo stimolo incondizionato, costituito dal cibo, uno stimolo neutro, come il suono di un campanello, conferiva infatti a quest’ultimo la stessa efficacia

che in condizioni normali aveva il cibo nell’indurre la salivazione. Pavlov diede a questo stimolo neutro (il suono del campanello) il nome di «stimolo

condizionato», definì appunto «riflesso condizionato» la risposta in termini di salivazione che esso induceva, e chiamò «rinforzo» il cibo.^ Egli mostrò

cioè come fosse sufficiente eliminare il rinforzo (cibo), perché l’effetto dello stimolo condizionato si estinguesse nel giro di qualche prova. E infatti, se il cibo non seguiva per un certo numero di volte, l’animale smetteva di produrre saliva al semplice suono del campanello.

Sebbene

si

tratti

di

un

meccanismo

estremamente

semplice,

l’apprendimento per condizionamento pavloviano o «classico» non riguarda

però solo il mondo animale, ma anche quello umano. Il padre del comportamentismo John Watson riteneva che tutto l’apprendimento fosse

determinato dal condizionamento pavloviano e pensò che le stesse emozioni fossero il risultato di processi di condizionamento. A tale scopo cercò di dimostrare come le fobie e le paure derivassero da una semplice procedura

di associazione e condizionamento attraverso una serie di ricerche sul

comportamento infantile, tra le quali la più nota, nonché una tra le più

criticate sul piano deontologico, fu quella effettuata su Albert, un bambino di soli 11 mesi. Nel suo esperimento dapprima Watson mostrava al piccolo

un topo (stimolo neutro), di cui il bambino non aveva alcuna paura; in seguito, egli associava al topo un forte rumore che era in grado di

spaventare

Albert

(stimolo

incondizionato).

Watson

ripetè

questa

operazione diverse volte sino a che lo stimolo neutro (ora stimolo condizionato) non comportava una risposta condizionata: ossia il piccolo

Albert, che aveva appreso ad associare il topo al rumore che gli faceva paura, piangeva appena vedeva il topo. Questa paura si estendeva poi ad altri animali con caratteristiche simili (pelo, taglia) come il coniglio o,

addirittura, alla finta barba di Watson. Lo psicologo Edward Lee Thorndike effettuò invece questo famoso

esperimento. Un gatto affamato veniva messo in una gabbia, al di fuori della quale vi era del cibo. Per poter uscire aprendo la porticina della gabbia, il

gatto doveva imparare, attraverso una serie di tentativi ed errori, a spostare un chiavistello o a tirare una cordicella. Questo tipo di apprendimento per condizionamento è strumentale, in quanto il comportamento viene messo in atto in vista del raggiungimento di un fine specifico: l’animale non avrà la

ricompensa (il cibo) se non fornirà la risposta corretta (aprire la gabbia) con il suo comportamento. Il gatto di Thorndike arrivava a uscire dalla gabbia dopo aver compiuto tutta una serie di tentativi (graffiare, mordere ecc.) e,

successivamente, aver eliminato tutti gli errori. Col passare del tempo gli

errori si riducevano fino a scomparire, cosicché, quando l’apprendimento era consolidato, l’animale non si perdeva più in tentativi inutili ma andava

dritto all’obiettivo. Thorndike mise dunque in luce come la risposta che l’animale avrebbe dovuto fornire non coincideva con un riflesso (prima

naturale e poi condizionato), come nel caso del condizionamento classico di Pavlov, ma con un comportamento modellato dal tipo di problema che l’animale avrebbe dovuto risolvere per raggiungere un determinato

obiettivo ed essere così premiato.

Da Burrhus Skinner il condizionamento strumentale è stato anche

definito «condizionamento operante». Nella Skinner box lo psicologo statunitense poneva degli animali che ricevevano una ricompensa (cibo o acqua, rinforzo) se premevano una leva o un pulsante: i loro comportamenti

indotti erano dunque strumentali al raggiungimento di un dato obiettivo. Skinner e gli altri comportamentisti hanno utilizzato il meccanismo

stimolo-risposta

alla

base

del

condizionamento

per

spiegare

l’apprendimento umano. Malgrado l’importanza dei loro risultati, che fanno

capire come spesso l’apprendimento per condizionamento si verifichi anche nella vita quotidiana, essi sono stati accusati di voler ridurre l’organismo

umano a una macchina, in quanto nei loro esperimenti, più che osservare i soggetti sperimentali, tentavano di manipolarli secondo le loro aspettative.

Sebbene

infatti

molti

apprendimenti

avvengano

nella

forma

del

condizionamento, in parecchi altri casi non è necessario procedere per tentativi ed errori per imparare un comportamento, ma ci si può limitare a

osservare e, successivamente, a imitare. Gli esseri umani seguono infatti diverse modalità di apprendimento, dalle più semplici alle più complesse, da quelle più meccaniche e automatiche a quelle basate sulla riflessione e il ragionamento; come nel caso di altri animali sociali, anche per loro la riproduzione per imitazione di un comportamento osservato costituisce un

tipo di apprendimento semplice ma fondamentale, che si differenzia da

apprendimenti puramente istintivi o centrati attorno al meccanismo dei tentativi e degli errori. Il comportamento imitativo negli esseri umani compare molto presto.

Alcuni esperimenti dello psicologo dello sviluppo Andrew Meltzoff,

realizzati a partire dagli anni settanta del secolo scorso, hanno mostrato come, sin dalle prime settimane di vita, un neonato sia in grado di riprodurre alcune mimiche facciali di un adulto posto davanti a lui (come

sorridere, tirare fuori la lingua o spalancare la bocca). Questo vorrebbe dire che sin dalla nascita l’uomo sarebbe in grado di interpretare i movimenti del viso altrui e di riprodurli volontariamente? Oppure, come sostengono

alcuni ricercatori, che questa forma di imitazione non sarebbe altro se non

un comportamento meccanico che scaturisce da una forma di «contagio emotivo», proprio come lascerebbe supporre il fatto che in un asilo nido il

pianto di un bambino scatena quello dei bimbi vicini? Secondo Meltzoff, l’imitazione precoce nel neonato non sarebbe né automatica né esito di un

condizionamento, ma presupporrebbe invece uno sforzo cosciente per copiare l’altro.

Tuttavia, se il grado di consapevolezza dei neonati che imitano un adulto può essere oggetto di discussione, esso non viene generalmente messo in

dubbio

nel

caso

della

cosiddetta

«imitazione

differita»,

ovvero

l’atteggiamento del «fare finta di...» attraverso la riproduzione di gesti,

atteggiamenti, comportamenti in assenza di un modello immediato. Negli esseri umani è soprattutto tra i bambini che esiste una forte spinta all’imitazione in quanto essi, per integrarsi nel loro ambiente di vita, hanno

bisogno di appropriarsi di un bagaglio di comportamenti e di espressioni verbali e non verbali che li mettano in grado di relazionarsi con gli altri. Un

bambino osserva le smorfie degli altri bambini mentre gioca e li imita anche quando non è più con loro, ascolta gli adulti che parlano e ripete da solo le

loro parole, assiste a un evento che lo colpisce e, tornato a casa, lo riproduce

nel gioco. È il classico caso sia della bambina o del bambino che pettina la sua bambola, che la culla, o che si arrabbia con lei come ha visto fare in un

altro momento a sua mamma magari con il fratellino o la sorellina più piccola, sia del far finta di andare a cavallo usando un manico di scopa dopo

aver visto delle persone andare su dei cavalli veri, sia, ancora, del telefonare portando un qualche oggetto all’orecchio e mimando una conversazione come ha osservato fare a qualcuno più grande di lui. Secondo Jean Piaget l’imitazione differita si presenta nel bambino verso i 18 mesi. Essa marcherebbe il passaggio dallo stadio sensomotorio dell’intelligenza, in cui il bambino usa i sensi e le capacità motorie per

esplorare il mondo circostante, a quello della funzione simbolica, in cui il bambino è capace di rappresentarsi mentalmente degli oggetti e delle

situazioni non direttamente percepibili per mezzo di segni (parole) o di

simboli (disegni), e caratterizzata anche dall’emergenza del linguaggio, di immagini mentali, del gioco. Sarebbe dunque in questa fase che, secondo lo

psicologo svizzero, il bambino imita comportamenti già visti (nelle fasi precedenti si riscontrerebbe invece solo un tipo di imitazione immediata di

gesti semplici) e che cominciano i primi giochi simbolici (il «fare finta di...»,

appunto). I concetti di «apprendimento sociale» e «rinforzo vicario» sono stati invece introdotti dallo psicologo Albert Bandura. L’apprendimento sociale

scaturisce dalla reciproca interazione tra un organismo e il suo ambiente,

mentre in base al rinforzo vicario, osservare su di un’altra persona i risultati positivi di un dato comportamento può costituire un rinforzo idoneo e sufficiente per imitare quel comportamento. In tal senso, il comportamento osservato viene adottato non solo per il gusto di imitare ma, soprattutto.

per le conseguenze che comporta.

Diversi

sono

i

fattori

che

contraddistinguono

questo

tipo

di

apprendimento secondo Bandura. Per esempio, si tende a imitare

maggiormente coloro che si stimano, che si ammirano o a cui si attribuiscono competenza e prestigio. L’imitazione è poi più probabile quando un determinato comportamento ha successo, quando appare vincente e ottiene delle ricompense: così, per esempio, un comportamento

aggressivo

che

sia

stato

ricompensato

sarà

più

imitato

di

un

comportamento aggressivo che sia stato punito. Il modello da imitare ha

perciò la sua importanza, in quanto non tutti i modelli vengono imitati in uguale misura. L’imitazione di un determinato modello di comportamento non è quindi automatica, ma dipende sia dal livello di attivazione della

persona in un dato momento, sia dalla valutazione che questa fa della situazione e del contesto. In altre parole, assai più che nell’apprendimento

imitativo puro e semplice, nell’apprendimento di tipo vicario teorizzato da Bandura entrano in gioco processi cognitivi consapevoli dell’individuo e valutazioni ed elaborazioni che rendono questa forma di imitazione più

complessa e meno rigida di altre modalità più meccaniche. Imitare raggressività

Nel celebre esperimento noto come Bobo doli experiment^ Bandura coinvolse 72 tra bambini e bambine dell’asilo della Stanford University di un’età compresa tra i 3 e i 6 anni. A un gruppo di essi veniva mostrato un

adulto che giocava con le costruzioni e con una bambola gonfiabile di

plastica chiamata Bobo. Dopo i primi minuti di gioco con le costruzioni, l’adulto rivolgeva la propria attenzione per circa nove minuti alla bambola

colpendola con un pugno, sedendovisi sopra, scaraventandola in aria e

prendendola a calci urlando frasi del tipo «colpiscila sul naso», «buttala a terra». A un altro gruppo di bambini, invece, veniva mostrato un adulto che

giocava

serenamente

con

le

costruzioni

ignorando

la

bambola.

Successivamente, ogni bambino veniva lasciato solo per circa venti minuti

con un certo numero di giocattoli, compresa una bambola gonfiabile. Bandura rilevò che i bambini tendevano a imitare molte delle azioni degli

adulti. Quelli che avevano visto l’adulto comportarsi aggressivamente nei confronti della bambola erano a loro volta molto più aggressivi rispetto a

quelli che avevano osservato l’adulto lavorare serenamente con le costruzioni: essi sferravano pugni e calci contro la bambola inveendo

aggressivamente in modo simile a come aveva fatto l’adulto.

Una letteratura sempre più ampia mette in luce come i comportamenti imitativi di natura aggressiva possano far seguito alla visione di scene di

violenza (in televisione, al cinema, su Internet, alla Playstation). Lo stesso Bandura estese l’esperimento precedente mostrando a dei bambini filmati

televisivi e cartoni animati violenti e osservando in seguito il loro comportamento: i bambini esposti a scene di violenza mettevano in atto reazioni aggressive in misura doppia rispetto ai bambini che non erano stati

esposti a tali scene. Purtroppo, anche una serie di tragici eventi di cronaca

fornisce ulteriori conferme all’ipotesi che l’imitazione di comportamenti aggressivi o violenti possa essere alimentata dalla visione di tali gesti.

Il 5 marzo 1995, Sarah Edmondson (19 anni) e il suo fidanzato Benjamin

James Darrus (18 anni) passarono una notte assieme da soli assumendo LSD

e guardando Assassini nati - Naturai Born Killers, il film di Oliver Stone del 1994 che racconta la vicenda di due spietati assassini e della copertura

mediatica che viene loro data. Il messaggio veicolato dal film era mostrare come la violenza sia un prodotto come tanti altri, che in nome dell’audience

i mass-media finiscono per banalizzare se non, addirittura, esaltare.

Tuttavia, in base a meccanismi simili a quelli che Stone avrebbe probabilmente voluto denunciare, la violenza di molte delle scene del film, più che suscitare nello spettatore denuncia e condanna, scatena un

coinvolgimento che, paradossalmente, può trasformarsi in sensazioni di ammirazione e desiderio di immedesimazione nei protagonisti. Questi,

infatti, si presentano come anticonformisti, liberi da vincoli sociali, ricchi di fascino, persuasivi. La bravura della regia cattura poi l’attenzione dello spettatore attraverso una narrazione dai ritmi e dalla colonna sonora incalzanti e avvincenti.

Ora, sembra proprio che i due giovani Sarah e Benjamin abbiano cercato di emulare alcune scene del film quando, due giorni dopo averlo visto,

salirono in auto con una pistola calibro 38 e uccisero con due colpi alla testa

un uomo e ne ferirono un altro, che a seguito di quell’evento restò parzialmente paralizzato. Quest’ultima vittima ha intentato una causa contro Stone e la casa di produzione cinematografica, causa che si è protratta per alcuni anni ed è stata appoggiata dallo scrittore di gialli

giudiziari John

Grisham,

che

ha

accusato

Stone

di

aver

agito

irresponsabilmente sostenendo che i registi dovrebbero essere perseguiti

penalmente qualora i loro film incitino alla violenza. Sempre Assassini nati è stato accusato di aver ispirato altri atti violenti

(omicidi, sparatorie, massacri collettivi ecc.) compiuti, appunto, per imitare le scene viste. In particolare, il caso tristemente più noto alla cronaca nera è

stato il massacro della Columbine High School in Colorado avvenuto il 20

aprile 1999, quando due studenti della scuola entrarono neU’edificio e

uccisero dodici loro compagni e un insegnante, ne ferirono molti altri e poi

si suicidarono. I due assassini erano dei fan del film di Stone e usavano infatti come nome in codice per indicare la loro missione la sigla NBK

(acronimo del titolo della pellicola). In uno dei video ritrovati nelle

abitazioni dei due studenti e da loro registrati, essi discutevano su come Hollywood avrebbe adattato la loro storia e se il regista ideale sarebbe stato

Steven Spielberg o Quentin Tarantino (che poi fu colui che concepì la storia

per il film di Stone). La strage (che ha ispirato un celebre documentario di Michael Moore, Bowling a Columbine^ dedicato al tema dell’uso delle armi negli Stati Uniti e ai

massacri nelle scuole) fu anche paragonata a una sequenza del film del 1995 Ritorno dal nulla, in cui il protagonista, un giovane Leonardo Di Caprio, veste

un impermeabile nero e spara a dei compagni di classe nei corridoi della scuola. Quest’ultimo film fu a sua volta coinvolto in una causa milionaria in

cui l’accusa sosteneva che la sua trama, assieme ai contenuti e ai messaggi

veicolati da altri video e siti Internet, dovesse essere considerata la fonte di ispirazione responsabile della strage avvenuta nel 1997 alla Heath High School nel Kentucky, per mano di un quattordicenne che aprì il fuoco su un

gruppo di studenti uccidendone tre e ferendone molti altri. Considerazioni simili in materia di imitazione dei comportamenti aggressivi e violenti valgono anche per i videogiochi. Purtroppo la cronaca

più recente è ancora una volta caratterizzata da episodi emblematici. Il 22

luglio 2011 un giovane neonazista norvegese, dopo aver fatto saltare in aria un’autobomba nel centro di Oslo, ha sterminato a colpi di arma da fuoco

decine e decine di giovanissimi ragazzi che erano in campeggio sull’isola Utoya, di fronte alla capitale. Dal manifesto pubblicato da questo

attentatore è emerso che, oltre a essere un fanatico conservatore e razzista, egli era un appassionato del videogame Cali ofDuty - Modem Warfare, in una

scena del quale degli uomini entrano in un aeroporto sparando all’impazzata su tutte le persone che incontrano. Forse il killer di Utoya si è

ispirato al videogioco nel concretizzare il suo delirante progetto di sterminio o, almeno, questo è quello che alcuni hanno ipotizzato (come nel

caso della catena norvegese Coop Norway, che dopo la strage ha ritirato dal commercio questo e molti altri videogiochi ritenuti violenti). Un caso molto controverso è quello di uno dei videogame più venduti al

mondo, Grand TheftAuto. Esso consiste nella simulazione della vita criminale di una città. Il protagonista di ogni episodio è proprio un criminale che, per

accumulare punteggio, deve scontrarsi con le gang rivali e cercare di

realizzare le missioni che gli vengono assegnate dalla banda di appartenenza. Oltre a coinvolgere il giocatore in atteggiamenti e crimini a

sfondo razziale (le gang in gioco una contro l’altra possono essere, per esempio, quella degli haitiani contro quella dei rifugiati cubani), il videogioco è caratterizzato da una spropositata esaltazione della violenza: il protagonista deve compiere e assistere a crimini di varia natura, quali furti,

stupri, scippi, sfruttamento della prostituzione, pestaggi. La distribuzione di

questo gioco negli Stati Uniti ha scatenato un’ondata di proteste, compresa

quella delle prostitute americane (che nel videogioco possono essere picchiate e uccise, come del resto tutti gli altri passanti), e alla fine il gioco è

stato vietato per legge ai minori di 18 anni.

Tuttavia, proprio di recente la Corte suprema degli Stati Uniti,

accogliendo una decisione della Corte d’appello di Sacramento relativa a una legge californiana del 2005, ha stabilito che è anticostituzionale vietare

la vendita o il noleggio di videogiochi violenti ai minori di 18 anni. Si tratta di una vittoria dei colossi dell’intrattenimento quali Microsoft, Disney e

Sony che, nel corso della causa da loro intentata contro la legge californiana

in questione, avevano argomentato che la responsabilità di proteggere i

bambini dalla violenza «spetta ai genitori e non certo allo Stato». In Italia,

dove non esiste alcuna regolamentazione relativa alla fruizione dei

videogame da parte dei minorenni, un esposto del Codacons presentato nel

2008 in cui si accusava Grand Theft Auto IV di istigazione a delinquere e se ne chiedeva il ritiro dal mercato, si è risolto senza esito.

Il dibattito che ruota attorno al tema dell’imitazione e dell’emulazione di

alcuni comportamenti aggressivi o violenti a seguito dell’esposizione a comportamenti simili sembrerebbe confermare una tesi molto dibattuta

nelle scienze sociali, secondo cui l’aggressività umana sarebbe di natura

sociale e culturale. In tal senso il comportamento umano sfuggirebbe per

molti aspetti a un rigido determinismo genetico e sarebbe controllabile

grazie alla cultura e agli apprendimenti. Secondo questo tipo di

interpretazione

«ambientalista»,

nella

specie

umana

l’aggressività

dipenderebbe da diverse componenti: esperienze e apprendimenti anche di

tipo imitativo che si verificano a partire dall’infanzia e che sono legati alle

modalità educative e alle concezioni del mondo veicolate sia dalle diverse culture (in cui l’aggressività può per esempio servire per mantenere

gerarchie sociali, ineguaglianze economiche e così via), sia dalle migliaia di scene di violenza viste in televisione o al cinema fin dall’infanzia, che

creano nell’individuo una certa immagine della realtà; frustrazioni, delusioni, esperienze e situazioni stressanti (come l’avere assistito a scene di violenza o l’essere stati al centro, in qualità di vittima, di azioni violente o di guerre); esigenza di difesa. In tale ottica, forse, un’azione preventiva efficace dovrebbe puntare sull’educazione delle nuove generazioni alla

nonviolenza, all’altruismo, alla solidarietà e alla trasmissione di modelli ispirati a questi valori. Ma le cose non sono così semplici, poiché la concezione ambientalista si scontra con quella di quanti sostengono invece che i comportamenti aggressivi hanno radici biologiche o innate. Questa interpretazione è stata

sostenuta soprattutto da alcuni biologi, come il naturalista americano

Edward 0. Wilson, che hanno cercato di spiegare i comportamenti umani alla luce della teoria evolutiva, ritenendo che essi siano orientati da una matrice istintiva.

Wilson può essere considerato il padre della moderna «sociobiologia»,

una rivisitazione del cosiddetto «darwinismo sociale» ottocentesco in cui i

comportamenti sociali animali e umani sono interpretati in chiave biologica, sulla base di una lettura che tiene conto del loro valore adattivo, vale a dire dei vantaggi che essi presentano dal punto di vista evolutivo. Nel

suo celebre volume Sociobiologia, La nuova sintesi^ egli mosse dall’analisi dei comportamenti dei cosiddetti «insetti sociali», come le formiche e le api, i

cui ruoli sono fortemente determinati da fattori genetici, per passare poi allo studio dei comportamenti umani. La suddivisione della società degli insetti

sociali in caste, ognuna delle quali caratterizzata da un

comportamento utile al gruppo, viene interpretata da Wilson come un

meccanismo di tipo sociobiologico: l’essere gregari, il sacrificarsi per gli altri membri della propria specie, l’essere aggressivi, il curare le uova ecc.

aumenterebbero la possibilità di lasciare una prole più numerosa. L’ipotesi alla base di questa concezione è che i geni «si servano» di opportuni

comportamenti, e in particolare di quelli sociali, pur di massimizzare la propria diffusione, ossia il successo riproduttivo di una specie, proprio come

sostenuto dal biologo Richard Dawkins, secondo il quale la selezione naturale agirebbe sui geni e non sugli individui (questi ultimi avrebbero

come unico interesse quello di assicurare la trasmissione dei geni di cui sono portatori). La concezione di Wilson è stata al centro di un acceso dibattito: per

quanto appropriata quando si ha a che fare con gli insetti sociali, i cui ruoli sono in effetti strettamente determinati da fattori biologici, essa sembra più problematica quando si guarda a specie animali dotate di un sistema

nervoso meno primitivo, meno determinato da fattori genetici, più plastico

e aperto a fattori ambientali come, tra gli altri, quello umano. Il suo approccio sociobiologico ha infatti suscitato fortissime reazioni di netto dissenso, in quanto egli ha avanzato l’ipotesi secondo cui anche i

comportamenti sociali degli esseri umani (aggressività, conformismo, cure

parentali, matrimonio, rituali, divisione del lavoro uomo/donna, religione, morale, altruismo, norme sociali) rispecchierebbero un rigido determinismo genetico. Ma tornando al punto iniziale, secondo i sostenitori di una teoria biologica dell’aggressività, l’esposizione a forme di aggressività e violenza

messe in atto da altri, sia dal vivo sia nell’ambito di un film o di un

videogioco, avrebbe solo un ruolo limitato nell’indurre l’imitazione delle medesime

azioni.

L’essere

biologicamente

predisposti

o

meno

all’aggressività avrebbe invece un peso decisivo nel determinare alcuni

comportamenti e nel rendere dunque coloro che lo sono potenzialmente più

influenzabili e orientati all’imitazione rispetto a forme di aggressività e

violenza.

L'imitazione tra natura e cultura Esiste una scienza che sia in grado di rendere conto dell’evoluzione

culturale dell’uomo a partire dalla sua capacità di imitare gli altri? Secondo

alcuni scienziati tale scienza esiste e si chiama «memetica». Essa si rifa alla

biologia e alla genetica e la sua nascita va ricondotta all’intuizione di

Richard Dawkins che, nel Gene egoista^ parlava degli esseri umani come di «macchine

per

la

sopravvivenza,

veicoli

automatici

ciecamente

programmati per preservare quelle molecole egoiste conosciute come

geni»;^ alla fine del volume, l’autore postulava l’esistenza di elementi di cultura non genetici da lui definiti «memi» (il termine deriva da un’associazione tra «geni» e mmesis, in greco «imitazione»), che si

trasmetterebbero per imitazione del comportamento di un individuo da

parte di altri individui e sottostarebbero, come i geni, a una forma di

selezione. Un meme può essere un concetto, un teorema matematico, una

teoria scientifica, un rito religioso, un’ideologia, un’informazione, un evento, un atteggiamento, un proverbio, una poesia, una canzone o un

ritornello musicale (prototipo del meme per eccellenza sarebbero, per esempio, la celebre canzone Volare di Domenico Modugno e l’incipit della

Quinta sinfonia di Beethoven). Che le idee trasmesse dai memi siano vere o false, giuste o sbagliate, non ha alcuna rilevanza; importanti, per la

memetica, sono la capacità di diffusione e di riproduzione dei memi in quanto tali.

Secondo Dawkins i geni costituirebbero solo un caso particolare di un darwinismo universale nell’ambito del quale ci sarebbero anche altre entità:

i memi, appunto. La cultura sarebbe così il prodotto di una competizione tra i memi: essi agirebbero in vista del proprio vantaggio evolutivo e tra loro sopravviverebbero e si riprodurrebbero i più adatti, il tutto all’insaputa

degli esseri umani.^ I memi si trasmetterebbero da cervello a cervello, replicandosi esattamente come i geni nel corso della riproduzione. La replicazione avverrebbe per imitazione e, secondo coloro che abbracciano la

teoria memetica, nel corso di questo processo i memi possono subire delle mutazioni: mentre alcuni vengono eliminati per selezione, altri si

riproducono in modo identico per molto tempo. L’evoluzione culturale umana avverrebbe dunque autonomamente da quella biologica e molto più

rapidamente di essa e, a volte, i replicatori culturali si troverebbero addirittura in contrasto con i geni (come nel caso dell’idea di celibato, che è

in contrasto con la riproduzione dei propri geni, o nel caso dei

comportamenti

altruisti

che

possono

essere

contrari

all’interesse

personale). La memetica ha cominciato a svilupparsi negli anni novanta del secolo

scorso, quando alcuni filosofi e scienziati sociali come Daniel Dennett e Susan Blackmore si sono convinti della fecondità delle idee di Dawkins al

punto da ritrovarsi attorno a una nuova rivista scientifica, il «Journal of

Memetics». Tuttavia, l’incertezza associata alla mancanza di risultati sperimentali solidi, nonché le ambiguità legate al concetto di meme, nella

conoscenza del quale non sono stati compiuti particolari passi in avanti, hanno portato alcuni studiosi a dichiarare il fallimento di quest’area

disciplinare e lo stesso giornale specialistico ha smesso di essere pubblicato ormai da diversi anni. Va però detto che il tentativo della memetica di applicare le logiche

dell’evoluzione ai fenomeni sociali e culturali si inserisce in un più ampio quadro di teorie, tra cui quelle neodarwiniane della cultura che, a partire

dagli anni settanta del secolo scorso, hanno trovato ampia diffusione e

alimentato dibattiti controversi. Queste teorie oscillano tra un forte «riduzionismo» biologico, che nega qualsiasi forma di autonomia alla cultura umana, e uno sforzo teso invece a rivendicare l’indipendenza totale

della cultura umana nei confronti dei geni. Fortemente riduzioniste sono, come si è visto, le teorie riconducibili alla

sociobiologia umana e ai lavori di Wilson. Tutta una serie di comportamenti sociali, dal conformismo all’altruismo, vengono da esse spiegati in termini di aumento della fitness riproduttiva (ovvero di un buon adattamento di

alcuni geni a un dato ambiente e di una conseguente loro maggiore sopravvivenza rispetto ad altri geni). Secondo la sociobiologia, per esempio,

gli individui sarebbero altruisti non tanto in quanto spinti da principi etici,

da empatia o da legami affettivi, ma in quanto pronti a sacrificarsi soprattutto a favore di individui con cui sono apparentati o, in altre parole,

con cui condividono dei geni. In tal senso l’altruismo sarebbe un

comportamento che i geni avrebbero favorito a loro stesso vantaggio. Molti biologi e genetisti neodarwiniani si sono però rifiutati di estendere all’uomo le tesi della sociobiologia: negli Stati Uniti Richard Lewontin e

Stephen Jay Gould, tra gli altri, hanno criticato le teorie di Wilson

sostenendo che ogni singolo gene non ha un valore selettivo indipendente e

che la selezione naturale non agisce sui geni ma sugli individui o «fenotipi», che sono l’espressione dell’opera di geni diversi in un dato ambiente.

Ciònonostante molti, pur dissociandosi dal determinismo riduzionista à la

Wilson, sono convinti che, sia pure a un livello astratto, la logica evolutiva

conservi la sua validità nello spiegare per analogia i fenomeni sociali e

culturali. Tra questi un posto centrale è occupato dai sostenitori della teoria

della coevoluzione gene-cultura, centrata sulle relazioni tra evoluzione

genetica ed evoluzione culturale. Tale teoria muove dall’ipotesi che i due tipi di evoluzione, pur essendo

indipendenti,

parzialmente

influenzino

entrambi

e

congiuntamente

l’evoluzione umana. Ora, se l’influenza dell’evoluzione genetica su quella

culturale non viene messa in discussione, più problematico è il caso contrario, ovvero quello di un cambiamento dell’evoluzione genetica a opera della cultura umana. Come ha sottolineato il genetista Luigi Luca

Cavalli-Sforza, che assieme a Marcus Feldman è stato tra i primi ad aver avanzato una teoria della coevoluzione gene-cultura, i geni determinano la cultura solo nel senso che «controllano gli organi che la rendono possibile ...

Ma la cultura rimane profondamente separata e largamente indipendente dai geni: diviene addirittura capace di influenzare l’evoluzione genetica».^

In pratica, sempre secondo Cavalli-Sforza, lo stretto rapporto che si è venuto a creare tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale è tale che

la seconda sta diventando un fattore che sempre più determina il decorso

della prima: la medicina, gli interventi sull’ambiente, lo sfruttamento di risorse, l’uso di farmaci e di nuove tecnologie, la produzione di sostanze inquinanti, sono tutti fattori che, in positivo come in negativo,

contribuiscono a modificare le pressioni selettive dell’ambiente e a introdurne

di

nuove,

non

necessariamente

positive.

In

sostanza,

sembrerebbe che negli ultimi millenni gli uomini abbiano adattato gli ambienti ai loro geni piuttosto che i geni agli ambienti. Infatti, a parte un

piccolo numero di geni sottoposti a pressioni selettive insolitamente forti negli ultimi 10 000 anni, i tempi sono troppo brevi perché questi mutamenti

culturali si siano evoluti geneticamente.^

È in buona parte in antropologia che sono stati sviluppati i modelli più noti di coevoluzione gene-cultura. Tra questi, quello dell’antropologo

statunitense William Durham rifiuta da un lato gli approcci sociobiologici che vedono nei fenomeni culturali il risultato della selezione naturale, e dall’altro lato le teorie antropologiche che escludono i vincoli biologici della

formazione dei fenomeni culturali. Egli ritiene che evoluzione biologica ed evoluzione culturale interagiscano tra loro, e che la cultura sia adattiva in

senso biologico, in quanto sarebbe il risultato di un processo di selezione

culturale guidato dal processo della selezione naturale. Per esempio, la scelta di un utensile o di una tecnica al posto di un’altra conduce alla

selezione di tratti culturali e all’evoluzione culturale: questa scelta poggia,

tra l’altro, sulla valutazione dell’efficacia di ogni utensile o tecnica a disposizione e, quindi, della capacità umana di decidere che una cosa sia

migliore di un’altra. Questa capacità di valutazione e di scelta sarebbe dunque un adattamento evolutivo, ossia il risultato di un processo di

selezione naturale attraverso il quale le capacità che inducevano gli

antenati dell’uomo a fare scelte errate o cattive sono state eliminate, mentre quelle che conducevano a scelte giuste o buone sono state

mantenute. Secondo Robert Boyd e Peter Richerson la selezione naturale avrebbe favorito l’emergere di particolari disposizioni psicologiche che hanno reso

possibile l’affiorare della cultura, ovvero un adattamento che ha permesso all’uomo di adeguarsi a molti ambienti diversi. Secondo i due studiosi la

cultura sarebbe dunque frutto della selezione naturale, ma allo stesso tempo

essa costituirebbe un nuovo sistema evolutivo, che può a sua volta adattarsi a nuove condizioni ambientali. Nell’elaborare questo modello coevolutivo,

Boyd e Richerson introducono il concetto di «trasmissione conformista», ovvero un processo che si attua tramite l’imitazione delle credenze

condivise dalla maggioranza degli individui quando ci sono più credenze in

competizione tra loro. La trasmissione conformista sarebbe in sostanza il meccanismo tramite il quale le persone apprendono il patrimonio culturale

della società in cui vivono.

L’antropologo Dan Sperber ritiene invece che l’evoluzione culturale obbedisca a una logica di diffusione che ricorda quella delle epidemie, in quanto descrive e spiega la distribuzione di alcune proprietà (come le

credenze, le abitudini, i segni distintivi) nell’ambito di una popolazione in contrapposizione a qualsivoglia interpretazione olistica: i macrofenomeni sono spiegati non con il ricorso ad altri macrofenomeni, ma come l’effetto

cumulativo

di

microfenomeni

su scala individuale

(proprio

come

un’epidemia è l’esito aggregato di eventi individuali quali il contrarre una

malattia). Egli ritiene che le idee e le rappresentazioni si diffondano da un

cervello all’altro in base a una sorta di «contagio»: «Un’idea, nata nel cervello di un individuo, può avere discendenti che le somigliano nel cervello di altri individui. Le idee possono essere trasmesse e, nella

trasmissione da una persona all’altra, si possono anche diffondere. Alcune le idee religiose, le ricette di cucina o le ipotesi scientifiche, per esempio - si

propagano così efficacemente che, in versioni differenti, possono finire per invadere stabilmente intere popolazioni. La cultura è fatta prima di tutto di

queste idee contagiose ... Spiegare la cultura significa allora spiegare perché

e come alcune idee sono contagiose».^ Questo però avverrebbe solo raramente in base a una replicazione identica: la gran parte delle volte le

idee si trasformerebbero passando da un cervello a un altro e sarebbe quindi

la trasformazione, e non la replicazione, a costituire la legge generale della trasmissione culturale. In sostanza, Sperber propone una visione alternativa dei modelli selezionisti dell’evoluzione culturale à la Dawkins: un modello

epidemiologico dell’attrazione culturale nell’ambito del quale i fattori

psicologici acquisiscono un ruolo più rilevante.

Come la pressione sociale può influire sul desiderio di essere uguali agli altri L’essere umano avrebbe dunque una tendenza innata al mimetismo, come sembrano suggerire gli approcci naturalistici allo studio dei comportamenti

imitativi,

oppure

alcuni

fattori

socioculturali

giocano

un

ruolo

preponderante nell’assunzione di atteggiamenti, valutazioni, credenze e

comportamenti che lo rendono uguale agli altri? Una serie di importanti

esperimenti in laboratorio condotti negli anni cinquanta del secolo scorso dallo psicologo sociale Solomon Asch sembrerebbe confermare quest’ultima

ipotesi esplicativa.

Asch analizzò il fenomeno del conformismo sociale, ovvero la tendenza umana a imitare gli altri quando si è in presenza di una maggioranza di

individui che condivide la stessa credenza o che mette in atto lo stesso comportamento. Nei suoi esperimenti, un certo numero di studenti veniva

riunito per partecipare a un test che, teoricamente, aveva a che fare con la

percezione visiva. In realtà tutti gli studenti, tranne uno, erano complici di Asch ed erano a conoscenza delle vere finalità dell’esperimento, ovvero

testare la pressione al conformismo che un gruppo unanime può esercitare su un singolo isolato. Il compito a cui erano sottoposti gli studenti

consisteva nel confrontare la lunghezza di alcune linee, per esempio quella di una linea singola con quella di altre tre poste una di fianco all’altra, e

individuare, tra queste ultime, quella della stessa lunghezza della linea

singola. Ognuno degli studenti forniva, a turno, la sua risposta e il compito veniva ripetuto più volte cambiando le immagini. Gli studenti complici di Asch rispondevano prima dell’unico partecipante ignaro delle vere finalità

deU’esperimento, che era invece chiamato a rispondere per ultimo, e davano tutti la stessa risposta, alVinizio corretta e, dopo un po’,

palesemente errata. Come reagirono gli studenti isolati di fronte a questa unanimità del gruppo nel dare la risposta sbagliata? Nel 32 per cento delle prove anch’essi diedero la stessa risposta errata data dagli altri, mentre nel

gruppo di controllo, in cui non vi era alcuna pressione a conformarsi agli altri in quanto nessuno studente era complice di Asch, solo 1 studente su 35

diede una risposta errata. Il 75 per cento degli isolati diede poi una risposta errata ad almeno una delle prove nel corso di tutto l’esperimento.

I risultati di Asch sono senza dubbio sorprendenti, e sembrerebbero fornire solidi argomenti a sostegno della tesi secondo cui la tendenza umana

al conformismo e all’imitazione degli altri dipenderebbe in gran parte dal contesto sociale in cui di volta in volta ci si trova: il fatto di ritrovarsi in

presenza di altri individui che condividono tutti uno stesso atteggiamento, valutazione, credenza o comportamento sembra costituire per i singoli una

spinta all’imitazione degli altri molto più forte di quanto non avvenga nella circostanza in cui ci si trovi a ragionare, valutare e agire isolatamente. E ciò

che fa più riflettere è che questa pressione sociale alla uniformizzazione

degli individui sembra agire indipendentemente dalla validità, dalla bontà o dalla correttezza delle credenze condivise e dei comportamenti messi in atto, proprio come se i singoli individui interessati dal fenomeno imitativo

in questione non ne fossero coscienti o fossero passivi di fronte a esso.

Come si è accennato nel capitolo precedente, l’idea che alcuni fenomeni sociali godano di una sorta di esistenza autonoma dai singoli individui e che,

grazie a essa, possano condizionare e determinare i comportamenti umani, è condivisa da una parte degli scienziati sociali, i collettivisti metodologici, e non è certo nuova nell’ambito delle scienze sociali. Alla fine del XIX secolo,

per esempio, nelle Leggi deirimitazione il filosofo e sociologo Gabriel Tarde parlava di un «principio di imitazione», secondo cui nella società

esisterebbero delle correnti di imitazione in grado di agire sugli individui a loro insaputa, come delle forze magnetiche, e renderli in tal modo simili a sonnambuli. Tarde immaginava che l’imitazione annullasse l’autonomia

dell’azione individuale in quanto riteneva che la società altro non fosse se

non un insieme di soggetti obbligati a imitare e copiare gli altri, e che da ciò

scaturissero forme diffuse di uniformità quali i costumi e le mode. In

pratica, questa sua concezione finiva per legittimare una visione irrazionale

dell’azione umana, considerata più in balia di forze macrosociali agenti sui singoli individui a loro insaputa, che frutto di decisioni individuali basate su

intenzioni, motivazioni, preferenze e ragionamenti.

Una simile visione è stata ancor più esplicitamente sostenuta da colui che

per primo, nell’ambito delle scienze sociali, si interessò allo studio del comportamento dell’individuo in gruppi estesi quali, in particolare, le folle. Si tratta dello psicologo sociale Gustave Le Bon, che in Psicologia delle folle

spiegava come la caratteristica principale di una folla fosse quella di ridurre

e cancellare la coscienza degli individui facendoli regredire a esseri primitivi, istintivi e irrazionali, facilmente ipnotizzabili, manipolabili e trasformabili in prede passive di meccanismi come l’imitazione, il contagio, l’emotività e la suggestionabilità. Una psicologia di tipo collettivo, inconscio

e irrazionale aveva quindi la meglio su una di tipo individuale, cosciente e razionale.

Secondo Le Bon una folla «possiede caratteristiche nuove ben diverse da quelle dei singoli individui che la compongono. La personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità si orientano nella medesima

direzione». Ancora, rispetto alla folla «gli individui che la compongono ... acquistano una sorta di anima collettiva [che] li fa sentire, pensare e agire in

un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro - isolatamente sentirebbe, penserebbe e agirebbe». Le folle sono suggestionabili, inconsce, impulsive,

mutevoli, irritabili,

credulone,

«non ragionano

...

[ma]

ammettono e rifiutano le idee in blocco». Al loro interno sentimenti e atti sono contagiosi al punto che gli individui sono pronti a sacrificare l’interesse personale in vista di quello collettivo. Su di esse agisce infatti il

«potente meccanismo del contagio»: «le idee, i sentimenti, le emozioni, le credenze possiedono fra le folle un potere contagioso intenso, quanto quello

dei microbi»,^ e l’imitazione è un effetto del contagio.

Le letture di tipo epidemiologico dei meccanismi relativi alla diffusione dei comportamenti imitativi a livello sociale, come quella proposta da Le Bon, non hanno però trovato consensi unanimi e, anzi, hanno spinto

numerosi scienziati sociali a riflettere su un punto importante: a differenza di una malattia, molti dei comportamenti umani riconducibili al

conformismo e all’imitazione sociale si diffondono con il consenso degli individui. Sebbene influenzati dagli altri, non sono in fondo proprio quegli

individui a operare delle scelte in prima persona?

Una variante esplicativa dei comportamenti imitativi che tenga conto di quanto appena detto fu quella avanzata dal sociologo Thorstein Veblen. Il fulcro del suo pensiero è riconducibile ai concetti di «consumo ostentativo»

e di «emulazione», oggi ancora estremamente attuali per spiegare, per esempio, il successo che sul mercato può riscuotere un prodotto di marca rispetto a un altro sia pure identico in termini qualitativi, ma privo dello

stesso logo. Veblen si interessò infatti ai comportamenti imitativi

nell’ambito della società dei consumi dell’inizio del XX secolo partendo dal presupposto che gli individui non consumino per soddisfare dei bisogni individuali o, meglio, che una volta soddisfatti i bisogni essenziali, essi

cerchino di soddisfare bisogni spirituali e sociali. Secondo il sociologo tedesco, le finalità principali del consumo sarebbero l’ostentazione e l’emulazione, e la moda nell’abbigliamento ne costituirebbe un esempio.

Nella società contemporanea, così come in quella del passato, quello che Veblen definisce il «bisogno spirituale del vestire» non scaturirebbe quasi

mai dalla necessità fisica di proteggersi dal freddo, bensì da quella sociale di

apparire e di mostrare agli altri che ci si può permettere di spendere ingenti somme di denaro per i capi che si indossano: «La regola dello sciupio vistoso trova speciale espressione nell’abbigliamento ... ciò che si spende

nell’abbigliamento ha sulla maggior parte degli altri metodi questo vantaggio, che il nostro vestiario è sempre in evidenza e indica al primo

colpo d’occhio la nostra posizione finanziaria a tutti gli osservatori».^ La società diviene così espressione di una «rivalità mimetica» tra gli

individui che, attraverso un «consumo vistoso» e una continua imitazione

degli altri, desiderano «ostentare il possesso di ricchezza» e affermare il

proprio status sociale: ciò che si crede essere il proprio gusto è in realtà l’esito della volontà di comparare la propria capacità di spendere a quella

altrui.^® Sempre secondo Veblen, al vertice della società vi sarebbe la classe dei possidenti, categoria improduttiva che gioisce del lavoro altrui e che

mostra la sua ricchezza attraverso pratiche inutili come il consumo (di

gioielli, vestiti, viaggi ecc.). Sarebbe in questo modo che essa segna la propria differenza rispetto alle classi inferiori della società. Queste ultime,

dal canto loro, guardano in alto e cercano di salire nella gerarchia sociale, di

accorciare la distanza che le separa dalle classi più alte imitandone i

comportamenti. Si tratterebbe di un circolo infinito in quanto le élite, mano a mano che vengono copiate, tentano nuovamente di distinguersi adottando

delle nuove pratiche di distinzione.

Questa sorta di necessità mimetica è aU’origine del rinnovo permanente che caratterizza un fenomeno sociale quale la moda: l’emulazione continua

dell’ultima novità è una ricerca senza fine. Ecco dunque che diviene chiaro cosa si intende per «effetto Veblen», ovvero un processo sociale tale per cui

un bene non ha solo un significato economico, ma anche un significato sociale, quello di segnalare agli altri la propria ricchezza semplicemente

ostentando tale bene. Cosa, quest’ultima, che permette di spiegare perché la domanda di un bene possa essere tanto più elevata quanto più esso è costoso. La tesi di Veblen sulla «diffusione verticale dei gusti», secondo cui le tendenze nascono dalla volontà delle classi dominate d’imitare le classi

dominanti, è stata molti decenni dopo ripresa e sostenuta da Pierre Bourdieu, il quale riteneva che la società fosse il luogo di una rivalità tra le classi sociali. Secondo il sociologo francese, il gusto non esisterebbe in

quanto nell’ambito della società l’individuo crede che le sue scelte siano

spontanee e disinteressate, ma in realtà esse sono l’esito dell’appartenenza alle classi sociali. È nella Distinzione. Critica sociale del gusto che Bourdieu mette in luce come, a suo giudizio, le scelte dei consumatori siano

determinate dal loro «capitale culturale» e dal loro «habitus». Il primo

designa l’insieme delle risorse sociali o culturali di cui un individuo beneficia in base alla sua appartenenza di classe. Il secondo, il «principio

unificatore e generatore delle diverse pratiche», denota quell’insieme di

maniere di agire, pensare e sentire, conscie e inconscie, incorporate dall’individuo attraverso le sue prime esperienze di socializzazione, che

formano uno stile di vita in sintonia con la posizione degli individui nello spazio sociale. In particolare, l’habitus di classe denota quella «forma incorporata della condizione di classe e dei condizionamenti da essa

imposti»,^^ in sostanza una forma di determinismo sociale che conduce una

stessa classe sociale a condividere dei gusti comuni per quel che riguarda l’alimentazione, i vestiti, l’arte o altro ancora. In tal senso, i gusti distinti

delle classi superiori si oppongono per esempio ai consumi volgari delle classi popolari, e la moda serve come simbolo di classe ed esprime il

desiderio di distinzione sociale di una data classe rispetto a un’altra.

Oggi la teoria della diffusione verticale dei gusti non sembra trovare molte conferme nei fatti. L’idea secondo cui una classe dominante impone i

gusti a una classe dominata è ormai superata in molti ambiti in quanto, per esempio, diverse mode nascono al contrario dalle classi più svantaggiate per

diffondersi poi nei ceti più alti (basti pensare al successo, prevalentemente

tra gli adolescenti, di mode urbane quali quelle dei rapper o degli skater). Anche questa teoria condivide un presupposto metodologico collettivista nel momento in cui ammette che gli individui imiterebbero gli altri,

praticamente a propria insaputa, in quanto mossi da forze e dinamiche

sociali dettate prevalentemente dall’epoca storica o dalla classe sociale di

appartenenza.

Un’altra strada per spiegare la tendenza umana a essere uguali agli altri consiste invece nell’attribuire un ruolo più attivo all’individuo e nel

considerare l’imitazione, oltre che l’esito di una pressione sociale dall’alto, anche il frutto di ragionamenti e comportamenti consapevoli e dettati da

desideri e bisogni individuali. Su questa scia si collocava il sociologo Georg

Simmel, il quale, prendendo in considerazione il fenomeno sociale della

moda, poneva la questione del rapporto tra individuo e collettività conciliando il bisogno di distinzione degli individui dalla società e il loro

desiderio di appartenenza a essa: «La moda - scriveva - non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e

quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in

un fare unitario».^^ Un beneficio psicologico soggettivo scaturirebbe dunque dal fatto di

seguire le mode: l’individuo riesce a sentirsi a proprio agio come parte di un

gruppo e si protegge dai rischi dell’individualismo crescente della modernità. Secondo Simmel, la moda sancisce l’unità di un gruppo e, allo stesso tempo, la sua cesura con l’esterno; in essa l’imitazione assume un

ruolo centrale. L’imitazione è una «ereditarietà psicologica», è «il trasferimento della vita di gruppo nella vita individuale»; essa esercita un

fascino dato dal fatto che rende possibile «un agire finalizzato e dotato di

senso senza che entri in scena nessun elemento personale e creativo. La si potrebbe definire figlia del pensiero e dell’assenza di pensiero». E ancora, essa «dà all’individuo la sicurezza di non essere solo nelle sue azioni» e

procura serenità in quanto «nell’imitare non solo trasferiamo da noi agli

altri l’esigenza di energia produttiva, ma anche la responsabilità dell’azione

compiuta. L’individuo si libera del tormento della scelta e la fa apparire come un prodotto del gruppo».^^

Come sottolineano autori quali Beck, Giddens e Bauman, uscendo dalla società di tipo tradizionale l’individuo contemporaneo ha acquisito molta più libertà di scelta rispetto al passato, sebbene, come si è visto, ciò possa

spesso costituire un ostacolo alla propria autonomia: da un lato, i ritmi sempre

più

rapidi

della

società

contemporanea

gli

impongono

un’accelerazione nelle scelte per stare al passo con il mutamento, che non è

sempre di facile gestione; da un altro lato, la continua spinta a seguire gli

ultimi cambiamenti sociali come quelli nelle mode e nelle abitudini di vita

rende molto difficile una effettiva differenziazione dagli altri. Questo spiega perché spesso nell’ambito delle scienze sociali prevalgano degli approcci

metodologici collettivisti tendenti a ritenere che gli individui siano solo apparentemente liberi, ma che in realtà i loro comportamenti e il loro desiderio di essere uguali agli altri siano imposti da forze sociali esterne e

manipolatrici alle quali sembra impossibile sottrarsi. Alcuni esempi classici, tuttavia, aiutano a comprendere come molto

spesso, sia pure ignorandolo, siano proprio gli uomini con i loro desideri, bisogni e comportamenti a originare processi sociali e dinamiche imitative. Tra questi esempi non si può non ricordare l’idea di «profezia che si

autoadempie», riconducibile al sociologo Robert K. Merton, e quella del

«concorso di bellezza» formulata da John Maynard Keynes.

L’esempio di una crisi finanziaria è molto appropriato per comprendere l’idea di Merton. Il meccanismo è il seguente. Si diffonde la voce di una

possibile insolvibilità delle banche. Ogni cliente si presenta quindi allo

sportello della propria banca per ritirare i propri soldi prima che la banca

dichiari fallimento. Questo comportamento viene imitato su larga scala in base a motivazioni individuali comprensibili e razionali (la paura di perdere

i propri risparmi). L’aggregazione di queste azioni individuali mette realmente la banca in condizione di insolvibilità ed essa fallisce. Ovviamente

questo esito non è stato né cercato né voluto da nessuno degli individui

interessati, ed è in tal senso che la profezia (la sensazione che la banca

potrebbe essere insolvibile) si realizza dunque quasi autonomamente, ovvero in modo spontaneo e non intenzionale.

Keynes descrive invece una situazione ipotetica in cui a degli individui

viene chiesto di scegliere quali siano i sei volti ritenuti più belli tra delle fotografie di visi femminili. Coloro che indovinano il volto più popolare

avranno diritto a un premio. Per fare questa scelta una strategia potrebbe essere quella di scegliere i sei volti che, neH’opinione di colui che sceglie, sono i più belli. Ma un’altra strategia potrebbe invece essere quella di

pensare a quale sia la percezione della bellezza della maggioranza degli individui, e poi di scegliere in base a questa valutazione della percezione altrui. Ogni partecipante al gioco avrà quindi una propria opinione di quale sia la percezione altrui, e sceglierà non in base a ciò che valuta essere il volto più bello, ma in base a ciò che pensa valuteranno gli altri. In sostanza,

secondo Keynes, quando si è in difficoltà di fronte a una scelta può essere

impossibile agire in modo puramente razionale e autonomo, e l’imitazione

delle valutazioni e delle scelte altrui può essere la sola strategia di ripiego possibile. Atteggiamento che, se generalizzato, dà origine a modelli di

comportamento diffusi. Persuasione, propaganda mediatica e imitazione

Quanto è dunque effettivamente libero di agire l’individuo rispetto al contesto e ai meccanismi sociali nei quali è coinvolto? Nella società contemporanea occidentale, molti comportamenti imitativi, come quelli riconducibili alla moda, più che esito di scelte autonome non sono forse per esempio frutto di meccanismi persuasivi e di una propaganda mediatica di

tipo pubblicitario? «Certo bisogna tener conto del modo in cui l’individuo viene manipolato dalla propaganda e dalla pubblicità - scrive Alain

Touraine -, ma allo stesso tempo è necessario disgelare l’attore sociale presente in questo individuo e il soggetto che è in lui e che si batte contro la

società di massa».^^ Ma le cose stanno proprio così?

Nel volume Propaganda. Della manipolazione delVopinione pubblica in democrazia, il pubblicitario Edward Bernays sosteneva che la propaganda, e quindi anche quella pubblicitaria, fosse uno strumento necessario al servizio dei governi e delle marche in quanto, a suo giudizio, l’opinione

pubblica era ingenua e obbediva passivamente a regole di comportamento semplici e fondate su pulsioni fondamentali. Secondo Bernays era infatti possibile indurre gli individui a compiere determinate scelte semplicemente associando delle pulsioni a idee e a slogan elementari.

Il giornalista Walter Lippman nel 1922 pubblicava L'opinione pubblica,

dove, oltre a introdurre per la prima volta la nozione di «stereotipo» che lo

avrebbe reso celebre, metteva in guardia dalle forze e dai pericoli insiti nella moderna propaganda fondata su un’alleanza tra le ricerche in ambito

psicologico e i nuovi mezzi di comunicazione di massa. In effetti, proprio in quegli anni le agenzie pubblicitarie cominciavano a proliferare e a ricorrere alle competenze degli psicologi per cercare di individuare il modo più

efficace con cui manipolare desideri e preferenze umane. Uno dei primi psicologi a lavorare in campo pubblicitario fu proprio John

Watson (colui che nei suoi esperimenti riuscì a condizionare il piccolo

Albert). A seguito di una vicenda sentimentale con una sua studentessa, che

10 aveva obbligato a dare le dimissioni dalla Johns Hopkins University di Baltimora, Watson si ritrovò sul lastrico e decise di mettere le proprie competenze di ricercatore sperimentale al servizio di una delle prime e più celebri agenzie pubblicitarie statunitensi. Studioso brillante e autore di

campagne pubblicitarie storiche su borotalchi e dentifrici, negli anni

cinquanta del Novecento riuscì, tra l’altro, a convincere molti fumatori che

11 fumo faceva bene, anche se era già noto che il fumo danneggia la salute. Watson era convinto che le scelte di consumo fossero principalmente

guidate dalle emozioni, dai bisogni, dai sensi, dagli istinti (come la paura, il sesso, la stima di sé), e assai meno dalla razionalità, e che su di esse fosse

possibile

costruire

dei

meccanismi

non

troppo

dissimili

dal

condizionamento pavloviano, ovvero che si potesse condizionare gli individui al fine di portarli ad associare automaticamente un prodotto a

un’emozione o a un’idea: così, per esempio, facendo tenere in mano una bottiglietta di Coca-Cola a una giovane modella che attiva il desiderio

sessuale negli uomini, si produrrebbe un’associazione tra la bibita e l’emozione che essa suscita inducendo gli uomini a desiderare e, di

conseguenza, a comprare quel bene. Nel corso dei suoi esperimenti Watson

si era infatti accorto che spesso i consumatori non erano in grado di

percepire differenze sostanziali tra vari prodotti: pochi erano i fumatori, per esempio, in grado di riconoscere, una volta bendati, le loro sigarette preferite dall’aroma o dalle inspirazioni di fumo. Dopo avere preso atto di questa insipienza del consumatore, Watson ne dedusse che le campagne

pubblicitarie avrebbero dovuto puntare soprattutto sull’immagine e sul logo, invece che sulle reali caratteristiche del prodotto. Egli fu uno dei

principali sostenitori dell’uso dei testimonial nelle campagne pubblicitarie:

per esempio, fu sua l’idea di proporre la regina di Spagna come testimonial di una crema di bellezza.

Nel secolo scorso, dopo la seconda guerra mondiale e con l’ingresso nell’era della produzione e del consumo di massa, vi è stata una vera e propria esplosione degli studi relativi alle tecniche e agli effetti della

persuasione e, in particolare, di quella che può scaturire dalla propaganda

pubblicitaria. Ci si convinse che attraverso il marketing fosse possibile manipolare le menti umane, indottrinare i consumatori e, di fatto,

uniformarli nell’ambito del sistema capitalista. Attorno a questi temi lavorarono nomi celebri della ricerca sociale, da Kurt Lewin a Paul Lazarsfeld (quest’ultimo aveva già dato un importante contributo all’analisi

della propaganda durante la seconda guerra mondiale), ma anche psicoanalisti come Ernest Detrich, psicologi della motivazione come Abraham Maslow e semiologi interessati a studiare la simbologia

pubblicitaria, tra i quali un posto centrale lo ha occupato Roland Barthes: costui, tra l’altro, ha analizzato il simbolismo del celebre detersivo Omo che, a suo giudizio, celava una forma di moderna mitologia, la lotta alla sporcizia

e ai microbi - simboli del male - con gli agenti sbiancanti e, nel Sistema della

moda, ha sostenuto «l’origine commerciale del nostro immaginario

collettivo».^^ La stretta collaborazione sviluppatasi tra scienze umane e marketing,

spesso associata all’idea che il consumatore, l’individuo, sia di fatto passivo e manipolabile attraverso le armi persuasive della pubblicità, che lo

rendono uguale a tutti gli altri nelle sue scelte attraverso l’induzione di

comportamenti di tipo imitativo su larga scala, ha chiaramente scatenato moltissime reazioni, soprattutto tra i più critici nei confronti della società del consumo di massa occidentale. Tra questi non si può non ricordare i

filosofi Theodor Adorno e Max Horkheimer. La visione dei due esponenti

della Scuola di Francoforte, rafforzata successivamente dalle riflessioni sviluppate neH’Domo a una dimensione da Herbert Marcuse, concepisce il consumatore come alienato e manipolato dall’industria culturale di massa che, invadendo il mercato con prodotti quali i film holl3nvoodiani, le canzoni

e

i

cartoni

animati

di

Walt

Disney,

produce

uniformizzazione,

omogeneizzazione, beni che vengono consumati passivamente e che generano dei falsi bisogni. Con questa visione concordava Christopher Lasch

quando scriveva che la propaganda commerciale «promuove il consumo

come alternativa alla protesta o alla ribellione», in quanto «il lavoratore stanco e amareggiato, invece di cambiare le sue condizioni di lavoro, cerca di rinnovarsi circondandosi di nuovi beni e servizi»;^^ inoltre, la propaganda

«trasforma in merce l’alienazione stessa», poiché propone il consumo come rimedio. In tempi più recenti, poi, le scienze sociali, e in particolare il

marketing, hanno messo in luce un ulteriore paradosso della società

consumista contemporanea, quello dell’abbondanza. La felicità e la soddisfazione si raggiungono quando si è liberi, ed essere liberi vuol dire avere maggiori alternative di scelta e di azione; tuttavia,

secondo lo psicologo statunitense Barry Schwartz, oltre un certo limite di

possibilità di scelta (di beni, di informazione, di divertimenti ecc.), l’abbondanza può avere un effetto opposto al raggiungimento della felicità.

Questo il nocciolo del suo libro The Paradox ofChoice. Why More Is Less, ossia le

alte aspettative indotte dall’abbondanza di alternative tra cui scegliere

spesso producono insoddisfazione e ansia. In sostanza, come ribadiscono

ulteriori studi - tra cui quello dell’economista Sheena lyengar, autrice di The Art ofChoosing, e quello della filosofa Renata Salecl, La tirannia della scelta

-, la società dei consumi e dell’abbondanza sarebbe responsabile di illudere l’uomo contemporaneo di dover continuamente scegliere per realizzare

pienamente la propria identità e la propria autonomia, producendo in tal modo un malessere di fondo dell’individuo, che davanti a tante possibilità e tante richieste di scelta è di fatto paralizzato e indeciso.

Tra gli studiosi più attenti delle potenzialità manipolatrici della macchina pubblicitaria, Vance Packard è stato forse uno dei più noti. Nei Persuasori occulti egli descrisse l’attività di quella che definiva una «setta di

persuasori», ovvero i pubblicitari, e presentava numerose prove relative

all’uso della psicologia per manipolare il subconscio dei consumatori facendo leva su desideri, atteggiamenti, pensieri che vanno dal narcisismo

al senso di colpa, all’ansia, all’emotività, alla paura. Celebre esempio analizzato da Packard è quello della riscoperta della prugna secca da parte di un team di psicologi motivazionali, incaricati dall’Associazione californiana dei produttori di prugne di diagnosticare le cause della resistenza dei consumatori nei confronti della prugna secca, che attorno

agli anni cinquanta del secolo scorso versava in una tragica situazione sul piano commerciale. I ricercatori, attraverso la somministrazione di vari test

psicologici, scoprirono che Fimmagine della prugna evocava numerose sensazioni spiacevoli nella mente umana tra cui, principalmente, il fatto che questo frutto fosse associato alle idee di rinsecchimento e di lassativo.

Queste sensazioni, a giudizio degli esperti, impedivano alla prugna di affermarsi come un semplice frutto su un mercato che, all’epoca, era abbondantemente coperto di prodotti lassativi. Ecco così che, come spiega Packard, gli specialisti decisero di

«ridimensionare» Fimmagine della prugna facendone un «prodotto-

meraviglia», che il pubblico avrebbe dovuto riscoprire da zero. Il frutto rinsecchito e buono solo per gli stitici veniva rilanciato con una nuova

immagine dinamica: ora doveva divenire adatto per essere servito agli ospiti

senza vergogna. I cartelloni pubblicitari furono così concepiti con colori sgargianti e allegri, con bambini o giovani ragazze impegnate in attività

sportive, e accompagnati da slogan entusiasti e positivi (per esempio «mettete le ali ai piedi» - slogan che, a ben pensarci, non ha perso di attualità e di capacità manipolatrice della psiche umana, dato che oggi viene

utilizzato nella pubblicità della bibita Red Bull che, appunto, «mette le ali»). Questa nuova pubblicizzazione della prugna ne fece rapidamente un prodotto venduto in massa.

Nelle Armi della persuasione. Come e perché si finisce col dire di sì lo psicologo

statunitense Robert Cialdini offre una panoramica illuminante delle idee

essenziali su cui poggia una teoria della persuasione all’acquisto. Interessante è, per esempio, l’analisi di quella che secondo Cialdini

costituisce una delle «più potenti armi di persuasione» con la quale si possono manipolare comportamenti e scelte individuali: la regola della reciprocità. Essa sfrutta una elementare sensazione umana che sembra

essere presente e diffusa nelle culture più diverse, il «senso di obbligo» secondo cui si deve contraccambiare il dono, la generosità o l’attenzione

altrui. Per comprendere quanto tale norma possa essere sfruttata dagli esperti

della persuasione, Cialdini riporta un esperimento effettuato dallo psicologo sociale Dennis Regan nel 1971. Ai soggetti che partecipavano allo studio

veniva chiesto di valutare da un punto di vista estetico alcuni quadri insieme a un compagno (joe), che in realtà era un assistente dello

sperimentatore. In alcuni casi, Joe faceva spontaneamente un piccolo favore

al compagno: durante un breve intervallo, usciva dalla stanza e tornava con

due bottigliette di Coca-Cola, una per sé e una per l’altro, dicendo: «Ho chiesto allo sperimentatore se potevo prendermi una Coca e lui ha detto di sì, allora ne ho presa una anche per te». Negli altri casi il compagno si comportava in maniera identica, ma si limitava a uscire dalla stanza un paio

di minuti tornando a mani vuote. Una volta finita la valutazione dei quadri e

uscito lo sperimentatore, Joe chiedeva al compagno di fargli un favore. Gli diceva che stava vendendo dei biglietti di una lotteria dov’era in palio

un’automobile e che, se fosse riuscito a venderli quasi tutti, ci sarebbe stato per lui un premio di cinquanta dollari. I risultati dello studio misero in luce come i soggetti compravano più biglietti quando Joe aveva fatto loro un favore spontaneamente portandogli una bottiglietta di Coca-Cola durante

l’esperimento, rispetto a quando non glielo aveva fatto.

Secondo Cialdini questa norma di reciprocità viene spesso utilizzata per persuadere e manipolare gli altri, e la sua efficacia è per esempio ben nota sia ai venditori porta a porta, che offrono ai potenziali clienti un dono, e solo dopo che questi lo accettano chiedono loro di comprare prodotti simili,

sia a quei commercianti che convincono i potenziali clienti ad acquistare un

certo yogurt o una nuova crema per il viso dopo avergliene fatto provare un campione gratuito. Chiaramente la norma della reciprocità non ha solamente dei risvolti negativi o manipolativi. Un esempio illuminante di come possa essere

sfruttata positivamente è quello del comandante dell’Endurance, l’inglese

Ernest Henry Shackleton, che tra il 1914 e il 1916 guidò numerosi uomini in

una spedizione antartica nel corso della quale la nave rimase bloccata e

schiacciata dai ghiacci. Nonostante le pessime condizioni meteorologiche e le difficoltà oggettive in cui si trovò, Shackleton riuscì comunque a portare

in salvo i suoi uomini dopo incredibili traversie tra i ghiacci, da lui ricostruite nell’avvincente resoconto Sud. La spedizione deWEndurance. Nel

corso di questa vicenda egli dimostrò di possedere indubbie doti di leadership: per mettere in salvo i suoi uomini convincendoli a resistere alle

condizioni estreme in cui si vennero a trovare, fece genuinamente ricorso anche alla regola della reciprocità, per esempio curando i malati

personalmente, ospitandoli nella sua cabina, nel suo letto, e accudendoli

quotidianamente, atteggiamento che fu appunto ricambiato in termini di grande fiducia e obbedienza nei suoi confronti da parte di tutti i membri dell’equipaggio.

Oggi tecniche come quelle messe in luce da Cialdini sono considerate ovvie da chi si occupa di pubblicità e utilizzate sia nelle campagne che promuovono prodotti commerciali sia in quelle che promuovono personaggi politici e del mondo dello spettacolo. Esse non sono però altrettanto ovvie

per moltissimi consumatori. E infatti è ricorrendo a tali tecniche che si è passati da una pubblicità informativa e ingenua a una pubblicità persuasiva

che influenza e seduce con stimoli che hanno poco o nulla a che vedere con

la qualità del prodotti e che si colloca in uno spazio al di sopra di ogni responsabilità. Ma è proprio vero che la propaganda di tipo pubblicitario può manipolare

la mente umana al punto da scatenare meccanismi sociali di tipo imitativo e

indurre gli individui in massa a mettere in atto scelte molto simili tra loro? Questo è un punto delicato e controverso, in quanto molti ritengono che,

per esempio, la propaganda pubblicitaria non riesca a fare vendere un prodotto specifico, bensì solo a farlo conoscere poiché, se gli individui non

hanno desiderio di quel prodotto, non lo compreranno. Gilles Lipovetsky scrive che il consumatore non è un burattino, «interamente modellato dagli

esperti della comunicazione ... “ipnotizzato”, passivo, malleabile a

piacimento». Per quanto forte possano essere propaganda e persuasione pubblicitaria, egli «resta un protagonista, un soggetto i cui gusti, interessi,

valori e predisposizioni filtrano i messaggi a cui viene esposto ... sceglie con cura e seleziona le sollecitazioni che lo assalgono e presta attenzione solo a

ciò che è in sintonia con i suoi interessi, le sue aspettative e le sue

preferenze».^^ Che le cose non siano così chiare, tuttavia, ancora una volta lo mette bene in luce un film, The Truman Show (1998), che induce a una profonda

riflessione in merito. Con esso il regista Peter Weir ha voluto mostrare quale possa essere la potenza persuasiva e manipolatrice di un sistema dominato

dalla macchina mediatica. Quest’ultima viene rappresentata proprio come una sorta di Grande Fratello à la George Orwell, che controlla e plasma la

vita del protagonista, Truman Burbank (un insuperabile Jim Carrey): costui prende gradualmente coscienza del fatto che il mondo a lui circostante è

pura finzione, creata ad arte dal regista e dalla produzione dello show (il Truman Show, appunto) di cui egli è a propria insaputa protagonista.

Assieme alla moglie infermiera, Truman vive in una deliziosa città in cui tutti gli abitanti sono gentili e allegri. Ciònonostante egli vorrebbe viaggiare

lontano per andare alla ricerca di una ragazza incontrata quando era più

giovane, ma gli organizzatori dello show, che lo hanno adottato quando era

ancora nel ventre della mamma per farne il protagonista del loro reality mostrandone in diretta la vita quotidiana, cercano con ogni mezzo e in ogni modo di impedire che egli si allontani e che scopra che la città in cui vive in

realtà è solo un immenso set cinematografico e le persone che lo circondano, compresa la moglie e gli amici, altro non sono se non degli attori. La storia narrata dal film, come ha dichiarato il regista, fa appunto riflettere sull’interrogativo se alcuni fenomeni sociali, come in questo caso

la macchina mediatica, siano in grado di esercitare un’influenza, una pressione alla uniformizzazione, un controllo sull’individuo tali da

persuaderlo e manipolarlo nelle sue preferenze, nelle sue scelte e nei suoi comportamenti, al punto da ridurre al minimo la sua autonomia di azione. Questo tema, oltre a essere strettamente connesso all’analisi dell’origine e

delle dinamiche dei comportamenti sociali di tipo imitativo appena

analizzati, si collega a un’altra questione estremamente dibattuta nelle scienze sociali, ovvero quella dell’esistenza o meno di un limite oltre il quale gli individui non possono non conformarsi al volere altrui, sia esso giusto o

sbagliato... Dalla persuasione alla ricerca di conferme: ulteriori riflessioni sulla tendenza

umana a fare quello che fanno gli altri Nel celebre film del 1957 La parola ai giurati^ diretto da Sidney Lumet, si narra la storia di una giuria composta da dodici membri che è chiamata a pronunciarsi circa la colpevolezza o l’innocenza di un ragazzo accusato di parricidio. Il verdetto dev’essere espresso aH’unanimità e, eccetto uno (un

giovane Henry Fonda), tutti i giurati si schierano contro l’imputato che, se dichiarato colpevole, sarà condannato a morte. Il film, girato quasi interamente in una stanza, ripercorre tutte le tappe del processo e si

sofferma in modo analitico sulla personalità dei singoli giurati, nonché sulle dinamiche che sanciscono la contrapposizione tra il gruppo degli undici giurati, compatti e conformi nel ritenere colpevole il giovane imputato, e l’unico giurato contrario a questa posizione che, grazie alle sue spiccate doti

persuasive, riesce lentamente a convincere uno per uno tutti gli altri

membri della giuria circa l’innocenza dell’accusato, il quale, infatti, alla fine sarà unanimemente assolto.

Come mette ben in luce la trama di questo film, esistono situazioni in cui, sfruttando le proprie capacità persuasive e manipolatrici, anche un solo individuo, come per esempio un leader carismatico, può riuscire a convincere tanti altri individui della giustezza della propria tesi, anche là

dove questa sia originariamente in contrasto con le convinzioni e le

opinioni di tutti, e, di conseguenza, a far loro mettere in atto gli stessi comportamenti. Gustave Le Bon, che era interessato a tutte le forme di

comportamento di gruppo, proprio a proposito delle giurie scriveva che, al momento di prendere una decisione, il pensiero dei singoli membri ha una

scarsa importanza in quanto i giurati, alla pari di tutte le folle, si lasciano

impressionare poco dai ragionamenti e molto dai sentimenti, dal prestigio e dalla bravura manipolatrice dell’oratore (che generalmente è l’avvocato ma,

nel caso del film appena ricordato, è un giurato stesso). Quest’ultimo «non ha bisogno di convertire tutti i membri di una giuria, ma soltanto quelli che

trascinano gli altri» in quanto, secondo il sociologo francese, in tutte le folle solo «un piccolo numero di individui guida gli altri».^^

In sostanza, una volta immersi in un contesto collettivo (una folla, una giuria, un movimento di opinione ecc.), degli individui normalmente ragionevoli verrebbero sopraffatti da stati di tipo affettivo-emotivo

incontrollabili in grado, al limite, anche di farli regredire a comportamenti

infantili se non addirittura animaleschi. Ma le cose stanno proprio così? Il carisma di un leader o di una minoranza, combinato con l’ipotesi secondo cui quando gli individui si trovano a far parte di un gruppo o di un contesto

collettivo in generale sarebbero spinti a seguire ciecamente gli altri e a obbedire in modo quasi automatico a meccanismi sociali di tipo sistemicostrutturale, sono elementi sufficienti e validi per spiegare la tendenza

umana a fare quello che fanno gli altri? Un tragico e impressionante fatto di cronaca può essere d’aiuto ad approfondire ulteriormente questo tema.

Il 18 novembre 1978 a Jonestown, in Guyana, 911 persone appartenenti

alla setta del Tempio del popolo si tolsero la vita. Si trattò di uno dei più

grandi suicidi di massa mai verificatisi. Come fu possibile? La setta era stata fondata dal predicatore statunitense Jim Jones, che nel corso degli anni era

riuscito ad accrescerne il numero di adepti e a creare tra essi una coesione tale da convincerli in massa a spostarsi di tanto in tanto all’interno degli

stati Uniti, ricostruendo ogni volta da zero la propria comunità. Le doti persuasive e carismatiche di Jones erano tali che egli era riuscito a convincere i suoi adepti non solo di essere in grado di fare miracoli (come le

guarigioni), ma anche, in alcuni casi, ad avere dei rapporti sessuali con lui.

Fu in seguito alle prime accuse di molestie sessuali mossegli che, per sfuggire alla giustizia, convinse più di mille persone a spostarsi in una nuova «terra promessa», la località di Jonestown appunto, da lui creata dal

nulla in mezzo alla giungla della Guyana e completamente isolata dal resto del mondo.

Su pressione dei parenti degli adepti della setta, un deputato del Congresso statunitense si recò in Guyana per capire cosa accadesse

realmente a Jonestown. Lì ricevette delle richieste di aiuto da parte di alcuni membri del Tempio del popolo che avrebbero voluto abbandonare quel posto. A quel punto Jones, sentendosi incastrato e senza via d’uscita, ordinò alle sue guardie del corpo di uccidere il politico assieme ad altri membri

della missione. Subito dopo, con un lungo discorso in cui prometteva un aldilà migliore della vita terrena, persuase i membri della sua setta ad assumere una bevanda al cianuro per togliersi la vita. Jones a sua volta si

tolse la vita sparandosi un colpo di pistola. I sopravvissuti al suicidio furono 122.

Come emerge anche dalla dettagliata ricostruzione della storia del Tempio del popolo contenuta nel documentario del 2006 Jonestomi. The Life and Death ofPeoples Tempie^ Jim Jones aveva indubbiamente una personalità

folle e diabolica, ma anche carismatica, autoritaria, persuasiva e

manipolatrice. Questi tratti del suo carattere, però, possono essere stati

persuasivi al punto da indurre tante persone a una scelta così estrema come

sacrificare la propria vita e quella dei propri cari (moltissimi furono infatti i

genitori che somministrarono la bevanda al cianuro ai propri figli anche neonati)? 0, forse, per spiegare questo atto di acquiescenza di massa, più

che agli effetti della persuasione e ai tratti manipolatori della leadership,

non bisogna guardare anche ad altri fattori?

Robert Cialdini sostiene che un ruolo centrale va attribuito al meccanismo psicologico della «riprova sociale». Questo serve principalmente a decidere quale sia il comportamento giusto da mettere in atto in una determinata

situazione e consiste nel «cercar di scoprire che cosa gli altri considerano

giusto».^^ In tal senso le opinioni e le azioni altrui acquisiscono un posto di

rilievo nella decisione di ogni singolo individuo. Il principio della riprova sociale

è

per esempio

particolarmente

appropriato

a spiegare

il

comportamento dei testimoni nelle situazioni di pericolo ed emergenza:

decidere se intervenire o meno in una determinata situazione o se prestare aiuto a qualcuno che ne abbia bisogno può infatti dipendere da cosa fanno gli altri presenti in quello stesso momento. Se questi intervengono, allora

ciò può voler dire che la situazione è grave e che necessita di un intervento, se invece non intervengono, questo può voler dire che la situazione non è

così seria e quindi che non è il caso di coinvolgersi in prima persona.

Secondo Cialdini, sarebbe stato proprio questo meccanismo a spingere centinaia di persone a togliersi la vita a Jonestown: questo atto di

acquiescenza agli ordini su larga scala si spiegherebbe proprio in quanto ogni membro della setta, isolato nella giungla dal resto del mondo e quindi da contatti e opinioni differenti da quelli condivisi nella propria comunità,

avrebbe cercato negli altri presenti al momento del discorso di Jones la

riprova sociale della giustezza dell’atto suicida a cui venivano spinti sia pure solo a parole. Più che ipnotizzati solo dalle capacità persuasive e

manipolatrici di Jones, secondo lo psicologo statunitense i membri della setta furono invece convinti sia dal carisma esercitato dal loro leader sia dai

comportamenti altrui: i primi a togliersi la vita, i più fanatici, furono infatti

imitati da tutti gli altri che, ordinatamente in fila uno dietro l’altro in attesa di assumere la bevanda letale, osservavano e, constatando una calma generale, reputavano che quello fosse effettivamente il comportamento

giusto da assumere. Differente è invece la visione di una serie di studiosi, tra cui Zygmunt

Bauman, che ritengono che la scelta di entrare a far parte di una setta, alla pari di quella di aderire ad altre forme di comunità molto tradizionali o integraliste, possa esprimere l’esigenza dell’individuo contemporaneo di

ritrovare in essa alcune certezze, valori, stabilità, serenità che nella società attuale, in cui tutto è fluido e in continuo cambiamento, sembrano ormai essere venuti meno. In sostanza, oggi la decisione di seguire un gruppo, un

leader, o una setta in modo incondizionato celerebbe soprattutto un desiderio individuale di sicurezza e una necessità di recuperare quei punti di riferimento apparentemente persi, almeno nell’ambito della società

occidentale

contemporanea

caratterizzata

all’individualizzazione sempre più forte.

da

una

spinta

Il quesito relativo alla spiegazione dell’acquiescenza individuale a leader

carismatici e della condivisione di alcuni valori, ideologie e visioni del mondo estreme, che spesso e volentieri sono anche palesemente assurde e

false, è strettamente connesso al tema della diffusione e deH’affermazione

delle credenze e dei movimenti collettivi. Invece di trovare una chiave esplicativa esclusivamente in fenomeni quali l’imitazione o il conformismo,

o negli effetti della tradizione, della cultura e della pressione sociale, a

partire dagli anni sessanta del secolo scorso nell’ambito delle scienze sociali si è diffuso un approccio alternativo, che ha rivalutato il ruolo attivo degli individui. Ciò è avvenuto soprattutto quando nei campus universitari

americani hanno cominciato a diffondersi le massicce mobilitazioni di

denuncia delle discriminazioni razziali e di genere, e della guerra del Vietnam. A questi movimenti collettivi all’epoca presero parte anche intellettuali, universitari e membri dei ceti medio-alti, e a molti sembrò

estremamente riduttivo interpretarli in termini irrazionalistici, sulla scia di una tradizione à la Le Bon che assegnava un ruolo esplicativo fondamentale ai processi di influenza sociale a scapito dell’autonomia e della volontà

individuale. Fu in tale contesto che il libro di Mancur Olson La logica deirazione collettiva venne accolto con grande successo. L’economista e

politologo statunitense propose infatti una lettura strettamente razionalista dell’adesione alle credenze e ai movimenti collettivi: secondo la sua ipotesi, gli attivisti sceglierebbero di mettere in atto i comportamenti più idonei a

soddisfare i propri interessi personali (acquisizione di competenze e informazioni importanti, responsabilità gratificanti, assistenza legale e così via).

Un ritorno dell’individuo caratterizza poi un altro approccio esplicativo,

quello cosiddetto «comprendente», che affonda le radici nel pensiero di Max Weber e che oggi trova una delle massime espressioni nella scuola di

pensiero inaugurata dal sociologo francese Raymond Boudon. In base a esso,

per spiegare raffermarsi e l’adesione alle credenze e ai movimenti collettivi si deve guardare alle giustificazioni che gli individui stessi possono avanzare

per motivare la propria scelta. Il tema della comprensione di questi meccanismi interni di giustificazione individuale delle proprie credenze viene affrontato per la prima volta da Boudon nel 1986 neH’ldeologia. Origine

dei pregiudizL^^ Egli parla in proposito di «buone ragioni» individuali per credere in quello in cui si crede (sia esso vero o falso), e una loro accurata

ricostruzione da parte dello scienziato sociale faciliterebbe dunque la

spiegazione e la comprensione di credenze e azioni, anche di quelle

apparentemente più estreme, come nel caso dei fanatici, in cui si arriva a

sacrificare la propria vita in nome di un’idea o di un valore. Condividendo questa visione, il sociologo francese Gerald Bronner spiega

per esempio come gli attentatori kamikaze deH’ll settembre 2001 non sarebbero stati vittime cieche di una passione irragionevole, di una malattia

mentale o di un misterioso determinismo sociale. I loro comportamenti

estremi possono al contrario essere decifrati seguendo una strada differente, che vada oltre la prima impressione di irrazionalità che si può

avere quando si osservano credenze e pratiche altrui che sembrano strane o che, addirittura, suscitano disapprovazione e condanna. È chiaro, spiega

Bronner, che il pensiero estremo e fanatico ispira spesso credenze e atti che,

agli occhi degli osservatori esterni, sembrano incarnare il male assoluto, e che quindi generalmente si preferisce classificare in termini di irrazionalità

incomprensibile, di psicopatologia, di inumanità. I pazzi e i sadici

ovviamente esistono ma, stigmatizza il sociologo francese, talvolta è difficile

o ardito ipotizzare che centinaia o migliaia di individui (come nel caso appunto delle sette suicide, o dei terroristi islamici, o dei nazisti durante la

seconda guerra mondiale) perdano tutti la ragione e la morale. Per fornire una spiegazione più soddisfacente diviene allora piuttosto

opportuno ricostruire l’universo mentale alla base delle determinanti delle credenze e dei comportamenti. Questo percorso di ricerca, sempre secondo

Bronner, va intrapreso tenendo presente che per comprendere le ragioni di

una credenza, per quanto falsa e assurda essa sia, non è corretto giudicare la

credenza come appare agli osservatori esterni (ai ricercatori, per esempio), bensì è opportuno focalizzarsi sul carattere graduale del processo della sua costituzione, in quanto ogni momento della formazione di una credenza nel

suo contesto può essere considerato ragionevole, sebbene la credenza nel suo complesso possa non esserlo. Così, per esempio, nell’ambito delle sette i nuovi adepti vengono iniziati prima a segmenti della dottrina che, se presa nella sua interezza, probabilmente sembrerebbe irragionevole. Poi, poco a

poco, idee più estreme e più discutibili verrebbero introdotte nell’ambito di

un ragionamento ciclico che riprende quanto gli adepti avevano accettato poco prima, ma che viene successivamente presentato sotto un’altra forma

con elementi nuovi, che così passano più facilmente inosservati e divengono

più difficilmente oggetto di riflessione critica e di eventuale rifiuto.

fino a che punto si spingono il conformismo e robbedienza? Riflessioni sul

fenomeno dell'acquiescenza volontaria agli ordini Tutti gli approcci teorici a cui si è fatto cenno poco sopra sembrano

aggiungere tasselli importanti alla luce dei quali comprendere e spiegare comportamenti

riconducibili

all’imitazione,

all’acquiescenza,

alla

sottomissione, all’obbedienza. È ancora una volta facendo riferimento a un

film che si possono cogliere ulteriori elementi di riflessione in questo ambito. Si tratta del tedesco L'onda, di Dennis Gansel (tratto da un omonimo

romanzo di Todd Strasser), che si ispira a un esperimento condotto nel 1967 in California. La storia è quella di un professore di scuola superiore che con i suoi

studenti affronta in aula il tema dell’autocrazia e pone un interrogativo: dopo tutto quello che è accaduto nel corso del secondo conflitto mondiale, nella Germania contemporanea sarebbe possibile una nuova dittatura? Gli

studenti sono assolutamente convinti che ciò non sarebbe possibile, ma il

professore, per dimostrare che si sbagliano, organizza un esperimento finalizzato a far capire come sia possibile manipolare gli individui.

Nell’ambito della classe viene scelto un leader, l’insegnante, che impone alcune regole: per parlare bisogna chiedere il permesso e alzarsi in piedi, quando l’insegnante entra in aula bisogna salutarlo tutti ad alta voce, l’abituale disposizione dei banchi deve essere cambiata, gli alunni e l’insegnante devono individuare una divisa che li renda tutti uguali; devono infatti arrivare a sentirsi un’unica entità imparando a marciare all’unisono e

dandosi un simbolo e un nome di riconoscimento (che viene appunto

individuato nell’onda). Gli studenti si lasciano coinvolgere interamente dal

progetto e cominciano a isolarsi dagli altri ragazzi che non condividono i loro

simboli

e

comportamenti sino ad assumere, talvolta,

anche

atteggiamenti intimidatori. Alla fine, però, la situazione sfugge di mano al

professore, che non riesce a evitare che la piccola dittatura che ha creato sfoci in conseguenze drammatiche. Quel che è interessante è che gli studenti del film di Gansel si convincono

sempre più della giustezza dei propri comportamenti, sia perché si

osservano a vicenda e trovano, proprio come sostiene l’ipotesi di Cialdini,

una «riprova» di tale validità nel fatto che tutti si comportano nello stesso modo, sia perché sono persuasi da un leader forte e carismatico

(l’insegnante). La trama della pellicola aiuta infatti a spostare l’attenzione sul tema dell’obbedienza volontaria a una fonte legittima di autorità. Un

ampio filone di ricerche nell’ambito delle scienze sociali muove dal presupposto secondo cui buona parte dei comportamenti di acquiescenza e obbedienza volontaria all’autorità, compresi quelli che possono implicare il

ricorso alla forza e alla violenza nei confronti di vittime innocenti, siano l’esito inevitabile di una pressione sociale esercitata dall’alto dalla fonte di influenza alla quale gli individui non possono sottrarsi.

Questa ipotesi coinvolge il problema delle responsabilità legali e morali che ogni individuo deve avere nei confronti dei propri comportamenti: se infatti si presume che un individuo abbia poca o nessuna autonomia di

reazione rispetto ad alcuni processi di influenza sociale (come appunto

quello

dell’obbedienza

all’autorità),

che

agirebbero

su

di

lui

indipendentemente dalla sua volontà, allora potrebbe essere lecito

deresponsabilizzarlo riguardo alle conseguenze delle proprie azioni.

Oppure, forse, è possibile e doveroso individuare una soglia massima di acquiescenza oltre la quale ci si aspetti un risveglio della coscienza individuale e si puniscano giuridicamente ed eticamente i comportamenti

volontari di obbedienza? Ancora una volta si tratta di un argomento delicato e dibattuto, che nell’ambito della ricerca sociale è stato affrontato privilegiando di volta in volta punti di vista differenti.

Diversi sono gli studiosi che hanno messo in luce come vi siano delle circostanze in cui l’etica e la libertà di azione individuali non riuscirebbero

ad avere la meglio su meccanismi e fonti di influenza sociali quali il

conformismo e gli ordini impartiti da un’autorità legittima. Si tratta, per esempio, di situazioni caratterizzate da condizioni, regole e ruoli sociali di

un certo tipo, da uniformizzazione tra gli individui e conseguente spersonalizzazione e anonimia, da deresponsabilizzazione rispetto ai propri

comportamenti, da disumanizzazione di alcuni particolari gruppi di individui o di vittime che in tal senso vengono resi privi di valore, dal bisogno di sentirsi approvati e accettati socialmente e così via.

In Uomini comuni Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, lo storico americano Christopher Browning ripercorre la storia del Battaglione 101,

un distaccamento della Polizia d’ordine tedesca durante il secondo conflitto

mondiale formato per lo più da padri di famiglia, operai, commercianti,

artigiani, reclutati per estrema necessità, abituati a una vita tranquilla e senza particolari inclinazioni alla guerra, al nazismo o a un fanatico

antisemitismo. Questo Battaglione di poco più di 500 uomini, che avrebbe dovuto essere di riserva, fra il 1942 e il 1944 ha eliminato (di persona o

deportandoli a Treblinka) circa 83 000 ebrei. In particolare. Browning riferisce nei dettagli l’episodio del massacro di Józefów, quando il 13 luglio

1942 gli uomini del Battaglione 101 entrarono in quel villaggio polacco, rastrellarono 1800 ebrei, ne selezionarono poche centinaia come lavoratori

da deportare e uccisero gli altri, donne, vecchi e bambini. Quel giorno, consapevole dell’atrocità della missione che gli era stata

ordinata dai superiori gerarchici e delle sue inaccettabili implicazioni morali, il comandante lasciò ai suoi uomini la libertà di scelta se defezionare

dagli ordini di massacrare la popolazione del villaggio o obbedire, ma la maggioranza degli uomini scelse la seconda opzione. Si trattò di un

incredibile atto di sottomissione volontaria all’autorità: ma come può essere spiegato? Secondo Browning gli uomini del Battaglione 101 non erano

mostri o fanatici nazisti ma, appunto, «uomini comuni» che divennero

feroci assassini per puro spirito di emulazione, obbedienza all’autorità in un clima di terrore, forte pressione del gruppo, desiderio di condividere lo

spirito di corpo, interesse a progredire nella carriera e adesione a un mondo in cui le loro vittime erano state precedentemente disumanizzate dalla

propaganda di regime. Ciò vorrebbe dire che qualsiasi uomo comune potrebbe, in determinate

circostanze, trasformarsi in carnefice di vittime innocenti. E questo è tanto più inquietante quanto più si considera che, negli eventi analizzati da

Browning, così come in quelli presi in considerazione in altri studi simili relativi alla seconda guerra mondiale e ad altri conflitti anche più recenti

(come il saggio dello storico Harald Welzer Les Executeurs. Des hommes normaux aux meurtriers de masse, in cui vengono passati in rassegna anche i casi del Rwanda e dell’ex Jugoslavia), diversi sono stati i casi in cui un

comandante o un superiore gerarchico ha dichiarato che l’eventuale rifiuto di partecipare a un eccidio di civili non avrebbe dato luogo a rappresaglie

personali nei confronti di chi, appunto, avesse scelto questa posizione. Nel suo libro Browning fa riferimento all’esperimento sull’obbedienza

condotto negli anni sessanta del secolo scorso dallo psicologo sociale

Stanley Milgram. Questi raggruppò un certo numero di volontari tra i 20 e i

50 anni, ai quali spiegò che avrebbero dovuto partecipare a uno studio sugli

effetti della punizione sull’apprendimento e la memorizzazione. Questi soggetti rivestivano il ruolo di «maestri» ai quali Milgram ordinava di «punire», con scariche elettriche via via più elevate, degli «allievi» per gli

errori che commettevano in test percettivi o mnemonici (gli allievi erano in

realtà complici di Milgram, le scariche elettriche finte e le manifestazioni di dolore simulate ad arte). Milgram mostrò come, di fronte alla scelta se disobbedire a una figura d’autorità o punire uno sconosciuto innocente, più del 65 per cento dei soggetti che egli riunì in contesto sperimentale avesse

scelto la seconda alternativa. Tuttavia, quando si domandava loro di valutare uno scenario immaginario simile, pochi reputavano che questo

comportamento fosse moralmente accettabile. Si videro così uomini comuni inviare agli allievi delle scariche elettriche di 75 volt e poi, nonostante i

lamenti di questi ultimi, degli shock di 150, 200 e anche 300 volt; e questo semplicemente perché lo sperimentatore diceva al maestro di turno che l’esperimento doveva proseguire per essere significativo, e che egli doveva cercare di impartire scosse elettriche sempre più forti per ottenere un

migliore rendimento da parte dell’allievo.

L’esperimento servì a Milgram per isolare alcuni fattori che egli riteneva centrali nel determinare il comportamento di sottomissione volontaria all’autorità: la legittimità dell’autorità (il fatto cioè che l’esperimento si

fosse svolto e fosse stato promosso da una università prestigiosa), la

distanza della vittima non soltanto fisica ma anche psicologica, che rende più agevole la sua spersonalizzazione (si riscontrò che l’obbedienza all’autorità

consistente

nell’impartire

le

scariche

diminuiva

considerevolmente quando la vittima si trovava nella stessa stanza del maestro, mentre aumentava quando l’allievo era posto in un’altra stanza), la vicinanza dell’autorità (la sottomissione era maggiore quando Milgram

sedeva accanto al maestro, diminuiva invece quando questi riceveva le istruzioni da una stanza vicina o per telefono), le caratteristiche personali

del soggetto (coloro che punivano di più tendevano a considerare la vittima

responsabile di quanto le stava accadendo in misura nettamente superiore rispetto a coloro che punivano di meno o non punivano affatto).

L’esperimento di Milgram è stato ripetuto in molte situazioni e culture differenti e, recentemente, esso ha addirittura ispirato un programma

televisivo francese, La Zone Xtréme, in cui un conduttore, tranquillizzando i partecipanti circa le loro personali responsabilità, chiedeva ai concorrenti

di impartire delle scariche elettriche a colleghi invisibili ma udibili (in realtà

attori che simulavano il dolore) qualora costoro avessero sbagliato le risposte a certi quiz. Sebbene il programma fosse stato concepito per

mettere in guardia dalle derive dei reality show, esso ha in realtà replicato l’esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità.

All’epoca di Milgram il fenomeno dell’obbedienza all’autorità assunse

rilevanza soprattutto in quanto, quasi contemporaneamente, nell’aprileluglio 1961, avveniva il processo nei confronti del gerarca nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme, dopo il suo arresto e l’estradizione da Buenos

Aires. Tra i principali esecutori dell’olocausto e responsabile della morte di

centinaia di migliaia di persone, Eichmann costruì la propria strategia difensiva sostenendo di non essere perseguibile per i crimini commessi

contro gli ebrei nel corso del secondo conflitto mondiale in quanto, all’epoca, egli si sarebbe «solo» limitato a eseguire degli ordini provenienti

da un’autorità superiore. Come scrive nel volume La banalità del male.

Eichmann a Gerusalemme la filosofa tedesca Hannah Arendt, che per il «New Yorker» aveva seguito il processo come cronista, con le sue parole nel corso del processo egli lasciava intendere che «avrebbe ucciso anche suo padre, se qualcuno glielo avesse ordinato». Eichmann non si riconosceva colpevole di

omicidio in quanto aveva solo obbedito agli ordini di Hitler che, all’epoca, avevano «forza di legge». Non si giudicava nemmeno «sordido e indegno» e, riferisce la Arendt, «non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non

avesse fatto ciò che gli veniva ordinato - trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte - con grande zelo e cronometrica

precisione».^^

I giudici, però, non credettero alla versione di Eichmann e lo giudicarono

un bugiardo in quanto di fatto, spiega la Arendt, non ammisero la possibilità che una persona normale potesse non distinguere il bene dal male. In realtà - questa è la celebre tesi sostenuta dalla filosofa -, paradossalmente

Eichmann era normale in quanto tra i tedeschi della Germania nazista non costituiva una eccezione, perché in quel contesto solo le eccezioni potevano

assumere comportamenti normali. Secondo la Arendt, se la difesa assunta da Eichmann fosse stata vera, allora si sarebbe dovuta ammettere la

possibilità di una «banalità del male», ovvero l’idea in base alla quale ogni

individuo normale potrebbe perdere la propria autonomia decisionale sino

al punto di trasformarsi in un mostro, nel momento in cui fosse sottomesso all’influenza di un’autorità a lui superiore nell’ambito di un apparato statale

totalitario che annienta ogni pensiero difforme e radicalizza alcune visioni estreme. La tesi sulla banalità del male sembrerebbe trovare conferma proprio negli studi di Milgram così come, dopo di lui, in quelli di Philip Zimbardo, Albert Bandura e molti altri ricercatori che hanno attirato l’attenzione sulla

comprensione di alcuni meccanismi psicologici e sociali che, a loro giudizio, in certe situazioni possono spingere uomini comuni a seguire quasi

ciecamente gli ordini provenienti da fonti di autorità superiori, sino al punto di arrivare a mettere in atto delle condotte moralmente deprecabili e condannabili. D’altro canto, in una celebre analisi sull’olocausto i due studiosi George Kren e Leon Rappoport hanno avanzato la tesi secondo cui

al massimo il 10 per cento delle SS avrebbe potuto essere caratterizzato da una personalità sadica e malvagia, ma in linea generale, anche in base alle

testimonianze dei sopravvissuti ai campi di concentramento, la gran parte di loro, pur non essendo certo rispettabile, era piuttosto normale dal punto di vista psichiatrico.

Nel 1971 all’università di Stanford lo psicologo sociale Philip Zimbardo

realizzò un esperimento in cui avrebbe dovuto osservare per due settimane degli studenti normali, sani di mente e senza disturbi psicologici, che

avrebbero adottato il ruolo di prigionieri o di guardie carcerarie in una

prigione fittizia. L’esperienza fu interrotta nel giro di una settimana in quanto le false guardie si trasformarono rapidamente in veri torturatori,

desiderosi di far rispettare con ogni mezzo le regole del carcere. Zimbardo

trovò così conferma di quello che in tempi più recenti egli ha chiamato r«effetto Lucifero», ovvero l’ipotesi che in determinate situazioni

straordinarie, qualora si trovino ad assumere ruoli che richiedono o

giustificano certi comportamenti richiesti da un’autorità (sia essa un superiore gerarchico militare o un ricercatore che conduce un esperimento universitario o altro ancora), tutte le persone comuni, in base a normali

processi psicologici, possono potenzialmente trasformarsi in uomini cattivi e diabolici, luciferini appunto, in quanto sarebbe il contesto a indurli a fare del male: «Le situazioni sociali possono avere sul comportamento e sul

funzionamento mentale di individui, gruppi e leader nazionali effetti più

profondi di quanto non crederemmo possibile. Alcune situazioni possono esercitare un’influenza così potente su di noi da indurci a comportarci in

modi che non avremmo previsto, che non avremmo mai potuto prevedere».22 Sarebbe proprio questo meccanismo, il «potere situazionale», a spiegare

molti episodi in cui, proprio come nell’esperienza di Milgram o nel

resoconto di Browning, degli uomini normali senza particolari patologie si trasformano in spietati carnefici. Il caso più celebre, ampiamente studiato da Zimbardo, è forse quello avvenuto nel 2004 nel carcere iracheno di Abu

Ghraib, in cui dei militari statunitensi si sono trasformati in aguzzini a

danno di alcuni prigionieri, che venivano fotografati mentre dovevano sottostare a torture e sevizie fisiche e psicologiche.

Ma se l’effetto Lucifero fosse vero, e fossero solo il contesto e alcuni

meccanismi e ruoli sociali a determinare molti comportamenti riconducibili

al male, allora forse la difesa di Eichmann potrebbe essere ammissibile e la

sua colpevolezza sminuita. In realtà, recentemente numerosi studi hanno

messo in luce come Eichmann non fosse semplicemente un funzionario scrupoloso e obbediente vittima del proprio senso del dovere, bensì uno zelante

adepto

dell’antisemitismo

hitleriano.

Ciò

vorrebbe

dire,

sottolineano in molti, che, al di là delle esperienze in laboratorio, i peggiori criminali, aguzzini e torturatori sono in realtà spesso coloro che

condividono con costanza determinate convinzioni ideologiche e credenze

estreme, e sono per lo più privi di empatia nei confronti degli altri. Insomma, ricondurre i comportamenti di acquiescenza cieca all’autorità alla

sola forza deterministica esercitata da quest’ultima nell’influenzare gli altri costituisce probabilmente una chiave esplicativa solo parziale. Cè chi dice no!

Il film tedesco del 2006 Le vite degli altri, del regista Florian Henckel von

Donnersmarck, narra la storia di un agente della Stasi, la polizia segreta

della Germania dell’Est ai tempi della divisione dell’Europa in blocchi, che viene deputato dal ministro della Cultura a spiare giorno e notte con

microfoni e microspie due artisti, un drammaturgo e un’attrice che appartengono all’élite intellettuale senza condividere pienamente il regime.

L’agente segreto viene però gradualmente affascinato dalla vita della

coppia, dalla bellezza dell’arte, delle relazioni umane e dell’amore liberi al punto che da un certo momento in poi capisce quanto sia odioso e ingiusto il

proprio compito, contravviene all’ordine di spiare i due e inizia anche a

proteggerli dall’azione persecutrice del regime, nascondendo ai suoi superiori ciò che realmente avviene nella casa dei due artisti frequentata da

intellettuali dissidenti. La vicenda raccontata nel film veicola un messaggio positivo: è possibile che anche degli esecutori sottomessi all’autorità possano tornare ad acquisire un’autonomia di giudizio e di scelta rispetto a

essa, fino a ribellarvisi. Nel 1944 il commerciante italiano di carne bovina Giorgio Perlasca si trova a Budapest quando le truppe tedesche entrano in Ungheria e

cominciano anche lì a sterminare la popolazione ebrea. Perlasca si finge un

funzionario dell’Ambasciata spagnola, allora paese neutrale, e riesce a individuare dei rifugi e a consegnare quanti più salvacondotti possibili salvando la vita di oltre 5000 ebrei. Questo personaggio eroico, che dopo la guerra fu completamente dimenticato e riscoperto solo quarant’anni più

tardi, interrogato circa le motivazioni che lo avevano spinto a rischiare la propria vita per aiutare tante persone aveva risposto che «non avrebbe

potuto fare altrimenti». Ma quello di Perlasca non è certo un caso isolato, anche in contesti di guerra. Sempre nella seconda guerra mondiale si colloca per esempio la celebre vicenda dell’imprenditore tedesco Oskar

Schindler, che a sua volta salvò centinaia di ebrei dallo sterminio con il pretesto di impiegarli come personale presso la propria fabbrica di Cracovia

impegnata nello sforzo bellico. Ma come spiegare che, oltre a coloro che compiono delle azioni eroiche in

prima persona, ci sia poi chi dice no rifiutandosi di obbedire e di sottomettersi agli ordini di un’autorità superiore o a un sistema più

generale? Il sociologo Philippe Breton ha sottolineato come, quando si

studiano i comportamenti nocivi o violenti che scaturiscono dall’obbedienza all’autorità, non sia sufficiente considerare solo tre categorie di individui,

ovvero le vittime, gli esecutori ciecamente sottomessi a una gerarchia

disumanizzata, e i resistenti che si oppongono all’autorità rischiando la propria vita e compiendo atti eroici. Esisterebbe infatti una quarta categoria

di individui, quella di coloro che pur senza partecipare attivamente a una

qualche forma di resistenza, rifiutano però di prendere parte ad azioni

violente come la perpetrazione di un massacro, e ciò malgrado il fatto che la

propaganda e l’ideologia del sistema in cui vivono possa legittimare il loro eventuale coinvolgimento.

Secondo Breton il comportamento dell’esecutore obbediente e quello di

colui che si rifiuta di adempiere agli ordini superiori sarebbero da spiegare alla luce dello stesso criterio di razionalità, in quanto in entrambi i casi si

tratterebbe di azioni che seguono a un ragionamento. Ciò implicherebbe, di conseguenza, che si possa attribuire una responsabilità personale, sia morale sia penale, a colui che mette in atto il comportamento volontario che scaturisce da un’accettazione o da un rifiuto di ordini superiori o di

determinati sistemi di regole e norme. In sintonia con Zimbardo, Breton ritiene che raramente le persone compiano il male in modo deliberato

perché amino farlo, ma, a differenza di Zimbardo che dà molto peso al

contesto, egli pensa che libero arbitrio e razionalità giochino un ruolo centrale nel determinare il comportamento umano e che, pertanto, si sia

disposti a uccidere o a torturare altri individui solo se si hanno sufficienti

ragioni per farlo o, meglio, come direbbe Boudon, delle «buone ragioni per giustificare i propri comportamenti (per esempio l’esigenza di sicurezza,

la minaccia costituita dalle vittime, l’utopia di un mondo migliore ecc.). La razionalità dell’azione assume in tal senso solo un connotato oggettivo,

in quanto un comportamento (sia esso di obbedienza o di rifiuto) si fonda su delle ragioni che lo giustificano innanzitutto agli occhi di colui che lo mette

in atto. E tra le ragioni che motivano un rifiuto di obbedienza vi è il fatto,

spiega sempre Breton, che si può essere poco abituati all’uso della violenza o

il fatto che si possa essere più semplicemente dotati di un chiaro sentimento empatico nei confronti altrui. E quanto sia importante quest’ultimo per la

convivenza sociale lo si vedrà proprio nel prossimo capitolo.

3. L’enigma della cooperazione e Pintreccio tra interessi

individuali, norme sociali, etica ed evoluzione Perché si coopera con gli altri? La prospettiva razionalista Il tema dell’obbedienza e degli eventuali conflitti etici che possono

scaturirne è strettamente connesso con quelli dell’empatia, dell’altruismo e,

più in generale, della cooperazione con gli altri. Dato che obbedire volontariamente a un’autorità o a un sistema generale di norme sociali

vuole di fatto dire cooperare con essi, e che anche disobbedire a degli ordini per aiutare altri individui a sfuggire a ritorsioni, punizioni, persecuzioni è

una forma di comportamento cooperativo, è bene partire proprio dal

problema dell’insorgenza della cooperazione, ovvero del perché gli esseri umani spesso e volentieri cooperino tra loro. Si tratta di un tema centrale per le scienze sociali perché è solo grazie alla

cooperazione tra gli individui che la società può stare in piedi con tutto il

suo apparato di norme, regole, istituzioni. A ciò va aggiunto che, in controtendenza

con

individualizzazione

la

gli

studi

specificità

che

identificano

contemporanea

nel del

processo

rapporto

di tra

l’individuo e la società, in tempi recenti il tema della cooperazione sociale

sembra aver guadagnato terreno nell’ambito della ricerca sociale:

dall’analisi di un individuo libero, autonomo dai vincoli sociali e sempre più teso ad autodeterminarsi e a costruirsi una propria identità a tutti i costi differente da quella altrui, si sta progressivamente passando alla riscoperta

di forme di collaborazione, di altruismo e di empatia che sembrano avere

caratterizzato l’essere umano sin dalle sue origini. Un primo modo di affrontare queste tematiche è quello riconducibile al

cosiddetto modello dell’homo oeconomicus e alla relativa visione economica della razionalità dell’azione umana. Si tratta di un approccio che è stato ed è tuttora centrale nell’ambito della ricerca sociale e che sposa in pieno una

visione metodologica individualista in quanto muove dal presupposto che gli individui siano liberi di scegliere e di agire in base al proprio

ragionamento e alla propria volontà e, quindi, totalmente svincolati da qualsivoglia forma di determinismo sociale o biologico. Il comportamento cooperativo viene in tal senso considerato frutto di scelte individuali. È una

visione in parte riconducibile ad alcune intuizioni dei padri dell’utilitarismo in economia, Jeremy Bentham e John Stuart Mill, i quali, a cavallo tra XVIII e

XIX secolo, avevano concepito una dottrina morale secondo cui l’uomo agirebbe solo in base a una sorta di «aritmetica dei piaceri», ossia per

massimizzare i propri interessi personali. Nel modello deU’homo oeconomicus

il comportamento individuale viene infatti concepito principalmente come l’esito di valutazioni, misurazioni e calcoli razionali dei costi e dei benefici

(o dell’utilità) legati alle possibili alternative di azione a disposizione di chi

agisce in vista del raggiungimento di un determinato fine. In particolare, il

modello in questione assume, tra l’altro, che il calcolo costi-benefici avvenga alla luce di una informazione perfetta dell’agente circa le

alternative a disposizione e le loro possibili conseguenze, comprese le

probabilità di occorrenza nel caso di un contesto rischioso o incerto. Gary Becker, premio Nobel per l’economia nel 1992, è forse oggi uno dei

più convinti difensori di questo modello in ambito microeconomico. Da

decenni, ormai, egli applica la logica del calcolo dei costi e dei benefici non solo all’ambito strettamente economico, ma anche a quello della famiglia

(ovvero, tra l’altro, alla scelta di sposarsi, di avere dei figli, di divorziare),

della tossicomania, del tabagismo, della delinquenza, dei comportamenti sociali di tipo morale. In A Treatise on thè Family, Becker espone per esempio

la sua teoria relativa al numero di bambini per famiglia. Se i bambini fossero solo frutto dell’amore, sottolinea l’economista, il loro numero sarebbe proporzionale al desiderio dei genitori. Ma in realtà oggi tutti i genitori

calcolano costi e benefici prima di decidere se avere un altro figlio (costi del

baby-sitting, dimensioni dell’abitazione, opportunità di carriera ecc.). Nell’ottica del modello dell’homo oeconomicus la genesi della cooperazione può essere spiegata in base a meccanismi di coordinamento tra gli individui rispetto alle norme presenti in un dato contesto sociale. Per capire questo

punto basta ricorrere a un esempio elementare: la scelta del senso di guida nelle strade. Ogni guidatore ha interesse a cooperare con gli altri guidatori

rispettando la norma che, nell’ambito di ogni paese, stabilisce il senso di marcia. Deviare da tale norma da soli, infatti, può essere costoso dal punto di vista individuale non solo per la propria incolumità fisica, ma anche perché capovolgere una norma una volta che questa si è affermata è

estremamente difficoltoso. Ecco dunque che in questo caso la scelta individuale di cooperare con gli altri è l’esito di un calcolo costi-benefici

motivato dalla preferenza e dall’interesse personale a conformarsi alla norma condivisa socialmente.

Sempre in base al modello in questione, Vorigine e raffermarsi di forme cooperative tra gli individui possono anche essere spiegati muovendo

dall’ipotesi che nell’ambito della società ognuno abbia interesse a cooperare con gli altri per evitare le sanzioni associate alla eventuale defezione dalla

cooperazione. È importante notare che il sanzionamento può operare anche a un livello puramente virtuale: la sola minaccia della sanzione può infatti

agire su meccanismi psicologici individuali riconducibili al desiderio di essere o di apparire onesti, ligi alle regole, collaborativi e rispettosi degli

altri, di dimostrare fiducia e lealtà, di evitare il disagio associato alla colpa, alla maleducazione, alla vergogna o alla disapprovazione sociale. Secondo

questa logica ogni individuo, in sostanza, avrebbe per esempio interesse a

non gettare spazzatura o cartacce in strada per evitare una sanzione, non solo pecuniaria, ma anche morale da parte di eventuali testimoni oculari del

suo atto. L’emergere della cooperazione sociale può poi essere spiegato da una

prospettiva razionalista in senso economico anche tenendo conto di una visione temporale complessiva, ipotizzando cioè che a lungo termine la ripetizione di una certa situazione comporti la creazione di una serie di

norme implicite riconducibili a un principio di reciprocità in grado di

stimolare gli individui a seguire dei comportamenti di lungo periodo di tipo

cooperativo. Ciò avverrebbe proprio in quanto, sapendo che la cooperazione sul lungo termine è più vantaggiosa per tutti, nessuno avrebbe interesse a

ingannare gli altri comportandosi da free rider (letteralmente, «passeggero clandestino»), ovvero sfruttando i benefici dei comportamenti cooperativi

altrui senza contribuirvi. Lo scienziato della politica Robert Axelrod, che ha ampiamente studiato questo tipo di dinamiche, ha messo in luce come molti

comportamenti cooperativi messi in atto nella guerra di trincea durante il

primo conflitto mondiale fossero basati su una logica di cooperazione

reciproca (per esempio la norma di non sparare durante l’ora dei pasti). Strettamente razionale o genuinamente ragionevole? Il comportamento individuale di fronte alla quotidianità

Le caratteristiche principali dell’homo oeconomicuSj ossia la razionalità

economica e l’interesse personale, sono state ampiamente criticate. In particolare, molti autori sottolineano come il modello sia solo in grado di

prescrivere il comportamento ottimale che un individuo razionale dovrebbe seguire per massimizzare i propri interessi, ma non di descrivere le azioni che realmente vengono messe in atto nella quotidianità. Esso si è dovuto confrontare con una serie di paradossi che mettono bene in luce come i

comportamenti individuali siano spesso e volentieri lontani dalla logica del calcolo e dalla concezione economica della razionalità che sottende.

Contrariamente a quanto sostenuto dal modello, gli individui hanno spesso a disposizione solo un’informazione incompleta della situazione in cui si trovano ad agire, oppure la loro percezione, il loro ricordo e la loro

valutazione delle condizioni e delle alternative di azione a disposizione

possono essere distorti e non rispondere a quei criteri di coerenza o di

razionalità che esso impone. È stato proprio prendendo atto di queste difficoltà che, ormai già molto

tempo fa, il premio Nobel per l’economia Herbert Simon ha proposto un

nuovo modello di azione umana, definito della «razionalità limitata», secondo cui in situazioni reali gli individui cercherebbero delle soluzioni

non ottimali, bensì solo soddisfacenti e ragionevoli in base alle informazioni parziali a disposizione, alle capacità di calcolo limitate di cui godono, e ai

costi associati alla raccolta delle informazioni necessarie per mettere in atto l’azione migliore. Se, per esempio, si compra un computer, generalmente nella scelta tra più modelli non si riesce a prenderne in considerazione tutte

le caratteristiche possibili (capacità di memoria, velocità, dimensione ecc.) e

non si riesce nemmeno a valutarne oggettivamente il valore relativo. La

mancanza di un’informazione completa può far sì che si possano

commettere degli errori e che si prendano decisioni che, pur non essendo le migliori in assoluto e le più strettamente razionali, sono però ragionevoli. Si può così decidere coscientemente di chiedere consiglio a un amico che

conosce bene i computer o di imitare il comportamento di qualcuno che si trova in una situazione simile.

Ormai da alcuni decenni, parte degli psicologi, degli economisti e dei sociologi ha unito i propri sforzi per identificare alcuni degli errori più

comuni compiuti dagli individui al momento della valutazione e dell’azione. Un’ampia letteratura sperimentale ha messo in luce come questi errori, o

ostacoli alla razionalità economica, siano davvero numerosi, frequenti.

ripetuti e dunque normali o, detto con altre parole, ragionevoli. Attraverso un gran numero di lavori sperimentali, gli psicologi cognitivi Daniel Kahneman (anch’egli premio Nobel per l’economia, nel 2002) e Amos

Tversky hanno sostenuto che gli effetti della razionalità limitata sarebbero da ricondurre a una serie di bias o errori cognitivi che scaturirebbero da

ragionamenti basati su euristiche o strategie cognitive apparentemente affidabili ma, in realtà, spesso fallaci e poco razionali in termini economici. Il filosofo norvegese Jon Elster ha dal canto suo messo in luce come gli

individui abbiano spesso grandi difficoltà ad agire conformemente a

preferenze chiare. Egli ritiene però che vi siano delle tecniche alle quali tutti possono ricorrere per contrastare le debolezze della propria volontà.

L’esempio più noto è quello della vicenda di Ulisse. In Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e rirrazionalità, Elster ripercorre il mito dell’eroe

greco alla luce dell’idea di razionalità. Ulisse è a conoscenza del fatto che nel corso della sua navigazione nel Mediterraneo lungo la costa dell’Italia

meridionale incontrerà le sirene. Queste con il loro canto avrebbero ammaliato i marinai, i quali avrebbero spinto le navi troppo vicino alla costa rocciosa al punto da farle fracassare contro di essa. Preavvertito dalla maga

Circe, Ulisse anticipa che anche lui e i suoi compagni quando sentiranno il

canto delle sirene vorranno avvicinarsi sempre di più a questa irresistibile melodia. Decide così di far tappare le orecchie dei suoi uomini con la cera e

lui stesso si fa legare all’albero della nave, ordinando ai compagni di non liberarlo per alcun motivo. Secondo Elster, Ulisse è un individuo ragionevole in quanto ha anticipato correttamente il futuro, sapendo che

avrebbe potuto comportarsi in modo irrazionale, ossia abbandonarsi al canto delle sirene. Il filosofo norvegese ritiene che tutti gli esseri umani mostrino spesso debolezza di volontà o acrasia, dovuta tra l’altro all’effetto delle passioni,

delle tentazioni, della procrastinazione (ovvero la tendenza a rimandare a più tardi quello che si dovrebbe fare nell’immediato), della dipendenza (per esempio

dal

gioco,

dai

videogiochi,

dal

sesso,

dagli

acquisti),

dell’impazienza. Tuttavia, anche quando si è deboli di volontà, si può essere

in grado di riconoscerlo e di elaborare delle strategie per anticipare tale debolezza e salvaguardarsi da essa.

Tra i fattori studiati anche da Elster che si contrappongono spesso alla

volontà umana e che interagiscono con un calcolo corretto dei costi e dei

benefici dell’azione, vi è proprio quello temporale. Si parla infatti di «sconto

iperbolico del futuro» quando si tende a non valutare nello stesso modo

guadagni e perdite a seconda che siano vicini o lontani nel tempo.

L’esperimento classico in questo ambito consiste nell’offrire a degli individui una scelta tra 10 euro subito o 14 euro domani. Una buona parte degli individui preferisce i 10 euro subito. Poi gli viene offerta un’altra scelta, ricevere ancora 10 euro tra tre mesi o 14 euro tra tre mesi e un

giorno. Questa volta tutti optano per i 14 euro, sebbene l’arco temporale che divide i due versamenti di denaro sia lo stesso. Questo effetto viene

considerato una sorta di miopia che fa percepire differentemente il tempo a seconda

che

sia

qualitativamente

vicino diverso

o

lontano,

dal

primo,

come e

se

aiuta

a

quest’ultimo

fosse

descrivere

molti

comportamenti anche legati alla quotidianità, come la tendenza a rimandare il fare alcune cose utili ma noiose, o la dipendenza dal tabacco e dalle droghe. Questi e altri tipi di studi hanno alimentato il filone di ricerca dell’economia e della finanza comportamentale e, in tempi più recenti, delle

neuroscienze cognitive e della neuroeconomia. Su questa scia si collocano, per esempio, i lavori di Vernon Smith (premio Nobel per l’economia nel

2002), che ha contribuito a far nascere proprio la neuroeconomia muovendo

dalla critica alla visione economica della razionalità e all’ipotesi che gli

esseri umani facciano sempre ricorso a processi cognitivi deliberati e

coscienti, e sostenendo, al contrario, l’ipotesi che il cervello umano funzioni in base a regole e norme inconsce di tipo neuropsicologico. Come spiega nella Razionalità neireconomia, queste regole consentirebbero agli individui

di elaborare i dati necessari per reagire rapidamente agli stimoli ambientali

e riuscire quindi a sopravvivere senza dover affrontare ragionamenti complessi e articolati. Lo scienziato cognitivo Gerd Gigerenzer, per esempio, ha proposto una

sua interpretazione evolutiva delle euristiche che egli considera, appunto, parte di una sorta di cassetta degli attrezzi evolutiva, «semplici meccanismi, adattati evolutivamente al mondo in cui viviamo».^ Un esempio è l’euristica del riconoscimento, ovvero una strategia fondata sull’ipotesi che ciò che si

conosce debba essere classificato a un livello superiore rispetto a ciò che è

ignoto. Così, per esempio, una persona che si conosce probabilmente non è

un nemico; un cibo conosciuto probabilmente non è velenoso; in un bosco la

ricerca di sentieri riconosciuti può ricondurre a casa... Nella quotidianità

questa euristica viene per esempio utilizzata quando, facendo la spesa al

supermercato e dovendo scegliere tra un gran numero di prodotti simili, si

tende a preferire quello del quale si conosce o si ricorda la marca, perché si reputa che il fatto che non sia totalmente sconosciuto possa costituire una

garanzia della sua bontà. Evidentemente, come hanno mostrato molti studi in questo ambito, è facile capire che questa strategia in alcuni casi può

facilmente indurre in errore, e far scegliere un prodotto al posto di un altro non certo in base alla qualità, ma solo in quanto se ne riconosce la marca.

Ciò farebbe in sostanza pensare che le risposte emotive umane agli eventi della vita siano spesso più appropriate alle piccole bande di cacciatori-

raccoglitori in cui l’uomo si è evoluto, che ai milioni di persone a cui oggi è unito il destino dell’essere umano nelle grandi società complesse in cui vive.

Attraverso lo studio di casi tratti dalla quotidianità, alcuni recenti lavori dello psicologo ed economista comportamentale Dan Ariely, tra cui Prevedibilmente irrazionale. Le forze nascoste che influenzano le nostre decisioni,

mostrano come i comportamenti economici quotidiani violino la razionalità del calcolo economico e come gli interessi individuali siano spesso influenzati da altri fattori quali le norme sociali e morali e le emozioni, tra

cui l’ottimismo, l’invidia, la tristezza, l’altruismo, il desiderio di riconoscenza. Ariely spiega per esempio come le emozioni svolgano un ruolo importante nei comportamenti di acquisto. Egli sostiene che la gran parte dei beni di consumo sono concepiti e presentati per suscitare negli

acquirenti delle reazioni emotive, come le donuts (quelle ciambelline

americane che si trovano in tutti i negozi negli Stati Uniti), che sono fatte e presentate in modo tale da suscitare il desiderio di dolci dei golosi. Ciò,

secondo Ariely,

aiuterebbe

a

capire

perché

in un supermercato

generalmente si comprano molte più cose di quante non se ne abbia

realmente bisogno. Tutto ciò è molto lontano dal comportamento ottimale che dovrebbe assumere un consumatore economicamente razionale,

caratterizzato invece dal confronto tra le diverse offerte, dalla scelta del prodotto in base alla valutazione di tutte le sue caratteristiche e al calcolo dei rispettivi costi e benefici, e dall’acquisto di quello più in grado di

soddisfare i propri bisogni o desideri. Neuroscienziati e psicologi spiegano dunque come i comportamenti di acquisto siano spesso influenzati sia da fattori esterni (rumori, musica.

odori, colori, illuminazione ecc.) di cui l’individuo non è consapevole (per esempio nel caso dell’eccesso di informazioni e di beni che, come si è detto,

secondo alcuni autori tra cui Renata Salecl e Sheena lyengar, nell’ambito

della società contemporanea paralizza a sua insaputa il consumatore, il quale, pur credendo di godere di molta più libertà di scelta rispetto al

passato, è in realtà spesso impossibilitato a scegliere), sia da sensazioni, sentimenti ed emozioni. A tale proposito si può citare uno studio condotto dal neuroscienziato

Read Montagne e battezzato la «sfida della Pepsi», che si riallaccia a un esperimento in cui a delle persone veniva chiesto di esprimere una

preferenza tra la Coca-Cola e la Pepsi-Cola e la maggioranza dei soggetti sceglieva la prima. Tuttavia, se li si bendava e si facevano loro assaggiare le

due bibite senza rivelare le rispettive marche, dichiaravano di preferire la

Pepsi. Come mai questa contraddizione? Per scoprirlo Montagne rifece appunto l’esperimento sottoponendo a risonanza magnetica funzionale (fMRl) il cervello dei soggetti. Con questo tipo di tecnica, al momento della

degustazione bendata si può constatare che una parte precisa del cervello, il putamen, reagisce molto di più quando gli individui bevono la Pepsi e molto meno quando bevono la Coca. Il putamen è la sede dei piaceri immediati,

istintivi. Cosa succede invece quando i soggetti sanno la marca della bibita che bevono? Incredibilmente dichiarano di preferire il gusto della Coca-Cola

e in questo caso il putamen non viene affatto attivato, mentre si attivano la

corteccia prefrontale e l’ippocampo, ossia le aree associate alla coscienza e alla memoria. Ciò mostra dunque come il gusto possa essere ininfluente nella scelta e nella preferenza degli individui, ma come a contare sia solo la

potenza della marca (in questo caso della Coca-Cola). La cosa più incredibile è che il risultato dell’esperimento resta valido anche se nei due casi i soggetti di fatto bevono sempre la Pepsi.

La disciplina del neuromarketing tende in generale a mostrare che nelle

scelte di consumo i centri del desiderio e delle emozioni sono più sollecitati dei centri del ragionamento e, sulla scia di un approccio in parte simile a

quello comportamentista di John Watson, studia dunque come associare l’acquisto a questi fattori sensibili piuttosto che agli argomenti logici. Va

però sottolineato, come hanno fatto tra gli altri lo psicologo Paolo Legrenzi e il neuropsicologo Carlo Umiltà in Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, che le applicazioni delle tecniche di cui si serve questa disciplina.

come d’altronde quelle delle neuroscienze più in generale, sono talvolta

ancora poco convincenti. Dalla logica deirinteresse a quella della reciprocità: quando cooperare non

comporta vantaggi e può addirittura essere costoso Tornando alle critiche al modello deU’homo oeconomicus, molte di esse sono rivolte specificamente all’ipotesi dell’interesse personale concepito

come unico motivo alla base dell’azione. Queste mettono in evidenza come

in realtà esistano altre componenti motivazionali che giustificano i

comportamenti umani che possono essere in contrasto con l’interesse personale, quali l’altruismo o il senso del dovere, l’empatia con gli altri, o

alcuni istinti come la fame, la sete, la curiosità. Per esempio, è interessante considerare le situazioni in cui gli individui agiscono in modo cooperativo in base alla norma della reciprocità anche quando ciò va contro il proprio

interesse personale, non comporta alcun vantaggio e può addirittura essere costoso. Nella vita quotidiana si trovano molti esempi di comportamenti motivati

dalla reciprocità: alcuni studi psicologici hanno messo in luce come una cameriera sorridente riceva molte più mance di una cameriera meno

amichevole, o come dei favori inaspettati generalmente creino sentimenti di obbligo psicologico che inducono a ripagare il favore (è il principio alla base

della distribuzione di campioni prova gratuiti nei supermercati, che inducono i clienti ad acquistare il prodotto). Si tratta dello stesso

meccanismo che è poi alla base del potlatchj pratica divenuta famosa grazie

agli studi di antropologi come Marcel Mauss e Franz Boas, che hanno descritto quella forma particolare di scambio di doni, diffusa in molte tribù

degli indiani d’America e in diverse etnie dell’oceano Pacifico, tale per cui chi riceve un dono sarà in debito d’onore nei confronti di chi glielo ha

offerto, e il debito sarà tanto più grande quanto più bello e costoso sarà stato il regalo.

Gli esperimenti di due economisti di Zurigo, Ernst Fehr e Simon Gachter, hanno dimostrato che gli individui che ricevono un trattamento cortese o

generoso anche da parte di estranei, vi rispondono comunque con cortesia o generosità anche nel caso in cui per loro possa essere costoso. Essi hanno

inoltre rilevato una tendenza sistematica degli individui a ripagare un

comportamento scortese o ingeneroso con un comportamento analogo, anche se questo non apporta alcun beneficio sul piano personale. Si

tratterebbe di comportamenti che non sono affatto motivati dall’intenzione di perseguire interessi o vantaggi per se stessi, bensì da componenti di tipo affettivo-emotivo.

Si consideri una situazione ipotetica in cui occorre suddividere un bene,

per esempio una somma di 10 euro, tra due individui. Uno dei due (che si può definire «proponente») deve dare l’ultimatum all’altro giocatore

(«controparte»), cioè fargli una proposta di suddivisione. Quest’ultimo può solo accettare o rifiutare la proposta: se l’accetta, il proponente ottiene

quello che chiede e lui quello che resta, se la rifiuta nessuno ottiene nulla. In teoria, dei giocatori economicamente razionali dovrebbero sempre offrire la

somma più bassa possibile (quando rivestono il ruolo di proponenti) e

accettarla (quando sono nei panni della controparte). Numerosi esperimenti hanno però mostrato che, posti davanti a una simile scelta, i proponenti che

offrono alla controparte meno del 30 per cento della somma vengono

rifiutati con una probabilità molto elevata e che, generalmente, i proponenti tendono a offrire una suddivisione del tipo 6 euro a me e 4 a te

se non, addirittura, 5 euro a me e 5 a te. Dato che gli stessi risultati sono stati osservati anche in presenza di

variazioni della somma, sembrerebbe dunque che la gran parte degli individui affronti questo tipo di situazione (meglio nota come «gioco dell’ultimatum») sulla base di principi di equità che includono non solo

norme per effettuare proposte eque quando gli individui svolgono il ruolo di

proponenti, ma anche norme per punire offerte inique quando svolgono il ruolo di controparti. Ciò significa che molti sono disposti a rinunciare a qualche euro per punire un proponente ingordo che chiede di avere la maggior parte del denaro per sé. È evidente che quanti agiscono sulla base

di norme di questo tipo, pur potendo effettuare un calcolo corretto, violano l’imperativo

di

massimizzare

il

guadagno

monetario

atteso

-

comportamento, quest’ultimo, che caratterizza la razionalità codificata dal modello dell’homo oeconomicus}

Ma allora a cosa serve cooperare con gli altri? Uno sguardo alla prospettiva evolutiva

Se dunque il comportamento di tipo cooperativo, come quello legato alla reciprocità, non risponde necessariamente a una logica razionalista

riconducibile al calcolo economico, allora ci si potrebbe chiedere se non sia forse «naturale» essere altruisti. In effetti, secondo una buona parte degli

scienziati, sia naturali sia sociali, e dei filosofi, gli esseri umani avrebbero

un’innata tendenza all’altruismo, ad aiutarsi a vicenda, in breve a cooperare

tra loro. Questa visione «biologica» della cooperazione costituisce senza dubbio un’alternativa importante alla prospettiva razionalista che, soprattutto in questi ultimi anni, sta affermandosi sempre più nell’ambito

delle scienze sociali, anche a seguito della collaborazione sempre più diffusa

tra queste e le neuroscienze. È bene però procedere a piccoli passi per capire in cosa consista questa diversa prospettiva alla luce della quale

spiegare la cooperazione tra gli uomini.

I comportamenti di tipo cooperativo e altruistico esistono in molte specie animali, sebbene spesso solo tra parenti stretti, ossia tra individui geneticamente apparentati tra loro. Nel caso degli insetti sociali (cosiddetti perché vivono e si organizzano in colonie e dimostrano un’intelligenza

collettiva che permette loro di beneficiare dell’istinto di gruppo), per esempio, le operaie in un alveare o in una colonia di formiche sono sorelle e

condividono buona parte dei loro geni. Secondo la moderna biologia, i

meccanismi evolutivi in base ai quali si è sviluppata la cooperazione tra membri della stessa specie dotati di correlazione genetica sono riassunti

dalla «teoria della selezione parentale», avanzata per primo dal biologo evoluzionista William Hamilton nel 1964 e presentata da Richard Dawkins

nel 1976 nel già citato II gene egoista. Questa teoria asserisce che l’esistenza di forme cooperative (finalizzate alla divisione del lavoro, alla difesa,

aU’approvvigionamento di cibo ecc.) tra individui geneticamente simili (apparentati) è favorita dalla selezione naturale, poiché questi individui

condividono un’alta percentuale di geni. La teoria deir«altruismo reciproco», proposta dal biologo evoluzionista

Robert Trivers nel 1971, sostiene invece che vi sono alcune specie animali

tra i cui membri, pur se non legati da rapporti di parentela, esistono forme di cooperazione finalizzate a compiti molto precisi tesi alla sopravvivenza

della propria specie, nonostante ciò possa sembrare contraddittorio perché in contrasto con la teoria evolutiva, secondo cui a sopravvivere dovrebbe

essere l’individuo più forte, mentre quello «altruista» dovrebbe soccombere.

Un caso molto interessante di altruismo intraspecifico, per esempio, è parte integrante della società dei pipistrelli vampiri: i membri di questa specie si

organizzano in gruppi che vanno dai venti ai quaranta esemplari circa e, se

capita che un membro del gruppo rimanga per giorni senza cibo, ne

interviene un altro che, per evitare che quello muoia, gli dona parte del cibo che si è procurato cacciando durante la notte, rigurgitandolo dalla propria

bocca. In questa comunità di mammiferi esistono anche coloro che cercano di comportarsi da free rider sfruttando a costo zero l’innato altruismo degli

altri, sebbene alla lunga questo comportamento costituisca un pericolo per

la sopravvivenza dell’intera comunità e, quindi, anche per gli egoisti stessi. Un altro esempio di comportamento altruista in natura lo si trova tra i leoni. Le femmine di questa specie, anche quando non hanno rapporti di

parentela tra loro, in alcuni casi decidono di unire le cucciolate e dividere le ore di caccia e le ore durante le quali si dedicano alla difesa e al nutrimento dei piccoli. Questa attitudine dei felini è a volte osservabile anche nei gatti

domestici. Stessa cosa avviene con le femmine dei cavalli e i puledri (si parla infatti di «zie»).

Poiché i membri di una stessa specie mangiano lo stesso cibo, vivono nello stesso ambiente, aspirano alle stesse opportunità sessuali, in queste attività sono rivali molto più agguerriti di quanto non lo siano membri di specie differenti, che generalmente traggono beneficio (massimizzando i loro geni)

da forme di altruismo reciproco interspecifico. In natura vi sono infatti

anche forme di dipendenza e cooperazione reciproca tra membri di specie differenti (si parla di simbiosi). Una simbiosi biologica famosa, in riva ai

fiumi, è quella tra il piviere egiziano e il coccodrillo: il coccodrillo arriva perfino a tenere le fauci spalancate, per consentire all’uccello di far pulizia

degli avanzi e dei parassiti sui denti. Per il volatile, questa relazione non è solo una fonte di cibo sicura, ma anche uno scudo contro i predatori, che

per attaccarlo mai si azzarderebbero ad avvicinarsi al coccodrillo. Nella gran parte delle forme di cooperazione nel mondo animale si tratta

o di gruppi molto piccoli, o comunque di comportamenti qualitativamente

assai diversi da quelli umani. Solo l’uomo, infatti, coopera su progetti complessi che richiedono un alto livello di fiducia reciproca. Ma come è possibile questa cooperazione umana tra individui non geneticamente imparentati tra loro e per lo più estranei? Le moderne forme di convivenza

sociale, dalle metropoli agli eserciti, dagli imperi alle organizzazioni

umanitarie, dalle comunità virtuali ai mercati finanziari, raggruppano in

effetti individui tra loro il più delle volte estranei, e per esistere richiedono forme estremamente complesse di cooperazione e di divisione dei compiti. Per usare un’espressione dell’economista Paul Seabright, nella società umana si vive in «compagnia degli estranei». Nelle città, per esempio, la gran parte degli individui fondamentali per la sopravvivenza (cibo,

abbigliamento, salute, protezione ecc.) sono dei non-parenti e dei perfetti

estranei. Come è possibile allora applicare la teoria evolutiva per spiegare la

nascita e la diffusione di simili forme di cooperazione e di fiducia tra gli

uomini? Per comprendere questo punto è necessario considerare le caratteristiche dell’ambiente in cui gli esseri umani si sono evoluti. Il periodo temporale

rilevante è il Pleistocene (che va da 2,58 milioni di anni fa a più o meno 11 700 anni fa), durante il quale è avvenuta l’evoluzione dai primati non umani

agli esseri umani moderni (che, dal punto di vista cerebrale, esistono da circa 100 000 anni). L’ipotesi è che la pressione selettiva per alcuni

comportamenti e preferenze (come, appunto, quelli di tipo cooperativo) abbia favorito il successo riproduttivo in questo arco temporale, e che gli

uomini moderni abbiano probabilmente mantenuto alcuni di quei

comportamenti e preferenze utilizzati dai loro antenati. La cooperazione tra estranei (intesa come altruismo, reciprocità e fiducia

negli altri) avrebbe dunque portato avanti una fisiologia e una psicologia che si sono evolute per gestire un insieme di problemi: problemi affrontati

inizialmente da piccole bande di cacciatori-raccoglitori che hanno instaurato forme di cooperazione per cacciare e difendersi, problemi a cui hanno fatto seguito dei cambiamenti notevoli dal punto di vista del potenziale culturale (anche se minimi geneticamente) che hanno reso gli

umani capaci di pensiero astratto e simbolico per fabbricare strumenti con

cui supplire a specifiche caratteristiche corporee e di comunicazione (la prima prova di tali cambiamenti sono i dipinti delle caverne, gli oggetti tombali e i manufatti che risalgono all’uomo di Cro-Magnon). L’evoluzione di queste capacità culturali molto versatili sembra avere reso possibile sia

un movimento verso l’agricoltura e l’insediamento, sia la costruzione di regole sociali e consuetudini cooperative per frenare gli istinti violenti,

rendendo così possibile una società più grande e regolata e l’accumulo di

conoscenze e di abilità condivise più ampie di quelle disponibili a un singolo

individuo.

I vasti raggruppamenti sociali dei villaggi o delle prime città che si sono verificati nel periodo che va dall’inizio dell’agricoltura (circa 10 000 anni fa)

fino a oggi hanno portato a una «esplosione culturale», cioè una

convergenza di interazioni sociali, diversificazioni, suddivisione di ruoli, cooperazione. Da allora si è verificata una progressiva accelerazione

culturale di gran lunga superiore a quella dell’evoluzione biologica. Come già notato nel capitolo precedente. Luigi Luca Cavalli-Sforza mette in luce

che, essendo quest’arco temporale troppo breve per avere prodotto dei

cambiamenti

evolutivi

significativi

del

comportamento

(ossia

il

comportamento genetico dell’Homo sapiens non può essersi adattato al nuovo ambiente sociale), alcuni comportamenti si sono evoluti nel

Pleistocene mentre altri sono stati oggetto di una trasmissione culturale sulla base dei vantaggi via via riscontrati in termini di specializzazione,

condivisione del rischio e accumulo di conoscenza. Per

quanto

riguarda

la

specializzazione,

i

cacciatori-raccoglitori

cominciano a specializzarsi nel momento in cui trovano il modo di gestire la

cooperazione tra individui non imparentati. La specializzazione implica un aumento del rischio (essa consente un minore adattamento se le condizioni

ambientali cambiano, come avviene per i panda che possono sopravvivere soltanto se sono disponibili germogli di bambù). Questo rischio può essere diminuito e condiviso grazie alla maggior sicurezza resa possibile da società

più grandi e ricche (anche se un aumento della cooperazione tra estranei

non ha necessariamente sempre avuto effetti positivi e ha prodotto nuovi rischi molto differenti dal passato: basti pensare all’inquinamento, alla povertà, alla distruzione del patrimonio ambientale ecc.). La cooperazione è

poi possibile grazie alle istituzioni sociali (insiemi di regole formali e

informali per il comportamento sociale) che sono sopravvissute, si sono diffuse e veicolano gli istinti e rendono la vita fra estranei vivibile. Per citare ancora Seabright, le istituzioni fanno trattare gli estranei come

«amici onorari», assicurano che la cooperazione abbia luogo, che sia sufficientemente affidabile (ci si deve poter fidare l’uno dell’altro) e stabile (deve resistere aU’opportunismo, al free riding) perché un numero sempre

maggiore di individui vi faccia ricorso.

In quest’ottica, dunque, la diffusione di comportamenti come quelli basati sulla reciprocità anche quando possono comportare un costo individuale e

nessun vantaggio personale è importante in termini evolutivi sia perché

stimola la capacità di fidarsi degli estranei - cosa che assicura che la società

non crolli non appena qualcuno si comporta da free rider -, sia perché moltissimo tempo fa ha reso possibile alle piccole bande di cacciatori-

raccoglitori fare i primi passi nella direzione dello scambio allargato anche agli estranei, che era più conveniente per tutti.^ Si consideri nuovamente il tema del sanzionamento, che dal modello dell’homo oeconomicus viene letto in termini di esclusivo interesse personale

associato ai costi di una eventuale sanzione per una mancata cooperazione.

I comportamenti punitivi sanzionano le trasgressioni altrui e, attraverso la loro introiezione, rappresentano anche un freno alle proprie azioni: essi implicano dunque valutazioni di tipo morale. Si tratta di comportamenti che non costituiscono una prerogativa degli esseri umani, ma che sono frequenti anche in altre specie animali e, dal punto di vista evolutivo,

possono essere interpretati come finalizzati a proteggere gli interessi della

specie (il cosiddetto «pool genetico»). Tra gli uomini il ricorso alla

punizione ha il fine di promuovere e preservare i comportamenti cooperativi che dipendono da una serie di norme morali, quasi

essenzialmente legate alla cultura. Ciò spiega perché, come ha messo ben in luce Robert Boyd, vi siano forme di «punizione altruistica», nel senso che la

punizione ha un costo personale per chi la esegue, ma protegge gli interessi cooperativi della comunità. Il comportamento punitivo di tipo altruistico è

diffuso nelle diverse culture e coinvolge spesso i testimoni della violazione di una norma, i quali si sentono autorizzati a punire coloro che si sono

comportati in modo improprio. In tutti questi casi il fine ultimo è promuovere la cooperazione, anche

se i fini evolutivi di questi

comportamenti non sono evidenti a chi li pratica o subisce.

Razionalità vs emozioni. Alle origini del senso morale

Più che daU’interesse personale e dalla razionalità riconducibile al calcolo costi-benefici, spesso il comportamento individuale sarebbe dunque motivato da altri fattori quali l’altruismo, la reciprocità, l’equità, la lealtà, la

fiducia o, più in generale, da una componente emotiva di tipo empatico riconducibile al senso morale. Ma se è lecito considerare i comportamenti cooperativi e altruisti come prodotti dell’evoluzione, allora potrebbe essere

altrettanto lecito ipotizzare che gli esseri umani siano naturalmente dotati di un senso morale e che questo non sia frutto della ragione e della

razionalità. L’intero dibattito che esiste tra natura e cultura, tra cervello e società è riconducibile a tale ipotesi che oggi, più che mai, è al centro della riflessione sia nelle scienze naturali sia in quelle sociali. Come sottolinea il filosofo Eugenio Lecaldano, una consistente mole di studi nell’ambito dell’etologia e delle neuroscienze sembra sempre più dare impulso

all’affermarsi di un darwinismo morale che va nella direzione non dell’egoismo e della legge del più forte bensì, appunto, di forme naturali di reciprocità, altruismo, empatia, etica.

Si è visto in precedenza come esistano molti casi di altruismo tra specie

animali, sebbene diffìcilmente questa attitudine venga associata alla

presenza di un senso morale. Diverso è invece il caso dei primati non umani secondo il celebre primatologo Frans de Waal, autore della Scimmia che

siamo. Il passato e il futuro della natura umana, il quale, sulla base degli studi compiuti, non dubita che in essi siano presenti sentimenti e valutazioni

altruiste. A differenza di Konrad Lorenz, che riteneva che la vita sociale

animale fosse caratterizzata da aggressività, sottomissione e dominazione, secondo de Waal tra i primati non umani sono molto diffusi gli atti di

condivisione,

cooperazione, riconciliazione,

consolazione,

solidarietà,

altruismo. Secondo la teoria dell’evoluzione questi sentimenti, che sono il frutto della selezione naturale, devono presentare un vantaggio in termini

riproduttivi per chi li possiede. De Waal, che sviluppa le proprie considerazioni estendendole agli esseri umani, ritiene che questi non sarebbero dunque programmati per competere con gli altri, bensì per

aiutarsi a vicenda, e l’empatia nei confronti altrui sarebbe quindi una

risposta automatica. Si è visto che lo psicologo infantile Andrew Meltzoff ha mostrato come lo

sforzo che i lattanti fanno, a volte, per imitare le boccacce o le espressioni del viso di chi sta loro di fronte, sia un indizio a favore della tesi secondo cui gli esseri umani hanno, chi più e chi meno, una propensione precoce

all’empatia, ovvero a entrare in relazione con i propri simili. Verso i 18 mesi circa, l’intenzione del bambino di dare aiuto a qualcuno che soffre o è in difficoltà si esprime attraverso forme di conforto più specifiche. A questa

età egli cerca di lenire il disagio altrui ricorrendo alle stesse modalità che in

passato si sono rivelate efficaci per lui. Può così offrire il suo giocattolo o un

bicchiere d’acqua al fratellino che piange nella culla, oppure il biberon alla mamma che è di malumore. Dopo i 2 anni le forme di intervento diventano

più elaborate e mirano a localizzare l’origine delle difficoltà: a chi si è sbucciato un ginocchio cadendo viene fornito un disinfettante, a chi ha la

febbre una coperta. È questo il momento in cui i bambini incominciano anche a esprimere la loro preoccupazione verbalmente e a dare dei

suggerimenti sulla base delle esperienze che essi stessi hanno fatto. A 3-4 anni rispondono in forme ancora più appropriate, che rivelano la crescente

abilità nell’assumere il punto di vista dell’altro. L’empatia, la capacità di

lasciarsi coinvolgere dalle emozioni degli altri, sarebbe dunque una competenza precoce, un tipo di sensibilità presente, nelle sue forme iniziali

e appena abbozzate, fin dall’inizio, come altre competenze neonatali quali il

sorriso, il pianto, la sensibilità alla voce umana. Per lungo tempo, però, gli studi sulla nascita e lo sviluppo del senso

morale negli uomini hanno enfatizzato il ruolo rivestito dalla ragione nella

sua formulazione. Partendo dal modello dello sviluppo morale teorizzato da Jean Piaget, negli anni settanta del secolo scorso lo psicologo statunitense

Lawrence Kohlberg ha sostenuto che le azioni possono essere qualificate come specificamente morali in base a un ragionamento morale, e che da

quest’ultimo conseguirebbero giudizi morali normativi prescriventi ciò che è obbligatorio o che è giusto fare davanti ai cosiddetti dilemmi morali o

etici, ovvero quelle situazioni in cui le proprie posizioni o quelle di più

persone sono in conflitto tra loro. Secondo Kohlberg il ragionamento

morale può anche essere influenzato da emozioni, affettività e intuizioni, ma non dipendere in alcun modo da esse: in quest’ottica le componenti di

tipo emotivo possono quindi essere degli stimoli ai processi di

ragionamento, ma non la causa diretta dei giudizi morali. È solo in tempi più recenti che il ruolo delle emozioni nella formulazione

del giudizio morale è stato enfatizzato e che è stata rivalutata una filosofia

morale riconducibile al pensiero di David Hume. Autori come Antonio

Damasio, David Pizarro e Jonathan Haidt, che per certi versi hanno criticato la concezione razionalista del giudizio morale, hanno fondato una corrente di analisi di tipo innatista che guarda al ruolo dell’emozione, dell’affettività

e dell’intuizione nella costituzione del senso morale, il quale viene

considerato come frutto dell’evoluzione biologica.

L’approccio alla moralità umana che lo psicologo Jonathan Haidt chiama

«socio-intuizionista» presuppone per esempio che il giudizio morale sia generalmente il risultato di intuizioni automatiche, molto rapide. In questo

modello, il ragionamento morale non causa il giudizio morale: al contrario,

si ritiene che esso sia spesso una costruzione a posteriori, ovvero una giustificazione generata dopo che un giudizio è stato raggiunto. Haidt

adotta il principio della «preminenza intuitiva», secondo cui la maggior parte degli individui, quando si trova in situazioni tali da dovere o potere

formulare un giudizio morale, ha innanzitutto una reazione emotiva, e poi

cerca di giustificarla con argomentazioni di tipo razionale. Da questo punto di vista, sarebbe pertanto la prima intuizione quella su cui si basa il giudizio

morale, mentre il ragionamento servirebbe soltanto a cercare di confermare le proprie intuizioni. Il modello socio-intuizionista è stato esteso nella Maral Foundations Theory.

Questa costituisce un tentativo di rendere conto di come alcuni sistemi

psicologici innati formino il fondamento dell’etica intuitiva, e di come ogni cultura costruisca il proprio insieme di prescrizioni sulla base di tale

fondamento. Haidt sottolinea infatti come, quando si guarda da vicino alle vite quotidiane di individui appartenenti a culture diverse, si possano

trovare degli elementi comuni a quasi tutte quelle culture (reciprocità, lealtà, rispetto per alcune forme di autorità, imposizione di limiti ai danni fisici, regolamentazione deU’alimentazione e della sessualità). L’ipotesi è che la conoscenza di questi elementi sia stata fornita alla mente umana dall’evoluzione.

Secondo questa teoria, a fondamento dell’etica intuitiva vi sarebbero

alcuni sistemi psicologici innati e universalmente disponibili, ossia: quello collegato alla lunga evoluzione degli esseri umani come mammiferi rispetto alle dinamiche di attaccamento e alla capacità di entrare in risonanza con il

dolore altrui (fondamento delle virtù culturali della gentilezza e della protezione); quello collegato al processo evolutivo dell’altruismo reciproco (fondamento delle idee di gratitudine, indignazione, giustizia, diritti e autonomia); quello collegato alla lunga storia sociale degli esseri umani

evolutisi a partire da comunità tribali capaci di formare coalizioni mutevoli (fondamento delle virtù del patriottismo e dell’autosacrificio per il gruppo);

quello formatosi sempre nel corso del lungo processo evolutivo da primati

non umani a esseri umani rispetto alla costruzione di interazioni sociali

gerarchiche (fondamento della leadership, dell’obbedienza all’autorità e del

rispetto per le tradizioni); quello riconducibile all’evoluzione di competenze

psicologiche relative al disgusto e alla contaminazione (fondamento delle nozioni religiose della lotta per la vita in una modalità più spirituale). Proprio come Haidt, una consistente parte degli studiosi ritiene dunque che il giudizio morale sia ampiamente fondato sull’emozione, sull’affettività

e sull’intuizione, che il processo cognitivo che precede i comportamenti sia

inconscio e che ci si trovi a razionalizzare a posteriori qualcosa di già

avvenuto nel cervello. Questo è esattamente ciò che fu messo in luce da una

serie di famosi esperimenti condotti nei primi anni ottanta del secolo scorso dal fisiologo Benjamin Libet, che insieme ad alcuni collaboratori si propose di individuare delle relazioni quanto più possibili precise tra l’esperienza

cosciente e l’attivazione di determinate zone cerebrali. Essi constatarono che la consapevolezza di aver mosso un braccio si manifesta alcuni millesimi di secondo dopo che l’impulso è partito dal cervello. Su questa base Libet suggeriva di assegnare al libero arbitrio un ruolo più ridotto rispetto a

quello riconosciutogli tradizionalmente: esso non consisterebbe nella

capacità di dare il via all’azione, bensì nella possibilità di decidere se dare corso all’azione o se inibirla nel momento del manifestarsi dell’intenzione

cosciente (ossia 300-350 millesimi di secondo dopo l’inizio del potenziale di preparazione, ma 150-200 millesimi di secondo prima dell’effettivo inizio

dell’azione). Libertà e consapevolezza di azione sarebbero dunque confinate

al solo controllo e alla eventuale inibizione nei confronti di azioni che vengono predisposte, in maniera del tutto inconscia, a livello neuronaie.

In merito a questa contrapposizione tra emozione e razionalità nell’ambito di giudizi e comportamenti morali, il biologo evoluzionista Marc

Hauser è esplicito: «Solo perché possiamo ragionare consapevolmente

partendo da principi espliciti - che ci sono stati trasmessi da genitori, insegnanti, giudici o autorità religiose - per giungere a giudizi su ciò che è

giusto e sbagliato, non significa che questi principi siano la fonte delle

nostre decisioni morali. Al contrario, ritengo che i giudizi morali siano mediati da un processo inconscio, una grammatica morale nascosta che

valuta le cause e le conseguenze delle azioni morali nostre e altrui». E ancora, criticando la posizione di Piaget e di Kohlberg sullo sviluppo morale

del bambino, che attribuisce un ruolo preminente alla società, all’esperienza e alla capacità di ragionare sui dilemmi morali, Hauser precisa:

«Riconoscere che ci impegniamo in forme di ragionamento razionali e

consapevoli è diverso dall’accettare che questa sia la sola e unica forma di

operazione mentale che è alla base dei nostri giudizi morali».^ Egli ha appunto messo in luce come sia opportuno distinguere tra intuizioni morali

e ragionamento, e come nel processo di formazione della valutazione e dell’azione di tipo morale vi siano delle differenze a seconda del grado di

coinvolgimento personale. Ciò viene messo in luce in modo evidente da un ormai classico

esperimento in cui degli individui si confrontano con una serie di dilemmi

morali (originariamente proposti dalle filosofo Philippa Foot e Judith

Thomson) che provocano diversi tipi di coinvolgimento personale. Uno di questi problemi è il seguente «dilemma del footbridge», Un vagoncino senza guidatore si sta dirigendo verso un gruppo di cinque operai che stanno

facendo manutenzione ai binari. Vi trovate sopra un ponte al di sotto del quale corre la ferrovia. Vicino a voi c’è uno sconosciuto molto grosso. Il solo

modo per impedire che il vagoncino uccida i cinque operai è quello di

spingere lo sconosciuto giù dal ponte. Egli sicuramente morirà, ma con il

suo corpo potrà fermare la corsa del vagoncino. Chiaramente in questo problema la massimizzazione dell’utilità sulla base di un calcolo costi­ benefici (salvare cinque persone dalla morte) è in conflitto con la morale

personale (uccidere una persona). Qual è la scelta più razionale: spingere lo sconosciuto giù dal ponte o lasciare che il vagoncino travolga i cinque

operai? È evidente che non c’è risposta corretta a questa domanda. Però, al quesito se sia giusto spingere giù dal ponte lo sconosciuto molti partecipanti

all’esperimento di norma rispondono negativamente. Lo stesso studio includeva una versione del problema nota come

«dilemma del troll^». Come nel caso precedente, un vagoncino senza conducente si dirige contro un gruppo di cinque operai che stanno facendo

manutenzione ai binari. L’unica cosa che è possibile fare per impedire la

morte dei cinque operai è azionare una leva di scambio che farà deviare il vagoncino su un altro binario dove c’è un solo operaio che sta lavorando. Azionando questa leva, dunque, morirebbe solo una persona e si salverebbe

la vita alle altre cinque. In questo tipo di dilemma gli individui sono molto più inclini a mettere in atto l’azione utilitaristica e alla domanda se sia

giusto azionare la leva dello scambio molti partecipanti all’esperimento rispondono affermativamente.

Gli autori dello studio ritengono che la differenza di risposte ai due

dilemmi mostri sia che le scelte individuali sono dipendenti da intuizioni

immediate che riguardano i comportamenti, sia che, mentre nel dilemma del trolley l’azione che deve essere giudicata è in qualche modo un’azione impersonale, in quanto si deve ricorrere all’utilizzo di uno strumento (la

leva dello scambio) per deviare una minaccia che è già esistente (il vagoncino che si sta dirigendo verso le cinque persone), nel dilemma del

footbridge il coinvolgimento del soggetto è invece molto più diretto e personale, in quanto gli viene chiesto di effettuare un atto (spingere lo sconosciuto giù dal ponte) che costituisce in se stesso una minaccia alla vita

della persona. studiare rindividuo oggi dal punto di vista delle neuroscienze

Le tecniche di ricerca delle neuroscienze sono utili nell’interpretazione di questi risultati. In questi ultimi anni, infatti, un importante contributo alla ricerca sul ruolo delle emozioni nelle valutazioni e nei comportamenti,

anche di tipo morale, viene fornito proprio da queste discipline. Sono ormai davvero numerosi gli studi che, muovendo dall’osservazione del cervello,

hanno dimostrato che nella formulazione di giudizi e nella messa in atto di

comportamenti il ragionamento svolge un ruolo importante, sebbene limitato e non predominante. Secondo il neuroscienziato Jean Decety, per esempio, quando un individuo è generoso al posto di essere egoista, si

attivano le zone cerebrali dell’empatia e non quelle del calcolo.

L’utilizzo di tecniche di neuroimmagine che consentono di evidenziare la relazione tra aree e funzioni cerebrali permettono di osservare come,

davanti a diversi tipi di situazioni, si attivino dei centri cerebrali differenti, talvolta associati al ragionamento analitico e talaltra alle emozioni, e come vi possano essere implicazioni emotive diverse che influenzano la

formulazione del giudizio e del comportamento morale. Tra queste tecniche viene molto utilizzata la già citata risonanza magnetica funzionale.

Sottoponendo a tale indagine il cervello dei soggetti messi a confronto con i

dilemmi precedenti, emerge che esso reagisce in modo differente alle

situazioni che comportano un dilemma personale o impersonale. I dati emersi hanno evidenziato come nei dilemmi personali (per esempio quello del footbridge) le aree del cervello maggiormente coinvolte nella decisione

morale

siano

quelle tipicamente

associate

alle

emozioni

(sistema

dopaminergico della ricompensa), mentre nei dilemmi impersonali (come quello del troll^) i centri più interessati siano quelli tipicamente associati

alla razionalità e al calcolo (quello analitico, frontoparietale). Ma c’è di più: gli individui impiegano pochissimo tempo per condannare le violazioni

morali di tipo personale, e ne impiegano molto di più per disapprovare quelle di tipo impersonale.

Anche la scoperta dei neuroni specchio effettuata da Rizzolatti e colleghi è estremamente importante per capire il giudizio e l’azione morale. I

neuroni specchio fanno in modo che ogni individuo possa comprendere e

interpretare le azioni altrui (essi sono infatti anche soprannominati «neuroni dell’empatia»). La loro funzione primaria è quella di «riconoscere

e comprendere il significato degli atti degli altri».^ Essi si attivano anche al buio se un rumore evoca un’azione e, cosa ancora più straordinaria,

vengono attivati anche se si legge una determinata azione in un libro; inoltre, sembrano codificare non solamente l’esecuzione di un gesto altrui,

ma il suo probabile obiettivo.

Gran parte della ricerca rilevante sul rapporto tra emozioni, razionalità e valutazioni morali nell’ambito delle neuroscienze riguarda però soprattutto

individui con danni cerebrali al lobo frontale. Questi individui spesso non hanno una compromissione delle loro capacità intellettuali, mnemoniche, linguistiche e motorie, sebbene mostrino una piattezza emotiva, nel senso

che non rispondono alle ricompense o alle punizioni e non mostrano alcun

segnale emotivo come l’imbarazzo o la tristezza. Inoltre, frustrazioni o provocazioni minori possono indurre una collera improvvisa. Ciò che è

ancor più interessante, è che gli individui che riportano questo tipo di danno cerebrale sono dei pessimi decisori.

Ora, gran parte degli studi in questo ambito sono stati intrapresi a seguito di un caso clinico celebre, quello del minatore Phineas Gage, che nel 1848

lavorava con altri operai alla costruzione di una ferrovia nel New England. A causa di una distrazione, un giorno Gage rimase vittima di un incidente sul lavoro: un’esplosione di polvere pirica scagliò in alto una bacchetta di ferro che, attraverso lo zigomo, gli penetrò nel cervello uscendo dall’altra parte

della scatola cranica. Dopo qualche momento di stordimento Gage si allontanò con le sue gambe dal luogo dell’incidente e lo descrisse ai suoi

colleghi. Egli si riprese molto rapidamente e tornò presto a lavorare, ma non sembrò mai più lo stesso: benché non presentasse deficit del linguaggio o

dei movimenti, cominciò ad avere dei problemi sul lavoro in termini di rapporti con gli altri, era maleducato, capriccioso, blasfemo e inaffidabile.

La vicenda di Phineas Gage fu a lungo dimenticata sino a quando, alla fine

del secolo scorso, il neuroscienziato Antonio Damasio ha studiato il cranio di Gage simulando al computer il percorso della bacchetta di ferro e

individuando l’area cerebrale lesa. Egli è arrivato alla conclusione che la

lesione aveva interessato quella parte della corteccia frontale che media gli aspetti emotivi e quelli cognitivi del comportamento, traducendosi nelle valutazioni e scelte di tipo morale. Questo spiega l’incapacità di Gage di

prestare attenzione, pianificare le azioni, la sua disinibizione, instabilità

affettiva, e le alterazioni della sua personalità e della sua capacità di entrare

in empatia con gli altri e di valutare o mettere in atto comportamenti dalle

implicazioni morali. Sembrerebbe che questa piattezza emotiva e una pessima capacità

decisionale non siano indipendenti. L’ipotesi più nota che è stata avanzata

per descrivere il ruolo che le emozioni rivestono nel comportamento e nelle scelte individuali è quella, proposta dallo stesso Damasio, dei «marcatori somatici», in base alla quale le decisioni sarebbero influenzate dalla valutazione emotiva delle loro possibili conseguenze. Scrive Damasio che

rispetto all’azione tali marcatori «non deliberano per noi ... assistono il

processo illuminando alcune opzioni (pericolose o promettenti)»;^ essi

funzionano come campanelli d’allarme o come segnalatori di incentivi che aiutano la selezione di opzioni vantaggiose sul piano biologico. Per il

neurologo, infatti, la mente sarebbe un prodotto evolutivo, finalizzata al soddisfacimento delle necessità fìsiche e psichiche, e per raggiungere questo obiettivo deve disporre di informazioni che derivino da quelle strutture

nervose che elaborano le risposte affettivo-emotive che emergono dalle

esperienze in cui si è immersi e dai contenuti della memoria. Dunque, secondo Damasio, la separazione tra ragione ed emozioni non avrebbe

senso, e il ragionamento da solo non sarebbe sufficiente per far prendere delle decisioni adatte alla situazione. Sono molte le interpretazioni evolutive del senso morale nell’ambito della ricerca su giudizi e comportamenti morali. Alcuni ricercatori sostengono

per esempio l’esistenza di un legame tra disgusto fisico e morale: ricevere una proposta indecente provocherebbe una smorfia come nel caso dell’ingestione di alimenti avariati. Il senso del disgusto umano avrebbe

origine in un meccanismo di difesa innato che metterebbe al riparo da

veleni e malattie, ma anche da situazioni indecenti e disoneste. L’idea è che la moralità si fondi su un riflesso mentale antico: sarebbe il disgusto a influenzare i comportamenti. Per dimostrarlo, sono state studiate le

somiglianze tra le smorfie di chi prova fisicamente disgusto e quelle di chi

reagisce a una proposta disonesta. Pare che la reazione sia sempre la stessa, sia che ci si trovi davanti a una bevanda cattiva, sia che si osservi un’immagine disgustosa o che ci si confronti con l’ingiustizia di una

proposta iniqua: un’attivazione del muscolo labiale superiore (esito dell’attivazione di un’area cerebrale associata proprio alla sensazione di

disgusto), vale a dire un arricciamento del naso e del labbro superiore.

In termini evolutivi, il muscolo labiale superiore si attiverebbe per impedire a odori disgustosi o a cibi tossici di raggiungere le narici e la bocca. Quest’abilità a reperire ed evitare le tossine sarebbe molto antica: gli

anemoni di mare, che si sono evoluti circa 500 milioni di anni fa, rovesciano le loro cavità gastrovascolari se ingeriscono una sostanza amara. Perciò,

secondo lo studio in questione, il sofisticato senso morale umano di ciò che

è giusto e ciò che è falso potrebbe essersi sviluppato dalla nostra innata capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che è disgustoso e ciò che è potenzialmente nutriente da ciò che è tossico.

Gli studi citati, così come molti altri, hanno consentito di inquadrare sotto una nuova luce determinati aspetti delle valutazioni e dei comportamenti che riguardano una dimensione interpersonale della mente, sebbene alcuni di questi concetti fossero già abbozzati, addirittura un secolo prima che

Charles Darwin formulasse la sua teoria evolutiva, da Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali. Il padre della teoria del mercato non negava

affatto che sentimenti ed emozioni potessero influenzare il comportamento umano, anzi presentava una sua concezione dell’uomo come guidato da una

componente etica di tipo istintivo: «Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo

rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di

contemplarla».^ Nella visione di Smith, ripresa ed enfatizzata recentemente

dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen, i comportamenti individuali

possono essere giustificati sia dair«amor proprio» sia dall’empatia, dalla generosità, e gli scambi tra gli uomini non potrebbero avere luogo senza la

fiducia reciproca, la quale poggia su quello che Smith definiva appunto un sentimento di «simpatia» tra gli uomini.

Le ricerche sull’origine del senso morale negli esseri umani mettono

dunque in luce una sorta di conflitto tra razionalità ed emotività che spiega la difficoltà nel dare delle risposte a questioni che hanno a che fare con l’etica. A fronte dell’indubbia originalità e importanza dei contributi

provenienti in tal senso da una ricerca sempre più «neuroscientificizzata» delle valutazioni e dei comportamenti umani, molti hanno evidenziato

alcuni problemi di fondo legati per esempio al carattere artificiale di certe situazioni ricreate in laboratorio. Tra costoro, la filosofa Patricia Churchland ha messo in luce come simili esperimenti siano condotti utilizzando delle situazioni che spesso non rendono conto in modo adeguato

del vero comportamento morale dell’individuo. Per questo motivo diventa a

suo giudizio di fondamentale importanza assicurare la validità ecologica deU’esperimento in modo da costruire situazioni sperimentali il più

possibile vicine a quelle della vita reale. A ciò va aggiunto che la gran parte

degli esperimenti condotti in tale ambito riguarda prevalentemente il caso di comportamenti che implicano scelte binarie (proprio come nei dilemmi

del trolley e del footbridge). Ma l’evidenza empirica nell’ambito della

psicologia cognitiva ha messo bene in luce come le scelte degli individui cambino molto quando aumenta il numero delle alternative decisionali a

disposizione, sino al caso estremo di una scelta libera. Infine, va detto che

un ulteriore limite delle situazioni sperimentali in questione è che esse tendono a fare riferimento sempre a un’etica utilitaristica e non a una di tipo aristotelico-kantiana, ovvero, potremmo dire, a un’etica verso se stessi.

In sostanza, sono molti i filosofi, gli scienziati sociali e, talvolta, anche gli scienziati stessi a mettere in luce come una correlazione molto stretta tra

senso morale e componenti biologiche sia troppo restrittiva. Ci si potrebbe così domandare, per esempio, in che senso l’individuo sia moralmente

libero di comportarsi e quindi responsabile delle proprie azioni. E ancora, come si interrogano gli autori di un’interessante e recente raccolta di saggi

in materia, dal titolo provocatorio Siamo davvero liberi di agire?, se in realtà a

decidere fossero solo i neuroni, cosa resterebbe della libertà individuale? Si

tratta di quesiti leciti e affascinanti ai quali è forse possibile rispondere, senza per questo passare da un determinismo di tipo biologico a uno di

stampo sociale, ipotizzando che non sia solo l’antico sistema cerebrale

umano a guidare giudizio e comportamento (sia esso morale o meno). Molti ritengono infatti che esso possa costituire un campanello d’allarme e influenzare valutazioni e azioni, ma che poi la scelta ultima resti pur sempre dell’individuo, considerato in grado di applicare processi di ragionamento ai

contenuti della memoria attiva.

Non bisogna tra l’altro dimenticare che nella vita reale le persone interagiscono tra loro, e che, di conseguenza, i vari giudizi e comportamenti morali sono allo stesso tempo giudizi e comportamenti sociali che dipendono dalle interazioni con i giudizi e i comportamenti altrui, e che a

loro volta interagiscono

con il mondo

esterno.

In tal senso

è

particolarmente interessante riflettere attorno all’idea che il senso morale

sia innato e appreso allo stesso tempo. È infatti plausibile supporre che gli

esseri umani abbiano un’etica intuitiva (ovvero quella che Haidt definisce una prontezza innata a percepire l’approvazione o la disapprovazione rispetto ad alcune caratteristiche degli eventi umani), prodotto della

selezione naturale, adattata al fine di risolvere problemi con cui gli antenati dell’uomo si sono misurati per milioni di anni. Sulla base di questa

prontezza innata si evolvono poi culturalmente sistemi di comportamento e morali diversi, sempre secondo il criterio della necessità di risolvere i problemi con i quali ci si confronta. A chiusura delle ultime osservazioni sviluppate, un esempio lo si può trarre da un singolare studio condotto dall’economista svizzero Bruno Frey

e da alcuni suoi colleghi, teso a mostrare i fattori responsabili delle reazioni degli individui in situazioni di vita e di morte. Essi hanno analizzato

empiricamente i dati relativi ad alcune situazioni estreme, e alla luce di questi hanno smentito la teoria secondo cui in simili circostanze si tenderebbe a perseguire esclusivamente il proprio interesse. In particolare, lo studio in questione ha preso in considerazione la tragedia del Titanic, un

buon caso in quanto esiste una grande quantità di dati disponibili, dagli elenchi passeggeri alle indagini pubbliche, ai resoconti dei sopravvissuti. Si

trattò di una situazione in cui il processo decisionale individuale avvenne in

condizioni di estrema pressione, poiché i passeggeri della nave dovettero prendere delle decisioni che avrebbero influito sulla loro probabilità di

sopravvivenza, oltre al fatto che essi si ritrovarono in competizione gli uni con gli altri per un posto sulle scialuppe di salvataggio. A ciò si aggiunga che

quella situazione era di tipo one shot, ovvero in cui un comportamento

potenzialmente cooperativo (di aiuto nei confronti altrui) non avrebbe

potuto essere motivato dall’aspettativa di una futura reciprocità.

Secondo gli studiosi svizzeri, dall’analisi di questa situazione emerge chiaramente il ruolo centrale giocato da componenti di tipo biologicoculturali riconducibili a determinate norme sociali. Alcune di queste, come

per esempio quella che sancisce «prima le donne e i bambini», avrebbero avuto un impatto considerevole sulla probabilità di sopravvivenza dei

passeggeri, che nel caso delle donne aumentò dai 23,7 ai 53,9 punti percentuali rispetto agli uomini. In modo analogo, la probabilità di

sopravvivenza dei bambini rispetto a quella di persone di 50 anni o più

aumentò di circa 30 punti percentuali. Comparando la probabilità di sopravvivenza tra le donne, i ricercatori hanno osservato che il fatto di aver

avuto un bambino e di essere state nell’età fertile avrebbe avuto un impatto

forte sulla probabilità di sopravvivenza. Tuttavia, in quella circostanza il fatto di aver avuto un bambino sembra che abbia accresciuto la probabilità

di sopravvivenza anche per gli individui di sesso maschile. Frey e colleghi

hanno sostenuto che questi dati sono in linea con le teorie sociobiologiche

in base alle quali la società trarrebbe vantaggio dalla sopravvivenza di un elevato numero di donne e di prole.

Altra considerazione interessante è quella relativa a un ulteriore dato

rilevato dai ricercatori svizzeri, per cui i gentiluomini inglesi avrebbero avuto minori probabilità di sopravvivere rispetto ai passeggeri americani.

L’analisi statistica dei passeggeri sopravvissuti e di quelli deceduti ha messo infatti in luce come i passeggeri inglesi abbiano avuto il 10 per cento in

meno di probabilità di sopravvivenza rispetto a quelli di altri paesi. Il tasso di sopravvivenza degli statunitensi, al contrario, fu del 12 per cento

superiore rispetto a quello degli inglesi. Secondo gli autori dello studio, la percentuale più elevata di vittime inglesi andrebbe ricondotta al loro rigido

attaccamento alle convenzioni sociali e alla mentalità compassata dominante all’epoca, che presumibilmente si tradusse in una ferrea

applicazione della norma «prima le donne e i bambini». Mentre gli americani

dell’epoca,

forse

più

individualisti,

sarebbero

stati

principalmente preoccupati di sopravvivere in prima persona piuttosto che di fare la cosa eticamente giusta.

Quest’ultimo

dato

può

essere

importante

per

ricordare

che

i

comportamenti individuali non dipendono solamente da una componente

naturale, ma talvolta sono retti anche da convenzioni, spesso frutto della coscienza e della ragione, le quali possono anche essere in netto contrasto

con la biologia. Va poi ribadito che esistono differenze importanti tra gli individui, che alcuni sono meno empatie! di altri, e quindi, per quanto una

componente empatica sia innata, essa è anche parziale, ha cioè bisogno di essere esercitata e coltivata nel corso degli anni, a contatto con le persone, altrimenti - in mancanza di apprendimenti e rinforzi sociali - le iniziali tendenze umane verso l’altruismo, la cooperazione, la reciprocità, possono

lentamente spegnersi.

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Neurocas

Note 1. Dove va ruomo contemporaneo? Le scienze sociali e il rapporto tra individuo e

società Émile Durkheim, Il suicidio^ UTET, Torino 1969, pp. 199 e 201 (ed. or. 1897).

2 Utilizzando lo stesso approccio metodologico e sempre in riferimento al problema deU’individualizzazione sociale, Durkheim spiega anche altri dati relativi all’incidenza dei suicidi, come quelli riconducibili all’integrazione dell’individuo nell’ambito della famiglia. È sempre guardando ai dati che egli osserva, per esempio, come in presenza di tutti quegli eventi

generalmente responsabili di una bassa integrazione dell’individuo al

gruppo familiare (vedovanza, separazione, assenza di figli) si riscontri un aumento del tasso di mortalità suicida: il «coefficiente di preservazione» rispetto al suicidio dei coniugati è più elevato di quelli dei celibi e dei

vedovi, e quello della famiglia numerosa è più elevato di quello della famiglia meno numerosa, che a sua volta è più elevato di quello di coppie sposate ma senza figli.

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vita personale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 29 (ed. or. 1998). Gilles Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società deU'iperconsumo, Cortina, Milano 2007, p. 137 (ed. or. 2006). Bauman osserva che «i liquidi, a differenza dei corpi solidi, non

mantengono di norma una forma propria ... sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla» (Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002, p. VI; ed. or. 2000).

Bauman, Modernità liquida cit., p. 186. Id., La società delVincertezza, il Mulino, Bologna 1999, p. TI (ed. or. 1999). Id., Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2008, p. Vili (ed. or. 2005). Charles Wright Mills, L'immaginazione sociologica, il Saggiatore, Milano 1962, p. 15 (ed. or. 1959).

Christopher Lasch, La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in

un'età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1981, p. 63 (ed. or. 1979). Alla pari dei piercing e dei tatuaggi, vi sono anche numerose altre pratiche che esprimono il desiderio sempre più forte dell’individuo

contemporaneo di controllare e manipolare o, più semplicemente, autogestire il proprio corpo: dalla più semplice frequentazione delle palestre (allo scopo sia di promuovere un benessere fisico sia di modellare il

proprio corpo), al ricorso a prodotti cosmetici sempre più miracolosi, al boom dei centri benessere e delle beauty farm, sino agli interventi più o meno invasivi della chirurgia estetica. Oltre che il proprio aspetto fisico

esteriore oggi si tenta poi sempre più di controllare anche il funzionamento interno del corpo umano sulla scia dei progressi medici, farmacologici e tecnologici. È infatti spesso possibile alleviare il dolore e la sofferenza fisica,

e gran parte delle malattie possono essere curate o potranno probabilmente esserlo in futuro grazie ai progressi continui nella ricerca come quella nel

campo delle cellule staminali. Tutto ciò coinvolge la specie umana nella sua interezza quando si entra nell’ambito dell’evoluzione di tecniche di

fecondazione assistita sempre più sofisticate, di tecniche genetiche che rendono possibili scelte assai discusse sul piano etico, relative a sesso e

tratti dei nascituri, nonché, in un prossimo futuro, alla selezione delle caratteristiche del DNA che ne potenzino tratti fisici e mentali e, all’estremo, di tecniche di clonazione che lasciano intravedere scenari

ancora non molto chiari.

Bauman, Vita liquida cit., p. 4. Bauman, Vita liquida cit., p. 4. 2^

Id., Modernità liquida cit., p. 191.

22

È ancora Bauman a essere esplicito su questo punto: il consumismo è una

risposta «alle sfide poste dalla società degli individui. La logica del consumismo è finalizzata ai bisogni di uomini e donne che lottano per

costruire, mantenere e rinnovare la loro individualità, e specialmente per tener testa alla suddetta contraddizione dell’individualità» (Vita liquida cit.,

p. 14). Giddens, Le conseguenze della modernità cit., p. 29. 2^

A questo proposito diviene pertinente un concetto centrale elaborato dal

filosofo Ivan Illich nella Convivialità: quello di «controproduttività», ossia l’idea che le grandi istituzioni della società contemporanea (siano esse invenzioni sociali o tecniche) una volta superata una soglia critica non

producano più gli effetti positivi per cui erano state concepite, bensì li ostacolino dando invece luogo a effetti negativi e riducendo l’autonomia individuale. Questo concetto con cui Illich, assieme al filosofo Jean-Pierre Dupuy, analizza il sistema automobilistico (oltre una certa soglia la mobilità

che l’automobile dovrebbe offrire diviene illusoria, a causa del traffico che

produce e del conseguente aumento del tempo che vi si passa, a scapito della rapidità con cui si dovrebbero raggiungere le mete prefissate), può essere esteso alle tecnologie della comunicazione che, pur essendo state create per consentire la comunicazione, realizzano invece comunicazioni

che diventano così concentrate, rapide e superficiali che nessuno dedica più

tempo all’interazione e all’ascolto dell’altro.

Bauman, Modernità liquida cit., p. 188. 25

Già Christopher Lasch aveva fatto notare come anche la famiglia non

formi più individui dalla personalità stabile destinati a un mondo in cui i

ruoli sono chiaramente definiti. Scomparendo sempre più ciò che è durevole, stabile, solido, l’accento viene infatti posto sulla capacità di adattamento e di cambiamento e sulla formazione di personalità «svincolate» nella durata, flessibili e dalle molteplici identità. Nota a questo proposito Ulrich Beck che la famiglia standard a lungo

termine diviene un caso limite, mentre «la regola diventa un andirivieni, in corrispondenza delle diverse e particolari fasi della vita, tra varie forme di

vita in comune, familiare e non familiare» (La società del rischio cit., p. 170). Proprio perché ognuno vive più vite familiari e non, si afferma con maggior

vigore rispetto al passato la «biografia individuale», specchio del processo di individualizzazione che incide sul rapporto tra vita familiare e biografia

individuale.

Bauman, Modernità liquida cit., pp. 190-91. In Saggi sulVindividualismo. Una prospettiva antropologica suindeologia

moderna (Adelphi, Milano 1993; ed. or. 1983), Louis Dumont ripercorre le tappe importanti della storia della nascita dell’idea di società individualista

rifacendosi proprio alla contrapposizione tra questi due concetti. Il concetto di olismo caratterizzerebbe, secondo Dumont, le comunità primitive,

antiche e medievali (il suo modello di riferimento è l’india classica), in cui l’individuo non sarebbe il valore centrale dell’esistenza in quanto assorbito

sin dalla nascita in un insieme di relazioni e legami di dipendenza da parte della famiglia, del clan, della casta ecc. Al contrario, il concetto di individualismo definirebbe le società moderne e nascerebbe intorno al XVIIXVIII secolo con il pensiero di Thomas Hobbes, John Locke e,

successivamente, deU’llluminismo. Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico^ Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 26 (ed. or. 1895).

Id., Il suicidio cit., p. 370.

Raymond Boudon, Il posto del disordine. Critica delle teorie del mutamento sociale, il Mulino, Bologna 1997, p. 43 (ed. or. 1984).

Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, p. 256 (ed. or. 1922). Weber rifiuta qualsiasi sostanzializzazione dei concetti collettivi: «Per l’interpretazione intelligibile dell’agire, a cui la sociologia

aspira, queste formazioni sono invece semplicemente processi e connessioni

dell’agire specifico di singoli uomini, poiché questi soltanto costituiscono

per noi il sostegno intelligibile di un agire orientato in base al senso» (Economia e società^ Edizioni di Comunità, Milano 1999, p. 12; ed. or. 1922). Sempre nel Posto del disordine Boudon spiega come a suo giudizio la critica

che Weber avanza nei confronti della reificazione a cose dei concetti

collettivi coincida con l’essenza del cosiddetto «teorema di Scheler» (dal nome del filosofo tedesco teorico della persona Max Scheler): essi imputano

cioè a delle «disposizioni» la responsabilità esclusiva di azioni che vengono così ridotte a meri comportamenti istintivi, ovvero fanno delle disposizioni

collettive forze occulte che costituiscono la causa unica dei comportamenti individuali.

Pierre Bourdieu, Il senso pratico, a cura di Mauro Piras, Armando, Roma 2005, p. 84 (ed. or. 1980). Esempio celebre del senso pratico è il «senso del

gioco», che viene incorporato a forza di allenamenti e di pratica dagli sportivi e permette loro di capire il gioco e di agire senza che sia necessario

porre esplicitamente la propria azione come obiettivo.

2. L'imitazione sociale tra scelta e necessità: come si spiega la tendenza umana a essere uguali agli altri Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e

i neuroni specchio. Cortina, Milano 2006, p. 2. 2 Negli esperimenti di Pavlov il cibo rappresenta un rinforzo positivo.

Esistono però anche forme di apprendimento meccanico per condizionamento che fanno leva su rinforzi negativi o su punizioni: questo accade, per esempio, quando un cane impara a ritrarre la zampa al suono di

un fischietto perché altrimenti riceverebbe una leggera scossa elettrica. Clinton Richard Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, Milano 1995, p. 1 (ed. or. 1976).

Lo studio dei fatti culturali in una prospettiva ispirata alla teoria

dell’evoluzione rientra in un approccio che, sia pure sotto forme differenti, era stato per esempio già centrale nella teoria dell’evoluzione culturale e

della selezione delle norme e delle istituzioni che in essa si attua, tratteggiata dall’economista austriaco Friedrich A. von Hayek. A proposito

della nascita delle norme di condotta che regolano la vita in società e che arginano gli atteggiamenti istintivi tipici dei piccoli gruppi tribali in cui vivevano gli antenati dell’uomo moderno, egli scriveva: «Dato che noi

odiamo molto tali proibizioni, difficilmente possiamo dire di averle

selezionate; piuttosto sono queste proibizioni che hanno selezionato noi: ci hanno reso possibile la sopravvivenza». Infatti, aggiungeva l’economista

austriaco, tali norme «si sono diffuse non perché gli uomini avessero compreso che erano più efficaci, o perché fossero in grado di calcolare che

esse avrebbero portato a un’espansione, ma semplicemente perché esse hanno reso possibile ai gruppi che le praticavano di procreare con maggiore successo e di assimilare gli estranei» (La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, a cura di William Warren Bartley, ed. it. a cura di Dario Antiseri,

Rusconi, Milano 1997, pp. 44 e 47; ed. or. 1986).

5 Luigi Luca Cavalli-Sforza, L'evoluzione della cultura. Codice, Torino 2004, p. 7. Diversi sono gli esempi che confermano questa ipotesi, come quello del

gene per la tolleranza del lattosio negli adulti. La maggior parte degli

uomini nel mondo perde la capacità di digerire il lattosio - uno zucchero del latte - prima di arrivare all’età adulta. Ciò avviene perché l’enzima lattasi,

che è in grado di scindere il lattosio, si disattiva durante l’adolescenza. I

sintomi di questa intolleranza al lattosio includono gonfiore addominale e diarrea dopo aver bevuto latte. Secondo studi recenti, solo 7000 anni fa gli

europei non erano in grado di digerire il latte. Oggi però il 90 per cento degli europei del Nord può farlo in quanto ha una versione del gene per il lattosio che rimane attiva per tutta la vita e che permette loro di continuare a bere latte senza che intervenga alcun disturbo intestinale anche da adulti.

L’ipotesi esplicativa è che gli europei avrebbero subito una serie di cambiamenti nel corredo genetico perché era vantaggioso, dal punto di

vista evolutivo, essere in grado di assimilare il latte. La mutazione si sarebbe sviluppata spontaneamente in Europa negli ultimi 7000 anni, divenendo prevalente nella popolazione grazie alla selezione naturale. La capacità di digerire il latte avrebbe dato un enorme vantaggio alle popolazioni

neolitiche: il latte delle mucche non è contaminato dai parassiti, il che lo

rende più sicuro dell’acqua di torrente o di fiume. Il latte è inoltre disponibile tutto l’anno, a differenza dei raccolti stagionali. Inoltre, nel Nord dell’Europa durante l’inverno i livelli di illuminazione solare sono

molto bassi, e provocano la presenza di minori quantità di vitamina D nelle

popolazioni nordiche. La conseguenza per l’organismo è una bassa assimilazione del calcio. Il latte risolve il problema, sia perché offre grandi

quantità di calcio, sia perché contiene una certa quantità di vitamina D.

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istituzioni, Einaudi, Torino 1949, p. 155 (ed. or. 1899).

Un’idea simile di rivalità mimetica (nel senso di imitazione) è stata sviluppata diversi decenni dopo Veblen dal filosofo René Girard nell’ambito

della sua teoria della cultura umana riconducibile al concetto di «mimesi».

Secondo Girard i desideri umani sarebbero sempre dettati dagli altri, ma la

convergenza sugli stessi oggetti, desideri, interessi sarebbe fonte di rivalità.

data Vimpossibilità di ottenere tutti la stessa cosa. «Se il mimetico nell’uomo svolge in effetti il ruolo fondamentale che tutto indica per esso,

deve necessariamente esistere una imitazione acquisitiva o, se si preferisce, una mimesi di appropriazione» (Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondoj Adelphi, Milano 1983, p. 24; ed. or. 1978). Questa «rivalità per l’oggetto» conduce gli individui a una crisi mimetica, ossia a un episodio di

violenza causato dalla focalizzazione su uno stesso desiderio. La società, per non compromettere il proprio futuro, deve trovare un meccanismo per risolvere questa crisi mimetica, che Girard identifica nel «capro espiatorio».

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2001, p. 103 (ed. or. 1979). Georg Simmel, La moda, a cura di Lucio Perucchi, Mondadori, Milano 1998, p. 16 (ed. or. 1911). Ibid„ pp. 13-14.

Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il

mondo contemporaneo^ il Saggiatore, Milano 2008, p. 96 (ed. or. 2005).

Jean Baudrillard (La società dei consumi. I suoi miti e la sua struttura, il Mulino, Bologna 2010; ed. or. 1970) radicalizzava la semiotica barthesiana analizzando il mondo delle merci come sistema dei segni completamente staccato dal reale. A suo giudizio nella società dei consumi i beni non sono più dei valori d’uso dotati di una loro utilità, bensì dei semplici segni attraverso i quali i consumatori si definiscono, si distinguono e si

uniformizzano. I consumatori non avrebbero dunque altra scelta se non quella di vivere in un universo di senso interamente concepito dagli esperti del marketing: acquistando un pacchetto di sigarette o un paio di jeans il

consumatore non acquista un oggetto ma l’immagine della virilità del Marlboro man.

Lasch, La cultura del narcisismo cit., p. 89. Gilles Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società deiriperconsumo, Cortina, Milano 2007, pp. 143-44 (ed. or. 2006).

Le Bon, Psicologia delle folle cit., pp. 211-12.

Robert B. Cialdini, Le armi della persuasione. Come e perché si finisce col dire di

sì, Giunti, Firenze 1995, p. 98 (ed. or. 1984). L’esempio più noto citato da Boudon è quello del governo indiano, che negli anni sessanta del secolo scorso incaricò un gruppo di ricercatori di diffondere nel paese la pillola contraccettiva. I ricercatori fecero una prima distribuzione, ma la risposta fu deludente. Essi attribuirono questo insuccesso allo spirito tradizionalista e superstizioso dei contadini indiani ed elaborarono una strategia di comunicazione più personalizzata. Questa volta i contadini accettarono la pillola ma non se ne servirono. Perché?

Perché, spiega appunto Boudon, essi valutarono che fosse economicamente

vantaggioso avere molti bambini che lavorassero la terra. Cosa che non è

falsa, e quindi, insiste il sociologo francese, si può sostenere che i contadini avessero delle buone ragioni che giustificavano la propria credenza, e ciò malgrado il fatto che la sovranatalità fosse un fattore di crescita della

povertà e dell’assenza di sviluppo nel paese. Hannah Arendt, La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme^ Feltrinelli, Milano 2009, pp. 30 e 33 (ed. or. 1963).

22 Philip Zimbardo, L'effetto Lucifero, Cattivi si diventa?, Cortina, Milano 2008,

pp. 318-19 (ed. or. 2007). Boudon propone una visione allargata della razionalità che ha a che

vedere con le riflessioni e le deliberazioni interiori degli individui e si concentra sull’analisi del ruolo della cognizione nell’azione sociale. Come si

è detto, l’individuo non viene considerato come cieco rispetto alle ragioni

alla base dei suoi comportamenti. Le sue scelte (siano esse di consumo, elettorali, di obbedienza o altre ancora) non vengono interpretate in

termini di determinismi inconsci indotti dalla tradizione, dalla cultura, dall’appartenenza a una determinata classe sociale o dall’adesione cieca all’ideologia. Il consumatore osserva, compara, si informa prima di

comprare. L’elettore vaglia i programmi elettorali, valuta i candidati, riflette sull’importanza del voto. L’esecutore valuta le ragioni dei prò e dei

contro del suo atto. Tutti in sostanza possono sempre avere delle «buone ragioni» per credere, agire e anche sbagliare, sebbene queste ragioni siano

diverse e soggettive. Anche le credenze apparentemente più irrazionali, come quelle alla base delle pratiche magiche o di alcuni giudizi morali, possono pertanto essere fondate su atteggiamenti cognitivi razionali, anche

se questa razionalità non è perfetta.

3. L'enigma della cooperazione e Vintreccio tra interessi individuali, norme sociali,

etica ed evoluzione Gerd Gigerenzer, Decisioni intuitive. Quando si sceglie senza pensarci troppo,

Cortina, Milano 2009, p. 41 (ed. or. 2007).

2 Che vi sia una tendenza diffusa tra tutti i popoli a violare la razionalità di tipo economico è emerso da una serie di esperimenti, in cui il gioco

dell’ultimatum è stato sottoposto in decine e decine di luoghi e società diverse. Che però ci sia una norma di equità uguale in tutti gli ambienti, non sembra trovare conferma negli studi effettuati. L’antropologo Joseph Henrich e alcuni suoi colleghi hanno comparato i risultati del gioco in

quindici paesi osservando importanti variazioni. Le offerte medie oscillano

tra 26 per cento della somma da dividere (Perù) e 58 per cento (Indonesia), e il tasso di rifiuti varia tra zero e 40 per cento dei casi. Presso alcuni popoli le offerte inferiori al 20 per cento della somma vengono ampiamente

accettate. Da simili risultati gli autori dello studio hanno tratto la

conclusione che abitudini e usanze possono influire molto sul modo in cui si

conclude una transazione. A tale proposito sembrano pertinenti alcune considerazioni che Friedrich von Hayek ha sviluppato nel primo capitolo della Presunzione fatale. Egli

sottolinea infatti come «gli istinti primordiali dell’uomo ... non erano fatti

per raggruppamenti tanto numerosi come quelli nei quali l’uomo vive adesso. Tali istinti erano adatti alla vita in piccole bande erranti o in gruppi ristretti nei quali la razza umana e i suoi antenati immediati si erano evoluti

nei pochi milioni di anni durante i quali la costituzione biologica dell’Homo sapiens si era venuta formando. Si trattava di istinti geneticamente ereditati che servivano a garantire la cooperazione dei membri del piccolo gruppo,

una cooperazione che era, necessariamente, un’interazione molto ristretta

tra compagni fidati e tutti conosciuti. I popoli primitivi di cui stiamo parlando erano guidati da scopi concreti, condivisi da tutta la comunità, e da una percezione comune dei pericoli e delle opportunità - principalmente le fonti di cibo e di riparo - del loro ambiente» {La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, a cura di William Warren Bartley, ed. it. a cura di Dario

Antiseri, Rusconi, Milano 1997, p. 40; ed. or. 1986). Gli istinti di cui parla

Hayek, che avrebbero favorito raffermarsi di una serie di norme, di regole

di condotta di tipo cooperativo (r«ordine esteso» secondo la definizione

hayekiana) sono, come egli stesso sottolinea, quelli di solidarietà e di altruismo: istinti che garantivano la sopravvivenza degli individui (un

membro del gruppo isolato sarebbe morto) e che permettono a Hayek di

criticare la posizione di Thomas Hobbes rispetto alla «guerra di tutti contro tutti». Marc D. Hauser, Mentì morali. Le origini naturali del bene e del male, il

Saggiatore, Milano 2007, pp. 14 e 32 (ed. or. 2006).

5 Rizzolatti e Sinigaglia, So quel che fai cit., p. 96. Antonio Rosa Damasio, L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano,

Adelphi, Milano 1995, p. 246 (ed. or. 1994). Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano 2011, p. 81 (ed. or. 1759).

Indice dei nomi Adorno, Theodor Wiesengrund

Alien, Woody

Antiseri, Dario Arendt, Hannah Ariely, Dan Asch, Solomon

Augé, Marc Bandura, Albert

Barthes, Roland

Bartley, William Warren Bates, Henry

Baudrillard, Jean

Bauman, Zygmunt Beck, Ulrich

Becker, Gary

Beethoven, Ludwig van Bell, Daniel

Bentham, Jeremy

Bernays, Edward Louis Blackmore, Susan Boas, Franz

Boudon, Raymond

Bourdieu, Pierre Boyd, Robert

Breton, Philippe

Bronner, Gerald Browning, Christopher Robert

Carrey,Jim Cavalli-Sforza, Luigi Luca Churchland, Patricia S. Cialdini, Robert B.

Damasio, Antonio Rosa

Darrus, Benjamin James Darwin, Charles

Dawkins, Clinton Richard Decety,Jean

Dennett, Daniel Detrich, Ernest

Di Caprio, Leonardo Disney, Walt Dumont, Louis Dupuy, Jean-Pierre Durham, William H.

Durkheim, Émile Edmondson, Sarah Ehrenberg, Alain Eichmann, Adolf

Elster, Jon Farrow, Mia Fehr, Ernst

Feldman, Marcus Fonda, Henry

Foot, Philippa Frey, Bruno

Gachter, Simon Gage, Phineas

Gansel, Dennis Giddens, Anthony Gigerenzer, Gerd Girard, René

Gould, Stephen Jay Grisham,John

Haidt, Jonathan Hamilton, William

Hanks, Tom

Hauser, Marc D. Hayek, Friedrich August von Henckel von Donnersmarck, Florian Henrich, Joseph Hitler, Adolf

Hobbes, Thomas Horkheimer, Max Hume, David Illich, Ivan

lyengar, Sheena Jameson, Fredde

Jedlowski, Paolo Jones, Jim

Kahneman, Daniel

Kawai, Masao Keynes, John Maynard

Kohlberg, Lawrence Kren, George Michael

Lasch, Christopher Lazarsfeld, Paul Le Bon, Gustave

Lecaldano, Eugenio Legrenzi, Paolo Lewin, Kurt Lewontin, Richard Lhermitte, Francois Libet, Benjamin

Lipovetsky, Gilles Lippman, Walter

Locke, John Lorenz, Konrad

Lumet, Sidney

Marcuse, Herbert Maslow, Abraham

Mauss, Marcel Meltzoff, Andrew N. Merton, Robert K.

Milgram, Stanley Mill, John Stuart Mills, Charles Wright

Modugno, Domenico

Montagne, Read Moore, Michael

Mùller, Fritz

Olson, Mancur

Orwell, George (Eric Arthur Blair) Packard, Vance

Pavlov, Ivan Perlasca, Giorgio

Perucchi, Lucio Piaget, Jean Piras, Mauro

Pizarro, David Privitera, Walter

Rappoport, Leon

Regan, Dennis T. Richerson, Peter J.

Rizzolatti, Giacomo Salecl, Renata

Scheler, Max Schindler, Oskar

Schwartz, Barry Seabright, Paul Sen, Amartya

Sennett, Richard

Shackleton, Ernest Henry

Simmel, Georg Simon, Herbert Sinigaglia, Corrado Skinner, Burrhus Smith, Adam Smith, Vernon Lomax

Sperber, Dan

Spielberg, Steven

Stone, Oliver Strasser, Todd Tarantino, Quentin Tarde, Gabriel Thomson, Judith

Thorndike, Edward Lee

Tocqueville, Alexis de Tònnies, Ferdinand

Touraine, Alain Trivers, Robert Tversky, Amos

Umiltà, Carlo

Veblen, Thorstein

Waal, Frans de Watson, John

Weber, Max Weir, Peter

Welzer, Harald

Wilson, Edward Osborne Zimbardo, Philip

.

Frontespizio 4 Presentazione 2 Premessa 6 1. Dove va l'uomo contemporaneo? Le scienze sociali e il rapporto tra individuo e società 11 Alcune riflessioni sui cambiamenti della società 11 ...e sui mutamenti dell’individuo contemporaneo 18 Dalla moda del piercing a quella del tatuaggio: costruirsi una propria identità per assomigliare agli altri? 21 Dominare il tempo o diventarne schiavi? 24 Cosa insegna il trionfo di Facebook 27 Come si studia il rapporto tra individuo e società 30 2. L’imitazione sociale tra scelta e necessità: come si spiega la tendenza umana a essere uguali agli altri 34 Esiste davvero una «sindrome di Zelig»? 34 Le molteplici forme dell’imitazione nel mondo vivente 36 L'imitazione negli esseri umani: un tipo di apprendimento meccanico o ragionato? 40 Imitare l'aggressività 44 L’imitazione tra natura e cultura 49 Come la pressione sociale può influire sul desiderio di essere uguali agli altri 54 Persuasione, propaganda mediatica e imitazione 61 Dalla persuasione alla ricerca di conferme: ulteriori riflessioni sulla tendenza umana a fare quello che fanno gli altri 68 Fino a che punto si spingono il conformismo e l’obbedienza? Riflessioni sul fenomeno dell’acquiescenza volontaria agli ordini 74 C’è chi dice no! 80 3. L’enigma della cooperazione e l'intreccio tra interessi individuali, norme sociali, etica ed evoluzione 83 Perché si coopera con gli altri? La prospettiva razionalista 83 Strettamente razionale o genuinamente ragionevole? Il comportamento individuale di fronte alla quotidianità 85 Dalla logica dell’interesse a quella della reciprocità: quando cooperare non comporta vantaggi e può addirittura essere costoso 91 Ma allora a cosa serve cooperare con gli altri? Uno sguardo alla prospettiva evolutiva 92 Razionalità vs emozioni. Alle origini del senso morale 97 Studiare l’individuo oggi dal punto di vista delle neuroscienze 103 Bibliografìa 111 Indice dei nomi 130