Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria generale del diritto 9788858114193

Il volume è un'opera essenziale nella produzione di Norberto Bobbio, espressione autorevole di una significativa ev

616 136 1MB

Italian Pages 253 Year 2007

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria generale del diritto
 9788858114193

Table of contents :
Indice......Page 4
Frontespizio......Page 2
Prefazione (di Mario G. Losano)......Page 7
Note......Page 17
Premessa......Page 19
1. Insufficienza delle tradizionali concezioni protettiva ìe repressiva del diritto......Page 23
2. La teoria del diritto come insieme di norme negative......Page 24
3. Relazione tra norme positive e negative da un lato, e sanzioni positive e sanzioni negative dall’altro......Page 26
4. La teoria del diritto come insieme di norme rafforzate da sanzioni negative......Page 27
5. Norme di condotta e norme di organizzazione......Page 30
6. Funzione promozionale dello stato assistenziale......Page 32
7. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto ai fini......Page 33
8. Segue: e rispetto ai mezzi......Page 34
9. Differenza tra premio e facilitazione......Page 35
10. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto alla struttura......Page 37
11. Segue: e rispetto alla funzione......Page 38
Note......Page 39
1. Crescente importanza delle sanzioni positive......Page 41
2. Varie specie di sanzioni positive e negative......Page 42
3. Le sanzioni positive come sanzioni giuridiche......Page 44
4. Sanzioni positive e facilitazioni......Page 46
5. Misure dirette e misure indirette......Page 47
Note......Page 49
1. Il posto del diritto nelle società industriali avanzate......Page 50
2. Due concezioni opposte della funzione del giurista secondo il diverso tipo di sistema giuridico (chiuso o aperto), la diversa condizione della società (stabile o in movimento), la diversa concezione del diritto (come sistema autonomo o dipendente)......Page 53
3. Il diritto come sistema aperto, in una società in trasformazione, e come sistema autonomo......Page 57
4. La funzione del giurista comparata a quella del sociologo......Page 61
Note......Page 65
1. Prevalenza delle teorie strutturalistiche su quelle funzionalistiche nella teoria generale del diritto......Page 67
2. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen......Page 69
3. La teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo......Page 72
4. Le sanzioni positive nell’opera di Kelsen......Page 75
5. Ragioni storiche dell’estensione delle sanzioni positive nello stato contemporaneo......Page 78
6. Gl’incentivi e i premi come due forme dell’attività promozionale dello stato......Page 81
7. Se la crescente importanza dell’azione promozionale dello stato metta in crisi la teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo......Page 83
8. L’azione promozionale dello stato incide sul modo d’intendere il diritto non dal punto di vista strutturale ma dal punto di vista funzionale......Page 86
Note......Page 88
1. Crescente importanza dell’analisi funzionale del diritto......Page 90
2. Ragioni dello scarso interesse passato e del nascente interesse per l’analisi funzionale del diritto......Page 93
3. La perdita di funzione del diritto nella società industriale......Page 95
4. Funzione positiva, funzione negativa, disfunzione del diritto......Page 98
5. La funzione distributiva del diritto......Page 101
6. La funzione promozionale del diritto......Page 104
7. Difficoltà cui va incontro l’analisi funzionale del diritto......Page 106
8. Prima difficoltà: funzione rispetto a che cosa?......Page 107
9. Seconda difficoltà: funzione a quale livello?......Page 109
10. Terza difficoltà: quale diritto?......Page 110
11. Conclusione......Page 114
Note......Page 115
1. Norme di condotta e norme di organizzazione......Page 119
2. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione non coincide né con la distinzione fra norme positive e negative né con quella tra norme astratte e concrete......Page 120
3. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione in base alla loro diversa funzione......Page 123
4. Comparazione fra le norme di condotta e di organizzazione, da un lato, e le norme primarie e secondarie, dall’altro......Page 125
5. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione messa in relazione con la distinzione fra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come istituzione......Page 126
6. Le «grandi dicotomie» e la loro importanza sistematica......Page 130
7. La grande dicotomia fra norme di condotta e norme di organizzazione comparata alle grandi dicotomie dei giusnaturalisti e dei sociologi positivisti......Page 132
8. ... e alla grande dicotomia di Durkheim fra solidarietà meccanica e solidarietà organica......Page 134
9. Dalla distinzione fra sanzioni repressive e sanzioni restitutive alla distinzione fra sanzioni negative e sanzioni positive......Page 135
Note......Page 138
1. Caratteristiche delle grandi dicotomie......Page 140
2. La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico come grande dicotomia......Page 143
3. Uso storiografico e uso assiologico della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico......Page 145
4. Uso universalizzante......Page 148
5. Se la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo sia una grande dicotomia......Page 151
6. La distinzione tra diritto naturale e diritto positivo come dicotomia derivata......Page 154
Note......Page 155
1. La fortuna postuma della dottrina di Santi Romano......Page 157
2. È necessario distinguere la teoria dell’istituzione dalla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici......Page 160
3. La teoria istituzionale è meno elaborata di quella pluralistica......Page 162
4. La teoria pluralistica è indipendente da quella istituzionale......Page 163
5. Il rapporto fra teoria e ideologia in generale, con particolare riguardo alla dottrina di Romano......Page 164
6. Critica di un’interpretazione ideologica della dottrina di Romano......Page 167
7. Romano è teoricamente un pluralista ma ideologicamente un monista......Page 168
8. Conclusione......Page 170
Note......Page 171
1. Significato dell’opera di Kelsen nella storia della teoria generale del diritto nell’ultimo secolo......Page 177
2. Fatti e valori nella teoria del diritto del Kelsen: l’ideale della scienza e la non scientificità degli ideali......Page 182
3. La teoria pura del diritto come teoria dell’ordinamento giuridico......Page 187
4. Struttura e funzione nella teoria del diritto......Page 194
Note......Page 199
1. Riflessioni introduttive e conclusive sull’ultima opera......Page 203
2. L’interesse prevalente per il problema dell’interpretazione e della comparazione giuridica nei primi scritti minori......Page 208
3. La partecipazione alla lotta antifascista attraverso la collaborazione a «Studi politici» e a «Quarto stato»......Page 214
4. Breve rassegna degli scritti giuridici tra il 1926 e il 1946......Page 220
5. Gli scritti di teoria generale dopo il 1946 e la critica del positivismo giuridico......Page 224
6. Critica della teoria tradizionale delle fonti in una visione antiformalistica dei rapporti tra diritto e società, tra diritto ed economia......Page 226
7. Il problema dell’interpretazione......Page 232
8. In particolare critica del logicismo e avvicinamento alla scuola della «nouvelle rhétorique» di Perelman......Page 236
9. Azione politica e interessi culturali dopo il ritorno dall’esilio sino alla morte......Page 239
10. Giudizio complessivo sull’opera e sulla personalità di Tullio Ascarelli......Page 245
Note......Page 247

Citation preview

Biblioteca Universale Laterza Norberto Bobbio

Dalla struttura alla funzione Nuovi studi di teoria del diritto

Editori Laterza

© 2007, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: novembre 2015 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858114193 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Sommario

Prefazione (di Mario G. Losano) Note

Premessa I. La funzione promozionale del diritto 1. Insufficienza delle tradizionali concezioni protettiva ìe repressiva del diritto 2. La teoria del diritto come insieme di norme negative 3. Relazione tra norme positive e negative da un lato, e sanzioni positive e sanzioni negative dall’altro 4. La teoria del diritto come insieme di norme rafforzate da sanzioni negative 5. Norme di condotta e norme di organizzazione 6. Funzione promozionale dello stato assistenziale 7. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto ai fini 8. Segue: e rispetto ai mezzi 9. Differenza tra premio e facilitazione 10. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto alla struttura 11. Segue: e rispetto alla funzione Note

II. Le sanzioni positive 1. Crescente importanza delle sanzioni positive 2. Varie specie di sanzioni positive e negative 3. Le sanzioni positive come sanzioni giuridiche 4. Sanzioni positive e facilitazioni 5. Misure dirette e misure indirette Note

III. Diritto e scienze sociali 1. Il posto del diritto nelle società industriali avanzate 2. Due concezioni opposte della funzione del giurista secondo il diverso tipo di sistema giuridico (chiuso o aperto), la diversa condizione della società (stabile o in movimento), la diversa concezione del diritto (come sistema autonomo o dipendente) 3. Il diritto come sistema aperto, in una società in trasformazione, e come sistema autonomo 4. La funzione del giurista comparata a quella del sociologo Note

IV. Verso una teoria funzionalistica del diritto 1. Prevalenza delle teorie strutturalistiche su quelle funzionalistiche nella teoria generale del diritto

2. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen 3. La teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo 4. Le sanzioni positive nell’opera di Kelsen 5. Ragioni storiche dell’estensione delle sanzioni positive nello stato contemporaneo 6. Gl’incentivi e i premi come due forme dell’attività promozionale dello stato 7. Se la crescente importanza dell’azione promozionale dello stato metta in crisi la teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo 8. L’azione promozionale dello stato incide sul modo d’intendere il diritto non dal punto di vista strutturale ma dal punto di vista funzionale Note

V. L’analisi funzionale del diritto: tendenze e problemi I 1. Crescente importanza dell’analisi funzionale del diritto 2. Ragioni dello scarso interesse passato e del nascente interesse per l’analisi funzionale del diritto 3. La perdita di funzione del diritto nella società industriale 4. Funzione positiva, funzione negativa, disfunzione del diritto 5. La funzione distributiva del diritto 6. La funzione promozionale del diritto II 7. Difficoltà cui va incontro l’analisi funzionale del diritto 8. Prima difficoltà: funzione rispetto a che cosa? 9. Seconda difficoltà: funzione a quale livello? 10. Terza difficoltà: quale diritto? 11. Conclusione Note

VI. Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto 1. Norme di condotta e norme di organizzazione 2. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione non coincide né con la distinzione fra norme positive e negative né con quella tra norme astratte e concrete 3. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione in base alla loro diversa funzione 4. Comparazione fra le norme di condotta e di organizzazione, da un lato, e le norme primarie e secondarie, dall’altro 5. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione messa in relazione con la distinzione fra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come istituzione 6. Le «grandi dicotomie» e la loro importanza sistematica 7. La grande dicotomia fra norme di condotta e norme di organizzazione comparata alle grandi dicotomie dei giusnaturalisti e dei sociologi positivisti 8. ... e alla grande dicotomia di Durkheim fra solidarietà meccanica e solidarietà organica 9. Dalla distinzione fra sanzioni repressive e sanzioni restitutive alla distinzione fra sanzioni negative e sanzioni positive Note

VII. La grande dicotomia 1. Caratteristiche delle grandi dicotomie 2. La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico come grande dicotomia 3. Uso storiografico e uso assiologico della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico

4. Uso universalizzante 5. Se la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo sia una grande dicotomia 6. La distinzione tra diritto naturale e diritto positivo come dicotomia derivata Note

VIII. Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano 1. La fortuna postuma della dottrina di Santi Romano 2. È necessario distinguere la teoria dell’istituzione dalla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici 3. La teoria istituzionale è meno elaborata di quella pluralistica 4. La teoria pluralistica è indipendente da quella istituzionale 5. Il rapporto fra teoria e ideologia in generale, con particolare riguardo alla dottrina di Romano 6. Critica di un’interpretazione ideologica della dottrina di Romano 7. Romano è teoricamente un pluralista ma ideologicamente un monista 8. Conclusione Note

IX. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen 1. Significato dell’opera di Kelsen nella storia della teoria generale del diritto nell’ultimo secolo 2. Fatti e valori nella teoria del diritto del Kelsen: l’ideale della scienza e la non scientificità degli ideali 3. La teoria pura del diritto come teoria dell’ordinamento giuridico 4. Struttura e funzione nella teoria del diritto Note

X. Tullio Ascarelli 1. Riflessioni introduttive e conclusive sull’ultima opera 2. L’interesse prevalente per il problema dell’interpretazione e della comparazione giuridica nei primi scritti minori 3. La partecipazione alla lotta antifascista attraverso la collaborazione a «Studi politici» e a «Quarto stato» 4. Breve rassegna degli scritti giuridici tra il 1926 e il 1946 5. Gli scritti di teoria generale dopo il 1946 e la critica del positivismo giuridico 6. Critica della teoria tradizionale delle fonti in una visione antiformalistica dei rapporti tra diritto e società, tra diritto ed economia 7. Il problema dell’interpretazione 8. In particolare critica del logicismo e avvicinamento alla scuola della «nouvelle rhétorique» di Perelman 9. Azione politica e interessi culturali dopo il ritorno dall’esilio sino alla morte 10. Giudizio complessivo sull’opera e sulla personalità di Tullio Ascarelli Note

Prefazione (di Mario G. Losano)

«La storia degli intellettuali» è vista da Norberto Bobbio (1909-2004) «come la storia della coscienza che i produttori e gli agitatori d’idee hanno del proprio tempo»1: questo può essere l’angolo di visuale da cui esaminare Dalla struttura alla funzione, l’opera di Bobbio pubblicata nel 1977 che riassume e conclude il suo periplo della filosofia giuridica2. Il suo viaggio attraverso il positivismo giuridico aveva trovato un saldo ancoraggio nella teoria pura del diritto di Hans Kelsen (1881-1973), con la quale l’attenzione dei giuristi si era spostata dalla norma giuridica all’ordinamento, cioè al sistema giuridico. Al positivismo giuridico e alla struttura dell’ordinamento in Kelsen Bobbio aveva dedicato vari studi fra il 1954 e il 1986, raccolti in volume nel 19923. La sua attenzione si era poi rivolta ai rapporti del positivismo giuridico con la sua dottrina antagonista, il giusnaturalismo, e i suoi saggi dedicati fra il 1956 e il 1964 a questo confronto erano stati raccolti nel 1965 in un volume4, che Laterza sta per ripubblicare in questa stessa collana. Infine aveva ampliato l’orizzonte del positivismo giuridico e della concezione strutturale del diritto aggregandovi l’analisi funzionale del diritto, cui dedicò nel 1977 il libro qui ristampato5, che contiene saggi scritti fra il 1969 e il 1975. Questa evoluzione è anche il riflesso degli eventi storici vissuti da Bobbio in quei decenni. Nei vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il positivismo giuridico garantiva quella certezza del diritto che era mancata nel precedente ventennio della dittatura. Finalmente esistevano una costituzione democratica e una crescente legislazione che rispondevano agli ideali della Resistenza contro il nazifascismo. Il nuovo ordinamento giuridico aveva contribuito anche alla rinascita materiale dell’Italia negli anni del «miracolo economico». Il rispetto dello Stato come unica fonte del diritto e il rispetto delle singole norme come espressione di un ordinamento democratico erano le comprensibili esigenze di chi

rifiutava un diritto applicato secondo principi ad esso esterni: positivismo giuridico, dunque, e non giusnaturalismo, qualunque forma esso assumesse. Anche per Bobbio la rottura dell’equilibrio post-bellico è simboleggiata dal 1968, con la contestazione studentesca, con l’instabilità dei governi culminata nel tentativo di colpo di Stato di Valerio Borghese del 1970, con l’inizio degli «anni di piombo» segnato dalla strage di Piazza Fontana del 1969, e così via. Il susseguirsi di questi eventi finì per provocare un mutamento di prospettiva nell’ambito della sua visione del diritto. Nella storia culturale italiana, e in particolare nella storia della cultura giuridica, il 1969 segna fra l’altro l’inizio istituzionale della sociologia del diritto e lo spostarsi dell’interesse di Bobbio dallo studio della struttura allo studio della funzione del diritto: è del 1969, infatti, il suo articolo Sulla funzione promozionale del diritto. La sociologia generale era giunta in Italia sull’onda dell’entusiasmo post-bellico per gli Stati Uniti e nel 1951 era stato pubblicato il primo numero dei «Quaderni di sociologia». La sociologia del diritto veniva propugnata in Italia da Renato Treves (19071992), il fraterno amico di Bobbio rientrato dall’esilio argentino. Essa tuttavia si affermava con fatica nell’università: solo nel 1969, infatti, l’Università di Milano affidava questa cattedra a Treves, che l’aveva preparata con un’assidua attività6. In quegli anni, ricorda Bobbio, «si era cominciato a discutere del ruolo del sociologo e di conseguenza della funzione della scienza empirica della società e di tutte le tecniche di ricerca che le sono proprie, nella politica di sviluppo di un paese in rapida trasformazione»7. L’impulso diretto a studiare la funzione assolta dal diritto in una società in trasformazione era giunto a Bobbio da un articolo del filosofo argentino Genaro Carrió, pubblicato nel 1966 in traduzione italiana8. Quest’articolo si occupava di un tema teorico tipico della filosofia del diritto analitica (l’obbligo giuridico), ma lo affrontava tenendo conto anche «dei mutamenti straordinari avvenuti nel contesto sociale» dall’inizio del secolo XX, tutti caratterizzati dal crescente intervento dello Stato nella vita sociale: mutamenti di fronte ai quali la teoria generale del diritto doveva rinnovarsi per non trasformarsi in «un gigantesco anacronismo»9. L’invito di Carrió era pressante: «La teoria generale del diritto deve rivedere urgentemente il proprio apparato concettuale e anche le sue pretese.

Invece di rinchiudersi in un recinto ermetico di pre-concetti (o di pregiudizi), i teorici generali del diritto devono discendere nell’arena dove i giuristi [...] sono giorno per giorno alle prese con i più difficili problemi della nostra società. Si impone un nuovo compito di chiarificazione che [...] ci mostri come i giuristi, incalzati dalle preoccupazioni e dalle necessità del presente, sono andati introducendo modificazioni importanti, sebbene non ancora sufficientemente percepite, nel loro apparato concettuale»10. A questo invito al «nuovo compito» Bobbio rispondeva con i suoi studi sulla funzione del diritto. Anche tutt’intorno a lui lo Stato si era trasformato da guardiano notturno a imprenditore: non si limitava a prendere atto delle richieste che gli giungevano dalla società, ma pretendeva esso stesso di indirizzare la società; non reprimeva soltanto i comportamenti riprovevoli, ma promuoveva anche quelli commendevoli; quello che non poteva ottenere con il bastone della repressione cercava di ottenerlo con la carota dell’incentivo; alla sanzione negativa affiancava sempre più la sanzione positiva o, per usare un’espressione di Rudolf von Jhering, alla sanzione penale associava anche la sanzione premiale11. All’aria del tempo si aggiungeva per Bobbio anche la vicinanza intellettuale dell’amico Treves e della sua campagna per l’affermazione della sociologia del diritto: con l’arrivo degli anni Settanta, negli articoli di Bobbio sulla concezione funzionale del diritto «si sente che la sociologia del diritto batte alle porte»12. Bobbio è scrittore di saggi, più che di libri: egli stesso ha detto che l’invito a scrivere un manuale era stato per lui un «incubo», perché coltivava la filosofia del diritto non con «un potente trattore», ma con «le forbici da giardiniere»13. Anche il presente volume è quindi una raccolta di accuratissimi saggi, scritti tra il 1969 e il 1975 e disposti secondo un ordine in parte cronologico e in parte sistematico. I primi due capitoli ci portano subito in medias res con la sanzione positiva quale elemento caratterizzante della funzione promozionale del diritto; seguono poi cinque capitoli sulla genesi della teoria funzionalistica del diritto e tre capitoli conclusivi indirettamente legati alla teoria funzionale del diritto. La tematica del libro si può quindi organizzare secondo tre cerchi concentrici: un nucleo centrale in cui Bobbio analizza la teoria funzionale del diritto in un costante confronto con la teoria strutturale o sistematica del diritto (che egli però non abbandona, ma affianca alla sua nuova concezione: capp. III-

VII e IX); un’analisi approfondita dello strumento principe della funzione promozionale del diritto, cioè la sanzione positiva (capp. I-II); infine, tre saggi complementari al nucleo centrale (capp. VIII-X). In queste poche pagine di presentazione del testo di Bobbio può essere chiarificatore partire dal nucleo centrale e procedere verso gli anelli esterni. Il tema dei rapporti fra diritto e scienze sociali è l’oggetto di un suo scritto del 1971. Esso occupa il terzo posto in questo volume, perché Bobbio ha ritenuto opportuno anteporvi un saggio sulla funzione promozionale del diritto, scritto prima, e uno immediatamente successivo sulle sanzioni positive. Ma conviene anticipare l’esame delle connessioni tra diritto e scienze sociali perché esso facilita la comprensione del percorso intellettuale di Bobbio. Il punto di partenza del ragionamento di Bobbio è la mutata rilevanza del diritto nelle società industriali avanzate: esso non è più al centro dell’attenzione del filosofo, come in Kant o in Hegel, ma – dopo le critiche di Saint-Simon, Comte e Marx – è visto come un fenomeno marginale, utile soprattutto per il controllo sociale. Attraverso sottili dicotomie – il giurista come conservatore o come innovatore di regole; il giurista che opera in un sistema giuridico aperto o chiuso, stabile o instabile, autonomo o integrato rispetto alla società – Bobbio constatava come la scienza giuridica delle società industriali si interessasse sempre più alla funzione creativa del giudice, alle fonti extrastatali del diritto e alla funzione direttrice dello Stato. Giungeva così alla caratteristica dello Stato assistenziale, i cui scopi «sono tali che per il loro raggiungimento occorre una continua opera di stimolazione di comportamenti considerati economicamente vantaggiosi»14. Il diritto della società industriale si muoveva ormai fuori dai rigidi confini del positivismo: al sistema chiuso, coerente e completo di norme giuridiche bisognava aggiungere altre dimensioni, sintetizzate dalla metafora della rete15. Questa metafora, resa oggi attuale dall’informatica, è già anticipata da Bobbio: sorpreso per il disinteresse dei sociologi verso i concetti giuridici che invece potrebbero arricchire l’analisi sociologica, egli sostiene che il giurista sarebbe in grado di apportare alla sociologia l’approfondita conoscenza proprio di «quei reticolati di regole entro cui si muovono i membri di qualsiasi gruppo sociale»16. A questo saggio sulle due discipline sociali – diritto e sociologia – che

corrono parallele senza quasi trovare punti di contatto, segue (tanto logicamente, quanto nella struttura del presente volume) una descrizione articolata di quello che differenzia una teoria funzionalistica del diritto dalla tradizionale teoria strutturale o sistematica del diritto17. Questo saggio riprende le mosse dalla concezione sistematica del diritto e in particolare da Kelsen, cioè dal rappresentante più rigoroso del positivismo giuridico, cui Bobbio aveva dedicato attente analisi in passato. Anche in Kelsen, constata Bobbio, le norme premiali sono ritenute marginali, mentre in realtà lo Stato opera sempre più anche con premi (per chi ha già compiuto un’attività commendevole) e con incentivi (per chi compirà un’attività commendevole). La tradizionale funzione repressiva viene esercitata soprattutto attraverso l’uso della forza, mentre la funzione promozionale si avvale soprattutto dell’economia: ed è proprio l’accresciuta presenza dello Stato nell’economia ad offrirgli lo strumento per aumentare le sanzioni positive. Ma questa accresciuta attività promozionale provoca una trasformazione all’interno dell’ordinamento giuridico, trasformazione che a sua volta deve trovare un riflesso anche nella teoria giuridica: questo riflesso è l’affiancarsi di una teoria funzionale del diritto a una teoria sistematica del diritto. Per Bobbio, infatti, la visione funzionale è complementare alla visione sistematica o strutturale del diritto. Le due visioni del diritto sono per lui diverse ma interdipendenti, complementari ma non coincidenti: infatti la stessa struttura del diritto può svolgere più funzioni e, viceversa, la stessa funzione del diritto può essere svolta da strutture normative diverse. Il teorico del diritto deve perciò studiare tanto la struttura quanto la funzione del diritto. Va sottolineato che Bobbio si occupa soltanto dell’aspetto teorico della funzione promozionale dello Stato e delle sue norme di incentivazione. Diverso problema è invece quello delle concrete funzioni o disfunzioni delle norme promozionali. Per studiarle bisogna analizzare i modelli politici che lo Stato vuole favorire, oppure esaminare l’efficacia concreta delle norme di incentivo (implementation), oppure svolgere una critica economica o politica all’uso abnorme che, in concreto, un ceto politico ne ha fatto. Proprio in quegli stessi anni, per esempio, Ernesto Rossi tuonava contro la privatizzazione del denaro pubblico attuata dallo Stato incentivatore.

Questi aspetti sostanziali non vengono però presi in considerazione da Bobbio, perché egli si propone di mettere a fuoco gli aspetti formali delle norme di incentivo, sino ad allora trascurati. I suoi punti di riferimento sono quindi i teorici del diritto, non i pratici dell’economia o della politica. Il suo linguaggio è quello della filosofia del diritto, di cui egli sottolinea il legame prevalente con la sanzione negativa e che egli cerca quindi di adattare alla nuova situazione con una minuziosa analisi linguistica e con sottili distinzioni teoriche. Nella lettura del saggio scritto per Gioja verso il 1971, qualche espressione può suscitare incertezze nel lettore. Quando Bobbio parla di una «considerazione strumentale del diritto» in Kelsen18 può sorgere il dubbio che – per omogeneità con precedenti asserzioni – si tratti in realtà di una considerazione strutturale del diritto. In realtà, come si evince dal contesto, Bobbio si riferisce alla concezione kelseniana del diritto come mezzo e non come fine: per Kelsen il diritto è uno strumento di organizzazione sociale indipendentemente dal fine che intende perseguire. Le perplessità aumentano però quando si legge: «Mentre Kelsen non ha mai abbandonato del tutto il punto di vista funzionale, anzi, l’unica definizione del diritto che si trova in Kelsen è di tipo funzionale, Hart [...] ha portato alle estreme conseguenze l’approccio strutturale»19. Questa formulazione può sembrare in contrasto con quanto Bobbio stesso aveva scritto all’inizio del medesimo saggio: «Nell’opera di Kelsen non solo analisi funzionale e analisi strutturale sono dichiaratamente separate, ma questa separazione è la base teorica su cui Kelsen fonda l’esclusione della prima [l’analisi funzionale] a favore della seconda», cioè dell’analisi strutturale20. Rispetto a questi testi, e a dubbi simili che possono sorgere nella lettura, è necessario risolvere in primo luogo un problema filologico e, in secondo luogo, un problema analitico. La filologia impone anzitutto di chiedersi se Bobbio abbia effettivamente scritto quelle parole; l’esame analitico impone poi di verificare come quell’affermazione filologicamente accertata si inserisca nella costruzione teorica di Bobbio. Il confronto con la traduzione in spagnolo dello stesso Gioja conferma che il testo italiano non contiene errori materiali. Per ragioni di spazio, invece, bisogna qui omettere un esame analitico del testo di Bobbio: sarebbe infatti necessario verificare se il suo testo presenta vere e proprie ambiguità, o invece

soltanto difficoltà di interpretazione. In entrambi i casi il discorso si farebbe troppo lungo e complesso. Nel 1975 Bobbio ritornò sul rapporto fra sistema e funzione nel diritto con un articolo pubblicato nella rivista che intanto Renato Treves aveva fondato: «Sociologia del diritto». Bobbio constatava quanto rapidamente si fosse diffuso l’interesse scientifico per la funzione promozionale del diritto, ma invitava anche a precisare i termini e i concetti di cui spesso si faceva un uso indistinto. Infatti molti cultori di discipline diverse parlavano di «funzione» e di «diritto», ma spesso si riferivano a cose diverse designandole con lo stesso nome. Alle precedenti considerazioni Bobbio aggiungeva perciò tre precisazioni analitiche: sull’oggetto della funzione (il diritto può assolvere la sua funzione rispetto all’intera società, ovvero rispetto ai singoli che la compongono); sul livello della funzione (il diritto può avere funzioni fra loro concatenate, ma di livello diverso: la sicurezza individuale, la soluzione di conflitti, l’organizzazione del potere); e, infine, sul diritto della cui funzione si parla: si parla della funzione del diritto repressivo, conservatore, ovvero di quella del diritto distributivo, innovatore? Si parla del diritto pubblico o di quello privato, delle norme primarie o di quelle secondarie (Hart), delle norme di condotta o di quelle di organizzazione? Quasi tutte le precisazioni che scaturiscono da questi tre ordini di distinzioni non sono contrapposte, ma complementari; tuttavia, afferma Bobbio, è opportuno chiarirle preliminarmente per evitare dispute fondate non sulla diversità delle concezioni, ma su malintesi terminologici. Nel precisare la nozione di diritto cui si riferisce l’analisi funzionale del diritto, Bobbio richiama la «grande dicotomia» fra diritto pubblico e diritto privato. In quegli stessi anni, infatti, egli aveva analizzato il tema delle grandi dicotomie nel diritto in due saggi, che in questo volume concludono perciò i capitoli dedicati ad individuare le caratteristiche dell’analisi funzionale del diritto. In entrambi vengono riprese e approfondite le distinzioni fra norme giuridiche, accennate poco sopra, collocate però in un quadro teorico generale che le arricchisce di riferimenti alle grandi dicotomie sociologiche e storico-filosofiche. Nel primo saggio la dicotomia fra norme di condotta e norme di organizzazione viene desunta dall’economista liberale Friedrich Hayek; inoltre vengono esaminate le ricadute sulla concezione del diritto delle

classiche dicotomie di Tönnies fra comunità e società, di Spencer tra società militari e società industriali e di Durkheim tra solidarietà meccanica e solidarietà organica. A queste dicotomie si aggiunge, nel secondo saggio, «la fatidica distinzione»21 fra diritto naturale e diritto positivo, che in proteiformi sembianze si ripresenta in ogni teoria del diritto e che richiama il tema centrale di un altro volume di Bobbio22. Nell’ambito dei temi sin qui trattati Bobbio affronta la funzione promozionale del diritto in due saggi: poiché il primo, del 1969, era stato ripreso con alcuni ampliamenti nel 1971, entrambi possono essere commentati qui congiuntamente, dal momento che lo stesso Bobbio aveva incluso in questa raccolta soltanto le parti del secondo saggio che integravano il primo. Il punto di partenza è la constatazione che lo Stato assistenziale – a partire dal tentativo di mettere riparo alla crisi economica mondiale del 1929 – non può usare soltanto la repressione per proteggere i valori che ritiene positivi, ma deve promuoverli anche con l’incentivazione. Bisogna quindi precisare e innovare la terminologia giuridica tradizionale. In primo luogo, la distinzione tra norme negative e positive (cioè fra divieti e comandi) non coincide concettualmente con quella fra sanzioni negative e positive (cioè fra premi e castighi), anche se di fatto si possono verificare tutte e quattro le combinazioni possibili: comando assistito da premio; comando assistito da castigo; divieto assistito da premio; divieto assistito da castigo. Una ricerca empirica in vari ordinamenti giuridici positivi potrebbe fornire esempi di queste quattro categorie analitiche. Tradizionalmente ci si limita a identificare l’ordinamento giuridico come un insieme di divieti accompagnati da castighi e, di conseguenza, il termine «sanzione» è generalmente inteso come «sanzione negativa», cioè pena o castigo. Anche se nel 1885 Rudolf von Jhering aveva inserito armonicamente le sanzioni positive, cioè il diritto premiale, nella sua architettura finalistica dell’ordinamento giuridico, questo tema era rimasto ai margini della teoria giuridica fino alla metà del XX secolo. Poiché lo Stato assistenziale interviene sempre più nel mondo economico, è proprio un economista, il teorico austriaco del liberalismo Friedrich Hayek, a richiamare l’attenzione sul fatto (per lui riprovevole) che le norme di condotta vengono sempre più spesso sostituite da norme di organizzazione: di organizzazione, cioè, dell’invadente apparato statale.

Partendo dall’analisi critica di Hayek, Bobbio costruisce un sistema di tripartizioni che individuano l’azione dello Stato moderno: un ordinamento repressivo mira a rendere impossibile, difficile o svantaggiosa un’azione con misure dirette; un ordinamento promozionale mira invece a renderla necessaria, agevole, vantaggiosa con misure indirette. La materia delle leggi promozionali o d’incentivo viene così organizzata da Bobbio in due dicotomie. Nella prima, egli distingue il tradizionale ordinamento repressivo dal moderno ordinamento promozionale rispetto ai fini (il primo reprime le azioni indesiderate; il secondo induce a quelle desiderate) e rispetto ai mezzi (il primo ricorre allo scoraggiamento; il secondo all’incentivo). Nella seconda, Bobbio distingue poi la struttura e la funzione che sono proprie delle misure di scoraggiamento e di incentivazione: qui i termini «struttura» e «funzione» non si riferiscono più all’ordinamento nel suo insieme, ma alle sanzioni (positive o negative) presenti nell’ordinamento stesso. La struttura della norma di scoraggiamento è la minaccia, mentre la struttura della norma di incentivazione è la promessa di un vantaggio. Ne risulta così ampliata la visione tradizionale dell’ordinamento giuridico, che si concentrava quasi esclusivamente sulla sanzione negativa. Seguendo la sequenza indicata da Bobbio, il presente volume si conclude con tre saggi su tre giuristi: il saggio su Kelsen è riconducibile direttamente al nucleo del libro (e perciò è già stato analizzato poco sopra), perché in esso l’analisi della natura sistematica o strutturale dell’ordinamento giuridico fa costantemente da contrappunto alla teoria funzionalistica, come del resto – negli altri saggi sulla funzione del diritto – sono frequenti i riferimenti a Kelsen come massimo teorico della teoria strutturale del diritto. Il saggio su Santi Romano venne scritto nel 1975. È quindi il più tardo fra quelli ripresi nel presente volume e ricostruisce il dualismo tra la teoria del diritto come istituzione (che si contrappone alla teoria normativa, e quindi al suo corifeo Hans Kelsen) e la teoria pluralistica degli ordinamenti giuridici (che si contrappone alla dottrina monistica, per la quale l’unica fonte del diritto è lo Stato). Anche questa seconda teoria oppone Romano a Kelsen. Nella sua Introduzione, Bobbio menziona appena questo ampio saggio su Romano, che, fra quelli raccolti, è solo indirettamente connesso al tema della teoria funzionale del diritto così come la sviluppano gli altri

saggi. Il saggio conclusivo è dedicato a Tullio Ascarelli, uno studioso di diritto commerciale i cui interessi andavano ben oltre quelli della materia che insegnava. Il suo contatto con un ramo del diritto in perenne trasformazione, su cui lo Stato può intervenire soltanto in certa misura, fa di lui uno dei primi giuristi italiani – se non addirittura il primo – ad aver proposto una teoria funzionale del diritto. Essa, scrive nell’edizione brasiliana Celso Lafer, «ha la sua origine nello studio del diritto commerciale, nel contatto professionale di Ascarelli con i problemi della società capitalista e nella chiarezza concettuale con cui percepiva la funzione economica del diritto»23. Negli anni attuali, in cui è ormai abituale considerare l’Italia in uno stato permanente di crisi, è istruttivo e quasi emozionante scoprire, nelle lettere citate da Bobbio, l’entusiasmo con cui Ascarelli parla dello sviluppo economico italiano nel dopoguerra. Erano gli anni del miracolo italiano, in cui l’IRI, la Cassa del Mezzogiorno e l’intervento statale – dal 1952 al 1962 – avevano contribuito a far crescere del 47% il reddito pro capite degli italiani. In questo contesto, la funzione promozionale del diritto nello Stato industriale non poteva certo sfuggire ai giuristi più attenti. Ma dall’ultimo decennio del XX secolo, con l’avvento della società post-industriale, hanno ripreso vigore le teorie neoliberali, che chiedono meno funzione promozionale dello Stato e più funzione selettiva del mercato, secondo la formula «meno Stato e più mercato». Se la società è in crisi, affermava Ronald Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il problema». D’altra parte, ai governi neoliberisti si rimprovera di ridurre l’intervento statale nelle spese sociali, cioè nel sostegno ai deboli, e di favorire invece il neodarwinismo sociale che avvantaggia soprattutto le imprese senza bandiera tipiche dell’economia globalizzata. In realtà il neoliberalismo, obiettano i suoi critici, vuole non già ridurre lo Stato, ma ri-direzionare la sua spesa; non vuole meno Stato, ma un altro Stato. Infatti la crisi fiscale dello Stato impone di scegliere a chi assegnare le risorse, cioè di decidere non se lo Stato debba intervenire, ma come debba intervenire. In altre parole, la politica deve scegliere quali libertà finanziare e quali no. Si aprirebbe qui un dibattito cui non è possibile neppure accennare. Basti ricordare però che proprio dalla Scuola di Chicago – quella che

propugnò l’analisi economica del diritto – viene un monito sull’irrinunciabilità dell’intervento statale in ogni società evoluta: «Le libertà dei singoli comportano costi a carico di tutti»24; però soltanto lo Stato può realizzare il prelievo fiscale e decidere l’allocazione delle risorse. Di conseguenza, anche in una società complessa come quella postindustriale la ridistribuzione deve avvalersi delle norme di incentivo. In questo nuovo contesto, la distinzione fra teorie strutturali e teorie funzionali del diritto non perde la sua rilevanza pratica e conserva intatto il suo valore teorico. M.G.L.

Note 1

N. Bobbio, Profilo ideologico del ’900, Garzanti, Milano 1990, p. 209. Ho tentato di tracciare un portolano di questo periplo in Norberto Bobbio e il positivismo giuridico, in Giornata Lincea in Ricordo di Norberto Bobbio, Atti dei Convegni Lincei n. 226, Bardi Editore, Roma 2006, pp. 55-78. Esso è premesso (insieme con uno scritto di Celso Lafer) alla traduzione brasiliana del volume qui presentato: O pensamento de Norberto Bobbio, do positivismo jurídico à função do direito, in N. Bobbio, Da estrutura à função. Novos estudos de teoria do direito, Manole, Barueri (São Paulo) 2007, pp. XIX-XLIX. 3 N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. 4 N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1965. 5 N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Edizioni di Comunità, Milano 1977. Questi studi vengono presentati come «nuovi» in rapporto ai precedenti volumi di Bobbio, Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955; Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970. 6 Per un maggiore approfondimento dei rapporti di Treves con Bobbio, Del Vecchio e Kelsen, nonché per la storia del suo apporto alla sociologia giuridica italiana, cfr. M.G. Losano, Renato Treves, sociologo tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, con il regesto di un archivio ignoto e la bibliografia di Renato Treves, Unicopli, Milano 1998. 7 Bobbio, Profilo ideologico del ’900, cit., p. 232. 8 G.R. Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, in «Rivista di filosofia», LXII, 1966, pp. 141-55. Il fascicolo della rivista è intitolato Studi sull’obbligo giuridico e raccoglie i contributi presentati nel 1965 al convegno di Bellagio, promosso da Herbert Hart, autore della relazione di apertura, Alessandro Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio che – nelle sue Considerazioni in margine (pp. 235-46) e nonostante l’understatement di questo titolo – traccia le conclusioni del convegno, riassumendo le varie concezioni dell’obbligo giuridico senza però anticipare la sua svolta ormai imminente verso la teoria funzionale del diritto. 9 Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, cit., pp. 150 e 155. 10 Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, cit., pp. 154 sg. 11 R. Jhering, Der Zweck im Recht, Band I, Breitkopf und Härtel, Wiesbaden 1904, ristampa 2

anastatica: Georg Olms, Hildesheim-New York 1970, p. 141 (trad. it., Lo scopo nel diritto, Einaudi, Torino 1972, p. 140); Jhering sottolinea che «il diritto premiale» (Lohnrecht) è un «concetto a noi sconosciuto». Altre informazioni su questo tema sono nel mio già citato Norberto Bobbio e il positivismo giuridico, pp. 71 sg. 12 Bobbio, Dalla struttura alla funzione, cit., Premessa, p. 9. 13 Bobbio, Prólogo a la edición española, in Contribución a la teoría del derecho, Edición a cargo de Alfonso Ruiz Miguel, Debate, Madrid 1990, p. 11. 14 Bobbio, in questo volume, p. 41. 15 Sulla nozione di sistema rinvio ai miei tre volumi, Sistema e struttura nel diritto, Giuffrè, Milano 2002. Sul superamento della nozione di sistema e sulla nozione di «rete» cfr. F. Ost-M. van de Kerchove, De la pyramide au réseau. Pour une théorie dialectique du droit, Facultés Universitaires Saint Louis, Bruxelles 2002, e il mio scritto (e la letteratura ivi indicata) Diritto turbolento. Alla ricerca di nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 3, 2005, pp. 403-30 (ed. or., Turbulentes Recht: Herkömmliche Rechtsordnung, überstaatliche Rechtssetzung und Ordnung stiftende Modelle, www.jura.unihannover.de/jubilaeum/vortrag_losano.pdf). 16 Bobbio, in questo volume, p. 46; corsivo mio. 17 Questo saggio venne scritto nel 1970-71 per un volume in onore di Ambrosio L. Gioja (1912-1971). A causa della morte prematura del filosofo argentino e del conseguente ritardo nella pubblicazione del volume, Bobbio nel 1977 indicò ancora come inedito il saggio stesso. Esso venne pubblicato in Derecho, filosofía y lenguaje. Homenaje a Ambrosio L. Gioja, Astrea, Buenos Aires 1976. Ulteriori spiegazioni in Losano, Norberto Bobbio e il positivismo giuridico, cit., p. 69, nota 47. 18 Bobbio, in questo volume, p. 68; corsivo mio. 19 Bobbio, in questo volume, pp. 69 sg.; corsivo mio. 20 Bobbio, in questo volume, p. 49. 21 Bobbio, in questo volume, p. 138. 22 Cfr. il testo citato alla nota 4. 23 C. Lafer, Apresentação à edição brasileira, in Bobbio, Da estrutura à função, cit., p. LVI. 24 S. Holmes-C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, Il Mulino, Bologna 2000, p. 231 (ed. or., The Cost of Rights. Why Liberty Depends on Taxes, Norton, New York 1999).

Premessa

Riunisco in questo volume la maggior parte degli scritti di teoria del diritto composti dopo l’ultima raccolta analoga (Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970). Sono saggi sparsi e dispersi, d’argomento disparato, su temi teorici e anche su persone. Non sono riducibili ad un’unica ispirazione né sono ricomponibili in unità sistematica. Quasi tutti nondimeno sono percorsi o toccati da un tema dominante, che è quello della funzione «promozionale» del diritto – mi scuso della brutta parola ma non ne ho trovate altre –, che dà il titolo al primo saggio. Vi si connettono direttamente i due primi saggi, La funzione promozionale del diritto e Le sanzioni positive, ma vi si riferiscono di scorcio, vi accennano o lo sfiorano, quasi tutti gli altri. Si tratta di un tema il cui rilevamento e la cui discussione io considero fondamentali per adeguare la teoria generale del diritto alle trasformazioni della società contemporanea e alla crescita dello stato sociale o amministrativo o di benessere o di giustizia o di capitalismo monopolistico, come lo si voglia più o meno benevolmente chiamare secondo i diversi punti di vista. Questo adeguamento è diventato necessario per chi voglia comprendere e descrivere esattamente il passaggio dallo stato «garantista» allo stato «dirigista», e conseguentemente la metamorfosi del diritto da strumento di «controllo sociale» nel senso stretto della parola in strumento di «direzione sociale», insomma per colmare il divario fra la teoria generale del diritto qual è e la stessa teoria quale dovrebbe essere in un universo sociale continuamente in movimento. Intendo per «funzione promozionale» l’azione che il diritto svolge attraverso lo strumento delle «sanzioni positive», cioè attraverso meccanismi, genericamente compresi col nome di «incentivi», i quali mirano, anziché a impedire atti socialmente indesiderabili, ciò che è il fine precipuo di pene, multe, ammende, riparazioni, restituzioni, risarcimenti, ecc., a «promuovere» il compimento

di atti socialmente desiderabili. Questa funzione non è nuova. Ma è nuova l’estensione che essa ha avuto e continua ad avere nello stato contemporaneo: un’estensione in continuo aumento tanto da far apparire completamente inadeguata e a ogni modo lacunosa una teoria del diritto che continui a considerare l’ordinamento giuridico dal punto di vista della sua funzione tradizionale puramente protettiva (degli interessi giudicati essenziali da coloro che fanno le leggi) e repressiva (delle azioni che vi si oppongono). La percezione di questo mutamento mi ha costretto a volgere lo sguardo a un problema che era stato alquanto trascurato dalla teoria tradizionale, cioè al problema della funzione del diritto, cui sono dedicati il terzo, il quarto e il quinto saggio, e in parte anche il saggio su Kelsen. Il predominio della teoria pura del diritto nel campo degli studi giuridici ha avuto per effetto che gli studi di teoria generale del diritto sono stati orientati per lungo tempo più verso l’analisi della struttura degli ordinamenti giuridici che non verso l’analisi della loro funzione. Non ho bisogno di dire quali importanti contributi siano stati dati in questi anni all’allargamento e all’approfondimento dell’analisi strutturale, dal cui grembo fecondo è nata addirittura una disciplina nuova e affascinante, la logica deontica. Ma il diritto non è un sistema chiuso e indipendente, anche se nulla osta a considerarlo tale quando ci si ponga dal punto di vista delle sue strutture formali. Il diritto è, rispetto al sistema sociale considerato nel suo complesso in tutte le sue articolazioni e in tutte le sue interrelazioni, un sottosistema che sta accanto, e in parte si sovrappone e in parte si contrappone, ad altri sottosistemi, quali l’economico, il culturale, il politico. Ora, ciò che lo distingue come sottosistema dagli altri sottosistemi, insieme ai quali costituisce il sistema sociale nel suo complesso, è la funzione. Tanto è vero che un’analisi del sistema sociale nel suo complesso non può prescindere dall’analisi funzionale delle sue singole parti. Naturalmente l’orientamento della teoria del diritto verso l’analisi funzionale, verso quella che ho chiamato una «teoria funzionalistica del diritto», in aggiunta non in contrapposizione alla teoria strutturalistica dominante, non è potuto avvenire senza un contributo diretto della sociologia. Il passaggio dalla teoria strutturale alla teoria funzionale è anche il passaggio da una teoria formale (o pura!) a una teoria sociologica (impura?). Dico questo perché nella maggior parte degli articoli

qui raccolti – e questo è un altro tratto comune – si sente che la sociologia del diritto batte alle porte. I due articoli sulle «grandi dicotomie» sono un esercizio di «ars combinatoria»: un’operazione per cui ho sempre avuto un certo gusto e che ho sempre trovato eccitante. Sono in parte la continuazione e lo sviluppo dell’articolo sulle norme primarie e secondarie con cui terminava la raccolta precedente (nell’opera sopra citata alle pp. 175-97). Ma sono anche un tentativo di capire come operano le categorie fondamentali attraverso cui cerchiamo di captare e di dominare una determinata sfera di esperienza, e quali relazioni corrono fra le categorie fondamentali di diverse sfere di esperienze che si richiamano l’una con l’altra (società, diritto, economia, morale, ecc.). Dei tre articoli su giuristi, quello su Kelsen si ricollega ai temi principali della funzione positiva del diritto e dell’analisi funzionale del sistema giuridico, che caratterizzano la presente raccolta. Gli altri due, invece, scritti per occasioni celebrative (anche se m’illudo di credere non siano celebranti), sono estranei alla tematica principale del libro. Quello su Tullio Ascarelli, che ho collocato qui perché è passato sinora inosservato, sepolto com’è in quei cimiteri monumentali che sono gli studi in onore, e anche perché contiene i primi riferimenti a una teoria funzionalistica del diritto, è il più antico della presente raccolta (fu scritto nel 1964); quello su Santi Romano, in parte inedito, è il più recente (1975). N.B. Do qui di seguito l’elenco degli scritti raccolti in questo volume, con l’avvertenza che nel ristamparli vi ho introdotto qualche lieve correzione e aggiunto qualche nota di aggiornamento: Sulla funzione promozionale del diritto, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», XXIII, 1969, pp. 1312-29 (questo articolo è apparso anche in lingua inglese col titolo The Promotion of Action in the Modern State, nel volume miscellaneo Law, Reason and Justice. Essays in Legal Philosophy, edited by Graham Hughes, New York University Press, New York 1969, pp. 189-206); Sulle sanzioni positive, in Studi dedicati ad Antonio Raselli, Giuffrè, Milano 1971, vol. I, pp. 22949 (di questo articolo sono state riprodotte nel presente volume soltanto le pagine nuove rispetto all’articolo precedente); Il diritto, in Le scienze umane in Italia, oggi, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 259-77 (ripubblicato in questa raccolta col titolo Diritto e scienze sociali); Verso una teoria funzionalistica del diritto, scritto originariamente per gli studi in memoria del filosofo del diritto argentino Ambrosio Gioja (tuttora inedito); Intorno all’analisi funzionale del diritto, in «Sociologia del diritto», II, 1975, pp. 1-25 (qui ristampato col titolo L’analisi funzionale del diritto: tendenze e problemi);

Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XLVII, 1970, pp. 187-204 (anche in Studi in onore di Giuseppe Grosso, Giappichelli, Torino 1971, vol. IV, pp. 615-35); La grande dicotomia, in Studi in memoria di Carlo Esposito, Cedam, Padova 1974, pp. 2187-200; Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano, scritto originariamente per il Convegno «Le dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di Santi Romano», promosso dall’ISAP, 25-26 ottobre 1975, pubblicato in «Amministrare. Rassegna internazionale di pubblica amministrazione», I, 1975, pp. 447-66; quindi, in una nuova versione, che è quella qui accolta, destinato agli studi in onore del filosofo del diritto in lingua spagnola, Luís Recaséns Siches (tuttora inedito); Hans Kelsen, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», L, 1973, pp. 426-49 (qui accolto col titolo Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen); L’itinerario di Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di Tullio Ascarelli, Giuffrè, Milano 1969, vol. I, pp. LXXXIX-CXL; primamente, se pur soltanto parzialmente, pubblicato, col titolo Tullio Ascarelli, in «Belfagor», XIX, 1964, pp. 411-34; pp. 546-65.

I. La funzione promozionale del diritto

1. Insufficienza delle tradizionali concezioni protettiva ìe repressiva del diritto A proposito di una discussione sul concetto di obbligo – che sino a ora è stato considerato come concetto-chiave della teoria generale del diritto – Genaro R. Carrió ha osservato che gran parte della teoria generale del diritto europea è prigioniera di un concetto di diritto che presuppone «l’immagine semplicistica dello stato come organismo che stabilisce le regole del gioco e istituisce un arbitro»1. La prevalenza data al concetto di obbligo e alla spiegazione dell’obbligo in termini di sanzione e di coazione sarebbe il principale e non più desiderabile effetto di quella immagine: «quando si definisce “obbligo giuridico” e si attribuisce una funzione a questo concetto, si presuppone come modello di sistema un tipo di organizzazione sociale ormai perenta: lo stato gendarme che con tecniche limitate perseguiva fini altrettanto limitati». In seguito alla profonda trasformazione che ha dato ovunque origine al Welfare State, gli organi pubblici perseguono i nuovi fini proposti all’azione dello stato mediante nuove tecniche di controllo sociale, diverse da quelle tradizionali. «Non è possibile – precisa il Carrió – che l’apparato concettuale, elaborato dalla teoria generale del diritto, persista inalterato attraverso mutamenti tanto radicali». Prendendo lo spunto da questa osservazione, mi propongo di esaminare uno degli aspetti più rilevanti, e ancor poco studiato proprio in sede di teoria generale del diritto, delle nuove tecniche di controllo sociale, che caratterizzano l’azione dello stato sociale dei nostri tempi e la distinguono profondamente da quella dello stato liberale classico: l’impiego sempre più diffuso delle tecniche di incoraggiamento in aggiunta a, o in sostituzione di, quelle tradizionali di scoraggiamento. Non c’è dubbio che

questa innovazione mette in crisi alcune delle più note teorie tradizionali del diritto che traggono origine da una immagine estremamente semplificata del diritto. Mi riferisco in particolare alla teoria che considera il diritto esclusivamente dal punto di vista della sua funzione protettiva e a quella che lo considera esclusivamente dal punto di vista della sua funzione repressiva. Superfluo aggiungere che le due teorie si trovano spesso sovrapposte: il diritto svolge la funzione di protezione rispetto agli atti leciti (che possono essere tanto atti permessi quanto atti obbligatori) mediante la repressione degli atti illeciti. Un esempio classico della prima teoria è quella che ha per capostipite Christianus Thomasius, secondo cui il diritto è caratterizzato dal fatto di ottenere il proprio scopo (che è essenzialmente protettivo) attraverso l’emanazione di comandi negativi (divieti); la seconda teoria, comune a tutta la corrente del positivismo giuridico, da Austin a Jhering a Kelsen, è quella secondo cui il diritto raggiunge il proprio scopo (che è essenzialmente repressivo) attraverso l’organizzazione di sanzioni negative (il diritto come apparato coattivo, o Zwangsordnung).

2. La teoria del diritto come insieme di norme negative Com’è noto, Thomasius considerò il diritto come un insieme di norme negative (che poi si riassumevano sostanzialmente nel precetto neminem laedere) per offrire un criterio semplice e netto che servisse a distinguere le norme giuridiche da altre norme, come quelle della morale individuale e della morale sociale2. Come tutte le teorie riduzionistiche (e quella thomasiana è particolarmente semplicistica), la teoria che vede nel diritto un insieme di norme di un solo tipo (in questo caso le norme negative) è manifestamente falsa. Ma è troppo manifestamente falsa per non stimolare a guardare che cosa c’era dietro. Quello che essa nascondeva era l’idea che al diritto si dovesse ascrivere, appunto per distinguerlo dalla morale, una funzione eminentemente protettiva. L’apparire del diritto come insieme di norme negative segnava il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, cioè da uno stato continuamente minacciato dalla guerra universale a uno stato di pace. Il fine del diritto, diceva Thomasius, era quello di evitare il male maggiore per l’umanità, la guerra, e di garantire il bene minore, la pace. Ora per garantire la pace, bastano norme che impediscano ai diversi

membri del corpo sociale di farsi del male, cioè appunto norme negative. Thomasius ebbe il torto di presentare come una teoria del diritto, come una determinazione filosofica dell’essenza del diritto, quello che era in realtà un ideale politico, oggi diremmo un’ideologia. Egli descrisse non ciò che il diritto è ma quello che sarebbe dovuto essere per corrispondere all’ideale di uno stato che ha per iscopo non già di rendere i propri sudditi più felici ma di garantirne la reciproca libertà. Prova ne sia che la teoria del Thomasius fu confutata, com’è noto, dal Leibniz secondo il quale il diritto non può fare a meno di comandare oltre che di proibire3; ma appunto il Leibniz aveva accettato l’ideale politico del dispotismo più o meno illuminato per cui il sovrano deve preoccuparsi non solo della felicità ma anche del benessere e dei buoni costumi dei propri sudditi. Nelle pieghe della controversia apparentemente scolastica tra Thomasius e il suo critico si nascondeva in realtà un contrasto ideologico. Non sarebbe valsa la pena di riesumare la teoria di Thomasius, ormai universalmente dimenticata, se non fosse che essa può essere sottintesa in tutte le teorie che via via s’ispirarono all’ideale dello stato liberale classico, dello stato inteso nella sua funzione di semplice custode dell’ordine pubblico, a cominciare da quella di Kant, per finire con quella di Hegel (se pur limitatamente al «diritto astratto», cioè al primo momento dello spirito oggettivo, che comprende esclusivamente il diritto privato e il diritto penale). Non sarà superfluo ricordare che per Hegel la necessità del diritto «si limita, per ragione stessa della sua astrazione, al divieto: non ledere la personalità, e ciò che ne deriva», con la conseguenza che ci sono soltanto «divieti giuridici, e la forma positiva dei precetti giuridici, conformemente al loro contenuto ultimo, deve porre a base il divieto»4. Nelle concezioni in cui lo stato assume la funzione di custode dell’ordine pubblico, il diritto si risolve a poco a poco nel diritto penale; e una delle caratteristiche del diritto penale è appunto di essere composto prevalentemente di norme negative. Una volta considerato l’intero fenomeno giuridico sotto l’esclusivo angolo visuale del diritto penale, la teoria del diritto come insieme di norme negative appare più plausibile, o per lo meno meno eccentrica (anche se continua ad essere falsa). Tanto plausibile che essa fu esplicitamente professata nel bel mezzo del secolo XIX da un accanito fautore (e profeta) della diminuzione progressiva dei compiti dello stato come Herbert Spencer. Nel contrapporre allo stato militare ormai in via di

esaurimento lo stato industriale in formazione, Spencer attribuì a quest’ultimo tra le altre caratteristiche anche quella di servirsi, per esplicare le sue funzioni ridotte al mantenimento dell’ordine, soltanto di norme negative: «allo schiavo, al soldato, o ad ogni altro membro di una società organizzata per la guerra – egli scrisse –, l’autorità dice: “Tu farai questo; tu non farai quest’altro”. Ma al membro della società industriale dà soltanto uno di questi ordini: “Tu non farai questo”»5. Non si può dire che lo Spencer sia stato buon profeta: nelle società industriali moderne, via via che avanza il processo di industrializzazione, i compiti dello stato aumentano anziché diminuire, senza parlare delle società in cui il processo di industrializzazione è avvenuto attraverso stati che hanno le caratteristiche delle organizzazioni che Spencer chiamava militari. Ma qui c’interessa non tanto la filosofia della storia di Spencer quanto la persistente connessione di una certa immagine del diritto con una certa concezione dello stato, anche se le due teorie, quella di Thomasius e quella di Spencer, non si possano mettere in un solo fascio, perché ciò che in Thomasius pretendeva di essere una definizione dell’essenza del diritto, in Spencer era diventata la caratterizzazione di un tipo di ordinamento giuridico storicamente determinato. Mentre Thomasius andava alla ricerca della natura, sempre eguale, del diritto, al di fuori delle sue diverse attuazioni storiche, Spencer cercava di tracciarne l’evoluzione storica. Resta il fatto che questa evoluzione storica tendeva verso un ordinamento giuridico che avrebbe dovuto avere le stesse caratteristiche che il giusnaturalista attribuiva al diritto compreso nella sua essenza. Il che, se mai, è una conferma della natura ideologica della teoria negativa del diritto, anche se qui c’interessa non per l’ideale che esprime ma per l’immagine del diritto che in essa si riflette.

3. Relazione tra norme positive e negative da un lato, e sanzioni positive e sanzioni negative dall’altro Per quanto la teoria strettamente connessa a Thomasius è considerato, diritto come coazione),

del diritto come ordinamento repressivo sia quella testé esaminata (nei vecchi manuali se pure a torto, come iniziatore della teoria del è bene non confondere, dal punto di vista

analitico, la distinzione tra norme positive e norme negative e quella tra sanzioni positive e sanzioni negative. Con termini d’uso più comune, altro è la distinzione tra comandi e divieti, altro quella tra premi e castighi. Le due distinzioni non si sovrappongono. Anche se di fatto le norme negative vengono rafforzate abitualmente con sanzioni negative, mentre le sanzioni positive vengono predisposte e applicate prevalentemente per il rafforzamento di norme positive, non vi è alcuna incompatibilità tra norme positive e sanzioni negative, da un lato, e norme negative e sanzioni positive dall’altro. In un sistema giuridico molte delle norme rafforzate da sanzioni negative sono norme positive (comandi di dare o di fare). Le tecniche d’incoraggiamento dello stato assistenziale contemporaneo si applicano, se pur più raramente, anche a norme negative. In altre parole, si può scoraggiare dal fare così come si può incoraggiare a non fare. Quindi di fatto si possono dare quattro diverse situazioni: a) comandi rafforzati da premi; b) comandi rafforzati da castighi; c) divieti rafforzati da premi; d) divieti rafforzati da castighi. Per quanto le due distinzioni tra comandi e divieti, e tra premi e castighi, non si sovrappongano, di fatto i premi vengono connessi generalmente a comandi, i castighi a divieti. Si tende a premiare o a punire un’azione, piuttosto che un’omissione: ma un’azione o è il comportamento conforme a un comando o il comportamento non conforme a un divieto. In altre parole è più facile premiare un’azione che un’omissione: ma allora ciò che si premia è un comportamento previsto da una norma positiva. È più facile punire un’azione che un’omissione: ma allora ciò che si punisce è un comportamento contrario a un divieto. Se si vuole una prova del contrario, si consideri un’omissione: questa può essere tanto un comportamento conforme a un divieto quanto un comportamento contrario a un comando. Nel primo aspetto, è un comportamento che si prolunga nel tempo ed è destinato a non suscitare una reazione positiva determinata; nel secondo aspetto induce più a una riparazione che a un castigo.

4. La teoria del diritto come insieme di norme rafforzate da sanzioni negative

Nella teoria generale del diritto contemporanea la concezione repressiva del diritto è tuttora dominante. Sia che la forza venga considerata come un mezzo per ottenere il massimo rispetto delle norme (primarie) del sistema sia che venga considerata come il contenuto stesso delle norme (secondarie)6, la concezione dominante è certamente quella che considera il diritto come ordinamento coattivo, e stabilisce così un nesso necessario e indissolubile tra diritto e coazione. Questa connessione si traduce nel rilievo esclusivo dato alle sanzioni negative: la coazione viene considerata o essa stessa una sanzione negativa oppure il mezzo estremo per rendere efficaci le sanzioni (negative), predisposte dall’ordinamento stesso a conservazione del proprio patrimonio normativo. Nella letteratura filosofica e sociologica il termine «sanzione» viene usato in senso largo per comprendervi non soltanto le conseguenze spiacevoli dell’inosservanza delle norme, ma anche le conseguenze piacevoli dell’osservanza, distinguendosi nel genus sanzione le due species delle sanzioni positive e delle sanzioni negative. Sta di fatto, invece, che nel linguaggio giuridico il termine «sanzione», se viene usato senza ulteriori determinazioni, denota esclusivamente le sanzioni negative. Kelsen, pur ammettendo che gli ordinamenti giuridici moderni contengano talvolta anche norme premiali, avverte subito dopo che «hanno un’importanza secondaria all’interno di questi sistemi che fungono da ordinamenti coercitivi»7, dove si vede chiaramente che il concetto di ordinamento coercitivo implica quello di sanzione negativa. Per Carnelutti, sebbene «non vi sia alcun motivo di riservare al castigo il carattere della sanzione», il valore pratico della ricompensa nel diritto «è così limitato da spiegare se non proprio da giustificare l’abitudine teorica, la quale, trascurandola affatto, risolve senz’altro la sanzione in un male inflitto a chi ha fatto del male»8. Questa immagine del diritto è prevalente anche nella letteratura non giuridica. Felix Oppenheim, dopo aver illustrato la tecnica dello scoraggiamento, osserva che il miglior esempio di questo tipo di controllo sociale è la legislazione, perché «è la tecnica sociale più frequentemente usata da coloro che esercitano il potere di governo per influenzare il comportamento dei governati»9. J.P. Gibbs, un sociologo, osserva che «legal sanctions (at least in Anglo-American system) are exclusively negative, and this is perhaps of significance in evaluating the role of law in social order»10.

Da questo punto di vista è ancor oggi estremamente istruttiva l’opera di Rudolf Jhering, Der Zweck im Recht, la quale è, com’è noto, una trattazione delle leve che determinano il movimento sociale, in senso lato un trattato, come quello pure classico del Bentham, sulle pene e sulle ricompense. Jhering non disconosce affatto l’importanza delle ricompense come leve del movimento sociale, ma da storico del diritto romano, quale egli era, contrappone la società antica alla moderna in base al fatto che la prima soleva attribuire grande importanza alle sanzioni positive, la seconda riconosce soltanto le sanzioni negative. Non senza una certa esagerazione, che peraltro è ai nostri fini molto significativa, giunge a dire che «il giurista oggi non deve preoccuparsi che della pena. Nessuno, oggi, ha diritto a una ricompensa per servizi eminenti e straordinari». «In Roma – precisa – al diritto penale corrispondeva un diritto premiale. Oggi questa nozione ci è estranea»11. Jhering, come Spencer, è perfettamente consapevole che la sua immagine del diritto ha valore storico; ma, a differenza di Spencer, considera l’immagine del diritto che egli trae dalla considerazione della società contemporanea non come un’idea progressiva ma come un’idea regressiva del diritto: si augura infatti che il diritto futuro conceda di nuovo maggiore spazio, come già il diritto romano, al diritto premiale. Non si può negare che lo sviluppo successivo degli ordinamenti giuridici moderni abbia soddisfatto le aspirazioni di Jhering assai più di quel che non abbia realizzato le previsioni di Spencer. Per quel che riguarda la società del suo tempo, Jhering, pur riconoscendo l’importanza della ricompensa, ne circoscrive l’efficacia alla sfera dei rapporti del commercio privato, comprendente tanto i rapporti di scambio quanto quelli associativi. In tal modo la sfera dell’attività economica viene nettamente distinta dalla sfera dell’attività politica: e il criterio di distinzione diventa il diverso impiego delle due leve fondamentali del movimento sociale. La leva in base alla quale si muove la società economica è la ricompensa; la leva in base alla quale si muove la società politica è la pena. Con la distinzione tra una sfera di prevalente applicazione delle ricompense e una sfera di prevalente applicazione delle pene, Jhering riproduceva la distinzione hegeliana tra società civile e stato, che rispecchia la scissione tra sfera degli interessi economici e sfera degli interessi politici, tra condizione del borghese e condizione del cittadino, caratteristica della incipiente società industriale. Anche la concezione

repressiva del diritto, come già la concezione protettiva, è un modello teorico che permette di rappresentare con particolare precisione un determinato tipo storico di società, quella società in cui l’attività economica viene sottratta o si desidera venga sempre più sottratta all’intervento del potere politico.

5. Norme di condotta e norme di organizzazione Si capisce che là dove è avvenuto il processo inverso, cioè dove l’intervento del potere politico nella sfera degli interessi economici è andato aumentando anziché diminuendo, le due concezioni tradizionali del diritto appaiano inadeguate, come vestiti diventati troppo stretti per un corpo inaspettatamente cresciuto. Nella teoria del diritto si è verificata quella «perdita dell’equilibrio concettuale» di cui parla Carrió nell’articolo citato, riprendendo un’espressione di P.F. Strawson. Ma non credo che la via migliore per ristabilire l’equilibrio perduto consista nel costruire affrettatamente altri modelli ispirati, come i precedenti, al criterio di ridurre gli elementi che contraddistinguono il diritto a un solo elemento essenziale, cioè altri modelli affetti da riduzionismo. Ogni «riduzione», come abbiamo visto attraverso gli esempi precedenti, è una buona spia per lasciar scorgere il carattere ideologico di una teoria; ma è in genere, da un punto di vista analitico, un’aberrazione. L’unico tentativo che io conosca di proporre un modello estremamente semplificato dell’ordinamento giuridico dello stato assistenziale da sostituire a quello spenceriano e a quello jheringhiano è stato fatto da F.A. Hayek. Il quale ha interpretato il contrasto tra stato liberale e stato assistenziale non percorrendo la via più facile, che sarebbe stata quella di contrapporre a un sistema o di sole norme negative o di sole sanzioni negative un sistema di norme anche positive, oppure di sanzioni anche positive, ma facendo appello alla distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione. Partendo dall’osservazione che «una delle maniere principali con cui è stata compiuta la distruzione dell’ordine liberale» consiste «nella progressiva sostituzione delle regole di condotta con regole di organizzazione»12, egli vuol suggerire l’idea che mentre lo stato liberale classico si rifletteva in un ordinamento giuridico composto prevalentemente da norme di condotta (scil. norme primarie), lo stato

assistenziale contemporaneo ha il suo riflesso in un ordinamento giuridico composto prevalentemente da norme di organizzazione (scil. norme secondarie). La teoria di F.A. Hayek coglie indubbiamente un aspetto rilevante del mutamento. Ma se pretende di essere accolta come un nuovo modello esaustivo, anch’essa allora, come tutte le teorie riduzionistiche, è inadeguata. Che l’ordinamento giuridico dello stato assistenziale sia caratterizzato da un forte aumento di norme d’organizzazione è vero; ma non è meno vero che crescono continuamente anche le norme positive e le sanzioni positive. L’aspetto che la teoria di Hayek coglie è quello che si può definire attraverso la nozione di «azione diretta dello stato»: lo stato assistenziale infatti non pretende soltanto di far fare (attraverso norme positive o sanzioni positive), ma fa egli stesso. Le norme di organizzazione sono appunto quelle attraverso cui lo stato regola l’azione dei propri organi. Contro questo modello si possono sollevare due facili obiezioni. Prima di tutto, come non vi è ordinamento giuridico senza norme positive, così non vi è ordinamento giuridico senza norme di organizzazione: proprio in questi anni ha avuto larga diffusione una teoria secondo cui un ordinamento giuridico si distingue da altri ordinamenti normativi proprio per la presenza delle norme d’organizzazione (o norme secondarie)13; d’altra parte, anche un ordinamento meramente coattivo, un ordinamento, cioè, che attribuisce funzioni limitate ai pubblici poteri, non può fare a meno di norme d’organizzazione, tanto è vero che lo spostamento dell’interesse del giurista dalle norme di condotta rivolte ai cittadini alle norme d’organizzazione rivolte ai funzionari è avvenuto, come tutti sanno, con Jhering. In secondo luogo, anche la teoria di Hayek tradisce chiaramente i giudizi di valore sottostanti, e quindi il suo intento ideologico. Rispetto ai valori di uno scrittore così tenacemente avvinto ai principi del liberalismo classico, come Hayek, le norme di organizzazione rappresentano altrettante inutili reti tese allo scopo di vincolare la libertà individuale, e pertanto debbono essere giudicate come portatrici di un valore negativo. Il nostro autore giunge a dire con evidente esagerazione che «la progressiva sostituzione delle norme di condotta di diritto privato e penale con concetti derivanti dal diritto pubblico è il processo attraverso il quale le società liberali esistenti si sono andate trasformando

progressivamente in società totalitarie»14. Il progresso che Spencer vedeva nel passaggio dal diritto composto prevalentemente di comandi al diritto composto prevalentemente di divieti, il nostro autore vede invece nel passaggio da un diritto in cui i destinatari delle norme cessano di essere i funzionari per diventare nuovamente i cittadini. Non c’è dubbio che il fenomeno della crescita delle norme di organizzazione si presta molto più che il fenomeno non meno evidente della crescita di norme positive e di sanzioni positive a suggerire un giudizio di valore negativo sulle trasformazioni dello stato contemporaneo per colui che si metta dal punto di vista della dottrina liberale tradizionale.

6. Funzione promozionale dello stato assistenziale Il rilievo dato al vertiginoso aumento delle norme di organizzazione che caratterizza lo stato contemporaneo non mette necessariamente in crisi l’immagine tradizionale del diritto come ordinamento protettivorepressivo. Mette in crisi questa immagine, invece, l’osservazione da cui ho preso le mosse: nello stato contemporaneo diventa sempre più frequente l’uso delle tecniche d’incoraggiamento. Non appena si cominci a tener conto dell’uso di queste tecniche, si è costretti ad abbandonare l’immagine tradizionale del diritto come ordinamento protettivo-repressivo. Accanto ad essa prende forma una nuova immagine: quella dell’ordinamento giuridico come ordinamento a funzione promozionale15. Si consideri una qualsiasi delle costituzioni degli stati post-liberali, come l’attuale costituzione italiana. Nelle costituzioni liberali classiche la funzione principale dello stato appare essere quella di tutelare (o garantire); nelle costituzioni post-liberali, accanto alla funzione della tutela o della garanzia, appare sempre più frequentemente quella di promuovere. Secondo la nostra costituzione la Repubblica «promuove le condizioni che rendono effettivo» il diritto al lavoro (art. 4, comma 1°); «promuove le autonomie locali» (art. 5); «promuove lo sviluppo della cultura» (art. 9, comma 1°); «promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro» (art. 35, comma 3°); «promuove e favorisce l’incremento» della cooperazione (art. 45, comma 1°). Inoltre «agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia» (art. 31, comma 1°); «dispone provvedimenti a favore delle zone

montane» (art. 44, comma 2°); «incoraggia e tutela il risparmio» (art. 47, comma 1°); «favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà ecc.» (art. 47, comma 2°). La contrapposizione tra il vecchio e il nuovo modello costituzionale emerge dal raffronto tra l’art. 2, in cui si dice che la «Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», e l’art. 3 dove si dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli ecc.», cioè tra l’affermazione di un compito meramente protettivo che si attua per lo più mediante la tecnica delle misure negative e l’affermazione di un compito promozionale che si attua per lo più attraverso misure positive. I nostri studiosi di diritto costituzionale hanno ormai da tempo richiamato l’attenzione sulla contrapposizione tra misure autoritative e coercitive e misure di stimolo o d’incentivazione: questa contrapposizione coglie bene il passaggio all’uso sempre più frequente delle tecniche d’incoraggiamento, su cui intendiamo richiamare l’attenzione in queste pagine16.

7. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto ai fini In una prima approssimazione la differenza tra ordinamento a funzione protettiva-repressiva e ordinamento a funzione promozionale si può descrivere in questo modo. Con riferimento ad un sistema normativo gli atti umani possono distinguersi in atti conformi e atti devianti. Ebbene, rispetto agli atti conformi, la tecnica dello scoraggiamento mira a proteggerne l’esercizio tutelando la possibilità di fare o non fare se si tratta di atti permessi, la possibilità di fare se si tratta di atti obbligatori, la possibilità di non fare se si tratta di atti proibiti. Rispetto agli atti devianti, la tecnica dello scoraggiamento prende di mira, attribuendovi determinate conseguenze, soltanto gli atti devianti per difetto, gli atti propriamente non-conformi, e si limita a tollerare, non attribuendovi alcun effetto giuridico, gli atti devianti per eccesso, cioè gli atti superconformi (le cosiddette azioni supererogatorie). Al contrario, la tecnica dell’incoraggiamento mira non soltanto a tutelare ma anche a provocare l’esercizio degli atti conformi, spareggiando nel caso di atti permessi la possibilità di fare con quella di non fare,

rendendo particolarmente allettanti gli atti obbligatori e particolarmente ripugnanti quelli proibiti. Quanto agli atti devianti, essa prende in considerazione, attribuendovi determinate conseguenze, gli atti devianti per eccesso, cioè gli atti superconformi, mentre diventa sempre più tollerante verso certi atti devianti per difetto. L’introduzione della tecnica dell’incoraggiamento riflette un vero e proprio mutamento nella funzione del sistema normativo nel suo complesso, nel modo di attuare il controllo sociale; segna il passaggio da un controllo passivo, che si preoccupa più di sfavorire le azioni nocive che di favorire le azioni vantaggiose, a un controllo attivo, che si preoccupa di favorire le azioni vantaggiose più che di sfavorire le azioni nocive. Col minimo di parole si può utilmente distinguere un ordinamento protettivo-repressivo da un ordinamento promozionale, dicendo che al primo interessano soprattutto i comportamenti socialmente non desiderati, onde il suo fine precipuo è di impedirne quanto più è possibile il compimento; al secondo interessano soprattutto i comportamenti socialmente desiderati, onde il suo fine è di provocarne il compimento anche nei confronti dei recalcitranti.

8. Segue: e rispetto ai mezzi Per raggiungere il proprio fine un ordinamento repressivo compie operazioni di tre tipi e gradi in quanto vi sono tre modi tipici di impedire un’azione non voluta: renderla impossibile, renderla difficile, renderla svantaggiosa. Simmetricamente si può dire che un ordinamento promozionale cerca di raggiungere il proprio fine attraverso le tre operazioni contrarie, cioè cercando di rendere necessaria, agevole, vantaggiosa l’azione voluta. Il primo tipo di operazione, consistente nel far sì che il destinatario della norma sia messo in condizione o di non poterla (materialmente) violare o di non potersi (materialmente) sottrarre alla sua esecuzione, rientra nel novero delle misure dirette, cioè delle misure che l’ordinamento adotta per ottenere la conformità alle norme, o impedendo preventivamente la violazione o forzando preventivamente l’esecuzione. Sono misure dirette le varie forme di vigilanza (che può essere passiva o attiva) e il ricorso all’uso della forza (che può essere impeditiva o

costrittiva). Si distinguono dalle misure dirette le operazioni del secondo e del terzo tipo, perché mirano a ottenere lo scopo (tanto quello proprio della funzione repressiva quanto quello proprio della funzione promozionale) non agendo direttamente sul comportamento non voluto o voluto, ma cercando di influenzare con mezzi psichici l’agente da cui non si vuole o si vuole un determinato comportamento. Si possono chiamare misure indirette. Sono indirette per il fatto che il comportamento non voluto è pur sempre possibile, ma viene reso o più difficile o più facile, oppure, una volta compiuto, produce certe conseguenze, spiacevoli o piacevoli secondo i casi. In un ordinamento repressivo la tecnica tipica attraverso cui si attuano le misure indirette è lo scoraggiamento; in un ordinamento promozionale, la tecnica tipica delle misure indirette è l’incoraggiamento. A questo punto siamo in grado di definire «scoraggiamento» quella operazione con cui A cerca di influenzare il comportamento non voluto (non importa se commissivo o omissivo) di B, o ostacolandolo o attribuendogli conseguenze spiacevoli; simmetricamente, «incoraggiamento» quell’operazione con cui A cerca di influenzare il comportamento voluto (non importa se commissivo o omissivo) di B, o facilitandolo o attribuendogli conseguenze piacevoli.

9. Differenza tra premio e facilitazione Mi preme richiamare l’attenzione sul fatto che questa definizione di scoraggiamento e d’incoraggiamento, dal momento che comprende entrambe le forme tipiche di misure indirette, tanto l’ostacolamento e la facilitazione, quanto la punizione e la premiazione, è più ampia di quella che viene data di solito, la quale comprende solo la terza forma, ovvero la sanzione propriamente detta, nelle due species della sanzione negativa (pena) e della sanzione positiva (premio). Ritengo che la considerazione esclusiva della terza forma dipenda dal fatto che i giuristi, prendendo in considerazione esclusivamente la tecnica dello scoraggiamento, sono portati a vedere di questa l’espressione di gran lunga più diffusa ed efficace negli ordinamenti giuridici tradizionali, per l’appunto la sanzione negativa. Quando ci si ponga anche dal punto di vista della tecnica

dell’incoraggiamento, non può sfuggire che essa agisce attraverso due espedienti diversi, cioè sia attraverso la risposta favorevole al comportamento una volta compiuto, in che consiste appunto la sanzione positiva, sia attraverso il favoreggiamento del comportamento quando è ancora da compiere. Questo rilievo dato all’espediente della facilitazione serve a rilevare, in negativo, l’espediente dell’ostacolamento che viene passato di solito sotto silenzio: si può scoraggiare un comportamento non voluto tanto minacciando una pena (espediente della sanzione), qualora il comportamento venga compiuto, quanto rendendo il comportamento stesso più penoso. Con particolare riguardo alle tecniche d’incoraggiamento, si noti la differenza tra le due operazioni: la sanzione propriamente detta, sotto forma di ricompensa, viene dopo, a comportamento compiuto; la facilitazione precede o accompagna il comportamento che si intende incoraggiare. In altre parole, si può incoraggiare sia intervenendo sulle conseguenze del comportamento, sia intervenendo sulle modalità, sulle forme, sulle condizioni dello stesso comportamento. Per fare un esempio tratto dalla vita comune: se voglio che mio figlio faccia una difficile traduzione dal latino, posso promettergli, se la farà, di andare al cinematografo; oppure posso permettergli di usare una traduzione interlineare. Da qualche tempo i giuristi hanno richiamato l’attenzione sul fatto che uno dei caratteri più salienti del sistema giuridico di uno stato assistenziale è l’aumento delle cosiddette leggi d’incentivazione o leggi-incentivo17. L’elemento di novità delle leggi d’incentivazione, tale da giustificare il loro raggruppamento in una unica categoria, è precisamente che esse, a differenza della maggior parte delle norme di un ordinamento giuridico dette sanzionatorie (con riferimento al fatto che prevedono o comminano una sanzione negativa), impiegano la tecnica dell’incoraggiamento, consistente nel promuovere i comportamenti voluti, anziché quella dello scoraggiamento, consistente nel reprimere i comportamenti non voluti. Nell’ambito di questa categoria generale si possono discernere i due espedienti: l’espediente della facilitazione, ad esempio, nel caso di una sovvenzione, di un aiuto o di un contributo finanziario, oppure di una agevolazione creditizia; l’espediente della sanzione positiva, come nel caso di un’assegnazione di un premio a un comportamento superconforme o di

un’esenzione fiscale. Col primo espediente si vuole rendere meno gravoso il costo dell’operazione desiderata, ora accrescendo i mezzi necessari al compimento dell’operazione ora diminuendone l’onere; col secondo espediente si tende a rendere l’operazione allettante assicurando a chi la compie il verificarsi di un vantaggio oppure il venir meno di uno svantaggio, una volta che il comportamento sia compiuto.

10. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto alla struttura Per approfondire la distinzione tra misure di scoraggiamento e misure d’incoraggiamento può essere utile, infine, considerarle sia dal punto di vista della loro rispettiva struttura sia dal punto di vista della loro rispettiva funzione. Il momento iniziale di una misura di scoraggiamento è una minaccia; di una misura d’incoraggiamento una promessa. Mentre la minaccia dell’autorità legittima fa sorgere, nel destinatario, l’obbligo di comportarsi in un certo modo, la promessa implica da parte del promittente l’obbligo di mantenerla. D’altra parte, mentre l’inadempimento di un comportamento scoraggiato da una minaccia fa sorgere nel minacciante il diritto di eseguirla, l’adempimento di un comportamento incoraggiato da una promessa fa sorgere nell’adempiente il diritto a che la promessa sia mantenuta. Sanzione negativa e sanzione positiva danno origine a due diversi rapporti in cui la figura del soggetto attivo (il titolare del diritto) e quella del soggetto passivo (il titolare del dovere) sono invertite: nel primo caso il rapporto diritto-dovere corre dal sanzionante al sanzionato, nel secondo lo stesso rapporto corre dal sanzionato al sanzionante. Volendo esprimere la situazione del destinatario in entrambi i casi mediante la formula della norma condizionata (da non confondere con la norma tecnica che vedremo tra poco), nel primo caso la formula è: «Se fai a, devi b», cioè hai l’obbligo di sottostare al male della pena; nel secondo caso: «Se fai a, puoi b», cioè hai il diritto di ottenere il bene del premio. Se si considera il compimento o non compimento di un’azione condizionato alla credibilità del verificarsi di una misura di scoraggiamento o di incoraggiamento, ogni norma può essere espressa nella formula di una

norma tecnica, cioè di una norma che prescrive un mezzo adeguato (la condotta prevista dalla norma primaria) per raggiungere un dato fine, che può essere tanto lo sfuggire allo svantaggio minacciato quanto il conseguire il vantaggio promesso dalla norma secondaria. Orbene, la tecnica dello scoraggiamento opera attraverso norme tecniche di questo tipo: «Se non vuoi a, devi b»; la tecnica dell’incoraggiamento attraverso norme di quest’altro tipo: «Se vuoi a, devi b».

11. Segue: e rispetto alla funzione È noto quale importanza abbiano per un’analisi funzionale della società le due categorie della conservazione e del mutamento. Considerando ora le misure di scoraggiamento e quelle d’incoraggiamento da un punto di vista funzionale, il punto essenziale da rilevare è che le prime sono adoperate prevalentemente allo scopo della conservazione sociale, le seconde prevalentemente allo scopo del mutamento. Si possono ipotizzare due situazioni-limite: quella in cui venga attribuito valore all’inerzia, cioè al fatto che le cose continuino a restare come sono, e quella in cui venga attribuito valore positivo al cambiamento, cioè al fatto che la situazione successiva sia diversa da quella precedente. Nell’ambito poi delle due situazioni di inerzia e di cambiamento si possono ipotizzare due punti di partenza diversi, quello in cui il comportamento sia permesso e quello in cui il comportamento sia obbligatorio. Nel caso in cui si tratti di un comportamento permesso, l’agente è libero di fare o di non fare alcunché, cioè è libero di valersi della propria libertà per conservare o per innovare. Se l’ordinamento giuridico giudica positivamente il fatto che l’agente si valga il meno possibile della sua libertà cercherà di scoraggiarlo dal fare ciò che gli è lecito: come si vede la tecnica dello scoraggiamento ha una funzione conservatrice. Se al contrario lo stesso ordinamento giuridico giudica positivamente il fatto che l’agente si serva il più possibile della sua libertà, cercherà di incoraggiarlo a valersene per mutare la situazione esistente: la tecnica dell’incoraggiamento ha una funzione modificatrice o innovatrice. L’esempio più interessante che si possa fare oggi in riferimento agli ordinamenti giuridici di stati dirigisti o pianificatori è quello delle cosiddette leggi d’incentivazione, cui corrispondono sul versante delle misure negative le leggi di

disincentivazione. Partendo da una situazione giuridica in cui l’attività imprenditoriale è qualificata come attività lecita, l’incentivazione tende a indurre certi imprenditori a mutare la situazione esistente, la disincentivazione tende a indurre certi altri imprenditori all’inerzia. Prendiamo ora la situazione in cui si dia un comportamento obbligatorio. In questa situazione ciò che serve alla funzione di conservazione è il comportamento conforme all’obbligo (si tratti di obbligo positivo o negativo); ciò che serve alla funzione di mutamento e di innovazione è il comportamento superconforme. Ora non c’è dubbio che nel primo caso entra in azione la tecnica dello scoraggiamento attraverso l’impiego delle sanzioni negative, nel secondo caso entra in funzione la tecnica dell’incoraggiamento attraverso l’impiego delle sanzioni positive. Anche qui il migliore esempio che si possa fare è quello tratto da ordinamenti giuridici di stati ispirati al principio dell’interventismo economico: il premio attribuito al produttore o al lavoratore che supera la norma è un tipico atto di incoraggiamento di un comportamento superconforme, e ha la funzione di promuovere una innovazione, mentre ogni misura destinata semplicemente a scoraggiare la trasgressione di una norma data serve a mantenere lo status quo.

Note 1

G.R. Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, in «Rivista di filosofia», LVII, 1966, pp. 141-55. I passi citati sono rispettivamente a pp. 149, 154, 151. 2 Com’è noto Christianus Thomasius pose a fondamento del iustum, per distinguerlo dall’honestum e dal decorum, la massima «Quod tibi non vis fieri, alteri ne feceris» (Fundamenta iuris naturae et gentium, VI, 42. Cfr. anche §§ 62 e 63, in cui gli esempi addotti di precetti giuridici sono tutti di divieti). 3 Méditation sur la notion commune de la justice, § 2. (Cito dalla traduzione italiana in G.W. Leibniz, Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. Mathieu, Utet, Torino 1951, pp. 225 sgg.) 4 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 38 (vedi anche § 113). 5 Principles of Sociology, § 570. È estremamente interessante osservare che la tesi della funzione prevalentemente negativa del diritto è stata riesumata da uno dei maggiori teorici del liberalismo classico ai nostri giorni, F.A. Hayek, Ordinamento giuridico e ordinamento sociale, in «Il Politico», XXXIII, 1968, pp. 693-723, ove si legge: «In realtà troviamo che le regole di diritto privato e penale, o almeno la maggior parte di esse... sono solo divieti che delimitano il campo della libera azione e solo in casi eccezionali... giungono a prescrivere azioni determinate» (p. 703). Più interessante ancora la nota 17, in cui osserva che, sebbene molti si siano accorti del carattere prevalentemente negativo del diritto, «nessuno ha mai tratto da ciò tutte le conseguenze» (ibid.).

6

Ho illustrato questi due modi di considerare la forza in relazione al diritto nell’articolo Law and Force, in «The Monist», XLIX, 1965, pp. 321-41. Pubblicato anche in «Rivista di diritto civile», XII, 1966, I, pp. 537-48. Ed ora nel volume Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 117-38. 7 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it., Einaudi, Torino 1966, p. 46. 8 F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Foro Italiano, Roma 19462, pp. 24-25. Si veda anche T. Perassi, Introduzione alle scienze giuridiche, Cedam, Padova 1953, p. 12 e soprattutto nota 1, ove si accenna alle sanzioni positive. 9 F. Oppenheim, Dimensioni della libertà, trad. it., Feltrinelli, Milano 1964, soprattutto pp. 36-39. Il passo citato si trova a p. 36. 10 J.P. Gibbs, Sanctions, in «Social Problems», XIV, 1968, pp. 147-59. Il passo citato si trova a p. 156. Traggo da questo articolo la nozione di comportamenti superconformi, sui quali mi soffermo poco oltre. Nella letteratura sociologica, a differenza di quella giuridica, il termine «sanzione» viene sempre riferito sia alle sanzioni positive sia a quelle negative. Cfr. per tutti T. Parsons, Il concetto di potere politico, in «Il Politico», 1963, pp. 614-36. 11 Der Zweck im Recht, Breitkopf und Härtel, Leipzig 18842, vol. I, p. 182. Di questa opera importante di Jhering è uscita finalmente una traduzione italiana, curata egregiamente da M.G. Losano: Lo scopo nel diritto, «Nuova Universale», n. 137, Einaudi, Torino 1972, ove il brano citato si trova a p. 139. 12 F.A. Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico», XXXI, 1966, pp. 601-18. Il passo citato si trova a p. 609. Di questo articolo è apparsa una traduzione col titolo Il liberalismo di Friedrich A. Hayek, in «Biblioteca della libertà», IV, 1967, n. 11, pp. 28-55. 13 Sulle quali mi sono soffermato più a lungo nell’articolo Ancora sulle norme primarie e secondarie, in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 35-53. Ora nel volume Studi per una teoria generale del diritto, cit., pp. 175-97. 14 Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, cit., p. 609. 15 Coglie esattamente questo fenomeno G. Lumia, Controllo sociale e sanzione giuridica, in Studi in onore di Gioacchino Scaduto, Cedam, Padova 1967, pp. 12-13 (estratto). Dopo aver parlato di una funzione promozionale e di una funzione deterrente della sanzione osserva che «un esame dell’attuale stato della legislazione dei paesi più progrediti legittima... la previsione che la tecnica sanzionatoria “promozionale” sia destinata ad estendersi sempre più rispetto a quella “deterrente”» (p. 12). 16 Cito per tutti il libro di A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Edizioni di Comunità, Milano 1963, soprattutto pp. 204-13. 17 Cito per tutti G. Guarino, Sul regime costituzionale delle leggi di incentivazione e di indirizzo, in «Atomo petrolio elettricità», 1961, n. 1, pp. 1-20.

II. Le sanzioni positive

1. Crescente importanza delle sanzioni positive Ho osservato nel saggio precedente che l’innovazione più importante nel sistema del controllo giuridico non è tanto l’accrescimento dei comandi o norme positive quanto l’introduzione sempre più diffusa di stimoli all’esecuzione o alla super-esecuzione di comandi (ma anche di divieti), cioè di sanzioni positive, o, più in generale, l’uso sempre più largo delle tecniche d’incoraggiamento. Per il suo scarso rilievo pratico il tema delle sanzioni positive è sempre stato trascurato dai giuristi. Mentre è comune tra i filosofi e sociologi l’estensione del significato di «sanzione» sino a comprendervi i premi e le ricompense1, è sempre stata presente tra i giuristi una corrente, richiamantesi ad Austin, secondo cui si può parlare propriamente di «sanzioni» solo con riferimento alle sanzioni negative2. Effettivamente il ruolo del diritto nella società viene di solito considerato dal punto di vista della sua funzione prevalente che è sempre stata quella, più passiva che attiva, di proteggere determinati interessi mediante la repressione degli atti devianti. Non c’è dubbio che per svolgere questa funzione, che è insieme protettiva rispetto agli atti conformi e repressiva rispetto agli atti devianti, la tecnica più idonea sia quella delle sanzioni negative. Ma dal momento che per le esigenze dello stato assistenziale contemporaneo il diritto non si limita più a tutelare atti conformi alle proprie norme ma tende a stimolare atti innovativi, e pertanto la sua funzione non è più soltanto protettiva ma anche promozionale, all’impiego quasi esclusivo di sanzioni negative, che costituiscono la tecnica specifica della repressione, si affianca un impiego, non importa se ancora limitato, di sanzioni positive, che danno vita a una tecnica di stimolazione e di propulsione di atti considerati socialmente utili, anziché alla repressione di atti considerati socialmente nocivi.

2. Varie specie di sanzioni positive e negative La nozione di sanzione positiva si ricava e contrario da quella ben più elaborata di sanzione negativa. Mentre il castigo è una reazione a un’azione cattiva, il premio è una reazione a un’azione buona. Nel primo caso la reazione consiste nel rendere male per male; nel secondo, bene per bene. Rispetto all’agente, si è detto, se pure con una certa forzatura, che il castigo retribuisce con un dolore un piacere (il piacere del delitto) mentre il premio retribuisce con un piacere un dolore (lo sforzo per il servizio reso)3. Con una certa forzatura, dico, perché non è detto che sempre il delitto rechi piacere a chi lo compie e sempre l’opera meritoria sia compiuta con sacrificio. Come il male del castigo può consistere tanto nell’attribuzione di uno svantaggio quanto nella privazione di un vantaggio, così il bene del premio può consistere tanto nell’attribuzione di un vantaggio quanto nella privazione di uno svantaggio. Da questo punto di vista tanto le sanzioni negative quanto le positive possono essere o attributive o privative. Il male del castigo può essere, secondo una classificazione tradizionale, materiale (per esempio, la confisca del patrimonio), immateriale (per esempio, un pubblico biasimo), o misto (per esempio, la perdita di un diritto che è mezzo per acquistare e procurarsi vantaggi materiali e immateriali). Così possono essere materiali, immateriali o misti i beni del premio. Oppure, con altra distinzione, il castigo può consistere in un male economico (una multa), o sociale (messa al bando), o morale (disonore), o giuridico (perdita della capacità di fare testamento), o fisico (dalle percosse alla decapitazione). Così vi sono premi che consistono in un bene economico (un compenso in denaro, l’assegnazione di una terra al combattente valoroso), altri in un bene sociale (il passaggio ad uno status superiore), altri in un bene morale (onorificenze), altri in un bene giuridico (i cosiddetti privilegi). Più difficile configurare un premio consistente in un bene fisico: vi si possono comprendere speciali concessioni (o rimozioni di limiti) a piaceri del palato o del sesso. Questa difficoltà dipende dal fatto che mentre i beni economici, sociali, morali, giuridici, sono beni culturali e quindi più facilmente modificabili, i beni fisici in quanto beni naturali non sono dilatabili a piacere (per esempio, la salute, il vigore, la bellezza). Sono invece facilmente limitabili: di qua la ragione per cui non offre alcuna

difficoltà l’istituzione di sanzioni negative che colpiscano un bene fisico. Sinora si è parlato di sanzioni positive e negative in modo generico. Ma com’è noto, le sanzioni negative si distinguono abitualmente in misure retributive, o pene propriamente dette, e in misure riparative, come il risarcimento del danno: le prime colpiscono l’azione non conforme in se stessa, le seconde cercano di porre rimedio alle conseguenze dell’azione non conforme. Questa distinzione può essere applicata anche alle sanzioni positive. Vi sono sanzioni positive, come i premi, che hanno funzione esclusivamente retributiva: sono una reazione favorevole a un comportamento vantaggioso alla società. Ma vi possono essere anche sanzioni positive che mirano a compensare l’agente degli sforzi e delle fatiche fatte o delle spese subite per procurare alla società un vantaggio; queste sanzioni hanno valore non di mero riconoscimento ma (anche) di compenso. Si possono chiamare, meglio che premi, indennità. Un’altra distinzione che si può trasportare dalle sanzioni negative alle sanzioni positive è quella tra misure preventive e successive. Preventive sono quelle misure che tendono a promuovere il comportamento desiderato suscitando una speranza o a impedire il comportamento non desiderato provocando un timore; successive quelle che seguono al comportamento con una reazione favorevole, quando il comportamento è quello desiderato, sfavorevole, quando il comportamento è quello indesiderato. Colui che si vendica dell’offesa ricevuta agisce quando il fatto cui reagisce è già compiuto: la vendetta è una misura successiva (anche se il timore della vendetta può esercitare in alcuni casi un’azione preventiva). Quando una giuria di un premio letterario premia il miglior romanzo, riconosce un evento ormai avvenuto: è difficile attribuire a un premio letterario la funzione di incoraggiare scrittori a scrivere bei romanzi. Volendo fare esempi attinenti al diritto, quando lo stato stabilisce un’esenzione fiscale per chi compie un’azione economica giudicata vantaggiosa alla collettività, istituisce una misura preventiva che ha manifestamente lo scopo di indurre a compiere un’azione desiderata; quando assegna pensioni di guerra, istituisce una misura successiva, non essendo verosimile che tra i motivi che inducono un cittadino ad andare in guerra ci sia anche quello di ricevere una pensione.

3. Le sanzioni positive come sanzioni giuridiche Ciò di cui stiamo parlando è della crescente importanza delle sanzioni positive nel diritto. Ma proprio a causa dello scarso rilievo dei premi rispetto alle pene nei sistemi giuridici tradizionali, assai più che il tema delle pene, il tema dei premi è stato trattato con riguardo alle sanzioni sociali in genere e non alle sanzioni giuridiche in ispecie. A questo punto però non si può sfuggire alla domanda che nella teoria generale del diritto viene di solito posta a proposito delle sanzioni negative: come si distinguono le sanzioni giuridiche dalle sanzioni non-giuridiche? In particolare: che cosa significa parlare di premi o ricompense come sanzioni giuridiche? Dare una risposta a questa domanda può servire anche per collaudare la validità delle teorie che sono state generalmente sostenute sulla sanzione giuridica avendo presenti esclusivamente le sanzioni negative. Vi sono sostanzialmente due teorie prevalenti sulla sanzione giuridica: quella che mette in particolare rilievo l’aspetto della istituzionalizzazione, cioè il fatto che la risposta alla violazione di norme del sistema, nel caso del sistema giuridico, è essa stessa regolata da norme del sistema, che hanno la funzione di rendere questa risposta quanto più è possibile costante, proporzionata al delitto, imparziale e certa; e quella che, accentuando il momento dell’esercizio della forza da parte del potere costituito, identifica la sanzione giuridica con la coazione, cioè con quel particolare modo di infliggere un male che è l’esercizio della forza fisica4. Queste due teorie non sono affatto incompatibili, anzi sono andate nelle teorie del diritto più recenti avvicinandosi fino a integrarsi vicendevolmente. Questa integrazione è avvenuta nella teoria, condivisa da un normativista impenitente come Kelsen e dai realisti scandinavi come Olivecrona e Ross, secondo cui ciò che contraddistingue un ordinamento giuridico da un qualsiasi altro ordinamento normativo è la regolamentazione dell’esercizio della forza, cioè la coazione istituzionalizzata. Riferita alle sanzioni positive, la prima teoria, cioè quella della sanzione giuridica come sanzione istituzionalizzata, si rivela insufficiente. Un premio letterario è generalmente regolato sin nei più minuti particolari: regole relative ai candidati, regole di procedura, regole sulla composizione della giuria e la sua competenza, ecc. Non ha niente a che vedere con le

reazioni diffuse e informali del gruppo sociale in cui consistono appunto le sanzioni non istituzionalizzate. Ma nessuno chiamerebbe sanzione giuridica un premio letterario. Rispetto alla seconda teoria, a quella della coazione, il riferimento alle sanzioni positive ha invece un salutare effetto correttivo. Chi infatti intende, come Kelsen, che la caratteristica della sanzione giuridica consiste nell’uso della forza fisica, onde sanzioni giuridiche sono soltanto la pena e l’esecuzione forzata, è costretto, anche se non se ne rende perfettamente conto, a escludere dal novero delle sanzioni giuridiche le sanzioni positive. Non c’è dubbio che la forza fisica viene usata o per infliggere una pena o per riparare le conseguenze di un’azione dannosa alla società, in entrambi i casi per porre in atto una sanzione negativa. Ma vi è un altro modo, a mio parere più corretto, di interpretare la sanzione giuridica in termini di coazione: la sanzione giuridica non consiste, a differenza delle sanzioni sociali, nell’uso della forza, cioè nell’insieme dei mezzi che vengono impiegati per costringere con la forza, cioè per «forzare» il recalcitrante, bensì in una reazione alla violazione, qualunque essa sia, anche economica o sociale o morale, che viene garantita in ultima istanza dall’uso della forza. Il risarcimento di un danno, il pagamento di una multa, l’abbattimento di un muro abusivo, non hanno niente a che vedere con l’uso della forza: sono puramente e semplicemente adempimenti di obblighi secondari. Il collegamento di questi obblighi secondari, in cui consiste la sanzione giuridica, con la forza sta nel fatto che il loro adempimento è garantito dalla minaccia di mettere in moto, prima, e dalla messa in moto, poi, di un apparato esecutivo dotato di mezzi coattivi che sono o tendono a essere irresistibili, allo scopo di ottenere con la forza l’adempimento dell’obbligo secondario oppure un adempimento alternativo o sostitutivo. Mentre la riduzione pura e semplice della sanzione giuridica a coazione impedisce di annoverare tra le sanzioni giuridiche le sanzioni positive, la considerazione della coazione come garanzia dell’adempimento della sanzione permette di considerare sanzioni giuridiche anche sanzioni positive: sono giuridiche, secondo questa interpretazione del rapporto tra sanzione e coazione, quelle sanzioni positive che creano nel destinatario del premio una pretesa, protetta anche mediante il ricorso alla forza organizzata dei pubblici poteri, all’adempimento. Non diversamente da una sanzione negativa, una sanzione positiva si risolve nel venire ad

esistenza di un obbligo secondario, là in caso di violazione, qua in caso di superadempimento di un obbligo primario. Ciò significa che si può parlare di sanzione positiva giuridica quando l’obbligo secondario della sua prestazione è un obbligo giuridico, cioè è un obbligo per l’adempimento del quale esiste da parte dell’interessato all’adempimento una pretesa all’esecuzione mediante coazione.

4. Sanzioni positive e facilitazioni Abbiamo parlato sinora della funzione di scoraggiamento (e d’incoraggiamento) con esclusivo riguardo alla tecnica della sanzione negativa (o positiva), cioè alla istituzione di una conseguenza spiacevole attribuita ad un comportamento giudicato cattivo (o di una conseguenza piacevole attribuita ad un comportamento giudicato buono). Per quanto l’uso del termine «sanzione» sia molto vario e l’estensione del concetto abbia confini molto incerti – si pensi alla discussione se la nullità sia o no una sanzione –, si può dire che esista un certo consenso nell’intendere per «sanzione» la risposta o la reazione che il gruppo sociale esprime in occasione di un comportamento in qualche modo rilevante di un membro del gruppo (rilevante in senso negativo o in senso positivo, non importa) allo scopo di esercitare un controllo sull’insieme dei comportamenti di gruppo e di indirizzarli verso certi obbiettivi piuttosto che verso certi altri. Intesa in questo modo, però, la sanzione non può più essere considerata come la sola tecnica che possa essere impiegata per adempiere alla funzione dello scoraggiamento (o dell’incoraggiamento). Proprio lo studio della funzione di incoraggiamento su cui abbiamo voluto richiamare l’attenzione in queste pagine serve a mettere in risalto una tecnica diversa che si ritrova, a ben guardare, anche se in modo meno appariscente, nell’esercizio della funzione di scoraggiamento. Si può arrischiare l’ipotesi che nello studio della funzione di scoraggiamento cui i giuristi hanno dedicato quasi esclusivamente la loro attenzione, la preminenza della tecnica della sanzione, cioè della risposta alla violazione, sia così evidente da aver messo in ombra altri espedienti che pur mirano allo stesso scopo. Intendo parlare della tecnica della «facilitazione» cui corrisponde, dalla parte dello scoraggiamento, la tecnica dell’«ostacolamento». Per tecnica della facilitazione intendo l’insieme di quegli espedienti coi quali un

gruppo sociale organizzato esercita un determinato tipo di controllo sui comportamenti dei suoi membri (in questo caso si tratta del controllo consistente nel promuoverne l’attività nella direzione voluta), non già assegnando una ricompensa all’azione desiderata, dopo che essa è stata compiuta, ma facendo in modo che il suo compimento sia reso più facile o meno difficile. Si noti la differenza: la ricompensa viene dopo, la facilitazione precede o accompagna l’azione che si intende incoraggiare. In altre parole si può incoraggiare, sia intervenendo non sull’azione che si vuole incoraggiare ma sulle sue conseguenze, sia intervenendo direttamente sulle modalità, sulle forme, sulle condizioni della stessa azione. Voglio che mio figlio faccia una difficile traduzione dal latino. Posso promettergli, se la farà, di lasciarlo andare al cinematografo; oppure posso permettergli di usare una traduzione interlineare. Alla tecnica della facilitazione corrisponde, in negativo, come si diceva poc’anzi, la tecnica dell’ostacolamento: si può scoraggiare un’azione non desiderata tanto minacciando una pena qualora l’azione venga compiuta quanto rendendo l’azione stessa più penosa.

5. Misure dirette e misure indirette Tanto la sanzione quanto la facilitazione appartengono allo stesso genus delle misure indirette: in quanto tali, pur distinguendosi fra loro, possono essere trattate insieme. Nell’ambito vastissimo delle misure di controllo sociale, delle quali sarebbe fuori luogo tentare qui una tipologia, alcune sono dirette altre indirette5. Sono misure dirette quelle che cercano di ottenere il comportamento desiderato o di impedire il comportamento indesiderato agendo sul comportamento medesimo, come è il caso della forza fisica impiegata da una squadra di polizia per impedire che la folla rompa i cordoni. Rientrano in questo tipo di misure le cosiddette misure di controllo (in senso stretto) o di vigilanza, le quali vengono impiegate allo scopo di impedire che il comportamento non desiderato venga compiuto (le misure dirette sono prevalentemente negative). Se io raccomando o comando a mio figlio di andare a scuola esercito una pressione indiretta; ma se lo accompagno per evitare che scantoni al primo angolo della strada, il controllo è diretto. In ogni ordinamento giuridico l’osservanza delle norme del sistema non è sempre soltanto affidata al

rispetto per l’autorità che le ha emanate o al timore per le conseguenze sgradevoli dell’inosservanza o alle misure introdotte per ostacolare il comportamento non desiderato, ma anche all’istituzione di corpi specializzati di vigilanza, come guardie daziarie, doganieri, guardie forestali e campestri, guardiacaccia, guardie del traffico, ecc., le quali hanno, sì, il compito di infliggere pene di vario genere per le infrazioni (misura indiretta) ma sono incaricate prima di tutto di impedire che le infrazioni avvengano (misura diretta). Le misure dirette mirano a rendere un determinato comportamento impossibile, se si tratta di misure negative, o necessitato, se si tratta di misure positive. Nei confronti delle misure indirette, invece, il comportamento non desiderato o desiderato è sempre possibile, ma viene reso o più difficile o più facile, oppure viene, una volta compiuto, seguito da altri comportamenti che tendono alla retribuzione o alla riparazione. Sia ben chiaro che le varie misure di controllo sociale costituiscono un continuum e che pertanto non si possono stabilire tagli netti tra un tipo e l’altro: una misura di vigilanza può essere stata istituita per impedire una certa condotta ma di fatto serve per lo più a renderla più difficile. Anche se ognuno di noi conosce astrattamente la differenza tra ostacolare e impedire o precludere è estremamente difficile dire dove finisce l’ostacolo e comincia il vero e proprio impedimento. Un guardiacaccia impedisce la caccia di frodo o la rende semplicemente difficile? Solo per comodità si possono distinguere questi tre gradi: misure di costrizione o di preclusione, che mirano a far nascere il comportamento desiderato, o a impedire il comportamento non desiderato; misure di facilitazione o di ostacolamento, che cercano di favorire l’attuazione di una condotta desiderata o di sfavorire l’attuazione di una condotta indesiderata; misure di retribuzione o di riparazione, che intervengono quando il comportamento è già stato compiuto e mirano ad attribuire conseguenze gradevoli al comportamento desiderato, sgradevoli al comportamento indesiderato, oppure a riparare l’ordine turbato dall’uno o dall’altro. Solo queste ultime sono le sanzioni propriamente dette. Per quanto si tenda a confondere misure di controllo sociale con sanzioni, ad un esame più analitico la categoria delle misure di controllo sociale appare molto più ampia. Se per «sanzione» s’intende, come si fa di solito, la risposta del gruppo ad un comportamento rilevante alla vita del gruppo medesimo, sfuggono al suo concetto non soltanto le

misure di controllo diretto ma anche quelle misure di controllo indiretto che abbiamo chiamato di facilitazione o di ostacolamento. Poiché qui si è voluto richiamare l’attenzione su queste ultime, si può dire, per chiudere questa breve analisi tipologica, che queste occupano un campo intermedio tra le misure dirette e le sanzioni propriamente dette, e hanno in comune con le prime l’azione sullo stesso comportamento desiderato o indesiderato, con le seconde la natura di misure indirette, in quanto cercano di conseguire lo scopo con una pressione che è pur sempre soltanto psicologica e non fisica, del genere «influenza» e non del genere «coazione».

Note 1

Siano almeno ricordate due opere celebri: Théorie des peines et des récompenses di Jeremy Bentham, in Oeuvres, t. II, Bruxelles 1829, pp. 1-238; Del merito e delle ricompense di Melchiorre Gioia, Milano 1818-1819, 2 voll. (nuova edizione corretta, Lugano 1848, 2 voll.) 2 Nella precedente edizione di questo scritto mi era completamente sfuggito l’articolo di A. De Mattia, Merito e ricompensa, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XVII, 1937, pp. 60824, che è stato segnalato nella dissertazione di laurea, tuttora inedita, di Paola Mora, Sanzioni positive, discussa presso l’Università statale di Milano, nell’anno accademico 1972-73, relatore il prof. Renato Treves. Non ho potuto invece tener conto del libro di Serenella Armellini, Saggi sulla premialità del diritto nell’età moderna, Bulzoni, Roma 1976, apparso quando questo libro era già in bozze. Si tratta di una ricerca storica, unica sinora, se non m’inganno, nel suo genere, sulla teoria delle ricompense in Hobbes, Spinoza, Cumberland e negli illuministi italiani. 3 Trovo questa definizione nella già citata opera del Gioia, vol. II, edizione di Lugano, p. 216: «La ricompensa è un vantaggio concesso in vista di servigi qualunque, e calcolata in ragione di essi. La ricompensa è un piacere tendente a distruggere il disgusto del servizio, come la pena è un dolore tendente a distruggere il piacere del delitto». 4 La prima teoria proviene generalmente dai sociologi e dai giuristi-sociologi: su di essa H. Kantorowicz, La definizione del diritto, Giappichelli, Torino 1962, pp. 124 sgg. La seconda rappresenta uno dei cavalli di battaglia della teoria generale del diritto d’orientamento positivistico, da Jhering a Kelsen. Ma non si dimentichi che è bene rappresentata anche da uno dei principali filoni del giusnaturalismo, che va da Thomasius a Kant. 5 Ho tentato di presentare con maggiori dettagli una tipologia delle misure con cui un ordinamento normativo tende a provocare i comportamenti desiderati e ad impedire i comportamenti indesiderati nella voce «Sanzione», in Novissimo Digesto Italiano.

III. Diritto e scienze sociali

1. Il posto del diritto nelle società industriali avanzate Mai come oggi la scienza giuridica ha sentito il bisogno di stabilire nuovi e più stretti contatti con le scienze sociali. Non è la prima volta che ciò accade; ma quando ciò accade è segno che la società attraversa un periodo di profonda trasformazione. Mi riferisco, per esempio, al movimento del diritto libero e alla scoperta della sociologia giuridica in Germania alla fine del secolo scorso. Ciò che caratterizza il momento attuale dello studio sul diritto è il fatto che i giuristi stanno uscendo dal loro splendido isolamento: basta leggere gli scritti più significativi degli studiosi della giovane generazione, soprattutto di coloro che coltivano discipline meno tradizionali, come il diritto del lavoro, il diritto commerciale o industriale, per accorgersene. Questa necessità di aprire i propri orizzonti va di pari passo con la oscura consapevolezza che il diritto non occupa più quel posto privilegiato nel sistema globale della società che gli era stato per lunga tradizione assegnato. I primi a scalzare il primato del diritto – quel primato di cui godeva ancora presso i grandi riformatori illuministi, e che aveva ispirato a Kant l’idea di uno stato secondo il diritto e di una società giuridica universale come meta ideale della storia umana – furono, com’è ben noto, coloro cui si fa risalire la nascita della sociologia moderna: non è il caso di ricordare ancora una volta la sferzante polemica di Saint-Simon contro i legisti e la sua predizione dell’avvento di una società governata da scienziati e industriali contro quella arcaica che stava morendo governata da legisti e metafisici: né occorre ancora ripetere che proprio a Comte occorre rifarsi per trovare una condanna del «feticismo della legge» che è diventato d’allora il grido di battaglia dei giuristi sociologizzanti, e l’affermazione che «nello stato positivo scompare irrevocabilmente l’idea del diritto»1. Non

diversamente è accaduto nell’altro grande filone della «scienza della società» che è il pensiero marxista: Hegel, maestro di Marx, aveva ancora scritto, in uno dei primi paragrafi della Filosofia del diritto, che «il diritto è qualcosa di sacro in generale» (§ 30), mentre Marx lo riduce a momento meramente sovrastrutturale della società, o per riprendere una celebre frase del Manifesto: «... il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge»2. Per dire tutto questo in una formula sintetica, ancorché un po’ semplicistica, mentre gli scrittori illuministici mettevano il diritto al centro dello studio delle diverse civiltà e andavano a cercare la natura e le linee di sviluppo di un popolo nello «spirito delle leggi», e credevano che per mutare la società bastasse mutare il diritto, a poco a poco nell’Ottocento, via via che si veniva prendendo coscienza del grande mutamento storico prodotto dall’avvento della società industriale nella «società civile» prima ancora che nella società politica, il diritto fu sempre più considerato come un epifenomeno, come un momento secondario dello sviluppo storico, e guardato con sempre maggiore diffidenza come strumento di mutamento sociale. Oggi, a ben guardare, la crisi del primato del diritto è ancora più ampia: non si tratta soltanto di mettere in dubbio la sua capacità d’influire sul mutamento sociale, ma anche di metterne in rilievo i limiti in quella che è la sua funzione specifica, cioè come strumento di controllo sociale (nel senso più stretto della parola). Nelle società industriali avanzate si possono intravedere due tendenze che vanno nel senso di una riduzione della funzione specifica del diritto come strumento di controllo sociale: a) ciò che caratterizza il diritto come strumento di controllo sociale è per un verso l’uso di mezzi coercitivi (la cosiddetta «coazione» come elemento distintivo dell’ordinamento giuridico rispetto ad altri ordinamenti normativi) e per l’altro verso l’uso dei mezzi coercitivi in funzione repressiva (intendendo per «repressione» l’opposto di «prevenzione»). Orbene, aumentando la dimensione e l’uso dei mezzi di comunicazione di massa (di cui peraltro non intendo esagerare catastroficamente l’importanza), aumenta nella società contemporanea un controllo sociale di tipo diverso da quello tradizionalmente rappresentato dal diritto, un controllo non di tipo coattivo ma persuasivo, la cui efficacia è affidata non in ultima istanza, come accade in ogni ordinamento

giuridico, alla forza fisica, ma al condizionamento psicologico. Al limite si può ipotizzare un tipo di società in cui il condizionamento psicologico degli individui sia tanto esteso ed efficace da rendere superflua quella forma considerata generalmente più intensa di controllo che è appunto il controllo mediante l’uso di mezzi coattivi, cioè il diritto. Una società senza diritto non è soltanto la società libera ipotizzata da Marx, ma anche quella conformista ipotizzata da Orwell: il diritto è necessario dove gli uomini sono, come accade nelle società storiche, né tutti liberi né tutti conformisti, in una società cioè dove gli uomini hanno bisogno di norme (e quindi non sono liberi) e non riescono sempre ad osservarle (e quindi non sono conformisti); b) oltre al formarsi e al prevalere di un controllo sociale di tipo diverso, è in corso di formazione (se pure non ancora prevalente), in una società tecnologicamente avanzata, un altro fenomeno di vaste proporzioni destinato, a mio parere, a ridurre lo spazio del controllo giuridico, nella forma almeno in cui è stato esercitato generalmente sino ad ora: mi riferisco al fenomeno che chiamo, in mancanza di altre espressioni, del controllo anticipato, ovvero dello spostamento della reazione sociale dal momento successivo al momento precedente al comportamento o all’evento non desiderato, dall’intervento che ha la figura del rimedio all’intervento che viene assumendo la figura della premunizione, in una parola dalla repressione alla prevenzione. Non già che il diritto non abbia, pur nella sua prevalente funzione repressiva, anche una funzione preventiva, come ben sanno i giuristi, a causa del valore intimidatorio e non soltanto punitivo della sanzione. Ma quando qui parlo di un probabile spostamento della politica sociale delle società tecnologicamente avanzate dalla repressione alla prevenzione, mi riferisco a un fenomeno ben altrimenti più complesso e più rilevante, cioè alla tendenza a utilizzare le conoscenze sempre più adeguate che le scienze sociali sono in grado di fornirci sulle motivazioni del comportamento deviante e sulle condizioni che lo rendono possibile, allo scopo non già di correre ai ripari quando esso è stato compiuto ma di impedire che avvenga. La scienza oggi può venire incontro come non mai prima d’ora alla saggezza popolare, la quale insegna che bisogna chiudere la stalla prima che i buoi siano scappati. Si pensi alla discussione in corso sulle enormi possibilità e sugli immensi vantaggi, anche economici, di una medicina preventiva: perché curare la malattia

quando nella stragrande maggioranza dei casi si può evitare che si produca? Così, nel campo di quella malattia sociale che è il comportamento deviante: perché predisporre un gigantesco apparato per individuare prima, per giudicare poi e infine per punire un comportamento deviante, quando si possono modificare le condizioni sociali in modo tale da influire sulle stesse cause che determinano il comportamento deviante? Anche in questo caso, se pur in un senso diverso dal caso precedente della società conformista, una società in cui al limite ogni forma di deviazione sia stata sconfitta prima che possa esplicarsi è una società senza diritto, o almeno senza quell’apparato giudicante e repressivo in cui facciamo consistere per lunga tradizione l’essenza stessa del diritto.

2. Due concezioni opposte della funzione del giurista secondo il diverso tipo di sistema giuridico (chiuso o aperto), la diversa condizione della società (stabile o in movimento), la diversa concezione del diritto (come sistema autonomo o dipendente) Queste considerazioni generali e, non esito a riconoscerlo, ancora approssimative sulle trasformazioni non tanto di un determinato diritto positivo (il che non sarebbe argomento molto peregrino) quanto del posto e della funzione del diritto nella società costituiscono già di per se stesse una introduzione al tema di discussione, e ci consentono qualche primo elemento di giudizio sulle ragioni che rendono indifferibile un maggior contatto tra giuristi e scienziati sociali. È chiaro che il problema del posto e della funzione del diritto nella società non può essere affrontato se non dal giurista che esca dal proprio guscio. Ma altre ragioni, e ancora più impellenti, per questo incontro, si possono cogliere all’interno stesso dell’opera del giurista. Parto da una premessa che non sempre viene tenuta presente: non esiste una sola scienza giuridica (ci si permetta di chiamare per brevità «scienza giuridica», anche se l’espressione è equivoca, l’attività del giurista), ma esistono tante «scienze giuridiche» quante sono le immagini che il giurista ha di se stesso e della propria funzione nella società. In ciò il giurista non differisce dagli

altri scienziati sociali: anche della sociologia si può dire che muta secondo l’immagine che il sociologo ha della sua funzione nella società, come tutti i sociologi sanno. Non ho bisogno di ricordare che la cosiddetta crisi della sociologia di cui oggi tanto si parla dipende dal diverso ruolo che il sociologo ha, o pretende di avere, nella società di cui è insieme spettatore e attore. Per quel che riguarda la scienza giuridica mi pare si possano distinguere due immagini tipico-ideali della funzione del giurista che influiscono sul diverso modo di concepire la scienza giuridica stessa: il giurista come conservatore e trasmettitore di un corpo di regole già date, di cui è il depositario e il custode; il giurista come creatore esso stesso di regole che trasformano, integrandolo e innovandolo, il sistema dato, di cui è non più soltanto ricevitore ma anche collaboratore attivo e, quando occorra, critico. L’attività principale attraverso cui viene adempiuta la prima funzione è l’interpretazione del diritto; l’attività principale attraverso cui si esplica la seconda è la ricerca del diritto. Queste due immagini della funzione del giurista nella società possono dipendere: a) dal diverso tipo di sistema giuridico entro cui il giurista si trova a operare (variabile istituzionale); b) dalla diversa situazione sociale nella quale il giurista svolge la propria opera (variabile sociale); c) dalla diversa concezione del diritto e del rapporto diritto-società che entra a formare l’ideologia del giurista in un dato momento storico (variabile culturale). Sub a viene in considerazione la distinzione tra sistema chiuso e sistema aperto: sistema chiuso è quello in cui il diritto è stato solidificato in un corpo sistematico di regole che pretendono alla completezza almeno potenziale, le fonti formali del diritto sono rigidamente predeterminate, e fra esse non è compresa l’opera del giurista (la jurisprudentia nel senso classico della parola si risolve in un commentario alle regole del sistema); sistema aperto è quello in cui la maggior parte delle regole sono o vengono considerate allo stato fluido, e in continua trasformazione, non viene posta una netta linea di demarcazione tra fonti materiali e fonti formali, e al giurista viene attribuito il compito di collaborare insieme con il legislatore e col giudice all’opera di creazione del nuovo diritto. Sub b con «diversa situazione sociale» s’intende riferirsi alla distinzione tra una società stabile e una società in trasformazione, tra società che tende

a perpetuare i propri modelli culturali e società in cui erompono fattori di cambiamento che rendono rapidamente inadeguati i modelli culturali tradizionali, tra i quali l’insieme delle regole giuridiche tramandate. Sub c si richiama l’attenzione sulla distinzione tra il concepire il diritto come sistema autonomo o autosufficiente rispetto al sistema sociale, onde l’opera del giurista si svolge tutta quanta all’interno di esso, e il concepirlo come sottosistema di un sistema globale, oppure (secondo la versione marxista del rapporto diritto-società) come sovrastruttura di una struttura sociale, onde spetta al giurista il compito di adattare il diritto vigente alla realtà sociale circo-stante o sotto-stante. A queste tre coppie di variabili, che possono essere considerate rispettivamente indipendenti o tra loro variamente dipendenti secondo vari punti di vista, corrispondono tre modelli antitetici di scienza del diritto: vincolata-libera, conservatrice-innovatrice, formalistica-realistica. Nel caso estremo – puramente ipotetico – di un diritto in un sistema chiuso, in una società stabile, con una ideologia dell’autonomia del diritto rispetto alla società, la giurisprudenza dovrebbe essere vincolata, conservatrice e formalistica. Nel caso estremo opposto di un diritto in un sistema aperto, in una società in trasformazione, con una ideologia del diritto come riflesso della società, dovrebbe svilupparsi il modello opposto di una scienza del diritto libera, innovatrice e realistica. L’opposizione tra queste due diverse concezioni della funzione del giurista si ripercuote sul diverso modo di identificare e di delimitare l’oggetto della scienza giuridica. Secondo la prima concezione, oggetto della scienza giuridica è l’insieme delle regole poste e tramandate che in un determinato momento storico sono applicabili dal giudice, intese, queste regole, come proposizioni di cui occorre stabilire con la massima precisione il significato. Come si vede, il compito del giurista in questa situazione non è quello di porre in esistenza regole nuove ma d’indicare quali sono le regole esistenti e di interpretarle. In questa situazione si capisce come assuma rilievo particolare e preliminare la determinazione da parte del giurista delle fonti del diritto, cioè dei criteri in base ai quali si possono distinguere le regole appartenenti al sistema (o valide), e quindi applicabili dal giudice, e quelle che non vi appartengono. Attraverso la determinazione delle fonti del diritto, il giurista stabilisce anche l’ambito della propria ricerca, cioè

delimita il proprio oggetto. Una volta delimitato l’oggetto, la ricerca consiste in una serie di operazioni intellettuali che vengono chiamate con il nome classico d’interpretazione: con questo termine anche nel suo senso più ampio s’intende pur sempre denotare un’attività meramente riconoscitiva delle regole date e non anche creativa o critica. Rientrano nell’attività riconoscitiva del sistema dato le quattro attività seguenti: a) determinazione del significato delle regole (interpretazione in senso stretto); b) conciliazione delle regole apparentemente incompatibili; c) integrazione delle lacune (s’intende delle lacune tecniche e non di quelle ideologiche); d) elaborazione sistematica del contenuto delle regole, così interpretate, conciliate, integrate. Poiché in base alla seconda concezione della funzione del giurista il diritto non è un sistema di regole già poste e tramandate ma un insieme di regole in movimento, da porre e da riproporre continuamente, oggetto della scienza giuridica debbono essere non tanto le regole, cioè le valutazioni dei fatti sociali in cui consistono le regole, ma gli stessi fatti sociali di cui le regole giuridiche sono valutazioni. «Oggetto dell’indagine e dell’esposizione del giurista – scriveva Rumpf nel 1922 – non sono le norme, ma la vita sociale in quanto soggetta alle norme». Per «fatti sociali» s’intende, nel senso più generale, sia i fatti di relazione interindividuale o rapporti sociali (in ispecie economici), che costituiscono la materia delle regole giuridiche, sia gli interessi di individui o gruppi contrapposti di cui la regola giuridica ha il compito di dare una valutazione al fine di risolvere i possibili conflitti, sia i fatti culturali, come i valori sociali dominanti o dei gruppi dominanti, le opinioni morali diffuse (morale positiva o sociale), i principi di giustizia, più in generale le ideologie politiche di cui le regole giuridiche, in quanto contengono una determinata valutazione degli interessi in gioco, sono l’espressione. In questa prospettiva l’attività principale del giurista non è più l’interpretazione di un diritto già fatto ma la ricerca di un diritto da fare, in fieri, non tanto la convalida in base ad un’analisi delle fonti formali del diritto che è, quanto la legittimazione, in base a principi materiali di giustizia, del diritto che deve essere. Di questa ricerca le operazioni successive sono: a) l’analisi della situazione, di cui si vuole trovare la regola o le regole confacenti, mediante le tecniche di ricerca elaborate e praticate dalle scienze sociali; b) l’analisi e il confronto dei diversi criteri di valutazione in base ai quali la situazione può essere

regolata (beninteso, tra questi criteri di valutazione vi sono anche le regole poste o tramandate); c) la scelta della valutazione e la formulazione della regola.

3. Il diritto come sistema aperto, in una società in trasformazione, e come sistema autonomo Delle due immagini della funzione del giurista sopra delineate, quella prevalente, almeno nel mondo dei paesi a struttura economico-capitalistica e a prevalente regime liberale-democratico, è la seconda. Riferendoci alle tre coppie di variabili sopra indicate, si possono fare le seguenti osservazioni. Sistema chiuso o aperto? Non c’è dubbio che uno degli aspetti più interessanti della discussione intorno al diritto in questi anni è la messa in questione delle fonti tradizionali delle norme giuridiche, anche nei paesi continentali. Questa messa in questione va di pari passo con il rilievo sempre maggiore dato alle cosiddette fonti extralegislative (o addirittura extrastatuali). Che la fonte principale di diritto fosse nello stato moderno la legge, cioè la norma tendenzialmente generale e astratta posta da un organo a ciò specificamente e in modo esclusivo delegato dalla costituzione, è stato uno dei dogmi del positivismo giuridico in senso stretto: uno degli aspetti attraverso cui si manifesta la crisi del positivismo giuridico è la crescente consapevolezza dell’emergere di altre fonti del diritto che minano il monopolio della produzione giuridica detenuto dalla legge in una società in rapida trasformazione e intensamente conflittuale, com’è la società capitalistica nell’attuale fase di sviluppo. Le regioni in cui il fenomeno della produzione giuridica extralegislativa si manifesta con maggiore evidenza sono appunto quelle che caratterizzano la società industriale, cioè il diritto dell’impresa e il diritto del lavoro e sindacale. Del resto, nulla di nuovo sotto il sole: mezzo secolo fa, si sarebbe parlato della rivolta dei fatti contro le leggi, dell’emergere di un «diritto sociale» contro il diritto dello stato. Non ho bisogno di ricordare che, in sede non solo di politica del diritto ma anche di riflessione sul diritto stabilito, c’è stato in questi anni un risveglio d’interesse per l’attività creatrice del giudice attraverso la distinzione tra quello che il giudice dice o crede di fare e quello che fa

effettivamente, con l’affermazione dell’esigenza di un maggiore impegno del giudice nell’opera di adattamento del diritto al mutamento sociale. Ma quel che è più, è stata richiamata l’attenzione sulla funzione non soltanto ricostruttiva ma anche normativa dell’opera dei giuristi, che secondo l’immagine tramandata dalla scuola del positivismo giuridico non avrebbero mai dovuto alzare gli occhi al di sopra dell’orizzonte del jus conditum: ora in certe materie, dove si è verificata una prolungata vacanza del legislatore, come nel diritto sindacale, i giuristi non solo hanno osato guardare in faccia il jus condendum, ma sono stati essi stessi i conditores del nuovo jus. Ancora: nella gerarchia delle fonti del diritto il contratto occupa, nell’ordinamento statale, l’infimo posto, come quello che disciplina l’azione di un numero estremamente ristretto di soggetti nell’ambito di interessi particolaristici. Le cose cambiano quando la stessa forma di produzione normativa attraverso accordo avviene non più tra individui ma tra grandi e potenti associazioni, come sono i sindacati, e l’ambito della materia regolata comprende interessi fondamentali e vitali come quello dei modi, tempi, condizioni del lavoro. In una società industriale di tipo conflittualistico, il contratto collettivo diventa per un’enorme massa di persone una fonte di regole d’importanza assai più vitale che non la maggior parte delle leggi e leggine emanate dagli organi legislativi. Infine, non si dimentichi la consuetudine, anche se ciò cui si guarda oggi con sempre maggiore attenzione non è tanto la consuetudine di cui si parla nei manuali, quanto ogni forma di produzione spontanea, cioè non autoritativamente posta, di regole che l’uso e il consenso per lo più tacito degli utenti rendono efficaci assai più che non tante leggi formali o nate morte o morte di consunzione o di senescenza o cadute in un letargo che prelude alla morte. Il giurista diventa sempre più sensibile al fenomeno della «prassi», ovunque essa si manifesti, sia nel mondo aziendale, sia in quello sindacale, o giudiziario, o amministrativo, vale a dire a tutti quei comportamenti effettivi e reiterati in margine o in aggiunta o in contrasto con norme formali, che costituiscono il tessuto connettivo di un’istituzione e permettono a coloro che ne partecipano o ne fruiscono di prevederne la crescita e quindi di agire avvedutamente. Anche sulla seconda alternativa – società stabile o società in trasformazione – la risposta non può essere dubbia: più difficile, se mai, cogliere le linee di tendenza delle trasformazioni del diritto, cioè quali

siano le ripercussioni del mutamento sociale sul mutamento giuridico. Tra queste linee di tendenza mi limito a indicarne tre che mi paiono particolarmente rilevanti e sulle quali la discussione è già stata aperta in questi ultimi tempi. La prima è quella su cui ha richiamato ripetutamente l’attenzione l’economista F.A. Hayek, là dove per caratterizzare il passaggio dallo stato liberale classico allo stato assistenziale ha fatto ricorso alla distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione, affermando che questo passaggio è consistito, dal punto di vista strutturale, in un progressivo aumento delle norme di organizzazione rispetto alle norme di condotta3. Questa tesi può sembrare nient’altro che una diversa formulazione della tesi ben nota e non più nuova della progressiva pubblicizzazione del diritto; ma anche se lo stesso Hayek tende a confondere l’una con l’altra, mi pare siano diverse e la prima sia più corretta. Il fenomeno della pubblicizzazione del diritto si riferisce alla continua crescita delle funzioni dello stato rispetto allo stato agnostico o neutrale del secolo scorso; il fenomeno dell’aumento delle norme di organizzazione si riferisce alla formazione delle grandi organizzazioni nell’ambito tanto dello stato quanto della società civile, cioè alle grandi concentrazioni di potere nella società moderna, di cui lo stato, nel senso specifico e ristretto della parola, non è che una manifestazione. La differenza tra norme di condotta e norme di organizzazione sta ad indicare non tanto una differenza tra due tipi di stato quanto una differenza tra due diverse funzioni del diritto: quella di rendere possibile la convivenza di individui (o gruppi) perseguenti ciascuno fini singoli, e quella di rendere possibile la cooperazione di individui (o gruppi) perseguenti un fine comune. Per rappresentare, dal punto di vista del mutamento giuridico, il passaggio dallo stato liberale classico allo stato assistenziale, sembra più utile l’individuazione della seconda linea di tendenza (e, come vedremo tra poco, anche la terza). Si tratta questa volta del passaggio da un controllo sociale fondato prevalentemente su norme provviste di sanzione («Se fai, o non fai, x, ti sarà imputata la conseguenza y»), al controllo sociale affidato vie più a norme tecniche la cui forza deriva dal collegamento mezzo-fine, cioè dal fatto che il compiere o non compiere certe azioni non permette di raggiungere il fine voluto o imposto. Di queste norme tecniche si possono dare due specie, secondoché la norma preveda un determinato mezzo necessario per raggiungere un fine (o norme strumentali) oppure indichi il

fine da raggiungere col mezzo più opportuno (o norme finali, o, più semplicemente, direttive). L’entrata in campo sempre più massiccia di norme meramente tecniche è strettamente legata alla programmazione e alla pianificazione economica, ed è per questo che l’individuazione di questa linea di tendenza serve meglio della precedente a cogliere l’aspetto saliente dello stato contemporaneo. Questa differenza inoltre è tanto importante rispetto alla stessa funzione del diritto che il giorno in cui si estendesse il campo riservato alle norme tecniche e diventasse sempre più marginale quello delle norme penali (in senso largo), non si dovrebbe più parlare del diritto come di uno strumento di controllo sociale, ma sarebbe più appropriato parlare di «direzione sociale». Già, infatti, nei paesi socialisti, dove la pianificazione economica e sociale è determinante del tipo di sistema politico e di ordinamento giuridico ivi attuato, si sta aprendo la strada la tendenza a comprendere la scienza giuridica in un ambito più vasto che è quello della «scienza della direzione sociale»4. La terza linea di tendenza è quella relativa al passaggio dalla funzione tradizionalmente repressiva del diritto alla funzione promozionale: è chiaro che lo stato assume una diversa configurazione secondoché si ponga scopi che possono essere raggiunti semplicemente scoraggiando i comportamenti non voluti (in cui consiste appunto la repressione) oppure anche incoraggiando i comportamenti voluti (in cui consiste la promozione). Non c’è dubbio che gli scopi dello stato assistenziale sono tali che per il loro raggiungimento occorre una continua opera di stimolazione di comportamenti considerati economicamente vantaggiosi. La differenza tra repressione e promozione passa attraverso l’uso di due diverse tecniche sanzionatorie, ovvero attraverso la tecnica della sanzione negativa, nel primo caso («Se fai, o non fai, x, ti accadrà qualche cosa di spiacevole»), quella della sanzione positiva, nel secondo («Se fai, o non fai, x, ti accadrà qualche cosa di piacevole»). L’uso ognor più frequente delle cosiddette leggi d’incentivazione sta a mostrare meglio che ogni altra osservazione l’attualità di questa tendenza. Ho già avuto occasione altrove di far notare5 che nella nostra costituzione vi sono almeno una dozzina di articoli in cui s’impiega il termine «promuovere» o simili, a differenza delle costituzioni più antiche in cui il termine-chiave era «garantire» (e per garantire bisogna reprimere). Per dare una risposta alla terza alternativa – il diritto come sistema

autonomo o come sottosistema del sistema globale della società – basterà osservare quanto sia in crisi oggi un’altra delle tesi fondamentali della teoria del positivismo, secondo cui il diritto positivo, il diritto cioè con cui deve unicamente fare i conti il giurista, è un sistema unitario, coerente e completo di norme dalle quali è possibile (e anche doveroso) trarre la soluzione di ogni controversia (tesi della cosiddetta autosufficienza del sistema normativo), e al contrario quanto si diffondano, anche nei paesi di diritto codificato, teorie realistiche che rivolgono la loro attenzione più all’effettività che non alla validità formale delle norme giuridiche, e pongono l’accento, più che sull’autosufficienza del sistema giuridico, sulle interrelazioni tra sistema giuridico e sistema economico, tra sistema giuridico e sistema politico, tra sistema giuridico e sistema sociale nel suo complesso. Ciò che contraddistingue la situazione presente sono per l’appunto quelle condizioni che abbiamo considerate come particolarmente favorevoli al formarsi di una scienza del diritto antitradizionalistica, che cerca il proprio oggetto in ultima istanza non tanto nelle regole del sistema dato quanto nell’analisi dei rapporti e dei valori sociali da cui si estraggono le regole del sistema; e che, lungi dal ritenersi, come per molto tempo si è ritenuta, una scienza autonoma e pura, cerca sempre più l’alleanza con le scienze sociali sino a considerarsi come una branca della scienza generale della società.

4. La funzione del giurista comparata a quella del sociologo Da tutto questo discorso emerge chiaramente perché, come si diceva all’inizio, i rapporti tra scienza giuridica e scienze sociali siano diventati in questi ultimi anni sempre più stretti. Per riprendere la metafora dello «splendido isolamento» la scienza giuridica non è più un’isola ma una regione tra le altre di un vasto continente. Che il giurista debba stabilire nuovi e più profondi contatti con psicologi, sociologi, antropologi, politologi, è diventata, specie tra i giuristi della giovane generazione, una communis opinio così diffusa che a voler dare indicazioni bibliografiche precise non si saprebbe da che parte cominciare. Come punto di riferimento possiamo prendere la discussione avvenuta due anni or sono ad Ancona sul tema della formazione extralegislativa del diritto: nel discorso di apertura Giorgio Ghezzi adduceva a giustificazione del fatto che si

fossero prese le mosse dal diritto del lavoro la considerazione che tale diritto è «uno dei più favorevoli punti di osservazione per rendersi conto dei risultati cui può condurre una ricerca non aprioristicamente ostile anche all’esame dell’aspetto empirico del fenomeno giuridico ed alla dimensione d’una possibile collaborazione interdisciplinare»; Giuseppe Pera parlava di «feconda apertura alla ricerca sociologica»6. Ci troviamo nella situazione in cui ognuna delle branche tradizionali del diritto è venuta scoprendo al proprio fianco una qualche disciplina del comportamento umano che la segue come la propria ombra: il diritto costituzionale, la scienza politica (o la sociologia politica); il diritto amministrativo, la scienza dell’amministrazione e ancor più in generale la sociologia dell’organizzazione; il diritto penale, la sociologia del comportamento deviante, l’antropologia criminale, ecc.; il diritto dell’impresa e il diritto del lavoro, oltre che le varie discipline economiche, la sociologia industriale e del lavoro; il diritto internazionale, quell’insieme di studi ormai etichettati col nome di «relazioni internazionali». I civilisti che pur sono stati in altri tempi i maggiori fautori dell’autonomia della scienza giuridica, i creatori del tecnicismo giuridico che poi è stato travasato nelle altre discipline giuridiche, si muovono nella stessa direzione (e talora sembra che siano alla testa del movimento); una delle poche ricerche di sociologia giuridica che si stanno conducendo ora in Italia riguarda i testamenti7. Nessuno può aver dubbi sull’importanza che studi empirici sul matrimonio in Italia, se ci fossero stati, avrebbero avuto nella fase attuale della lotta pro e contro il divorzio. Ciò detto, nell’odierna tendenza sociologizzante della scienza giuridica quel che a mio parere occorre ribadire è, se mai, la differenza tra l’opera del giurista e quella dello scienziato sociale. C’è rischio infatti che il giurista uscito dalla propria isola affoghi nel vasto oceano di una indiscriminata scienza della società. Avvicinamento non vuol dire confusione. L’interdisciplinarità presuppone pur sempre una differenza tra diversi approcci. È incredibile come si passi facilmente da un estremo all’altro secondo che tira il vento: dal tecnicismo giuridico al sociologismo. Eppure, nonostante tutto l’aiuto che il giurista può e deve trarre dal sociologo, giurista e sociologo fanno due mestieri diversi. Non bisogna confondere i materiali di cui l’uno e l’altro possono disporre con il modo con cui questi stessi materiali vengono utilizzati. Si può dire, se pure con una certa

approssimazione, che il giurista sta al sociologo, e in genere allo scienziato sociale, come il grammatico sta al linguista. Si faccia ricorso alla notissima distinzione kelseniana tra scienza giuridica come scienza normativa e sociologia come scienza esplicativa, o alla distinzione proposta più recentemente da Hart tra punto di vista interno, che è quello proprio del giurista, e punto di vista esterno, che è quello del sociologo: la differenza, anche se non sempre percepita e continuamente rimessa in questione per mancanza di chiarezza o per desiderio di originalità a buon mercato, è nettissima. Il problema che il sociologo e il giurista hanno in comune è quello del rapporto tra regola e comportamento. Ebbene, il sociologo usa le regole di comportamento che trova sulla propria strada per spiegare perché certi individui si comportano in un certo modo, adopera cioè le regole come una delle variabili del procedimento esplicativo ed eventualmente predittivo cui mira; il giurista usa le stesse regole per qualificare i comportamenti come leciti o illeciti, cioè per stabilire perché ci si debba comportare in un modo piuttosto che in un altro. Sociologo e giurista rispetto al rapporto tra regola e comportamento fanno un cammino inverso: il sociologo parte generalmente dal comportamento per arrivare alla regola che eventualmente lo possa spiegare; il giurista parte dalla regola per arrivare al comportamento che sia di quella regola l’attuazione. Per servirsi di una regola come criterio di spiegazione e di previsione basta al sociologo che sia efficace; per servirsi di una regola allo scopo di qualificare un comportamento e quindi a scopo prescrittivo, è necessario al giurista che sia anche valida. Dal sociologo il comportamento previsto da una regola viene preso in considerazione per osservare l’effetto della regola sul comportamento; dal giurista per giudicarlo. Per il sociologo una regola è rispetto al comportamento rilevante o irrilevante; per un giurista, un comportamento è rispetto a una regola lecito o illecito. Si potrebbe continuare. S’intende che, essendo diversa la prospettiva e conseguentemente anche il fine – il fine del sociologo è di descrivere come vanno le cose, il fine del giurista è di descrivere come debbono andare –, diverso è il tipo di operazioni intellettuali che l’uno e l’altro compiono sulla stessa realtà, e che quindi li caratterizzano. Nel sociologo l’osservazione dei comportamenti prevale sull’interpretazione delle regole; nel giurista l’interpretazione

prevale sull’osservazione. E così via. Proprio perché scienza giuridica e scienze sociali si distinguono come prospettive diverse pur nella identità della materia, si spiega il fenomeno testé menzionato della duplicazione, per cui ogni disciplina giuridica ha una specie di controfigura in una disciplina sociologica e viceversa, tanto che, volendo continuare la metafora geografica, piuttosto che di regioni diverse dello stesso continente si dovrebbe parlare di mappe diverse, che s’integrano tra loro, della stessa regione. Sin qui ho considerato la mappa del sociologo come necessaria integrazione di quella del giurista. Vorrei, per concludere, spezzare una lancia in favore di una possibile integrazione in senso inverso, formulando alla buona questa domanda: «Che cosa può attendersi lo scienziato sociale dal giurista?». Il mestiere del giurista è sempre stato quello di «trattare» regole, e intendo per «trattare», nel senso più largo, l’identificazione, la interpretazione, la manipolazione, la conciliazione, l’ordinamento sistematico, la deduzione sino alla vera e propria invenzione delle regole di un sistema. La scienza giuridica ha accumulato nei secoli un patrimonio immenso e prezioso di osservazioni sui modi con cui le regole di un sistema nascono, vivono e muoiono, e ha formulato una massa enorme di concetti tecnici utili a comprendere come funziona un sistema normativo (se pur entro i limiti di una considerazione del sistema giuridico come sistema normativo per eccellenza), e a definire e a classificare i comportamenti normativi. Chiunque abbia una certa familiarità con la letteratura sociologica contemporanea ha l’impressione che questo patrimonio sia poco o punto utilizzato. Ciò appare tanto più sorprendente in quanto la situazione era ben diversa al tempo dei fondatori della sociologia odierna: non ho bisogno di sottolineare quale sia stato il contributo dato dalla teoria giuridica alla formazione di opere fondamentali quali quelle di Tönnies, Durkheim, Max Weber (però non di quella di Pareto). Forse per effetto del trapianto della sociologia negli Stati Uniti, cioè in un paese a cultura giuridica meno avanzata e meno preminente, i sociologi hanno finito per ignorare sempre più i giuristi: la sociologia è stata sempre più – scusate la brutta espressione – «degiuridificata». In un’opera come quella del Parsons, che pur concede tanto spazio al problema del controllo sociale, manca qualsiasi riferimento al diritto, e non si vede traccia, nonostante le molte occasioni, di un qualche prestito dalla

scienza giuridica. The Structure of Social Action (1937) è apparsa tre anni dopo la Reine Rechtslehre di Kelsen; The Social System (1951) è di pochi anni successivo alla kelseniana General Theory of Law and State: eppure Parsons non mostra di avere il minimo sentore di Kelsen, di un autore tra l’altro che avrebbe dovuto essergli congeniale, mentre né Tönnies, né Durkheim, né Max Weber ignoravano quella che era certamente l’opera maggiore di teoria generale del diritto del loro tempo, cioè Der Zweck im Recht di Jhering. Ciò che lo scienziato sociale può attendersi dal giurista è una sollecitazione a guardare con maggiore attenzione a quei reticolati di regole entro cui si muovono i membri di qualsiasi gruppo sociale, ad analizzare il fenomeno normativo con quegli strumenti di precisione che gli può fornire il giurista. Qualsiasi sistema sociale è in parte costituito, almeno per quello che riguarda il fenomeno dell’istituzionalizzazione delle relazioni sociali, da un insieme di sistemi normativi, di cui quello più significativo e anche più studiato, per opera addirittura di un ceto professionale di specialisti, è proprio il sistema giuridico. È sorprendente constatare quanti concetti-base della teoria generale della società, come status, ruolo, aspettativa, sfera di permissività e di obbligatorietà, sanzione (positiva e negativa), istituzione, istituzionalizzazione, ecc. (sono concetti-base, come ognuno vede, tratti dal sistema parsonsiano) siano anche concetti-base della teoria generale del diritto; e sono tali, si badi, perché sono concetti fondamentali per descrivere un sistema normativo. Ma è altrettanto sorprendente quanto poco i sociologi abbiano tenuto conto del lavoro fatto dai giuristi intorno agli stessi concetti. Non c’è dunque ragione perché, nel momento in cui il giurista si sta avvicinando con una nuova e grande curiosità al sociologo, questi continui a considerare lo studio del diritto estraneo al proprio interesse, sia al livello più alto che è quello della elaborazione di una teoria generale della società sia ai livelli più bassi della ricostruzione dei singoli istituti. Penso che uno dei compiti della sociologia del diritto, che si sta ora sviluppando in Italia soprattutto per opera di Renato Treves e della sua scuola, sia anche quello di contribuire a una migliore conoscenza reciproca tra sociologi e giuristi.

Note

1

Traggo queste due citazioni da G. Solari, Positivismo giuridico e politico di A. Comte, in Studi storici di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1949, pp. 385-91. 2 K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito comunista, parte II: Proletari e comunisti (nell’ediz. a cura di Emma Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1948, p. 139). 3 Sul tema rinvio al saggio Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in questo stesso volume. 4 Traggo queste notizie dal libro di U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 241 sgg. Ma cfr. anche M.G. Losano, Giuscibernetica, Einaudi, Torino 1969, pp. 120 sgg. 5 Nel saggio La funzione promozionale del diritto, in questo stesso volume. 6 La formazione extralegislativa del diritto nell’esperienza italiana, in «Foro Italiano», supplemento al n. 1 dell’anno XCV (1970). Le due citazioni si trovano rispettivamente a pp. 11 e 22. 7 [Mi riferisco alla ricerca, pubblicata nel frattempo, di V. Ferrari, Successione per testamento e trasformazioni sociali, Edizioni di Comunità, Milano 1972.]

IV. Verso una teoria funzionalistica del diritto

1. Prevalenza delle teorie strutturalistiche su quelle funzionalistiche nella teoria generale del diritto Se si applica alla teoria del diritto la distinzione tra approccio strutturalistico e approccio funzionalistico, di cui fanno grande uso gli scienziati sociali per differenziare e classificare le loro teorie, non sembra dubbio che nello studio del diritto in generale (di cui si occupa la teoria generale del diritto) abbia prevalso in questi ultimi cinquant’anni il primo sul secondo1. Senza indulgere alle etichette, sempre pericolose per quanto utili, credo si possa dire con una certa tranquillità che nel suo sviluppo dopo la svolta kelseniana la teoria del diritto abbia ubbidito assai più a suggestioni strutturalistiche che non a suggestioni funzionalistiche. In parole povere, coloro che si sono dedicati alla teoria generale del diritto si sono preoccupati molto di più di sapere «come il diritto sia fatto» che «a che cosa serva». La conseguenza è stata che l’analisi strutturale è stata condotta molto più a fondo dell’analisi funzionale. Herbert L.A. Hart, autore dell’opera di teoria del diritto che ha avuto in questi anni i maggiori consensi al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, parte da un’analisi delle carenze funzionali degli ordinamenti primitivi per approdare a una determinazione del concetto di diritto – l’ordinamento giuridico è un composto di norme primarie e secondarie – in cui lo strutturalismo celebra i propri trionfi. È vero che in Hart analisi funzionale e analisi strutturale sono strettamente congiunte: l’ordinamento giuridico è fatto così, cioè ha quella determinata struttura, perché, solo in quanto è fatto così, elimina le carenze funzionali degli ordinamenti primitivi. La struttura specifica dell’ordinamento giuridico adempie una funzione specifica che è quella di assicurare certezza, mobilità ed efficacia al sistema normativo. Resta il fatto però che ciò che caratterizza quegli ordinamenti normativi che

abitualmente chiamiamo giuridici è proprio il modo con cui sono «strutturati». Nell’opera di Kelsen non solo analisi funzionale e analisi strutturale sono dichiaratamente separate, ma questa separazione è la base teorica su cui Kelsen fonda l’esclusione della prima a favore della seconda. Com’è ben noto, per il fondatore della teoria pura del diritto, una teoria scientifica del diritto non deve occuparsi della funzione del diritto, ma soltanto dei suoi elementi strutturali. L’analisi funzionale è affidata ai sociologi e magari ai filosofi. Il movimento verso lo studio della struttura dell’ordinamento giuridico è stato favorito da una rigida divisione del lavoro tra giuristi (che guardano il diritto dall’interno) e sociologi (che lo guardano dall’esterno). La distinzione hartiana tra punto di vista esterno e punto di vista interno, che dà tanto filo da torcere ai suoi interpreti, può essere considerata come una giustificazione di quella divisione del lavoro tra sociologi e giuristi che da Kelsen invece era stata fondata sul dualismo tra sfera dell’essere e sfera del dover essere, tra leggi naturali e norme giuridiche, tra rapporto di causalità e rapporto di imputazione. Che la teoria pura del diritto si occupi della struttura e non della funzione del diritto, Kelsen lo dichiara esplicitamente in più luoghi. In polemica coi teorici del diritto sovietici che, definendo il diritto in funzione degli interessi della classe dominante ne danno una definizione funzionale, Kelsen ribadisce energicamente il suo punto di vista: «Questa dottrina [la dottrina pura del diritto] non considera [...] lo scopo che viene perseguito e raggiunto dall’ordinamento giuridico, ma considera soltanto l’ordinamento giuridico stesso; e considera questo ordinamento nell’autonomia normativa propria della sua struttura e non già relativamente a questo suo scopo»2. Chiunque del resto abbia una certa familiarità con le opere del Kelsen sa che non c’è posto in esse (o non dovrebbe esserci) per le definizioni teleologiche dei concetti chiave della teoria del diritto, e che lo sforzo compiuto da lui per dare finalmente ai giuristi una teoria scientifica del diritto consiste proprio nel fornire definizioni formali di questi concetti, a cominciare da quello di norma giuridica, per finire con quello di ordinamento giuridico. Oggi possiamo guardare con una certa insofferenza al furore antiteleologico di Kelsen e dei kelseniani. Ma non dobbiamo dimenticare che la ricerca dello scopo o degli scopi del diritto era la breccia attraverso cui entravano nella teoria del diritto le più contrastanti ideologie. Il

circoscrivere il compito di una teoria del diritto all’analisi strutturale era un modo di salvaguardare la ricerca teorica dall’intrusione dei giudizi di valore e di evitare la confusione tra il diritto positivo, il solo possibile oggetto di una teoria scientifica del diritto, e il diritto ideale; era nelle intenzioni di Kelsen la condicio sine qua non per la fondazione di una teoria scientifica del diritto. «Come scienza [si badi, come scienza], la dottrina pura del diritto – scrive il Kelsen – si ritiene obbligata soltanto a comprendere il diritto positivo nella sua essenza e d’intenderlo mediante un’analisi della sua struttura»3. Nell’opera del Kelsen la costruzione della teoria pura del diritto, volta esclusivamente all’analisi degli elementi strutturali dell’universo giuridico, va di pari passo, com’è ben noto (eppure è così spesso dimenticato), con la critica ideologica delle teorie altrui. L’analisi strutturale non serve soltanto a salvaguardare la teoria del diritto da contaminazioni ideologiche, ma permette di smascherare prese di posizione politiche che si annidano nei concetti tradizionali apparentemente neutrali della scienza del diritto.

2. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen Kelsen non cadde nell’errore di Stammler, che provocò una critica piuttosto severa di Max Weber, di confondere l’analisi formale del diritto come premessa per una teoria scientifica e compiutamente deideologizzata del diritto, con la concezione del diritto come forma di rapporti sociali, in particolare dei rapporti economici. Bisogna pur riconoscere che altro è dire che il diritto come ordinamento normativo ha una sua struttura, che è compito della teoria generale del diritto d’individuare e descrivere, altro è dire che il diritto è e non è altro che una struttura dei rapporti sociali. La prima concezione si limita a separare l’analisi strutturale da quella funzionale considerando soltanto la prima come oggetto di una teoria pura del diritto. La seconda non può concepire un’analisi funzionale distinta da quella strutturale per il semplice fatto che confonde la struttura con la funzione, e sostiene che il diritto ha una funzione in quanto è una struttura dei rapporti sociali. Se è vero che Kelsen, intento alla costruzione della teoria pura, non si è mai curato, se non marginalmente, dei problemi relativi all’aspetto funzionale del diritto, non significa che non se ne sia curato affatto. Dal

punto di vista funzionale il diritto è per Kelsen, com’è ben noto, «una tecnica specifica dell’organizzazione sociale»: la cui specificità consiste nell’uso dei mezzi coercitivi per indurre i membri del gruppo sociale a fare o non fare alcunché. Il diritto è un «ordinamento coattivo». Ciò che è comune a tutti gli ordinamenti sociali che chiamiamo abitualmente giuridici è la presenza di un’organizzazione più o meno accentrata per ottenere dai consociati determinati comportamenti ricorrendo in ultima istanza alla forza. Con la terminologia propria dei sociologi, che peraltro Kelsen non usa, il diritto è una delle forme possibili di controllo sociale, specificamente è quella forma di controllo che si fonda sull’uso della forza. Ciò che contraddistingue questa teoria funzionale del diritto da altre è che essa esprime una concezione meramente strumentale del diritto. La funzione del diritto nella società non è già quella di servire a un determinato fine (onde l’approccio funzionalistico al diritto si risolve generalmente nell’individuare quale sia il fine specifico del diritto), ma di essere uno strumento utile a raggiungere i fini più svariati. Kelsen non si stanca di ripetere che il diritto non è un fine ma un mezzo. Proprio in quanto mezzo esso ha la sua funzione: ha la funzione di permettere il raggiungimento di quei fini che non possono essere raggiunti attraverso altre forme di controllo sociale. Quali poi siano questi fini, varia da società a società: è un problema storico che come tale non interessa alla teoria del diritto. Una volta stabilito lo scopo o gli scopi ultimi che un gruppo sociale si propone, il diritto esplica ed esaurisce la sua funzione nell’organizzare un mezzo specifico (la coazione) per ottenere l’adempimento. Che poi Kelsen sia rimasto sempre fedele a questa concezione strumentale del diritto, è un altro discorso. Sembra difficile sottrarre il diritto, inteso come grande macchina per l’esercizio della coazione, a ogni interpretazione teleologica, se non altro perché tra tutti i fini possibili di un gruppo sociale ve n’è uno minimo o comune, per il raggiungimento del quale quella tecnica sociale specifica che è il diritto si presenta non soltanto come preferibile ma addirittura come necessaria: l’ordine o la pace sociale. Se si ammette che il diritto possa servire a raggiungere i fini più diversi, ma nello stesso tempo si ammette che il fine dell’ordine non può essere raggiunto che attraverso il diritto, il diritto non è soltanto un mezzo, ma ha un fine, o meglio è un mezzo specifico per un fine specifico. Nonostante tutte le pregiudiziali antiteleologiche, nonostante le ripetute dichiarazioni

di principio che il diritto è un mezzo e non un fine, Kelsen si lascia sfuggire in un passo della General Theory of Law and State l’affermazione che «il diritto è indubbiamente un ordinamento per la promozione della pace»4. A questa interpretazione teleologica del diritto egli arriva attraverso un ragionamento di questo genere. Per agire come ordinamento coattivo il diritto ha bisogno di organizzare il monopolio della forza. Il monopolio della forza serve a evitare l’uso indiscriminato della forza, cioè a distinguere chi è autorizzato e chi non è autorizzato a usare la forza. Se si definisce la pace come quella situazione in cui la forza non viene usata o viene usata il minimo indispensabile, si deve concludere che «il diritto assicura la pace della comunità»5. Sebbene si fosse affrettato a precisare che la pace assicurata dal diritto è una pace relativa e non assoluta, in quanto priva gli individui singoli e non l’intera comunità o coloro che la rappresentano del potere di usare la forza, non aveva potuto fare a meno di concludere che «lo stato di diritto [...] è essenzialmente uno stato di pace»6. Che questo paragrafo dell’opera americana potesse essere sembrato al Kelsen una concessione forse eccessiva a un’interpretazione teleologica del diritto, sembra provato dal fatto che nella seconda edizione della Reine Rechtslehre, di quindici anni posteriore, a questo stesso punto della trattazione, egli avverte in una nota di aver introdotto una modificazione «non lieve»7 nella sua concezione dei rapporti tra diritto e pace. La modificazione consiste nel sostituire al concetto di pace quello di «sicurezza collettiva». Concetto questo che Kelsen deriva dallo studio di un ordinamento, come quello internazionale, che, pur essendo un ordinamento giuridico, è rispetto all’ordinamento statuale meno organizzato. Volendo fare rientrare nella categoria degli ordinamenti giuridici anche un ordinamento primitivo come quello internazionale, il concetto di pace sembra troppo specifico. Negli ordinamenti giuridici primitivi fondati sul principio dell’auto-tutela, Kelsen ritiene non si possa «parlare seriamente di una pacificazione, anche soltanto relativa, della comunità giuridica», ma soltanto di quello stato che «mira alla pace» senza peraltro raggiungerla, che è lo stato di sicurezza collettiva. Si può parlare di pace come fine del diritto soltanto a proposito di ordinamenti fortemente accentrati, com’è quello dello stato moderno. In conclusione: «Non si può con ragione ritenere che lo stato di diritto sia necessariamente uno stato di pace [come era stato affermato nell’opera precedente] e che l’assicurare la

pace sia una funzione essenziale del diritto. Si può ritenere soltanto che lo sviluppo del diritto abbia questa tendenza»8. La sostituzione del concetto di sicurezza collettiva a quello di pace fa retrocedere di un passo il fine minimo del diritto ma non lo elimina; lo rende più vago, meno specifico, ma non lo sopprime. Rispetto alla pace la sicurezza collettiva è un mezzo («mira alla pace»), ma rispetto al diritto definito come ordinamento della forza è un fine. Come la sicurezza collettiva mira alla pace, il diritto come ordinamento coattivo mira alla sicurezza collettiva. Nel momento stesso in cui si dice che il diritto garantisce per lo meno la sicurezza collettiva, se non la pace, il fine, un certo fine, diventa un elemento della definizione funzionale del diritto. Ancora una volta il diritto non soltanto è un mezzo buono per qualsiasi fine, ma ha esso stesso un fine proprio e specifico.

3. La teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo Si può lasciare impregiudicata la questione quali siano i fini del diritto e se il diritto abbia un fine specifico. Dal punto di vista funzionale, la tesi principale di Kelsen è che il diritto è una tecnica specifica dell’organizzazione sociale e questa tecnica specifica si risolve nell’organizzazione dell’apparato coattivo. Ma questa tesi, se pure esposta con quel rigore e quella chiarezza concettuale che sono propri di tutta l’opera kelseniana, non è affatto originale: è la tesi dominante della teoria positivistica del diritto, di cui del resto Kelsen si professa seguace. Nella Reine Rechtslehre, introducendo il discorso sulla coazione, non esita ad avvertire che «in questo punto la dottrina pura del diritto continua la tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX»9. Che la coazione fosse la forma d’azione specifica del diritto nella società, era stato uno dei temi principali della grande opera di Rudolf Jhering, Der Zweck im Recht. Pare di sentire un’eco della lettura dell’opera di Jhering nel passo in cui Kelsen, distinguendo le pene dalle ricompense, aggiunge che «la tecnica della ricompensa svolge una parte significativa soltanto nelle relazioni private degli individui»10. Quando dicevo all’inizio che l’analisi strutturale del diritto ha fatto più progressi, dopo Kelsen e anche per opera di Kelsen, dell’analisi funzionale, mi riferivo precisamente al fatto che, mentre l’analisi strutturale ha

introdotto ed elaborato un concetto come quello di ordinamento dinamico, di cui nessuna teoria del diritto, borghese o proletaria, può fare a meno, l’analisi funzionale è rimasta ferma al concetto di ordinamento coattivo, cioè a un concetto del diritto che non sembra del tutto adatto a rappresentare la complessità e la multidirezionalità del diritto in una società moderna, e non sembra tener conto delle grandi trasformazioni che una società industriale importa anche nelle varie forme di controllo sociale. Il problema è molto grave e non pretendo di risolverlo. Ho già richiamato l’attenzione in saggi precedenti su quel fenomeno che ho chiamato la «funzione promozionale» del diritto nella società contemporanea11. Qui riprendo il tema mettendolo in rapporto con la teoria kelseniana dell’ordinamento giuridico come ordinamento coattivo. Com’è ben noto, la teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo si regge principalmente sull’affermazione che il diritto è composto di norme e che la caratteristica di queste norme non è già quella di prescrivere comportamenti (e tanto meno di autorizzarli), bensì quella di stabilire un nesso d’imputazione tra l’illecito e la sanzione. Assai più che sul concetto di obbligo, sul cui primato Kelsen insiste soprattutto polemicamente contro le teorie del primato del diritto soggettivo, la teoria del diritto come ordinamento coattivo è incardinata sul concetto di sanzione: rispetto al concetto di sanzione il concetto di obbligo è un concetto derivato. È anzi abbastanza significativo che mentre del concetto di obbligo Kelsen riesce a dare una definizione rigorosamente formale, affermando che un comportamento può dirsi obbligatorio «soltanto se una norma giuridica ricollega un atto coercitivo come sanzione al comportamento opposto»12, del concetto di sanzione non può evitare di dare una definizione funzionale. Quando egli dice che «le sanzioni sono disposte dall’ordinamento giuridico per ottenere un dato comportamento umano che il legislatore considera desiderabile»13, ci fa sapere non già quale sia la struttura normativa della sanzione ma a che cosa la sanzione serve. Naturalmente le sanzioni di cui si vale un ordinamento coattivo, un ordinamento cioè che tende a raggiungere il proprio scopo ricorrendo anche alla forza per indurre i consociati a fare o non fare certe cose, sono, e non possono essere che, le sanzioni negative. Nell’opera kelseniana, il nesso tra coattività del diritto e uso delle sanzioni negative è strettissimo. L’espressione più frequente con cui Kelsen indica le sanzioni giuridiche è

«atti coercitivi»: un atto coercitivo in quanto sanzione (vi sono anche atti coercitivi che non sono sanzioni) è, e può essere soltanto, una sanzione negativa. Sanzioni negative tipiche del diritto sono, per Kelsen, i due atti coercitivi della pena e dell’esecuzione forzata. Insomma il carattere, proprio del diritto, di ordinamento coattivo dipende dal fatto che le sanzioni cui ricorre sono sanzioni negative: «Un ordinamento sociale che cerca di ottenere da parte degli individui il comportamento desiderato mediante l’emanazione di tali misure di coercizione [quali sono appunto le sanzioni negative] viene definito un ordinamento coercitivo»14. Proprio in quanto ordinamento coattivo, che ricorre a sanzioni negative per condizionare i comportamenti degli individui, l’ordinamento giuridico si distingue, secondo Kelsen, sia dagli ordinamenti che non contano sulla sanzione ma sull’obbedienza volontaria, sia dagli ordinamenti che si valgono di sanzioni positive. Dunque Kelsen riconosce la differenza tra sanzioni negative e sanzioni positive, ma afferma esplicitamente che il diritto si vale delle prime e non delle seconde, e che anzi quest’uso è uno dei suoi tratti distintivi. Quali siano gli ordinamenti fondati esclusivamente su sanzioni positive, e se ne esistano o ne siano esistiti, Kelsen a dire il vero non dice. Si limita ad osservare genericamente che «l’ordinamento può annettere alcuni vantaggi alla sua osservanza e alcuni svantaggi alla sua non osservanza, e fare quindi del desiderio del vantaggio promesso e del timore dello svantaggio minacciato un motivo di comportamento»15, cioè a mettere sullo stesso piano, ma soltanto concettualmente, in quanto si tratta di due manifestazioni dello stesso principio di retribuzione, il principio della ricompensa e il principio della pena. Ciò che invece Kelsen dice molto chiaramente, e senza alcun sospetto che si possa anche sostenere il contrario, è che dei due principi, in pratica, quello della pena è di gran lunga più applicato di quello della ricompensa. «È ben degno di nota – egli osserva – che delle due sanzioni qui presentate come tipiche – lo svantaggio minacciato in caso di disobbedienza (punizione nel senso più largo del termine) e il vantaggio promesso in caso di obbedienza (la ricompensa) – la prima assolve nella realtà sociale una parte assai più importante della seconda»16. Dei due ordinamenti sociali che egli prende in considerazione, quello fondato su sanzioni trascendenti e quello fondato su sanzioni immanenti, nessuno fa un uso determinante delle sanzioni positive. Anzi l’idea che le sanzioni negative siano più importanti delle

positive «non si manifesta solo nel fatto che l’ordinamento sociale di gran lunga più importante, il diritto, usa essenzialmente questa sanzione [quella negativa], ma appare anche con particolare evidenza là dove l’ordinamento sociale ha ancora un carattere puramente religioso, cioè garantito da sanzioni trascendenti»17. Da questa osservazione storica è quindi indotto ad affermare che «premio e pena possono essere compresi nel concetto di sanzione, però comunemente si designa come sanzione non il premio, bensì la pena, cioè un male [...] inflitto come conseguenza di un certo comportamento»18. Conviene aggiungere che di questa idea Kelsen aveva creduto di poter trarre conferma nell’ampia e documentatissima ricerca condotta in quegli stessi anni sui sistemi normativi primitivi, dove, pur riconoscendo che concettualmente il principio di retribuzione presiede tanto allo scambio del bene col bene quanto allo scambio del male col male, tanto al premio, quanto alla pena, aveva ritenuto di poter affermare, sulla base dei reperimenti etnologici, che «delle due funzioni del principio di retribuzione – la punizione e la ricompensa – l’ultima comincia ad acquistare importanza solo a poco a poco»19. E infatti il materiale etnografico di cui il libro è composto riguarda quasi esclusivamente casi di retribuzione negativa.

4. Le sanzioni positive nell’opera di Kelsen I soli due riferimenti un po’ più specifici che Kelsen fa all’uso di sanzioni positive mostrano che egli ha un’idea ben radicata (accolta dalla tradizione) della loro irrilevanza nel diritto. Il primo riferimento è nel passo, d’ispirazione probabilmente jheringhiana, già ricordato, in cui Kelsen dice che «la tecnica della ricompensa svolge una parte significativa soltanto nelle relazioni private degli individui»20. Com’è noto, Jhering aveva distinto due leve fondamentali del comportamento sociale egoistico, la ricompensa e la coazione, e aveva assegnato la prima alla sfera dei rapporti economici (Verkehr), la seconda a quella del diritto e dello stato. Non è molto difficile scoprire le ragioni storiche, e di riflesso ideologiche, di questa distinzione. L’idea che il compito dello stato (e correlativamente del diritto, dal momento che stato e diritto erano considerati fenomeni interdipendenti) fosse esclusivamente quello di organizzare l’apparato della coazione era

connessa a quella concezione limitativa o addirittura, come si diceva, negativa, dello stato che fu propria delle varie correnti del liberalismo classico, e di cui la sottrazione dell’attività economica all’ingerenza dello stato, la «privatizzazione» dell’economia («le relazioni private degli individui», richiamate dal Kelsen), era uno degli aspetti essenziali. Su questa idea limitativa dello stato come apparato coattivo si era venuta formando l’ideologia dello stato di diritto, intendendosi per stato di diritto non soltanto lo stato limitato dal diritto, ma anche lo stato limitato al diritto, e intendendosi per «diritto» in questa seconda accezione di «stato di diritto» un ordinamento normativo coattivo volto finalisticamente alla tutela delle libertà fondamentali, in primis di quella economica. Nella distinzione jheringhiana tra organizzazione dei rapporti economici, cui presiede la molla del guadagno, e organizzazione dei rapporti giuridici, cui presiede la molla della coazione, traspariva chiaramente la distinzione tra una sfera di rapporti naturali, che dovevano essere lasciati espandere sino a che non diventassero socialmente nocivi, e una sfera di rapporti regolati coattivamente dall’autorità politica dominante, e quindi in un certo senso artificiali o convenzionali. Dopo aver definito la sfera economica (Verkehr) come «l’organizzazione che tende ad assicurare la soddisfazione dei bisogni umani servendosi della leva del guadagno», Jhering aveva aggiunto che «questa organizzazione è, come forse nessun altro frammento del mondo umano, il prodotto naturale del libero sviluppo degli scopi»21. Kelsen, si badi, non accetta questo modo d’intendere lo stato di diritto (per lui ogni stato è, per il solo fatto di essere uno stato, cioè un ordinamento coattivo, stato di diritto), anzi ne mostra a più riprese la natura ideologica. Inoltre, studiando la realtà dello stato contemporaneo, si rende perfettamente conto, come vedremo meglio tra poco, dell’enorme importanza che ha assunto nelle società sulla via dell’industrializzazione l’attività economica diretta dello stato. Ma non giunge a mettere in dubbio che lo stato svolga la propria funzione di condizionare il comportamento altrui per ottenere certi effetti desiderati o per impedire certi effetti indesiderati soltanto attraverso il meccanismo delle sanzioni negative: l’aver relegato il fenomeno delle ricompense nella sfera delle relazioni private ne è una prova. Ancor più significativo è l’altro riferimento. Nella seconda edizione della Reine Rechtslehre prende atto che «gli ordinamenti giuridici moderni

contengono talvolta norme che, per certi meriti, prevedono premi». Ma quando poi deve farci sapere in che cosa consistono queste norme, fa il solito esempio di scuola dei «titoli» e delle «medaglie»22. Anche Jhering, che pur aveva considerato la ricompensa come una delle due leve della meccanica sociale, giunto a parlare delle sanzioni positive del diritto, aveva circoscritto il discorso alle onorificenze, cioè a quel tipo di ricompensa che, per distinguerla dalla ricompensa economica o reale, aveva chiamato «ideale», ribadendo quindi la tesi che, se di sanzioni positive era lecito parlare nel diritto, queste erano soltanto quelle che avevano riguardo non all’interesse economico ma alla reputazione. Jhering peraltro aveva aggiunto che, mentre era possibile riscontrare sanzioni positive giuridiche (cioè producenti un vero e proprio diritto soggettivo, suscettibile di essere fatto valere con una azione processuale) nel diritto romano, nel diritto moderno le varie forme di ricompense al merito non avevano alcun valore giuridico. «Esse sono – precisò – non cose del diritto, ma della grazia sovrana»23. Certamente, se non vi sono altre sanzioni positive che i titoli e le medaglie, se il diritto ricorre alla tecnica delle ricompense soltanto quando si tratta di dare un riconoscimento meramente onorifico al funzionario dopo cinquant’anni di onorata carriera, o al cittadino che ha salvato una donna dall’incendio, Kelsen ha perfettamente ragione nel dire che le sanzioni positive «hanno un’importanza secondaria all’interno di questi sistemi che fungono da ordinamenti coercitivi»24. Lungi da me l’idea di invertire la tesi tradizionale e di sostenere che le sanzioni positive sono altrettanto importanti di quelle negative. Ma è proprio vero che nell’ordinamento statale, specie nell’ordinamento dello stato moderno, sanzioni positive sono soltanto i titoli e le medaglie? Titoli e medaglie toccano la sfera della reputazione, e vi corrispondono, sul versante opposto delle sanzioni negative, i marchi d’infamia, le degradazioni, le iscrizioni sul certificato penale di una sentenza di condanna, ecc. La reputazione, certo, è un bene dell’uomo sociale, ma nell’opinione dei più (e per l’effetto d’intimidazione o di stimolazione che una sanzione deve avere l’opinione è importante) non è un bene altrettanto grande della proprietà, della libertà o della vita che l’ordinamento giuridico prende particolarmente in considerazione quando vuole condizionare fortemente il comportamento degli individui. Dal punto di vista del bene sociale cui fanno riferimento, titoli e medaglie corrispondono a quelle

forme più blande di sanzione, come sono appunto l’approvazione o la disapprovazione sociale, che si sogliono considerare proprie di ordinamenti meno rigidi e meno organizzati di quello giuridico. Forse si può dire che titoli e medaglie sono una forma istituzionalizzata dell’approvazione sociale. Come tali si distinguono dalle sanzioni negative del diritto, una volta ammesso che le sanzioni negative giuridiche colpiscono beni essenziali, come la proprietà, la libertà e la vita, non tanto perché siano positive ma perché possiedono un grado minore d’intensità e comunque, poiché l’intensità è difficile da misurare, coinvolgono un ordine completamente diverso di motivazioni. Ponendoci la domanda se sanzioni giuridiche positive siano soltanto i titoli e le medaglie, ci poniamo il problema se per avventura vi siano o vi possano essere negli ordinamenti giuridici attuali sanzioni positive che fanno leva sull’attrazione che hanno generalmente sugli individui beni diversi dalla reputazione, come sono, per esempio, i beni economici.

5. Ragioni storiche dell’estensione delle sanzioni positive nello stato contemporaneo Prendo le mosse dalla distinzione jheringhiana, riecheggiata da Kelsen, tra la sfera dei rapporti economici, in cui la leva prevalente e caratterizzante della condotta è la ricompensa, e la sfera dei rapporti politico-giuridici in cui la leva prevalente e caratterizzante è la coazione. Questa distinzione è connessa con l’immagine di una società in cui l’attività economica primaria, l’attività della produzione dei beni, spetta prevalentemente ai privati, mentre allo stato compete essenzialmente l’organizzazione della forza, cioè la produzione di un servizio indispensabile alla coesistenza, alla coesione, all’integrazione del gruppo sociale. Questa immagine non ha mai corrisposto alla realtà, neppure nei momenti di maggiore espansione economica della società civile o borghese (che è insieme anche la società privata o dei rapporti privati). Ma da quando lo stato ha esteso la propria attività alla produzione di altri servizi, oltre quello dell’organizzazione della coazione, e provvede direttamente o indirettamente anche alla produzione di beni, quell’immagine è certamente falsa. Se questa immagine è falsa, sorge il sospetto che anche la distinzione tra le ricompense e le pene in due

campi separati, che si riconnette a quell’immagine, sia da rivedere. Se è vero infatti che la ricompensa è il mezzo che viene usato per determinare il comportamento altrui da coloro che dispongono delle riserve economiche, ne segue che lo stato, via via che dispone di risorse economiche sempre più vaste, si viene a trovare in condizione di determinare il comportamento degli individui, oltre che con l’esercizio della coazione, anche con vantaggi d’ordine economico, cioè di svolgere una funzione non solo deterrente ma anche, come ho già detto, promozionale. Per dirla in breve, questa funzione si esplica nel promettere un vantaggio (di natura economica) per un’azione desiderata anziché nel minacciare un male per un’azione indesiderata: si esplica cioè nell’uso, che diventa sempre più frequente, dell’espediente delle sanzioni positive. Quando si occupa dell’amministrazione dello stato, Kelsen ha cura di distinguere l’amministrazione indiretta da quella diretta. Ma né l’una né l’altra coprono il fenomeno del diritto promozionale. L’amministrazione indiretta è riconducibile all’attività giurisdizionale nel senso che «dal punto di vista tecnico lo scopo dello stato viene perseguito dall’apparato amministrativo nello stesso modo di quello dei tribunali, in quanto si cerca di raggiungere lo stato socialmente desiderato, cioè ritenuto tale dal legislatore, col reagire contro il suo opposto per mezzo di un atto coattivo imposto da organi statuali»25. L’attività diretta è riconducibile all’attività economica dei privati con la sola differenza che i destinatari degli obblighi derivanti dalle norme secondarie sono non individui privati ma pubblici funzionari. Si capisce che entrambe le forme di attività statale sono descrivibili dal punto di vista del diritto come ordinamento coattivo, la prima perché è essa stessa, come l’attività giurisdizionale, parte di questo apparato, la seconda perché, come l’attività dei privati, è regolata da norme, la cui violazione è la condizione perché entri in funzione l’apparato della coazione. Per chiarire la differenza tra queste due forme dell’amministrazione statale, Kelsen fa l’esempio della pubblica strada, il cui mantenimento può essere affidato agli utenti o a pubblici funzionari26. La differenza consiste nel fatto che nel primo caso i destinatari dell’obbligo sono i cittadini, nel secondo i pubblici funzionari; ma in entrambi i casi si può parlare di obbligo giuridico, se questo è raffigurato come quel comportamento il cui opposto è la condizione per l’imputazione di una sanzione. Questo esempio è interessante, perché mostra benissimo che là

dove Kelsen registra il fenomeno della produzione, da parte dello stato, oltre che di norme giuridiche, anche di altre attività, genericamente sociali o più specificamente economiche, si limita a osservare il fenomeno dello stato produttore in proprio, non quello, rilevante per lo studio delle sanzioni positive, dello stato che provoca o promuove o sollecita la produzione altrui con mezzi diversi dalle sanzioni negative. Stando all’esempio si direbbe che in ordine alla produzione di beni e di servizi, lo stato abbia, oltre, s’intende, il compito di lasciar fare, che qui per il momento non viene in questione, soltanto queste due alternative: o far fare mediante imposizione di sanzioni negative o fare egli stesso (che è poi un far fare ai propri funzionari). Ciò che sfugge a queste due alternative è la situazione sempre più frequente in cui lo stato fa fare non minacciando ma promettendo, non scoraggiando ma incoraggiando. È la situazione, appunto, in cui lo stato non esercita una funzione repressiva ma promozionale. Rispetto al rapporto che lo stato può avere con l’attività economica, l’altra grande distinzione elaborata dai giuristi e anche da Kelsen in più luoghi è quella tra stato liberale e stato socialista: dal punto di vista strettamente giuridico, dal punto di vista di una teoria strutturale del diritto come la teoria pura, i due tipi di stato sono diversi riguardo alle diverse forme o meglio ai diversi gradi specifici della produzione giuridica. Lo stato liberale è caratterizzato da una sfera molto ampia di autonomia privata, cioè da una sfera di comportamenti che sono regolati da quella forma specifica di produzione normativa che è il negozio giuridico, in particolare il contratto. Via via che si passa dallo stato liberale allo stato sociale e poi socialista, al negozio giuridico come forma di produzione normativa si sostituisce l’atto amministrativo. Kelsen riconosce apertamente che «ciò che noi chiamiamo diritto privato è, dal punto di vista della funzione [...], solo la forma giuridica particolare della produzione economica e della distribuzione dei prodotti che corrisponde all’ordinamento economico capitalistico»; quindi precisa che «a un ordinamento economico socialistico sarebbe adeguata un’altra forma giuridica, una forma giuridica eteronoma-autocratica, più vicina al nostro diritto amministrativo»27. Per esprimerci ancora una volta con formule sintetiche, questa distinzione corrisponde non più alla differenza tra fare (dello stato) e far fare (agli individui), ma tra fare e lasciar fare. Ancor più

chiaramente della precedente distinzione tra amministrazione diretta e amministrazione indiretta, questa distinzione lascia completamente fuori il campo del diritto promozionale che, come abbiamo visto, rientra nella categoria di quei rapporti tra stato ed economia in cui lo stato né abbandona completamente lo svolgimento dell’attività economica agli individui, né se l’assume in proprio, ma interviene con varie forme d’incoraggiamento dirette agli individui. Se si vuole individuare e ben delimitare lo spazio occupato dal diritto promozionale, occorre tener presente non tanto la distinzione tra fare e far fare, non tanto quella tra fare e lasciar fare, quanto quella tra lasciar fare e far fare. Vi sono due vie attraverso cui lo stato può limitare la sfera del lasciar fare: quella dell’obbligare a fare (o non fare) azioni che altrimenti sarebbero permesse, ed è la via della restrizione coattiva della libertà di agire, oppure quella dello stimolare a fare (o a non fare) azioni che nonostante ciò continuano a essere permesse, che è il modo con cui si esplica la funzione promozionale.

6. Gl’incentivi e i premi come due forme dell’attività promozionale dello stato Il fenomeno del diritto promozionale rivela il passaggio dallo stato che, quando interviene nella sfera economica, si limita a proteggere questa o quell’attività produttiva allo stato che si propone anche di dirigere l’attività economica di un paese nel suo complesso verso questo o quell’obbiettivo, il passaggio dallo stato soltanto protezionista allo stato programmatore. Si tratta di un fenomeno tutt’altro che compiuto e che comincia soltanto adesso a essere esplorato. Per parlarne con maggior conoscenza di causa occorrerebbe un’ampia registrazione, per lo meno nell’ambito di un sistema positivo, delle norme che possono essere fatte rientrare nella categoria. Se pure con una prima approssimazione, si può dire che la funzione promozionale del diritto può essere esercitata con due tipi diversi di espedienti: gl’incentivi e i premi. Intendo per «incentivi» misure che servono a facilitare l’esercizio di una determinata attività economica, per «premi», invece, misure che mirano a dare una soddisfazione a coloro che abbiano già compiuto una determinata attività. L’incentivo accompagna

l’attività nel suo formarsi; il premio la segue, cioè viene assegnato quando l’attività è già stata svolta. Per quanto non sia sempre facile distinguere nel caso concreto un premio da un incentivo, la distinzione è concettualmente significativa, perché soltanto i premi rientrano a rigore nella categoria delle sanzioni positive (qualora non si voglia allargare troppo il concetto di sanzione e si tenga presente, per definire «sanzione positiva», l’estensione e l’intensione del concetto, ben più elaborato, di sanzione negativa). Il contrario di premio è pena, cioè è il caso più tipico di sanzione negativa. Il contrario d’incentivo è disincentivo, che in nessun modo può essere fatto rientrare nel concetto, per quanto lo si estenda, di sanzione negativa. La sanzione (positiva o negativa) presuppone l’esistenza di una norma primaria nel senso hartiano, cioè di una norma di condotta che impone un obbligo, ed è la reazione, più o meno istituzionalizzata, del gruppo sociale rispettivamente all’osservanza o alla trasgressione della suddetta norma. L’incoraggiamento o lo scoraggiamento sono un effetto derivato. Nel caso dell’incentivo e del disincentivo, l’incoraggiamento o lo scoraggiamento sono l’intenzione principale: né l’uno né l’altro presuppongono una norma primaria. Cercando di esprimere lo stesso concetto con altre parole, il premio è una risposta a un’azione buona; l’incentivo è un espediente per ottenere un’azione buona. Così la pena è una risposta a un’azione cattiva; il disincentivo è un espediente per impedire un’azione cattiva. Partendo dalla definizione più comune di sanzione come risposta o reazione a un’azione normativa (cioè ad un’azione o conforme o contraria a una norma), soltanto il premio e la pena, in quanto risposte susseguenti ad un’azione normativa precedente, appartengono propriamente alla categoria delle sanzioni. Mentre premio e pena, da un lato, e incentivo e disincentivo, dall’altro, appartengono alla stessa categoria, se considerati dal punto di vista della distinzione tra sanzione e non sanzione, appartengono alla stessa categoria premio e incentivo, da un lato, pena e disincentivo, dall’altro, se considerati dal punto di vista della distinzione tra le due funzioni dell’incoraggiamento e dello scoraggiamento. In questo senso premio e incentivo sono, come dicevo poc’anzi, le due forme tipiche attraverso cui si manifesta la funzione promozionale del diritto. Soltanto una più attenta rilevazione della loro frequenza e del loro modo di operare può far avanzare l’analisi funzionale del diritto e promuovere quell’adeguamento

della teoria del diritto alle trasformazioni in corso negli ordinamenti giuridici delle società economicamente più avanzate, che è da più parti auspicato.

7. Se la crescente importanza dell’azione promozionale dello stato metta in crisi la teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo Non mi propongo in questa sede di svolgere ulteriormente il tema della funzione promozionale del diritto nello stato contemporaneo. Il mio interesse è per ora più limitato. Avendo preso le mosse dalla concezione che Kelsen ha della funzione del diritto, cioè dalla teoria del diritto come ordinamento coattivo, mi preme mostrare se e in quale misura questa teoria venga messa in crisi dalla scoperta della funzione promozionale del diritto. Certamente, per chi sostiene, come sembra sostenere Kelsen, che la tecnica specifica del diritto consiste nell’uso di sanzioni negative, il rilievo che sempre più acquistano le sanzioni positive può costituire una smentita molto seria. Si può peraltro controbattere che il riconoscimento dell’importanza delle sanzioni positive, molto maggiore di quella che venga ad esse attribuita dalle teorie tradizionali in generale e dalla teoria kelseniana in ispecie, non toglie che le sanzioni ultime, cioè quelle che entrano in funzione in ultima istanza, siano sempre e soltanto le sanzioni negative. Effettivamente, mentre è concepibile un ordinamento che si regga soltanto su sanzioni negative, sembra inconcepibile un ordinamento, specie un ordinamento complesso com’è l’ordinamento di uno stato moderno, che si regga soltanto su sanzioni positive. Consideriamo il caso più semplice: consideriamo una norma secondaria (cioè rivolta ai pubblici funzionari) che abbia la forma della norma giuridica kelseniana: «Se è A, deve essere B», dove A non sia un illecito, cioè un comportamento non desiderato, ma un atto dovuto, cioè un comportamento desiderato, e B una sanzione positiva. Una norma di questo genere, in quanto norma giuridica, crea nel destinatario della norma primaria una pretesa (diritto soggettivo o interesse legittimo poco importa) verso la pubblica amministrazione, e nella pubblica amministrazione, reciprocamente,

l’obbligo di consegnare il premio qualora la condizione prevista dalla norma secondaria si sia verificata. È concepibile che quest’obbligo sia rafforzato a sua volta non da una sanzione negativa, come potrebbe essere una pena disciplinare per il funzionario o un risarcimento di danni da parte della pubblica amministrazione, ma da una sanzione positiva? Volendo lasciare sbrigliare la fantasia, si potrebbe anche immaginare una norma terziaria che attribuisca un premio al funzionario che ha adempiuto al suo obbligo di consegnare il premio: si tratterebbe di un ordinamento che conta così poco sullo zelo dei suoi funzionari da provocare con ricompense l’adempimento delle loro funzioni. Ma è sin troppo evidente che una sanzione di questo genere, qualora fosse introdotta, sarebbe pur sempre aggiuntiva e non certo sostitutiva di una sanzione negativa. È altrettanto chiaro peraltro che ammettere la funzione primaria delle sanzioni negative, pur nell’accrescersi delle sanzioni positive, non serve affatto a salvare la specificità del diritto come tecnica sociale. Le sanzioni negative, come del resto lo stesso Kelsen ammette, sono comuni ad altri ordinamenti sociali, come quello religioso. In realtà la soluzione che Kelsen dà al problema della specificità del diritto dal punto di vista funzionale è più complessa: ciò che contraddistingue il diritto come tecnica sociale non è tanto l’uso di sanzioni negative quanto il fatto che queste sanzioni siano fatte valere di fronte al recalcitrante anche ricorrendo alla forza, il che l’ordinamento giuridico può fare, ed esso solo può fare (e proprio in questo sta il suo carattere specifico), in quanto è l’organizzazione della forza, o più precisamente l’insieme delle regole per l’uso delle risorse della forza esistenti in una determinata società. Se si vuole mostrare l’insufficienza dell’analisi funzionale kelseniana, occorre mettere in discussione soprattutto questa tesi, e non quella relativa alla preminenza delle sanzioni negative. Ora a me pare che proprio questa tesi venga messa in crisi dallo spazio sempre maggiore che viene ad occupare in un certo tipo di stato contemporaneo il diritto promozionale. Non c’è bisogno di spendere molte parole per fare osservare che la concezione del diritto come organizzazione della forza nasce dalla riflessione sulla formazione dello stato moderno, tanto più poi quando si aggiunga, come Kelsen aggiunge, che la forza di cui si tratta è la forza monopolizzata. Attraverso questa concezione il diritto viene sempre più

identificato con l’ordinamento normativo statale, salvo poi a ritrovare tracce di questo tipo di ordinamento anche in altri ordinamenti sociali, come quello internazionale che viene assimilato a un ordinamento giuridico nella misura in cui assomiglia o tende ad assomigliare all’ordinamento statale. Ma oggi è ancora accettabile questa concezione dello stato esclusivamente come organizzazione della forza? Con l’estendersi degl’interventi dello stato nella sfera economica non è diventata questa concezione insufficiente, non è una concezione minima o limitata dello stato? La forza è un mezzo per l’esercizio del potere, ma non è l’unico mezzo. Gli altri due mezzi principali sono, in ogni società, grande o piccola, antica o moderna, primitiva o evoluta, il possesso degli strumenti di produzione (che dà origine al potere economico) e il possesso degli strumenti di formazione delle idee (che dà origine al potere ideologico). Tralasciando il potere ideologico che lo stato moderno ha per lungo tempo affidato alle chiese (ma anche in questa sfera avanza a grandi passi un processo di monopolizzazione, già giunto a compimento negli stati totalitari), e che può avere un’influenza sul diritto non nel senso di mutarne la funzione ma, al limite, di renderlo superfluo, e concentrando per ora la nostra attenzione sul potere economico, appare sempre più evidente che lo stato contemporaneo aumenta continuamente le risorse di cui può disporre per esercitare questo tipo di potere (anche qui sino al limite della monopolizzazione dei mezzi di produzione negli stati collettivisti). Le risorse economiche non valgono meno delle risorse della forza per condizionare i comportamenti degli individui, per ottenere quegli effetti desiderati o per impedire quegli effetti indesiderati in cui si dice consista la funzione del diritto. E lo stato contemporaneo se ne serve largamente, tanto che una teoria che definisce il diritto come organizzazione del potere economico avrebbe altrettanto diritto a essere presa in considerazione quanto la teoria corrente che lo definisce come organizzazione del potere coattivo, con l’unica riserva che, tranne che negli stati collettivisti, l’organizzazione del potere economico è sinora meno accentrata dell’organizzazione del potere coattivo (prendendo i termini di accentramento e decentramento nel senso kelseniano). Non intendo per ora spingermi tanto oltre su questa strada. Nell’ambito di un’analisi come la presente, che vuol fare i conti con la

concezione funzionalistica del diritto nell’opera di Kelsen, importa osservare che, mentre il potere coattivo viene abitualmente adoperato in funzione repressiva, il potere economico può essere adoperato anche in funzione promozionale, ovvero non per punire, ma per gratificare, per contraccambiare non male per male, ma bene per bene. Da questo punto di vista mi pare che chi si pone a rilevare la tendenza verso un accrescimento del diritto promozionale si collochi in un osservatorio che gli permette di cogliere un aspetto fondamentale della trasformazione funzionale del diritto, e di percepire l’insufficienza della teoria tradizionale la quale, essendosi lasciata attrarre dal fenomeno certamente più macroscopico dell’organizzazione della forza, e non avendo posto sufficiente attenzione a quello, non ancora così macroscopico, dell’accresciuta organizzazione pubblica dell’economia, continua a vedere il diritto nella sua funzione essenzialmente repressiva.

8. L’azione promozionale dello stato incide sul modo d’intendere il diritto non dal punto di vista strutturale ma dal punto di vista funzionale Detto questo, occorre subito aggiungere che il riconoscimento dell’importanza del diritto promozionale non è affatto incompatibile con la considerazione strumentale del diritto, propria della teoria kelseniana: l’uso di sanzioni positive, o comunque d’incentivi economici, altro non è che una tecnica specifica di organizzazione sociale. Anche dopo aver rilevato che il diritto non si limita a reprimere ma stimola o promuove, si può continuare a dire, come dice Kelsen, che il diritto è un mezzo e non un fine. Quand’anche si giunga a sostenere che il diritto è l’organizzazione non soltanto del potere coattivo ma anche del potere economico, non si esce fuori da un certo modo d’intendere la specificità del diritto, che consiste appunto nel considerarlo una forma di «organizzazione sociale». Ma a questo punto eccoci ricondotti di nuovo dall’analisi funzionale all’analisi strutturale. Si osservi bene: tutto quello che è stato detto sin qui sulla funzione promozionale del diritto non inficia per nulla i risultati dell’analisi strutturale kelseniana. Voglio dire che l’analisi strutturale dell’ordinamento

giuridico è in grado di assorbire senza troppo scompiglio i mutamenti introdotti dall’analisi funzionale. Dal punto di vista strutturale le due teorie principali del Kelsen sono, nella nomostatica, la teoria della norma giuridica come giudizio ipotetico che collega condizione e conseguenza mediante il nesso d’imputazione, nella nomodinamica, la teoria della costruzione a gradi dell’ordinamento. Orbene: si è già visto nel paragrafo precedente che la formula «Se è A, deve essere B», vale tanto per le sanzioni negative quanto per le positive. E del resto lo stesso Kelsen, quando esamina storicamente e sociologicamente, come fa nell’opera Society and Nature, il principio della retribuzione, non fa alcuna distinzione concettuale, come si è detto, tra il contraccambio positivo (bene per bene) e il contraccambio negativo (male per male). Dal punto di vista formale le due applicazioni del principio non si distinguono tra loro. Quanto alla teoria della costruzione a gradi, per il fatto stesso che considera il sistema normativo del diritto come un sistema dinamico e non come un sistema statico, non è minimamente toccata da rilevazioni che riguardino il contenuto o il fine del diritto. Per essa una norma è giuridica quando sia stata prodotta nelle forme previste dall’ordinamento, cioè da altre norme dell’ordinamento, in particolare da quelle norme che regolano il modo con cui si producono le norme. Che una norma miri a reprimere o a promuovere non ha, rispetto alla struttura dell’ordinamento, alcuna rilevanza. Questo è un punto, a mio parere, molto importante. Ho parlato nelle prime righe di una svolta della teoria del diritto derivata da Kelsen: questa svolta è consistita per l’appunto nella ricerca del carattere specifico del diritto, non nella funzione né nel contenuto ma nella struttura dell’ordinamento. Se pure con molta cautela, a causa dell’uso e abuso del concetto di struttura nelle scienze umane di questi ultimi anni, si può parlare di una svolta strutturalistica. Questa svolta non ha cessato di produrre i suoi effetti. Mentre Kelsen non ha mai abbandonato del tutto il punto di vista funzionale, anzi l’unica definizione del diritto che si trova in Kelsen è di tipo funzionale, Hart, come abbiamo visto, ha portato alle estreme conseguenze l’approccio strutturale, giungendo a definire il diritto non come una tecnica specifica ma come una struttura specifica. Questo modo d’intendere il diritto è una risposta non alla domanda: «Qual è la funzione del diritto?», ma a quest’altra: «Che

tipo di organizzazione è?». Se il riconoscimento dell’importanza del diritto promozionale può avere qualche effetto, non è tanto rispetto all’approccio strutturale del diritto quanto piuttosto all’approccio funzionale. Mentre dal punto di vista strutturale il diritto può continuare a essere definito, anche dopo la rilevazione del diritto promozionale, come norma ipotetica (sul piano della nomostatica) e come ordinamento a gradi (sul piano della nomodinamica), dal punto di vista funzionale, una volta individuata la categoria del diritto promozionale, non può essere più definito come una forma di controllo sociale. Il concetto di controllo è perfettamente adeguato se si continua a considerare il diritto nella sua funzione tradizionale di protezionerepressione. Diventa, a mio parere, meno adeguato se si tiene conto anche della funzione promozionale. La funzione di un ordinamento giuridico non è solo quella di controllare i comportamenti degli individui, il che può essere ottenuto attraverso la tecnica delle sanzioni negative, ma anche quella di dirigere i comportamenti verso certi obiettivi prestabiliti. Il che può essere ottenuto preferibilmente attraverso la tecnica delle sanzioni positive e degli incentivi. La concezione tradizionale del diritto come ordinamento coattivo si dice sia fondata sul presupposto dell’uomo malvagio, le cui tendenze antisociali debbono appunto essere controllate. Si può dire che la considerazione del diritto come ordinamento direttivo parta dal presupposto dell’uomo inerte, passivo, indifferente, che deve essere stimolato, provocato, sollecitato. Credo quindi che oggi sia più corretto definire il diritto, dal punto di vista funzionale, come forma di controllo e di direzione sociale28.

Note 1

L’insufficienza dell’approccio funzionalistico nelle più correnti teorie del diritto è rilevata da B. Le Baron, What is Law? Beyond Scholasticism, in Le raisonnement juridique. Actes du Congrès mondial de philosophie du droit et de philosophie sociale, Bruxelles, 30 agosto-3 settembre 1971, Nauwelaerts, Louvain 1971, pp. 77-83. Ma non si capisce perché l’autore chiami l’approccio tradizionale una forma di «scholasticism». 2 Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, F. Deuticke, Wien 1934, p. 33. Citato d’ora innanzi come RRL1. 3 RRL1, p. 17. 4 General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945, p. 21. Citato d’ora

innanzi come GTLS. 5 GTLS, p. 21. 6 GTLS, p. 23. 7 Reine Rechtslehre, F. Deuticke, Wien 1960, p. 40. Citato d’ora innanzi come RRL2. 8 RRL2, p. 40. 9 RRL1, p. 25. 10 GTLS, p. 18. 11 In questo stesso volume, pp. 3-20, 21-30. 12 RRL2, p. 120. 13 GTLS, p. 50. 14 GTLS, p. 18. 15 GTLS, p. 15. 16 GTLS, p. 17. Cfr. anche RRL2, p. 31. 17 RRL2, p. 31. 18 RRL2, p. 26. 19 Society and Nature. A Sociological Inquiry, Kegan Paul, London 1946, p. 60. 20 GTLS, p. 18. 21 R. von Jhering, Der Zweck im Recht, Breitkopf und Härtel, Leipzig 18842, p. 97. Il corsivo è mio. Per il rapporto tra sfera economica e intervento legislativo cfr. pp. 136 sgg. Nella già citata trad. it., il brano citato nel testo si trova a p. 82. 22 RRL2, p. 35. 23 Der Zweck im Recht, cit., p. 183. Nella trad. it., p. 141. 24 RRL2, p. 35. 25 RRL1, p. 80. Cfr. anche RRL2, p. 268. 26 GTLS, p. 279. 27 RRL1, p. 114. Cfr. anche RRL2, p. 287. 28 Mi pare molto significativo che nelle nuove tendenze della teoria giuridica sovietica il diritto venga compreso nel più vasto ambito della «scienza della direzione sociale», e che questa considerazione del diritto come strumento di direzione sociale vada di pari passo con la critica, o per lo meno con la sottovalutazione, della sua funzione coattiva. Cfr. U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 241 sgg. Sulla scienza della direzione sociale cfr. anche M.G. Losano, Giuscibernetica, Einaudi, Torino 1969, pp. 119 sgg.

V. L’analisi funzionale del diritto: tendenze e problemi

I

1. Crescente importanza dell’analisi funzionale del diritto Quando nel 1971 scrissi l’articolo intitolato Verso una teoria funzionalistica del diritto1 per dimostrare quanto fosse prevalso sino allora nella teoria generale del diritto il punto di vista strutturale su quello funzionale e per indicare una linea di tendenza contraria, ormai evidente, dallo strutturalismo al funzionalismo, non immaginavo la rapidità e l’intensità con cui questa tendenza si sarebbe sviluppata. Nel 1970 era uscito (ma quando scrissi l’articolo lo ignoravo) il primo volume dello «Jahrbuch für Rechtssoziologie und Rechtstheorie», a cura di Werner Maihofer e Helmut Schelsky, dedicato tutto intero significativamente a Die Funktion des Rechts in der modernen Gesellschaft, con alcuni articoli fondamentali sul tema2. Nel 1973 il Congresso internazionale di filosofia del diritto svoltosi a Madrid fu interamente rivolto alla discussione del tema «La funzione del diritto», su cui furono lette circa un centinaio di relazioni e comunicazioni3. In questi anni sono apparsi numerosi articoli sul tema nelle più diverse riviste4. Nel 1972 è uscita la Rechtssoziologie di Niklas Luhmann, opera in cui la natura specifica del diritto viene cercata attraverso la determinazione della sua funzione sociale5. Sembra fuori di ogni dubbio che l’interesse per il problema della funzione del diritto sia da collegarsi all’espandersi della sociologia del diritto anche nelle roccaforti del formalismo quali sono sempre state le facoltà di giurisprudenza in quasi tutti i paesi del continente europeo. Non è un caso se la «funzione del diritto nella società moderna» sia stato il tema scelto dallo «Jahrbuch» citato per il suo primo volume. Non credo vi sia

bisogno d’insistere sul nesso strettissimo fra teoria strutturale del diritto e punto di vista giuridico, da un lato, e teoria funzionale del diritto e punto di vista sociologico, dall’altro: basti pensare all’espulsione del punto di vista sociologico nella teoria pura del diritto di Kelsen, che è la quintessenza del formalismo giuridico, e all’importanza che hanno avuto le ricerche antropologiche, in quanto ricerche globali su società meno complesse delle società moderne, per rimettere in onore il problema della funzione o delle funzioni del diritto. Con questo non voglio affatto dire che una teoria sociologica del diritto si risolva tutta quanta nello studio della funzione del diritto. Chi è tanto avanti negli anni da aver assistito a un precedente scontro fra teoria sociologica o istituzionale, come si diceva allora, del diritto e teoria normativa, accolta per lo più dai giuristi, ed è quindi immunizzato dalla presunzione del nuovo che scaccia il vecchio, perché sa che il nuovo diventerà presto vecchio e il vecchio ridiventerà nuovo, ricorda che la ragione del contendere non era allora tanto il contrasto fra strutturalismo e funzionalismo quanto fra monismo e pluralismo. Per teoria sociologica del diritto s’intendeva allora una teoria che vedeva nel diritto una produzione della società in tutte le sue forme e non soltanto dello stato, e che quindi aveva una diretta incidenza sul problema delle fonti. Teoria sociologica del diritto era sinonimo, almeno in Italia (ma anche in Francia, se si pensa alla teoria dell’istituzione di Renard, alla teoria del diritto sociale di Gurvitch, che poi doveva diventare uno dei maggiori rappresentanti della rinascita della sociologia giuridica), di teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. Mentre il bersaglio delle teorie sociologiche del diritto oggi è il formalismo, il bersaglio delle teorie sociologiche di ieri era lo statalismo. Storicamente il pluralismo giuridico, di cui il Gurvitch fu il più fervido fautore, era stato una delle tante manifestazioni della falsa credenza, comune tanto ai liberali radicali quanto ai socialisti libertari, che lo sviluppo della società industriale avrebbe avuto per effetto una diminuzione delle funzioni dello stato, una sorta di riassorbimento dello stato nella società civile. Ciò che è avvenuto è invece proprio il contrario. Per chi voglia considerare il diritto come fenomeno sociale, il problema del pluralismo ha perduto gran parte del suo interesse. Essendo enormemente aumentate le funzioni dello stato nel passaggio dallo stato liberale allo stato sociale, il problema fondamentale per una teoria sociologica del diritto, cioè per una teoria che consideri il diritto

come un sotto-sistema del sistema sociale generale, è il problema di verificare se non siano aumentate e mutate parallelamente le funzioni del diritto, e s’intende del diritto statale, il che spiega l’improvvisa emergenza e la rapida diffusione della prospettiva funzionalistica. Oltre che allo sviluppo dell’antropologia e della sociologia del diritto, la prospettiva funzionalistica del diritto deve una parte della sua attuale fortuna al peso sempre maggiore del marxismo, dei vari marxismi, nelle scienze sociali. Non confondo il marxismo col funzionalismo6. Semplicemente richiamo l’attenzione sul fatto che ciò che Marx ed Engels avevano aggiunto alla definizione tradizionale del diritto come ordinamento coattivo era la determinazione della sua funzione, il dominio di classe. Fra le teorie generali del diritto oggi correnti quelle più insistenti sulla «funzione sociale» del diritto sono le teorie sovietiche e dei giuristi dei paesi socialisti. Nella sua Théorie de l’état et du droit, che si può considerare come una delle maggiori summae della concezione marxista del diritto e dello stato oggi disponibili in una lingua più accessibile, Radomir Lukić inizia la trattazione della parte generale con un capitolo intitolato La fonction sociale de l’état et du droit, dove si legge che il diritto, in quanto ordinamento del monopolio della forza, trova il suo carattere specifico nel fatto che esso adempie alla funzione sociale di proteggere espressamente l’interesse della classe dominante attraverso il mantenimento coatto di un certo modo di produzione7. La differenza fra la definizione del diritto di Kelsen e quella di Lukić salta agli occhi: anche per Kelsen il diritto è ordinamento coattivo, ma è non altro che ordinamento coattivo. Quale sia la «funzione sociale» di questo ordinamento coattivo al Kelsen non interessa, perché al di là dell’obiettivo generico della pace o dell’ordine o, nei rapporti internazionali, della sicurezza collettiva, attraverso questo particolare strumento che è il diritto, attraverso questa «tecnica dell’organizzazione sociale», possono essere perseguiti e conseguiti gli obiettivi più diversi. Il diritto per Kelsen è uno strumento specifico che non ha una funzione specifica, nel senso che la sua specificità consiste non nella funzione ma nell’essere uno strumento disponibile per le più diverse funzioni8. Al contrario per Lukić, e in genere per i giuristi marxisti, e in particolare per quella folta se non compatta schiera di giuristi marxisti che sono i giuristi sovietici, la specificità del diritto sta non nell’essere un

ordinamento coattivo ma nella funzione specifica che ha questo ordinamento coattivo e che solo l’ordinamento coattivo può avere, in quanto solo l’ordinamento della forza monopolizzata, in cui consiste lo strumento «diritto», è in grado di assicurare alla classe dominante il suo dominio.

2. Ragioni dello scarso interesse passato e del nascente interesse per l’analisi funzionale del diritto Ho ragione di ritenere che lo scarso interesse per il problema della funzione sociale del diritto nella teoria generale del diritto dominante sino ai giorni nostri sia da collegarsi proprio al rilievo che i grandi teorici del diritto da Jhering a Kelsen hanno dato al diritto come strumento specifico, la cui specificità non deriva dai fini cui serve ma dal modo con cui i fini, quali che siano, vengono perseguiti e raggiunti. È ben noto che una delle affermazioni ricorrenti, sino a diventar tipiche, di Kelsen è che la dottrina pura del diritto «non considera lo scopo che viene perseguito e raggiunto dall’ordinamento giuridico, ma considera soltanto l’ordinamento giuridico; e considera questo ordinamento nell’autonomia della sua struttura e non già relativamente a questo suo scopo»9. Kelsen poteva fare questa affermazione perché riteneva di aver trovato l’elemento caratteristico del diritto nella struttura dell’ordinamento giuridico in quanto sistema dinamico, e non aveva bisogno dello scopo per la sua definizione. Meno noto che negli stessi anni un altro appassionato ma sfortunato autore della «science juridique pure», Ernest Roguin, diceva con accanimento su per giù le stesse cose10. Risalendo più indietro, anche Jhering, nonostante il titolo della sua grande opera, Lo scopo nel diritto, concentrava tutta l’attenzione non sul fine ma sullo strumento, cioè sulla coazione e sulla organizzazione di essa. Postosi di fronte alla domanda quale fosse lo scopo nel diritto dava una risposta generica, e cioè che il diritto serviva a garantire «le condizioni di esistenza della società»11, le quali condizioni di esistenza erano poi tutto e niente, comprendendo non solo le condizioni dell’esistenza fisica, ma «anche tutti quegli altri beni e godimenti che... attribuiscono alla vita il suo vero valore»12. Che una risposta così generica e per di più scontata non potesse dare alcun aiuto alla determinazione della

nota specifica del diritto, ci sembra del tutto evidente. Non diverso è sempre stato l’atteggiamento dei teorici dello stato di fronte al problema della definizione dello stato: i quali non hanno mai ammesso i fini che lo stato persegue tra i cosiddetti elementi costitutivi dello stato, essendo loro sufficienti per caratterizzare questa massima organizzazione della convivenza umana alcuni caratteri materiali e formali. Basti ricordare Max Weber. Dopo aver definito lo stato attraverso il «mezzo» che esso impiega per ottenere i propri fini, l’uso della forza, afferma: «Non è possibile definire un gruppo politico – e neppure uno stato – indicando lo scopo del suo agire di gruppo. Non c’è nessuno scopo che gruppi politici non si siano talvolta proposti, dallo sforzo di provvedere il sostentamento alla protezione dell’arte; e non c’è nessuno che tutti abbiano perseguito, dalla garanzia della sicurezza personale alla determinazione del diritto»13. Questo parallelismo fra teoria del diritto e teoria dello stato con il pertinente richiamo a Max Weber, che non era un giurista puro bensì prima di tutto un sociologo e uno storico, può servire per offrire una spiegazione del diffuso e persistente antiteleologismo nella teoria del diritto, comune ai giuristi e ai sociologi. Via via che lo stato moderno assumeva il monopolio della produzione giuridica e di conseguenza stato e diritto venivano vieppiù considerati come due facce della stessa medaglia, il fenomeno storicamente rilevante per comprendere il diritto diventava la sua trasformazione in strumento del potere statale attraverso la formazione dello stato-apparato (il potere legale-razionale di Max Weber), ed era un fenomeno che induceva a concentrare l’attenzione sui problemi dell’organizzazione complessa dello strumento piuttosto che su problemi di ordine assiologico o sociologico, considerati gli uni disturbanti (e forse anche irrilevanti), gli altri irrilevanti (e forse anche disturbanti). Non bisogna dimenticare che dalla considerazione dello stato moderno come grande organizzazione è nata la teoria del diritto come insieme ordinato o organizzato di norme, la teoria del diritto come ordinamento, che si ritrova, se pur sotto diverse spoglie, ma facilmente riconoscibili, tanto in Max Weber quanto in Kelsen14. Mi sembra che una delle ragioni del disinteresse dei teorici del diritto per il problema della funzione stesse proprio nella sua presunta irrilevanza. Alla considerazione che il diritto fosse caratterizzato dall’essere uno strumento specifico che doveva servire allo svolgimento di più funzioni, si

aggiungeva anche la considerazione che le stesse funzioni erano svolte in diverse società, ma anche nella stessa società, con altri mezzi, e che pertanto, mentre era legittimo parlare rispetto al diritto di alternative funzionali, non sarebbe stato altrettanto legittimo parlare di alternative strumentali. In sostanza il rapporto fra lo strumento e i suoi possibili usi non era univoco: lo stesso strumento poteva essere usato per fini diversi, così come ciascuno di questi fini poteva essere ottenuto ricorrendo anche a strumenti diversi dal diritto (cioè dal ricorso all’ordinamento della forza monopolizzata). Questa irrilevanza del problema della funzione faceva sì che si desse per ammesso: a) che il diritto avesse una o più funzioni; b) che avesse una funzione positiva (una eu-funzione); c) quale o quali funzioni avesse; d) come l’esercitasse. Chi voglia ora darsi una ragione dell’interesse attuale della teoria giuridica per lo studio della funzione o delle funzioni del diritto ritengo debba andare a cercarla proprio nel fatto che tutte e quattro quelle verità tramandate, consolidate e accettate come indiscutibili o non degne di discussione sono al centro di un ampio e tutt’altro che esaurito dibattito.

3. La perdita di funzione del diritto nella società industriale Sub a: si tratta soltanto di avvisaglie. Ma è un fatto che una delle caratteristiche della società tecnocratica, quale si viene ipotizzando come sviluppo fatale anche se deprecato della società industriale, dovrebbe essere la perdita di funzione del diritto, il realizzarsi di un processo, mi sia permessa questa barbara ma sbrigativa parola, di degiuridificazione. Questa ipotesi, almeno a livello teorico, non è nemmeno senza precedenti: non ho bisogno di ricordare la polemica di Saint-Simon, uno dei pensatori più «rivisitati» in questi anni, perché ad esso si fa risalire la prima teoria della società tecnocratica, contro i legisti15. Non è invece inutile ricordare quanti aspetti di società tecnocratica vi siano in certe immagini della società senza diritto (e senza stato) che dovrebbe seguire secondo il marxismo alla dittatura del proletariato: l’amministrazione delle cose sostituita all’amministrazione degli uomini, secondo il detto di Engels, implica che una società di uomini possa funzionare senza bisogno di regole giuridiche ma col solo sussidio di regole tecniche, che sono, com’è noto, a differenza delle regole giuridiche, regole senza sanzione, perché la

sanzione, se ancora si può chiamare così, cioè la conseguenza spiacevole che induce all’osservanza, deriva dalla stessa inosservanza, e quindi non richiede quell’apparato di norme secondarie rivolte al giudice per l’applicazione delle norme primarie in cui consiste una delle caratteristiche considerate per communis opinio fondamentali del diritto come «strumento». Tralasciando queste ipotesi, che ci fanno vagare e smarrire nei regni del futuribile, sono da notare nelle società tecnicamente avanzate almeno due tendenze che possono suscitare qualche non inutile riflessione sulla perdita di funzione del diritto, e intendo del diritto in quella delle sue funzioni che gli è sempre stata attribuita tanto da essere spesso considerata come l’unica ed esclusiva, la funzione repressiva. Queste due tendenze sono: l’accresciuta potenza dei mezzi di socializzazione, e in genere di condizionamento del comportamento collettivo attraverso le comunicazioni di massa, e il prevedibile aumento dei mezzi di prevenzione sociale rispetto a quelli tradizionali di repressione. L’integrazione sociale conta soprattutto su due strumenti di controllo (che si sogliono riferire a due forme più o meno istituzionalizzate di potere esistenti in ogni società, il potere ideologico e il potere politico): la socializzazione, cioè il procacciamento dell’adesione a valori stabiliti e comuni, e l’imposizione di comportamenti considerati rilevanti per l’unità sociale con la conseguente repressione di quelli devianti, che sono poi il consenso e la forza di tutte le teorie politiche tradizionali. Si può fare l’ipotesi che via via si accresca la potenza dei mezzi di condizionamento psicologico, dei mezzi del consenso (non importa se manipolato), diminuisca il fabbisogno dei mezzi coercitivi, cioè del diritto. Al limite una società senza diritto non è soltanto il regno della libertà ipotizzato da Marx ma anche quella in cui tutti i suoi membri sono condizionati dalla manipolazione ideologica, ipotizzata da Orwell. Il diritto è necessario dove gli uomini sono, come accade nelle società storiche, né tutti liberi né tutti conformisti, in una società cioè dove gli uomini hanno bisogno di norme e pertanto non sono liberi e non riescono sempre ad osservarle e pertanto non sono conformisti. Non occorre neppure inseguire questa ipotesi per rendersi conto che socializzazione e controllo dei comportamenti sono due mezzi alternativi e che là dove si estende il primo tende a restringersi il secondo: da un punto di vista di un’analisi funzionale ciò significa che l’aumento dei mezzi di socializzazione e di condizionamento psicologico, e della loro efficacia, va a

scapito della funzione tradizionalmente esercitata dai mezzi di coazione. L’altro fenomeno che potrebbe avere una influenza sulla estenuazione e, al limite, sul deperimento del diritto è quello che si esprime nella tendenza, anch’essa propria di una società tecnicamente avanzata, dalla repressione alla prevenzione. Al pari della medicina, almeno così com’è stata intesa sinora, il diritto non ha la funzione di prevenire le malattie sociali bensì quella di curarle (non sempre di guarirle) quando sono scoppiate. Fra le funzioni che vengono più frequentemente attribuite al diritto vi sono quella della repressione dei comportamenti devianti (diritto penale) e quella della risoluzione dei conflitti d’interesse (diritto civile). Entrambe sono manifestamente funzioni terapeutiche. Il confronto con la medicina è interessante perché oggi lo sviluppo di questa è tutto rivolto nel senso di impedire che le malattie avvengano piuttosto che nel senso di curarle quando sono avvenute. Al limite (s’intende che si tratta di un limite ideale, che serve solo a indicare una linea di tendenza) una società in cui la scienza medica abbia sviluppato tutte le sue potenzialità nel rimuovere le cause delle malattie è una società senza ospedali così come una società in cui le scienze sociali, dalla psicologia alla pedagogia, siano riuscite a rimuovere le cause dei conflitti sarebbe una società senza prigioni. Lungo questa linea di tendenza, senza bisogno di condurla sino al limite estremo, il diritto verrebbe a perdere la funzione che gli è sempre stata riconosciuta come caratterizzante, che è la funzione repressiva: beninteso, siccome gli organismi sociali che dovrebbero svolgere la funzione sostitutiva sarebbero anch’essi regolati dal diritto, sarebbe più proprio in questo caso parlare di perdita non del diritto tout court, ma del diritto nella sua funzione repressiva, che non è l’unica anche se è quella considerata a torto esclusiva, attraverso il passaggio del resto già in atto da un diritto composto principalmente di norme di condotta a un diritto composto quasi esclusivamente di norme di organizzazione. L’importanza dell’emergere di queste tendenze verso una perdita di funzione del diritto, o per lo meno dell’immagine tradizionale del diritto, sta anche nel fatto che esse vanno all’incontro di una tradizione secolare, che ha consacrato il diritto (ancora in Hegel il diritto è alcunché di sacro) come elemento essenziale della formazione della società civile in contrapposto allo stato di natura che, essendo uno stato senza diritto, è uno stato che non permette la sopravvivenza degli uomini; ha esaltato il saggio

legislatore dai greci sino a Rousseau come il creatore della città felice, il demiurgo che crea l’ordine dal caos, il vero datore di civiltà; ha creduto di poter cogliere nelle leggi, e nello spirito che le anima, i caratteri che distinguono le nazioni le une dalle altre, e nelle diverse costituzioni, cioè nel diverso modo con cui è regolata la distribuzione delle magistrature, da Aristotele a Hegel, il criterio più visibile per distinguere il buon governo dal cattivo governo, il progresso dalla decadenza, la barbarie dalla civiltà, o per contrassegnare in tappe necessarie il corso progressivo della storia.

4. Funzione positiva, funzione negativa, disfunzione del diritto Sub b: che il diritto abbia una funzione implica anche che abbia una funzione positiva? So bene che toccando questo problema attraverso il capo delle tempeste del funzionalismo, uno dei cui postulati è, o sembra essere, che, posto che un’istituzione abbia una funzione, questa non può essere che positiva. Ma altro è il funzionalismo, che è una teoria globale della società, e di cui qui non mi occupo; altro è l’analisi funzionale di un istituto la quale può benissimo prescindere da quella sorta di filosofia sociale che è il funzionalismo, e che non è affatto incompatibile con un’analisi critica dell’istituto, fondata proprio sulla maggiore o minore utilità sociale della funzione che quell’istituto svolge. Mentre l’analisi funzionale può ignorare il funzionalismo, una teoria critica della società, con il che intendo una qualsiasi teoria che si ponga il problema non soltanto di vedere come una società funziona ma anche come non funziona o come dovrebbe funzionare, non può ignorare l’analisi funzionale, perché la critica di un istituto comincia proprio dalla critica della sua funzione, cioè dalla considerazione della sua eventuale funzione «negativa». (Si pensi quanto debba la critica socialistica della società borghese alla critica della funzione sociale della proprietà individuale, o della famiglia fondata sulla patria potestà, ecc.) Va da sé che non si deve confondere la funzione negativa con la perdita di funzione, cui ho già accennato, e neppure con la disfunzione, che si verifica quando un istituto adempie male alla sua funzione positiva. La disfunzione appartiene alla patologia della funzione, la funzione negativa alla fisiologia (siccome tutta

l’analisi funzionale è connessa a una concezione organicistica della società, le metafore tratte dal comportamento del corpo umano sono inevitabili). La disfunzione ha riguardo al funzionamento di un determinato istituto; la funzione negativa alla sua funzionalità. Un istituto a funzionalità positiva può funzionare male senza che per questo la sua funzione diventi negativa, così come un istituto a funzionalità negativa può funzionare bene senza che la sua funzione diventi positiva. Si può anche ammettere in via d’ipotesi che una disfunzione durata a lungo trasformi una funzione positiva in negativa, ma ciò non toglie la distinzione dei due concetti e la necessità di tenerli distinti. Posso non aver dubbi sulla funzione positiva del parlamento, ma constatare in una data situazione storica il suo cattivo funzionamento che può consistere in un’alterazione, o perversione, o corruzione di qualcuna delle sue funzioni (come quella del controllo del bilancio); le critiche che nel nostro paese vengono rivolte quotidianamente all’ordinamento giudiziario non mettono in dubbio la positività della sua funzione, ma si limitano a metterne in rilievo i difetti di funzionamento. Al contrario, il dibattito sempre più acceso in questi ultimi anni sul sistema carcerario nel suo insieme, tende non soltanto a metterne in questione le disfunzioni ma a contestarne la funzione, cioè a mostrarne la funzione negativa, che consisterebbe nel fatto che il risultato che esso ottiene è il contrario di quello che istituzionalmente si propone (il carcere come scuola del delitto). Oltretutto, la funzione negativa è tanto più evidente quanto più l’istituto in questione funziona bene, tanto che, mentre si suole auspicare che un istituto cui si attribuisce una funzione positiva funzioni bene, ci si dovrebbe rallegrare che un istituto cui si attribuisce una funzione negativa funzioni male, perché è lecito sperare che la disfunzione attenui la negatività della funzione. Venendo al diritto nel suo complesso, quando si dice che il diritto ha una funzione sociale, e si cerca di definirla, si vuol dire che esso ha una funzione positiva? Da un punto di vista funzionalistico la risposta non può essere dubbia: per un funzionalista non vi possono essere funzioni negative. Il funzionalismo è una concezione della società per cui potrebbe valere una massima costruita ad analogia della celebre massima hegeliana: ciò che è funzionale è reale e ciò che è reale è funzionale. Il funzionalista non conosce funzioni negative, conosce soltanto disfunzioni (e semmai funzioni latenti oltre quelle manifeste), cioè difetti che possono essere

corretti nell’ambito del sistema, mentre la funzione negativa richiede il cambiamento del sistema. Per di più, in una concezione in cui le varie parti di un sistema sociale sono considerate in funzione del tutto, il diritto ha non soltanto una funzione positiva, ma ha una funzione positiva primaria, in quanto esso è lo strumento di conservazione per eccellenza, è il sottosistema da cui dipende in ultima istanza l’integrazione del sistema, l’estrema barriera oltre la quale c’è la inevitabile disgregazione del sistema. Nessuna meraviglia che nella teoria parsonsiana e in quella dei suoi commentatori e seguaci il diritto abbia trovato il suo posto giusto senza forzature. Ma la risposta alla domanda sulla positività della funzione del diritto può essere totalmente diversa se ci si pone dal punto di vista non della conservazione ma del mutamento, o addirittura del mutamento radicale o rivoluzionario che è il punto di vista di ogni teoria critica della società. Qual è il rapporto del diritto col mutamento sociale? Niun dubbio che la funzione del diritto sia non soltanto quella di mantenere l’ordine costituito ma anche di mutarlo adattandolo ai mutamenti sociali, tanto è vero che ogni ordinamento giuridico prevede alcune procedure destinate a regolare la produzione di norme nuove da sostituire alle vecchie. Ma come adempie a questa funzione? È il diritto lo strumento adatto a riformare, a trasformare, la società? Quali sono le ragioni per cui il diritto è sempre stato considerato più un mezzo di conservazione che di innovazione sociale? e il ceto dei giuristi più un ceto di conservatori che di riformatori? Una risposta a queste domande non potrà per avventura mettere in risalto che il diritto ha accanto a una funzione positiva anche una funzione negativa che, si badi, è intrinseca alla sua stessa natura, e che comunque non può restare inosservata a un’analisi funzionale corretta? Basti accennare ad alcuni temi. Non è vero che il diritto arrivi sempre in ritardo e sia di ostacolo al mutamento; talvolta arriva in anticipo e allora può essere un elemento di disfacimento di un tessuto sociale tradizionale, e quindi di mutamento improvviso. In entrambi i casi esercita una funzione negativa. Il diritto opera generalmente attraverso norme generali ed astratte, che mal si adattano alla complessità delle situazioni concrete e creano diseguaglianza fra eguali ed eguaglianza fra diseguali: per quanto il giudice abbia le migliori intenzioni di rendere giustizia, il fine è spesso reso impossibile dalla struttura stessa delle norme giuridiche. Ciò che il diritto riesce ad ottenere nei riguardi sia della conservazione sia del mutamento lo

ottiene attraverso il buon funzionamento dell’apparato coattivo; ma, appoggiandosi alla forza, il diritto contribuisce a perpetuare un tipo di società fondato su rapporti di forza: è la più perfetta immagine della violenza delle istituzioni o della violenza istituzionalizzata, cioè di una violenza la cui giustificazione sta nel presentarsi come unica risposta adeguata alla violenza eversiva (ma la violenza eversiva è sempre ingiusta?).

5. La funzione distributiva del diritto Sub c: mi richiamo per brevità alle notazioni di J.F. Glastra van Loon nel capitolo conclusivo di una nota rassegna della sociologia del diritto contemporanea16. Questi parla di una funzione distributiva del diritto da aggiungersi a quelle comunemente considerate di regolazione e di controllo, intendendo per funzione distributiva quella attraverso la quale coloro che dispongono dello strumento giuridico assegnano ai membri del gruppo sociale, siano essi individui o gruppi d’interesse, le risorse economiche e non economiche di cui dispongono. Altrove egli dice che, oltre alla funzione del mantenimento dell’ordine e della pace sociale, il diritto ha tra le sue funzioni «la distribuzione delle possibilità per la modificazione di un ordinamento esistente e per l’esercizio dell’influenza su certe decisioni governative in quanto le funzioni stesse includono la distribuzione dei beni di consumo, delle imposte, delle possibilità d’impiego, dell’educazione, delle chances matrimoniali e via dicendo»17. La notazione non è nuova. Uno degli autori da cui si dovrebbe partire è forse James Willard Hurst, recentemente ricordato proprio a proposito del mutamento funzionale del diritto da Vilhelm Aubert18. Hurst ha dedicato varie pagine delle sue opere al problema delle funzioni esercitate dal diritto negli Stati Uniti, e ha riconosciuto come una delle principali funzioni esercitate dal diritto quella del leverage and support, cioè, come traduce il giovane studioso italiano che mi ha introdotto alla conoscenza dello storico del diritto americano, «impulso e sostegno»19. In altra opera Hurst considera quattro funzioni del diritto: la quarta è descritta come «its [del diritto] regular use to allocate resources to affect conditions of life in society»20, e altrove, sempre in quarta posizione: «We used law as a principal means to affect allocations of manpower and material means among competing objects of use»21. È soprattutto su questo tema della

allocation delle risorse come funzione del diritto che ha richiamato l’attenzione Aubert, citando fra l’altro una frase di Hurst in cui questi aveva affermato che l’effetto più vasto del diritto sull’industria del latte era stato «promotional rather than restrictive»22, e ricavandone uno spunto per criticare il modello ristretto, e pur corrispondente alla communis opinio, del diritto come strumento di coercizione, ispirato al diritto penale. Dopo aver osservato che un grande numero di leggi servono principalmente alla costituzione di pubbliche istituzioni destinate a distribuire beni, denaro e servizi, Aubert commenta: «Sarebbe scorretto cercare d’interpretare la funzione sociale di tali leggi entro lo schema del modello del diritto coercitivo penale». Infine parla di una duplice natura del diritto, in quanto compulsion e in quanto resource23. Che il termine generico di resource sia il termine più adatto per indicare l’importanza che ha assunto nello stato sociale contemporaneo la funzione non meramente coercitiva del diritto, non sono del tutto sicuro. Ma è già di per se stesso importante il riconoscimento di un insieme di nuove funzioni che mutano un’immagine tramandata da secoli ed ora assolutamente inadeguata. A dire il vero, non solo non sono nuove queste notazioni ma non è nuova neppure la cosa. In ogni gruppo sociale, a cominciare dalla famiglia, la funzione del sistema normativo che la regge non è soltanto quella di prevenire e reprimere i comportamenti devianti o di impedire il sorgere di conflitti e di facilitarne la composizione dopoché sono sorti, ma anche quella di ripartire le risorse disponibili. C’è solo da domandarsi perché tradizionalmente questa funzione non sia stata così chiaramente rilevata e perché chi la rileva ora abbia l’aria di fare una scoperta. È sorprendente quanto peso abbia avuto nella determinazione comune del concetto del diritto la concezione privatistica dell’economia e la corrispondente concezione negativa dello stato. In base alla concezione privatistica dell’economia, la distribuzione dei beni avviene nella sfera dei rapporti fra individui o gruppi in concorrenza fra loro, e il diritto (sotto specie di diritto privato) ha unicamente la funzione di facilitare lo stabilimento di questi rapporti, di garantirne la continuità e la sicurezza, e d’impedire la sopraffazione reciproca. Strettamente connessa alla concezione privatistica del diritto è la concezione negativa dello stato secondo cui lo stato non ha ingerenza alcuna nei rapporti economici e pertanto la sua funzione diventa esclusivamente quella di provvedere attraverso norme imperative e

coattive, cioè attraverso il diritto, al mantenimento dell’ordine: e poiché questa è la funzione specifica del diritto penale, ne segue che la parte viene scambiata con il tutto. Una riprova, a mio parere decisiva, della diffusione e della continuità di questa concezione restrittiva del diritto, è data dal fatto che per lunga tradizione chiunque si sia accinto a fissare i caratteri differenziali del diritto ha posto il diritto in rapporto con la morale (non con l’economia), mostrando in tal modo di considerare tanto il diritto quanto la morale come due specie dello stesso genere, cioè delle norme di condotta che hanno precipuamente la funzione di garantire la stabilità e la sicurezza dei rapporti interindividuali. Come questa concezione limitativa del diritto si sia formata non è neppure difficile da spiegare: il diritto alla cui elaborazione ed applicazione danno la loro opera tradizionalmente i giureconsulti e i giudici, sono principalmente il diritto privato e il diritto penale, cioè sono proprio quelle parti del diritto che non hanno una funzione direttamente distributiva. Si ponga per un momento attenzione al fatto che la maggior parte delle definizioni del diritto che ancor oggi tengono il campo (da Holmes a Ross), e che anzi sono apparse le più aggiornate e moderne, sono contrassegnate dalla considerazione della parte che ha il giudice nella produzione del diritto, nel processo di separazione delle norme giuridiche dalle norme del costume e dalle norme morali, nella determinazione insomma di ciò che è propriamente il diritto: ebbene tutte queste definizioni colgono il fenomeno della formazione del diritto soltanto attraverso la sua funzione protettivo-repressiva, privilegiano il diritto come insieme di regole della condotta individuale, come risoluzione di conflitti, come riparazione dei torti, come repressione degli atti devianti. Il sistema normativo dello stato nella sua funzione distributiva non arriva o è arrivato assai più tardi all’esame di chi è chiamato a dirimere controversie fra privati (o a fungere da consulente per le parti in conflitto) o a reprimere atti socialmente dannosi. Non è difficile neppure da spiegare la ragione per cui la funzione distributiva, la allocation of resources, appaia oggi con particolare insistenza nelle teorie sociologiche del diritto, cioè nelle teorie che guardano al diritto da un punto di vista più generale e più complesso che non sia quello tradizionale del giurista (alleato del giureconsulto e del giudice): nel passaggio dallo stato di diritto allo stato amministrativo è cresciuta enormemente la funzione distributiva del diritto, tanto che è impossibile non accorgersene. Ed è cresciuta proprio

nella misura in cui è venuta meno la non ingerenza dello stato nella sfera dei rapporti economici, e la ripartizione delle risorse (e non soltanto di quelle economiche) è stata in gran parte sottratta al contrasto degli interessi privati ed è stata assunta dagli organi del potere pubblico. Questa trasformazione dei compiti dello stato dà oltretutto ragione di un altro fenomeno su cui è stata richiamata l’attenzione in questi ultimi decenni: quello dell’aumento, come è stato detto, di «consumo giuridico»24, che produce e insieme riflette il fenomeno altrettanto vistoso dell’inflazione legislativa.

6. La funzione promozionale del diritto Sub d: anche rispetto alla sua dimensione più ristretta di regola di comportamenti, munita di sanzione, onde la formula resa celebre da Kelsen della norma giuridica «Se è A, deve essere B», dimensione che è particolarmente adatta a coprire l’area del diritto nella sua funzione protettivo-repressiva, sono avvenuti tali mutamenti nei compiti dello stato, nel passaggio dallo stato liberale allo stato sociale, che l’esercizio stesso della funzione primaria di regolare i comportamenti ha assunto forme diverse da quella tradizionale, che riposava esclusivamente sulla intimidazione attraverso la sanzione negativa. Ho già avuto molte occasioni di soffermarmi su questo punto25, ma v’insisto perché mi pare non possa essere tralasciato in questo sguardo d’insieme: la concezione tradizionale del diritto, partendo dalla considerazione dell’ordine come fine del diritto, ha sempre visto nella minaccia di sanzioni negative, come pene, multe, ammende, risarcimenti di danni, ecc., lo strumento con cui il diritto persegue il proprio fine. Jhering aveva perfettamente compreso che le «leve», come egli le chiamava, dell’ordine sociale erano due, le ricompense e le pene, ma aveva assegnato le prime al mondo dell’economia, le seconde soltanto al diritto (ma anche Jhering aveva una concezione sostanzialmente privatistica dell’economia). In una concezione sociologica globale della storia come quella tracciata da Durkheim nella Divisione del lavoro sociale, il passaggio dalla solidarietà meccanica a quella organica era caratterizzato dalla trasformazione delle sanzioni repressive in sanzioni restitutive, ma entrambe rientravano nel tipo delle sanzioni negative. Kelsen distingue tre tipi di ordinamenti normativi: quelli che contano sull’osservanza spontanea

delle norme e quindi non hanno bisogno di sanzioni; quelli che si affidano a sanzioni positive; quelli che ricorrono a sanzioni negative: il diritto appartiene, senz’ombra di dubbio, secondo il Kelsen, alla terza categoria. Forse riecheggiando Jhering, afferma che «la tecnica della ricompensa svolge una parte significativa soltanto nelle relazioni private degli individui»26. Minimamente scalfita è la teoria tradizionale anche nei trattati più recenti, come quello di Lukić, già citato, e quello di Eduardo García Maynez27. Eppure, chi guardi ai compiti dello stato contemporaneo, e li confronti con quelli degli stati d’altri tempi, soprattutto al compito di controllare e di dirigere lo sviluppo economico, non può non rendersi conto che lo stato attraverso il diritto svolge anche una funzione di stimolo, di promovimento, di provocazione della condotta di individui e di gruppi, che è l’antitesi netta della funzione soltanto protettiva o soltanto repressiva. La vecchia affermazione, ancora recentemente ripetuta, che il diritto punisce l’inosservanza delle proprie norme e non premia l’osservanza, non rispecchia la realtà di fatto28. Quando lo stato intende incoraggiare certe attività economiche (ma non soltanto economiche) si vale sempre più spesso del procedimento dell’incentivazione o del premio, cioè del procedimento della sanzione positiva. Orbene questo procedimento consiste proprio in un vantaggio offerto a chi osserva la norma, mentre l’inosservanza della stessa norma non ha alcuna conseguenza giuridica, al pari dell’osservanza delle norme rafforzate da una sanzione negativa. In sostanza, la differenza fra la tecnica dell’incentivazione e quella tradizionale della sanzione negativa sta proprio nel fatto che il comportamento avente conseguenze giuridiche non è l’inosservanza ma l’osservanza. Si tratta di un fenomeno macroscopico, di cui non si può non tener conto: esso caratterizza la produzione giuridica negli stati contemporanei, tanto in quelli capitalistici quanto, a maggior ragione, in quelli socialisti e in quelli di nuova formazione, e che incide profondamente sul modo tradizionale di considerare la funzione del diritto. A proposito di esso ho parlato altrove di funzione promozionale del diritto per contrapporla alle varie tecniche ben più note con cui il diritto, anziché promuovere comportamenti ritenuti desiderabili, rimuove comportamenti ritenuti indesiderabili. Anche questo fenomeno, come tutti quelli esaminati sin qui, non può essere rivelato se non attraverso lo

spostamento dello studio del diritto dalla struttura alla funzione e pertanto sollecita un’analisi nel pieno senso della parola funzionale. II

7. Difficoltà cui va incontro l’analisi funzionale del diritto Ho indicato alcuni motivi che sollecitano e giustificano un’analisi funzionale del diritto. Questa è chiamata ad allargare il suo sguardo a problemi che erano completamente ignoti alle teorie generali del diritto condotte attraverso l’analisi strutturale dell’ordinamento giuridico, e che invece entrano a pieno titolo nel campo d’indagine della sociologia del diritto29. E ciò almeno per due ragioni: primo, perché sono problemi connessi con la considerazione del diritto come sotto-sistema del sistema sociale considerato nella sua globalità, e quindi per essere affrontati richiedono lo studio dei rapporti fra il diritto e la società, che soli permettono fra l’altro di rendersi conto delle ripercussioni che le trasformazioni della società hanno sulla trasformazione del diritto; secondo, perché problemi come quelli cui ho accennato, del mutamento di funzione del diritto o della funzione negativa o della disfunzione o del depotenziamento, ecc., esigono, per essere trattati esaurientemente, procedendo oltre le generalizzazioni teoriche, tecniche di ricerca empirica che sono proprie delle scienze sociali e si contraddistinguono in quanto tali dalle tecniche di cui si valgono i giuristi per svolgere il loro compito di interpreti e di critici di un determinato diritto positivo. Dico subito che l’interesse per il problema della funzione o delle funzioni del diritto, quale si è andato sviluppando in questi ultimi anni, non deve chiuderci gli occhi di fronte al fatto che i risultati sinora raggiunti da questo tipo di analisi sono ben lontani dall’essere soddisfacenti. Chiunque scorra gli elenchi delle funzioni che vengono attribuite al diritto nella maggior parte di questi scritti30 non può non ritrarsene con l’impressione che questi elenchi siano per un verso una raccolta di cose piuttosto ovvie che aggiungono poco o nulla alla nostra conoscenza del fenomeno giuridico, e per un altro verso siano composti da elementi eterogenei, onde nasce immediatamente il sospetto che nella espressione

«funzione del diritto» tanto il termine «funzione» quanto il termine «diritto» vengano usati senza dichiararlo in significati differenti. In questa seconda parte di questo scritto mi soffermo su alcune di queste difficoltà d’ordine teorico, perché una ricerca empirica, verso la quale è protesa la sociologia giuridica, ha tutto da guadagnare da un chiarimento dei suoi presupposti concettuali e da un’eliminazione delle più grossolane confusioni terminologiche. Tralascio le difficoltà che nascono dall’uso di un termine tutto-fare come «funzione» (su cui si sono versati fiumi d’inchiostro). Mi limito a impiegarlo nell’uso corrente delle teorie funzionalistiche, ed è un uso, com’è stato più volte ripetuto, che nasce sul terreno delle scienze biologiche, dall’analogia della società umana con l’organismo animale, e in cui per «funzione» s’intende la prestazione continuata che un determinato organo dà alla conservazione e allo sviluppo secondo un ritmo di nascita, crescita e morte dell’intero organismo, cioè dell’organismo considerato come un tutto.

8. Prima difficoltà: funzione rispetto a che cosa? La prima difficoltà su cui intendo soffermarmi deriva dal fatto che quando ci si interroga sulla funzione del diritto, la risposta è diversa, com’è già stato rilevato, secondo la risposta che si dà alla domanda: «Funzione, rispetto a che cosa?». In ogni teoria sociale sono presenti sempre due poli: a) la società come totalità, non importa se questa totalità sia considerata come un organismo in più o meno stretta analogia con l’organismo biologico, oppure come un sistema in equilibrio (del resto i due modelli dell’organismo e del sistema non sono affatto incompatibili, e spesso l’uno viene adoperato per interpretare l’altro); b) gli individui che di questa totalità sono le parti componenti, interagenti fra di loro e col tutto. Chi si pone il problema della funzione del diritto, a quale dei due poli si riferisce? Si pone il problema di quale sia la funzione del diritto rispetto alla società come totalità oppure rispetto agl’individui che ne fanno parte? Probabilmente rispetto a entrambi, il che è perfettamente lecito. Ciò che non è lecito e crea confusione è che i due problemi non siano chiaramente distinti. Se io dico, come dice il principe dei funzionalisti, che la funzione principale del diritto è l’integrazione sociale31, mi metto dal punto di vista della società e mi pongo un determinato problema, che è quello della

funzione del diritto nei riguardi della società nel suo insieme. Se io dico, come dicono generalmente gli antropologi, che la funzione del diritto è di rendere possibile la soddisfazione di alcuni bisogni fondamentali dell’uomo, come sono quelli del nutrimento e del sesso, e via via di altri bisogni d’ordine culturale, nelle società più evolute, mi metto dal punto di vista dell’individuo e mi pongo un altro determinato problema che è quello della funzione del diritto rispetto ai singoli individui. È già stata giustamente sottolineata la differenza fra la funzione del diritto rispetto al sistema (le systemfunktionale Bestimmungen des Rechts di Helmut Schelsky) e la funzione antropologica del diritto32. Ma non c’è bisogno di scomodare sociologi e antropologi per mettere in rilievo questa distinzione. Quando Kelsen, che non era né un sociologo né un antropologo, afferma che il diritto è una tecnica dell’organizzazione sociale la cui funzione è quella di rendere possibile la pace sociale, si pone dal punto di vista della società come un tutto. Quando Jhering, che come Kelsen era prima di tutto un giurista, afferma, come si è già visto, che lo scopo nel diritto è quello di garantire le condizioni di esistenza della società e per condizioni di esistenza intende «i presupposti cui soggettivamente è ricollegata la vita» sia fisica sia spirituale degli individui, ed esemplifica parlando dell’«onore» o della «libertà» o della «vita»33, si pone evidentemente dal punto di vista dei singoli individui e dei loro specifici interessi (non importa poi se il soddisfacimento di questi interessi ridondi in beneficio della società nel suo complesso). S’intende che questi due punti di vista non sono arbitrari: rappresentano due diverse concezioni globali della società, quella universalistica per cui ciò che conta è la foresta e non sono gli alberi, e quella individualistica per cui contano gli alberi e non la foresta. E possono anche rappresentare due modi diversi di guardare ai problemi sociali, quello ex parte principis e quello ex parte populi: la funzione sociale del diritto è quella rilevante per i governanti, cioè per coloro per cui il diritto è uno strumento di governo; la funzione individuale del diritto è quella rilevante per i governati, cioè per coloro che vedono nel diritto uno strumento di protezione, di garanzia, di liberazione ecc. dei singoli membri della società. Queste due prospettive non sono affatto incompatibili: anzi ritengo che un’analisi funzionale che pretenda di essere completa dovrebbe tener conto di tutte e due. Ma per tenerne conto bisogna prima di tutto averne preso chiara coscienza, cosa che nella copiosa letteratura sull’argomento mi pare

non sia sempre avvenuto.

9. Seconda difficoltà: funzione a quale livello? Una seconda ragione di confusione nasce dal fatto che le funzioni elencate non si pongono sempre sullo stesso livello ma rappresentano gradi o momenti diversi dell’influenza del diritto sulla società. La logica dell’analisi funzionale è la logica del rapporto mezzo-fine, per cui un fine, una volta raggiunto, diventa un mezzo per il conseguimento di un altro fine, e così di seguito sino a che ci si ferma a un fine posto o accettato come ultimo. Anche qui è chiaro che la risposta alla domanda «quali sono le funzioni del diritto» muta secondo che ci si fermi ai fini intermedi o si voglia guardare al fine o a quello che si crede il fine ultimo, oppure anche soltanto ai fini che, pur essendo intermedi, sono alla loro volta il risultato del conseguimento di fini che, in contrapposizione agli ultimi, possiamo chiamare «primi». Chi, ad esempio, pone nel proprio elenco di funzioni del diritto sia la sicurezza (o l’ordine sociale) sia la risoluzione dei conflitti d’interesse sia l’organizzazione del potere politico34, mette sullo stesso piano funzioni che in realtà stanno a livelli diversi e che probabilmente potrebbero essere poste per maggiore chiarezza l’una concatenata all’altra. Più specificamente, la funzione di sicurezza e quella di risoluzione dei conflitti non stanno l’una accanto all’altra, ma, se posso esprimermi così, l’una dentro l’altra, poiché è certo che uno dei modi attraverso cui il diritto esplica la funzione di garantire la sicurezza sociale è anche quello di essere un modo efficace, forse il più efficace in ultima istanza, di risolvere i conflitti. Non diversamente si pone il problema del rapporto fra queste due funzioni e la terza, quella relativa all’organizzazione del potere: garanzia della sicurezza sociale, risoluzione dei conflitti e organizzazione del potere sono tre compiti teleologicamente collegati, tanto che la risoluzione dei conflitti che è un mezzo rispetto al fine della sicurezza diventa un risultato se la si mette a raffronto con l’organizzazione del potere, e pertanto diventa possibile stabilire una concatenazione di questo genere: l’organizzazione del potere ha la funzione di rendere possibile la risoluzione dei conflitti, la risoluzione dei conflitti ha la funzione di rendere possibile la sicurezza sociale. Per fare un altro esempio, nulla vieta di affermare che la (vera) funzione del diritto, cioè la funzione che permette di contraddistinguere

ontologicamente il diritto, è quella di realizzare la giustizia quale modo specifico di sormontare l’insicurezza sociale35. Però questa definizione non toglie, anzi in un certo senso implica, che siano funzioni del diritto, se pure intermedie, e per chi cerca la «vera» funzione non specifiche, anche tutte quelle altre operazioni che di solito vengono enumerate come funzioni dai sociologi e dagli antropologi. Se mai si potrà dire che, oltre al punto di vista del sociologo e dell’antropologo, bisogna tener conto anche del punto di vista del filosofo. Si ponga mente alla funzione che è stata chiamata distributiva, cioè a quella serie di operazioni attraverso cui il diritto persegue lo scopo di ripartire le risorse. Nulla vieta che di fronte alla presentazione di questa funzione ci si ponga un’ulteriore domanda: «Qual è la funzione della ripartizione delle risorse?». È probabile che la risposta sia di questo tenore: «L’attuazione della giustizia sociale». Come si vede, il vedere il diritto in funzione della giustizia non esclude affatto il vederlo in funzione di quelle operazioni che possono essere considerate gli strumenti più idonei per il raggiungimento del risultato finale. Se mai, il rischio che corre il filosofo che va in cerca della funzione ultima è quello di scambiare l’essere col dover essere, e di saltare senza accorgersene dal problema di quale sia la funzione del diritto in una situazione data al problema di quale debba essere.

10. Terza difficoltà: quale diritto? Le difficoltà sinora rilevate derivano principalmente dall’uso del termine «funzione». Ma non meno gravi e forse più gravi sono le difficoltà che nascono dall’ambiguità o per lo meno dalla genericità con cui viene usato l’altro termine «diritto». Nell’espressione «funzione del diritto» che cosa s’intende specificamente per «diritto»? Siamo proprio sicuri che tutti coloro che muovono alla ricerca della funzione del diritto attribuiscano a «diritto» lo stesso significato (vedi sub a)? E, pure ammesso che vi sia un accordo tacito sul significato generale da dare al termine «diritto» in questa espressione, il termine non è troppo ampio per essere usato utilmente in un’analisi delle funzioni che, come si è visto, non sono già di per se stesse nulla di ben definito ma possono essere individuali e sociali, di primo, di secondo, di terzo grado (vedi sub b)? a) La miglior prova del diverso significato con cui il termine «diritto»

viene usato nell’analisi funzionale è data dalla presenza costante nel discorso di coloro che si sono posti il problema delle funzioni del diritto di due coppie di attributi che sono perfettamente legittime ma, non avendo alcuna corrispondenza fra di loro, debbono essere spiegate con il diverso significato del sostantivo cui si riferiscono. L’analisi funzionale infatti si è venuta concentrando soprattutto su questi due ordini di questioni: se il diritto abbia una funzione repressiva o anche distributiva, promozionale, ecc.; se abbia una funzione di conservazione (o di stabilizzazione) o anche d’innovazione (si è parlato anche di «funzione rivoluzionaria» del diritto) ed entro quali limiti. Le due questioni sono diverse, anche se si possa vedere un certo nesso tra funzione repressiva e conservativa da un lato, e tra funzione promozionale e innovativa dall’altro. Si tratta però di un nesso molto labile, perché si può usare lo strumento del diritto per reprimere il mutamento ma anche per promuovere la conservazione, o per promuovere il mutamento ma anche per reprimere la conservazione. Sono diverse perché la prima riguarda i rimedi impiegati dal diritto per esercitare la sua funzione primaria (ma non esclusiva), che è quella di condizionare il comportamento degli appartenenti a un determinato gruppo sociale, la seconda riguarda i risultati ottenuti rispetto alla società considerata nel suo complesso. Ma appaiono diverse soltanto a chi si renda conto che il diritto di cui si parla a proposito della prima coppia non è il diritto di cui si parla a proposito della seconda. Nella prima il diritto viene preso in considerazione come un certo tipo di strumento per il condizionamento dei comportamenti; nella seconda viene preso in considerazione con riferimento ai comportamenti che attraverso i mezzi di cui dispone riesce a condizionare. In altre parole, l’effetto repressivo o promozionale del diritto dipende dal diritto inteso come mezzo di condizionamento dei comportamenti; l’effetto conservativo o innovativo dipende dal diritto inteso come regola o insieme di regole aventi per oggetto un determinato comportamento, il cui adempimento o non-adempimento influisce in una certa direzione, che può essere tanto quella della conservazione quanto quella della innovazione, sulla configurazione della società nel suo complesso. Chi si pone il problema della funzione del diritto in termini di funzione repressiva o promozionale guarda al mezzo con cui il diritto opera; chi si pone il problema in termini di funzione conservativa o innovativa guarda a ciò che le regole di volta in volta considerate

prescrivono o permettono e alla loro efficacia. Un’espressione come «funzione rivoluzionaria del diritto» non ha alcun senso se «diritto» vien inteso come mezzo di coazione (perché con questo mezzo coloro che detengono il potere possono rivoluzionare lo stato di cose esistente così come possono lasciarlo qual è); acquista senso solo se s’intende parlare dei mutamenti sociali che attraverso quel mezzo possono essere prodotti, e quindi dei contenuti politici, economici, sociali, che di volta in volta possono venir calati dentro quella forma. Per giudicare se il diritto abbia funzione repressiva o promozionale basta prendere in considerazione il rimedio; per giudicare se abbia funzione di conservazione o d’innovazione bisogna prendere in considerazione i concreti provvedimenti che attraverso quei rimedi vengono o imposti o sollecitati. Ciò permette di concludere che il problema della funzione del diritto apre la strada a due risposte diverse secondo che ci si proponga di studiare quali effetti derivano dall’uso di un certo mezzo di coazione e di promozione sociale cui diamo per comune consenso il nome di diritto, oppure quali effetti derivino dai comportamenti che attraverso quel mezzo sono stati comandati o proibiti, incoraggiati o scoraggiati, ecc., o più in generale dagli istituti sociali che essendo regolati da norme giuridiche chiamiamo ugualmente per comune consenso il «diritto» di un determinato gruppo sociale. b) Il concetto del diritto è tanto vasto da rendere di scarsa utilità un’analisi funzionale che non proceda alle dovute distinzioni. La prima distinzione di cui si dovrebbe tener conto è quella fra diritto privato e diritto pubblico, che ho chiamato altrove la «grande dicotomia»36. Quando si affronta il problema delle funzioni del diritto, a quale dei due diritti ci si riferisce, al diritto privato o al diritto pubblico? Il tener conto di questa distinzione è tanto più necessario in quanto, mentre sembra un’impresa disperata il determinare il carattere specifico del diritto come mezzo di controllo sociale attraverso un elenco che è sempre incompleto delle sue funzioni, la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico è possibile mediante il ricorso alla diversa funzione che l’uno e l’altro esplicano all’interno del vasto campo di un sistema giuridico, o per lo meno la distinzione funzionale fra le due forme di diritto non è così aberrante come la distinzione funzionale fra il diritto nel suo complesso e altre forme di controllo sociale come la morale sociale, i costumi, le convenzioni, ecc. Dirò di più: l’importanza fondamentale che assume in ogni teoria del

diritto la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico risiede a mio parere proprio nel fatto che ad essa vengono riferite e con essa vengono spiegate le due principali funzioni che tradizionalmente vengono attribuite ad un ordinamento giuridico: la funzione di permettere la coesistenza di interessi singoli divergenti, attraverso regole che debbono servire a rendere meno frequenti e meno aspri i conflitti, e altre regole che debbono servire a risolverli dopo che sono sorti; la funzione di dirigere interessi divergenti verso uno scopo comune attraverso regole imperative e generalmente restrittive. Inoltre, vi sono altre distinzioni fra vari tipi di norme, entrate ormai nell’uso della teoria generale, che debbono la loro nascita all’analisi funzionale, se pure inconsapevole, e che pertanto un’analisi funzionale non dovrebbe trascurare: mi riferisco alla distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione, e a quella formulata da Hart fra norme primarie e norme secondarie37. Di entrambe le distinzioni il criterio discriminante è prevalentemente funzionale: con ciò voglio dire che gli autori che se ne servono, ricorrono alle funzioni cui sono adibiti rispettivamente quei vari tipi di norme per caratterizzarli, non ad altri elementi, come la struttura o il contenuto, ecc. Secondo la dottrina corrente, infatti, la funzione delle norme di condotta è quella di rendere possibile la convivenza di individui o gruppi perseguenti ciascuno fini singoli, mentre la funzione delle norme di organizzazione è quella di rendere possibile la cooperazione di individui o gruppi perseguenti ciascuno secondo il proprio ruolo specifico un fine comune. È ben noto che Hart ricorre a criteri funzionali per caratterizzare i tre tipi di norme secondarie che egli ha creduto di individuare e per distinguerle dalle norme primarie: quelle di riconoscimento hanno la funzione di porre rimedio all’incertezza di un sistema composto soltanto di norme primarie; le norme di mutamento hanno la funzione di preservare un sistema normativo dalla immobilità; quelle di giudizio hanno la funzione di provvedere alla sua maggiore efficacia. Con questa conseguenza: che un sistema giuridico, in quanto composto di norme primarie e di norme secondarie, è, oltre che strutturalmente, anche funzionalmente diverso da un sistema normativo non giuridico. Ciò che è interessante da notare è che di fronte al problema tipico di ogni analisi funzionale del rapporto fra struttura e funzione, Hart spiega la struttura partendo dalla funzione (nel senso che il diritto ha quella funzione perché

ha quella struttura) e non viceversa, mentre la teoria generale del diritto nelle sue espressioni più comuni, a cominciare da Kelsen, ha fatto l’inverso, cioè ha spiegato la funzione (il mantenimento dell’ordine) a partire dalla struttura (il diritto come ordinamento della forza).

11. Conclusione Ho messo in evidenza alcune difficoltà cui va incontro l’analisi funzionale del diritto, ovvero quali sono le insidie in cui rischia di cadere chiunque si avventuri in questo campo troppo fiduciosamente e senza guardarsi alle spalle, per cercar di spiegare il fatto che, nonostante l’importanza assunta dall’analisi funzionale in seguito e in proporzione all’aumento delle prestazioni delle varie macchine produttrici di norme giuridiche, una teoria funzionale del diritto, ove s’intenda per teoria funzionale del diritto una teoria generale che cerchi l’elemento caratterizzante del diritto non nella specificità della struttura, com’era avvenuto sino ad ora per opera dei maggiori giuristi teorici, ma nella specificità della funzione, sia ancora di là da venire. I tentativi sinora fatti in questa direzione sembrano piuttosto deludenti: perché, o finiscono per mostrare proprio il contrario di quello che si proponevano, cioè che attraverso il rilevamento della funzione non si arriva a mettere le mani sul carattere specifico del diritto (come a me pare sia accaduto al Parsons e ai suoi interpreti), oppure, quando vanno alla ricerca di una funzione specifica diversa da quella o da quelle generalmente riconosciute, cadono in una disorientante semplificazione, come a me sembra sia accaduto al più raffinato (e complicato) teorico della funzione del diritto, Niklas Luhmann, che attribuisce al diritto la funzione di congruente Generalisierung di aspettative normative38. Per effetto della complessità del fenomeno giuridico sta accadendo alle teorie funzionali ciò che è già accaduto alle teorie strutturali, che quando erano troppo specifiche lasciavano fuori dai loro confini qualche pezzo del territorio (per esempio il diritto internazionale), quando volevano abbracciare tutti i campi tradizionalmente occupati dal diritto, o di cui si sono occupati storicamente i giuristi, finivano per essere troppo generiche. Non vorrei a questo punto che qualcuno credesse che ci si possa trarre d’impaccio unendo i connotati strutturali con quelli funzionali attraverso una

sedicente analisi struttural-funzionale: fra struttura (del diritto) e funzione (del diritto) non c’è corrispondenza biunivoca, perché la stessa struttura, per esempio il diritto considerato come combinazione di norme primarie e secondarie, può avere le più diverse funzioni, così come la stessa funzione, per esempio quella abitualmente attribuita al diritto di rendere possibili la coesione e l’integrazione del gruppo, può essere svolta mediante diverse strutture normative. (Il che non vuol dire che struttura e funzione siano indipendenti: modificazioni della funzione possono incidere su modificazioni strutturali e viceversa.) Dopodiché, se una considerazione finale si vuol trarre, questa è che l’analisi strutturale, attenta alle modificazioni della struttura, e l’analisi funzionale, attenta alle modificazioni della funzione, debbono essere continuamente alimentate e procedere di pari passo, senza che la prima, com’è accaduto in passato, eclissi la seconda, o la seconda, come potrebbe accadere in un rovesciamento delle prospettive cui gli andazzi, le mode, il piacere del nuovo per il nuovo, sono particolarmente favorevoli, eclissi la prima.

Note 1

L’articolo, scritto originariamente per un volume in memoria del filosofo del diritto argentino Ambrosio Gioja, viene pubblicato per la prima volta in questo volume. 2 Questi articoli sono: W. Maihofer, Die gesellschaftliche Funktion des Rechts, pp. 13-36; H. Schelsky, Systemfunktionaler, anthropologischer und personfunktionaler Ansatz der Rechtssoziologie, pp. 3989; E. Fechner, Funktionen des Rechts in der menschlichen Gesellschaft, pp. 92-105; R. Schott, Die Funktionen des Rechts in primitiven Gesellschaften, pp. 109-74; N. Luhmann, Positivität des Rechts als Voraussetzung einer modernen Gesellschaft, pp. 176-202; Id., Zur Funktion der subjektiven Rechts, pp. 322-30. 3 Devo alla cortesia del prof. Elias Diaz di essere venuto in possesso di fotocopie delle comunicazioni attinenti al tema di questo mio saggio. 4 J. Raz, On the Functions of Law, in Oxford Essays in Jurisprudence, Blackwell, Oxford 1973, pp. 278-304; M. Rehbinder, Le funzioni sociali del diritto, in «Quaderni di sociologia», XXII, 1973, pp. 103-23; V. Aubert, The Social Function of Law (relazione al ciclostile presentata all’VIII Congresso mondiale di sociologia tenutosi a Toronto nell’agosto 1974). 5 N. Luhmann, Rechtssoziologie, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1972, 2 voll. 6 In questo stesso senso B. Le Baron, What is Law? Beyond Scholasticism, in Le raisonnement juridique. Actes du Congrès mondial de philosophie du droit et de philosophie sociale, Bruxelles, 30 agosto-3 settembre 1971, pubblicati come fascicolo del marzo-giugno 1971 di «Logique et Analyse», Nauwelaerts, Louvain 1971, pp. 77-83: «It is evident that, whatever its limitations, the Marxist account of law is not merely formal. It addresses itself very specifically to questions of social function, showing what law does for us and what it does to us» (p. 83).

7

R. Lukić, Théorie de l’état et du droit, trad. franc. di M. Gjidara, Dalloz, Paris 1974: «La fonction de l’Etat et du droit est d’avoir un rôle dans la société, d’agir au sein de la société. Comme l’Etat et le droit peuvent avoir plusieurs actions, seule correspondra à leur fonction, celle qui leur est essentielle et spécifique, ce par quoi ils se distinguent des autres phénomènes sociaux» (p. 89). E qual è questa funzione? «... l’Etat et le droit ont comme fonction le maintien du mode de production qui convient à la classe dirigeante intéressée et dont ils sont les créations» (ibid.). Superfluo ricordare che una delle più note opere di teoria marxista del diritto è intitolata La funzione rivoluzionaria del diritto. 8 Mi sono soffermato più a lungo su questo tema nell’articolo citato, Verso una teoria funzionalistica del diritto. Ma mi permetto di rimandare anche al saggio su Kelsen, in questo stesso volume. 9 H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, F. Deuticke, Wien 1934, p. 33 (trad. it., Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 72). 10 Sui vari aspetti della teoria generale del Roguin, e anche sull’antiteleologismo, mi sono soffermato in un articolo, Un dimenticato teorico del diritto: Ernest Roguin, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, Giuffrè, Milano 1978, vol. IV, pp. 43 sgg. 11 R. von Jhering, Lo scopo nel diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino 1972, p. 312. 12 Ivi, p. 313. 13 M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1961, vol. I, pp. 53-54. 14 Per un maggiore sviluppo del parallelo fra Weber e Kelsen rinvio al saggio su Kelsen, in questo stesso volume, specie alle pp. 167-72, 178-80. 15 Riprendo questo spunto dalla relazione su Il diritto, svolta al convegno bolognese sullo stato delle scienze sociali, pubblicata nel volume Le scienze umane in Italia, oggi, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 259-77. Ora col titolo Diritto e scienze sociali, in questa stessa raccolta. 16 J.F. Glastra van Loon, Conclusions, in Norms and Actions. National Reports on Sociology of Law, edited by R. Treves and J.F. Glastra van Loon, Nijhoff, L’Aia 1968, pp. 289-92. Dello stesso autore cfr. Towards a Sociological Interpretation of Law, in collaborazione con E. Vercruijsse, in «Sociologia Neerlandica», III, 2, 1966, pp. 18-31, che cito dal rendiconto fattone da R. Treves, Nuovi sviluppi della sociologia del diritto, Edizioni di Comunità, Milano 1968, pp. 150-53. 17 Traggo questa citazione da Treves, Nuovi sviluppi della sociologia del diritto, cit., p. 152. 18 Aubert, The Social Function of Law, cit., p. 11. 19 F. Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard Hurst. Storiografia e Jurisprudence, in Materiali per una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, vol. II, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 521-86; in modo particolare sulle funzioni del diritto, pp. 528-29. Le opere di Hurst da cui sono tratte le notizie circa le funzioni del diritto sono Law and Social Process in United States History, The University of Michigan Law School, Ann Arbor 1960, p. 5; Justice Holmes on Legal History, The Macmillan Company, New York 1954, pp. 5-6; Law and the Condition of Freedom in the Nineteenth-Century United States (1956), ma citata dall’ediz. di The University of Wisconsin Press, Madison 1967; Law and Economic Growth. The Legal History of the Lumber Industry in Wisconsin 1836-1915, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge 1964, p. IX. 20 Hurst, Law and Social Process, cit., p. 5, citato da Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard Hurst, cit., p. 528, nota 10. 21 Justice Holmes on Legal History, cit., p. 6, citato da Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard Hurst, cit., p. 528, nota 10. 22 Il passo citato da Aubert (The Social Function of Law, cit., p. 11) è tratto dall’opera di Hurst, Law and Social Process, cit., p. 99.

23

Aubert, The Social Function of Law, cit., p. 12. Su questo tema vedi F. Werner, Wandelt sich die Funktion des Rechts im sozialen Rechtsstaat?, in Die moderne Demokratie und ihr Recht (Festschrift für Gerhard Leibholz zum 65. Geburtstag), Mohr, Tübingen 1966, vol. II, pp. 153-66. 25 Sulla funzione promozionale del diritto, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», XXIII, 1969, pp. 1312-29; Sulle sanzioni positive, in Studi dedicati ad Antonio Raselli, Giuffrè, Milano 1971, vol. I, pp. 229-49: entrambi presenti in questo stesso volume. Cfr. D. Pasini, Potere, stato e funzioni del diritto, in «L’eloquenza», LXIII, 1973, pp. 517-30. 26 H. Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945, p. 18 (trad. it., Teoria generale del diritto e dello stato, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 18). 27 E. García Maynez, Filosofia del derecho, Editorial Porrua, México, 1974, pp. 73 sgg. 28 Così. G. Spittler, Probleme bei der Durchsetzung sozialer Normen, in «Jahrbuch für Rechtssoziologie und Rechtstheorie», vol. 1, 1970, pp. 205-25. Sul tema «premi e ricompense» in generale e con considerazioni di carattere sociologico, vedi J. Galtung, On the Meaning of Nonviolence, in «Journal of Peace Research», 1965, 3, pp. 228-57, e dello stesso autore, Violence, Peace and Peace Research, in «Journal of Peace Research», 1969, 3, pp. 167-91. 29 Riprendo il tema abbozzato nel mio intervento sui compiti della sociologia del diritto, Teoria sociologica e teoria generale del diritto, in «Sociologia del diritto», I, 1974, pp. 9-15. 30 Ne indico alcuni: R.S. Summers, The Technique Element in Law, in «California Law Review», LIX, 1971, pp. 733-51, elenca le seguenti funzioni (lista che egli stesso non considera esaustiva): 1) rafforzamento della famiglia; 2) promovimento della salute; 3) mantenimento della pace sociale; 4) raddrizzamento dei torti; 5) agevolazione degli scambi; 6) riconoscimento e ordinamento della proprietà privata; 7) garanzia delle libertà principali; 8) protezione della «privacy»; 9) controllo delle attività giuridiche private e pubbliche. Rehbinder, nell’articolo Le funzioni sociali del diritto, cit., riprende l’elenco delle funzioni dato da K.L. Llewellyn, The Normative, the Legal and the Law-Jobs: the Problem of the Juristic Method, in «Yale Law Journal», XLIX, pp. 1355-400, che è il seguente: 1) composizione dei conflitti; 2) regolazione dei comportamenti; 3) organizzazione e legittimazione del potere nella società; 4) strutturazione delle condizioni di vita nella società; 5) amministrazione della giustizia. Nella comunicazione al congresso di Madrid (1973) L. Recaséns Siches distingue tre funzioni: 1) certezza e sicurezza, e contemporaneamente anche possibilità di cambiamento; 2) risoluzione dei conflitti d’interesse; 3) organizzazione, legittimazione e limitazione del potere politico (Las funciones del derecho, dalla copia dattiloscritta distribuita al congresso, p. 1). Nell’articolo di Aubert, The Social Function of Law, cit., si trovano le funzioni seguenti: 1) rafforzamento autoritativo di regole di condotta promulgate al fine di ottenerne l’osservanza; 2) risoluzione dei conflitti; 3) distribuzione di risorse. Maihofer, nell’articolo Die gesellschaftliche Funktion des Rechts, cit., distingue le funzioni sociali da quelle antropologiche, e quindi suddistingue le prime in funzioni regolative e integrative, le seconde in razionalizzatrici e anticipatrici. Nel libro Sociologia del diritto, trad. it., Il Mulino, Bologna 1970 (l’edizione originale americana presso la Random House di New York è del 1968), E.M. Schur presenta una tavola di raffronto fra le funzioni del diritto secondo Hart (Il concetto del diritto, Einaudi, Torino 1965, cap. V), secondo E.A. Hoebel (The Law of Primitive Man, Harvard University Press, Cambridge 1954, cap. XI) e secondo Parsons (The Law and Social Control, in Law and Sociology. Exploratory Essays, a cura di W.M. Evan, Free Press, New York 1962; vedi la tavola a p. 101 con relativi commenti). 31 Per un’interpretazione e uno sviluppo della teoria parsonsiana del diritto H.C. Bredemeier, Law as an Integrative Mechanism, in Law and Sociology, cit., pp. 73-90. Sulla sociologia del diritto di tendenza struttural-funzionalistica, in modo particolare su Parsons, si veda A. Giasanti, Sistema 24

sociale e sistema giuridico nella prospettiva strutturale-funzionalistica, in «Quaderni di sociologia», XXI, 1972, pp. 73-95. Si veda anche il saggio di Schelsky, Systemfunktionaler, anthropologischer und personfunktionaler Ansatz der Rechtssoziologie, cit., pp. 51-57. 32 La distinzione tra funzioni sociali e funzioni antropologiche si trova tanto nel saggio di Maihofer quanto in quello di Schelsky, entrambi già citati. 33 von Jhering, Lo scopo nel diritto, cit., p. 313. 34 Come fa il Recaséns Siches, nella comunicazione citata nella nota 30. 35 Questa è la tesi di S. Cotta, Ha il diritto una funzione propria?, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», LI, 1974, pp. 398-412: «Il Sein del diritto ci indica dunque con sufficiente precisione qual è la funzione propria del diritto: quella di realizzare la giustizia quale modo specifico di sormontare l’insicurezza esistenziale» (p. 411). 36 Ho chiamato così la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico nell’articolo La grande dicotomia, in Studi in memoria di Carlo Esposito, Cedam, Padova 1974, pp. 2187-200. Questo articolo si ricollega ad uno precedente, intitolato Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, Giappichelli, Torino 1971, vol. IV, pp. 615-35 (apparso anche in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XLVII, 1970, pp. 187-204). Entrambi gli articoli si trovano in questo stesso volume. 37 Mi richiamo a un tema già altre volte trattato, specie in Nouvelles réfléxions sur les normes primaires et secondaires, in La règle de droit, Emile Bruylant, Bruxelles 1971, pp. 104-22 (anche in italiano col titolo Ancora sulle norme primarie e secondarie, in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 3553, e quindi col titolo Norme primarie e norme secondarie, nel volume Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 175-97); e in Per un lessico di teoria generale del diritto, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova 1975, vol. I, pp. 1-14. 38 Veramente meritorio il saggio di A. Febbrajo, Sociologia del diritto e funzionalismo strutturale nell’opera di N. Luhmann, in «Sociologia del diritto», I, 1974, n. 2, pp. 303-32, che cerca di far capire ai profani il pensiero (inutilmente) complicato del teorico e sociologo del diritto che è al centro del dibattito sulla sociologia del diritto oggi in Germania, come mostra la ricca bibliografia citata a p. 305. Quando il presente libro era già in preparazione, lo stesso autore ha pubblicato una intera monografia sul sociologo tedesco: Funzionalismo strutturale e sociologia del diritto nell’opera di Niklas Luhmann, Giuffrè, Milano 1975. La definizione del diritto data nel testo si trova in Luhmann, Rechtssoziologie, cit., vol. I, p. 105.

VI. Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto

1. Norme di condotta e norme di organizzazione Mi propongo di richiamare l’attenzione degli studiosi di teoria generale del diritto e dei giuristi su due articoli recenti dell’economista Friedrich A. Hayek, apparsi in traduzione italiana in riviste non giuridiche1. In questi due articoli l’autore utilizza una contrapposizione, ben nota ai giuristi, tra due tipi di norme, per descrivere e contraddistinguere due tipi di ordinamento statale. I due tipi di norme sono le norme di condotta e le norme di organizzazione. I due tipi di stato sono lo stato liberale e lo stato assistenziale. La tesi di Hayek è che il passaggio dallo stato liberale allo stato assistenziale sia contrassegnato dall’aumento delle norme di organizzazione rispetto a quelle di condotta. Nel primo articolo: «Una caratteristica della società liberale è che il cittadino può essere costretto ad obbedire solo alle norme di diritto privato e penale; la progressiva contaminazione del diritto privato col diritto pubblico durante gli ultimi ottanta o cento anni, cioè la progressiva sostituzione di norme di comportamento con norme di organizzazione, è uno dei modi principali in cui si è compiuta la distruzione dell’ordinamento liberale»2. Nel secondo: «Il punto di partenza e il punto di arrivo dello sviluppo che conduce dal superamento graduale dell’ordine spontaneo a una forma organizzativa completamente diversa corrispondono rispettivamente allo stato liberale e allo stato totalitario. Generalmente non ci si accorge che questo processo di trasformazione si riflette sul terreno giuridico, nella espansione del diritto pubblico ai danni del diritto privato, e quindi nella sostituzione di regole di comportamento mediante regole di organizzazione»3. Prescindo completamente dai giudizi di valore dell’autore il quale,

com’è noto, è un teorico e un difensore a oltranza del liberalismo classico e lamenta come regresso quel che altri esalta come progresso. Dal punto di vista della teoria generale del diritto da cui mi pongo m’interessano in questa sede esclusivamente due problemi: a) se l’uso che Hayek fa degli strumenti concettuali desunti dalla teoria del diritto sia corretto; b) se questi strumenti concettuali, nella loro interpretazione più corretta, siano adeguati allo scopo, cioè servano a dare la rappresentazione più esatta possibile della «grande dicotomia», che Hayek ha in mente. Nella prima parte (§§ 2-5) verrà svolta un’analisi della distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione e della nozione stessa di norme di organizzazione; nella seconda (§§ 6-9) la grande dicotomia dell’autore verrà confrontata con altre che hanno parimenti utilizzato strumenti concettuali tratti dal diritto, e sarà proposta una dicotomia alternativa.

2. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione non coincide né con la distinzione fra norme positive e negative né con quella tra norme astratte e concrete Dacché è venuta all’onor del mondo, la distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione ha preso il sopravvento su tutte le altre distinzioni tradizionali, come distinzione esaustiva dell’insieme delle norme che compongono un ordinamento giuridico. L’unica distinzione che ancor non cede il passo è quella tra norme primarie e norme secondarie, di cui parleremo più oltre. Ciononostante, non mi sembra che la nozione di norma di organizzazione sia stata sinora approfondita come il suo uso continuo richiederebbe. Né appare immediatamente chiaro il criterio in base al quale questo tipo di norma viene distinto da un altro tipo di norma, chiamato «norma di condotta», se non altro perché anche le norme di organizzazione, per il solo fatto di essere norme, sono norme di condotta. Pertanto, se la distinzione ha un senso, essa non può essere fondata sul fatto che vi siano norme che regolano la condotta e altre che regolano qualcosa di diverso dalla condotta, ma, evidentemente, deve poggiare su qualche altra base che la infelice terminologia nasconde.

Dallo stesso Hayek, che pur ha adottato la distinzione e le ha assegnato un ruolo così importante come quello di caratterizzare due tipi di ordinamento statale, ci si attenderebbe una definizione precisa dei due tipi di norme. Tanto per cominciare, sembra che per il nostro autore la distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione coincida, come si può rilevare dagli stessi passi citati, con la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Questa sovrapposizione è una prima causa di confusione, almeno per due ragioni: a) se si prende in considerazione uno dei due criteri classici in base ai quali si può dare un senso alla disputatissima distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, intendo il criterio del tipo di interesse (dei singoli cittadini o dello stato), sono norme di diritto pubblico, per esempio, le norme di diritto penale che Hayek pone, del resto correttamente, tra le norme di condotta; b) se si attribuisce alle norme di organizzazione, come sembra attribuire Hayek, la funzione di produrre un ordinamento artificiale delle azioni, contrapponendola alla funzione delle norme di condotta che consisterebbe nel renderne possibile l’ordinamento spontaneo, non si vede perché non debbano essere annoverate tra le norme di organizzazione norme indubbiamente appartenenti al diritto privato come quelle che regolano le società per azioni (che costituiscono un esempio abbastanza caratteristico di «ordinamento artificiale delle azioni»). Secondariamente, affiora in più luoghi negli scritti sopra citati la tentazione di scambiare la distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione con la distinzione tra norme negative (o divieti) e norme positive (o comandi): ora questa tentazione può derivare soltanto dal fatto che della distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione viene compiuto un uso generico e non ne viene definita esattamente la portata. A meno che non si restringa l’ambito delle norme di condotta a quello delle norme penali (ma questa restrizione, oltre ad essere arbitraria, finirebbe per rendere perfettamente inutile la categoria delle norme di condotta), non vi è nessun elemento del concetto di norma di condotta che permetta di privilegiare la condotta omissiva su quella commissiva. Se il concetto di norma di condotta può avere qualche utilità, esso deve poter servire a comprendere tanto le norme che regolano una condotta negativa quanto quelle che regolano una condotta positiva. Né d’altra parte vi è nel concetto di norma di organizzazione alcun elemento che induca a mettere

in particolare evidenza l’aspetto positivo piuttosto che quello negativo della loro qualità normativa (le norme di competenza che taluni identificano con le norme di organizzazione si presentano – in quanto stabiliscono limiti da non oltrepassare – piuttosto come divieti che come comandi). In terzo luogo, nell’ultima parte del secondo articolo la contrapposizione tra ordine spontaneo e ordine artificiale, cui corrisponderebbe la distinzione tra stato liberale e stato assistenziale o tendenzialmente totalitario, viene ricondotta ad un altro tipo di distinzione tra norme giuridiche, che non ha niente a che vedere con la distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione: il che non può che aumentare la confusione. Si tratta questa volta della distinzione, che viene ripresa e discussa soprattutto in polemica con Carl Schmitt, tra norme astratte (intendendosi per «astrazione» che «la regola deve valere per un numero imprecisato di casi futuri») e ordini (o provvedimenti) concreti4, corrispondente grosso modo alla distinzione tra legislazione e amministrazione. Quale sia il rapporto tra norme di condotta e carattere dell’astrattezza, da un lato, e norme di organizzazione e carattere della concretezza dall’altro, Hayek non spiega e non è neppure immediatamente evidente5. Stando al significato corrente di «astrattezza» come attributo delle norme giuridiche (e anche a quello accolto da Hayek nella definizione riportata), le norme di organizzazione sono, per lo più, astratte, non diversamente da quelle di condotta; e nulla esclude che una norma di condotta possa essere in casi specifici concreta, per esempio la sentenza del giudice che ingiunge a Tizio di pagare il debito a Caio. Infine, poiché la contrapposizione principale che sta a cuore al nostro autore, ed è sottintesa in tutte le altre, è la contrapposizione tra ordine spontaneo e ordine artificiale delle azioni, non si può non rilevare che la distinzione giuridica corrispondente non è minimamente quella tra norme di condotta e norme di organizzazione, bensì quella ben più antica e fondamentale tra diritto consuetudinario e diritto statutario. La nozione di diritto consuetudinario ha una sua precisa collocazione nell’universo del diritto in quanto serve a rappresentare il fenomeno della cosiddetta «razionalità spontanea» nella formazione di un ordinamento giuridico. Orbene, questo fenomeno della razionalità spontanea si può dare tanto nella sfera dei rapporti intersoggettivi che sarebbero regolati dalle norme di condotta, quanto nella formazione delle istituzioni sociali, che sarebbero

regolate dalle norme di organizzazione. Ne è la miglior prova il fatto che, accanto a un diritto consuetudinario privato, che consiste di norme di condotta, i giuristi hanno sempre rilevato l’esistenza di un diritto consuetudinario pubblico, consistente di norme di organizzazione. Volendo servirsi della distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione sarà bene sgomberare il campo da possibili confusioni cui può dare (involontariamente) occasione il modo con cui Hayek si serve di questa distinzione e di altre, non coincidenti con essa, per raggiungere un identico scopo, che è quello, come si è detto, di contrapporre lo stato liberale come ideale della società aperta allo stato totalitario come ideale della società chiusa. In particolare, è bene non lasciarsi trarre in inganno dalla utilizzazione promiscua di varie distinzioni, e non confondere la distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione con le distinzioni tra norme di diritto privato e norme di diritto pubblico, tra norme negative e positive, tra norme astratte e ordini concreti.

3. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione in base alla loro diversa funzione Fatte queste debite precisazioni, bisogna riconoscere che Hayek ha visto bene l’importanza della distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione al di là dell’uso meramente classificatorio che ne possano fare i giuristi. Ancora una volta prescindo dai giudizi di valore dell’autore, il quale preferisce una società in cui prevalgano le prime a una società in cui prevalgano le seconde sino a lasciare intendere (con un vero e proprio salto logico ingiustificato) che vere e proprie norme giuridiche siano soltanto le prime. L’importanza della distinzione in esame sta in ciò, che essa meglio di ogni altra serve a individuare le due funzioni che tradizionalmente vengono attribuite ad un ordinamento giuridico: la funzione di rendere possibile la convivenza di individui (o gruppi) perseguenti ciascuno fini singoli, e la funzione di rendere possibile la cooperazione di individui o gruppi perseguenti un fine comune. Sono norme di condotta quelle che, limitando la propria opera al coordinamento di azioni individuali, stabiliscono le condizioni per l’attuazione del massimo d’indipendenza di individui conviventi. Sono norme di organizzazione

quelle che, mediante un’opera di convergenza (forzata) di azioni sociali, stabiliscono le condizioni per attuare il minimo di dipendenza necessario a individui cooperanti. Come si è detto, la dizione è infelice, specie per quel che riguarda l’espressione «norme di condotta», perché non si vede qual sorta di contrapposizione si possa stabilire tra condotta e organizzazione, mentre è immediatamente evidente la contrapposizione tra coordinamento e convergenza, tra azioni individuali e azioni sociali, tra indipendenza e dipendenza, tra convivenza e cooperazione. Ma poiché quel che conta non è tanto la dizione quanto il modo con cui la distinzione viene utilizzata, è indubbio che il ruolo primario ad essa attribuito nella descrizione di un ordinamento giuridico rivela l’importanza della contrapposizione che essa intende rappresentare. Una volta posta la distinzione in questi termini, cioè una volta messo l’accento sulla diversa funzione cui adempiono le regole di un ordinamento giuridico, quella di rendere possibile la coesistenza di interessi divergenti attraverso la delimitazione delle singole sfere di libertà, e quella di rendere possibile la composizione di interessi convergenti attraverso l’assegnazione di ruoli specifici per il raggiungimento di un fine comune, si spiega facilmente la tendenza a confondere questa distinzione con quella tra diritto privato e diritto pubblico, da un lato, e con quella tra norme negative e positive, dall’altro. La prima confusione nasce dal privilegiare, nell’ambito del diritto privato, l’ordinamento della proprietà (e dei contratti), in cui il sistema normativo svolge visibilmente la funzione di coordinamento delle azioni, mettendo in ombra il diritto familiare o quello dell’impresa, in cui, invece, la funzione del diritto è anche e soprattutto organizzativa; nell’ambito del diritto pubblico, dal privilegiare la regolamentazione dei pubblici uffici, in cui è manifesta la funzione organizzativa, tralasciando il diritto penale che, insieme col diritto della proprietà e delle obbligazioni, costituisce un insieme di regole che mirano a stabilire le condizioni minime per la convivenza dei membri del gruppo sociale. La seconda confusione nasce da uno dei tanti parallelismi, tramandatici dai giusnaturalisti, tra le norme di convivenza e il precetto negativo neminem laedere, da un lato, e tra le norme di organizzazione e il precetto positivo suum cuique tribuere. Ma è un parallelismo che non regge ad una analisi particolareggiata di un qualsiasi ordinamento giuridico concreto, la quale mostrerebbe che la regolamentazione della mera

convivenza ha bisogno di norme positive, allo stesso modo che norme negative possono essere necessarie per il buon funzionamento di un’organizzazione.

4. Comparazione fra le norme di condotta e di organizzazione, da un lato, e le norme primarie e secondarie, dall’altro Anche se non affiora mai nei saggi di Hayek, vi è un’altra distinzione tra norme che meriterebbe di essere messa a raffronto (e potrebbe allo stesso titolo essere confusa) con quella tra norme di condotta e norme di organizzazione. Mi riferisco alla distinzione tra norme primarie e norme secondarie, non nel senso corrente in cui per «norme secondarie» s’intendono le norme su norme, ma nel senso proposto da Hart, per il quale «norme primarie» sono quelle che impongono obblighi e «norme secondarie» quelle che conferiscono poteri6. La tentazione del raffronto viene dal fatto che anche Hart, come Hayek, utilizza la propria distinzione per caratterizzare due tipi di ordinamento sociale, quello delle società primitive (ivi compreso l’ordinamento internazionale), composto prevalentemente da norme primarie, e quello delle società evolute, in cui le norme primarie sono integrate dalle norme secondarie. È vero peraltro che i due ordinamenti di cui parla Hart sono posti assiologicamente in ordine inverso ai due ordinamenti di cui parla Hayek. Stabilito, infatti, un certo parallelismo tra norme primarie e norme di condotta, tra norme secondarie e norme di organizzazione, è interessante osservare che le due dicotomie, quella di Hart tra società primitiva e società evoluta, e quella di Hayek tra società aperta e società chiusa, s’incrociano: alla società primitiva del primo, caratterizzata dalla prevalenza delle norme primarie, corrisponde la società chiusa o tribale del secondo, caratterizzata dalla prevalenza delle norme di organizzazione; inversamente, alla società evoluta del secondo, caratterizzata dalla prevalenza delle norme di condotta, corrisponde in Hart l’ordinamento composto da un apparato sempre più ricco e complesso di norme secondarie. In altre parole: mentre per Hart lo sviluppo storico ideale procede secondo la direzione che va dalle norme primarie alle norme secondarie, per Hayek procede secondo il

verso opposto, che va dalle norme di organizzazione alle norme di condotta. Per quanto estremamente seducente, il confronto tra la distinzione di Hayek e la distinzione fondamentale di Hart non lascia alcun luogo a dubbi sulla conclusione che le due distinzioni non coincidono. Si potrebbe forse sostenere che la categoria delle norme di condotta e quella delle norme che impongono obblighi (le norme primarie di Hart) tendono a sovrapporsi. Ma si può con altrettanta approssimazione sostenere che la categoria delle norme di organizzazione coincida con quella delle norme che conferiscono poteri? Che di fatto Hart si serva della categoria delle norme attributive per caratterizzare il fenomeno dell’organizzazione dell’apparato statale è indiscutibile. Ma egli non può disconoscere che sono norme attributive anche quelle che conferiscono ai privati il potere di stipulare contratti, di fare testamento, di contrarre matrimonio. D’altra parte, per quanto importante sia l’attribuzione di poteri per la formazione di qualsiasi organizzazione, l’attribuzione di un potere è spesso accompagnata dall’imposizione di un obbligo (l’obbligo di esercitare quel potere entro determinati limiti); così risulta che nell’ordinamento di un’organizzazione norme attributive e norme imperative sono compresenti ed entrambe necessarie. In sostanza, le norme secondarie di Hart sono per un verso una categoria più ampia di quella delle norme di organizzazione, perché le norme attributive private non hanno nulla a che vedere con il processo formativo di un’organizzazione; per un altro verso, più ristretta, perché alla formazione di un’organizzazione partecipano anche norme imperative che nella concezione hartiana sono norme primarie. Ancora un’osservazione: com’è noto, le norme secondarie sono per Hart di tre tipi (norme di riconoscimento, di mutamento, di giudizio). Di questi tre tipi ricoprono l’area delle norme di organizzazione il secondo e il terzo, non il primo. Anche in questo senso la categoria delle norme secondarie è più ampia di quella delle norme di organizzazione.

5. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione messa in relazione con la distinzione fra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come

istituzione Abbiamo sinora parlato della distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione come di una distinzione fondamentale nell’universo giuridico. Possiamo essere sicuri che una distinzione è fondamentale quando tanto l’uno quanto l’altro termine possono venire scambiati per il tutto. La distinzione tra norme negative e norme positive, per esempio, è stata utilizzata non solo, come vedremo, per rappresentare una delle grandi dicotomie, ma anche per contraddistinguere il diritto tutto intero da altri sistemi normativi. Lo stesso vale per la distinzione di cui ci stiamo occupando. Certamente essa è nata dall’esigenza di contraddistinguere due funzioni essenziali delle norme giuridiche, tanto essenziali che, come abbiamo visto, la prevalenza or dell’una or dell’altra può servire a distinguere due tipi di ordinamento statale. Ma poiché è accaduto che entrambe le parti del tutto siano state tanto allargate da rappresentare l’intero, la stessa distinzione tra questi due tipi di norme adombra una distinzione ben più radicale, la distinzione cioè tra due immagini, o modelli, o concezioni del diritto. Queste due concezioni sono, da un lato, quella che considera come elemento semplice del diritto il rapporto giuridico, dall’altro, quella che identifica il diritto non tanto in un elemento semplice quanto in una determinata struttura, la cosiddetta istituzione. Ho già avuto occasione di dire che la teoria del diritto come rapporto e la teoria del diritto come istituzione ricoprono (insieme con la teoria normativa) il campo delle grandi concezioni del diritto, beninteso con tutte le variazioni e le combinazioni che la varietà (e talora la bizzarria) delle opinioni comporta7. Per quanto, almeno in Italia, la teoria istituzionale del diritto sia nata in polemica con la teoria normativa, teoria istituzionale e teoria normativa non sono affatto incompatibili (come non sono incompatibili la teoria normativa e la teoria del rapporto giuridico)8: contrasto profondo c’è invece tra teoria istituzionale e teoria relazionale del diritto, come dimostra bene lo sviluppo della teoria istituzionale in Francia9. Questo contrasto profondo affonda le sue radici in due concezioni opposte della società o addirittura della natura umana. Chi vede il diritto sub specie relationis parte da una considerazione atomistica della società, parte cioè dall’individuo di per sé considerato che viene a contatto

con altri individui con i quali è costretto a stabilire un certo numero di rapporti sociali per garantirsi la possibilità di sopravvivenza; chi vede il diritto sub specie institutionis parte invece da una considerazione organica della società, cioè dalla società come un tutto organico, del quale gli individui sono parti cui la società assegna ruoli determinati. È inutile dire che su questa contrapposizione principale che divide tutta la storia del pensiero giuridico (e sociale) se ne possono ricomporre infinite altre. Basti pensare alla contrapposizione tra società di eguali e società di diseguali, tra società naturale e società civile, tra società e comunità (nel senso tönnesiano), tra società fondata sul contratto e società fondata sullo status, e via discorrendo, per arrivare, volendo, sino alla contrapposizione di Hayek, ispirata ai giusnaturalisti, tra ordine spontaneo e ordine artificiale. A questo punto non occorre molta immaginazione per rendersi conto che chi concepisce il diritto come rapporto è portato a considerare l’ordinamento giuridico come un insieme di norme di condotta (beninteso, nel senso sopra definito); chi concepisce il diritto come istituzione è indotto a vedere dappertutto soltanto norme di organizzazione. In tal modo la distinzione tra due tipi di norme giuridiche si trasforma, per una tendenza naturale al riduzionismo teoretico che non è mai disgiunta da una, spesso inconsapevole, presa di posizione ideologica, in una contrapposizione tra due concezioni del diritto. Tanto la teoria del diritto come rapporto quanto la teoria del diritto come istituzione sono strettamente connesse con una ben determinata e ideologicamente ben caratterizzata concezione del fine del diritto, che per la prima è l’ordine delle azioni individuali o la pace sociale, per la seconda è il bene comune da raggiungersi con lo sforzo congiunto e articolato di tutti. Si può parlare di bene comune anche rispetto alla prima concezione del fine del diritto, purché si abbia cura di intendere per «bene comune» non già il bene collettivo ma il bene che tutti hanno in comune, il quale appunto non può essere che l’ordine. Abbiamo visto che l’unico modo di dare un senso alla distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione è di assegnare alle prime il compito di regolare il coordinamento dei fini individuali, alle seconde quello di regolare l’assegnazione dei compiti per il raggiungimento di un fine collettivo. Ebbene, la teoria del rapporto ha una concezione del fine del diritto in generale cui serve un ordinamento di norme di condotta; la teoria dell’istituzione ha una concezione del diritto in generale cui serve

al contrario un ordinamento di norme di organizzazione. Il diverso modo di concepire il fine del diritto che caratterizza le due teorie determina la riduzione che l’una e l’altra compiono del diritto all’uno o all’altro tipo di norme. Sino a che l’immagine che i giuristi si facevano del diritto derivava dal diritto privato, ha prevalso la concezione del diritto come insieme di rapporti intersoggettivi, e di conseguenza la norma giuridica è stata costruita a immagine e somiglianza della norma di condotta. La teoria del diritto come istituzione non poteva nascere se non con lo sviluppo della dottrina del diritto pubblico che avvenne alla fine del secolo scorso; e solo da allora si è fatta strada a poco a poco l’idea che il diritto sia strettamente connesso con quel tipico prodotto dell’azione sociale che è l’organizzazione. Non a caso uno studioso di diritto pubblico come Hans Kelsen ha definito il diritto come una tecnica sociale di quella particolare organizzazione sociale che è l’ordinamento coercitivo10. Chi voglia avere un esempio illustre del primo tipo di connessione si vada a rileggere alcuni passi fondamentali della teoria del diritto di Kant, dove si trovano strettamente unite in un sistema coerente una concezione del diritto come rapporto intersoggettivo, una definizione del diritto come regola delle condizioni di ogni coesistenza possibile, la tesi fondamentale che il fine del diritto non è il raggiungimento di un bene collettivo ma lo stabilimento delle condizioni che permettano a ciascuno di raggiungere i propri beni individuali, insieme con una prevalente immagine della norma giuridica come norma di condotta la quale si limita a determinare le modalità con cui l’azione deve essere compiuta, la «forma», non la sostanza, dell’azione11. La teoria istituzionale del diritto è nata, almeno in Italia, da quell’aureo libretto che è L’ordinamento giuridico di Santi Romano (che era, non bisogna dimenticarlo, uno studioso di diritto pubblico): essa si svolse in polemica diretta contro la concezione privatistica del diritto, e quindi si contrappose alla definizione del diritto come rapporto ben più che alla teoria normativa, come pur si è andato ripetendo e come lo stesso Romano ha lasciato credere. In quanto tale è strettamente connessa con la tesi che il diritto riguardi non tanto la libertà dei singoli individui quanto l’organizzazione del tutto sociale, e che quindi il fine di un ordinamento giuridico sia il raggiungimento di un bene collettivo12.

6. Le «grandi dicotomie» e la loro importanza sistematica Tutta la storia delle riflessioni (o immaginazioni) dell’uomo sulla sua vita in società è contraddistinta dalla costruzione di «grandi dicotomie», a cominciare da quella tra stato d’innocenza e stato di corruzione13. Per secoli il pensiero occidentale è stato dominato (e a giudicare dal modello proposto da Hayek questo dominio non è ancora esaurito) dalla dicotomia giusnaturalistica tra stato di natura e stato civile. Della quale hanno avuto corso due versioni, secondoché fosse attribuito valore positivo al primo termine (onde la tradizione del pensiero liberale classico che va da Locke agli economisti classici, fino a Spencer e, come abbiamo visto testé, a Hayek) o al secondo (da Hobbes a Hegel, per il quale funge da stato di natura, cioè da stadio in cui si sviluppano rapporti antagonistici, la «società» civile). Alla rudimentale concezione della storia dei giusnaturalisti è succeduta la filosofia della storia illuministica: dalla quale è nata la teoria del progresso che ha dominato sino alla metà del secolo XIX. Attraverso la teoria del progresso la dicotomia astratta dei giusnaturalisti tra stato di natura e stato civile viene calata nella storia, storicizzata, e dà luogo alla contrapposizione tra barbarie e civiltà, tra dispotismo (considerato come categoria generale del «negativo» storico) e libertà. Dalla metà del secolo scorso in poi con la nascita della società industriale la funzione di condurre innanzi la riflessione sulle grandi dicotomie è stata assunta dalla sociologia (il cui precedente storico più illustre è la contrapposizione saint-simoniana tra società organiche e società critiche): ad un sociologo si deve la contrapposizione tra società e comunità, che si ritrova, anch’essa in due versioni – secondoché si faccia consistere il progresso nel passaggio dalla comunità alla società o viceversa –, in quasi tutte le analisi del processo di industrializzazione e delle trasformazioni sociali ad esso conseguenti. Con la sociologia i due termini della dicotomia cessano dall’essere categorie storiche e ridiventano, com’erano nella dottrina del diritto naturale, astrazioni concettuali o modelli ideali. Nonostante la successione articolata dei quattro o cinque «modi di produzione», anche il marxismo appartiene, almeno nel suo aspetto profetico, alla storia delle grandi dicotomie (regno della necessità-regno della libertà, preistoria-storia, società di classe-società senza classi). Qui c’interessano, principalmente, le dicotomie. Questo interesse

specifico non ci deve far dimenticare i fasti del pensiero tricotomico: basti pensare alla tre età del Vico, ai tre stadi di Comte, e, naturalmente, alle tre incarnazioni dello spirito oggettivo di Hegel. Si faccia attenzione però a non confondere una tricotomia con l’uso triadico di una dicotomia, che è pur esso frequente, ed è connesso con la interpretazione dialettica del corso storico. Della stessa dicotomia si può fare un uso diadico e un uso triadico: il primo, quando i due momenti della dicotomia vengono assolutizzati e il processo storico viene concepito o come passaggio, che è avvenuto o è destinato ad avvenire una volta sola, dal primo al secondo, oppure come costante e monotona ripetizione dell’identico processo (al progresso succede la decadenza, alla decadenza il progresso e così via); il secondo, quando i momenti continuano a restare soltanto due (l’uno è il momento positivo, l’altro quello negativo, l’uno l’affermazione, l’altro la negazione), ma il processo storico viene concepito come continuo e non ricorrente, e vi è sempre un terzo termine che è la ripresa su un nuovo piano del primo, non la semplice riproduzione. Dei due momenti della dicotomia giusnaturalistica, stato di natura e stato civile, Hobbes fa un uso diadico (o l’anarchia o lo stato assoluto, o Behemoth o Leviathan), Rousseau fa un uso triadico (stato di natura, società civile, sintesi di stato di natura e di società civile nella società fondata sul contratto sociale). Della grande dicotomia scaturita dalla interpretazione socialistica della storia – dalla società di classe alla società senza classi – Engels fa, com’è noto, un uso triadico là dove, prendendo in considerazione l’esistenza di una società senza classi e quindi senza stato tra i popoli primitivi, finisce per dividere il corso della storia umana in tre grandi stadi – comunità primitiva, stato, società senza classi –, di cui l’ultimo è configurato come un ricorso del primo. Per tornare al nostro Hayek, dopo aver messo in rilievo sin qui l’importanza del modello dicotomico nell’analisi del contrasto tra società aperta e società chiusa, occorre ancora far notare che l’interpretazione del corso storico che egli dà servendosi di questa dicotomia è triadica: lo stato totalitario cui si sta avviando la società contemporanea è un ritorno allo stato tribale se pure in una fase più avanzata e a grandi dimensioni. Si può anche osservare che le tre fasi storiche del pensiero liberale corrispondono a quelle del pensiero socialista se pur invertite di segno, onde le due diverse sequenze: negazione-affermazione-negazione dell’affermazione, da un lato, affermazione-negazione-negazione della

negazione, dall’altro. Il giudizio opposto, positivo o negativo, sull’età liberale ottocentesca – giudizio che distingue un liberale da un marxista – importa naturalmente un giudizio opposto sull’età che precede e sull’età che segue.

7. La grande dicotomia fra norme di condotta e norme di organizzazione comparata alle grandi dicotomie dei giusnaturalisti e dei sociologi positivisti Scopo di questo articolo non è certo quello di fare un’analisi delle «grandi dicotomie» bensì, prendendo lo spunto dall’uso che un non giurista ha fatto di una dicotomia giuridica per esprimere la propria interpretazione dicotomica della storia, di volgere lo sguardo a tentativi analoghi e suscitare l’interesse per qualche raffronto. Più vicina alla dicotomia di Hayek per quanto opposta di segno è la più celebre delle dicotomie sociologiche, quella escogitata e minuziosamente elaborata da Tönnies14: più vicina perché il tema dominante è ancora quello giusnaturalistico della contrapposizione tra società costituita da rapporti tra individui (Gesellschaft) e società come un tutto organico (Gemeinschaft); opposta di segno perché quel che per Tönnies è prodotto arbitrario della volontà umana (Kurwille), cioè il momento della società, corrisponde all’ordine spontaneo di Hayek; e viceversa, quel che per Hayek è il prodotto artificiale della volontà dominante, cioè il mondo delle organizzazioni, corrisponde alla Gemeinschaft di Tönnies che è insieme naturale e organica (ma il modello di organismo cui si rifà il Tönnies non sono le grandi organizzazioni ma la famiglia), prodotta da una volontà essenziale (Wesenwille). Di conseguenza, mentre la predilezione di Tönnies va verso il mondo organico delle istituzioni sociali, la predilezione di Hayek muove verso la società disorganica dei rapporti individuali. Ma qui interessa il rapporto tra forme sociali e forme giuridiche. Ora, anche per Tönnies ai due tipi di sistema sociale corrispondono due tipi di sistema giuridico: quello in cui «gli uomini sono in rapporto tra loro come membri naturali di un tutto» e quello in cui «essi, assolutamente indipendenti in quanto individui, entrano in rapporto tra loro soltanto in virtù della propria volontà arbitraria»15. Il prototipo del primo è il diritto di famiglia

(in quanto regola una società organica naturale); il prototipo del secondo è il diritto delle obbligazioni (in quanto regola rapporti meccanici e artificiali). In altro luogo, ove definisce il diritto come forma di quei rapporti la cui materia è la convivenza, Tönnies ribadisce il concetto che questa forma o viene pensata come unità necessaria delle volontà, il cui fatto più elementare è l’unione di due corpi (ancora una volta vi è un riferimento esplicito alla famiglia), oppure come aggiunta per opera della volontà arbitraria alla stessa materia, il cui fatto elementare è lo scambio di cose16. Nonostante il contrasto tra i nostri due autori sulla preferenza da dare all’uno o all’altro sistema giuridico, appare chiaro che anche in Tönnies la differenza tra i due sistemi giuridici opposti viene ricondotta alle due diverse funzioni che esplica il diritto nella società: delle quali, la prima consiste nel rendere possibile la formazione di una volontà collettiva – il diritto come forma di una società organica –, la seconda, l’incontro di volontà individuali – il diritto come forma di una società meccanica. Meno vicina strutturalmente ma rivolta assiologicamente nella stessa direzione è la grande dicotomia di Herbert Spencer tra società militari e società industriali17. Meno vicina, perché, allo scopo di caratterizzare i due tipi di società in base alla loro struttura giuridica, Spencer si vale non della distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione, ma della distinzione (che abbiamo visto affiorare anche in Hayek) tra norme negative e norme positive (cioè tra divieti e comandi). Nel passaggio dalle società militari alle società industriali dovrebbero via via scomparire, secondo Spencer, le norme positive per lasciare il posto alle sole norme negative (di cui il prototipo sono ancora una volta le norme penali). Ciononostante, le norme negative di Spencer sono parenti strette delle norme di condotta di Hayek: il loro sopravvento sulle norme positive significa la stessa cosa, cioè un affievolimento dei poteri dello stato, e soddisfa l’ideale, proprio del liberalismo ottocentesco, dello stato ridotto ai minimi termini. Da questo punto di vista, il sistema assiologico di Hayek non è diverso da quello di Spencer: nella grande dicotomia dell’uno e dell’altro il momento positivo sta dalla stessa parte, cioè dalla parte del sistema sociale in cui vi è minor diritto, sia questo minor diritto raffigurato nella prevalenza delle norme di condotta o delle norme negative. Se mai, ciò che differenzia il liberale del secolo scorso da quello del nostro secolo è il giudizio storico: Spencer vedeva la società avviata trionfalmente verso lo

stadio positivo (la sua filosofia della storia è stata un esempio tipico delle positivistiche teorie del progresso); Hayek, invece, vede nel nostro tempo «la via alla servitù», aperta per l’appunto dall’inversione di rotta, per cui il momento negativo prende a poco a poco il sopravvento su quello positivo.

8. ... e alla grande dicotomia di Durkheim fra solidarietà meccanica e solidarietà organica Tra le grandi dicotomie proposte dai fondatori della sociologia moderna, quella che è maggiormente debitrice alla teoria generale del diritto è la dicotomia di Durkheim. In polemica diretta con lo Spencer, Durkheim sostiene che la storia sociale dell’uomo si svolge non già attraverso il passaggio dalle società militari alle società industriali, bensì attraverso il passaggio dalle società a solidarietà meccanica alle società a solidarietà organica, caratterizzate dalla divisione del lavoro. Orbene, il tratto distintivo delle due forme di società sta, secondo Durkheim, nel diverso tipo di diritto che esse esprimono e ne costituisce la connessione interna. Ciò che peraltro differenzia la teoria di Durkheim da quelle di Spencer e di Hayek è che la forma giuridica caratteristica dei due tipi di società non viene ricondotta a due tipi di norme bensì a due tipi di sanzione. Le società primitive, tenute insieme da una solidarietà di tipo meccanico, sono contraddistinte dal fatto che il controllo sociale è esercitato attraverso il meccanismo di sanzioni repressive (le sanzioni penali comunemente intese); le società evolute, tenute insieme da una solidarietà di tipo organico, sono contraddistinte dal fatto che il controllo sociale è esercitato attraverso il meccanismo di sanzioni restitutive (come il compenso pecuniario per un torto arrecato, il risarcimento del danno, ecc.). Queste due forme di controllo sociale caratterizzano due sistemi giuridici diversi, che Durkheim chiama «diritto repressivo (o penale)» e «diritto cooperativo (o restitutivo)». Non è il caso di soffermarsi a fare raffronti, che del resto sono già stati fatti tante volte, tra la grande dicotomia di Durkheim e le altre. Un elemento però merita di essere messo in rilievo, giacché abbiamo preso le mosse da Hayek che si trova sulla stessa linea di Spencer da cui Durkheim gravemente e a lungo dissente18. Mentre Hayek (lo stesso si potrebbe dire

per Spencer e anche per Tönnies) conserva nella contrapposizione di norme di condotta e di norme di organizzazione la distinzione fondamentale tra le due funzioni del diritto, quella della convivenza e quella della collaborazione, da cui hanno tratto alimento, come si è visto, due concezioni o immagini del diritto, la privatistica e la pubblicistica, Durkheim non attribuisce al diritto altra funzione che quella organizzativa e di conseguenza risolve tutto il diritto in diritto pubblico19. Ha cura, infatti, di affermare che la sua distinzione tra diritto repressivo e diritto cooperativo non corrisponde alla distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, mentre, occorre precisare, potrebbe corrispondervi quella tönnesiana tra diritto organico e diritto di scambio; e che tutto il diritto è pubblico20. Dal punto di vista della distinzione tra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come istituzione non c’è dubbio che la teoria di Durkheim è una teoria istituzionale del diritto. Rispetto a tutti i modelli esaminati sin qui, quello durkheimiano, dunque, si differenzia nettamente per il fatto che il concetto di organizzazione non costituisce più uno dei due termini della dicotomia, cui si contrappone qualche cosa che non è organizzazione – si pensi alle norme primarie di Hart o a quelle di condotta di Hayek, al diritto di scambio di Tönnies o alle norme negative di Spencer –, ma definisce l’intero campo della ricerca. Con la conseguenza che la grande dicotomia verrà identificata nella contrapposizione non più tra società organizzata e società non organizzata, ma tra due forme diverse di organizzazione, attraverso le quali affiora la differenza, che abbiamo già avuto occasione di notare, tra l’organismo naturale sul cui modello Tönnies ha ricostruito il tipo ideale della comunità e l’organizzazione artificiale che caratterizza secondo Hayek lo stato assistenziale contemporaneo.

9. Dalla distinzione fra sanzioni repressive e sanzioni restitutive alla distinzione fra sanzioni negative e sanzioni positive Il discorso tönnesiano su due diversi tipi di sanzione invocati a contraddistinguere due tipi fondamentali di società m’induce a riprendere il tema svolto in un saggio precedente in cui ho cercato di caratterizzare il

contrasto tra stato liberale e stato assistenziale, servendomi di strumenti concettuali offerti dalla teoria generale del diritto diversi da quelli proposti da Hayek. Per l’appunto ho fatto ricorso, anziché a due tipi di norme, a due tipi di sanzioni, più precisamente alla differenza tra sanzioni negative e sanzioni positive (tra pene e ricompense). Non mi par dubbio che la concezione sinora dominante del diritto come forma di controllo sociale diversa da altre forme di controllo sociale – dominante sia che si risalga alla tradizione giusnaturalistica (da Hobbes a Kant) sia che si consideri la tradizione positivistica (da Jhering a Kelsen) – abbia identificato il modo specifico del controllo giuridico con la funzione repressivo-protettiva che viene esplicata attraverso la predisposizione e l’esecuzione di sanzioni negative. Questa identificazione è così ovvia che quando si parla di sanzione giuridica s’intende parlare di sanzione negativa. Si osservi che i due tipi di sanzione, cui Durkheim affida il difficile compito di differenziare i due tipi fondamentali di società, appartengono entrambi alla categoria delle sanzioni negative. Un’analisi degli ordinamenti giuridici degli stati moderni, a cominciare dai documenti costituzionali, in cui il termine «promuovere» ha soppiantato o messo in disparte il termine «garantire», induce a modificare l’immagine tradizionale del diritto, o per lo meno ad affiancarne ad essa una nuova in cui la funzione promozionale si sovrappone a quella repressivo-protettiva. Con questo non si vuol dire che il diritto non abbia avuto anche in passato funzione, oltreché di repressione, anche di promozione. Ma il primo tipo di funzione è sempre stato tanto preminente che la maggior parte delle teorie del diritto non hanno registrato nelle loro definizioni del diritto la funzione di promozione. È avvenuto anzi spesso che la distinzione tra le due funzioni abbia servito di criterio per distinguere il diritto da altri sistemi di controllo sociale. Esemplare da questo punto di vista la grande opera di Rudolf Jhering, Der Zweck im Recht, la quale va alla ricerca delle quattro leve che determinano il movimento sociale. Di queste quattro leve, due, il premio e la pena, muovono gli impulsi inferiori; due, il sentimento del dovere e l’amore, muovono gli impulsi superiori. In questa dicotomia, il diritto occupa un posto ben preciso: esso ricopre il campo in cui agisce la leva della coazione, il che val quanto dire che la sua funzione è essenzialmente repressiva. Da notare che la sfera in cui opera la leva della ricompensa coincide in gran

parte con quella sfera dei rapporti di scambio che costituiscono per Tönnies il tessuto della Gesellschaft contrapposta alla Gemeinschaft, anche se lo stesso Tönnies tiene a far presente la differenza tra la sua categoria e quella jheringhiana21. La differenza tra funzione repressiva e funzione promozionale di un sistema normativo può essere brevemente riassunta in questi termini: con la prima il sistema tende ad impedire il verificarsi di comportamenti non voluti; con la seconda tende a provocare comportamenti voluti. Tra i comportamenti voluti e quelli non voluti sta la vasta sfera dei comportamenti indifferenti, come fare o non fare testamento, contrarre o non contrarre matrimonio, partecipare o non partecipare ad un concorso: per i quali il sistema giuridico può intervenire richiedendo che qualora il comportamento venga effettuato, ciò avvenga secondo determinate modalità a pena di nullità. Rispetto alla distinzione tra funzione di repressione e funzione di promozione, l’intervento del sistema normativo nella sfera dei comportamenti indifferenti può essere interpretato come appartenente tanto alla prima se si guarda alla pretesa dell’ordinamento che solo alcuni atti siano validi, cioè giuridicamente efficaci, quanto alla seconda se si guarda alla tutela che l’ordinamento giuridico è disposto a concedere soltanto ad essi, e non ad altri. Sociologi ed economisti, scienziati politici e giuristi, sono d’accordo sul fatto che il processo di industrializzazione delle società moderne abbia enormemente aumentato i compiti dello stato, contrariamente a quel che aveva profetizzato Spencer, e conformemente, invece, a quel che avevano previsto Durkheim, e naturalmente Max Weber. Che questo aumento di compiti dello stato abbia determinato un aumento delle norme di organizzazione, come sostiene Hayek, è innegabile. Ma poiché tra questi compiti, preminente è quello di dirigere l’attività economica, è altrettanto innegabile che lo stato moderno si vale sempre più delle tecniche d’incoraggiamento oltre a quelle di scoraggiamento che gli erano abituali. Tra queste tecniche d’incoraggiamento assume un ruolo sempre più evidente l’uso dell’apparato giuridico (cioè del sistema normativo coattivo) non per rendere difficili o svantaggiosi i comportamenti considerati nocivi alla società, ma per rendere facili o vantaggiosi i comportamenti considerati utili, cioè l’uso delle sanzioni positive. Tanto evidente da far considerare ormai inadeguate le teorie del diritto che non ne tengano conto e sfocata

l’immagine, essenzialmente repressivo-protettiva tuttora predominante, dell’ordinamento giuridico.

Note 1

Questi due articoli sono: F.A. Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico», XXXI, 1966, pp. 601-18 (citato d’ora innanzi come I); Ordinamento giuridico e ordine sociale, in «Il Politico», XXXIII, 1968, pp. 693-723 (citato d’ora innanzi come II). Del primo è apparsa una traduzione italiana col titolo Il liberalismo di F.A. Hayek, in «Biblioteca della libertà», IV, 1967, n. 1, pp. 28-55, che tengo presente nelle citazioni. Chi voglia avere una conoscenza più ampia della concezione giuridica di Hayek, legga il libro The Constitution of Liberty, University of Chicago Press, Chicago 1960, tradotto recentemente in italiano col titolo La società libera, Vallecchi, Firenze 1969, specie la parte seconda, intitolata La libertà e la legge (pp. 151-283). 2 I, p. 609. Il corsivo è mio. 3 II, pp. 717-18. Il corsivo è mio. 4 II, p. 705. 5 Vedine un accenno in II, p. 718 alla fine. 6 H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, Einaudi, Torino 1965, p. 35. Sull’argomento cfr. G. Gavazzi, Norme primarie e norme secondarie, Giappichelli, Torino 1966, e anche il mio articolo Ancora delle norme primarie e secondarie, in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 35-53, quindi col titolo Norme primarie e norme secondarie, in Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 175-97. 7 Cfr. Teoria generale del diritto e teoria del rapporto giuridico, in Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955, pp. 53-58, e anche Teoria della norma giuridica, Giappichelli, Torino 1958, pp. 10 sgg. 8 Teoria della norma giuridica, cit., pp. 17-23 e 30-34. 9 Si veda per tutti l’opera di G. Renard, La théorie de l’institution, Sirey, Paris 1930, dove, com’è noto, la teoria dell’istituzione è costruita come contraltare alla teoria contrattualistica, non alla teoria normativa, del diritto. 10 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 68; Teoria generale del diritto e dello stato, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 18-19; La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. 45-46. 11 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, in particolare p. 421 (per la teoria del rapporto), p. 407 (per la teoria del diritto come regola della coesistenza), pp. 225 e 268 (per la critica dello stato paternalistico), p. 406 (per la teoria del diritto come forma). Di tutto questo ho parlato più distesamente in Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, Torino 1969. 12 «Il diritto non consacra solo il principio della coesistenza degli individui, ma si propone soprattutto di vincere la debolezza e la limitazione delle loro forze, di sorpassare la loro caducità, di perpetuare certi fini al di là della loro vita naturale, creando degli enti sociali più poderosi e più duraturi dei singoli» (S. Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze 1945, pp. 35-36). 13 A questo punto riprendo il discorso iniziato nell’articolo Sulla nozione di società civile, in «De Homine», 1968, n. 24-25, pp. 19-36. 14 F. Tönnies, Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano 1963.

15

Ivi, p. 224. Ivi, p. 241. 17 H. Spencer, Principles of Sociology, Section 570 (vedi trad. it., Principi di sociologia, a cura di F. Ferrarotti, Utet, Torino 1967, vol. II, pp. 375-76). 18 E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1962, pp. 138 sgg., in particolare la tavola a p. 146; anche pp. 147 sgg. 19 Ivi, pp. 209 sgg. 20 Ivi, pp. 89 e 142. 21 Tönnies, Comunità e società, cit., p. 233. 16

VII. La grande dicotomia

1. Caratteristiche delle grandi dicotomie Nel processo di ordinamento e di organizzazione del proprio campo d’indagine ogni disciplina tende a dividere il proprio universo di enti in due sottoclassi che sono reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive. Per designare il prodotto di questa operazione, che è un’operazione di classificazione, uso l’espressione «grande dicotomia»1: grande sia nel senso di totale, perché, in quanto tutti gli enti, nessuno escluso, cui attualmente e potenzialmente la disciplina si riferisce, debbono potervi rientrare, si differenzia dalle dicotomie parziali che ne includono solo una parte; sia nel senso di principale, perché, in quanto tende a far convergere verso di sé, a risolvere, a fondare altre dicotomie, si differenzia da altre distinzioni, che pur essendo esaustive, possono considerarsi, rispetto ad essa, secondarie. Nelle scienze sociali, esempio classico di grande dicotomia è la distinzione, minuziosamente e persino troppo pedantescamente elaborata da Tönnies, tra comunità e società2: tale dicotomia è totale nel senso che nessuna forma di società dovrebbe, a giudizio del suo autore, sfuggire alla sua capacità comprensiva, è principale nel senso che altre tradizionali e ben note dicotomie, come quella tra società naturale e società convenzionale, o quella tra società di status e società di contractus, sono in essa risolte a causa della sua maggiore capacità esplicativa. Occorre peraltro subito avvertire che una dicotomia per essere grande non è detto che sia unica: adottando criteri diversi di classificazione la stessa disciplina può servirsi, per ordinare e organizzare la propria materia, anche di due o più dicotomie che non si sovrappongono e che combinandosi tra loro possono dar luogo a un numero sempre maggiore di sottoclassi (quattro, se le dicotomie sono due, otto se sono tre e così via)3. Gaetano Mosca, ad esempio, distingueva tutti i regimi politici sinora

esistiti in aristocratici e in democratici in base al criterio del diverso modo di ricambio della classe politica, e in autocratici e liberali in base al criterio della diversa forma di organizzazione del potere: ne derivavano quattro sottoclassi (regimi aristocratico-autocratici, aristocratico-liberali, democratico-autocratici, democratico-liberali)4. La caratteristica principale di una grande dicotomia rispetto alle dicotomie parziali o secondarie è l’impiego privilegiato dei suoi due termini allo scopo di delimitare l’orizzonte entro cui si iscrive una determinata disciplina. Chiamo questo impiego dei due termini «uso sistematico» della grande dicotomia. Ma non è il solo. Voglio richiamare l’attenzione su due altre forme di impiego privilegiato dei due termini di una grande dicotomia che chiamo «uso storiografico» e «uso assiologico». Intendo per «uso storiografico» di una grande dicotomia l’utilizzazione che di essa viene compiuta per contraddistinguere due momenti necessari (eventualmente ricorrenti) dello sviluppo storico, cioè per dividere l’universo in questione non più sincronicamente ma diacronicamente. Intendo per «uso assiologico» l’utilizzazione che di essa viene compiuta per dividere l’universo in questione in due parti contrapposte rispetto al valore, cioè in due parti di cui l’una rappresenta il momento positivo, l’altra il momento negativo, l’una ciò che deve essere approvato ed eventualmente promosso, l’altra ciò che deve essere disapprovato ed eventualmente respinto. S’intende che in una teoria del progresso (o del regresso) storico, l’uso storiografico coincide con l’uso assiologico: ciò che viene dopo è anche ciò che ha più (o meno) valore. Allo stesso modo in una teoria storicistica del valore, l’uso assiologico coincide con l’uso storiografico: ciò che ha più valore coincide con ciò che viene dopo (o prima). Come esempio dell’uso storiografico, si pensi alla celebre dicotomia durkheimiana tra società meccanica a sanzione repressiva e società organica a sanzione riparativa5: questa dicotomia divide in due non soltanto l’universo sociale ma anche l’universo storico, onde la storia è considerata nel suo processo come movimento dalla società meccanica alla società organica. Come esempio di uso assiologico, si pensi all’ancor più celebre dicotomia giusnaturalistica tra stato di natura e stato civile: entrambi questi termini hanno, oltre che un significato descrittivo, anche un significato valutativo, non importa poi se, secondo le diverse teorie, portatore del valore positivo e rispettivamente del valore negativo sia il primo o il secondo.

Un’altra caratteristica delle grandi dicotomie è la seguente: ciascuno dei due termini è suscettibile, per influenza del suo significato storiografico e assiologico, di essere esteso sino a connotare non più una sola delle due parti ma tutto l’universo, cioè di diventare il termine di una classe universale, respingendo l’altro termine fuori dell’universo, ovvero degradandolo a termine di una classe vuota (nella logica delle classi la classe vuota è la negazione della classe universale). Con una metafora si potrebbe dire che una delle due classi in cui l’universo è diviso dalla grande dicotomia ha una singolare tendenza a estendere il proprio dominio su tutto l’universo a danno dell’altra classe, a occupare l’intero territorio. Uno dei segni attraverso cui si può riconoscere una grande dicotomia è proprio questa capacità potenziale dell’una e dell’altra classe ad assumere il ruolo di classe universale. Uno degli espedienti più comuni mediante i quali avviene l’elevazione di una delle classi a classe universale e rispettivamente la degradazione dell’altra classe a classe vuota è il ricorso alla coppia realeapparente6: pur continuando l’universo ad essere diviso in due grandi classi esaustive, si dice che solo una di esse lo rappresenta realmente, cioè è il vero universo, è l’universo autentico, mentre l’altra lo rappresenta solo apparentemente, cioè è quello stesso universo in forma falsificata o inautentica. Si ritorni per un momento alla grande dicotomia tönnesiana società-comunità: chi interpreta il progresso storico come passaggio dalla società alla comunità, chi, in altre parole, privilegia tanto nell’uso storiografico quanto nell’uso assiologico della dicotomia la comunità, avrà la tendenza a risolvere tutto l’universo sociale in comunità, e probabilmente soddisferà la sua esigenza affermando che solo la comunità è vera società. Una volta risolto tutto l’universo sociale in comunità, «comunità» diventa termine di una classe universale nel senso che tutto ciò che è comunitario è sociale; «società» diventa termine di una classe vuota nel senso che nulla di ciò che è societario è veramente sociale. Molto istruttiva a questo proposito la secolare disputa intorno alla grande dicotomia società naturale-società civile, cui è strettamente connessa l’altra grande dicotomia diritto naturale-diritto positivo: istruttiva, perché mostra la tendenza della grande dicotomia a trasformarsi in una falsa dicotomia. Infatti, poiché per il giusnaturalista solo il diritto naturale è (vero) diritto (il diritto positivo essendo diritto soltanto in quanto si accordi col diritto naturale), non vi sono più nell’universo del diritto due classi, ma ve n’è una

sola. Lo stesso vale nell’universo di discorso del positivista, per il quale solo il diritto positivo è (vero) diritto.

2. La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico come grande dicotomia Nella teoria del diritto la distinzione che si presenta, più spiccatamente di ogni altra, col carattere di «grande dicotomia» è la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Superfluo aggiungere che non è una grande dicotomia la distinzione, che pur si trova in testa nella maggior parte dei nostri trattati, tra diritto soggettivo e diritto oggettivo. La necessità in cui il giurista si trova di soffermarsi su questa distinzione nasce esclusivamente da un’omonimia. La distinzione tra diritto soggettivo e diritto oggettivo serve a chiarire una possibile confusione terminologica, derivante dal fatto che la stessa parola «diritto» viene adoperata, in certe lingue, in due significati diversi. Non serve, come serve invece la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, a dividere in due sottoclassi, reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive, l’universo del diritto. Tanto per cominciare l’espressione «diritto oggettivo» non designa una sottoclasse ma tutta intera la classe degli enti (idest le norme) che sono compresi nell’universo cui si riferisce la teoria del diritto. Quanto poi all’espressione «diritto soggettivo», essa designa una sottoclasse la cui sottoclasse contrapposta non è quella che si designa col nome di «diritto oggettivo» ma quella cui si attribuisce comunemente il nome di «obbligo» o «dovere» o simili. Da un lato, non esiste qualcosa che non sia diritto oggettivo; dall’altro, ciò che non è diritto soggettivo non è il diritto oggettivo ma l’obbligo. Con ciò non si vuol dire che la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico sia l’unica grande dicotomia giuridica, ma semplicemente che una grande dicotomia è sempre il prodotto di una classificazione, cioè di un’operazione logica, e non può nascere da una semplice analisi linguistica. Non è affatto escluso che vi siano altre grandi dicotomie nell’universo giuridico: sarei propenso a considerar tale la distinzione tra diritto consuetudinario e diritto statuito. Ma di ciò più oltre. Qui mi limito ad analizzare, dal punto di vista dei caratteri che contraddistinguono, secondo quel che si è detto nel paragrafo precedente, le grandi dicotomie, la distinzione tra diritto privato e diritto

pubblico. Anzitutto la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico è una distinzione totale, perché, una volta posta, quali che siano i criteri distintivi proposti per fondarla, non vi è ente dell’universo giuridico, sia esso rapporto, norma, istituzione (secondo le diverse teorie del diritto, che ho distinto altrove in teorie del diritto come rapporto, o come norma, o come istituzione), che non rientri nell’una o nell’altra delle partizioni. Non conosco teoria del diritto che abbia cercato di sottrarsi all’aut aut imposto dalla distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, escogitando un tertium genus. Si disputa intorno all’appartenenza di un istituto all’uno o all’altro: il che dipende sia dal modo diverso con cui può venir interpretato e configurato l’istituto sia dal diverso criterio adottato per la distinzione. Ma non si disputa intorno all’insufficienza della distinzione ad abbracciare tutti gli enti dell’universo che è oggetto del discorso. In altre parole, non vi è ente dell’universo giuridico che non appartenga né al diritto privato né al diritto pubblico. Possono esservi se mai enti che appartengono, secondo il punto di vista da cui vengono considerati, e al primo e al secondo. I casi incerti o di confine vengono risolti con l’espediente cui si ricorre spesso nel momento in cui una classificazione viene messa alla prova di fronte alla varietà degli enti reali: con l’aggiunta di un «quasi» («quasi-privato» e «quasi-pubblico»). In secondo luogo è principale. Nel senso che tende ad assorbire e a risolvere (o dissolvere) altre dicotomie, a costituire una specie di polo d’attrazione e magari di neutralizzazione di dicotomie tratte da campi affini o emergenti nello stesso campo, o meglio ancora una specie di centro di unificazione della inarrestabile produzione dicotomica di cui è fertile ogni teoria generale. È impossibile fare un elenco completo di tutte le dicotomie secondarie rispetto a cui la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico è diventata, nella teoria generale del diritto moderna, principale. Vi rientrano alcune grandi dicotomie classiche, come quella tra giustizia commutativa e giustizia distributiva, tra società di eguali e società di diseguali, tra il «neminem laedere» e il «suum cuique tribuere». Anche la grande dicotomia diritto naturale-diritto positivo può essere considerata, almeno in una certa interpretazione, come vedremo più oltre, una dicotomia – rispetto alla distinzione tra diritto privato e diritto pubblico – «rientrata». Nella teoria generale del diritto moderna la distinzione tra

diritto privato e diritto pubblico ha avuto la funzione di degradare, per così dire, grandi dicotomie classiche a dicotomie secondarie. La stessa funzione ha esercitato rispetto alle grandi dicotomie elaborate dalle scienze sociali, come quelle tra società e comunità, tra società di contractus e società di status, tra società organica e società meccanica (nel senso durkheimiano): in questo caso è avvenuto che grandi dicotomie, elaborate per un universo di enti diverso da quello giuridico, siano entrate nella teoria del diritto attraverso la porta della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, perdendo nel passaggio il loro rango. La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, infine, ha resistito bene anche di fronte alle dicotomie che via via sono andate sviluppandosi nello stesso campo della teoria del diritto: la contesa tra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come istituzione è stata ridotta a più giuste dimensioni quando si è cominciato a vedere nella prima una assolutizzazione del punto di vista privatistico, nella seconda una assolutizzazione del punto di vista pubblicistico intorno al diritto. L’unica dicotomia non soggiogata o solo apparentemente soggiogata, e proprio per questo sempre più importante, è quella tra norme di condotta e norme di organizzazione7: agli insiemi di norme di condotta appartiene certo il diritto penale che è considerato tradizionalmente pubblico; agli insiemi di norme di organizzazione appartiene certo il diritto dell’impresa (delle grandi imprese) che rientra nel diritto privato.

3. Uso storiografico e uso assiologico della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico Anche rispetto a quello che ho chiamato «l’uso storiografico» dei due termini di una grande dicotomia, la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico regge bene alla prova. In una visione storica del diritto, diritto privato e diritto pubblico compaiono spesso non più come le due parti del sistema giuridico, ma come i due momenti dell’evoluzione del diritto, come due fasi del diritto considerato nel suo processo. Si potrebbero fare osservazioni interessanti sul modo di adattare una dicotomia alla divisione di un processo storico in periodi, di servirsi dei risultati del dicotomizzare per stabilire un periodizzamento. Le grandi dicotomie sociologiche offrono ampia materia ad uno studio di questo genere. Ma per restare nel

campo della teoria del diritto, si osservi il passaggio della grande dicotomia che qui c’interessa a criterio di periodizzamento, o a indicatore di una tendenza di sviluppo: il che avviene quando si parla di tendenza alla privatizzazione e per converso alla pubblicizzazione, o addirittura di un momento prevalentemente privatistico e di un momento prevalentemente pubblicistico del diritto. Nel secolo scorso, nella misura in cui si fece strada la contrapposizione tra società civile e stato, e si mise in evidenza la priorità della prima sul secondo, e si affermò l’idea del progressivo deperimento dello stato, si preconizzò l’avvento del momento privatistico del diritto (in questo senso si deve interpretare dal punto di vista della teoria generale del diritto la tesi del passaggio dalla società di status alla società di contractus). In seguito vi fu una inversione di tendenza: già all’inizio del secolo opere sull’inesorabile declino delle istituzioni tradizionali del diritto privato richiamavano l’attenzione sul fenomeno contrario, cioè sulla progressiva pubblicizzazione del sistema giuridico. Deprecata come male o esaltata come bene, questa tendenza è stata riconosciuta unanimemente come uno dei caratteri del diritto contemporaneo. Che questa tendenza sia stata vista nel primato dei rapporti di subordinazione su quelli di coordinazione, o delle norme di organizzazione su quelle di condotta, o del momento dell’eteronomia su quello dell’autonomia, o della volontà collettiva sulla somma delle volontà individuali, e via discorrendo, non ha molta importanza rispetto all’opinione concorde sul carattere del processo, che contraddistinguerebbe l’evoluzione del diritto nel passaggio dallo stato liberale allo stato sociale, dallo stato tutore dell’ordine pubblico allo stato curatore e promotore del pubblico benessere. Non si vuol negare che siano state adoperate altre dicotomie per contrassegnare le grandi tappe dell’evoluzione del diritto, come, per esempio, quella tra norme negative e norme positive, tra norme di condotta e norme di organizzazione, tra norme astratte e ordini concreti. Ma spesso è accaduto che per dar loro maggior credibilità, queste dicotomie sono state ricondotte, quasi assimilate, alla grande dicotomia diritto privato-diritto pubblico (in ciò hanno mostrato il loro carattere di dicotomie secondarie), oppure non hanno retto alla prova di una pur superficiale verifica storica, mentre la contrapposizione tra tendenza alla privatizzazione e tendenza alla pubblicizzazione non ha perso nulla della sua rilevanza storica e del suo prestigio concettuale.

Strettamente connesso con l’uso storiografico è, come si è visto, l’uso assiologico dei termini delle grandi dicotomie, nel senso che spesso la distinzione in periodi va di pari passo con una teoria del progresso o del regresso storico o, in altre parole, il periodizzamento è anche l’indicatore di una certa processualità (o in una direzione positiva o in una direzione negativa). Chiunque abbia presente anche soltanto qualche frammento della letteratura sulla pubblicizzazione del diritto, sa che le valutazioni sul fenomeno, cioè se essa sia nella direzione del progresso storico o in quella del regresso, sono varie e discordanti. Si pensi ai due casi-limite della lunga tradizione liberale-liberista che va da Spencer a Hayek, che vede nel sopravvento del diritto pubblico sul diritto privato una delle manifestazioni più inquietanti del dispotismo moderno8; o della tradizione marxistacomunista, di cui si possono trovare esemplari genuini nei primi e più vigorosi teorici del diritto sovietico, che identifica (o scambia) il diritto privato col diritto borghese e pertanto vede nel superamento del diritto borghese cui tende il nuovo stato anche un superamento del diritto privato9. Le valutazioni, nell’una e nell’altra tendenza, sono opposte: ciò che è bene per l’una, e quindi indice di progresso, è male per l’altra, e quindi indice di regresso. E viceversa. Anche se non si ritiene che l’una forma di diritto sia destinata a soppiantare l’altra (il soppiantamento del diritto pubblico da parte del privato e del diritto privato da parte del pubblico è soltanto il limite ideale del processo) e si continui ad affermare che diritto privato e diritto pubblico sono destinati a convivere nello stesso sistema, altro è dire che il diritto pubblico ha la funzione di salvaguardare il diritto privato, di assicurarne l’efficacia, altro che il diritto pubblico tende a eliminare, a ridurre sino a farlo scomparire, il diritto privato. Una volta che ci si sia resi conto dell’uso assiologico della grande dicotomia, diventa più chiara e anche più plausibile l’osservazione ripetutamente fatta dal Kelsen intorno al carattere ideologico della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico10. Ciò che ha carattere ideologico, infatti, non è tanto la distinzione di per se stessa, quanto la carica valutativa che viene impressa ai due termini della distinzione, cioè proprio il fatto che nella distinzione opera o s’insinua un giudizio di valore, per cui ci si serve di quei termini non per distinguere due classi di eventi ma per contrapporre una classe di eventi da approvare a una classe di eventi da disapprovare. Prova ne sia che il Kelsen vede nella distinzione tra diritto privato e diritto pubblico «il

contrasto assoluto tra potere e diritto, o per lo meno tra potere statale e diritto», onde deriva la convinzione che «nell’ambito del diritto pubblico... il principio del diritto non sia in vigore nello stesso senso e con la stessa intensità con cui lo si trova nell’ambito del diritto privato»11. Da aggiungere che Kelsen, pubblicista, ha colto nella distinzione tra diritto privato e diritto pubblico soltanto la svalutazione del diritto pubblico, cioè l’ideologia privatistica, e non la svalutazione, storicamente non meno reale, del diritto privato, cioè l’ideologia pubblicistica.

4. Uso universalizzante Resta infine da verificare la fondatezza dell’ultima caratteristica che ho attribuito alle grandi dicotomie: quella per cui entrambe le sottoclassi hanno la tendenza a trasformarsi in classe universale respingendo l’altra fuori dell’universo e facendone così una classe vuota. Qui vale il riferimento alla contrapposizione tra una concezione privatistica e una concezione pubblicistica del diritto. Si richiami alla mente per un momento l’espediente, cui di solito si ricorre per compiere questa operazione: l’opposizione tra ciò che è reale e ciò che è apparente. Ebbene: concezione privatistica del diritto è quella per cui solo il diritto privato è vero diritto; concezione pubblicistica quella per cui è vero diritto solo il diritto pubblico. Il diritto pubblico per la prima, il diritto privato per la seconda, sono diritto apparente, diritto impropriamente detto, in una parola non-diritto. Il che è qualcosa di diverso dal dire che è diritto destinato a scomparire, secondo quel che argomenta chi fa della grande dicotomia un uso storiografico, o che è cattivo diritto, secondo quel che insinua chi ne fa un uso assiologico. Nel linguaggio giuridico uno dei modi più comuni per espellere dalla sfera del diritto tutto ciò che si ritiene non debba appartenervi è quello di assegnarlo alla sfera del fatto. Per chi intende «diritto» come un insieme di norme, cioè di proposizioni espresse o inespresse che permettono di qualificare comportamenti umani come leciti o illeciti, viene ad appartenere alla sfera del fatto ogni evento non qualificato né qualificabile da quelle norme. Orbene il processo di universalizzazione di una delle due parti della grande dicotomia avviene abitualmente attraverso la degradazione dell’altra parte a mero fatto. In una concezione privatistica del diritto i rapporti di diritto pubblico vengono

espulsi dalla sfera giuridica come rapporti di potere o di forza, che si sottraggono in quanto tali alle regole valide per i rapporti di diritto privato; in una concezione pubblicistica, i rapporti di diritto privato vengono estromessi come rapporti di mera convenienza o di opportunità, come rapporti sociali generici non protetti dal sistema normativo statale. Nella prima concezione il diritto pubblico viene sospinto nella sfera dell’extragiuridico; nella seconda, il diritto privato viene relegato nella sfera del pregiuridico. Nell’uno e nell’altro caso il vero diritto è uno solo. La scienza del diritto è stata dominata per secoli dalla concezione privatistica del diritto, per la quale sono diritto in senso proprio solo gli istituti tradizionali del diritto privato. Di questa concezione uno dei momenti culminanti è stata la dottrina del contratto sociale. Il contrattualismo, come aveva ben visto Hegel nel criticarne la legittimità12, si può considerare come l’estrema conseguenza della tendenza prevalente a pensare tutto il diritto, e quindi anche il diritto pubblico, attraverso una delle categorie fondamentali del diritto privato, come il supremo tentativo, mi si permetta l’espressione, di privatizzare lo stato. Via via che si affermano, invece, le teorie statualistiche ed imperativistiche, per cui il diritto è comando del sovrano, cioè di colui che detiene il monopolio della forza in una determinata società, il diritto privato viene ad essere considerato diritto solo in quanto è diritto pubblico, il che val quanto dire che tutto il diritto è pubblico, e la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico è soltanto una distinzione di comodo che in realtà non distingue nulla. Ciò che i giuristi continuano a chiamare diritto privato non sarebbe altro che una branca del diritto pubblico. Anziché privatizzare lo stato, si pubblicizza l’individuo. Anziché guardare allo stato dal punto di vista dell’autonomia degl’individui, si guarda all’individuo dal punto di vista dell’autorità dello stato. Un esempio ancor più calzante dell’influenza che ha esercitato nella teoria del diritto la prevalenza dell’immagine privatistica o di quella pubblicistica del diritto, è il contrasto tra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come istituzione. Com’è noto, la teoria istituzionale è nata, tanto in Francia quanto in Italia, da giuristi provenienti dal campo del diritto pubblico per i quali il diritto si presentava, più che come insieme di regole per lo stabilimento di rapporti di convivenza, come insieme di regole per il coordinamento di azioni convergenti al raggiungimento di un fine, cioè come strumento di organizzazione in vista

di uno scopo comune13. La teoria del diritto come rapporto tra due soggetti aveva tenuto il campo sino a che la teoria generale del diritto era stata modellata sul diritto privato: la teoria dello stato come persona giuridica, che aveva permesso l’applicazione del concetto di rapporto giuridico al rapporto tra individui e stato, era stata un tentativo di costruire la dogmatica del diritto pubblico a immagine e somiglianza di quella del diritto privato. Quando entrarono in lizza i pubblicisti, sempre più insofferenti dell’antico giogo, l’immagine del diritto come rapporto intersoggettivo fu rapidamente offuscata e sostituita da quella dell’istituzione: per chi aveva a che fare con la realtà dello stato il fenomeno più imponente di cui si doveva tener conto era l’apparato organizzativo, un insieme di regole la cui funzione non era tanto quella di dividere parte da parte, ma di mettere in relazione le varie parti col tutto. Oggi sappiamo benissimo che sia la teoria del rapporto sia quella dell’istituzione sono teorie riduzionistiche. Qui si è voluto soltanto mostrare la relazione tra questa operazione riduzionistica e la presenza sempre incombente della grande dicotomia. Non si insisterà mai abbastanza, infatti, che la sfera del diritto privato e la sfera del diritto pubblico sono dominate da due immagini diverse di diritto. Per i privatisti il diritto è una specie di arbitro che è chiamato a dirimere conflitti; per i pubblicisti, il diritto assume piuttosto la figura del comandante che coordina gli sforzi della sua truppa per vincere la battaglia. Fuor di metafora, per gli uni, il diritto è un insieme di regole di convivenza, per gli altri, un insieme di regole per indirizzare azioni altrimenti disperse verso uno scopo comune. Il contrasto tra queste due immagini del diritto spiega perché la ricerca di un criterio di distinzione tra diritto privato e diritto pubblico sia sempre così difficile tanto da sembrare disperata. Non ci si accorge che nella distinzione si scontrano non due specie di un unico genere ma due modi diversi di concepire lo stesso oggetto, o, se si vuole, due punti di vista diversi. Tanto è vero che a chi si mette dal punto di vista del diritto come regola di convivenza riesce estremamente ostico assegnare il diritto penale al diritto pubblico, così come diventa impossibile, per chi si mette dal punto di vista del diritto come organizzazione, collocare il diritto di famiglia nel diritto privato.

5. Se la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo sia una grande dicotomia Ho detto all’inizio che in un universo di discorso può esistere più di una grande dicotomia. Non appartiene alle caratteristiche di una grande dicotomia di essere l’unica possibile in un determinato universo. Esistono altre grandi dicotomie nell’universo del discorso giuridico? Quel che è stato detto sin qui a proposito della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico dovrebbe servire, se non m’inganno, a dare una risposta a questa domanda. Si tratta infatti di sottoporre altre distinzioni alla stessa prova cui abbiamo sottoposto la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Se la prova dà gli stessi risultati, si può annoverarla tra le grandi dicotomie. Come ho già accennato, credo che almeno un’altra distinzione potrebbe superare la prova: quella tra diritto consuetudinario e diritto statuito. Si pensi alla divisione della storia del diritto in epoche di diritto consuetudinario e diritto statuito, all’evoluzione degli ordinamenti giuridici giudicata in base al parametro della graduale estinzione del diritto consuetudinario e al graduale predominio del diritto statuito (ciò che ho chiamato «uso storiografico» della grande dicotomia). Si pensi anche alle annose e ricorrenti dispute giunte sino a noi intorno alla superiorità della consuetudine sulla legge come modo di regolare i rapporti sociali (quello che ho chiamato «uso assiologico»), e il conseguente miraggio che la fine dello stato coincida con la scomparsa non tanto del diritto quanto del diritto legislativo e con la sostituzione del diritto posto dall’autorità pubblica con un insieme di regole osservate, come quelle consuetudinarie, spontaneamente14. A questo punto ecco che si è verificato anche per questa distinzione quel processo di universalizzazione di una delle due sottoclassi in cui ho visto l’ultimo e più rilevante carattere delle grandi dicotomie: il diritto consuetudinario non è più una parte dell’universo giuridico ma finisce per identificarsi col diritto stesso, con l’unico diritto possibile in una società giunta alla compiutezza del suo svolgimento. Infine, questa distinzione è – insieme con la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico – una delle matrici della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo. Che della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo non si sia

sinora parlato, può sembrare strano. Ma ciò dipende dal fatto che i due termini della distinzione – e soprattutto il primo – sono piuttosto ambigui e non sono immediatamente evidenti come i termini delle distinzioni di cui si è sin qui discorso. Io ritengo anzi che uno dei modi per scioglierne l’ambiguità sia proprio quello di servirsi di queste, di trarre giovamento dalla loro maggiore perspicuità. La mia tesi è che la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, quando è usata in senso ontologico e non deontologico, cioè per distinguere due specie di diritto e non il diritto ideale dal diritto reale, sia quasi sempre un’interpretazione irrigidita e quindi quasi una duplicazione, ora, della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, ora, della distinzione tra diritto consuetudinario e diritto statuito. Che in molti contesti, anche fra i più noti, diritto naturale e diritto consuetudinario mal si distinguano e appaiano reversibili l’uno nell’altro, oppure il diritto naturale, nella contrapposizione al diritto positivo, faccia per così dire le veci, o abbia la stessa funzione, del diritto consuetudinario, è questione che meriterebbe più lungo discorso. Ma è già sufficientemente illuminante un celebre testo di Pascal: «J’ai grand peur que cette nature ne soit elle-même qu’une première coutume, comme la coutume est une seconde nature»15. Quando Antigone invocava «le leggi non scritte», si appellava al diritto naturale, come sulla scorta di Aristotele interpretarono abitualmente i giusnaturalisti, oppure al diritto tramandato, come intese Hegel?16 Tanto il diritto romano nella tradizione del diritto comune quanto la common law inglese furono accolti e giustificati dai giuristi come diritto la cui validità dipende tanto dalla autorità della tradizione quanto dall’essere diritto della ragione. Lo scambio dei due argomenti, quello della legittimità tradizionale e quello della legittimità razionale, è frequentissimo e, si direbbe, innocuo. Il diritto romano è un diritto tramandato la cui validità riposa sulla sua razionalità allo stesso modo che la common law è un diritto della ragione la cui validità riposa sulla tradizione. Le parti si potrebbero invertire. Nel diritto internazionale, diritto naturale e diritto consuetudinario si sono scambiati, secondo i tempi e gli autori, il ruolo di fonte primaria delle norme generali dell’ordinamento. E ancora recentemente la polemica contro il diritto positivo è stata portata innanzi in nome del diritto spontaneo, cioè in nome di un attributo del diritto, la «spontaneità», che sin dall’apparire della distinzione tra diritto secondo

natura e diritto secondo convenzione era stato considerato come un carattere del primo17. Analoghe considerazioni si possono fare per quel che riguarda la sovrapposizione della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo alla distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Anche in questo caso il materiale storico è così abbondante che l’argomento meriterebbe una trattazione a parte. Una delle raffigurazioni più costanti del diritto naturale è quella che ce lo rappresenta come il diritto che regola i rapporti tra gli individui singoli e isolati l’uno rispetto all’altro nello stato di natura, cioè nello stato in cui non esiste ancora un diritto pubblico. Gli istituti tipici dello stato di natura sono la proprietà, il contratto e in genere anche la famiglia: sono gli istituti del diritto privato. Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile avviene con l’istituzione degli organi del potere pubblico, incaricati di far rispettare, ricorrendo in ultima istanza alla forza, gli obblighi assunti dagl’individui nella società prestatuale. Il diritto positivo per eccellenza è il diritto pubblico, tanto che non si riuscirebbe a distinguere nella teoria giusnaturalistica tradizionale il processo di positivizzazione del diritto da quello della sua statualizzazione. La riduzione del diritto naturale a diritto privato e rispettivamente del diritto positivo a diritto pubblico è espressamente formulata da Kant: «La divisione del diritto naturale non risiede... nella distinzione di diritto naturale e di diritto sociale, ma in quella di diritto naturale e di diritto civile, di cui il primo è chiamato diritto privato, il secondo diritto pubblico»18. Nel processo di monopolizzazione del diritto positivo da parte dello stato tutto il diritto positivo è diritto pubblico, anzi il diritto è vero diritto, cioè ius perfectum, solo in quanto è pubblico. Che poi questo diritto, che è positivo in quanto pubblico, regoli anche rapporti tra privati non toglie nulla al suo carattere di diritto pubblico, dal momento che quei rapporti tra privati diventano rapporti veramente giuridici solo in quanto ricevono protezione attraverso gli organi dello stato. Nella teoria generale del diritto questo processo di eliminazione del diritto privato come diritto prestatuale è avvenuto attraverso l’espulsione delle norme primarie dall’ordinamento giuridico. Compiuto questo processo, il recupero del diritto privato come diritto prestatuale o naturale non poteva avvenire se non attraverso la riscoperta del «diritto dei privati»19. La contrapposizione del diritto dei privati al diritto pubblico (che include anche il diritto privato) è una delle

tante forme in cui è stata espressa nei secoli la contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo.

6. La distinzione tra diritto naturale e diritto positivo come dicotomia derivata Se tutto ciò è vero, la dicotomia diritto naturale-diritto positivo sarebbe, contrariamente a quel che si crede, una dicotomia derivata, non originaria, derivata nel senso che è sempre risolvibile nell’una o nell’altra delle due grandi dicotomie, se non in tutte e due contemporaneamente. Anche della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo si è fatto un uso storiografico (stato di natura e stato civile come due momenti del processo storico), un uso assiologico (il diritto naturale ha più valore del diritto positivo o viceversa) e un uso universalizzante (solo il diritto naturale, o rispettivamente il diritto positivo, è il vero diritto). Ebbene: il passaggio dallo stato di natura allo stato civile può essere interpretato ora come passaggio da una società regolata da norme allo stato diffuso e osservate spontaneamente a una società regolata da norme poste da un’autorità a ciò delegata, oppure da una società semplice composta di individui autonomi ed eguali che regolano con patti i loro rapporti di convivenza a una società complessa in cui i vari enti che la compongono sono posti in rapporto gerarchico e tutti quanti ordinati autoritativamente a un fine comune. Molti degli argomenti con cui viene sostenuto il primato del diritto naturale sul diritto positivo sono identici agli argomenti con cui si difende la superiorità assiologica del diritto spontaneo sul diritto riflesso, o del diritto tra eguali sul diritto tra diseguali. E viceversa molti degli argomenti del positivismo giuridico sono tratti dall’arsenale dei fautori del diritto statuito contro il diritto consuetudinario o del diritto come ordinamento coattivo fondato sul monopolio della forza contro lo pseudo-diritto fondato sul principio della reciprocità tra individui o gruppi eguali. Infine si consideri l’uso universalizzante di uno dei due termini della distinzione nella formula pregnante del positivismo giuridico: «Non esiste altro diritto che il diritto positivo». Con questa formula in realtà si vuol dire che non esiste altro diritto che il diritto legislativo, cioè il diritto imposto dai poteri pubblici dello stato, cioè che il diritto positivo è diritto

statuito (non più consuetudinario) e pubblico (non più privato). Tutto ciò non esclude che la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo abbia altri significati oltre a quelli qui messi in rilievo, non sia soltanto il travestimento delle due grandi dicotomie. Quel che premeva in questa sede non era tanto un’analisi dei vari significati della fatidica distinzione, quanto la conferma che se ne poteva trarre di alcuni caratteri delle due grandi dicotomie qui esaminate.

Note 1

Mi riferisco all’articolo precedente Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in questo stesso volume. Ma vedi anche Sulla nozione di società civile, in «De Homine», 1968, n. 24-25, pp. 1936. 2 Richiama l’attenzione, sulle grandi dicotomie del pensiero sociologico, P. Farneti, Theodor Geiger e la coscienza della società industriale, Giappichelli, Torino 1966, pp. 230 sgg. 3 Per chi ne voglia sapere di più rinvio a P.F. Lazarsfeld, L’algebra dei sistemi dicotomici, in R. Boudon-P.F. Lazarsfeld, L’analisi empirica nelle scienze sociali, vol. II, Il Mulino, Bologna 1969, pp. 353-84. 4 Ho illustrato questa matrice moschiana nel saggio Mosca e la teoria della scienza politica, ora in Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Bari 1969, p. 209. 5 Alla quale è dedicata una delle sue opere maggiori, De la division du travail social (1893), che si può leggere in traduzione italiana, La divisione del lavoro sociale, a cura di A. Pizzorno, Edizioni di Comunità, Milano 1962. 6 Ch. Perelman-L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation, vol. II, PUF, Paris 1958, pp. 55661 (trad. it., Trattato dell’argomentazione, Einaudi, Torino 1966, pp. 437-41). 7 Sulla quale mi sono soffermato più a lungo nell’articolo Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, già citato. 8 Per Hayek si vedano i due articoli The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico», XXXI, 1966, pp. 601-18, e Ordinamento giuridico e ordinamento sociale, in «Il Politico», XXIII, 1968, pp. 693723. 9 Particolarmente interessante a questo proposito P.I. Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello stato, a cura di U. Cerroni, Einaudi, Torino 1967, pp. 229 sgg. e 246 sgg. Cfr. sul tema U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969. 10 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952 ma 1967, pp. 134-36; La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. 313-16. 11 La dottrina pura del diritto, cit., p. 314. 12 Sin dall’opera giovanile Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, ed. Lasson, vol. VII, p. 405 (trad. it., Scritti di filosofia del diritto, a cura di A. Negri, Laterza, Bari 1962, p. 110). Per ulteriori particolari rinvio al mio articolo Hegel e il giusnaturalismo, in «Rivista di filosofia», XLVII, 1966, pp. 387-89. 13 Questa prospettiva è evidente nell’ormai famoso saggio di Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze 19452.

14

Questa corrispondenza tra l’estinzione dello stato e l’osservanza spontanea delle norme sociali si trova in alcuni passi di Lenin: «Lo stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato il principio: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch’essi lavoreranno volontariamente secondo le loro capacità» (Stato e rivoluzione, in Opere scelte, vol. II, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948, p. 192. Cfr. anche a p. 196). 15 Pascal, Pensées, ed. della «Bibliothèque de la Pléiade», p. 1121 (Pensée n. 120). 16 Per Aristotele cfr. Retorica, 1373d e 1375a. A proposito del conflitto che pone Antigone di fronte a Creonte Hegel dice: «La morte, a cui in caso di guerra il governo espone l’individuo, è dunque il punto in cui la legge umana viene a incontrarsi con la legge familiare o divina, dacché a quest’ultima è riservato il culto dei morti» (Fenomenologia dello Spirito, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1936, p. 15 in nota). 17 Mi riferisco alla nota teoria di R. Ago, Diritto positivo e diritto internazionale, in Scritti di diritto internazionale in onore di T. Perassi, vol. I, Giuffrè, Milano 1957, pp. 3-65. 18 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, p. 422. 19 È di rito la citazione del vecchio saggio di W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», n.s., IV, 1929, pp. 43-124. Ma si vedano successivamente gli studi di Salvatore Romano, Ordinamenti giuridici privati, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», V, 1955, pp. 149-331; Autonomia privata, ivi, VI, 1956, pp. 801-922, sino al corso universitario, Ordinamento sistematico del diritto privato, vol. I, Morano, Napoli, s.d.

VIII. Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano

1. La fortuna postuma della dottrina di Santi Romano La teoria dell’istituzione di Santi Romano – a venticinque anni dalla morte e a cento anni dalla nascita del suo autore – sembra godere in questi ultimi anni di una particolare fortuna. Sono uscite recentemente e nello stesso tempo le traduzioni francese e tedesca de L’ordinamento giuridico (1918), la sua opera maggiore di teoria generale del diritto1. Nella Introduzione alla traduzione francese, Ph. Franceskakis scrive: «Tel quel, cet apport de Santi Romano ne semble pas avoir vieilli. Mieux, il parait épouser le temps présent encore mieux que le sien» (p. VII). Nella Premessa alla traduzione tedesca Roman Schnur afferma: «Jedenfalls kann man das “institutionelle Rechtsdenken” in der europäischen Rechtswissenschaft... nur unzulänglich erörtern, wenn man nicht vor allem dieses Werk von Santi Romano in die Diskussion einbezieht» (p. 6). Nel 1963 era uscita la traduzione spagnola con un’ampia e documentata Introduzione di Sebastián Martín-Retortillo2, il quale, dopo aver detto che L’ordinamento giuridico è un libro fondamentale che segna una pietra miliare nello sviluppo del pensiero giuridico contemporaneo, lo presenta come un’opera precorritrice nella corrente del pluralismo giuridico contro la concezione monistica che riduce il diritto al solo diritto statuale, più in generale contro il positivismo giuridico nella sua accezione più stretta. Non accade frequentemente ad un’opera scritta in una lingua così poco diffusa come l’italiano di essere tradotta in tre delle maggiori lingue universali; e quando ciò accade, è segno di una considerazione e di una fortuna assolutamente eccezionali. Per quel che riguarda il mondo di lingua inglese, alla mancanza di una traduzione sopperisce l’ampia e accurata esposizione del

pensiero di Santi Romano, fatta da un giurista di fama come Julius Stone in una delle sue ultime opere3. Eppure sino a qualche anno fa, l’eco della dottrina di Romano era stata circoscritta entro il ristretto ambito della scienza giuridica italiana, che dal suo primo apparire ne aveva discusso le tesi principali e aveva accolto con favore la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici contro la pretesa esclusività del diritto statuale. Per molti anni, quando fuori d’Italia si discuteva della teoria dell’istituzione, il riferimento obbligato era alla dottrina di Hauriou e dei suoi seguaci. L’istituzionalismo si è identificato per anni con la dottrina francese dell’istituzione. Non vorrei sbagliare, ma l’unico grande giurista non italiano che si sia accorto allora di Romano fu Carl Schmitt, il quale nel saggio I tre tipi di pensiero giuridico (i tre tipi sono, com’è noto, il normativismo, l’istituzionalismo e il decisionismo) riservò un posto d’onore, tra i fautori dell’istituzionalismo che faceva risalire esattamente ad Hauriou, al nostro Romano, di cui disse che aveva «giustamente affermato che non è corretto parlare del diritto italiano o francese, riferendosi soltanto ad una somma di regole, mentre in verità è l’organizzazione complessa e differenziata dello stato italiano o francese, in quanto ordinamento concreto, a produrre tale diritto»4. La teoria dell’istituzione ebbe intorno al ’30 grande risonanza in Francia, quando vi si richiamarono due giuristi di diversa tendenza come Renard e Gurvitch, ma in tutti i libri e articoli dedicati all’argomento che ho potuto consultare non ho trovato alcuna traccia dell’opera di Romano5. Nel 1931 le «Archives de philosophie du droit et de sociologie juridique» iniziarono le loro pubblicazioni con un fascicolo dedicato alla teoria dell’istituzione dove Romano non è nominato neppure una volta6. Nel 1933 il costituzionalista inglese Ivor Jennings faceva conoscere la teoria dell’istituzione in Inghilterra, in un paese in cui negli stessi anni ad opera di Cole ed Hobson venivano diffuse le teorie del «guild-socialism», favorevoli a un’articolazione pluralistica dello stato, e il pluralismo era diventato popolare attraverso l’opera diffusissima di Harold Laski, in un paese quindi in cui la teoria istituzionalistica poteva trovare un uditorio ben disposto. Ma gli autori cui si riferiva lo studioso inglese erano ancora Hauriou e Renard, stranamente non Gurvitch, e meno stranamente non Romano7. Pur tenendo il debito conto della tradizionale ignoranza della dottrina giuridica francese ed inglese nei riguardi della italiana, bisogna riconoscere

che non doveva essere tanto naturale per uno straniero andare a cercare una teoria antistatalistica in Italia negli anni dell’imperante fascismo. Nonostante il prestigio di cui godette sempre Romano come giurista, la sua teoria generale del diritto, proprio perché veniva colta nel suo aspetto prevalente di teoria del pluralismo, non poteva essere approvata da un regime consacrato al culto dello stato. Sintomatico il fatto che quando nel 1940 furono pubblicati i quattro volumi degli studi in onore, Giuseppe Bottai, allora ministro dell’educazione nazionale del governo fascista, vi premise alcune pagine per sostenere che la crisi dello stato da cui aveva preso le mosse la dottrina pluralistica era stata ormai superata dal fascismo e che ad ogni modo gli esempi di stato pluralistico di cui si era servito il Romano, la società medioevale e la società europea dei primi anni del secolo, non avevano niente a che vedere con lo stato corporativo che «rappresenta l’opposto delle situazioni, per le quali non può parlarsi di pluralità»8. L’ex sindacalista rivoluzionario, diventato teorico dello stato fascista, Sergio Panunzio, aveva già detto del resto molto chiaramente alcuni anni prima che, se era vero che la teoria del pluralismo era un episodio legato alla nascita del sindacalismo, era ormai un episodio superato da quando il sindacalismo puro si era trasformato in sindacalismo di stato e Sorel era stato definitivamente sepolto da Mussolini9. Con ciò non si vuol dire che il pluralismo fosse scomparso dalla scena: il fascismo era culturalmente troppo sterile per poter imporre un orientamento piuttosto che un altro. Basterà ricordare lo studio appassionato che dedicò alla dottrina di Romano e in particolare al problema del pluralismo nel 1936 e nel 1939 Giuseppe Capograssi10, che aveva iniziato le sue riflessioni sullo stato, sulla crisi dell’autorità e sulla democrazia diretta (cito tre titoli delle sue opere giovanili)11, cioè su temi che lo avrebbero portato al pluralismo, negli stessi anni in cui si andava diffondendo l’opera di Romano. Ma si trattava pur sempre di un episodio del dibattito interno alla scienza giuridica italiana; e poi, per quanto il fascismo fosse culturalmente sterile, non era tanto inetto nella politica culturale da non essere riuscito a porre il nostro paese in uno stato d’isolamento, che aveva avuto per conseguenza un certo provincialismo da parte nostra e per la legge del contraccambio un certo disinteresse per le cose nostre da parte degli altri paesi. Ora che questo isolamento è stato rotto e che l’opera di Romano sta

entrando nella circolazione del pensiero giuridico universale, può valer la pena di tentarne una interpretazione e una valutazione complessiva, allo scopo di mettere in evidenza che cosa essa rappresenti nei suoi due aspetti di «teoria» e di «ideologia».

2. È necessario distinguere la teoria dell’istituzione dalla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici Nella dottrina di Santi Romano12 sono contenute due teorie che è bene tenere distinte, perché non costituiscono, checché se ne dica, un tutto unitario. Queste due teorie sono: la teoria del diritto come istituzione che si contrappone alla teoria normativa e la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici che si contrappone alla teoria monistica o statualistica. Gli studiosi che si sono sinora occupati della dottrina di Romano sono stati tanto avvezzi a considerarla come un tutto e a discutere le due teorie congiuntamente da non rendersi conto che l’una è indipendente dall’altra. Non vi è nessun nesso necessario fra teoria dell’ordinamento e pluralismo, così come fra teoria della norma e monismo. Non vi è nessuna incompatibilità fra teoria dell’ordinamento e monismo, così come fra teoria della norma e pluralismo. Anche se di fatto le più note teorie istituzionalistiche sono anche pluralistiche, la congiunzione fra istituzionalismo e pluralismo nonché quella fra normativismo e monismo non è una regola. Augusto Thon, il principe dei normativisti, è anche un pluralista. Il principe degli istituzionalisti, Maurice Hauriou, la fonte principale se pur presto abbandonata di Romano13, non ha alcun interesse per le conseguenze pluralistiche della sua dottrina. Per restare in Italia: Benedetto Croce è un pluralista convinto, ma se dovessi rispondere alla domanda se fosse un istituzionalista o un normativista sarei in imbarazzo. Mi preme sottolineare la presenza nella dottrina romaniana di due teorie distinte perché, sia per la comprensione teorica sia per la interpretazione ideologica del di lui pensiero, ritengo che la seconda sia più importante della prima. E non a caso è anche quella che nell’opera del 1918 è di gran lunga la più elaborata14. Per entrare subito in argomento, ritengo, non da oggi, che la teoria del diritto come istituzione ubbidisse a

un’esigenza giusta ma il bersaglio, e quindi anche l’esito finale fosse, a ben guardare, sbagliato. Nonostante il riferimento polemico alla «règle de droit» di Duguit, ripreso attraverso Hauriou anche da Romano15, il padre dell’istituzionalismo non si era mai proposto come avversario principale il normativismo: dalla tradizione del pensiero giuridico tomistico, il maestro di Tolosa, e ancor più il suo fedele discepolo Georges Renard16, avevano derivato una invincibile diffidenza verso il volontarismo, si trattasse della volontà dall’alto che si esprime nella legge dello stato, o della volontà dal basso che si esprime attraverso il contratto. Ma il normativismo, come era ormai evidente nel pensiero del Kelsen, che si veniva formando proprio in quegli anni, non era necessariamente connesso con il volontarismo, anzi se ne veniva staccando energicamente. Come si verrà scoprendo in seguito, teoria dell’ordinamento e teoria della norma non erano affatto in contrasto fra loro: anzi, solo attraverso un recupero e un approfondimento della teoria normativa, cioè attraverso il riconoscimento dell’importanza delle norme di organizzazione accanto a quelle di condotta, o per usare l’espressione hartiana, delle norme secondarie accanto e oltre le norme primarie, si sarebbe risolta la maggior difficoltà della dottrina istituzionale, derivante dal fatto che il concetto di diritto era stato definito risolvendolo nel concetto di organizzazione, ma il concetto di organizzazione non era stato ultimamente chiarito. Il concetto di organizzazione era rimasto non chiarito, perché l’unico modo di fare un passo avanti nella sua determinazione era di ricorrere alle norme di secondo grado, cioè a quelle norme che regolano il riconoscimento, la modificazione, la conservazione delle norme di primo grado, e che fanno di un insieme di rapporti intrecciantisi fra individui conviventi un tutto ordinato, appunto un ordinamento, o un sistema, se pure non nel senso di un sistema logico o etico ma nel senso kelseniano del sistema dinamico, mentre era chiaro che le norme che aveva in mente Romano quando respingeva la teoria normativa erano le norme primarie. Una volta accolta l’idea che dal punto di vista giuridico, che era poi il punto di vista da cui Romano non voleva assolutamente allontanarsi, un’organizzazione è fatta anch’essa di norme, l’istituzione, anziché essere un sistema pre-normativo, come l’intende ripetutamente e insistentemente Romano, è un sistema normativo complesso17.

3. La teoria istituzionale è meno elaborata di quella pluralistica Che la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici sia più elaborata di quella istituzionale appare a chiunque abbia letto e meditato L’ordinamento giuridico. Delle due parti in cui è diviso il libro, la seconda dedicata al secondo tema è non solo ben più ampia della prima ma anche tecnicamente più raffinata18. Confesso poi che le pagine sull’istituzione mi hanno sempre lasciato non del tutto soddisfatto. Per un verso, come è stato più volte osservato, la parola-chiave «organizzazione» non viene mai chiaramente definita; per un altro verso, ora il diritto viene definito come «organizzazione», cioè risolto totalmente in un’altra entità, che non viene definita, e che spesso viene denominata con altre parole, come «struttura»19, «posizione»20, «sistema»21, ora l’organizzazione viene considerata come «lo scopo caratteristico del diritto»22. Ma se l’organizzazione non è il diritto ma lo scopo del diritto, che cosa è allora il diritto? In altre parole, il diritto è organizzazione o è qualche cosa che sta dietro e prima dell’organizzazione? Ma se sta prima dell’organizzazione, non ne segue che il diritto viene prima... del diritto? Non vorrei sbagliarmi, ma ho l’impressione che questa difficoltà sia una spia della mancata risoluzione del concetto di organizzazione in quello di sistema normativo (intendo del concetto «giuridico» di organizzazione, cioè del concetto di organizzazione cui intende riferirsi esclusivamente Romano)23. In realtà ciò che viene prima dell’organizzazione o è qualche cosa di pregiuridico – come potere, volontà concorde, idea direttiva, forze sociali, ecc. – e allora è giocoforza immergere il diritto nella società da cui nasce (ma è proprio l’operazione che Romano si rifiuta di compiere), oppure è e non può essere altro che il sistema normativo complesso, di cui ho parlato. Ma se è così lo sbocco dell’istituzionalismo giuridico è ancora una volta il normativismo se pure un normativismo più consapevole e più progredito. Bisogna anche aggiungere che con la sua teoria dell’istituzione Hauriou, a differenza di Romano, non si era affatto proposto di dare una definizione del diritto. Il suo scopo era un altro: era quello di mostrare che un sistema giuridico non nasce dalla volontà ma da un fatto sociale com’è l’organizzazione di un potere attorno ad un’idea. Hauriou aveva bene in

mente che non si poteva comprendere che cosa è un’istituzione senza imbattersi nel fenomeno pregiuridico, sociale o politico che sia, del «potere»24. L’aver voluto identificare il concetto di diritto nel concetto di istituzione allo scopo di fornire un concetto giuridico e non sociologico di diritto, anziché fare dell’istituzione il fatto costitutivo del diritto (e in quanto tale pregiuridico), condusse Romano, a mio parere, in difficoltà che solo la teoria del diritto dopo Romano avrebbe risolto.

4. La teoria pluralistica è indipendente da quella istituzionale La seconda parte del libro è esente da queste difficoltà. Ma, come ho detto, la teoria pluralistica è logicamente e anche storicamente indipendente dalla teoria istituzionale. Il riconoscimento di una molteplicità di ordinamenti oltre quello dello stato non dipende dalla definizione del diritto come norma o come istituzione, ma dai caratteri specifici che vengono attribuiti alla norma giuridica o alla istituzione giuridica per distinguerle rispettivamente dalla norma non giuridica e dalla istituzione non giuridica. Se Romano può coerentemente sostenere che lo stato non è il solo ordinamento giuridico, ma è «una specie del genere diritto»25, ciò dipende dal non aver attribuito all’istituzione, che egli identifica con l’ordinamento giuridico, caratteri come quello della coazione o della sanzione istituzionalizzata che sono propri di quell’ordinamento giuridico cui siamo soliti dare il nome di stato. Non si può confondere l’antinormativismo con l’antistatalismo: la confusione nasce soltanto se si risolve il concetto di norma giuridica in quello di norma statale, risoluzione che, per quanto lecita e di fatto frequentemente compiuta, non è necessaria. Non si riesce a vedere infatti come, partendo dalla norma, si debba necessariamente arrivare alla dottrina monistica se non si parte dal presupposto tutt’altro che inevitabile che non vi siano altre norme giuridiche che le norme statali. Credo di non aver bisogno di ricordare che lo stato moderno – quello stato moderno la cui crisi orienta il Romano verso il pluralismo – nasce da due processi paralleli, dall’unificazione di tutti gli ordinamenti prestatali o antistatali nell’unico ordinamento dello stato accentrato e accentratore, e dall’unificazione di

tutte le fonti del diritto nell’unica fonte del diritto statale per eccellenza, la legge. Di qua risulta che si può sostenere la non-statualità del diritto tanto facendo riemergere gli ordinamenti a poco a poco assorbiti dallo stato moderno, quanto prendendo in considerazione tipi di norme diverse da quelle poste dalla volontà dominante ad esclusione di altre in un determinato territorio e fatte valere mediante la coazione fondata sul monopolio della forza fisica. Probabilmente, rendendosi conto della debolezza di una dimostrazione fondata su una ri-definizione, cioè sulla ridefinizione del diritto come istituzione, dal momento che in una ri-definizione c’è sempre un elemento di arbitrio, Romano precisò che la tesi monistica era in aperto contrasto non solo con il «concetto astratto di diritto», ma anche «con la storia e con la vita giuridica, quale si svolge nella realtà»26. Era dunque tanto convinto della storicità della sua teoria da riconoscere che la teoria contraria, pur non essendo teoricamente fondata, era pur sempre il prodotto di un’epoca che aveva visto l’ordinamento-stato prendere il sopravvento su tutti gli ordinamenti inferiori, e pertanto nell’epoca in cui sorse e che ora volgeva al termine, non era in «una troppo palese e stridente contrapposizione con la realtà»27. Il successo della teoria pluralistica dipese dal fatto che essa dava una rappresentazione della realtà sociale più soddisfacente, proprio nel momento in cui il ribollimento delle forze sociali, seguito alla pressione della «questione sociale», rischiava di far saltare – e in taluni paesi questo salto era già avvenuto – il coperchio dello stato. Romano coglieva benissimo questa realtà quando osservava che, se negli ultimi secoli vi era stato un continuo processo di statalizzazione della società, al tempo presente ci si trovava presumibilmente di fronte al processo inverso, che si potrebbe chiamare di socializzazione dello stato. Diceva: «La così detta crisi dello stato moderno implica per l’appunto la tendenza di una serie grandissima di gruppi sociali a costituirsi ciascuno una cerchia giuridica indipendente»28.

5. Il rapporto fra teoria e ideologia in generale, con particolare riguardo alla dottrina di Romano Che in ogni teoria si possa o addirittura si debba distinguere la funzione

esplicativa che è la funzione palese da un’eventuale funzione latente, prescrittiva, o come si dice spesso ideologica (con una parola che preferirei non usare perché ha di solito una forte connotazione negativa), in altre parole, il contenuto ontologico da quello assiologico, è cosa nota. Altrettanto noto, e comunemente accettato, che nel compiere questa difficile operazione di dissezione bisogna procedere con molta cautela, per la semplice ragione che non è sempre (forse non è mai) vera la proposizione che «tale la teoria, tale l’ideologia», ma è quasi sempre vera la proposizione contraria, secondo cui la medesima teoria può avere interpretazioni ideologiche diverse, e la stessa ideologia può essere rivestita di forme teoriche anche opposte. Per fare subito l’esempio che ci tocca da vicino, una teoria pluralistica può nascondere tanto un’ideologia rivoluzionaria, se la pluralità degli ordinamenti viene interpretata come un episodio della progressiva liberazione degl’individui e dei gruppi dalla oppressione dello stato, quanto un’ideologia reazionaria, se viene interpretata come un episodio della disgregazione e della frantumazione dello stato e quindi come il prodromo di una imminente e inarrestabile anarchia. Dietro la concezione sociale del diritto possiamo trovare tanto un Gierke quanto un Gurvitch o addirittura Proudhon, così come dietro la concezione monistica si possono nascondere tanto un Hegel quanto un Marx. Parimenti, un’ideologia rivoluzionaria può scoprire buoni argomenti sia in una teoria monistica sia in una pluralistica, secondo che per spiegare la società esistente e fare previsioni favorevoli all’avvento di un nuovo ordine prenda in considerazione piuttosto i fenomeni di dissoluzione sociale (ergo pluralismo) che non quelli di aggregazione (ergo monismo). Tanto più grande deve essere la cautela quando si tratta di un personaggio come Santi Romano, almeno per due ragioni. Anzitutto egli è per disciplina di studio, e forse anche per temperamento, controllatissimo nella manifestazione dei propri sentimenti, sino ad apparire impenetrabile; scrive con rara sobrietà, senza mai indulgere alla preziosità letteraria, anche se è studioso di buone e vaste letture; guarda alle cose che pur lo interessano con un certo distacco, impassibile sino ad apparire indifferente (ma non è) di fronte alle grandi passioni che agitano la storia29; è alieno dallo spirito polemico e raramente si lascia andare a sfoghi di malumore accademico. Scrive le due opere principali di teoria del diritto,

L’ordinamento giuridico e i Frammenti di un dizionario giuridico in due dei periodi più terribili della storia italiana, nel 1917-18 il primo, nel 1944-46 il secondo: ma se si toglie qualche breve e rara allusione alla costituente, ai partiti nascenti, specie nel frammento, importante per tanti altri aspetti, sulla «rivoluzione», non vi si trova brano in cui egli tradisca il suo animo che vuol far credere anche nella tempesta (che non è soltanto storica ma anche personale) né «perturbato» né «commosso»30. Sono due libri di teoria pura, che per il deliberato proposito del loro autore di essere «wertfrei», sembrano non aver data, essere fuori del tempo. In secondo luogo, egli si considera, anzi tiene a presentarsi e a farsi considerare, un giurista puro, preoccupato più delle astratte strutture, delle «forme», che non delle concrete forze sociali che vi entrano dentro. Non si stanca mai dall’avvertire il lettore male orientato o male intenzionato che la sua opera è esclusivamente di teoria del diritto, non è di filosofia né di sociologia e tanto meno di scienza politica31: quando scrive il necrologio di Gaetano Mosca, oltre al non avaro elogio della tradizione giuridica siciliana cui egli stesso appartiene, esprime la propria approvazione per l’orientamento antipositivistico e antimaterialistico dell’autore degli Elementi di scienza politica, ma non dimostra particolare interesse a mettere in rilievo se non altro per contrasto il punto di vista non giuridico da cui il teorico della classe politica ha trattato i problemi fondamentali dello stato moderno, di quello stesso stato di cui lui, Romano, ha cercato di penetrare gli aspetti essenzialmente strutturali32. Il problema che egli affronta nell’Ordinamento giuridico è un problema tecnico, un problema che nasce all’interno della scienza giuridica, in un momento in cui i giuristi che si occupano prevalentemente di diritto pubblico intendono affermare anche metodologicamente l’autonomia del diritto pubblico rispetto al diritto privato, e la mettono alla prova prima di tutto cercando di elaborare una teoria del diritto dal punto di vista del diritto pubblico anziché dal punto di vista tradizionale del diritto privato. La teoria dell’istituzione deve servire, secondo Romano, a questo scopo, cioè allo scopo di fornire alla teoria del diritto strumenti concettuali più consoni a una scienza giuridica che assiste al fenomeno della pubblicizzazione del diritto su cui richiama più volte l’attenzione dei suoi lettori. Se si vuole una riprova del prevalente interesse tecnico-giuridico che muove Romano verso la teoria dell’istituzione e del pluralismo, si prenda nota del fatto che, quando pubblica la seconda

edizione dell’Ordinamento, risponde scrupolosamente ai suoi critici, ma prende in considerazione soltanto le critiche dei giuristi (o dei filosofi del diritto) che gli avevano mosso obiezioni di carattere teorico e tecnico. La teoria della pluralità degli ordinamenti aveva suscitato accese discussioni di giuristi politici: Romano non si cura di loro ma «guarda e passa».

6. Critica di un’interpretazione ideologica della dottrina di Romano Veramente è stato detto che la teoria dell’istituzione, come ogni teoria del diritto come ordinamento, scalda nel proprio seno un serpentello ideologico, perché con la sua idea della totalità organica e organizzata favorirebbe l’occultamento delle contraddizioni che lacerano la società33. Può darsi che altre teorie si siano rese colpevoli di questa «utile menzogna». Ma francamente mi riesce difficile fare entrare nello stesso girone di peccatori anche Romano. Anzitutto, come ho appena detto, la teoria dell’istituzione è soltanto la prima metà della dottrina romaniana del diritto, e neppure la più importante; la parte più importante è la seconda, quella che trae dalla definizione del diritto come istituzione la conseguenza, possibile ma non necessaria, che vi sono più ordinamenti giuridici diversi e lo stato è soltanto uno di questi. Ora in che senso si può dire che la teoria pluralistica occulta le contraddizioni? E che dovremmo dire allora della teoria monistica? O si è monisti o si è pluralisti: tertium non datur. Sinora si era sentito dire che gli occultatori erano soprattutto i monisti. Se sono tali anche i pluralisti, chi si sottrae all’accusa? Ma se nessuno si sottrae all’accusa, mi domando come si faccia a non nascondere le contraddizioni dal momento che non si può essere se non monisti o pluralisti. Non dico che anche il pluralista – per quel rapporto non immediato che sussiste fra una teoria e la sua funzione ideologica – non possa nascondere le contraddizioni, solo che dia maggior rilievo al rapporto di convergenza o di collaborazione fra istituzioni che non al rapporto di divergenza e di conflitto, ma, mentre il monista rivela certamente un’ideologia integrazionistica, il pluralista non esclude un’ideologia conflittualistica. Anzi non riesco a capire come si possa essere conflittualisti senza essere pluralisti.

Il problema se mai – dal momento che ci stiamo ormai avventurando sul terreno scabroso dell’interpretazione ideologica – è un altro. Il teorico del pluralismo, Santi Romano, era anche ideologicamente un pluralista?

7. Romano è teoricamente un pluralista ma ideologicamente un monista Tutti coloro che si sono occupati del pensiero di Romano sono d’accordo nel sostenere che la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici nasca dalla riflessione sulla «crisi dello stato», cui Romano ha dedicato la prolusione pisana dell’anno accademico 1909-1034, anche se Fulvio Tessitore ha mostrato attraverso quali piccoli passi vi sia arrivato in alcuni scritti minori precedenti35, e Sabino Cassese abbia rivelato l’esistenza di un trattato inedito di diritto costituzionale italiano, scritto da Romano per una casa editrice tedesca, nel periodo che sta fra la prolusione pisana e L’ordinamento giuridico, e l’importanza che esso ha per la nascita della teoria dell’istituzione36. Il nesso fra la constatazione della crisi dello stato e la teoria del pluralismo giuridico è evidente. La ragione della crisi sta nel venir meno della corrispondenza fra l’idea in base alla quale lo stato nato dalla rivoluzione francese è stato costruito, secondo cui fra gl’individui singoli e lo stato non deve esservi posto per alcun ente intermedio, e la realtà sociale presente in cui proliferano e spadroneggiano gruppi sempre più numerosi e sempre più prepotenti. Il tema non era nuovo, anzi era diventato un tema comune non solo alla scienza sociale e giuridica ma anche alla pubblicistica. Lungo tutto il secolo precedente il pluralismo era stato alimentato da tre correnti diverse di pensiero politico, dal socialismo prima utopistico e poi libertario (Proudhon), dal liberalismo che aveva scoperto l’associazionismo della giovane democrazia americana (Tocqueville), dal cristianesimo sociale (che si era mosso intorno alle encicliche sociali di Leone XIII). Al tempo in cui scriveva Romano pluralisti erano tanto i sindacalisti rivoluzionari quanto un liberale come Luigi Einaudi, che esaltava la funzione sociale e progressiva delle prime leghe di operai, quanto i primi attori di un movimento popolare cattolico, come Romolo Murri e Luigi Sturzo. Romano aveva presenti tutti e tre i movimenti, come risulta da un breve passo della prolusione37.

Pur prescindendo dalla differenza profonda fra i tre pluralismi, bisogna riconoscere che accanto a un pluralismo «in bonam partem» vi è sempre stato anche un pluralismo «in malam partem». Accanto a coloro che consideravano la formazione di società intermedie fra l’individuo e lo stato un fenomeno positivo, perché contribuiva nello stesso tempo a diminuire l’isolamento dell’individuo e lo strapotere dello stato, vi erano coloro che vi intravedevano al contrario un infausto segno dello sgretolamento della compagine statale e della diversa ma non meno pericolosa irreggimentazione dell’individuo. Qual era l’atteggiamento di Romano di fronte a queste due possibili interpretazioni del pluralismo? Come scienziato che ha il compito e il dovere di osservare la realtà senza veli pietosi e senza maschere deformanti egli è sicuramente colpito dalla vastità del fenomeno, che può essere indicato come la «rivolta della società contro lo stato». Ma non lascia intendere altrettanto chiaramente il suo animo. Che cosa egli pensava del prorompente fenomeno associazionistico? Era fausto o nefasto? Di conseguenza la crisi dello stato moderno doveva essere interpretata come una crisi di crescenza o non piuttosto come una crisi di degenerazione? Da un lato, di fronte alla «eclissi» di una «luminosa» concezione dello stato qual è stata quella nata dalla rivoluzione francese afferma che «potrebbe essere non del tutto superstizioso il trarne non lieti presagi», ma nello stesso tempo denuncia la eccessiva «semplicità» dell’organizzazione statale esistente e quindi la sua «insufficienza» e «deficienza»38. Se i presagi non sono lieti vuol dire che la rivolta della società contro lo stato può avere conseguenze distruttive; ma se le strutture statali presenti sono insufficienti e deficienti è segno che lo sconvolgimento non solo è stato necessario ma può anche essere a fin di bene, cioè può portare a modificare l’organizzazione dello stato per adattarla ai mutamenti sociali. Quanto all’esito finale dello scontro fra stato vecchio e società nuova si limita a esprimere una speranza: «che il movimento corporativo sia diretto, non già a travolgere lo stato…, ma a completarne le deficienze e le lacune, che, come si è visto, presenta per necessario effetto delle sue origini»39. L’unica conclusione certa che si può desumere da queste espressioni è che egli non accetta il pluralismo estremo o eversivo di coloro che auspicano non tanto la trasformazione dello stato e il suo adattamento alle nuove esigenze sociali quanto la sua distruzione. Egli è un pluralista moderato, crede cioè ai benefici effetti che l’emergere

di gruppi sociali riottosi come i sindacati può produrre in una migliore articolazione dei rapporti fra individui singoli e stato, ma considera pur sempre come momento finale e necessario della società organizzata lo stato. Meglio ancora, egli è teoricamente un pluralista, ma ideologicamente un monista40. Nella conclusione afferma che quali che siano le trasformazioni sociali in atto, non si può rinunciare al principio di «un’organizzazione superiore che unisca, contemperi e armonizzi le organizzazioni minori in cui la prima va specificandosi»41. Questa organizzazione superiore non può non essere ancora una volta lo «stato moderno».

8. Conclusione Teoricamente pluralista, ideologicamente monista. Non sembri una contraddizione. Questa affermazione, se mai, conferma la complessità del rapporto fra teoria e ideologia. Del resto, non è difficile darne una spiegazione. In quanto teoria il pluralismo, ridotto al suo nucleo centrale, è imperniato sulla convinzione che un maggior rilievo dato alla molteplicità dei gruppi che agiscono in un sistema sociale offra un modello per la comprensione della realtà sociale più adeguato del modello ottocentesco incardinato sui due poli opposti dell’individuo e dello stato. Ma una volta constatata l’articolazione del sistema sociale in gruppi, anche le dottrine pluralistiche sono attraversate e quindi influenzate dalla «grande divisione» fra teorie conflittualistiche e teorie integrazionistiche. Da un lato, si può interpretare la società divisa in gruppi come un sistema in equilibrio dinamico, in cui i vari gruppi occupano un posto di potenziale parità e sono continuamente in concorrenza fra loro, oppure come un sistema organico in cui i vari gruppi sono funzionali al tutto in modo diseguale, essendo alcuni subordinati, altri sopraordinati42. La prova del fuoco per la classificazione di una dottrina pluralistica nella prima o nell’altra categoria è la posizione dello stato rispetto a tutti gli altri gruppi. Per il pluralismo eversivo lo stato è un’istituzione come tutte le altre, tanto che può persino rendersi superfluo. Per il pluralismo moderato, lo stato è pur sempre un’istituzione diversa da tutte le altre, irriducibile alle altre, superiore alle altre, è in un certo senso l’istituzione che rende possibile l’esistenza stessa di tutte le altre istituzioni, e non può essere eliminato perché è il

coronamento e la sintesi necessaria di ogni sistema sociale. Con un’espressione significativa Romano chiama lo stato «istituzione delle istituzioni», e non pensa mai neppure lontanamente essere possibile o desiderabile che venga disaggregato nelle sue parti. Dal punto di vista ideologico c’è pluralismo e pluralismo, così come c’è monismo e monismo. Al tempo in cui Romano scriveva il saggio sulla crisi dello stato, il monismo dei nazionalisti era un monismo assoluto che sarebbe sfociato nella formula mussoliniana di «tutto nello stato, nulla al di fuori dello stato, nulla contro lo stato». Il monismo di Romano era un monismo relativo, perché, per quanto ponesse lo stato al vertice della scala degli ordinamenti, come ordinamento sovraordinato agli ordinamenti sociali, non lo considerava un ordinamento esclusivo43. Riconosceva che lo stato aveva una tendenza irresistibile ad assorbire gli altri ordinamenti ma riconosceva nello stesso tempo che al di là dello stato vi era una tendenza altrettanto irresistibile della società a generare sempre nuovi ordinamenti, onde restava pur sempre al di fuori dello stato un margine più o meno ampio di socialità non controllata dallo stato e quindi sotto certi aspetti prestatale e sotto certi altri addirittura antistatale. Pluralismo moderato e monismo relativo sono formule cui non voglio attribuire maggior valore di quello che hanno tutte le formule. Però mi pare che entrambe esprimano abbastanza bene lo spirito con cui Romano affrontò il problema del rapporto fra società e stato in un periodo di profonde trasformazioni, nonché la concezione che egli aveva del giurista, su cui scrisse alcune delle sue più belle pagine in un frammento dove, dopo aver paragonato le diverse specie di giuristi alle diverse specie di perle, vere, false o coltivate, conclude che «giurista e, tanto meno grande giurista, non è... chi non ha mente molto equilibrata e prudente»44. Non è arrischiato presumere che scrivendo quelle pagine pensasse anche a se stesso45.

Note 1

S. Romano, L’ordre juridique, traduction française de la 2e édition de L’ordinamento giuridico, par L. François et P. Gothot, introduction de Ph. Franceskakis, Dalloz, Paris 1975; Id., Die Rechtsordnung, mit einem Vorwort, biographischen und bibliographischen Notizen, herausgegeben von Roman Schnur, Duncker & Humblot, Berlin 1975. Per quel che riguarda la scienza giuridica tedesca, non è da dimenticare l’elogio dell’opera di Romano fatto da J. Esser, Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Mohr, Tübingen 19642, p. 292, che considera L’ordinamento

giuridico un’opera di pioniere della teoria pluralistica in Europa e la ritiene, non del tutto esattamente, la base di ogni ulteriore ricerca di Renard, Delos, Gurvitch, Desqueyrat, ecc., insomma di tutta la dottrina istituzionalistica francese. Dico «non del tutto esattamente», perché in realtà la dottrina istituzionalistica francese ha seguito le orme di Hauriou, del quale lo stesso Romano si considera, se pure solo in parte, debitore. Giusta, invece, l’osservazione di Esser, secondo cui specie la seconda parte dell’Ordinamento giuridico, che anche a mio parere è la più importante (ma su ciò vedi oltre), offre un materiale convincente per mostrare la falsità storica e attuale della tesi del monopolio delle fonti del diritto da parte del diritto dello stato. 2 S. Romano, El Ordinamiento Jurídico, con Introduzione di S. Martín-Retortillo, intitolata La doctrina del ordinamiento jurídico de Santi Romano y algunas de sus aplicaciones en el campo del derecho administrativo, pp. 9-77, Instituto de Estudios politicos, Madrid 1963. 3 J. Stone, Social Dimensions of Law and Justice, Stevens and Sons limited, London 1966, pp. 51645. Tanto il saggio di Martín-Retortillo quanto quello di Stone, tradotti in tedesco, sono compresi nel volume antologico Institution und Recht, herausgegeben von Roman Schnur, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968, rispettivamente, pp. 370-420 e 312-69. 4 C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1934, p. 24 (trad. it., nella raccolta di saggi schmittiani, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 260). 5 Vedi per tutti A. Desqueyrat, L’institution, le droit objectif et la technique positive. Essai historique et doctrinal, Recueil Sirey, Paris 1933; dello stesso autore, L’institution. Sa nature, ses espèces, les problèmes au’elle pose, in «Archives de philosophie», XII, 1936, pp. 65-115. Ancora più sorprendente che non vi sia traccia della teoria del Romano nel recente volume, Le pluralisme juridique. Etudes publiées sous la direction de John Gilissen, Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1972, che contiene scritti di vari autori, e fra questi un saggio di L. Ingber, Le pluralisme juridique dans l’oeuvre des philosophes du droit, pp. 57-84. 6 Cfr. J. Delos, La théorie de l’institution, in «Archives de philosophie du droit et de sociologie juridique», I, n. 1, 1931, pp. 97-143; G. Gurvitch, Les idées-maîtresses de Maurice Hauriou, ivi, pp. 155-94. 7 W. Ivor Jennings, The Institutional Theory, in Modern Theories of Law, Oxford University Press, London 1933, pp. 68-85. Anche Jennings mette in relazione la teoria istituzionale con la trasformazione dello stato moderno, come avevano fatto i suoi fondatori, con quella trasformazione per cui non c’è più lo stato da una parte e gl’individui dall’altra, ma lo stato è diventato sempre più «un aggregato d’istituzioni». 8 G. Bottai, Santi Romano, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Cedam, Padova 1940, vol. I, p. XVIII. Sull’opera politica e culturale di Bottai vedi S. Cassese, Un programmatore degli anni trenta: Giuseppe Bottai, in «Politica del diritto», a. I, n. 3, 1970, pp. 404-47. 9 S. Panunzio, La pluralità degli ordinamenti giuridici e l’unità dello stato, in Studi filosofico-giuridici dedicati a G. Del Vecchio nel XXV anno di insegnamento (1904-1929), Società tipografica modenese, Modena 1931, vol. II, pp. 179-227. 10 G. Capograssi, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici (1936, 19392), ora in Opere, Giuffrè, Milano 1959, vol. IV, pp. 183-221. Dello stesso autore vedi anche L’ultimo libro di Santi Romano (1951), ora in Opere, vol. V, pp. 223-54, a proposito dei Frammenti di un dizionario giuridico. 11 Si tratta delle seguenti opere: Saggio sullo stato (1918), Riflessioni sulla autorità e la sua crisi (1921) e La nuova democrazia diretta (1922), in Opere, vol. I, rispettivamente pp. 5-147, 153-402, 407-573. 12 Mi riferisco in modo particolare all’Ordinamento giuridico, apparso primamente in due fascicoli degli «Annali delle università toscane», n.s., vol. II, n. 5, e vol. III, n. 1, 1917-1918, e quindi in

volume presso l’editore Spoerri di Pisa, nel 1918. Ripubblicato immutato con aggiornamenti bibliografici e con l’aggiunta di varie risposte ai critici nonché di un indice analitico e dei nomi, presso l’editore Sansoni di Firenze, come n. 1 della collana «I classici del diritto», s.d., ma la Prefazione dell’autore reca la data «novembre 1945», ristampato nel 1962. D’ora innanzi citato dalla seconda edizione come OG. L’altra opera di Romano di cui ho tenuto largo conto sono i Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano 1951, citati d’ora innanzi come FDG. Per quel che riguarda la bibliografia sull’opera di Santi Romano, rinvio il lettore all’eccellente saggio di S. Cassese, Ipotesi sulla formazione de «L’ordinamento giuridico» di Santi Romano, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», a. I, 1972, pp. 244-83. Dello stesso autore, Cultura e politica nel diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 44 sgg., e Guido Zanobini e il sistema del diritto amministrativo degli anni trenta, in «Politica del diritto», a. V, n. 6, 1974, pp. 699-710. 13 Romano, nel formulare la propria teoria dell’istituzione, prende le mosse da Hauriou, cui ascrive «il merito principale... di aver posto avanti l’idea di sussumere nel mondo giuridico il concetto di istituzione ampiamente inteso, di cui finora non si avevano che tracce, anch’esse del resto lievi, nella terminologia, più che nella speculazione, politica e sociologica» (OG, p. 26). Si tenga presente che Romano scrive quando Hauriou non ha ancora pubblicato il saggio cui di solito gli studiosi si riferiscono per esporre la teoria dell’istituzione, vale a dire la Théorie de l’institution et de la fondation, apparso primamente nei «Cahiers de la nouvelle journée», n. 4, 1925, e quindi nel volume Aux sources du droit: le Pouvoir, l’Ordre et la Liberté, Librairie Bloud & Gay, Paris 1933, tradotto in italiano in un volume che raccoglie parecchi saggi del giurista francese col titolo Teoria della istituzione e della fondazione, a cura di W. Cesarini Sforza e presentazione di A. Baratta, nella collana «Civiltà del diritto», n. 16, Giuffrè, Milano 1967. L’opera di Hauriou cui Romano si riferisce sono i Principes de droit public, che cita dalla seconda edizione, Sirey, Paris 1916. 14 Anche per lunghezza le due parti sono diseguali: la prima, dedicata all’istituzione, è di 80 pagine; la seconda, dedicata alla pluralità degli ordinamenti e dei loro rapporti, è di 100 pagine. 15 Proprio all’inizio dell’opera, Romano cita come rappresentante del normativismo esasperato, oltre a Kelsen, Duguit, nei «singolari lavori» del quale, egli nota, «ogni altro momento del fenomeno giuridico è risolto e quasi annullato in quello della “règle de droit”» (p. 4). 16 Di questi due autori mi sono occupato in un saggio ormai remoto nel tempo e nella memoria, intitolato Istituzione e diritto sociale (Renard e Gurvitch), in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XVI, 1936, pp. 385-418. Lo stesso saggio conteneva in nota un accenno anche alla teoria di Romano, cui Romano stesso rispose nelle repliche della seconda edizione (in particolare vedi p. 34). 17 Ho già sviluppato questo concetto nel saggio Ancora sulle norme primarie e norme secondarie (1968), ora nel volume, Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 196-97. 18 Mi riferisco in modo particolare ai paragrafi dedicati all’esemplare e originale trattazione dei diversi modi con cui i diversi ordinamenti possono venire in rapporto fra di loro (che, è bene ricordarlo, occupa più di un terzo dell’intero libro, pp. 112-80). 19 OG, pp. 22, 35. 20 OG, pp. 22, 43. 21 OG, p. 35. 22 Vedi OG, rispettivamente pp. 22 e 35. 23 Sarà bene dire una volta per sempre che nella mente del Romano la contrapposizione fra normativismo e istituzionalismo non corrisponde affatto, come si sarebbe tentati di credere, e come è stato più volte sostenuto, alla contrapposizione fra formalismo e realismo giuridico. La dottrina di Romano non ha e non vuole avere niente a che vedere con la dottrina realistica né con la sociologia giuridica. Romano è, nel senso proprio della parola, un «formalista», perché considera il diritto

come la forma dei rapporti sociali che, in quanto tale, può e deve essere studiato indipendentemente dai suoi rapporti con la sottostante società. Fra i molti brani che si potrebbero citare, mi pare oltremodo significativo il seguente: «Noi tale ente [l’istituzione] abbiamo considerato, non dal punto di vista delle forze materiali che lo producono e lo reggono, non in rapporto all’ambiente in cui si sviluppa e vive come fenomeno interdipendente con altri, non in riguardo ai nessi di cause ed effetti che vi si ricollegano, e quindi non sociologicamente, ma in sé e per sé, in quanto risulta da un ordinamento giuridico, anzi è un sistema di diritto obiettivo. Ci siamo, naturalmente, dovuti spingere sino alle ultime regioni, in cui è dato respirare l’atmosfera giuridica, ma non le abbiamo mai oltrepassate» (OG, p. 79, il corsivo è mio). Sulla considerazione formale del diritto, cfr. anche OG, p. 37. Conferma il proprio orientamento formalistico, ogni qual volta rifiuta le interpretazioni teleologiche del diritto e dello stato. A proposito della concezione dello stato come «unità teleologica» scrive: «Ciò non è inesatto, ma pel giurista è non meno, anzi forse più importante la natura strutturale di quell’unità...» (FDG, p. 209, corsivo mio). 24 Hauriou si preoccupa dei rapporti fra il giuridico e il pregiuridico, fra il diritto e il potere, fra il diritto e la società, più di quel che se ne preoccupi Romano, che tiene lontane dai suoi confini tanto la filosofia quanto la sociologia e la politica come se ne temesse la contaminazione. Un sottotitolo come quello che Hauriou diede alla sua Teoria dell’istituzione e della fondazione, «saggio di vitalismo giuridico», sarebbe per Romano inimmaginabile. Si veda l’importanza che ha il concetto di «potere», fondamentale per la scienza politica, nella tematica di Hauriou, Teoria dell’istituzione, cit., pp. 13 sgg. e 105 sgg. 25 OG, p. 91. 26 OG, p. 88. 27 OG, p. 89. 28 OG, p. 93. 29 Il frammento sulla rivoluzione, scritto nel settembre 1944, comincia così: «La storia così tragica di questi ultimi anni, come, del resto, tutta la storia dell’umanità...». Ma questa constatazione serve soltanto di premessa alla introduzione di una nuova categoria giuridica: il diritto delle rivoluzioni (FDG, p. 220). 30 Ma non sempre: si leggano almeno le ultime righe dei Frammenti che lasciano intravedere le sue simpatie politiche: «... sarebbe da augurarsi che l’uomo “popolare” non diventi uomo “volgare”; che “l’uomo qualunque” non si atteggi a uomo sapiente e pretenda di comandare lui quando si dovrebbe ubbidire; che insomma il tranquillo e bonario “uomo della strada” non assuma l’atteggiamento dello schiamazzante “uomo della piazza”, determinando la facile degenerazione della democrazia in oclocrazia» (p. 235). Il frammento reca la data del luglio 1945. 31 Specie nei riguardi dei filosofi Romano si preoccupa di stabilire una precisa delimitazione di confini, lasciando intendere che quel che dicono i filosofi sul diritto sarà pure importante ma non ha alcun interesse per un teorico generale del diritto che deriva le sue costruzioni esclusivamente dall’esperienza. Nella Prefazione alla seconda edizione reagisce bruscamente anche alle critiche dei politici che «dimostrano un’assoluta incomprensione dei problemi fondamentali della teoria generale del diritto» (OG, p. 1). A p. 39: «... un’indagine di teoria generale del diritto, quale è la nostra». 32 S. Romano, Gaetano Mosca (1942), in Scritti minori, a cura di G. Zanobini, Giuffrè, Milano 1950, vol. I, pp. 381-85. 33 Questa è la tesi sostenuta, con la solita bravura e un pizzico di sostanza caustica (che brucia più di quel che guarisca), da G. Tarello, Prospetto per la voce «Ordinamento giuridico» di un’enciclopedia, in «Politica del diritto», a. VI, n. 1, 1975, pp. 73-102.

34

S. Romano, Lo stato moderno e la sua crisi (1910), in Scritti minori, cit., pp. 310-25. Ancora recentemente il rapporto fra la prolusione pisana e L’ordinamento giuridico è stato ribadito da S. D’Albergo, Riflessioni sulla storicità degli ordinamenti giuridici, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», XXIV, 1974, pp. 451-82, e ripreso dallo stesso autore nella breve nota, L’ordinamento giuridico, in «Rinascita», XXXII, n. 35, 5 settembre 1975, p. 38, segno evidente dell’interesse attuale per il nostro tema. La constatazione del nesso fra la consapevolezza della crisi dello stato liberale e la dottrina della pluralità risale ai primi interpreti della dottrina romaniana. Per non parlare di Panunzio che denuncia non la crisi dello stato ma al contrario la crisi della teoria pluralistica sulla base del riconosciuto superamento della crisi dello stato, si veda A.E. Cammarata, Contributi ad una critica gnoseologica della giurisprudenza (1925), in Formalismo e sapere giuridico, a cura della Università di Trieste, 1962, pp. 30-31: «Recentemente... questa concezione sociale del diritto ha ricevuto ulteriori spinte, se così è lecito esprimersi, dalla cosiddetta “crisi dello stato moderno”: crisi che si è creduto di scorgere nel moltiplicarsi, in seno allo stato moderno, di associazioni ed organizzazioni... tendenti a riunire gl’individui secondo il criterio delle loro “professioni”, o, meglio, del loro interesse economico». Il richiamo al precedente saggio sulla crisi dello stato moderno è fatto del resto dallo stesso Romano nell’Ordinamento giuridico, p. 93. 35 F. Tessitore, Crisi e trasformazioni dello stato. Ricerche sul pensiero giuspubblicistico italiano tra Otto e Novecento, Morano, Napoli 19712, pp. 177 sgg. 36 Cassese, Ipotesi sulla formazione, cit., pp. 260 sgg. 37 Mi riferisco al seguente passo: «Lo promuovono [il movimento appunto che determina la crisi dello stato moderno] e l’agevolano coloro che mirano ad un sovvertimento generale degli attuali ordinamenti; lo guardano con simpatia, come potente affermazione di vitalità democratica, coloro che, pur rifuggendo da vie incostituzionali, vagheggiano riforme profonde e radicali; lo propugna, anche ufficialmente, la Chiesa cattolica, che… si è mostrata decisamente favorevole al sistema corporativo» (p. 316). Sull’argomento vedi S. Lanaro, Pluralismo e società di massa nel dibattito ideologico del primo dopoguerra (1918-1925), in Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1973, vol. II, pp. 271-315. 38 Romano, Lo stato moderno e la sua crisi, cit., pp. 314 e 317. A p. 320 esprime in poche righe il concetto fondamentale del pluralismo con le parole seguenti: «Il nucleo di verità più indiscutibile che anima le moderne tendenze al sistema corporativo sta nel rilievo semplice, che i rapporti sociali che direttamente interessano il diritto pubblico non si esauriscono in quelli che hanno per termini l’individuo, da una parte, lo stato e le comunità territoriali minori, dall’altra. Come sarebbe del tutto contrario al più evidente e sicuro processo storico da cui la nostra civiltà è derivata, prescindere da quest’ultime, così appare esigenza elementare e fondamentale tener conto anche delle organizzazioni sociali derivanti da vincoli diversi da quelli territoriali». 39 Ivi, p. 321. 40 Cassese parla a questo proposito di «delicato compromesso», operato da Romano, «fra l’esigenza pluralista posta dai fatti, e l’ideologia autoritaria della scuola giuspubblicistica italiana». Compromesso «che, successivamente, nel suo stesso autore, sembra rompersi per lasciare apparire, più rigorosamente, ma con accentuazione del momento autoritario, il pluralismo in funzione servente dello stato» (Cultura e politica nel diritto amministrativo, cit., p. 184). 41 Cassese, Cultura e politica nel diritto amministrativo, cit., p. 324. 42 Vi è un passo nell’Ordinamento giuridico da cui risulta che il pluralismo può essere giustificato proprio a causa dei suoi esiti inegualitari. A proposito del rapporto fra l’ordinamento statale e l’impresa considerata come ordinamento minore, Romano osserva che «il diritto dello stato moderno ha voluto eliminare ogni rapporto che implicasse la dipendenza di una persona verso

un’altra egualmente privata. In questa, che è stata una reazione all’ordinamento più antico e agli abusi che esso consacrava, ha però troppo ecceduto, disconoscendo che certe manifestazioni della vita sociale richiedono ancora e probabilmente richiederanno sempre una diseguaglianza fra gli individui, una supremazia degli uni, una subordinazione degli altri» (p. 163, corsivo mio). 43 La polemica di Romano nei riguardi di Kelsen considerato come il teorico dell’esclusività dell’ordinamento statale è frequente attraverso l’affermazione in più luoghi ripetuta che «il principio che ogni ordinamento originario è sempre esclusivo, deve intendersi nel senso che esso può, non che debba necessariamente negare il valore giuridico di ogni altro» (OG, p. 119). Vedi anche FDG, ove si legge che il principio di esclusività o di unicità di ogni ordinamento giuridico originario «fa parte delle esagerate e spesso paradossali teorie kelseniane e ha trovato, anche fuori dei fedeli seguaci di esse, una non sempre meditata accoglienza» (p. 16). Vedi anche FDG, p. 213. 44 FDG, p. 116. 45 Quando questo volume era già in bozze mi è giunto l’articolo di G. Falcon, Gli «scritti minori» di Santi Romano, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», XXVI, 1976, pp. 661-74, che, attraverso un’accurata analisi di alcuni scritti composti fra il 1907 e il 1917, mette in evidenza tutti gli elementi che mostrano l’ideologia conservatrice di Santi Romano.

IX. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen

1. Significato dell’opera di Kelsen nella storia della teoria generale del diritto nell’ultimo secolo Nel 1910 Hans Kelsen, non ancora trentenne, pubblicò gli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, una voluminosa opera di settecento pagine, con cui pose, più che la prima pietra, le fondamenta di quella che nella Prefazione alla seconda edizione (1923) chiamò «una teoria pura del diritto come teoria del diritto positivo»1. Nel 1934, quando apparve la prima edizione di quel libro sintesi, programma e manifesto, che è la Reine Rechtslehre, l’edificio poteva dirsi compiuto. Tra il 1911 e il 1914 si raccolse attorno a Kelsen un gruppo di giovani studiosi cui fu dato il nome di Scuola di Vienna. Nell’ambito della scuola, Adolf Merkl, in un’opera del 1923 (Die Lehre von der Rechtskraft entwickelt aus dem Rechtsbegriff) svolse la teoria dinamica dell’ordinamento giuridico, la cosiddetta Stufentheorie des Rechts, che Kelsen accolse e incorporò nell’Allgemeine Staatslehre del 1925. Dopo il 1934, sino alla seconda edizione della Reine Rechtslehre (1960), che contiene tutti gli arricchimenti successivi della dottrina tanto da avere una mole tre volte maggiore rispetto alla prima edizione e da aver assunto il carattere di un vero e proprio trattato, il sistema fu perfezionato, completato, qua e là corretto, ma le linee maestre non furono più mutate. Dall’apparizione degli Hauptprobleme era ormai trascorso mezzo secolo. Nella storia della teoria del diritto l’opera di Kelsen costituisce una tappa fondamentale. Ha tolto parte della loro importanza alle opere precedenti, come quelle di Jhering, di Thon, di Jellinek, salvo a considerarle affluenti confluiti nel gran fiume. Teorie che avevano imboccato altre strade, come quella pur celebrata di Duguit, finirono per

essere abbandonate. Le due principali opere di teoria del diritto apparse in questi ultimi vent’anni, Law and Justice di Alf Ross (1958) e The Concept of Law di Herbert L. Hart (1961), pur essendo state scritte da autori educati in una tradizione giuridica non certo ben disposta verso il tanto deprecato e frainteso formalismo kelseniano, riconoscono il debito che hanno contratto verso la teoria pura del diritto. Malgrado i dissensi dall’opera del maestro, sono opere entrambe nettamente post-kelseniane nel preciso senso che non si possono intendere senza Kelsen. Il maggior riconoscimento del posto strategico che la teoria pura del diritto ha occupato nella storia della giurisprudenza teorica2 è venuto dai suoi avversari più irriducibili. Per decenni l’opera di Kelsen è stata identificata dalle correnti avverse (quelle che Kelsen aveva messo in difficoltà o aveva scartato dalla sua strada) come il nemico per eccellenza. Per i giusnaturalisti l’opera di Kelsen è diventata il termine estremo e insieme il prototipo del positivismo giuridico; per i realisti, del formalismo; per i giuristi sovietici, della giurisprudenza borghese. La teoria pura del diritto è stata di volta in volta denunciata come sede di tutti gli errori del secolo, come il risultato di tutte le aberrazioni di una scienza che pretende di sostituirsi alla metafisica, cadendo nell’agnosticismo; alla nuda empiria, condannandosi alla sterilità; alla ideologia, essendo essa stessa un’ideologia mascherata. Nonostante sia stata data più volte per morta (soprattutto da coloro che credevano di averla ammazzata), la teoria kelseniana non ha mai cessato anche in questi ultimi anni di essere oggetto di studi e di ripensamenti3. Nel 1970 è stata fondata una rivista di teoria del diritto, intitolata «Rechtstheorie», di cui Kelsen era direttore insieme con K. Engisch, H.L.A. Hart, U. Klug, K. Popper, che si propone lo scopo di approfondire più di quel che sia stato fatto sinora la critica dei fondamenti della conoscenza giuridica, e sembra proporsi il compito di sviluppare gli «analytische Ansätze» presenti nell’opera kelseniana4. Nella prima annata è apparso un articolo di Robert Walter sullo stato presente della teoria pura del diritto, in cui si può leggere che la nuova rivista non può fare a meno di ricollegarsi ai risultati di questa teoria5. La giurisprudenza è sempre stata un orto chiuso e precluso ai non addetti ai lavori. Dei grandi giuristi di quest’ultimo secolo solo l’opera di Jhering aveva avuto qualche risonanza fuori del recinto, anche se per

aspetti marginali del sistema. Ma Jhering aveva invaso nella sua opera filosofica, Der Zweck im Recht, il campo dell’etica e in genere del costume sociale (lambendo la sociologia). Kelsen è stato essenzialmente un giurista, anche se tutt’altro che ignaro della storia del pensiero giuridico, cui ha dato contributi originali, e salvo una esplorazione nel campo dell’etnologia allo scopo di trarre una conferma storica della grande dicotomia tra natura e cultura, tra mondo dell’essere e mondo del dover essere, tra sfera dei rapporti di causalità e sfera dei rapporti d’imputazione, su cui egli ha fondato l’autonomia della scienza giuridica: giurista puro, dunque, per una teoria pura del diritto. Eppure da Kelsen in poi, e prima di tutto attraverso Kelsen, i problemi della giurisprudenza teorica sono entrati nella cerchia delle discussioni generali di metodologia, di etica e di meta-etica, di logica e più in generale di filosofia delle scienze. Un esempio probante e significativo: nell’ampia rassegna di problemi di logica e di filosofia della scienza, diretta da Jean Piaget, per la «Encyclopédie de la Pléiade», nel breve paragrafo in cui viene introdotto il problema della scienza giuridica, l’unico punto di riferimento è il sistema kelseniano, a proposito del quale si dice: «...il diritto costituisce di per se stesso un sistema di norme i cui incastri e la cui costruttività sono stati messi in luce con grande profondità da H. Kelsen»6. Ciò che fa della teoria pura del diritto un momento decisivo della giurisprudenza teorica, e quindi una tappa obbligata, anche per i recalcitranti, degli studi di teoria del diritto, sono alcuni tratti fondamentali sia del metodo, sia della prospettiva sul proprio oggetto, sia dell’impianto teorico generale della disciplina, che la teoria pura del diritto ha in comune con le teorie generali che si andavano sviluppando all’incirca negli stessi anni in altri campi delle scienze umane. La letteratura kelseniana, se pure vastissima, non si è mai soffermata con la dovuta attenzione su questo punto, cioè sul fatto che l’impresa scientifica del Kelsen si svolge all’unisono con le grandi imprese scientifiche del suo tempo nel campo delle scienze sociali e ne condivide alcuni caratteri fondamentali. I consueti confronti tra la teoria di Kelsen e altre teorie del diritto non vanno purtroppo molto al di là di corrette ma sterili esercitazioni accademiche, senza conseguenze rilevanti per una migliore comprensione del sistema kelseniano. Il confronto più interessante e più illuminante è ancora quello che lo stesso Kelsen istituì tra la teoria pura del diritto e la giurisprudenza

analitica di John Austin, intesa come primo esempio di giurisprudenza teorica7. Anche lo studio delle fonti filosofiche, o in genere culturali, del movimento per una teoria pura del diritto è stato sinora sorprendentemente povero: critici, anche recenti, si limitano a riprendere i noti accenni dello stesso Kelsen a una convergenza significativa, seppure casuale, con il neo-kantismo della scuola di Marburgo. Ancor oggi Kelsen passa per un neo-kantiano, anche se il nome di Hermann Cohen non è citato neppure una volta nella seconda edizione della Reine Rechtslehre, che costituisce, come si è detto, il punto d’arrivo del suo pensiero. Kelsen può dirsi kantiano soltanto nella misura in cui si ricollega alla grande dicotomia tra la sfera del Sein e la sfera del Sollen, che si fa risalire a Kant8. Per difendere la stessa dicotomia, oggi, in un clima culturale diverso, un autore preferirebbe presentare altre credenziali, in primis la distinzione humiana tra is e ought. In effetti, tra la dicotomia kantiana che separa il regno della necessità dal regno della libertà, e la dicotomia kelseniana che distingue natura da società, c’è tutta la differenza che corre tra una impostazione filosofica e una scientifica del problema: la dicotomia kelseniana si risolve nella contrapposizione tra due sistemi di rappresentazione della realtà, l’uno fondato su rapporti di causalità, l’altro su rapporti d’imputazione. Per nessuna delle tesi di Kelsen c’è bisogno, allo scopo di spiegarne l’origine e di capirne il significato, di scomodare Kant, anche se Kelsen abbia più volte civettato con la Critica della ragion pura. Chi voglia rendersi conto della funzione di rottura che la teoria pura del diritto ha avuto nello sviluppo della giurisprudenza teorica, dovrà allargare i propri orizzonti ed esaminare più da vicino il movimento del sapere scientifico e della riflessione sulla scienza, che si svolse nei primi decenni del secolo. Come è stato più volte osservato, nella stessa Vienna in cui Kelsen aveva formato la sua scuola, era nata pochi anni prima la psicoanalisi e sarebbe sorto pochi anni dopo il Wiener Kreis. Anche se l’interesse di Kelsen per l’una e per l’altro sia stato marginale (ma i rapporti tra la teoria pura del diritto e la psicoanalisi, da un lato, e il Circolo di Vienna, dall’altro, meriterebbero di essere meglio studiati), i tre movimenti si svilupparono nello stesso clima culturale. Non appena apparvero i primi studi di Freud sulla psicologia di massa, Kelsen li accolse con interesse e ne diede conto nell’opera di maggior rilievo scritta in quegli anni dopo gli Hauptprobleme9. La sua partecipazione all’azione culturale dei neopositivisti

avvenne molto più tardi, nei gruppi della diaspora post-nazista. Collaborò alla nuova rivista «The Journal of the Unified Science», che continuava «Erkenntnis», con due articoli10; la prima edizione dell’opera Vergeltung und Kausalität. Eine soziologische Untersuchung, che prenderà poi il titolo di Society and Nature, nell’edizione americana del 1943, fu stampata, ma non pubblicata a causa dell’occupazione tedesca, in Olanda, nel 1941, presso la «Library of Unified Science», cui avevano dato vita i neopositivisti fuggiti dall’Austria e dalla Germania11. Nello stesso anno 1916 apparvero due opere sulla cui importanza per l’elaborazione teorica e la ricostruzione sistematica dei rispettivi campi d’indagine non c’è bisogno di spender molte parole: il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure e il Trattato di sociologia generale di Vilfredo Pareto. Pubblicate, la prima in Francia, la seconda in Italia, durante la prima guerra mondiale, erano nate entrambe nella pacifica Svizzera, dove lo stesso Kelsen si sarebbe recato in esilio nel 1933 dopo l’avvento al potere di Hitler. Non vi sono tracce della conoscenza della sociologia di Pareto nell’opera di Kelsen, al quale peraltro non era sfuggita l’importanza del maestro di Losanna12. Ma uno dei pochi giuristi che attrassero l’attenzione di Pareto fu il suo collega losannese Ernest Roguin, che aveva pubblicato sin dal 1889 un libro, come l’autore stesso dichiara, di «scienza giuridica pura», e quindi nel 1923 i tre volumi di La science juridique pure che costituisce l’unica opera paragonabile (anche se raramente paragonata) – più per l’ispirazione, s’intende, che per i risultati – a quella del Kelsen13. Negli stessi anni in cui Kelsen stava elaborando la propria teoria, apparvero i saggi fondamentali di Max Weber, Über einige Kategorien der verstehenden Soziologie (Sopra alcune categorie della sociologia comprendente, 1913) e Der Sinn der Wertfreiheit der soziologischen und ökonomischen Wissenschaften (Il significato dell’avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche, 1917); nel 1921 apparve postuma l’opera fondamentale di Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (Economia e società). Per quanto Kelsen avesse trascorso un periodo di studi ad Heidelberg nel 1908, non ebbe alcun contatto con Weber che allora vi teneva cattedra di economia politica. Ma studiò più tardi accuratamente il pensiero weberiano, in cui trovò alcune affinità col proprio, per quanto riguarda il rapporto tra stato e diritto e la concezione giuridica dello stato14.

2. Fatti e valori nella teoria del diritto del Kelsen: l’ideale della scienza e la non scientificità degli ideali È ben noto quanta parte abbia avuto la scoperta dei motivi non razionali che determinano la condotta dell’uomo in società nel provocare una svolta nelle scienze dell’uomo. Secondo Pareto le azioni logiche occupano un piccolo spazio a paragone delle azioni non-logiche nell’economia complessiva di un sistema sociale. Max Weber collocò accanto all’agire razionale rispetto allo scopo altre forme di agire sociale: l’agire razionale rispetto al valore, l’agire affettivo, l’agire tradizionale. Tanto Pareto quanto Weber furono i più rigidi e ostinati assertori, se pur con diversa accentuazione, della condanna di ogni contaminazione della scienza coi giudizi di valore. Furono entrambi fortemente inclini a credere (operando di conseguenza come scienziati) che in una società dominata da forze irrazionali l’unica impresa umana in cui dovessero mantenersi incontrastati il dominio e la guida della ragione fosse la scienza; e che pertanto all’uomo di scienza incombesse la responsabilità di preservare il sapere scientifico dalla corruzione delle fedi individuali e collettive, dei sentimenti, delle concezioni del mondo non razionalmente ma solo praticamente giustificabili. In Pareto e in Weber la difesa accanita dell’avalutatività della scienza procede di pari passo con una concezione fondamentalmente irrazionalistica dell’universo etico: l’etica dello scienziato consiste proprio nella difesa ad oltranza dell’unica e limitata cittadella della ragione dagli assalti della non-ragione, che si rivela nell’enunciazione di giudizi di valore. Tanto più importante questo comune atteggiamento etico di fronte alla scienza in quanto l’uno e l’altro furono rispetto ai valori della vita e della società, in genere, diversissimi: Pareto fu un libertino, Weber uno spirito religioso. Ma entrambi credettero fermamente di essere chiamati a salvare almeno l’isola della scienza nella tempesta delle passioni umane. Nel primo capoverso della Prefazione alla sua opera-manifesto, che è la Reine Rechtslehre, Kelsen scrive queste parole: «Anzitutto, il mio scopo è stato quello di elevare la giurisprudenza, che palesemente od occultamente si dissolveva quasi del tutto nel ragionamento politico-giuridico, all’altezza di una scienza autentica, di una scienza dello spirito. Si trattava di

sviluppare le sue tendenze dirette non alla creazione, ma esclusivamente alla conoscenza del diritto, e di avvicinare il più possibile i suoi risultati agl’ideali della scienza: oggettività ed esattezza»15. Senza aver mai letto Pareto e senza citare Max Weber, Kelsen perseguiva, nel campo del diritto, lo stesso scopo e vi tendeva affidandosi alla stessa ispirazione fondamentale che era quella di separare la ricerca scientifica dai programmi politici, di impedire che i giudizi di valore insidiassero la purezza della ricerca. Nella Prefazione alla General Theory of Law and State, che contiene, assai più che la seconda edizione della Reine Rechtslehere, la summa del suo pensiero, lo dice molto chiaramente: «Chiamando tale dottrina “teoria pura del diritto”, si intende dire che essa è tenuta libera da tutti gli elementi estranei al metodo specifico di una scienza, il cui unico scopo è la conoscenza del diritto e non la sua formazione. Una scienza deve descrivere il proprio oggetto quale esso è effettivamente, e non prescrivere come esso dovrebbe o non dovrebbe essere, in base ad alcuni giudizi specifici di valore. Quest’ultimo è un problema politico e, come tale, riguarda l’arte del governo, un’attività che si occupa dei valori, e non è un oggetto della scienza, che si occupa della realtà»16. Kelsen era perfettamente consapevole del fatto che, perseguendo questo scopo, iscriveva il proprio progetto di una giurisprudenza scientifica nel movimento generale a lui contemporaneo delle scienze sociali. Uno dei testi kelseniani metodologicamente più impegnativi, la Prefazione alla seconda edizione degli Hauptprobleme (1923), termina con questo augurio: «Forse io posso sperare che i nostri sforzi tendenti ad approfondire filosoficamente i problemi della dottrina del diritto e dello stato, collegandoli con gli analoghi problemi delle altre scienze, e così liberando la nostra scienza dal suo insano isolamento e inserendola come degno membro nel sistema delle scienze, trovino una giusta comprensione anche presso gli avversari»17. Anche in Kelsen il disegno di portare la scienza del diritto al livello delle altre scienze, perseguendo l’ideale scientifico dell’«oggettività» e dell’«esattezza», si accompagna a una concezione irrazionalistica dei valori, altrettanto radicale di quella di Pareto e di Weber. Se vuole riuscire nel suo intento di costruire una teoria valida universalmente, lo scienziato deve tenere a bada quanto più gli è possibile i giudizi di valore, proprio perché i valori rappresentano la sfera dell’irrazionale. Ovunque lo scienziato lasci

insinuare le proprie preferenze espresse in giudizi di valore, l’impresa scientifica è destinata a fallire per la semplice ragione che i giudizi di valore non sono sottoponibili ai controlli costitutivi dell’universo scientifico. In altre parole, l’impresa scientifica è possibile soltanto in quanto riesca ad essere avalutativa. Naturalmente, per non lasciarsi influenzare dalle proprie preferenze etico-politiche, lo scienziato deve rinunciare alla pretesa di dare ricette per l’azione. Il compito della scienza è di descrivere e non di prescrivere. Chiunque abbia una qualche familiarità con le opere di Kelsen sa bene quanta importanza abbia nella sua concezione dell’etica dello scienziato l’impegno di non prescrivere nulla: Kelsen conduce tanto oltre questo impegno da estenderlo dalla teoria generale del diritto, dove sembra più ovvio, all’opera dei giuristi, i quali dovrebbero limitarsi a proporre le varie interpretazioni possibili di una norma o di un complesso di norme, giacché ogni scelta, implicando una valutazione, sarebbe scientificamente inattendibile18. Il valore per eccellenza con cui ha a che fare il diritto è il valore della giustizia. Come ogni valore (o più precisamente come ogni valore ultimo o finale), la giustizia è qualcosa d’inassoggettabile a qualsiasi forma di controllo empirico o razionale. Una delle affermazioni ricorrenti in tutta l’opera kelseniana è che la giustizia è un ideale irrazionale. «Giustizia – egli scrive nella Reine Rechtslehre – nel significato che le è proprio e che la differenzia dal diritto esprime... un valore assoluto. Il suo contenuto non può essere determinato dalla dottrina pura del diritto. Anzi, esso non è in alcun modo determinabile dalla conoscenza razionale»19. Più oltre: «Come è impossibile (secondo quanto si può presupporre) determinare mediante la conoscenza scientifica, cioè per mezzo di una conoscenza razionale orientata verso l’esperienza, l’essenza dell’idea o della cosa in sé, così è impossibile rispondere per la stessa via alla domanda: in che cosa consiste la giustizia»20. Nella General Theory of Law and State, abbandonando il paragone kantiano, e accogliendo spunti neo-positivistici, afferma che il giudizio di valore con cui si dichiara che qualcosa costituisce un fine ultimo, «è sempre determinato da fattori emotivi»21. Siffatto giudizio è un giudizio soggettivo, valido soltanto per il soggetto giudicante e perciò relativo. Poiché alla domanda se una norma o un intero ordinamento sia giusto o ingiusto non si può rispondere se non con un giudizio di valore, il problema della giustizia non è un problema di cui possa occuparsi la

scienza, e pertanto la teoria pura del diritto in quanto pretenda di essere scienza se ne deve disinteressare: «Una teoria pura del diritto – una scienza – non può rispondere a questa domanda che cosa sia giusto e ingiusto, perché ad essa non si può in alcun modo rispondere scientificamente»22. È stato più volte osservato che la costruzione delle scienze sociali procede di pari passo con la relativizzazione di tutti i valori: il relativismo culturale permette di studiare la società umana, le varie forme di società umane, senza preoccupazioni etico-politiche. La condicio sine qua non per studiare scientificamente le società umane sarebbe una certa indifferenza rispetto al valore da dare a questa o a quella forma sociale, a questo o a quell’atteggiamento dell’uomo in società. Ebbene: questo stato d’indifferenza è tanto più accessibile quanto più si è dominati dalla convinzione che non vi sono valori assoluti, che una civiltà, una cultura, nel caso specifico di Kelsen, un ordinamento giuridico, vale l’altro. Per quanto non sia da tutti accettato che esista un nesso necessario tra teoria positivistica del diritto e relativismo etico, è certo che nel pensiero di Kelsen questo nesso esiste: «L’esigenza, avanzata sul presupposto di una dottrina relativistica dei valori, di separare il diritto dalla morale ed in conseguenza il diritto dalla giustizia, significa soltanto che, valutando un ordinamento giuridico come morale o immorale, giusto o ingiusto, si esprime soltanto il rapporto dell’ordinamento giuridico con uno dei molti possibili sistemi morali (non con “la” morale) e si enuncia un giudizio di valore non già assoluto, bensì relativo»23. Nella storia del pensiero giuridico, l’assolutismo etico è rappresentato dalla teoria del diritto naturale, la quale pretende di ricavare dallo studio obbiettivo, «scientifico», della natura umana regole di condotta universalmente valide. Sulla base di questa pretesa il giusnaturalismo ha sempre attribuito alla teoria del diritto il compito di distinguere il diritto giusto da quell’ingiusto, e quindi di prescrivere quale diritto debba essere piuttosto che di descrivere il diritto che è. Ma poiché questa pretesa – per un relativista come il Kelsen – è infondata, il giusnaturalismo ha finito per sottoporre l’analisi della realtà giuridica a giudizi soggettivi, e quindi per ostacolare, se non addirittura per rendere impossibile, una teoria scientifica del diritto. La costruzione di una teoria scientifica del diritto è strettamente collegata, nell’opera kelseniana, con una critica serrata, continua, incalzante del giusnaturalismo. Si è detto che per aprire la via alla scienza

giuridica bisogna liberarla dai giudizi di valore. Siccome la manifestazione più alta e anche più ricorrente di intrusione di giudizi di valore è, secondo Kelsen, quel modo di atteggiarsi di fronte al diritto che va sotto il nome di giusnaturalismo, bisogna, se si vuol far progredire la scienza giuridica, sgombrare definitivamente il campo dal giusnaturalismo. Il modo con cui Kelsen critica la pretesa della teoria del diritto naturale di essere una teoria scientifica rientra nel procedimento, così caratteristico in questa fase di sviluppo delle scienze sociali, della «deideologizzazione». Il giusnaturalismo non è una teoria (scientifica), ma un’ideologia, o, con altre parole, non è una teoria razionale di un particolare campo dell’esperienza umana, ma è la razionalizzazione postuma di un bisogno fondamentale, che è generalmente quello di conservare lo stato esistente. Nel denunciare il giusnaturalismo come ideologia, Kelsen adopera espressioni che non possono non far pensare a Pareto o a Freud, anche se probabilmente la fonte diretta di Kelsen è il padre stesso della critica delle ideologie, Karl Marx: «Il bisogno di giustificare razionalmente i nostri atti emotivi è così forte che noi cerchiamo di soddisfarlo anche a rischio di un auto-inganno. E la giustificazione razionale di un postulato basato su un giudizio soggettivo di valore, cioè su un desiderio, quale, ad esempio, quello che tutti gli uomini siano liberi, o che tutti gli uomini siano trattati egualmente, è un auto-inganno o un’ideologia, il che costituisce press’a poco la stessa cosa. Tipiche ideologie di questo genere sono le affermazioni che un qualche fine ultimo e quindi un qualche regolamento determinato dal comportamento umano, derivi dalla “natura”, cioè dalla natura delle cose, dalla ragione umana o dalla volontà di Dio. Questa dottrina sostiene che esiste un ordinamento delle relazioni umane diverso dal diritto positivo, più alto ed assolutamente valido e giusto, in quanto promana dalla natura, dalla ragione umana o dalla volontà di Dio»24. Spetta ad Ernst Topitsch, studioso, non a caso, di Pareto e di Weber, il merito di aver richiamato l’attenzione degli studiosi, al di fuori della ristretta cerchia dei giuristi, sull’importanza che assume nell’opera kelseniana la critica delle ideologie25. La teoria pura del diritto è (pretende di essere), in quanto teoria scientifica, una dottrina compiutamente deideologizzata (appunto come la sociologia di Pareto). Una delle operazioni cui Kelsen si dedica con maggiore compiacimento è quella di eliminare intere parti della tradizionale dommatica giuridica mettendone in rilievo

l’origine ideologica, e degradando le teorie precedenti a ideologie mascherate: anche per Kelsen, come per Pareto, tutte le teorie che hanno preceduto la teoria pura sono pseudo-teorie (l’espressione è di Pareto ma vale bene anche per Kelsen). Ideologici sono i concetti di diritto soggettivo e di soggetto giuridico, le classiche distinzioni tra diritti reali e diritti d’obbligazione, tra diritto privato e diritto pubblico, e il dualismo tra diritto e stato. Che il giudice dichiari e non crei il diritto non è una teoria ma un’ideologia (è l’ideologia che vuol mantenere l’illusione della certezza del diritto); così è un’ideologia, e non una teoria, l’affermazione che esistono lacune nella legge (è l’ideologia che permette al legislatore di limitare con regole ad hoc la libertà del giudice). Difendendo la concezione del primato del diritto internazionale sul diritto statuale contro la teoria dualistica e contro la teoria del primato del diritto statuale, Kelsen non esita ad affermare a conclusione del suo libro-manifesto: «La dissoluzione teoretica del dogma della sovranità, di questo massimo strumento dell’ideologia imperialistica diretta contro il diritto internazionale, costituisce uno dei risultati più importanti della dottrina pura del diritto»26.

3. La teoria pura del diritto come teoria dell’ordinamento giuridico Non s’insisterà mai abbastanza sul fatto che primamente col Kelsen la teoria del diritto si sia orientata definitivamente verso lo studio dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, considerando come concetto fondamentale per una costruzione teorica del campo del diritto non più il concetto di norma ma quello di ordinamento, inteso come sistema di norme. Si confronti la teoria del Kelsen con una delle opere più importanti di teoria generale del diritto che l’ha preceduta: Subjektives Recht und juristische Norm (Diritto soggettivo e norma giuridica, 1878) di Augusto Thon. Ciò che manca totalmente nell’opera di Thon, frammezzo a tante sottili analisi di alcune parti del sistema giuridico, è l’idea dell’ordinamento giuridico come sistema. Il diritto, egli dice, è un insieme di imperativi. Quale tipo di insieme? Era proprio a questa domanda che l’opera del Thon non dava nessuna risposta. Su per giù negli stessi anni in cui Kelsen inizia il suo lavoro teorico, la

teoria normativa tradizionale viene abbandonata, specie in Francia e in Italia, per la teoria dell’istituzione, la quale scopre che non basta occuparsi degli alberi (le singole norme), occorre occuparsi anche della foresta (l’istituzione appunto). Ma la foresta che essa descrive, l’istituzione intesa come società organizzata, è stranamente priva di alberi, cioè di norme. L’impresa di Kelsen consiste invece nel non abbandonare il punto di vista normativo nel passaggio dallo studio delle singole norme allo studio dell’ordinamento, ma anzi nel condurlo sino alle estreme conseguenze, cercando l’elemento caratteristico del diritto nel modo con cui le norme cui abitualmente diamo il nome di norme giuridiche si dispongono e compongono in sistema. Così accanto alla nomostatica, che è la teoria della norma giuridica, prende posto nel sistema kelseniano la nomodinamica, che è la teoria dell’ordinamento giuridico. Anche se la prima è, per abitudini inveterate, forse più nota, la seconda è certamente più importante. L’essenza del diritto non andrà ricercata d’ora innanzi, secondo la nuova prospettiva kelseniana, in questa o quella caratteristica delle norme, ma nella caratteristica di quell’insieme di norme che formano l’ordinamento giuridico. Il diritto è un ordinamento coattivo (Zwangsordnung). Di qui l’inversione del modo tradizionale di impostare il problema della definizione del diritto: non è un ordinamento giuridico quello che si compone di norme coattive, ma sono norme giuridiche quelle che appartengono a un ordinamento coattivo. Solo partendo dall’ordinamento, anziché dalle singole norme, la teoria del diritto è in grado di risolvere il famoso caso del bandito (da cui prende le mosse anche Hart). Perché non attribuiamo il senso oggettivo di norma giuridica all’ordine di un bandito accompagnato da minaccia di uccisione? Kelsen risponde: «Se si tratta dell’atto isolato di un singolo individuo, esso non può essere qualificato come atto giuridico ed il suo senso non può essere considerato come una norma giuridica già per il fatto che il diritto... non è una singola norma, bensì un sistema di norme, un ordinamento sociale, ed una particolare norma è da considerarsi norma giuridica solo nella misura in cui appartiene a tale ordinamento»27. Mi pare che sinora non sia stata attratta la dovuta attenzione sul fatto che questo orientamento verso la rappresentazione di un determinato campo d’indagine come un sistema, cioè come un insieme di elementi in relazione d’interdipendenza tra loro e col tutto, è un orientamento

generale delle scienze sociali di quegli anni. Chi voglia cercare di connettere il processo di formazione della teoria kelseniana del diritto con lo spirito del tempo, non può fare a meno di presentare alla discussione anche questa annotazione: Kelsen condivise con alcuni dei maggiori studiosi contemporanei nell’ambito delle scienze sociali questa tendenza verso la scoperta del sistema come meta ultima della ricerca, inteso il sistema come quella totalità la cui struttura una volta individuata permette di spiegare la composizione, il movimento e il mutamento delle singole parti. Non è il caso di ricordare che il Trattato di sociologia generale di Pareto è un ambizioso, e grandioso, se pur ancora rozzo, tentativo di rappresentare la società umana come un sistema (in equilibrio dinamico). La svolta della linguistica teorica che si fa risalire al Cours de linguistique générale di de Saussure consiste nella concezione della lingua come un sistema: anche se la giurisprudenza teorica è ancora estremamente arretrata rispetto alla linguistica teorica, la tendenza che nasce con Kelsen verso una teoria del diritto come sistema di norme in relazione interna tra loro non può non trarre illuminanti suggestioni dal confronto con la svolta saussuriana nella linguistica. Nella Reine Rechtslehre Kelsen si esprime in questo modo: «L’atteggiamento della dottrina pura del diritto è... del tutto oggettivistico e universalistico. Essa è rivolta fondamentalmente alla totalità del diritto e cerca solo di comprendere ogni singolo fenomeno nel nesso sistematico con tutti gli altri e di comprendere in ogni parte del diritto la funzione della totalità del diritto. In questo senso, essa è una concezione veramente organica del diritto»28. Non sembra che in questo passo Kelsen abbia ancora chiaro in mente il nesso tra concezione sistematica del diritto e teoria dinamica dell’ordinamento giuridico: la totalità del diritto di cui parla appare più come una totalità funzionale (definita cioè attraverso la sua funzione) che una totalità strutturale (da definirsi, cioè, attraverso la sua struttura specifica). Ma già Adolf Merkl molti anni prima, a proposito della kelseniana teoria dinamica dell’ordinamento giuridico, di cui egli stesso avrebbe dato la prima esposizione, scriveva: «La teoria a gradi dell’ordinamento giuridico, come già Kelsen l’ha fissata, è la prima cosciente applicazione del modo di pensare sistematico al mondo dei fenomeni giuridici, rimasto sinora quasi estraneo ai giuristi»29. Solo nella General Theory of Law and State Kelsen presenta con la massima chiarezza la propria teoria come una teoria sistematica del diritto

riferendosi espressamente alla specifica struttura interna del sistema normativo giuridico: «Il diritto è un ordinamento del comportamento umano. Un ordinamento è un sistema di regole. Il diritto non è una regola, come talvolta si dice. Esso è un complesso di regole aventi quel genere di unità che concepiamo come un sistema. È impossibile afferrare la natura del diritto limitando la nostra attenzione alla singola regola isolatamente. I rapporti che collegano tra loro le norme particolari di un ordinamento giuridico sono pure essenziali alla natura del diritto. Solo sulla base di una chiara comprensione di questi rapporti che costituiscono l’ordinamento giuridico si può intendere pienamente la natura del diritto»30. Non è stata mai sottolineata con il dovuto rilievo la novità di quest’uso di «sistema» nella teoria del diritto. Nel linguaggio dei giuristi vi è un significato tradizionale di questa parola per cui «sistema» non significa nient’altro che l’insieme delle partizioni della materia giuridica ad uso didattico più che scientifico (il cosiddetto sistema esterno)31. Quanto al sistema interno, l’unica concezione dell’ordinamento come sistema emersa nei giuristi del secolo scorso era quella dell’ordinamento giuridico come sistema funzionale. Con Kelsen, ossia con la teoria dinamica dell’ordinamento giuridico, compare per la prima volta nella teoria del diritto la rappresentazione dell’ordinamento giuridico come un sistema che ha una certa struttura, e che è caratterizzato proprio dall’avere questa e non quella struttura. Il termine «struttura» è usato dallo stesso Kelsen in alcuni passi cruciali della sua teoria: «Come scienza [la dottrina pura del diritto] si ritiene obbligata soltanto a comprendere il diritto positivo nella sua essenza e d’intenderlo mediante un’analisi della sua struttura (Struktur)»32. E più oltre dove l’analisi strutturale è nettamente contrapposta all’analisi funzionale del diritto: «Questa dottrina [la dottrina pura del diritto] non considera infatti lo scopo che viene perseguito e raggiunto per mezzo dell’ordinamento giuridico, ma considera soltanto l’ordinamento giuridico stesso; e considera questo ordinamento nell’autonomia propria del suo contenuto di senso (Sinngehalt) e non già relativamente a questo suo scopo»33. È stato giustamente osservato che «non basta far uso del termine “struttura” per divenire senz’altro strutturalisti»34: ma è innegabile che la tendenza di Kelsen a considerare il diritto come un universo strutturato, risponde alla stessa esigenza da cui hanno preso le mosse le ricerche

strutturali in linguistica e in antropologia. Su quale sia la struttura specifica del sistema giuridico rispetto ad altri sistemi normativi, a Kelsen vien dato di riflettere soprattutto quando affronta direttamente in un saggio del 1928 il classico problema del rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Per distinguere il sistema del diritto naturale dal sistema del diritto positivo Kelsen introduce la distinzione tra sistema normativo statico, le cui regole sono connesse attraverso il contenuto, e sistema normativo dinamico, le cui regole sono connesse attraverso il modo con cui sono prodotte. L’ordinamento giuridico è un sistema dinamico35. In un sistema statico si dice che una norma appartiene al sistema quando è deducibile dal contenuto del postulato etico che vi sta alla base; in un sistema dinamico si dice che una norma appartiene al sistema quando viene prodotta nel modo previsto dalla norma che istituisce il potere sovrano (la cosiddetta norma fondamentale). È certo che la teoria dinamica dell’ordinamento giuridico, nonostante le critiche cui è stata fatta segno, e nonostante le integrazioni e i perfezionamenti cui ha dato e può ancora dar luogo36, costituisce il punto di partenza o, se si vuole, il passaggio obbligato di un’analisi strutturale del diritto. Può essere se mai una ragione di sorpresa che una distinzione così fondamentale e meritevole di più ampi sviluppi come quella tra sistema normativo statico e sistema normativo dinamico sia stata scarsamente recepita e utilizzata37. È già stato osservato che la costruzione dell’ordinamento giuridico come edificio a più piani, come sistema gerarchizzato di più livelli normativi, nasce dall’osservazione della natura complessa dell’organizzazione del moderno stato costituzionale, in particolare dalla riflessione apertasi negli anni dopo la prima guerra mondiale sul valore etico-politico delle costituzioni rigide, in cui la distinzione tra leggi ordinarie e leggi costituzionali, con la conseguente subordinazione gerarchica delle prime alle seconde, introduce un grado di più nel sistema giuridico e rende immediatamente più visibile la forma a piramide dell’ordinamento. Alla fine della guerra Kelsen era stato chiamato dal cancelliere del governo provvisorio austriaco, Karl Renner, a collaborare alla redazione definitiva della costituzione della nuova repubblica, che fu approvata il 1° ottobre 1920. Com’è ben noto, al suo contributo personale fu dovuta l’innovazione storicamente più significativa di quella

costituzione, cioè l’istituzione di una corte suprema chiamata a controllare la legittimità delle leggi ordinarie. Come racconta il suo biografo, Rudolf Metall, Kelsen era particolarmente fiero di questa innovazione, perché «nell’attuazione del principio della conformità alla costituzione della legislazione e del principio della legittimità del potere esecutivo (giurisdizione e amministrazione), egli vedeva la più efficace garanzia della costituzione e il tratto caratteristico della costituzione federale austriaca»38. È comunque certo che l’istituzione di leggi costituzionali gerarchicamente superiori alle leggi ordinarie, cioè a quelle norme del sistema che tradizionalmente erano considerate le norme ultime, introducendo un grado ulteriore nel sistema normativo permetteva di vedere, più distintamente di quel che fosse accaduto sino allora, anche gli altri gradi. Non è un caso che un teorico del diritto come Hart, che costruisce la sua teoria sulla base della costituzione inglese dove manca il grado superiore delle norme costituzionali, si fermi alla distinzione tra norme primarie e norme secondarie, e adombri senza approfondirlo il principio della struttura gerarchica dell’ordinamento (da questo punto di vista la teoria di Hart costituisce un passo indietro rispetto a quella di Kelsen). A maggior ragione, la teoria dinamica dell’ordinamento giuridico difficilmente sarebbe potuta nascere dalla riflessione sulla costituzione di uno stato assoluto o di una società primitiva. Il che non toglie che la rappresentazione dell’ordinamento giuridico come sistema gerarchico a molti gradi serva a comprendere meglio anche gli ordinamenti più semplici, cioè serva a comprendere che anch’essi hanno una struttura, e costituiscono un sistema, non sono cioè un coacervo di norme. (L’anatomia dell’uomo, avrebbe detto Marx, serve a comprendere meglio l’anatomia della scimmia.) Ciò che invece non è stato sino ad ora, almeno a mia conoscenza, osservato è che la teoria kelseniana sulla struttura interna di un sistema giuridico può essere messa utilmente a raffronto con la contemporanea teoria weberiana del processo di razionalizzazione (formale) del potere statale, onde deriva quel tipo di stato amministrativo o burocratico la cui legittimità è data dalla forma di potere che Weber chiama, a ragione, per il nesso che egli scorge tra razionalizzazione e legalizzazione, «legale». La costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico può ben essere considerata come la rappresentazione più adeguata di quello stato razionale e legale,

razionale perché regolato dal diritto a tutti i livelli, la cui formazione costituisce, secondo Weber, la linea di tendenza del grande stato moderno (capitalistico e non). Ancora una volta questo non significa che Kelsen, nonostante la sua pretesa di elaborare una teoria generale del diritto, valida per tutti i sistemi giuridici di tutti i tempi, teorizzi in realtà una forma storica di stato: significa che una compiuta teorizzazione del sistema giuridico come sistema normativo complesso non poteva nascere se non da una continua riflessione sulla formazione dello stato moderno in cui la razionalizzazione dei processi di produzione giuridica rende più evidente la struttura piramidale dell’ordinamento, ovvero permette di percepire con maggiore perspicuità che quell’ordinamento normativo cui diamo il nome di ordinamento giuridico è un universo strutturato in un certo modo. Ciò che qui preme rilevare è che, quando Kelsen descrive la progressiva giuridificazione dello stato moderno, tanto da giungere alla famosa o famigerata riduzione dello stato a ordinamento giuridico, rileva lo stesso processo che Weber coglie nella formazione del potere legale, che accompagna lo sviluppo dello stato nello stesso periodo storico. Lo stato è lo stesso ordinamento giuridico (Kelsen) in quanto il potere è completamente legalizzato (Weber). Ciò che distingue lo stato come ordinamento giuridico da altri ordinamenti giuridici come gli ordinamenti delle società prestatali o l’ordinamento internazionale, è un certo grado di organizzazione, ovvero l’esistenza di organi «che lavorano secondo le regole della divisione del lavoro per la produzione e l’applicazione delle norme da cui esso è costituito»39. Quando Kelsen precisa che la presenza di questa organizzazione per la produzione e l’applicazione del diritto comporta la conseguenza che il rapporto definito come potere statuale si differenzia dagli altri rapporti di potere per il fatto di essere esso stesso regolato da norme giuridiche, sembra descrivere quella forma di potere legittimo che è per l’appunto il potere legale, la cui principale caratteristica è quella di avere apparati specializzati come l’apparato giudiziario e quello amministrativo (Kelsen aggiungerebbe anche l’apparato legislativo) che agiscono nei limiti di regole generali ed astratte poste dal sistema. Niun dubbio che la descrizione kelseniana si trovi ad un livello superiore di astrazione rispetto a quella weberiana; ma Kelsen si propone di elaborare una teoria generale dello stato, mentre Weber descrive un tipo ideale di stato, che non è il solo tipo storicamente esistente. Non diversamente da

Weber, Kelsen si rende conto dell’enorme importanza dei grandi apparati amministrativi nella formazione dello stato moderno. Ma mentre Weber identifica nella burocratizzazione della maggior parte delle attività dello stato la tipicità del potere legale, Kelsen vi scorge una fase di quel processo di progressivo accentramento delle attività di produzione e di applicazione del diritto in cui ritiene consista la caratteristica dell’ordinamento giuridico statuale (processo che egli chiama passaggio dal Gerichtsstaat al Verwaltungsstaat)40. Si può anche aggiungere che al di là di questa convergenza tra la concezione teorica del Kelsen e la descrizione weberiana del processo tendenziale dello stato moderno, per Weber era chiaro ciò che era chiarissimo anche per Kelsen, e cioè che il punto di vista del giurista è diverso da quello del sociologo. Ciò che Weber dice sul diritto, in quanto sociologo, cioè che esiste un ordinamento giuridico quando si forma in un determinato gruppo sociale un apparato coercitivo, può essere letteralmente sottoscritto da Kelsen. D’altro canto, Weber avrebbe potuto sottoscrivere la tesi kelseniana secondo cui per capire che cosa sia il diritto bisogna guardare non alle regole ma al loro insieme, cioè all’ordinamento nel suo complesso41.

4. Struttura e funzione nella teoria del diritto Il significato storico dell’opera kelseniana è legato all’analisi strutturale del diritto come ordinamento normativo specifico, la cui specificità consiste per l’appunto non nei contenuti normativi ma nel modo con cui le norme sono unite l’una all’altra in sistema. Questo tipo di analisi costituisce anche il limite della teoria pura del diritto. Non c’è dubbio che lo sviluppo dell’analisi strutturale è andato a scapito dell’analisi funzionale: a paragone del rilievo che Kelsen ha dato ai problemi strutturali del diritto è estremamente angusto lo spazio che egli ha riservato ai problemi relativi alla funzione del diritto. È significativo che proprio il passo, già citato, in cui afferma che la teoria pura studia il diritto nella sua struttura, appartenga a un contesto il cui scopo è quello di negare che essa debba occuparsi dei fini dell’ordinamento giuridico. La ragione per cui Kelsen non si è preoccupato del fine dell’ordinamento giuridico sta nel fatto che egli ha del diritto, inteso come forma di controllo sociale, una concezione meramente strumentale, la

quale, occorre ripeterlo, va perfettamente d’accordo con il relativismo etico e l’irrazionalismo dei valori. Una delle affermazioni ricorrenti in tutta l’opera kelseniana è che il diritto non è un fine ma un mezzo. Come mezzo può essere usato per raggiungere i fini più diversi, come la storia del diritto insegna. Ma proprio in quanto serve a raggiungere i fini più diversi, un’analisi che parta dai fini o peggio dal fine (come quella dei giusnaturalisti) non permetterà mai di cogliere l’essenza del diritto. Per Kelsen il diritto è «una tecnica dell’organizzazione sociale»: la sua specificità consiste nell’uso dei mezzi coercitivi per indurre i membri di un gruppo sociale a fare o a non fare alcunché. Il diritto è un «meccanismo coattivo». Ciò che è comune a tutti gli ordinamenti sociali che chiamiamo giuridici è la presenza di un’organizzazione più o meno accentrata per ottenere, ricorrendo in ultima istanza alla forza, l’esecuzione di certi obblighi di fare o l’osservanza di certi obblighi di non fare. Da questo punto di vista si capisce perché il diritto possa avere gli scopi più diversi: ha di volta in volta tutti gli scopi cui un gruppo sociale annette tanta importanza da ritenere che debbano essere raggiunti ricorrendo anche alla forza. Con la terminologia dei sociologi, che Kelsen peraltro non usa, il diritto è una delle forme possibili di controllo sociale, specificamente è quella forma di controllo che si vale dell’uso della forza organizzata. Considerato il diritto come mezzo e non come fine, definito come specifica tecnica sociale, l’analisi funzionale del diritto è presto esaurita. La funzione del diritto è quella di permettere il raggiungimento di quei fini sociali che non possono essere raggiunti con altre forme (più blande, meno costrittive) di controllo sociale. Quali siano questi fini varia da società a società: è un problema storico, non un problema che possa interessare la teoria del diritto. Non già che il problema funzionale sia del tutto eluso. Ma nulla mostra come Kelsen volesse non impegnarsi troppo nel problema del fine del diritto quanto la correzione «non lieve»42 apportata nella seconda edizione della Reine Rechtslehre ai due paragrafi della General Theory of Law and State, in cui si era lasciato sfuggire l’affermazione che il diritto ha, sì, uno scopo, e questo scopo è la pace sociale: «il diritto – aveva detto – è indubbiamente un ordinamento per la promozione della pace»43. Una frase di questo genere apre un discorso teleologico: infatti, in quanto organizzazione della forza monopolizzata, il diritto limita l’uso indiscriminato della forza; se si

definisce la pace «come quella condizione in cui non viene usata la forza», si deve concludere che il diritto «assicura la pace della comunità»44. La correzione «non lieve» che egli introduce nell’ultima opera a questo passo consiste nel rifiutare la pace come fine del diritto e nell’indicare al suo posto un concetto assai più generico e meno compromettente, come quello di «sicurezza collettiva», derivato manifestamente dal diritto internazionale: come organizzazione della forza monopolizzata, il diritto assicurerebbe non tanto la pace quanto la sicurezza collettiva, la quale non è essa stessa la pace ma «mira alla pace»45. In questo senso sembrerebbe che la pace non fosse il fine del diritto ma una specie di ideale-limite cui il diritto tende. Subito dopo, infatti, Kelsen si affretta a precisare che negli ordinamenti giuridici primitivi, fondati sul principio dell’autotutela (e il diritto internazionale è uno di questi), «non si può parlare seriamente di una pacificazione, anche soltanto relativa, della comunità giuridica»46. Donde la conclusione: «Non si può ritenere con ragione che lo stato di diritto sia necessariamente uno stato di pace e che l’assicurare la pace sia una funzione essenziale del diritto»47. Certo, il diritto ha un fine, ma è un fine minimo, un fine intermedio, un fine che ha valore strumentale, in quanto serve di condizione preliminare per raggiungere altri fini. Il diritto non ha un fine ultimo (come la giustizia, il bene comune, l’interesse collettivo). Il suo fine non è neppure quello hobbesiano della pace, che è già esso stesso manifestamente un fine intermedio. Nella retrocessione della ricerca di questo fine minimo, dalla pace alla sicurezza collettiva, Kelsen mostra insomma la caccia spietata che egli dà a ogni tentativo di determinare, per usare l’espressione jheringhiana, lo «scopo del diritto». Kelsen si rende perfettamente conto che dal punto di vista dell’analisi funzionale le sue affermazioni non fanno altro che riprodurre, se pure in forma ancor più drastica e in maniera ideologicamente sempre più sterilizzata, uno dei caposaldi del positivismo giuridico. Introducendo il discorso sulla coazione, nella prima edizione della Reine Rechtslehre, ha cura di avvertire che «in questo punto la dottrina pura del diritto continua la tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX»48. Sotto questo aspetto, che è appunto l’aspetto funzionale, sembra che egli non abbia nulla di particolarmente importante da dire. I problemi, cui il positivismo giuridico non aveva dato una risposta, erano quelli relativi alla struttura di questo meccanismo coattivo in cui consiste il diritto. Per

questo, messo da parte il problema della funzione, egli volge la propria attenzione essenzialmente all’analisi strutturale. Ma così accade che, mentre in questa analisi il suo contributo è stato fondamentale, e non è più contestato se non dai giusnaturalisti attardati (che peraltro vanno scomparendo), dai giuristi sovietici per pregiudizi ideologici duri a morire, e da alcuni tra i più radicali realisti americani per una sorta di fobia contro ogni sorta di teoria generale, l’analisi funzionale resta nella dottrina kelseniana più o meno ferma al punto in cui egli l’aveva trovata, proprio nel momento in cui la società andava trasformandosi rapidamente nei paesi industrialmente più sviluppati, e questa trasformazione avrebbe fatto emergere una diversa funzione del diritto che i giuristi del secolo scorso non avevano potuto neppure prevedere. Non si può certo rimproverare il Kelsen di non essersi accorto di un processo in corso, che del resto è stato poco osservato anche da coloro che sono venuti dopo di lui. Ma dovendo fare un bilancio non si può fare a meno di constatare quanto la vecchia teoria del diritto come ordinamento coattivo, accolta in toto dal fondatore della teoria pura del diritto, sia oggi inadeguata. Come ho avuto occasione di dire altrove, Kelsen non ha avuto mai alcun dubbio sul fatto che la tecnica di controllo sociale propria del diritto consistesse nella minaccia e nell’applicazione di sanzioni negative, cioè di quelle sanzioni che infliggono un male a coloro che compiono azioni socialmente indesiderabili. Ogni qualvolta ripete la sua definizione del diritto come ordinamento coattivo ha cura di precisare che il diritto è tale perché è in grado di procurare del male, se pure sotto forma di privazione di beni, al violatore delle norme. Ordinamento coattivo e ordinamento basato su sanzioni negative sono nel suo linguaggio sinonimi. Ma ormai si va sempre più imponendo all’osservatore spregiudicato la constatazione che da quando lo stato ha cessato di essere indifferente di fronte allo sviluppo economico, la funzione del diritto ha cessato di essere esclusivamente protettivo-repressiva. Lo strumento giuridico classico dello sviluppo economico in una società in cui lo stato non interviene nel processo economico, è stato il negozio giuridico, di cui il diritto, proprio in quanto ordinamento coattivo, si limita a garantire l’efficacia. Ma da quando lo stato si assume il compito, non soltanto di controllare lo sviluppo economico, ma di dirigerlo, lo strumento idoneo a questa funzione non è più la norma rafforzata da una sanzione negativa contro

coloro che la trasgrediscono, ma la direttiva economica, che spesso viene rafforzata da una sanzione positiva in favore di coloro che vi si conformano, come accade, per esempio, nelle cosiddette leggi d’incentivazione, che cominciano ad essere studiate con attenzione dai giuristi. Onde la funzione del diritto non è più soltanto protettivorepressiva ma anche, e sempre più frequentemente, promozionale. Al giorno d’oggi, un’analisi funzionale del diritto che voglia tener conto dei mutamenti avvenuti in quella «specifica tecnica dell’organizzazione sociale» che è il diritto non può non integrare lo studio della tradizionale funzione protettivo-repressiva del diritto con quello della sua funzione promozionale. Questa integrazione è, a mio avviso, necessaria se si vuole elaborare un modello teorico rappresentativo del diritto come sistema coattivo. Si tratta di passare dalla concezione del diritto come forma di controllo sociale alla concezione del diritto come forma di controllo e di direzione sociale. Detto questo, occorre anche aggiungere che i mutamenti avvenuti nella funzione del diritto non inficiano la validità dell’analisi strutturale, così com’è stata elaborata da Kelsen. Ciò che Kelsen ha detto intorno alla struttura dell’ordinamento giuridico resta perfettamente in piedi anche dopo gli sviluppi più recenti dell’analisi funzionale. La costruzione del diritto come sistema normativo dinamico non è minimamente intaccata dalle rilevazioni che riguardano il fine del diritto. Per essa una norma è giuridica quando sia stata prodotta nelle forme previste, cioè in conformità di altre norme dell’ordinamento, in particolare da quelle norme che regolano la produzione delle norme del sistema. Che una norma miri a reprimere o a promuovere un determinato comportamento non ha, rispetto alla struttura dell’ordinamento, nessuna rilevanza. Anzi, la specificità dell’ordinamento giuridico rispetto ad altri ordinamenti sociali rimane ancora una volta affidata alla tipicità della sua struttura e non alla sua funzione che, quale essa sia, si esplica nella forma che è propria di un ordinamento dinamico. La svolta che la teoria pura del diritto ha rappresentato nello sviluppo della giurisprudenza teorica è insomma una di quelle svolte oltre cui è possibile andare avanti ma da cui non è lecito tornare indietro. Prova ne sia che la maggiore opera di giurisprudenza teorica dopo Kelsen, quella di Hart, ha proseguito sulla stessa strada, cercando nella struttura specifica dell’ordinamento giuridico, individuata

nell’«unione di norme primarie e di norme secondarie», la determinazione del «concetto del diritto».

Note 1

Il titolo intero è Hauptprobleme der Staatsrechtslehre entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze, Mohr, Tübingen 1910. La seconda edizione è una riproduzione foto-meccanica della prima, con l’aggiunta di un’importante Introduzione (pp. V-XXIII), che fa il punto sullo sviluppo della teoria pura del diritto negli ultimi dieci anni. La più ampia bibliografia delle opere di Kelsen e su Kelsen si trova in appendice a R.A. Metall, Hans Kelsen. Leben und Werk, F. Deuticke, Wien 1969, pp. 124-216. Aggiornata sino al 1965 è la bibliografia delle opere di Kelsen che si trova in appendice al Saggio introduttivo di M.G. Losano, premesso alla edizione italiana della seconda edizione della Reine Rechtslehre; H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. LXII-XC. 2 Anche questa espressione «giurisprudenza teorica» (theoretical jurisprudence) si trova in Kelsen, per esempio in General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1945 (d’ora innanzi citato come GTLS), p. 141 (trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 143). 3 Mi limito a ricordare, dopo la bibliografia di Metall, citata, la monografia, a dire il vero alquanto scolastica, di R. Hauser, Norm, Recht und Staat. Überlegungen zu Hans Kelsens Theorie der reinen Rechtslehre, Springer Verlag, Wien 1968. 4 «Rechtstheorie. Zeitschrift für Logik, Methodenlehre, Kybemetik und Soziologie des Rechts», Duncker & Humblot, Berlin 1970. 5 R. Walter, Der gegenwärtige Stand der reinen Rechtslehre, in «Rechtstheorie», I, 1970, pp. 69-95. 6 J. Piaget, Les deux problèmes principaux de l’épistémologie des sciences de l’homme, in Logique et connaissance scientifique, vol. XXII dell’«Encyclopédie de la Pléiade», Paris 1967, p. 1117. Sul rapporto Piaget-Kelsen, cfr. G. Cellerier, Incidenza dell’epistemologia genetica sulla teoria dei fondamenti del diritto, in AA.VV., Jean Piaget e le scienze sociali, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 71-113. 7 H. Kelsen, Pure Theory of Law and Analytical Jurisprudence, in «Harvard Law Review», LV, 1941, pp. 44-70 (trad. it. in Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Einaudi, Torino 1967, pp. 173-206). 8 Una lunga discussione con Kant si trova nella seconda edizione della Reine Rechtslehre, F. Deuticke, Wien 1960 (citata d’ora innanzi come RRL2), pp. 102-5 (trad. it., Einaudi, Torino 1966, pp. 119-20). Per i rapporti tra Kelsen e il neo-kantismo è ancora fondamentale R. Treves, Il fondamento filosofico della dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, in «Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino», LXIX, 1934 (p. 43, estratto). 9 Cfr. il paragrafo intitolato Die Libido als Kriterium der sozialen Verbindung, nel libro Der soziologische und der juristische Staatsbegriff, Mohr, Tübingen 1922, pp. 19-33. Un accenno alla psicoanalisi anche in Das Verhältnis von Staat und Recht im Lichte der Erkenntniskritik, in «Zeischrift für öffentliches Recht», II, 1921, p. 506. 10 H. Kelsen, Die Entstehung der Kausalgesetzes aus dem Vergeltungsprinzip, in «The Journal of Unified Science», VIII, 1939, pp. 69-130; Causality and Retribution, ivi, pp. 234-40. 11 Per queste notizie rinvio Metall, Hans Kelsen, cit., pp. 67 e 110. Cfr. anche F. Barone, Il neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino 1953, p. 247. 12 In una nota di Vom Wesen der Demokratie, Mohr, Tübingen 1920 (che cito dalla trad. it., Essenza e valore della democrazia, in H. Kelsen, Democrazia e cultura, Il Mulino, Bologna 1955), Kelsen

discute l’affermazione di Roberto Michels, secondo cui il fascismo nella sua tendenza antiparlamentare si era appoggiato a Pareto, e la rifiuta ritenendo che l’atteggiamento di Pareto nei riguardi del parlamento fosse quello di un liberale (pp. 46-47). Il giudizio di Michels si fondava sul saggio paretiano Pochi punti di un futuro ordinamento costituzionale, che egli stesso aveva pubblicato subito dopo la morte di Pareto in «La vita italiana», settembre-ottobre 1923, pp. 165-69, presentandolo come «il testamento politico del più grande sociologo e pensatore dell’epoca presente lasciato a tutti gli italiani giovani senza distinzione di partito» (ora in V. Pareto, Scritti politici, a cura di G. Busino, Utet, Torino 1974, vol. II, pp. 795-800). Lo stesso riferimento a Pareto si trova anche in un saggio posteriore del Kelsen, Das Problem des Parlamentarismus, W. Braumüller, Wien-Leipzig 1924, come viene rilevato da P. Tommissen, La conception parétienne de la démocratie, in «Res publica» (Revue de l’Institut belge de science politique), XVII, 1975, pp. 5-30, che cita a p. 23 il saggio kelseniano dalla seconda edizione del 1968 (dove il passo commentato si trova a pp. 42-44). Di questo scritto kelseniano esiste anche una vecchia traduzione italiana in «Nuovi studi di diritto, economia e politica», II, 1929, pp. 182-204. Come ognun può vedere da queste citazioni, l’incontro di Kelsen con Pareto fu occasionale, e non riguardò né la teoria del diritto del primo né la teoria sociologica del secondo. 13 Nella Prefazione della prima opera, intitolata La règle de droit, F. Rouge, Lousanne 1889, Roguin scriveva: «noi studiamo il diritto, dal punto di vista analitico e sintetico, come il chimico studia i corpi che egli scompone e classifica... Per la loro stessa natura, le nostre conclusioni sono, salvo errore, altrettanto rigorose che quelle della scienza dei corpi materiali» (p. VI). Nella Prefazione della seconda opera, La science juridique pure, F. Rouge, Lousanne 1923, cita come precedente Austin, non menziona Kelsen e ribadisce che le verità dimostrate nel suo sistema «non implicano in se stesse alcun giudizio di valore riguardo al merito o al demerito delle soluzioni e delle istituzioni giuridiche» (p. XX). Sui rapporti tra Pareto e Roguin ha richiamato l’attenzione G. Busino, Ernest Roguin e Vilfredo Pareto, in «Cahiers Vilfredo Pareto», 1964, n. 4, pp. 189-210. Sui rapporti fra Kelsen e Roguin, F. Guisan, La science juridique pure. Roguin e Kelsen, in «Zeischrift für schweizerisches Recht», LIX, 1940, pp. 207-38. Su Roguin ho scritto io stesso un saggio: Un dimenticato teorico del diritto: Ernest Roguin, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, Giuffrè, Milano 1978, vol. IV, pp. 43 sgg. 14 Cfr. il paragrafo Der Staat als Rechtsordnung in den Kategorien der «verstehenden» Soziologie, in Der soziologische und der juristische Staatsbegriff, cit., pp. 156-70. Sul soggiorno di Kelsen ad Heidelberg cfr. Metall, Hans Kelsen, cit., pp. 10 sgg. 15 Reine Rechtslehere, F. Deuticke, Leipzig-Wien 1934, Prefazione (citato d’ora innanzi come RRL1). 16 GTLS, p. XIV (trad. it., p. IX). 17 Hauptprobleme, cit., p. XXIII. 18 Metall racconta che Kelsen non si iscrisse mai ad alcun partito politico, perché riteneva che l’appartenenza ad un partito mettesse a repentaglio o limitasse l’indipendenza scientifica (Hans Kelsen, cit., p. 33). 19 RRL1, § 8. 20 RRL1, § 8. 21 GTLS, p. 7 (trad. it., p. 7). 22 GTLS, p. 6 (trad. it., p. 6). 23 RRL2, § 12. 24 GTLS, p. 8 (trad. it., p. 8). E ancora: «Uno studio più approfondito delle fonti rivelerebbe

che queste tesi, cioè le tesi dei giusnaturalisti sul diritto naturale come fondamento del diritto positivo, erano assolutamente irrilevanti per la validità del diritto positivo: il carattere della dottrina giusnaturalistica in generale, e della sua corrente principale, era strettamente conservatore. Il diritto naturale, quale era affermato dalla teoria, era essenzialmente una ideologia, che serviva a sostenere, giustificare, e rendere assoluto il diritto positivo, o, ciò che è la stessa cosa, l’autorità dello stato» (p. 416, trad. it., p. 423). 25 H. Kelsen, Aussätze zur Ideologiekritik, con un’Introduzione e a cura di E. Topitsch, Hermann Luchterhand Verlag, Neuwied am Rhein 1964. 26 RRL1, § 50 i. 27 RRL2, § 6 c. 28 RRL1, § 26. Cfr. anche RRL2, § 33 g. 29 A. Merkl, Die Lehre von der Rechtskraft entwickelt aus dem Rechtsbegriff, F. Deuticke, LeipzigWien 1923, p. 223. 30 GTLS, p. 3 (trad. it., p. 3). 31 Sulle varie nozioni di sistema giuridico cfr. G. Lazzaro, L’interpretazione sistematica della legge, Giappichelli, Torino 1965, specie il cap. I; per una storia dell’idea di sistema, con particolare riguardo alla scienza giuridica e al diritto, cfr. M.G. Losano, Sistema e struttura nel diritto, vol. I, Giappichelli, Torino 1968. Alcune considerazioni sul tema ho svolto anche nel saggio Per un lessico di teoria generale del diritto, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova 1975, pp. 135-46. 32 RRL1, § 9. 33 RRL1, § 14 c. R. Treves traduce Sinngehalt con «struttura» (trad. it., ed. 1952, p. 48). Il traduttore italiano della seconda edizione, M.G. Losano, traduce la tipica espressione kelseniana Stufenbau (costruzione a gradi) con «struttura gerarchica» adducendo alcuni passi in cui lo stesso Kelsen usa il termine Struktur con riferimento appunto alla costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico (La dottrina pura del diritto, cit., p. XCIX). 34 Ibid. 35 H. Kelsen, Die philosophischen Grundlagen der Naturrechtslehre und des Rechtspositivismus (1929), che cito dalla trad. it. in appendice a GTLS, p. 407. Cfr. anche RRL2, § 34 b. 36 Oltre l’articolo di R. Walter, già citato, cfr. B. Akzin, Analysis of State and Law Structure, in Law, State and International Legal Order. Essays in Honor of Hans Kelsen, edited by E. Engel and R.A. Metall, The University of Tennessee Press, Knoxville 1964, pp. 2-20. 37 Non mi pare colgano e approfondiscano questo aspetto del problema dell’ordinamento giuridico i due libri recenti sull’argomento, per altri versi importanti e meritevoli della massima considerazione: J. Raz, The Concept of a Legal System, Clarendon Press, Oxford 1970; C.E. Alchourrón-E. Bulygin, Normative Systems, Springer, Wien 1971. 38 Metall, Hans Kelsen, cit., p. 36. 39 RRL2, § 41 a. 40 RRL1, § 48 c; RRL2, § 41 b. 41 Un richiamo a Kelsen, ma solo per quel che riguarda il Wertrelativismus, si trova nel saggio sul pensiero giuridico weberiano di K. Engisch, Max Weber als Rechtsphilosoph und Rechtssoziologe, in Max Weber. Gedächtnisschrift der Ludwig-Maximilians-Universität München zum 100. Wiederkehr seines Geburtstages 1964, Duncker & Humblot, Berlin 1966, pp. 67-88. Per la stessa ragione Weber e Kelsen sono accomunati nella critica da G. Lukács: Die Zerstörung der Vernunft (1954), di cui cito la trad. it., La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 617.

42

RRL2, p. 40 (trad. it., p. 51). 43 GTLS, p. 21 (trad. it., p. 21). 44 GTLS, p. 21 (trad. it., p. 21). 45 RRL2, p. 39 (trad. it., p. 50). 46 RRL2, p. 39 (trad. it., p. 50). 47 RRL2, p. 40 (trad. it., p. 51). 48 RRL1, § 12.

X. Tullio Ascarelli

1. Riflessioni introduttive e conclusive sull’ultima opera L’ultimo scritto di Tullio Ascarelli prima della morte, avvenuta prematuramente il 20 novembre 1959, fu l’ampia Introduzione a un’edizione di testi rari di Hobbes e di Leibniz1. Il libro apparve postumo, curato e annotato da Giorgio Bernini e Domenico Maffei, con una presentazione del discepolo Michele Giannotta. Era il primo volume di una collana di «Testi per la storia del pensiero giuridico», che, ideata da tempo, era stata negli ultimi anni oggetto di ripensamenti e cure costanti. Il nostro comune interesse per il pensiero giuridico di Hobbes, e specialmente per il Dialogo sul diritto comune, alla pubblicazione del quale attendevamo contemporaneamente all’insaputa l’uno dell’altro, era stato all’origine di uno scambio epistolare avvenuto nei primi mesi del ’59. Il pensiero della collana, che egli aveva concepita come strumento di rottura e di apertura verso la dottrina giuridica, generalmente incuriosa della propria storia, e mezzo di rinnovata diffusione delle idee, che più gli stavano a cuore, sulla natura e sulla funzione della scienza giuridica, era, in quelle lettere, preminente. Il 10 febbraio mi scriveva: «... io sono assai convinto della necessità di un’apertura di finestre culturali nel mondo del diritto». Quindi abbozzava quasi un programma di lavoro: «...con tanti studi sul “mos gallicus” nessuno ha rilevato il rapporto con la posizione dei culti di Ottomano, ecc., con Ockham, e col nominalismo; nello studiare l’interpretazione del ’500 e poi Ramus si è dimenticato che al contrasto con Ramus è intesa la “Nova Methodus” di Leibniz; con tutto quello che Domat rappresenta per la codificazione napoleonica e nostra non si è indicato quanto sulle sue tesi... abbia potuto influire il suo legame col mondo di Port Royal». Subito dopo, con una impennata verso i principi, di cui s’era fatto negli ultimi anni assertore, propugnatore, divulgatore,

scopriva il fondo del suo pensiero, la reale intenzione che lo muoveva nell’intrapresa: «...i giuristi immaginano di lavorare su un piano meramente tecnico scissi dall’opera del legislatore e dallo sviluppo della storia e a loro volta vengono così considerati. Così l’attività del giurista diventa un po’ sempre un’arte di azzeccagarbugli, mentre forse le varie correnti di pensiero e le varie ideologie poi operano proprio attraverso tutti gli schemi del lavoro del giurista». Chi abbia qualche familiarità con le opere di Ascarelli, troverà in queste poche battute alcuni tratti essenziali e originali della sua personalità di studioso – indocilità verso le idee tramandate, amore dell’avventura intellettuale, bisogno di muoversi in spazi sempre più larghi – e del suo pensiero – storicismo e realismo congiunti insieme, che confluiscono nella concezione della indistinzione tra diritto e scienza giuridica. Come ultimo scritto, la lunga Introduzione ai testi di Hobbes e di Leibniz assume un significato singolarissimo nell’evoluzione di un pensiero che si era mosso ininterrottamente in un’unica direzione. Dopo tante allusioni e riferimenti e straripamenti verso la storia del pensiero giuridico, e dopo tante schermaglie, quasi sempre occasionali, con le correnti del pensiero giuridico contemporaneo, negli scritti degli ultimi dieci anni, Ascarelli affrontava in questa Introduzione, per la prima volta direttamente, un tema storico e filosofico insieme. Essa costituì certamente il punto di arrivo di un lungo travaglio e insieme una prova del fuoco: se la sua vita non fosse stata recisa troppo presto, sarebbe stata probabilmente anche un punto di partenza. Il filo rosso, che aveva legato tutte insieme le sue opere da quelle giovanili a quelle della maturità, sempre più forte, teso e visibile negli scritti dell’ultimo decennio, era stata l’idea della natura creatrice e non soltanto ricreatrice, assiologica e non soltanto logica, innovativa e non soltanto dichiarativa, dell’opera dei giuristi. Eppure, nonostante la parte di protagonisti che essi hanno assolto nella elaborazione secolare del patrimonio di regole giuridiche di cui dispone oggi la società moderna per risolvere gli infiniti problemi di convivenza e di organizzazione che un’economia sempre più complessa, traffici sempre più intensi, sollevano, i giuristi tendono, per lunga e consolidata tradizione, a considerare la loro opera come un monumento di rigore logico e di costruzione sistematica: non si ricorderà mai abbastanza il grande Savigny che ammirava i giuristi romani perché «calcolavano» coi loro concetti. Ragione di sorpresa e

occasione di continue riflessioni fu per Ascarelli l’osservazione del perenne divario tra quello che i giuristi effettivamente fanno e quel che spesso credono o pretendono e dicono di fare. Non si faceva in tempo a scoprire il terreno reale su cui si muoveva il pensiero giuridico di tutte le età che una nuova ondata di metodologica presunzione lo ricopriva: gli ultimi strali di Ascarelli erano rivolti al neopositivismo che cercava di mettere una fronda al vecchio, ormai devastato albero del logicismo giuridico. Pertanto, uno dei compiti fondamentali della storia del pensiero giuridico doveva essere quello di dar conto delle ragioni della divergenza tra il metodo effettivamente praticato e la metodologia proposta e proclamata. Ascarelli, da buon storicista, sapeva che le metodologie non nascono improvvise nel cervello di un pensatore, perché sono il prodotto di situazioni storiche concrete, in particolare, trattandosi di teorie sul metodo della scienza giuridica, delle condizioni di sviluppo di una determinata società, coi suoi conflitti d’interesse e con le concezioni generali che ne derivano sulla funzione del diritto. Perciò, allo scopo di veder chiaro in quella divergenza era necessario collocare l’eterna aspirazione del giurista a far dell’arte sua una scienza, addirittura una scienza esatta, nel contesto storico in cui la giurisprudenza opera, individuare i nessi tra l’ideologia della giurisprudenza come scienza e la realtà storica da cui scaturiva, insomma avvicinarsi allo studio della storia della giurisprudenza – impresa affascinante e sterminata – con lo sguardo rivolto alla sua funzione reale piuttosto che non a quella di volta in volta proclamata. La pubblicazione di alcuni testi scelti di Hobbes e di Leibniz mirava precisamente a questo scopo. Può apparir strano il connubio tra due pensatori che sono di solito considerati su opposte sponde rispetto alla fondazione ultima del diritto, l’uno volontarista, l’altro razionalista, o, se si vuole, giusnaturalista nel senso più rigoroso della parola, nemico dichiarato dei volontaristi, e di Hobbes in ispecie. Ma nel programma di ricerche e nell’intenzione polemica di Ascarelli essi erano strettamente congiunti dalla comune concezione dell’interpretazione giuridica come opera non innovativa ma dichiarativa: potevano quindi essere considerati come autorevoli progenitori della concezione «dogmatica» della giurisprudenza, che aveva rappresentato una parte tanto cospicua nella storia del pensiero giuridico del secolo scorso, responsabili artefici di uno dei dogmi fondamentali del positivismo giuridico. Anche se l’espressione

«positivismo giuridico» non è abituale nel linguaggio di Ascarelli per indicare quella teoria e quell’ideologia del diritto, di cui la concezione dichiarativa dell’interpretazione è stata uno dei maggiori caposaldi, credo si possa annoverare questa proposta ascarelliana di rileggere Hobbes e Leibniz in una stessa chiave tra le testimonianze di un recente diffuso interesse per le fonti del positivismo giuridico: solo questa collocazione, del resto, può offrire il giusto angolo per giudicare un’opera, che è stata l’ultimo messaggio di un autore estremamente sensibile nell’individuare i punti nodali di un processo storico, e sarebbe dovuto essere l’inizio di un ripensamento insieme puntuale e globale di un indirizzo di pensiero giunto al momento del rendiconto risolutivo. Ascarelli sapeva benissimo che Leibniz era, a parole, antihobbesiano: ma gli premeva dimostrare che la teoria dell’interpretazione, che lo accomunava ad Hobbes, doveva avere (e aveva) un’unica radice, cioè l’esigenza della certezza elevata a supremo valore dell’esperienza giuridica. E così raggiungeva anche un altro scopo: far vedere che dietro la teoria più astratta e apparentemente innocua si nascondeva un’ideologia, e compito dello storico è di snidarla. Peraltro, nonostante l’identità dell’ispirazione, le teorie di Hobbes e di Leibniz non potevano essere confuse l’una con l’altra: la medaglia che essi volevano coniare era la stessa ma ognuno ne aveva riprodotto una sola faccia. Fuor di metafora, i loro sforzi sistematici corrispondevano a due momenti diversi dell’ideale della certezza: quelli di Hobbes al momento della posizione d’un ordinamento, quelli di Leibniz al momento dell’applicazione di un ordinamento già posto (che era per lui, una volta per sempre, il diritto romano). Con le parole di Ascarelli: «La certezza di Hobbes è la certezza di una soluzione, e la sicurezza di una convivenza; quella di Leibniz la certezza di un’argomentazione»2. Il rilievo dato a questa distinzione può spiegare come mai Ascarelli assuma di fronte ai due autori, anche se in forma non del tutto esplicita, due atteggiamenti diversi, di simpatia e in parte di adesione rispetto a Hobbes, di critica, o per lo meno di freddo distacco, di fronte a Leibniz. Verso quest’ultimo non si stanca mai di ripetere che l’assegnare al giurista un compito meramente dichiarativo, logico, e al massimo sistematico, è prova di spirito conservatore, è la manifestazione di una concezione passiva, servile, della giurisprudenza, di una visione statica della formazione del diritto, che i giuristi e i principi romani hanno una volta per tutte elaborato, onde non

resta che continuarne l’opera in un rinnovato spirito di rigida fedeltà. Di Hobbes, invece, è un fervido ammiratore: una curiosa nota autobiografica suggerisce, di questa sua ammirazione, una spiegazione psicologica. Citando il libro su Hobbes di Leo Strauss, osserva: «Sembra che coloro che hanno percorso le vie dell’esilio [...] subiscano l’attrazione di Hobbes e forse proprio per il coraggio della sua durezza e insieme per l’eticità che proprio la sua durezza finisce per reintrodurre»3. A giudicar dalla rinascita hobbesiana di questi ultimi anni, dopo il crollo di tanti Leviatani, dalla difesa che del suo pensiero politico è stata fatta da autori non certo sospetti di indulgenza verso il dispotismo, la posizione di Ascarelli non è affatto eccezionale: il fascino perenne di Hobbes deriva dal realismo senza illusione dei suoi principi unito all’asciutto rigore dei suoi ragionamenti. Questa ammirazione peraltro non basta a spiegare come mai un critico così convinto e perseverante di uno dei dogmi più celebri del positivismo giuridico, come Ascarelli, fosse andato a scegliere come testo da consigliare ai giuristi per una lettura liberatrice proprio uno dei documenti più impressionanti, ancorché quasi sconosciuto, della preistoria del positivismo giuridico, il famoso Dialogo sul diritto comune, quel dialogo, tanto per intenderci, in cui, sin dalle prime battute, il Filosofo getta in faccia al Legista, portavoce di sir Edward Coke, la sfida: «Non è la sapienza, ma l’autorità che crea la legge»4. Ascarelli vede nel pensiero di Hobbes due aspetti, uno regressivo, l’altro progressivo: il primo consiste nella teoria dichiarativa dell’interpretazione, ovvero nell’attribuzione al giudice di una parte sostanzialmente passiva nel processo di creazione del diritto, il secondo nella rivalutazione della ragione naturale di ogni singolo individuo, contro la ragione artificiale della corporazione dei legisti, esaltata dai fautori della common law. Ma qual era poi la funzione reale della ragione naturale nella creazione del diritto? Se Ascarelli avesse tratto tutte le conseguenze dai principi hobbesiani, si sarebbe reso conto che nello stato la ragione naturale dei singoli individui viene soppressa e superata nella ragione anch’essa artificiale, perché prodotta da un accordo, del sovrano. Che era poi lo stato, secondo la più genuina esperienza hobbesiana, se non un «homo artificialis» che si ergeva con la sua potenza unificatrice sulla impotenza dissociante dell’«homo naturalis»? La divergenza tra Coke e Hobbes derivava dal contrasto tra la ragione artificiale della corporazione dei giuristi

e la ragione anch’essa artificiale del sovrano. La ragione naturale era stata, in entrambe le teorie, cacciata fuori della porta, e poiché la ragione naturale è l’organo del diritto naturale, quel che in definitiva l’una e l’altra posizione avevano espunto dal sistema era proprio il diritto naturale. Nella riduzione hobbesiana del diritto a calcolo utilitario Ascarelli vedeva, per contraccolpo, l’affermazione di un’etica della coscienza e quindi la liberazione dell’etica dall’abbraccio mortale col diritto. Hobbes, così interpretato, diventava il campione di quella separazione tra morale e diritto che sarebbe stata celebrata da Kant. Era un’interpretazione forse sin troppo generosa di un’etica sostanzialmente utilitaristica. In Hobbes il calcolo utilitario sta in luogo dell’inclinazione e del sentimento morale, o, peggio, della misteriosa e non sempre socialmente utile voce della coscienza. E una volta costituito lo stato per calcolo utilitario, diritto dello stato e morale dell’individuo finiscono, per lo meno nella materia regolata dalle leggi positive, per coincidere. Per fare di Hobbes un teorico di un’etica della coscienza bisognerebbe sbarazzarsi di un passo, che avrebbe dato del filo da torcere al giovane e hobbesianeggiante Locke, di quel passo di Leviathan, in cui si condanna come ripugnante alla società civile la teoria secondo cui «qualunque cosa faccia un uomo contro la sua coscienza, è peccato», giacché per l’uomo, transfuga per calcolo utilitario dallo stato naturale, rifugiatosi nella vita civile, non vi è altra coscienza che la legge: «The law is the public conscience»5. L’interesse dell’Introduzione di Ascarelli andava comunque al di là dell’interpretazione hobbesiana: era, come si diceva, l’inizio di un discorso originale, che sarebbe dovuto essere il più possibile documentato sulla storia della dogmatica giuridica. Ascarelli era giunto a quella maturità di pensiero che permette, anzi sollecita, pause di riflessione retrospettiva: si trattava di andare alla ricerca di fili sparsi che avrebbero dovuto comporre un tessuto organico. Sapeva che bisognava procedere a tentoni, e non aver fretta. Ma l’opera rimase incompiuta. E dall’abbozzo che ci è rimasto sarebbe temerario voler ricostruire l’intero disegno.

2. L’interesse prevalente per il problema dell’interpretazione e della comparazione giuridica nei primi scritti minori

Si può invece cercare di ripercorrere il cammino che lo condusse dai primi scritti sino a quest’ultima tappa. È stato detto che negli ultimi anni, dopo il ritorno dal Brasile, era avvenuta «una decisa evoluzione della sua personalità» e si era rivelato «un nuovo temperamento di studioso»6. Se questa affermazione tende a sottolineare la sorprendente fertilità di idee, la straordinaria fecondità, la particolare insistenza su temi impegnativi di teoria generale del diritto, un certo atteggiamento baldanzoso di demolitore di idee tramandate, che caratterizzarono l’ultimo decennio del suo lavoro, è da accettarsi. Ma se mira invece, come sembra, a mettere in rilievo una vera e propria soluzione di continuità nel suo pensiero, a dare al lettore l’impressione di una spaccatura tra il vecchio e il nuovo, deve essere in questa forma drastica respinta. Vi sono pochi autori che più di Ascarelli abbiano sin dall’inizio – che fu per lui precocissimo – formulato un nucleo di idee fondamentali, cui rimasero poi fedeli sino alla fine. La formazione intellettuale della prima giovinezza, di una giovinezza piena di fermenti e di tentativi, stampò nella sua mente un’impronta profonda. A leggere ora gli scritti minori, minuscoli, dei primi anni, dove sono espressi i pensieri forse più segreti, meglio che nelle opere accademiche, si resta sorpresi nel vedervi già esposte, se pure in forma ancora acerba, alcune delle idee più avanzate dell’età matura. Intanto egli fu, dal principio alla fine, con una convinzione che non ebbe incrinature, nonostante il mutar dei tempi e degli indirizzi e la varietà delle sue esperienze culturali (dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra al Brasile), uno storicista, secondo il verso che lo storicismo aveva preso in Italia per effetto dell’insegnamento crociano. Fu uno storicista coerente. Lo storicismo fu la sua passione e la sua filosofia, la pietra di paragone della validità delle teorie altrui, il criterio ultimo cui ci si appella per sciogliere i nodi più complicati: metodologia e insieme concezione del mondo. Ascarelli appartiene alla seconda generazione crociana, che fiorì subito dopo la prima guerra mondiale ed ebbe tanta parte nell’opposizione al fascismo, alla generazione che ormai potrebbe chiamarsi, dal suo maggior protagonista, gobettiana (e anch’egli fu preso nel vortice, come vedremo, del prodigioso ispiratore di «La Rivoluzione liberale»). Erano gli anni in cui l’idealismo cominciava a far sentire il suo influsso anche nel campo degli studi giuridici, con Cesarini Sforza, Max Ascoli, Cammarata, Maggiore, Battaglia, e qualche anno più tardi col troppo dimenticato

Alessandro Pekelis. L’idealismo storicistico fu la via attraverso cui si sviluppò in Italia la crisi del positivismo giuridico, che in altri paesi maturò per altri influssi. Quel che accadde all’inizio del secolo XIX al giusnaturalismo, il quale fu aggredito da varie parti, dal positivismo, dall’utilitarismo, dallo storicismo di destra e di sinistra, accadde all’inizio del nostro secolo al positivismo giuridico: negli stessi anni in cui François Gény criticava i dogmi del positivismo giuridico richiamandosi a Bergson, i filosofi del diritto italiano della giovane generazione compivano la stessa operazione appellandosi a Croce. Uno dei problemi in cui l’influsso crociano maggiormente (e beneficamente) operò fu quello della interpretazione giuridica, considerata non più come mera riproduzione meccanica di un testo una volta per sempre posto e staccato dal contesto storico da cui era sorto, ma come creazione continua nel processo di adattamento del testo alla realtà storica in movimento. Uno dei motivi dominanti nella filosofia giuridica ispirata all’idealismo storicistico fu l’identità, o se si vuole la distinzione dialettica, tra momento della creazione e momento dell’interpretazione del diritto in nome dell’unità del movimento storico in cui l’astrattezza della norma si converte continuamente nella concretezza della sua attuazione. Sin dal 1908 Croce aveva fatto giustizia sommaria della teoria del diritto libero condannando la strana pretesa del Kantorowicz che al giudice fosse attribuita una facoltà legislatrice: il giudice, questa facoltà, spiegava il Croce, aveva di fatto sempre esercitata. E aggiungeva subito dopo che non poteva non esercitarla «perché, anche prescindendo da casi estremi e straordinari, la legge, a cagion del suo carattere di astrattezza, importa sempre, nella sentenza che la fa sua, un momento volitivo o legislativo»7. Il tema era stato ripreso e svolto dallo stesso Croce nella Filosofia della pratica ed aveva trovato in un fortunato libro di Max Ascoli la sua più ampia formulazione8; era quindi diventato il cavallo di battaglia della nuova generazione di filosofi del diritto, risvegliati per opera dell’idealismo dal sonno dogmatico. Il primo saggio d’ampio respiro di Tullio Ascarelli, per quanto appena ventiduenne non più alle prime armi9, ebbe per oggetto il problema dell’interpretazione10. E ciò, da quel che si è detto sin qui, è notevole per due ragioni: perché è una ulteriore riprova dell’importanza di quel problema nel clima filosofico di quegli anni, e perché ci mostra che Ascarelli s’imbatté sin dall’inizio in quel tema che sarebbe diventato il

tormento della sua vita sino agli ultimi anni quando, come vedremo, intorno a quel problema tesserà e ritesserà senza tregua la trama delle sue riflessioni. La soluzione ch’egli offriva in questo saggio del problema delle lacune non poteva essere crocianamente più ortodossa: l’incompletezza dell’ordinamento giuridico, su cui tanto si travagliano i giuristi dommatici escogitando soluzioni o paradossali o ingenue, appartiene alla natura stessa dell’ordinamento, che è composto di norme, cioè di regole astratte, incapaci di per se stesse di risolvere integralmente i casi concreti. Fatta questa affermazione, la metteva subito sotto la protezione dell’orientamento filosofico dominante in Italia, citando Croce, Gentile, Maggiore. Solo che per tranquillizzare i giuristi, i quali non possono rinunciare al dogma della completezza, introduceva una distinzione di comodo, che avrebbe in seguito ripudiata, tra il punto di vista esegeticodommatico, secondo cui l’ordinamento è un dato naturalistico una volta per tutte compiuto e quindi intrinsecamente completo, e il punto di vista storico-filosofico, per cui il diritto è considerato nella sua storicità «come un momento del nostro spirito», e quindi, come tale, sempre incompleto ancorché, o proprio perché, sempre completantesi per opera dei soggetti cui è destinato. Di fronte a questi espedienti, la nostra mente corre subito alla gentiliana contrapposizione fra logo astratto e logo concreto, alla dialettica di pensiero pensato e pensiero pensante: già allora Max Ascoli aveva parlato di questa soluzione come dell’unico segno «dell’accettazione da parte di un giurista delle concezioni attualistiche di filosofia giuridica»11. La dualità dei punti di vista servirà alla fine per trovare una soluzione salomonica anche del problema tradizionale dell’interpretazione. L’interpretazione è dichiarativa o creativa? Ascarelli risponde che dal punto di vista naturalistico, che è quello dei giuristi, l’interpretazione è dichiarativa, mentre dal punto di vista storico-filosofico ha valore creativo «non solo perché... deve trasformare l’astratta norma giuridica in una norma regolatrice di un caso concreto, ma perché è innegabile la natura creatrice di ogni atto spirituale»12. Questa dottrina della doppia verità, che sarebbe stata poi ripudiata, era evidentemente una soluzione di compromesso, pro bono pacis, e come tutte le soluzioni di compromesso aveva il difetto di essere poco chiara e, alla fine, per la volontà di accontentare gli uni e gli altri, di scontentare entrambi. Ma se a parole i punti di vista erano due, di fatto Ascarelli ne

aveva accettato uno, quello filosofico-storico, e solo questo poi avrebbe sviluppato nelle ricerche successive. Ma intanto la strada da percorrere era ormai segnata. In una breve recensione dello stesso anno (1925) esponeva la sua visione dinamica dell’ordinamento giuridico che si realizza e cresce nel tempo attraverso l’opera degli interpreti, su per giù con le stesse parole con cui l’avrebbe esposta venti anni più tardi. Più che un programma di teoria era già una teoria in nuce, che aveva bisogno soltanto di esser documentata e ragionata: «... in linea di fatto, l’ordinamento giuridico risulta non solamente dalle semplici norme di legge per sé prese, ma dalle norme di legge integrate attraverso tutto un corpo di dottrine e di interpretazioni, lentamente formatosi attraverso il travaglio dottrinale e giurisprudenziale, e che costituisce il quotidiano aggiornamento e pertanto la indispensabile integrazione delle norme di legge, che attraverso ad esso si adattano alle sempre nuove esigenze della vita, così come questa tende ad abituarsi a quei determinati schemi giuridici»13. Accanto al problema dell’interpretazione l’altro campo di studi cui Ascarelli si dedicò con crescente passione, negli ultimi anni, fu, com’è noto, il diritto comparato. Ebbene chi scorra le brevi recensioni scritte per la «Rivista internazionale di filosofia del diritto» dal 1925 al 1929 non tarda ad avvedersi che la quasi totalità di esse riguardano libri di legislazione straniera e di diritto comparato. Per un giovane esordiente erano letture piuttosto singolari. E poi non si limita a dare notizia di questi libri, ma quando può tesse l’elogio degli studi comparatistici, lamenta la trascuratezza in cui son caduti, specie tra noi, gli studi sul diritto angloamericano e ammonisce i nostri giuristi troppo chiusi nel loro specialismo a studiare il diritto inglese per il contributo che può offrire alla comprensione dei nostri istituti. Passa dalla riforma del codice civile austriaco al codice di commercio giapponese, dalla giurisprudenza americana sul controllo dei prezzi al diritto civile egiziano14. Dietro queste letture si vede il divoratore di libri, il giovane di cultura non volgare che vuole dischiudere nuovi orizzonti allo studio del diritto, rompere il provincialismo in cui spesso si rinchiude la cittadella universitaria. Al diritto commerciale, del resto, non era arrivato coi paraocchi ma attraverso una ricca esperienza di ricerche anche in altri campi. Negli anni universitari, avvinto in un primo tempo dal magistero di Vittorio Scialoja, aveva coltivato studi di storia del diritto: raccolse ampio materiale per una

monografia su Bartolo e il diritto internazionale che sarebbe dovuta essere divisa in quattro parti, rispettivamente dedicate al diritto internazionale pubblico, al diritto internazionale privato, al diritto internazionale processuale e al diritto internazionale penale. Nell’orientamento verso gli studi di diritto commerciale fu decisivo l’incontro con Cesare Vivante, che gli fu maestro e alla cui memoria rimase fedele e riconoscente tutta la vita: negli ultimi anni rievocò l’«atmosfera vivantiana», in cui si era sviluppata la parte migliore della scienza commercialistica italiana nei primi decenni del secolo; parlò insistentemente dell’aspetto etico-politico dell’insegnamento del maestro, di quell’effettivo liberalismo che andava di pari passo col solidarismo sociale, fiducioso nell’ascesa delle classi popolari, e rivelò, a chi voleva leggere tra le righe, che la discendenza non era stata soltanto di natura accademica15. Sotto la guida del Vivante preparò la tesi di laurea con uno studio su Le società a responsabilità limitata e la loro introduzione in Italia, che vide la luce nel 192416. Ascarelli fu un giovane di rara precocità: proveniva per parte di padre e di madre da due famiglie ebraiche di nobili tradizioni culturali. Il padre, Attilio, fu professore di medicina legale, la madre, Elena Pontecorvo, tuttora vivente, appartiene al rigoglioso ceppo da cui son discesi Enzo ed Emilio Sereni, Eugenio Colorni, il fisico Bruno Pontecorvo. Il curriculum universitario di Tullio fu rapidissimo: si laureò il 13 luglio 1923, quando non aveva ancora vent’anni (era nato a Roma il 6 ottobre 1903); nell’ultimo anno di università e durante la laurea prestò servizio militare nell’arma della sussistenza. Vinta una borsa di perfezionamento all’estero del Ministero della Pubblica Istruzione, passò un anno in Germania, dove ritornerà nel 1926-27 con una borsa della von Humboldt Stiftung. Conseguì la libera docenza in diritto commerciale il 21 novembre 1925 con una commissione composta da Cesare Vivante, Ulisse Manara, Angelo Sraffa. Alla fine del ’24, a ventuno anni, ebbe l’incarico di insegnare il diritto commerciale all’università allora libera di Ferrara. Vinse il concorso a professore non stabile presso l’Università di Ferrara l’11 ottobre 1926 con una commissione composta da Cesare Vivante, Mario Finzi, Angelo Sraffa, Leone Bolaffio, Ageo Arcangeli. Nell’ottobre del ’26 passò all’Università di Cagliari, nel novembre del ’29 a quella di Catania, dove rimase sino al ’32. Pubblicata nel 1928 la prima ampia monografia su un tema estremamente complesso, La moneta. Considerazioni di diritto privato (Padova), scritto il

saggio su Il negozio indiretto e le società commerciali, che nasceva dalla prolusione tenuta all’Università di Catania il 21 gennaio 193017, venne promosso ordinario il 28 aprile 1930 con una relazione firmata da Cesare Vivante, Angelo Sraffa, Ageo Arcangeli. A ventisette anni compiva l’iter della carriera universitaria, a un’età in cui di solito la maggior parte di coloro che si avviano per quella strada non l’hanno ancora neppure incominciata.

3. La partecipazione alla lotta antifascista attraverso la collaborazione a «Studi politici» e a «Quarto stato» Tra le recensioni pubblicate tra il ’25 e il ’26 sulla «Rivista internazionale di filosofia del diritto» ce n’è una che può sembrare, a chi consideri l’intero lavoro compiuto da Ascarelli in quei due o tre anni negli studi giuridici, estravagante: Alberto Cappa, Vilfredo Pareto, Gobetti editore, Torino 192418. Essa invece è uno spiraglio che serve a gettar luce su un aspetto dell’attività quasi completamente sconosciuta o dimenticata del giovane giurista. In questa recensione Ascarelli confermava nel giudizio sulla sociologia e su Pareto il suo radicato crocianesimo: d’origine crociana erano i dubbi, ch’egli manifestava, sulla validità della sociologia come scienza; crociano era pure il giudizio su Pareto, di cui ammirava le osservazioni particolari ma deplorava l’astrattezza dello schema costruttivo, concludendo che il grande Pareto era l’economista non il sociologo. Ma l’interesse della recensione è altrove: Alberto Cappa era un giovane paretiano che aveva pubblicato nel 1923 un libro di critica politica, ispirato a Pareto, ove elevava i ceti medi a protagonisti della crisi politica italiana19. Anche di questo libro Ascarelli aveva scritto una recensione più agra che dolce su «Studi politici» (di cui parleremo fra poco). Dopo questo primo libro, Cappa si era avvicinato a Piero Gobetti nel 1923, e aveva pubblicato su «La rivoluzione liberale» a puntate, sotto lo pseudonimo di Grildrig, uno studio poi stampato in uno smilzo volumetto nelle edizioni Gobetti nel 1924, col titolo Le generazioni nel fascismo: qui sosteneva che l’avvento del fascismo dovesse essere spiegato con la eccezionale partecipazione alla vita politica attiva di una generazione di giovanissimi, che non aveva fatto la guerra ma ne aveva subito il tormento e il fascino, sostituendo così alla

spiegazione per classi quella per generazioni (l’eterna lotta dei figli contro i padri)20. A questa tesi di Cappa Gobetti aveva opposto una delle sue glosse taglienti: «C’era una generazione, oltre quella del manganello, che la guerra ha maturato, risparmiandola; che si è condannata alla serietà sin dall’adolescenza, che ha fatto in cinque anni la sua preparazione ideale e pratica, austeramente, senza sperare vantaggi e senza chiedere posti. Vogliamo vedere che cosa diranno i padri di questi figli. Vogliamo vedere che cosa ci risponderanno Mussolini e il fascismo quando alla loro retorica avremo opposto la nostra ascesi e la nostra preparazione»21. In quello stesso anno il nome di Alberto Cappa era apparso insieme con quello di Tullio Ascarelli e di altri (Giorgio Bandini, Alberto Pincherle, Enzo Sereni e Giuseppe Vescovini) tra i redattori di una rivista mensile romana, «Studi politici», diretta da Paolo Flores, che iniziò la sua breve vita il primo gennaio 1923. Il Cappa sin dal secondo numero scomparve dal novero dei redattori e dei collaboratori, mentre Ascarelli fu per tutta la durata della rivista uno dei collaboratori più assidui. Per il giovane ventenne, che faceva insieme il giurista e il coscritto, il 1923 fu davvero l’annus mirabilis: pubblicò il suo primo saggio d’argomento giuridico, conseguì la laurea con un secondo saggio che sarebbe stato pubblicato l’anno seguente, ebbe infine il battesimo di scrittore politico in una rivista giovanile di battaglia antifascista. «Studi politici», com’è già stato notato22, nasceva nella scia di «La rivoluzione liberale», il cui primo numero era uscito l’anno prima nel febbraio del ’22. Come la rivista gobettiana, questa romana figlia minore era nata da un gruppo di giovani fuori e al di sopra dei partiti, e cercava prestigio e sostegno nella collaborazione di firme illustri: nel primo numero compaiono articoli di Pietro Bonfante, Ernesto Buonaiuti e Rodolfo Mondolfo23. L’editoriale del primo fascicolo (1° gennaio 1923), intitolato Per intendersi, partiva dalla constatazione di una crisi, che non era sporadica, ma aveva radici profonde nel processo di formazione dello stato nazionale e nel carattere degli italiani, individualisti arrabbiati, devoti esclusivamente al proprio «particulare». La soluzione della crisi doveva essere cercata nella formazione di una nuova coscienza civile degli italiani «per la quale lo Stato non sia più la risultante meccanica di un gioco d’interessi, ma una democrazia di produttori». La conclusione, che rivelava uno stato d’animo d’insoddisfazione del presente più che una chiara

visione dell’avvenire, era generica: «Siamo dunque raccolti per dare alla vita politica nazionale un ritmo d’universalità e la consapevolezza del valore degli ideali». Ascarelli rappresentò nel gruppo la tendenza più radicaleggiante. Le assonanze tra alcune sue affermazioni e i più noti temi della polemica gobettiana sono sorprendenti. La sua collaborazione fu assidua (nel corso dell’anno diciotto scritti, tra articoli e recensioni): due articoli storici, o meglio due profili appena sbozzati alla maniera gobettiana, uno su Rathenau e l’altro su Urbano Rattazzi24; alcuni articoli di attualità25; varie recensioni26. Rathenau veniva raffigurato come un ribelle alla civiltà capitalistica che non conosce il peccato ma soltanto il successo, e tutto risolve nell’assolutezza della propria attività (donde un singolare paragone con l’attualismo assoluto); un moralista, che aveva del moralista l’ingenuità e l’astrattismo, che «misconosce la tragica serietà della lotta politica in una visione idilliaca»; essendogli estraneo il problema della partecipazione del proletariato al potere, il suo ideale democratico si risolve nella realtà della plutocrazia tedesca. L’articolo su Rattazzi fu scritto in occasione del cinquantesimo anniversario della morte; più sbiadito del precedente, era imperniato sulla tesi che Rattazzi avesse concepito la politica come amministrazione e in questo modo di intendere la politica avesse svolto la sua funzione storica in un momento difficile. L’articolo I competenti, con il quale Ascarelli iniziava la sua attività di scrittore politico, e che Gobetti ripubblicò sulla sua rivista, era manifestamente rivolto contro il tentativo fascista, o per lo meno di una certa ala del fascismo, ispirata da Massimo Rocca, di rivalutare le competenze contro ogni forma di politicantismo generico: il Rocca proprio nel dicembre del ’22 era riuscito a far approvare lo statuto-regolamento dei Gruppi di competenza27. Ascarelli commentava ironicamente: «È davvero un po’ strana questa venerazione per i competenti proprio da parte di coloro che non hanno nessuna competenza, e che rifuggono sempre dall’acquistarne una»; e concludeva che dietro al desiderio ricorrente in periodi difficili del governo dei competenti c’era la poco nobile aspirazione a rinunciare al proprio giudizio politico, in definitiva alla propria libertà. Per Ascarelli il fascismo era mussolinismo, e questo era la continuazione del giolittismo, cioè della stessa politica piccolo-borghese. Perciò non condivideva l’elogio di Giolitti fatto da Burzio: il riformismo era finito nel fascismo che è «un po’ l’illusione romantica della piccola borghesia italiana»28. Rivendicare un

ideale di libertà era compito tanto della borghesia capitalistica quanto del socialismo, ma di ciascuno in un senso profondamente diverso, onde vano era ogni compromesso o tentativo di fronte unico. Ascarelli aveva scelto chiaramente la sua parte quando scriveva: «... deve risorgere il moto autonomo o liberale di un proletariato operaio che nel diffondersi e rafforzarsi di quella grande industria che è condizione della sua esistenza, può trovare la forza – in una lotta i cui termini sempre più netti tendono ad escludere sempre più rigorosamente ogni compromesso – di esprimere dal suo seno nuovi valori politici»29. Altrove parlava di un «proletariato coscientemente rivoluzionario e perciò apportatore di nuovi valori»30. Questa aspirazione ad una rigenerazione dal basso lo induceva a dare un giudizio severo sulla crisi del socialismo: contro Salvemini, che vedeva la principale ragione di decadenza del socialismo in una deviazione oligarchica, sosteneva che il socialismo si stava dissolvendo «nel complesso degli interessi particolari e individuali, nell’empirismo dei contrasti economici» e guardava con simpatia al movimento dell’«Ordine Nuovo»31. Auspicava un ritorno agli studi marxistici «per una rinnovata e feconda affermazione di fronte a quell’attualismo puro che è così caro al governo attuale»32. Accettava, come Gobetti, la rivoluzione bolscevica, attribuendole la funzione di un rinnovamento liberale della politica e dell’economia russa, e la definiva gobettianamente come «rivoluzione classicamente liberale»33, «animata da una disperata affermazione e volontà di utopia, da un afflato religioso che avrebbe scosso dal profondo tutti i popoli oppressi». L’unico punto che lo divideva da Gobetti era il giudizio sul partito popolare: dalla lettura delle pagine di Luigi Sturzo, Riforme statali e indirizzi politici (1922), era tratto alla convinzione che vi fosse un’antitesi profonda tra la concezione cattolica e quella moderna dello stato, nata dalla rivoluzione protestante, e pertanto il partito dei cattolici non avrebbe mai potuto mutare la sua indole essenzialmente riformistica e conservatrice34. Altrove negava la fiducia riposta da Alberto Cappa nel partito popolare e nel mito autonomo delle classi rurali35. «Studi politici» chiuse la propria breve esistenza dopo un anno di vita. Ne dava notizia lo stesso Ascarelli in una lettera a Gobetti del 18 febbraio 1924, alludendo alle molteplici cause «né tutte belle» che l’avevano provocata. Prometteva di iniziare un’attiva collaborazione a «La rivoluzione liberale» non appena fosse riuscito a trovar qualche ora libera dal servizio

militare36. Anche se il proposito non fu mai attuato, Ascarelli continuò a tenersi in contatto con l’entourage gobettiano. Com’è noto, Gobetti aveva costituito nel luglio del 1924, durante la prima crisi esplosa dopo il delitto Matteotti, i Gruppi di Rivoluzione Liberale. Da una lettera di Umberto Morra a Gobetti del 25 ottobre 1924, in cui si dà particolareggiata notizia di una seduta del Gruppo romano di Rivoluzione Liberale, risulta presente, tra gli altri (Liebmann, Necchi, Nicoletti, Ascoli, Sotgiu, Pincherle, Bosi), Tullio Ascarelli, che fu tra i quindici rimasti sino alla fine della burrascosa seduta, dopo la secessione di sette dei presenti non concordi sul tenore dell’ordine del giorno37. Non saprei dire se Ascarelli avesse collaborato a riviste politiche nei due anni successivi durante i quali coltivò con particolare fervore gli studi giuridici. Certo continuò a mantenere vivaci rapporti coi centri dell’antifascismo militante, come quello fiorentino del «Non mollare». Riprese con rinnovato ardore l’attività di scrittore politico sulle colonne di «Quarto stato», la rivista fondata a Milano da Carlo Rosselli e Pietro Nenni, uscita in 30 numeri dal 27 marzo al 30 ottobre 192638. Vi collaborò con sei articoli, due storico-critici firmati col proprio nome, gli altri quattro programmatici, politicamente più impegnativi, con lo pseudonimo di Guido da Ferrara39. L’adesione al socialismo, che negli articoli del ’23 pareva puramente ideale e culturale, ora diventa accettazione reale del movimento, o più precisamente del partito che dovrà risorgere dalle ceneri del vecchio partito ormai in dissoluzione e creare la nuova democrazia italiana. Ascarelli condivide il punto di vista dei neofiti e dei rinnovatori che si potrebbe esprimere nella formula: il socialismo è morto, viva il socialismo. Il fascismo ha spezzato la storia d’Italia in due parti che non potranno più essere ricongiunte: il fascismo trascinerà nella sua rovina tutta l’Italia di ieri, di cui è stato una continuazione. Il rinnovamento avverrà nella democrazia e nel socialismo, o per meglio dire nel socialismo che sarà l’unica condizione per l’instaurazione di quella democrazia che in Italia non è mai esistita. Tra una lotta con fini immediati, che deve necessariamente discendere a più o meno realistici compromessi con la classe borghese, e una lotta a lunga scadenza che accetta il fascismo come fatto compiuto e pone con maggiore intransigenza il problema del rinnovamento radicale, Ascarelli propone la seconda alternativa. Ma il socialismo per rinnovare il paese dovrà prima di tutto rinnovare se stesso.

In che modo? Fascismo e socialismo rappresentano non due diverse politiche, ma due diverse civiltà: il socialismo sarà una nuova civiltà soltanto in quanto saprà esprimere un’etica nuova, un’etica superiore, e proporrà un nuovo ideale di uomo. Quale fosse poi questa etica nuova Ascarelli non sapeva e non voleva definire con particolari troppo precisi: anzi riconosceva che l’esigenza della nuova civiltà appariva «più in senso negativo per opposizione a quella attuale che in senso positivo»40. Non stiamo ora a discutere se questa accentuazione dell’aspetto etico del socialismo fosse un passo avanti o non fosse piuttosto un passo indietro, com’è già stato osservato a proposito della battaglia combattuta da «Quarto stato» nel bel mezzo del fascismo trionfante: poteva sembrare un modo per giustificare la rinuncia alla lotta, accettare la sconfitta e rinviare la ripresa della battaglia a tempi più propizi. A giudicare dall’atteggiamento di apparente distacco, di deluso riserbo, di interessamento esclusivo per i problemi tecnici del diritto, che Ascarelli tenne negli anni successivi, quando il fascismo diventò regime e non tollerò voci di dissenso, si sarebbe tentati di dar credito a questa interpretazione. Tra gli articoli di «Quarto stato» merita, a mio parere, particolare menzione quello dedicato ad una rapida valutazione del libro di Francesco Ruffini, Diritti di libertà, apparso nelle edizioni di Piero Gobetti in quello stesso anno (1926). Ascarelli riconosce la bontà della causa ma non la validità degli argomenti: non vi sono diritti naturali anteriori allo stato; i diritti sono l’espressione delle forze che si contrastano e prendono di volta in volta il sopravvento in un determinato ordinamento. Vogliamo la libertà? Dobbiamo lottare per riconquistarla. La libertà non si afferma con argomenti giuridici, ma con una decisa azione politica. Teniamo d’occhio queste poche battute. In una interpretazione che si potrebbe chiamare realistica più ancora che positivistica dei diritti soggettivi sembrano convergere per la prima volta le valutazioni etiche del giovane intellettuale politicamente impegnato e gli interessi teorici del giurista, che aveva già intrapreso la sua battaglia contro gli eccessi del formalismo. Il politico e lo studioso, che erano proceduti sino allora su due binari diversi, si incontrano, ma solo per un momento. La lunga notte del fascismo li separerà una seconda volta per altri vent’anni.

4. Breve rassegna degli scritti giuridici tra il 1926 e il 1946 Alla fine del ’26, come s’è visto, Ascarelli aveva vinto il concorso per una cattedra universitaria. Questa sua sistemazione accademica coincideva con il progressivo e definitivo consolidamento del regime fascista. Per un intellettuale che non aveva preso coraggiosamente la via dell’esilio e non si era buttato disperatamente nella cospirazione, non rimase altra via che quella degli studi politicamente sterilizzati e della libera professione. Furono anni di intenso lavoro e di cattiva coscienza. Tra il ’26 e il ’38 il curriculum universitario di Ascarelli è, ancora una volta, sorprendente. Percorse cinque sedi in dodici anni: Cagliari tra il ’26 e il ’29; Catania tra il ’29 e il ’32; Parma, nel ’32-33; Padova tra il ’32 e il ’35; Bologna tra il ’35 e il ’38. Virtù e fortuna sembravano indissolubilmente alleate nel favorire un’ascesa che era forse senza precedenti nella vita universitaria italiana. Ma nel ’38, col decreto-legge del 5 settembre che espelleva i professori ebrei dalle università, l’ascesa fu bruscamente arrestata. A trentacinque anni il cursus honorum precocemente iniziato era anzitempo concluso. D’ora innanzi il giurista provetto avrebbe dovuto affidarsi alla sola virtù. Fu tra i primi a rendersi conto che in Italia ogni possibilità di lavoro e di studio era preclusa. Alla fine del ’38 decise di lasciare definitivamente l’Italia. Andò prima a Parigi e poi a Londra, dove passò l’inverno e fu raggiunto dalla moglie coi bambini (si era sposato nel 1930 con Marcella Ziffer, di famiglia triestina). Gli era stata fatta balenare la possibilità di una modesta sistemazione alla London School of Economics, ma l’attesa fu delusa. Nonostante il paventato approssimarsi della guerra, preferì stabilirsi in Francia, dove fu accolto fraternamente da due luminari della scienza giuridica, come Georges Ripert e Maurice Picard. Sostenne alcuni esami di diritto francese e discusse il doctorat il giorno della dichiarazione di guerra italiana. Cercò di prender contatto con l’ambiente universitario e forense, e di esercitare la professione dell’avvocato. Ma i primi approcci non furono facili. A Parigi riprese i rapporti interrotti da dieci anni con gli amici della diaspora politica, riuniti per la maggior parte attorno al movimento di Giustizia e Libertà, che attraversava un periodo di agitato travaglio dopo l’assassinio di Carlo Rosselli (9 giugno 1937), ma non aveva rinunciato alla sua funzione stimolatrice di avanguardia culturale dell’antifascismo in esilio41. Come ci ha narrato in occasione della sua

morte uno dei membri attivi del movimento, Paolo Vittorelli, Ascarelli partecipò durante il soggiorno a Parigi alla rielaborazione del pensiero giellista, collaborando alla redazione del «Quaderno» n. 13 di Giustizia e Libertà, che, per quanto completo, non poté veder la luce per gli ostacoli frapposti dalla censura francese. Il contributo di Ascarelli era consistito in un saggio sulla grande industria italiana, che sarebbe interessante poter ritrovare42. Ma ormai la Francia non era più un paese sicuro, soprattutto dopo la guerra con l’Italia. Così alla fine del ’40, dopo un breve soggiorno come sfollato a Bordeaux e nei pressi di Marsiglia, salpò con la famiglia per il Brasile, dove avrebbe trovato la sua seconda patria. Sin dal primo anno gli fu offerta una cattedra all’Università di San Paolo: quindi fu invitato a Porto Alegre, a Rio de Janeiro, a Santiago del Cile. Impadronitosi rapidamente della nuova lingua, assimilata con sorprendente maestria la materia di un diverso diritto positivo, svolse ampia e fortunata attività professionale che continuò in parte anche dopo il suo ritorno in Italia; allargando la sua esperienza di giurista e i suoi orizzonti dottrinali, scrisse numerose opere scientifiche, in cui ripensò e rielaborò vecchi temi, ne propose dei nuovi, diede sfogo alla sua antica vocazione di comparatista. Nei vent’anni trascorsi tra il ’26 e il ritorno in Italia alla fine della guerra, l’opera scientifica di Tullio Ascarelli fu rivolta prevalentemente allo studio di problemi tecnici del diritto positivo italiano prima, brasiliano poi: e non spetta a me illustrarne il contenuto e il valore. Sono gli anni in cui appaiono, oltre a un numero enorme e tuttora imprecisato di articoli, di note a sentenze e di recensioni, le più importanti tra le sue monografie: La moneta (1928); Il negozio indiretto e le società commerciali (1931); Il concetto di titolo di credito (1932); Consorzi volontari tra imprenditori (1937). Nel 1932 pubblicò la prima edizione degli Appunti di diritto commerciale, cui seguono altre due edizioni, rispettivamente nel 1934 e nel 1936. Nel 1937 raccoglie la ormai più che decennale esperienza di studi e di insegnamento in un’opera di sintesi, le Istituzioni di diritto commerciale, di cui fu vietata l’adozione nelle scuole medie in seguito alle leggi razziali. Tra le opere uscite in Brasile ricordiamo la raccolta di studi intitolata Problemas das sociedades anónimas e direito comparado (1945). Per quanto prevalentemente tecnici, gli studi di questi vent’anni contengono alcuni spunti di quelle teorie generali del diritto che saranno sviluppate nelle ultime opere, su cui mi soffermerò in modo particolare nei

paragrafi seguenti. Pur nell’esercizio severamente condotto del compito dogmatico, Ascarelli non dimenticò mai la sua iniziale ispirazione storicistica, che gli faceva cogliere l’aspetto dinamico del diritto attraverso l’opera creativa della dottrina e della giurisprudenza. Ma in questa prima fase non elaborò una teoria dell’interpretazione, come avrebbe fatto di poi; si limitò ad enunciare i termini del problema ogni qual volta gliene veniva l’occasione. Tra i saggi di questo periodo particolarmente illuminante per gli sviluppi futuri è quello intitolato La funzione del diritto speciale e le trasformazioni del diritto commerciale (1934)43: dopo aver distinto una considerazione dogmatica da una considerazione storicistica dei rapporti tra diritto speciale e diritto comune, contrappone la statica giuridica cui si rivolgono di solito i giuristi alla dinamica, intesa come lo studio di quel diritto vivente «che si rivela attraverso la pratica applicazione degli istituti», onde l’attività dei giuristi, anche loro malgrado, «è veramente creativa e collabora nello sviluppo del diritto» (p. 452)44. Il diritto non ha carattere matematico e l’opera dell’interprete non può ridursi a una deduzione logica: al contrario l’opera dell’interprete non può prescindere da «continue valutazioni onde fissare la regola e l’eccezione, determinare nell’unità del sistema la portata di un principio giuridico, valutazioni che hanno luogo in base a tutti i dati logici, storici, politici, economici, risultanti dal sistema, in base alla generale concezione dell’interprete del sistema giuridico e del fenomeno sociale, del suo sviluppo storico, del senso della sua evoluzione» (p. 484). Quanto alle dispute metodologiche che dividono i giuristi più formalisti da quelli più realisti, cercava di spiegarle storicamente mettendo in relazione la varietà degli indirizzi coi diversi compiti che di volta in volta gli interpreti si proponevano di fronte al progresso del diritto, e risolvendole quindi in un contrasto tra giuristi conservatori e giuristi progressisti45. In un’epoca di consolidamento di un sistema giuridico, occorreva una interpretazione più rigida; in un’epoca di trasformazione, occorreva un’interpretazione più elastica, più sensibile alla considerazione dei fini economici degli istituti. Si tengano presenti i tre punti emersi dall’esame di questo articolo: 1) funzione creatrice della giurisprudenza; 2) ineliminabilità di un momento valutativo nell’opera dell’interprete; 3) spiegazione storica delle controversie sul metodo dell’interpretazione: li ritroveremo tutti e tre nella teoria dell’interpretazione che Ascarelli elaborerà negli ultimi anni. Questa

continua attenzione rivolta al diritto come fenomeno storico lo indusse a prendere di fronte alla dommatica una posizione di equilibrio tra le due tendenze estreme della cieca ammirazione e della critica demolitrice. Negli Appunti di diritto commerciale scrisse: «Naturalmente i dogmi conquistati sono dei semplici strumenti di lavoro, non dei grimaldelli buoni per aprire tutte le porte! Sono a mio parere erronee tanto le tendenze formalistiche della giurisprudenza concettuale, quanto quelle di coloro che vorrebbero bandire dall’indagine giuridica il ricorso all’indagine dogmatica»46. Anche questo atteggiamento di cautela critica non sarà più abbandonato e costituirà un motivo ricorrente dell’analisi futura. Il ponte di passaggio tra gli studi di teoria generale dei primissimi anni e quelli sullo stesso argomento degli ultimi, dopo la lunga parentesi di studi dedicati esclusivamente all’approfondimento di problemi specifici del diritto commerciale, può essere rappresentato dal rinnovato interesse per il diritto comparato durante il soggiorno in Brasile. Come si è detto, lo studio dei diritti stranieri non era stato estraneo alla sua originaria educazione di giurista cresciuto alla scuola dello storicismo: il suo primo lavoro di impegno sulla introduzione in Italia delle società a responsabilità limitata (1924) era preceduto da un esame delle principali legislazioni degli altri paesi. La conoscenza che egli dovette acquistare del diritto brasiliano e il continuo raffronto che non poteva non istituire nella nuova pratica professionale tra il diritto di oggi e quello di ieri lo portarono inevitabilmente ad approfondire il tema fondamentale della natura e della funzione del diritto comparato. Il diritto comparato era nello spazio quel che lo studio della storia del diritto era nel tempo: perciò lo studio dei vari sistemi giuridici rispondeva alla stessa esigenza che lo aveva indotto a schierarsi contro il tecnicismo antistorico dei giuristi chiusi nel loro ordinamento come in una fortezza assediata. Il metodo comparatistico era un ampliamento e un prolungamento del metodo storico o, meglio ancora, era un aspetto dello studio globale del diritto, che solo permetteva una comprensione adeguata del fenomeno giuridico, e che era insieme storico e sociologico. Non sembra che Ascarelli fosse disposto a sottolineare la differenza tra metodo storico e metodo sociologico: in un articolo fondamentale del 1954 li avrebbe risolti puramente e semplicemente l’uno nell’altro47. Ciò che egli distingueva nettamente era lo studio storico del diritto, che comprendeva anche le ricerche di diritto comparato, da quello

dogmatico, in altre parole lo studio del diritto nella sua realtà effettuale (storia e sociologia) dall’interpretazione di un sistema giuridico allo scopo di renderne possibile l’applicazione. In un saggio scritto in Brasile, intitolato Premesse allo studio del diritto comparato, attribuiva allo studio del diritto comparato, tra gli altri meriti, anche quello di rivelare, «come forse nessun altro, le relazioni fra le premesse economiche, sociali, storiche, morali da una parte, e la soluzione giuridica dall’altra», e quindi «di cogliere nel vivo, in un’esperienza concreta, il diritto nel suo ambiente sociale, e di notare le reciproche influenze fra diritto e ambiente [...], di cogliere la reale portata economica e sociale del problema giuridico»48. Ora, proprio il problema del rapporto tra funzione economica e struttura giuridica di un istituto sarà, come vedremo tra poco, una delle premesse della sua teoria generale dell’interpretazione. Negli ultimi anni le riflessioni sulla natura e sull’utilità del diritto comparato s’intrecceranno continuamente con le riflessioni sulla natura e la funzione dell’interpretazione.

5. Gli scritti di teoria generale dopo il 1946 e la critica del positivismo giuridico Il nuovo corso del pensiero giuridico di Tullio Ascarelli, indirizzato verso l’elaborazione di una teoria generale del diritto e della scienza giuridica e conclusosi, come s’è visto, nell’ultimo saggio su Hobbes e Leibniz, può essere fatto cominciare dal saggio L’idea di codice nel diritto privato e la funzione dell’interpretazione, scritto in Brasile nel 194349, che è un rapido ma intenso scorcio sulla storia e sulla funzione dell’opera degli interpreti del diritto nel secolare contrasto e nell’odierno ravvicinamento dei due sistemi continentale e inglese. Ma il saggio germinale è del 1946: Funzioni economiche e istituti giuridici nella tecnica dell’interpretazione50; quello più suggestivamente programmatico è la Prefazione del 1952 alla raccolta di Studi di diritto comparato e in tema d’interpretazione51, cui seguono, decisivi sui singoli problemi che vengono via via isolati, studiati separatamente e approfonditi dall’interno, Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni (1953)52, Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato (1954)53, Norma giuridica e realtà sociale (1955)54, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione (1957)55, Ordinamento giuridico e processo economico (1958)56,

per non citare che i saggi d’indole generale e trascurando quelli generali ma di contenuto non dissimile da quelli già citati57. Nei saggi di questo quindicennio le ripetizioni sono frequenti: la ricerca si sviluppa per giri concentrici intorno a un nucleo di idee che rimane sostanzialmente lo stesso dai primi saggi agli ultimi. Ma ora viene perfezionato un particolare, ora viene aggiunto un riferimento ad un nuovo libro, ora vien fatta avanzare l’analisi su un punto vitale, ora viene condotta su questo o quel campo un’operazione di verifica storica delle tesi sostenute. Non vi è saggio in cui le tesi principali non vengano riesposte, riformulate o anche rielaborate tutte insieme, magari con diverse parole o con diversa accentuazione di questo o quell’aspetto, come se l’autore avesse bisogno di ricordarle a se stesso prima di ripresentarle ai lettori in un’opera continua di riesumazione e di riassestamento. Per questa ragione un’esposizione del pensiero di Ascarelli di quest’ultimo periodo non può essere fatta articolo per articolo ma deve svolgersi secondo un ordine sistematico. Il pensiero di Ascarelli è uno degli aspetti – nell’ambito degli studi di diritto privato in Italia è l’aspetto storicamente più importante – della reazione odierna al positivismo giuridico58. Ciò spiega anche il fatto che Ascarelli abbia dato particolare sviluppo ad alcune sue idee generali sul diritto e sulla scienza giuridica proprio in questi ultimi anni: la reazione antipositivistica in Italia è recente e solo dopo la seconda guerra mondiale i nostri giuristi, che furono tra i più fedeli al metodo dommatico, hanno cominciato a scuotere il giogo. L’opera di Ascarelli in questo contesto ha avuto una funzione stimolatrice e critica, da un lato, e una funzione mediatrice tra il più avanzato pensiero giuridico degli altri paesi, soprattutto dei paesi anglosassoni, e quello italiano dall’altro. Ho cercato di indicare altrove alcune caratteristiche della teoria del positivismo giuridico e le ho riassunte in questi cinque punti principali: definizione del diritto dal punto di vista della coazione, teoria imperativistica della norma giuridica, primato della legge, cioè della volontà generale, su tutte le altre fonti di produzione giuridica, teoria della completezza (e talora anche della coerenza) dell’ordinamento giuridico e teoria meccanicistica dell’interpretazione59. La critica di Ascarelli si riferisce in modo particolare alla teoria positivistica delle fonti e dell’interpretazione, in modo specialissimo a quest’ultima: gli altri punti sono lasciati in ombra. In una prima approssimazione si potrebbe dire che la battaglia di Ascarelli è stata

condotta con particolare intensità contro il dogma del legalismo giuridico in tema di fonti e contro quello del logicismo giuridico in tema di interpretazione: dogmi strettamente connessi, perché rappresentano due aspetti del formalismo giuridico. Occorre peraltro una seconda precisazione preliminare: nella rivolta contro il positivismo giuridico e il formalismo occorre distinguere i critici estremisti dai moderati. Ascarelli appartiene senz’ombra di dubbio ai secondi: fa largo spazio alla sociologia ma non perde mai di vista la differenza che continua a sembrargli essenziale tra punto di vista sociologico e punto di vista normativo; si allontana decisamente dal formalismo della vecchia scuola positivistica ma non si butta spensieratamente nelle braccia del realismo; condanna il concettualismo ma non mette fuori uso quegli strumenti indispensabili al giurista che sono i concetti giuridici; rifiuta il rigorismo, la cosiddetta rigorizzazione del linguaggio giuridico, ma non l’esigenza del rigore; mette in rilievo i limiti della logica nel ragionamento giuridico, ma non si prosterna di fronte al miracolo dell’intuizione; non crede al sillogismo giudiziale che risolve l’operazione del giudice in un ragionamento logico, ma non si fida della equità (che di solito non viene mai ben definita). Il proposito fondamentale che lo anima e lo sospinge innanzi, in cerca di una soluzione nuova e insieme non sconvolgente, e viene rimartellato in ogni scritto, è quello di comprendere e far comprendere il senso dell’opera e della funzione della giurisprudenza che si esprime nelle due esigenze apparentemente contrastanti della creazione e della continuità, o, più esattamente, della creazione nella continuità.

6. Critica della teoria tradizionale delle fonti in una visione antiformalistica dei rapporti tra diritto e società, tra diritto ed economia Per quel che riguarda il dogma positivistico della supremazia della legge, uno studioso del diritto commerciale, non insensibile ai vantaggi del metodo storico, era nella migliore delle condizioni per mostrarne dall’interno la fragilità e l’inconsistenza teorica. Il diritto commerciale, non diversamente dal diritto internazionale, era stato nel periodo della sua formazione un diritto in prevalenza consuetudinario e pattizio: la

recezione da parte dell’ordinamento statale era venuta dopo. Prima di diventare un settore del diritto dello stato, la cui fonte primaria di produzione giuridica è la legge, era stato un «diritto dei privati». Ma questa sua origine non poté mai essere eliminata del tutto: quegli stessi «privati» che lo avevano creato per la necessità dei loro scambi economici nel passaggio da una economia agricola feudale ad un’economia mercantile precapitalistica continuavano ad adoperarlo, a manipolarlo, ad adattarlo ai loro fini, e quindi a elaborarlo, a modificarlo, a riplasmarlo al di sotto e ad onta della protezione statale, nel passaggio da una economia capitalistica primitiva, fondata sulla piccola impresa artigianale, all’economia capitalistica della grande impresa dopo la prima e ancor più dopo la seconda rivoluzione industriale. Sin dai suoi primi studi Ascarelli aveva detto chiaramente che per capire il diritto commerciale bisognava studiarlo storicamente e aveva spesso ripetuto la tesi che il diritto commerciale fosse il diritto nato dalle esigenze della società capitalistica60. Non è un caso che siano stati gli studiosi di diritto commerciale, almeno in Italia, a rimettere in onore tra le fonti del diritto la natura delle cose (si pensi ad Asquini e allo stesso Vivante): la natura delle cose ha avuto nel diritto privato la stessa funzione che ebbe il diritto naturale nella elaborazione del diritto internazionale, di fonte o fondamento di regole che non potevano essere tratte da un corpus iuris precostituito, cioè da un diritto positivo riconosciuto e consolidato. Che «natura delle cose» fosse sostanzialmente un concetto oscuro ed equivoco, Ascarelli aveva visto giustamente sin da un lontano saggio del ’35, che, contro la natura delle cose come fonte, aveva messo innanzi un’obiezione decisiva, richiamando l’attenzione sulla differenza essenziale tra fatto e valore: «L’elemento tecnico, la natura delle cose – aveva detto – non può... di per sé dar luogo ad alcuna regolamentazione giuridica, se è vero che il diritto consiste in una valutazione normativa e pertanto in una valutazione delle differenze tecniche ed economiche ai fini della loro rilevanza giuridica»61. Ma ciò non gli impedì di vedere dietro l’esigenza che si esprimeva nel ricorso alla natura delle cose un bisogno reale, che era quello di comprendere e giustificare l’evoluzione di un diritto, nato per disciplinare rapporti economici che si svolgono in gran parte al di fuori della sfera di dominio diretto del potere statale, cioè indipendentemente dalle direttive politiche dei parlamenti e dal controllo della burocrazia. Proprio per questo rapporto

diretto con la sua matrice economica, il diritto commerciale era un campo estremamente fertile di osservazioni per lo studio dei rapporti tra diritto e società, da un lato, e tra diritto sociale e diritto statale dall’altro (anche se Ascarelli non si serve mai di questa dicotomia e non affronta di petto il problema della pluralità degli ordinamenti giuridici e dei loro rapporti). A rafforzare questa sua convinzione, e a stimolare e indirizzare le sue riflessioni sui rapporti complessi tra diritto e società in un orizzonte sempre più vasto, intervenne in un secondo tempo lo studio del diritto comparato, il quale rivelò, a suo dire, «come forse nessun altro, le relazioni fra le premesse economiche, sociali, storiche, morali da una parte, e la soluzione giuridica dall’altra»62. Sul problema del rapporto tra diritto e società, in particolare sul nesso di dipendenza del diritto dalla società, Ascarelli ebbe a pronunciarsi esplicitamente nelle più diverse occasioni. Tra le varie formulazioni di questa tesi scelgo la seguente: «Le norme vengono poste in relazione alle esigenze della vita consociata e non in via di sviluppo logico da azioni prestabilite; la loro spiegazione si ritrova sul terreno della storia e non su quello dell’armonia logica»63. Anche se Ascarelli non lo dice esplicitamente, una posizione di questo tipo aveva due bersagli polemici: il razionalismo matematizzante del giusnaturalismo e il logicismo del concettualismo o costruzionismo già criticato dallo Jhering della seconda maniera. Ascarelli soleva riassumere questa sua posizione dicendo sinteticamente che il diritto è storia64. Con ciò intendendo dire che il diritto è un prodotto cangiante del processo storico e non di ragionamenti astratti secondo l’ideale universalistico sempre rinascente dei giuristi in tempi di grandi conflitti sociali e di lacerazioni ideologiche. La formula di Ascarelli richiama alla mente quella celeberrima del giudice Holmes, che aveva iniziato la sua opera sul diritto comune con la storica frase: «Il diritto non è logica, ma esperienza». Non è difficile accorgersi che il termine «esperienza» assume in una tradizione di filosofia empiristica, com’era quella in cui si inserisce Holmes, lo stesso significato eulogico e vagamente prescrittivo del termine «storia» in una tradizione di filosofia storicistica com’era quella cui Ascarelli si era costantemente ispirato. In entrambi i casi la formula conteneva un duplice avvertimento: 1) a considerare il diritto nella pratica e non sui libri (secondo la distinzione, più volte riaffermata dal Pound, tra law in action e law in books); 2) a cogliere nel lavoro

dell’interprete il momento della valutazione e della creazione anche dietro la impalcatura logica con l’aiuto della quale il discorso del giurista viene di solito fabbricato. Il primo avvertimento (parleremo del secondo nel paragrafo successivo) fu per Ascarelli occasione di frequenti osservazioni, non mai sistematicamente raccolte, sulla situazione del diritto commerciale, in particolare del diritto dell’impresa, durante la rapida trasformazione economica avvenuta in Italia dopo la seconda guerra mondiale, e della legislazione e degli studi giuridici, l’uno e gli altri anacronisticamente attardati su posizioni da tempo superate. Rispetto al contrasto tra il diritto nei codici e il diritto nella pratica non perdette mai l’occasione di richiamare l’attenzione sul fatto che istituti regolati dal codice, e sui quali alcuni giuristi scrivevano magari dotte monografie, non erano mai entrati in vigore, mentre d’altro canto istituti importanti, come quello degli holdings, erano trascurati e abbandonati allo sviluppo spontaneo (o sedicente tale) delle forze sociali65. Un diritto così sensibile alle esigenze dello sviluppo economico, come il diritto dell’impresa, era in continua trasformazione, e creava in questa trasformazione nuove regole che integravano e modificavano le antiche senza che spesso il giurista dottrinario se ne rendesse conto. Queste regole poi, create dalla mobile pratica ad onta e a dispetto del legislatore immobile per natura e immobilizzato dalla concezione volontaristica dell’interpretazione, erano spesso espressione della volontà di potenza delle classi dominanti. Il cosiddetto diritto spontaneo che si forma o si crede si formi direttamente attraverso il libero gioco delle forze in lotta è sempre il diritto del più forte. Il richiamo allo studio della realtà effettuale del diritto conteneva, nelle intenzioni di Ascarelli, un invito rivolto ai giuristi affinché si ponessero problemi non soltanto d’interpretazione del diritto posto, ma anche di riforma: «Il problema del giurista – egli diceva – è da un lato quello di rendersi conto del mondo che ci circonda, dall’altro di elaborare un pensiero giuridico che sia strumento di intelligenza e di azione, di comprensione del presente e di azione pel futuro»66. Il fenomeno economico nuovo, cui Ascarelli amava riferirsi per accentuare il distacco dell’età presente da quella in cui erano state formate le leggi che ci reggono tuttora, era la produzione industriale di massa che faceva sentire ogni giorno più il bisogno di nuove regole giuridiche: se alla formulazione di

queste regole non provvedevano i giuristi, queste si formavano egualmente nella pratica degli affari ed erano regole imposte dai gruppi più potenti. Purtroppo il mondo economico preso in considerazione dal codice Napoleone e dai codici che lo seguirono era ancora quello di «un capitalismo nascente, commerciale ancora più che industriale, di piccoli produttori, anziché di grandi complessi industriali; di una società nelle cui classi medie e alte prevalgono redditi di capitale e beni ereditari; d’una società nella quale prevale la produzione agricola e l’investimento immobiliare, seppure nuove forze si siano già vittoriosamente affermate; di una società alla quale è ignoto o quasi il lavoro della donna nelle classi medie o alte»67. Di fronte a questo divario fra diritto scritto e non scritto non era rimedio sufficiente lo studio della pratica dei tribunali, per la semplice ragione che uno dei caratteri di questo diritto nuovo della società contemporanea è la diminuita litigiosità, o per meglio dire, il ricorso per la risoluzione delle controversie a rimedi diversi da quello tradizionale previsto e regolato dall’ordinamento giudiziario dello stato: uno dei temi cari ad Ascarelli negli ultimi anni fu quello del rapporto tra tipi di società e maggiore o minore frequenza della litigiosità, e tra cause della litigiosità e i vari metodi di soluzione delle liti68. Come si vede, quand’egli insisteva sulla necessità di studiare la realtà giuridica effettuale, invitava il giurista ad abbandonare le vie consuete di informazione sul diritto vigente e ad inoltrarsi nella strada accidentata, inesplorata, accessibile solo agli addetti ai lavori, dello studio della società economica nel suo sviluppo. Il problema del rapporto tra diritto e società si risolveva nel rapporto ben più determinato tra diritto ed economia, tra un certo tipo di ordinamento giuridico e un certo sistema economico. Peraltro, che il diritto fosse l’espressione dei rapporti economici non volle mai dire per Ascarelli che il diritto fosse il semplice prodotto del sistema economico: sotto certi aspetti si poteva considerare il sistema economico come un prodotto del diritto, cioè delle regole concordate o imposte che venivano di volta in volta formulate per dare ad un rapporto questa piuttosto che quella disciplina. Credo che egli pensasse ad una integrazione o ad una interdipendenza tra esigenza economica e regola giuridica: talvolta gli balenò l’idea, che forse avrebbe meritato di essere maggiormente approfondita, che il diritto facesse parte del sistema economico, e che pertanto il problema tradizionale dei rapporti tra diritto ed economia fosse

in definitiva un problema mal posto, perché le regole giuridiche sono esse stesse un elemento costitutivo di un certo sistema economico, nel senso che contribuiscono a formarlo, cioè a foggiarlo in un modo piuttosto che in un altro. Un’espressione caratteristica di quest’idea mi pare la seguente: «La disciplina giuridica non costituisce variabile forma di una costante sostanza, in una contrapposizione che presupporrebbe appunto una legalità economica naturale; costituisce essa stessa elemento della struttura economica i cui effetti e procedimenti sono in funzione delle regole seguite nell’azione e viceversa»69. L’idea che il diritto non potesse trasformare l’economia era puramente e semplicemente il riflesso di un’ideologia (reazionaria), cioè del desiderio che il diritto non intervenisse a trasformare per il vantaggio di classi diseredate il sistema economico esistente: era il riflesso della concezione che si presentava come scientifica ma era in realtà politica, secondo cui esiste un’economia naturale cui corrisponde l’ideologia del diritto naturale. Ma anche la pretesa economia naturale era artificiale, cioè era il riconoscimento e l’attribuzione di certi poteri che ne escludevano certi altri, e nella creazione di questo artificio avevano avuto la loro parte l’accettazione e l’imposizione di certe regole giuridiche piuttosto che di altre. In più luoghi Ascarelli si soffermò sulle trasformazioni economiche prodotte da mutamenti legislativi. Per questo partecipò con ardore soprattutto negli ultimi anni, non dimentico della milizia politica degli anni giovanili, a movimenti di riforma legislativa, di cui daremo un cenno nel penultimo paragrafo. Il nesso così inteso tra diritto ed economia costituì la premessa per una più rigorosa impostazione metodologica dell’attività del giurista: il quale, studiando un istituto, deve guardare contemporaneamente alla sua struttura normativa e alla sua funzione economica. L’esigenza di questa duplice indagine nasceva dal fatto, ben noto agli studiosi di diritto comparato, che spesso l’identica funzione può essere esercitata attraverso strutture diverse, o viceversa la stessa struttura giunge ad assolvere in diversi tempi funzioni diverse. Perciò non bastava considerare la struttura: occorreva di volta in volta accertare quale funzione vi corrispondesse. In questo rilievo dato alla funzione economica dell’istituto, Ascarelli prendeva posizione contro il formalismo tradizionale e si apriva la strada ad una più rigorosa e storicamente adeguata visione del compito dell’interpretazione nello sviluppo storico del diritto. Forse non fu estraneo al formarsi nella

sua mente, soprattutto negli ultimi anni, di questa concezione del vario atteggiarsi del rapporto tra struttura e funzione, l’influsso, o per lo meno una reminiscenza, di Karl Renner, che egli aveva conosciuto personalmente a Vienna nel 193470.

7. Il problema dell’interpretazione Il problema dell’interpretazione fu al centro dei suoi interessi teorici negli ultimi studi e costituì nello stesso tempo un ritorno alle origini (aveva esordito, come abbiamo visto, nel 1925, con un ampio saggio sul problema delle lacune). Nel porsi ripetutamente il problema dell’interpretazione egli si propose di intervenire autorevolmente nella famosa battaglia dei metodi che aveva diviso e ancor divide i giuristi in due opposte schiere; ma concepì il suo intervento più come il giudizio di un arbitro che come la difesa dell’una o dell’altra parte o la proposta di un metodo nuovo. Anzitutto ripeté in più luoghi che il suo compito non era prescrittivo, ma semplicemente storico e descrittivo71: il suo scopo non era quello di insegnare qual fosse il modo migliore di fare l’interprete, bensì quello di osservare e spiegare come di fatto agivano ed avevano sempre agito gli interpreti, anche senza saperlo o credendo di fare cose diverse da quelle che facevano in realtà. La sua teoria dell’interpretazione non era una precettistica, ma uno studio storico-critico. Proprio per questo si distingueva essenzialmente dalle solite teorie dell’interpretazione che erano ideologie mascherate. Sosteneva, infatti, in secondo luogo, che i cosiddetti metodi dell’interpretazione erano il riflesso di atteggiamenti etico-politici, e pertanto non esisteva il «buon metodo», cioè il metodo per eccellenza, di cui si potesse dimostrare l’assoluta validità in ogni tempo e in ogni luogo, ma esistevano metodi buoni per raggiungere un certo fine politico e metodi buoni per raggiungere un altro fine, e quindi ogni tempo e luogo avevano il proprio metodo migliore72. La famosa disputa metodologica tra concettualismo e giurisprudenza degli interessi celava un contrasto tra una giurisprudenza conservatrice e una giurisprudenza innovatrice. Perciò quando egli diceva di porsi di fronte al problema dell’interpretazione come storico voleva far intendere che non aveva alcun metodo nuovo da annunciare, ma si proponeva di capire storicamente in che cosa consistesse, di fatto, la tecnica dell’interpretazione, quale che fosse il metodo

perseguito (o, che era lo stesso, l’ideologia sottintesa). Le riflessioni di Ascarelli intorno al problema dell’interpretazione si possono raggruppare attorno a due grandi temi: la natura e la funzione dell’interpretazione. Per quel che riguarda la natura, l’interpretazione è per Ascarelli non dichiarativa ma creativa. Questo è sempre stato uno dei punti fermi della sua visione realistica e dinamica del diritto. Rigettando le consuete metafore dell’interpretazione come copia fotografica o come rispecchiamento del diritto già posto, egli adottò quella del seme e della pianta, onde l’ordinamento giuridico cresce su se stesso e si sviluppa attraverso l’opera dell’interprete, di cui la legge data è il germe fecondatore73. Fuori di metafora, l’interpretazione, checché pensi il giurista della sua opera, non è mai soltanto sviluppo logico di premesse, cioè mera esplicitazione dell’implicito, ma anche sempre accrescimento, adattamento, integrazione, insomma opera continua di riformulazione e quindi di rinnovamento del corpus iuris74: il giurista non è un logico che manipola soltanto delle regole, ma un ingegnere, che si serve di regole per costruire nuove case, nuove fabbriche, nuove macchine. Quando Ascarelli vuol parlare dell’opera creatrice dell’interpretazione introduce un termine che avrebbe forse dovuto essere meglio definito: «valutazione». Non vi è legge che non abbia bisogno, per essere applicata, di venire interpretata, onde l’interpretazione è un’operazione non sussidiaria, ma necessaria; non vi è interpretazione che non costringa l’interprete a prendere posizione di fronte a questa o a quella alternativa, e quindi ad esprimere una valutazione personale. Per «valutazione» Ascarelli intende l’enunciazione di una soluzione non desunta logicamente o tautologicamente dalle premesse poste dal legislatore, ma ricavata da una preferenza che rivela un orientamento personale. Per dimostrare il carattere valutativo dell’interpretazione, Ascarelli soleva riferirsi soprattutto a tre aspetti caratteristici della tecnica interpretativa, nei quali l’interprete non può trovare una soluzione nel sistema, ché anzi la sua operazione rende possibile l’applicazione e in definitiva l’efficacia del sistema: 1) la ricostruzione sistematica dell’ordinamento, la quale non è mai in alcun momento presupposta ma è sempre il prodotto provvisorio e mutevole della ricostruzione interpretativa; 2) la ricerca della ratio legis, che permette talvolta all’interprete di colmare il divario tra struttura normativa e funzione

economica, e comunque è uno dei mezzi più efficaci per adattare vecchie norme a realtà nuove; 3) la ricostruzione tipologica della realtà sociale. Quest’ultimo punto, su cui Ascarelli ritorna più volte negli ultimi scritti75, merita un’illustrazione particolare per la sua novità, almeno nella dottrina italiana. Tra i concetti di cui si serve il giurista occorre distinguere, secondo Ascarelli, quelli attinenti all’ordinamento tipologico della realtà sociale, come dolo, errore, colpa, vizio redibitorio, e quelli che esprimono o riassumono una disciplina normativa, come nullità, decadenza, annullabilità. Questi secondi hanno un significato fisso, i primi variabile, nel senso che si riempiono di nuovi contenuti col variare della società e dei rapporti sociali. Quale sia il contenuto variabile di questi concetti l’interprete è chiamato a stabilire di volta in volta, quando la norma astratta, che contiene uno di questi termini, deve essere applicata; e deve stabilirlo osservando la realtà. Perciò in questa operazione l’interprete è per così dire abbandonato a se stesso, o più esattamente attinge la soluzione a orientamenti generali etico-politici cui aderisce (anche se crede di essere assolutamente neutrale). Per esprimere il radicalismo della sua posizione, Ascarelli afferma che anche il più semplice dei testi: «Apri la porta» importa una ricostruzione tipologica della realtà, per lo meno una indagine su ciò che si debba intendere, nel caso specifico, per «aprire» e per «porta». Aprire include anche il socchiudere e lo spalancare? Porta è un’apertura di foggia determinata e quale? In ultima analisi, l’interprete, che può essere in una norma così semplice lo stesso destinatario della norma, per quanto ricorra al sistema o alla ratio del legislatore, si troverà sempre di fronte ad alternative tra le quali dovrà decidere: e ogni decisione presuppone una valutazione. Una situazione giuridica non è mai compiuta e finita perché le norme contengono riferimenti a una tipologia di cose, atti, eventi, che mutano nel tempo: la determinazione dei tipi variabili spetta all’interprete. Se non ci fosse l’interprete, la norma non potrebbe neppure essere applicata per mancanza di un riferimento specifico alla realtà che deve essere regolata. Quale sia per Ascarelli la funzione dell’interpretazione risulta ormai abbastanza chiaro da quel che si è detto circa la sua natura: l’interpretazione costituisce «il ponte necessario tra il corpus iuris e la mutevole realtà»76. Di qua derivano due caratteri, spesso disconosciuti: anzitutto è necessaria, nel senso che una norma esiste, cioè è efficace, solo in quanto è interpretata; in

secondo luogo fa corpo col sistema, sì che norme e interpretazioni delle norme costituiscono un unico sistema attuantesi nel tempo. Un sistema giuridico, in altre parole, è l’insieme delle norme date e in più l’insieme delle interpretazioni che di volta in volta hanno reso possibile l’applicazione, e perciò l’efficacia, delle norme date. Un sistema giuridico non è un dato ma un processo continuato nel tempo: se si vuole, la sua unità non è un presupposto ma un risultato. Una concezione siffatta dell’ordinamento giuridico si può chiamare concezione dinamica dell’ordinamento; ma bisogna badare a distinguerla dalla teoria dinamica dell’ordinamento di Kelsen: se ne distingue, peraltro, non per escluderla ma per integrarla. Tutte e due hanno in comune, anche se né il Kelsen né l’Ascarelli lo riconoscono espressamente, l’attribuzione all’ordinamento giuridico di una dimensione temporale, oltre a quella spaziale che ha raggiunto la sua più compiuta formulazione nella raffigurazione dell’ordinamento come di una piramide77. L’ordinamento giuridico, in altre parole, è un processo, un sistema in divenire, un tutto mobile e moventesi nel tempo, una specie di corrente di fiume che s’ingrossa per via ma è sempre lo stesso fiume. In questo processo l’interpretazione è come l’affluente che contribuisce alla crescita della massa d’acqua; ma una volta confluito nella corrente, non se ne distingue più. L’interpretazione adempie la propria funzione mantenendo la continuità del sistema. Il discorso di Ascarelli sull’interpretazione si muove sempre tra i due poli della creatività e della continuità. Purtroppo, questo concetto di continuità, nonostante la parte importante che assume nella teoria, non è mai stato svolto analiticamente. Si capisce a che cosa serve (a evitare il facile abbandono alle correnti del diritto libero, cioè della creazione continua); ma non si capisce bene come debba essere inteso. Continuità rispetto a che cosa? Ai principi generali del sistema? Ai principi dei singoli istituti? Ai precedenti giurisprudenziali? Questa continuità è un’esigenza cui il giurista deve restar fedele sino ai limiti del possibile? O è un fatto che lo storico constata studiando l’opera dei giuristi in differenti sistemi? Ma se è un fatto, come si inseriscono in questo fatto le cosiddette innovazioni giurisprudenziali, di cui lo stesso Ascarelli porta spesso esempi assai noti? Quale rapporto si può stabilire tra innovazione e continuità? Che le tecniche interpretative siano tecniche miranti a ricondurre i casi nuovi all’unità del sistema, dalle finzioni all’analogia, è certo: ma

accettando le tecniche per quel che presumono di essere non si rischia di confondere ancora una volta quel che i giuristi dicono di fare con quel che fanno realmente? Ora l’interesse delle riflessioni di Ascarelli sta nella demolizione del vecchio pregiudizio legalistico secondo cui l’interpretazione era prevalentemente un’operazione logica, mentre di fatto non è mai tale. Ma la continuità non è anch’essa un pregiudizio? Siamo proprio sicuri che l’interpretazione si presenti come continuazione, ma di fatto non sia talora innovazione e rottura? Il mancato approfondimento di questo punto si può spiegare, a mio giudizio, col fatto che su questo punto Ascarelli abbandona senza parere il terreno della constatazione storica sul quale dichiara a più riprese di essersi posto, e lascia apparire le proprie preferenze pratiche: la continuità non è un fatto constatato, ma un valore cui il buon giurista dovrebbe attenersi. È un’esigenza cui non può rinunciare chi si muove, come l’Ascarelli, tra le due ideologie opposte del concettualismo radicale e del radicale realismo in una posizione che ho chiamato poc’anzi di antiformalismo moderato78.

8. In particolare critica del logicismo e avvicinamento alla scuola della «nouvelle rhétorique» di Perelman Ascarelli accompagna l’esposizione del proprio pensiero con una incalzante critica del pensiero altrui. Non c’è corrente metodologica antica o moderna o recentissima che sfugga al tiro generalmente ben centrato: critica Hart e Tammelo, Coing e Klug. Rispetto a ciascuno indica affinità e differenze. La sua critica si pone continuamente almeno su tre fronti tra loro opposti: il fronte del concettualismo tradizionale, di cui vede un prolungamento in recenti tentativi di riportare il ragionamento giuridico negli schemi della logica formale (Magni, Klug)79 e in alcune formulazioni neo-positivistiche (si riferisce anche ad alcuni miei studi)80; il fronte del realismo sociologico, in cui considera anche la teoria della natura dei fatti come fonte di diritto; il fronte del libero diritto o della creatività sregolata, di cui è espressione tipica e ricorrente la fiducia nel giudizio di equità. Tenendo conto di questi tre bersagli polemici la «pars destruens» del pensiero di Ascarelli si può riassumere in queste tre affermazioni: 1) l’interpretazione non è logica, e pertanto la cosiddetta scienza giuridica

non ha niente a che vedere con le scienze formali; 2) l’interpretazione non è una ricerca fattuale, e pertanto la scienza giuridica non ha niente a che vedere con le scienze empiriche; 3) l’interpretazione non è mera intuizione personale, espressione di emozioni o sentimenti. Peraltro, che l’interpretazione non sia logica nel senso stretto della parola non significa che sia un’attività irrazionale, poiché ubbidisce a regole che servono a garantire certi risultati, anche se non sono regole logiche: Ascarelli accetta il rigore ma rifiuta la rigorizzazione. Che l’interpretazione non si risolva con l’indagine fattuale, non esclude che l’indagine sulla natura dei fatti sia preliminarmente necessaria: Ascarelli, pur condannando il sociologismo, riconosce l’importante contributo che la sociologia può offrire al giurista. Che l’interpretazione non sia intuizione irrazionale, non deve precludere la via a rendersi conto dell’inevitabilità delle valutazioni personali dell’interprete, in ultima istanza, nella decisione del caso. Sarei tentato di dire che Ascarelli tiene a bada ognuno degli avversari facendo qualche concessione agli altri due, e quindi mettendoli alla fin fine in contrasto fra loro. Alla teoria dell’equità riconosce il merito della spregiudicatezza di fronte al falso e presuntuoso logicismo, ma rimprovera la scarsa importanza attribuita ai concetti giuridici. Al concettualismo riconosce il merito di tener conto dei concetti giuridici, ma rimprovera il cattivo uso di essi, l’uso dogmatico anziché critico, rigido anziché flessibile, e la mancata distinzione tra tipologia sociale storicamente variabile e concetti attinenti alla disciplina normativa. Al realismo riconosce il merito di aver inculcato il rispetto dei fatti, ma rimprovera di essere caduto nell’errore del naturalismo ingenuo, consistente nel pretendere di dedurre un giudizio di valore da un giudizio di fatto. E così l’intuizionismo viene combattuto con le armi del concettualismo, il concettualismo con quelle del realismo, il realismo con quelle dell’intuizionismo. Il criterio ultimo cui Ascarelli si affida per distinguere ciò che è da accettare e ciò che è da respingere è ancora una volta l’antitesi tra storicismo e antistoricismo. Il che è un’ultima riprova della continuità del suo pensiero. Accoglie infatti delle tre posizioni quel che non contrasta con le esigenze di una concezione storicistica: più precisamente, l’uso strumentale dei concetti giuridici rispetto al concettualismo, lo studio dell’ambiente sociale per la miglior comprensione di un istituto rispetto al realismo, la inevitabile relatività storica delle valutazioni rispetto all’intuizionismo. Respinge quel

che una concezione storicistica non può accettare, cioè la credenza in un ordine razionale e in una natura precostituita rispetto alle prime due posizioni, l’arbitrarismo velleitario rispetto alla terza. In questa posizione polivalente, ma non ancora consolidata in una teoria coerente e completa, fu estremamente fecondo negli ultimi anni l’incontro di Ascarelli con la «nouvelle rhétorique» di Ch. Perelman, con una teoria che, rimettendo in onore la retorica distinta dalla logica, confuta l’infecondo dominio della logica nel ragionamento morale, senza cadere nelle braccia dell’irrazionalismo. Il mondo dei valori non è il dominio dell’irrazionale, ma di una particolare forma di ragionamento che mira alla persuasione attraverso l’argomentazione: i valori non si dimostrano, si argomentano. Mette conto di riportare questo riconoscimento che si trova in una delle ultime pagine che di lui ci sono rimaste (il Traité de l’argumentation di Perelman e Olbrechts-Tyteca, cui la citazione seguente si riferisce, apparve nel 1958): «È stato per me di grande conforto ritrovare nelle pagine di questo trattato osservazioni di carattere generale analoghe a quelle che, muovendo dalla necessità di chiarire a me stesso la mia esperienza di giurista, avevo avanzato nei riguardi dell’interpretazione giuridica negli studi ripubblicati in questo volume e in quelli raccolti nei volumi del 1952 e del 1955»81. Nella Premessa all’ultima raccolta di saggi, uscita postuma, si trova un’affermazione che è insieme la conclusione della critica delle teorie opposte e l’indicazione di una via d’uscita: «Oserei dire che il problema del giurista tra noi è quello di superare una antinomia per la quale il ragionamento giuridico o viene identificato con la logica aristotelica o considerato come arbitrario»82. La via d’uscita tra il logicismo e l’irrazionalismo è la distinzione tra logica e retorica, tra «una logica ineluttabilità e una ragionevolezza dell’argomentazione»: è, in breve, la teoria dell’argomentazione. In questi ultimi scritti Ascarelli era arrivato al punto in cui forse sarebbe stato necessario un riepilogo: ed egli stesso ne sentiva il bisogno. Aveva ormai ben chiare in mente le linee fondamentali di una teoria; ma era una teoria sinora composta di frammenti, più o meno levigati, ripresi ciascuno infinite volte ma non mai ordinati in sistema, gettati disordinatamente, secondo l’occasione, in scritti di varia indole, saggi critici, recensioni, note a sentenze, lettere al direttore, e in ogni scritto apparentemente senza un disegno, ora nel testo ora nelle note. Peraltro l’elaborazione sistematica di

una vera e propria metodologia del diritto avrebbe avuto ancora bisogno di una ricostruzione storica dell’opera della giurisprudenza negli ultimi secoli e nei diversi sistemi. Sinora Ascarelli si era destreggiato tra le teorie dell’ultimo secolo dalla scuola storica in poi; ma occorreva risalire più indietro, al contrasto tra «mos italicus» e «mos gallicus», ai primi grandi sistemi umanistici e giusnaturalistici. Questo bisogno di una indagine storica nasceva dalla constatazione del divario tra la convinzione ormai raggiunta e solidamente ancorata all’esperienza professionale della natura creativa dell’interpretazione e l’illusione tradizionale dei giuristi circa il carattere logico, rigoroso, matematico della loro scienza. Quali erano le ragioni pratiche di questo errore? In un saggio del 1955, più volte citato, dedicò un paragrafo denso e concitato a un rapido scorcio di questa storia con una lunga nota su Bacone, con riferimenti molto precisi a Hobbes e a Leibniz83: queste pagine erano evidentemente appunti per una ricerca ulteriore, di cui la raccolta di scritti di Hobbes e Leibniz, uscita postuma, onde abbiamo preso le mosse per questo profilo, sarebbe stata la prima tappa. Ne aveva dato l’annuncio nella Premessa, testé ricordata, dove, lamentando la mancanza di riflessioni sull’argomentazione giuridica, concludeva: «È perciò che, a mio avviso, è indispensabile uno studio della storia del pensiero giuridico»84.

9. Azione politica e interessi culturali dopo il ritorno dall’esilio sino alla morte Può aver destato qualche sorpresa il non aver incontrato, sin qui, in pagine di contenuto prevalentemente metodologico, neppure un cenno al problema dei problemi, al problema della scienza giuridica, diventato dal Kirchmann in poi uno dei temi prediletti della filosofia del diritto. Non l’abbiamo incontrato per la semplice ragione che Ascarelli non se l’era mai posto nei termini falsi in cui questo problema era stato tramandato. Che la giurisprudenza fosse o non fosse una scienza era un problema fittizio: ciò che importava sapere era come operavano i giuristi nella loro diuturna fatica dell’interpretazione, indipendentemente dal fatto che quest’opera fosse scientifica e a qual tipo di scienza appartenesse. Per Ascarelli non c’era una scienza giuridica al di fuori della tecnica dell’interpretazione. Vi

potevano essere diversi gradi di rigore nella tecnica interpretativa; ma non vi era alcuna dicotomia essenziale tra una giurisprudenza inferiore e una superiore (come aveva sostenuto Jhering), né tra una tecnica e una scienza (come aveva sostenuto Gény), neppure tra un’interpretazione inferiore e un’interpretazione superiore (come aveva proposto il Gorla). Ammetteva una differenza tra interpretazione-scienza del diritto e teoria formale del diritto nel senso kelseniano della parola: ma la teoria formale, di cui non disconosceva l’utilità, non aveva niente a che vedere con l’attività del giurista. Così pure non era possibile una distinzione tra interpretazione e costruzione: «Non v’è... interpretazione – diceva toccando un punto nevralgico della metodologia giuridica – che non importi un momento costruttivo; non v’è d’altra parte costruzione che non si ponga come strumento di applicazione del diritto»85. Ogni tentativo di innalzare una pretesa scienza giuridica sull’attività interpretativa era l’espressione o di cattiva coscienza o di cattiva conoscenza. Se si voleva parlare di una scienza giuridica, ci si mettesse bene in mente che questa non poteva essere nulla di diverso dall’opera creativa dell’interpretazione, e quindi aveva funzione pratica e non teoretica86. Seguendo le proprie inclinazioni e convinzioni ultime, Ascarelli avrebbe preferito parlare di saggezza piuttosto che di scienza87. Dietro le astratte discussioni intorno alla scientificità della giurisprudenza, credo che Ascarelli fiutasse il desiderio dei giuristi di sfuggire alle proprie responsabilità etiche e politiche. Quando, invece, andava ripetendo la tesi della funzione pratica della scienza del diritto che era tutt’uno poi con la riconosciuta natura creativa dell’interpretazione, richiamava il giurista al dovere di acquistar coscienza del proprio posto nella società. Una delle sue massime preferite era che le tecniche interpretative non sono mai neutrali. Con le sue valutazioni il giurista era, ne fosse o non ne fosse consapevole, al servizio di fini politici. Ascarelli non era neutrale e aveva il vantaggio di fronte ad altri colleghi di esserne consapevole. Anche nei primi anni, come abbiamo visto, aveva partecipato alla battaglia politica dei gruppi giovanili antifascisti; ma impegno politico e studi giuridici, come spesso accade nei giovani a causa di una non raggiunta armonia tra le aspirazioni e la realtà, erano proceduti per strade diverse senza quasi mai incontrarsi. Poi era venuta la lunga parentesi del fascismo in cui il tecnicismo era stato una difesa contro la politica diventata

campo minato. Solo negli anni dopo la liberazione, avvenne nell’opera di Ascarelli la compiuta conciliazione tra politica e scienza. Anche per questo, gli anni di cui stiamo discorrendo sono stati i più fecondi. In Brasile aveva trascorso un periodo di grande attività scientifica e pratica e d’intensa preparazione allo sperato ritorno. Del soggiorno in Brasile serbò sempre gratissimo ricordo: e per renderne pubblica testimonianza scrisse, con la versatilità che gli era propria, una monografia compiuta, in cui espose storia e sistema politico, economia e diritto, problemi culturali, sociali e religiosi, della terra che lo aveva ospitato. Il libro apparve col titolo dimesso Sguardo sul Brasile, in una collana, «Paesi stranieri», che egli aveva ideato con un amico dell’antifascismo giovanile, Riccardo Bauer; ma l’impresa non ebbe fortuna, e il volumetto è stato poco letto, ed ora è pressoché dimenticato88. Tornò per la prima volta in Italia per riprendere possesso della cattedra di Bologna nel novembre del 1946. Le sue impressioni sulla società italiana che si era venuta formando tumultuosamente attraverso il disordine della sconfitta, le lacerazioni della guerra civile, l’agitazione frenetica della liberazione, erano contrastanti. Ammirava lo slancio generoso della Resistenza, ma ne constatava il rapido smorzarsi in un qualunquismo senza orizzonti e nella rissosa faziosità dei partiti. Non si nascondeva il pericolo del neo-fascismo «alimentato dalla borghesia proletarizzata e ferocemente nemica della repubblica». Sulla situazione politica espresse un giudizio che era una profezia: il governo era di sinistra (non era ancora avvenuto allora l’allontanamento dei comunisti e dei socialisti dal governo), ma l’economia andava a destra creando nuovo aumento di concentrazione della ricchezza89. Confrontando la Francia con l’Italia, giudicò la prima più stabile, la seconda più inventiva (ma meno solida): preferiva comunque lo slancio attivistico di Milano all’euforia di pochi, accompagnata all’apatia di molti, che aveva trovato nella capitale. A proposito della situazione finanziaria emise questo giudizio perentorio: «La mia esperienza fiscale è preziosa; mi fa subito vedere molti aspetti. L’Italia è il paese meno tassato del mondo e ciò spiega molte cose: spiega l’esistenza e rimanenza del fascismo; il potere dei borsari neri e il qualunquismo ed è a sua volta conseguenza dell’incapacità amministrativa delle sinistre, i cui uomini, ottimi, hanno bisogno di tempo per impadronirsi dei problemi, mentre il tempo preme e la situazione economica peggiora». A proposito della ripresa industriale arrischia questa previsione: «L’industria italiana... è

più moderna e tecnicamente più avanti della francese, sia pel maggior spirito inventivo italiano, sia perché più giovane... e perciò, credo, destinata ad andare bene. Forse l’Italia del Nord è oggi col Belgio il maggior centro industriale europeo»90. Insegnava a Bologna ma viveva, quando era in Italia, a Roma. Continuò pure in questi primi anni a mantener contatti col Brasile, dove era rimasta, sino al 1952, la famiglia. Il ritorno non fu privo di amarezze, di nostalgie, di difficoltà, di conflitti. Spesso si sentiva isolato, quasi straniero e ormai sradicato, come se fosse piovuto da un altro mondo; soffriva di solitudine e stentava a trovare la propria strada. Gli pareva talora di essere vittima di una congiura del silenzio. Rimase per qualche tempo incerto se dovesse considerare definitivo il ritorno in Italia: qual era l’avvenire politico ed economico d’Europa? Sarebbe scoppiata una nuova guerra mondiale? Quale sarebbe stato il destino dell’Italia? Erano gli anni della guerra fredda, in cui pareva che tra America e Russia la civiltà europea fosse destinata a inabissarsi per sempre. Il lungo soggiorno nel Nuovo Continente lo aveva abituato a guardare con uno sguardo più freddo le cose del Vecchio, a fare raffronti imparziali tra l’una e l’altra civiltà, a orientarsi con prudente distacco. Ma aveva appreso ad ammirare il costume sociale degli americani: «Spesso il latino detta una regola giuridica – scriveva – dove l’anglosassone osserva una regola sociale». E il loro spirito egualitario: «L’uomo dell’ascensore nell’ora del suo riposo mi prende sotto braccio per fare una fumata e una chiacchierata; questa è la civiltà dell’America», e antindividualistico: «Senso del collettivo: persino nel campo scientifico non si lavora soli, ma in gruppo. Senso della comunità per cui tutti possono dire “we are the government”. Desiderio di essere come gli altri». E il loro «perbenismo» per cui «non si dicono bugie; non si froda; si è reputati galantuomini sino a prova contraria...», onde gli piaceva concludere: «America erede dell’Inghilterra: nella tutela di un equilibrio; in una talassocrazia in contrapposizione ad una potenza continentale; nella tutela di una civiltà industriale, marinara e perciò liberale contro le tendenze di pianura, continentali»91. A poco a poco la vita italiana diventa più normale, i furori postbellici si placano: ed egli decide di restare in patria. Aveva ripreso gusto al lavoro, soprattutto all’insegnamento e alla ricerca scientifica; gli pareva di essere nelle migliori condizioni per aprire nuovi solchi e non doveva abbandonare il campo nel momento della più

rigogliosa mietitura. Nel 1949 pubblicò la prima raccolta di scritti vari, Saggi giuridici, cui seguirono tre anni dopo le altre, oltre gli Studi di diritto comparato, più volte citati, i Saggi giuridici sulla moneta (1951), gli Studi in tema di contratti (1952), gli Studi in tema di società (1952). Quando nel 1953 fu chiamato all’Università di Roma per l’insegnamento del diritto industriale, il lento processo di inserimento nella vita italiana era ormai definitivamente compiuto. Il 19 agosto 1954 veniva eletto socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei. Le elezioni del 7 giugno 1953, condotte in base alla famigerata legge maggioritaria, diedero vigore a piccoli gruppi politici che si erano battuti strenuamente per impedire lo scatto del premio di maggioranza. E ottennero il risultato sperato. Ascarelli si era avvicinato al movimento di Unità popolare, alleanza provvisoria di ex azionisti, socialisti autonomisti, repubblicani dissidenti, che aveva dato battaglia con propria lista alle elezioni politiche. Fu candidato in queste elezioni nella lista di quel movimento. Fece parte del comitato provvisorio che il 13 gennaio 1954 ebbe il compito di concordare con il consiglio direttivo di Autonomia socialista la formazione di un organo comune ai due movimenti, quindi del Comitato centrale92. Partecipò ai dibattiti promossi dal movimento. Collaborò alla redazione dell’appello del Comitato dei giuristi (gli altri erano Calamandrei, Comandini, Jemolo e Piccardi) contro i provvedimenti discriminatori minacciati dal governo Scelba il 4 dicembre 1954. Collaborò al foglio periodico che uscì tra il ’54 e il ’55 col titolo «Lettera agli amici di Unità popolare», il cui animatore era Leopoldo Piccardi93. Attraverso Ernesto Rossi, che aveva conosciuto sin dai tempi del «Non mollare»94, diede pure qualche sporadico contributo a «Il Mondo»95. Ebbe parte di protagonista in due convegni promossi dal settimanale del radicalismo italiano, rispettivamente nel primo e nel quinto, su «La lotta contro i monopoli» (Roma, 13-14 marzo 1955) e su «Atomo ed elettricità» (Roma, inverno 1957)96. Entrambi i convegni si conclusero con la redazione di due schemi di progetti di legge, di cui Ascarelli fu uno dei principali autori, «Sulle intese industriali e commerciali in tema di società» e «Sulla produzione e utilizzazione dei combustibili nucleari», poscia presentati alla Camera dei deputati dagli on. La Malfa, Lombardi e Villabruna97. La prima relazione offrì ad Ascarelli una buona occasione per

presentare come proposte di riforma legislativa osservazioni e critiche che andava da anni rivolgendo alla disciplina normativa delle società per azioni, partendo soprattutto da due considerazioni: rispetto a coloro cui spettava in ultima istanza il potere di decisione, il potere si era enormemente accresciuto col crescere della grande impresa, ma non era aumentato in proporzione il rischio economico; rispetto agli azionisti piccoli ed isolati, la protezione legislativa era insufficiente e, quel che è più, inefficace. Occorrevano maggiori e migliori misure di controllo dei più forti, da un lato, più energici interventi a tutela dei più deboli, dall’altro. La destra economica, aggiungiamo noi, sempre pronta ad erigersi a severa custode dei diritti delle minoranze in sede politica (dove è più debole) diventa altrettanto indignata rivendicatrice del potere delle maggioranze in sede economica (dove è più forte). Quanto alla critica antimonopolistica, lamentando che la nostra legislazione fosse ormai l’unica ad ignorare il problema, propose l’introduzione di norme preclusive di ogni pattuizione della reciproca concorrenza, precisando e delimitando il campo che doveva essere allargato alle intese indirette (che sono anche le più frequenti). Rispetto alla soluzione giuridica da dare alla produzione dell’energia nucleare in Italia, criticò il cosiddetto Progetto Cortese che finiva di dare tutto il potere ai privati fingendo di essere accentuatamente pubblicistico: «Un progetto – diceva – che non offre uno strumento per lo sviluppo dell’energia nucleare, ma si limita a sperare che i privati provvedano a questo sviluppo»98. Sostenendo che spettava allo stato e solo allo stato di decidere sull’impulso da dare all’industria nucleare indipendentemente da considerazioni di profitto privato, propose la soluzione del monopolio di stato. Non si trattava di un amore generico per la statalizzazione; ma di un giudizio di opportunità su una situazione che non sembrava consentire altre vie (incoraggiato, del resto, dall’esperienza di altre legislazioni certo non socialiste). Dopo la chiamata a Roma sino alla morte, l’operosità di Ascarelli fu in ogni campo fervidissima. Tenne conferenze in varie città, fu ospite applaudito in congressi italiani e stranieri. Più volte ricordata fu la sua partecipazione alla Conferenza diplomatica per la revisione della Convenzione di Parigi in tema di brevetti, che ebbe luogo a Lisbona nell’ottobre del 1958: egli si prodigò soprattutto nella IV Commissione incaricata di esaminare i problemi relativi alla repressione delle false

indicazioni di provenienza e alla protezione delle denominazioni di origine. Pochi mesi prima della morte aveva accettato di presiedere un Convegno da tenersi a Milano in tema di brevetti, promosso dal Centro Studi della legislazione industriale: il Convegno, dedicato alla «Riforma della legislazione brevettuale», fu inaugurato il 5 febbraio 1960, due mesi e mezzo dopo la sua morte e fu dedicato alla sua memoria. Nel 1956 ideò, fondò e diresse un organo suo, dedicato allo studio specifico di quei problemi che più avevano stimolato le sue riflessioni sullo scarto tra le forme legislative e la realtà effettuale della prassi giuridica e giudiziaria, la «Rivista delle società», che ora gli sopravvive sotto la direzione di Giuseppe Auletta e Luigi Mengoni. Scrisse un grandissimo numero di articoli e note, specie in tema di società e di titoli di credito, di cui solo una bibliografia completa, che dovrà pur essere un giorno o l’altro compilata, potrà dar la piena ed esatta misura. Compose il grande commentario sulle Obbligazioni pecuniarie, che apparve nel 1959 pochi mesi prima della morte99. Curò, con numerose aggiunte, soprattutto nelle note, la più importante delle sue raccolte di saggi, i più volte citati due volumi di Problemi giuridici, usciti postumi. Un mese prima della morte, il 21 ottobre 1959, la Facoltà di Giurisprudenza di Roma lo chiamava all’insegnamento del diritto commerciale come successore di Alberto Asquini100. La crudele malattia che lo avrebbe stroncato in pochi giorni non gli permise neppure di tenere la prolusione. L’ultimo traguardo era così, ad un tempo, raggiunto e perduto. Nello stesso giorno della morte (20 novembre 1959) l’Università libera di Bruxelles, per iniziativa dell’amico e collega Perelman, gli conferiva la laurea honoris causa.

10. Giudizio complessivo sull’opera e sulla personalità di Tullio Ascarelli Parlando un giorno di Piero Calamandrei, ebbi a definirlo un giuristamoralista101: volevo dire che egli era particolarmente sensibile al valore etico del diritto, guardava ansiosamente al diritto come a uno strumento delicato, imperfettissimo, sempre pronto a guastarsi, per far trionfare la giustizia. Usando lo stesso metro, Ascarelli si potrebbe definire, invece, un giurista-economista: studiò sempre con particolare attenzione i rapporti tra

diritto ed economia, considerò il diritto soprattutto nel suo valore strumentale rispetto ai fini economici della società. Il grande tema degli ultimi anni fu, come è stato più volte osservato, l’inadeguatezza del diritto privato contemporaneo di fronte alla rapida trasformazione economica da cui sarebbe nata la seconda rivoluzione industriale. Ma la critica economica del diritto si risolveva alla fine in una critica politica e più oltre ancora in una critica morale, cioè nella constatazione della insufficienza di un dato corpo di leggi e di dottrine rispetto alla difesa dei valori ultimi della giustizia sociale e della tutela dell’individuo. Senonché lo studio del diritto commerciale e il continuo contatto professionale coi problemi della società capitalistica in trasformazione avevano contribuito a mettere in primo piano la funzione immediata del diritto, che era la funzione economica. Guardando il diritto secondo questa prospettiva, Ascarelli inaugurò in Italia un indirizzo funzionalistico nello studio dei grandi problemi giuridici. Per definire con una etichetta la sua opera, si potrebbe parlare, appunto, di funzionalismo giuridico, che è una nuova strada oltre il positivismo giuridico, legato alla finzione della volontà del legislatore, e oltre il giusnaturalismo, anche nella sua versione moderna del ricorso alla natura delle cose, viziato dalla confusione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. In questa concezione funzionalistica del diritto, il giurista perdeva il carattere tradizionale del dogmatico e assumeva quello dell’ingegnere o del costruttore rivolto al compito di organizzare, disciplinandola giuridicamente, una società in espansione e in evoluzione. Del resto, tanto il giusnaturalismo quanto il positivismo giuridico, pur opposti nella posizione dei fondamenti, erano accomunati dall’ideale della giurisprudenza come logica del diritto e della concezione dichiarativa dell’interpretazione. La nuova via era quella che, rigettando un’immagine del giurista diventata ormai anacronistica, apriva la strada a una visione più realistica della sua opera, e insieme a un’attività più consona ai nuovi bisogni. È impossibile dissociare questa concezione della giurisprudenza dalla intera personalità di Ascarelli, dal suo carattere di uomo curioso, irrequieto, sempre pronto a nuove esplorazioni, verso nuovi orizzonti di sapere (negli ultimi anni avrebbe voluto darsi allo studio della matematica per approfondire certi problemi di logica giuridica). Era affascinato dai due grandi temi del diritto nel tempo, onde la sua passione, soprattutto negli

ultimi anni, per lo studio della storia del pensiero giuridico, e del diritto nello spazio, onde l’indefesso studio, sin dai primi anni, dei diritti stranieri. E in entrambe le direzioni, aiutato da una eccezionale facilità di apprendimento e da una naturale vocazione cosmopolitica, allungò più che poté lo sguardo sino a vedere nuovi mezzi, a disegnare nuove prospettive, a proporre nuovi temi di lavoro. Fu per tutta la vita un lettore infaticabile: leggeva con avidità tutto quel che gli capitava tra le mani o gli veniva suggerito dalle circostanze. Alcune note di diario dal ’48 in poi102 documentano la varietà delle sue letture: da Voltaire a Kafka, da Filangieri a Gide, da Guizot a Freud, da Goethe a Proust, a Nehru, a Gramsci. A Parigi si entusiasmava a Les Mouches di Sartre, a Venezia ammirava Chagall. Con le letture estravaganti sembrava volesse nutrire il suo spirito di quel cibo di cui la giurisprudenza era troppo povera. Prediligeva i poeti dell’oscurità a quelli della chiarezza. L’esercizio dell’intelligenza, che aveva rapida, sicura, lucidissima, non gli bastava. Cercava un compenso, un’integrazione, nei classici, negli scrittori problematici, negli spiriti religiosi. Recalcitrava di fronte alla spregiudicatezza di Voltaire, ma si abbandonava volentieri a Pascal. Si compiaceva che si tornasse nel teatro ai grandi problemi: «Il peccato originale e la grazia; necessità e libertà; fatti e responsabilità, due grandi antinomie». Alla qualità della chiarezza intellettuale, che aveva fatto di lui un giurista temprato all’esigenza del rigore, faceva riscontro l’ansia di sondare il mistero che circonda l’uomo e la sua opera di civiltà103. E così lo storicismo, che l’aveva guidato nello studio del diritto, era sospeso al dubbio finale sul senso ultimo della storia: dubbio che non doveva (o non poteva) avere risposta.

Note 1

Th. Hobbes, A Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Law of England; G.W. Leibniz, Specimen quaestionum philosophicarum ex iure collectarum. De casibus perplexis. Doctrina conditionum. De legum interpretatione, con uno studio introduttivo di T. Ascarelli, Giuffrè, Milano 1960. Cfr. la recensione di F. Brunetti, in «Belfagor», XVI, 1962, pp. 252-55. 2 G.W. Leibniz, Specimen quaestionum, cit., Introduzione, p. 7. 3 Ivi, p. 8, in nota. 4 Nell’edizione curata da Ascarelli, a p. 75; nella traduzione italiana da me curata, Th. Hobbes, Opere politiche, vol. I, Utet, Torino 1959, p. 397.

5 6

Leviathan, a cura di M. Oakeshott, Blackwell, Oxford, s.d., p. 211. F. Messineo, Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di T. Ascarelli, Giuffrè, Milano 1969, vol. I, p.

LV.

7

Conversazioni critiche, serie prima, Laterza, Bari 19504, p. 246. 8 M. Ascoli, La interpretazione della legge. Saggio di filosofia del diritto, Athenaeum, Roma 1928. 9 Ascarelli pubblicò il primo saggio giuridico a vent’anni: I debiti di moneta estera e l’art. 39 cod. di comm., in «Rivista del diritto commerciale», XXI, 1923, I, pp. 444-69. 10 Il problema delle lacune e l’art. 3 disp. prel. cod. civ. nel diritto privato, in «Archivio giuridico», XCIV, 1925, pp. 235-79; ora in Studi di diritto comparato e in tema di interpretazione, Giuffrè, Milano 1952, pp. 209-43. 11 Ascoli, La interpretazione, cit., p. 52, nota 1. 12 Il problema delle lacune, cit., p. 221. 13 In «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1925, p. 652 (recensione a Marcel de Gallaik, La réforme du code civil autrichien. Textes et commentaires, Paris 1925). 14 Cfr. in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1925, pp. 651-52, pp. 652-54, pp. 654-56; ivi, VI, 1926, p. 329; ivi, VIII, 1928, p. 268; ivi, IX, 1929, pp. 172-73, pp. 173-74, pp. 356-57, p. 357, pp. 357-58. 15 La dottrina commercialista italiana e Francesco Carnelutti, in Problemi giuridici, vol. II, Giuffrè, Milano 1959, pp. 983-99. 16 In «Rivista del diritto commerciale», XXII, 1924, I, pp. 419-66. 17 Indi pubblicato in Studi di diritto commerciale in onore di C. Vivante, I, Foro italiano, Roma 1931, pp. 25-98. 18 «Rivista internazionale di filosofia del diritto», VI, 1926, pp. 168-69. 19 Due rivoluzioni mancate. Dati, sviluppo e scioglimento della crisi politica italiana, Campitelli, Foligno 1923. Ne ho sott’occhio la copia che appartenne a Piero Gobetti con dedica dell’autore: «A Piero Gobetti – con stima e comprensione – Alberto Cappa – maggio 1923». In una annotazione scritta a matita sull’ultima pagina Gobetti commenta: «Cappa concepisce la storia del dopoguerra come lotta dei ceti medi contro gli altri. Invece è una lotta tra medi ceti: gli uni nazionalisti, gli altri socialisti...». Le due rivoluzioni mancate di cui parla il Cappa sono quella socialista e quella fascista, entrambe assorbite nella continuità dello stato monarchico accentratore. 20 Anche di questo libro del Cappa, Ascarelli aveva scritto una recensione, tre anni prima, nella rivista «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, pp. 94-96 (cfr. nota 26), ove aveva già espresso analogo giudizio sul Pareto: «... nonostante l’ammirazione che oggi si vuole imporre per il dimenticato di ieri, [il Trattato di sociologia generale] non mi sembra costituire un nuovo titolo di gloria, ma un segno di decadenza di quegli che rimarrà come l’autore del Cours d’économie politique» (p. 94). 21 La lotta delle generazioni, in «La rivoluzione liberale», II, n. 28, 25 settembre 1923, p. 113, siglato p.g., ora in Scritti politici, Einaudi, Torino 1960, p. 523. 22 L. Basso, Introduzione a Le riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Feltrinelli, Milano 1961, pp. LXXVII-LXXIX. 23 Ai dieci numeri apparsi collaborarono P. Bonfante, E. Buonaiuti, R. Mondolfo, G. Vescovini, A. Cammarano, A. Pincherle, T. Ascarelli, S. Diambrini Palazzi, A. Tilgher, L. Salvatorelli, V. Giusti, E. Sereni, C. Treves, P. Flores, E. Leone, F. Battaglia, M. Coppini, P. Gobetti, M. Ascoli, C. Berneri, G. Ferrero, L. Limentani, A. Graziadei, N.M. Fovel, L. Fabbri, R. Rolland, E. Nasalli-Rocca, E. Fodale. Inoltre apparvero articoli e note con le seguenti sigle: T.A.

(Tullio Ascarelli), P.F. (Paolo Flores), g.v. (Giuseppe Vescovini), G.B. (Giorgio Bandini), E.S. (Enzo Sereni), A.P. (Alberto Pincherle), T.L. (Tullio Liebmann), B.L. (?), C.B. (?), U.F. (?). Ogni numero conteneva un brano di autori noti la cui lettura veniva riproposta come particolarmente istruttiva. L’elenco degli autori è poco illuminante: Oriani, Chesterton, Savonarola, De Maistre, Max Weber, Stefano Jacini, Marx e Sorel. 24 Rathenau, in «Studi politici», I, n. 2, febbraio 1923, pp. 43-50; Urbano Rattazzi, in «Studi politici», I, n. 910, settembre-ottobre 1923, pp. 255-59. 25 I competenti, in «Studi politici», I, n. 1, gennaio 1923, p. 24, firmato t. a. (questo articolo fu pubblicato anche in «La rivoluzione liberale», II, n. 12, 1° maggio 1923); Italia e piccola intesa, in «Studi politici», II, n. 4-5, aprile-maggio 1923, pp. 142-43, firmato T.A.; Gli avvocati e la politica, in «Studi politici», I, n. 6-7, giugno-luglio 1923, pp. 186-87, firmato T.A.; Punti interrogativi sulla questione italo-greca, in «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, pp. 225-26, firmato T.A. In più una risposta in corsivo, firmata T.A., ad una nota di E. Nasalli-Rocca, Borghesi e liberali, n. 9-10, settembre-ottobre 1924, pp. 246-47. 26 In «Studi politici», I, n. 1, gennaio 1923, pp. 26-28, firmata T.A. (recensione a U. Formentini, Collaborazionismo, ed. di «La rivoluzione liberale», Torino 1922); ivi, pp. 28-30, firmata t.a. (recensione a S. Perozzi, Critica politica, Zanichelli, Bologna 1922); in «Studi politici», I, n. 2, febbraio 1923, pp. 63-64, firmata T.A. (recensione a G. Salvemini, Tendenze vecchie e necessità nuove nel movimento operaio italiano, Cappelli, Bologna 1922); ivi, p. 64, firmata T.A. (recensione a M. Brinkmeyer, Hugo Stinnes, Documents traduits et commentés par V. Marcano, préface de Georges Blondel, Plon, Paris 1922); in «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, pp. 94-96, firmata t.a. (recensione a A. Cappa, Due rivoluzioni mancate; Campitelli, Foligno 1923); ivi, p. 96, firmata T.A. (recensione a P. Pascal, Die ethischen Ergebnisse der russischen Sovjetmacht, Malik Verlag, Berlin 1922); in «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, pp. 192-94, firmata T.A. (recensione a F. Burzio, Politica demiurgica, Laterza, Bari 1923); ivi, p. 194 (recensione a L.M. Hartmann, Il Risorgimento. Le basi dell’Italia moderna, Vallecchi, Firenze 1923); in «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 194, firmata T.A. (recensione a L. Sturzo, Riforme sociali e indirizzi politici, Vallecchi, Firenze 1922); in «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, pp. 227-28, firmata T.A. (recensione a R. Mondolfo, Significato e insegnamento della rivoluzione russa, Bemporad, Firenze 1923); in «Studi politici», I, n. 910, settembre-ottobre 1923, pp. 269-70, firmata T.A. (recensione a A. Graziadei, Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica. Critica alla teoria del valore di Carlo Marx, Soc. ed. Avanti!, Milano 1923). 27 Su questo argomento cfr. A. Acquarone, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», XI, aprile 1964, n. 52, pp. 109-28. 28 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 193 (recensione a Burzio, cit.). 29 In «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, p. 95 (recensione a Cappa, cit.). 30 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 194. Riporto tutto il brano: «Uscendo dall’empirismo giolittiano, come da quello fascista abbiamo da formare una nuova classe dirigente con una nuova coscienza politica che abbia più vivo il senso dell’insopprimibile drammaticità della vita e della lotta politica, della necessaria insufficienza di ogni compromesso che equivale non già al superamento dei termini antitetici nella unità della vita politica, ma a una soluzione mancata, come del disperato relativismo di ogni nostra azione. Certo ciò non potrà essere se non da un lato coll’entrata nella vita italiana di un proletariato coscientemente rivoluzionario e perciò apportatore di nuovi valori, nel constatato esaurimento della piccola borghesia nel fascismo da un lato, nell’impossibilità di un ampio fiorire di grande borghesia industriale dall’altro, proletariato concretamente nazionale nella sua coscienza di classe, dall’altro con la risoluzione del problema

unitario, risoluzione che per essere tale deve importare soluzione dell’attuale crisi politica italiana: opera complessa che non potrà compiersi se non con una completa e profonda rivalutazione di tutti i nostri elementi culturali prima di poter entrare nel campo della formulazione tecnico-giuridica» (p. 194). 31 In «Studi politici», I, n. 2, febbraio 1923, p. 64 (recensione a Salvemini, cit.). 32 In «Studi politici», I, n. 9-10, settembre-ottobre 1923 (recensione a Graziadei, cit.). 33 In «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, p. 228 (recensione a Mondolfo, cit.). Cfr. anche I, n. 3, marzo 1923, p. 96 (recensione a Pascal, cit.). 34 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 194 (recensione a Sturzo, cit.). 35 In «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, p. 95 (recensione a Cappa, cit.). 36 Questa lettera è custodita nell’Archivio del Centro Studi Piero Gobetti (via Fabro 6, Torino). Vi sono altre due lettere di Ascarelli a Gobetti: una del 21 marzo 1924 (su carta intestata del Ministero delle Finanze. Direzione generale delle pensioni di guerra), con la quale Ascarelli invia la propria quota di sottoscrizione a «La Rivoluzione Liberale»; una del 31 giugno 1925 (su carta intestata avv. Tullio Ascarelli, via Cesalpino 26, Roma) in cui raccomanda un amico Fortini (?) che vorrebbe tradurre Marshall (l’economista) e assicura che il prof. Ricci avrebbe promesso di scrivere la prefazione. 37 Archivio del Centro Studi Piero Gobetti. L’ordine del giorno, approvato dal Gruppo romano, è il seguente: «Il gruppo romano di Rivoluzione Liberale, affermando la necessità di un governo che sia espressione della volontà del paese, liberamente manifestata, conferma la propria sfiducia in ogni soluzione che limitandosi ad un’astratta rivendicazione delle libertà statutarie non superi i presupposti politici ed economici del fascismo, e denuncia l’equivoco delle tardive resipiscenze di elementi fiancheggiatori corresponsabili nella situazione attuale». 38 Cfr. E. Bassi, Contributo alla storia di Quarto Stato, in «Critica sociale», 20 agosto-5 settembre 1960; e, per ulteriori annotazioni e una diversa interpretazione dell’indirizzo politico della rivista, S. Merli, Il Quarto stato di Rosselli e Nenni e la polemica sul rinnovamento socialista nel 1926, in «Rivista storica del socialismo», III, 1960, n. 11, pp. 819-28. 39 Il diritto di libertà, 3 aprile 1926, firmato Tullio Ascarelli; Socialismi e nazione (A proposito di un libro di Otto Bauer), 26 giugno 1926, firmato Guido da Ferrara; Il programma agrario della socialdemocrazia austriaca, 24 luglio 1926, firmato Guido da Ferrara; Il valore del socialismo, 7 luglio 1926, firmato Guido da Ferrara; Un carattere: Giustino Fortunato, 21 luglio 1926, firmato Tullio Ascarelli; Unità socialista e pregiudiziale repubblicana, 4 settembre 1926, firmato Guido da Ferrara. 40 Il valore del socialismo, cit. 41 Cfr. A. Garosci, Storia dei fuoriusciti, Laterza, Bari 1953, pp. 180-86. 42 p.v. [Paolo Vittorelli], Tullio Ascarelli un grande cittadino, in «Il Punto», 28 novembre 1959. 43 In Studi in memoria di U. Ratti, a cura e con Prefazione di E. Albertario, Giuffrè, Milano 1934, pp. 451-95. 44 Negli Appunti di diritto commerciale, Foro Italiano, Roma 19363, affermava esplicitamente che poteva ormai dirsi acquisita alla nostra coscienza giuridica «la funzione creativa storicamente assolta dalla interpretazione nello sviluppo del diritto» (vol. I, p. 36). 45 La stessa tesi è riaffermata in Appunti di diritto commerciale, cit., I, p. 36. 46 Appunti di diritto commerciale, cit., I, p. 35. 47 Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato, in Saggi di diritto commerciale, Giuffrè, Milano 1955, pp. 505 sgg. 48 Questo articolo fu primamente pubblicato nel volume Problemas das sociedades anónimas e direito

comparado, Saraiva, São Paulo 1945. Quindi in edizione italiana nel volume Saggi giuridici, Giuffrè, Milano 1949, pp. 3-40. La citazione nel testo è a pp. 10-11. 49 Apparso primamente nel volume Problemas das sociedades anónimas e direito comparado, cit.; ora in Saggi giuridici, cit., pp. 41-81; nonché in Studi di diritto comparato e in tema d’interpretazione, Giuffrè, Milano 1952, pp. 165-204. 50 In Saggi giuridici, cit., pp. 83-107; nonché in Studi di diritto comparato, cit., pp. 55-78. 51 Ed. cit., pp. IX-LIII. 52 In «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», VIII, 1953, pp. 115-23; ora in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 467-79. 53 In «Rivista del diritto commerciale», LII, 1954, I, pp. 157-84; ora in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 481-519. 54 In «Il diritto dell’economia», I, 1955, pp. 1179-203; ora in Problemi giuridici, vol. I, Giuffrè, Milano 1959, pp. 69-111. 55 In «Rivista di diritto processuale», XII, 1957, pp. 351-63; ora in Problemi giuridici, cit., vol. I, pp. 139-52. 56 In Studi in memoria di L. Mossa, vol. I, Cedam, Padova 1961, pp. 51-73; ora in Problemi giuridici, cit., vol. I, pp. 39-65. 57 La funzione del diritto comparato e del nostro sistema di diritto privato (1949), in Studi di diritto comparato, cit., pp. 41-54; Il Codice civile e la sua vigenza (1953), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 461-66; Antigone e Porzia (1955), in Problemi giuridici, cit., vol. I, pp. 5-15; Certezza del diritto e autonomia delle parti (1956), ivi, pp. 113-36; Étude comparative et interprétation du droit (1958), ivi, pp. 319-37; Unificazione del diritto dello stato e tecnica dell’interpretazione, ivi, pp. 339-54; Premessa ai due volumi di Problemi giuridici, cit., vol. I, pp. IX-XIII. 58 Questo tema è stato sviluppato dal primo studioso del pensiero giuridico ascarelliano, L. Caiani, La filosofia dei giuristi italiani, Cedam, Padova 1955, pp. 129 sgg. 59 Cfr. N. Bobbio, Il positivismo giuridico (Lezioni di filosofia del diritto raccolte dal dr. Nello Morra), Cooperativa libraria universitaria torinese, Torino 1962. Inoltre: Id., Sul positivismo giuridico, in «Rivista di filosofia», LII, 1961, pp. 14-34; Id., Ancora sul positivismo giuridico, in «Rivista di filosofia», LIII, 1962, pp. 335-45. In seguito, i miei vari saggi sull’argomento sono stati raccolti nel volume Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1965, 19722. 60 Cfr. La funzione del diritto speciale e le trasformazioni del diritto commerciale, cit. Ancora in Sviluppo storico del diritto commerciale e significato dell’unificazione (1953), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 733. 61 L’importanza dei criteri tecnici nella sistemazione delle discipline giuridiche e del diritto agrario, in Atti del primo Congresso nazionale di diritto agrario, Tip. editrice Mariano Ricci, Firenze 1935, p. 105. Cfr. anche Prefazione a Saggi di diritto commerciale, cit., p. 3, in cui precisa che bisogna rendersi conto dei fatti che si vuol regolare, e ciò significa il ricorso alla natura delle cose, ma non bisogna sostituire la sociologia con il diritto, confondendo le constatazioni storiche con le valutazioni normative. 62 Premesse allo studio del diritto comparato, cit., p. 10. 63 Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato, cit., p. 482. 64 Per esempio in Per uno studio della realtà giuridica effettuale (1956), in Problemi giuridici, cit., vol. II, p. 805: «Gli è che il diritto non è dispiegamento di principi astratti, ma è storia...». 65 Si veda in particolare Il Codice civile e la sua vigenza (1953), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 461-66.

66

Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 101. Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 101. 68 Il saggio più completo sull’argomento è Per uno studio della realtà giuridica effettuale, cit., pp. 80367

26. 69

Ordinamento giuridico e processo economico, cit., p. 47. Da una lettera inedita alla moglie del 19 settembre 1957. 71 Apertamente nella Premessa ai due volumi di Problemi giuridici, cit., vol. I, p. X. 72 Cfr. in particolare Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni, in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 467-79. 73 Antigone e Porzia, in Problemi giuridici, cit., vol. I, p. 14. 74 Per una sintetica e chiara esposizione di questa tesi si legga il n. 3 del saggio Norma giuridica e realtà sociale, cit., vol. I, pp. 71-75. 75 Sul concetto di titolo di credito (1954), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 573-77; Considerazioni in tema di società e personalità giuridica (1954), ivi, pp. 129-217, in particolare n. 22; Norma giuridica e realtà sociale, cit., n. 4; Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, cit., n. 4. 76 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 73. 77 A.G. Conte, «Ordinamento giuridico», in Novissimo Digesto Italiano, vol. XII. 78 Per una critica serrata della teoria ascarelliana dell’interpretazione cfr. G. Tedeschi, Insufficiency of the Legal Norm and Loyalty of the Interpreter, in The Israel Academy of Sciences and Humanities. Proceedings, I, n. 3, Jerusalem 1963, pp. 1-22 (estratto). 79 Per la critica degli studi del Magni cfr. Prefazione a Studi di diritto comparato, cit., pp. XXIXXXXI, nota 21; del Klug, Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni, cit., pp. 473 sgg. Osservazioni sull’uso della logistica con riferimento a I. Tammelo, in Il problema preliminare dei titoli di credito e la logica giuridica (1956), in Problemi giuridici, cit., I, p. 180, in nota. 80 Sul neo-positivismo cfr. Prefazione a Studi di diritto comparato, cit., pp. XXVI- XXVII, nota 19; con allusione, suppongo, agli studi dello Scarpelli: «I tentativi neopositivisti, pur recentemente elaborati con fine acutezza, cadono comunque di fronte all’impossibilità di qualunque controllo sperimentale del diritto, che si pone come struttura d’azione» (Certezza del diritto e autonomia delle parti, in Problemi giuridici, cit., vol. I, p. 124, nota 11); Il problema preliminare dei titoli di credito e la logica giuridica, ivi, p. 179, nota 11. 81 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 91. 82 In Problemi giuridici, cit., vol. I, p. XI. 83 Norma giuridica e realtà sociale, cit., pp. 91-101. 84 Premessa a Problemi giuridici, cit., p. XI. 85 Tipologia della realtà, disciplina normativa e titoli di credito (1957), in Problemi giuridici, cit., vol. I, p. 188. Sul problema della costruzione, più particolarmente cfr. L’idea di codice nel diritto privato e la funzione dell’interpretazione (1943), in Saggi giuridici, cit., pp. 72-77. 86 Alcune tesi sulla scienza giuridica furono esposte da Ascarelli in una nota del saggio Norma giuridica e realtà sociale, cit., pp. 88-89, nota 20. 87 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 82. 88 Sguardo sul Brasile, Giuffrè, Milano 1949. Ma non era sfuggito ad un lettore attento e curioso come Capograssi che ne cita le considerazioni finali sulla differenza tra società americana e società europea: L’ambiguità del diritto contemporaneo (1953), ora in Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, p. 393. 70

89

Da due lettere alla moglie, scritte da Roma il 17 e il 19 novembre 1946. Da una lettera alla moglie, scritta da Parigi il 20 novembre 1946. 91 Da appunti di diario inediti, datati febbraio 1948. 92 In «Lettera agli amici di Unità popolare», n. 1, Roma, 20 febbraio 1954, p. 7. 93 Fisco e società, in «Lettera agli amici di Unità popolare», n. 22-23, Roma, 17-24 luglio 1954, pp. 5-6. Nel n. 44 del 26 marzo 1955 è pubblicato uno stralcio della relazione di Ascarelli al «Convegno per la lotta contro i monopoli» (pp. 8-9) sul quale vedi più oltre. 94 Cfr. E. Rossi, La pentolaccia dei monopoli, in «Il Mondo», XI, n. 49, 8 dicembre 1956. 95 Con tre articoli: L’emigrante liberista, II, n. 25, 24 giugno 1954; Giustizia migliore, II, n. 51, 23 dicembre 1950; Un colpo gobbo, VIII, n. 52, 25 dicembre 1956. 96 Gli atti dei due Convegni sono stati pubblicati nella collana laterziana dei «Libri del tempo»: La lotta contro i monopoli, a cura e con una Introduzione di E. Scalfari, Bari 1955 (la relazione di Ascarelli è a pp. 105-35); Atomo ed elettricità, a cura e con un’Introduzione di E. Scalfari, Bari 1957 (la relazione di Ascarelli è a pp. 105-38): è incredibile, ma da tutto il volume degli atti non risulta la data del convegno. Le due relazioni di Ascarelli si possono leggere anche in Problemi giuridici, cit., vol. II, pp. 879-931 e pp. 945-64; la prima arricchita di molte note (già pubblicata anche in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», IX, 1955, pp. 273-317). Ascarelli partecipò anche ad altri convegni degli Amici del «Mondo»: Dibattito sulla scuola, Laterza, Bari 1956, pp. 144-47; Verso il regime, Laterza, Bari 1960, pp. 203-8. Il contributo dato da Ascarelli a questi convegni è stato ricordato da Nicolò Carandini in apertura del Convegno sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica (1960): cfr. Le baronie elettriche, Laterza, Bari 1960, p. 26. 97 Il testo corretto dei due schemi in Problemi giuridici, cit., vol. II, pp. 933-34 e pp. 971-81. 98 In Problemi giuridici, cit., vol. II, p. 959. 99 Obbligazioni pecuniarie, nel Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Zanichelli, Bologna 1959. 100 Il quale scrisse su Ascarelli uno dei saggi più penetranti: Nell’anniversario della morte di Tullio Ascarelli, in «Rivista delle società», V, 1960, pp. 977-1012. 101 N. Bobbio, Ricordo di Piero Calamandrei, in «Belfagor», XIII, 1958, p. 592. 102 Inedito, di cui ho preso visione per gentile concessione della famiglia. Da questo diario sono state tratte tutte le citazioni che seguono. Colgo l’occasione per ringraziare in modo particolare la vedova, signora Marcella Ascarelli Ziffer, per il prezioso costante aiuto prestatomi durante il lavoro. 103 Coglie bene questo aspetto della personalità di Ascarelli, G. Auletta, Tullio Ascarelli, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», XIII, 1959, pp. 1209-18. 90