Dal cartesianismo all'illuminismo radicale
 9788860877536

Citation preview

GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA QUADERNI 19

Direzione Aldo Brancacci, Massimo Ferrari, Sebastiano Gentile, Gianna Gigliotti, Maurizio Torrini (coordinatore) Comitato scientifico Carlo Borghero, Michele Ciliberto, Tullio Gregory, Helmut Holzhey, Sir Geoffrey E.R. Lloyd, Denis O’Brien, Dominic O’Meara, Gianni Paganini, Gennaro Sasso, Loris Sturlese, Giuseppe Tognon, Mauro Visentin Redattore Alessandro Savorelli

DAL CARTESIANISMO ALL’ILLUMINISMO RADICALE

a cura di Carlo Borghero e Claudio Buccolini

Le Lettere

Il volume è stato pubblicato con il contributo del PRIN 2007: “Descartes e il paradigma cartesiano”.

Copyright © 2010 by Casa Editrice Le Lettere – Firenze ISBN 978 88 6087 753 6 www.lelettere.it

Carlo Borghero CARTESIANISMO, ILLUMINISMO RADICALE E STORIOGRAFIA FILOSOFICA. UNA VICENDA E TRE RACCONTI Introduzione

1. Sulla vicenda della fortuna settecentesca di Descartes già i contemporanei elaborarono racconti divergenti, utili per mettere l’accento su aspetti diversi della filosofia dei Lumi che lo specchio del cartesianismo poteva rendere più evidenti. Il più noto è quello di Voltaire, destinato a divenire una bandiera per le Lumières anche perché ripetuto in alcuni dei manifesti di quella cultura, dal Discours préliminaire dell’Encyclopédie, redatto da d’Alembert, che ne celebra il momento trionfante, al Tableau historique des progrès de l’esprit humain, scritto da Condorcet poco prima della morte, che ne difende il messaggio anche dinanzi all’approdo tragico della Rivoluzione. Nelle Lettres philosophiques (1734), e più tardi nel Siècle de Louis XIV (1751), Voltaire ci narra di un cartesianismo ormai estenuato e incapace di orientare il sapere scientifico e filosofico, soppiantato anche in Francia dalla scienza newtoniana e dalla filosofia lockiana. Certo, il ruolo innovativo di Descartes nella storia del pensiero è innegabile e Voltaire lo rivendica senza infingimenti, ricordando i meriti dell’uomo e del filosofo che ha distrutto le cattedrali della scolastica aristotelica e insegnato ai moderni a pensare. Ma lo consegna, appunto, alla storia, perché altre sono ora le guide spirituali che devono orientare l’opinione pubblica del Settecento: vengono d’oltre Manica e insegnano il valore dell’esperienza e l’inattualità della fisica e della metafisica cartesiane. Perciò Descartes, non diversamente da Pierre Bayle, è un «apostolo della ragione» che ci ha insegnato a combattere i suoi stessi errori ma la cui filosofia «chimerica» deve essere considerata ormai altrettanto falsa di quella peripatetica. Si trattava di un racconto parziale, che dava voce a un’opinione diffusa nella prima metà del secolo ma che, sia in riferi-

VIII

camlo bomghemo

mento alla scomparsa del cartesianismo sia rispetto alla data in cui sarebbe stato sostituito dal newtonianismo, generava immagini distorte, comprensibilmente condivise e propagandate dalla prima generazione dei philosophes in quanto funzionali alla loro battaglia politico-filosofica, e più inspiegabilmente adottate a lungo da una letteratura scientifica alquanto pigra. Bisogna però ammettere che l’insistenza sulla «trinità inglese» (Bacon, Locke e Newton) come unica genealogia dei Lumi ha avuto il merito di sfatare la leggenda della ‘povertà filosofica’ dell’illuminismo, della sua dipendenza dalle filosofie dell’ordine seicentesche; un dogma storiografico che da noi aveva portato a teorizzare un’unica età cartesiana nella quale veniva incluso il ‘razionalismo’ dei Lumi. Anche se la giusta insistenza sull’unità di filosofia e scienza nella cultura illuministica aveva finito per sacrificare al modèle anglais la ricchezza dei Lumi, col risultato di sottovalutare le correnti radicali che provenivano dalla filosofia e dall’erudizione seicentesca, portate oggi sul proscenio dagli studiosi del Radical Enlightenment. Per quanto riguarda più specificamente il cartesianismo, oggi sappiamo che non era scomparso ma si era avviato a una sua fase ‘carsica’ nella quale divenne oggetto di nuove letture che ne trasformarono profondamente la fisionomia, soprattutto sul tema dell’interazione mente-corpo, per renderlo compatibile con le nuove forme di materialismo biologico e medico. Ne dà testimonianza lo stesso Voltaire, il quale a partire dagli anni Sessanta riprende in mano il dossier Descartes per accentuare le critiche ai suoi «romanzi filosofici disprezzati oggi in tutta Europa» e redigere, nell’articolo «Cartésianisme» delle Questions sur l’Encyclopédie (1770), un puntiglioso elenco degli errori cartesiani. Voltaire reagiva così agli Eloges del filosofo, proliferati in occasione del concorso bandito nel 1765 dall’Académie française, ma intendeva soprattutto ribadire che dal cartesianismo si era generata quella filosofia radicale che è lo spinozismo. Lo aveva già detto nella Métaphysique de Newton (1740), ma trent’anni dopo, quando il duro confronto coi materialisti è diventato il secondo fronte nella sua militanza intellettuale, ne dava una raffigurazione icastica dipingendo nel poema Les Systèmes (1772) Spinoza «nascosto sotto il mantello di Descartes, suo maestro». Infatti, l’eternità della materia e l’ateismo – come aveva detto nell’articolo «Athée, Athéisme» del Dictionnaire philosophique – sono contenuti nella metafisica e nella fisica di Descartes, perché sono una conseguenza coerente, anche se non intravista dal filosofo,

intmoduzione

IX

dell’opinione che fa il mondo infinito e pieno. Se è possibile salvare Descartes dall’imputazione di essere stato ateo è solo perché, come ci ha insegnato Bayle, gli uomini «non si conducono quasi mai secondo i loro principi»; ma, quanto alla coerenza del sistema, l’ateismo ne è un esito obbligato perché il teismo è garantito soltanto dall’esistenza del vuoto e dal riconoscimento delle cause finali. Come mostra appunto l’esempio di Spinoza col suo cieco necessitarismo, edificato «sull’ignoranza della fisica e sul più mostruoso abuso della metafisica». 2. Circolava dunque, nella Francia degli anni Sessanta e Settanta del Settecento, un cartesianismo materialista che contraddiceva il dualismo delle sostanze e la dottrina dell’automatismo animale, la più contrastata delle opinioni cartesiane. Voltaire lo aveva individuato precocemente già nel 1734 quando aveva detto che, se gli animali fossero davvero macchine, la differenza tra un cane e l’uomo sarebbe assimilabile a quella che esiste tra un girarrosto e un orologio a ripetizione. Ma con questa osservazione, paradossale alla sua maniera, l’autore del Traité de métaphysique esprimeva un’idea largamente diffusa nella letteratura anti-cartesiana. Il rifiuto dell’automatismo animale era cresciuto sul disagio manifestato già dagli amici di Descartes, se è vero che nelle Sextæ Objectiones un perplesso Mersenne aveva intravisto il pericolo che dalla tesi degli animali-macchina prima o poi qualcuno avrebbe ricavato per estensione analogica la conseguenza di una differenza soltanto quantitativa tra l’uomo e le bestie. Un’osservazione, questa, che rende giustizia alla pretesa cecità dei teologi riguardo alle implicazioni della filosofia cartesiana, di cui parlerà un secolo dopo La Mettrie. Sicché, prima che l’Homme-machine (1748) desse corpo ai fantasmi, ci si era chiesti se il dualismo cartesiano non fosse una maschera per nascondere un monismo materialistico, coerente col meccanicismo. La Mettrie racconta la vicenda di questo cartesianismo coperto, che nella dottrina delle bêtes-machines trova non il suo limite bensì l’espressione più genuina della convinzione segreta che l’anima non esiste come realtà separata, ma è essa stessa corpo. Descartes era riuscito a celarla ai teologi soltanto con la retorica dell’anima e del dualismo, insieme copertura e costrizione dei tempi che impedivano all’autore dell’Homme di dichiarare apertamente le proprie intenzioni e lo impegnavano a spiegare l’unione dell’anima col corpo con l’assurdo sistema delle cause occasionali. Un sistema che, aveva detto Voltaire a proposito di Malebranche, può essere reso

X

camlo bomghemo

intelligibile soltanto ricorrendo allo spinozismo. Quello dell’autore dell’Homme-machine è il racconto di un cartesianismo che aveva attraversato la svolta del secolo, resistendo all’opposizione al dualismo diffusa nella letteratura clandestina. Questa si era orientata di preferenza verso forme di vitalismo materialistico, che poggiavano su una lettura radicale del naturalismo aristotelico, alimentavano la iatromeccanica, influenzavano la medicina di Montpellier, per venire alla luce nella formula dell’animale-macchina introdotta da La Mettrie. Quella che si conclude con l’estensione all’uomo dell’automatismo animale è però solo una tappa del percorso da Descartes a Diderot, individuato più di mezzo secolo fa da Aram Vartanian, nel corso del quale il riferimento a un Descartes monista e materialista è non di rado un telo che copre una realtà più complessa, difficilmente riducibile a un mero trionfo del meccanicismo. Infatti nella cultura dei medici trovava posto la fisiologia cartesiana quale l’aveva fissata il maestro di La Mettrie a Leida, Hermann Boerhaave, il quale aveva esordito col rifiuto di Hobbes e di Spinoza, ma aveva avviato una fisiologia meccanicistica che, dopo di lui, si sarebbe sempre più caratterizzata come priva della cornice dualistica, sostituita dal riferimento a un’anima estesa e immateriale quando non ridotta a forma del corpo, sotto la copertura di un aristotelismo utilizzato per sostenere che le funzioni intellettuali sono effetto del livello di organizzazione della materia, e che quindi l’anima è materiale anch’essa e mortale. Però i riferimenti filosofici al cartesianismo erano spesso più poveri di quanto non venisse dichiarato. In questo senso l’Homme-machine, e la celebrazione del meccanicismo nell’ambito della biologia e della fisiologia umana, è sì parte di un grande progetto filosofico, ma anche una sorta di eccezione di breve durata. Non solo perché rappresenta una tappa per lo stesso La Mettrie che vi era arrivato grazie a una revisione del suo iniziale naturalismo ‘aristotelico’ per poi allontanarsene di nuovo nel momento in cui, subito dopo, con la metafora dell’Homme-plante, estenderà a tutti i viventi il principio della spiegazione analogica di una natura uniforme; ma perché nuove scienze come la chimica andavano scalzando il primato epistemologico della fisica, e le ricerche su magnetismo, irritabilità muscolare, elettricità animale, rendevano difficile la vita della iatromeccanica cartesiana. Diderot e Rousseau, incoraggiati da d’Holbach, frequentano le lezioni tenute dal maestro di Lavoisier, Guillaume-François Rouelle, al Jardin du Roi nella sua veste di démonstrateur en chimie, e Diderot stes-

intmoduzione

XI

so, in opposizione ai cartesiani e ai newtoniani impaniati nella loro metafisica e nella loro geometria, si definisce physicien et chimiste. Si è aperta una nuova fase delle scienze sperimentali, che alimenterà dottrine di grande fortuna nella cultura popolare ma di dubbia o nulla scientificità (mesmerismo, generazione spontanea), anche se care ai filosofi materialisti del tempo e oggetto di attenzione e rivalutazione da parte degli studiosi del Radical Enlightenment. Da questa nuova rivoluzione scientifica venivano dubbi consistenti sulla passività e l’inerzia della materia, sul suo carattere indifferenziato e omogeneo, e incoraggiamenti a leggere l’attrazione newtoniana come principio di attività inerente alla materia, capace di far uscire dalle impasses del meccanicismo. L’universale sensibilità della materia si accompagnava alla crisi della concezione fissista delle specie, messa in discussione dall’introduzione del fattore tempo nella natura, ed entrambe riportavano in primo piano il vecchio tema della grande catena dell’essere. Una duplice svolta la cui eredità sarà rilevante nella riflessione degli idéologues sui rapporti tra il physique e il moral e nelle storie della natura che ricostruiranno le trasformazioni nel tempo della Terra e delle specie che la abitano. Perciò il Descartes presentato come una bandiera dai philosophes degli anni Sessanta e Settanta, quando non era, ancora una volta, un Descartes ‘spinoziano’, era una vecchia e gloriosa insegna di combattimento dietro la quale si schieravano truppe arruolate in paesi diversi e che combattevano con mezzi, e forse anche fini, differenti. Era cioè, quello dei materialisti avversati da Voltaire, un cartesianismo ridotto all’affermazione che per formare l’universo basta la materia e il movimento – una frase non per caso rievocata polemicamente da Voltaire ed elogiativamente da d’Holbach nel Système de la nature – che in fisiologia si traduceva nella riduzione a homme physique di quell’unione sostanziale di mente e corpo, che Descartes aveva difeso contro il suo allievo Regius, negando che l’anima potesse essere un modo del corpo, e ora rifiutata da Diderot in apertura dei suoi Éléments de physiologie. Nel Système di d’Holbach questo cartesianismo si traduceva in una concatenazione necessaria delle cause senza intelligenza creatrice o ordinatrice, e nella storia naturale costruita da entrambi gli autori su un’immagine della Natura che ricorda altre, più remote, immagini divinizzate, fiorite agli inizi dell’età moderna e tenute in vita dalle correnti libertine. Descartes aveva detto che la natura non è «una divinità» o una «potenza» ma soltanto materia estesa in tutte le direzioni: a questa lezione, in fon-

XII

camlo bomghemo

do, rimane fedele Buffon quando dice che la natura è la materia stessa, seppure con tutta la varietà delle forme che ha assunto nel corso del tempo. Ma questo è solo un aspetto del problema; conta di più che attraverso i testi materialisti – in particolare grazie ai testi nei quali Diderot ha profuso la sua immaginazione poetica e divinatrice ma anche il suo rifiuto della scienza descrittiva newtoniana – venga diffusa un’altra immagine della filosofia dei Lumi, più inquieta rispetto a quella contenuta del modello inglese che, d’altra parte, ha rivelato le proprie tensioni sia nella diffusione del tema della thinking matter, sia nell’applicazione del principio dell’attrazione all’ambito del vivente. 3. Come Voltaire, nell’Abrégé des systèmes (1751) anche La Mettrie aveva sostenuto la derivazione di Spinoza da Descartes. Ma che Descartes fosse il maestro di Spinoza e, anzi, che lo spinozismo fosse l’estremizzazione del cartesianismo, il suo esito coerente e rivelatore di una radicalità difficile da occultare, era stato il giudizio di Leibniz ancor prima che il filosofo tedesco lo diffondesse con gli Essais de théodicée dove, per definire lo spinozismo, viene impiegata l’espressione di cartésianisme outré che sarà ripresa da La Mettrie. Leibniz aveva costruito un altro racconto della vicenda cartesiana. Fin da giovane, egli aveva affermato di sentirsi più vicino ad Aristotele che a Descartes, dal quale lo separava l’arbitrarismo teologico contrastante col principio del meglio, perché ci consegna un Dio non «giusto e saggio» ma pura «potenza sovrana», priva «di volontà e di intelletto» e incapace di darci consolazione, appunto come quello di Spinoza. Perciò, nel corso degli anni, Leibniz, che assimilava la materia sottile di Descartes alla materia prima ed eterna di Aristotele, aveva lanciato numerosi anatemi contro l’ateismo nascosto nel sistema di Descartes e aveva segnalato la precarietà dell’appoggio che questa filosofia poteva fornire alla religione, mettendone in luce l’inadeguatezza su punti decisivi: la dimostrazione dell’esistenza di Dio, che al più ne prova in maniera incerta la sola possibilità (un’accusa di cui rimarrà traccia in Voltaire); quella dell’immortalità dell’anima, un’immortalità senza reminiscenza che non vale nulla e attesta soltanto l’abilità del filosofo di abusare delle parole; il rifiuto delle cause finali e l’affermazione che la materia assume col tempo tutte le forme di cui è capace, un modo abile, ad avviso del filosofo tedesco, di introdurre in maniera mascherata un necessitarismo uguale a quello di Hobbes e di Spinoza. Insomma il cartesianismo non era che una tappa di un’unica tra-

intmoduzione

XIII

dizione materialistica e atea, della quale Hobbes e Spinoza sono i momenti espliciti, ma che lungo i secoli si è avvalsa dei contributi di Averroè, di Thomas Bradwardine e di John Wycliff, di Pietro Pomponazzi e di Cesare Cremonini, di Andrea Cesalpino e di Claude Bérigard, di Gabriel Naudé e di Cristina di Svezia, di Pierre Bayle ma anche di eretici luterani, di gesuiti e quietisti. Da quest’opera di demolizione della filosofia cartesiana esce fortemente ridimensionata anche l’immagine di Descartes fondatore della modernità: la celebrità di Descartes è costruita da allievi animati da un servile spirito di setta, incapaci di invenzioni e ridotti al rango di commentatori del maestro, come un tempo lo erano stati gli scolastici nei confronti di Aristotele. Descartes era in realtà di «spirito alquanto limitato» e non ha trovato nulla di utile «nella pratica delle arti», imbrigliato com’era in meditazioni «troppo astratte» (in metafisica e in geometria) o «troppo immaginarie» (in filosofia naturale). Anche la sua pretesa originalità speculativa si dissolve quando se ne riconducono puntigliosamente le tesi filosofiche alle fonti presunte (un metodo di cui Pierre-Daniel Huet farà tesoro nella Censura philosophiae cartesianae) e si risolve la scienza cartesiana – non priva di errori clamorosi tanto che nessuna accademia scientifica si dichiara ‘cartesiana’ – nella pluralità dei suoi debiti per Viète, Copernico, Keplero, Gilbert e Harvey. Dunque un Descartes innovatore soltanto a parole, che procede «a tentoni» nella Diottrica e ignora quella «chimica» così necessaria per fare avanzare «la fisica pratica». Anche Leibniz storicizzava il contributo di Descartes, ma per dipingerne con livore un’immagine dimidiata, di un «genio ammirevole» ma arrogante e ambizioso, la cui importanza è stata sopravvalutata a causa del ridotto numero di persone allora «capaci di tenergli testa», mentre nel frattempo geometria e fisica hanno fatto grandi progressi. Descartes si è dunque «smarrito dal vero cammino», e la sua reputazione sarà meno duratura di quella di Archimede. Le accuse di Leibniz avevano coinvolto anche la dottrina delle cause occasionali di Malebranche, incapace, quanto il sistema dell’influenza fisica, di dare conto del rapporto tra le sostanze spirituali e quelle materiali, e quindi del rapporto tra l’anima e il corpo, che soltanto la dottrina dell’armonia prestabilita è in grado di spiegare. Infatti, con l’intento di eliminare «l’idolo della natura», l’occasionalismo finiva col trasformare le cose create in modificazioni della sostanza divina e col ricavare la natura stessa da Dio. Ciò era un effetto dell’ostinazione a considerare la mate-

XIV

camlo bomghemo

ria come inerte. Per evitare questo esito spinoziano occorreva riconoscere la presenza di forze attive nella natura, bisognava cioè ammettere che le sostanze corporee sono dotate di forza motrice e che le anime sono diffuse in tutta la materia. Era una concezione dinamica della natura con la quale Leibniz prendeva congedo dal meccanicismo cartesiano per fare convivere, in un unico sistema, natura, meccanismo e finalità: il modello meccanico è costruito sulla convinzione che «le macchine della natura» siano analoghe a quelle fabbricate dall’uomo, e che tra le une e le altre ci sia soltanto una differenza come «dal grande al piccolo», quasi che la natura fosse «la bottega di un artigiano». Invece tra le «macchine organiche» prodotte dalla saggezza divina e quelle artificiali fatte dall’uomo esiste una differenza «di genere» e non solo «di grado», e soltanto il nuovo sistema leibniziano poteva dare conto di questa differenza e celebrare la maestà della natura. Era una soluzione che Leibniz accompagnava alla dottrina della preformazione degli esseri viventi e presentava come un perfezionamento delle nature plastiche di Ralph Cudworth, fiducioso di scongiurare in questo modo l’approdo materialistico di un altro teorico dell’attività della materia, John Toland. Il filosofo tedesco sembrava non intravedere la possibilità di una lettura materialistica della tesi della continua trasformazione della materia organica che sopravvive alla morte del singolo animale, e non prevedere che le sue dottrine vitalistiche e organicistiche sarebbero state piegate a un esito ‘tolandiano’ dai materialisti del secondo Settecento. 4. Le letture del cartesianismo fatte da Leibniz, Voltaire, La Mettrie,, presentano numerose affinità affinità con l’interpretazione degli studiosi che hanno messo l’enfasi sull’illuminismo radicale e sulla sua componente metafisica spinoziana, associata a quella politica hobbesiana. Vedere queste ultime interpretazioni sullo sfondo delle polemiche anti-cartesiane del Seicento e del Settecento può servire non solo a segnalare la lunga durata e la vischiosità di tesi storiografiche che tendono a presentarsi come radicalmente nuove, ma anche come antidoto nei confronti di alcuni loro effetti. Ad esempio, può metterci in guardia contro i pericoli di cesure troppo nette nel cammino della modernità, spesso accomunate dal tentativo di mettere tra parentesi la rivoluzione scientifica: qui lo spinozismo radicale là il cartesianismo conservatore, lì la scienza ufficiale e qua la sua interpretazione segreta e metafisica, qui l’illuminismo radicale e lì quello moderato, là una scienza com-

intmoduzione

XV

promessa con l’apologetica qui un’incredulità nutrita di erudizione libertina. I modi in cui la vicenda del cartesianismo è stata raccontata in passato ci dicono quanto cartesianismo potesse essere visto negli esiti radicali dello spinozismo, così come la lettura materialistica cui verranno piegate le tesi di Leibniz possono farci dubitare della compattezza di categorie storiografiche come quella di neospinozismo, sotto la quale sono state rubricate dottrine che hanno avuto molti padri. I saggi raccolti in questo volume intendono affrontare alcuni aspetti di questa complessa vicenda e dei suoi risvolti storiografici, senza pretendere di stabilire nessi di continuità forte o, tanto meno, di affermare l’approdo del cartesianismo nell’illuminismo radicale, quasi questo ne fosse una sorta di ‘inveramento’ hegeliano. Hanno l’obiettivo più limitato di contribuire a chiarire alcune zone d’ombra, di mostrare la ricchezza di apporti che vengono da aree culturali diverse, le trasformazioni teoriche subite dalla filosofia cartesiana quando viene dislocata in ambiti disciplinari lontani da quelli pensati dal suo fondatore. Insomma, di restituire, almeno in parte, la varietà delle immagini filosofiche generate dal paradigma cartesiano. Ma le pagine che seguono hanno anche l’ambizione di segnalare l’importanza di questi adattamenti per la storia del cartesianismo, che si rivela, ancora una volta, assai più complessa e meno lineare di quanto la facciano le sue interpretazioni ideologiche.

Nota dei curatori

I testi raccolti in questo volume costituiscono una selezione tematica di interventi presentati e discussi con cadenza periodica all’interno del ‘Gruppo di ricerche sul cartesianismo’ costituito nel 2006, per iniziativa di Carlo Borghero, presso la cattedra di Storia della filosofia della “Sapienza”. L’esigenza di integrare, mediante esposizioni e discussioni seminariali, la comune attività di ricerca ha motivato il progressivo estendersi della collaborazione ad altri ricercatori della “Sapienza” (Ricerca d’Università ‘Dal cartesianismo all’illuminismo radicale’, 2007-2009) e successivamente ad altre sedi di ricerca (Centro interdipartimentale di studi su Descartes e il Seicento - Università del Salento; Università di Udine) fino a strutturarsi in un Progetto di ricerca nazionale (PRIN ‘Descartes e il paradigma cartesiano. Costruzione e immagini del cartesianismo: fonti, edizioni, studi storici e prospettive storiografiche’, 2007-2009). Il volume presenta un primo nucleo di ricerche, identificate dalla traiettoria interpretativa ‘Cartesianismo-Illuminismo radicale’ e riunite intorno a due nuclei tematici: ‘materia, mente-corpo, passioni’; ‘persistenze, adattamenti, diffusione’. La pubblicazione di questi primi risultati della ricerca intende proporre alla comunità scientifica contributi dai quali emerga come, mediante discussioni, assimilazioni, vicinanze, scarti, ripensamenti e riscritture, il cartesianismo si riadatti e si ridefinisca in Età Moderna. Questa vicenda si manifesta in variegate costruzioni concettuali, intellettuali e terminologiche, e costituisce un riferimento costante e insostituibile della modernità in settori imprevisti quali il materialismo, l’erudizione, la letteratura radicale, il dibattito sullo

XVIII

nota dei cumatomi

spinozismo, sulle materie di fatto o sullo statuto della prova, andando così ben oltre l’iniziale progetto cartesiano Carlo Borghero Claudio Buccolini

Nel volume le opere di Descartes sono citate dall’edizione di riferimento, curata da Ch. AdAm e P. TAnnery, Œuvres de Descartes, nouvelle présentation, Paris, Vrin-CNRS 1964-1974, 11 voll., indicata dalla sigla AT cui seguono il numero romano per il volume e il numero arabo per la pagina.

I MATERIA, MENTE-CORPO, PASSIONI

Claudio Buccolini LA ‘MATERIA PENSANTE’ NELLE OBIECTIONES DI MERSENNE

Il 6 febbraio 1759, De l’esprit di Helvétius è condannato dal Parlamento di Parigi; la Determinatio della Sacra Facoltà teologica della Sorbona, del 9 aprile enuclea, fra le tesi condannate nell’opera, quella della «materia pensante», già presente in Condillac (1746) e nell’Homme machine di La Mettrie (1748). Nell’opera di Helvétius, che fornisce lo spunto per il violento attacco ai Lumi, appaiono saldati e articolati insieme orientamenti che avevano percorso la cultura europea post-cartesiana: l’epistemologia sensista di ispirazione lockiana; la controversia sull’anima dei bruti e sulla dualità delle sostanze, veicolata principalmente dalla tradizione bayleiana. La linea lockiana era fondata sulla critica alla teoria cartesiana della sostanza contenuta nel lib. II, cap. 23, e nel lib. IV, cap. 3, 6 dell’Essay concerning human understanding, che aveva circolato principalmente nella traduzione francese di Pierre Coste1 e alla cui fortuna aveva concorso anche la vulgata voltairiana incentrata sulla tesi «io sono corpo e penso»2. La linea di sviluppo bayleiana era imperniata sulla polemica circa l’anima degli animali, ricordaJohn Locke, Essai philosophique concernant l’entendement humain, traduit par [Pierre] Coste… l’éd. d’Amsterdam, Leipzig, J. Schrender et P. Mortier 1700. 2 [VoLTAire], Lettres philosophiques par M. de V…, Amsterdam, chez E. Lucas, au Livre d’or 1734; si utilizza l’ed. curata da G. Stenger, Paris, Flammarion 2006, condotta sull’ed. Lanson (Paris, 1909): «Je suis corps, et je pense; je n’en sais pas davantage». È nota la chiarificazione di Voltaire nella lettera a La Condamine, più prossima alla tesi lockiana originale: «Ma Lettre sur Locke se réduit uniquement à ceci: La raison Humaine ne saurait démontrer qu’il soit impossible à Dieu d’ajouter la pensée à la matière». 1

4

claudio buccolini

ta nell’articolo ‘Rorarius’ del Dictionnaire dietro alla quale stava anche la fortuna della suggestione anti-antropocentrica presente nell’Apologia di Raimond Sebond di Montaigne e nelle lettere di Giusto Lipsio3. La questione della materialità dell’anima e del pensiero, come il nodo di problemi che vi si correlano, la meccanica della materia sottile, la tesi dell’uomo-macchina e dell’anima degli animali, sono tuttavia già presenti nel dibattito che accompagna la prima ricezione della metafisica cartesiana. Sebbene trascurato dalla critica, che si è dedicata in misura ben più cospicua ai temi del dualismo e dell’unione sostanziale, il tema della materialità del pensiero è esplicitamente posto, a più riprese, nel dibattito epistolare sulla metafisica cartesiana coordinato da Mersenne dopo il 1640 e, oltre che in un cenno presente nelle Obiectiones di Hobbes4, si cristallizza in alcuni articoli delle Obiectiones Secundae e Sextae che accompagnano le Meditationes de prima philosophia di Descartes. L’ipotesi che quel che Descartes definisce ‘mens’ o ‘res cogitans’, la cui attività consiste nella ‘cogitatio’ possa essere in realtà ‘corpo’ la cui attività consiste unicamente in ‘moti corporei’ «motum corporeum esse posse, quam vocas, cogitationem»5, viene dapprima presentata nelle Seconde obiezioni, e successivamente ripresa in ciascuno dei tre nuclei in cui sono organizzate le Seste obiezioni: gli ‘Scrupoli’, l’‘Appendice’ del padre de La Barde, e le ‘Obiezioni dei Filosofi e Geometri’. Nelle Seste obiezioni l’argomento della ‘materialità del pensiero’ è anzi articolato richiedendo a Descartes di giustificare l’inammissibilità di un’eventuale spiegazione del pensiero mediante il movimento meccanico di particelle di ‘materia sottile’ «motus omnes tuae materiae subtilis»6; ove si deve rilevare che il sintagma «materia subtilis», assente nelle Meditationes, proviene dagli Essais del 1637 e chiama in causa l’insieme della filosofia cartesiana. La tesi della materialità del pensiero, secondo gli obiettori potrebbe essere sostenuta fondandosi sulla spiegazione meccanica del corpo umano e 3 Justus Lipsius, Epistula L, Centuria I, Miscellan. [citato nel Dictionnaire di Bayle, alla voce “Rorarius”]. 4 Hobbes, nelle lettere che per intermediazione del Minimo scambia con Descartes, successivamente all’invio del manoscritto delle Meditationes, incentra la discussione sulla fisica della materia sottile anche in rapporto al ‘senso interno’. 5 AT, VII, 413. 6 Ibidem.

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

5

delle sue funzioni vitali esposta nella Quinta parte del Discorso sul metodo e ricordata brevemente nella Sesta meditazione. In base alla ‘fisiologia’ meccanicistica, secondo i sesti obiettori, la differenza fra uomo e animale si fonderebbe sul grado di maggiore o minore perfezione di un’anima comunque materiale: si ratio mediocris belluarum differat a ratione hominis, secundum plus et minus solummodo differant, quae non mutant essentiam7.

La differenza fra l’anima dell’uomo e quella degli animali può non essere una differenza di essenze, fondata sulla reale distinzione delle due sostanze, materia e pensiero, che Descartes riteneva invece evidente nel Discorso sul metodo e metafisicamente fondata nelle Meditazioni. I secondi e sesti obiettori saldano la questione metafisica a quella psicologica, convogliando la fisica meccanica cartesiana verso una fisiologia anch’essa meccanica che potrebbe rendere conto anche dei processi spirituali del pensiero, eliminando di fatto la necessità della ‘mens’ ossia della ‘res cogitans’ dall’orizzonte di una filosofia radicalmente materialistica: omnes illarum operationes, absque sensu, vita et anima, ope Mechanicae posse satis explicari8.

Ciò induce a porre una serie di questioni: le obiezioni mersenniane presentano come coerente, o meglio, avvertono fin da subito il pericolo di una possibile coerenza fra la metafisica cartesiana e la tesi della materialità del cogito; la cultura teologica e filosofico-matematica che tali obiezioni esprimono, affronta non soltanto il problema della nuova teoria della sostanza, o delle sostanze, ma recepisce e denuncia immediatamente le possibili implicazioni moniste-materialiste della concezione cartesiana della materia e del corpo. Nelle Obiezioni, inoltre, il dibattito metafisico viene indirizzato sia verso la fisica della materia sottile esposta nei Saggi del 1637, principalmente nella Diottrica, sia verso la fisiologia meccanicista esposta nella Quinta parte del Discorso sul metodo, sia poi verso implicazioni e problematiche propriamente teologiche, evocate mediante il richiamo ai decreti del Concilio Laterano («Concilium Lateranense conclusit»9). Descartes è infatti invitato a confrontarsi sia con la coerenza della spiegazione 7 8 9

AT, VII, 414. Ibidem. Ibidem.

6

claudio buccolini

della fisica e della fisiologia mediante il moto meccanico della materia sottile, di cui viene ipotizzata l’estensione anche alla spiegazione dei processi ‘spirituali’ del pensiero, sia con la questione teologica della materialità degli angeli, accettata da alcuni Padri e dalla quale consegue la materialità dell’anima umana: nonnulli Patres Ecclesiae cum Platonicis existimarint Angelos esse corporeos, […] idemque penitus de anima rationali putarint […] dixerunt tamen tam Angelos quam animam cogitare, quod proinde fieri posse per motus corporeos, vel etiam ipsos esse motus corporeos, censuisse videantur, a quibus cogitationem minime distinxerint10.

La risposta di Descartes alla questione posta da Mersenne nelle sue obiezioni è incentrata, nonostante le posizioni dei Padri e del Concilio (Lateranense IV), sulla spiritualità dell’anima e sulla distinzione reale come argomento per provarla: Quod hic de Platonicis eorumque sectatoribus affertur, iam ab universa Ecclesia Catholica et vulgo ab omnibus Philosophis explosum est. Concilium autem Lateranense conclusit quidem Angelos pingi posse, non autem ideo concessit esse corporeos. Et quamvis revera corporei crederentur, non certe magis in ipsis, quam in hominibus, mentes a corporibus inseparabiles possent intelligi11.

Descartes, che aveva già citato (su ispirazione di Mersenne) un Concilio (il Lateranense V), nella lettera al Decano e ai dottori della Facoltà teologica della Sorbona, riferendosi alla sessione 8, ossia alla condanna della tesi di Pomponazzi sull’anima12, e ai Concili aveva ancora fatto ricorso per verificare la sostenibilità della propria spiegazione dell’eucaristia ritardando la risposta ad Arnauld (lettera a Mersenne del 18 marzo 1641; AT, III, 340)13, rovescia l’interpretazione possibilista circa la materialità dell’anima e degli angeli proposta nelle obiezioni da Mersenne. Se le ipotesi presentate nelle obiezioni coordinate e redatte da Mersenne possono apparire ‘lungimiranti’ nel prevedere gli sviluppi più estremi della tesi della ‘materia pensante’, e dunque in Ibidem. AT, VII, 425. 12 Concilium Lateranense V, Sessio VIII, 19 dec. 1513. 13 Si veda, da ultimo, J.-R. ArmogAThe, L’explication physique de l’eucharistie, in La nature du monde. Science nouvelle et exégèse au xviie siècle, Paris, Puf 2007, pp. 149-173: 152-153. 10 11

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

7

certa misura già proiettate verso Locke, Bayle e Voltaire (il quale sempre nella Lettera su Locke ricordava le tesi dei Padri sulla corporeità dell’anima umana, degli angeli e di Dio stesso)14, e più avanti ancora verso La Mettrie ed Helvétius, in realtà le tesi che esse presentano sono coerenti con teorie atomistiche, materialistiche e radicalmente antiaristoteliche, veicolate da una pubblicistica e da dibattiti contemporanei che Mersenne conosce, critica e condanna nei testi a stampa, nella corrispondenza e nelle opere che lascia manoscritte fin dagli Anni Venti del Seicento. Prima fra tutti proprio la tesi dell’inesistenza delle sostanze spirituali, sia gli angeli sia le anime razionali, e della possibilità di fornire una spiegazione delle humanae cogitationes unicamente come movimenti di materia. A tale tesi Mersenne associa un’ipotesi combattuta già nelle Quaestiones in Genesim del 1623: l’argomento dell’anima degli animali, utilizzato in chiave antiantropocentrica e fondato sull’annullamento dello scarto ontologico fra immaginazione e anima razionale, intesa in senso aristotelico e cristiano. È una tesi avanzata dall’antiaristotelico Nathanael Carpenter, di Oxford che istituisce fra le due facoltà un nesso di gradualità differenziandole ‘secondo il più e il meno’. Nelle Seste obiezioni, tale argomento saldato alla fisiologia meccanicista della materia subtilis, diventa il fondamento della tesi dell’uomo-macchina. Quanto all’argomento materialista, è in una quaestio, rimasta manoscritta, composta dopo il 1625 che la tesi della materialità del pensiero appare nell’ampia confutazione che Mersenne dedica alle «ragioni mediante le quali alcuni ritengono di provare che gli angeli, le anime, i pensieri stessi dell’anima e moltissime altre cose siano non soltanto corporei, ma anche corpi» (Articulus primus. In quo rationes asseruntur quibus nonnulli probare contendunt Angelos animas et ipsas animi cogitationes et alia plurima esse non solum corporea sed et corpora). 1. Le Secundae obiectiones Nell’articolo primo delle Seconde Obiezioni Mersenne avanza l’ipotesi della spiegazione del pensiero unicamente in base al corpo e al movimento: Quomodo enim demonstras corpus non posse cogitare? vel motus corporeos non esse ipsam cogitationem? Sed et totum tui corporis «Quant à nos Pères de l’Église, plusieurs dans les premiers siècles ont cru l’ame humaine, les anges et Dieu corporels» (ed. cit.). 14

8

claudio buccolini

systema,, quod reiecisse putas, vel aliqu� partes illius, puta cerebri, possunt concurrere ad formandos illos motus quos appellamus cogitationes. Sum, inquis, res cogitans; sed qui scis num sis motus corporeus, aut corpus motum?15

La res cogitans cartesiana potrebbe essere un moto corporeo o addirittura un moto del corpo. È importante cogliere la gradualità e la radicalità della posizione avanzata in queste obiezioni, non si tratta di semplice ‘corporeità’ del pensiero, che lascerebbe aperta la possibilità di una mens incorporea che vi concorre, ma del ‘pensiero’ stesso inteso come corpo. Descartes liquida abbastanza velocemente l’argomento, è d’altronde noto che abbia rimproverato a Mersenne l’eccessiva rapidità con cui gli è pervenuto questo fascicolo di obiezioni, pochi giorni dopo l’invio del manoscritto delle Meditationes: Mais je m’estonne que vous me promettiez les objections de divers Theologiens dans huit jours, à cause que je me suis persuadé qu’il falloit plus de temps pour y remarquer tout ce qui y est16.

La velocità con la quale Mersenne compone le Obiezioni è dovuta al fatto che il contesto di problemi nei quali situa la discussione critica sulla metafisica cartesiana è ricondotto a problemi e a dibattiti precedenti e già circolanti. Tuttavia le nuove prospettive della fisica meccanicistica e della metafisica cartesiana, spostano il punto di messa a fuoco e rimodulano lo statuto della riflessione di Mersenne. L’elaborazione (e la rielaborazione) degli argomenti del Minimo si situa entro un orizzonte culturale in cui sono operativi i meccanicismi di Galilei, di Descartes, di Hobbes, di Roberval, l’atomismo di Gassendi, la metafisica di Descartes, il deismo di Cherbury, la ‘teologia storica’ o ‘positiva’ quale va definendosi e consolidandosi nelle opere di Denis Petau. Tale spostamento e ripensamento è già operativo nel dibattito condotto presso il cenacolo culturale che Mersenne anima (l’informale ‘Academia Academia Parisiensis’) dopo la pubblicazione del Discours de la méthode, come

AT, VII, 122-3. Correspondance du père Marin Mersenne, éd. par Mme P. Tannery et C. de Waard, avec la collaboration de R. Pintard, puis par B. Rochot, ensuite par A. Beaulieu, Paris 1933-1988, voll. 17; voll. 1-2, Paris, Beauchesne; vol. 3-4, puf (1a ed.) poi CNRS (ried.); voll. 3-17 CNRS; d’ora in poi CM; Descartes à Mersenne, (24 décembre 1640), CM, X, p. 344; AT, III, 265. 15 16

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

9

emerge dal fascicolo di obiezioni redatte da Pierre Petit (già autore di un opera di cronologia in sostegno di Petau)17. Rispondendo alle Seconde obiezioni Descartes rinvia al criterio di distinzione, da cui deriva la distinzione reale, quale è espresso, in relazione alla mens e all’extensio nella Sesta meditazione: «satis est quod possim unam rem absque altera clare et distincte intelligere»18. 2. Dalla quaestio manoscritta alle Obiectiones La quaestio manoscritta, Num angeli sint corpora, è composta da Mersenne a partire dalla seconda metà degli Anni Venti per confutare la tesi fisico-matematica e psicologica esposta dal me-

17 Sulla genesi delle obiezioni di Mersenne sia consentito rinviare a C. BuccoLini, Dalle Objections di Pierre Petit contro il Discours de la méthode alle Secundae Objectiones di Marin Mersenne, «Nouvelles de la République des Lettres» (1998-I), pp. 7-28; id., Mersenne lettore delle Rationes more geometrico dispositae di Descartes, in Studi Cartesiani, a c. di F. A. Sulpizio, Lecce, Milella 2000, pp. 89-212.; id., “Contra eos qui Deum falsum dicere posse docent”. La genesi dell’obiezione di Mersenne sul dio ingannatore, «Giornale Critico della Filosofia Italiana» Anno LXXXV (LXXXVII), fasc. i, Gennaioaprile 2006, pp. 82-120. Diversamente, a proposito delle obiezioni di P. Petit, E. Scribano (Le tracce dell’ateo. Da Lessius a Descartes via Vanini, Mersenne e Petit, «Rivista di Storia della Filosofia», 2007, pp. 677-698) ritiene che nelle Secundae Obiectiones Mersenne riprenda, in parte, argomenti già presenti nelle Quaestiones in Genesim sulla scorta di Lessius (De providentia numinis, 1613). Si noti, però, che in Mersenne la persistenza di argomenti che hanno lunga tradizione nell’apologetica cattolica e cristiana consiste – soprattutto – nella loro rimodulazione entro i nuovi sfondi culturali. La polemica delle Obiectiones è ‘innovativa’ perché orientata verso la possibile metamorfosi e ‘ricodificazione’ di argomenti sorti in altro contesto filosofico in rapporto al paradigma cartesiano. Quel che preme sottolineare rispetto agli argomenti già presenti nel fascicolo di Petit (riguardo ai quali Mersenne ricopre un ruolo importante non soltanto come diffusore ma anche come interlocutore) è che essi sorgono già al di fuori dell’uso tradizionale e anti-naturalistico tardo rinascimentale delle Quaestiones, come ‘anticartesiani’. Il tema del rapporto fra permanenza della verità e storicità del pensiero (ossia delle diverse forme di filosofia) che di epoca in epoca trova diverse formulazioni entro i diversi sistemi filosofici che si vengono via via elaborando, innesca una tensione fra persistenze e innovazioni che orienta sempre la riflessione del Minimo (già nella proposta esegetica, fortemente antiaristotelica, che apre le Quaestiones in Genesim, improntata alla campanelliana Apologia pro Galilaeo di cui rimodula però il ‘naturalismo’ nel senso di una maggiore apertura alle matematiche miste). 18 AT, VII, 78.

10

claudio buccolini

dico Gabriel Poitevin19, il quale nel 1624 ha pubblicato il Clangor buccinae. In quo omne ens terminatum esse corpus demonstratur contra communem Philosophia in schola receptam per dimostrare che Omnes angeli sive intelligentiae, omnes animae et eorum conceptus sunt corpora. Poitevinus espone un’ipotesi fisico-matematica radicalmente materialistica in cui l’identificazione del punto matematico con l’atomo corporeo permette di considerare i pensieri e la stessa mente corporei e materiali. Il testo viene segnalato fin dal 1624 da Jean-Baptiste Morin (1583-1656), nelle Réfutation des thèses erronées d’A. Villon, dit le soldat-philosophe et d’E. de Claves, medecin chimiste… contre la doctrine d’Aristote. Ossia la requisitoria che Morin aveva preparato contro le tesi degli alchimisti che avrebbero dovuto essere discusse nel 1624 a Parigi, ma il cui dibattito fu proibito dal decreto della Sacra Facoltà della Sorbona20.

19 Gabriel Poitevin (fl. (fl. 1624). Matematico e medico della diocesi di Mornac attivo presso il cenacolo di Paul Yvon, signore di Laleu dedicatario del Clangor buccinae è autore nel 1619 di una Quadratura del cerchio più volte ristampata fino alla confutazione da parte di Claude Hardy, nel 1630. Del cenacolo di Yvon fanno parte Martin Van der Brist, matematico e mercante della Rochelle, e lo scozzese Jean de Dumbar, professore di filosofia a Entirkin.. L’argomento del testo di Poitevinus, la dimostrazione della materialità dei pensieri, delle anime e del punto matematico, suscita una polemica anche teologica proprio per la ripresa e l’accentuazione della tesi della materialità degli angeli e delle anime, dei Padri della Chiesa. La prima presentazione della relazione seminariale da cui è tratto il presente testo, “Sapienza” Università di Roma, 28 settembre 2006, («Fonti, circolazione e sviluppi di temi cartesiani nella cultura filosofica e scientifica europea dell’età moderna») sviluppava una parte della Thèse «Rem totam more geometrico concludas» La recherche d’une preuve mathématique de l’existence de Dieu chez Marin Mersenne, per il Doctorat de l’École Pratique des Hautes Études (sciences religieuses, philosophies) svolta sotto la direzione di J.-R. Armogathe e discussa in Sorbona il 20 dicembre 2003, t. II, pp. 115-156. Successivamente il testo di Poitevin è stato pubblicato da S. Matton, nella traduzione francese anonima del 1628 e nell’edizione latina del 1624, ed è ora disponibile nel volume: S. mATTon, Le Discours de vraye philosophie demonstrative (1628) de Gabriel Poitevin e la tradition du matérialisme chrétien, préf. de M. BeniTez, Paris, Champion 2007. Si farà riferimento al testo latino oggetto della quaestio di Mersenne, pubblicato nel volume di Matton indicandolo con la sigla CB. 20 Sulla discussione delle tesi del 1624 si veda ora D. kAhn, La condamnation des thèses d’Antoine de Villon et Etienne de Clave contre Aristote, Paracelse et les «cabalistes» (1624), «Revue d’histoire des sciences», 2002, vol. 55, n. 2, pp. 143-198; id. Entre atomisme, alchimie et théologie: la réception des thèses d’Antoine de Villon et Etienne de Clave contre Aristote, Paracelse et les ‘cabaliste’ (24-25 août 1624), «Annals of science», 2001, vol. 58, n. 3, pp. 241-

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

11

Morin polemizzando con la negazione della materia e della forma e con l’atomismo degli alchimisti (Antoine Villon e Jean Bitaud) denuncia anche la tesi estrema dell’autore del Clangor Buccinae che afferma che gli angeli, l’anima umana e i loro pensieri o concetti siano corpi: la [substance] spirituelle [est] du tout niée entre les choses crées par cet autre nouveau Philosophe, qui posant tres-mal ces principes […] sur la nature corporelle dans son Clangor buccinae […] se travaille a prouver que les Anges, l’Ame humaine, leurs pensées ou conceptions […] ayant parties est composé, et estant composé est corps21.

Mersenne conosce la Réfutation di Morin e nella Vérité des sciences22 del 1625 ricorda la condanna delle tesi. La tredicesima tesi alchimistica del 1624 propone che ‘ogni cosa sia in ogni cosa 286; id., Alchimie et Paracelsisme en France à la fin de la Renaissance (15671625), Genève, Droz 2007, pp. 500-567. 21 J.-B. morin, Réfutation des thèses erronées d’A. Villon, Paris, 1624, pp. 45-49: «Or voicy l’abisme d’erreur et d’heresie où nous precipite ce Philosophe avec ses principes, bannissant du monde la matiere e la forme […] Car tels principes [= sel, souphre et Mercure] destituez de matiere et de forme ne sont plus corps simples, et ne tiennent rien du genre corporel, comme est prouvé cy dessus. Or il ne sont non plus du genre spirituel, ils ne sont donques rien en la Nature où se trouvent seulement ces deux genres de substance. Quoy que la spirituelle soit du tout niée entre les choses crées par cet autre nouveau Philosophe, qui posant tres-mal ces principes: Que toute entité finie est terminée, ou ha des termes; que tout terme est partie du terminé; que tout ce qui ha partie ou terme, est composé est corps terminé, et plusieurs autres de mesme alloy; sans avoir esgard que le finy, les terminé, le terme, la partie, le divisible et le composé, se disent des choses en diverses manieres et non en une seule (comme il veut) a par ces principes cruds ratiociné de la plus basse confuse et erronée façon qu’il est possible sur la nature corporelle dans son Clangor buccinae ad sublimiores Philosophos. Où pour neant il se travaille a prouver que les Anges, l’Ame humaine, leurs pensées ou conceptions, les especes intellegibles et sensibles, les influences celestes et toute autre vertu ou qualité, la ligne et le poinct mesme mathematic, sont corps de trine dimension, et nie par ce moyen tout principe de corps, voire nie qu’il y ayt aucune nature simple, soit Element, Ciel, Matiere, Forme, Qualité ou Ange, puis que tout cela est finy, et partant selon ses principes ha parties, ayant parties est composé, et estant composé est corps. Resveries et maladies d’Esprit en verité plus dignes de compassion, que de plus longue responce. […] Voyez un peu quelle heresie, blaspheme et atheisme s’ensuivent tres-evidemment de la doctrine de ce grand Philosophes et si Messieurs de la Sorbonne ont eu juste raison de la censurer». 22 M. mersenne, La vérité des sciences contre les Septiques, Paris, Billaine 1625 (d’ora in poi VS).

12

claudio buccolini

e che tutto ciò che esiste al mondo è composto di atomi’23, negando la dottrina della materia e della forma aristoteliche. Si tratta dell’antiaristotelismo di stampo atomistico e naturalistico che veicolato, in forme estremamente diversificate, da filosofi naturali o medici quali Nicholas Hill, David van Goorle o Sebastien Basson (ricordati da Mersenne, con l’intento di confutarli analiticamente, nel capitolo 10 del primo tomo dell’Impiété des déistes, 1624), propone l’abbandono dei fondamenti metafisici del sapere aristotelico da cui derivano quello della teologia e della religione cattolica: s’il n’y a point de forme, ny de matiere, l’homme n’a donc ny corps ny ame, ce qui est contre la creance de la foy Catholique.

Dalla caduta della dottrina aristotelica della forma deriva la possibilità della spiegazione materialistica del pensiero: Il faut donc conclure que les actions de nos entendemens, et de nos volontez n’ont autre principe, ny autre subject que le corps; enfin si toutes choses sont en toutes choses il faut dire que le corps sera dans l’esprit, et que l’entendement, la volonté et tout ce qu’il y a dans l’ame, sera une mesme chose que le corps: ce qui est si impertinent qu’il n’est pas besoin de le refuter24.

Mersenne trae da Morin le indicazioni sull’autore del testo materialista, il Clangor Buccinae e se ne procura un esemplare. Le lettere scambiate nel gennaio e nel maggio 1625 con Claude Bredeau, avvocato suo corrispondente e autore dell’Epistola contra Atheos, citano esplicitamente Gabriel Poitevin come sostenitore della tesi della materialità dell’anima e degli angeli25. Nella lettera del 16 maggio Bredeau si mostra più radicale di Mersenne nella condanna, considerando Poitevin non soltanto eretico, ma ateo: 23 Sulla circolazione di ipotesi atomistiche nell’epoca in cui Mersenne legge il testo di Poitevinus, ci si può ancora riferire alla serie di Studi sull’atomismo del Seicento pubblicati da T. gregory in «Giornale Critico della Filosofia Italiana»: 43 (1964), pp. 38-65; 45 (1966), pp. 44-63; 46 (1967), pp. 528-541. Sull’atomismo in Francia, A. cLericuzio, Elements, principles and corpuscles. A study of atomism and chemistry in the Seventeenth century, DordrechtBoston-London, Kluwer academic publishers, pp. 35-74. 24 VS, 81, 82. 25 Bredeau à Mersenne, 30 janvier 1625, CM, I, 191: «J’ay respondu à votre medecin par l’Epistre, ou plustost Aristote pour moy, quand j’ay monstré de quelle façon les anges et les ames estoient en lieu, et que combien que leur estre fust finy, cela ne les rendoit point corporelles».

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

13

Gabriel Poitevinus medicus, de quo narras, non haereticus modo, sed atheus est» e non esita ad invocare contro di lui e le sue opere il rogo: «non modo castigandos, sed supremo supplicio plectendos et cremandos igni cum suis scriptis26.

Alla tesi della materialità dell’anima, nell’opera di Poitevin è legata quella dell’anima degli animali e dei bruti, che Bredeau nega, e che invece l’autore del Clangor buccinae considera materiale e omogenea con quella dell’uomo, seppure diversa quanto al grado di perfezione. Scrive Bredeau: Agnosco equos tinnire, canes latrare dormendo. Quod autem dicis sequi eorum animum peraeque operari ac nostram audacter pernego27.

Nel 1641 la pericolosa tesi dell’omogeneità fra anima dell’uomo e anima dell’animale, conduce i Sesti obiettori a richiamare, in rapporto al problema dell’anima degli animali, il modello cartesiano dell’animale-macchina: viri magni qui belluis rationem concedant, olimque tribuerint. Tantumque abest ut credamus omnes illarum operationes, absque sensu, vita et anima, ope Mechanicae posse satis explicari28.

Dalla tesi dell’animale-macchina però, secondo i sesti obiettori, deriva direttamente quella dell’uomo-macchina, ossia un uomo che senza una ‘mens’ agisce e pensa unicamente «beneficio elateriorum mechanicorum»: non desunt plures, qui hominem ipsum etiam absque sensu et intellectu dicturi sint, et omnia posse facere beneficio elateriorum mechanicorum, et absque ulla mente29.

Posta la tesi dell’animale-macchina, ossia la spiegazione unicamente meccanica dei processi biologici e psicologici, la differenza fra la ragione dell’uomo e la ragione dell’animale è unicamente una differenza di grado, maggiore o minore, e non di essenza: cum, si ratio mediocris belluarum differat a ratione hominis, secundum plus et minus solummodo differant, quae non mutant essentiam30.

26 27 28 29 30

Bredeau à Mersenne, 16 mai 1625, CM, I, 219-220. Ibidem. AT, VII, 414. Ibidem. Ibidem.

14

claudio buccolini

La tesi materialista è proposta anche da altri obiettori. Thomas Hobbes, nelle Obiectiones Tertiae, ritiene la materialità del pensiero più coerente della sua pretesa spiritualità: […] ex eo quod non possumus separare cogitationem a materia cogitante, videtur inferendum potius rem cogitantem esse materialem quam immaterialem31.

Gassendi, nelle Obiectiones Quintae, argomenta a partire dall’ipotesi della corporeità del pensiero, inteso come parte nobilissima (flos) e attivissima (actuosissima) dello spirito: spiritus [vel] aliud corpus agile, purum, tenue, ulla dispositione parabile sit, quod cogitationis efficiatur capax. […] quasi flos, seu portio subtilissima, purissima, actuosissimaque illius?32

In tale contesto la ragione umana si distingue da quella degli animali o dei bruti soltanto per il maggior grado di perfezione «nisi videtur discriminis, nisi secundum magis et minus»33, tanto da potere essere definita come una phantasia praestantissima, rendendo la distinzione fra fantasia e ragione puramente nominale e non essenziale: licet homo sit praestantissimum animalium, non eximitur tamen ex animalium numero, ita, quamvis tu exinde proberis imaginatricum sive Phantasiarum praestantissima, non eximere tamen ex numero earum. Nam et quod te mentem specialiter voces, nomen esse potest dignioris, sed non diversae propterea, naturae34.

In base alle argomentazioni di Descartes, non è possibile determinare che il corpo non possa pensare: «probandum esse tibi, repugnare naturae corporea ut sit cogitationis capax»35. Né che la mente non sia altro che la parte più tenue e pura del corpo stesso: AT, Vii, 173-174. AT, Vii, 262, 265. 33 AT, Vii, 270-271: «[…] Ratione, inquis, carent bruta. Sed nimirum carent humana, non sua; adeo proinde ut non videantur a[loga dicenda, nisi comparata ad nos, seu ad nostram speciem, cum alioquin lovgo" seu Ratio tam videatur esse generalis, posseque illis attribui, quam facultas cognoscens, sensusve internus. Dicis ea non ratiocinari. Verum, cum non ratiocinentur tam perfecte, deque tot rebus, ac homines, et ratiocinantur tamen, et nihil videtur discriminis, nisi secundum magis et minus». 34 AT, Vii, 269-271 35 AT, Vii, 337. 31

32

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

15

esse te incorpoream, et non potius speciem tenuissimi corporis a crassiore isto distincti36.

La tesi dell’omogeneità fra l’anima dell’uomo e l’anima degli animali è confutata da Mersenne già nelle Quaestiones in Genesim del 1623. Nathanael Carpenter filosofo di Oxford37, aggiunge nella seconda edizione della Philosophia libera (1622) una nuova esercitazione per dimostrare che fra l’anima dell’uomo e quella degli animali o dei bruti c’è soltanto una differenza quantitativa e non essenziale. Quel che nell’animale viene chiamato ‘fantasia’, perché considerato nel suo livello più basso, viene chiamato ‘ragione’ nell’uomo, quando è considerato nel suo livello sommo: Quaestio xxxv, An belluae mundi primordiis loquerentur, ac ratione pollerent, art. III, Quomodo sine ratione valeant animalia naturaliter multa stupenda facere Carpentarius decade 2. exercit. 5 suae Liberae philosophiae, […] tres operationes in anima sensitiva tribus intellectus operationibus analogas constituendas arbitretur, adeout apprehensio simplicium praesentium sit in organo externo, absentium in interno sensu, collativam vim sub phantasia, seu imaginatione complectitur, cuius duplicem operationem distinguit, quorum una sit in prima terminorum perceptorum comparatione, et divisione, et phantasia vocetur, alia in ratiocinio et discursu, quae sit illa ratio particularis, quam sub nomine cogitativae in homine collocant, quamque summam et ultimam phantasiae operationem appellat38.

Non c’è differenza qualitativa o essenziale fra la ragione umana e animale. Il raziocinio e il discorso razionale, che è proprio della ragione dell’uomo detta cogitativa è il livello sommo della phantasia, dell’immaginazione e dunque perfettamente organico e materiale, e risolto nella duplicis operatio originata dall’attività sensoriale, esterna e interna. AT, Vii, 342. Nathanael Carpenter (Carpentarius, 1589-1628) è autore della Philosophia libera pubblicata in due edizioni: la prima del 1621 contiene due decades ed è firmata con lo pseudonimo ‘Cosmopolitanus’; la seconda, Oxford 1622, è firmata Nathanael Carpenter e contiene tre decades, vale a dire dieci esercitazioni in più della precedente, una delle quali tratta della resurrezione. Mersenne conosce tutte e due le edizioni e le cita già nelle QG, 1271: «Hinc sit, ut Carpentarius decade 2. exercit. 5 suae Liberae philosophiae, quam prius sub Cosmopolitani titulo in lucem emiserat». 38 QG, 1271. 36

37

16

claudio buccolini

Carpenter, inoltre, nega la transustanziazione nell’esercitazione Transubstantiatio est impossibilis (ex. 2, decade ii, 1621; ex. 1, dec. ii, 1622). Mersenne lo ricorda nei Paralipomena delle Quaestiones in Genesim: Displicet autem in istis recentioribus, quod novas illas opiniones, quae Aristoteli contrariae esse videntur, in Ecclesiae Catholicae odium proferant, ut ex eorum praefationibus, et ingenio videre est, sic enim Carpentarius in sua Philosophia libera falcem in messem Theologicam animo haeretico misit, dum Transsubstantiationem evertere nititur, licet frivolis paralogismis nihil effecerit39.

La caduta della teoria aristotelica della forma, rende impossibile la spiegazione della transustanziazione e dell’eucaristia; già Morin, nel 1624, incentrava la sua condanna dell’atomismo di Villon sull’impossibilità della spiegazione dell’eucaristia che ne derivava40. E tali implicazioni sembra fossero ben presenti a Poitevin stesso, dato che nel catalogo manoscritto della biblioteca di Arnaud de Pontac, compilato da Michon nel 1662 a Bordeaux, è segnalato un volume di «Arguments sur l’Eucharistie, La Rochelle, 1619, in 4o» di cui è autore «Poitevin»41. La caduta della spiegazione dell’eucaristia è una delle implicazioni maggiormente destabilizzanti delle filosofie antiaristoteliche che precedono il dibattito sulla metafisica cartesiana e che chiarisce il contesto della ricezione e della prima discussione delle Meditationes. Mersenne nella Quaestio manoscritta (inserita nel secondo tomo, rimasto manoscritto perché incompleto, delle Quaestiones in Genesim42) che precede di più di dieci anni la redazione delle Obiectiones, concentra tutti questi elementi, tratti da autori e testi ateistici, materialistici e naturalistici circolanti. L’articolazione delle argomentazioni e le prospettive metafisico-teologiche che orientano la quaestio tornano anche nelle Obiectiones, ma indirizzate a saggiare la metafisica cartesiana e complicate in questo caso da un meccanicismo e da una fisiologia coerenti, quelle esposte

QG, 1838. J.-B. morin, Réfutation…, cit., p. 48: «Or si l’homme n’est pas corps, Jesus-Christ sans doute ne l’est pas; car il ne le peut estre qu’entant qu’homme. Et luy qui est la voye, la vérité et la vie, aura parlé contre la verité, quand il a dit Cecy est mon corps; Doncques il ne sera pas Dieu; car Dieu ne peut mentir; Il n’y aura donc point de Dieu». 41 Cfr. S. mATTon, Le Discours de vraye philosophie…, cit., pp. 13-14. 42 BN Paris, fonds Latin 17261-17262; d’ora in poi indicati come QG II. 39 40

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

17

da Descartes negli Essais del 1637 e nella ‘Fisica’ che proprio Mersenne gli chiede di pubblicare nelle Sextae obiectiones («num sis illa demonstraturus in tua Physica, cuius nobis spem facis»43). Il meccanicismo cartesiano va a sostiursi alle malsicure teorie atomiste, fisico-matematiche o naturalistiche di Poitevin, Carpenter, Hill o van Goorle, ai naturalismi e agli ilozoismi precedenti44, alle disparate sintesi platonico-ermetiche e alchimistiche, innescando un pericoloso ed eversivo coagulo da cui può sorgere un coerente materialismo radicale. Nel secondo articolo della quaestio manoscritta Mersenne discute il contenuto del libro di Poitevin a cominciare dall’ipotesi che «l’intellezione sia un moto reale» (intellectio est verus motus): nam intellectio est verus motus […] cum species intellectui applicata sit ipse conceptus, atqui species illae sunt corporeae, vel potius sunt corpus […]45.

L’intellezione è un moto, le specie intelligibili sono corporee dunque i concetti sono essi stessi corporei, ossia spiegati mediante movimento di corpi. Da ciò deriva che l’intelletto stesso sia corpo:

AT, VII, 417. Sugli sviluppi materialistici di dottrine naturaliste e ilozoiste si veda il volume Materia actuosa Mélanges en l’honneur d’Olivier Bloch, recueillis par M. Benitez, A. McKenna, G. Paganini et J. Salem, Paris, Champion 2000. Sulla generazione spontanea è tornata P. zAmBeLLi, Sono gli autoctoni generati «per accidens» o «a casu»? Note sulla generazione spontanea dell’uomo, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», LXXXVII (2008), pp. 30-58, riprendendo il classico studio di B. nArdi, Pietro Pomponazzi e la teoria di Avicenna intorno alla generazione spontanea dell’uomo, in Miscellanea Formentini, “Memorie della Accademia Lunigianense di Scienze - G. Cappellini”, Spezia, vol. XXXII, pp. 1-15, successivamente in Studi su Pomponazzi, Firenze, Le Monnier 1965, pp. 305319 e segue il dibattito fino a concludere con il richiamo ad A. VArTAniAn, Diderot and Descartes, Princeton, Princeton University Press 1953; trad. it. Milano, Feltrinelli 1956. Lo scenario individuato è quello della tensione fra il modello meccanicistico di vita proprio dell’animale-macchina e dell’uomo-macchina, e rielaborazione in ambito medico, biologico e fisiologico-meccanicistico dei temi legati alla generazione spontanea e all’origine della vita. Oltre ai classici studi di G. BoAs, The happy beast in french thought of the seventeenth century, Baltimore, J. Hopkins University Press 1933; L. cohen rosenfieLd, From beast-machine to man-machine, Oxford University Press 1940; si veda M. BeniTez, Anatomie de la matière: matière et mouvement dans le naturalisme clandestin du XVIIIe siècle en France, «Studies on Voltaire and the Eighteenth century» 205 (1982), pp. 7-30. 45 QG II, 604. 43

44

18

claudio buccolini

intellectus humanus movetur ab obiecto sensibili cuiuslibet sensus mediante specie intelligibili […] igitur intellectus est corpus […]46.

Corpo e movimento, di cui consistono l’anima e il pensiero sono materiali; il corpo è la quantità, il moto la qualità: «igitur anima est corpus sicut pars quantitatis, vel qualitatis, vel motus est quantitas, qualitas vel motus». La corporeità si identifica con la materialità, condizione che rende possibile la finitezza; da tale assunto deriva che soltanto Dio, infinito, sia immateriale ossia spirituale, e che tutto il resto, compresi gli angeli, e l’anima degli uomini, sia materiale: quod est omnino indivisibilem, est non finitum, atqui nihil est in mundo sive angelus, sive anima, quod non sit finitum, igitur nihil est indivisibilem, igitur nihil est spiritualem praeter Deum qui infinitus est47.

Poitevin, a quanto riporta Mersenne, fonda le sue argomentazioni su Padri della Chiesa: Agostino, De genesi ad litteram, ii, cap. 13; Ilario, Canon V in Mathaeum: «nihil creatum esse, quod in substantia sua corporeum non sit»48. Leggendo il testo di Poitevin ci si accorge però che mentre Ilario non vi è citato (è infatti Mersenne seguendo probabilmente Vasquez a inserirvelo), fra i sostenitori della materialità degli angeli e dell’anima, accanto ad Agostino, sono citati anche il cardinale Caietano, Candalle, per la traduzione del Pimander di Trismegisto (cap. 17, sect. 8), Pierre Charron per il capitolo 7 del primo libro della Sagesse (1a ed.; il quale a sua volta si fonda sul Colloquium heptaplomeres di Bodin49), a rivelare l’intreccio di una complessa cultura che unisce

Ibidem QG II, 605. 48 QG II, 606: «Ratio petitur ab authoritate patrum et aliorum authorum, d. AugusTinus, lib. ii, De Genesi ad litteram, cap. 13, et aliorum complurium qui crediderunt, vel asseruerunt angelos esse corporeos, et nihil praeter Deum esse spirituale, inter quos d. hiLArius, canone 5, In Mathaeum, expresse docet nihil creatum esse, quod in substantia sua corporeum non sit. Haec sunt quibus probare contendunt aliqui angelos esse corpora, nihilque creatum esse quod non sit corpus». Mersenne qui utilizza G. VAsQuez, Commentarii ac disputationes in Summam S. Thomae (Alcalà 1598), che commentando la q. 50, a. 1, della prima parte, nella disp. 178, cap. 3, scrive: «Eandem sententiam tradit Hilarius cap. 5 in Matthaeum cum ait, nihil creatum esse, quod in substantia sua corporeum non sit». Vasquez tuttavia si attesta alla ‘corporeità’ degli angeli (Qui senserint Angelos esse corporeos) non al loro essere corpi. 49 Su Bodin fonte di Charron cfr. S. mATTon, Le Discours…, cit., pp. 45-84. 46 47

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

19

letture e problematiche teologiche ad autori di impronta libertinoscettica e platonico-ermetica50. La questione della materialità degli angeli e delle sostanze è discussa nei Concili di Nicea (II) e del Laterano (IV) che Mersenne richiama esplicitamente nella quaestio manoscritta51 e ai quali nel 1626, in merito alla tesi della materialità degli angeli e delle anime, fa riferimento anche Jean de Silhon in Les deux veritez52. Il riferimento al niceno II (actiones IIa e Va)53 e al Laterano IV (I, De fide catholica, Lib. I, Decretal. Gregorii IX, tit. I, c. I, Firmiter De summa Trinitate et fide Catholica)54 è d’altronde usuale in quanti, da prospettive teologiche si interessano alla questione della materialità dell’anima nell’ambiente mersenniano, come per esempio Denis Petau55 o Pierre Gassendi56. Mersenne nella quaestio manoscritta, si mostra più possibilista di Silhon, e ritiene che la posizione ufficiale espressa dai Sinodi e accettata da alcuni Scolastici («quanquam Scholastici existimant hanc angelicae naturae veritatem a Concilio definitam non fuisse»), è che la tesi materialista non sia necessariamente eretica ma, al più, temeraria o almeno più difficile da provare:

50 CB, 17: «Hic non sublimiores, sed rudiores hortor, ne insolenter in me reclament, quod dicam Angelos esse corpora. Non enim primus hoc sensi, sed post multos viros graves, et inter eos Candallus in Pimandrum TrismegisTi, cap. 17, sect. 8, D. AugusT. Lib. II, Genes. Ad litter., cap. 13 et aliis in locis, cAieTAnus Cardinalis, chArro in Sapientia sua lib. I cap. 7, ubi citat multos viros doctos et celebres». 51 QG II, 606-607. 52 Jean de siLhon, Les deux veritez de Silhon, l’une de Dieu, et de sa providence, l’autre de l’immortalité de l’ame, Paris, 1626, éd par J.-R. ArmogAThe, Paris, Fayard 1991, pp. 98-99. 53 mAnsi, XII-XIII, in part. XIII, pp. 163-166. 54 mAnsi, XXII, p. 982. 55 Denys peTAu, Theologica dogmata. Tomus tertius in quo primum de Trinitate, postea de Angelis agitur, Parisiis 1644 [in realtà 1643]; ed. utilizzata Parisiis, Vivès, 1865, in part. De Angelis, lib. I, cap. II, Corpusne habeant angeli, an incorporei sint… pp. 609-610 (Niceno II); cap. III, Recensetur alii Patres…, pp. 619-620 (Laterano IV). 56 Pierre gAssendi, Syntagmatis philosophicis partis secundae, seu Physicae, sect. III, memb. posterius, lib. iii, caput ii, Qui animam corpoream fecerint? in Opera omnia in sex tomos divisa…, Lione, 1658; rist. anastatica a c. di T. Gregory, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964, vol. II, pp. 244-250: 246.

20

claudio buccolini

iuxta communem opinionem Theologorum exprimit, quapropter negant doctrinam illam quae corpora tribuit Angelis, haereticam aut erroneam esse, sed ad summum temerariam vel saltem minus probabilem57.

Tale temeraria opinione può essere accostata a quella dei Platonici i quali ritengono materiali e corporei gli angeli, al modo dei demoni aerei, eterei e ignei «refundi potest in opinionem Platonicorum, qui daemones aereos, aethereos et ignea statuebant». Mersenne ha qui presente la tradizione demonologica incentrata sul De daemonibus di Michele Psello tradotto da Marsilio Ficino e ripreso nei libri VII e VIII della Perennis philosophia di Agostino Steuco, autore sovente citato e utilizzato da Mersenne, e in particolare riguardo alla materialità degli angeli e dei demoni nelle Observationes et emendationes ad Francisci Georgi Veneti Problemata del 1623 (coll. 75-78), e, ancora una volta, autore citato per la materialità degli angeli da Vasquez58. Mersenne considera la tesi della materialità dell’anima come potenzialmente ateistica e materialistica. Tuttavia, dato che i Concili non hanno determinato che la tesi della corporeità degli angeli sia eretica, si dimostra possibilista o è perlomeno attento a scindere tale tesi da un materialismo radicale dagli esiti ateistici. Il nodo centrale è la caduta della teoria aristotelica della materia e della forma che una nuova teoria della sostanza porta con sé. Mersenne arriva a prospettare un quadro di estrema tensione ammettendo che nella contrapposizione fra l’essenza delle ‘cose spirituali’ e dei ‘corpi’ è possibile ammettere che l’essenza dei corpi sia estesa, in quanto essa coincide (est idem) con il corpo esteso. Ove è da notare che sebbene il dibattito sull’eucaristia si incenQG II, 607. Mersenne scrive (QG II, 608): «Omitto iam alias rationes quae probant Angelorum existentiam, sive ea sit spiritualis sive corporea, iuxta sententiam quorundam patrum Scholae Platonicae faventium, ut ad 54 problema Veneti fuse animadverti, quia pagina 78 et deinceps contra Atheos ostendi late concedendos esse Angelos [M. mersenne, Observationes et emendationes ad Francisci Georgii Veneti problemata, Lutetiae Parisiorum, Cramoisy, 1623, 758.]. Si quis autem scire velit quid antiqui poetae magi et philosophi senserint de Angelis, et quales eos existimarint, legat octavum librum Eugubini de perenni philosophia. Quibus nihil adde praeter solutionem obiectionum ex clangore tubae desumptarum quae articulo praecedenti allatae sunt». Cfr. G. VAsQuez, Commentarii ac disputationes, cit. disp. 178, cap. 3: «Eugubinus lib. VIII De perenni philosophia, cap. 27 qui cum daemonibus id asserat, idem quoque de bonis angelis affirmare debet. Qua de causa cap. 30 putat eos nidoribus sacrifi sacrifi-ciorum delectari, habitrare in locis humectis, et similia». 57 58

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

21

tri già in Tommaso sulla possibilità di intendere la quantità come ‘soggetto’, Mersenne sembra aver presente un’ulteriore riduzione della quantità all’estensione forzando anche la tomista ‘quantitas dimensiva’59. Infatti, ammette Mersenne, senza sciogliere la difficoltà («necne alibi disceptabimus») qualsiasi cosa che si trovi nel corpo, considerata formalmente è corpo: praesertim si loquamur de essentia et existentia rerum spiritualium, nam essentia corporum dici potest extensa quatenus eadem est cum extenso corpore. An vero quidquid est in corpore formaliter sumpto, sit corpus, necne alibi disceptabimus60.

Il riferimento all’‘extensio’ come essenza e come forma (formaliter sumpto) non è propriamente riconducibile al testo di Poitevin, ove il passaggio impegna piuttosto il confronto con la tesi aristotelica-tomista dell’atto di esistenza. Si tratta di una sorta di espressione preventiva e imprecisa della concezione dualistica cartesiana in termini aristotelico-scolastici, dietro alla quale stanno forse le discussioni di Mersenne con Descartes a Parigi proprio negli anni in cui sta scrivendo il secondo tomo delle Quaestiones in Genesim. Non è difficile comprendere allora quale sia la portata eversiva della metafisica cartesiana che, nel 1641, consente di rinnovare tale quadro problematico e di ripensare l’essenza estesa delle cose corporee al di fuori della metafisica aristotelica della forma. Mersenne nella quaestio manoscritta, conformemente con la tradizione cattolica, ritiene che la concezione degli angeli, delle intelligenze e dei pensieri come corporei derivi dall’impostazione platonica dei primi Padri della Chiesa, ma sottolinea che a quella successivamente si sia sostituita quella aristotelica, maggiormente conforme alla verità (rivelata): Theologi propterea respondere solent patres illos Platonis sententiam eo tempore secutos fuisse, opinionem autem Aristotelis paulo post ut veritati conformiorem praevaluisse, cuius metaphysica habet entia intellectualia seu spiritualia pro obiecto61.

Ciò non comporta, tuttavia, l’approdo definitivo all’aristotelismo, ma il riconoscimento che le tesi aristoteliche siano prevalen59 Su questo sfondo di problemi si veda J.-R. ArmogAThe, Theologia cartesiana: l’explication physique de l’Eucharistie chez Descartes et dom Desgabets, La Haye, Nijhoff 1977, p. 66. 60 QG II, 613. 61 QG II, 613.

22

claudio buccolini

ti nella teologia cattolica della propria epoca. Mersenne ammette infatti di non avere un argomento determinante (determinatio) per risolvere il problema: «fateor igitur me non habere rationem quae demonstret Angelos non esse corporeos». A proposito della spiritualità del pensiero e degli angeli si può unicamente ritenere («arbitror») ‘certissimo’ (!) che l’atto d’intellezione, attività dell’anima come dell’angelo, ci rende simili a Dio, che è spirituale62. Il motivo di tale atteggiamento di cautela è espresso subito di seguito. La teoria aristotelica rende possibile non soltanto sostenere l’immortalità dell’anima individuale, ma anche spiegare l’eucaristia. Questo per Mersenne, fin da subito, l’ostacolo fondamentale per l’accoglimento di tesi materialistiche. È la concezione aristotelica della materia e della forma a rendere separabile la quantità dall’estensione ossia dalla capacità di riempire un luogo, e ciò permette di spiegare l’Eucaristia, sebbene gli ‘eretici’ (Mersenne sembra qui, come altrove, alludere alle spiegazioni ‘simboliche’ del calvinismo), a causa della loro perversione morale, ritengano che tale distinzione sia una finzione dei cattolici63. Tuttavia nel concludere la quaestio ancora una volta Mersenne afferma che la Chiesa non ha definito se gli angeli siano o no corporei, ossia se abbiano dei corpi sottilissimi o se siano composti di una qualche materia, come per esempio la materia celeste o eterea. Dunque la tesi, ancorché temeraria e difficile da provare, è sostenibile: Cum autem nondum ab Ecclesia definitum sit an Angeli quaedam subtilissima corpora habeant, atque adeo composita sint ex quaedam subtilissima corpora habeant, atque adeo composita sint ex quaedam purgatissima materia, qualis verbi gratia coelestis et aetherea esse dicitur, hac ultima propositione quaestioni finem imponam ut quispiam noverit 62 QG II, 614: «fateor igitur me non habere rationem quae demonstret Angelos non esse corporeos […]; at vero certissimum est eos corpora esse non posse, itaut nulla parte spirituali constent, alioqui non video qua ratione corpus intelligere queat, quod usque adeo verum esse arbitror, ut repugnet corpus fieri, quantumcumque tenue quod vel unicam intellectionem eliciat qua cum maxime Deo similes efficiamur, spiritualem esse certissimum est». 63 Ibidem: «nullam materiam et formam praecise et formaliter extendi, nec implere locum, sed id duntaxat habere beneficio quantitatis vi divina a composito materiali separabilis, nihil unquam evincere poterit. Si Aristotelem attente legerit, fatebitur eum docuisse quantitatem a substantia realiter distinctam esse, ne fortassis arbitretur Catholicos hanc invenisse distinctionem ut miraculo Eucharistiae explicarent et haereticorum pravitate tuerentur, nihil enim fingunt Catholici […]».

la ‘matemia pensante’ nelle OBIEZIONI di memsenne

23

quanta ingenii candore et quanta libertate disserendi atque ratiocinandi omnes Catholici utantur, quoties sacrae paginae, vel Ecclesia Catholica nihil statuent64.

Si capisce allora come quando alla sostanza aristotelica estesa (formaliter sumpta) si sostituisce la ‘res extensa’ cartesiana e alla ‘purgatissima materia eterea’ o ‘caelestis’ si sostituisce la ‘materia subtilis’ il contesto del materialismo monista si ristrutturi con ben altra solidità argomentativa. È quel che avviene nelle Seconde e Seste obiezioni. Mersenne ripensando secondo i principi della metafisica cartesiana il materialismo che ha già affrontato nella quaestio manoscritta, ne recupera il contesto problematico richiamando i problemi della psicologia, dell’angelologia e dell’eucaristia. La spiegazione coerentemente materialistica della materia pensante e dell’uomo-macchina presentata nelle Seconde obiezioni, ripresa nelle Terze obiezioni da Hobbes, articolata in tutte le sue implicazioni nelle Quinte obiezioni di Gassendi e veicolata infine verso il quadro della materia pensante e dell’uomo macchina nelle Seste obiezioni, segna l’incanalamento e la riscrittura nei termini della fisica e della metafisica cartesiana di un materialismo radicale che costituisce una delle matrici culturali dei dibattiti originati dalla proposta metafisica delle Meditationes. Quaranta anni prima di Louis de La Forge, che nel Traitté de l’esprit de l’homme del 1666, confuta in prospettiva ‘cartesiana’ il materialismo radicale di Hobbes e le tesi di Poitevin, utilizzandone la traduzione francese (Discours de vraye philosophie demonstrative – identificazione che si deve a Sylvain Matton65), Mersenne, fin dalla seconda metà degli anni Venti utilizza il Clangor buccinae e individua il pericolo della possibile saldatura delle tesi che esso veicola con una fisica materialistica e poi, nelle Obiezioni, con la fisica cartesiana stessa. Attento conoscitore della letteratura clandestina e ateistica contro la quale polemizza, Mersenne coglie fin dal suo sorgere la linea di sviluppo che porterà nel XVIII secolo il materialismo radicale e la teoria della ‘materia pensante’ a emergere e ad acclararsi, come esito del monismo sostanziale, Ibidem. È infatti dal testo di Louis de La Forge, fonte del manoscritto clandestino L’âme materielle, che Matton avvia la sua ricerca. Cfr. S. mATTon, Le Discours…, cit., pp. 5-10. Per L’âme materielle si vedano l’ed. rivista a c. di A. Niderst, Parigi, Champion 2003, il saggio di G. Mori, A. Mothu in «La Lettre clandestine», XII (2003), pp. 311-339; l’intervento di A. Niderst, ivi, XIII (2004), pp. 337-341 e la risposta di Mori, pp. 341-344. 64 65

24

claudio buccolini

nei testi di Helvétius, d’Holbach e Condillac rivendicando la sua piena legittimità, dopo aver circolato sotterraneamente fin dai primi anni del XVII secolo.

Angela Ferraro MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’HOMME. Un ‘racconto epistemologico’

1. Premessa Sono trascorsi quasi trent’anni da quando Aram Vartanian, con l’articolo intitolato Le frère de Maupertuis et l’Homme machine, si proponeva di far uscire dall’oblio la figura e l’opera di Louis-Malo Moreau de Saint-Elier, segnalando alla comunità scientifica il singolare caso d’«un écrivain mineur qui a pu jouer un rôle non négligeable dans l’histoire du matérialisme»1. Eppure, nei confronti dell’abbé «naturaliste et physicien», cadetto del più celebre savant Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, gli specialisti dei Lumi non sembrano ancora aver manifestato un autentico interesse2. Salvo sottoscrivere en passant i rilievi dell’autore di Diderot and Descartes, che si era mosso prevalentemente sul piano delle analogie con Julien Offroy de La Mettrie, la letteratura critica, anche recentissima, ha infatti trascurato di considerare in sede autonoma e specifica i due ricchi testi di Moreau de Saint-Elier, il Traité de la Communication des Maladies et des Passions; avec un Essai pour servir à l’Histoire naturelle de l’Homme (1738) e i Songes physiques (1754), apparsi entrambi anonimi in Olanda3. Per questo motivo il presente studio intende dare avvio 1 Cfr. A. VArTAniAn, Le frère de Maupertuis et l’Homme machine, «Dixhuitième siècle», XIV, 1982, pp. 305-323. 2 Cfr. L. A. de LA BeAumeLLe, Vie de Maupertuis, Paris, Ledoyen et Meyreius 1856, p. 60. 3 Cfr. [L.-m. moreAu de sAinT-eLier], Traité de la Communication des Maladies et des Passions; avec un Essai pour servir à l’Histoire naturelle de l’Homme, par M***, A La Haye, chez Jean Van Duren 1738; [id.], Songes physiques, A Amsterdam, chez Thomas Joly 1753. Per il Traité, cfr. A.-A. BArBier,

26

angela femmamo

a un’accurata ricerca intorno alle teorie filosofiche e mediche che un pensatore nient’affatto marginale, interprete eterodosso del paradigma cartesiano, dotato di una sensibilità tipicamente illuministica, aveva concepito e reso pubbliche già nella prima metà del XVIII secolo. A tale scopo, mediante la ricostruzione del ‘racconto epistemologico’ da cui il Traité è attraversato, saranno di seguito messi in luce gli aspetti meno approfonditi o rimasti fuori dall’esposizione vartaniana; aspetti che, ricorrendo talvolta anche nei Songes, consentiranno altresì di rintacciare una linea di continuità nell’iter intellettuale compiuto dall’abbé. 2. La dipendenza dal physique «Dans l’état de perfection où le premier homme avoit été créé – afferma Moreau de Saint-Elier nel Traité de la Communication des Maladies et Passions – il trouvoit son bonheur à céder aux impressions de la chair et du sang, parce qu’alors elles ne le portoient qu’à des mouvemens et des sentimens conformes à l’ordre». L’anima di Adamo conduceva il suo corpo, determinando il corso del sangue e il movimento degli spiriti animali. È verosimile che i suoi organi di senso fossero disposti in modo tale da rappresentargli gli oggetti come noi li percepiamo e da suscitargli sensazioni analoghe alle nostre; ma la stretta unione che egli aveva con Dio lo rendeva padrone di reprimere tutti i moti che avrebbero potuto turbare la sua felicità perfetta. Di un simile privilegio, il primo uomo godette fino a quando si mostrò fedele a Dio; ma «dès qu’il lui eut desobéi, il perdit aussi-tôt l’autorité qu’il avoit sur son corps, son ame fut obligée d’en sentir toutes les dépendances»,, egli divenne soggetto a tutti gli errori della carne e del sangue, e a tutte le leggi dell’urto dei corpi e della comunicazione dei movimenti. Da quel momento in poi, «il fut obligé à suer dans le travail, comme la femme à enfanter avec douleur»4.

Dictionnaire des ouvrages anonymes et pseudonymes, 2e éd., t. III, A Paris, chez Barrois L’Ainé 1824, p. 333; p. m. conLon, Le siècle des Lumières, t. IV (17371742), Genève, Droz 1986, p. 165. Per i Songes physiques, cfr. A.-A. BArBier, Dictionnaire des ouvrages anonymes et pseudonymes, cit., p. 271; p. m. conLon, Le siècle des Lumières, t. VII (1753-1756), Genève, Droz 1990, p. 107. Per entrambi i testi, cfr. J.-m. QuérArd, La France littéraire, t. VI, chez Firmin Didot 1834, p. 299; g. grenTe, Dictionnaire des Lettres françaises. Le dix-huitième siècle, t. II, chez Arthème Fayard 1960, p. 284. 4 [moreAu de sAinT-eLier], Traité, cit., pp. 58-59.

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

27

La questione non è approfondita all’interno del Traité, ma la condizione umana attuale sembrerebbe profilarvisi, sulla scia dell’agostinismo malebranchiano, nei termini di un portato della cacciata dal paradiso terrestre. Come ha efficacemente sottolinea� to Ferdinand Alquié, per il padre oratoriano il peccato originale era «la seule explication possible de la nature de l’homme telle que nous la constatons». È noto infatti che Dio vuole l’ordine, il quale esige sia la superiorità dell’anima rispetto al corpo sia che l’innocente non soffra nulla. Del resto, se Adamo poteva sottrarsi alla natura e alle sue leggi immutabili, era proprio in virtù di un assoluto primato dell’ordine, cui persino il meccanicismo, in ulti� ma istanza, deve intendersi sottoposto. Stando così le cose, risulta evidente che solo un atto di ribellione avrebbe potuto dar luogo alla revoca, da parte di Dio, dell’«exception «exception aux lois faite en fa� veur d’Adam selon les exigences de l’ordre», con la conseguenza di produrre quel ‘disordine’, costituito da una radicale inversione dei rapporti di forza tra corpo e anima, che sperimentiamo nello stato di colpa5. Il principale esito della caduta, ovvero della scomparsa del� l’anomalia edenica, consiste dunque in una piena reintegrazione dell’uomo entro i margini della natura. Il che acquista un’impor� tanza notevole nella dinamica argomentativa del Traité, assurgen� do di fatto a incipit ideale di una histoire naturelle de l’homme, concepita non solo come indagine «sur les causes des passions et des mouvemens de l’homme en général»,, ma anche come ri� ri�es� es� sione sui problematici concetti di arte e di progresso6. In un qua� dro del genere, la trama squisitamente teologica della caduta fini� sce col rimanere, di per sé, appena delineata sullo sfondo, tanto che si potrebbe dire, prendendo a prestito un salace commento del gesuita Jean Hardouin alla Recherche de la Vérité, che «tout ce discours n’est que poètique», nient’altro che una metafora ben costruita7. Giudizio senza dubbio tendenzioso e iniquo nei con� fronti di Malebranche, ma che avrebbe colto nel segno se riferito a Saint�Elier: la vicenda di Adamo si offre infatti alla sua penna essenzialmente in qualità di spunto narrativo, utile per descrive�

F. ALQUIÉ, Le cartésianisme de Malebranche, Paris, Vrin 1974, pp. 470�473. [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 138. 7 Bibliothèque Nationale de France, MSS.: Fonds français, 14705, p. 80. La citazione è tratta dall’ampia critica inedita del gesuita alla filosofia di Ma� lebranche. 5

6

28

ANGELA FERRARO

re e interpretare con finezza alcuni tratti salienti della dimensione esistenziale umana8. Sviluppando in tale prospettiva il proprio ragionamento, l’au� tore del Traité ha cura di chiarire, in via preliminare, che, sebbene mente e corpo siano sostanze distinte, per cui «nous ne doutons pas que l’idée de l’une ne soit exclusive de l’autre»,, a caratteriz� zare la vita dell’uomo è sempre e solo il loro stretto connubio, «quoique nous ne comprenions pas la façon de cette union»9. Considerando infatti la mens, da un lato, e il corpus, dall’altro, come aveva indicato Descartes nelle Quartae Responsiones ad Ar� nauld, è facile accorgersi che le loro essenze non hanno nulla in comune, ossia che si tratta di sostanze complete, capaci di sussi� stere senza alcun concorso reciproco10. Il che non implica, però, che res cogitans e res extensa, nell’uomo, siano anche entità «ac� tuellement divisées»11. Piuttosto, il vissuto quotidiano attesta in maniera inequivocabile che «les deux substances [�] se péné� trent si intimement, qu’elles ne sont qu’un tout qui ne peut être séparé que l’humanité ne périsse»12. Per usare le celebri parole di Descartes indirizzate alla principessa Elisabetta, «ce que chacun éprouve toujours en soy�mesme sans philosopher» è «la notion de l’union» di corpo e anima, che costituisce un genuino dato d’espe� rienza, o, come diceva Malebranche, un «istinct istinct du sentiment», », al� trimenti difficilissimo da spiegare13. 8 È la fase iniziale del processo di secolarizzazione cui andrà incontro, lun� go il Settecento, lo schema teologico della caduta: è l’avvio della sua trasfor� mazione in argomento razionale. L’approdo sarà quello sintetizzato dalla voce Adam dell’Encyclopédie: «On peut voir dans la Genese [�] toute l’histoire d’Adam; comment il fut formé du limon, et placé dans le paradis terrestre, et institué chef et roi de la terre, et des animaux créés pour son usage; et quelle fut sa premiere innocence et sa justice originelle; par quelle desobéissance il en déchut, et quels châtimens il attira sur lui�même et sur sa postérité. Il faut né� cessairement en revenir à ce double état de félicité et de misere, de foiblesse et de grandeur, pour concevoir comment l’homme, même dans l’état présent, est un composé si étrange de vices et de vertus, si vivement porté vers le souverain bien, si souvent entraîné vers le mal, et sujet à tant de maux qui paroissent à la raison seule les châtimens d’un crime commis anciennement» (Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des art et des métiers, 35 voll., Paris, Briasson 1751�1780, rist. Stuttgart, F. Fromman 1967, vol. I, p. 125). 9 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., pp. 57 e 122. 10 Cfr. R. DESCARTES, Meditationes de prima philosophia, AT, VII, p. 223. 11 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 122. 12 Ivi, p. 97. 13 R. DESCARTES, Correspondance, AT, III, pp. 693�694 e N. MALEBRANCHE,

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

29

È indubbio, del resto, che qualora ci si accinga a esaminare in che modo le due diverse sostanze effettivamente interagiscono, gli ostacoli cui far fronte non si rivelano certo esigui. Dal canto suo, Saint�Elier dichiara che, all’interno del composto umano, «ce qui est pour le corps sa méchanique, la configuration de ses parties est pour l’ame, qui n’a point de parties, une modifica� tion de sa substance»14. Presa a sé, l’anima è da ritenersi affatto inaccessibile alle impressioni materiali15; tuttavia, essa è legata così strettamente al corpo, che «il ne peut recevoir d’impressions qu’elle n’éprouve pareillement»16. Inoltre, «on ne doit pas être plus embarassé ni surpris qu’un objet émeuve et détermine tout à la fois le corps et l’ame, que de la manière dont deux substances si hétérogenes peuvent être unies»: dei due fenomeni, l’uno è tanto ‘miracoloso’ quanto l’altro; e bisogna sempre ricorrere alla volontà di Dio, che ci fa vedere questo mondo sussistere, senza che possiamo avere conoscenza alcuna delle modalità della cre� azione17. L’eco geulincxiano�malebranchiana che una tale affer� mazione in parte restituisce potrebbe far pensare a un’eventuale, sincera adesione di Saint�Elier ai canoni dell’occasionalismo. Ep� pure, nel complesso, egli non appare particolarmente interessato a risolvere il rapporto mente�corpo in termini metafisici. A improntare il Traité è invece una continuità di fondo con l’originaria istanza cartesiana dell’unione sostanziale fra le due res; una continuità sulla quale comunque si innestano, dal punto di vista della neurofisiologia, i contributi decisivi della Recherche de la Vérité e, forse, di una letteratura medica più recente. So� stiene infatti Saint�Elier che il cervello, in quanto «principe des nerfs», è la sede principale dell’anima e che i nervi sono «unis à l’ame comme confondus avec elle», al punto che «leur façon d’être est celle de l’ame�même»18. Da notare innanzitutto che si sta parlando non di semplice unione, bensì addirittura di confusione tra le due res: il vocabolo scelto è pregnante, e richiama la permixtio cui aveva accennato Descartes nella Meditatio sexta19. De la Recherche de la Vérité, in Œuvres complètes, Paris, Vrin, vol. II (1963), V, V, p. 172. 14 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 96. 15 Ivi, p. 73. 16 Ivi, p. 122. 17 Ibidem. 18 Ivi, pp. 91 e 123. 19 Cfr. AT, VII, p. 81.

30

ANGELA FERRARO

Compare poi una novità significativa riguardo alla localizzazione del senso comune: non una parte del cervello, ma tutto l’ence� falo, come centro primario, e le sue ramificazioni nervose, quale estensione periferica; il che segnala l’avvenuto aggiornamento del modello cartesiano, al di là di Malebranche e in anticipo su La Mettrie20. Infine, se la façon d’être dei nervi, e del cervello, è la stessa dell’anima, è ovvio che quanto altera lo stato della machine, cambia anche la disposizione dell’esprit, o si riverbera su di essa. I presupposti assunti a fondamento del Traité risultano dunque assai vicini a quelli donde pochi anni prima Montesquieu aveva tratto la suggestiva conclusione che «l’âme est, dans notre corps, comme une araignée dans sa toile»21. E non è un caso che, analo� gamente all’autore dell’Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits e les caractères, Saint�Elier tenga in grande considerazione gli effetti cui dà luogo l’assorbimento del chilo, dell’aria, e delle so� stanze eccitatanti, alcoliche o stupefacenti22. A suo avviso, infatti l’ame est obligée de se ressentir de tous ces effets, parce que, suivant que le sang en sera modifié, il s’en separera des esprits participans de telle façon d’être, lesquels portés au cerveau, feront des impressions diverses a l’origine des nerfs, qui sont les organes du sentiment e du mouvement23.

20 Malebranche esitava ancora nell’individuare «cette partie du cerveau, que l’on peut appeler principale», ove l’anima risiede ed esercita le proprie funzioni, limitandosi a passare in rassegna una serie di ipotesi alternative alla ghiandola pineale (N. MALEBRANCHE, De la recherche de la vérité, cit., vol. I, 1962, II, I, I, pp. 192�193). Dubbi in merito si trascineranno d’altronde lungo tutta l’età cartesiana: basti pensare che se La Mettrie individuerà nel cervello intero il sensorium materiale, per Buffon saranno le sole meningi il luogo fisico di raccolta ed elaborazione dei dati sensoriali: cfr. P. QUINTILI, Visione, percezione e cognizione nelle teorie medico-fisiologiche in Francia nel secolo XVIII, in Visione, percezione e cognizione nell’età dell’Illuminismo, a c. di M. Modica, P. Quintili e C. Stancati, Napoli, Bibliopolis 2005, pp. 327�328. 21 MONTESQUIEU, Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard (“Bibliothèque de la Pléiade”) 1951, vol. II, p. 49, trad. it. a c. di D. Felice, Pisa, ETS 2004, p. 58. Questo testo montesquieuiano fu redatto probabilmente fra il 1736 e il 1743, ma rimase inedito fino al 1892. È quindi difficile pensare che Saint�Elier potesse esserne a conoscenza. 22 L’interesse per gli esiti provocati da queste ultime risulta abbastanza diffuso nel Settecento, come esemplifica la sezione dedicata alle Expériences métaphysiques nella Lettre sur le progres des sciences di Maupertuis: cfr. P�L. MOREAU DE MAUPERTUIS, Œuvres, 4 voll., Lyon, J. M. Bruyset 1768 (rist. Hildesheim, G. Olms 1965), vol. II, p. 426. 23 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., pp. 68�69.

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

31

Ed è proprio per questo che il vino e il caffè, provocando fer� mento nel sangue, stimoleranno l’attività percettiva e locomotoria, mentre altri liquori e certi tipi di droghe, calmando l’agitazione degli spiriti, oppure arrestandone la secrezione, sospenderanno le normali funzioni degli organi di senso e dei muscoli volontari. Altrettanta importanza al fattore fisico viene attribuita nell’ana� lisi dei meccanismi della sensazione, facoltà ibrida per eccellenza secondo la tradizione cartesiana. Sostiene infatti Saint�Elier che un’impressione è essenzialmente «l’effet de tout ce qui modifie les fibres» e che essa «peut faire plaisir ou douleur, ou être indiffé� rente», secondo il tipo di modificazione che ne ricevono i nervi24. Non vi è però impressione alcuna che risulti di per sé assolutamen� te piacevole, dolorosa o indifferente, «puisqu’il dépend unique� ment de la position, de l’état actuel des nerfs»25. Né gli organi di senso ci fanno percepire gli oggetti quali sono in se stessi: quel che avvertiamo, a ben vedere, sono solo modificazioni dei nervi, pro� porzioni tra una fibra e un’altra26. In questo porre l’accento sulla soggettività del percepire è forse possibile intravedere una radica� lizzazione del principio che aveva indotto per primi Galilei e De� scartes a distinguere fra qualità primarie e secondarie; ma non c’è ragione di pensare che si tratti addirittura di una larvata forma di immaterialismo. Piuttosto, sembra plausibile che ciò rappresenti il frutto dell’ennesima meditazione sul testo malebranchiano, seb� bene non sia da escludere a priori l’eventualità di un’in�uenza del pensiero di Locke, la cui circolazione in Francia aveva raggiunto una certa ampiezza nei primi decenni del Settecento, soprattutto grazie alla traduzione dell’Essay concerning Human Understanding pubblicata da Pierre Coste già all’inizio del secolo27. Alla ri�essione sulla soggettività si accompagnano ulterio� ri, importantissimi sviluppi. Prima di dar loro corso, Saint�Elier 24 «L’impression est agréable, quand elle leur excite un déployement dans le sens où ils ont le plus de pente. L’impression est douloureuse, quand [�] elle contraint, altére leur position actuellement la plus libre et la plus natu� relle. L’impression est indifférente, lorsque les nerfs ne sont point excités à se déployer, faire ressort, ni génés dans leurs situations» (ivi, pp. 138�139). 25 Ivi, p. 140. 26 Ivi, p. 154. 27 Sulla diffusione delle teorie di Locke nella Francia del primo Sette� cento, cfr. R. HUTCHISON, Locke in France, Oxford, The Voltaire Foundation 1991; J. W. YOLTON, Locke and French Materialism, Oxford, Clarendon 1991; J. SCHØSLER, John Locke et les philosophes français, Oxford, The Voltaire Foun� dation 1997.

32

ANGELA FERRARO

giudica però indispensabile ridefinire lo status dell’anima. A suo avviso, le anime umane sono puri spiriti immortali, «également capables de connoissances e de sentimens»28. Pertanto, il faut bien que ce soit les formes du corps qui fassent les différences; et dès que nous voyons qu’au moins quelques�unes, comme causes occa� sionnelles, décident sensiblement des facultés de l’ame, pourquoi n’en dé� cideront�elles pas toutes, et pourquoi y en aura�t�il parmi celles�ci de plus intellectuelles, ou moins dépendantes de la matière les unes que les autres? l’ame étant unie au corps, toutes ses facultés n’y sont�elles pas unies?29.

D’altronde, non c’è ragione di dubitare che siano «les divers arrangemens de la matière» a causare la gran diversità che si ri� scontra tra gli uomini: car on doit remarquer que comme on ne voit point deux hommes qui ayent précisement les mêmes passions, la même manière de penser et de sentir, il ne peut être croyable, qu’il fallût pour faire ces différences autant d’espéces d’âme qu’il auroit d’individus, tandis que des appa� rences grossiéres de conformation font de différences si sensibles pour les facultés spirituelles30. 28 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 61. La teoria dell’uguaglianza delle anime doveva essere allora oggetto di dibattito, come attesta Morelly nel 1743:: «Je sais bien [�] que les opinions sont partagées au sujet de l’homogé� néité des âmes et de la diversité des esprits causée par les organes» (É.�G. MORELLY, Essai sur l’Esprit humain, ou Principes naturels de l’Éducation, in Œuvres philosophiques, Paris, Coda 2004, p. 7). Si citeranno solo due esempi della ri� correnza di tale postulato. Quello di Rassiels Du Vigier, il quale nel 1714, come sottolineato da Heikki Kirkinen, sosteneva che «il n’y a pas de différence dans la nature des différentes âmes. Elles sont toutes des substances parfaitement identiques, la pensée est un être essentiellement identique chez tous, car tous les hommes sont originaires du même ancêtre, Adam, et ont été créés comme une même image de Dieu. Les différences apparentes dans la pensée sont due au libre arbitre, par le moyen duquel l’âme peut former des pensées diverses» (H. KIRKINEN, Les origines de la conception moderne de l’homme-machine, Helsinki, Suomalaisen Kirjallisuuden Kirjapaino 1960, pp. 139�140). E quello di Montesquieu, il quale osservava che «les disproportions qu’il y a entre les hommes sont bien minces pour être si vains. Les uns ont la goutte; d’autres, la pierre. Les uns meurent; les autres vont mourir. Ils ont une même âme pendant l’éternité, et elles ne sont différentes que pendant un quart d’heure, c’est�à�dire pendant qu’elles sont jointes à un corps» (MONTESQUIEU, Mes pensées, 1059, in Œuvres complètes, cit., vol. I, p. 1276). 29 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 72. 30 Talvolta Saint�Elier indulge a un eccessivo determinismo fisico: «le Rachitis rend les enfans spirituels, [�] une éminence à l’échine donne en général de la subtilité aux bossus» (ivi, pp. 62�63).

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

33

Nel composto umano l’anima risulta, per così dire, neutrale. Questo fatto, nota acutamente l’autore del Traité, potrebbe su� scitare in molti qualche forma di risentimento, poiché ne deriva, a ogni livello, un differenziarsi per ragioni meramente materiali: «ils trouveroient plus d’honneur à avoir, comme on dit, plus d’es� prit, et si on ôsoit, plus d’âme». Sta di fatto, però, che entre le sage et le fou, le sçavant et l’ignorant, le fort ou le foible, il n’y a point d’autre différence que celle qui est entre des gens masqués: les uns déguisent plus ou moins leur condition, et découvrent plus ou moins sous le masque du corps les attributs d’une ame immortelle; aussi à la mort, quittant toutes nos envelopes, nous rentrerons dans l’égalité31.

La splendida metafora delle maschere mostra tutta l’infonda� tezza di certi moti dell’orgoglio umano e, nel contempo, invita a meditare con attenzione sulle modalità del condizionamento cor� po�anima. Uno dei dati più rilevanti da questo punto di vista è che l’anima esercita le sue funzioni dipendendo dallo stato e dallo sviluppo della macchina corporea. Nell’infanzia, potendo agire solo per quel tanto che il corpo lo consente, l’anima è obbligata a pensare debolmente e in proporzione a fibre «d’une d’une foible tis� sure»; man mano che il corpo si fortifica, l’anima estende pure le sue facoltà, esercitando un’azione maggiore o minore. Ma c’è di più: del corpo, l’anima deve seguire non solo i progressi, bensì anche i vizi, le sregolatezze e le «mauvaises conformations»32. A ciò si aggiunga che, per Saint�Elier, non ha senso distingue� re «les travaux de l’esprit d’avec ceux du corps»: sono exercices de l’âme tanto la fatica di marciare molto o di sollevare grandi pesi, quanto l’applicazione alle questioni più astratte della meta� fisica e dell’algebra. Né bisogna credere che in un uomo divenuto folle «par trop d’application à ce qu’on appelle ouvrage d’esprit» si diano effetti meno meccanici di quelli legati alla slogatura di un braccio: pur rimanendo indiscutibile che l’anima «s’applique, se fatigue et s’épuise», ciò non può avvenire «qu’autant que le corps reçoit certaines modifications»33. Segue poi dal principio dell’uguaglianza delle anime che un facchino non porta le sue 200 libre con uno sforzo meno materiale di quello compiuto da Malebranche per redigere la Recherche de la vérité:

31 32 33

Ivi, p. 81. Ivi, p. 62. Ivi, p. 75.

34

ANGELA FERRARO

Nous voyons par les yeux dans le crocheteur son dos courbé, ses bras tendus, marques sensibles de l’effort de son corps. Passons à pre� sent dans le cabinet de ce Sçavant. On le voit méditer sur quelque pro� bléme dont il cherche la démonstration. Nos yeux n’aperçoivent en lui aucun signe d’un effort bien violent de son application, si ce n’est que le front est quelque peu tendu ou ridé; mais on juge d’abord que ce signe extérieur de la tension de quelques fibres est un effet trop physique, pour donner des idées ni des demonstrations. Cependant l’un ne se fait pas moins méchaniquement que l’autre; les ressorts qui font l’applica� tion de l’esprit, et ceux qui font la force du corps, ne different entre eux qu’en ce que les effets sont plus ou moins sensiblement matériels34.

Come la contrazione di un muscolo, mediante l’af�usso degli spiriti, permette al braccio di sostenere carichi notevoli, così la tensione e la modificazione delle fibre nervose mettono il cervel� lo in condizione di rappresentare all’anima differenti immagini, proprietà di linee o numeri, e tutto ciò che sembra più astratto, compresi gli esseri puramente spirituali, il nulla e l’infinito. Tra un termine di paragone e l’altro, «toute la différence est, que les muscles des bras [�] sont gros et apercevables, au lieu que ceux des autres organes ne sont pas distincts à nos yeux». Dal mo� mento che «c’est [�] la même force qui fait le talens du corps ou ceux de l’esprit» se un uomo regge un peso non indifferente e nel contempo si mette a meditare su qualcosa di astratto, ten� dendo insieme le fibre del braccio e quelle del cervello, si farà facilmente sfuggire tanto l’idea quanto il carico: siccome, infat� ti, «les forces se partagent, l’exercice des unes sera aux dépens des autres»35. Di qui Saint�Elier trae pure un giudizio un po’ tranchant, sebbene coerente con la linea di fondo, ossia che le persone nerborute sarebbero raramente dei grandi geni, poiché, essendo portate a coltivare soprattutto le loro forze, lasciano scendere troppi spiriti nei muscoli che vi sono preposti. Ma non 34 Ivi, pp. 76�77. Curiosamente, l’accenno alla fisionomia di Malebranche ritornerà nell’articolo Sens internes dell’Encyclopédie, quando il cavaliere De Jaucourt, illustrando le caratteristiche della facoltà dell’attenzione, si soffer� merà sulla tangibilità dello sforzo intellettuale: «Quand les fibres du cerveau extrèmement tendues (comme on s’imaginoit les voir à travers la physionomie du p. Malebranche, s’il écoutoit), ont mise une barrière qui ôte tout commerce entre l’objet choisi et les idées indiscretes qui s’empressent à le troubler; il en résulte la plus claire, la plus lumineuse perception qui soit possible: c’est en ce sens que l’attention est la mere des sciences, et le meilleur moyen de les acquerir» (Encyclopédie, cit., vol. XV, p. 32). 35 Ivi, pp. 78�79.

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

35

bisogna ritenere che questa considerazione adombri un atteggia� mento supponente. Anzi, il fatto stesso di ridurre attività fisica e attività intellettuale ad un comune denominatore materiale, porta con sé la teorizzazione di un’ampia possibilità di accesso a forme anche elevate di sapere: «on devient sçavant, comme on devient robuste ou adroit à quelque mouvement», tutto si fa per gradi e si facilita mediante l’esercizio, anche per quanto concer� ne l’esprit. E questo perché l’attention, la fixation des esprits dans tel dégré d’impression sur quelques fibres, leur donne des habitudes à tels ployemens, débouche des pores, en fait des canaux continus, des routes nouvelles; et celui qui exerce les fibres de son cerveau, en faisant couler souvent les esprits dans les vestiges représentatifs des objets de chaque science, étend les facultés de l’âme augmente ses points de vûë, ainsi que l’exercice repeté des doigts donne successivement une exécution plus facile, et des ra� ports plus justes sur les touches d’un instrument de musique36.

Già altri avevano insistito sulla dipendenza dal corpo di fun� zioni come l’immaginazione e la memoria. Rispetto ai propri an� tecedenti, tuttavia, Saint�Elier si spinge ben oltre, affermando che le tracce cerebrali svolgono un ruolo fondamentale anche per la facoltà dell’intelletto. Lo conferma ancora una volta il confronto tra il facchino e il père Malebranche, ripreso per mostrare il pote� re che le forme della materia sono in grado di esercitare sull’atti� vità dell’anima: en mettant dans le corps un peu de pavôt ou de jusquiame, plantes qui ne peuvent certainement avoir qu’un effet très�matériel, capable pourtant d’assoupir l’ame ou de la rendre folle, on voit aussi�tôt le cro� cheteur rendu incapable de porter, et le Géométre inhabile à rien com� prendre. On verra même qu’ils seront aussi aisés à assoupir ou à affoller l’un que l’autre; et ensuite par l’usage de quelques alimens médicamen� teux, dont les parties soient propres à changer les modifications causées par l’opium ou le jusquiame, on redonnera de la science à l’un, de la force à l’autre, et de la raison à tous les deux37.

Non è quindi difficile capire come mai agli occhi dei contem� poranei il Traité sia apparso, per usare le parole di Desfontaines, un «ouvrage [�] écrit avec beaucoup de feu et d’esprit», il cui autore, però, «insiste un peu trop sur l’asserviment de l’âme aux 36 37

Ivi, pp. 79�80. Ivi, pp. 81�82.

36

ANGELA FERRARO

dispositions du corps»38. Un’insistenza che indusse lo stesso abbé a dichiarazioni di cautela, ovvero ad affermare che quand on ne considére le corps que comme une portion distincte de l’humanité, il pourroit sembler que l’âme seroit assujettie aux formes de la matière; mais on doit voir que c’est être comme assujettie à elle�même39.

Con l’analisi dei minuti meccanismi connessi all’attività intel� lettuale, raggiunge il proprio apice quell’ambizioso progetto di ‘rischiaramento’, che Malebranche aveva portato avanti in misura significativa, sebbene a fini apologetici, ma il cui padre nobile re� sta pur sempre Descartes. Seguendo l’insegnamento cartesiano di descrivere i movimenti di quelle parti del corpo «qui à cause de leur petitesse sont invisibles, en [�] parlant des mouvemens qui en dependent»40, Saint�Elier porta finalmente alla luce la micromécanique corporea coinvolta in tutte le operazioni dell’anima. Il suo intento di massima è quanto mai esplicito: «Il est certain que cela n’est pas visible, mais nous tâcherons de le faire comprendre, quoiqu’on ait toujours bien de la peine à croire l’effet d’une cause qui ne nous laisse pas voir son action»41. Vi sono cose che gli occhi ordinariamente non colgono; eppure, afferma l’autore del Traité, «les causes n’en sont pas métaphysiques parce qu’on ne les voit pas»42. Questa presa di posizione, oltre a sancire un di� stacco netto dall’occasionalismo malebranchiano, esalta il criterio fortemente scientifico cui è improntata, in generale, la ri�essione del frère de Maupertuis. Un taglio che si mantiene pure nell’inda� gine condotta sul fenomeno delle passioni, esaminate a partire da un fondamento di natura biologico�meccanica. 3. Le passioni: physique e moral In forte continuità con gli assunti cartesiani e malebranchia� ni, Saint�Elier definisce le passioni come «moyens de conserver notre être, et de le perpétuer, de chercher le bien, et d’éviter le mal»;; ma, diversamente da Descartes e Malebranche, le distin� gue semplicemente in naturali e acquisite. Le passions naturalles sono quelle che dipendono da ciascuna conformazione, ovve� Observations sur les écrits modernes, t. XXX, 1742, pp. 96 e 95. [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 97. 40 R. DESCARTES, Traité de l’Homme, AT, XI, p. 121. 41 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 72. 42 Ivi, p. 108. 38 39

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

37

ro dall’«ordre primordial que Dieu attacha aux premiers corps organisés qu’il voulut former»: vi rientrano pertanto la fame, la sete e tutti gli altri bisogni fisici primari. Da notare che, in quanto «fondées sur l’institut même du créateur», queste affezioni sono non soltanto legittime ma addirittura essenziali: «elles ne peuvent nous quitter, comme nous ne pouvons les acquérir»; »; e il loro gra� do è tale da fare il bene del corpo e dell’anima, salvaguardandone l’unione. Qualora venga oltrepassata questa giusta misura, si deve invece parlare di passions acquises, che possono essere contratte o a causa di ripetute sregolatezze nei costumi, o per via di altera� zioni fisiche dovute a quanto modifica il corpo, cioè agli alimen� ti, all’aria respirata ecc. Tali «passions dépravées» si generano da un’«indisposition habituelle du corps», che porta con sé gusti e tendenze contrassegnati dall’eccesso, come mostrano chiaramen� te le forme di idropisia o di fame canina43. Inoltre Saint�Elier assimila il meccanismo delle passioni a quello proprio delle malattie, sottolineando che le une si comu� nicano così come si trasmettono le altre44. La malattia consiste in una disposizione del corpo contraria alla sua economia, o meglio in «un desordre dans les solides et les liquides»: se le parti solide presentano qualche vizio, o per accidente o per difetto di con� formazione, ne risulterà modificato anche l’elemento �uido che le penetra; se invece è quest’ultimo ad essere alterato, l’impressio� ne da esso prodotta sulle parti solide ne farà degenerare la con� figurazione e il movimento. In ogni caso, quella che si innesca è una dinamica di azione�reazione dei solidi sui liquidi o vicever� sa: un «cercle, qui rend les maladies rebelles aux remedes, et qui les perpétuë»45. Le passioni si possono considerare a loro volta come «maladies maladies invéterées, qui supposent dans le sang des habi� tudes de certaines formes réiterées, et par conséquent des accou� tumances aux vaisseaux ou aux glandes de filtrer plus facilement et d’être plus assimilés avec des liqueurs figurées de telle façon plutôt que d’une autre»46. L’analogia tra solidi e liquidi, una vol� ta stabilitasi, fa sì che, quando l’esercizio di una passione dissipa [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., pp. 86�87. Ivi, p. 57. 45 Ivi, pp. 41�42. 46 Ivi, p. 70. Tale assimilazione è presente già in Bossuet: «Outre les altera� tions qui arrivent dans le corps par les maladies, il y en a qui sont causées par les passions, qui, à vrai dire, sont une espece de maladie» (cfr. J.-B. BOSSUET, De la connoissance de Dieu et de soi-même, Paris, Fayard 1990). 43

44

38

ANGELA FERRARO

spiriti di una certa natura, il tono, l’armonia delle vibrazioni e tut� ti i movimenti della macchina corporea concorrano a produrne altri aventi le medesime caratteristiche. Il che vale non solo per le passioni naturali, ma anche per le passioni acquisite, nel cui caso le abitudini contratte divengono spesso talmente salde da trasfor� marsi in una sorta di seconda natura. Ovviamente alle differenti passioni si lega uno specifico sentiment. All’interno del discorso di Saint�Elier assume particolare ri� lievo il binomio piacere�dolore. Segno distintivo di ciò che è comu� nemente ritenuto un bene, il piacere si accompagna alla distensione dei nervi, sicché l’appagamento dei bisogni corporei, ossia «le soulagement de l’irritation des fibres», », comporta di rimando il piace� re dell’anima47. Spingendo fino in fondo l’analogia con il modello meccanico, l’autore del Traité asserisce che un’anima, qualora ve� nisse unita a una molla, desidererebbe la condizione che quest’ulti� ma tenderebbe ad assumere, e che in un albero, se fosse animato, il piacere seguirebbe allo sforzo compiuto per ristabilirsi dalle curva� ture eventualmente ricevute in precedenza. Da ciò stesso si evince che «ce ne sont point les objets des passions les plus vives qui font le plaisir de l’ame; mais elle se plait dans le déployement, la détense des fibres de son corps»: »: si crede di amare il vino, le donne o il gio� co, ma in realtà si amano soltanto «des modulations de fibres et du mouvement dans le sang»48. Il punto focale è costituito ancora una volta dal sentire proprio del soggetto: il piacere è alimentato dal� la struttura neurofisiologica individuale, e non dall’oggetto esterno percepito con i sensi. Lo stesso vale ovviamente per il dolore, che è un effetto «du dérangement ou de la gêne des fibres, une modi� fication contraire au sens qui leur est actuellement le plus naturel et le plus libre»49: l’anima infatti si trova a soffrire quando non può cedere ai movimenti degli spiriti o non può assecondare la direzio� ne in cui i nervi si agitano e tendono a distendersi. Piacere e dolore rappresentano insomma gli elementi cardine della dinamica delle passioni descritta nel Traité. O, più esattamente, come si legge nei Songes, è la vita stessa a poter essere definita nei termini di un con� tinuo alternarsi di gêne e soulagement50. Il circuito di tensione e distensione nervosa, pur facendo parte del corso naturale dell’esistenza, non è esente da squili� 47 48 49 50

Ivi, p. 96. Ivi, p. 99. Ibidem. Cfr. [MOREAU DE SAINT-ELIER], Songes physiques, cit., p. 118.

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

39

bri e disordini, quali le alterazioni del temperamento provocate dall’ubriachezza reiterata, capace di trasformare un carattere mansueto in uno brutale e violento. Il potere dell’anima risulta infatti diminuito in proporzione alla forza delle nostre tendenze a livello neurofisiologico; ed essa può dirsi effettivamente libera solo quando ‘informa’ un corpo ben disposto e spiriti che pro� vocano impressioni moderate. La libertà consiste dunque princi� palmente nel «s’empêcher d’être préoccupé et d’être mis dans la servitude d’un sang trop irritant, qui nous conduise et nous égare aussi physiquement, que le joug et la bride font faire sans résis� tance aux animaux, des mouvemens très contraires à leurs incli� nations naturelles qu’on a perverties par dégrés»51. Questa sorta di profilassi dovrebbe essere attuata con il più largo anticipo sul dispiegarsi delle passioni e sul loro rafforzamento: l’esperienza in� segna infatti che «on a souvent bien plus de peine à oublier qu’à apprendre». E proprio per evitare sofferenze connesse a rimedi tardivi, occorre fare molta attenzione già nella fase dell’allatta� mento, dal momento che il �uido materno non solo può trasmet� tere malattie ma anche comunicare passioni; passioni che, duran� te il loro periodo di latenza, fanno del bambino «une machine prêtte à joüer, à qui il ne manque que d’être exercée et remuée par l’impression des objets»52. Nella relazione col fisico si radica anche l’instabilità emotiva che accompagna le passioni. Si prova emozione per ciò che appa� re nuovo, per ciò «qui qui occupe, qui surprenne, qui excite le mou� vement des esprits»53. Ma il godimento che soddisfa il desiderio non genera un piacere durevole, giacché si accompagna alla di� stensione delle fibre nervose la cui contrazione aveva provocato il desiderio, generando uno stato di sollievo e un’attenuazione del piacere. Per questo stesso motivo, nei Songes, Saint�Elier arriva a concludere che il est aisé de voir l’impossibilité qu’il y a d’être heureux dans cette vie; on ne desire que parce qu’on n’a pas. Le desir, étant donc une pri� vation, naît de la gêne, cause de tout mouvement, et puisque par l’ordre même de notre conformation, la jüissance du bien le plus desiré doit né� cessairement faire l’accoûtumance de nos fibres. La possession éteint ses désirs, puisqu’elle est le soulagement du besoin qui est ne contrainte ac�

51 52 53

[MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 121. Ivi, pp. 115�116. Ivi, p. 118.

40

ANGELA FERRARO

tuelle; aussi physiquement, qu’après avoir bu et mangé on ne peut éviter d’être rassasié et désaltéré. Il faudroit, pour être heureux, joüir toujours avec le même transport, et désirer avec le même ardeur; ce qui est neces� sairement contradictoire, d’où on voit que le bonheur véritable ne peut jamais appartenir à des êtres composés de fibres54.

Interagendo col corpo, l’anima trova tanto le cause delle pas� sioni quanto il loro limite: proprio il physique rende infatti impos� sibile il godimento continuo, la soddisfazione simultanea di una pluralità di desideri. Un vecchio tema della ri�essione morale trova una risposta per certi versi nuova. Riprendendo uno spunto carte� siano, Saint�Elier dichiara che chiunque assecondasse tutte le pro� prie passioni sarebbe non un individuo moralmente libero, bensì un puro automa, o meglio «une une machine détraquée, dont les res� sorts le plus essentiels n’obéissent plus»55. Gli uomini che defini� remmo ragionevoli, ossia coloro che conservano ancora un legame tra le idee e quindi una consequenzialità fra le tracce cerebrali di precedente formazione, si rendono conto di essere indotti a qual� che eccesso e avvertono distintamente il progredire dell’irritazio� ne. Se una persona cede suo malgrado a una passione e si accorge del male che sta per farsi, ciò significa che i suoi meccanismi non sono interamente compromessi, che vi sono ancora delle ‘molle’ che tendono al bene del soggetto; eppure l’irritazione troppo viva di qualche organo finisce per travolgere anche le parti sane, sicché resta nel cervello soltanto un’impressione, capace di rappresenta� re all’interessato il torto che si sta facendo, ma che risulta troppo debole per controbilanciare l’irruzione degli spiriti nei muscoli che servono ai movimenti finalizzati a soddisfare la passione. L’equilibrio tra physique e moral è anche alla base delle tipo� logie umane distinte a seconda dei vari temperamenti, ovvero del rapporto tra passione e ragione. Una combinazione di molta ragio� ne e poca passione è in grado di fare un grande uomo, ed un essere felice; mentre l’unione di forte razionalità e passioni violente può produrre un individuo straordinario, di grande talento, ma infelice e sempre occupato a lottare contro se stesso. Il connubio di pas� sioni deboli e ragione mediocre darà come risultato una persona limitata, eppure capace di felicità; mentre passioni smodate, senza un adeguato livello di razionalità a fare da contrappeso, daranno [MOREAU DE SAINT-ELIER], Songes physiques, cit., pp. 163�164. ID., Traité, cit., p. 89. Cfr. R. DESCARTES, Principia philosophiae, AT, VIII, I, 37, pp. 18�19. 54

55

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

41

forma a un individuo folle e infelice. Da questa dottrina Saint�Elier ricava la definizione della ragione naturale, che fa amare gli oggetti solo per il vero bene che possono procurare. Ma è poi egli stesso a sottolineare che invece di stimare questa condizione come la più ammirevole, tendiamo piuttosto a lodare chi è animato da passioni molto vive e nel contempo riesce a reprimerle attraverso uno sfor� zo razionale. Ciò accade perché «on aime le spectacle, on se plait à voir de l’agitation dans les autres, parce qu’on est agité soi�même». Alla base di certi giudizi diffusi sembra dunque esservi una sorta di meccanismo proiettivo, che non permette di cogliere quale sia la condizione effettivamente auspicabile per l’essere umano. In veri� tà, pur potendosi avere, quanto agli interventi sull’anima, lo stesso successo che è dato ottenere per quelli sul corpo, è da ritenersi sen� za dubbio più vantaggioso possedere sin da principio un caratte� re retto e moderato, tendente naturalmente al proprio bene, così come conviene avere il corpo sano e non dover ricorrere all’arte per curarlo; il che garantisce, fra l’altro, effetti ben più sicuri, dal momento che, tanto nel corpo quanto nell’anima, le ferite possono riaprirsi e le malattie ripresentarsi. Il temperamento «le plus rai� sonnable», nell’ottica di Saint�Elier, sarà dunque quello avente una maggiore forza naturale nel tendere al suo vero bene; definizione che esclude i grandi uomini che si sono guadagnati tanta gloria per aver combattuto e represso le loro inclinazioni: infatti, dal semplice dato che avessero dovuto ingaggiare una lotta, si può dedurre che erano solo in parte ragionevoli56. Stando a quanto finora considerato, la propensione al bene, più o meno vero, potrebbe essere ritenuta una costante degli atteggiamenti umani. Eppure vi sono casi in cui gli individui sembrano autodeterminarsi piuttosto in direzione di un male. Saint�Elier distingue al riguardo «deux façons de se résoudre à la douleur, et au risque de perdre la vie ou les membres, lorsqu’on est poussé par quelque passion vive, ou lorsqu’on s’y détermine avec ré�exion»57. La prima modalità prevede che l’irritazione particolare connessa ad una passione in corso sopravanzi quella provocata dal dolore che può accompagnarsi alla morte o a una menomazione fisica. La seconda concerne invece le azioni com� piute a sangue freddo, in cui di fatto l’anima non può dispensarsi dal cedere alle impressioni che la inducono a soffrire le pene più

56 57

[MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., pp. 130�131. Ivi, p. 166.

42

ANGELA FERRARO

atroci o addirittura la distruzione del corpo, per lo stesso mecca� nismo che la obbliga a ricevere qualunque altra impressione che colpisca i sensi. Ad un uomo che fosse massimamente attaccato alla vita basterebbe farla trovare penosa o dolorosa per spingerlo a privarsene; in tal caso, qualora non vi fossero altre impressioni contrarie, le sue fibre cerebrali cederebbero all’impulso più for� te, che sarebbe quello di aspirare a uno stato di distensione come al maggior bene. Invero, quindi, la volontà volge sempre al bene, non al male. E l’anima, tendente essenzialmente alla propria li� bertà, deve disporsi in maniera tale da ridurre al minimo le si� tuazioni di contrasto. Ed è altrettanto chiaro che qualcosa può essere considerato un male, qualora provochi un’impressione op� posta alla disposizione attuale della fibre cerebrali; il che spiega anche come mai il male medesimo sia un concetto tanto variabi� le e arbitrario. Di conseguenza persino la risoluzione al suicidio, qualunque ne sia la ragione scatenante, sembra di per sé giusti� ficabile nel quadro dei meccanismi neurofisiologici. Al riguardo, l’unico suggerimento plausibile, secondo Saint�Elier, è quello di evitare le alterazioni del temperamento che fanno prendere per veri bisogni le irritazioni a vuoto degli organi, poiché, se di errore si tratta, esso consiste nel mettersi in condizione di subire effetti eccessivi ad opera di cause spesso minimamente rilevanti. 4. Ritorno alla natura o progresso della storia? A margine delle considerazioni finora esaminate, Saint�Elier sottolinea come sia evidente che qualora l’uomo cedesse a tut� to quanto ispirano la carne e il sangue, l’ordine dell’universo ne risulterebbe interamente violato, «puisque tous les jours on éprouve que l’irritation des organes et les mouvemens du sang font trouver à l’ame son bien dans les plus grandes folies».. Se� condo l’autore del Traité, ciò attesta già che la nostra conforma� zione presente è corrotta e che in precedenza doveva esservi un ordine più perfetto: «car on ne peut se persuader que celui, qui meneroit sensiblement [�] au trouble de l’Univers, puisse être bon à suivre». C’è però a suo avviso un’ulteriore ‘prova a posteriori’ del fatto che la nostra condizione attuale costituisce il ri� sultato di una degradazione: ovvero il dato di fatto che, conce� dendo al corpo tutto quanto ci chiede, non siamo perciò stesso pienamente felici; anzi, «plus on seroit heureux, plus on devroit appréhender la perte de son bonheur: et on sent comme cette seule crainte est suffisante pour empoisonner tous les plaisirs».

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

43

È come se Dio, il quale ha unito l’anima alla materia, le avesse lasciato il ricordo e il rimpianto della felicità perduta, dell’unio� ne perfetta di anima e corpo tipica dello stato edenico. Questo rimpianto genera un desiderio continuo eppure «inutile quant à l’accomplissement dans cette vie, [�] mais très�utile, pour rapel� ler à l’ame l’état glorieux dont elle est déchuë, et l’espérance de s’y rétablir»58. Più o meno consapevolmente, Saint�Elier fornisce così alcuni elementi per una storia naturale della religione, giac� ché mostra come le costruzioni teologiche trovino alimento, se non addirittura origine, nell’inquietudine umana. Lo stesso impiego della ragione trova la sua giustificazione nell’evento della caduta. Senza di esso, infatti, non ci sarebbe per l’uomo «point point d’emploi de sa raison, point de combat, d’oppo� sition, de volontés»; sarebbe sufficiente «céder à la nature», cioè assecondare le inclinazioni della propria conformazione fisica, per pervenire al vero bene. Nello stato presente, invece, «nous sommes réduits à être ce qu’on appelle raisonnables, c’est�à�dire à faire effort pour combattre nos penchans, qui nous meneroient naturellement au mal, à notre propre dommage»59. Il che spiega come mai si vedano spesso gli uomini sacrificare «l’agréable à l’utile», in un combat che è addirittura capace di rendere il corpo malato60. Simili ri�essioni sulla razionalità umana richiamano alla memoria le amare parole di Montaigne: certes nous avons estrangement surpayé ce beau discours dequoy nous nous glorifions, et ceste capacité de juger et cognoistre, si nous l’avons achetée au prix de ce nombre infiny des passions ausquelles, nous sommes incessamment en prise61.

Ed è ancora la sensibilità dell’autore degli Essais che Saint� Elier sembra riecheggiare quando assume come termine di para� gone per molti versi invidiabile la condizione degli animali: le be� stie infatti «n’ont réellement point d’envie ni de desirs; elles n’ont que des besoins», provano solo impulsi capaci di fare il bene del corpo, gli stessi che «nous serions heureux d’avoir, et dans le même dégré qu’elles les ont»62. Diversamente dagli uomini, gli animali non violano in alcun modo il proprio naturel: 58 59 60 61 62

Ivi, pp. 59�61. Ivi, p. 161. Ivi, p. 128. M. DE MONTAIGNE, Les Essais, Paris, Gallimard 2007, p. 512. [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 201.

44

ANGELA FERRARO

les bêtes suivent aveuglément les mêmes loix qu’elles suivoient il y a des milliers d’années, obligées de céder à une méchanique infiniment sage, qui les mene toujours à leur bien en général, et dont elles ne sont point distinguées, étant incapables de liberté et de volonté»63.

Da questa serie di rilievi è facile accorgersi, come notava un recensore del Traité, che il frère de Maupertuis «ne regarde les Betês que comme des simples machines, et qu’il est Cartésien ri� gide sur ce point»64. Inoltre, in linea con la maggior parte degli epigoni di Descartes attivi nella prima metà del Settecento, egli sembra adottare una posizione sostanzialmente fissista, in quanto si rifà a una mécanique invariable non solo per spiegare come mai le specie animali non siano degenerate, a differenza di quanto è accaduto a interi popoli, ma anche per giustificare la difficulté de changer les propriétés singulières qu’on voit dans cer� tains animaux, auxquelles ils parviennent inévitablement, sans que l’âge et l’expérience puissent leur faire aucun progrès, parce que ces proprié� tés sont les suites necessaires de leur conformation65.

Nel caso delle bestie, le varie conformazioni e proprietà inal� terabili determinano il comportamento secondo l’istinto proprio della specie: sicché l’ape realizzerà eternamente degli alveoli di forma esagonale; il filo di seta tessuto dal baco differirà sempre dalla ragnatela ordita dal ragno; i castori realizzeranno le loro tane vicino all’acqua, senza mai mutare le tecniche di costruzione; la formica seguiterà ad ammassare viveri, per quanta abbondanza ne abbia e qualunque sia il periodo dell’anno. Nell’illustrare la differenza tra uomo e animale Saint�Elier attribuisce notevole risalto ai diversi gradi di complessità strut� turale: mentre «les ressorts des bêtes sont en petit nombre et uniformes»,, al punto che è possibile scorgere nei loro compor� tamenti «l’effet de leur méchanique»66, l’uomo è «un produit de pieces très�souvent bisarrement assorties, et dont l’hétérogénéité même, constitue le genre et l’espece»67. Ciò sottende chiaramente 63 Ciò differenzia gli animali dagli uomini anche dal punto di vista del� la salute: «c’est ce qui fait que les bêtes malades ou blessées, se rétablissent d’elles�mêmes, sans aucun sécours de la Médecine ni de la Chirurgie» (ivi, pp. 208�209). 64 Nouvelle Bibliothèque, décembre 1738, p. 263. 65 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., pp. 221�222. 66 Ivi, pp. 200�201. 67 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Songes physiques, cit., p. 38.

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

45

una forma di riduzionismo fisico, come si evince soprattutto dai Songes: cette méchanique s’étend très�loin et beaucoup plus qu’on ne croit: mais il nous souffit de remarquer en général, que la superiorité de l’intel� ligence, l’habileté à prendre des situations avantageuses, etc. dépendent d’avoir actuellement un ordre de conformation le plus susceptible du véritable sens des causes de gênes, et dans la direction précise où elles ont leurs effets le plus réels – in virtù di una mera dinamica di azione e reazione – on emploiera les efforts les plus justes et les moyens les plus utiles, pour éviter le mal le plus effectif et tendre au plus véritable bien68.

Entro una cornice simile, persino «la misère de l’homme» può essere sottratta a ogni giustificazione teologica, in quanto effetto «de de l’ordre de sa conformation, qui le rende capable d’une infi� infi� nité de desirs impuissans, parce qu’il peut être gêné dans une in� finité de sens»69. È dunque in un significato traslato che occorre interpreta� re Saint�Elier quando afferma che l’uomo, essendo dotato di un principio immortale che lo rende partecipe della natura di Dio, è in grado di concepire innumerevoli desideri, e che ciò è segno del� la sua tendenza a perseguire anche involontariamente una felicità infinita. Tale «caractère de l’infini» è all’origine della prodigiosa varietà di passioni e di «cette cette industrie si extraordinaire et si diver� sifiée, qui éclatte dans les hommes plus que dans les bêtes»;; un’ec� cellenza che è nel contempo «la source de toutes le folies dont on voit l’humanité susceptible» e «l’occasion de ses égaremens»70. Ma ciò non sarebbe sufficiente a dare conto della peculiarità dell’uo� mo, se non si integrasse con il suo carattere perfettibile che lo rende un essere «intelligent, capable de connoître et de chercher son bien, ses commodités, ayant [�] toutes les facultez propres à ses recherches»71. Nella propria opera, Dio ha contemplato il per� fezionamento dell’uomo, e ha voluto che esso fosse «un fruit du travail et de l’expérience, ainsi que la perfection des Arts et des Sciences»72. Va pertanto ridimensionata la portata degli exempla Ivi, pp. 25�26. Ivi, p. 60. 70 [MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 223. 71 Ivi, p. 14. 72 Ivi, pp. 2�3. Come notato da R. MERCIER, La réhabilitation de la nature humaine (1700-1750), Villemonble, La Balance 1960, da queste parti del Traité emerge chiaramente che «la religion ne peut en aucun cas imposer à la science des limites ni des servitudes: au contraire, la liberté de la recherche est 68 69

46

ANGELA FERRARO

biblici, tenendo presente e che le Sacre Scritture si esprimono in una forma allegorica, adatta soltanto all’ingenuità dei nostri pro� genitori, e che l’avanzamento del sapere comporterà una riduzio� ne del loro prestigio in campi estranei alla fede, assieme a una net� ta distinzione tra religione da un lato e filosofia e scienza dall’altro. Per Saint�Elier, svincolarsi dai parametri della rivelazione si� gnifica soprattutto poter intraprendere una libera ri�essione sui concetti di natura e di arte. A suo avviso, se il confine tra naturale e artificiale fosse effettivamente rigido, se ne dovrebbe trarre l’as� surda conclusione che è illegittimo per un uomo ricorrere all’aiu� to degli animali per farsi trasportare: la nature ayant assigné cette fonction aux jambes de cet homme, il ne lui est pas permis de suppléer par le secours des jambes des bêtes, ni de quelconques jambes que les siennes, propres à l’action de marcher; les jambes estant anciennes et naturelles, on ne peut rien innover sur cette matière.

Il paradosso che ha così modo di emergere consente a Saint� Elier di forzare in misura ulteriore il presunto limite interposto fra natura e arte: sarebbe infatti giustificato il comportamento di un uomo il quale, constatata l’agilità di una gamba artificiale, de� cidesse di farsi amputare anche l’altra «malgré les raisons prises de ce que la nature la lui auroit donnée pour s’en servir», », ov� vero senza porsi alcuno scrupolo morale («comme on se coupe la barbe»)73. Un’ipotesi del genere, che presuppone in termini piuttosto chiari il diritto di ciascuno di disporre del proprio cor� po senza condizionamenti, non era sfuggita all’occhio vigile del recensore del Journal des Trévoux, che metteva ben in guardia il lettore circa le eventuali conseguenze che sarebbe stato possibi� le trarne. «En poussant plus loin ce raisonnement», dichiarava l’anonimo gesuita, «quelqu’un [�] prouveroit aussi sensément qu’il est permis de se donner la mort, quand la vie est à charge, et qu’on crois en s’en privant de faire son bien»74. Un timore non del tutto infondato, come si è visto dagli accenni precedenti. la condition indispensable à la prospérité de la science, et n’a finalement que des avantages pour la religion elle�même. Dieu n’a pas fait de la révélation une science universelle qui dispensât les hommes d’efforts personnels [�]. En travaillant à faire progresser les diverses sciences, les hommes ne font donc qu’obéir à l’intention du Créateur» (p. 290). 73 Ivi, pp. 6�7. 74 Journal des Trévoux, t. XXXIX, 1739, p. 112.

MOREAU DE SAINT-ELIER E L’HISTOIRE NATURELLE DE L’ HOMME

47

Ma anche a prescindere da ciò, lo sviluppo e l’affinarsi delle tecniche (siano esse agricole, zootecniche o medico�chirurgiche) assumono in Saint�Elier una valenza che potrebbe definirsi emi� nentemente progressiva. D’altronde, non v’è dubbio, secondo l’autore del Traité, che «àà mésure que les connoissances de l’es� prit humain s’etendent et se perfectionnent, la commodité et l’utilité publique en résultent, et c’est comme si on disoit que l’art corrige ou ajoute à la nature». Servendosi di tale espressione ci si adatta più che altro alla maniera ordinaria di parlare, perché «dans le vrai des choses, c’est toujours la nature qui se corrige elle�même»75. Tutta l’arte del mondo non potrebbe cambiare in nulla i meccanismi naturali, ossia le leggi dell’urto dei corpi e della comunicazione dei movimenti: queste leggi sono infatti immutabili e fondate sul potere di Dio che le ha istituite; ed è soltanto servendosi di esse, che l’uomo potrà alterarne gli effet� ti. Anzi, neppure quelle che ci appaiono invenzioni propriamente umane (l’innestare alberi e il far nascere mostri dalla mescolan� za di specie differenti, così come la costruzione del più perfetto orologio o la soluzione di un difficile problema d’algebra) sono opera dell’arte più di quanto un favo di miele e la trama di una tela potrebbero esserlo rispettivamente dell’industria delle api o dell’abilità del ragno. Tanto nelle bestie quanto negli uomini è in ogni caso la natura ad agire, e sempre uniformemente, secondo le proprietà generali o particolari di ciascun essere; proprietà che sono le conseguenze o gli esiti necessari delle differenti confor� mazioni che Dio ha conferito ai primi corpi da lui stesso formati. Tuttavia, quando l’operare dell’uomo forza troppo la natura originaria e se ne distacca in modo estremo, non resta che l’ope� rare dell’uomo stesso per ripristinare una situazione di equili� brio. Ciò vale per tutti gli eccessi: nell’ambito della salute fisica, come in quello della corruzione morale. Ma, a volte, neppure l’arte può bastare e occorre il soccorso di Dio per ricondurci al nostro vero fine e ristabilire «l’ordre parfait de notre premiére conformation»76. Dal canto suo, l’uomo può ricercare nei secours physiques provenienti dagli «organes qui restent sains» i mezzi per riavvicinarsi allo stato perduto e rendersi degno dei secours surnaturels77. Una conclusione che, fatto salvo il riferimento all’azio�

75 76 77

[MOREAU DE SAINT-ELIER], Traité, cit., p. 11. Ivi, p. 223. Ivi, p. 128.

48

angela femmamo

ne divina, ribadisce lo spazio dell’agire umano, seppure in una prospettiva che concepisce il progresso ancora come «un retour à un idéal donné d’avance»78. Qualora fosse possibile un ritorno all’Eden, ipotizza infatti Saint-Elier, la nature humaine, déchargée des ces vices comme d’un contrepoids, se raprocheroit de son équilibre, de son institut primitif; l’homme laissé à lui-même, suivroit la détermination la plus propre, ainsi que la fleur des champs et les arbres de forêts. Et de ce que l’espéce humaine rentreroit dans ses avantages naturels, qui ne comprendroient que des facultés et des passions utiles; dans ce rétablissement entreroit de même la justesse et le dégré d’esprits le plus susceptible des connoissances, propres à faire le bien de l’homme79.

78 J. ehrArd, L’idée de nature en France dans la premiere moitié du XVIIIe siècle, Paris, Albin Michel 1994, p. 770. 79 [moreAu de sAinT-eLier], Traité, cit., p. 216.

Maria Muccillo LA CONCEZIONE DELLO SPAZIO DI FRANCESCO PATRIZI (1529-1597) E LA SUA FORTUNA NELL’AMBITO DELLA REAZIONE ANTICARTESIANA

Uno degli aspetti della reazione anticartesiana che si venne sviluppando nella cultura filosofica e scientifica del Seicento e del Settecento è costituito, come è noto, dalle polemiche sorte intorno alla concezione dello spazio e alla ‘riduzione’ di quest’ultimo a ‘materia’, definita da Cartesio attraverso la sua fondamentale caratteristica di estendersi, ‘more geometrico’, nelle tre dimensioni. Se tale concezione, con la sua radicale geometrizzazione dello spazio, che viene così privato di tutte le qualità che non siano quelle della materia stessa, costituì, di fronte ai precedenti tentativi di contestazione antiaristotelica, una effettiva svolta apportata a una millenaria speculazione in campo fisico, la ‘materializzazione’ di esso, che ne derivò come sua necessaria conseguenza, non mancò di suscitare un vivace dibattito, sia da parte di autori di tendenze empiristiche e scettiche, come Gassendi, che temevano, sulle basi della nuova fisica cartesiana, il ritorno a forme di dogmatismo metafisico; sia da parte di filosofi di opposta tendenza, come Henry More, che vedevano nell’identificazione cartesiana dello spazio con la materia, la definitiva eliminazione di Dio e, più in generale, di una realtà spirituale dal mondo fisico. Gli autori che intervennero in questo dibattito e animarono questa reazione anticartesiana facevano appello, nelle loro teorizzazioni, a una concezione dello spazio che si era venuta elaborando in età tardo antica(Filopono e Simplicio) ed in certi settori della filosofia giudaica medioevale (Hasdai Crescas), e che era stata ripresa, per farne il perno di una corrosiva critica ad Aristotele, nel Rinascimento da autori come Giovan Francesco Pico, Telesio e soprattutto Patrizi, offrendo agli autori seicenteschi molti degli argomenti su cui fonderanno la loro critica a Cartesio.

50

mamia muccillo

Nelle pagine che seguono cercheremo di illustrare uno dei più importanti precedenti rinascimentali delle concezioni dello spazio che, elaborate da Gassendi ed Henry More, rappresenteranno nel Seicento la reazione alla nuova fisica cartesiana, evidenziandone le negative conseguenze in campo religioso e filosofico. 1. Francesco Patrizi Il discorso patriziano sullo spazio fisico1 cade nell’ambito della Pancosmia, quarto ed ultimo dei trattati della Nova de universis philosophia2, e costituisce la dottrina con cui Patrizi inizia la trattazione di quello che, nella sua visione gerarchica, costituisce l’ultimo dei gradi della realtà, il grado dei ‘corpi’. Lo spazio è concepito qui come la causa e il principio sia metafisico che gnoseologico della realtà naturale, e la condizione stessa della sua esistenza. Osserviamo innanzitutto che il discorso patriziano muove da un esame piuttosto puntuale del testo aristotelico, delle cui tesi, secondo un metodo abbastanza comune, ma in Patrizi pressoché esclusivo, egli verifica la coerenza sia rispetto alla loro intrinseca plausibilità logica, sia rispetto ai dati dell’esperienza, sia rispetto alle precedenti affermazioni aristoteliche, per arrivare così gradualmente a dimostrarne l’insostenibilità e la necessità di avviare la ricerca su diversi presupposti. Così accade anche nel caso della discussione del problema dello spazio, che Patrizi inizia partendo dalla trattazione aristotelica del ‘luogo’ (tovpo") con cui inizia il libro quarto della Fisica3. L’indagine patriziana mira sostanzialmente ad acclarare, in continuo polemico dialogo con il testo aristotelico e con le varie concezioni antiche, alcuni punti fonda1 Ci occuperemo qui soltanto della sua concezione dello spazio fi fisico, sico, contenuta nel libro primo della Pancosmia, e tralasceremo la trattazione dello spazio matematico, contenuta nel libro secondo, e quella delle affezioni di quest’ultimo contenuta nel libro terzo, sia perché la concezione dello spazio matematico presenta senz’altro carattere di minore originalità, sia perché non sembra avere avuto quella fortuna che invece senz’altro ebbe la concezione dello spazio fisico. 2 Cfr. frAncisci pATricii Nova de universis philosophia, Ferrariae, apud Benedictum Mammarellum 1591. 3 ArisToTeLes, Physica, 4, 208 b e ss. Sulla concezione del ‘luogo’ di Aristotele mi limito a rinviare a M. JAmmer, Concepts of space. The History of Theories of Space in Physics, Cambridge, Mass., Harvard University Press 1954, trad. it. Storia del concetto di spazio, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore 1963 (2ª ed. 1966), pp. 26-34 e a P. K. mAchAmer, Aristotle on Natural Place and Natural Motion, «Isis», 69 (1978), pp. 377-387.

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

51

mentali: l’esistenza dello spazio e il suo rapporto con le altre realtà esistenti; la definizione della sua ‘essenza’; la sua relazione con il ‘corpo’, e gli elementi di simiglianza e di diversità; la possibilità del vuoto. Chiariti questi aspetti è possibile, per Patrizi, procedere alla formulazione di una nuova definizione e di una nuova teoria dello spazio che sorga su presupposti diversi da quelli logici ed ontologici aristotelici e consenta così di avviare su delle basi veramente nuove la ricerca in campo fisico. Per quel che riguarda il primo problema, egli stabilisce che lo spazio è la ‘prima’ creatura prodotta ad extra da Dio, e in quanto tale esso deve anche possedere le caratteristiche di ciò che è ‘primo’ nell’ordine dell’esistenza e costituire l’indispensabile condizione della sussistenza di tutto ciò che in quello stesso ordine viene ‘dopo’; sicché tutti gli altri enti sono tali ed esistono perché si trovano in esso4. L’esistenza dello spazio poi è dimostrata per via logico-empirica, attraverso la considerazione della sua necessità come condizione dell’esistenza stessa delle cose, verità indubitabile quest’ultima, attestata dall’esperienza. Al quesito circa l’essenza dello spazio, a seguito di una complessa indagine che lo porta a ripercorrere le varie posizioni degli antichi, Patrizi risponde non solo che esso non è un ‘nulla’, ma che è un ‘qualcosa’ che possiede il carattere della ‘dimensionalità’5. A questa conclusione egli giunge partendo dall’esame del rapporto del corpo con le sue ‘dimensioni’, cioè con lo spazio: tanto l’esperienza infatti che l’indagine intellettuale concordemente provano che in tutti i corpi, siano essi matematici o naturali, si reperiscono sempre tre ‘spazi’ o ‘distanze’ che vanno dall’alto verso il basso, dalla destra verso la sinistra e dal davanti verso il dietro. Tali distanze cambiano talora rispetto a noi, ma in questo cambiamento nessuna perde la sua essenza6. I corpi e gli spazi costituiscono delle entità affini, ma non identiche. Ciò che infatti caratterizza i ‘corpi’ come tali non è la ‘dimensionalità’, ma la ‘resistenza’ (antitypia), o ‘impenetrabilità’. È questa propriamente la proprietà che fa del corpo un ‘quid’ separato da altri ‘quid’, che può trovarsi accanto ad altri ‘quid’ ma non penetrarli né esserne penetrato7. Lo spazio è un ‘qualcosa’ 4 Cfr. frAncisci pATricii Nova de universis philosophia, Pancosmiae liber primus, ed. cit., f. 61a. 5 Ivi, f. 61va. 6 Ivi, f. 61vb. 7 Ivi, f. 62 ra-b. A questa conclusione Patrizi giunge attraverso una serrata critica del concetto aristotelico di luogo come ‘limite del corpo con cui tocca il

52

mamia muccillo

che, dotato delle tre dimensioni, riceve ed accoglie al suo interno quelle del corpo locato. Esso perciò non può essere un ‘corpo’. Questa tridimensionalità che ospita il corpo, sarà dunque da considerare come il vero ‘luogo’, distinto dal locato, per sé immobile ed indifferente rispetto ad esso, una entità autonoma ed autosussistente, un’altra ‘sostanza’ che, per essere la condizione dell’esistenza del corpo, è ontologicamente superiore e antecedente, e ad esso legata da un rapporto di ‘partecipazione’, come quello di un ‘padre’ col ‘figlio’8. Nella nuova prospettiva interpretativa aperta da Patrizi in tema di rapporto ‘spazio-corpo’, anche il problema dell’esistenza e della natura del ‘vuoto’, negata, come è noto da Aristotele, può essere reimpostato e risolto. Posta infatti l’indipendenza e l’autonomia dello spazio rispetto al corpo, anche il ‘vuoto’ come modalità dello spazio che non ospita alcun corpo, viene ad avere una possibilità di esistenza. Anzi, possiamo dire che è solo l’esperienza usuale che ingenera in noi l’idea di uno ‘spazio’ sempre ripieno di corpi; mentre, in realtà, la condizione originaria e originale dello spazio è per Patrizi proprio quella di essere vuoto, perché è Dio stesso che lo ha creato tale per natura, mentre la condizione della pienezza gli è piuttosto accidentale e non gli compete sostanzialmente9. Tuttavia contenuto’ e delle asserzioni contraddittorie contenute nel lib. IV della Fisica (cfr. ArisToTeLes, Physica, 4, 1-9, 208a-217b). In questo percorso una importante funzione svolgono le suggestioni ricavate dal commento di Filopono che Patrizi ben conosceva (cfr. ioAnnis phiLoponi In Aristotelis physicorum libros commentaria, a c. di H. Vitelli (Commentaria in Aristotelem graeca, vol. XVII), Berlin 1888, p. 567, rr. 30-33), come anche le critiche al concetto aristotelico di spazio contenute nell’Examen di Gianfrancesco Pico (cfr. ioAnnis frAncisci pici mirAnduLAe Examen vanitatis doctrinae Gentium et veritatis Christianae Disciplinae, lib. Vi, capp. iV-Vi, in ioAnnis frAncisci pici mirAnduLAe eT concordiAe comiTis, Opera quae extant omnia, Basileae, Apud Henricum Petrum 1601, t. ii, pp. 766-771). 8 Ivi, f. 62vb. Per il riferimento al rapporto padre-figlio, v. IoAnnis PhiLoponi In Aristotelis physicorum libros commentaria, ed. cit., 566, 1. 9 Cfr. frAncisci pATricii Nova de universis philosophia, Pancosmiae liber primus, ed. cit., f. 62rb. In merito al ‘vuoto’ Patrizi individua tre fondamentali punti di vista: la negazione dell’esistenza del vuoto sia dentro che fuori del mondo; l’ammissione dell’esistenza del solo vuoto extramondano, oppure del solo vuoto intramondano. Egli esamina ciascuna di queste tre possibilità, prendendo posizione in merito ad esse, a cominciare dal problema dello spazio intramondano; ma l’aspetto storicamente più interessante di questa sua analisi è costituita dalla sua concezione dello spazio ‘extramondano’. Qui Patrizi si trova ancora una volta a scontrarsi con le posizioni aristoteliche che negavano

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

53

la formulazione di una definizione della nuova realtà spaziale che la contemplazione filosofica ha rivelato, non risulta possibile alla luce delle categorie tradizionalmente impiegate: lo spazio infatti è sostanza, anzi sostanza per eccellenza (maxime substantia), secondo tutte le accezioni della ‘sostanza’, ma in modo diverso, molto più ricco e pieno di quanto non implichi la scarna categoria aristotelica; non è accidente perché non inerisce a nessun sostrato; non è neppure quantità, dal momento che è la ‘quantità’ che necessità della sua esistenza, ma piuttosto è fons et origo di essa10. Inoltre, esso non è definibile come composto di materia e forma, non rientra nel genere e nella specie, non si predica delle cose singolari. È caratterizzato dalla presenza di proprietà (dimensionalità) che lo assimilano al corpo, ma insieme rinviano a qualcosa di incorporeo: lo spazio è un corpo-incorporeo e un non corpo-corporeo. Non è corpo perché non ne ha la caratteristica essenziale, la ‘resistenza’, né cade sotto qualcuno dei sensi con cui conosciamo i corpi; ma non è neppure incorporeo perché è dotato appunto di tridimensionalità. La sua è una natura mediana11. ogni esistenza di luogo, vuoto, corpo, moto e tempo al di fuori del mondo. Del vuoto extramondano Patrizi infatti sostiene la possibilità e l’esistenza, anche se, per provarle non può, come nel caso degli spazi intramondani, rivolgersi al senso, a cui ovviamente quella realtà extramondana sfugge, ma si può avvalere soltanto di ‘rationes fere sensatae’. Egli adduce l’esempio dei segni zodiacali che non possono non estendersi anche in profondità, e non solo in direzione bidimensionale, il che porta ad ammettere l’esistenza di uno spazio anche oltre il confine del cielo. Patrizi ricorda altresì alcune teorie sostenute storicamente, tutte in qualche modo presupponenti l’esistenza dello spazio vuoto extramondano: la teoria della conflagrazione sostenuta dagli Stoici (‘elegantissimi physici’), la quale è concepibile solo con l’ammissione di una grande estensione di spazio vuoto in cui la massa immane di vapori prodottasi, avrebbero agio di disperdersi; la teoria della ‘contrazione’ di questo mondo che lascerebbe necessariamente spazi vuoti. E infine quella, da più astronomi già sostenuta, dell’uomo che stende il braccio oltre il cielo (cfr. ivi, f. 63vb). Sulle discussioni rinascimentali sul ‘vuoto’ cfr., in particolare, C. B. schmiTT, Filosofia e scienza nel Rinascimento, a c. di Antonio Clericuzio, Firenze, La Nuova Italia 2001, cap. III: Prove sperimentali a favore e contro l’esistenza del vuoto, pp. 65-111 già apparso col titolo Experimental Evidence for and against Void: the Sixteenth-Century Arguments, «Isis», LVIII, 1967, pp. 353-366; id., A fresh look at Mechanics in 16th-Century Italy, recens. a S. drAke-I. E. drABkin, Mechanics in sixteenth-century Italy, Madison 1969, «Studies in History and Philosophy of Science», I, 1970-1971, pp. 161-171). 10 Cfr. frAncisci pATricii Nova de universis philosophia, Pancosmiae liber primus, ed. cit., f. 65vb. 11 Ibidem.

54

mamia muccillo

Per le sue qualificazioni rispetto alla grandezza, può essere considerato finito (nella parte in cui è delimitato dalla sua porzione piena di corpi, o ‘mondo’) e, insieme, infinito nella direzione in cui non incontra il mondo, pur rimanendo, nelle due modalità, una realtà sostanzialmente unitaria12; dal punto di vista del moto, esso si rivela come l’immobile condizione di ogni moto, perché non muove, non si muove, non è mosso13. Essendo una vera e propria realtà, e non, come voleva Telesio, una mera ‘aptitudo ad corpora suscipienda’14, avrà delle ‘operazioni’, come vuole l’incontestato principio ‘operatio sequitur esse’, sebbene anche qui si presenti il problema della definibilità dello specifico suo modo di agire, della sua ‘ricettività’: essa è, come le altre sue caratteristiche, segnata dalla duplicità e dalla medietà. È infatti una forma di ‘azione’, perché lo spazio non vede alterata la sua natura dalla presenza e dal moto dei corpi, ma è anche una ‘passione’ perché quest’ultima sempre si accompagna all’azione, sebbene per Patrizi la prima caratteristica abbia decisamente il ruolo preminente, e venga assiduamente messa in evidenza. Non possiamo in questa sede affrontare il tema della ‘cognatio’ dello spazio e della luce perché dovremmo ricostruire, almeno per sommi capi, la complessa dottrina metafisica che Patrizi, ricollegandosi ad una lunga tradizione sia antica che medievale e rinascimentale, espone nel quarto dei libri della Pancosmia (De primaevo lumine) e, soprattutto, nel primo dei trattati della Nova de universis philosophia dal titolo filoniano Panaugia. Basterà qui soltanto rilevare come anche a Patrizi si presenti il problema del rapporto Ivi, f. 64vb. Ivi, f. 65vb. 14 Cfr. BernArdini TeLesii De rerum natura iuxta propria principia, lib. I, cap. XXV, a cura di L. De Franco, Cosenza, Casa del Libro 1965, pp. 194196. Sui rapporti di Patrizi-Telesio si vedano, G. AQuiLecchiA, Ramo, Patrizi e Telesio nella prospettiva di Giordano Bruno, in Atti del Convegno Internazionale di Studi su B. Telesio (Cosenza 13-13 maggio 1989), Cosenza, Accademia Cosentina 1990, pp. 181-191; C. VAsoLi, Su alcune obiezioni di Francesco Patrizi al Telesio, ivi, pp. 493-511; A. L. puLiAfiTo BLeueL, La fisica telesiana attraverso gli occhi di un contemporaneo: Francesco Patrizi da Cherso, in Bernardino Telesio e la cultura napoletana, Atti a cura dell’Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1992, pp. 257-270; R. Bondì, Introduzione a Telesio, Bari, Laterza 1997, pp. 49-64; sul suo concetto di spazio, M. JAmmer, op. cit., pp. 7879; M.-P. Lerner, Aristote “oublieux de lui-mème” selon B. Telesio, «Les études philosophiques», III, 1987, pp. 371-389; K. schuhmAnn, Zur Entestehung der neuzeitlichen Zeitbegriffs:Telesio, Patrizi, Gassendi, «Philosophia Naturalis», XXV, 1988, pp. 37-64. 12 13

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

55

da istituire fra la nuova realtà spaziale da lui teorizzata e la luce, e di entrambe con Dio, problema che egli risolve con l’assimilazione delle due entità in forza delle caratteristiche che nella Panaugia egli aveva assegnato alla luce: distinta nei due gradi della luce ‘corporea’ e ‘sovraceleste’, essa si configura a Patrizi come il principio stesso della conoscenza che si dirige, attraverso il senso, verso il mondo materiale, e attraverso la mente verso quello spirituale. Essa ha una natura intermedia che sfugge, come lo spazio, alla categorizzazione aristotelica, e presenta tutta una serie di proprietà (unità, semplicità, incorporeità, penetrabilità, infinità) che coincidono con quelle dello spazio, per cui svolge una serie di funzioni che vanno addirittura oltre, per numero e importanza, quelle dello spazio15. In forza delle sue caratteristiche solo la luce può essere stata chiamata dalla divina bontà, fonte di ogni luce, a riempire, per così dire di sé, lo spazio vuoto primigenio, affinché non restasse privo di una sua funzione positiva. Tralasciando in questa sede tutte le tematiche relative al problema della conciliabilità di questa concezione con il racconto del Genesi e con il dogma trinitario, e alle strategie messe in atto da Patrizi per risolverlo su questi presupposti, ci limitiamo ad osservare che formalmente però patrizi non giunge ad una identificazione esplicita delle sue sostanze, e sfiora soltanto il tema del rapporto spazio-Dio, lasciando così alla successiva speculazione il compito di meglio definirlo e precisarlo. 2. La reazione anticartesiana di Gassendi ed Henri More a) Pierre Gassendi Il concetto di spazio teorizzato da Patrizi sulla spinta di preoccupazioni di carattere metafisico, ebbe una sua singolare for15 frAncisci pATricii Nova de universis philosophia, Panaugiae liber primus, ed. cit., f. 1va. Sulla Panaugia patriziana si vedano, tra gli studi più recenti, A. L. puLiAfiTo, Per uno studio della Nova de universis philosophia di Francesco Patrizi da Cherso: note alla Panaugia, in Atti e Memorie dell’Accademia toscana di Scienze e Lettere ‘La Colombaria’, LII, 1987, pp. 160-199; M. mucciLLo, Aspetti della terminologia filosofica nella “Nova de Universis philosophia” di Francesco Patrizi da Cherso (1529-1597), in Lexiques et Glossaires philosophiques de la Renaissance, édités par J. Hamesse et M. Fattori, Louvain-La-Neuve, FIDEM 2003, pp. 129 ss. (a cui si rinvia anche per ulteriori indicazioni bibliografiche); eugene e. ryAn, The Panaugia of Franciscus Patricius: from the light of experience to the first light, in Francesco Patrizi filosofo platonico nel crepuscolo del Rinascimento, a c. di P. Castelli, Firenze, Leo S. Olschki 2002, pp. 181-195.

56

mamia muccillo

tuna nella filosofia e nella scienza seicentesche. Sebbene anche il concetto cartesiano di ‘spazio’ si fondi sull’idea di un immobile ed omogeneo contenitore di corpi, e si contrapponga nettamente alla concezione aristotelica del ‘luogo’ qualitativamente differenziato, non è propriamente nell’ambito del cartesianesimo che le dottrine tardo rinascimentali sullo spazio, e segnatamente quelle di Patrizi, troveranno la loro maggiore fortuna, bensì piuttosto sul versante opposto della reazione ad esso. Infatti è proprio sul concetto di uno spazio immobile ed assoluto ricettacolo dei corpi che si concentra la polemica contro la identificazione cartesiana di materia ed estensione e contro la esclusione di ogni principio spirituale dall’ambito del mondo fisico esteso. Ma, prima ancora di venire utilizzata, come accadrà con More e Newton, contro l’avanzante sistema meccanicistico cartesiano, la dottrina patriziana dello spazio trova una sua ripresa nell’ambito della polemica antiscolastica ed antiaristotelica di Pierre Gassendi, che, nel capitolo dedicato alla Physica del suo Syntagma philosophicum, affronta il problema della natura dello spazio e del tempo16. Restauratore della fisica epicurea, Gassendi si trovò ad affrontare il problema del vuoto, e a riesaminare la discussione che aveva portato lo Stagirita alla negazione della sua esistenza e alla nota e discussa definizione del ‘luogo’ e dello spazio come ‘somma’ dei luoghi, concependolo così come un accidente della materia, che ha sì una realtà, ma non come sostanza autonoma e indipendente. Il primo compito è per Gassendi dunque affermare la realtà dello spazio, «Praemissis aliquot praecipuis circa Mundum Capitibus, ac priusquam speciatim de rebus in eo contentis dicamus; operae esse pretium videtur, agere de Loco, et Tempore, quae duae res Mundum quodammodo transcendunt, atque complectuntur» (cfr. PeTri gAssendi diniensis… Syntagma philosophicum, Partis secundae, seu Physicae, Sectio prima, Liber secundus, cap. i, in Opera omnia in sex Tomos divisa,…, Tomus primus, Lugduni, Sumptibus Laurentii Anisson, et Ioan. Bapt. De Venet. 1658, p. 179a). Per preparare il suo discorso sullo Spazio e sul Tempo, della cui impostazione riconosce il carattere inusitato (‘insolitum’), Gassendi ricorda la tradizionale divisione dell’Ente generalissimo in sostanza e accidente, in base alla quale, per non venire ridotti a entità non esistenti, immaginarie e chimeriche, il Luogo e il Tempo erano considerati accidenti compresi nel genere della quantità. Sulla polemica antimetafisica ed antiperipatetica di Gassendi (e su altri importanti aspetti della sua filosofia) si veda: T. gregory, Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari 1961; e inoltre, sul suo concetto di spazio, M. JAmmer, op. cit., pp. 84-85; B. BrundeLL, Pierre Gassendi. From Aristotelianism to a New Natural Philosophy, Dordrecht-Boston-Lancaster-Tokyo 1987, pp. 6169; K. schuhmAnn, op. cit., pp. 55-64. 16

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

57

al di là delle categorie di sostanza e di accidente, e di porlo come l’infinito ed indifferenziato contenitore di ogni sostanza e di ogni accidente, che li precede per via logica, ontologica e temporale, e non può essere soppresso, qualora anche sparisca il corpo in esso contenuto: Nobis porro, quia videntur, etsi nulla essent corpora, superfore tamen et Locum constantem et Tempus decurrens; ideo videntur Locus et Tempus non pendere a corporibus, corporeaque adeo accidentia non esse… Neque vero idcirco sunt accidentia incorporea, quasi incorporeae cuipiam substantiae accidentium more inhaereant, sed incorporea quaedam sunt genere diversa ab iis, quae substantiae dici, aut accidentia solent. Unde et efficitur ut Ens generalissime acceptum non adaequate dividatur in substantiam et accidens; sed adiici Locus et Tempus, ut duo quaedam membra divisionis debeant, veluti siquis dicat, omne ens aut esse Substantiam, aut Accidens, aut Locum, in quo omnes substantias omniaque accidentia sint, aut Tempus, quo omnes substantiae omniaque accidentia durent. Id nempe, quia nulla substantia, nullum accidens sit, cui non competat esse alicubi, seu quopiam in loco; et esse aliquando, seu aliquo tempore; atque ita quidem, ut tametsi talis substantia, taleve accidens pereat, non ideo minus constare Locus aut fluere Tempus perseveret. Ex hoc vero sit ut Locus et Tempus haberi res verae, Entiave realia debeant. Quod licet tale quidpiam non sint, quale vulgo habetur, aut substantia aut accidens; revera sint tamen, neque ab intellectu ut chimerae dependeant, cum seu cogitet intellectus seu non cogitet, et Locus permaneat, et Tempus procurrat17.

Come già a Patrizi, anche a Gassendi si impone l’esigenza che lo studio dello spazio preceda la trattazione del comportamento fisico dei corpi. Ne risulta l’idea di uno spazio puramente dimensionale, incorporeo, penetrabile, indifferente al moto dei corpi, sebbene condizione dello svolgimento e dell’intelligibilità di ogni moto reale che funga da sistema assoluto e immobile di riferimento la cui presenza è attestata dalla sua misurabilità: Itaque dicendum est quidem Locum esse Quantitatem extensionemve quandam, Spatium nempe, seu Intervallum triplici dimensione, longitudinis et profunditatis constans, in quo corpus recipi, aut per quod transire corpus possibile sit; at simul dicendum ejus dimensiones esse incorporeas, atque adeo locum esse Intervallum Spatiumve incorporeum, seu incorpoream Quantitatem… Itaque videtur dici omnino posse esse Locum non Superficiem primam immediatamve Corporis ambientis, ut ab Aristotele definitur, sed esse Spatium, seu Intervallum, quod res lo17

Ivi, p. 182A.

58

mamia muccillo

cata occupat… Quippe si Locus mobilis foret, adeo ut posset vel sequi locatum, dum id moueretur, vel locatum, dum id immotum consisteret, deserere: accideret quidpiam moveri, quod tamen non mutaret locum; ac rursus quidpiam mutare locum, quod maneret immobile; quae patet sane quam sint absurda. Porro immobilitas ista competit quidem Spatio, uti iam declaravimus: sumatur enim in exemplum, quod fieri solet, aliqua Turris; certe illud Spatium sive intervallum quod, occupat Turris, erat ibi priusquam illa conderetur: quae etiam, si dirui, reaedificari, aut transferri intelligatur, semper tamen idem spatium, sive intervallum immotum consistet18.

Per queste sue caratteristiche lo spazio può essere accostato al tempo, come durata continua e indifferenziata di istanti non intercambiabili ed omogenei, che è il secondo contenitore assoluto dei corpi, indipendente dal parallelo ricettacolo spaziale. Spazio e tempo costituiscono un prius reale senza il quale ogni sostanza e ogni accidente non potrebbero sussistere, perché rimarrebbero senza spazio e senza tempo; essi stessi comunque rimarrebbero invariati se venisse meno ogni sostanza e ogni accidente: Itaque videtur dici omnino posse esse Locum non superficiem primam immediatamve Corporis ambientis, ut ab Aristotele definitur; sed esse Spatium, seu Intervallum, quod res locata occupat… Quippe si Locus mobilis foret, adeo ut posset vel sequi locatum, dum id moveretur; vel locatum, dum id immotum consisteret, deserere: accideret quidpiam moveri, quod tamen non mutaret locum; ac rursus quidpiam mutare locum, quod maneret immobile; quae patet sane quam sint absurda. Porro immobilitas ista competit quidem Spatio, ut iam declaravimus: Sumatur enim in exemplum, quod fieri solet, aliqua Turris; certe illud Spatium seu Intervallum quod occupat Turris, erat ibi priusquam illa conderetur: quae etiam, si dirui, reaedificari; aut transferri intelligatur, semper tamen idem spatium, sive intervallum immotum consistet19.

Sebbene Gassendi, come si è visto, definisca lo spazio come ‘quantità’, egli intende questo attributo non tanto alla maniera di Aristotele che ne faceva una categoria, e quindi subordinava lo spazio ad essa, bensì piuttosto alla maniera di Patrizi, che, sottraendo lo spazio alla categorizzazione tanto della sostanza che dell’accidente, e dunque della quantità, aveva invertito il rapporto, subordinando la categoria allo spazio e non viceversa. Per questo la sua definizione di spazio come quantità va intesa in sen-

18 19

Ivi, pp. 182A; 217A. Ivi, p. 217A.

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

59

so patriziano e non aristotelico. Contro Aristotele, che considerava spazio e luogo logicamente differenti, Gassendi, come Patrizi, considera lo spazio e il luogo diversi solo ‘numero’, come una parte è diversa dal tutto. Questo è il senso che sembra doversi attribuire all’ipotesi che gli adduce dell’annichilamento della materia da parte di Dio, che non comporterebbe la distruzione del vuoto o intervallo. Se si considera lo spazio immobile indipendentemente dal moto, che compete solo ai corpi che si spostano in esso senza turbarne l’ordine e lo stato, scompaiono una quantità di assurde contraddizioni presenti nella concezione aristotelica di luogo. In tal modo per Gassendi si risolvono anche molti dei problemi che concernono i rapporti dello spazio con Dio, con il moto e con i corpi. Lo spazio è indipendente da ogni creatura temporale, e permane al di là di ogni creazione nel tempo, e viene così a costituire una sorta di limite fisico reale per l’azione divina, perché è infinito e onnicomprensivo, ed è il mezzo in cui si verifica ogni traslazione. Si modifica con questa concezione anche la visione aristotelica del rapporto tra il luogo e il corpo, che appare nella prospettiva gassendista rovesciato: non sono più i luoghi ad adattarsi alle dimensioni del corpo senza potere andare oltre i loro confini, bensì sono i corpi ad adattarsi allo spazio, occupando porzioni di spazio adeguate alle loro dimensioni, senza modificarne la struttura omogenea: Caeterum, si fingamus rursum totam Caelorum machinam redigi a Deo pari modo in nihilum, tum concipimus pari modo fore eam regionem Inanem et cum hac Inani, quae sublunaris fuerit, cohaerentem, ac in utraque simul tantas fore dimensiones spatialeis [sic!], quantae corporeae in toto Mundo per ipsas fuso extiterint…Fingamus vero insuper Deum reproducere Mundum, et tantum, qualemque prius fecerit; tum factum iri concipimus, quod fuerit in prima productione factum; ac videmur simul tria quaedam exinde intelligere. Unum est, Spatia immensa fuisse, antequam Deus conderet Mundum; eadem esse superfutura, si Mundo forte destruxerit… Alterum, ista spatia esse penitus immobilia, neque enim, si Deus Mundum e quo est loco emouerit, spatium propterea consequetur, ac una mouebitur; sed Mundus mouebitur solus, ex certo nempe spatio immoto manente, in aliud immotum se recipiens, ac per interiectum, similiter immotum, transiens… Tertium, Dimensiones Spatialeis, sive quibus haec spatia in longum, et latum, ac profundum patent, ut immotae sunt, sic esse Incorporeas, ac ideo nulla cum repugnantia seu cum corporeis penetranteis, seu (ut etiam vulgo dicunt); compatientieis [sic!]; adeo, ut, ubicumque sive permanenter, sive transeunter corpus est, illud ea ratione partem spatij sibi aequalem occupet,

60

mamia muccillo

ut quacumque designare dimensiones corporeas licet, ibi simul esse incorporeas iis respondenteis [sic!] intelligamus20.

Per quel che riguarda il moto poi non sono le caratteristiche del moto a far dedurre quelle dello spazio, ma viceversa, la contemplazione dello spazio a far comprendere il senso dei diversi tipi di movimento: ancora una volta in polemica contro la dottrina aristotelica dei moti naturali e dei luoghi naturali, Gassendi ribadisce l’illiceità del coinvolgimento dello spazio nella spiegazione dei vari moti dei corpi, che trovano la loro spiegazione nelle caratteristiche dei corpi stessi e nei loro impulsi di reciproca attrazione, che permarrebbero anche ove variasse la loro posizione nello spazio: Rursus opponunt; nisi spatium corpus sit, ac proinde cum materia, formaque participet, undenam igitur vim habet generandi, conservandi, et attrahendi locatum, ut ipsi solet tribui? Verum quis istos docere potuit proprietates huiusmodi competere Loco? Ista certe videntur propria Principij, Causae, Finis, non Loci. Quasi ipsa quoque superficies ista praestandi vim habeat, quae res mere passiva est; imo, quae penitus non est? Quando enim corpus aliquo mouetur, superficies ipsum circumdatura ibi non est, sed tum primum efficitur, cum a corpore illuc peruenitur. Heinc certe dum lapis mouetur deorsum, non superficiem, qua circumdatur, imo neque spatium, quod occupet, quaerit, videlicet in aere tam superficiem, quam spatium habet…. Notandum est nempe, ob 20 Cfr. P. gAssendi Syntagma philosophicum, Physicae, Sectio prima, Liber secundus, cap. I, in Opera, ed. cit., pp. 183A-183B. Gassendi continua a questo punto ricordando, a proposito dell’esistenza di due tipi di dimensioni, corporee e spaziali e incorporee, le posizioni di vari autori antichi, di Aristotele in primis che ammetteva solo quelle corporee, e quindi negava le altre; e poi quelle di Epicuro e soprattutto di Nemesio, fonte importante anche perché cristiana. L’attribuzione dell’incorporeità allo spazio non va però intesa, precisa qui il filosofo, nel senso in cui questa proprietà viene assegnata alle sostanze intelligibili, come Dio, le Intelligenze e le menti umane, in cui la negazione della corporeità non esclude la sussistenza di una ‘germanam naturam’, di una realtà positiva, a cui competano proprie facoltà ed azioni. L’incorporeità dello spazio indica soltanto ‘negationem corporis corporearumve dimensionum’, data la sua incapacità di patire o attuare alcunché. La precisazione in merito al significato meramente negativo dell’incorporeità riferita allo spazio, e cioè la negazione dell’attribuzione ad esso di una sostanzialità simile a quella degli enti intelligibili, mira eminentemente a prevenire il rischio di una interpretazione che concluda, da questa sua teorizzazione, l’affermazione di una indipendenza dello spazio da Dio, indipendenza e persino ‘eternità’ di cui sono invece dotate proprio le ‘essenze’ di cui parlano Aristotele e gli aristotelici, che rivelano così la natura in fondo ‘atea’ delle loro posizioni (cfr. ivi, pp. 183B-184A).

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

61

constitutionem, ordinemque partium Mundi contingere ut quidpiam ob sympathiam communitatem, necessitatem, etc. ad hanc Mundi partem accedat, potiusquam ad aliam; sed recedendo ad talem partem, ex accidenti ipsi est, quod ad talem feratur locum: si enim ordo transponeretur, tunc semper quidem ad eandem partem, sed non ad eundem tenderet locum. Heinc rursus, cum instant non fore igitur in Mundo secundum naturam locum sursus, nec locum deorsum; id negandum est, si natura vel totius mundi vel cuiusque globi spectetur, Fatendum, si natura spatij cui prorsus per accidens est, quod istum vel Mundum, vel globum, vel hoc modo, potiusquam alio dispositum excipiat21.

Come si può osservare, per Gassendi non sono più i luoghi, ma i corpi a esercitare vicendevolmente una forza attrattiva, e a possedere caratteristiche come la pesantezza e la leggerezza. Anche se queste sono posizioni ancora assai distanti da quelle dei maggiori esponenti della rivoluzione scientifica seicentesca, non si può negare che la polemica antiaristotelica di Gassendi che riprendeva quella dei maggiori esponenti della filosofia della natura rinascimentale e ne sviluppava i risultati, costituì un notevole contributo alla liquidazione della tradizionale concezione dell’universo e un punto di passaggio significativo verso la discussione che, dopo la rapida diffusione e il successo della rivoluzione fisica cartesiana, caratterizzerà la reazione anticartesiana che si svilupperà in seguito in vari paesi europei e soprattutto in Inghilterra. b) Henry More Particolarmente significativa per quel che riguarda il problema dello spazio è la polemica condotta da Henry More, in nome di una visione spiritualistica del mondo, contro la concezione dello spazio di Cartesio e la sua identificazione di materia ed estensione. Aristotele resta ormai sullo sfondo, e sarà il nuovo fatto rilevante della cultura scientifica e filosofica, il cartesianesimo, con la sua radicale e sconcertante abolizione di tutte le qualità dal mondo fisico e la materializzazione dell’universo creato in quanto esteso, a scatenare la reazione di tutta la cultura di stampo spiritualista, che considerava assurda l’affermazione cartesiana dell’esistenza di uno spirito ma in nessun luogo. Negando allo spirito una sua localizzazione spaziale, per evitare la sua riduzione a materia, Cartesio veniva a introdurre nell’univer-

21

Ivi, pp. 219B-220A.

62

mamia muccillo

so una realtà per la quale in esso letteralmente non vi era posto. L’esclusione dello spirito, e dunque di Dio come realtà datrice di vita e di moto, avrebbe comportato una serie innumerevole di conseguenze fisiche e metafisiche inaccettabili. Di qui l’esigenza di reintrodurlo in qualche modo per quella stessa via attraverso la quale era stato espulso, e cioè attraverso lo spazio o estensione, da Cartesio ridotta a proprietà essenziale della materia: Atque ita per eam ipsam januam per quam Philosophia Cartesiana Deum videtur velle e Mundo excludere, ego, e contra, (quod et felicissimo successu me praestiturum confido) eum introducere rursus enitor et contendo22.

Tre sono i punti fondamentali della polemica anticartesiana di More e si ricavano dalla sua corrispondenza con Cartesio iniziata nel 1648. L’impressione che il lettore riporta è sostanzialmente che nessuno dei due interlocutori riesca completamente a capire l’altro e meno che mai ad accettare le sue posizioni. More contrappone ai cartesiani tre postulati: a) il carattere prioritario, logico-ontologico, che compete allo spazio come base comune di esistenza per lo spirito e la materia, che ne spieghi l’interazione; b) la diversa caratterizzazione della corporeità o materialità, 22 Cfr. Henrici mori cAnTABrigiensis Enchiridium Metaphysicum. Sive, De rebus incorporeis Succincta et luculenta Dissertatio. Pars prima: De existentia et natura Rerum incorporearum in Genere In qua quamplurima Mundi Phaenomena ad Leges Cartesii Mechanicas obiter expenduntur, illiusque Philosophiae, et aliorum omnino omnium qui Mundana Phaenomena in Causas pure Mechanicas solvi posse supponunt, Vanitas Falsitasque detegitur, cap. VIII, Per H. M. Cantabrigiensem, Londini 1679 in Henrici mori cAnTABrigiensis Opera omnia. II. Opera Philosophica, Tomus I, Londini 1679 (Rist. Anast. Georg Holms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1966), p. 167. Su H. more e sulla diffusione del cartesianesimo in Inghilterra si vedano: A. pAcchi, Cartesio in Inghilterra, Bari, Laterza 1973, pp. 3-48, 165 ss. (su More); J. E. Mcguire, Existence, Actuality and Necessity: Newton on Space and Time, «Annals of Science», XXXV, 1978, pp. 479-485 (su More); A. JAcoB, Henry More‘s Manual of Metaphysics, A Translation of the Enchiridium Metaphysicum (1679) with an Introduction and Notes, Part 1, Chapters 1-10 and 27-28, Introduction, Hildesheim-Zuerich-New York 1995, pp. I-LXVII (a cui si rinvia per ulteriori informazioni bibliografiche, pp. 151-160); sulla dottrina dello spazio, pp. XXXVI-LXVII; R. Bondì, L‘onnipresenza di Dio. Saggio su Henry More, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2001; R. dAVAL, L’ame et l’espace chez Marsile Ficin et Henry More in Marsile Ficin. Les platonismes à la Renaissance, Actes du Colloque tenus les 28-29 mai 1999 à Paris, organisé par P. Magnard, Paris 2001, pp. 41-46.

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

63

in quanto distinta dallo spirito; c)l’attribuzione dell’infinità alla estensione così intesa, e alla materia in essa contenuta. I tre assunti sono chiaramente enunciati nella prima lettera a Cartesio del dicembre del 1648: Difficultas prima. Primo, definitionem Materiae seu Corporis instituis multo quam par est latiorem. Res enim extensa Deus videtur esse, atque Angelus, imo vero res quaelibet per se subsistens; ita ut eisdem finibus claudi videatur extensio atque essentia rerum absoluta, quae tamen variari potest pro essentiarum ipsarum varietate. Atque equidem quod Deus extenditur suo modo, hinc arbitror patere, nempe quod sit omnipraesens, et universam mundi machinam singulasque eius particulas intime occupet. Quomodo enim motum imprimere materiae, quod fecisse aliquando, et etiamnum facere, ipse fateris, nisi proxime quasi attingeret materiam universi, aut saltem aliquando attigisset? Quod certe nunquam fecisset nisi ad fuisset ubique, singulasque plagas occupavisset. Deus igitur suo modo extenditur atque expanditur, ac proinde est res extensa. Neque tamen ille corpus istud est, sive materia, quam ingeniosa illa Artifex. Mens scilicet tua, in globulos striatasque particulas tam affabre tornavit. Quamobrem res extensa latior corpore est23.

L’argomentazione di More, per quel che riguarda il primo punto, trova la sua base nella affermazione della presenza reale di Dio nel mondo fisico, dimostrata incontestabilmente dal movimento che si comunica alla materia di per sé inerte, fatto che sarebbe inspiegabile senza l’ipotesi di una contiguità di Dio e del mondo creato in senso fisico spaziale. Questo argomento è nella prima lettera affrontato in modo generale, ricordando che anche nel sistema cartesiano il moto viene spiegato con il ricorso all’azione costante di Dio nel mondo. Per More è incomprensibile l’esplicazione di questa azione senza la presenza locale di Dio, e cioè senza l’attribuzione a Dio della proprietà dell’estensione. La risposta di Cartesio in una lettera del 5 febbraio 164924 sottolinea come 23 Cfr. Henrici mori cAnTABrigiensis Epistolae quatuor ad Renatum Descartes: cum Responsis Clarissimi Philosophi ad duas priores, cumque aliis aliquot Epistolis…, in Opera omnia. II. Opera Philosophica, t. II, ed. cit, p. 234). 24 «Quod (scil. corpus non definiri per impenetrabilitatem) confirmatur ex eo quod tangibilitas et impenetrabilitas habeant relationem ad partes, et praesupponant conceptum diuisionis vel terminationis; possumus autem concipere corpus continuum indeterminatae magnitudinis, siue indefinitum, in quo nihil praeter extensionem consideretur. Sed, inquis, Deus etiam et Angelus, resque alia quaelibet per se subsistens est extensa, ideoque latius patet definitio tua quam definitum. Ego vero non soleo quidem de nominibus disputare, atque ideo, si ex eo quod Deus sit ubique, dicat aliquis eum esse

64

mamia muccillo

la caratteristica essenziale del corpo materiale non sia la sensibilità, la tangibilità o l’impenetrabilità, ma la ‘estensione’, e la caratteristica propria della ‘res extensa’ sia la ‘divisibilità’: lo spazio geometrico presenta la proprietà di poter essere distinto con l’immaginazione in parti di figura e grandezza determinata, intercambiabili, perché l’immaginazione può trasferire l’una al posto dell’altra, ma non sovrapponibili, perché non se ne possono immaginare due nello stesso tempo nel medesimo luogo. Pertanto egli ritiene di potere anche accettare l’attribuzione a Dio dell’estensione ‘in un certo senso’, cioè nel senso della sua ‘ubiquità’, ma non della ‘vera estensione’, in senso proprio, perché ciò significherebbe attribuirgli la ‘divisibilità’, e cioè concepirlo come materiale. In realtà i due interlocutori non possono intendersi perché utilizzano la stessa parola con due significati radicalmente diversi: Cartesio concepisce lo spazio come puramente geometrico, come il risultato della giustapposizione di figure distinte, sempre suddivisibili in figure di minori dimensioni, un incrocio di linee e piani che formano un mosaico unitario in cui ogni figura si dispone accanto ad un’altra, sullo stesso piano o sulla stessa linea, e può essere indefinitamente suddiviso. Lo spazio di More presenta tutte le proprietà dello spazio meramente geometrico cartesiano (come era in Patrizi lo spazio matematico, descritto nel libro II della Pancosmia), e cioè omogeneità, infinità e isotropia, con in più il carattere pneumatico di una realtà priva di una sua figura determinata, dotata della capacità di variare a piacimento, di restringersi ed allargarsi per una sua propria forza motrice. La sua ‘estensione’ intangibile ed impenetrabile può essere concepita dalla mente con assoluta chiarezza, e quindi può esistere in forza dello stesso criterio cartesiano della chiarezza ed evidenza; è questa ‘estensione’ che egli attribuisce alle sostanze spirituali. Sicché nulla vieta, come egli afferma nella sua risposta del marzo 1469, che possano esistere due ‘estensioni’, entrambe vere, una dotata di tangibilità ed impenetrabilità che compete alla sostanze materiali, un’altra meno ‘vulgarem Scholisque tritam’ che compete a Dio, alle menti umane ed angeliche, che, pur permanendo sempre identica nella sostanza, si può contrarre ed espandere, assumendo questa o quella figura e questo o quel limite determinato:

quodammodo extensum, per me licet. Atqui nego veram extensionem, qualis ab omnibus vulgo concipitur, vel in Deo, vel in Angelis, vel in mente nostra, vel denique in ulla substantia quae non sit corpus, reperiri» (AT, V, p. 269).

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

65

Equidem possum clare concipere substantiam extensam quae nullam ullo modo habeat tangibilitatem vel impenetrabilitatem. Igitur tangibilitas vel impenetrabilitas non immediate substantiam extensam consequitur, quatenus extensa est. …. Per veram extensionem intelligis quam tangibilitas et impenetrabilitas comitatur. Hanc ipse etiam nego in Deo, nudisve vel mente vel Angelo reperiri. Interea tamen assero aliam esse extensionem aeque veram, quamvis non aeque vulgarem Scholisque tritam, quae in Angelis menteque humana ut terminos, ita et figuram habet, sed pro imperio Angeli mentisque variabilem; Mentesque sive animas nostras atque Angelos, eadem prorsus manente substantia, contrahere se posse, et certos denuo ad limites se expandere25.

Uno spazio, con le caratteristiche che More gli attribuisce, non partecipa della finitezza della materia, è distinto dal corpo, è un ‘purum subiectum mensurabilitatis’ dotato di esistenza separata che inerisce solo a se stesso. Nell’ipotesi dell’annichilamento del mondo materiale, che egli qui riprende, anche per More la misurabilità di questo ‘nulla’ con misure locali e temporali, non si potrà arrivare a negare, perché esso permarrà comunque e immutato, anche perché questa ‘misurabilità pura’, e cioè questa durata e ampiezza infinite, spettano solo a Dio come suoi attributi essenziali. C’è dunque una durata e una ampiezza del non esistente che si misurano con le unità di misura del tempo e dello spazio: Nam si deus hanc mundi universitatem annihilaret, et multo post aliam crearet de nihilo, Intermundium illud, seu absentia mundi, suam haberet durationem quam tot dies, anni vel secula mensurassent. Non existentis igitur est duratio, quae extensio quaedam est. Ac proinde Amplitudo Nihili, puta Vacui, per ulnas vel orgyas mensurari potest, ut Non-Existentis in sua non existentia duratio per horas, dies mensesque mensuratur. Sed concedo, quamvis nondum vi coactus, in omni spatio aliquam substantiam inesse; neque tamen sequi eam esse corpoream, cum extensio sive praesentia divina possit esse subiectum mensurabilitatis. Verbi gratia. Praesentiam sive extensionem divinam occupare assero unam alteramque orgyam in hoc vel illo vacuo; nec tamen omnino sequi Deum esse corporeum, ut patet ex supra dictis26.

Lo spazio, dunque, e il tempo, come durata assoluta, ad esso congiunto con l’ipotesi dell’annichilamento, divengono così i due parametri assoluti e indipendenti in cui si inquadrerà la fisica classica. È interessante sottolineare qui, nella concezione di 25 Cfr. Henrici mori cAnTABrigiensis Epistolae quatuor ad Renatum Descartes:…cit., ed. cit., p. 243. 26 Ivi, p. 244.

66

mamia muccillo

More, la reintroduzione del fattore tempo, con cui si recupera una visione realistica, che era andata perduta nella astratta e irreale fisica geometrizzata cartesiana. Sotto il profilo teologico poi questa concezione dello spazio e del tempo, sulla scorta della tradizione platonica, trova il suo sbocco in una immanentizzazione e ‘quantificazione’ di Dio che More vede, per così dire, scendere a riempire il vaso vuoto dell’esempio cartesiano e a impedire che le pareti si uniscano. La permanenza dell’essenza divina nella sua integrità e la indivisibilità del suo attributo comportano l’omogeneità della sua distribuzione in ogni punto dell’universo infinito che appunto con essa viene a identificarsi: Nullam essentiam rei corporeae tribuo Deo. Nego enim extensionem corpori competere quatenus corpus est, sed quatenus ens, aut saltem substantia est. Praeterea cum Deus, quantum mens humana Deum capit, sit totus ubique, integraque sua essentia omnibus locis sive spatiis spatiorumque punctis adsit, non sequitur quod partes haberet extra partes, aut, quod consequens est, quod sit divisibilis, quamvis arcte consertimque loca omnia occupet, nullis relictis intervallis. Unde praesentiam, seu amplitudinem, ut ipse vocas, divinam, mensurabilem agnoscam, Deum autem ipsum divisibilem nullo modo27.

Nella sua risposta del 15 aprile 1649 Cartesio sottolinea la contraddittorietà di una concezione della durata che possa estendersi, nell’ipotesi dell’annichilazione, tra la distruzione del mondo e la creazione di uno nuovo, e, per quel che riguarda la possibilità di una estensione incorporea, si appella alla distinzione fra potenza ed atto, ed attribuisce ad essa un essere meramente potenziale che la rende dipendente da un substrato a cui deve inerire per potere essere estesa: Puto implicare contradictionem, ut concipiamus aliquam durationem intercedere inter destructionem prioris mundi et noui creationem. Nam, si durationem istam ad successionem cogitationum divinarum vel quid simile referamus, erit error intellectus, non vera ullius rei perceptio. Ad sequentia iam respondi, notando extensionem quae rebus incorporeis tribuitur, esse potentiae duntaxat, non substantiae; quae potentia, cum sit tantum modus in re ad qual applicatur, sublato extenso cui coexistat, non potest intelligi esse extensa28.

All’obiezione cartesiana non è difficile per More rispondere 27 28

Ivi, p. 245. AT, V, p. 343.

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

67

sottolineando invece la contraddizione in cui proprio la distinzione cartesiana fra potenza e atto conduce: come è possibile infatti attribuire alla potenza della mente una estensione, senza attribuirla alla mente stessa? Se la potenza della mente è una modalità intrinseca della mente, appartiene ad essa a tutti gli effetti. Analogamente contraddittoria appare al filosofo inglese la stessa distinzione fatta valere da Cartesio29 a proposito dell’ubiquità divina, attributo che viene riconosciuto a Dio ‘ratione potentiae non ratione essentiae’, come se la potenza fosse una modalità divina a lui esterna: Postremo igitur; Et demiror equidem quod ne in intellectum tuum cadere possit, quod aut mens humana aut Angelus hoc ferme modo sint extensi, quasi implicaret contradictionem. Cum ego potius putarem implicare contradictionem quod potentia mentis sit extensa, cum mens ipsa non sit extensa ullo modo. Cum enim potentia mentis sit modus mentis intrinsecus, non est extra mentem ipsam, ut patet. Et consimilis ratio est de Deo: unde me consimilis ferit admiratio, quod in Responsione ad penultimas Instantias concedis eum ubique esse ratione potentiae, non ratione essentiae; quasi potentia Divina, quae Dei modus est, extra Deum esset sita, cum modus realis quilibet intime semper insit rei cuius est modus. Unde necesse est Deum esse ubique, si potentia eius ubique sit30.

Come già per Patrizi, anche per More la caratteristica distintiva del corpo rispetto alla natura divina non va posta nell’estensione, che è ad entrambi comune, ma nell’impenetrabilità che appartiene solo al corpo e non compete affatto allo spirito, che i corpi tutti può penetrare, essendo anche da tutti penetrato. A suggello delle radici platoniche della sua concezione, anch’egli cita il verso virgiliano così spesso evocato nei testi dei platonici rinascimentali: Quod et aliam innuit materiae sive corporis conditionem, quam appellare poteris impenetrabilitatem; nempe quod nec penetrare alia corpora, nec ab illis penetrari possit. Unde manifestissimum est discrimen 29 «Deum positiue infinitum, id est, ubique existentem, etc. Hoc ubique non admitto. Videris enim hic infinitatem Dei in eo ponere, quod ubique existat; cui opinioni non assentior; sed puto Deum, ratione suae potentiae, ubique esse, ratione autem suae essentiae, nullam plane habere ralationem ad locum. Cum autem in Deo potentia et essentia non distinguantur, satius esse puto in talibus de mente nostra vel Angelis, tanquam perceptioni nostrae magis adaequatis, quam de Deo, ratiocinari» (ivi, p. 251). 30 Cfr. henrici mori cAnTABrigiensis, Epistolae quatuor ad Renatum Descartes:…, ed. cit., p. 255.

68

mamia muccillo

inter Naturam divinam ac corpoream, cum illa hanc penetrare, haec vero seipsam penetrare non possit. Unde sane felicius mihi videtur cum Platonicis suis Virgilius philosophari, quam Cartesius i ipse, cum ex illorum sententia sic cecinerit, Totamque infusa per artus /Mens agitat molem, et magno se corpore miscet. Mitto alias insigniores Divinae extensionis conditiones, cum non opus sit hoc loco explicare. Vel haec pauca suffecerint ad demonstrandum multo tutius fuisse materiam definivisse substantiam tangibilem, vel modo supra explicato impenetrabilem, quam Rem extensam31.

‘Immane’ è per More la differenza che si deve porre fra ‘amplitudo’ divina e ‘amplitudo’ corporea, consistente in una serie di elementi del tutto antitetici fra loro: percepibilità sensibile, creazione e dipendenza, densità ed impenetrabilità, esterna ed immediata giustapposizione delle parti della estensione corporea; percepibilità solo mentale, carattere increato e indipendente, penetrabilità, reiterazione ubiquitaria di un’identica essenza, della estensione divina: Et ipse pariter existimo immane quantum differre divinam amplitudinem et corpoream. Primo, quod illa sub sensum cadere non possit, haec possit sub sensum cadere. Deinde, quod illa sit increata et independens, haec dependens et creata. Illa porro penetrabilis, per omnia pervadens, haec crassa et impenetrabilis. Denique quod illa ex totalis et integrae essentiae repetitione ubiquitaria, haec ab externa, sed immediata, partium applicatione et juxtapositione orta sit; […]32.

Cartesio risponde alle obiezioni di More sostanzialmente riaffermando il carattere impenetrabile della sua estensione e ribadendo la sua concezione geometrica dello spazio come insieme di parti che si escludono reciprocamente e coesistono l’una accanto all’altra, senza avvertire, come sembra, tutta l’importanza della distinzione posta da More fra la ‘repetitio ubiquitaria’ di Dio e la ‘iuxtapositio partium’ dell’estensione corporale che fonda sostanzialmente la differenza fra due realtà che sono in netta antitesi fra loro, come appunto lo spazio fisico-metafisico, di per sé sussistente e indipendente elaborato dal suo interlocutore, e quello geometrico a fondamento della sua concezione fisica: Si concipis extensionem per habitudinem partium ad invicem, non videris negare posse quin unaquaeque eius pars alias vicinas tangat; haec-

31 32

Ivi, p. 235. Ivi, p. 246.

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

69

que tangibilitas est vera proprietas, et rei intrinseca, non autem ea quae a sensu tactus denominatur. Non potest etiam intelligi unam partem rei extensae aliam sibi aequalem penetrare, quin hoc ipso intelligatur mediam partem eius extensionis tolli vel annihilari: quod autem annihilatur, aliud non penetrat; sicque, meo iudicio, demonstratur impenetrabilitatem ad essentiam extensionis non autem ullius alterius rei, pertinere33.

La nozione di ‘repetitio ubiquitaria’ formulata da More per indicare una delle caratteristiche distintive dell’‘amplitudo divina’, non scaturisce soltanto da preoccupazioni di carattere metafisico-religioso, ma è introdotta, sia pure attraverso un percorso di astrazione dai sensi, anche ai fini di una concezione più realistica ed intelligibile del fenomeno del moto. Si tratta per More di rivendicare, contro l’idea di un moto concepito solo come un mutamento della reciproca posizione dei corpi fra loro, l’esistenza di un moto reale, empiricamente rilevabile e verificabile, vicino alla comune e ‘volgare’ esperienza, che competa ad un solo corpo per l’azione di una forza che lo spinge in una precisa direzione all’interno di un immobile ricettacolo, senza dover ammettere la possibilità che esso si muova in due direzioni diverse contemporaneamente, o che contemporaneamente si muova e non si muova rispetto a due diversi corpi di riferimento: Cum vero duo corpora se expediunt a se invicem, nisi vim in utroque expeditricem et avulsoriam adjeceris notioni translationis, seu motus, motus hic erit extrinsecus tantum respectus, aut aliquid fortasse levius. Separari enim vel significat, superficies corporum quae se modo mutuo tangebant distare a se invicem, (distantia autem corporum extrinsecus tantum est respectus;) vel significat non tangere quae modo tangebant, quae privatio duntaxat est, vel negatio. Certe de sententia tua hac in re non satis clare mihi constat. Ego vero, si mihi ipsi permitterer, judicarem motum esse vim illam vel actionem qua se a se invicem mutuo expediunt corpora quae dicis moveri; immediatam autem illam separationem eorundem esse effectum dictorum motuum, quamvis sit vel nudus duntaxat respectus, vel privatio34.

Alla sua concezione dello spazio More farà ancora riferimento nei suoi Dialogi divini e nell’Enchyridiom metaphysicum. Noi non seguiremo ulteriormente il discorso del filosofo di Cambridge che AT, V, pp. 341-342. henrici mori cAnTABrigiensis Epistolae quatuor ad Renatum Descartes: cum Responsis Clarissimi Philosophi ad duas priores, cumque aliis aliquot Epistolis…, ed. cit., p. 255. 33

34

70

mamia muccillo

si svilupperà sempre più nel senso di una stretta connessione fra il problema dello spazio e di quello del moto, soprattutto circolare, che assumerà fondamentale importanza come prova dell’esistenza necessaria di una estensione incorporea infinita ed immobile, senza significativi mutamenti del concetto precedentemente stabilito35. Rileveremo solo, per concludere, come l’estensione 35 Nei Dialogi divini del 1668, dopo avere sostenuto con vari argomenti, sia di carattere storiografico che logico, la realtà di una estensione vuota e misurabile, più sottile, infinita e non indefinita come quella materiale cartesiana, ed averla esplicitamente dichiarata coincidente con la stessa essenza divina, spirituale e permeante la materia dell’universo, More adduce, quasi per scherzo (nugamentum) e solo per soddisfare ‘la sua ragione, la sua immaginazione e la sua sensibilità’(…quod Rationi tuae gratificetur…ut demulceamus…imaginationem tuam atque sensum’), la prova sperimentale dell’esistenza reale di una estensione spaziale e spirituale distinta dalla materia. Egli muove dall’analisi delle caratteristiche del moto rotatorio, attraverso l’esempio della rotazione in un cilindro di vetro di una linea rossa a mo’ di asse e di un’altra linea rossa condotta dalla sommità dell’asse verso la circonferenza della base. Dalla rotazione di siffatto asse si renderà visibile un cono rosso dalla sommità dell’asse di un cilindro alla circonferenza di base, a riprova del fatto che esiste un reale movimento anche dove non sussiste uno spostamento dalla contiguità dei corpi circostanti, sicché si deve postulare all’interno del cilindro la presenza di una estensione immobile in cui sia possibile pensare la figura conica che da quella rotazione risulta. Si può quindi, anche sulla base di questa immaginaria esperienza, affermare: «Bath. Nam dum ista Extensio super quam Cartesius suam vult extruere Materiam, concipitur mobilis, hic Spiritus necessario supponitur in quo moveatur… Adeo ut haec sola sit extensio, quam oporteat necessitatem implicare existentiae Entis alicujus realis ad quod pertineat. Quam igitur oportet coincidere cum Essentia Divina, nec potest non esse Spiritus, quippe cum pervadat Materiam Universi… At vero nos hanc Extensionem ab ista Materiae concipimus solutam et distinctam: cum ista Materiae mobilis sit, haec est immobilis; ista Materiae discerpibilis, haec indiscerpibilis. Nam si discerpibilis esset, esset etiam mobilis, atque sic eo ipso seipsam distingueret ab Extensione indiscerpibili atque immobili» (henrici mori cAnTABrigiensis Dialogi divini, Dialog. I, in Opera philosophica, II, t. I, ed. cit., p. 665; per tutta la discussione pp. 664-670). Anche nell’Enchiridion metaphysicum il moto circolare (ancora si apporta l’esempio del moto dell’asse di un cilindro) riveste importanza come prova dell’esistenza di uno spazio inteso come entità immateriale, indipendente dai corpi, immobile ed infinita. Qui l’autore enuncia quattro postulati (axiomata) del moto che in ultima analisi si basano tutti sulla considerazione più generale della sua realtà e indipendenza dalle relazioni del corpo con gli altri corpi, e del suo svolgimento all’interno di un mezzo immobile che semplicemente lo contiene. Viene qui ripresa la polemica anticartesiana, e affrontando più dettagliatamente il tema dei rapporti dello spazio con Dio, si individuano venti attributi comuni che provano la necessità della loro identificazione, elevando quindi a dignità metafisico-teologica le caratteristi-

la concezione di spazio di fmancesco patmizi

71

spaziale si venga configurando nella sua speculazione sempre più come una manifestazione, una presenza e teofania divina che permette la sussistenza, il respiro e la vita del mondo, il mezzo immateriale, immobile ed infinito in cui ha luogo il movimento reale dei corpi materiali. A questa caratteristica lo spazio rimarrà legato anche nella successiva elaborazione newtoniana36.

che fisiche della omogeneità, isotropia e infinità dello spazio in cui si muove il mondo materiale: «Neque enim reale duntaxat, (quod ultimo loco notabimus) sed Divinum quiddam videbitur hoc Extensum infinitum ac immobile, (quod tam certo in rerum natura deprehenditur) postquam Divina illa Nomina vel Titulos qui examussim ipsi congruunt enumeravimus; qui et ulteriorem fidem facient illud non posse esse Nihil, utpote cui tot tamque praeclara Attributa competunt. Cujusmodi sunt quae sequuntur quae Metaphysici Primo Enti speciatim attribuunt. Ut Unum, Simplex, Immobile, Aeternum, Completum, Independens, A se existens, Per se subsistens, Incorruptibile, Necessarium, Immensum, Increatum, Incircumscriptum, Incomprehensibile, Omnipraesens, Incorporeum, Omnia permeans et complectens, Ens per Essentiam, Ens acti, Purus actus. Non pauciores quam viginti Tituli sunt quibus insigniri solet Divinum Numen, qui infinito huic Loco interno, quem in rerum natura esse demonstravimus, aptissime conveniunt: ut omittam ipsum Divinum Numen apud Cabbalistas appellari …, id est Locum» (cfr. henrici mori cAnTABrigiensis Enchyridium metaphysicum…, Part. I, cap. 8, in Opera philosophica, II, t. I, ed. cit., p. 167; per gli assiomi del moto e la prova del cilindro, Part. I, cap. 6, pp. 158-161; per la polemica anticartesiana, Part. I, cap. 7, pp. 161-164). 36 Per l’influsso l’influsso delle teorie di More sulla concezione newtoniana mi limito a ricordare M. fierz, Ueber den Ursprung und die Bedeutung der Lehre Isaac Newtons vom absolutem Raum, «Gesnerus.», XI, 1954, pp. 62-119 (su More, pp. 85-102) e i classici studi di A. koyré, From the Closed World to the Infinite Universe, Baltimore and London, 1987 (trad. it. Dal Mondo chiuso all’Universo infinito, Milano, Feltrinelli 1970, cap. VI, pp. 99-120 (su More); capp. IX, pp. 157-167 (su Newton); id., Newtonian Studies, Cambridge, Mass. 1965 (trad. it., a c. di P. Galluzzi, Torino, Einaudi 1972, pp. 99 ss.).

Angela Taraborrelli SHAFTESBURY CRITICO DI DESCARTES

1. Premessa G. A. J. Rogers, riprendendo e sviluppando gli studi di Sterling Lamprecht e di Arrigo Pacchi1, per mostrare come l’influenza delle idee di Descartes sul pensiero inglese sia stata tutt’altro che trascurabile2, ha utilizzato quale metro di valutazione non 1 s. p. LAmprechT, The Role of Descartes in Seventeenth-Century England, in AA.VV., Studies in the History of Ideas, ed. by the Department of Philosophy of Columbia University, New York, Columbia University Press 1935, III, pp. 181-240; A. pAcchi, Cartesio in Inghilterra. Da More a Boyle, Roma-Bari, Laterza 1973. Sulla ricezione e infl influenza uenza di Descartes in Inghilterra si vedano anche m. nicoLson, Early Stage of Cartesianism in England, «Studies in Philology», XXVI, 1929, pp. 356-374; p. r. Anderson, Descartes’s Influence in Seventeenth Century England, Études Cartésiennes, IX Congrès International de Philosophie, publiés par les soins de R. Bayer, Paris, Hermann 1937, voll. III: 3, pp. 113-121; J. LAird, L’influence de Descartes sur la philosophie anglaise du XVIIe siècle, «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», CXXIII, 1937, pp. 226-256. 2 g. A. J. rogers, Descartes and the English, in The Light of Nature, ed. by J. D. North-J. J. Roche, Dordrecht, M. Nijhoff 1985, pp. 281-302: p. 281. Si vedano anche gli studi dedicati all’influenza di Descartes sui singoli autori inglesi: c. s. JohnsTon, The influence of Descartes on John Locke: a bibliographical study, «Revue internationale de philosophie», IV, 1950, pp. 210-230; J. A. pAssmore, Descartes, the British empiricists, and formal logic, «PhiloInflusophical review», LXII, 1953, pp. 545-553; J. e. sAVeson, Descartes’’ Influence on John Smith, Cambridge Platonist, «Journal of the History of Ideas», XX, 1959, pp. 258-263; id., Differing Reactions to Descartes among Cambridge Platonists, «Journal of the History of Ideas», XXI, 1960, pp. 560-567; c. WeBsTer, Henry More and Descartes, some New Sources, «British Journal for the History of Science», IV, 1969, pp. 359–377; A. gABBey, Philosophia Cartesia-

74

angela tamabommelli

tanto il numero dei seguaci del filosofo francese, quanto la quantità e la qualità delle discussioni e dei dibattiti che le sue idee, sia in campo fisico che in campo metafisico, suscitarono ed animarono tra i contemporanei e tra gli autori delle generazioni successive. Egli ha sostenuto che la filosofia cartesiana rappresentò una sfida capace di mobilitare le menti migliori dell’epoca, anche solo nel tentativo di dare risposte alternative; tanto che, a giudizio di Rogers, Descartes avrebbe creato «a new philosophy without creating a school of philosophy»3, e sarebbe stato in grado di esercitare un ruolo importante persino nella formazione del pensiero di coloro che ne furono i più fieri oppositori. Il presente lavoro intende rileggere e interpretare gli scritti di un autore anticartesiano quale fu Shaftesbury alla luce delle due ipotesi storiografiche sopra menzionate, con particolare riguardo al tema delle passioni dell’anima, forse ancora poco affrontato nella letteratura secondaria4. Capire quali furono le ragioni dell’atteggiamento di Shaftesbury, per lo più polemico – se non sarcastico – nei confronti di Descartes, e fino a che punto e in che modo il contatto diretto o indiretto con quest’ultimo abbia determinato la direzione delle soluzioni cercate, è essenziale per offrire una valutazione complessiva del suo pensiero. 2. Shaftesbury contro Epicuro Shaftesbury fu uno strenuo difensore della cultura classica, e polemico nei confronti di molte delle correnti del pensiero na Triumphata: Henry More (1646-1671), in Problems of Cartesianism, ed. by T. M. Lennon-J. M. Nicholas-J. W. Davis, Montreal-Kinston, McGill-Queen’s University Press 1982, pp. 171-254; m. BALdi, Cudworth versus Descartes:: Platonisme et sens commun dans la critique des Méditations, in The Cambridge Platonists in Philosophical Context, ed. by G. A. J. Rogers et al., Boston, Kluwer 1997, pp. 173-183. 3 g. A. J. rogers, Descartes and the English, cit., p. 281. Si veda il volume dedicato all’influenza di Descartes nei secoli XVI e XVII, Receptions of Descartes. Cartesianism and anti-Cartesianism in Early modern Europe, ed. by T. M. Schmaltz, Oxon & New York, Routledge 2005, dove gli autori che prendono in esame l’ambiente inglese si richiamano esplicitamente al lavoro di Rogers. 4 Christoph Tilmouth, in quello che rappresenta uno dei rari contributi dedicati all’influenza delle Passions de l’âme sulla cultura inglese del XVII secolo, suggerisce di indagare la critica a Descartes presente nelle Characteristics (id., Generosity and the Utility of Passions: Cartesian Ethics in Restauration England, «Journal of the Seventeenth Century», XXII, 2007, pp. 144-167).

shaftesbumw cmitico di descamtes

75

contemporaneo. Si mostrò apertamente diffidente nei confronti dell’indagine scientifica, e severamente critico nei confronti della concezione antropologica e politica di Hobbes, della filosofia naturale di Descartes, e di ciò che considerava il relativismo di Locke, così come delle tendenze ateistiche dei free-thinkers. Giudicava i Greci come la vera fonte del pensiero morale e si proponeva, con i suoi scritti, di restaurare la filosofia nel suo significato antico di arte d’imparare a vivere bene5. Riteneva che la storia della filosofia non offrisse che due reali alternative: the one derived from Socrates, and passing into ye old Academic, ye Peripatetic, & Stoic; ye other derived in reality from Democritus, & passing into ye Cyrenaic and Epicurean […]. The First therefore of these two Philosophys recommended Action, Concernment in Civil Affairs, Religion &c: The Second derided All, and advised In-action & Retreat; & good Reason. − For the First maintained yt Society, Right and Wrong was founded in Nature, & that Nature had a Meaning, & was Her self, that is to say, in her Wits, well Governed & administer’d by one Simple & Perfect Intelligence. The Second again derided This, & made Providence & Dame Nature not so sensible, as a doating old Woman. The First therefore of these Philosophys is to be called ye Civil, Social, Theistic: the Second, ye Contrary6.

Entro tale schema, che vede contrapposti i socratico-stoici da un lato e gli epicurei dall’altro, egli si considera un continuatore dei primi, in quanto difensore della filosofia «Civil, Social, Theistic» e deciso nemico dell’epicureismo antico, come pure di quella che Shaftesbury reputa la sua espressione moderna, incarnata da Thomas Hobbes7. Il pensiero di quest’ultimo viene asso5 Alcuni anni prima, in un passo scritto per la versione rivista dei Moralists, egli rivelava la sua personale inclinazione nei confronti dei progetti metafisici della filosofia contemporanea, e dichiarava di aborrire quelli di René Descartes, Benedictus de Spinoza, e di John Locke (Public Record Office of London [P.R.O.], 30/24/26/6 f., 32, r, v). Questo manoscritto è un volume rilegato di Supplements alla versione originale dei Moralists, che era stata intitolata The Sociable Enthusiast (L. e. kLein, Shaftesbury and the Culture of Politeness. Moral discourse and Cultural Politics in Early Eighteenth-Century England, Cambridge, Cambridge University Press 1994, p. 61). 6 P.R.O. 30/24/22/7, Shaftesbury a Pierre Coste, October 1st, 1706. Si veda anche The Life, Unpublished Letters, and Philosophical Regimen of Anthony, Earl of Shaftesbury, ed. by B. Rand, Bristol, Thoemmes Press 1995, p. 359. 7 Sul «secret Anti-Epicurean view» di Shaftesbury, si veda L. e. kLein, Shaftesbury and the Culture of Politeness, cit., pp. 60-69, che ho tenuto presente per la stesura di questo paragrafo.

76

angela tamabommelli

ciato, come nella letteratura antihobbesiana del tempo8, ad una costellazione di idee tra loro correlate: nominalismo, relativismo etico, scetticismo, ed ateismo da un lato; monismo materialista, concezione della natura umana fondata sull’egoismo, e assolutismo politico dall’altro. Oltre a Hobbes, i suoi bersagli preferiti sono il poeta John Wilmot, conte di Rochester, e gli autori di «inferior kind», coloro che, come ad esempio La Rochefoucauld, vengono definiti in maniera sprezzante «distributors distributors and petty retailers of this wit who have run changes, and divisions without end upon this article of self-love»9, i quali negherebbero qualsiasi motivazione altruistica e disinteressata nell’agire umano. Nell’elenco dei nemici epicurei figurano i libertini, che, identificando il bene con il piacevole e con il desiderabile10, sono i meno in grado di gustare la vita e dunque quel piacere che hanno eletto a scopo principale delle loro esistenze. Epicurei sono considerati anche gli odiati «nominal moralists», che considerano la virtù «nothing in itself, a creature of will only or a mere name of fashion»11, nel novero dei quali egli faceva rientrare anche John Locke, considerato un continuatore del progetto nominalista di Hobbes, per il suo anti-innatismo, volontarismo e convenzionalismo morale12. Shaftesbury lo accusò di aver esercitato un’influenza sul pensiero morale addirittura più devastante di quella di Hobbes: «’Twas Mr. Locke that struck at all Fundamentals, threw all Order and Virtue out of the World»13. In una lettera al 8 Su Hobbes, «reviver» dell’antico epicureismo, si veda Sensus Communis, an Essay on the Freedom of Wit and Humour [sc] in shAfTesBury, Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times [cmmoT], ed. by L. E. Klein, Cambridge, Cambridge University Press 1999, pp. 29-69: p. 55; trad. it., shAfTesBury, Scritti morali e politici, a c. di A. Taraborrelli, Torino, Utet 2007, pp. 145-202: p. 182. Sulle reazioni a Thomas Hobbes in Inghilterra si vedano s. i. minTz, The Hunting of Leviathan: Seventeenth-Century Reactions to the Materialism and the Moral Philosophy of Thomas Hobbes, Cambridge, Cambridge University Press 1962, e, più di recente, J. pArkin, Taming the Leviathan: the Receptions of Political and Religious Ideas of Thomas Hobbes in England (1640-1700), Cambridge, Cambridge University Press 2007. 9 SC, p. 56; trad. it., p. 183. 10 The Moralists, a Philosophical Rapsody [mor], in cmmoT, pp. 231338: p. 250 (trad. it., pp. 431-576: pp. 459-460). 11 mor, p. 262; trad. it., p. 475. Si veda anche sc, p. 38; trad. it., p. 159. 12 Shaftesbury interpretava così l’Essay Concerning Human Understanding (1690) di Locke (II, 28, pp. 5-13). 13 Shaftebury prosegue così la sua requisitoria contro Locke: «Virtue, according to Mr. Locke, has no other Measure, Law, or Rule, than Fashion and

shaftesbumw cmitico di descamtes

77

pupillo Ainsworth egli delinea chiaramente il rapporto genealogico che a suo giudizio legherebbe Hobbes, Locke e i Free Writers: In general truly it has happened, that those they call Free-Writers14 now-a-days, have espoused those Principles, which Mr. Hobbes set a foot in this last Age. Mr. Locke, as much as I honour him in account of other Writings, (viz. on Government, Policy, Trade, Coin, Education, Toleration etc.) and as well as I knew him, and can answer for his Sincerity as a most zealous Christian and Believer, did however go in the same Track, and is follow’d by the Tindal’s, and all the other ingenious Free Authors of our Time15.

Custom: Morality, Justice, Equity, depend only on Law and Will: And God indeed is a perfect Free Agent in his Sense; that is, free to any Thing, that is however Ill: For if he wills it, it will be made Good; Virtue may be Vice, and Vice Virtue in its Turn, if he pleases. And thus neither Right nor Wrong, Virtue nor Vice are any thing in themselves; nor is there any Trace or Idea of them naturally imprinted on Human Minds. Experience and our Catechism teach us all!», Shaftesbury to Ainsworth, June 3d, 1709, in The Ainsworth Correspondence. Standard Edition. Complete Works, Selected Letters, Posthumous Writings [se], ed. by W. Benda, G. Hemmerich et alii, Stuttgard-Bad Cannstatt, Fromman-Holzboog 1981-, II.4, pp. 311-471: p. 404. Egli riconobbe tuttavia a Locke il merito di aver contrastato l’influenza pervasiva e nociva dello scolasticismo sulla cultura inglese, giocando un ruolo eminente «against the Rubbish of the Schools; in which most of us have been bred up», Shaftesbury a James Stanhope, November 7th, 1709, in The Life, Unpublished Letters…, p. 416. Sul difficile rapporto con John Locke si veda p. cAsini, Nascita di un filosofo, in Il Gentleman Filosofo. Nuovi saggi su Shaftesbury, a c. di G. Carabelli e P. Zanardi, Padova, Il Poligrafo 2003, pp. 17-26. 14 Matthew Tindal (1657-1733), John Toland (1670-1722) e Anthony Collins (1676-1729). Mentre Shaftesbury considera se stesso e i suoi amici − Lord Somers (1651-1716), il general Stanhope (1673-1721) e Robert, poi visconte di Molesworth (1656-1725) − freethinkers, egli prende chiaramente le distanze Shaftesdai vari «Tindals & all ye other ingeniouse Authors» della sua epoca (Shaftesbury to Ainsworth, June 3d, 1709, in The Ainsworth Correspondence, se, ii.4, p. 403). 15 Shaftesbury to Ainsworth, June 3d, 1709, in se, ii.4, p. 402. In un’altra versione della lettera Shaftesbury prende le distanze dai princìpi espressi da Matthew Tindal, deista inglese, nell’opera The Rights of the Christian Church associated against the Romish and all other priests who claim an independent power over it, pt. i., (1706) (The Ainsworth Correspondence, se, ii. 4., p. 403). L’idea che Locke fosse un seguace di Hobbes non era inusuale ai tempi di Shaftesbury. Si veda, ad esempio, John Edwards (1637-1716) definito dal Conte «a great enemy of Mr Locke» in una lettera a Ainsworth (St. Giles’s, February 25th, 1706/7, The Ainsworth Correspondence, in se, ii.4, p. 349). John Edwards nel sermone The Eternal and Intrinsick Reasons of Good and Evil del 1699 non solo aveva accusato Locke di aver fatto dipendere

78

angela tamabommelli

È su questo sfondo che bisogna domandarsi se Descartes fosse visto come un alleato o come un nemico nella battaglia culturale che Shaftesbury stava ingaggiando contro i moderni Epicurei, contro coloro che non ammettevano alcuna moralità naturale, nessun valore assoluto, nessuna distinzione essenziale tra bene e male, tra ingiusto e ingiusto, se non quella derivante dalla convenzione e dai costumi. 3. In difesa del finalismo e del sé pratico Alcuni indizi sulla conoscenza diretta o indiretta di Descartes ci vengono dalla corrispondenza, dalle opere a stampa e dalla biblioteca di Shaftesbury.. Si apprende da alcune lettere scritte durante il Grand Tour in Europa che durante il soggiorno parigino del 1687, egli, ancora molto giovane, si era dedicato alla lettura di Montaigne, La Rochefoucauld e Descartes16. Lo studio della filosofia di quest’ultimo è documentato dalle diverse allusioni17, come pure dalle citazioni e dai riferimenti espliciti in nota18 presenti nella sua opera Characteristics of Men, Manners, Opinions and Times (1711-1714). Che poi egli possedesse materialmente i testi fondamentali della filosofia cartesiana lo si può evincere dal catalogo dei libri delle biblioteche di Saint-Giles e di Chelsea19, dove figurano le Opera philosophica (1664), le Epistolæ (1668) e

la virtù e il peccato dal consenso dell’uomo privato, ma aveva anche sostenuto che per tale credenza nella «precarious and arbitrary nature of Morality», l’Essay Concerning Human Understanding poteva essere considerato una sorta di «Leviathan Epitomiz’d» (citato in c. WiLson, The Epicureanism at the Origins of Modernity, Oxford, Oxford University Press 2008, pp. 215-216). 16 A. r. BArreLL, Shaftesbury and ‘Le Refuge Français’. Correspondence, Lewiston, Edwin Mellen Press 1989, p. 2. 17 Come nell’Inquiry Concernig Virtue or Merit [Vm], in CMMOT, pp. 163230: p. 229; trad. it., pp. 337-430: p. 429 e nel Soliloquy, or Advice to an Author [soL], in CMMOT, pp. 70-162: p. 135; trad. it., pp. 203-336: p. 296. 18 soL (pp. 130-132 e p. 135; trad. it., pp. 290-297) e Miscellany iV (in cmmoT, p. 420). 19 Catalogus Bibliothecae Chelseyanae, Comitis de Shaftesbury, Londini, 1708, Shaftesbury Papers (P.R.O. 30/24/23/10), Catalogus Librorum, Anglicorum, Gallicorum, Italicorum, &c., utriusque Bibliothecae, viz. Ægidianae and Chelseyanae, Comitis de Shaftesbury, Ægidiis, Anno Æroe, Christianae, 1709 (P.R.O. 30/24/23/11-12). Sulla biblioteca di Shaftesbury si veda h. meyer, Ex libris Shaftesburys: die Bibliothek eines europäischen Aufklärers, «Wolfenbütteler Forschungen», II, 1977, pp. 75-90.

shaftesbumw cmitico di descamtes

79

Les Passions de l’âme (1679)20. Nella ricezione della filosofia del francese esercitarono una influenza determinante i neoplatonici21 ed anticartesiani Ralph Cudworth22, che tentò una confutazione del meccanicismo del filosofo francese nell’Intellectual System of Universe (1678), e Henry More il quale, dopo una prima fase di entusiasmo nei confronti della filosofia cartesiana, ne fece l’oggetto principale dei suoi attacchi nell’Enchiridion Metafisicum (1671)23. In generale, gli anni della formazione di Shaftesbury

20 Nella biblioteca del fi filosofo losofo non mancano testi di autori cartesiani, quali La Logique ou l’art de penser (1685) di Antoine Arnauld e Pierre Nicole, De la Recherche de la vérité (1674) di Nicolas Malebranche, De la Connaissance de soi même (1694-1696) di François Lamy. Vi figurano, inoltre, le opere di alcuni divulgatori della filosofia cartesiana, tra le quali gli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686) di Bernard le Bovier de Fontanelle, il Dictionnaire Historique et Critique (1702), il Philosophical Commentary (1708) e le Reflections Occasion’d by the Comet (ed. 1708) di Pierre Bayle. 21 Sul rapporto tra Shaftesbury e i neoplatonici di Cambridge, si vedano A. BABoLin, Morale e religione in Shaftesbury, «Rivista di Filosofia Neoscolastica», LXXVI, 1984, pp. 560-568, m. micheLeTTi, ‘Animal capax religionis’. Da Benjamin Whichcote a Shaftesbury, Perugia, Benucci 1984. 22 Per i rapporti di Cudworth con l’opera di Descartes si veda J. A. pAssmore, Ralph Cudworth. An Interpretation, Cambridge, Cambridge University Press 1951, e. cAssirer, Die Platoniche Renaissance in England und die Schule von Cambridge, Leipzig u. Berlin, Teubner 1932, B. LoTTi, Ralph Cudworth e l’idea di natura plastica, Udine, Campanotto 2004. Shaftesbury accenna alla nozione di «plastic nature» nel Soliloquy (p. 93; trad. it., pp. 236-237), difende The Intellectual System of Universe nei Moralists (mor, pp. 264-265; trad. it., pp. 477-478), e riporta il giudizio ironico del cantabrigense sugli atei, i quali sarebbe affetti da una forma di «pneumatophobia», vale a dire di fobia per le sostanze immateriali (Miscellany II, in CMMOT, p. 366). 23 Il titolo per esteso è eloquente: Enchiridion Metaphysicum: Sive, De Rebus Incorporeis Succincta et luculenta Dissertatio. Pars Prima: De Exsistentia et Natura Rerum Incorporearum in Genere. In qua quamplurima Mundi Phaenomena ad Leges Cartesii Mechanicas obiter expenduntur, illiusque Philosophiae, et aliorum omnino omnium qui Mundana Phaenomena in Causas pure Mechanicas solvi posse supponunt, Vanitas Falsitasque detegitur. Fu More a coniare il termine «Cartesianism», apparso per la prima volta nel 1662 nella ‘Preface General’ a h. more, A Collection of Several Philosophical Writings. Secondo Alan Gabbey, con tale termine il filosofo intendeva designare il revival contemporaneo della filosofia atomistica, una fisica e una cosmologia che con il suo crudo materialismo conteneva in sé i semi dell’empietà. Secondo Charles Webster, More «was at once responsible for stimulating the English interest in Descartes, and in curtailing the development of English Cartesianism». id., Henry More and Descartes: Some New Sources, «The British Journal for the History of Science», IV, 1969, pp. 359-377: p. 362.

80

angela tamabommelli

corrispondono ad un periodo di forte ostilità nei confronti della filosofia cartesiana e dei suoi sedicenti seguaci24, documentata, tra l’altro, dalla pubblicazione in Inghilterra di traduzioni di opere anticartesiane25. Se si tiene presente l’obiettivo polemico di Shaftesbury, l’Epicureism, e l’ambiente culturale in cui si sviluppò il suo pensiero, si comprende l’atteggiamento critico che egli manifestò nei confronti del filosofo francese già negli anni giovanili della sua formazione. Uno dei primi riferimenti a Descartes si trova nella lettera a Locke del 1694: It is not with mee as with an Empirick, one that is studdyng of Curiositys, raising of new Inventions that are to gain credit to the author, starting of new Notions that are to amuse the World and serve them for Diverting or for tryall of their Acuteness […] Descartes, or Mr Hobbs, or any of their Improvers have the same reason to make a-doe, and bee Jealouse about their notion’s and discoVery’s, as they call them; as a practizing Apothecary or a mountebank has to bee Jealouse about the Compositions that are to goe by his name […] for my part: I am so far from thinking that mankind need any new Discoverys […] the thing that I would ask of God should bee to make men live up to what they know; and that they might bee so wise as to desire to know no other things then what belong’d to em, and what lay plain before them […]. What I count True Learning, and all wee can profitt by, is to know our selves 24 Interessante sarebbe indagare il ruolo giocato da John Toland (16701722) nella ricezione di Descartes da parte di Shaftesbury.. Toland prese posizione contro la filosofia naturale cartesiana nelle Letters to Serena (London, B. Lintot 1704) in id., Opere, a c. di C. Giuntini, Torino, Utet 2002, pp. 189-335. Nelle lettere IV e V, egli contrappone una visione unitaria del cosmo ai sistemi contemporanei di filosofia naturale di Descartes,, Spinoza e Newton. Nella lettera IV, Toland definisce il sistema di Cartesio «al più un ingegnoso romanzo filosofico» (p. 291) con riferimento all’origine del cosmo descritta nel manoscritto Le monde (1633) e, successivamente, nei Principia philosophiae (1644); nella lettera V, v’è la critica alla concezione della materia di Descartes e alla dottrina degli animali-macchina (p. 333) (l’Homme I-II e Passions VI-XVI). Per i rapporti con Toland, si veda almeno p. cAsini, L’universo macchina. Origini della filosofia newtoniana, Roma-Bari, Laterza 1969, pp. 205 ss. 25 r. ArieW-d. gArBer, Introduction a Works in Translation, pp. XVIIXXI, in Descartes in Seventeenth-Century England, ed. by R. Ariew-D. Garber, Thoemmes Press, Bristol 2002, voll. 10: I; e le ristampe delle seguenti opere: [John Davies], Reflections upon Monsieur Des Cartes’s Discourse of a Method (1654), [Ignace Gaston Pardies], A Discourse of Local Motion (1670), Johann Schuler, Examinis philosophiae Renati Des-Cartes specimen (1685), [Gabriel Daniel], A Voyage to the World of Cartesius (1692), [Edward Howard], Remarks on the New Philosophy of Des-Cartes (1700) (rispettivamente nei voll. VII, VIII, IX).

shaftesbumw cmitico di descamtes

81

[…] whilst Such are Philosophers and Such Philosophy whence I can Learn ought from, of this kind; there is no Labour, no Studdy, no Learning that I would not undertake26.

Nell’accostare Hobbes a Descartes, senza entrare nel merito dei contenuti, Shaftesbury mostrava di essere interamente immerso in un clima culturale nel quale era ormai considerato ovvio assimilare il sistema cartesiano al «mostruoso materialismo hobbesiano»27. Per parte sua, egli li vedeva accomunati da un identico desiderio di introdurre new notions e new Discoverys28, nella presunzione di poter fare a meno della saggezza degli antichi, e di poter eludere la questione del ‘conosci te stesso’. In definitiva, la filosofia moderna gli appariva del tutto insoddisfacente, se non addirittura ridicola perché, come avrebbe ribadito quindici anni più tardi in una lettera al suo protegé Ainsworth, all that we call Improvement of our Minds in dry and empty Speculation; all Learning or whatever else, either in Theology or other Science,

26 The Correspondence of John Locke, ed. by E. S. De Beer, Oxford, Clarendon Press 1976-1989, voll. 8: V, pp. 150-154, cit. da L. e. kLein, Shaftebury and the Culture of Politeness, cit., p. 27 (corsivo mio). 27 Così Douglas Jesseph: «The decline on Descartes’s reputation among English philosophers was the suspicion that the Cartesian system was tainted by a too-great similarity with monstrous Hobbesian materialism» (d. Jesseph, Mechanism, scepticism, and witchcraft. More and Glanvill on the failures of the Cartesian philosophy, in Receptions of Descartes, cit., pp. 199-217: p. 201). 28 Vale la pena ricordare che l’accusa di arroganza nei confronti della new philosophy era un luogo comune. Shaftesbury potrebbe aver mutuato tale giudizio da Meric Casaubon il quale, nel Treatise Concerning Enthusiasme (1655), testo che figura nella biblioteca del Conte, Descartes viene paragonato a Numa Pompilio. Secondo Casaubon, sia il filosofo che il re avrebbero cercato «to make their lawes received as oracles», vestendo in modo scaltro le proprie opinioni con il garbo della novità, e avrebbero invece attribuito la fonte della saggezza dei loro oppositori ai «fruits of caves, and darknesse» (p. 172). Dieci anni dopo, egli tornava sul tema: «intolerable pride and arrogancie…being the chiefest foundation of both [Descartes e Hobbes]»; Descartes, «with no less confidence [di Hobbes], though not soe great luck, doth take upon him to be the oracle of the world; who would make the world beleeve noe such thing was in the world, truly and really, as art, or science, or philosophie, till he was borne and began to wryte». È ovvio, concludeva Casaubon, che «the designe of both is and hath beene, but of Cartesius particularly, that all other bookes and learning should be layd aside as needless, but what came from him, or was grounded upon his principles», cit. da m. feingoLd, Matematical Sciences and New Philosophy, in The History of the University of Oxford: Seventeenth-Century Oxford, ed. by N. Tyacke, Oxford, Oxford University Press 1997, pp. 359-448: pp. 399-400.

82

angela tamabommelli

which has not a direct and immediate Tendency to render us honester, milder, juster, and better, is far from being justly so call’d. And even all that Philosophy which is built on the Comparison and Compounding of Ideas, complex, implex, reflex, and all that Dinn and Noise of Metaphysicks; all that pretended Study and Science of Nature call’d Natural Philosophy, Aristotelian, Cartesian, or whatever else it be; all those high Contemplations of Stars and Spheres and Planets; and all the other inquisitive Curious de Parts of Learning, are so far from being necessary Improvements of the Mind, that without the utmost Care they serve only to blow it up in Conceit and Folly, and render Men more stiff in their Ignorance and Vices29.

Giunto ormai alla maturità, Shaftesbury criticava non solo il formalismo e le pretese dimostrative e sistematiche della tradizione scolastica, che ancora sopravviveva nelle scuole e che rappresentava un bersaglio polemico ormai consolidato nella cultura inglese di fine Seicento, ma si opponeva anche alla teoria della conoscenza di Locke, alla metafisica, così come alla filosofia naturale contemporanee. Descartes viene collocato nella schiera dei filosofi della natura in compagnia di Aristotele, in ragione di una valutazione negativa dei loro sistemi; tuttavia non gli sfuggiva la distanza che separava tali sistemi dalle indagini meramente empirico-descrittive della natura, spesso non disgiunte da una insana ricerca di «rarity for rareness’s sake», che Shaftesbury non aveva mancato di mettere in ridicolo nei suoi scritti30. Egli suggeriva al discepolo di impegnarsi nell’acquisizione di una «true Learning», e di abbandonare quella che veniva erroneamente giudicata tale. Consigliava quindi la lettura del «divine Plato», di sospendere per un poco la lettura di Epitteto, e di dedicarsi allo studio di Marco Aurelio e di Luciano. Negli scritti editi31 degli stessi anni, egli si esprimeva in termini negativi nei confronti della scienza naturale, per la Shaftesbury to Ainsworth, January 28th, 1709, SE, ii.4, p. 376. Nella Miscellany iii, ridicolizza gli «inferior virtuosi» che tralasciano lo studio degli esseri umani per l’esame minuto «of of the insect life, the conveniencies, habitations and economy of a race of shell-fish». In questa ricerca per le rarità, essi sono portati ad amare la rarità per amore delle rarità: e poiché le più grandi rarità del mondo sono i mostri, lo studio di costoro finisce quasi sempre per essere interamente dedicato al mostruoso, a ciò che è disarmonico e discordante (in cmmoT, p. 405; trad. it., p. 594). Secondo Aldridge, qui vi sarebbe un riferimento anti-newtoniano, perché per Shaftesbury tali ricerche sarebbero il riflesso dello zelo newtoniano nei confronti della ricerca microscopica (A. o. ALdridge, Shaftesbury and the Deist Manifesto, «American Philosophical Society Transactions», XXXXI, 1951, pp. 307-308: p. 303). 31 SOL, pp. 129-133; trad. it., pp. 290-297. 29

30

shaftesbumw cmitico di descamtes

83

sua pretesa di porsi come misura della conoscenza, subordinando ad essa la filosofia, o snaturandone l’originaria funzione riassunta magistralmente, secondo Shaftesbury,, nell’adagio ciceroniano «vita dux, virtutis indagatrix»32. La scienza naturale moderna meccanicista e quantitativa aveva sviluppato e diffuso una concezione della natura che risultava pericolosa per le sue implicazioni morali. Il rifiuto degli studi scientifici, della concezione meccanica della filosofia cartesiana, e della riflessione filosofica sui concetti naturali di materia, movimento, tempo e spazio33, vanno letti nella prospettiva di un autore animato dall’intento di difendere una concezione della natura − di matrice neoplatonica nella versione elaborata da Cudworth e di More − compatibile con una morale realista, in opposizione al nominalismo e al convenzionalismo etico. Una natura così concepita risultava funzionale alla duplice esigenza di combattere in campo morale sia gli esiti del materialismo incarnato da Hobbes e dai suoi seguaci, che del volontarismo e relativismo incarnati da Locke. Per confutare l’idea che il bene e il male, il giusto e l’ingiusto siano misure arbitrariamente imposte per institution da autorità esterne, bisognava dimostrare che essi esistono realmente, che sono ‘iscritti’ nella natura. Perciò, diversamente dai suoi predecessori, Shaftesbury non segue la strategia adottata da Cudworth e More, che in un primo momento avevano tentato di conciliare meccanicismo e finalismo, ma esprime un giudizio senza appello: la concezione meccanicista della natura di Descartes,, eliminando le cause finali, finali, aveva favorito e favoriva tuttora l’Epicureism e, pertanto, andava respinta.

32 Vale la pena ricordare che More aveva scelto questo stesso adagio per il frontespizio dell’Enchiridion Ethicum (H. more, Enchiridion Ethicum, Praecipua Moralis Philosophiae Rudimenta complectens, illustrata ut plurimum Veterum Monumentis, et ad Probitatem Vitae perpetuo accomodata, London, J. Flescher 1667 e Cambridge, W. Morden 1667). Qui si farà riferimento alla ristampa anastatica dell’edizione del 1679 (Londini, J. Macock) in h. more, Opera omnia, Hildesheim, Georg Olms 1966, voll. II:1, pp. 1-103 [EE]. L’opera fu in seguito tradotta in inglese da Edward Southwell e pubblicata con il titolo An Account of Virtue, or, Dr. Henry More’s Abridgment of Morals, put into English, by ‘K.W.’, printed for Benjamin Tooke, London 1690. Sul tema delle passioni nell’EE, si veda m. micheLeTTi, Amor Intellectualis. Passioni e virtù nell’Enchiridion Ethicum di Henry More, in La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, a c. di F. Botturi, F. Totaro, C. Vigna, Milano, Vita e pensiero 2002, voll. 2: II, pp. 927-944. 33 Si veda il celebre ‘Inno alla natura’ nella terza parte dei Moralists (mor, pp. 298 ss.; trad. it., pp. 522 ss.).

84

angela tamabommelli

Shaftesbury affronta Descartes anche su un altro terreno. Nelle Characteristics, trattando il tema del ‘conosci te stesso’, egli esprime la convinzione di chiara ispirazione socratica che la conoscenza in generale dipende dalla conoscenza di se stessi, e che la certezza riguardo a ciò che si è rappresenta la fonte e il modello di ogni certezza in generale. Da questo punto di vista, e fuori dal contesto del dubbio iperbolico, il cogito è visto come una declinazione inappropriata del ‘conosci te stesso’ socratico, e un modello inadeguato di certezza. ‘We think; therefore we are’, which is a notably invented saying, after the model of that like philosophical proposition, that ‘What is, is’. Miraculously argued! ‘If I am, I am’. Nothing more certain! For the Ego or I, being established in the first part of the proposition, the ergo, no doubt, must hold it good in the latter34.

Shaftesbury argomenta il rifiuto del cogito per la sua presunta debolezza sul piano logico e morale. Il cogito cartesiano, nella formulazione presente nel Discours de la méthode, è interpretato con toni gassendiani come il prodotto di una «seeming logic», trattandosi di una logica dell’identità capace di produrre una certezza di natura semplicemente tautologica. Tale certezza è considerata da Shaftesbury inutile dal punto di vista morale perché, egli fa osservare, il soggetto morale può benissimo agire risolutamente anche sulla base della semplice supposizione della propria esistenza35. Il cogito, inoltre, non offre una conoscenza certa di quale sia la vera natura del soggetto morale, e non dice alcunché riguardo a come questi permanga nel tempo uno e medesimo36.

Miscellany IV, in CMMOT, p. 420. Egli lascia affrontare ad altri autori simili sottili speculazioni. Per parte mia, egli scrive, «I take my being upon trust» (Miscellany IV, in cmmoT, p. 421). 36 […] That there is something undoubtedly which thinks, our very doubt itself and scrupulous thought evinces. But in what subject that thought resides, and how that subject is continued one and the same so as to answer constantly to the supposed train of thoughts or reflections which seem to run so harmoniously through a long course of life, with the same relation still to one single and self-same person, this is not a matter so easily or hastily decided by those who are nice self-examiners or searchers after truth and certainty (Miscellany IV, in cmmoT, p. 420; corsivo mio). Shaftesbury fa osservare nel paragrafo successivo che anche la soluzione al problema dell’identità personale proposta da Locke è inadeguata, vista la fallibilità della memoria. Sul tema dell’identità personale, L. JAffro, Shaftesbury and the ‘cogito’. An Intermediary 34

35

shaftesbumw cmitico di descamtes

85

Misurato in relazione a tali questioni, il cogito cartesiano risulta ampiamente inadeguato, e non potrebbe essere altrimenti perché, questo è il ragionamento di Shaftesbury, se esso non dice nulla di nuovo e di ulteriore rispetto al senso comune per quanto riguarda la nostra esistenza come soggetti, esso a fortiori non può gettare nuova luce sulla natura del self e sull’identità personale37. Per Shaftesbury,, cui non interessa la definizione definizione gnoseologica o metafisica di identità personale, ma piuttosto l’esperienza dell’identità del proprio self di fronte a se stessi in quanto soggetti morali, il sé pratico, fonte e garanzia dell’identità personale, coincide con una volontà determinata e risoluta38. In un’aggiunta all’edizione del 1711 dell’Inquiry concernente l’ipotesi che l’esistenza sia un mero sogno, Shaftesbury, con ovvio riferimento a Descartes, fa osservare che se anche adottassimo il dubbio radicale relativo all’esistenza del mondo esterno, non potremmo dubitare di ciò che accade dentro di noi: «our passions and affections are known to us. They are certain, whatever the objects may be on which they are employed»39. Le passioni e le affezioni sono, come vedremo, l’altro terreno su cui si gioca la valutazione di Shaftesbury della filosofia cartesiana.

between Gassendism and the Common Sense School, in Il gentleman filosofo, cit., pp. 111-125: p. 114; k. WinkLer, ‘All is Revolution in Us’: Personal Identity in Shaftesbury and Hume, «Hume Studies», XXVI, 2000, pp. 3-40; A. TArABorreLLi, ‘Universal Mind’ ed ‘Enlarged mind’ nel pensiero di Shaftesbury, in Per una storia del concetto di mente, a c. di E. Canone, Firenze, Olschki 2007, pp. 249-266. Preziose osservazione sul self shaftesburiano si trovano anche in J. B. schneeWind, The Invention of Autonomy: A History of Modern Moral Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press 1998, pp. 307-308. Sul sé pratico assai utile è la lettura di f. crispini, L’etica dei moderni. Shaftesbury e le ragioni della virtù, Roma, Donzelli 2001. 37 Cfr. L. JAffro, Shaftesbury and the ‘cogito’, cit., p. 114. 38 soL, p. 84; trad. it., p. 224. Un uomo, scrive Shaftesbury, «by working upon his own mind, to withdraw the fancy or opinion of good or ill from that to which justly and by necessity it is not joined, and apply it with the strongest resolution to that with which it naturally agrees» può acquisire un sé pratico, e può «[…] reasonably conclude that it becomes him» (Miscellany iV, in cmmoT, p. 423; corsivo mio). 39 Op. cit, in cmmoT, p. 229. Anche per Descartes non si può essere ingannati dalle passioni, «perché esse sono così vicine e interne alla nostra anima, che è impossibile che essa le senta senza che siano veramente tali quali le avverte» (Les Passions de l’âme [pA], XXVI, in AT, XI, pp. 291-497: p. 348; trad. it. in r. descArTes, Opere filosofiche, a c. di E. Lojacono, Torino, Utet 1994, voll. ii: 2, pp. 577-702: pp. 610-611.

86

angela tamabommelli

4. Le ‘Passions de l’âme’ in Inghilterra Giova, a questo punto, prima di intraprendere l’esame del giudizio di Shaftesbury sulla teoria delle passioni di Descartes,, ricordare i passaggi salienti della fortuna delle Passions de l’âme in Inghilterra40. Il trattato fu tradotto in inglese da un anonimo per la prima volta nel 165041, un anno dopo la sua pubblicazione. Nel 1664 l’editore Jonas Hart di Londra fece stampare quattro opere cartesiane nella versione latina in due volumi, l’uno contenente i Principia, gli Specimina e le Passiones Animae, e l’altro le Meditationes. Nel 1670 veniva tradotto dal francese in inglese Copie d’une Lettre écrite à un sçavant religieux de la Compagnie de Jesus di Géraud de Cordemoy, il quale, sotto lo pseudonimo M. des Fourneillis, si proponeva di dimostrare come il sistema di Descartes e, in particolare, la sua opinione riguardo ai bruti non contenesse alcunché di nocivo alla religione, e come non solo essa fosse compatibile con il testo biblico, ma addirittura tratta dal primo capitolo della Genesi. A tale traduzione era allegato il Systeme general di François Bayle42, un compendio contenente

40 Manca uno studio complessivo sulla fortuna e sulla ricezione delle Passions de l’âme in Inghilterra. Vi sono isolati contributi sull’influenza delle Passions su Henry More (cfr. J. TuLLoch, Rational Theology and Christian Philosophy in England in the Seventeenth Century, 2 voll.: II. The Cambridge Platonists, Edinburgh-London 18742; rist. Hildsheim, G. Olms 1966, pp. 402-404; W.c. de pAuLey, The Candle of the Lord: Studies in the Cambridge Platonists, London, S.P.C.K. 1937, pp. 134-141; n. fiering, Moral Philosophy at Seventeenth-Century Harvard: A discipline in Transition, Chapel Hill, University of North Caroline Press 1981, pp. 268-274); su John Smith (cfr. J. e. sAVeson, Descartes’ Influence on John Smith, Cambridge Platonist, cit.); sui medici Charleton e Ramesey e sui filosofi More e Smith (cfr. c. TiLmouTh, Generosity and the Utility of the Passions: Cartesian Ethics in Restoration England, cit.). 41 The Passions of the Soule in Three Books. The First, Treating of the Passions in Generall, and Occasionally of the Whole Nature of Man. The Second, of the Number, and Order of the Passions, and the Explication of the Six Primitive Ones. The Third, of Particular Passions. By R. des Cartes. And translated out of French into English, London, Printed for A. C. and are to be sold by J. Martin, and J. Ridley 1650. L’identità del traduttore è sconosciuta. Esiste una edizione on line delle Passions of the Soule basata sulla edizione inglese del 1650 (Claremont Claremont Graduate University, The Descartes Web Site, Department of Philosophy, corredata dalle concordanze a c. di Stephen Voss) e una ristampa in Descartes in Seventeenth-Century England, cit., vol. I. 42 Géraud de cordemoy, Copie d’une Lettre écrite à un sçavant religieux

shaftesbumw cmitico di descamtes

87

una breve sezione in cui l’autore riportava fedelmente la definizione cartesiana delle passioni, limitandosi ad elencare le sei passioni primitive; dopo aver sottolineato la stretta connessione delle passioni con il corpo, ne descriveva l’utilità in termini di capacità o incapacità di rafforzare il benessere fisico. Nel 1685 veniva pubblicato un manuale sul pensiero etico di Descartes,, che il curatore era riuscito sapientemente a comporre mettendo insieme alcune parti tratte dalla corrispondenza con la principessa Elisabetta di Boemia, una sinossi dalla versione latina delle Passions, nonché traduzioni latine della corrispondenza con Pierre Chanut. Tale manuale era stato inserito nel curriculum studiorum dell’università di Cambridge, e aveva conosciuto un’ampia e duratura diffusione, tanto da essere ripubblicato più volte nei decenni successivi43. Come indicato precedentemente, la critica ha rivolto scarso interesse a Les Passions de l’âme nel delineare la ricezione di Descartes in Inghilterra. Foster Jones, nel volume dedicato alla nascita del movimento scientifico nel XVII secolo in Inghilterra44, descrivendo gli attacchi rivolti agli antichi da esponenti provenienti dall’ambiente accademico, faceva osservare come la natura di tali attacchi, e le altre caratteristiche del movimento scientifico inglese, fossero modellati sul pensiero di Helmont, Gassendi e Descartes, così come di altri autori continentali, e che due o tre traduzioni apparse in quel periodo avrebbero meritato senz’altro maggiore considerazione. Egli citava, oltre al Discourse of a

de la Compagnie de Jesus pour montrer, I. Que le système de Monsieur Descartes et son opinion touchant les bestes, n’ont rien de dangereux. II. Et que tout ce qu’il en a écrit, semble estre tiré du premier chapitre de la Genèse (Paris, 1669). Traduzione inglese: A discourse written to a learned frier [= Gabriel Cossart], by M. Des Fourneillis [= Géraud de Cordemoy]; shewing, that the systeme of M. Des Cartes, and particularly his opinion concerning brutes, does contain nothing dangerous; and that all he hath written of both, seems to have been taken out of the first chapter of Genesis. To which is annexed the Systeme general of the same Cartesian philosophy. By Francis Bayle, Dr. of physick at Tholose. Englished out of French, London, M. Pitt 1670 [François Bayle, The General Systeme of the Cartesian Philosophy (1670)], in Descartes in Seventeenth-Century England, cit., vol. X, pp. 63-139. 43 Ethice. In Methodum et Compendium, Gratiâ Studiosae juventutis, Concinnata (Londini, 1685), in Descartes in Seventeenth-Century England, cit., Introduction, p. iX. 44 Ancients and Moderns. A Study of the Rise of the Scientific Movement in Seventeenth-Century England, Berkeley and Los Angeles, University of California Press 1965.

88

angela tamabommelli

Method del 164945, nella cui prefazione l’autore era salutato come «the great Des Cartes who may justly challenge the first place among the Philosophers of this Age», la traduzione di un’altra opera del francese, vale a dire The Passions of the Soule del 165046 che, come viene documentato da un recente contributo47, esercitò una certa influenza nel periodo della Restaurazione e, in particolare, sulle opere dei medici Walter Charleton (1619-1707)48 e William Ramesey (1627–1676?)49, e dei filosofi Henry More (16141687) e John Smith (1618-1652). 45 [Anonimo], A Discourse of a Method for the well-guiding of Reason, and the Discovery of Truth in the Science, London, printed by Thomas Newcombe, for John Holden 1649. 46 The Passions of the Soule in three Books by R. des Cartes, and Translated out of French into English, London 1650. 47 c. TiLmouTh, Generosity and the Utility of the Passions: Cartesian Ethics in Restoration England, cit. 48 Medico e traduttore prima di Van Helmont e poi di Gassendi, divulgatore del materialismo in Inghilterra e appartenente al circolo di Newcastle. Tilmouth ha contribuito a smentire la tradizionale convinzione che The Natural History of Passions (1674) di Charleton fosse solo un compendio del trattato De l’usage des passions (Paris, 1641) di J.F. Senault (proseguendo la via inaugurata da r. A. hunTer-e. cuTTLer, Walter Charleton’s ‘Natural History of the Passions’ (1674) and J. F. Senault’s ‘The Use of Passions’ (1649): A Case of Mistaken Identity, «Journal of the History of Medicine and Allied Sciences», XIII, 1958, pp. 87-92), e ha sottolineato il debito del medico inglese nei confronti delle Passions di Descartes. Secondo Tilmouth, nell’Immortality of the Human Soul Demonstrated by the Light of Nature del 1657 vi sono richiami agli articoli XXXXV-XXXXViii del trattato cartesiano, testo di riferimento delle pagine 87-188 della Natural History of Passions. Diversamente da quanto segnalato da Tilmouth, Charleton doveva aver letto le Passions già nel 1652, giacché in The Darkness of Atheism dispelled by the Light of Nature, un testo di teologia naturale pubblicato in quello stesso anno, egli fa riferimento al rimedio generale contro l’eccesso delle passioni raccomandato nella III parte dell’opera di Descartes e lo definisce un «Exemplar», un modello utilizzabile anche per prevenire le illusioni del nostro intelletto e la seduzione della volontà esercitata da un male travestito da bene (op. cit., cap. VII.2.17-18, in Descartes in Seventeenth-Century England, cit., pp. 274-275). 49 William Ramesey (1627–1675/6) estimatore della «Experimental Experimental Philosophy», specialmente della «Cartesian», e appassionato lettore di Joseph Glanvill, William Harvey e Thomas Willis. Nell’opera, tanto composita quanto eterogenea, vi sono cinquanta pagine ispirate alle Passions, in cui, a giudizio di Tilmouth, viene delineata una tassonomia delle passioni in tutto simile a quella presente nel testo cartesiano, e offerta una trattazione del tema della generosità, intesa come qualità-virtù essenziale per la costruzione dell’ideale del gentleman.

shaftesbumw cmitico di descamtes

89

5. Contro l’‘Homme-machine’ Shaftesbury riprende la critica al meccanicismo cartesiano dei suoi predecessori Cudworth e More nel Soliloquy, or Advice to an Author (1710), ma sia qui che nell’Inquiry Concerning Virtue, or Merit – dove si trova, stando alle sue parole, la trattazione più sistematica della sua teoria delle affezioni (1699, 1711)50 – assume una sua personale linea di condotta nei confronti di Descartes. Nel Soliloquy, dedicato principalmente a comprendere chi sia autorizzato a dare consigli agli autori, e in che modo, Descartes viene chiamato in causa quale esempio di filosofia «super-speculative», in cui vengono fatti rientrare sia i «physiologists» sia i «searchers of modes and substances»51. Gli uni e gli altri, secondo Shaftesbury,, non sarebbero superiori agli altri uomini riguardo alle loro passioni: la pretesa conoscenza della macchina del mondo e della propria costituzione non rappresenterebbe un beneficio né per il mondo né per loro stessi, e lungi dal produrre in «codesti gentiluomini» una «sort of magnanimity» − espressione che allude chiaramente alla genérosité cartesiana − quale segno distintivo, finirebbe al contrario per indurli ad assumere un atteggiamento presuntuoso ed arrogante. Il riferimento a Descartes si fa ancora più esplicito quando Shaftesbury accenna a coloro che hanno «treated treated formally of the passions in a way of natural philosophy», i quali immaginano di essere i più saggi e i più esperti riguardo al proprio carattere e a quello del genere umano, pur essendo, in verità, i meno capaci di esercitare un controllo sulle proprie passioni, di essere scevri da superstizioni e paure, e al riparo dall’illusione. Come rimedio contro la superstizione, la paura, e l’illusione, egli raccomanda il «familiar familiar method of soliloquy», considerato di gran lunga più utile della teoria cartesiana delle passioni. Contro Descartes egli argomenta che il principio meccanico risulta inadeguato persino per comprendere ciò che dovrebbe rappresentare il simbolo stesso del meccanicismo, vale a dire l’orologio. E se non è possibile comprendere il complesso meccanismo dell’orologio senza prendere in considerazione per quale fine sia stato creato, a fortiori esso non potrà offrire una comprensione appropriata dell’uomo in quanto agente morale. Shaftesbury, così come già More, non critica il meccanicismo in sé, bensì il riduzionismo di alcune posizioni che pretendono di 50 51

sc, p. 54; trad. it., p. 181; cfr. infra, n. 61. soL, p. 130; trad. it., p. 289.

90

angela tamabommelli

spiegare la natura e l’uomo attraverso le sole cause meccaniche. Con chiaro riferimento al filosofo francese, egli fa osservare che Should a philosopher, […], employing himself in the study of human nature, discover only what effects each passion wrought upon the body, what change of aspect or feature they produced and in what different manner they affected the limbs and muscles, this might qualify him to give advice to an anatomist or a limner but not to mankind or himself, since, according this survey, he considered not the real operation or energy of his subject, nor contemplated the man, as real man and as a human agent, but as a watch or common machine.

Essendosi limitato ad offrire una descrizione delle passioni da «physiologist», Descartes non è accreditato a dare consigli a se stesso, né tanto meno agli altri uomini. Come potrebbe, infatti, dare consigli chi nel descrivere la paura offre una minuziosa descrizione del movimento degli spiriti animali nei muscoli, senza dire alcunché sul modo di temperare le paure e rafforzare il coraggio? La paura non aumenta o diminuisce a causa degli spiriti animali, ma per l’influenza dell’opinione e del costume. Allo stesso modo, se si è oppressi dalla superstizione, non è affatto interessante sapere «to what parts or districts the blood or spirits are immediately detached or where they are made to rendezvous»52: la sola cosa che importa, secondo Shaftesbury, è capire che dipende da noi regolare tali passioni. Shaftesbury si sentiva autorizzato a liquidare le Passions de l’âme con ironia sferzante, come il prodotto di una filosofia che si era allontanata dalla sua originale missione, e che non si prestava a servire da guida per la formazione morale perché aveva commesso il grande peccato di considerare l’uomo, al pari degli animali, come una macchina53. Non è chiaro se Shaftesbury fosse consapevole 52

53

soL, p. 131 e p. 132; trad. it., p. 291 e p. 292.

Si veda Miscellany IV, dove egli fa allusione ironicamente alla «profound modern hypothesis of animal insensibility» » ed invita, in opposizione a questa, a credere «firmly and resolutely that other creatures have their sense and feeling, their mere passions and affections, as well as ourselves» (in CMMOT, p. 428; trad. it. a c. di. P. Casini, Saggi morali, Bari, Laterza 1962, pp. 420-421). Si veda anche l’Inquiry, dove riassume i paragrafi precedenti nel modo seguente: «It has been shown before that no animal can be said properly to act otherwise than through affections or passions, such as are proper to an animal» (VM, p. 195; trad. it., p. 383). Nei Second Characters, Shaftesbury accenna a «those philosophers (modern) the poorest and most shifting, for the sake of a system,

shaftesbumw cmitico di descamtes

91

del fatto che Descartes non aveva eliminato le cause finali per spiegare il movimento volontario umano. Di fatto, egli sembra considerare tutta l’operazione filosofica di Descartes intorno alle passioni come il risultato della scelta di usare quale unico principio di spiegazione dell’agire umano le sole cause efficienti. Pur di difendere l’obiettivo di fondare saldamente un «nuovo umanesimo»54, Shaftesbury era disposto a rinunciare ai vantaggi che lo studio della componente fisiologica delle passioni avrebbe potuto recare ad un filosofo morale: essa rappresentava infatti un contributo alla conoscenza della natura umana e delle sue reali possibilità di «self-improving», offrendo una considerazione dell’uomo capace di tenere conto della sua costituzione reale e, dunque, delle difficoltà oggettive che avrebbe dovuto affrontare chiunque avesse voluto essere master of passions55. Ma a Shaftesbury premeva contrastare una tendenza culturale, ormai invalsa, che egli riassumeva con tali parole:

hypothesis, who, surpassing all ancient conceits and extravagances of the kind, deny ideas, sense perception, (i.e. life) to animals» (Second Characters, or the Language of form, B. Rand (ed.), Cambridge, Cambridge University Press 1914, pp. 105-107, cit. in A. O. ALdridge, Shaftesbury and the Deist Manifesto, cit., p. 330. La critica alla concezione dell’animalemacchina esposta da Descartes nell’Homme e nelle Passions des l’âme (VI-XVI) era diventata un topos nella letteratura inglese della seconda metà del XVII secolo. Si vedano, ad esempio, le reazioni dei medici Thomas Willis (1621-1675) nel De anima brutorum quae Hominis Vitalis ac Sensitiva est Exercitationes Duae (Oxford, due edizioni 1672, quarto e octavo; London, R. Davis, 1672), e Walter Charleton nella Natural History of the Passions (London: printed by T. N. for James Magnes and Richard Bentley 1674); e dei filosofi Ralph Cudworth, nel The True Intellectual System of the Universe (London: R. Royston 1678, in particolare Digression on Plastic Nature, 14-16) e Henry More. Quest’ultimo nella lettera dell’11 dicembre 1648 inviata a Descartes, pur esprimendo vivo entusiasmo per le idee del filosofo francese, lo accusava tuttavia di aver «spogliato della vita e del senso quasi l’intera stirpe degli esseri animati, facendo di essi null’altro che statue e macchine» (AT, V, pp. 236-246; trad. it., R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, a c. di G. Belgioioso, Milano, Bompiani 2005, pp. 2593-2603: p. 2601).

54 L’espressione di trova in B. croce, Shaftesbury in Italia, in id., Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, Laterza 1956, vol. I, pp. 273-309: p. 273. 55 pA, art. XLVI dove Descartes ricorda che si possono vincere le passioni più lievi, ma non le più violente, e soltanto dopo che l’emozione del sangue e degli spiriti si sia placata (pp. 363-364; trad. it., pp. 620-621); cfr. infra, n. 70.

92

angela tamabommelli

You have heard it, my friend, as a common saying that ‘interest governs the world’. But, I believe, whoever looks narrowly into the affairs of it will find that passion, humour, caprice, zeal, faction and a thousand other springs, which are counter to self-interest, have as considerable a part in the movements of this machine. There are more wheels and counterpoises in this engine than are easily imagined. It is of too complex a kind to fall under one simple view or be explained thus briefly in a word or two. The studiers of this mechanism must have a very partial eye to overlook all other motions besides those of the lowest and narrowest compass. It is hard that, in the plan or description of this clockwork, no wheel or balance should be allowed on the side of the better and more enlarged affections, that nothing should be understood to be done in kindness or generosity, nothing in pure good nature or friendship or through any social or natural affection of any kind, when, perhaps, the mainsprings of this machine will be found to be either these very natural affections themselves or a compound kind derived from them and retaining more than one half of their nature56.

Combattendo la concezione dell’uomo-macchina egli combatteva il riduzionismo di coloro che non solo spiegavano la condotta umana attraverso il principio meccanico, ma, soprattutto, riconoscevano come movente dell’azione umana un’unica «spring», un’unica molla, quella del self-love e del self-interest. Combattendo Descartes,, dunque, egli combatteva contro coloro che negavano la capacità naturale dell’uomo di agire virtuosamente. 6. ‘Passions de l’âme’ e ‘Theory of Affections’ a confronto All’epoca della stesura del Soliloquy, Shaftesbury si confrontava con Descartes, avendo già maturato una propria teoria delle affections. Questa era stata esposta per la prima volta nell’Inquiry Concerning Virtue, or Merit del 1699, poi rivista e pubblicata nel 1711; con essa il Conte si prefiggeva di fondare un’etica autonoma dalla religione. L’opera aveva risentito molto dell’influenza dell’Enchiridion Ethicum di More57: di questa egli ripro-

sc, p. 54; trad. it., pp. 180-181 (corsivo mio). Shaftesbury cita l’Enthusiasmus Triumphatus di More nella Miscellany ii (in CMMOT, pp. 366-368) (h. more, Enthusiasmus triumphatus, or, A discourse of the nature, causes, kinds, and cure, of enthusiasme; written by Philophilus Parresiastes, and prefixed to Alazonomastix his observations and reply: whereunto is added a letter of his to a private friend, wherein certain passages in his reply are vindicated, and severall matters relating to enthusiasme 56 57

shaftesbumw cmitico di descamtes

93

poneva la difesa dell’etica della virtù o merito, l’identificazione tra virtù e felicità, la considerazione della componente affettiva oltre che di quella intellettiva dell’esperienza morale, nonché la nozione di senso morale innato. Quanto alle passioni, veniva ripreso il tema della bontà di esse e della naturale socialità umana; vi si trovava l’articolazione delle affezioni sociali secondo diversi gradi di spontaneità, come pure la nozione di economia delle passioni nelle diverse creature, descritta attraverso la metafora degli strumenti a corda58. Come si è visto, nel Soliloquy Shaftesbury, diversamente da Henry More, rifiuta e deride la teoria delle passioni cartesiana. More, pur avendo optato nell’Enchiridion Ethicum per un uso strumentale della teoria delle passioni cartesiana in funzione anti-hobbesiana e contro la teoria della predestinazione calvinista, e pur avendo eliminato la parte relativa alla causa fisiologica delle passioni, non aveva tuttavia mancato di elogiarla in più di un’occasione per la sua maggiore completezza rispetto alle teorie offerte dagli antichi, e per la difesa in essa contenuta della bontà e utilità morale delle passioni59. Nell’Inquiry, proprio nell’opera in cui sarebbe stato più ovvio aspettarsi che Shaftebury si confrontasse direttamente con Descartes sul terreno delle passioni, egli non fa alcun riferimento al filosofo francese, neppure per polemizzare con lui. Non si può certo negare che Descartes sia sullo sfondo: malgrado l’avversione per l’esprit de système – si ricordi la celeberrima frase

more fully cleared, London, J. Flesher for W. Morden 1656). In una lettera a Ainsworth si esprime così a proposito dell’Enchiridium Ethicum e del suo autore: «Dr More’s Ench. E., is a right good Piece of sound Morals; tho’ the Doctor himself, in other English Pieces, could not abide by it; but made different Excursions into other Regions, and was perhaps as great an Enthusiast, as any of those, whom he wrote against. However, he was a learned and a good Man», The Ainsworth Correspondence, Letter IX, December 30th, 1709, SE, II.4, p. 408. Shaftesbury vi si riferisce anche nelle Chartae Socraticae, dove attribuisce a due autori moderni il merito di aver riconosciuto come necessaria l’esistenza del daimon socratico:«Remember also [the] wt is necessary as to ye Moderns. Moderns. As first. Stanly D: Cudworth. D: Moor (enchiridion Eth)…» (SE, II.5, p. 227). In effetti, v’è un passo dell’Enchiridion Ethicum in cui More sottolinea la ferma convinzione di Socrate nell’immortalità dell’anima (op. cit., III.10.5). Shaftesbury possedeva A Collection of Several Philosophical Writings of Dr H. More (London, J. Flescher for W. Morden 1662), oltre all’edizione del 1695 dell’Enchiridion Ethicum. 58 EE, I.6.16, p. 27 e VM, p. 199; trad. it., p. 388. 59 Ad esempio, EE, VII.1.1., p. 28.

94

angela tamabommelli

«the most ingenious way of becoming foolish is by a system»60 che compare nel Soliloquy, proprio poco prima del riferimento alle Passions – Shaftesbury, per acquistare credito presso i suoi avversari, sente la necessità di rivendicare il carattere sistematico della sua trattazione delle affections61. Dallo spirito di sistema nasce uno schema delle affections ordinate in funzione del loro grado di riflessività e di amplitudo, secondo la concezione stoica dei cerchi concentrici62. In conclusione del trattato, poi, alludendo ancora a Descartes, e nel tentativo di affrontarlo con il suo stesso linguaggio, si augura che «the subject treated may be said to have an evidence as great as that which is found in numbers or mathematics»63. Allo stesso modo non si può certo negare che vi siano alcuni motivi di consonanza tra i due autori. Essi condividono senza dubbio lo studio e l’apprezzamento per alcuni autori stoici, come ad esempio Epitteto64, dal quale riprendono la distinzione 60 SOL, p. 130; trad. it., p. 289. Secondo il curatore delle note alla corrispondenza con Ainsworth, Shaftesbury non si starebbe riferendo a Descartes, bensì a Locke (SE, ii.4, p. 460). 61 Si rivolge così al suo interlocutore: «But here, my friends, you must not expect that should draw you up a formal scheme of the passions, or pretend to show you their genealogy and relation, how they are interwoven with one another or interfere with our happiness and interest. It would be out of the genius and compass of such a letter as this to frame a just plan or model by which you might, with an accurate view, observe what proportion the friendly and natural affections seem to bear in this order of architecture» (sc, p. 54; trad. it., p. 181). 62 Si veda l’ampio frammento di Ierocle, filosofo greco vissuto tra il I e il II secolo d. C., citato in J. AnnAs, The Morality of Happiness, Oxford, Oxford University Press 1993; trad. it. La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Prefazione di G. Reale, Milano, Vita e pensiero 1998, pp. 366 ss. 63 Vm, p. 229; trad. it., p. 429. 64 Sullo stoicismo di Shaftesbury, e. A. TiffAny, Shaftesbury as Stoic, «Publications of the Modern Language Association», XXXVIII, 1923, pp. 642684; f. uehLein, Kosmos und Subjektivität. Lord Shaftesburys Philosophical Regimen, Freiburg, K. Alber 1976; r. VoiTLe, The Third Earl of Shaftesbury (1671-1713), Baton Rouge and London, Louisiana State University Press 1984; L. JAffro, Les «Exercices» de Shaftesbury: un stoïcisme crépusculaire, in P.-F. Moreau (éd.), Le Retour des philosophies à l’âge classique, Le Stoïcisme, Paris, Albin Michel 1999, pp. 340-354 e id., La question du sens moral et le lexique stoïcien, in Shaftesbury. Philosophie et politesse, éd. par F. Brugère et M. Malherbe, Paris, Editions Champion 2000, pp. 61-78; f. crispini, L’etica dei moderni, cit. Sullo stoicismo di Descartes, r. Bodei, Geometria delle pas-

shaftesbumw cmitico di descamtes

95

tra le cose che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi65, la convinzione che desiderare la virtù significhi desiderare ciò che dipende da noi66, e l’identificazione tra virtù e felicità67. Sia in Descartes che in Shaftesbury si trova il rifiuto rifiuto dell’ideale dell’impassibilità degli stoici, e l’affermazione della naturale bontà delle passioni68, che il Conte elabora ulteriormente in funzione anti-hobbesiana. Egli è convinto, infatti, che l’indice della bontà di una passione si misuri attraverso tre variabili, vale a dire la sua intensità, il bilanciamento con le altre passioni, e la costituzione di ciascuna singola creatura: le affezioni che si riferiscono alla sfera privata e che si definiscono egoismo o amore di sé diventano negative solo qualora superino un certo livello di intensità e risultino sbilanciate69. Bisogna dunque, come già in Descartes, non tanto estirpare le passioni quanto evitare il loro cattivo uso e i loro eccessi, imparando a regolarle70. Sia Descartes che Shaftesbury, inoltre, sono persuasi che sia possibile sioni. Paura, speranza, felicità: Filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli 20073, pp. 261-271. Cfr. anche L. zAnTA, La renaissance du stoïcisme au XVIe siecle, Paris, Champion 1914, in part. pp. 337-340. 65 PA, CXLIV-cXLV-cXVi, pp. 435-438 (trad. it., pp. 668-670) e Discours de la méthode, in AT, VI, pp. 25-26 (trad. it. in Opere filosofiche, cit., I, pp. 516-517); MOR, p. 336 (trad. it., pp. 573-574). 66 PA, CXLIV, pp. 436-437 (trad. it., pp. 668-669); MOR, pp. 334-335 (trad. it., pp. 571-572); e inoltre mor, p. 336 (trad. it., pp. 573-574). 67 PA, CXC, p. 472 (trad. it., p. 691); VM, p. 230 (trad. it., p. 430). 68 PA, CCXI e CCXII, pp. 485-488 (trad. it., pp. 700-702), sulla bontà naturale di tutte le passioni, e CCVI, p. 483 (trad. it., pp. 698-699) contro l’invito rivolto dai Cinici a spogliarsi delle passioni della gloria e della vergogna. Secondo Anthony Levi, le critiche di Descartes alla morale stoica erano quelle tradizionalmente codificate in ambiente cristiano contro concezioni della virtù che non derivassero i proprî princìpi dalla fede in Cristo (id., French Moralists: the theory of the passions, 1585 to 1649, Oxford, Clarendon Press 1964). 69 Una creatura può essere chiamata malvagia o viziosa «when either the public affections are weak or deficient; or the private and self affections too strong; or that such affections arise as are neither of these nor in any degree tending to the support either of the public or private system» (Vm, p. 200; trad. it., p. 389). In base al criterio dell’intensità, l’amore per la vita può tramutarsi in codardia, il risentimento in spirito di vendetta, il piacere o appetito in concupiscenza, il desiderio di beni in avarizia, l’amore per la lode in ambizione, e l’amore per l’agio in accidia. 70 pA, L, pp. 368-370 (trad. it., pp. 624-625) e CCXII, p. 488 (trad. it., p. 702). Per la nozione di «master of passions» in Shaftesbury, Vm, p. 218 e p. 222 (trad. it., p. 416 e p. 419), Miscellany iii, in CMMOT, p. 406 (trad. it., p. 595) e Miscellany iV, in CMMOT, pp. 422-423.

96

angela tamabommelli

imparare a dominare le proprie passioni, attraverso l’abitudine e l’educazione71. Simile poi è il ruolo che i due filosofi assegnano alla volontà72 che, per eccitarle o scacciarle, non agisce direttamente sulle passioni, ma indirettamente: in Descartes attraverso «la rappresentazione delle cose che d’abitudine sono congiunte con le passioni che vogliamo avere e che sono contrarie a quelle che vogliamo respingere»73, in Shaftesbury attraverso il metodo del soliloquio e dell’attento scrutinio delle proprie opinioni e affezioni74. Al soggetto non è richiesto solo di usare bene il proprio libero arbitrio, ma anche di essere risoluto, di avere una volontà ferma e costante75, che offrirà un punto di riferimento contro la mutevolezza dei desideri, delle opinioni e delle inclinazioni, e contro l’effetto distorcente delle passioni76. L’uomo generoso di Descartes e l’uomo di virtù di Shaftesbury presentano, infine, alcuni interessanti elementi di somiglianza77. L’uomo di virtù shaftesburiano possiede entire o enlarged affection, un’affezione benevola che, in contrasto alla partial affection, è ri71 pA, L, pp. 368-370 (trad. it., pp. 624-625), CLXI, pp. 453-454 (trad. it., p. 679), e CCXI, pp. 485-488 (trad. it., pp. 700-702). Per Shaftesbury si veda il Soliloquy. 72 PA, L, pp. 368-370 (trad. it., pp. 624-625). In Descartes è ovviamente più forte la consapevolezza dell’importanza e del ruolo svolto dalla componente fisiologica. La difficoltà di governare la passioni dipende dal fatto che sono accompagnate dalle emozioni, cioè dai processi chimico-fisici del corpo, i quali restano presenti nel nostro spirito. Così l’anima può vincere le passioni più lievi, ma non quelle più forti: al massimo può non acconsentire ai suoi effetti e trattenere molti di quei movimenti cui essa dispone il corpo (PA, XLVI, pp. 363-364; trad. it., pp. 620-621). Si vedano anche gli articoli XCIII, p. 398 (trad. it., p. 643) e CCXI, pp. 485-488 (trad. it., pp. 700-702). 73 PA, XLV, p. 362 (trad. it., p. 620), XLVII, pp. 364-366 (trad. it., pp. 621-622). 74 soL, pp. 83-84, pp. 131-133 (trad. it., pp. 223-224 e pp. 290-293), VM, p. 172 (trad. it., p. 351), e MOR, pp. 335-336 (trad. it., pp. 572-573). 75 Lettera a Elisabetta del 4 agosto 1645, in r. descArTes, Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 2059; pA, CLIII, pp. 445-446 (trad. it., p. 674) e CLXI, pp. 453-454 (trad. it., p. 679); Miscellany iii, in CMMOT, pp. 407-408 (trad. it., pp. 596-597). Sull’irresolutezza, si vedano i brani in PA, CLXX, pp. 459-460 (trad. it., p. 683) e SC, pp. 190-191 (trad. it., pp. 291-293). 76 Sulle passioni quali lenti d’ingrandimento si veda PA, CXXXVIII, pp. 430-431 (trad. it., p. 665) e CCXI, pp. 485-488 (trad. it., pp. 700-702); per Shaftesbury si veda, ad esempio, SOL, p. 83 ss. (trad. it., p. 223 ss.). 77 PA, CLIII, pp. 445-446 (trad. it, p. 674) e CLVI, pp. 447-448 (trad. it., pp. 675-676); SC, p. 60 (trad. it., p. 190), MOR, p. 334 (trad. it., p. 571), Miscellany ii, in CMMOT, p. 353.

shaftesbumw cmitico di descamtes

97

volta agli altri, alla comunità, al genere umano nel suo complesso78; l’uomo generoso è portato a fare grandi cose, e stimando che non vi sia nulla di più grande del fare del bene agli altri, disprezza il proprio interesse ed è sempre perfettamente cortese, affabile e servizievole con tutti79. Chi possiede entire affection è, come il generoso di Descartes, indulgente, privo di durezza, di asperità e di avversione; ha una mente calma, serena, in pace con se stessa80. Sia in Descartes che in Shaftesbury il momento affettivo, che pure gioca un ruolo importante, deve essere completato da un superiore momento riflessivo e regolatore: nel primo la generosità è passione ma anche virtù, e nel secondo l’entire affection è la natural affection coltivata. Generosità ed entire affection sono poi, per entrambi i filosofi, universalmente accessibili attraverso l’educazione. Le consonanze e le somiglianze sembrano però dovute più a coincidenze maturate in percorsi per altri versi assai divergenti tra loro, che all’influenza di Descartes su Shaftesbury.. Non v’è alcun dubbio, infatti, che la teoria delle affezioni di Shaftesbury sia profondamente diversa dalla teoria delle passioni di Descartes, per l’orizzonte problematico che le fa da sfondo, per gli strumenti di analisi adottati, come pure per gli obiettivi che si prefigge. La scelta terminologica segnala subito una distanza tra i due autori. Shaftesbury preferisce affection81 al termine passion, che viene a designare solo le affezioni non equilibrate, eccessive, oppure gli istinti degli animali, come nel caso dell’endiadi passions or affections82. Nell’Inquiry non v’è inoltre alcuno spazio per una considerazione fisiologica delle passioni; di conseguenza non v’è traccia della distinzione cartesiana tra passioni e emozioni 78 sc, pp. 53-56 (trad. it., pp. 180-184) e VM, pp. 192-193 (trad. it., pp. 378-379). 79 pA, CLVI, pp. 447-448 (trad. it., pp. 675-676). 80 Vm, p. 205 e p. 223 (trad. it., p. 398 e p. 421). 81 Nell’Inquiry il termine si trova accompagnato dalle seguenti coppie di attribuiti: natural/innatural, equal/inequal, sensible/rational, partial/entire affection, public affection; si trovano anche le due espressioni common affection (sc, p. 52 e p. 53; trad. it., p. 179 e p. 180) ed enlarged affection (sc, p. 54; trad. it., p. 181 e mor, p. 244; trad. it., p. 450). 82 Negli Askemata, gli esercizi redatti da Shaftesbury per uso privato, si trova la voce Passions, dove le passioni sono classificate in passioni self-directed e other-directed (in The Life, Unpublished Letters…, cit., p. 151; Shaftesbury, Exercices, traduits de l’anglais, présentés et annotés par L. Jaffro, Paris, Aubier 1993, p. 110).

98

angela tamabommelli

dell’anima83, né alcuna descrizione dei segni esterni delle passioni84, né dell’utilità delle passioni in quanto riferite al corpo85. In Shaftesbury non troviamo il numero, l’ordine e l’enumerazione delle passioni della teoria cartesiana86, bensì una distinzione tra affezioni naturali, egoistiche, e innaturali87. Descartes aveva abbandonato la distinzione tra l’appetito irascibile e concupiscibile a favore di una distinzione tra movimenti che potenziano le azioni vitali, procurando il corretto funzionamento dell’intera machine, e quelli che invece rallentano le funzioni del corpo, riducendone l’attività o invertendone la disposizione naturale, secondo una distinzione basata non più su criteri morali, bensì fisiologici88. In tale prospettiva, l’utilité delle passioni consisteva nel «disporre l’anima a voler le cose che la natura indica come a noi utili e a persistere in questa volontà»89. In Shaftesbury, invece, l’utilità delle affections è misurata in funzione del loro grado di socialità, e della loro capacità di promuovere il bene comune e, di conseguenza, il bene individuale.

PA, XXIX, p. 350 (trad. it., p. 612). PA, CXII-cXiX, pp. 411-416 (trad. it., pp. 652-655). 85 PA, CXXXVII, pp. 429-430 (trad. it., pp. 664-665). 86 Si ricordi che Descartes limita a sei le passioni originarie dell’anima dalle quali derivano per combinazione tutte le altre. 87 Vm, p. 196 (trad. it., p. 383). Nell’Inquiry le natural affections, vale a dire le affezioni sociali − fulcro dell’intero sistema degli affetti shaftesburiano − sono dette affezioni sensibili (sensible affections) se si riferiscono ad affezioni comuni ad animali e uomini (animals and animal-men), se sono istintive (natural habitus) e implicano un grado di socialità, un associating humour o a coniugal alliance and affection, finalizzato alla propagazione della specie e al mantenimento della prole (le locuzioni «associating associating humour» e «coniugal alliance and affection» sono utilizzate nella Miscellany iV (in CMMOT, p. 431). Le natural affections sono dette invece affezioni razionali (rational affections) quando sono coltivate (Vm, p. 201; trad. it., p. 391). La partecipazione al bene altrui e la consapevolezza d’una benevolenza e d’una stima meritate − che rappresentano il massimo del piacere intellettuale − sono al tempo stesso l’entire affection e il suo effetto. La entire affection (o integrity of mind) è un’affezione indivisa, un’affezione che non è rivolta solo a una parte della specie o della società, bensì alla specie e alla società nel suo complesso (Vm, pp. 205-206; trad. it., pp. 396-397), una sorta di «new new e superior affection», per usare le parole dell’autore. Solo chi possiede un’affezione indivisa gode di integrità mentale e vive secondo natura, e secondo le regole e i precetti della suprema saggezza. 88 PA, LXVIII, p. 376 (trad. it., p. 631). 89 PA, Lii e LXXIV, p. 372 e p. 383 (trad. it., p. 626 e p. 633). 83

84

shaftesbumw cmitico di descamtes

99

7. Liberty as the hinge of ‘Characteristicks’90 A proposito dell’atteggiamento di Shaftesbury verso Descartes, lo studioso Aldridge conclude sbrigativamente che «Shaftesbury’s attitude is very much like his attitude toward Locke, a surface denunciation concealing a partial discipleship»91. Piuttosto sembra aver ragione Rogers, quando afferma che il pensiero cartesiano seppe mobilitare le energie dei suoi oppositori anche molto tempo dopo la sua liquidazione, vera o presunta, da parte di Locke e di Newton; basti pensare che un anticartesiano come Shaftesbury sentì l’esigenza di sollevare le sue obiezioni contro alcuni aspetti della filosofia cartesiana fino al 1711, anno di pubblicazione delle Characteristics. Talvolta, per criticare Descartes, Shaftesbury fu persino costretto ad usare il suo stesso linguaggio, quello della sistematicità, della certezza e dell’evidenza, nonché della macchina e del meccanismo92. Ed è innegabile che Descartes e lo spirito secolare e scientifiscientifico siano sullo sfondo della particolare enfasi data da Shaftesbury al tema della liberà morale e politica. In nome della libertà di pensiero e della «liberty of pen», Shaftesbury si era dichiarato nemico del fanatismo religioso, così come di ogni dogmatismo filosofico. Era stato un sostenitore della tolleranza religiosa anche nei confronti dei fanatici e degli atei, aveva promosso la cultura che si affermava al di fuori delle accademie e delle scuole, essendo stato egli stesso sperimentatore di diversi generi letterari. Nell’Inquiry e nei Moralists aveva fondato la morale sulla natura umana, difendendone l’autonomia dalla religione e dalla rivelazione. Nella Letter Concerning Enthusiasm e in Sensus communis aveva difeso la libertà di sottoporre al vaglio dell’ironia dogmi e credenze consolidate, criticato il fanatismo religioso93 e stigmatizzato come infantili superstizioni, profezie, prodigi e miracoli passati e pre90 Shaftesbury a Thomas Micklethwaite, November 24th, 1711, dove il trionfo della libertà morale e politica è definito «the hinge and bottom of all three [treatises] and of the whole work itself [Characteristics]» (in The Life, Unpublished Letters…, cit., p. 449). 91 A. o. ALdridge, Shaftesbury and the Deist Manifesto, cit., p. 330. 92 I termini di matrice cartesiana di cui Shaftesbury si serve per polemizzare con i suoi avversari, o per convincerli della bontà delle sue tesi sono, solo per citare alcuni esempi: machine, wheels and counterpoises, engine, clockwork (SC, p. 54; trad. it., p. 181); mechanism, engine, piece of clockwork (VM, p. 195; trad. it., p. 383); evidence, certainty (VM, pp. 229-230; trad. it., p. 429). 93 Si veda anche Miscellany II, in CMMOT, pp. 365-368, pp. 371-373.

100

angela tamabommelli

senti. Aveva criticato le astuzie dei sacerdoti, e svelato l’uso politico dell’impostura religiosa, guadagnandosi in diverse occasioni l’accusa di empietà e di deismo94. Forse è sempre lo spirito cartesiano e scientifico che potrebbe essere invocato per spiegare l’avversione manifestata specialmente nell’Inquiry e nei Moralists nei confronti del soprannaturale − anche se non della religione − e la sua convinzione che sia il bello e l’armonioso delle cose e non i miracoli, vale a dire la violazione di quell’ordine, la miglior prova dell’esistenza di Dio95. Va inoltre osservato che il Conte doveva senza dubbio sentire una certa affinità con il dualismo e con l’innatismo cartesiano, almeno in funzione anti-lockiana96. Nonostante ciò Shaftesbury,, nella divisione tracciata tra socratico-stoici ed epicurei, aveva chiaramente assegnato a Descartes un posto fra questi ultimi, o comunque ne aveva attaccate le idee, perché anch’esse si prestavano ad essere utilizzate dagli Epicureists per giustificare la loro visione del mondo, nonché la loro condotta di vita. Nel far ciò egli risentiva certamente di un clima generale decisamente anticartesiano. Il suo anti-cartesianesimo potrebbe avere anche un’altra spiegazione, cui in questa sede si potrà soltanto accennare. Era forse in virtù di una preoccupazione di natura politica e in nome della libertà che egli attaccava la fisica di Descartes,, ritenuta all’origine di quella costellazione di idee che era irrimediabilmente associata, a torto o a ragione, a Hobbes ed ai suoi seguaci, così come a Locke. E se di quest’ultimo criticava l’individualismo atomistico ed il contrattualismo quali principi fondativi della società, del primo temeva e rifiutava la concezione dello stato di natura e l’assolutismo politico. Essendovi per Shaftesbury un legame necessario tra amore per la virtù, cognizione del bene pubblico, e buon

Miscellany II, in CMMOT, pp. 357-365, pp. 378-379. Cfr. B. WiLLey, The Seventeenth Century Background. Studies in the Thought of the Age in Relation to Poetry and Religion, London, Chatto & Windus, 19679 e The Eighteenth Century Background. Studies in the Idea of Nature in the Thought of the Period, London, Chatto & Windus, 19658; trad. it., La cultura inglese del Seicento e del Settecento, Bologna, il Mulino 1975, in part. pp. 359-377. 96 Per il dualismo mente-corpo si veda, ad esempio, la sezione prima della terza parte dei Moralists. Shaftesbury preferiva utilizzare il termine connatural, anziché innate, come egli stesso dichiara nella lettera a Michael Ainsworth, June 3rd, 1709 (in The Life, Unpublished Letters…, cit., p. 403; SE, II.4, p. 402 e p. 403). 94 95

shaftesbumw cmitico di descamtes

101

governo97, l’assolutismo hobbesiano andava respinto insieme a ciò che poteva costituirne una giustificazione teorica. La concezione meccanico-materialista dell’universo era, ai suoi occhi, la concezione – allo stesso tempo fisica e metafisica – che stava alla base delle idee politiche di Hobbes. E il meccanicismo cartesiano, nella versione esemplificata dalla metafora dell’orologio98, risultava perfettamente coerente con una concezione artificiale del società civile e politica, così come della morale, e forniva un forte strumento di legittimazione del potere assoluto. In Europa aleggiava il fantasma di Luigi XIV, ed intanto si consumavano le guerre d’Olanda e la guerra di successione spagnola: contro l’assolutismo del re di Francia e in difesa dell’Inghilterra, che rischiava di perdere la sua libertà sotto il tiranno straniero99, Descartes andava rifiutato.

97 sc, p. 50 (trad. it., p. 175). Si veda anche Miscellany V, in CMMOT, p. 470. 98 Sulle implicazioni politiche della metafora dell’orologio, cfr. o. mAyr, Authority, Liberty and automatic Machinery in early modern Europe, Baltimore, Johns Hopkins University Press 1986 (trad. it., La bilancia e l’orologio. Libertà e autorità nel pensiero politico dell’Europa moderna, Bologna, il Mulino 1988). 99 Si veda lettera al generale Stanhope, Novembre 7th, 1709 (in The Life, Unpublished Letters…, cit., p. 417).

Emanuele Levi Mortera REID, DESCARTES E LA «WAY OF IDEAS»*

1. Reid e la way of ideas In una lettera del 20 agosto 1790 a James Gregory, docente di medicina a Edimburgo fra il 1776 e il 1821, Reid risponde con grande umiltà e onestà intellettuale all’elogio che l’amico aveva fatto della sua filosofia: Il merito di ciò che avete il pregio di chiamare “la mia filosofia” risiede, credo, principalmente nell’aver revocato in dubbio la teoria comune delle idee o immagini delle cose nella mente come unici oggetti del pensiero; una teoria fondata su un pregiudizio naturale e accolta in modo così universale da intessere la struttura [stessa] del linguaggio. Tuttavia, se dovessi dirvi in dettaglio cosa mi ha indotto a revocare in dubbio questa teoria, dopo averla per lungo tempo ritenuta indiscutibile e auto-evidente, pensereste, come me, che molto sia stato dovuto al caso. La scoperta è stata il parto del tempo, non del genio; e Berkeley e Hume hanno fatto molto di più per portarla alla luce di chi vi si è semplicemente imbattuto per caso. […] Di loro, posso dire veramente, e sempre lo dichiarerò apertamente, ciò che vi pregiate di dire di me, e cioè che, se non fosse stato per l’aiuto ricevuto dalle loro opere, non avrei mai potuto scrivere o pensare ciò che ho fatto1.

* Ringrazio vivamente Cristina Paoletti dell’Università di Bologna per il prezioso aiuto nella ricerca bibliografica. A buon rendere. 1 Cit. in Th. reid, Philosophical Works, with notes and supplementary dissertations by Sir William Hamilton (1856, 2 voll.), Hildesheim, Olms 1967, vol. I, p. 88. Le opere di Reid saranno citate d’ora in poi da questa edizione con le seguenti abbreviazioni: IHM: Inquiry into the Human Mind on the Principles of Common Sense (1764); EIP: Essays on the Intellectual Powers of Man (1785); EAP: Essays on the Active Powers of Man (1788). La traduzione

104

emanuele levi momtema

Tale registro stilistico contrasta non poco con quello presente nella Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune (1764) e nei Saggi sui poteri intellettuali dell’uomo (1785) dove l’attacco alla tradizione della way of ideas è condotto con tenacia, decisione, incisività e raramente con toni accomodanti, seppur sempre nel rispetto degli avversari. Di tale tradizione, che secondo la sua interpretazione pone appunto le idee come oggetti intermedi fra il soggetto che percepisce e l’oggetto percepito, Reid fornisce una ricostruzione storiografica piuttosto originale e interessante, seppure per molti versi approssimativa e funzionale alla costruzione del suo modello gnoseologico alternativo. Iniziata con Descartes, il cui sistema delle idee porterebbe con sé i germi dello scetticismo, essa si sviluppa con i cartesiani Malebranche e Arnauld per essere rielaborata da Locke. Questi autori sarebbero riusciti in extremis a evitare gli esiti scettici insiti fin dall’inizio in questa dottrina, coerentemente perseguiti invece da Berkeley con il suo immaterialismo e più ancora da Hume che, oltre a revocare in dubbio il mondo esterno, avrebbe dissolto anche la mente facendone un semplice fascio di percezioni e idee. Con Hume, verrebbe meno quel grande progetto di costruzione di una scienza della mente induttivo-sperimentale che invece Reid intende fermamente ripristinare su solide basi: «Sembra che questo autore possegga un particolare senso dell’umorismo quando promette nella sua Introduzione [al Trattato sulla natura umana] un sistema di tutte le scienze su un fondamento assolutamente nuovo, quello della natura umana, mentre la sua intenzione è mostrare che non esiste al mondo né una natura umana né una scienza»2. Hume, in effetti, costituisce, anche per questioni di contiguità storica, il principale bersaglio polemico di Reid che lo elegge al contempo figura paradigmatica della way of ideas e termine di confronto privilegiato per la sua indagine metafisica ed epistemologica3. italiana utilizzata è Th. reid, Ricerca sulla mente umana e altri scritti, a c. di A. Santucci, Torino, Utet 1975. 2 Th. reid, IHM, 102a; trad. it., p. 107. 3 Va ricordato che Reid, per molti anni pastore presbiteriano presso la diocesi di New Machar ad Aberdeen, fu tra i fondatori e promotori del consesso di intellettuali che, sotto il nome di Aberdeen Philosophical Society o Wise Club diede vita, fra il 1758 e il 1763, a periodici incontri in cui il Trattato di Hume era costantemente oggetto di dibattito e commento. Reid trasse da questi incontri numerosi spunti che confluirono nella sua prima opera di ampio respiro, appunto la Ricerca, che gli procurò la nomina, nel 1764, alla cattedra di Filosofia Morale dell’Università di Glasgow come successore di Adam

meid, descamtes e la «waw of ideas»

105

È possibile individuare almeno tre parametri in base ai quali Reid svolge la sua critica alla Theory of Ideas, o Ideal System o Ideal Hypothesis, termini equivalenti per indicare il paradigma epistemologico della way of ideas: lo scetticismo, il materialismo, il metodo d’indagine. Cercherò qui di seguito di svilupparne le implicazioni, considerando in particolare la questione metodologica come trasversale alle altre due e declinandola sia nei suoi aspetti metafisici sia in quelli più strettamente scientifici. 2. L’innovatore ‘a metà’ L’attacco più esplicito e articolato alla way of ideas compare nei Saggi, opera pubblicata in vecchiaia e in cui confluiscono le esperienze maturate in quasi vent’anni di insegnamento alla cattedra di filosofia morale dell’Università di Glasgow. Reid si riferisce qui a ciò che egli definisce «Teoria comune delle idee» e che caratterizza, a suo avviso, tutta la storia della filosofia: «Tutti i filosofi, da Platone a Hume, sono d’accordo sul fatto che non percepiamo immediatamente gli oggetti esterni e che l’oggetto immediato della percezione deve essere qualche immagine presente alla mente»4. Questa tesi, secondo Reid, è viziata da una contraddizione di fondo. Non è chiaro infatti se noi inferiamo (infer) semplicemente l’oggetto dalle sue idee o immagini, oppure percepiamo l’idea dell’oggetto e lo stesso oggetto materiale. In questo secondo caso percepiremmo un duplice oggetto, reale ed esterno e al tempo stesso rappresentato, posizione che Reid imputa a Descartes e Locke avendo in mente probabilmente Hume e il problema della ‘doppia esistenza’ affrontata nel primo libro del Trattato. Ma allora: se essi intendono l’oggetto esterno non è necessario far ricorso alle idee; d’altra parte, sostenendo pure che l’esistenza dell’oggetto deve essere provata attraverso le idee, queste sembrano essere l’unico oggetto di percezione. Poiché tale posizione è contraddittoria, è molto probabile, conclude Reid, che tali filosofi volessero intendere proprio l’oggetto rappresentato, come in un ritratto5. Reid, peraltro,, escluSmith. Sul Wise Club si veda d. roBinson, Thomas Reid and the Aberdeen Years: Common Sense at the Wise Club, «Journal of the History of Behavioral Science», 25, 1989, pp. 154-162. 4 Th. reid, EIP, p. 263a; trad. it., p. 369. 5 Ivi, p. 263b; trad. it., pp. 369-370. Per la discussione sulla double existence, che Hume affronta in Trattato, I, iv, 2, cfr. anche ivi, pp. 278b-279a, trad. it., pp. 398-399.

106

emanuele levi momtema

de dall’ambito della «Teoria comune delle idee» Malebranche, il quale, pur distinguendo adeguatamente all’interno della sua dottrina occasionalista l’idea dall’oggetto, fornisce una prova del mondo esterno fondata semplicemente sulla rivelazione, e nonostante «si renda conto del ridicolo a cui un’opinione così strana può esporlo tra gli uomini che sono guidati dai pregiudizi, […] vi si rassegna per amore di verità»6. Per quanto riguarda Descartes invece, Reid lo considera artefice di una «grande rivoluzione» in filosofia che, muovendo dal rifiuto del modello aristotelico-scolastico delle forme o specie intenzionali, giunge a determinare il corretto metodo di indagine sui fenomeni mentali, evitando il ricorso all’analogia della materia e procedendo, attraverso una attenta riflessione, a determinare le leggi dei fenomeni stessi: Il ragionare sui poteri della mente in base ad analogie tratte dalle proprietà dei corpi, che è la fonte di quasi tutti gli errori in questo campo ed è naturale per la maggior parte degli uomini, era tanto in contrasto con i principi cartesiani quanto andava d’accordo con la filosofia antica. Possiamo quindi affermare che Descartes ha effettivamente fondato la filosofia della mente e ha aperto quella strada che tutti gli uomini saggi riconoscono oggi come l’unica vantaggiosa7.

Poiché, continua Reid, non c’è ragione di considerare sostanza pensante e sostanza estesa come due cose simili e poiché otteniamo una consapevolezza «più certa e immediata» degli attributi della prima con la riflessione (cioè con l’osservazione interiore sulla nostra coscienza) e degli attributi della seconda con i sensi, Descartes su questo punto aveva pienamente ragione8. A ciò, secondo Reid, si 6 Ivi, p. 266a; p. 374. Secondo Reid, anche Berkeley raggiungerebbe una simile conclusione, sebbene Berkeley stesso avesse sempre respinto l’epiteto di malebranchiano bona fide. Pur condividendo con Malebranche il motto paolino «in Lui viviamo, ci muoviamo e abbiamo il nostro essere», Berkeley riteneva infatti che Malebranche si fosse appellato alle idee nella mente di Dio intendendo le idee di cose inerti e materiali e dunque avesse conservato un mondo esterno di natura materiale. Per una breve ricognizione sul tema si veda C. J. mc crAcken, Malebranche and British Philosophy, Oxford, Clarendon Press 1983, pp. 206-207. 7 Th. reid, EIP, p. 270b; trad. it., p. 383. «Se il genio di Platone era stato sublime e quello di Aristotele sottile, Descartes ha superato entrambi in chiarezza e in lucidità e influenzato in questo senso i suoi epigoni». IHM, p. 204b; trad. it., p. 318. 8 Th. reid, IHM, pp. 204b-205a; trad. it., pp. 318-319. Questo giudizio, sostanzialmente condiviso anche da Dugald Stewart, successore di Reid alla

meid, descamtes e la «waw of ideas»

107

lega un altro merito di Descartes, quello di essersi appunto lasciato alle spalle l’obsoleta teoria peripatetica che fondava la conoscenza sulle forme sostanziali e le specie intenzionali. Tuttavia, pur avendo confutato «con solidi argomenti» la teoria che «le immagini, o specie, o forme degli oggetti emanano [dagli] oggetti e penetrano nella mente attraverso la via dei sensi», egli ha continuato a sostenere che «l’oggetto esterno non viene percepito, ma soltanto la sua specie o immagine nella mente. […] Questa immagine, che i Peripatetici chiamavano “specie”, Descartes la chiama “idea”: quello che cambia è soltanto il nome»9. Descartes, insomma, rimarrebbe un innovatore ‘a metà’: respingendo la dottrina aristotelico-scolastica dell’adæquatio rei et intellectus sulla base della dissomiglianza di fondo fra oggetti e idee, elimina completamente qualsiasi entità intermedia ma, anziché optare per un naturale realismo percettivo, ricade paradossalmente in una posizione rappresentazionista proprio per dar conto di quella dissomiglianza. 3. Scetticismo e ‘sistema ideale’ Lo scetticismo è per Reid l’esito più coerente di una dottrina che, oltre ad essere contraddittoria, presenta due difetti fondamentali: da una parte, assume come oggetti immediati di conoscenza non le cose reali, bensì le loro immagini o rappresentazioni, costituendo una sorta di ‘velo’ fra mente e mondo che metterebbe in seria discussione l’esistenza degli oggetti indipendentemente da una mente che li percepisce. Dall’altra, pretende di dimostrare con argomentazioni logico-razionali verità o credenze ritenute da tutti autoevidenti – l’identità personale, l’esistenza del mondo esterno, l’attendibilità degli organi di senso –, che trovano guida della filosofia del common sense, fornirà lo spunto agli esponenti della scuola eclettica francese, e in particolare a Victor Cousin, per una tendenziosa e strumentale ricostruzione storiografica incentrata sulla rivalutazione di Descartes in chiave anti-sensistica e anti-ideologistica, operata dal secondo quarto dell’Ottocento anche attraverso le traduzioni delle opere di Reid e Stewart. Si veda in proposito d. sTeWArT, Dissertation: exhibiting a General View of the Progress of Metaphysical, Ethical and Political Philosophy since the Revival of Letters in Europe, parte I (1815), ora in d. sTeWArT, The Collected Works of Dugald Stewart, 11 voll., Bristol, Thoemmes 1994, vol. I, pp. 113, 124, 138. Per la ricostruzione delle vicende francesi rinvio a c. Borghero, Clio e Atena. Le origini ‘impure’ della storiografia filosofica francese del primo Ottocento, «Rivista critica di storia della filosofia», LXXXV, 2, 2007, pp. 247-283. 9 Th. reid, EIP, p. 274a; trad. it., p. 390.

108

emanuele levi momtema

la loro unica giustificazione nel semplice fatto di essere attestate in modo irresistibile e irrinunciabile dalla costituzione stessa della natura umana. Revocando in dubbio tali credenze e le medesime facoltà di giudizio attraverso le quali diamo ad esse il nostro assenso, lo scettico cade in contraddizione pretendendo di rovesciare l’evidenza di quegli stessi principi di cui si serve per condurre il suo attacco a certezze che si presumono non dimostrate e non giustificate. Il germe dello scetticismo, che accomuna in gradi diversi i ‘Cartesiani’, risiede appunto nel non ammettere altro principio evidente che la loro stessa esistenza in quanto esseri pensanti, porla a fondamento dell’esistenza delle cose, e richiedere per quest’ultima una prova razionale che la giustifichi: Questo metodo filosofico è comune a Descartes, Malebranche, Arnauld, Locke, Norris, Collier, Berkeley e Hume; e, poiché fu introdotto da Descartes, chiamo questo sistema ‘cartesiano’, e ‘cartesiani’ coloro che lo seguono, non volendo con questo termine mancare di rispetto a chicchessia, ma intendendo un particolare metodo filosofico comune a tutti e a cui diede avvio Descartes10.

Il metodo dei ‘cartesiani’, dunque, non soltanto si presenta come un’evidente petitio principii, ma rivela anche un abuso del principio di economia o semplicità della natura che Reid individua proprio nella funzione del cogito. Lo stesso Descartes infatti, sostiene Reid, è il primo a ritenere che il cogito sia sufficiente a «sostenere tutto il sistema della scienza» senza indagare se «esis[tano] altri principi primi che, per la loro chiarezza ed evidenza [devono] essere ammessi da ogni uomo di buon senso»11. L’errore di Descartes è stato perciò di aver revocato in dubbio tutta la realtà e, «con un semplice entimema», aver messo in salvo il solo principio pensante fondato sulla testimonianza della coscienza. Ammettendo la sola evidenza del cogito e riconoscendo le altre verità soltanto dopo essersi assicurato la garanzia divina, Descartes è stato però incoerente: se avesse infatti perseguito fino in fondo il suo metodo, avrebbe dovuto revocare in dubbio anche l’evidenza della coscienza, poiché è impossibile garantire in modo definitivo che essa non mi inganni. Aver salvato la sola evidenza del cogito mostra invece per Reid, in modo inequivocabile, come neanche Descartes credesse fino in fondo alla possibilità 10 Ivi, VI, vii, p. 468a. Per la petitio principii in cui cadrebbe lo scettico cfr. ivi, p. 448a. 11 Ivi, pp. 268b-269a; trad. it., p. 380.

meid, descamtes e la «waw of ideas»

109

del dubbio iperbolico. L’ambizione di Descartes è stata insomma quella di voler fondare, sulla base dello stesso tipo di evidenza delle verità matematiche, le verità del suo sistema filosofico. Ma, mentre le prime hanno carattere necessario e sono valide universalmente i principi della natura umana sono per Reid soltanto verità contingenti che, nonostante la loro regolarità e continuità, hanno carattere transitorio12. 4. Il fantasma del materialismo Altro parametro in base al quale Reid delinea la sua critica al sistema delle idee è il materialismo. In genere, posizioni di tipo materialistico, soprattutto se volte alla riduzione tout court dei fenomeni mentali a modificazioni di tipo fisico, difficilmente riescono ad evitare esiti che sfociano in forme di determinismo, con pesanti ricadute non soltanto sul piano dell’epistemologia ma anche su quello della morale. Se tutte le manifestazioni della natura umana sono ridotte all’azione di sostanze che si combinano chimicamente, a stimoli elettrici, e all’organizzazione neurofisiologica dell’organismo, rischia di cadere in primo luogo il tradizionale concetto di libero arbitrio e con esso le premesse per assumere comportamenti retti e guadagnarsi con sicurezza uno stato futuro. La naturalizzazione della mente insomma, allora come oggi, trovava i suoi sostenitori e i suoi detrattori, e Reid, pur non negando l’evidente relazione fra mente e corpo, rientra senz’altro fra questi ultimi. Il modello epistemologico della way of ideas presenta notevoli implicazioni di tipo neurofisiologico e meccanicista, trovando il suo complemento in una teoria ‘imagista’ delle idee13. Reid rileva come, secondo tale teoria, «la mente, come uno specchio, riceve per mezzo dei sensi le immagini degli oggetti esterni, così

Ivi, VI, vi, pp. 462a-464b. Cfr. inoltre IHM, pp. 100a, 204b-205a; trad. it., pp. 103-104, 318-19. Anche Hume, come Descartes, rimarrebbe secondo Reid uno scettico a metà, poiché nella sua scepsi non rientrano né le impressioni né le idee che servono a fondare il suo sistema scettico. Egli accetta la prima parte dell’entimema cartesiano, il «cogito», cioè l’evidenza della coscienza, ma ne rifiuta la seconda parte, «ergo sum», vanificata dal fatto che l’identità personale si risolve in un fascio di percezioni e idee. Per i principi di verità contingente cfr. infra, § 6. 13 Prendo qui spunto dall’analisi condotta da m. mAione, Scienza, linguaggio, mente in Thomas Reid, Roma, Carocci 2001, pp. 86 ss. 12

110

emanuele levi momtema

da limitare la funzione dei sensi a questa introduzione»14; un’impressione esterna colpisce l’organo di senso e attraverso i nervi viene trasmessa al cervello, dove le idee/immagini vengono prodotte; e poiché il cervello è sede dell’anima, mediante tale ‘presenza’ al cervello, e di conseguenza alla mente, avrebbe luogo il contatto cognitivo necessario a dar luogo alle idee, unici oggetti sui quali si esercita il pensiero. A questo proposito, Reid richiama la ghiandola pineale e l’azione degli spiriti animali di Descartes, il cervello come ‘sala d’udienze’ della mente di Locke, il sensorium di Newton, il principio aristotelico-scolastico del ‘nulla può agire dove non è’ – con esplicito riferimento a Samuel Clarke e alla sua spiegazione della cognizione come presenza dell’oggetto alla mente –, e infine il modello vibrazionista del medico e filosofo inglese David Hartley. Significativamente, Reid non menziona in questo gruppo né Berkeley, nel cui universo composto di spiriti e idee non trova posto la materia, né Hume, cui evidentemente viene riconosciuto, seppur implicitamente, quel tratto distintivo di tutta la tradizione scozzese che, dallo stesso Reid a Dugald Stewart, da Thomas Brown a William Hamilton, fino all’opposto fronte della ‘rinascita’ ottocentesca dell’associazionismo rappresentata da James Mill, si astiene dal far riferimento a questioni di natura fisiologica. Del modello imagista Reid respinge, in primo luogo, il ruolo meramente passivo/ricettivo della mente; in secondo luogo, ciò che egli interpreta come una vera e propria reificazione delle idee, la cui presunta natura fisiologica rischia di eliminare lo iato fra fisico e mentale conducendo la teoria della mente a un inevitabile deriva materialistica; infine, sulla base principalmente di ciò che qui chiamerò ‘principio di dissomiglianza’ fra qualità dell’oggetto esterno e idea interna, la funzione rappresentazionale delle idee stesse. La dottrina delle idee si configura insomma come mera ipotesi: Che gli oggetti producano un’impressione sugli organi di senso e per loro tramite sui nervi e sul cervello, è indubbio; ma che simili impressioni somiglino agli oggetti a tal punto da chiamarle le loro immagini, questo è molto improbabile. Tutte le ipotesi avanzate escludono che possa esistere una tale somiglianza; né i movimenti degli spiriti animali, né le vibrazioni delle fibre elastiche, dell’etere elastico o delle piccolissime particelle dei nervi si possono supporre somiglianti agli oggetti che le producono. […] È la saggezza divina che ha reso necessario que-

14

Th. reid, IHM, p. 140b; trad. it., p. 185.

meid, descamtes e la «waw of ideas»

111

sto meccanismo per poter percepire. Vi concorrono diverse parti del corpo e ciascuna compie la sua funzione […]. Qui finisce il ruolo della materia o, quanto meno, non possiamo più seguirla oltre; il resto spetta all’intelletto15.

Nei confronti di Descartes, Reid compie dunque una duplice operazione: da una parte, come si è visto, lo assolve dal difetto metodologico di ricorrere all’analogia della materia per dar conto dei processi mentali, a conferma perciò di un dualismo ontologico fra mente e corpo che Reid stesso, in linea di principio, condivide pienamente. D’altra parte, Descartes rientrerebbe nel gruppo di autori sospettati di proporre un modello gnoseologico tendente al materialismo, in cui l’analogia della materia si ripresenterebbe in considerazione delle funzioni assunte dalla ghiandola pineale. Tornerò più avanti su questi temi, a proposito dell’interpretazione reidiana della natura delle idee in Descartes, mostrando come tale oscillazione rimanga di fatto intatta a fronte delle strategie argomentative adottate da Reid. 5. Ulteriori questioni di metodo A fondamento della sovrapposizione fra analisi fisiologica e analisi filosofica, Reid individua proprio l’analogia della materia, errore metodologico condiviso dagli esponenti della way of ideas, ma che Descartes è riuscito a suo avviso a evitare. Secondo questo principio, l’uomo è indotto a trasferire per analogia sul piano dell’indagine mentale le dinamiche che osserva nel mondo naturale, poiché esse sono più familiari all’osservazione. Sicché, come un corpo è posto in movimento per l’impulso di un altro, così si è indotti a credere che la percezione debba avvenire nel medesimo modo, per il contatto o la pressione di qualche oggetto. Poiché «non esistono in natura cose meno simili fra loro» che mente e materia, e dunque l’oggetto mentale è incommensurabile all’oggetto naturale, l’indagine sulla mente deve seguire una via diversa, incentrata sull’introspezione, la riflessione e l’osservazione diretta dei fenomeni della coscienza16. Tuttavia, nel momento 15 Th. reid, EIP, pp. 256b-257a, 248a; trad. it., pp. 358, 339, corsivi miei. «Vorrei che qualcuno mi indicasse un’immagine del caldo e del freddo, del duro e del morbido, di un suono, di un odore o di un sapore. Il termine immagine, riferito a questi oggetti, non significa niente». Ivi, p. 257a; p. 358. 16 Per questo tema si veda in particolare Th. reid, IHM, pp. 97a-99b; trad. it., pp. 97-102; id., EIP, I, iv, pp. 236b-238a dove Reid si sofferma inoltre

112

emanuele levi momtema

stesso in cui Reid ribadisce i meriti metodologici di Descartes, ne prende nuovamente le distanze per via di una rigorosa adesione al modello induttivo sperimentale newtoniano che viene assunto come uno dei criteri-guida per la sua critica all’ipotesi ideale. Quest’ultimo soltanto, infatti, fornisce per Reid le regole inviolabili cui attenersi nella ricerca filosofica, sia essa naturale o mentale, mentre la way of ideas infrangerebbe a suo avviso soprattutto la prima delle quattro regulae philosophandi indicate da Newton nei suoi Principia, secondo la quale le cause devono essere vere e sufficienti a produrre l’effetto, ovvero a spiegare il fenomeno. Nessuno, sostiene Reid, ha mai osservato fisicamente le idee, né tantomeno sarebbe logico affermarne l’esistenza in base alla sola autorità dei filosofi17. Anche in questo contesto peraltro, e riferendosi direttamente a Descartes, Reid rileva un abuso del principio di economia della natura. Come infatti i Peripatetici avevano moltiplicato eccessivamente il numero dei principi esplicativi della natura, facendo ricorso a forme, specie e qualità occulte, così Descartes su un uso costruttivo del procedimento analogico. Reid, peraltro, pone una distinzione fra coscienza e riflessione: la prima corrisponde alla «visione superficiale di un oggetto che ci si presenta davanti agli occhi mentre siamo occupati con qualcos’altro»; la seconda «all’attenta ispezione che operiamo su un oggetto quando siamo completamente impegnati a esaminarlo». Ivi, p. 239b. 17 L’applicazione più lucida del metodo induttivo-sperimentale e della prima regula viene attuata da Reid in polemica con la teoria vibrazionista esposta da David Hartley nelle sue Observations on Man, his Frame, his Duty and his Expectations (1749) in cui l’autore, ispirandosi allo Scholium Generale dei Principia newtoniani, ne sfrutta le intrinseche ambiguità che invitano a un’indagine di tipo congetturale. Per la critica di Reid ad Hartley e per un uso ragionato delle ipotesi si veda in particolare Th. reid, EIP, pp. 250a ss.; trad. it., pp. 344 ss. Con tutta probabilità, il vero obiettivo della critica reidiana era però Joseph Priestley, il combattivo ministro unitariano, filosofo e chimico di chiara fama, seguace di Hartley, il quale, in diverse opere, non solo aveva attaccato Reid, ma si era sforzato di mostrare, con intenti riduzionistici, come l’anima non fosse altro che la modificazione di un principio materiale organizzato ad alto livello, il cervello. Priestley aveva criticato Reid nella Examination of Dr. Reid’s ‘Inquiry into the Human Mind’ pubblicata nel 1774, e aveva riesposto la dottrina hartleyana, espungendone diversi aspetti, nella Hartley’s Theory of the Human Mind, pubblicata nel 1775, e a sua volta discussa da Reid in uno scritto rimasto inedito. Sulla strategia di Priestley riguardo l’opera di Hartley si veda s. Bucchi, Associazionismo e ipotesi materialistica da Hartley a James Mill, «Rivista di Storia della filosofia», LXXXV, 2, 1994, pp. 213-39. L’opera più rappresentativa di Priestley sul tema del rapporto mente-corpo è senz’altro la Disquisition on Matter and Spirit, del 1777.

meid, descamtes e la «waw of ideas»

113

cade nell’estremo opposto riducendo le dinamiche fisiche ai soli principi di estensione, figura e movimento, con la convinzione che «Dio li combina sempre così da produrre i fenomeni il più semplicemente possibile». Reid non nega che Descartes «eseguì molti esperimenti ed esortò tutti gli amici della verità a seguirlo in questa strada» ma, rispetto ai fenomeni naturali, pensava di riuscire a scoprire «con pochi esperimenti, il modo più elementare in cui essi si producono e che tale fosse nella realtà»18. All’accusa di abuso del principio di economia – secondo cui Descartes non avrebbe preso in considerazione principi altrettanto evidenti quali la gravitazione, la coesione, l’attrazione molecolare, le forze centrifughe e centripete19 – sembra accompagnarsi però una critica più raffinata che emerge dall’apparente contraddizione relativa al ruolo che in Descartes riveste l’esperimento e che riconferma il deciso orientamento newtoniano dello scozzese. Reid sa che Descartes diede molto spazio alla pratica sperimentale, soprattutto per quanto riguarda la ricerca anatomo-fisiologica, ma, sul piano della specifica indagine sulla filosofia naturale, l’‘esperimento’ era piuttosto condotto alla luce di principi già stabiliti per via razionale e non tratti attraverso un paziente lavoro induttivo. Dunque, se si intende il significato di esperimento alla luce della tradizione induttivo-sperimentale inaugurata dalla Royal Society, di cui Bacone fu il padre spirituale e Newton l’esponente più illustre, quegli esperimenti non hanno un reale valore euristico poiché già indirizzati da principi – o «congetture» secondo la terminologia reidiana – stabiliti indipendentemente dall’esperienza. Quei «molti» esperimenti si riferirebbero perciò principalmente alle indagini anatomiche e fisiologiche di Descartes, mentre, rispetto alla fisica e al funzionamento del mondo, essi sarebbero necessariamente «pochi» quando il criterio della chiarezza e distinzione e un Dio non ingannatore garantiscono la piena validità dei principi che li guidano20. Tale criterio, rileva Reid, non ha peraltro evitaTh. reid, EIP, p. 271b; trad. it., p. 385, corsivi miei. Cfr. Th. reid, IHM, p. 206b; trad it., p. 322. 20 John Cottingham nota come in Descartes, che pure si muove in un contesto di analisi quantitativa dei fenomeni, mancherebbero due elementi decisivi che caratterizzano la fisica classica: l’uso euristico della matematica e, come necessaria conseguenza, la possibilità di prevedere fenomeni simili in casi simili. Cfr. J. coTTinghAm, Cartesio, Bologna, il Mulino 1991, in part. pp. 116-125. Cottingham, che segue in parte l’analisi condotta da d. k. cLArke, Descartes’ Philosophy of Science, Manchester, Manchester University Press 1982, rileva comunque come lo stesso Descartes non credesse possibile una fisica comple18 19

114

emanuele levi momtema

to che Descartes prendesse clamorosi abbagli, vuoi nel derivare dall’identificazione fra materia ed estensione l’impossibilità dello spazio vuoto e dai principi dell’urto e della pressione l’ipotesi dei tourbillons; vuoi, dall’identificazione della mente con il pensiero e dall’impossibilità di ammettere che essa «fosse qualcosa di sconosciuto in grado di pensare», l’impossibilità di intenderla senza pensiero e dotarla perciò «fin dal suo nascere [di] idee che si dicono innate»21. Infine, è possibile scorgere nella critica di Reid, seppure implicitamente, un altro rilievo pertinente al suo prevalente orientamento metodologico: tentare di scoprire, come proverebbe a fare Descartes, le cause ultime dei fenomeni, cioè «il modo in cui essi si producono nella realtà», sarebbe un’ulteriore, palese infrazione del dettato newtoniano di non fingere ipotesi espresso nello Scholium Generale dei Principia, cioè confondere una corretta procedura osservativo-descrittiva, volta alla determinazione delle leggi generali dei fenomeni naturali, sostituendola con pretese di tipo genetico-esplicativo volte alla determinazione di cause efficienti. Reid, che legge alla lettera l’avvertimento dello Scholium riconducendovi anche le parti relative alla funzione dell’etere, ritiene che l’unico potere efficiente possa risiedere soltanto in un agente intelligente dotato di volontà libera, mentre la materia, come peraltro anche i cartesiani riconoscevano, è per definizione inerte e priva di qualsiasi potere attivo. Le leggi fisiche di natura, dunque, non sono altro che «le regole secondo le quali la Divinità agisce ordinariamente nel suo governo naturale del mondo»22. tamente deduttiva, limitandosi invece a dedurre a priori i principi più generali e astratti e indicando la necessità, una volta formulata un’ipotesi, di vagliarne l’attendibilità attraverso l’esperienza. In ciò Descartes si rivelerebbe un anticipatore del modello ipotetico-deduttivo, seppur raramente si discosti, nei suoi scritti, dall’impiego di modelli meccanici estremamente semplici. 21 Th. reid, EIP, p. 273b; trad. it., p. 389. Per Reid l’essenza della mente non si identifica, come per Descartes, nel pensiero, seppure la mente è, come per Descartes, qualcosa che pensa, sente, vuole, desidera etc. 22 Th. reid, EAP, IV, p. 628a. Per una discussione sul tema dei poteri attivi si veda m. sQuiLLAnTe, Fisica e metafisica della causalità in Thomas Reid, in Filosofia e cultura nel Settecento britannico, a c. di A. Santucci, Bologna, il Mulino 2000, vol. II: «Hume e Hutcheson. Reid e la scuola scozzese», pp. 469489. Sulla natura dell’etere Reid si esprime chiaramente in una lettera a Henry Home (Lord Kames) del 16 dicembre 1780: «Supponendo che questo etere esista, la sua elasticità e la sua forza repulsiva devono essere considerate come leggi di natura; mentre la causa efficiente di tale elasticità continuerebbe a rimanere sconosciuta» (cit. in Th. reid, Philosophical Works, cit., p. 58).

meid, descamtes e la «waw of ideas»

115

6. Senso comune e coscienza Il tentativo di Reid di costruire una scienza della natura umana alternativa a quella fondata sulla way of ideas prende le mosse dall’‘appello al senso comune’. L’appello al senso comune è innanzitutto una proposta metodologica, che assume le caratteristiche di ‘nozione di sfondo’ e che non si riduce semplicemente, come voleva Kant, a un richiamo al giudizio del volgo, «plauso di cui il filosofo arrossisce, mentre lo sputasenno ne inorgoglisce»23. Tale proposta parte dal rifiuto, di matrice newtoniana, di ammettere cause non provate e attenersi ai fatti osservati per ricercarne le leggi generali. Vige, cioè, una sorta di omologia fra la ‘costituzione della natura umana’, categoria cui spesso Reid si riferisce, e quella del mondo fisico; come lo scienziato naturale parte da alcuni assiomi, e da alcuni principi ottenuti per via induttiva, che gli consentono di procedere all’analisi e alla classificazione dei fenomeni naturali per poterne rinvenire le leggi generali, così lo scienziato della mente deve accogliere come certi ed evidenti alla coscienza alcuni principi fondamentali che svolgono la medesima funzione degli assiomi euclidei e sui quali tutta la conoscenza ottenuta attraverso il ragionamento deve riposare: Un matematico non può provare la verità dei suoi assiomi, perché non può provare nulla senza assumerli come dati. Non possiamo dimostrare l’esistenza delle nostre menti, né dei nostri pensieri e delle nostre sensazioni. Uno storico o un testimone non possono accertare nulla, se non si presuppone che la memoria e i sensi possono essere degni di fede. Così un fisico non può provare alcuna tesi, se non si conviene che il corso della natura sia regolare e uniforme24.

Sul piano metafisico e gnoseologico i principi richiesti per tale analisi sono i «principi di verità contingente» o principi di senso comune, che Reid, pur riconoscendo loro una natura auto-evidente, distingue da quelli di verità necessaria poiché, nonostante la loro regolarità e continuità, è possibile sul piano logico pensarne la contrarietà e la transitorietà25. L’elenco ne conta dodici, fra 23 i. kAnT, Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783), Roma, Laterza 1995, p. 8. Per il ‘metodo’ del senso comune si veda r. nichoLs, Thomas Reid’s Theory of Perception, Oxford, O.U.P. 2007, cap. I; per il senso comune come nozione di sfondo rinvio a m. mAione, op. cit., p. 116. 24 Th. reid, IHM, p. 130a; trad. it., p. 164. 25 L’espressione «Un cono è la terza parte di un cilindro con la stessa base e la stessa altezza» è una verità necessaria e non soltanto non ammette

116

emanuele levi momtema

cui l’attendibilità della coscienza, della memoria e dei sensi – e dunque in generale delle facoltà della natura umana senza necessità di prova o giustificazione –; la credenza nell’esistenza e nella continuità dell’identità personale e del mondo esterno; la tendenza a interpretare istintivamente e senza la mediazione del ragionamento i linguaggi non verbali (gesti, corpo, espressioni del viso); la propensione a credere nella testimonianza dei nostri simili e nell’autorità e a dire la verità e la credenza nella continuità delle leggi di natura. Un elenco giudicato eccessivamente ampio persino dagli stessi seguaci di Reid, come Stewart, e che rischia, come erano pronti a riconoscere i detrattori del senso comune, di porre limiti invalicabili alla ricerca sulla mente anziché porne le adeguate condizioni. L’evidenza della coscienza rimane in ogni caso, sia per Reid che per i suoi interlocutori, l’irrinunciabile garanzia di ogni credenza. Essa non può però, nella prospettiva del senso comune, limitarsi ad attestare l’esistenza del solo ‘io’ e da questo derivare, per deduzione o per catene inferenziali le altre credenze. Certo, Reid aderisce per molti versi al ‘dogma’ dell’accessibilità dei dati di coscienza, soprattutto nella sua critica ai meccanismi inconsapevoli di costruzione della conoscenza proposti dalla tradizione associazionistica26. Ma la coscienza, in Reid, agisce in concomitanza ad altre facoltà e studi recenti hanno messo in luce come, soprattutto negli scritti inediti in cui più marcata è l’influenza della Scuola medica di Edimburgo, egli si riferisca in modo più compiuto e sistematico al ruolo del sistema nervoso centrale, inteso come dispositivo biologico regolato dall’azione di un princicontrarietà, ma è vera sempre, indipendentemente dall’istante di tempo in cui mi trovo, che sia ieri, oggi o domani. Delle verità contingenti non ho invece certezza assoluta poiché, a rigor di logica, potrebbero subire mutamenti. Reid non fa altro che riprendere qui la nota distinzione humiana fra Relations of Ideas e Matters of Fact. Cfr. Th. reid, EIP, VI, v, pp. 441b-442a. Cfr. anche ivi, I, ii, pp. 230b-231a. Sui principi di verità contingente si è soffermato analitihe Cambridge Comcamente n. WoLTersTorff, Reid on Common Sense, in The panion to Thomas Reid, a c. di T. Cuneo e R. Van Woudenberg, Cambridge, C.U.P. 2004, pp. 77-100; per una breve sintesi sulle diverse accezioni di ‘senso comune’ rinvio a r. nichoLs, op. cit., pp. 21-23. 26 Si veda su questo punto c. giunTini, La chimica della mente. Associazione delle idee e scienza della natura umana da Locke a Spencer, Firenze, Le Lettere 1995, p. 143. Per l’atteggiamento di Reid nei confronti della tradizione associazionistica mi permetto di rinviare a e. LeVi morTerA, Associazione delle idee e senso comune, «Rivista di filosofia», XCVIII, 1, 2007, pp. 77-104.

meid, descamtes e la «waw of ideas»

117

pio vitale o senziente dal quale ‘emerge’ una forma di coscienza corporea che ha carattere inconsapevole e che, attraverso l’intermediazione del senso muscolare, riveste un ruolo primario nello stesso processo cognitivo. Reid, per timore di un’accusa di materialismo, avrebbe rinunciato a presentare le sue tesi negli scritti editi; ma senza dubbio, dando il giusto credito a tali interpretazioni, ne risulterebbe una posizione dualistica molto assottigliata, ancorché, in nome del suo newtonismo metodologico, egli non affronti mai sistematicamente la questione ontologica della natura sostanziale della mente27. 7. Sensazione e percezione Altro cardine della teoria reidiana è la distinzione fra sensazione e percezione, alla cui base è l’adozione di una psicologia delle facoltà che sostituisce il modello meccanicistico. Tale scelta non è estranea alla direzione degli studi neuro-fisiologici promossa dalla Scuola medica di Edimburgo, operante fin dalla metà del Settecento, e i cui esponenti, fra cui Robert Whytt che ebbe una decisa influenza sulla formazione scientifica di Reid, erano orientati verso un modello di natura umana sostanzialmente vitalistico in cui operano principi non riducibili a pure azioni meccaniche28. La distinzione fra sensazione e percezione ha innanzitutto una valenza terminologica: Reid ritiene infatti non vi sia accordo sul significato dei termini ‘impressione’, ‘sensazione’, ‘percezione’, ‘idea’ che, come gli idola fori baconiani, vanno emendati e chiariti affinché l’indagine sulla mente possa correttamente avviarsi. La sensazione, dunque, consiste per Reid in una «affezione semplice e originaria della mente», effetto noto di una causa ignota e completamente dissimile da ciò che l’ha prodotta. Il principio 27 La lettura ‘emergentista’ di Reid è presente in A. Ben-zeeV, Reid’s Opposition to the Theory of Ideas, in The Philosophy of Thomas Reid, ed. by M. Dalgarno, E. Matthews, Dordrecht, Kluwer Academic Publishers 1989, pp. 91-101 ed è sistematicamente sviluppata in m. mAione, op. cit. Per la questione dell’agnosticismo ontologico, si veda r. nichoLs, op. cit., p. 36. 28 Sugli interessi medici e biologici di Reid si veda Thomas Reid on the Animate Creation. Papers relating to the Life Science, ed. by P. Wood, Edinburgh, E.U.P. 1995; per gli studi in lingua italiana segnalo m. mAione, op. cit., cap. 2; c. pAoLeTTi, Reid, Whytt e i «principi meccanici dell’azione», in Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico, a c. di L. Turco, Padova, Il Poligrafo 2003, pp. 401-420; id., Thomas Reid e le scienze mediche, «Rivista di storia della filosofia», LXI, 2, 2006, pp. 317-343.

118

emanuele levi momtema

di dissomiglianza interviene qui in modo radicale: la sensazione ha una natura intenzionale – è cioè rivolta alla causa che l’ha prodotta pur senza coglierne la natura – e sostanzialmente nonproposizionale, cioè non espressa nella forma ‘S sa che p’. Essa rinvia intenzionalmente, come un segno naturale, al mondo esterno ma, chi prova un piacere, un dolore o una qualsiasi affezione dei sensi, «sa di non esserne la causa e tuttavia non gli riesce di determinare, stando a ciò che prova, se su di lui agisca qualcosa di materiale o spirituale, di vicino o lontano»29. La percezione, al contrario, apre una finestra sul mondo e ricopre l’effettiva funzione epistemica e cognitiva nel processo conoscitivo. Secondo il noto esempio reidiano, dire «vedo un albero» è diverso dal semplice dire un fatto di sensazione come «sento un dolore». La percezione è il frutto della combinazione di più facoltà e comporta una nozione, o concezione chiara della forma dell’oggetto, e una credenza immediata nella sua esistenza presente. Coscienza, attenzione, memoria e immaginazione concorrono tutte a trasmettere l’irresistibile convinzione dell’esistenza indipendente dell’oggetto percepito: La percezione, come qui la intendiamo, ha sempre un oggetto distinto dall’atto in cui è percepito, ossia un oggetto che può esistere indipendentemente dal fatto di venir percepito. Sono consapevole di tale atto e […] non trovo nulla che gli somigli più del ricordo dell’albero o dell’immaginazione che ne ho. Ma anche il ricordo e l’immaginazione differiscono essenzialmente dalla percezione, così come sono diversi fra loro. Invano un filosofo [Hume] tenta di assicurarmi che l’immaginazione, il ricordo e la percezione di un albero si distinguono solo per il grado di vivacità. So che le cose stanno in modo del tutto opposto, perché conosco quelle tre operazioni come le stanze della mia casa30.

L’azione congiunta delle facoltà elabora la serie di segni naturali che «suggeriscono, quasi evocano, la cosa significata, senza che se ne abbia alcuna concezione preliminare, per una sorta di 29 Th. reid, IHM, p. 105a; trad. it., pp. 114-115. «Quale che sia la natura della qualità dei corpi chiamata “caldo”, sappiamo con certezza che non assomiglia alla sensazione di caldo. Non è meno assurdo supporre una somiglianza fra la sensazione e la qualità corrispondente di quanto non lo sia supporre che il dolore della gotta somigli a un quadrato o a un triangolo. […] Se un uomo batte con violenza la testa contro un pilastro, si può chiedere a lui se il suo dolore somiglia alla durezza della pietra o se riesca a immaginare che qualcosa di simile a ciò che sente si trovi in un oggetto inanimato». Ivi, pp. 119b, 120a; pp. 145, 147. 30 Ivi, p. 183a; p. 274, corsivi miei.

meid, descamtes e la «waw of ideas»

119

magia naturale (a natural kind of magic) che ce ne fornisce la nozione e la credenza»31. La percezione, che è l’atto di una mente attiva direzionata a un oggetto esterno, implica dunque un giudizio di esistenza immediato che non è il prodotto né di un’operazione razionale di confronto fra le idee, né di un lavoro di inferenza e composizione svolto da dati ‘atomici’ (le idee semplici di Locke, le impressioni/idee di Hume), bensì di un processo in cui opera una naturale suggestion in virtù della quale la sensazione suggerisce la nozione di esistenza presente e la credenza nell’esistenza attuale di ciò che percepiamo o sentiamo; la memoria ci suggerisce la nozione di esistenza passata e la credenza che quanto ricordiamo esistesse in passato; e infine le nostre sensazioni e i nostri pensieri ci suggeriscono la nozione di mente, nonché la credenza nella sua esistenza e nei suoi rapporti con i pensieri stessi32.

La percezione, che implica un giudizio naturale, coglie l’oggetto come un complex e soltanto dopo, attraverso un lavoro di analisi, la mente ne scompone le diverse parti. L’applicazione del principio di dissomiglianza conduce perciò, in primo luogo, a porre alla base del processo conoscitivo una sorta di grammatica naturale che opera attraverso segni decodificabili in virtù della medesima costituzione della natura umana; in secondo luogo, a respingere modelli gnoseologici di tipo analitico-cognitivo e inferenziale – quali il confronto fra l’accordo e il disaccordo di idee in Locke o la corrispondenza impressioni-idee in Hume – fondati su un giudizio raziocinativo e che presumono implicitamente una somiglianza fra oggetti e idee; infine, all’eliminazione di una sorta di ‘quarto incomodo’, l’idea, posto fra gli unici tre elementi del processo percettivo ammessi Ivi, p. 122a; p. 151. Ivi, pp. 111a-b; pp. 127-128. In realtà nozione o concezione e credenza immediata nell’esistenza sono forniti dall’azione congiunta di sensazione e percezione. Alcuni studi hanno rilevato come in IHM la sensazione, precedendo cronologicamente la percezione, finisca per occupare una posizione ‘intermedia’ rispetto all’oggetto percepito e all’atto di percezione, dando adito, in virtù della sua presunta funzione di segno inferenziale, a una forma di realismo indiretto. In EIP, invece, la sensazione non precede più la percezione ma la accompagna, evitando così la mediazione e approdando a una forma di realismo diretto più coerente con la posizione reidiana. Cfr. J. immerWAhr, The Development of Reid’s Realism, «The Monist», 61, 1978, pp. 245-256. Si vedano, con diverse angolature interpretative, le risposte avanzate da m. mAione, op. cit., cap. 3 e r. nichoLs, op. cit., pp. 241 ss. 31 32

120

emanuele levi momtema

da Reid, «la mente che percepisce, l’operazione mentale [o atto] chiamata percezione e l’oggetto percepito»33. Il senso comune, garantendo la corrispondenza fra l’uniformità della natura e del linguaggio da essa adottato e l’affidabilità delle facoltà mentali atte a interpretarlo, è assunto come ‘sfondo’ alla piena funzionalità del processo conoscitivo. Da questo punto di vista, esso non si pone perciò come ostacolo alla libera indagine sulla natura umana bensì, come è stato rilevato in modo assai pertinente, «ci avverte nel momento in cui le nostre suggestioni filosofiche, altrimenti interessanti, si spingono ad un estremo assurdo, incoraggiandoci a guardare indietro per riconsiderare il nostro punto di partenza e le inferenze opinabili operate lungo il percorso»34. 8. Ancora sul materialismo Il pericolo di una deriva materialistica della teoria della mente, in cui Reid stesso avrebbe avuto timore di cadere, può render conto della lettura unilaterale che egli propone rispetto alla natura delle idee come enti reali intermedi fra mente e mondo, e che ha spinto alcuni interpreti ad imputargli un sostanziale fraintendimento di tutta la tradizione della way of ideas35. Quando parla di idea-oggetto Reid ha in mente il modello imagista che in effetti, attraverso la dinamica ‘presentazionista’, può indurre a una lettura materialistica della natura delle idee. Reid perciò non è uno sprovveduto, sa quel che dice, e la sua interpretazione è funzionale al suo progetto di fondazione di una scienza della natura umana che si ponga come valida alternativa al modello della way Th. reid, EIP, p. 293b; trad. it., p. 427. d. JAcQueTTe, Thomas Reid on Natural Signs, Natural Principles, and the Existence of the External World, «The Review of Metaphysics», 57, 2003, pp. 279-300, p. 300. Sul tema della grammatica naturale si veda anche c. giunTini, op. cit., pp. 136-153. 35 Mi riferisco in particolare alle tesi di J. yoLTon, Perceptual Acquaintance from Descartes to Reid, Oxford, Basil Blackwell 1984, riprese da J. p. WrighT, Hume vs. Reid on Ideas: The New Hume Letter, «Mind», 96, 1987, pp. 392398. Yolton assume come criterio interpretativo della way of ideas un progressivo processo di deontologizzazione delle idee coerentemente perseguito dai suoi esponenti. L’idea esistente nella mente sarebbe una metafora per indicare il carattere consapevole, cognitivo e semantico della coscienza percettiva. Per ‘idea’ si deve perciò intendere l’oggetto esistente nella mente nell’unico modo in cui esso può effettivamente risiedervi, cioè il medesimo atto mentale attraverso il quale se ne coglie il contenuto. 33 34

meid, descamtes e la «waw of ideas»

121

of ideas. Ne è prova il suo ‘trattamento’ delle idee in Descartes. Reid tralascia infatti lo slittamento semantico del termine ‘idea’ che caratterizza il passaggio dalle prime opere di Descartes – le Regole per la guida dell’intelligenza, Il Mondo, L’Uomo, la Diottrica –, dove esso si riferisce espressamente alle immagini nella fantasia corporea, cioè a configurazioni o impressioni cerebrali, e l’opera della maturità – segnatamente le Meditazioni –, dove l’idea è qualcosa che esiste nella mente o un modo della sostanza pensante, lontana dalla ‘traccia’ scavata dagli spiriti animali36. Per Reid però sembra sufficiente far riferimento al punto d’incontro fra mente e corpo, cioè alla ghiandola pineale come sede dell’anima, per avanzare il sospetto di un’illecita commistione fra le due nature e per fare dell’idea l’oggetto immediato di percezione. Da questo punto di vista, Reid farebbe di Descartes un potenziale materialista, pur avendolo assolto sul piano metodologico dalle tentazioni dell’analogia della materia. D’altra parte, avrebbe modo di evitare questa conclusione considerando più attentamente la differenza presente in Descartes fra idea intesa in senso formaliter e idea intesa in senso objective, che invece liquida troppo precipitosamente. Pur considerando alcune, ulteriori, oscillazioni semantiche cui il termine ‘idea’ è sottoposto nel breve torno di tempo che separa le Meditazioni dalle Risposte37, Descartes è piuttosto netto nell’attribuire all’idea formaliter la funzione di atto mentale o modo del pensiero stesso e all’idea objective la funzione rappresentativa delle cose. Nel primo significato, il termine ‘idea’ venne ripreso da Antoine Arnauld nel suo Traité des vraies et des fausses idées (1683), la cui polemica con Malebranche diede avvio al dibattito sullo statuto ontologico delle idee e sulla loro realtà oggettiva. Arnauld identifica di fatto percezione e idea distinguendole solo razionalmente: entrambe rappresentano la medesima modificazione mentale, sebbene la prima sia tale in rapporto al soggetto pensante mentre la seconda in rapporto all’oggetto pensato. Dunque l’idea corrisponderebbe al medesimo atto mentale, così come pure era disposto a riconoscere Reid, il quale infatti affer36 Per un’analisi in proposito si vedano r. mcrAe, “Idea” as a Philosophical Term in the Seventeenth Century, «Journal of the History of Ideas», 26, 1965, pp. 175-184; e.-f. s. michAeL, Corporeal Ideas in Seventeenth Century Psychology, «Journal of the History of Ideas», 50, 1989, pp. 31-48. 37 È la tesi sostenuta da s. LAnducci, La ‘coscienza’ in Cartesio, «Rivista di filosofia», 86, 3, 1995, pp. 325-353.

122

emanuele levi momtema

ma: «Per evitare fraintendimenti rammenterò ancora al lettore che se per ‘idee’ s’intendono soltanto gli atti o le operazioni della mente quando percepisce, ricorda o immagina, non è mia intenzione dubitare della loro esistenza»; e proprio per questo «non è facile determinare se [Arnauld] abbia adottato la teoria comune delle idee oppure se sia il solo a rifiutarla come una finzione filosofica»38. Avendo sott’occhio la definizione di idea data da Descartes e contenuta nelle Risposte alle seconde obiezioni39, Reid osserva come Arnauld avrebbe accolto, seppure limitatamente all’idea di Dio, la prima parte di essa, che propende in effetti per l’identificazione fra idea e percezione, e ne avrebbe omesso la seconda parte in cui invece Reid scorge un ritorno ad un processo di mediazione dovuto alle immagini prodotte dalla fantasia corporea. Però Arnauld, riferendosi ripetutamente alla funzione rappresentativa delle idee e tentando di conciliarla con la sua dottrina, farebbe un’implicita concessione alla teoria comune delle idee, non accorgendosi peraltro di cadere in contraddizione. Egli osserva infatti che ogni percezione e ogni pensiero è necessariamente autoconsapevole e riflette su se stesso, divenendo così il suo proprio oggetto immediato. Se ne conclude che l’idea, ossia la percezione, è l’oggetto immediato della percezione medesima40.

In ultima analisi, Reid ignora volutamente lo slittamento semantico di ‘idea’ che potrebbe evitare a Descartes le accuse di materialismo, mentre riconferma il rappresentazionismo come la via obbligata seguita dai suoi avversari. Reid avrebbe probabilmente assunto un altro atteggiamento se Descartes avesse attribuito con meno esitazione all’aspetto formaliter dell’idea la Th. reid, EIP, pp. 298a, 295a; trad. it., pp. 435, 430. La definizione suona così: «(I) Col nome di idea intendo quella forma di ognuno dei nostri pensieri, per la percezione immediata della quale abbiamo conoscenza di questi stessi pensieri. In modo tale che non posso esprimere nulla per mezzo di parole, quando intendo ciò che dico, senza che da ciò stesso non derivi la certezza, che ho in me l’idea della cosa significata dalle mie parole. (II) E così io non chiamo col nome di idea le sole immagini dipinte nella fantasia; al contrario, non le chiamo qui con quel nome in quanto esse sono nella fantasia corporea, cioè in quanto sono dipinte in alcune parti del cervello, ma solamente in quanto informano lo spirito stesso che si applica a quella parte del cervello». AT, VII, 160-161; trad. it. cArTesio, Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, in Opere filosofiche, Bari, Laterza 1986, vol. 2, p. 148. 40 Th. reid, EIP, p. 297b; trad. it., p. 434. 38 39

meid, descamtes e la «waw of ideas»

123

sua natura intenzionale direzionata all’oggetto e dunque la sua essenziale funzione cognitiva; se avesse ricompreso nell’idea formaliter anche l’idea obiective facendone un’idea unitaria; se non avesse indotto a credere che quest’ultima fosse una copia o duplicato dell’oggetto. D’altronde, la stessa tradizione medievale da cui Descartes riprende la distinzione, aveva operato proprio nella direzione di tale unitarietà. Reid si ostina perciò a vedere soltanto un aspetto del problema, probabilmente per salvaguardare la coerenza della sua interpretazione, ma a rischio di essere incongruente per aver già assolto Descartes dall’analogia della materia. Infine, si può anche fare di Descartes un sostenitore di una teoria intenzionalista, ma se l’atto intenzionale, anziché all’oggetto, è direzionato verso l’idea si ricade in una forma di realismo indiretto, posizione che Reid appunto imputa a Descartes41. 9. Principio di dissomiglianza e mondo esterno Nonostante questa critica, Reid, lo si è visto all’inizio, assolve Descartes dall’accusa di fenomenismo o, peggio ancora, di idealismo soggettivistico, riconoscendogli, insieme a Malebranche e Locke, almeno la buona volontà di aver tentato di evitare lo scetticismo, condotto alle estreme conseguenze da Berkeley e Hume: Descartes aveva appena cominciato a penetrare in questa miniera [della natura umana] che lo scetticismo era già pronto a far breccia su di lui. Egli cercò in ogni modo di evitarlo, ma Malebranche e Locke, che vi erano penetrati ancora più a fondo, trovarono difficoltà nell’impedire a quel nemico di espandersi: tuttavia essi compirono laboriosi e onesti sforzi in questa direzione. Allora Berkeley, che ne continuava l’opera, disperando di salvare l’intera situazione escogitò un espediente, quello di abbandonare il mondo materiale […] e di salvare il mondo spirituale con un’inattaccabile separazione di domini. Ma, ahimé! Il Trattato sulla natura umana ha capricciosamente distrutto i fondamenti di tale divisione e sommerso tutto in un diluvio universale42.

In effetti, come emerge in modo abbastanza evidente sia nelle Meditazioni sia nei Principi – due testi che Reid conosce mol41 Va però rilevato come l’atto intenzionale, pur se direzionato all’oggetto, possa essere considerato di per se stesso intrinsecamente rappresentativo e dunque non risolvere del tutto il problema della ‘mediazione’. La tesi è discussa in r. sTecker, Does Reid Reject/Refute the Representational Theory of Mind?, «Pacific Philosophical Quarterly», 73, 2, 1992, pp. 174-184. 42 Th. reid, IHM, p. 103b; trad. it., p. 111.

124

emanuele levi momtema

to bene –, le sensazioni, come un dolore, e le idee di sensazione, come un colore o un suono, rimandano causalmente a qualcosa di esterno che esiste sebbene non se ne possa cogliere la natura ultima. Questo compito è riservato alle idee dell’intelletto puro, che colgono l’oggetto attraverso le sue proprietà misurabili e dunque secondo un criterio universale matematico-geometrico che è la cifra propria della teoria della conoscenza di Descartes. Il principio di dissomiglianza, che opera in Descartes tanto quanto in Reid, non permette infatti di cogliere le reali qualità dell’oggetto semplicemente in virtù di una corrispondenza diretta fra idea (avventizia) e qualità, poiché sarebbe un ricadere nel principio aristotelico-scolastico dell’adæquatio rei et intellectus. Inoltre le idee avventizie e fattizie, cioè le idee di sensazione e di immaginazione, pur essendo fenomenicamente sempre vere, – un tavolo o una chimera, infatti, sono idee allo stesso titolo, – sono epistemicamente inattendibili poiché la loro oscurità, dovuta alla mescolanza con i sensi, produce una conoscenza confusa ed è perciò necessario l’intervento dell’intelletto per giudicarne verità o falsità del contenuto. Di conseguenza, la conoscenza chiara e distinta si deve all’intervento ‘decodificante’ della mente, la quale interpreta i movimenti che l’azione meccanica dei corpi produce sul corpo del soggetto senziente. In questo modo, come è stato rilevato, si instaura un rapporto tra il movimento e la varia disposizione delle parti della materia dei corpi, e il movimento e la disposizione del corpo del soggetto, dopodiché la sensazione nasce nell’anima perché, essendo questa unita al corpo, traspone le proprietà geometriche e il movimento in un sentire43.

Il sentire, grazie alla natura dell’anima, diviene perciò pensiero in virtù dell’attivazione di alcuni schemi geometrici innati occasionata, ma non direttamente causata, dalle sensazioni, e tali schemi riconoscono e decodificano i movimenti corporei presentati dalla sensazione stessa. In questo senso Descartes parla di una ‘certa’ somiglianza fra idee e qualità che garantisce una conoscenza chiara e distinta e che, di fatto, risolve il carattere soggettivo, oscuro e sensibile delle qualità non geometriche in quello 43 e. AngeLini, Le idee e le cose. La teoria della percezione di Descartes, Pisa, Edizioni ETS 2007, p. 227. Su questo tema si veda anche n. ALLoccA, L’io, l’immagine, il cervello. Sulla teoria cartesiana della visione, in La mente, il corpo e i loro enigmi, a c. di G. Coccoli, A. Ludovico, C. Marrone, F. Stella, Roma, Stamen 2007, pp. 83-95.

meid, descamtes e la «waw of ideas»

125

oggettivo, distinto e intellettuale delle qualità geometriche, che rimandano all’‘essenza’ del corpo in quanto res extensa44. Anche in Reid la dissomiglianza impedisce una corrispondenza qualitativa diretta fra sensazioni e nozioni dell’oggetto, e il principio della suggestion, attraverso il senso muscolare e la coscienza (corporea), agisce come tramite sostituendo però al modello meccanicistico cartesiano il modello vitalistico che egli trae dalla tradizione della Scuola Medica di Edimburgo. Applicando integralmente il principio di dissomiglianza Reid va oltre Descartes e la tradizione della way of ideas. Egli ravvisa infatti un residuo di somiglianza non soltanto in Descartes e nella teoria dei movimenti qualitativi ‘decodificati’ dagli schemi/idee geometrici innati, ma anche ad esempio in Locke, per il quale le idee delle qualità primarie rinviano, appunto per somiglianza, alle qualità primarie dei corpi che sono il risultato di una configurazione molecolare che ha il ‘potere’, come è noto, di produrre indirettamente anche le qualità secondarie45. La struttura stessa della natura umana, lo ‘sfondo’ del senso comune, diviene così per Reid, definitivamente, l’unico veicolo di interpretazione del mondo esterno, svincolato da ciò che ai suoi occhi rimane ancora un residuo del modello aristotelico – la somiglianza –, e da un meccanismo inferenziale che, alla base della way of ideas, conduce soltanto allo scetticismo.

44 La teoria ‘occasionalista’, intesa nel senso riportato, è riscontrabile nelle cartesiane Notae in programma quoddam. 45 Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a c. di M. e N. Abbagnano, Torino, Utet 1971, II, viii. Per un confronto fra la posizione di Reid e quelle di Descartes e Locke sul problema del mondo esterno e della sostanza rinvio a L. ALBAnese, Alle origini del «senso comune»: la critica di Reid a Hume, in, Scienza e senso comune, a c. di L. Albanese, E. De Pisi, M. Fraioli, Roma, Bulzoni 1987, pp. 9-81, in part. pp. 58-71.

Caterina Marrone IMPLICAZIONI ANTICARTESIANE DELLA TEORIA DEL LINGUAGGIO IN G.B. VICO

1. La ‘querelle’ tra antichi e moderni a Napoli Quella controversia tra antichi e moderni, che già traeva origine nell’umanesimo di S. Speroni (1500-1588) e di J. Du Bellay (1522-1560), e che stava a fondamento della coscienza storica moderna, nell’epoca tardo-barocca – ma anche successivamente – divenne uno dei motivi conduttori della polemica e del dibattito che invase l’Europa stessa in paesi come la Francia di Fontenelle (1657-1757), o l’Inghilterra di Swift (1667-1745) attorno alla scienza e, di conseguenza, alla filosofia. Per accertare il grado di acrimonia a cui, in alcuni casi, si era giunti, basta citare il celebre passo de La battaglia dei libri (1697) dell’irlandese J. Swift in cui si fa dire a Esopo che gli antichi (e i loro seguaci) sono come le api che producono il miele prendendolo dalla natura; mentre i moderni, come i ragni, traggono di che filare la propria scienza dai loro stessi escrementi1. Fuor di metafora si mettono a contrasto coloro che nel creare si riallacciano a una tradizione antica (avvertita sempre come presente in quanto relazionata con la natura umana), e quanti, interrompendo questo legame, si affidano esclusivamente a se stessi e, ancor peggio, al sentito dire2. Mentre nei paesi appena citati, Francia e Inghilterra, la controversia si combatteva tra esponenti di spicco di ambiente, alme-

1 M. fumAroLi, Le api e i ragni. La disputa degli antichi e dei moderni, Milano, Adelphi 2005. 2 Come i cosiddetti ‘virtuosi’ inglesi dell’epoca di J. Swift: cfr. C. mArrone, Le lingue utopiche, Viterbo, Stampa Alternativa & Graffiti 2002, pp. 165167.

128

caTERINA MARRONE

no per ciò che riguarda la filosofia e la scienza, per lo più nazio� nale, in Italia, o meglio in quella parte di Italia che era il Regno di Napoli, un grande filosofo, un antico, combatte la sua battaglia in punta di pensiero con una filosofia che non nasce insra moenia ma che è importata direttamente dalla Francia e dalle ramificazio� ni che in Europa aveva scavato: il cartesianesimo3. Come lo stesso Vico racconta nella sua autobiografia4, e come è ampiamente noto, dopo un soggiorno, anche se non continuati� vo, di nove anni a Vatolla, un piccolo paese del Cilento, nel 1695 il filosofo torna a Napoli dove trionfava la nuova filosofia della modernità e dove quella Sapienza che egli era andato rintraccian� do in tutta l’antichità classica vedeva essere vilipesa e resa inser� vibile; con la sua dottrina ed erudizione – egli dice – «si ricevè in Napoli, come forestiero nella sua patria»5. La Napoli dell’epoca si divideva in chi seguiva le scuole gesuitiche e chi le correnti carte� siane, queste ultime in particolare erano di gran moda e gli adepti si raccoglievano principalmente intorno a due Accademie: quella del Marchese d’Arena ovvero l’Accademia degl’Invessigansi, nota per essere la consorteria dei più dotti di quel tempo; e l’Accademia degli Oziosi, fondata da Giovambattista Manzo, marchese di Villa, che contava un gran numero di cosiddetti Renasissi, e che attirava una folla di ufficiali, titolati e principi. Alla prima appar� tenne quello stesso Tommaso Cornelio che aveva introdotto a Napoli i libri di Cartesio, ma anche Leonardo di Capua, menzio� nato da Vico quando il filosofo si rammarica che la medicina era decaduta nello scetticismo, e altri illustri personaggi6. La secon� da entrò in quegli anni in vivace polemica con l’Accademia degli Infuriasi, cui in seguito appartenne anche il Vico, poiché il Renasismo era diventato il principio di ogni cosa: non vi era novità, gloria, scienza o salute se non in questa dottrina7. Evidentemente 3

A. BATTISTINI, Vico sra ansichi e moderni, Bologna, il Mulino 2004. G. B. VICO, Visa di Giambassissa Vico scrissa da se medesimo, in Opere, a c. di B. Croce e F. Nicolini, Bari, Laterza, vol. V, 19292. Un volume di ampio respiro e originalità sul pensiero vichiano assorbito dalla Spagna e dal Sud America anche senza menzione specifica del filosofo, è quello di J. M. SEVILLA FERNANDEZ, El espejo de la época. Capísulos sobre G. Vico en la culsura hispánica (1737-2005), Napoli, La Città del Sole 2007. 5 G. B. VICO, op. cis., cap. III. 6 Come i fratelli Francesco e Gennaro D’Andrea, Carlo Buragna, Lucan� tonio Porzio, Sebastiano Bartoli, e altri. 7 Il grado di intolleranza di queste dispute verso coloro che non seguivano il Renasismo raggiunse punte tali da far osservare a P. M. Doria, amico e ‘simpa� 4

implicazioni anticamtesiane della teomia del linguaggio

129

la filosofia cartesiana rispondeva a quel bisogno di nuovo che si stava diffondendo in tutt’Europa e che, a Napoli, voleva lasciarsi alle spalle la vecchia scolastica e lo (pseudo) nuovo platonismo. I progressi delle scienze naturali, ottenuti con l’applicazione del moderno metodo galileiano, aumentavano nella percezione degli intellettuali la latitudine tra la nuova scienza e la ‘vecchia’ filosofia, rimasta in questo sentire, a verbosi quanto sterili tornei filosofici. In questo humus, in questa disposizione delle menti, ben si innestava il metodo cartesiano che esigeva una certezza intima alle deduzioni della scienza, non ricavata da autorità o principi esterni, ma sempre riducibile a tale certezza interiore che rendeva certo anche il dubbio. Incredibilmente però dei vari personaggi che calcavano la scena intellettuale del momento – Giuseppe Valletta, Paolo Mattia Doria, Costantino Grimaldi, Giambattista De Benedictis, Gregorio Caloprese, Francesco Maria Spinelli – si inizia solo da poco a sapere se e quali opere di Descartes abbiano letto e manca, a tutt’oggi, una mappa dettagliata della letteratura che, in proposito, veniva fatta a Napoli. 2. Critica al «cogito» In queste pagine si tratterà di una linea di pensiero vichiano che è stata già percorsa da molti illustri ricercatori8, quella centratizzante’ del Cartesio: «Ho sperimentato la Repubblica de’ Cartesiani assai più risentita e vendicativa che non lo è quella de’ Principi Sovrani» (A. gALAsso, Discorso preliminare a Giovan Battista Vico, Cinque Orazioni Latine inedite, Napoli, D. Morano 1968, p. XCIV). Mutato quel che c’è da mutare polemiche violente si accesero pure nella contemporaneità tra chomskiani (dal cartesianismo rivisitato) e non, soprattutto per quanto riguardava l’innatismo linguistico. 8 Della lunga teoria di importanti studiosi che hanno messo a fuoco le riflessioni vichiane sul linguaggio se ne ricordano solo alcuni che vanno da Croce (B. croce, La filosofia di Giambattista Vico, Roma-Bari, Laterza 1911) a Nicolini (B. croce, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, Napoli, Ricciardi 1947-48, 2 voll.) a Auerbach (E. AuerBAch, S. Francesco, Dante, Vico e altri saggi di filologia romanza, Roma, Editori Riuniti 1997) da Cassirer (E. cAssirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, Olschki 1965) a Pagliaro (A. pAgLiAro, Lingua e poesia secondo G.B. Vico, in id., Altri saggi di di critica semantica, Messina-Firenze, D’Anna 1971) a Tagliacozzo (G. TAgLiAcozzo (a cura di), Vico: Past and Present, Atlantic Highlands, Humanities Press 1981) a Grassi (E. grAssi, Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger, and Rhetoric, Bern-Frankfirt am Main-New York-Paris, Lang 1990) da Apel (K. O. ApeL, L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico, Bologna, il Mulino 1963) a Coseriu (E. coseriu, Die Geschichte der Sprachphilosophie von

130

catemina mammone

ta sugli aspetti semiotici e linguistici; ma proprio in questa ottica, seppur trattandolo brevemente, non si può tralasciare la posizione critica che il Vico sviluppò proprio nei confronti del centro della teoria cartesiana: il cogito ergo sum. È opportuno, per far questo, partire dal De antiquissima Italorum sapientia del 17109 in cui il pensatore napoletano, considerando il linguaggio il precipitato del pensiero, ritiene che attraverso l’etimologia si possano ricavare forme originarie, tracce primordiali del pensiero degli antichi, sicché applicando questa strategia etimologica, tramite alcune parole latine, si possa ritrovare – ed egli si cimenta nell’impresa – la sapienza delle antiche popolazioni italiche che avevano abitato la penisola. Proprio in tale circostanza propone l’equivalenza del verum e del factum, e cioè della sinonimia, almeno nel latino repubblicano, delle due parole, dove il concetto di ‘vero’ equivale al concetto di ‘fatto’, osservazione che si concreta nella formula Verum et ipsum factum convertuntur, vale a dire che il criterio e la regola del vero consiste nel fare; vero e fatto coincidono10. Ma il nerbo filosofico della questione si trova nella conder Antike bis zur gegenwart. Eine Übersicht, vol. 2, Von Leibniz bis Rousseau, Tübingen, Narr 1972) a De Mauro (T. de mAuro, Introduzione alla semantica, Bari, Laterza 1965) Formigari (L. formigAri, Ermeneutica giuridica e teoria della lingua in G. B. Vico, in «Intersezioni» VII, 1987, 1) da Gensini (S. gensini, Linguaggio e natura umana: Vico, Herder e la sfida di Cartesio in Il corpo e le sue facoltà. G. B Vico, a c. di G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna, A. Scognamiglio, in «Laboratorio dell’ISPF», II, 2005, 1) a Di Cesare (D. di cesAre, Parola, logos, dabar: linguaggio e verità nella filosofia di Vico, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XXII-XXIII, 1992-93, pp. 251287) a Trabant (J. TrABAnT, Neue Wissenschaft von Alten Zeichen: Vicos Sematologie, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1994, trad. it. La scienza Nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, Bari, Laterza 1996) a Fortuna (S. forTunA, Per una genealogia dei simboli umani. Aspetti fisionomici e linguaggio nella ‘Scienza Nuova’ di Vico e nell’ultimo Wittgenstein, in C. mArrone et alii (a cura di), La mente, il corpo e i loro enigmi, Roma, Stamen 2007), da Cantelli (G. cAnTeLLi, Mente, corpo e linguaggio. Saggio sull’interpretazione vichiana del mito, Firenze, Sansoni 1986) a Danesi (M. dAnesi, Vico, Metaphor and the Origin of Language, Bloomington, Indiana University Press 1993) e altri che si inseriscono non ultimi in questo elenco molto parziale. 9 Il progetto del volume doveva includere tre parti: la prima o Liber metaphysicus (1710), la seconda, il Liber Physicus, che invece vide la luce col titolo di De aequilibrio corporis animantis (1713) e che andò perduto ma che trova spazio in ampi brani della Vita, e il Liber moralis che il Vico non scrisse mai. 10 J. M. seViLLA fernAndez, L’argomentazione storica del criterio ‘verumfactum’. Considerazioni metodologiche epistemologiche e ontologiche, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XVI, 1986, pp. 307-323.

IMPLICAZIONI ANTICARTESIANE DELLA TEORIA DEL LINGUAGGIO

131

cezione che Vico ha dell’idea: l’idea è per lui la causa cioè il vero, causa e vero sono equivalenti, come bene riassume Antonio Galasso, bibliotecario, nella sua introduzione alle Orazioni vichiane, sottolineando altrove la matrice platonica, anche se fortemente rivisitata, di questo tipo di pensiero: Il vero non è l’Uno, o l’In sé assoluto, ma l’In sé verso l’altro, e perciò chiamasi Idea. L’Idea in sé non è né vera né falsa, perché assolutamente una; ma, come Idea, importa l’altro, a cui è Idea, cioè cosa veduta, e appunto perché importa l’altro è causa. Quindi l’identità del vero e del fatto, o dell’idea e della causa […] Il fatto come mero fatto, non è né causa né idea, è una cosa inconcepibile, quantunque appresa dai sensi: invece il fatto che va da un termine a un altro, come sono il pensiero e il moto, è il vero fatto, e la sintesi naturale dell’uno e dell’altro in un sol fatto, è il maggior fatto e questo è l’Universo. Il quale dall’estremo termine sensibile, raggiunge la massima perfezione in quel punto, dove ritrova il suo principio; cioè nel pensiero. Il pensiero adunque è l’universo, non più posto, cioè mero termine, ma che si pone. Ora, ciò che si pone, ciò che è principio e termine di se, è idea insieme e causa, fa pensando, e pensando fa […]11.

Un dinamismo intrinseco (di sapore neoplatonico) percorre l’idea e contemporaneamente ne fa un quid che trae la sua sussistenza, detto in termini moderni, dalla relazione: l’idea è sempre duplice (importa l’altro) – il secondo livello di emanazione del cosmo neoplatonico, si ricorderà, la sfera dell’intelletto, è doppia ed equivale al due. L’uomo dunque conosce quello che fa: conosce la matematica perché egli stesso ne costruisce i postulati, le definizioni, gli assiomi, ma non potrà mai conoscere, nello stesso modo, il mondo della natura perché non è stato lui a crearlo. Conoscere qualcosa vuol dire quindi ritrovarne i principi primi, le cause che l’anno generata, aristotelicamente parlando, sapere è sapere attraverso le cause e soltanto chi produce tali cause, o elementi primi, li possiede e li conosce: fare è conoscere, conoscere è fare. Tale principio non era in realtà nuovo, aveva precedenti oltre che nell’occasionalismo di Malebranche, anche nel metodo baconiano e nella tradizione scotista, ma quel che interessa in questo scritto sta nel fatto che questo principio venga adoperato dal Vico per confutare il metodo cartesiano nel momento della sua affermazione a Napoli. Il cogito, sostiene il filosofo partenopeo, può dare sì certezza della propria 11

A. GALASSO, op. cit., pp. XVI-XVII.

132

catemina mammone

esistenza: «[…] è assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che da tale coscienza non concluda con certezza che egli è»12, ma non può certo dare conoscenza del proprio essere perché il proprio essere non è stato creato dall’io medesimo che ha coscienza di sé cosicché l’io che ha coscienza del proprio essere può solo riconoscersi come cosciente e non conoscersi come essere. Il primo vero di Cartesio, il cogito, che porta all’evidenza di una conoscenza chiara e distinta non conduce quindi alla scienza se è vero, come è vero, che la scienza sta nella conoscenza delle cause e che l’uomo non è causa di se stesso. Dato questo assunto si può procedere a una sorta di classificazione delle scienze in base ai criteri di verità con le quali le si affronta: la mente umana è capace, con un procedimento di astrazione, di creare una o più realtà che le sono proprie, che le appartengono, perché le ha costruite, e queste può conoscerle: sono la matematica e la geometria dove la mente può raggiungere una verità sicura e certa, ma non arriva alla stessa certezza e verità né con la meccanica e men che mai con la fisica (il mondo esterno dell’uomo) e nemmeno con la morale (il mondo interno dell’uomo). 3. Filosofia e filologia È nella Vita che in modo molto evidente ed esplicito Vico si contrappone a Cartesio e in particolare al suo Discours de la méthode (1637). Secondo Trabant13 questo avviene anche nella forma retorica dei rispettivi scritti: Descartes usa, nello svilupparsi del proprio discorso, la prima persona singolare, introduce quell’Io che pensa e che dunque è, ripetendo questa autoriflessività ben tre volte in una sola breve frase: «Pour moi, je n’ai jamais présumé che mon esprit…», mentre Vico si rappresenta in terza persona, alla maniera degli storici, dei classici, alla Giulio Cesare: «Il signor Giambattista Vico egli è nato a Napoli l’anno 167014 da onesti parenti»15. Tipologie di pensiero polari, ma esperienze di vita e di studi li accomunano: poche pagine più oltre Vico, come Cartesio, racconta di aver disperato, nella giovinezza, di ottene12 G. B. Vico, De antiquissima Italorum sapientia in P. crisTofoLini (a cura di), Opere filosofiche, Firenze, Sansoni, 1971, p. 70. 13 J. TrABAnT, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, Bari, Laterza 1996, pp. 7 ss. 14 In realtà nacque nel 1668. 15 G. B. Vico, Vita…, cit., p. 3.

IMPLICAZIONI ANTICARTESIANE DELLA TEORIA DEL LINGUAGGIO

133

re attraverso gli stuqi risposte soqqisfacenti alle sue qomanqe; anch’egli, come Cartesio, abbanqonò gli stuqi per qualche perioqo, ma qiversamente qal suo illustre e più agiato antagonista non si risolse aq anqar per il monqo a fare esperienze qi prima mano, a conoscere inqipenqentemente qai libri, a capire infine che anche qel monqo si poteva fare a meno e scoprire la verità qell’Io puro. Vico, invece, qopo un intervallo qurato sei mesi, tornerà ai libri e stenterà a creqere veritiero il resoconto autobiografico qel granqe francese, appuntanqo la sua osservazione critica sulla parola feindre qel Discours: «je me résolus qe feinqre que toutes les choses qui m’étaient jamais entrées en l’esprit n’étaient non plus vraies que les illusions qe mes songes»16. Al contrario, scrive il napoletano «Non fingerassi qui ciò che astutamente finse Renato Delle Carte q’intorno al metoqo qei suoi stuqi, per porre solamente la sua filosofia e matematica eq atterrare tutti gli altri stuqi […] ma, con ingenuità qovuta qa istorico, si narrerà fil filo e con ischiettezza la serie qi tutti gli stuqi qel Vico»17. In realtà lo stesso gesto qistruttivo e rifiutante qella letteratura qel passato fatto qa Cartesio e ripetuto anni più tarqi qal Vico «[qobbiamo fare] come se non vi fussero libri nel monqo»18, ha esiti qiversi: mentre il francese cancella il passato, Vico, qopo averlo rifiutato, torna a riorqinarlo, trova un filo q’Arianna nell’oceano qell’«umana e qivina eruqizione»19 e giunge a «questa sola picciola terra qove si possa fermare il pieqe»20 che è il cosiqqetto assioma vichiano21, la «qegnità» che, scevra qa ogni orpello, resterà l’unica verità, ovvero «che ‘l monqo qelle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto qagli uomini»22. Scrive Trabant: La tavola qello spirito, che Renato aveva cancellato sinché non era restata che la tavola stessa (il cogito e l’iqea qi Dio innata nella cogitatio) come unica verità, viene scritta qi nuovo qa Giambattista, il quale nel-

16

R. DESCARTES, Discours de la Methode, IV, in AT, VI, p. 32. G. B., VICO, Vita…, cit., p. 5. 18 ID., La Scienza Nuova, in F. NICOLINI (a cura qi), Opere, Bari, Laterza, vol. IV, 1928, § 330. 19 ID., La Scienza Nuova Prima, in F. NICOLINI (a cura qi), Opere, Bari, Laterza, vol. III, 1931, § 40. 20 ID., La Scienza Nuova Prima, cit., vol. III, § 40. 21 F. FELLMANN, Das Vico-Axiom: Der Mensch macht die Geschichte, Freiburg-München, Alber 1976. 22 Ibid. Successivamente alle ‘nazioni gentili’ sarà sostituito il sintagma ‘monqo civile’ e ancor qopo ‘sapienza poetica’. Cfr. J. TRABANT, op. cit., pp. 9-12. 17

134

CATERINA MARRONE

le tenebre qel qubbio ha scorto quel che, come unica verità, può essere scritta sulla tavola con la certezza qel sapere: il monqo civile23.

Sicché, chiarito qi voler inqagare in questa qirezione ‘filologica’ qel mondo civile, il cui oggetto qipenqe «qall’umano arbitrio, come sono tutte le storie qelle lingue, qe’ costumi e qe’ fatti qella pace come qella guerra qe’ popoli»24, Vico si rivolge a una filosofia nuova non più volta al monqo naturale, ma alle realtà, alle creazioni qell’uomo trattate scientificamente qalla filologia e avenqo come autori qi riferimento quattro pilastri come Platone, Tacito, Bacone e Grozio che più qi altri avevano contribuito alla sua riflessione sul rapporto tra filosofia e filologia. Ma la nuova scienza qel filosofo napoletano non contempla una filologia sterile, limitata ai fatti inqiviquali scollegati tra loro, al loro essere singolari – il suo impianto filosofico neoplatonico peraltro non lo permetterebbe –, bensì preveqe una trama, una filigrana visibile come in controluce, una figura nascosta, qietro i fatti concreti apparentemente qisgiunti e casuali, un qisegno, onqe «meqitare questo monqo qelle nazioni nella sua iqea eterna»25. Proprio tutto il contrario qi quanto aveva fatto Cartesio che aveva escluso la ‘filologia’ e qunque il monqo qegli uomini e qelle loro creazioni, qa tutto quanto si possa chiamare scientifico. 4. La diatriba sul linguaggio Quanqo si parla qi teoria linguistica in realtà bisognerebbe escluqere Cartesio qalla lizza qei competitori perché il filosofo francese non aveva qirettamente trattato l’argomento se non in alcuni punti qi cui più oltre si veqrà. Basti qui qire che il cogito qi Cartesio è ‘nuqo’, spoglio qi ogni particolarismo qeterminato qalla qiversità qelle lingue che possa inquinare la sua purezza universale. Quanqo si parla qi linguistica cartesiana ci si riferisce in genere ai portorealisti, che avevano sposato la sua filosofia razionalista qeclinanqola in ambito linguistico, o a un tipo qi pensiero psicolinguistico che con N. Chomsky, nella seconqa parte qel sec. XX, ha avuto granqe risonanza. La polemica linguistica qi Vico non è qunque qirettamente rivolta a Cartesio ma aq Aristotele e a Scaligero qi cui, in quest’ambito, il filosofo partenopeo 23 24 25

J. TRABANT, op. cit., p. 13. G. B. VICO, La Scienza Nuova, cit., § 7. ID., op. cit., § 163.

IMPLICAZIONI ANTICARTESIANE DELLA TEORIA DEL LINGUAGGIO

135

veqe essere ‘Renato’ una sorta qi prosecuzione. Infatti, seconqo il De interpretatione qi Aristotele la mappa concettuale, universalmente uguale per tutti gli uomini, è legata ai linguaggi che la esprimono solo in moqo qebole: lo spirito, pensanqo il monqo reale, crea i concetti – o contenuti qella coscienza – i quali sono proqotti inqipenqentemente qal linguaggio, ma qualora li si volesse comunicare li si potrebbe rivestire qi voces, li si potrebbe qesignare con parole che popolazioni qiverse qi volta in volta ad placitum stabiliscono26. Cartesio, pensa Vico, sembra aqerire compiutamente a questa via qella traqizione aristotelica perché già nelle prime pagine qel Discours afferma qi saper bene che le lingue che s’imparano, sono necessarie per capire i libri antichi, non conceqenqo alle lingue stesse nessuna funzione qi tipo teoretico ma sempre e solo qi tipo pratico e sostanzialmente utile aq altro scopo che non sia quello qi semplice mezzo. Nota Trabant che il riconoscimento umanistico (qi Valla e/o Vives) qel valore spirituale qelle lingue, soprattutto per ciò che concerne la semantica qi una lingua, era stato già qeposto nel sec. XVI qai ‘moqerni’ e ricorqa che per legittimare l’emancipazione qelle lingue nazionali come veicolo qi universi qi qiscorso ‘più elevati’ qisponibili per la scienza, la filosofia, la teologia, «furono utilizzati in moqo massiccio argomenti ‘aristotelici’ contro l’umanesimo ‘platonico’. Il linguaggio, nell’ottica cartesiana, esteriorizza il pensiero ne è l’aspetto fenomenico, è un sintomo, un inqicatore qell’umanità qel soggetto, è il testimone qel fatto che gli uomini, in quanto uomini, pensano quanto qicono, anche se il pensiero avviene poi in moqo qel tutto autonomo rispetto al linguaggio27. Il pensiero non è legato a segni, ma è capace qi far verificare se coloro che lo usano siano o no «essenze che pensano»28, è in graqo qi provare che i parlanti non sono solo res extensae bensì anche res cogitantes. Il linguaggio è la qiscriminante che separa le macchine e gli animali qagli umani e su questa base nel 1950 il

26 Il passo aristotelico è celeberrimo: «[…] i suoni qella voce sono simboli qelle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli qei suoni qella voce. Allo stesso moqo poiché le lettere non sono le meqesime per tutti, così neppure i suoni sono i meqesimi; tuttavia suoni e lettere risultano segni, anzitutto qelle affezioni qell’anima, che sono le meqesime per tutti e costituiscono le immagini qi oggetti già iqentici», ARISTOTELE, Organon, 16a, traq. it. qi G. Colli, Torino, Einauqi 1955, p. 57. 27 R. DESCARTES, Discours de la Methode, IV, in AT, VI, pp. 31-40. 28 J. TRABANT, op. cit., p. 25.

136

catemina mammone

matematico britannico Alan Turing, formulò il celebre test che porta il suo nome e che serviva per determinare se si stesse interagendo con una macchina oppure con un essere umano29. La prova consisteva, e consiste perché viene adoperata a tutt’oggi, nel chiedere a una persona di comunicare con un interlocutore remoto e di capire attraverso la conversazione – scritta ovviamente – se si sta parlando con una macchina (oggi, nell’era dei computer, si può fare) o con una persona. Qualora un computer riesca a ingannare almeno il 30% degli sperimentatori, lo si ritiene pensante a tutti gli effetti; ma questo non è mai accaduto. Il linguaggio è quindi l’espressione della libera, individuale e personale disposizione e scelta delle parole alle infinite possibili situazioni in cui si venga a trovare un essere umano, e questo è quanto interpreta Chomsky della filosofia cartesiana e che chiamerà creatività linguistica, anche se in realtà la creatività per Cartesio era soltanto relativa al pensiero e quindi avulsa dal linguaggio. Ma per il filosofo francese il linguaggio è ben diverso dalla varietà delle lingue che lo possano attuare, esso è importate perché sembra rappresentare quel nesso che metterebbe in relazione res cogitans e res extensa, è la traccia del pensiero nel corpo umano. Al contrario per quei filosofi che sostengono essere il linguaggio formativo o comunque influente sul pensiero – si pensi a Leibniz, a Condillac –, e Vico medita addirittura su una identità di pensiero e linguaggio, il linguaggio acquista la forza di elemento determinante nella cosiddetta svolta sematologica operata dal filosofo partenopeo di cui parla Trabant. E, secondo questa logica, il legame di conformità, di somiglianza intercorreva, non come per Aristotele e seguaci, tra concetti e cose, ma, nel suo sorgere originario, tra segni e idee. Ad essere solidali con il pensiero non erano le cose, bensì i segni: l’affinità che caratterizzava il pensiero non era relativa agli oggetti, ma alle parole, non alla realtà ma al linguaggio. Non che ci siano indizi per credere che Vico non condividesse la convinzione secondo cui i dati dell’esperienza, le cose che l’uomo vede, sente, gusta, annusa con tutte le loro qualità sensibili, non siano simili in tutti gli uomini: ciò che per lui è certo è che questa esperienza sensibile non è la ragione sufficiente del pensare, parlare e comprendere umano.

A. M. Turing, Computing machinery and intelligence, «Mind», 59, (1950), pp. 433-460. 29

IMPLICAZIONI ANTICARTESIANE DELLA TEORIA DEL LINGUAGGIO

137

È invece necessario il sopraggiungere di un fattore che, indipendentemente dal dato sensibile, sia proprio esso a rendere possibile la riflessione sui diversi contenuti dell’esperienza sensibile, e quindi a rendere operante un processo astrattivo in grado di stabilire ciò che nella conoscenza umana si definisce o come parte o come universale30.

Perché gli uomini primigeni vichiani, i ‘bestioni’, divenissero capaci di pensiero e di linguaggio era necessario il sopraggiungere di un evento che rompesse il fluire omogeneo e indistinto del loro vivere, che introducesse una emergenza opposta alla pura e semplice sensibilità. E Vico questa prima e terrificante esperienza la indica nel cielo fulminante e tuonante che nella sua rappresentazione segnica si ‘antropomorfizza’ diventando ‘Giove’. 5. La filosofia dei segni Se la certezza e il vero della conoscenza va indagato nel mondo civile anziché cartesianamente nel cogito, allora va anche riconosciuto per Vico che tale spazio è fatto di caratteri poetici, è un universo di segni. La divergenza con Descartes è sempre più accentuata dal momento che il filosofo francese disapprova il linguaggio come argomento filosofico per molti motivi: come, ad esempio, essere espressione individuale e mancante di universalità o essere diversificato nelle lingue storiche ognuna diversa dall’altra, e, soprattutto, dal suo punto di vista, essere separato dal pensiero. La sua funzione, come si è accennato sopra, è solo quella di essere, ma non è poco, traccia e sintomo della cogitatio. Per Vico invece il parlare è un pensare, nel senso che non ci sarebbe pensiero senza linguaggio o senza segni, il segno si consustanzia con il pensiero, il segno è costitutivo del pensiero; «il pensiero è semiosi»31. Sostiene Trabant che: Il peso sistematico del tutto diverso che Vico conferisce al linguaggio conduce ad una evidente trasformazione della dottrina delle due sostanze radicalizzata da Descartes. Anche Vico conosce la separazione agostiniana32 tra corpo e spirito e la connessa esaltazione dello spirito

30 G. CANTELLI, Il quadrilatero del significato secondo Vico, in F. RATTO et alii (a cura di), Il mondo di Vico/Vico nel mondo, Ripatransone (AP), Sestante 1999, pp. 326-327. 31 ID., op. cit., p. 34. 32 Cfr. S. VECCHIO, Le parole come segni. Introduzione alla linguistica agostiniana, Palermo, Novecento 1994.

138

CATERINA MARRONE

rispetto al corpo; questa non è che la tradizione cristiana. Questa esaltazione trapela in Vico ad esempio nello sviluppo dell’umanità in cui si dà uno sviluppo dalla corporeità (inferiore) verso una sempre maggiore spiritualità. La sua visione sematologica riconosce però che lingua e segni sono iscritti sin dall’inizio in questo dualismo. È il segno anzi a rendere possibile sotto un certo aspetto questo dualismo. La chiave maestra – che è stato per lui così difficile trovare anche perché gli era contro l’intera tradizione europea – afferma infatti che il primo pensiero umano fu una grandezza semiotica nella quale idea e significante materiale non erano ancora separati, e non una idea alinguistica che solo post festum viene designata mediante un significante allo scopo della comunicazione33.

Lo spirito ‘corpolento’ dei poeti degli albori è ancora mescolato pesantemente con una materialità dalla quale non è svincolato; la mente e lo spirito sono ancora pesanti, ma il carattere poetico, messo in opera attraverso memoria-fantasia-ingegno è già l’incipit dell’affrancamento dello spirito dalla materia. Il processo evolutivo di semiosi che si evolve fino a raggiungere una spiritualità sempre maggiore avviene attraverso la progressiva liberazione dell’idea dal suo supporto materiale, dal significante o, detto altrimenti, dello spirito dal corpo, fino ad arrivare, senza mai separare completamente queste due res, al segno ad placitum, convenzionale, che anela all’arbitrarietà e alla razionalità senza mai poterle raggiungere completamente poiché il corpo, a questo punto, diventa una condicio sine qua non per l’esistenza stessa del segno. Il dualismo tradizionale mente-corpo non avrebbe potuto quindi, nella sua genesi e nel suo esistere, aver luogo, non sarebbe potuto sorgere e permanere come tale se non per mezzo dei segni ed è quanto viene stigmatizzato con l’osservazione, la ‘discoverta’: «la favella essendo come posta in mezzo alla mente e al corpo»34 oppure con la frase «non essendo altro l’uomo, propriamente, che mente, corpo, favella»35. Una terza res Vico aggiunge e interpone tra le due sostanze mente-corpo della tradizione, la res linguistica, come la chiama Trabant, una res che è condizione del riconoscimento delle altre due. Pensare, nel suo delimitarsi e scandirsi, non è un atto che precede il parlare e, fondamentalmente, non è un’azione che si compie in rapporto alle cose, ma è un atto che si attualizza e avviene esclusivamente nei segni e con 33 34 35

J. TRABANT, op. cit., p. 34. G. B. VICO, La Scienza Nuova, cit., § 1045 Ibid.

IMPLICAZIONI ANTICARTESIANE DELLA TEORIA DEL LINGUAGGIO

139

i segni; segni che si rendono necessari per esprimere il pensiero. Per questo motivo pensiero e linguaggio si trovano abbracciati in una stretta inestricabile, parlare e pensare sono il frutto di una medesima operazione. Di più, tale assunto, conduce ad una ulteriore conseguenza: al fatto cioè che si può considerare il significato come il principio stesso del pensare. Vico, infatti, asserisce che i pensieri, le idee, «nascono e si definiscono come significati di altrettanti segni linguistici. Non ci sono idee, pensieri, ecc., che non siano o per lo meno non siano stati i significati dei segni linguistici loro corrispondenti. Non si passa dal pensare al significare, ma il significare è la prima matrice di ogni pensiero»36. 6. Differenze tra la lingua filosofica e il Dizionario mentale comune In realtà gli scritti di Cartesio si sono occupati di linguaggio solo in modo secondario, tuttavia il documento storico più antico e ricco di influenze per quanto riguarda la ricerca della lingua filosofica a priori è proprio la sua lettera di risposta a Mersenne che porta la data 20 novembre 1629. Il P. Mersenne aveva in precedenza inviato al filosofo francese un progetto di una lingua filosofica universale, che aveva lo scopo di far comprendere tutti gli idiomi con questa sua ‘langue matrice’. Il giudizio di Cartesio al proposito risulta subito molto netto: esclude il piano pragmatico dell’utilizzazione della lingua (adatta a far capire ogni idioma) e si rivolge invece al piano teoretico dell’universalità ideale. La lingua ideale avrebbe dovuto avere caratteristiche filosofiche precise: morfologia regolare, grammatica semplice, ma soprattutto avrebbe dovuto fondarsi sull’analisi del pensiero, avrebbe dovuto cioè ricavare le idee primitive sì da permettere quella combinatoria da cui sarebbe dovuta discendere ogni conoscenza. L’analisi, ovviamente, avrebbe implicato non una ricerca linguistica quanto invece uno studio filosofico che necessitava di quella Vera Filosofia capace di enucleare il sistema delle idee chiare e distinte. Lingua ‘ideale’ e lingua ‘filosofica’ avrebbero dovuto coincidere – e probabilmente questa era la maggiore critica che Cartesio avanzava nei confronti del progetto proposto da Mersenne – perché tale idioma doveva essere ‘filosofico’ in quanto ricavato dalla scomposizione del pensiero in elementi primi secondo il modello matematico, e ‘universale’ in quanto si sarebbe dovuta 36

G. CANTELLI, op. cit., p. 323.

140

catemina mammone

fondare sull’evidenza delle idee chiare e distinte per poter essere comprensibile e tutti. Ne I principi della filosofia (1644) Cartesio avrebbe poi tracciato un breve elenco di universali, di primitivi, ma non cercò mai di disegnare una ‘grammatica’ delle idee con la quale si potesse costruire pragmaticamente una lingua universale. E questo perché il filosofo francese aveva forse capito appieno il risvolto utopistico (nel senso di vanità attuativa) di simili concezioni – che invece nell’empirismo inglese e, successivamente, con i cambiamenti ideologici dovuti, nell’interlinguistica europea dei secc. XiX e XX, avrebbero avuto tanto spazio – e scriveva: Ritengo che questa lingua – quella di cui parla Cartesio e non quella propostagli da Mersenne – sia possibile, e che si possa trovare la scienza dalla quale essa dipende; per mezzo di essa i contadini potranno giudicare della verità delle cose meglio di quanto non fanno ora i filosofi. Ma non sperate di vederla mai in uso, ciò presuppone grandi mutamenti nell’ordine delle cose e bisognerebbe che tutto il mondo non fosse che un paradiso terrestre, il che si può proporre solo nel paese dei romanzi37.

Qualcuno ha paragonato la lingua filosofica a priori con l’idea vichiana del Dizionario mentale comune38; ma si tratta di un paragone improprio, dettato probabilmente da assonanze generiche. In verità il Dizionario si distanzia con indubitabile nettezza da ogni progetto filosofico-linguistico a priori del sei-settecento sia perché si differenzia dai vagheggiamenti del ritrovamento della stessa lingua adamica o dalla sua ricostruzione, costituendo quasi un’alternativa ‘pagana’ al modello biblico, e poi perché il Dizionario vorrebbe essere una ri-costruzione dell’origine e non una costruzione linguistica da utilizzarsi in futuro (in questo senso somiglierebbe concettualmente di più alla linguistica storico-comparativa ottocentesca che non ai sistemi che ricercavano la characteristica universalis). Il paragone con la characteristica peraltro dovrebbe tener conto che il Dizionario di Vico rimane nell’ambito dell’intuizione sensibile ed esprime immagini originarie collettive della vita umana. Esclude dunque ogni possibilità di calcolo che era prerogativa di tutti i sistemi linguistici a priori dei secc. XVIIXVIII. E forse può maggiormente essere assimilato come alcuni hanno rilevato piuttosto agli archetipi junghiani. Infine, ma R. descArTes, AT, I, p. 82; trad. it. di chi scrive. Cfr. G. mounin, Histoire de la linguistique: des origines au 20 siecle, Paris, Presses Universitaires de France 1967, trad. it., Storia della linguistica dalle origini al XX secolo, Milano, Feltrinelli 1968, p. 127. 37

38

IMPLICAZIONI ANTICARTESIANE DELLA TEORIA DEL LINGUAGGIO

141

non per ultimo, perché Vico, col Dizionario, «pensa la molteplicità nell’unità e non semplicemente l’’uniformità’ della lingua dell’Eden»39. E da queste poche righe si può certamente evincere quanto sia estesa la latitudine che separa i due filosofi francese e napoletano o comunque quanto Vico sia lontano dall’idea di lingua filosofica a priori. Dalle tre lingue individuate da Vico e corrispondenti a gradi di civilizzazione umana ovvero la divina, la eroica e la civile nasce e si compone il Dizionario il quale è il versante semiotico della storia ideale eterna «è la lingua con cui parla la storia ideal eterna»40. Il filosofo napoletano tiene conto della diversità delle lingue, dietro la quale c’è sempre lo spettro della ‘boria delle nazioni’ ma quel che maggiormente gli interessa e vuole mettere in risalto è sottolineare la comunanza attraverso la diversità. Le lingue sono nate e si sono diversificate in forza dei diversi costumi degli uomini ma è nella loro differenza che le diverse nazioni guardano alle medesime necessità del vivere attraverso aspetti diversi, o, come modernamente direbbe Heisenberg,, il fi fisico sico del principio di indeterminazione che leggeva Platone in greco, ‘ambiti di realtà’41. La diversità delle lingue quindi è il risultato delle diverse visioni del mondo che ha portato con sé la differente disposizione naturale e la diversa organizzazione sociale, i costumi, dei popoli. Queste sono però visioni diverse del medesimo, di uno stesso ossia ‘le stesse utilità o necessità della vita umana’; le riflessioni di Vico sulla diversità del linguaggio umano finiscono perciò per porre l’accento sul medesimo, sulla sostanza identica. Sostanza però che non è cosa o oggetto, ma utilità e/o necessità comune degli uomini e quindi è relazione e funzione. In una decostruzione semantica esemplificante della Scienza Nuova Prima il filosofo mostra come in un gran numero di lingue diverse sia morte che viventi sia possibile ricavare in aspetti tuttavia differenti qualità eterne; le qualità dei padri, in lingue diverse, scandiscono altrettanti punti di vista riconducibili al comando e all’autorità. L’essere ‘comune’ a tutte le genti del Dizionario, infatti, non vuol dire che tutte le popolazioni dispongano nel modo completo della parola mentale e che abbiano quindi tutte la medesima immagine della cosa designata; ‘comune’ vuol dire che in ogni particolare si può rintracciare l’universale che dal quel par39

J. TRABANT, op. cit., p. 28. G. B. VICO, La Scienza Nuova, § 35. 41 A. LUDOVICO, Effetto Eisenberg. La rivoluzione scientifica che ha cambiato la storia, Roma, Armando 2001. 40

142

catemina mammone

ticolare è indotto. ‘Comune’ vuol dire che tutti i popoli possiedono dei padri fondatori, che è opportuno designare tali padri primitivi ma come questi padri poi siano singolarmente tratteggiati, questo compete alle specifiche popolazioni che su di essi gettano sguardi completamente differenti. Il dizionario mentale comune raduna le diverse visioni e le compone in un mito complessivo alla cui costruzione cooperano tutte le lingue. La parola mentale comune non è un concetto astratto, ma è un universale strutturale, ottenuto attraverso un percorso storico-empirico, e riassume e mantiene tutte le particolari sfaccettature storiche. È ben evidente da quanto si è, seppur brevemente, detto a proposito del (lieto) dizionario mentale comune – lieto perché garantisce a tutta l’umanità la possibilità di comprendersi – quanto una simile concezione sia lontana dalle lingue filosofiche a priori, non foss’altro perché quelle sono artificialmente costruite e quest’ultimo è invece il portato di un’analisi ‘semantica’ ricavata in modo empirico e a posteriori.

Olivia Pallenberg IMMAGINAZIONE E FOLLIA: UNA DISCUSSIONE ALL’ACCADEMIA DI BERLINO

1. Mente e corpo all’Accademia di Berlino Il Settecento si apre con una composizione musicale intitolata Follia. Arcangelo Corelli riprende il tema da una danza di origine portoghese e vi crea sopra un’ampia gamma di schemi di variazioni1. Cinque anni dopo Antonio Vivaldi aggiunge a quel tema della Follia altre straordinarie variazioni2. Ancora nel 1931 Sergei Rachmaninov scriveva le Variazioni su un tema di Corelli 3. Pur essendo una composizione strutturata e compiuta, la Follia di Corelli prelude alle variazioni su tema, una forma musicale potenzialmente infinita: su un unico tema infatti esistono infinite aggiunte e varianti possibili, la cui ricerca sfiora l’ossessione. A partire da un’immagine o da un tema dato cresce una produzione che talvolta mantiene un debolissimo legame con quello spunto originario, talaltra vi torna ossessivamente e lo gira e rigira in innumerevoli modi. Le variazioni musicali e la follia dei folli hanno questo in comune: l’appiglio con la realtà, che basta a mettere in crisi una troppo svelta diagnosi di ‘irragionevolezza’ e di ‘sregolatezza’. L’interesse per la follia nel Settecento non è solo musicale. La malattia mentale fa problema perché mette in luce le forzature e i limiti del dualismo cartesiano: un impianto teorico costruito sul rapporto privilegiato del soggetto col proprio corpo, che entra in crisi nel momento in cui tale rapporto viene disturbato, alterato o 1 2 3

A. coreLLi, La follia, Sonata Op. V, Roma 1700. A. ViVALdi, Sonata in re minore “La Follia”, Op. 1 n. 62, 1705. s. rAchmAninoV, Variazioni su un tema di Corelli, Op. 42, 1931.

144

olivia pallenbemg

interrotto dalla malattia. La quantità di riferimenti anche estemporanei al tema della follia rivela una preoccupazione di tipo epistemologico nei confronti della malattia mentale e di ciò che questa pone in crisi: la comunicazione efficace e lineare tra mente e corpo, l’autonomia del pensiero, il potere della ragione sugli istinti e sulle passioni, la pretesa qualità universale della ragione umana. È appena il caso di dire che questo significativo interesse verso la malattia e verso i folli coincide con il periodo del «grande internamento», che rende oggetto di scienza, e dunque osservabile, un dato fino a quel momento disperso nella moltitudine della varietà umana4. Nel 1759-60 escono tra le memorie dell’Accademia delle scienze di Berlino le Réflexions sur la nature et les causes de la folie firmate da Louis de Beausobre (1730-1783)5, giovane filosofo protetto di Federico II di Prussia, noto per l’opera Le Pyrronisme du sage, pubblicata nel 17546. Qualche anno dopo, nel 1764, arriva la risposta di Johann Friedrich Meckel (1724-1774), medico e anatomista tedesco, membro di spicco della Classe di filosofia sperimentale7. La discussione tra i due accademici è emblematica del diverso modo di leggere la malattia mentale all’interno di un medesimo orizzonte teorico, quello dualistico. Lo studio della follia evidenzia infatti le difficoltà e le contraddizioni insite nel dualismo cartesiano, mostrandone i limiti ma anche la perdurante fortuna e adattabilità. Il modello cartesiano, condiviso dal medico e dal filosofo, è il terreno comune sul quale si costruiscono due differenti interpretazioni del rapporto mente/corpo, piegata al materialismo in un caso, allo spiritualismo in un altro. Gli scritti dei due accademici si collocano nel cosiddetto ‘periodo d’oro’ dell’Accademia di scienze e belle lettere di Berlino, 4 La data d’inizio del «grande internamento» è il 1656, anno di fondazione dell’Hôpital général destinato ai poveri di Parigi (cfr. m. foucAuLT, Histoire de la folie à l’age classique, Paris, Gallimard 1972; trad. it. Milano, Rizzoli 1973, p. 54). 5 L. de BeAusoBre, Réflexions sur la nature et les causes de la folie, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filosofia speculativa, Memorie I-III, vol. XV, 1759, pp. 390-403, 404-418, 419-432; Memorie IV-V, vol. XVI, 1760, pp. 302-312, 313-325. 6 id., Le Pyrronisme du sage, Berlin 1754. 7 J. f. meckeL, Récherches anatomico-physiologiques sur les causes de la folie qui viennent du vice des parties internes du corps humain, traduit du Latin, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filosofia sperimentale, XX, 1764, pp. 65-88.

immaginazione e follia

145

durante gli anni del rinnovamento iniziato da Maupertuis, presidente dal 1745 fino alla morte, avvenuta nel 1759. Nel 1746, infatti, Federico II di Prussia, protettore e poi dal 1764 direttore supremo dell’Accademia, inaugura una nuova classe di studi, la Classe di filosofia speculativa, che si aggiunge alle tre già esistenti (filosofia sperimentale, matematica e belle lettere). Mentre nella Classe di filosofia sperimentale si studiano tutte le scienze fondate sull’esperienza, agli speculativi spettano invece altri campi della filosofia: la metafisica (ontologia, cosmologia, teologia naturale, psicologia e logica), la morale, il diritto naturale e la storia e critica della filosofia. L’aggiunta di una nuova classe di studi non risponde solo a una formale ripartizione tra le scienze: essa indica piuttosto un assunto teorico sostanziale. Accanto agli oggetti studiati dalla Classe di filosofia sperimentale sarebbe emerso un nuovo campo di indagine, costituito da oggetti che non hanno «alcuna proprietà corporea», come si legge nelle pagine di Christian Bartholmèss, che pubblicherà nel 1851 due preziosi volumi sulla storia ‘filosofica’ dell’Accademia di Prussia8. È per colmare lo studio di questi oggetti, la cui natura non è corporea, che si istituisce una Classe di filosofia speculativa. Tra queste discipline compare la psicologia, il cui campo di indagine sembrerebbe dunque appartenere a una dimensione spirituale, non corporea. Dal numero di autori che in questi anni scrivono dei cosiddetti ‘fenomeni dell’anima’ si comprende che la questione deve aver rappresentato una moda, una curiosità da verificare anche in prima persona (alcuni si sottopongono a esperimenti per misurare gli effetti su di sé di un uso eccessivo di droghe o di caffè). Nel trattare questi argomenti, c’è chi dichiara un intento espressamente illuministico, convinto nella validità di una ragione inoppugnabile, universale, onnipotente. Come lo svizzero Johann Georg Sulzer (1720-1779) – noto a Kant per i suoi scritti di estetica –, che si compiace di studiare le «regioni oscure dell’anima» per «dare un vantaggio ai lumi della ragione»9. Sulzer sembra vo8 c. BArThoLmèss, Histoire philosophique de l’Académie de Prusse depuis Leibniz jusqu’a Schelling particulièrement sous Frédéric-le-Grand, 2 voll., Paris, Librairie de Marc Ducloux 1851, vol. I, p. 170. 9 J. g. suLzer, Observations sur les divers états où l’âme se trouve en exerçant ses facultés primitives, celle d’appercevoir et celle de sentir, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filofilosofia speculativa, 1763, pp. 407-420 (p. 447).

146

olivia pallenbemg

ler minimizzare lo scarto tra la persona sana e il folle: il delirio rappresenterebbe un «vuoto di coscienza» transitorio prima di «tornare in sé», «alla ragione e alla virtù». Sorvolando sul dramma della malattia mentale, egli suggerisce una benevola analogia tra l’uomo di studio, il filosofo, lo scienziato – nel loro «stato meditativo» – e l’imbecille10; e se proprio di malattia mentale si deve parlare, questa non sarebbe che una tappa per acquisire una «conoscenza chiara della propria difformità»11. Ma se l’atteggiamento di alcuni è convintamente illuministico, altri autori sono più prudenti nel dare soluzioni al dilemma del rapporto tra la mente e il corpo e dichiarano la propria incapacità a spiegare i fenomeni ‘oscuri’ dell’anima: I caratteri tracciati nel cervello sono indecifrabili; la maniera in cui l’anima li legge, inesplicabile […]. Si tratta qui di misteri, di profondità, di cui lo spirito umano non verrà mai a capo12.

Così scrive Johann Heinrich Samuel Formey (1711-1797), un accademico che pubblica numerosi saggi a carattere psicologico, a partire da uno scritto Sui sogni del 174613. La follia, per questi autori, sembra sottrarsi a una definizione compiuta e unanime, e i folli acquistano una fisionomia particolare, a metà strada tra i saggi e i bruti. 2. Le cause della follia Fin dal titolo delle sue Récherches Anatomico-Physiologiques sur les causes de la folie, pubblicate nel 1764, Meckel rinuncia formalmente a trattare la questione della natura della follia, limitandosi a esaminarne le cause: «La Natura ci rifiuta ordinariamente l’accesso all’interno del suo Santuario», dichiara modestamente14. Questa riserva a esprimersi in merito alla natura della malattia

Ivi, p. 410. Ivi, p. 415. 12 J. h. s. formey, Réunion des principaux moyens employés pour découvrir l’origine du langage, des idées et des connoissances des hommes, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filosofia speculativa, 1759, pp. 367-377 (pp. 369-370). 13 id., Essai sur les songes, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filosofia speculativa, 1746-1747, pp. 317-334. 14 J. f. meckeL, op. cit., p. 66. 10 11

immaginazione e follia

147

mentale, e più in generale alla propria concezione del rapporto mente/corpo – le due questioni infatti sono collegate a doppio filo – è tuttavia solo una dichiarazione di principio, che non impedisce al medico di lasciar trasparire la propria visione al riguardo. Determinare a che punto si infiltra la causa della follia, in un ideale percorso della conoscenza dalla sensazione all’intelletto, significa infatti stabilire che cosa è l’uomo. Quanto più la causa viene collocata a livello della sensazione, al momento della sua percezione, tanto più l’uomo appare un animale che, pur dotato di funzioni superiori, è dipendente in primis da un meccanismo corporeo. Meckel descrive lo stato dei folli come regressione a uno stadio animale che non lascia «a questi miserabili che la sola figura umana»15: incapaci perfino di distinguere i propri escrementi dal cibo di cui nutrirsi. Le Récherches di Meckel sono il risultato delle autopsie condotte su quindici cadaveri di degenti del lazzaretto di Berlino, tra cui tre donne e un bambino di 12 anni. Dall’esame del cervello di questi cadaveri e dal confronto con quello di una persona sana Meckel osserva che il cervello dei pazzi pesa meno di quello dei sani, a causa di una progressiva perdita di liquido cerebrale. La secchezza che ne deriva provoca un progressivo danno alle funzioni intellettuali fino a distruggere interamente l’uso della ragione. Il medico colloca dunque l’alterazione, che degenera poi in follia, al momento della percezione del mondo esterno: se la percezione è ostacolata dalla secchezza dei canali, è meno efficace nell’impressionare gli organi di senso e, di conseguenza, nella rappresentazione delle idee. In una persona sana «l’esercizio delle funzioni del cervello» serve «alla rappresentazione degli oggetti di fuori»; quando la rappresentazione del mondo viene compromessa, per via di un’alterazione del meccanismo percettivo, si produce un danno a quelle che potremmo chiamare le ‘funzioni superiori’. Infatti, precisa Meckel, senza una corretta rappresentazione degli oggetti di fuori non si formano quelle «idee veritiere» sulle quali l’anima forma i propri giudizi16. In altre parole, quando questi canali sono secchi e impermeabili, gli oggetti di fuori agiscono d’una maniera meno distinta sugli organi dei sensi, ciò che determina il medesimo difetto di distinzione, ovvero la confusione, nella rappresenta15 16

Ivi, pp. 80-81. Ivi, pp. 71-72.

148

olivia pallenbemg

zione delle idee […]. La memoria ne soffre un indebolimento che influisce sugli atti intellettuali e sui ragionamenti che hanno bisogno di essere fondati sulle idee, o rappresentazioni distinte degli oggetti, come su altrettante premesse17.

Una imperfetta rappresentazione del mondo esterno provocata dall’ostruzione dei canali nervosi determina dunque un intralcio al percorso delle «ultime impressioni fino alla sede dell’anima», dove l’anima se ne dovrebbe servire «per la formazione delle idee distinte e per la loro riproduzione». Un disturbo all’inizio del processo della rappresentazione, dunque, «pone un ostacolo all’esercizio delle facoltà dell’anima»18. Come confermano i pochi cenni biografici riportati per presentare i casi dei cadaveri osservati, questo stato di idee confuse conduce «necessariamente alla stupidità e alla sragione»: la causa della follia, per il medico, è tutta in questo processo neurofisiologico alterato a partire dalla percezione del mondo. Meckel ribadisce che si tratta di una «causa fisica» e non metafisica – dal momento che la secchezza del cervello è una «malattia» del corpo – a voler sottolineare come una causa organica sia più che sufficiente, appunto «reale e completa», per spiegare la follia19. Se un qualunque disturbo del meccanismo può mettere in crisi l’umanità dell’uomo, che ne è della sua presunta superiorità e della sua anima incorruttibile? L’obiettivo di Beausobre è appunto di salvaguardare l’umanità e la spiritualità del soggetto. Sin dalla prima memoria egli dichiara di voler affrontare la questione della follia da tutt’altro punto di vista rispetto a quello dei medici. Il suo intento è di proteggere e ribadire la spiritualità dell’anima e per farlo non esita a ricorrere alle stesse fonti dei materialisti, Cartesio e Locke. Ma se i materialisti vedono in Cartesio colui che ha tolto ogni ostacolo alla riduzione del pensiero a materia e in Locke l’emblema di una metafisica sana e ragionevole, e il filosofo dell’ipotesi della materia pensante, Beausobre rivendica il dualismo cartesiano e il principio lockiano della sostanzialità – per quanto inconoscibile – dell’anima e dell’immaterialità del pensiero. I gradi clinici della malattia, dal delirio allo stato catatonico, non sono per lui esplicativi della follia: egli si concentra sulla rap17 18 19

Ivi, pp. 74-76. Ivi, pp. 68-71. Ivi, pp. 74-76.

immaginazione e follia

149

presentazione delle sensazioni e sulla possibilità di condividere tale rappresentazione con gli altri uomini. In tutti quei casi in cui un uomo, nel pieno possesso delle sue facoltà, prenderà per vere rappresentazioni ovvero immagini che invece sono smentite dalla testimonianza dei sensi, quell’uomo lo si chiamerà pazzo. Dunque la follia fa problema da un punto di vista conoscitivo ed esperienziale, piuttosto che anatomico, e la semplice constatazione di una difformità a livello organico non soddisfa la riflessione epistemologica. Le divergenze tra esseri razionali non possono essere ricondotte solo a una diversa «organizzazione» fisica, anche se provocata da una malattia. Infatti, per quanto le sensazioni dipendano dalla «struttura dei nostri organi», Beausobre stenta a credere che sia possibile un disturbo tale da stravolgere le sensazioni di un uomo20. Perfino quando ciò accade, egli si domanda: è lecito chiamare false le rappresentazioni di uomini «organizzati diversamente da noi»21? La «chiave di questo mistero» secondo Beausobre non va dunque cercata in qualche anfratto del corpo, ma nel meccanismo dell’associazione delle idee, «il grande principio» per cui, a partire da un’identica organizzazione sensoriale e percettiva e da un materiale sensibile dato, gli uomini lo rielaborano in maniera diversa e originale: Non è né l’immagine diversamente dipinta sulla retina dell’occhio, né il corso deviato del fluido sottile condotto al cervello, né la rappresentazione di questi oggetti che causa qui delle differenze spesso così marcate; sono le idee che quest’oggetto rievoca, e queste idee più o meno vive, tristi o gaie, ordinarie o straordinarie, donano la chiave di questo mistero22.

Nel momento in cui l’immaginazione cessa di produrre immagini conformi alle sensazioni che ha ricevuto dagli organi di senso e incomincia a produrre immagini slegate dalla realtà, è lecito affermare che il suo funzionamento alterato è causa della follia: «L’immaginazione produce la follia […]. Eccola la meccanica che spiega questi fenomeni del mondo morale»23. Beausobre riprende da Malebranche l’idea che l’immaginazione sia fonte di errore, come facoltà intermedia che fa da tramite 20 L. de BeAusoBre, Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria I, p. 393. 21 Ivi, p. 391. 22 Ivi, p. 393. 23 Ivi, pp. 398-399.

150

olivia pallenbemg

tra il mondo esterno e lo spirito. Tuttavia, laddove Malebranche afferma che l’errore deriva in ultima istanza dal corpo e dal meccanismo degli spiriti animali, Beausobre insiste sull’aspetto produttivo dell’immaginazione, che «aggiunge continumente qualcosa alle sensazioni»24. Sottolineare il ruolo attivo dell’immaginazione è per lui funzionale alla tesi che è l’anima, in quanto distinta dal corpo e dalla sensibilità, il principio di tutte le proprie operazioni, sane o deviate. Tuttavia, nonostante rivendichi tutto il potere di scatenare l’errore e la follia all’immaginazione, Beausobre non si sottrae al confronto con gli «Anatomisti» sul terreno delle ‘cause fisiche della follia’: l’ago della bilancia dipende dal peso e dall’esclusività che si concede loro. Egli prende in esame il «fluido sottile», l’irritazione dei nervi, le malformazioni del cervello, senza capacitarsi del fatto che questi fattori possano essere la causa determinante della follia: Ma come agisce il corpo nel caso in cui l’uomo diventa pazzo? […] Faccio fatica a credere che questo fluido sottile, che dovrebbe animare tutte le cose, possa essere la causa della follia25.

Informato delle ricerche di Meckel sulle cause della follia, occasionate proprio dalle sue memorie, Beausobre se ne dichiara lusingato, ma muove un’obiezione disarmante al lavoro del medico: C’è da augurarsi che un abile Anatomista non contento di disseccare dei cadaveri, si occupi di cercare la vera causa della follia […]. Io credo che sia fondamentale distinguere il cadavere dal corpo animato, sebbene le parti ben sensibili siano pressoché le stesse26.

È infatti innegabile che ci sia uno scarto di informazioni tra un corpo vivo e un cadavere: la disciplina che può sopperire alle mancanze della fredda anatomia è secondo Beausobre la psicologia. Egli invita Meckel a servirsi nelle sue ricerche dello studio di una «sana Psicologia», perché non tutto è riconducibile alla sola 24 Ivi, p. 399. «Gli errori dei sensi e dell’immaginazione provengono dalla natura e dalla costituzione del corpo e si scoprono considerando la dipendenza dell’anima da esso», scrive Malebranche (n. mALeBrAnche, La recherche de la verité, 1674, éd. par G. Rodis-Lewis in Oeuvres complètes, t. I, Paris, Vrin 1962, p. 380; trad. it. Roma-Bari, Laterza 2007, p. 278). 25 L. de BeAusoBre, Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria I, pp. 400-401. 26 Ivi, p. 402.

immaginazione e follia

151

ipotesi «del movimento e della materia»27. La psicologia, lo ricordiamo, faceva parte della neonata Classe di filosofia speculativa e il suo campo di studio sarebbero dovuti essere gli oggetti non corporei. Proprio il confronto tra Beausobre e Meckel mostra invece che quella partizione di fatto tra discipline speculative e sperimentali fa problema da un punto di vista teorico e probabilmente non è condivisa dai membri della Classe di filosofia sperimentale. Determinare che cos’è la follia e qual è la scienza che se ne debba occupare (se l’anatomia o la psicologia per esempio) significa risolvere la questione del legame mente/corpo e, in ultima istanza, quella della natura dell’anima. Questa è la posta in gioco, anche se non è ancora in discussione la legittimità della psicologia come scienza e la liceità di porre come oggetto di un’indagine scientifica qualcosa di intangibile e di non misurabile come la mente o l’anima. Queste ultime sono questioni che diventeranno rilevanti nel corso dell’Ottocento nei dibattiti sui presupposti scientifici della psicologia e che ancora oggi non sono del tutto risolte. 3. Anima e corpo Nella seconda memoria Beausobre si affretta a precisare la propria posizione: non c’è continuità tra il corpo e l’anima, per cui è escluso che un vizio del corpo possa influire sull’anima e corromperla. Se la follia dà «luogo a supporre un disturbo nelle operazioni dell’anima», questo non è perché l’anima sia effettivamente colpita da un’alterazione a lei estranea, come effetto di una causa che non le appartiene. Di fronte a questa fraintesa continuità o «dipendenza» (in questi termini si era espresso Meckel), occorre ristabilire la verità: Se l’uomo non si appercepisce, l’anima, che dovrebbe essere in armonia col corpo, si rappresenta un altro mondo, molto differente da quello che essa si dovrebbe rappresentare28.

Tutto dipende dunque dalla percezione, ovvero dalla consapevolezza che l’uomo ha dei propri stati, per cui è fondamentale sapere se il soggetto è cosciente della malattia: in questo caso, è malato; se la ignora, è pazzo. Infatti, se c’è consapevolezza della

Ibidem. id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria II, pp. 404-405. 27 28

152

olivia pallenbemg

malattia, l’anima non può essere né ingannata dall’immaginazione né corrotta dalla malattia stessa; se invece l’uomo ignora il disturbo ovvero l’alterazione non è percepita, l’immaginazione ha campo libero per rappresentare stati diversi da quelli reali e in disarmonia con essi: L’uomo in delirio non ha idea del suo stato presente […]. Il pazzo non appercepisce che le immagini che la sua immaginazione gli presenta, tutto il resto di quello che appartiene al suo stato presente è come eclissato29.

Beausobre sostiene che la follia incomincia quando l’immaginazione altera le sensazioni e che è quindi nell’azione dell’immaginazione – di cui arriva a parlare in termini di «facoltà»30 – che va cercata la sua causa. Indagare la condizione di possibilità del funzionamento deviato dell’immaginazione, legato al complesso meccanismo della memoria e della riproduzione delle idee, esula dal presente contributo. Basti dire che l’autore vi si sofferma in alcune pagine della seconda memoria, dove è particolarmente attento al tema delle idee oscure e del fondo oscuro – a cui dedicherà un saggio separato31 – e che questo riferimento è strumentale all’affermazione della concezione dell’anima come forza. L’insistenza di Beausobre sulla percezione di sé dell’anima può far pensare a Locke, che aveva ancorato al concetto di consapevolezza e di memoria quello di identità personale e di sostanza pensante32. Ma Beausobre sembra alla ricerca di un modello teorico che saldi il soggetto a un fondamento più solido della memoria; per questo si rivolge a Leibniz e al sistema dell’armonia tra anima e corpo. Infatti, se per Locke è la consapevolezza dei propri stati a definire, come continuum, l’identità personale, per Leibniz è l’unione metafisica dell’anima col corpo a fondare l’identità del soggetto. Adottando il sistema dell’armonia prestabilita di Leibniz, Beausobre tenta di ‘correggere’ la deriva mateIvi, p. 418. «Questa facoltà, così necessaria all’uomo, è per l’insensato un pugnale con cui si ferisce, una fiamma con cui si brucia», scrive (id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria III, p. 426). 31 id., Réflexions sur la nature et la necessité des idées obscures, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filosofia speculativa, XXIV, 1768, pp. 411-418. 32 J. Locke, An Essay concerning Human Understanding (1690), ed. by P. H. Nidditch, Oxford, Clarendon 1975, II, xxvii, § 11, pp. 336-337; trad. it. Roma-Bari, Laterza 2006, p. 371. 29 30

immaginazione e follia

153

rialistica del lockismo: «Ecco come Beausobre sperava di riavvicinare Locke a Leibniz, e allo stesso tempo respingere i settari estremi di Locke, i sensisti», scrive Bartholmèss33. L’operazione culturale di Beausobre consiste dunque nel rivendicare un possibile uso diverso di Locke e di Cartesio, volto a ribadire la dualità delle sostanze e la spiritualità del pensiero, contro i materialisti. In linea con la concezione leibniziana, anche per Beausobre l’anima è integra e non può essere colpita o danneggiata da un disturbo o da un’alterazione del corpo: Supporre qui un qualche disturbo o un qualche indebolimento nell’anima stessa, questo vorrebbe dire ammettere il materialismo più completo, e io suppongo nella spiegazione della follia la spiritualità dell’anima fuori da ogni contestazione34.

Beausobre scopre finalmente le carte ed esplicita la concezione dell’anima e del rapporto con il corpo che sottende a queste riflessioni, andando a colpire i bersagli polemici della sua battaglia: coloro che cercano «in qualche parte viziata del corpo la ragione prima delle malattie dello spirito»35, i sostenitori della teoria dell’«influsso fisico», i cosiddetti «Anatomisti»36, che piegano il dualismo cartesiano a un materialismo la cui deriva più probabile, come nota Beausobre, è il riduzionismo monistico. Ammettere che l’anima possa soffrire di un’azione «immediata» del corpo e cercare nella ghiandola pineale la sua sede significa, aggiunge Beausobre, concludere che «l’anima è materia»37. La Mettrie può essere certamente indicato come il simbolo di quella corrente di medici che non hanno scrupoli a fare propria la scienza cartesiana, lasciando da parte la costruzione metafisica relativa alle due res. Anch’egli accademico alla corte di Federico II, ne L’homme machine del 1747 aveva tratto conseguenze materialistiche dal dualismo sostenendo l’unicità della fonte – corporea – dei fenomeni fisici e spirituali. Tuttavia, è importante sottolineare come i medici che pubblicano nelle memorie dell’Accademia in questi anni si muovano in linea di massima in un orizzonte c. BArThoLmèss, op. cit., vol. II, p. 130. L. de BeAusoBre, Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria III, p. 426. 35 id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria IV, p. 302. 36 Ivi, p. 307. 37 Ivi, p. 308. 33

34

154

olivia pallenbemg

ancora dualistico, dove la prospettiva del monismo è appunto solo un’ipotesi paradossale. La spiegazione organica del fenomeno della malattia mentale fornita da Meckel non implica infatti una concezione materialistica o riduzionistica dell’anima e delle sue funzioni. Egli afferma che il caso di coloro che sono «interamente privati dell’uso della ragione» mostra in pieno la verità della «dipendenza» dello spirito dalla «disposizione della macchina»38. Egli si limita dunque a chiamare in causa una dipendenza dal meccanismo corporeo, ma poi aggiunge che l’anima ha una sede diversa dal cervello, per quanto sconosciuta. Dagli sporadici accenni alla sua posizione teorica si intuisce che egli condivide una concezione dualistica della natura umana, dove l’anima ha funzioni conoscitive superiori e una sede diversa dal cervello. La sua posizione sembra dunque ascrivibile alla cosiddetta ‘ipotesi dell’influsso fisico’ del corpo sulle operazioni dello spirito. Di questa e altre ipotesi sul commercio tra il corpo e l’anima scrive Formey, nelle Nouvelles considérations sur l’union des deux substances dans l’homme del 176439. Riferendosi alle tre ipotesi che sono state sviluppate a partire dalla formulazione cartesiana del problema del rapporto mente/corpo (l’influsso fisico, le cause occasionali e l’armonia prestabilita), Formey sottolinea come siano proprio i momenti in cui l’organismo è alterato per «le stravaganze […] o i deliri della febbre» a far problema: infatti, si domanda l’autore, come è possibile che quei disturbi «escano dal fondo di un’anima […] che non ha la febbre»40? Sia i filosofi ‘speculativi’, sia i medici ‘sperimentali’ si muovono dunque all’interno di un modello dualistico condiviso, che J. f. meckeL, op. cit., p. 65. J. h. s. formey, Nouvelles considérations sur l’union des deux substances dans l’homme, ou sur le commerce de l’âme et du corps, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filosofia filosofia speculativa, 1764, pp. 364-373. 40 Ivi, p. 369. Andre-Pierre Le Guay De Prémontval (1716-1764), un altro membro della Classe di filosofia speculativa, ne aggiunge una quarta: l’ipotesi dell’azione reale e reciproca del corpo e dell’anima, che si basa sull’idea che i corpi sono aggregati o composti di esseri semplici e immateriali (A.-p. Le guAy de prémonTVAL, De la psychocratie; ou de l’empire, et du gouvernement de l’âme, sur la multitude des êtres, simples comme elle, mais d’une nature inférieure à la sienne, dont le corps est composé. Quatrième hypothèse sur l’union du corps et de l’âme, «Histoire de l’Académie Royale des Sciences et des Belles Lettres de Berlin», Classe di filosofia speculativa, 1764, pp. 374-414). 38

39

immaginazione e follia

155

tentano di piegare e di aggiustare a proprio uso. Se il dualismo resiste, è perché è funzionale alla salvaguardia dell’anima ovvero dello spirito, a cui evidentemente nessuno degli accademici berlinesi è ancora disposto a rinunciare. Dal materialismo al monismo sembra esserci solo un passo, ma non è stato ancora compiuto. Il bersaglio polemico di Beausobre sono dunque i criptomaterialisti della Classe di filosofia sperimentale, sostenitori dell’ipotesi dell’influsso fisico del corpo sullo spirito; la posta in gioco è la spiritualità dell’anima e l’autonomia delle sue operazioni. La soluzione proposta da Beausobre, come si è visto, si ispira al sistema leibniziano. Nella Prefazione ai Saggi di teodicea, pubblicati anonimi ad Amsterdam nel 1710, Leibniz scriveva: Negando l’ i n f l u s s o f i s i c o dell’anima sul corpo o, al contrario, del corpo sull’anima, un influsso cioè per il quale l’uno andrebbe a turbare le leggi dell’altra, non voglio negare l’unione dell’uno con l’altra, che ne fa un soggetto: ma questa unione è qualcosa di m e t a f i s i c o, che nulla cambia nei fenomeni41.

Beausobre ripete che non è necessario ammettere che gli oggetti esterni agiscano realmente sulla nostra anima, per spiegare come essa agisce in virtù del suo legame col corpo42.

Per rispondere a chi mette in pericolo la spiritualità dell’anima sostenendo la possibilità di un influsso reciproco di mente e corpo, Beausobre si rifà dunque a Leibniz. Dapprima afferma che l’anima «appercepisce» quello che accade nel corpo, poi aggiunge che è «nell’anima stessa che va cercata la ragione della follia», infine conclude che per sciogliere questo mistero occorre spiegare «come l’anima è istruita di quello che accade fuori di lei e come il corpo ubbidisce all’anima»43. Il sistema che risolve queste difficoltà è dunque quello dell’armonia prestabilita, secondo il quale l’anima rimane incorrotta e sostanziale anche quando il

41 g. W. LeiBniz, Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal (1710), hrsg. von C. J. Gerhardt in Die philosophischen Schriften, VI Band., Hildesheim-New York, Georg Olms Verlag 1978, p. 45; trad. it. Milano, Rizzoli 1993, p. 68. 42 L. de BeAusoBre, Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria II, p. 408. 43 «L’âme s’apperçoit de ce qui se passe dans le corps» (id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria IV, p. 311).

156

olivia pallenbemg

corpo è danneggiato, perché non c’è influenza reciproca né miscuglio possibile tra le due legislazioni o i due ordini dello spirituale e del corporeo. L’anima non perde le sue facoltà né è influenzata da forze a lei estranee, perché non può essere per struttura turbata da altro che da se stessa; per cui, anche in presenza di una follia prodotta da un’alterazione del corpo, «quello che accade nell’anima» è «un effetto della sua propria forza, che agisce in una maniera analoga alle sue rappresentazioni»44. L’analogia che corre tra il corpo e lo spirito è appunto il sistema dell’armonia prestabilita, che solleva le difficoltà del dualismo cartesiano – imperfetto perché lasciava in sospeso la questione della comunicazione tra le due res, suggerendo che potesse essere risolta dalla ghiandola pineale, cioè da un medium corporeo – salvaguardando il principio della spiritualità e della sostanzialità della res cogitans. 4. La natura della follia Dunque che cos’è la follia? Alla luce del risultato ottenuto, ossia la salvezza dell’anima, Beausobre non sente più l’impellenza di stabilirne l’essenza o di determinarne le cause; gli basta ribadire che è una manifestazione visibile del disaccordo tra anima e corpo. La follia perde dunque il suo potere distruttivo, viene depotenziata e resa effetto di un disaccordo, che non ha conseguenze annichilenti sull’anima, cioè sul soggetto. L’anima, infatti, come afferma risolutamente nella quinta memoria, è «inalterabile»45. Di fronte a fenomeni che «sembrano indicare che le operazioni dell’anima non ci sono più», ovvero che sono compromesse, è opportuno sospendere il giudizio, come dinnanzi a un timido la cui timidezza non è prova di stupidità: «Non si tratta che di malattie apparenti dello spirito»46. Dalle manifestazioni visibili non è possibile risalire a cause o sostanze invisibili: il divario tra il fisico e lo spirituale è netto, sono due sfere che, lungi dall’influenzarsi reciprocamente, non denotano neppure qualcosa l’una dell’altra. L’«apparenza» della malattia, la momentanea «incapacità» allora non provano nulla47. Barlumi di senso e di ragione pongono in dubbio la reciproca estraneità dei folli e Ivi, p. 312 (c.vo mio). id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria V, p. 314. 46 Ivi, p. 313. 47 id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria III, p. 424. 44 45

immaginazione e follia

157

dei sani. D’altronde, la dichiarata incapacità di una spiegazione e di una definizione della follia a partire dalle sue manifestazioni e dai suoi sintomi contraddice il fatto che di follia e di delirio si parli sempre a partire da uno sguardo, quello degli altri uomini, i sani, che osservano, classificano e definiscono anormale ciò che per il folle è normale. C’è dunque una sorta di cortocircuito tra lo sguardo che definisce e l’impossibilità strutturale di una definizione a partire dallo sguardo: una definizione che finisce per essere tautologica – non si può vedere che ciò che si vede. Dunque la follia come ‘male apparente dello spirito’, ovvero come male immaginario; anche in questo senso la follia è una malattia dell’immaginazione. Sin dalla prima memoria è emerso che per Beausobre il modello teorico di riferimento per spiegare il rapporto tra la mente e il corpo è quello leibniziano: È sufficiente aver osservato la liaison intima dei movimenti del corpo con le percezioni dell’anima, per giudicare che i cambiamenti intervenuti nell’uno devono produrne di analoghi nell’altra, quale che sia la specie di legame che li unisce.

Finché dietro questa «liaison» c’è quell’«equilibrio perfetto dell’azione del corpo e dell’azione dell’anima» in cui consiste lo «stato perfetto di un Essere finito»48, egli non ha dubbi a indicare nell’armonia prestabilita il «sistema che soddisfa tutte le difficoltà», non da ultimo perché garantisce l’incolumità dell’anima e dello spirituale49. Ma come è possibile che l’anima, che dovrebbe rimanere integra e inalterata di fronte alle perturbazioni fisiche o dell’immaginazione, precipiti talvolta assieme all’immaginazione stessa? Come altri suoi colleghi della Classe di filosofia speculativa, anche Beausobre si rifugia nel limite, dichiarando di essere incapace di precisare meglio la liaison tra il corpo e lo spirito, che definisce «un fenomeno ancora inesplicabile»50, soprattutto nel caso in cui sembra rompersi irrimediabilmente. Follia come malattia dello spirito, comunque, e non del corpo, che nasce nel momento in cui l’anima dialoga esclusivamente con la propria immaginazione, invece che con la realtà. Un’anima che giudichi «in maniera sana» prenderebbe atto di quello che id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria I, p. 400. id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria IV, p. 312. 50 id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria V, p. 319. 48

49

158

olivia pallenbemg

accade al corpo, anche nel caso di un disturbo particolarmente violento; mentre, quando l’anima si affida interamente all’immaginazione per giudicare di quello che accade «fuori» di sé, ne diventa preda ed esce letteralmente ‘fuori di sé’51. I malati di mente sono «infelici vittime dell’immaginazione»52, per loro la medicina può fare ben poco, dal momento che si tratta di una malattia che è l’«effetto di cause puramente morali»53: «Tutto dipende dallo spirito, o piuttosto dall’immaginazione», aggiunge qualche pagina dopo54. Per Beausobre l’immaginazione, infatti, per quanto «sottomessa ai movimenti del corpo», appartiene all’ambito dello spirituale55. Se i disturbi del corpo hanno una qualche responsabilità, si tratta di «cause lontane della follia»: non è necessario cercare nel cervello, e negli organi i disturbi atti a occasionare la follia […]. Questa dipende dall’immaginazione del malato56.

La torsione del dualismo imposta dallo studio della malattia mentale porta dunque a esiti interessanti dal punto di vista della ricezione della dottrina cartesiana del rapporto mente/corpo. Non sono le soluzioni più o meno originali date dagli autori considerati, che peraltro si fermano di fronte all’incapacità di precisare la natura di questo rapporto, a richiamare il nostro interesse. Attraverso i cauti tentativi di Meckel e Beausobre di piegare il dualismo alla propria attitudine, sperimentale o speculativa che sia, si intuisce quale potrebbe essere il destino di questo paradigma esplicativo: quello di trasformarsi nel suo contrario, il monismo, un sistema forse più semplice e coerente, che sembra però inadeguato a dar conto della ricchezza e della complessità dell’esperienza. La follia infatti continuerà a fare problema anche in un orizzonte monistico e verrà usata dai nemici del monismo come prova per rivendicare al soggetto una forza di azione irriducibile alla causalità efficiente della neurofisiologia. La malattia mentale, dunque, si conferma come banco di prova tanto delle soluzioni dualistiche che di quelle monistiche, in quanto mostra nella sua radicalità l’enigma del soggetto. Ivi, p. 314. Ivi, p. 325. 53 Ivi, p. 317. 54 Ivi, p. 319. 55 id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria IV, p. 311. 56 id., Réflexions sur la nature et les causes de la folie, cit., Memoria V, p. 315. 51 52

II PERSISTENZE, ADATTAMENTI, DIFFUSIONE

Silvia Berti ALLE FONTI DELLA MODERNITÀ: DAL MARRANESIMO A SPINOZA

Qualunque idea si abbia della modernità – e ne coesistono molte – essa è destinata a trovarsi collegata al celeberrimo motto kantiano: sapere aude, che rispondeva all’interrogativo posto all’intelligencija berlinese nel 1784 circa il significato dell’Illuminismo: was ist Aufklärung? E oltre alla complessa stratificazione culturale sottesa alle parole di Kant, da Orazio a Dacier ed a Kohler, la risposta alla domanda della ‘Berlinische Monatschrift’ può essenzialmente decodificarsi tanto in «Abbi il coraggio di sapere», quanto in «Osa dichiarare e propagare la verità». Rivelare e difendere la verità, motto davvero idoneo all’illuminismo1. Questo concetto, autoaffermativo e di se stesso sicuro, nacque nell’ambito culturale del primo Settecento, lungo ed oltre quelle intricate e mal definite linee entro le quali il secolo precedente si trovava costretto a sopprimere le proprie credenze ed idee. Un autentico spartiacque nella cultura dell’epoca fu rappresentato dalla esplosiva compresenza della critica biblica di Spinoza e della sua nozione ontologica di Dio come causa sui, che eliminava ab origine qualunque possibilità di rivelazione e di creazione. Lo stesso Spinoza ebbe una difficile evoluzione, non troppo dissimile da quella esperita dalle migliaia di ‘criptoebrei’, rifugiatisi in Olanda dopo un periodo di otto generazioni di forzato conformismo e di persecuzioni religiose in Spagna e Portogallo, i quali poterono finalmente tornare alla religione dei

1 Cfr. su questo F. VenTuri, Contributi ad un dizionario storico. Was ist Aufklärung? Sapere aude, «Rivista storica italiana», 1, 1959, pp. 119-126 e id., Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino, Einaudi 1970, pp. 14-18.

162

silvia bemti

padri e alla disciplina comunitaria fondata sull’obbedienza alla Legge2. Spinoza, come sappiamo, fece un passo oltre: dall’Accademia Keter Torah3 sino all’affermazione, ormai totalmente fuori dell’ambito della Legge, di un Dio puramente filosofico. Se la riaffermazione dell’identità ebraica degli ex-marrani da un lato, così come il successivo, completo ritrarsi di Spinoza dalla vita ebraica dall’altro, si possano spiegare entro parametri culturali esclusivamente ebraici, è una questione a lungo dibattuta. Prima di prendere in esame l’argomento, vorrei provare ad allontanare il tema della continuità della storia ebraica dalla tipica lettura monistica, considerandola piuttosto come problema che come dato di fatto. Shlomo Pinès ci ha fornito alcuni suggerimenti illuminanti al riguardo: pur non abbandonando il tema della continuità come problema interpretativo, era per lui inevitabile sostenere come punto di partenza il fatto che gli ebrei nel corso dei secoli erano appartenuti a tante e varie aree geografico-culturali4. Qualsiasi indagine sulla cultura ebraica, quindi, che non tenesse conto del suo carattere composito e multiculturale sarebbe di necessità destinata a sottovalutare i fatti storici in quanto tali – e questo sia detto non con l’intento di indebolire la specificità della cultura ebraica, ma piuttosto di sottolinearla. Allo stesso modo, ritengo che le dinamiche interne al fenomeno del marranesimo siano meglio comprese quando studiate in un contesto più ampio. Se la teoria e la pratica della dissimulazione trionfarono in Europa fra le metà dei secoli XVI e XVII, questo fu particolarmente

2 Sulle complesse vicende che accompagnarono l’insediamento, cfr. la precisa e fine ricostruzione che anima le pagine iniziali di S. nAdLer, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento, Torino, Einaudi 2002, pp. 3-32. 3 Si considera altamente probabile che Spinoza abbia frequentato, fra le yeshivot di Amsterdam, quella chiamata Keter Torah (La corona della Legge), fondata e diretta da Saul Levi Mortera. 4 Su questo tema cfr. particolarmente sh. pinès, Considerazioni su scienza e fede negli studi ebraistici [in ebraico], «Ha-Universita», 2-3, 1956, pp. 1316. Cfr. anche Studies in the History of Jewish Thought, ed. by W. Z. Harvey, M. Idel, vol. 5, Jerusalem 1994 e la recente scelta di suo scritti apparsa in francese La liberté de philosopher. De Maïmonide à Spinoza. Traduction, introduction et notes par R. Brague, Paris, Desclée de Brouwer 1997. Quanto detto per Pinès potrebbe in qualche modo dirsi anche per il primo Baer; cfr. I. yuVAL, Yitzhak Baer and the Search for Authentic Judaism, in The Jewish Past Revisited: Reflections on Modern Jewish Historians, ed. by David N. Myers, David B. Ruderman, New Haven, Yale University Press 1998, pp. 77-87.

alle fonti della modemnità: dal mammanesimo a spinoza

163

vero, per ragioni ovvie, nei paesi dominati dalla Controriforma, e costituì la nota dominante di ogni atteggiamento morale, estetico e naturalmente politico del mondo barocco5. La dissimulazione rapidamente si andava affermando come la struttura protettiva di un’incerta verità interna che doveva rassegnarsi all’eccessivo peso dell’oppressione esterna. In modi diversi, Delio Cantimori e Carlo Ginzburg ne hanno focalizzato l’indagine intorno al fenomeno del nicodemismo, mentre Rosario Villari ne ha approfondito il significato di opposizione politica e attiva resistenza al potere. C’è da chiedersi se essa non debba includere anche il vasto e rilevantissimo fenomeno del ‘cripto-giudaismo’. Nelle esperienze dei marrani, il loro arrivo nella ‘Gerusalemme del Nord’ (come loro stessi significativamente soprannominarono Amsterdam) ed il conseguente abbandono del cripto-giudaismo e del bisogno di nascondersi, presto portò a due posizioni opposte: da un lato, il ritorno ad un ebraismo saldo e con forti accenti normativi – con il quale, del resto, non avevano che modeste dimestichezze – e dall’altro, l’approdo a conclusioni eterodosse e deistiche, in rapido balzo dalla religione naturale all’ateismo6. Non si trattava soltanto di un pacifico dibattito teorico. La comunità portoghese ne risultò divisa tra i promulgatori dello cherem (il bando della comunità) e le sue vittime: per citare i nomi piú noti, di Saul Levi Mortera ed Isaac Orobio de Castro da una parte, e di Juan de Prado e Spinoza dall’altra7. Ciò che m’interessa sottolineare qui è che entrambi i fronti – la riaffermazione energica dell’ortodossia ebraica e di quelle opinioni neganti la rivelazione – finirono per influire profondamente sull’identità cristiana, anche se probabilmente al di là di ogni consapevole intenzione. Benché sia senz’altro vero che gli ex-marrani potevano 5 Sulla questione rimando al mio articolo Unmasking the Truth: The Theme of Imposture in Early Modern European Culture, in Everything Connects: In Conference with Richard H. Popkin. Essays in his Honor, ed. by J. E. Force-D. S. Katz, Leiden, Brill 1999, pp. 19-36. 6 Per una visione d’insieme, cfr. la preziosa raccolta di scritti di Y. kApLAn, Les nouveaux-juifs d’Amsterdam. Essais sur l’histoire sociale et intellectuelle du judaïsme séfarade au XVIIe siècle, Paris, Chandeigne 1999. 7 Sulle diverse ragioni alle spalle delle promulgazioni di herem in quegli anni, cfr. ancora Y. kApLAn, The Social Functions of the “herem” in the Portuguese Jewish Community of Amsterdam in the Seventeenth Century, in Dutch Jewish History, Jerusalem 1984, pp. 111-155 e H. méchouLAn, Le “herem” à Amsterdam et l’excommunication de Spinoza, «Cahiers Spinoza», 3, 1979-80, pp. 117-134.

164

silvia bemti

praticare apertamente la loro religione, insieme al commercio ed alla medicina, ed inoltre pubblicare opere apologetiche sull’ebraismo in un’atmosfera di libertà del tutto nuova, è altrettanto vero che tale nuova situazione portava in sé alcune limitazioni strutturali, non ultima che la comunità non doveva permettere opinione alcuna che mettesse in dubbio quegli aspetti della rivelazione comuni sia all’ebraismo che al cristianesimo. Ed oltre all’esercizio di quella rigorosa sorveglianza interna, che in ultima analisi portò alle espulsioni di Juan de Prado e di Spinoza (nonché alla disputa contro l’eminente cabbalista Isaac Aboab de Fonseca riguardo l’eternità delle punizioni divine8), all’esterno occorrevano a haham Saul Levi Mortera tutte le proprie energie per combattere i tanti tentativi dei calvinisti di convertire gli ebrei. Si tratta di una situazione assai più complessa di quella che il mito di Spinoza, già venuto alla luce nelle prime biografie di Lucas e Colerus9, e poi nutrito dalla storiografia per i successivi due secoli, ha cercato di spacciare, narrando del conflitto fra l’isolata purezza e libertà di spirito di Spinoza da una parte, e dall’altra, dell’intolleranza fanatica dei rabbini. L’interpretazione piú feconda rimane quella di Révah negli anni Cinquanta, che si sofferma sulle tendenze verso l’eterodossia presenti all’interno della comunità portoghese di Amsterdam10, soprattutto perché 8 Su questo cfr. A. ALTmAnn, Eternality of punishment: a theological controversy within the Amsterdam Rabbinate in the thirties of the Seventeenth Century, «Proceedings of the American Academy for Jewish Research», 40, 1973, pp. 1-88. 9 Si tratta di Jean-Maximilien Lucas, quasi certamente l’autore de La Vie de Monsieur Benoit de Spinosa del 1678 e Johannes Kohler (Colerus), autore della Korte, dog waarachtige Levens-Beschryving, van Benedictus de Spinoza, Uit autentique Stukken en mondeling getuigenis van nog levende Personen, Amsterdam, 1705; tr. franc., La vie de B. Spinoza tirée des écrits de ce fameux philosophe et du témoignage de plusieurs personnes dignes de foi, qui l’ont connu particulièrement, La Haye 1706; tr. ingl., The Life of Benedict de Spinoza, London 1706. L’attribuzione della Vie a Lucas è accolta da Freudenthal, Dunin-Borkovski, Meyer, Meinsma, Hubbeling, Nadler, e da chi scrive, e non vi sono nuovi elementi per metterla in discussione. Una tavola comparata delle fonti per una biografia di Spinoza si trova in H. G. Hubbeling, Spinoza, Freiburg/München, Alber 1978, pp. 10-24. 10 Cfr. I. S. réVAh, Spinoza et le Docteur Juan de Prado, Paris-La Haye, Mouton 1959 e il suo importante saggio Aux origines de la rupture spinozienne: nouveaux documents sur l’incroyance dans la communauté judéo-portugaise d’Amsterdam à l’époque de l’excommunication de Spinoza, «Revue des études juives», 3-4, 1964, pp. 359-431.

alle fonti della modemnità: dal mammanesimo a spinoza

165

sottrae il “problema Spinoza” (vale a dire, le ragioni e le cause che portarono alla rottura) alla contrapposizione rigida fra la tesi Meinsma-Gebhardt, imperniata sull’influenza esercitata dalla visione anti-dogmatica dello spiritualismo collegiante sul carattere mistico e metafisico della filosofia spinoziana, e la tesi di Wolfson, che ha per centro alcuni punti concettuali cruciali all’interno della tradizione filosofica ebraica medievale, da Maimonide a Crescas11. L’analisi di Révah, attingendo alla magistrale intuizione di Gebhardt ed agendo da sfondo allo studio esaustivo di Yosef Kaplan su Orobio12, era anch’essa un ritorno al concreto. Non si trattava soltanto di un’analisi interna del pensiero filosofico, ma dell’esame di documenti provenienti dall’Inquisizione, di brani di lettere e di scritti polemici che costituiscono un mosaico della vita di una comunità ebraica autocreata ex novo ed autodidatta. La maggior parte dei rabbini, anche i più noti, non godeva di un’istruzione ebraica tradizionale, e c’era addirittura chi non aveva conoscenza alcuna di lingua ebraica (una notevole eccezione tuttavia si ha nella persona di Abraham Cohen Herrera di Firenze, profondo conoscitore del pensiero cabbalistico di Isaac Luria. Spinoza aveva approfondito lo studio della Puerta del cielo, la sua opera principale, che tentava una sintesi della dottrina cabbalistica col neoplatonismo umanistico fiorentino). Tuttavia, il ventennio compreso fra il 1640 ed il 1660 rappresentò per la comunità sefardita di Amsterdam un periodo di intensità culturale quale in seguito non si sarebbe più ripetuto. Dall’arrivo ad Amsterdam di Juan de Prado nel 1655, e fino allo cherem che questi subì nel 1658, molti furono i problemi riguardanti nuove forme d’incredulità che sorsero sia dentro che intorno alla comunità ebraica portoghese. Il 27 luglio 1656 lo stesso Spinoza venne espulso a causa – cito direttamente dal testo del bando – delle ‘eresie abominevoli quali egli praticava ed insegna11 Cfr. K. O. meinsmA, Spinoza en zijn kring. Historisch-kritische studiën over Hollandsche vrijgeesten, ‘s-Gravenhage 1896. Se ne veda la traduzione francese, arricchita di note e di precisazioni: Spinoza et son cercle, Paris, Vrin 1983. La posizione di Carl Gebhardt è argomentata nel suo Die Religion Spinozas, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 41, 1932, e nella sua introduzione alla ristampa dell’opuscolo di Balling Het Licht op den Kandelaar, «Chronicon Spinozanum», 4, 1924, pp. 187-192. Per la tesi opposta, cfr. il celebre studio di H. A. WoLfson, The Philosophy of Spinoza, 2 voll., Cambridge, Mass., Harvard University Press 1934. 12 Y. kApLAn, From Christianity to Judaism. The Story of Isaac Orobio de Castro, Oxford, The Littman Library of Jewish Civilization 1989.

166

silvia bemti

va’13. Queste erano le eresie imputategli: 1) la negazione dell’immortalità dell’anima; 2) la negazione della divinità della Legge; 3) l’idea dell’esistenza esclusivamente filosofica di Dio14. Accuse altrettanto gravi vennero montate contro Prado. Secondo la testimonianza di Jacob Monsanto, un suo allievo di latino, Prado avrebbe chiesto: «Perché dobbiamo credere più nella Legge di Mosè che nell’insegnamento delle altre varie sette? Se noi crediamo a Mosè piuttosto che a Maometto, ci sarà pur un motivo, ma è soltanto opera dell’immaginazione»15. Uno sguardo rapido alla loro produzione può fornire una chiave per una contrapposizione meno polarizzata. Nella sua Epistola invectiva, Orobio de Castro sostiene che tutti coloro che professavano un qualche grado di eterodossia avevano studiato una delle scienze profane quali la logica, la fisica, la metafisica e la medicina16. Questa era tutto fuorché una descrizione neutra ed esterna: difatti, Orobio stesso aveva studiato sia medicina che teologia presso l’Università di Alcalá assieme a Juan de Prado, contro il quale era diretta la sua Epistola. L’influenza del deismo europeo (come dimostra il caso complesso di Uriel da Costa), nonché dello stoicismo e del platonismo, finì con l’integrarsi insieme al nuovo ebraismo degli ex-marrani. Orobio, in una sintesi interessante, descrive gli elementi costitutivi dell’eterodossia all’interno della comunità: ci sono gli “atei mostruosi”, che pur riconoscendo l’esistenza di una causa prima osano al contempo negare la Sacra Bibbia; e poi quelli che credono in Dio ma disprezzano la Legge Orale; quelli, infine, che osservano la legge di Mosè ma che «disprezzano i divieti e le aggiunte rabbiniche miranti ad un’osservanza più rigorosa della Legge: e tale disprezzo nei confronti della tradizione presto porta al disprezzo per le Scritture ed, infine, all’ateismo»17. 13 Cfr. A. kAsher-sh. BidermAn, Why was Spinoza excommunicated?, in Sceptics, Millenarians and Jews, ed. by D. S. Katz-J. I. Israel, Leiden, Brill 1990, p. 103. 14 Questo è quanto apprendiamo dalla testimonianza del frate Tomás Solano y Robles dell’8 agosto 1659 intorno alle opinioni di Spinoza e Prado. Cfr. I. S. réVAh, Spinoza et les hérétiques de la communauté judéo-portugaise d’Amsterdam, «Revue de l’histoire des religions», 154, 1958, p. 196. 15 Il documento è pubblicato in I.S. réVAh, Aux origines, cit., p. 404. Cfr. anche Y. kApLAn, From Christianity to Judaism, cit., pp. 141-142. 16 Cfr. oroBio de cAsTro, Epistola invectiva, in I. S. réVAh, Spinoza et le Docteur Juan de Prado, cit., p. 90. 17 Ibid., pp. 90-119. Cfr. anche Y. kApLAn, From Christianity to Judaism, cit., pp. 152-178.

alle fonti della modemnità: dal mammanesimo a spinoza

167

E qui sembra che Orobio faccia riferimento esplicito al caso da Costa. Nel suo Exame das tradições phariseas (1624), riemerso alla luce grazie alle ricerche di H. P. Salomon, da Costa afferma che in un primo tempo cominciò ad avere dei dubbi intorno alla Legge Orale («quelle false e superstiziose interpretazioni dei Farisei»), e più tardi divenne scettico anche nei confronti della stessa Legge Scritta18. Alcuni obiettivi polemici comuni alla critica eterodossa comprendevano l’antropomorfismo biblico, l’idea della creazione e della trascendenza divina, il concetto dell’elezione degli ebrei, e dell’immortalità dell’anima, tutte idee che affondavano in antiche dottrine averroistiche. Nell’analisi di Steven Nadler, fra le ragioni che portarono allo cherem nei confronti di Spinoza, emerge con forza il tema della negazione spinoziana dell’immortalità dell’anima19. La ben nota dichiarazione di Solano y Robles circa le opinioni di Prado e di Spinoza, pronunciata in presenza degli Inquisitori, riferiva della dottrina della mortalità dell’anima, ed ancora, “qu’il n’y avait de Dieu que philosophiquement”20. Quindi, il mahamad che nel 1656 condannò Spinoza, pronunciò non solo una condanna contro il ritorno alle posizioni sadducee reinterpretate tramite le opinioni di da Costa (benché vada comunque ricordato che di lì a qualche anno, nella sua Korte Verhandeling, Spinoza avrebbe contrapposto alla negazione dell’immortalità dell’anima tipica dell’eterodossia ebraico-portoghese, l’idea di un’anima eterna né personale né individuale), ma anche una condanna del Dio filosofico prodotto da una soluzione ontologica del dualismo cartesiano. Tenendo presente questo

18 Si veda l’edizione di questo importantissimo testo, Examination of pharisaic traditions - Exame das tradições phariseas. Supplemented by Semuel da Silva’s Treatise on the immortality of the soul - Tratado da Immortalidade da Alma. Translation, notes and introduction by H. P. Salomon, I. S. D. Sassoon, Leiden-New York-Köln, Brill 1993. Su da Costa, preziosi i contributi di Révah, ora raccolti in I. S. réVAh, Des marranes à Spinoza, Paris, Vrin 1995, e la recente edizione dei suoi corsi tenuti al Collège de France fra il 1966 e il 1972, Uriel Da Costa et les Marranes de Porto, édition présentée et annotée par C. L. Wilke, Paris, Fundação Calouste Gulbenkian 2004. Per uno sguardo d’insieme alla discussione interna alla comunità, e più specificamente intorno alle questioni dacostiane, rimando a S. BerTi, Amsterdam:: confl conflitti, itti, ricomposizioni, neo-ortodossia, in Le religioni e il mondo moderno. A c. di G. fiLorAmo. II. Ebraismo, a c. di D. Bidussa, Torino, Einaudi 2008, pp. 25-49. 19 Cfr. S. nAdLer, L’eresia di Spinoza. L’immortalità e lo spirito ebraico, Torino, Einaudi 2005, pp. 203-234. 20 Cfr. I. S. réVAh, Spinoza et les hérétiques, cit., p. 196.

168

silvia bemti

contesto nella sua complessità, riveste minore importanza, a mio parere, stabilire fino a che punto Spinoza avesse acquisito familiarità, sia con i collegianti sia con i princìpi del libero pensatore Van den Enden, il suo maestro di latino, nel periodo precedente la sua espulsione dalla comunità. Nozioni deistiche provenienti da tradizioni non-giudaiche erano piú che comuni nella cultura sefardita di Amsterdam come, ad esempio, il riferimento alla legge di natura quale legame universale e primario fra gli esseri umani. Lo stesso potrebbe dirsi per le questioni teologiche poste da coloro che tentavano di rafforzare l’unità all’interno della comunità ebraica, quali Mortera ed Orobio. Nel suo trattato polemico anticristiano, Providencia de Dios con Ysrael y verdad de la Ley de Moseh, Mortera picchia il cattolicesimo con un bastone sociniano, descrivendo i sociniani come coraggiosi confrères che combattono per la libertà di coscienza21 (e fu probabilmente da lui che il giovane Spinoza ebbe conoscenza del ruolo spirituale della figura di Cristo nel socinianesimo, che presentò più tardi nel suo Trattato teologico-politico come incarnazione della saggezza divina). Tuttavia, ci dice Mortera, i sociniani, pur non piegandosi alle tentazioni «dell’idolatria dell’ostia e alla venerazione d’immagini, e negando fermamente ogni pluralità dell’essenza divina»22, si aspettano che gli Ebrei, rinnegando la Legge di Mosè, accettino lo statuto divino dei Vangeli, e così distruggono il proprio edificio evangelico eretto sulle fondamenta della legge mosaica. Come gli esempi ricordati dimostrano, una posizione antidissimulatoria fu inoltre resa possibile dall’uso critico di temi provenienti dalle tradizioni eretiche all’interno del protestantesimo – come il socinianesimo nel caso di Mortera – e della filosofia occidentale. Nell’ambito della letteratura degli ex-marrani in difesa dell’ortodossia, esso portava ad un consolidamento sempre più esplicito dell’identità ebraica. Questi trattati violentemente antitrinitari ed anticristiani, pur essendo soltanto di uso interno, attestano del declino della pratica dissimulatoria, per poi svolgere un ruolo non marginale nell’arsenale anticristiano dei deisti del primo Settecento. Tornando a Spinoza, l’importante tradizione interpretativa inaugurata da Leo Strauss sottolineava nelle contraddizioni ine-

21 Cfr. H. méchouLAn, Morteira et Spinoza au carrefour du socinianisme, «Revue des études juives», 1-3, 1976, pp. 51-65. 22 Ibid., p. 59.

alle fonti della modemnità: dal mammanesimo a spinoza

169

renti al Tractatus la presenza di una doppia verità – una popolare, l’altra filosofica – ed indicò la necessità di una dialettica eso-/essoterica dettata dalla necessità della segretezza: una dialettica che richiedeva una lettura ‘fra le righe’. Più recentemente, ed oltre a Pinès, il quale si occupa del tema posto da Strauss – pur discostandosene sulla questione della profezia e del rapporto fra il filosofo ed il volgo in Maimonide –, è stato Yovel a trattare del tema ermeneutico della segretezza23. L’uso di un doppio linguaggio, sia per Spinoza che per i marrani, a suo parere, tradiva un fatto esistenziale più profondo: la loro vita su due livelli, uno interno ed uno esterno, uno nascosto e uno apparente. I marrani svolgevano in modo doppio la propria vita per allontanare la minaccia dell’Inquisizione, ma Spinoza avrebbe ripetuto tale schema di vita persino nella relativamente libera Olanda. Si trovò addirittura a dover ripetere questa esperienza due volte: prima nei panni del giovane dissidente all’interno della comunità ebraica, e dopo lo herem in qualità di imputato di ateismo nell’Olanda calvinista. In entrambe le fasi, ci dice Yovel, pur in modi alquanto diversi, Spinoza visse da “marrano della ragione”. Tale punto di vista, seppur del tutto consapevole della quantità dei complessi influssi non ebraici nella cultura degli ex-marrani, sembra tuttavia, in ultima analisi, non tenerne conto, preferendo come riferimento un modello di marranesimo monolitico e non poroso. L’autore sfrutta questo procedimento per dimostrare la tesi che Spinoza fosse costretto a tener nascosta la sua vera filosofia e a ricorrere, quindi, a forme criptiche d’espressione. Ma in realtà, né la sua biografia né i modi di ricezione delle sue opere paiono avallare una simile tesi. A differenza di Prado, Spinoza non chiese mai al mahamad di revocare il suo bando dalla comunità, e persino i suoi rapporti con i collegianti erano in buona parte già noti agli intellettuali europei. La sua sintesi unica di tradizione cabbalistica, eterodossia marrana, cartesianismo e spiritualità collegiante condusse l’intera cultura europea fuori dall’universo della dissimulazione. Questo certo non sfuggì alle autorità secolari di diverse città olandesi, che fra il 1670 e il 1678 misero a condanna il Tractatus assieme al Leviathan e alle opere dei sociniani24. Tantomeno sfuggì a quegli intel-

23 Cfr. Y. yoVeL, Spinoza and Other Heretics. I. The Marrano of Reason, Princeton, Princeton University Press 1989. 24 Cfr. J. isrAeL, The banning of Spinoza’s works in the Dutch Republic

170

silvia bemti

lettuali che, a circa un ventennio di distanza, aderendo alla sua difesa del diritto di esercitare la filosofia contro i pregiudizi dei teologi, e facendo proprio il suo Deus sive Natura, avrebbero innescato la prima scintilla dell’illuminismo europeo.

(1670-1678), in Disguised and Overt Spinozism around 1700, ed. by W. Van Bunge-W. Klever, Leiden-New York-Köln, Brill 1996, pp. 3-14.

Ettore Lojacono IL CARTESIANESIMO TRA I DOTTI MAGISTRATI DELLA FINE DEL XVII SECOLO E LA «QUAESTIO» DEL LINGUAGGIO

Il tema che propongo di svolgere mi porterà a seguire un percorso che non potrà fare a meno di attraversare regioni già ben note, al solo fine di illuminare spazi della diffusione di questa linea di pensiero apparentemente insospettati. Ogni tema cui accennerò non sarà comunque a sé stante, ma sarà richiamato in quanto concretamente confluente nella cultura dei magistrati, ove quella fusione tra umanità (filosofia) e giurisprudenza, che tra il XV e il XVI sec. si era attuata grazie all’opera di G. Budé e di A. Alciato – ricordati nel corso del dialogo (p. 146, 108r)1 –, alla fine del XVII sec. si compie alla luce di Descartes e di un ancor più ampio sapere giuridico e retorico: ciò non apparirà luminosamente, lo riconosceremo quasi tra le righe, ma – almeno lo auspico – diverrà difficile dubitarne e, in conclu-

1 Cfr. S’il faut citer dans les Plaidoyers. Si citerà il dialogo con il suo titolo originale (per le edizioni dell’opera di François Gaquère e di Noemi Hepp e Volker Kapp cfr. infra, n. 45); di qui in poi inseriremo le pagine dell’ed. critica di N. Hepp direttamente tra parentesi nel testo, unitamente a quelle del foglio del ms., riportate nell’ed. critica: ciò agevolerà nel reperimento del luogo indicato. L’esito dell’unione di humanités et jurisprudence dei giovani protagonisti del dialogo è ben diverso da quello attuatosi grazie a G. Budé e A. Alciato: questi favorirono l’uso delle citazioni, i primi la loro esclusione. Poiché assai spesso citiamo le diverse cariche cui questi magistrati sono stati chiamati, ricordiamo il significato delle più ricorrenti. Maître des Requêtes: Commissario del Re, incaricato di preparare i documenti (les dossiers) per il consiglio del re; Avocat du Roi au Châtelet: procuratore del re au Châtelet, corte parigina incaricata di emettere il giudizio nei processi criminali; Conseiller au Parlement: funzionario dello Stato incaricato sia di amministrare la giustizia, sia di registrare, in occasione di ordinanze regie, eventuali proteste.

172

ettome loJacono

sione, si avvertirà l’interesse di ‘scoprire’ ramificazioni del cartesianesimo in settori della cultura da alcuni considerati minori, ma che, posto che questa categoria esista, non sono tali, perché l’eloquenza ha condizionato e condiziona tuttora la vita quotidiana, il privato dell’uomo. Gli ultimi impegni che ho affrontato, le edizioni italiane di opere di Gérauld de Cordemoy e del Quod nihil scitur di Francisco Sanchez, mi hanno rafforzato nella convinzione che la comprensione dell’opera di un filosofo diviene più pregnante allorché si considera entro l’intero spettro della cultura ove è sorta e con la quale ha operato e interagito. Tale prospettiva mi pare particolarmente feconda nel caso della diffusione del cartesianesimo che, lungi dal rimanere rinserrato negli ambiti, pur vasti, dell’epistemologia e della metafisica, si è manifestato in molteplici attività speculative e pratiche, come nell’insegnamento della medicina – è significativo che per seguire tale orientamento gli studenti delle università delle Province Unite siano giunti sino allo scontro fisico con i seguaci della tradizione –, nell’elaborazione di concezioni politiche, drammaturgiche2 o comunque relative all’espressione iconografica3, sino all’esercizio stesso dell’eloquenza forense, su cui penso di accentrare oggi il mio intervento. L’azione radicalmente rinnovatrice di Descartes, pur iscritta in percorsi già tracciati, come il coinvolgimento di nuovi ceti sociali nell’avventura della speculazione – la Recherche de la vérité

2 Lodewijk Meyer, più volte alla direzione del Teatro di Amsterdam, fondò la società Nil Volentibus arduum, che discusse ampiamente di drammaturgia sulla base del Traité des Passions cartesiano. Cfr. c. L. ThiJssen-schouTe, Lodewijk Meyer en diens verhouding tot Descartes en Spinoza, Leiden, E. J. Brill 1954, ristampato in Uit de Republiek der Letteren[…], ‘s-Gravenhage, M. Nijhoff 1967, pp. 173-194. Cfr. A. Bossers, Nil Volentibus arduum: L. Meyer […], in Opstellen over de koninklijke bibliotheek en andere studies, Hilversum, Uitgeverij Verloren 1986, e r. BordoLi, Etica, arte, scienza tra Descartes e Spinoza: Lodewijk Meyer (1629-1681) e l’associazione Nil Volentibus arduum, Milano, Franco Angeli 2001. 3 Cfr. Conférence de M. Le Brun sur l’Expression générale et particulière, Amsterdam, J. De Lorme, Paris, E. Picart 1698 (la conferenza era stata tenuta da Le Brun nel 1667 all’Académie de Peinture et de sculpture). Mariafranca Spallanzani ha dedicato vari saggi a questo argomento, ci limitiamo qui a ricordare Passioni dell’anima, espressioni del corpo. Note su Descartes e Le Brun, in Atlante delle passioni, a c. di S. Moravia, Bari, Laterza 1993, pp. 47-78.

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

173

cartesiana non è certo lontana dagli Essais di Montaigne, dedicati agli honnestes et habiles hommes 4 –, il riconoscimento della potenzialità espressiva della lingua nazionale5, il declino dell’immagine quasi trascendente del sapere aristotelico6, la concezione del cosmo ispirata dall’opera copernicana e kepleriana7 e, infine, l’esigenza di condurre ‘metodicamente’ le ricerche, hanno immediatamente suscitato vivissimi dibattiti e, quindi, generato larga fortuna: ne traiamo ampia testimonianza dalla sua ricchissima corrispondenza8 e dai resoconti delle riunioni che nella seconda 4 micheL de monTAigne, Œuvres complètes, étude, commentaire et notes par le Dr. A. Armaingaud, Paris, Conard 1924-27, liv. III, chap. III, vol. V, p. 85. 5 Cfr. JoAchim du BeLLAy, La deffence et illustration de la langue françoyse (1549), nouvelle édition par L. Humbert, Paris, Garnier 1930, p. 50: «Ceste disputation n’est propre à ce que j’ay entrepris, qui est seulement de monstrer que notre langue n’a point à sa naissance les dieux et les astres si ennemis, qu’elle ne puisse un jour parvenir au point d’excellence et de perfection aussi bien que les autres, entendu que toutes sciences se peuvent fidelement et copieusement traiter en icelles», nonché la lettera di pierre de LA rAmée a Zuinger (marzo 1571), pubblicata da c. WAddingTon in Ramus, sa vie, ses écrits et ses opinions, Paris, Ch. Meyrueis 1855, pp. 420-440: 431. Nel 1635 Richelieu, nel creare l’Académie française, aveva mirato a sottrarre il francese all’egemonia del neo-latino. 6 Cfr. LucA BiAnchi, Aristotele fu uomo e poté errare: sulle origini medievali della critica al principio di autorità, in Studi sull’aristotelismo del Rinascimento, Padova, il Poligrafo 2000, pp. 101-123, e naturalmente Lorenzo VALLA, Repastinatio Dialecticae et Philosophiae, a c. di G. Zippel, Pataviis, in aedibus Antenoris 1982, pp. 2-7, nonché g. cArdAno, De Subtilitate, in hieronymi cArdAni, Opera Omnia […], Lugduni, sumptibus I. A. Huguetan et M. A. Ravaud 1663, 10 voll., III, p. 373, II col.: «Ergo, ut ad Aristotelem deveniam, homo ille fuit, et in dissectione ac singularibus in multis aberravit». 7 Cfr. A. koyré, La révolution astronomique. Copernic, Kepler […], Paris, Herman 1961, nonché m.-p. Lerner, Tre saggi sulla cosmologia alla fine del Cinquecento, Napoli, Bibliopolis 1992, cap. 2. 8 Non v’è certo da stupirsi che questo sia stato il suo primo spazio di diffusione, ché in gran parte si configura come un dialogo a vasto raggio che accosta a una tendenza centripeta un’altra centrifuga di uguale, se non maggiore, intensità. Tra gli innumerevoli esempi che potremmo riportare ricordiamo la lettera che enuncia il principio di inerzia (a Mersenne, 13 novembre 1629, AT, I, pp. 71-72, B. 23, p. 88); la celebre lettera sulle verità eterne (a Mersenne, 27 maggio 1630, AT, I, p. 152, B. 32, p. 152); la corretta enunciazione della legge di rifrazione (a Mersenne, giugno 1632, AT, I, p. 255, ll. 16-17, B. 55, pp. 234-236); l’insieme del trattato di Meccanica trasmesso a Co. Huygens in forma di lettera (a Huygens, 5 ottobre 1637, AT, I, pp. 431-438, B. 129, pp. 440-453); la corrispondenza diretta e indiretta con Fermat del 1637-1638:

174

ettome loJacono

metà del secolo si tenevano nei più celebri salons (spesso trasformatisi in accademie) della capitale e in alcune corti principesche del territorio francese9. Le Accademie Subito dopo lo spazio della Correspondance, su cui non possiamo ovviamente soffermarci, uno degli ambiti dove le idee cartesiane si rifiutavano o si facevano proprie dopo pertinenti dissertazioni e discussioni, talvolta particolarmente accanite, si iscrive in un universo culturale affatto lontano dalle istituzioni universitarie, ove si pensa e ci si esprime per lo più nella lingua nazionale, un universo che rispecchia perfettamente i mutamenti sociali che via via erano venuti configurandosi nel corso del secolo in cui, di fronte al crollo di tante certezze, si avvertiva intensamente l’esigenza di incontrare l’‘altro’, di comunicare per trovare ‘insieme’ come si sarebbe potuti uscire dalla crisi in cui si era precipitati e che Montaigne aveva così ben espressa: Or tournons les yeux par tout: tout crolle autour de nous; en tous les grands estats, soit de Chrestienté, soit d’ailleurs, que nous cognoissons, regardez y: vous y trouverez une evidente menasse de changement et de ruyne10.

Consapevolezza dunque della crisi, ma anche desiderio di incontrarsi, per tentare di trovare nuove certezze nello scambio di idee, come traspare dal motto di uno di questi molteplici cenacoli, l’accademia di Pierre Bourdelot: «Rien au monde n’est capable d’instruire et de bien former l’esprit comme la conférence»11. pressoché l’intera corrispondenza cartesiana risponde a quanto qui abbiamo affermato. Citeremo la Correspondance secondo l’edizione nazionale indicata: AT, cui faremo seguire l’edizione curata da G. Belgioioso: R. Descartes. Tutte le lettere, a c. di G. Belgioioso con la collaborazione di I. Agostini, J.-R. Armogathe, F. Marrone, F. A. Meschini, M. Savini, Milano, Bompiani 2005, che indichiamo con la lettera B. seguita dal n. della lettera e da quello della pagina. 9 Pensiamo alla residenza del Cardinal de Retz, a Commercy. Cfr. V. cousin, Fragments philosophiques pour servir à l’histoire de la philosophie, Ière partie, Paris, Durand-Didier 1866. 10 micheL de monTAigne, Oeuvres complètes, cit., lib. III, IX, vol. VI, p. 39. 11 P. Le gALLois, Conversations cit., I, p. 6. Spesso queste associazioni di uomini curiosi hanno assunto il nome di Accademia ma, come nota S. Mazauric (Savoirs et philosophie à Paris dans la première moitié du XVII siècle: “Les

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

175

Queste accademie apparivano organizzazioni libere, duttili, aperte ad ogni possibile variazione, rette non tanto da norme, quanto da programmi e indirizzi metodici, sì da assicurare un minimo ordine agli interventi, ai dibattiti, alle libere conversazioni che vi erano privilegiate. I magistrati che fra poco ricorderemo hanno tutti avuto una doppia formazione – già questo è fatto singolare –: da una parte quella tradizionale, seria e rigorosa dei Collegia e, dall’altra, quella più interessante, vivace e ‘moderna’ che si assorbiva in queste accademie; cultura che li ha avvicinati a Descartes, senza peraltro farne degli incondizionati adepti del suo pensiero: ciascuno infatti ha attuato in forme singolari e assolutamente autonome la propria personalità; ma se questo incontro non si fosse dato, le loro concezioni e i loro atteggiamenti civili non sarebbero stati quelli che ci accingiamo a considerare. La storia potrebbe iniziarsi con l’Accademia puteana di Charles Dupuis (le Pape de Paris, prince français de la republique des lettres) o con il centro fondato da Théophraste Renaudot (1633-1642), forse frequentato dal giovane Descartes,, ma per tenerci al tema accenneremo soltanto a quelle accademie di cui sono stati coprotagonisti sia i magistrati che partecipavano al dialogo al centro delle nostre considerazioni, sia altri che li hanno protetti, stimati e hanno riservato loro una quasi familiare amicizia. L’Accademia Bourdelot Dal 1640 era attiva a Parigi, all’Hôtel Condé, l’Accademia del P. Michon detto Bourdelot12, grande medico, fondamentalmente conférences du Bureau d’adresse” de Théophraste Renaudot, 1633-1642, Paris, publ. de la Sorbonne 1997, pp. 34-35), nella prima metà del secolo questi luoghi di dibattito, talvolta di libere conversazioni, non avevano nulla di istituzionalizzato, di formale. Qui non ricorderemo che le più note, ma nei primi decenni del secolo – testimonianza di una particolare avidità di conoscenza e di commercio intellettuale – numerosissimi sono i cenacoli che si impongono, non solo a Parigi, ma anche nelle province. A. ViALA, Naissance de l’écrivain. Sociologie de la littérature à l’âge classique, Paris, éd. de Minuit 1985, ne ha contati circa settanta. 12 Di questa Accademia riferisce ampiamente P. Le gALLois, Conversations, cit., pp. 49 ss., ove l’autore descrive particolarmente il procedimento seguito in queste riunioni: Bourdelot apriva le sedute proponendo ed esponendo un argomento, quindi animava i dibattiti, svolgendo anche la funzione di interprete per chi non poteva esprimersi in lingua francese. Tesi aristoteliche

176

ettome loJacono

cartesiano, scopritore dei vasi linfatici, alle cui cure si erano affidati, tra gli altri, la regina Cristina per le sue crisi attribuite a una natura malinconica, nonché lo stesso principe di Condé; frequentata da ogni sorta di personaggi, medici, chimici, fisici, matematici, religiosi13, era orientata, cosa ben comprensibile se si tiene conto della personalità del suo mentore, a promuovere discussioni relative più alla scienza che alla metafisica. Nel suo ambito appare con particolare chiarezza, almeno se ci atteniamo a quanto ce ne dice P. Le Gallois, una ‘nuova ragione’, che privilegia la ricerca, non più indirizzata verso una sola meta predeterminata, ma tesa a nuove soluzioni e consapevole, nonostante l’entusiasmo per i grandi esiti della scienza moderna, dell’immenso cammino che le scienze avrebbero ancora dovuto percorrere. Tre le vie attraverso le quali i membri di questa accademia pensavano di andare oltre la cultura dei ‘dotti’: le letture, la riflessione, la conversazione; soprattutto quest’ultima, poiché «la lettura – così dicevano – senza conversazione rende l’uomo selvaggio». Un universo certo ‘diverso’ rispetto a quello della Scuola, ma che si rinnovava anche nel ricordo dell’umanesimo, ché la comunicazione si voleva elegante e la disputa mai disgiunta da un fondamentale sentimento di tolleranza. Atteggiamenti scettici erano certo presenti, ma volti verso il sapere tradizionale: la tendenza infatti era assolutamente costruttiva, quella cioè di una nuova razionalità che non si riconosceva nel passato e che, pur dibattendosi tra mille incertezze, non si dispiegava certo per concludere a un’impotenza assoluta. L’Accademia Montmor Di particolare interesse per il nostro discorso l’accademia voluta nel 1657 dal mecenate cartesiano e gassendista Henri-Louis erano citate senza scandalo, anche se quelle cartesiane e gassendiste godevano di maggior ascolto, non vi si rifiutava poi né Paracelso, né Lullo, né Hobbes, ma venivano particolarmente elogiati gli autori più prossimi alla concezione cartesiana, come R. Fédé e C. Gadrois. Il tempo degli interventi non sembra fosse fissato ma, par certo, ciascuno aveva modo di esprimere liberamente il proprio pensiero, rispettando assolutamente le posizioni avverse e attendendosi uguale rispetto per quelle che stava sostenendo. 13 Tra i personaggi di maggior prestigio assidui frequentatori di questo cenacolo ricordiamo Marin Mersenne, Jacques Grandamy, Pierre Gassendi, François de La Mothe Le Vayer, Gilles Personne de Roberval, Henry Justel, Jean De Launay, Jaques Rohault, René Fédé e G. de Cordemoy.

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

177

Habert de Montmor14 e progettata da Samuel Sorbière. Montmor aveva certo dimestichezza con la filosofia di Descartes, ché tentò di tradurne in versi i Principia15, e cartesiano era considerato da P.-D. Huet, che così scriveva nei suoi Mémoires: Montmor ne laissait pas d’être en secret favorable à Descartes dont Gassendi était l’adversaire déclaré, et on croyait qu’il n’avait fondé chez lui cette réunion de philosophes que pour familiariser leur esprit avec la doctrine de Descartes et les amener peu à peu à la partager16.

Fu amico di L. La Forge, nonché di magistrati, quali C. Fleury e Lefèvre D’Ormesson (con quest’ultimo discusse della circolazione del sangue)17. Su questa Accademia si traggono preziose informazioni da S. Sorbière, che ne ha fissato le regole18, e da Christiaan Huygens, che nel Journal19 sul suo soggiorno a Parigi 14 Magistrato, dotto letterato, mecenate seguace sia di Gassendi – lo definiva «l’honneur de cette assemblée» (Cfr. Mémoires de P.-D. Huet, évêque d’Avranches, trad. par ch. nisArd, Paris, Hachette 1853, p. 107) – che di Descartes, cui aveva offerto la sua casa di campagna situata a Mesnil-Saint-Denis; questi però non l’accettò, allora Montmor la concesse a Gassendi, che vi finì i suoi giorni. Nutrì grande amicizia anche per Fleury e per Louys La Forge, che gli ha dedicato il suo Traité de l’esprit de l’homme. Particolarmente illuminante su questa Accademia la lettera di S. Sorbière a Hobbes del 1° febbraio 1658, in Lettres et Discours de M. de Sorbière, Paris, chez F. Clousier 1660, pp. 631632. Su Montmor cfr. anche r. pinTArd, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVII siècle (Ière éd.1643), London-Génève, Reprint Slatkine 1983, pp. 94, 404 e 425. 15 Cfr. A. BAiLLeT, Vie de Descartes, Paris, Horthemels 1691, 2 voll. (NewYork, ed. anastatica Hildesheim 1972, II, p. 266). Montmor si riprometteva di dare al poema il titolo di De Rerum Natura, ma si sentì ben presto impari al compito. 16 P.-D. hueT, Mémoires, cit., lib. III, p. 107. 17 Cfr. Journal de O. Lefèvre d’Ormesson, éd. par A. Chéruel, 2 voll., Paris, Imprimerie Impériale 1860-1866: II, p. 532. 18 Cfr. in proposito la lettera di Sorbière a Hobbes del 1° febbraio 1658, cit. 19 Notizie preziose sull’accademia, nonché sulla cultura parigina della seconda metà del secolo, si traggono anche dal Journal di Ch. Huygens, che fu appunto curioso viaggiatore a Parigi in quegli anni (cfr. Le séjour de Ch. Huygens et ses relations avec les milieux scientifiques français, suivi du Journal de Christiaan Huygens à Londres et à Paris, par henri L. BrugmAns, Paris, P. André 1935). Cfr. anche Huygens (Christiaan) et la France, table ronde du Centre National de la Recherche Scientifique, éd. par R. Taton, Paris, Vrin 1982). Ci riferiamo al viaggio che Ch. Huygens fece a Parigi nel 1660. Giunto nella capitale francese, prese infatti immediatamente contatto con J. Chapelain, che lo introdusse all’Accademia di Montmor, ove ritornerà varie volte, assistendo a diverse riunioni di cui ci ha lasciato importanti resoconti: Journal, cit., 9, 16,

178

ettome loJacono

del 1660 ne tratta a più riprese. Lo scienziato neerlandese sottolinea che a quelle riunioni, in un clima di assoluta tolleranza, partecipavano soprattutto oppositori della filosofia tradizionale, ma anche autori notoriamente peripatetici e, talvolta, personaggi ben lungi dall’ortodossia, quali ad esempio Coenraad van Beuningen, ambasciatore delle Province Unite a Parigi, amico di Spinoza, nonché adepto dei sociniani. Infine dalle sue testimonianze appare evidente un vivo interesse per le scienze e, soprattutto, per gli esperimenti, quali ad esempio quelli relativi al peso dell’aria eseguiti da J. Rohault. Dagli articoli del regolamento che S. Sorbière comunicò a Hobbes nel febbraio del 1658 si nota che, anche sulla scia di determinati dibattiti che si erano tenuti al Bureau d’adresse e della VI parte del Discours cartesiano, questa istituzione montmoreana mirava a favorire, contro il vano esercizio dell’ingegno, una scienza tesa soprattutto ad apportare giovamento alla vita dell’uomo e ispirata alla liberalità, alla tolleranza delle idee, al piacere della conoscenza, e che era sospinta da una grande esigenza di comunicazione del sapere. Così infatti recitava l’articolo VII del regolamento che ci ha conservato Sorbière: Que l’Assemblée priera ceux qui en ont occasion, d’entretenir correspondance avec les sçavans de France et des pays estrangers; afin d’apprendre d’eux ce qui se prepare, ou ce qui est desia publié, ou decouvert dans les Arts et les sciences: de quoy l’Assemblée sera informée en se separant20.

Vi erano ammessi uomini di cultura interessati alla filosofia naturale, alla medicina, alla matematica, alle arti liberali e mec23 novembre; 7, 14, 21, 28 dicembre; 2, 4, 11, 18 gennaio; 15 febbraio e 8 marzo. Sull’accademia Montmor cfr. comunque g. BigourdAn, Les premières sociétés scientifiques de Paris au XVII siècle. Les Conférences du Bureau d’Adresse, Académie des sciences (séance du mardi 26 décembre 1916), in Comptes rendus […] des Séances de l’Académie des sciences, t. 163, Paris, Gauthier-Villars 1916, pp. 937-943; Les réunions du Père Mersenne et l’Académie de Montmor, Académie des sciences (séance du lundi 15 janvier 1917); L’Académie Montmor (séance du 22 janvier 1917); Les Académies de Montmor, de Sourdis etc. (sèance du 29 janvier 1917), t. 164, stesso editore 1917, pp. 129-133; 159-162; 216-220. 20 Cfr. la lettera di S. Sorbière a Hobbes de1 febbraio 1658, cit. Essa è riprodotta anche in BigourdAn, Les premières sociétés, cit. (séance du 15 janvier 1917, p. 132). Cfr. anche s. sorBière, Discours prononcé le 3 avril 1663, in Bigourdan, cit. (séance du 22 janvier 1917, p. 161): «On ne vient pas ceans pour enseigner, mais pour apprendre».

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

179

caniche: hommes de robe (magistrati), cordons bleus21, duchi, pari e grandi prelati. Dalla corrispondenza di S. Sorbière si può desumere che abbiano partecipato alle sedute, i cui moderatori erano lo stesso Montmor, J. Pecquet22, A. Du Prat (medico del re, che aveva collaborato con S. Sorbière al progetto dell’istituzione), J. Rohault, J. Chapelain, Gilles de Roberval, nonché le Père E. Maignan che, in occasione di un suo viaggio a Parigi nell’anno stesso della fondazione dell’Accademia, vi fu accolto con il più grande favore. L’avventura di questa istituzione si esaurì solo nel 1663, potremmo dire per l’eccessiva ambizione dei partecipanti che, come scrive S. Sorbière, «non scire cupiunt ut sciant, sed ut sciantur»23, contraddicendo così l’ispirazione primigenia che sopra abbiamo ricordato. G. de Cordemoy ne fu assiduo e attivo frequentatore24 e qui pronunciò il Discours de l’action des corps, che costituirà il 2° Discours del Discernement du Corps et de l’Âme. Ne è testimone J.-B. Du Hamel, che scrive: Exemplo utar, quod non ita pridem acerrimo vir ingenio [a margine della pagina: D. de Cordemois (sic)] ut eloquenti�, sic philosophi� laude excellens, coram illustri doctissimorum virorum cœtu adhibuit25.

21 Si dicevano Cordons bleus gli appartenenti all’ordine dei Cavalieri dello Spirito Santo. 22 Cit. da Cordemoy in Le Discernement du corps et de l’âme, II Discours, in g. de cordemoy, Oeuvres philosophiques, éd. critique par P. Clair et F. Girbal, Paris, Presses Universitaires de France 1968, p. 118. 23 «Tengono più a farsi conoscere che a conoscere». Sorbière lamenta che molti tenevano troppo a lungo la parola: a prova di ciò rammenta il disgusto di seri studiosi, quali l’hobbesiano A. Du Prat e il baconiano Ch. Du Bosc, che rifiutarono sdegnosamente di intervenire. Cfr. Discours prononcé, cit., in Bigourdan, cit., p. 161. 24 P.-D. hueT, Mémoires, cit., liv. V, p. 185, ricorda Cordemoy come frequentatore assiduo di questi “conciliaboli cartesiani”: «C’était un habitué des conciliabules des cartésiens, et il s’était cru assez pénétré de leurs principes pour pouvoir les enseigner lui-même. Il avait donc entrepris d’exposer quelques-uns des points principaux de cette doctrine, et il s’en était acquitté comme s’il eût été de son office de la défendre et de la propager en publiant des opuscules infectés de ce mauvais levain». 25 Cfr. ioAnnes BApTisTA du hAmeL, De consensu veteris et novae Philosophiae libri duo, Parisiis, apud Carolum Savreux 1663, lib. I, cap. ultimum, p. 144.

180

ettome loJacono

L’Accademia sorta per iniziativa diretta di un magistrato Infine ricordiamo le assemblee promosse dal primo presidente del Parlamento di Parigi, Guillaume de Lamoignon, personaggio di primissimo piano nel regno di Louis XIV, pur caduto in relativa disgrazia allorché si rifiutò di seguire le istruzioni del sovrano e del Colbert nel caso del processo Fouquet26, che riunì intorno a sé – prima nella sua casa, verso il ’6027, poi, dal 1667, in un’Accademia formalmente istituita28 – chi era stato o era ancora attivo nei cenacoli che abbiamo ricordato, come ad esempio Antoine Vyon d’Hérouval, grande erudito, o Habert de Montmor, protagonista – lo abbiamo visto – della vita culturale di quei decenni, nonché un gran numero di amici e familiari, soprattutto magistrati particolarmente autorevoli, preminentemente letterati, ma pure interessati ad ogni forma di sapere. Tra gli altri, le Père Pierre Lalemant (1662-1673), cronista dei primi incontri29; Cfr. n. seguente. Presumibilmente nel 1660, poiché è in una lettera del 20 maggio 1659 che Guillaume de Lamoignon (1617-1677) fa parte a Guy Patin del suo progetto di dar vita a un’accademia (Lettres de Guy Patin […], éd. J.-H. ReveilléParise, Paris, Baillière 1846, 3 voll., III, p. 136). J. Le Brun (Le Père Lalemant et les débuts de l’Académie Lamoignon, «Revue d’Histoire Littéraire de la France», 616, 1961, pp. 153-176), sulla base della Vie écrite par le Père Brothier (BNF., ms. fr. 23985), presenta il Lamoignon come magistrato onesto e scrupoloso nell’applicazione della giustizia, alieno dall’accettare compromessi con il potere (per questo fu sostituito dal Presidente della Camera di Giustizia con il più docile Pierre Seguier al momento del processo Fouquet) e aperto a riforme nell’ambito dell’amministrazione della giustizia. Appartenne al gruppo dei Dévots, fu certo un moralista e nell’economia di queste convinzioni si situa l’interdizione delle rappresentazioni del Tartufo nell’agosto 1667, anche se occorre ricordare che Luigi XIV, su pressione di vari ambienti, ne aveva proibito le rappresentazioni nel 1664 e che il Lamoignon, in assenza del sovrano, occupato in campagna militare, non avrebbe potuto accedere alla richiesta di Molière di rappresentarlo: il suo rifiuto peraltro fu annunciato con una lettera affatto cortese e civile, che riconosceva i meriti del commediografo. Cfr. R. ALLier, La Cabale des dévots, Paris, Colin 1902, p. 406, nonché La querelle des anciens et des modernes, éd. établie par A. M. Lecoq, précédée d’un essai de M. Fumaroli, postface J.-R. Armogathe, Paris, Gallimard (“folio”) 2001, p. 152. 28 Su questa istituzione cfr. J. Le Brun, Le Père Lalemant, cit. 29 Su Pierre Lalemant cfr. lo stesso J. Le Brun, Le Père Lalemant, cit., che ci informa sulla ricchissima personalità di questo genoveffano, che ha lasciato un Journal (Bibl. Sainte-Geneviève, ms. 1891), ove (f. 12r-13) si trovano precise informazioni sull’Accademia Lamoignon. Fonti altrettanto preziose sull’attività e l’ispirazione di questa Accademia si traggono anche dal Journal, cit., di 26

27

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

181

Guy Patin, tra i primi informati dell’iniziativa; Olivier Lefèvre d’Ormesson30, il cui Journal 31 costituisce una preziosa fonte per la conoscenza sia dell’attività dell’istituzione che dell’ambiente in cui operavano questi magistrati colti e assai presi dalla politica; Paul Pellisson – amico di Fouquet – che, forse ispirato dalla celebre pagina di Montaigne32, tenne una relazione sulla vita del O. Lefèvre d’Ormesson, nonché dalle Lettres cit. di Guy Patin. Ci limitiamo qui a ricordare che il Père Lalemant (1622-1673) è stato professore di retorica al Collegio del Card. Le Moine, quindi Rettore dell’Università di Parigi, carica che abbandonò nel 1655 per ritirarsi a Saint Vincent ed entrare nell’ordine dei genoveffani a Sainte-Geneviève a Parigi. Egli fu in dimestichezza con Olivier d’Ormesson e con la maggior parte dei membri dell’Accademia, che saranno vicini anche a Cordemoy. Fu certo cartesiano, ché nel 1667 era stato prescelto per pronunciare l’orazione funebre di fronte alle spoglie di Descartes giunte dalla Svezia, ma, com’è ben noto, la cerimonia non ebbe luogo per un ordine della Corte fatto conoscere all’ultimo momento (c. du moLineT, Histoires des Chanoines réguliers de la Congrégation de France, t. V, Bibl. St-Geneviève, ms. 606, f. 280 ss.). 30 Olivier Lefèvre d’Ormesson (1616-1686), erede di una ben nota famiglia di magistrati, ottenne nel 1661 la nomina di giudice e in tale qualità si trovò innanzi all’immensa responsabilità di giudicare il ministro Nicolas Fouquet. A differenza di quel che si attendevano il Colbert e il Sovrano, non si prestò ad essere un docile strumento di potere, ma condusse un’inchiesta corretta e rigorosa, che lo portò sì a riconoscere la colpevolezza del ministro, non però sino al punto di chiederne la condanna capitale (fu infatti condannato alla confisca dei beni e all’esilio, pene poi convertite dal sovrano in prigionia a vita): cfr. in proposito g. mongrédien, L’affaire Fouquet, préface par F. Pottecher, Genève, Cercle du bibliophile 1973. Tra Lamoignon e D’Ormesson regnava grande accordo sulla giustizia e la libertà dei parlamentari: ne è prova il comune atteggiamento che hanno tenuto di fronte al processo in questione. Egli sembrava condividere il cartesianesimo degli altri frequentatori del Salon, come mostrano la sua partecipazione alle onoranze funebri al momento dell’arrivo da Stoccolma delle spoglie di Descartes (cfr. A. BAiLLeT, Vie, cit., II, pp. 439-442), la sua partecipazione alle riunioni che si tenevano presso J. Rohault (Journal, II, p. 146), nonché la sua amicizia con Louys Le Laboureur (II, 318, 324, 345, 558, 616), stimato il primo poeta cartesiano: infatti nel suo poema Charlemagne (Louys Le LABoureur, Charlemagne, poème héroïque, Paris, Le Billaine 1664) esaltava Descartes, sostenendo nella prefazione che avrebbe parlato di una filosofia esposta da un angelo, anche se non approvata da Roma: «Mais ne s’offensera-t-on point aussi que j’ai affecté d’établir les principes d’une nouvelle philosophie, et qu’entre autres choses j’ai fait enseigner par un ange un système qui n’a pas l’approbation de Rome». Cfr. anche A. BAiLLeT, Vie, cit., II, 266. 31 Journal d’Olivier Lefèvre D’Ormesson, cit. 32 Ci riferiamo al celebre luogo degli Essais (lib. II, cap. XII, ed. cit., vol. III, pp. 382-383), in cui Montaigne compiange la sorte del Tasso divenuto

182

ettome loJacono

Tasso, stimato il maggior poeta del suo secolo; Jacques Pousset de Montauban, celebre avvocato al parlamento di Parigi; Claude Fleury33, ingegno precoce, destinato a una carriera di vastissimo respiro, soprattutto nell’ambito degli studi di storia ecclesiastica, e grande estimatore di Fouquet34; Michel Le Peletier de Soucy35, appartenente a una nobile e ricca casata, avvocato del re folle, che pur era stato uno dei maggiori ingegni e più consoni all’antica e pura poesia che da tempo si fosse data tra i poeti italiani: «[l’un des] plus judicieux, ingenieux et plus formés à l’air de cette antique, et pure poesie, qu’autre poëte Italien». 33 Claude Fleury nacque a Parigi nel 1640. Il padre, avvocato al Consiglio, lo destinò alla carriera forense. Claude seguì tra il 1650 e il 1656, insieme a Le Peletier, i corsi del Collegio di Clermont, tenuto dai Gesuiti, ove fu allievo di Gabriel Cossart. Accolto come avvocato al Parlamento nel 1658, esercitò la professione per circa nove anni. Alla morte del padre (1667) si trasferì nella casa dei D’Ormesson, dove si dedicò nella più assoluta calma e serenità a nuovi studi di Teologia, di Sacra Scrittura e di Storia ecclesiastica. Nel 1665 visse una profonda crisi, ché sentiva di non nutrire alcuna vocazione per la professione che stava esercitando: si volse dunque alla vita religiosa, che abbracciò l’8 giugno del 1669. Nel 1672 divenne precettore dei principi di Conti, educati insieme al Delfino di Francia. Alla morte di Jean de La Bruyère ne occupò la poltrona all’Accademia di Francia. Scrittore fecondissimo, autorevole, di vastissima cultura anche letteraria; ricordiamo due sole opere: il Traité du choix et de la méthode des études (1686) e l’Histoire ecclésiastique (20 voll. in 4°, 1699). Fu amico di M. de Gaumont, uno dei maggiori giuristi di Francia, morto nel 1665: nel 1707 scrisse una lettera al nipote di Gaumont, in cui rievocava gli anni dell’amicizia con il grande giurista, lettera che si legge negli Opuscules (cL. fLeury, Nouveaux Opuscules, à Paris, chez la veuve Nyons 1807). 34 Ecco infatti quanto scrive sul ministro: «Fouquet, per quanto sia preso da impegni senza numero e viva più per la Francia che per sé, non ha mai cessato un sol momento di coltivare il dolce commercio delle muse e le arti della tranquilla Pallade» (Bibliotheca Claromontana, in c. fLeury, Nouveaux Opuscules, cit., p. 315). 35 micheL Le peLeTier de souzy, 1640-1725, giovanissimo come Fleury, di famiglia appartenente à la haute robe. La sua sarà una fortunatissima carriera amministrativa: a 21 anni Avocat du Roi au Châtelet, nel 1665 Conseiller au Parlement; nel 1668 Luigi XIV, contro il parere di Colbert, lo invia come intendente nelle Fiandre francesi, dove rimarrà per quindici anni. Nel 1683 sarà Consigliere di Stato e nel 1684 intendente delle finanze. Morto Louvois nel 1691, otterrà l’importante carica di direttore generale delle fortificazioni: vivrà a corte e lavorerà spesso con il sovrano. Alla morte di Luigi XIV (1715) entrerà nel Consiglio di reggenza, dove rimarrà sino alla morte: cfr. Histoire et Mémoires de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, Amsterdam, Langnion 1733-1739, 16 voll.: VII, pp. 369-375; A. croQuez, L’Intendance de la Flandre Wallonne sous Louis XIV, Lille, Impr. de H. Morel 1912; A. BLAnchArd, Les Ingénieurs du Roi de Louis XIV à Louis XVI, Montpellier, A. Blanchard 1979.

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

183

al Châtelet; René de Marillac36, avvocato generale del Gran Consiglio (sono gli stessi magistrati che incontreremo fra poco come protagonisti autentici del dialogo oggetto del nostro studio). La singolarità di questa Accademia stava nell’interesse anche, se non soprattutto, etico-politico della maggior parte dei suoi affiliati, favorevoli a una monarchia autoritaria, ma illuminata, aperta a una migliore organizzazione della società e tesa più alla pace che alla guerra37, come appunto pensavano tutti i ribelli, non solo nel pensiero, alle ingerenze che Colbert avrebbe voluto esercitare sulla magistratura. La scienza, predominante nelle altre istituzioni38, si apre dunque qui anche ad altri orizzonti, premiRené de Marillac (1639-1719), discendente di un’illustre famiglia di magistrati, nipote del Garde de sceaux del governo Richelieu, nipote acquisito di Lamoignon, nel ’61 è già Conseiller au Parlement, nel ’63 al Grand Conseil, quindi, nel ’71, Maître des Requêtes. Nel 1676 Luigi XIV lo nomina intendente nel Poitou ed è sotto la sua intendenza che, su ispirazione, se non per ordine, di M. Le Tellier, marchese di Louvois, hanno luogo le prime dragonades: si facevano alloggiare les dragons presso famiglie di riformati, permettendo ai militari di compiere ogni genere di soprusi fino agli stupri e invitandoli a costringere gli abitanti a convertirsi (ciò prima ancora della revoca dell’editto di Nantes nel 1685). 37 Scrive A. AdAm nell’Histoire de la littérature française du XVII siècle, Paris, Albin Michel 1977, 3 voll.: II, p. 428: «Au nom de la Raison encore, d’excellents esprits attendent d’une monarchie autoritaire, mais éclairée, les démarches nécessaires pour une meilleure organisation de la société. Les idées sont en honneur dans l’entourage du Premier Président de Lamoignon. Elles se retrouvent dans les écrits de deux de ses familiers, dans les Pensées politiques de Fleury, dans l’étonnant traité de Cordemoy, De la Réformation d’un pacifisti sti e accoglieEtat». Gli adepti di questo cenacolo erano in gran parte pacifi vano con gran favore N. Boileau, che proprio in quegli anni scriveva la Satira sull’Uomo, in cui Alessandro è considerato écervelé: «Quoi donc? A votre avis fut-ce un fou qu’Alexandre? Qui? cet écervelé qui mit l’Asie en cendre?»: Satire VIII (L’Homme), in n. BoiLeAu, Oeuvres complètes, intr. A. Adam, textes et notes de F. Escal, Paris, Gallimard 1966. 38 Come abbiamo ricordato, preminentemente scientifiche e interessate – il che non significa sempre unanimemente favorevoli – al pensiero cartesiano erano le Accademie di Mersenne e di Montmor. In quest’ultima Cordemoy lesse appunto il testo che costituisce il suo II Discours e C. Clerselier una memoria contro Roberval (1658), che fece credere scritta da Descartes: cfr. Lettres de M. Descartes […], 3 voll., à Paris chez Ch. Angot 1666-1667, vol. III, Lettre Préface de M. Clerselier, riprodotta anche in AT, V, pp. 765-778. Il passo estremamente interessante sulla falsa lettera immaginata da C. Clerselier si legge a p. 778, la lettera è la XCVII del III vol., cit., pp. 538-551. Cfr. anche A. BAiLLeT, Vie, cit., II, pp. 346-347. P. Lemaire (Dom Robert Desgabets […], Paris, Alcan 1902, p. 45) ricorda come Dom Robert abbia assistito 36

184

ettome loJacono

nentemente civili; ed è questo l’universo che ha condiviso e fatto suo G. de Cordemoy39, che in alcuni scritti – i più noti e riconosciuti – fa infatti filtrare, pur riservandosi la più ampia libertà, le sue argomentazioni attraverso i dati della scienza cartesiana, mentre in altri, nell’economia di un più ampio interesse speculativo, che include l’’altro’, si apre a diversi orizzonti che mirano alla Réformation de l’État 40: si concede così un sogno politico di pace e partecipato presso Montmor a una discussione sui mezzi per deviare almeno in parte le acque della Senna con vari ingegneri, sollecitati dai danni che poco tempo prima aveva provocato alla città lo straripamento del fiume. 39 Gérauld de Cordemoy, 1626-1684 (il maggiore di tutti; a differenza di quel che dicono Fleury e Le Peletier, non 10 o 11 anni più anziano di loro, ma ben 14 o 15). Figlio di un discendente di una nobile famiglia dell’Auvergne, battezzato a Parigi il 6 ottobre 1626, segue studi di diritto: entra quindi in magistratura ed esercita con successo l’avvocatura al Parlamento di Parigi, ma senza mostrare particolare predilezione per tale professione. Sappiamo delle sue amicizie come della sua partecipazione alle discussioni di tutte le accademie ricordate nel testo, ma fu pure assiduo frequentatore del salon di Mme de Bonniveaux, celebre ‘femme savante’, anch’essa seguace delle posizioni cartesiane. Nel 1666 pubblica il Discernement du Corps et de l’Ame en six discours pour servir à l’éclaircissement de la physique. Nel 1668 appare il Discours physique de la parole e nello stesso anno viene pubblicata anonima la Copie d’une lettre écrite à un Savant religieux de la Compagnie de Jésus (le père Gabriel Cossart, 1615-1674) e redige i due brevissimi Traités de métaphysique, che vedranno la luce nel 1691, nonché il frammento De la Réformation d’un fine ne del 1668 conoEtat, che apparirà nell’ed. delle Oeuvres (1704). Verso la fi sce Bossuet, che aveva assai apprezzato il Discours e l’ispirazione cartesiana che lo animava. L’amicizia con Bossuet, incaricato come precettore principale dell’educazione del Delfino, muta l’esistenza di Cordemoy: nel 1673 infatti è nominato ‘lecteur ordinaire’ del futuro re e presta il suo insegnamento accanto a Pierre-Daniel Huet e a grandi studiosi, quali lo storico di diritto canonico Jean Doujat, l’orientalista Eusèbe Renaudot e lo scienziato danese Ole Roëmer. Da questo momento non si occuperà più di filosofia, ma delle ricerche attinenti al suo nuovo compito, che non riguarda solo le lezioni al Delfino, ma soprattutto la redazione di un manuale della storia di Francia dalle sue lontanissime origini a Luigi XIV. L’opera sarà assai vasta: due volumi in folio, rispettivamente di 657 e di 643 pagine: s’inizia dai Galli e narra, con preciso utilizzo delle fonti, le vicende delle varie monarchie, da Faramond (420) a Childerico III, a Pipino (752), a Carlomagno, da Louis le Débonnaire (814) a Louis le Fainéant (987): il figlio non ne è stato soltanto il curatore, ma ha pure scritto direttamente la storia degli ultimi tre sovrani. Grazie ai buoni uffici del Bossuet, che dovette usare autorità e diplomazia, la sua candidatura alla Académie française fu accolta e il 12 dicembre 1675 fu eletto tra gl’immortali. Nel 1684 si ammala gravemente e muore il 15 ottobre dello stesso anno. 40 Pensiamo allo scritto De la Réformation d’un Etat, pubblicato postumo nel 1704: Les Oeuvres de Feu M. De Cordemoy […], à Paris, chez Ch. Remy.

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

185

e di educazione, fondato come sempre sulla ragione e platonicamente aperto all’utopia. Quando poi ‘per dovere’ diviene storico41, non si tiene strettamente al compito che il Bossuet gli aveva assegnato, non tratta immediatamente del nuovo re, ma per estremo scrupolo di ricercatore, sempre al fine razionale di separare la leggenda dalla realtà e la ragione dal mito, riprende il racconto dalle origini, come pure, in una serie di incompiuti opuscoli, avverte l’esigenza di precisare il metodo che lo aveva sorretto in questo suo nuovo e diverso lavoro. La maggior parte dei partecipanti alle discussioni di questo cenacolo erano dei Dévots, cioè affiliati alla Compagnie du Saint Sacrement, i cui membri professavano di certo una fede religiosa assai intransigente, ma erano anche seriamente impegnati nell’ambito politico e sociale, ciò che illumina ulteriormente sulla cultura entro la quale questi magistrati si sono formati42. Ci se ne rende conto solo se si consulta lo scritto nell’ed. 1704, perché Clair e Girbal, nella loro ed. critica, cit., hanno tagliato tutta la prima parte, lasciando solo le raccomandazioni relative all’educazione, del tutto insufficienti a far comprendere l’autentica ispirazione politica del suo autore. Questi nel prologo si dichiara assolutamente pacifista e favorevole ad uno stato che non favorisca les particuliers, ma pensi al bene generale: gli ambasciatori che incontra in sogno, e che gli parlano appunto del loro ‘stato riformato’, sono detti: ‘hommes raisonnables’. 41 P. Bayle ricorda due volte Cordemoy nelle «Nouvelles de la République des Lettres»: in n un primo caso lo defi definisce nisce abile cartesiano «che con atteggiamento assai straordinario ha abbandonato il personaggio del filosofo per assumere quello dello storico» e, poco dopo, gli riserva questo notevole elogio: «Quand nos Libraires sauront que M. de Cordemoi éclaircit beaucoup de faits, qui étoient demeurez confus jusqu’à présent; qu’il en découvre quelques-uns que l’on ignoroit encore, & qu’il en réfute d’autres que l’on tenoit pour certains, ils auront, je m’assure, autant de soin de se fournir de son Histoire, que de la grande de M. de Mezerai (François de Mézeray)»: p. BAyLe, Œuvres diverses, avec une introduction de E. Labrousse, Hildesheim-New-York, G. Olms 1970, 5 voll. (ed. anastatica dell’ed. 1727), art. VII, I, p. 398. 42 La Compagnie fu fondata nel 1627 dal duca Henri Levis de Ventadour e si diffuse in tutta la Francia: ad essa hanno aderito alti prelati, nobili, ma anche borghesi e gens de roture (roturiers). Tra i suoi fini politici ricordiamo l’impegno a riformare la giustizia (cfr. per l’affaire Fouquet supra, n. 30), l’amministrazione e la stessa vita della Corte; tra gli impegni sociali la cura dedicata ad attenuare le sofferenze dei condannati alle galere – condamnés à pourrir vivants –, come attestano Les Annales de la Compagnie di rené Voyer d’Argenson (ms. 14489, F. fr. de la BNF), dei carcerati, delle prostitute, dei mendicanti, che occupavano quartieri ove neppure i gendarmi osavano entrare, dei biscazzieri (brélans), nonché il disordine e l’anarchia delle parrocchie,

186

ettome loJacono

Le spoglie di Descartes: i cartesiani si riconoscono e si denunciano Nel gennaio del 1667, dopo un viaggio lungo e difficile43, giungono a Parigi le spoglie del filosofo e sono depositate nella chiesa di Saint-Paul, in attesa che Pierre d’Alibert organizzi la cerimonia funebre. Fu preparata con molta cura, ché vi furono dedicati oltre cinque mesi: ebbe luogo il 25 giugno presso la chiesa di Sainte Geneviève du Mont, dove fu inumato44. Presenti molti personaggi di gran prestigio, quali C. Clerselier, H. de Montmor, O. Lefèvre d’Ormesson, M. de Guedreville, M. d’Amboise, C. Fleury, P. Petit, L. Le Laboureur, A. Auzout, R. Fedé, J. Rohault, che accolsero con dignità, ma anche con profonda delusione, la sospensione dell’orazione funebre che, in gran parte preparata da C. Clerselier, avrebbe dovuto pronunciare le Père Lalemant, chancelier de l’Université: i cartesiani tuttavia continuarono la cerimonia e non temettero di mostrare la loro prossimità alle idee dell’illustre filosofo che, nonostante le reticenze di certi ambienti della corte e della Chiesa, non esitavano a presentare come una delle maggiori glorie della Francia. Il primo dialogo dei cartesiani45 Non v’è dubbio dunque sull’incidenza del cartesianesimo nella formazione dei magistrati – Fleury, De Marillac, Le Peletier, Cormirando soprattutto a liberarle dalla superstizione e dalla mercanteria che vi imperavano. La Compagnie è ricordata per la censura del Tartufo di Molière, le cui vicende sono però spesso ricostruite erroneamente (cfr. supra, n. 27). 43 Il corpo di Descartes era stato imbarcato a Stoccolma nel giugno 1666; la difficoltà del viaggio dipese dalla superstizione degli uomini di mare e di terra che dovevano occuparsi del trasporto, nonché da diverse esigenze burocratiche: cfr. A. BAiLLeT, Vie, cit., II, pp. 439-442. 44 Oggi, come noto, riposa in una cappella della chiesa di Saint-Germaindes-Prés. 45 Rimasto inedito sino al 1925, ha visto la luce come Dialogue sur l’éloquence judiciaire, riprodotto in una tesi su Fleury di François Gaquère, poi pubblicato con lo stesso titolo in La vie et les œuvres de Claude Fleury, Paris, J. de Gigord 1925. Ora si può leggere in cLAude fLeury, Écrits de Jeunesse, tradition humaniste et liberté de l’esprit, éd. critique établie et présentée par Noemi Hepp et Volker Kapp, Paris, Champion 2003 (pp. 8-150). L’edizione è condotta sul ms. della BNF, F. fr. 952. Citeremo direttamente nel testo le pagine cui ci riferiamo. Il dialogo circolò però manoscritto pochi anni dopo: se ne trova testimonianza in gABrieL guéreT, Entretiens sur l’éloquence de la Chaire et du barreau, Paris, Guignard 1666, cit. da N. Hepp in Écrits, cit., p. 22, n. 2.

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

187

demoy – protagonisti del dialogo che stiamo per considerare e, per tanti aspetti, della vita culturale del loro tempo: grazie alle loro riflessioni e ai loro dibattiti, diviene evidente che dottrine cartesiane hanno ispirato l’esercizio dell’eloquenza forense, così apparentemente lontana dai temi privilegiati dal filosofo di La Flèche. Non personaggi immaginari, ma reali, che dibattono assai spontaneamente e liberamente in un dialogo effettivamente tenutosi nella prima settimana del 1663, poi trascritto e ordinato dallo stesso Fleury, secondo una concezione teorica del genere, precisata all’interno stesso del testo: Le dialogue doit imiter parfaitement la conversation et par conséquent être plein de digressions et faire un long circuit avant que de conduire le lecteur à la question qui s’y traite principalement (p. 82, 35v) […] il ne faut pas qu’on y voie aucune affectation de dogmatiser […] il faut encore que tout le dialogue soit assaisonné d’une certaine urbanité (p. 83, 36v) […] je ne prendrai point de mémoires. Je ne veux point tromper la postérité; si je fais un dialogue, je n’y mettrai rien du vôtre que ce que vous aurez dit effectivement (p. 142, 104v).

Il titolo autentico, S’il faut citer dans les Plaidoyers, non è certo incoraggiante: F. Gaquère infatti, proponendolo come Dialogue sur l’éloquence judiciaire, ha inteso renderlo più consono alla ‘modernità’; poi, sulla stessa linea, N. Hepp, inserendolo tra gli Écrits de Jeunesse di Fleury – cui aveva aggiunto come sottotitolo tradition humaniste et liberté de l’esprit – lo ha posto, se pur indirettamente, entro un orizzonte storico-teorico più ampio di quel che il titolo originale porterebbe oggi a pensare. Aprire un dibattito sull’opportunità o meno di ricorrere a numerose citazioni nei Plaidoyers non era bizzarria estemporanea di quei magistrati, ma tentativo di rispondere a un problema intensamente avvertito sia dagli avvocati, che dovevano perorare cause e miravano a vincerle, sia dai cittadini, che speravano di veder opportunamente difesi i loro diritti: in questo dibattito si coniugavano pertanto esigenze teoriche e l’expérience ordinaire de la vie, per utilizzare un’espressione di Cordemoy (p. 58, 16v). Non a caso ne avevano trattato ampiamente e specificamente giuristi-filologi come Antoine Loisel46 (atteggiamento di misurata 46 AnToine LoiseL, Pasquier ou dialogue des avocats du Parlement de Paris […], Paris, Videcoq père et fils 1844, p. 123 (Il dialogo, composto alla fine del XVI sec., fu pubblicato nel 1652). Tesi analoga sosterrà nel dialogo De Marillac (p. 42, 3r).

188

ettome loJacono

approvazione delle citazioni, che conferirebbero forza alla ragione) e Adrien Turnèbe nel suo commento a Quintiliano47 (non rifiuta le citazioni che, a suo avviso, ispirano l’invenzione), mentre Alexandre de Filère, autentica fonte per questo dialogo, lamenta «cette vicieuse coutume de discourir à morceaux de grec et de latin»48. Questa è l’occasione prima del dialogo, questo il primo interesse dei suoi protagonisti che non dev’essere mascherato: questi eminenti giuristi infatti, per dibattere delle citazioni si sono fondati sulla cultura filologica e filosofica, sì che seguendo l’alternarsi delle loro argomentazioni si coglie il vasto retroterra intellettuale da cui necessariamente muovevano per pervenire a un atteggiamento ove quietarsi ‘nella ragione’. Che il problema fosse serio e investisse l’intero retroterra culturale emerge dalle osservazioni iniziali di de Marillac che, proprio in quanto oppositore, si fa eco delle accuse che circolavano contro questi orientamenti intellettuali risalenti a Descartes, accuse che, pur inserite in un copione necessariamente predeterminato, non appaiono di poco conto: rinviano infatti alla sedizione, al complotto e persino ad atteggiamenti raffrontabili a forme di eresia49. Gli altri personaggi del dialogo, a differenza di altri protagonisti della ‘modernità’, tengono a distinguere il loro universo intellettuale – e ci pare fatto rilevante – non tanto dalla tradizione scolastica quanto dalla cultura umanistica e rinascimentale: è questa infatti che de Marillac difende e che Cordemoy, Le Peletier e, in una certa misura, anche Fleury intendono abbandonare. De Marillac, infatti, appare nelle vesti di compiuto umanista: sta nel suo cabinet, circondato da libri (sul suo tavolo si trovano ‘per caso’ le otto orazioni di Cicerone nella traduzione dei Signori dell’Accademia) e, sul piano teorico, si affida all’esempio degli Antichi come regola per ogni scelta intellettuale (p. 59, 17v), individua nella lingua latina – ‘barbara’ quella medievale, più prossima a Cicerone quella del suo tempo – il discrimine tra medio evo e età moderna (p. 73, 28 r-v), e dimostra un’ampia conoscenza della letteratura greco-latina, ove scova, contro quanto sosteneva 47 A. TurnèBe, Fabii Quintiliani de Institutione oratoria […] commentarii […], nunc primum editi, Parisiis, apud Richardum 1554. 48 ALeXAndre de fiLère, Discours contre les citations du grec et latin ès plaidoyers de ce temps, Paris, François Huby 1610, p. 25. 49 «Serait-il possible que ces messieurs eussent quelque dessin qui tendît à sédition (p. 41, 2v[…])? Vous êtes venus ici de complot pour m’inspirer votre hérésie (p. 45, 5v)».

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

189

Fleury, non pochi autori che non avevano certo evitato le citazioni (p. 59, 17v-18r). L’oggetto della discussione è posto dal giovanissimo Le Peletier: «la mauvaise coutume que l’on a de farcir les plaidoyers de citations sous prétexte de les embellir» (p. 41, 3r). Egli propone le prime ragioni che lo inducevano, insieme ai suoi amici, a rifiutare questa consuetudine cara agli adepti della tradizione. Appesantire le arringhe con una nutrita serie di citazioni tratte da autori greci e latini appariva loro segno di una falsa concezione dell’eloquenza, come se questa fosse tanto più ammirabile quanto più appariva erudita: chi cedeva a questo vezzo – e nel Palais era la maggioranza – perdeva il proprio tempo a scorrere superficialmente mille libri per trarre qua e là citazioni che li avrebbero fatti apparire quel che non erano, mentre meglio avrebbero fatto se si fossero dati allo studio di ‘scienze solide’, come il diritto romano o la storia, e avessero letto più approfonditamente i testi in vista della formazione del giudizio (jugement) e del raggiungimento del fondo delle cose. I loro plaidoyers invece parlano Phébus, cioè un linguaggio magnificente che non fa che esprimere deboli idee e «débiter du galimatias à outrance» (p. 44, 4v). Fleury, nell’ampliare l’arco delle ragioni a fondamento della loro riforma dell’eloquenza, forse per artificio retorico in grado di sottrarre terreno polemico a de Marillac, non teme di ricorrere ad argomenti di evidente origine umanistico-rinascimentale: rifiutare le citazioni non è opporsi agli autori classici, ma seguirli, poiché non v’è dubbio che non abbiano mai fatto ricorso alle citazioni. Essi vivevano in secoli felici, ove le arti avevano raggiunto assoluta perfezione, sì da costituire un modello per tutto quel che poteva attuarsi in quel campo e da porsi come criterio di distinzione tra la nuova età che ne aveva tratto ispirazione e le barbarie del Medio Evo50. Sono forse posizioni come queste, nonché l’impressionante conoscenza della cultura classica di tutti i personaggi del dialogo51, L’esempio che privilegia è quello dell’architettura e ne è così convinto che per un istante dimentica l’orgoglio nazionale: «Pour nous servir de la comparaison des autres arts, n’est-il pas vrai qu’auparavant que nos architectes eussent voyagé en Italie, ils ne savaient bâtir tout au plus que de fortes prisons et de hauts clochers?» (p. 45, 6r). 51 Ricordiamo che de Marillac non cade nel tranello di Fleury; al contrario, sostiene che gli autori classici citavano, portando come esempio Demostene, che nella Falsa ambasceria cita un non breve passo dell’Antigone sofoclea, nonché Cicerone, che nelle orazioni (in particolare in Pro Plancio e in Pro Sestio) cita versi da una tragedia di Accius e dalle commedie di Ennio (pp. 6450

190

ettome loJacono

che hanno portato N. Hepp a iscriverlo nell’orizzonte storico-teorico sopra ricordato, del quale pensiamo di poter accettare la liberté de l’esprit, ma non certo l’adeguamento alla tradition humaniste. Solo umanista rimane l’oppositore, perché Fleury tiene a moderare immediatamente le sue affermazioni: il suo adeguarsi a posizioni che potevano trovarsi nel mondo classico – tiene a precisare – significa una sua adesione non all’antico in quanto tale (una sorta di atto di fede), ma alle tesi che hanno superato una certa sospensione del giudizio, le sue indagini, la sua analisi (p. 46, 7r). A Cordemoy, maggiore di circa 15 anni di Le Peletier e di Fleury e certamente più immerso nella cultura cartesiana, spetta la responsabilità di determinare con maggiore incisività, coraggio e ampiezza le ragioni della riforma propugnata – de Marillac la definiva «une réformation prétendue» – e, soprattutto, i caratteri del retroterra culturale che ne erano a fondamento; l’autore del Discours physique de la parole risponderà pertinentemente a questo impegno, divenendo così punto di riferimento privilegiato del dialogo. I suoi interventi, pur non trascurando mai la quaestio delle citazioni, sono soprattutto tesi a escludere il principio di autorità e, soprattutto, a determinare quando la parola esprime ciò che è raisonnable, cioè quando essa rientra nell’ambito della ragione e ne rispetta i limiti. La sua prima parola è manifesto d’orgoglio per il proprio tempo: «En vérité, messieurs, vous êtes nés en un siècle bienheureux» (p. 39, 1v)52. Di fronte a Fleury53, che aveva sostenuto in un non breve intervento tesi che anch’egli avrebbe potuto approvare (at65, 21v-22r). La risposta dei giovani, soprattutto di Fleury, è pronta ed erudita: nel caso di Demostene non si tratta che di una ritorsione per citazioni riportate da Eschine, contro il quale l’oratore greco stava appunto pronunciando la sua arringa; nel caso di Cicerone si tratta solo di qualche cenno, perfettamente integrato nel discorso, come tessere in un mosaico che, fra l’altro, non nuocciono all’unità del linguaggio (pp. 66, 68, 22v-24v), ché le citazioni sono nella stessa lingua del discorso; in ogni caso si tratta di luoghi di commedie, a tutti immediatamente noti, in giambi, la cui cadenza, come aveva sostenuto Orazio (Arte poetica, vv. 79-82), sembra più atta a rappresentare che a raccontare. 52 Sul finire finire del dialogo anche Fleury, che pur li ammira, giungerà a compiangere gli antichi: «Je les plains eux-mêmes de n’être pas nés dans des siècles plus heureux» (p. 147, 109v). Ricordiamo inoltre che una delle ragioni per cui Cordemoy ammira il proprio tempo sta anche nella capacità che i giovani ora dimostrano di sapersi imporre nella società: Le Peletier e Fleury ne sono pertinente esempio. 53 Già poco prima aveva rimproverato l’amico di eccedere nella stima per ciò che è lontano dal loro secolo nel tempo e nello spazio (p. 46, 6v).

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

191

tribuire privilegio alla ricerca volta al concreto – p. 53, 12v - 57, 16r; stimare chi possiede la scienza per il profitto e l’utilità che reca all’uomo – p. 55, 13v), ma che l’amico fondava sulla disistima che gli antichi avrebbero riservato alle scienze meramente speculative, Cordemoy, ben più addentro all’ambito scientifico54 e a concezioni cartesiane, assume una posizione che da una parte corregge nettamente l’amico e, dall’altra, determina la linea di demarcazione tra il suo tempo e l’antichità quale si rifletteva nella cultura umanistica. Gli antichi ignoravano – dice ‘ignoravano’, non ‘nascondevano’ – molte cose sulla natura, e ciò necessariamente per carenza di esperienze e di strumenti per attuarle55 (p. 58, 16r) e, poiché l’umiltà non apparteneva alle loro virtù, in luogo di ammettere la loro ignoranza, la mascheravano, ammantandola con sequenze linguistiche coerenti nella struttura sintattica, ma non rispondenti ad alcuna realtà; in breve, quando erano chiamati a parlare di ciò che non sapevano, ricorrevano a espressioni vuote (galimatias). Cordemoy e i suoi amici facevano dunque loro le accuse di verbalismo che Descartes e Galileo avevano ripetutamente rivolto alla cultura peripatetica e rinascimentale56. Ciò naturalmente non valeva per l’eloquenza, ove Cordemoy non aveva difficoltà a riconoscere che le regole che ci ha lasciato Aristotele e gli esempi di Demostene 54 Abbiamo sopra ricordato il discorso scientifi scientifico co pronunciato all’Accademia Montmor, che vide la luce in appendice a un testo cartesiano: Le Monde de M. Descartes ou le Traité de la lumière et autres principaux objets des sens, avec un Discours de l’Action des corps et un autre des Fièvres composés selon les principes du même auteur, à Paris, chez Jacques Le Gras 1664. 55 La necessità di nuovi strumenti per condurre ricerche era ben avvertita anche da René Descartes: cfr. descArTes, Dioptrique, AT, VI., p. 226; o lettera a Newcastle, octobre 1645, ivi, IV, p. 136, B. 525, p. 2094, nonché la lettera redazionale premessa al Traité des passions (Response à la seconde lettre), ivi, XI, p. 326, ll. 1-5. 56 Impossibile riportare i numerosi e non brevi passi dei testi ove Galilei si distacca dal verbalismo; limitiamoci pertanto a ricordare il cap. IX del Saggiatore, ove lo scienziato fiorentino contrappone le «fallacie e le chimere» o «i tenebrosi laberinti» alla «acutezza di una sola dimostrazione»: gALiLeo gALiLei, Il Saggiatore, Ristampa anastatica dell’edizione 1623, premessa di E. Garin, Lecce, Conte 1995, cap. IX, p. 33. Per Descartes che fa del rifiuto del verbalismo il punto d’avvio della sua concezione della scienza, sì che considera le invenzioni concettuali della tradizione come ombre della realtà («similibusque alijs rerum umbris», Descartes à Plempius, 3 octobre 1637, AT, I, p. 422, l. 4, B., 127, p. 430), ricordiamo un passo della lettera a Huygens, mars [mars-avril] 1638, ivi, II, p. 51, B. 161, pp. 628-630: «tombant par hazard sur l’endroit où il dit Lux est medium proportionale inter substantiam et accidens, ie me suis quasi mis à rire».

192

ettome loJacono

sorreggevano un esercizio dell’eloquenza da anteporre a quello del suo tempo, ma ciò – ed è il fuoco della sua tesi – non perché risalente all’antichità, ma in quanto più conforme alla ragione (plus conforme à la raison – p. 59, 17v), il che a suo avviso presupponeva l’abbandono della tradizione e l’affidarsi alla ragione («abandonner la tradition et se tenir à la raison» – ibidem, 17r). Contro de Marillac che, ripetendo Guez de Balzac, sosteneva (p. 76, 31r) che occorreva esercitare l’eloquenza come gli antichi si erano serviti della loro terra e del loro sole57 e cui Le Peletier aveva già ribattuto affermando che in tal modo non vi sarebbe mai stata possibilità di innovazione – altra viva esigenza di questi giovani magistrati –, l’autore del Discours physique de la parole insiste nel suo richiamo alla ragione, che si conclude con l’evocazione di un’altra letteratura, una letteratura moderna affatto ignorata dagli adepti dell’uso di citazioni. Appare così, in una discussione che sembrava tutta imperniata su una meticolosa disamina della letteratura classica, una ‘nuova’ cultura – ed è richiamo di grande effetto – che, lungi dall’essere di scuola, inerte nel passato, limitata e settoriale, comprende il teatro, la drammaturgia, l’arte e la letteratura contemporanea, cui si attribuisce almeno pari dignità che a quella antica: Cordemoy, infatti, si chiede come mai non figurino nelle citazioni «livres modernes […] quoiqu’ils me semblent le mériter aussi bien que plusieurs à qui on fait cet honneur» (p. 90, 45v), e quali esempi privilegiati ricorda Don Chisciotte58 (p. 91, 45v-46r), quindi il Gusman d’Alfarache di Matteo Aleman59, L’Astrée60, Le Grand Cyrus e Clélie61.

57 Cfr. guez de BALzAc, Premières lettres (1618-1627), éd. Bibas et Butler, Paris, Droz 1933-1934: si tratta della XI lettera (1623), p. 48; questo il passo cui si riferisce de Marillac: «Nous ne sommes pas venus au monde pour faire des lois, mais pour obéir à celles que nous avons trouvées, et nous contenter de la sagesse de nos pères comme de leur terre et de leur soleil». 58 migueL de cerVAnTes sAAVedrA, El ingenioso hidalgo Don Quixote de la Mancha, apparso a Madrid nel 1604, tradotto in francese in due parti: I 1614, II 1618, da césAr oudin e frAnçois de rousseT. Questa prima traduzione, con il titolo Histoire de Don Quijote […], è stata ripubblicata a Paris, Flammarion 1912. 59 m. ALemAn, Le Gueux ou la vie de Guzman d’Alfarache, trad. par J. Chapelain, Paris, chez J. Bilaine 1619. 60 honoré d’urfé, L’Astrée de Messire Honoré d’Urfé, où par plusieurs histoires et sous personnes des bergers […], Paris, T. Du Bray 1607 (le prime tre parti). 61 mAdeLeine de scudérie, Clélie, histoire romaine, Paris, A. Courbé 1651 e Artamène ou le grand Cyrus, Paris, A. Courbé 1654.

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

193

Queste opere si inseriscono nel dibattito non solo come espressioni di alto valore creativo, ma anche come prova dell’acquisizione di un’assoluta maturità delle diverse lingue nazionali e del loro diritto a rappresentare le nazioni che le parlavano, le intendevano e le scrivevano: riconoscimento della dignità delle lingue nazionali che, come già avevano sostenuto J. Du Bellay e Pierre de La Ramée62, possedevano la potenzialità di elaborare concetti63 e di renderli accessibili a un più vasto pubblico. Tesi ancora più incisiva e attinente al loro orientamento, questi riformatori l’avevano certo ritrovata in un passo del Discours di Descartes, opera spesso sottesa alla loro conversazione: il luogo è notissimo, tuttavia lo riportiamo per il suo significato nell’economia di quanto intendiamo qui mostrare: Et si i’escris en François, qui est la langue de mon païs, pluutost qu’en Latin, qui est celle de mes Precepteurs, c’est à cause que i’espere que ceux qui ne se servent que de leur raison naturelle toute pure, jugeront mieux de mes opinions que ceux qui ne croient qu’aux livres anciens64.

Avvocati65, erano portati a privilegiare il presente, sì che la scelta della lingua appare fatto determinante, tanto in rapporto al pubblico, quanto alla materia che erano chiamati a trattare; scelta che, come abbiamo visto, al di là del rapporto con la professione, li rendeva partecipi di un movimento di ben più ampio respiro che da tempo stava conquistando gran parte della società. Le lingue moderne possono ‘tradurre’ concetti dell’antichità, ma le lingue morte, compreso il latino, pur considerato une langue domestique66, non possono esprimere quel che tempi successivi hanno elaborato: 62 Lettre de Pierre de La Ramée à Zuinger (mars 1571), publiée par c. WAddingTon dans Ramus, sa vie, ses écrits et ses opinions, Paris, Ch. Meyrueis 1855, pp. 420-440: p. 431: «In Francia esse ingenia pleraque nobilia capacia disciplinarum omnium, quibus propter externarum linguarum difficultatem privarentur». 63 J. du BeLLAy, La deffence, cit., p. 50: «Ceste disputation n’est propre à ce que j’ay entrepris, qui est seulement de monstrer que notre langue n’a point à sa naissance les dieux et les astres si ennemis, qu’elle ne puisse un jour parvenir au point d’excellence et de perfection aussi bien que les autres, entendu que toutes sciences se peuvent fidelement et copieusement traiter en icelles». 64 rené descArTes, Discours de la Méthode, AT, VI, p. 77, ll. 24-30. 65 «Je me trouve à la profession d’avocat, je crois devoir établir avant toute chose quelle doit être ma fin en l’exerçant» (C. fLeury, Ecrits, cit., 87, 41v). 66 Così l’ha definita de Marillac e Cordemoy non si oppone.

194

ettome loJacono

notre dialogue – è Fleury, tra i giovani il più addentro alla letteratura classica, che lo afferma – m’oblige à parler de certaines choses qui sont tout à fait de notre temps et que je ne pourrais nommer en latin sans détourner plusieurs mots de leur sens naturel et me mettre au hasard de n’être point entendu (p. 82, 35r).

Necessità ancora più cogente nel caso della loro attività professionale, che li porta innanzi tutto a tener conto del pubblico: l’esperienza dell’aula giudiziaria li ha convinti che les honnêtes gens interessate ai loro discorsi non potevano esser sedotte da ornamenti superflui, ma dalla concretezza delle argomentazioni, dall’evidenza del cuore della causa; il pubblico appariva infatti soprattutto teso a seguire quanto gli oratori dicevano, il che non poteva avvenire se questi ricorrevano a frequenti citazioni in latino67, ché ormai non v’era più nessuno che lo sapesse bene quanto il francese (82, 35r). L’incontro tra queste considerazioni ispirate dalla quotidianità e le sollecitazioni che giungevano da adepti della nuova cultura li ha condotti infine a una concezione dell’eloquenza inusitata nell’ambito giudiziario del loro tempo, rivelatrice di una prospettiva di rinnovamento che annullava abitudini radicate e profondamente sentite. Chi esercita quest’arte non deve ammettere iato tra sembrare buon avvocato ed esserlo effettivamente, la parola non dev’esser pronunciata per generare ammirazione, ma per raggiungere il fine concreto che il difensore si è proposto; occorre evitare le citazioni onde esorcizzare il principio d’autorità e sollecitare la ragione, ché, se non possediamo testi precisi in nostro favore, siamo obbligati a utilizzare il ragionamento: que si n’ayant pas de textes précis en notre faveur, nous sommes obligés d’employer le raisonnement, je crois qu’alors il ne faut point user d’autorité et je ne puis approuver qu’on se serve de docteurs ni qu’on fasse passer leurs opinions pour des raisons (92, 47v) […] raisonner et citer sont choses incompatibles (p. 106, 63v).

La loro esigenza di staccarsi dalla cultura dei ‘dotti’ – è Cordemoy che parla per i giovani magistrati – è così viva che sulla 67 I giudizi sulle citazioni sono assai severi; limitiamoci ad alcuni esempi: «les citations sont inutiles à celui qui ne cherche en plaidant qu’à gagner sa cause (85, 39r); les citations sont marque de paresse et de stérilité d’esprit (89, 44r)». A proposito di quelle in lingue diverse da quella usata dall’oratore, Cordemoy osserva: «il semble qu’on assiste à l’exorcisme d’un possédé, quand on entend un homme parler tout de suite tant de langues différentes» (p. 65, 22r).

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

195

scorta di vari passi di Descartes giungono al paradosso, a sostenere cioè che per l’autentica eloquenza non sia necessaria la conoscenza delle lingue e dei classici (humanités)68. Stimano infatti che sussista una ragione naturale più affidabile di quanto può trarsi da quel genere di studi, quindi, non a caso, chiudono il loro argomento con una citazione diretta di Descartes: «M. Descartes dit fort bien, ce me semble qu’un bas breton usant de réflexions peut devenir fort éloquent en sa langue» (p. 102, 59r)69. Sarà questa eloquenza semplice, priva di ornamenti, piana, autentica creazione dell’oratore, libera da autorità, adeguata alla ragione, che il pubblico seguirà con profitto e sommo piacere70: un’eloquenza fondée en raison che, accanto all’emozione, pone con forte accento come suo fine la dimostrazione (p. 101, 58r), ‘posizione ‘razionalista’ che delinea un’’altra’ eloquenza in cui si coniugano bellezza e verità, come d’altronde sostiene anche Fleury: J’appelle belle élocution celle qui est fort pure en sorte qu’il n’y ait pas la moindre parole ni la moindre construction qui ne soit bien française, et celle qui est fort claire, de manière toutefois qu’elle ne laisse pas d’être noble […] (p. 131, 92r-v).

Proprio perché l’eloquenza esercitata nell’accademia Montmor aveva tralignato da questo modello, gli studiosi che la frequentavano si dissolsero; molti infatti, come abbiamo visto sopra, non intervenivano più per desiderio di sapere, ma per essere ammirati: «non scire cupiunt ut sciant, sed ut sciantur»71.

68 «Au reste, la connaissance des langues et des humanités n’est point nécessaire absolument pour l’éloquence, elle est plus ancienne que ces sortes d’études» (p. 102, 59r). 69 Questo il luogo di Descartes ripreso da Cordemoy, Discours, cit., AT, VI, p. 7, ll. 17-19. I testi delle opere cartesiane che manifestano questa opinione sono d’altronde numerosi: cfr. ad es. Meditationes, VII, p. 3: «Nihil est veritate antiquius» o Regulae, p. 426, ll. 3-6: «Quod non frustra hic monemus, quia s�pe litterati tam ingeniosi esse solent, ut invenerint modum c�cutiendi etiam in illis quae per se evidentia sunt atque a rusticis nunquam ignorantur». 70 Netta infatti l’opposizione di de Marillac «J’ai une plus haute estime de l’éloquence […] il faut appeler éloquence ce qui nous fournit ces ornements […], ces habits de cérémonie sans lesquels nous ne devons pas nous produire dans les grandes assemblées (p. 102, 59r-60r). 71 Cfr. supra, n. 23.

196

ettome loJacono

La Ragione Les hommes ne sont pas obligés d’être savants, mais d’être raisonnables. (107, 65r)

I continui richiami alla ragione che abbiamo sinora incontrati costituiscono ovviamente il migliore accesso per ribadire l’orientamento culturale di questi magistrati filosofi che, come abbiamo visto, se pur in forma ambiguamente ironica, sono presentati come trasgressivi dal de Marillac, nonostante tra di essi militi un avocat du Roi à Châtelet, Le Peletier, il cui primo compito consisteva nel mantenere l’ordine. A questa luce il dialogo appare come un manifesto, non tanto per la diffusione di una nuova cultura – ciò era già avvenuto attraverso le Accademie – quanto per il suo ampliamento all’eloquenza forense. Ragionare – dicevano – significa condurre un discorso che lasci trasparire les liaisons nécessaires delle sue articolazioni72, non giustificate vi formae, da norme a priori della logica, ma dalla percezione immediata della chiarezza e della solidità della proposizione pronunciata; Aristotele stesso d’altronde – ricorda Cordemoy – aveva sostenuto che in pubblico si doveva argomentare non attraverso sillogismi, ma mediante entimemi, cioè proposizioni sorrette solo dal senso comune (sens commun – p. 107, 65r)73. La ragione si manifesta allorché si dice qualche cosa di solido e chiaro74 e Le Peletier, riprendendo il tema, all’esigenza di solidità e di chiarezza aggiunge quella di consequenzialità: ragionare infatti, a suo avviso, è produrre un argomento «solide et bien suivi» (p. 126, 87r), richiamandosi – ci pare – all’enumeratio cartesiana75. 72 «Raisonner […] n’est autre chose que montrer à l’auditeur une liaison nécessaire entre les propositions» (106, 64v). 73 Cordemoy si riferisce a Retorica, I, 1356 b, 8. 74 «Je ne vois guère de plaisir égal à celui d’entendre un homme qui raisonne toujours droit […] qui dit toujours quelque chose de solide, de clair […]» (p. 113, 71, r-v). 75 Direttamente Descartes è citato una sola volta (p. 102, 59r), ma indirettamente spessissimo. Alcuni esempi: Le Peletier si richiama al giudizio (jugement) e all’esigenza di «une science solide» (p. 42, 3v); Cordemoy auspica un discorso intelligibile (p. 110, 68v) e chiaro (cfr. supra, n. 74), a suo avviso raisonner si manifesta come une liaison necessaria tra proposizioni (p. 106, Je demeure d’ac64v), ritiene del tutto inutile il ricorso a regole prefissate: «Je cord que nous pouvons [… ] nous dispenser des règles» (p. 110, 69r).

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

197

Trascendenza dal tempo «La droite raison […] ne change point» (p. 127, 88v): la facoltà che questi magistrati pongono a base delle loro riflessioni comporta dunque trascendenza dal tempo, prossima all’istanza cartesiana di superamento dello scetticismo moderno, le cui tesi erano spesso sostanziate dal richiamo alla varietà del reale, sia delle cose, sia dell’uomo, particolarmente rafforzato dalle relazioni dei grandi viaggiatori76. È questa concezione della ragione che presiede al rifiuto dell’autorità, a un raffronto tra antico e moderno che, se pur assolutamente singolare, iscrive questo dialogo all’inizio della Querelle des anciens et des modernes, sì che ci stupisce che non figuri nella vasta crestomazia ricordata sopra77. Cordemoy, rispondendo a un’obiezione di De Marillac, sembra quasi trattare il problema sistematicamente: autorità e ragione sono ambedue mezzi per istruire, ma mezzi del tutto differenti. L’autorità si fonda sulla deferenza, serve solo per gli ignoranti, incapaci di servirsi opportunamente della ragione; per quelli invece capaci di ragionare, cioè di seguire la sequenza di parecchie proposizioni, «le raisonnement est bien plus sûr, puisqu’il leur fait voir les choses par leurs lumières», », come se le cose stesse fossero luce nel mondo78.

76 Per la varietà dei fenomeni nel mondo, dei costumi, delle credenze e delle opinioni degli uomini, argomento che costituiva un motivo di incertezza per chi intendeva raggiungere una conoscenza oggettiva, cfr. g. cArdAno, Epistola nuncupatoria al De rerum varietate, che introduce le prime edizioni dell’opera, nonché De uno, in hieronymi cArdAni Opera Omnia […], Lugduni, sumptibus I. A. Huguetan et M. A. Ravaud 1663, 10 voll.: I, p. 28, De rer. var., ivi, III, p. 3, De subtilitate, ivi, p. 417. Di notevole rilievo ci pare infine questo passo di ViVes (De causis corruptarum artium, V, in JoAnnis LudoVici ViVes VALenTini Opera Omnia, […] a Gregorio Majansio […], Valentiae, in off. B. Monfort 1782-1790, 8 voll., facsimile, London, Gregg Press 1964, VI, p. 186), ché vi appare chiara la tendenza ad avvertire la varietas come causa di incertezza gnoseologica. Per commento alla concezione unitaria della varietà delle cose nel mondo cfr. Jerzy ochmAn, Il determinismo astrologico di Girolamo Cardano in Magia, astrologia e religione nel Rinascimento, Convegno polacco-italiano, Varsavia, 25-27 settembre 1972, Wroclaw, Ossolineum s.d., pp. 123-129: p. 124. 77 Cfr. supra, n. 27. 78 In questo paragrafo abbiamo seguito strettamente l’argomento di Cordemoy; cfr. p. 106, 63v-64r-v.

198

ettome loJacono

Le Passioni Naturalmente le passioni hanno parte determinante nell’eloquenza forense, rapporto che è sotteso al dialogo, come appare da una delle diverse definizioni dell’autentico eloquente: J’estime – dice Cordemoy – véritablement éloquent qui sait les moyens qu’il faut employer pour instruire et émouvoir les autres […] les porter […] à faire ce qui est raisonnable soit en excitant quelques mouvements en eux […] soit en calmant ces mêmes émotions lorsqu’elles sont excessives (p. 101, 57r-v)79.

L’area d’azione dell’eloquenza appare così più vasta di quella della dialettica, perché – l’osservazione è sociologica – sono più numerosi gli uomini che cedono alle emozioni, alla prévention e alla précipitation, che quelli in grado di seguire un ragionamento sino alla fine (p. 113, 72r). Il pensiero di Descartes è qui ripreso quasi alla lettera, forse con entusiasmo, poiché il trattato cartesiano sulle passioni appariva particolarmente trasgressivo e il giovane Le Peletier ne era ben consapevole, ché, non appena Cordemoy si propone di trattare dell’argomento, esclama: «philosophez hardiment, nous sommes en lieu de liberté» (p. 115, 74r) e lo stesso Cordemoy completa: Ce sera à condition […] que si l’on fait un dialogue de notre entretien on n’y mettra point ce que je vais dire, car il n’en faudra pas davantage pour me décrier dans l’esprit de ceux qui croient que j’ai donné beaucoup de temps à la philosophie.

Le passioni si spiegano «par les principes de physique» (p. 115, 73v), come Descartes aveva precisato nell’ultima lettera – 14 agosto 1649 – premessa al Traité sur les Passions: «mon mon dessein n’a pas esté d’expliquer les Passions en Orateur, ni mesme en Philosophe moral, mais seulement en Physicien»80. Tale considerazione fisica delle passioni, nonché il rapporto di stretta unione che Cordemoy istituisce tra anima e corpo, fanno sì che esse divengano momento determinante dei plaidoyers81: 79 In tal senso, poco dopo, il richiamo alle passioni è esplicito: «les les passions servent à calmer ou à exciter les mouvements de l’âme. […]; ce qui est particulier à l’éloquence est d’apaiser ou d’exciter les passions» (p. 113, 71v72r). Cfr. descArTes, Traité des Passions, artt. 27-29. 80 rené descArTes, ivi, p. 326, ll. 13-15. 81 Cfr. Descartes à Elisabeth, 21 mai 1643, AT, III, pp. 663-668, B. 392, pp. 1747-1751; Descartes à Elisabeth, 28 juin 1643, ivi, p. 692, ll. 16-20,

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

199

Pour revenir aux passions – dice infatti – la première chose qu’il faut observer est que les deux parties qui composent l’homme sont tellement unies par la puissance divine que les pensées de l’âme sont nécessairement accompagnées de certains mouvements du corps; et que lorsque le corps a certains mouvements, il faut de nécessité que l’âme ait certaines pensées (p. 116, 74v).

L’avvocato può dunque preparare con sicurezza il suo intervento perché l’emozione dell’anima segue la disposizione del corpo: suit l’institution de la machine de notre corps […] elle est fondée en raison mécanique et tellement nécessaire qu’il est impossible qu’il n’arrive toutes les fois que l’objet est présent et que le corps est en sa disposition naturelle (ibidem, 75r)82.

L’oggetto, il fatto, che si presuppone causi il moto dell’animo dev’esser però presentato nella forma più concreta possibile, affatto libero da riflessioni filosofiche83, da orpelli letterari, cioè crudamente, nella sua singolarità, evocato come se fosse presente a chi parla e a chi ascolta, come Simon Goulart nei suoi Mémoires sulla notte di San Bartolomeo ha rappresentato quel massacro: «avec toutes les circonstances des lieux et des personnes et des différentes manières dont on les faisait mourir» (p. 118, 77v)84. Come il drammaturgo, il memorialista e l’attore, anche l’avvocato deve attenersi al naturel, sì che l’eloquente deve saper associare ragione ed esperienza (p. 123, 84r)85. Il discorso è dunque «une espèce de machine». Ciò però non significa che l’oratore non sfugga, almeno in parte, a questo asB. 404, p. 1780: «Enfin, c’est en usant seulement de la vie et des conversations ordinaires, et en s’abstenant de mediter et d’étudier aux choses qui exercent l’imagination, qu’on apprend à concevoir l’union de l’ame et du corps»; Descartes pour [Arnaud], 29 juillet 1648, ivi, V, p. 222, ll. 11-12, B. 664, p. 2578: «propter mentis cum corpore unionem, cujus sane mens conscia est». 82 «Machine de notre corps»: cfr. descArTes, Traité des Passions, cit., art. 7. 83 «Les exemples servent beaucoup plus que les préceptes» (p. 132, 94r). 84 Les Mémoires de la Ligue, con cui s’intendono documenti raccolti con vari titoli: ricordiamo Mémoires de l’estat de France sous Charles IX contenant les choses les plus remarquables […], Meidelbourd, H. Wolf 1578; in proposito cfr. céciLe huchArd, D’encre et de sang. Simon Goulart et la Saint Barthélemie, Paris, Champion 2007. 85 «Les pièces de théâtre […] ne doivent rien avoir que de très naturel. Non pas seulement parce que les règles le veulent, [mais] parce que la raison et l’expérience nous montrent […] qu’elles ne peuvent être touchantes que par cette voie».

200

ettome loJacono

soluto determinismo: egli infatti, a differenza di quel che sarà l’attore per Diderot, non rimane astratto dall’azione, non si pone come una fredda origine dell’emozione, come un mero congegno dell’artificio, ma, per essere efficace, deve anch’egli esser preso dalla passione che intende eccitare (p. 119, 78v); anche in questo caso non deve solo ‘apparire’, ma ‘esserlo’ effettivamente. Se tutto ciò lo avvicina al cartesianesimo, lo allontana però da altre manifestazioni della cultura del suo tempo, in particolare dal teatro spagnolo, che pur otteneva grande successo; il che, oltre ad essere prova della seria attenzione critica di questi magistrati, assolutamente liberi dalle mode – e lo ricordano più volte esplicitamente –, ci illumina sulla loro concezione positiva: avversavano la comédie espagnole, perché spesso gli autori infarcivano le loro pièces di riflessioni, di commenti di sentences, esattamente all’opposto del modo in cui questi magistrati intendevano il discorso. In proposito portano un esempio tratto da un testo di Lope de Vega, la Demoiselle servante86, dove un vecchio, schiaffeggiato, dice che, avendo ricevuto questo affronto per servire il suo sovrano, le cinque dita di chi l’ha colpito hanno lasciato sul suo viso segni gloriosi, sì che la sua testa sarà conservata come se fosse il foglio su cui tali segni sono stati scritti (p. 121, 80v-81v). Le idee che Fleury e Cordemoy hanno qui espresso saranno mantenute e svolte in non poche delle loro opere successive: Fleury nel Traité du choix et de la méthode des études des auteurs87 giustificherà il suo riserbo rispetto a Ronsard con ragioni affatto analoghe a quelle svolte da Le Peletier in questo dialogo88; Cordemoy che, come abbiamo visto, rivolge gran parte della sua attenzione al valore della lingua nazionale, alla sua espressione che vuole semplice, chiara, naturale e nutrita di solide ragioni, riprenderà questi temi nella sua opera più nota, Le Discours Physique de la Parole, ove, ancora una volta ispirandosi a Descartes,, approfondirà le sue tesi sul linguaggio89 sino a fondare su di esso la naLope de VegA, La demoiselle servante [La Moza de Cántaro], in Œuvres dramatiques, trad. E. Baret, Paris, Didier 1874, 2 voll., vol. II, scena II, I giornata. 87 Traité du choix et de la Méthode des Études, Paris, P. Aubouin, P. Eméry et C. Clousier 1686, più volte ripubblicato: ultima ristampa a Montréal (Quebec), L’Hamattam 1998. 88 Cfr. dialogo, p. 127, 88r: Le Peletier rimprovera il poeta di aver abusato di «ornements recherchés et affectation de parole». 89 Anche in questo dialogo Cordemoy s’intrattiene assai pertinentemente (p. 133, 94v) sulla gestualità, sul suo rapporto con la tonalità della voce e 86

il camtesianesimo tma i dotti magistmati della fine del Xvii secolo

201

tura spirituale dell’uomo (uno svolgimento metafisico che tuttavia non si sarebbe dato se – come avvocato – non ne avesse avvertito tutte le trasparenze, le modulazioni, le potenzialità). J.-F. Battail lo ha giustamente chiamato l’avocat philosophe90; noi che crediamo di aver individuato il percorso che lo ha portato a congiungere la sua professione giuridica alla filosofia, assegniamo una dimensione dinamica al rapporto, per cui diremmo: da avocat a philosophe, même métaphysicien. Qui lo abbiamo considerato come magistrato, in accordo con altri, più giovani, più anziani, più o meno autorevoli, sedotti da un rinnovamento culturale, iniziatosi da tempo, che essi ponevano a fondamento della modernità, ma cui i ‘dotti’, ancora all’inizio del XVII secolo, non intendevano in alcun modo cedere terreno.

persino sull’accordo tra le figure retoriche usate e la pronuncia (p. 134, 95v); non abbiamo ripreso questi argomenti, perché troppo a margine del nostro tema. La loro presenza dimostra l’ampiezza degli interessi di questi giovani magistrati e la professionalità con cui li affrontano. 90 JeAn-frAnçois BATTAiL, L’Avocat philosophe Gérauld de Cordemoy (16261684), La Haye, M. Nijhoff 1973.

Francesco M. Pirocchi ANTROPOLOGIA DELLA CREDULITÀ E CRITICA DEGLI ORACOLI: ELEMENTI DI CONTINUITÀ TRA LA MOTHE LE VAYER E FONTENELLE

L’Histoire des oracles di Fontenelle nasce quale riscrittura divulgativa del De oraculis ethnicorum di Van Dale, ma i cambiamenti introdotti conferiscono al testo originalità e indipendenza, cosa di cui era consapevole l’autore stesso1. Se la filiazione dall’opera dell’erudito olandese rimane innegabile, è comunque possibile trovare un altro precedente in un breve trattato apparso quasi trenta anni prima, il Des oracles di La Mothe Le Vayer2. Il confronto tra questo scritto e quello del nipote di Corneille mette in luce aspetti di continuità e una trama filosofica se non unitaria quantomeno molto simile, permettendo di tracciare un profilo più ricco ed esatto dell’Histoire des oracles. Naturalmente questo accostamento richiede molta cautela. Assumere una prospettiva ‘allargata’ nella considerazione delle influenze ricevute da Fontenelle e inserirlo in

1 fonTeneLLe, Histoire des oracles, Paris, G. de Luyne 1686 (ed. anonima); A. VAn dALe, De oraculis ethnicorum dissertationes duae: quarum prior de ipsorum duratione ac defectu, posterior de eorundem Auctoribus. Accedit et schediasma de consecrationibus ethnicis, Amstel�dami, apud Henricum et Viduam Theodori Boom 1683. Per la rivendicazione da parte di Fontenelle dell’autonomia della propria opera cfr. le citatissime pagine della Préface: fonTeneLLe, Histoire des oracles, éd. crit. publiée par L. Maigron, Paris, Cornély 1908, réimpr. Didier 1971, pp. I-X. 2 F. LA moThe Le VAyer, Des oracles. Lettre CVI, in Nouveaux petits traitez en forme de lettres ecrites à diverses personnes studieuses, Paris, A. Courbé 1659, poi in Œuvres, nouvelle édition revue et augmentée, Dresde, M. Groell 1756-1759, t. VII, partie I (1758), pp. 157-196, réimpr. Genève, Slatkine 1970, t. 2, pp. 620-630. Sui rapporti tra l’Histoire des oracles e il De oraculis ethnicorum cfr. c. pouLouin, L’«Histoire des oracles» de Fontenelle comme ‘dénaturation’ du traité de Van Dale, «Revue Fontenelle», 2, 2004, pp. 135-152.

204

fmancesco m. pimocchi

un orizzonte culturale più ampio rispetto all’esclusiva dipendenza da Van Dale è proficuo per la ricostruzione del contesto del dibattito sugli oracoli, che si inserisce nella critica della superstizione e degli aspetti irrazionali delle religioni, ma sarebbe un errore estendere l’ambito dell’Histoire des oracles a Le Vayer se ciò significasse perdere di vista le altre fonti, tra cui Cicerone, Pomponazzi, Vanini, Charron, gli storici dell’antichità, o i viaggiatori dell’età moderna, per citare gli esempi più notevoli di una vasta letteratura3. Il legame tra la critica degli oracoli di Le Vayer e quella di Fontenelle risiede nell’analisi antropologica. Partendo dall’originaria ignoranza dell’uomo sono individuati i meccanismi (mossi da esigenze naturali e impulsi passionali) che portano ad aderire a credenze inverosimili e, in generale, i principi che determinano le azioni umane. Si giunge così a una spiegazione psicologica dalle conseguenze estreme dell’origine di culti e riti e della loro persistenza: da una parte è sancita la debolezza della natura umana e soprattutto della ragione, incapace (almeno in un primo momento) di contrastare le inclinazioni dell’immaginazione o dell’abitudine, dall’altra la nascita del sentimento religioso è col3 La presenza di una componente libertina e clandestina nell’Histoire des oracles è già stata suggerita da G. pAgAnini, Fontenelle et la critique des oracles entre libertinisme et clandestinité, in Fontenelle, actes du colloque tenu à Rouen du 6 au 10 octobre 1987, publiés par A. Niderst, Paris, PUF 1989, pp. 333-349, e, con riferimento più specifico a Le Vayer, da I. moreAu, La Mothe Le Vayer: l’«Histoire des oracles» d’un philosophe sceptique, «Revue Fontenelle», 2, 2004, pp. 115-134. Fontenelle era già stato definito «disciple fidèle de La Mothe Le Vayer» da A. nidersT, Fontenelle à la recherche de lui-même (1657-1702), Paris, Nizet 1972, p. 201 (cfr. anche pp. 197-198). Sui debiti di Fontenelle nei confronti dei libertini cfr. g. cAnTeLLi, Teologia e ateismo. Saggio sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, Firenze, La Nuova Italia 1969, pp. 35-50; g. LissA, Fontenelle tra scetticismo e nuova critica, Napoli, Morano 1973, pp. 11-108; m. T. mArciALis, Fontenelle. Un filosofo mondano, Sassari, Gallizzi 1978, pp. 122-145; C. Borghero, La certezza e la storia. Cartesianesimo, pirronismo e conoscenza storica, Milano, F. Angeli 1983, pp. 306-315; R. pinTArd, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVIIe siècle, nouvelle édition augmentée d’un avant-propos et de notes et réflexions sur les problèmes de l’histoire du libertinage, Genève, Slatkine 2000 (1983), pp. 571-576. Nella ricostruzione del contesto in cui si colloca l’Histoire des oracles non vanno trascurati i legami con altre opere dello stesso Fontenelle, in particolare con il breve scritto De l’origine des fables (pubblicato per la prima volta nel 1714, come di recente si è scoperto grazie a S. Akagi: cfr. c. pouLouin, Une édition ‘disperue’ retrouvée, «Revue Fontenelle», 2, 2004, p. 170): cfr. L. mAigron, Fontenelle. L’homme, l’œuvre et l’influence, Paris, PlonNourrit et C.ie 1906, réimpr. Genève, Slatkine 1970, pp. 248-283.

antmopologia della cmedulità e cmitica degli omacoli

205

legata a una natura rozza e incantata. In quest’ottica la fede è innata nell’uomo quanto può esserlo una malattia congenita. 1. Fontenelle: dall’ignoranza alla religione La base dell’analisi antropologica di Fontenelle è il riconoscimento dell’ignoranza quale condizione connaturata alla vita stessa: «Vivre, c’est ne sçavoir ce que l’on fait la plûpart du tems»4. Da essa prendono avvio i meccanismi che generano il sentimento religioso e la sua diffusione determina il ripetersi degli stessi errori. L’ignoranza induce gli uomini a scambiare per prodigio qualsiasi evento eccezionale, ad accogliere le suggestioni della fantasia e a trovare risposte nei miti. L’immaginazione, l’inclinazione per le storie fantastiche e l’autorità attribuita alla tradizione hanno fatto poi in modo che le credenze primitive si articolassero in una visione incantata del mondo. Il ruolo svolto dall’immaginazione è stato determinante nell’elaborazione delle prime spiegazioni trovate dall’uomo per i fenomeni cui assisteva. La sua guida era soddisfacente, le sue rappresentazioni piacevoli, non si avvertiva il bisogno dell’intervento della ragione, che comunque non avrebbe ottenuto risultati: «L’imagination L’imagination et la raison n’ont guere de commerce ensemble […] les choses dont la raison est pleinement détrompée, ne perdent rien de leurs agrémens à l’égard de l’imagination»5. Ma l’immaginazione non è un valido principio di giudizio, «elle se contente de peu de chose, et elle reconnoîtra toûjours pour une Divinité ce qui aura un peu plus de pouvoir qu’un homme»6: si spiega così il motivo dell’adesione a inganni e superstizioni, e perché l’uomo sia disposto a prestare fede anche ai fatti più as4 fonTeneLLe, Dialogues des morts (Parmenisque, Théocrite de Chio), in Œuvres diverses de M. de Fontenelle, de l’Academie Françoise, nouvelle édition augmentée, Paris, M. Brunet 1724, t. I, p. 106. Ciò trova conferma nell’Histoire des oracles, a proposito di storie sorprendenti per le quali si vogliono fornire spiegazioni fantasiose ancora prima di avere accertato il fatto, cfr. fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 33: «Je ne suis pas si convaincu de nostre ignorance par les choses qui sont, et dont la raison nous est inconnuë, que par celles qui ne sont point, et dont nous trouvons la raison. Cela veut dire que non seulement nous n’avons pas les Principes qui menent au vray, mais que nous en avons d’autres qui s’accomodent tres-bien avec le faux» (cfr. A. VAn dALe, De oraculis ethnicorum, cit., pp. 13 e 194). 5 fonTeneLLe, De l’origine des fables, in Œuvres, cit., t. I, p. 585. 6 Ivi, p. 573.

206

fmancesco m. pimocchi

surdi («les sottises du peuple sont telles assez souvent, qu’elles n’ont pû estre préveuës, et quelquefois ceux qui le trompent, ne songeoient à rien moins, et ont esté avertis par lui-mesme de le tromper»7). Gli effetti dell’immaginazione si affermano anche grazie al compiacimento che gli uomini provano nell’ingannarsi («les hommes ont en quelque maniere pris plaisir à se tromper eux-mêmes») e all’inadeguatezza della ragione («les hommes de tous les siecles ont les mêmes penchans, sur lesquels la raison n’a aucun pouvoir»8). La critica dell’immaginazione, vista come il fondamento dell’inganno e dei pregiudizi, è coerente con la fenomenologia degli errori da essa prodotti che Malebranche delinea nel secondo libro della Recherche de la vérité (1672)9. Alle conseguenze dell’immaginazione si aggiunge la naturale inclinazione degli uomini per le storie fantastiche, che «ont le double agrément, et de fraper l’esprit par quelque trait merveilleux, et de satisfaire la curiosité par la raison apparente qu’elles rendent de quelque effet naturel et fort connu»10. Il gusto per queste narrazioni ne sancisce la fortuna e fa sì che si strutturino in una mitologia, determinando l’affermarsi di errori e il loro istituzionalizzarsi nel patrimonio storico e religioso dei popoli. La fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 103. fonTeneLLe, De l’origine des fables, cit., p. 574 e id., Dialogues des morts (Socrate, Montaigne), cit., p. 38. Cfr. f. LA moThe Le VAyer, Des oracles, cit., p. 183: «En vérité l’homme est un ingenieux animal à se tromper lui-même, sur tout quand c’est en faveur de quelque superstition». Cfr. anche A. VAn dALe, De oraculis ethnicorum, cit., pp. 324-326. 9 L’influsso su Fontenelle della corrente razionalistica cartesiana-malebranchiana è ampiamente documentato, cfr. A. roBineT, Considérations sur un Centenaire (Notes soumises aux historiens de Fontenelle), «Revue de Métaphysique et de Morale», 2-3, 1958, pp. 283-298 e id., Malebranche dans la pensée de Fontenelle, «Revue de synthèse», troisième série, 21, 1961, pp. 7986; m. T. mArciALis, Fontenelle. Un filosofo mondano, cit., p. 192; J. BeAude, Fontenelle et Malebranche, in Fontenelle, actes du colloque cit., pp. 369-378; c. Borghero, La carriera di un comparatista. Fontenelle nella lettura degli antropologi, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXVII (LXXXIX), 2, 2008, pp. 302-306. 10 fonTeneLLe, De l’origine des fables, cit., p. 579. Cfr. f. LA moThe Le VAyer, Des oracles, cit., p. 193: «Tous ces Enthousiasmes de Sibylles, et toutes ces divinations d’Augures et d’Haruspices, n’y [scil. nella «Philosophie Péripatétique»] peuvent passer que pour de pures fourberies ou pour des manies et des renversemens d’esprit, qui n’ont eu succés dans leur propheties, qu’autant que le hazard l’a permis, ou que la crédulité des hommes se l’est aisément persuadé. Car nôtre humanité a une propension naturelle […] à esperer toûjours ce qu’on se promet de l’avenir». 7

8

antmopologia della cmedulità e cmitica degli omacoli

207

tendenza a unire l’invenzione al resoconto dei fatti per suscitare interesse e il successo di tale strategia hanno comportato una crescente indifferenza per la veridicità dei racconti («comme les Histoires de faits veritables mêlées de ces fausses imaginations, eurent beaucoup de cours, on commença à en forger sans aucun fondement, ou tout au moins on ne raconta plus les faits un peu remarquables, sans les revêtir des ornemens que l’on avoit reconnu qui étoient propres à plaire»11). Inoltre la distinzione tra componenti vere e false dei miti si è andata perdendo quando essi sono passati da un ambito di diffusione locale a uno più esteso: «Après que […] les anciens Peuples eurent pris le goût de ces Histoires, où il entroit des Dieux et des Déesses, et en général du merveilleux, on ne débita plus d’Histoires qui n’en fussent ornées. On sçavoit que cela pouvoit n’être pas vrai; mais en ce temps-là il étoit vraisemblable, et c’en étoit assez pour conserver à ces Fables la qualité d’Histoires […]. Mais quand ces sortes d’Histoires passent chez d’autres Peuples qui ont le goût de vouloir qu’on écrive les faits dans leur exacte verité, ou elles sont cruës au pié de la lettre, ou du moins on se persuade qu’elles ont été cruës par ceux qui les ont reçuës sans contradiction. Certainement le malentendu est considérable». Tale fraintendimento non avviene solo nell’assimilazione da parte di altri popoli, ma è un problema endemico già al momento della prima formulazione del racconto, «quand j’ai dit que le faux de ces Histoires étoit reconnu pour ce qu’il étoit, j’ai entendu parler des gens un peu éclairés; car pour le peuple, il est destiné à être la dupe de tout»12. 11 fonTeneLLe, De l’origine des fables, cit., pp. 575-576. Sul fascino esercitato da ciò che è meraviglioso cfr. id., Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 98: «Dans la plupart des […] Oracles la fureur n’estoit pas necessaire. Qu’il y en ait une fois un d’estably, vous jugez bien qu’il va s’en establir mille. Si les Dieux parlent bien là, pourquoy ne parleront ils point icy? Les Peuples frappez du merveilleux de la chose, et avides de l’utilité qu’ils en esperent, ne demandent qu’à voir naistre des Oracles en tous lieux». 12 fonTeneLLe, De l’origine des fables, cit., pp. 576-577. Sulla facilità con cui il popolo accorda la propria fiducia in riferimento al caso specifico degli oracoli cfr. id., Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 109: «Combien aprés tout devoit-il estre plus aisé de persuader aux peuples que les Dieux descendoient dans des Statuës pour leur parler, et leur donner des instructions utiles, que de leur persuader qu’ils venoient manger des membres de Chevres et de Moutons? Et si les Prestres mangeoient bien en la place des Dieux, à plus forte raison pouvoient-ils parler aussi en leur place».

208

fmancesco m. pimocchi

Una volta che i miti si sono consolidati, la tradizione ne mantiene viva l’autorità. Il tempo legittima ogni credenza, «quelque ridicule qu’il soit une pensée, il ne faut que trouver moyen de la maintenir pendant quelque temps, la voilà qui devient ancienne, et elle est suffisamment prouvée». Gli errori in cui gli uomini sono incorsi acquistano una credibilità che non dovrebbe competergli perché il rispetto cieco dell’antichità impedisce di liberarsene, e la ragione è di nuovo messa in scacco in quanto «la coûtume a sur les hommes une force qui n’a nullement besoin d’estre appuyée de la raison»13. Sedimentati per l’azione del tempo, accolti nelle credenze più certe, i miti si sono trasformati in religioni. Ci sono poi altre forze che muovono gli uomini e sono in grado più della ragione di rendere conto di azioni e credenze, «ce sont les Passions qui font et qui défont tout. Si la raison dominoit sur la Terre, il ne s’y passeroit rien […]. Les Passions sont chez les hommes des vents qui sont necessaires, pour mettre tout en mouvement, quoi qu’ils causent souvent des orages»14. La paura è il motivo dell’originaria venerazione degli dèi e conduce alla superstizione, che a sua volta alimenta i culti. Quando la religione si è affermata, è premura dei suoi ministri fomentare questi sentimenti, affinché sia sempre avvertito il bisogno di onorare le divinità per scansarne la collera o conquistarne i favori con riti e offerte: l’impostura è esercitata sulla base di un sentimento nato da una debolezza intrinseca alla condizione umana. La ricostruzione antropologica della genesi della religione ne rifiuta ogni aspetto soprannaturale e ne compromette così la sacralità. 2. La Mothe Le Vayer: «Les hommes sont naturellement portés à s’entretromper» La critica di La Mothe Le Vayer agli oracoli è condotta nel segno di quattro diverse argomentazioni, che è possibile ordinare in base alle posizioni sempre più radicali che vi sono espresse: la spiegazione medico-naturalistica, la dimensione storica, la teoria dell’impostura e l’indagine antropologica. Una struttura non dissimile da quella che Carré individua nell’Histoire des oracles15. fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., pp. 97-98 e 70. fonTeneLLe, Dialogues des morts (Hérostrate, Demetrius de Phalère), cit., p. 88. 15 J.-r. cArré, La philosophie de Fontenelle ou le sourire de la raison, Paris, F. Alcan 1932, p. 429: Carré osserva che Fontenelle opera la riconduzione di 13

14

antmopologia della cmedulità e cmitica degli omacoli

209

La prima argomentazione nega che oracoli e profezie trascendano le leggi della natura – in altre parole che siano miracoli – e fa corrispondere la loro fine al «cours cours ordinaire de la Nature», per cui si osservano «cesser les effets, quand leur causes manquent»16. La risposta naturalistica, limitata al dubbio sul carattere miracoloso dei prodigi, elimina la dimensione soprannaturale alla quale volgarmente sono ricondotti e non riguarda la loro effettiva sussistenza. La divinazione è ammissibile come fatto insolito, interno all’ordine regolare degli eventi: «Qu’y a-t-il en tout cela, dont la Physique seule ne puisse rendre la même raison, qu’elle fait des fumées du vin, quand elles nous entêtent?»17. L’analisi storica, invece, respinge la verosimiglianza degli oracoli, collocandoli in una prospettiva umana e mondana in base alla quale non è ragionevole credervi. La considerazione della forma e del contenuto dei responsi, con le loro contraddizioni, l’eccessiva semplicità, l’ambiguità e l’incomprensibilità, consegue lo stesso effetto, oltre a dimostrare quanto facilmente si possa dare ai vaticini qualsiasi significato si voglia: «Ces réponses […] ne participent guères de la Divinité et semblent fort mal propres à se faire respecter». La strategia di integrare la mancanza delle cause fisiche degli oracoli con la fine della loro credibilità aggiunge efficacia alla riduzione naturalistica. Mentre la prima riguarda la divinazione come fatto in sé, la considerazione della reputazione degli oracoli offre, grazie anche alla ricca galleria di esempi storici, un insegnamento morale sul comportamento che il saggio ciò che appare miracoloso in un ambito interamente umano attraverso due metodi differenti, uno fisico-psicologico, un altro critico e storico. Il primo fa riferimento al principio della costanza delle leggi naturali: la loro continuità permette di individuare un ordine interno alla natura in base al quale è possibile prevedere ciò che verosimilmente accadrà, secondo spiegazioni ragionevoli che rendono superfluo il ricorso a interventi divini e fenomeni soprannaturali. L’altro metodo consiste nel ricostruire correttamente i fatti, eliminando tutte le componenti assurde e fantasiose, che molto probabilmente non hanno mai avuto luogo e sulle quali è inutile ragionare. 16 f. LA moThe Le VAyer, Des oracles, cit., p. 168. Secondo Guy Patin il filosofo deve «savoir tout ce que l’esprit humain peut comprendre naturellement, sans y mêler de revelation, ni de miracles et autres choses extraordinaires et cabalistes qu’on a persuadées au monde, qui s’est laissé coiffer et brider, tant il est sot» (Patiniana, in Naudeana et Patiniana, ou singularitez remarquables prises des conversations de Mess. Naudé et Patin, seconde édition revue, corrigée et augmentée, Amsterdam, F. vander Plaats 1703, due parti in un volume unico, p. 123). 17 f. LA moThe Le VAyer, Des oracles, cit., pp. 194-195.

210

fmancesco m. pimocchi

deve assumere, in base al quale «ceux, ceux, qui ont de l’esprit se peuvent fort bien passer des Oracles»18. Il terzo livello della polemica è costituito dalla teoria dell’impostura, che individua le finalità politiche di quanto è ritenuto ‘sacro’: «Les Les plus grâds Legislateurs ne se sont servis de l’opinion vulgaire sur ce subiect [scil. la «divinité»] (laquelle ils ont non seulement fomentée, mais accreuë de tout leur possible) que pour emboucher de ce mords le sot peuple, pour le pouvoir par aprés mener à leur fantaisie»19. Gli ordinamenti morali non trovano fondamento in natura ma sono legittimati dalle divinità, garanti degli assetti civili e giudici di chi li infrange: la religione è un’ideologia che giustifica lo stato sociale, un fatto storico legato alle strutture politiche, «un systeme particulier, qui rend raison des phainomenes morales, et de toutes les apparences de nostre douteuse Ethique»20. La politica e la società hanno bisogno per la conservazione del potere e la tutela delle norme di una mitologia religiosa come strumento di controllo21. L’interpretazione politica 18 Ivi, pp. 175 e 171. Cfr. fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 127: «Un des plus grands secrets des Oracles, et une des choses qui marque autant que des hommes s’en mesloient, c’est l’ambiguité des Réponses, et l’art qu’on avoit de les accomoder à tous les évenemens qu’on pouvoit prévoir». Cfr. anche A. VAn dALe, De oraculis ethnicorum, cit., p. 316. 19 f. LA moThe Le VAyer, De la divinité, in Cinq autres dialogues du mesme autheur, faits comme les precedents à l’imitation des anciens (1631 o 1632), Francfort, I. Sarius 1606, p. 146. 20 Ivi, p. 162. Cfr. Theophrastus redivivus, edizione prima e critica a c. di G. Canziani e G. Paganini, Firenze, La Nuova Italia 1981-1982, pp. 343344: «Primi igitur quos incessit regnandi libido, ad artes et commenta animum traduxêre et leges ad societatis vinculum condidêre. Deosque excogitaverunt […] et religionem […] instituerunt: ad quam ut pervenirent, postquam deos esse docuerunt, illos res humanas regere et gubernare finxerunt, quod providentiam dixêre […]. Primi illi legislatores deos rerum nostrarum rectores prospectoresque fecêre et docuerunt illos omnibus in rebus hominibus opitulari posse et bona plurima immittere. Sed quia homines solâ bonorum spe illecti, solis etiam bonis inhiassent et absque ullo poenarum metu mala perpetrare non destitissent, legislatores suos quoque deos iracundissimos et vitiis hominum infensissimos dixêre, sicuti eorum propitios, rebusque faventes atque utiles […]. Legislatores iustum iniustumque legibus statuerunt, et bonum malumque definierunt». 21 Il nesso tra religione e politica trova conferma nel primato di cui gode il culto praticato dal popolo dominante. Cfr. f. LA moThe Le VAyer, Des oracles, cit., p. 168: «[Les Romains] méprisèrent tous ces Oracles de la Grece, et du reste des Provinces soûmises à leur domination, qui les négligèrent aussi à l’exemple de leur Mâitres», e anche fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Mai-

antmopologia della cmedulità e cmitica degli omacoli

211

segna un punto di svolta rispetto a quelle medico-naturalistica e storica, perché non solo mette in guardia dall’aderire a credenze ingannevoli, ma svaluta interamente i miracoli facendone un’invenzione umana escogitata per imporre il predominio di alcuni su altri: «Tant de fourberies, reconnues dans toutes les especes de Divinations, ne montrent-elles pas presque évidemment le peu de réalité, qui devoit y être?»22. Con l’analisi antropologica La Mothe Le Vayer compie un passo decisivo nella polemica, sancendone una volta per tutte la radicalità. Sull’ignoranza del volgo si instaura un ‘circolo vizioso’ che offre un aggancio a religioni fantasiose cui si finisce irrazionalmente per aderire. L’uomo, infatti, è un animale pauroso: afflitto dagli eventi naturali di cui non conosce le cause, atterrito dalle minacce di morte e di sofferenza che guerre o altri sconvolgimenti comportano, è portato ad abbracciare qualsiasi superstizione gli garantisca una speranza di salvezza23. È anche credulo, gron, cit., p. 190: «Parmy les Romains les Particuliers pouvoient avoir foy aux Oracles, s’ils vouloient, mais l’Etat n’y en avoit point […]. Une infinité de Dieux tomberent dans le mépris, lors qu’on vit que les Maîtres de la Terre ne daignoient pas les consulter». 22 f. LA moThe Le VAyer, Des oracles, cit., p. 194. Cfr. fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 48: «En examinant un peu les choses de prés, on trouve que ces Oracles qui paroissent si merveilleux, n’ont jamais esté». Cfr. anche Theophrastus redivivus, cit., p. 521: «Quamvis religio […] absurda videatur quantum ad doctrinam, utilissima tamen et commodissima quantum ad mores societatisque vinculum existit». È difficile stabilire se Le Vayer ammetta la possibilità di un ordine statale che faccia a meno della religione (eventualità respinta nel Theophrastus: cfr. T. gregory, Theophrastus redivivus. Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano 1979, p. 187). Nel De la divinité, sulla base della letteratura etnografica, è attestata l’esistenza di popoli atei (pp. 142-143) ed è riportata la tesi sostenuta da Plutarco nel De superstitione e da Bacon negli Essays secondo cui l’ateismo sarebbe preferibile alla superstizione e non danneggerebbe gli stati (p. 173). Tuttavia l’antropologia negativa e pessimistica dell’autore lascia pensare che il ricorso a un instrumentum regni non sia affatto disprezzabile in un’ottica politica, sebbene gli esprits forts sappiano riconoscere l’impostura e non ne abbiano bisogno per una condotta moralmente accettabile. Fontenelle, al contrario, sembra esortare tutti gli uomini alla lotta contro la superstizione e la sopraffazione, cfr. fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., pp. 53-54: «C’est aux hommes à se précautionner contre les Erreurs où ils peuvent estre jettez par d’autres hommes […] Dieu n’est obligé par les loix de sa bonté, qu’à me garantir moymesme; puor les autres, c’est à ma raison à faire son devoir». 23 f. LA moThe Le VAyer, De la hardiesse et de la crainte, in Opuscules ou petits traitez, Paris, A. Courbé 1646, poi in Œuvres, cit., t. III, partie I (1756),

212

fmancesco m. pimocchi

pronto a consegnarsi nelle mani di chi sia più astuto nel fare leva sui sentimenti che lo tormentano, o più abile nell’inventare un racconto che lusinghi le sue aspettative24. L’impostura viene attuata approfittando di questa debolezza che rende il popolo facilmente manipolabile, e il sentimento religioso è infuso nell’uomo, ma è opportuno che paura e superstizione siano continuamente alimentate affinché il risultato della frode sia costante. La classe dei religiosi assolve questo compito con facilità, perché controlla i cuori dei fedeli: «Les hommes sont naturellement portés à s’entretromper, principalement si le prétexte d’une fausse Réligion a gagné leur esprits»25. L’esistenza degli uomini, dunque, precede quella degli dèi «puis que ceux-cy tenoient leur estre des premiers, et que nous n’adorions point de Divinité que nous n’eussions faite». È stato in risposta a esigenze umane che «les choses utiles à la vie avoient p. 26: «Le peu de fondement qu’ont souvent nos craintes, montre qu’il n’y a rien de plus attaché qu’elles à l’infirmité de nôtre nature». Cfr. anche fonTeneLLe, De l’origine des fables, cit., p. 574: «Les premiers hommes ont donné naissance aux Fables, sans qu’il y ait, pour ainsi dire, de leur faute. On est ignorant, et on voit par consequent bien des prodiges». 24 f. LA moThe Le VAyer, De la crédulité. Lettre LXXVIII, in Œuvres de François de La Mothe Le Vayer, conseiller d’État ordinaire, Paris, A. Courbé 1653, poi in Œuvres, ed. di Dresda cit., t. VI, partie II (1758), p. 239: «L’homme est un animal si crédule, qu’il ne faut pour établir les plus grandes faussetés qu’avoir la hardiesse de les dire. Le mensonge ne manque jamais de Sectateurs». Cfr. fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 103: «Je ne croy point que le premier établissement des Oracles ait esté une imposture meditée, mais le peuple tomba dans quelque superstition qui y donna lieu et dont quelques gens un peu plus rafinez profiterent». Cfr. anche cicerone, De divinatione, II, 148: «Nam, ut vere loquamur, superstitio fusa per gentis oppressit omnium fere animos atque hominum imbecillitatem occupavit». 25 f. LA moThe Le VAyer, Des oracles, cit., p. 184. Cfr. id., De la divinité, cit., p. 145: «[Les athées] estiment que les merveilles de la Nature, les eclipses des Astres, les tremblemens de terre, l’esclat des tonneres, et choses semblables, ayent donné la premiere impression à nos esprits d’une Divinité, Primus in orbe Deos fecit timor» (la citazione latina è dal frammento XXII di Petronio). Cfr. anche fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., pp. 193-194: «Je conçoy qu’on reçeut d’abord les Oracles avec avidité et avec joye, parce qu’il n’estoit rien plus commode que d’avoir des Dieux toûjours prests à répondre sur tout ce qui causoit de l’inquietude ou de la curiosité; je conçoy qu’on ne dût renoncer à cette commodité qu’avec beaucoup de peine, et que les Oracles estoient de nature à ne devoir jamais finir dans le Paganisme, s’ils n’eussent pas esté la plus impertinente chose du monde; mais enfin à force d’experiences il falut bien s’en desabuser».

antmopologia della cmedulità e cmitica degli omacoli

213

esté facilement deïfiées», e dal momento che «nous ne sommes pas seulement desireux du bien, mais que nous apprehendons grandement son contraire, on inventa ces Divinitez qu’on desiroit appaiser»26. Le religioni storiche sono prodotti della società cui ineriscono, il loro fondamento è nella natura umana e, al pari di credulità e superstizione, sono connesse alla condizione originaria dell’uomo; soltanto gli esprits forts, grazie alla ragione critica, sanno riconoscere i meccanismi di adesione a false credenze e a dogmi irrazionali. Si può dire che la ragione è contraria alla natura, intesa come incantata e mitica, perché persegue una chiarificazione intellettuale, una ricerca aperta, mai definitiva, scettica27. L’indagine sulla genesi della religione condotta da La Mothe Le Vayer si colloca nella stessa linea di pensiero di quella di Fontenelle. Entrambe sono basate su analisi antropologiche simili e trovano nella superstizione e nella credulità gli obiettivi polemici comuni. Tuttavia si prestano anche a sviluppi differenti. 3. Alcune conseguenze di un’antropologia negativa L’antropologia di La Mothe Le Vayer presenta tratti fortemente pessimistici, che si traducono nella sfiducia verso l’uomo e nella dicotomia tra esprits forts e sotte multitude. Ne è conferma il profondo disprezzo della populace, che deve essere evitata come il peggiore dei mali: Mon corps n’est point si ennemy de la foule, quoy qu’elle l’incommode merveilleusement, que mon esprit abomine les violents contraintes d’une multitude, et je ne crains pas moin la contagion en cette derniere f. LA moThe Le VAyer, De la divinité, cit., pp. 175 e 146-147. Cfr. fonHistoire des oracles, ed. Maigron, cit., p. 53: «Les Payens […] ne se soumettoient le plus souvent à leurs Dieux que comme à des ennemis redoutables, qu’il faloit appaiser à quelque prix que ce fust […]. Enfin le Paganisme, ce culte si abominable aux yeux de Dieu, n’eust été qu’une erreur involontaire et excusable». 27 La considerazione antropologica pessimistica, la teoria dell’uso politico della religione e l’individuazione della causa del sentimento religioso nella natura umana sono temi comuni a La Mothe Le Vayer e Hobbes, anche se non è possibile stabilire con certezza se i due si conoscessero. Non è da escludere che Le Vayer abbia potuto leggere il De cive (1642; la versione definitiva è del 1647), ma un’affinità più profonda si riscontra con il Leviathan (in particolare con i capitoli 11 e 12 della parte I: «Of the Difference of Manners» e «Of Religion»). Tuttavia sembra difficile che Le Vayer potesse conoscere quest’opera, edita nel 1651, ma solo nel 1668 in latino. 26

TeneLLe,

214

fmancesco m. pimocchi

presse, qu’en la premiere, comme celuy qui croit l’epidemie spirituelle beaucoup plus dangereuse que toute autre28.

Le Vayer non si pone intenti divulgatori e didascalici perché nella sua ottica conservatrice ritiene che il volgo debba essere lasciato nell’ignoranza, in quanto incapace di affrontare certi argomenti, come «un estomach debile, et non accoustumé à des viandes si solides, les rejette, au lieu de les digerer, et s’en nourrir»29. Al filosofo invece si addicono solitudine e condotta di vita riservata, quasi nascosta, secondo il motto bene vixit qui bene latuit, e qualsiasi accusa è preferibile «que que de laisser penetrer vostre secret»30. Questo atteggiamento non è soltanto una precauzione per proteggersi dalla censura o dall’ostilità, rispecchia anche il piacere di ritirarsi nell’intimità della riflessione individuale o condivisa solo da pochi amici, con la soddisfazione di affrontare temi sconosciuti e inarrivabili ai più. Il mondo diviene comme un magnifique theatre, sur lequel tant de sortes de vies, comme autant de diverses personnages, sont representez; les Philosophes s’y trouvent assis, considerans le tout avec un grand plaisir, cependant que les Princes, les Rois, et les plus grands Monarques, sont autant d’acteurs de la comedie, qui semble ne se joüer que pour le contentement de ces dignes spectateurs31.

Ciò si traduce in un discorso filosofico elitario in cui le posizioni dell’autore sono dissimulate. I testi di Le Vayer sono costruiti con riferimenti concettuali condivisi dai pochi lettori déniaisés e indicativi di una cultura che rispecchia il senso di appartenenza a un’aristocrazia dello spirito e che ha nella cerchia ristretta di amici il proprio modello sociale. Non a caso la soluzione letteraria adottata è quella del colloquio privato, con il frequente ricorso alla f. LA moThe Le VAyer, De la divinité, cit., p. 125. f. LA moThe Le VAyer, De la vie privée, in Quatre dialogues faits à l’imitation des anciens, par Orasius Tubero (1630 o 1631), Francfort, I. Sarius 1506, p. 175. Cfr. Theophrastus redivivus, cit., pp. 524-525: «Quae quamvis penitus absurda sint et ridicula, in omni tamen religione tantâ fide suscipiuntur ut nullus sit (ex indoctorum scilicet et imperitorum genere) qui ea sibi tamquam verissima non persuadeat. Docti et sapientes viri credere solum simulant, sed re ipsâ non credunt, imo ista irrident et contemnunt, cum id clare facere possunt». 30 f. LA moThe Le VAyer, De la vie privée, cit., p. 166; cfr. p. 181: «Nostre esprit trouve son hermitage par tout, et dans les plus nombreuses assemblées d’hommes des plus grandes villes, je m’y trouve souvant au desert». 31 Ivi, p. 174. 28

29

antmopologia della cmedulità e cmitica degli omacoli

215

forma dialogica o epistolare. Il filosofo si ritaglia un ambito di appartenenza in una sfera isolata e superiore alla condizione volgare, una sorta di ‘Olimpo speculativo’: Ne voyons-nous pas l’Aigle, qui prefere les deserts du haut de l’air, où il contemple le Soleil de plus prés, à la compagnie des autres oiseaux. Il est ainsi d’un esprit philosophique, lequel exercé en l’art du discours mental, et de la meditation, s’écarte volontiers de la multitude, qu’il laisse au dessous de soy, pour s’approcher de la divinité qu’il contemple32.

La Mothe Le Vayer fa corrispondere a questa concezione pessimistica della natura umana la sfiducia nei confronti della ragione, delineandone l’immagine ancipite che la caratterizza. La sua eccezionale forza critica, infatti, è capace di scuotere ogni credenza e di emancipare il saggio dal dominio della sottise naturale, ma non può superare il limite del dubbio: «Nos plus grandes connoissances ne sont que des asneries, et […] la plus belle Philosophie que nous pouvons embrasser c’est l’ignorance louable de la Sceptique»33. Anche Fontenelle esprime un pessimismo antropologico. L’ignoranza, il compiacimento per le storie fantastiche, il potere dell’immaginazione e l’incapacità della ragione di resistere a queste tendenze gettano l’uomo in una condizione di debolezza quasi invincibile e lo rendono vittima di inganni e illusioni: l’indagine della meccanica delle passioni si traduce in una «histoire des erreurs de l’esprit humain»34. In questo ambito, tuttavia, Fontenelle riconosce una dimensione di progresso del tutto estranea a Le Vayer: le produzioni dello spirito si raffinano con il tempo e con l’evoluzione culturale dell’umanità (vista in analogia con lo sviluppo intellettuale del singolo individuo)35. Questa apertura verso esiti inediti rispetto alla critica scettica di Le Vayer e il riconoscimento di margini di sviluppo sono espressione di una certa fiducia nei confronti degli uomini, anche se Fontenelle si muove con cautela e non intende abbandonare del tutto le conclusioni dell’antropologia, in quanto una «prodigieuse lenteur» caratterizIvi, p. 169. f. LA moThe Le VAyer, De l’ignorance louable, in Cinq autres dialogues, cit., p. 35. 34 fonTeneLLe, De l’origine des fables, cit., p. 588. 35 Ivi, p. 587: «L’ignorance diminua peu à peu, et par conséquent on vit moins de prodiges, on fit moins de faux Sistêmes de Philosophie, les Histoires furent moins fabuleuses». 32 33

216

fmancesco m. pimocchi

za le conquiste della ragione e «ce qu’on appelle le Peuple, n’est jamais fort éclairé»36. Pur rimanendo sempre incolto, il popolo può migliorare le proprie conoscenze grazie agli insegnamenti dei filosofi, che riescono ad aprire gli occhi alle persone più ragionevoli e a indebolire le false certezze ordinarie37. Il progresso delineato da Fontenelle è possibile perché non si tratta di un miglioramento della natura umana, che rimane sempre la stessa, ma della conoscenza e delle condizioni storiche. L’accrescimento del sapere non procede per scarti qualitativi, ma segue il succedersi delle generazioni e l’accumularsi di nozioni ed esperienze (così si spiega l’adesione di Fontenelle al partito dei moderni: scienza e filosofia hanno fatto registrare nel tempo enormi passi in avanti). La ricostruzione antropologica dei meccanismi che hanno prodotto gli errori impartisce un insegnamento utile a tale scopo, mettendo in guardia contro gli effetti della credulità e della superstizione e riducendo il rischio di cadere nuovamente in inganni simili38. La distinzione tra filosofi e volgo, netta in Le Vayer, è più sfumata in Fontenelle, che, lontano dagli eccessi di misantropia del primo, scrive per essere letto e apprezzato da un pubblico più vasto rispetto a quello cui si rivolge Le Vayer39. La circolazione di temi irreligiosi è allargata a un ambito popolare: 36 Ivi, p. 583 e fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., pp. 99-100. 37 Ivi, p. 193: «Ces grandes Sectes de Philosophes […] Il n’est pas possible qu’ils n’ouvrissent les yeux à une partie des gens raisonnables, et qu’à l’égard du Peuple mesme ils ne rendissent la chose [scil. la credenza negli oracoli] un peu moins certaine qu’elle n’estoit auparavant» (la stessa conclusione è nel De oraculis ethnicorum di Van Dale, cit., p. 341). Le Vayer, al contrario, ritiene che i filosofi non debbano aspettarsi che «picque et animosité» dal popolo (f. LA moThe Le VAyer, De la vie privée, cit., p. 165). 38 fonTeneLLe, De l’origine des fables, cit., p. 588: «Ce n’est pas une science de s’être rempli la tête de toutes les extravagances des Phéniciens et des Grecs; mais c’en est une de sçavoir ce qui a conduit les Phéniciens et les Grecs à ces extravagances». Un disegno affi affine ne alla critica dell’immaginazione di Malebranche e al rigore del ragionamento che esige Descartes, ma che suggerisce anche spunti alle teorie del progresso sviluppate nel XVIII secolo: cfr. J. dAgen, L’histoire de l’esprit humain dans la pensée française de Fontenelle à Condorcet, Paris, Klincksieck 1977, pp. 35-46 e 369-371; c. Borghero, La certezza e la storia, cit., pp. 315-322 e id., La carriera di un comparatista. Fontenelle nella lettura degli antropologi, cit., p. 305. 39 fonTeneLLe, Histoire des oracles, ed. Maigron, cit., pp. I-III: «Il y a quelque temps qu’il me tomba entre les mains un Livre Latin sur les Oracles

antmopologia della cmedulità e cmitica degli omacoli

217

Le Peuple estoit quelquefois d’humeur à écouter des plaisanteries sur la Religion. Il en pratiquoit les ceremonies seulement por se délivrer des inquietudes qu’il eust pû avoir en ne le pratiquant pas; mais au fond il ne paroist pas qu’il y eust trop de foy40.

La presenza di formalismo e indifferenza verso la religione anche presso la gente comune è una delle disuguaglianze maggiori tra Fontenelle e Le Vayer, il quale non avrebbe mai accettato che la sotte multitude sapesse riconoscere l’impostura. È nell’individuazione di ambiti sociali estesi che possono fare a meno di una dimensione religiosa che si misura la distanza tra il pensiero libertino e i suoi frutti più maturi. La prospettiva antropologica rivela la portata filosofica del discorso sugli oracoli: la denuncia della superstizione è arricchita da un’interpretazione della genesi e dello sviluppo delle credenze che mina il fondamento stesso delle religioni. È problematico, tuttavia, stabilire sino a dove si estenda questa critica. Si pensi alla vexata quaestio sul presunto fideismo di La Mothe Le Vayer: le sue posizioni sembrano compromettere in modo irrimediabile il cristianesimo, eppure l’ateismo contrasta con le continue professioni di rispetto degli insegnamenti ecclesiastici e soprattutto non sembra essere compatibile con uno scetticismo genuino, perché forma di dogmatismo41. Nonostante le cautele e i ragionevoli des Payens, composé depuis peu par Mr. Van-Dale […] Il me vint en pensée de le traduire, afin que les Femmes, et ceux mesme d’entre les hommes qui ne lisent pas si volontiers du Latin, ne fussent point privez d’une lecture si agreable et si utile. Mais je fis reflexion que la traduction de ce Livre ne seroit pas bonne en son espece […] M. Van Dale n’a écrit que pour les Sçavans […] Ie n’ay donc plus songé à traduire, et j’ay cru qu’il valoit mieux en conservant le fond et la matiere principale de l’Ouvrage, luy donner toute une autre forme». 40 Ivi, p. 74. Cfr. p. 69: «Il y a lieu de croire que chez les Payens la Religion n’estoit qu’une pratique, dont la speculation estoit indifferente. Faites comme les autres, et croyez ce qu’il vous plaira», una frase in cui riecheggia il detto intus ut libet, foris ut moris est, attribuito a Cremonini e caro ai libertini al punto che Guy Patin lo trasmette al figlio come un insegnamento fondamentale. 41 Cfr. R. WheLAn, The Wisdom of Simonides: Bayle and La Mothe Le Vayer, in Scepticism and Irreligion in the Seventeenth and Eighteenth Centuries, ed. by R. H. Popkin and A. Vanderjagt, Leiden-New York-Köln, Brill 1993, pp. 230-253; G. pAgAnini, «Pyrrhonisme tout pur» ou «circoncis»? La dynamique du scepticisme chez La Mothe Le Vayer, «Libertinage et philosophie au XVIIe siècle», II, 1997, pp. 7-31; L. BiAnchi, «Mens regnum bona possidet»: scepticisme, fidéisme et naturalisme dans le «Dialogue sur le sujet de la divinité» de La Mothe Le Vayer, «Les études philosophiques», LXXXV, 2, 2008, pp. 195-208.

218

fmancesco m. pimocchi

dubbi sulla portata che nelle intenzioni degli autori doveva avere la battaglia contro gli oracoli, l’atteggiamento demistificatore va comunque oltre i limiti che professa di osservare: La Mothe Le Vayer e Fontenelle operano un disincantamento del mondo e realizzano una storia naturale delle religioni. La loro critica, lontana da considerazioni metafisiche, non nega i miracoli o gli articoli di fede, ma ne respinge la credibilità: ciò può sembrare un cavillo, eppure i vantaggi di questa strategia non sono da sottovalutare, in quanto permette di risparmiare Dio senza tradire lo scetticismo.

Fiormichele Benigni ITINERARI DELL’ANTISPINOZISMO

1. «Tout se fait au hazard» Durante uno scambio di lettere del 1674, a Spinoza era capitato di affermare che il mondo è un effetto necessario della natura divina e che pertanto non è stato «fatto a caso», salvo poi specificare che di per sé questa opinione, di un prodursi casuale del mondo, non è mai potuta venire in mente a nessuno1. Quando, chiudendo la corrispondenza con Boxel, si lasciava andare a un insolito elogio di «Democrito, Epicuro, Lucrezio, o qualche altro […] sostenitore degli atomi»2, tutto faceva pertanto pensare che egli alludesse a una diversa concezione di caso, quella, per l’appunto, degli atomisti antichi. Una concezione che non pone l’hazard in antitesi alla causalità universale, bensì al contrario rende in qualche modo complementari le due polarità. Di recente, sulla base di suggestioni e concetti deleuziani, è stata avanzata una lettura estremamente suggestiva di questo passo, per cui il clinamen epicureo non sarebbe una semplice deviazione dell’atomo, tale da introdurre nella necessità un margine di contingenza, quanto piuttosto «una determinazione positiva intrinseca, dunque una ‘necessità’», «una specie di conatus»: è questa concezione positiva del caso che Spinoza avrebbe trovato negli atomisti, l’affermazione cioè «dell’esistenza dell’infinità di queste necessità differenziali»3. Quest’interpretazione non può 1 B. spinozA, Opera, hrsg. von C. Gebhardt, Heidelberg, Winter 1925, t. IV, p. 261 (d’ora in poi G); citiamo dall’edizione italiana delle Opere, a c. di F. Mignini, Milano, Mondadori 2007, pp. 1476 ss. 2 G IV, p. 261. 3 L. BoVe, La stratégie du conatus: affirmation et résistance chez Spinoza, Paris, Vrin 1996, trad. it., Milano, Ghibli 2002, in particolare le pp. 163-170.

220

fiommichele benigni

che evocare un’altra dottrina, che Spinoza più volte aveva dichiarato di stimare migliore delle altre, vale a dire l’arbitrarismo cartesiano, che «sottomette tutte le cose a una certa volontà indifferente di Dio e stabilisce che tutte le cose dipendono dal suo beneplacito»4. Da una parte, con Epicuro, si ha una molteplicità atomistica di necessità differenziali che nessuna volontà creatrice congiunge tra loro; dall’altra, con Descartes, le differenze, pur procedendo da una causa prima, dipendono dall’hazard dell’arbitrio divino, il che esclude ugualmente qualsiasi modello, ordine o Logos, che sovrintenda alla volontà divina. Nell’uno e nell’altro caso, nell’alea del clinamen o nel «beneplacito» dell’atto creativo assolutamente libero, Spinoza avrebbe trovato la stessa tendenza a rifiutare qualsiasi «totalizzazione» delle determinazioni: tanto in Epicuro quanto in Descartes era implicata una critica contro l’idea di ‘progetto’, di ‘disegno’, inteso come un’«unità formale» totalitaria ed inclusiva. E questo spiegherebbe la sua simpatia per tali posizioni, giacché l’«infinitezza attuale» dell’Ethica era una «necessità unica e differenziale» che escludeva allo stesso modo «ogni modello ed ogni formalismo», essendo anzi «innocente e reale […] quanto il caso epicureo»5. Accostamento ardito, quello di Laurent Bove: eppure nella storia dell’antispinozismo non sono mancate tesi e istanze analoghe, sia pure con intenti e finalità del tutto diverse, a partire dalla Teodicea di Leibniz, dove, attorno al problema della necessità, veniva tracciata una linea di demarcazione tra posizioni teoriche emblematiche. Da una parte i sostenitori della tesi per cui «tutto [è] assolutamente necessario» (Hobbes e Spinoza in testa, e poi Crisippo, Diodoro, Stratone, Abelardo…)6; dall’altra i sosteniB. spinozA, G II, p. 76, trad. it., p. 824. L. BoVe, op. cit., p. 165. 6 «Alcuni filosofi filosofi hanno sostenuto […] che tutto sia assolutamente necessario» (g. W. LeiBniz, Die philosophischen Schriften, hrsg. von C. I. Gerhardt, Leipzig, Lorentz 1932, t. VI, p. 210, che citiamo, benché con qualche modifica, dalla trad. it. a c. di G. Cantelli, Saggi di teodicea, Milano, Rizzoli 1999, p. 309); «[Secondo] Crisippo, [che] accoglie di cuore l’ipotesi di Diodoro […] tutti gli atti della volontà umana [sono] conseguenze inevitabili del destino» (id., Die philosophischen Schriften, cit., t. VI, p. 214, trad. it., p. 313); «Il famoso Pietro Abelardo sosteneva un’opinione vicina a quella di Diodoro, quando affermava che Dio può fare solo ciò che fa» (ivi, p. 215, trad. it., p. 315); «Sembra che Wyclif […] e ai nostri giorni […] Hobbes [abbiano] sostenuto quella stessa opinione [circa] la necessità assoluta di tutte le cose» (ivi, p. 216, trad. it., p. 317); «Stratone sostenne che il mondo era stato for4 5

itinemami dell’antispinozismo

221

tori dell’indeterminismo, che invece intendevano «conservare la libertà ed evitare una necessità assoluta»: fra questi Epicuro, il sostenitore della declinazione degli atomi, e Descartes, il teorico di un Dio «del tutto indifferente»7. Il motivo di questa collocazione dell’arbitrarismo cartesiano accanto all’epicureismo, nella topica oppositiva leibniziana, è presto detto: entrambe le posizioni – tanto l’incognita del caso quanto l’indifferenza del decreto di Dio – potevano essere fatte valere contro il necessitarismo ‘stratonico’. Eppure nel giro di qualche paragrafo l’equilibrio del discorso si modifica: anche ammettendo con Descartes che Dio crei le verità necessarie e i valori morali, infatti, «non per questo i suoi atti sarebbero liberi», affermava Leibniz, «dal momento che non c’è nulla da scegliere». L’indifferenza ‘epicurea’ del Dio cartesiano giungeva quindi alle stesse conclusioni dello spinozismo: se ciò «che noi chiamiamo giustizia e bontà» è stato stabilito per un decreto «puramente arbitrario» di Dio, allora «la sua bontà e la sua saggezza non vi prendono parte alcuna, anzi non c’è motivo per attribuirgliele». Il che significava che, di fatto, all’interno dell’ingegnosa dicotomia leibniziana fra indeterministi e teorici della «necessità cieca», i due poli, da opposti che erano, in realtà venivano a coincidere8. E con questo la triangolazione fra cartesianismo, epicureismo e spinozismo poteva dirsi compiuta. mato… da una causa necessaria priva di conoscenza» (ivi, p. 228, trad. it., p. 333); «Spinoza si è spinto ancora più lontano» (ivi, p. 216, trad. it., p. 317). 7 «Epicuro, per conservare la libertà ed evitare una necessità assoluta, ha sostenuto […] che i futuri contingenti non hanno verità determinata» (ivi, p. 211, trad. it., p. 309); «la declinazione degli atomi […] uno di quei piccoli corpi […] devierebbe di colpo dal suo cammino, senza alcuna ragione, solo perché la volontà lo comanda […]. Egli ha fatto ricorso a tale ipotesi […] per salvare […] la piena libertà di indifferenza» (ivi, p. 306, trad. it., p. 444); «accordare la piena indifferenza alla volontà significa darle un privilegio simile a quello che qualche cartesiano […] [rinviene] nella natura divina, ovvero la possibilità di fare l’impossibile, di poter produrre cose assurde, di poter far sì che due proposizioni contraddittorie siano contemporaneamente vere […] una piena indifferenza assolutamente indeterminata […] non ha origine né dall’anima né dal corpo, e neppure dalle circostanze, dato che si ritiene che tutto sia indeterminato […] senza preparazione, senza che nulla disponga ad essa» (ibidem, trad. it., p. 443). 8 «Anche se […] le verità necessarie fossero atti volontari della mente più perfetta, non per questo i suoi atti sarebbero liberi, dal momento che non c’è nulla da scegliere […] Ciò significa conservare la libertà soltanto di nome» (ivi, p. 228, trad. it., pp. 332-333); «se la giustizia è stata stabilita arbitrariamente e senza alcuna ragione […] Dio vi si imbatte per una specie di caso, come quando si gioca a sorte» (ivi, pp. 240-241, trad. it., p. 321). Procedimen-

222

fiommichele benigni

Se poi si va a vedere quale fu la reazione dei cartesiani – o di alcuni di loro – ci si imbatte in quella dialettica alquanto paradossale definita dall’uso, contro Spinoza, degli stessi argomenti dell’anticartesianismo. E così in alcune delle principali confutazioni cartesiane dello spinozismo ecco affacciarsi la medesima identificazione polemica di caso e necessità9. Senonché nello stabilire l’identità fra il determinismo antifinalistico spinoziano e un casualismo di derivazione epicurea, ossia fra le «loix d’une nature aveugle» e il «concours fortuit des atomes», inaspettatamente la critica dei cartesiani finiva per estendersi anche allo stesso meccanicismo di Descartes, colpevole di produrre sotto traccia tendenze teoriche pericolosamente simili a quelle spinoziane: […] le monde ne s’est pas fait par hazard […] et l’Univers a été formé tel qu’il est, dès le premier moment de la création […]. Car si le monde s’est formé par le seul mouvement de la matière sans qu’aucune autre cause y ait présidé pour en régler et pour en hâter la production […] il faut croire que ses parties se sont formées successivement et avec le tems […] on doit croire qu’il s’est formé à peu près de la même manière que s’engendrent les autres corps […]. M. Descartes cet incomparable philosophe, a posé des principes, d’où il a voulu tirer la formation de l’Univers […] selon les loix du mouvement de la matière […] cette production chimérique de l’Univers […] c’est un systême, ou plûtôt ce sont des suites nécessaires du systême d’Epicure […] du systême des Athées10.

Ciò permette di circoscrivere alcuni snodi significativi all’interno degli itinerari teorici dell’antispinozismo francese. to analogo in h. de LeLeVeL, La vraye et la fausse metaphysique, ou l’on refute les sentimens de M. Regis et de ses adversaires sur cette matiere…, Rotterdam, chez R. Leers, 1694, t. II, pp. 215-217; e in f. pLuQueT Examen du Fatalisme, Paris, Didot 1757, t. II, p. 242. 9 «è forse per caso, o per le leggi di una natura cieca […] che ci sono i denti?», «è senza alcun disegno […] la giuntura delle labbra?», «è forse il caso che ha messo [gli occhi] al di sotto della fronte?»; «il caso, ovvero una concatenazione di cause necessarie» (f. LAmy, Le nouvel athéisme renversé, ou Refutation du sisteme de Spinoza – tirée, pour la plupart, de la conoissance de la nature de l’Homme, Paris, chez J. de Nully, 1696, pp. 146 ss., 506); lo stesso in i. JAcQueLoT, Dissertations sur l’Existence de Dieu, La Haye, Foulques 1697, consultato nell’edizione Paris, Didot-Barois 1744, t. II, p. 231. 10 ivi, t. II, pp. 218, 220, 222, corsivi nostri. Con gli stessi termini, fra gli altri, r. rApin, Réflexions sur la philosophie ancienne et moderne et sur l’usage qu’on en doit faire pour la religion, Paris, Muguet 1676, p. 196; e poi J. regius, Cartesius verus Spinozismi architectus, Amstelodam, apud Lakeman 1723, p. 76: l’uno e l’altro scrivevano però esplicitamente contro Descartes.

itinemami dell’antispinozismo

223

2. «Stolidi cartesiani» Il quadro generale è noto, dopo lo studio ormai classico di Paul Vernière11. Sin dal 1677, anno della pubblicazione degli Opera posthuma di Spinoza, da una parte all’altra della Francia risuonavano le formule a effetto coniate da Leibniz circa il presunto ‘spinozismo’ di Descartes, che avevano inaugurato una nuova fase della ormai pluridecennale polemica anticartesiana, quella sul Descartes eversor ovvero architectus spinozismi. È noto infatti come la diffusione della metafisica dell’Ethica avvenisse proprio nel pieno di quegli anni ottanta del secolo che rappresentano «il culmine della lotta anticartesiana» in Francia, il che trasforma il dibattito su Spinoza in un episodio interno alla più generale querelle sul cartesianismo. Altrettanto noto è il giudizio lapidario di Spinoza su quegli «sciocchi cartesiani» che si affannavano ad accusarlo e criticarlo con la sola preoccupazione di scagionarsi dal sospetto di «condividere» le sue opinioni12. Se però si considera che nel 1704, a distanza di quasi trent’anni da quell’affermazione, veniva data alle stampe un’ennesima confutazione dello spinozismo, la quarta in Francia ad opera di un cartesiano dichiarato – Pierre-Sylvain Régis13 –, è legittimo sospettare che la posta in gioco di questa prima ricezione di Spinoza fosse ben più problematica di quanto i suoi protagonisti non potessero ammettere. La categoria di ‘spinozismo’, infatti, non rappresentava soltanto una delle tante griglie polemiche in cui collocare questo o quell’aspetto della riflessione di Descartes, di volta in volta tacciata di materialismo, scetticismo o libertinismo. Accanto a questa funzione di ‘mediazione’ critica, in cui da una parte si attaccava Spinoza per colpire i cartesiani e dalla parte opposta si faceva altrettanto al fine di scongiurare qualsiasi presunta contiguità, l’etichetta repulsiva di spinozisme si sarebbe al tempo stesso configurata come un indicatore teorico cruciale di quelle che potevano essere le ‘linee di fuga’ di un cartesianismo in crisi. L’incontro per certi versi aleatorio della metafisica dell’Ethica con le diverse direttrici teoriche del cartesianismo si rivelò infatti decisivo proprio 11 p. Vernière, Spinoza et la pensée française avant la Révolution, Paris, Puf 1982. 12 B. spinozA, G IV, p. 299, trad. it., p. 1300. Una sintesi delle varie posizioni del primissimo antispinozismo europeo è in g. f. Jenichen, Historia Spinozismi Leenhofiani, Lipsia, sumptibus Klosii 1707, pp. 58-73. 13 p.-s. régis, L’usage de la raison et de la foy, Paris, chez J. Cusson 1704, citiamo da Paris, Fayard 1996.

224

fiommichele benigni

per gli effetti inattesi che avrebbe prodotto e di cui le ‘confutazioni cartesiane’ portano il segno. In questa direzione, seguendo i tracciati dei diversi discorsi ‘reattivi’, è emerso che all’interno dello spazio teorico cartesiano si produsse una rifrazione delle problematiche spinoziane nel momento stesso in cui quelle venivano aspramente criticate. Si verificava cioè un fenomeno, non infrequente nella storia delle idee, per cui nell’attaccare Spinoza – in quella che era anzitutto un’autodifesa – il cartesianismo si esponeva a un margine di rischio, giacché a venire alla luce erano delle suggestioni che sembravano segnalare l’appartenenza dello spinozismo a uno spazio in qualche modo ancora cartesiano. Accadde così che nel respingere l’idea (certo tutta ideologica e costruita ad hoc su un impianto polemico) di una filiazione lineare e univoca di Spinoza da Descartes,, i cartesiani in un modo o nell’altro fi finivano nivano paradossalmente per introiettare e avvalorare questa tesi nella loro stessa pratica dell’antispinozismo. Alle soglie del diciottesimo secolo, a fronte della grande dispersione dottrinale che caratterizza il cartesianismo europeo, e francese in particolare, le metafisiche cartesiane sembrano dunque costituire ancora un blocco unitario almeno sul versante dell’opposizione a Spinoza. In gran parte si trattò certo di una ‘compattazione’ oppositiva, tutta negativa, frutto dell’esigenza congiunturale di rinserrare le fila per far fronte al nemico comune. Sarebbe sufficiente d’altronde uno sguardo veloce ai protagonisti di questa vicenda per prendere atto del suo carattere irriducibilmente composito (da Lamy a Régis, da Fénelon a Malebranche, da Poiret a Jacquelot). Tuttavia se crediamo di poter parlare di un antispinozismo cartesiano, non è per la motivazione, estrinseca e solo descrittiva, che è stato possibile constatare storicamente l’esistenza di una serie di confutazioni di Spinoza a firma di autori in qualche modo riconducibili al pensiero di Descartes: è piuttosto nella presenza di alcune invarianti teoriche, e nella forma specifica della loro combinazione, che va individuata la cifra comune del cartesianismo di autori peraltro così diversi. Se è vero che ogni metafisica cartesiana si definisce attraverso una forma di ‘anticartesianismo locale’, vale a dire attraverso una selezione polemica operata all’interno di quello spettro di problemi che solo Descartes era riuscito a tenere insieme14, l’incontro con lo spinozismo ebbe 14

Cfr. A. ToseL, Anti-Cartésianisme et Méta-Cartesianisme ou l’ambiguité

itinemami dell’antispinozismo

225

l’effetto di mostrare quale fosse il limite oltre il quale il cartesianismo si sarebbe fatalmente rovesciato nel suo opposto – e cioè un pensiero della necessità del reale, materialista e negatore di ogni forma di trascendenza, tanto più minaccioso quanto più esigua si rivelava essere la distanza rispetto ad alcune direttrici teoriche presenti nello stesso Descartes. Tortuosa e opaca, la vicenda che vide un’intera generazione di cartesiani francesi seriamente impegnata nella critica di un pugno di proposizioni della prima parte dell’Ethica – giacché in fondo di questo si trattava – è allora anche la storia di una travagliata presa di coscienza per cui, dopo Spinoza, il cartesianismo non sarebbe più stato lo stesso. 3. «Absurda chimæra» Bastano pochi esempi per inquadrare la questione: al di là delle differenze di impianto e di articolazione, i critici di Spinoza concordano infatti su alcune valutazioni generali. Anzitutto, lo spinozismo è il frutto di una duplice operazione, di astrazione logica e di finzione di realtà: Spinoza fonda il suo ateismo su un macroscopico equivoco logico, consistente nell’astrarre «da tutte le cose singole l’idea trascendentale e metafisica di Ente […] che ha designato col nome di ‘sostanza’», per poi pretendere che ad essa corrisponda una realtà extra conceptum. Un mostro logico («absurda chimæra»), questo, che si era fatalmente riverberato e ingrandito fino a diventare quel sistema la cui empietà era a tutti nota. Una volta prodotta infatti la finzione di una sostanza universale reale, questa non poteva che essere «una, e una soltanto»; di conseguenza le due sostanze realmente esistenti andavano considerate come i suoi attributi, e le cose singole come i loro modi, senza peraltro poter scorgere un margine di libertà nel funzionamento logico-matematico di tale Ente. Dio diventava «collezione» solo ideale di infiniti individui e la stessa spiritualità, che Spinoza faceva mostra di attribuirgli, altro non era che l’insieme astratto dei singoli pensieri esistenti15. Spinoza confonde quello de l’esprit cartésien. Remarques de Méthode, in La Recta Ratio. Criticiste et spinoziste? Hommage en l’honneur de Bernard Rousset, éd. par L. Bove, Paris, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne 1999, p. 231. 15 «[…] Ens rationis, ideam abtractam […] nullibi formaliter extra conceptum modo isto communi et generali existentem»; «[Substantia naturae, sive universi] quae substantia non potest dici una nisi in conceptu incompleto et idealiter ut in praedicamento» (p. poireT, Fundamenta Atheismi eversa, sive

226

fiommichele benigni

che è un semplice modo di pensare con la realtà esterna, e così finisce per riprodurre in forma mutata quella bizzarra opinione di qualche filosofo che introduce in natura ciò che chiamiamo un universale a parte rei16.

Critica classica questa (Spinoza confonde essenza ed esistenza, piano logico e piano reale), solo che con essa si finiva per travolgere anche l’idea di un «corpo in generale», estensione universale, unica, infinita e indivisibile, vale a dire quella che a detta di molti – Spinoza incluso17 – era una conseguenza necessaria del rifiuto del vuoto e dell’atomismo che connotavano la stessa fisica cartesiana. Lo si vede in Jacquelot, in Régis, in Poiret: l’espediente spinoziano dell’universale a parte rei veniva rigettato come un paralogismo, ma nell’affondo contro l’‘ateismo logico’ di Spinoza si consumava anche il sostanziale abbandono della tesi cartesiana di un’estensione materiale senza vuoti e dunque unica18 – il che specimen absurditatis atheismi Spinozae, in Cogitationes Rationales de Deo, Anima et Malo, éd. par M. Chevallier, in p. BAyLe, Œuvres diverses. Volumes supplementaires, vol. III, Hildesheim-Zürich-New York, Georg Olms 1990, pp. 831-926; le citazioni sono alle pp. 848, 880); così anche f. LAmy, op. cit., p. 315. In tutt’altro contesto, la stessa critica: «il nous a donné une definition de nom, sur la quelle il raisonne comme s’il l’auoit donnée de chose» (Garcin à Le Clerc, 29 settembre 1684, in J. Le cLerc, Epistolario – volume I (16791689), a c. di M. Sina, Firenze, Olschki 1987, p. 227). 16 f. LAmy, op. cit., p. 316. 17 B. spinozA, G II, pp. 57-58, trad. it., pp. 803-804. 18 «[…] la volonté peut réunir plusieurs êtres sous une même idée, en les dépouillant par des abstractions de toutes les […] circonstances qui les distinguent… il y en a qui transportent cette manière de penser dans les choses mêmes, et qui par là introduisent ce qu’on appelle l’Universel, a parte rei. Ainsi, par exemple, l’âme peut concevoir tous les corps par une même idée […] et alors n’apperçoit plus dans les corps aucune distinction […]. [Mais] il ne faut pas penser qu’il y ait un corps en general qui existe actuellement»; «[…] une étendue generale et universelle […] qui n’est pas bornée […] et qui n’a pas par consequent aucune partie ni actuelle ni possibile […] est une étendue qui n’existe que dans la pensée» (p.-s. régis, op. cit., pp. 220, 291, corsivi nostri). Cfr. anche i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, pp. 412, 427; f. LAmy, op. cit., pp. 866-867. E così nel 1760 il defensor cartesiano Gerdil potrà scrivere una confutazione di Spinoza affermando che «à parler exactement on ne peut pas dire que Descartes ait établi aucune sorte d’identité entre l’espace et le corps» (g. s. gerdiL, Recueil de dissertations sur quelques principes de Philosophie et de Religion, IV, in Opere edite ed inedite, Roma, Poggioli 1806-1821, t. IV, p. 351, ma cfr. anche le pp. 359-362). In molti luoghi di Descartes la sostanza estesa era intesa come «natura corporea in genere sumpta», e identificata ad

itinemami dell’antispinozismo

227

non passò affatto inosservato ai critici più attenti19. Analoghi margini di rischio segnavano d’altronde l’intera operazione antispinozista dei cartesiani francesi. A ben vedere, infatti, la posta in gioco di tutto quel labirinto di discussioni intessute attorno all’utilizzo spinoziano dei concetti di ‘modo’, ‘attributo’ e ‘sostanza’, non era altro che la possibilità di pensare un universo di sostanze distinte, il che avrebbe sbarrato la strada al ‘monosostanzialismo’ di Spinoza e riabilitato il concetto di «sostanza creata». Il blocco cartesiano pareva dar prova di una grande compattezza dinanzi a un pensiero così netto nel rifiutare il concetto di creazione, e tutte le confutazioni insistono nell’accusa di eternitarismo a un sistema in cui il mondo non è che un’emanazione necessaria della sostanza unica20. A tale dottrina era giocoforza contrapporre l’idea di un Dio che fosse davvero assolutamente libero di creare, dove la libertà si esplicasse non nella derivazione delle cose dall’essenza di Dio, ma nella loro determinazione da parte della sua sola volontà. Precisazione non di poco conto, questa, e non a caso ribadita da tutti: se infatti dipendesse dalla natura divina – cioè da un’essenza perfetta, necessaria e immutabile –, la produzione del mondo sarebbe un atto a sua volta eterno necessario e immutabile. Perché si desse una libera creazione era perun unico spazio/materia, con il conseguente rifiuto del vuoto e degli atomi (AT, VII, p. 15, ma cfr. anche AT, I, p. 216, e AT, VIII, pp. 40, 52); eppure la divisibilità della materia in parti-sostanze, se non attuali almeno ‘possibili’, continuava a costituire il tema ricorrente invocato contro il Dio esteso di Spinoza: cfr. p. poireT, Fundamenta…, cit., p. 888; f. LAmy, op. cit., p. 328; i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, pp. 382-383; e g. s. gerdiL, Recueil de dissertations…, cit., p. 363. 19 «Spinoza adduce […] delle ragioni così forti [a favore dell’indivisibilità e infinità della sostanza estesa], e tutte tratte da ipotesi cartesiane, che è impossibile resistergli. Il nostro monaco [François Lamy] ne ha sentito la forza, e ha preferito passare oltre, senza soffermarvisi troppo» (LAnguener, Apologie de Spinosa, a c. di m. g. zAccone sinA, «Nouvelles de la République des Lettres», II, 1984, pp. 117-137; I, 1985, pp. 111-158, da cui la citazione, a p. 134, corsivi nostri; e II, 1985, pp. 213-261). 20 «[…] secondo Spinoza tutti gli esseri non sono che emanazioni necessarie dell’essenza divina, e Dio fa solo ciò che non può impedirsi di fare; o meglio, Dio non fa nulla, dato che tutto fuoriesce da lui per necessità inevitabile […]» (f. LAmy, op. cit., pp. 490-491); «[il Dio spinoziano] agisce sempre necessariamente e fa sempre ciò che può in tutta l’estensione delle sue forze» (i. JAcQueLoT, op. cit., t. I, p. XXXI). Sull’argomento, cfr. gli studi di e. scriBAno raccolti in Da Spinoza a Descartes. Percorsi della teologia razionale nel Seicento, Milano, Franco Angeli 1988, in particolare le pp. 83-150.

228

fiommichele benigni

tanto necessario che la facoltà preposta alla produzione del mondo fosse distinta dall’essenza di Dio: l’identità di essenza e potenza, o di essenza e volontà, avrebbe infatti messo a rischio insieme l’idea della libertà di Dio e quella della creazione nel tempo21. È così nelle Dissertations di Jacquelot la sintesi più lucida della posizione avversaria: È impossibile – dicono [gli Atei] – che Dio faccia diversamente da quello che fa, poiché la sua volontà è immutabile […] e non può voler fare altro da ciò che attualmente fa. Inoltre, per rafforzare questo ragionamento, essi aggiungono che in Dio atto e potenza sono la stessa cosa, poiché in Dio non può darsi alcuna opposizione. È per questo che la volontà e la potenza costituiscono un solo e medesimo attributo. Ebbene, sono queste le sole ragioni dell’empietà di ogni tempo22.

Jacquelot non si stancò mai di ripetere, e con lui Bayle, che queste «ragioni» – che erano quelle di Spinoza, com’è chiaro – erano da sempre presenti nella storia del pensiero. Non doveva però credere davvero che fossero le «sole» ragioni a motivare l’anticreazionismo, se non altro perché nella seconda Dissertation un po’ ellitticamente ne elencava un’altra: Spinoza pretende di provare la sua tesi anche con l’eternità dei decreti di Dio23.

Per quanto appena sfiorata e prontamente abbandonata, questa annotazione lasciava così emergere anche l’altra componente dell’anticreazionismo spinoziano, vale a dire l’eternità del decreto divino, che completava il quadro teorico cartesiano: la tesi centrale dell’ateismo di ogni tempo, il rifiuto della creazione, in 21 «[qualsiasi cosa Dio disponga,] intacta sufficientissima sua essentia, quae praeter se solam nil postulat […]»; «[tale è la natura della libertà divina:] ad placitum omittere, statuere, disponere de eo quod extra suam essentiam esse posset» (p. poireT, Fundamenta…, cit., p. 918); «bisogna ammettere una qualche distinzione d’idea fra l’essenza e la potenza di Dio» (f. LAmy, op. cit., p. 405); «la creazione non è una necessaria derivazione della natura divina, ma un effetto libero della volontà di Dio» (p.-s. régis, op. cit., p. 909, a cui seguì la replica stizzita di Boulainvilliers, che in quell’asserzione altro non vedeva che una sterile petizione di principio: h. de BouLAinViLLiers, Exposition du Systême de Benoît Spinosa et sa Défense contre les objections de M. Régis, in Œuvres Philosophiques, éd. par R. Simon, La Haye, Nijhoff 1973, t. I, p. 235). 22 i. JAcQueLoT, op. cit., t. I, p. 247. 23 Ivi, t. II, p. 378.

itinemami dell’antispinozismo

229

Spinoza era fondata sulla semplicità divina (indistinzione di volontà e potenza, o di essenza e attributi), sull’attualità di Dio, e sull’eternità e immutabilità del suo decreto. Tolti questi, pareva dire Jacquelot, il creazionismo sarebbe stato salvato e lo spinozismo debellato. Conclusione affrettata, dato che, nello stesso momento, settori consistenti del cartesianismo sembravano andare proprio nella direzione da lui stigmatizzata come spinozista. E nello specifico – per limitarci ai critici ‘ufficiali’ in Francia di Spinoza – PierreSylvain Régis, che per tutti gli anni novanta del secolo difese strenuamente le tesi del suo Système, dove per l’appunto si sosteneva la semplicità della natura divina, l’indistinzione di intelletto, volontà e potenza, e l’assoluta immutabilità ed eternità del decreto divino, oltre che l’attualità di Dio – cioè l’identità in Dio di potenza ed atto24. Tacciando di spinozismo un insieme di tesi assai diffuse in ambiente cartesiano, Jacquelot finiva così involontariamente per mettere a nudo uno snodo cruciale del cartesianismo, vale a dire quell’arbitrarismo teologico che proprio nella semplicità, attualità ed eternità divine aveva trovato la sua ragion d’essere. Fra gli antispinozisti c’era stato certamente chi l’argomento cartesiano dell’assoluta potenza divina aveva scelto di utilizzarlo – benché in modo non del tutto lineare – proprio contro il necessitarismo spinoziano. Almeno in apparenza, infatti, la posizione per cui tutto dipende dal decreto divino potrebbe sembrare opposta a quella spinoziana per cui tutto è Dio o è in Dio, ma nel senso dell’inerenza modale. Eppure, a parte qualche timido e obliquo tentativo di Poiret25, i cartesiani francesi si guardarono bene dall’adottare contro Spinoza quella prospettiva ‘arbitraristica’. Al contrario, alla tesi dell’Ethica, di per sé perfettamente cartesiana, per cui «Dio è non solo causa efficiente dell’esistenza, ma anche dell’essenza delle cose», Lamy risponderà seccato – ma lo stesso avrebbe fatto Jacquelot – che quella tesi, che comunque Spinoza non era in grado di dimostrare, andava semmai letta in chiave esemplarista: Dio contiene eminentemente la gerarchia 24 Si vedano alcuni esempi in p.-s. régis, Cours entier de Philosophie, ou Systeme general selon les principes de M. Descartes…, Amsterdam, Huguetan 1691, t. I, pp. 89, 93, 94. 25 p. poireT, Fundamenta…, cit., pp. 864, 918, 924; ma cfr. lo studio di g. mori, Tra Descartes e Bayle. Poiret e la teodicea, Bologna, il Mulino 1990, pp. 30-42.

230

fiommichele benigni

delle perfezioni, e al suo interno decide, liberamente, di aggiornarne alcune facendole esistere26. Il rovesciamento della dottrina di Descartes era così completo: per quanto paradossalmente la posizione di Spinoza fosse opposta all’arbitrarismo almeno quanto quella dello stesso Lamy27, quest’ultimo pareva volerli identificare a tutti i costi, il necessitarismo del De Deo e la dottrina della libera creazione delle essenze. Si capisce allora il disagio di Régis: dinanzi a un tale scenario, la sua torsione a tratti volontaristica dell’arbitrarismo cartesiano pareva ormai inutilizzabile in sede di antispinozismo. Di qui le reiterate contorsioni del suo ragionamento. Il mondo è l’effetto della libera volontà di Dio, e non una sua emanazione necessaria, come vorrebbe Spinoza – era la tesi, classica, del cartesiano; e a illustrazione dell’errata idea di causalità appena stigmatizzata, egli forniva l’esempio del calore prodotto dal sole, effetto assolutamente necessario perché emanato dal sole «per sua natura»28. Senonché quell’immagine del sole, che ora veniva assunta come metafora della causalità spinoziana, era stata utilizzata dallo stesso Régis, dieci anni prima, nell’esporre la propria filosofia e, non a caso, proprio a favore dell’attualità divina e dell’eternità dei suoi 26 «Dio è la causa esemplare dell’essenza di tutte le cose, poiché racchiude eminentemente nella propria essenza le perfezioni di tutti gli esseri […] in un certo ordine fondato sui loro rapporti di uguaglianza e disuguaglianza»; «Dio è causa delle essenze nel senso che aggiorna le essenze delle cose; nel senso che le fa esistere, pur potendo non farlo […]. Ma se si intende dire che Dio ha assegnato a ogni cosa un’essenza, con una libertà tale che avrebbe potuto dargliene un’altra del tutto diversa (ad esempio facendo sì che due più due non faccia quattro, o che l’essenza di un triangolo sia di avere più, o meno, di tre angoli) – allora in questo senso la proposizione è visibilmente falsa, poiché è una nozione comune che Dio non può fare ciò che implica contraddizione» (f. LAmy, op. cit., pp. 358, 360); posizione analoga in i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, p. 401. 27 Anche Spinoza, come il benedettino Lamy, rifiuta l’idea arbitraristica di Dio come una «grande assurdità» (salvo poi considerarla il male minore): B. spinozA, G II, p. 76, trad. it., p. 824. Sappiamo tuttavia che in altri luoghi Lamy sembrava imitare proprio l’arbitrarismo cartesiano (o meglio: la particolare dottrina su potenza e arbitrio divini) che era stato di Fénelon (f. LAmy, Sulla creazione, in f. LAmy e J.-f. de sAinT-LAurens, La Relligion défenduë par la Raison sur l’Immortalité de l’ame et sur quelques autres importantes verités. En plusieurs lettres reciproques, Firenze, Olschki 2003, p. 276; si vedano alle pp. 255-257 le note della curatrice M. G. Zaccone Sina, che senz’altro vede in Fénelon e Lamy una ripresa – contro Malebranche – delle tesi del Descartes del 1630). 28 p.-s. régis, L’Usage de la Raison…, cit., p. 914, ma già, in qualche modo, R. descArTes, AT I, p. 152.

itinemami dell’antispinozismo

231

decreti: Dio sta alle sostanze create, aveva scritto parafrasando Descartes, «come il sole» alla «luce» che ne emana29. E la cosa, com’era prevedibile, non passò sotto silenzio30 – il che ci consente di mettere a fuoco la portata dell’altra tematica cruciale, quella del presunto materialismo spinoziano. Il rischio era in effetti che un certo cartesianismo della potenza assoluta precipitasse nell’assimilazione più o meno esplicita di Dio al mondo, per cui si trattava di mettere in campo una limpida strategia critica nei confronti della dottrina spinoziana, che quell’assimilazione la teorizzava senza indugi – compito, questo, tanto più urgente in quanto Spinoza sembrava non voler affatto rinunciare a quel dualismo di pensiero e materia che nelle intenzioni dei suoi critici avrebbe dovuto essere invece il suo punto debole. L’accusa dei cartesiani era chiara: Spinoza intende l’estensione corporea come un attributo dell’essenza divina, e finisce così per descrivere una divinità materiale – il che poi significava in buona sostanza rinunciare a Dio a favore della natura. Che ciò fosse assurdo era scontato per un cartesiano, e per la solita ragione: la materia è composta e molteplice, mentre Dio è perfetto, cioè semplice, e pertanto non può «contenere formalmente», scriveva Régis, l’estensione – dove per «formalmente» doveva intendersi l’opposto del possesso «eminente». L’argomento era classico31, solo che comportava quel non lieve inconveniente 29 «Je ne dirai pas que Dieu estoit devant que de créer les substances […] ou si je le dis, j’entendrai par le mot devant non une anteriorité de temps, mais une simple anteriorité de nature, telle qui se trouve entre le soleil et la lumière, le feu et la chaleur» (p.-s. régis, Cours entier…, cit., t. I, p. 109). 30 Régis non intendeva certo teorizzare una forma di emanatismo, con tali similitudini, ma solo argomentare l’eternità e la non-anteriorità dell’atto creativo rispetto alle sostanze create – benché con le stesse parole di Spinoza, G I, p. 243, e II, p. 354, trad. it., pp. 75, 822; tuttavia nel 1713 questa «comcomparaison» fra il modo con cui «le Soleil conserve la lumiere» e il modo con cui «Dieu conserve les substances» verrà tacciata apertamente di spinozismo nella pamphlettistica Réfutation du Systeme reproductif (Vannes, Galles 1713, préf., dove si fa anche il nome di Régis, e pp. 72 ss.). A monte di tutto, anche qui, R. descArTes, AT VII, p. 369 («[…] sol est causa lucis ab ipso procedentis, et Deus est causa rerum creatarum, non modo secundum fieri, sed etiam secundum esse, ideoque debet semper eodem modo influere in effectum, ut eundem conservet»), ma di lì Spinoza, in modo analogo (B. spinozA, G II, p. 93, trad. it., p. 845): «Deus omnium rerum […] unica est causa, hoc est, Deus non tantum est causa secundum fieri, ut ajunt, sed etiam secundum esse». 31 A partire almeno da Tommaso d’Aquino, fino allo stesso Descartes, in cui risulta surdeterminato dall’impostazione dualistica, cfr. AT IX, p. 68: «[…]

232

fiommichele benigni

già visto, e cioè che anche la dottrina cartesiana di un’estensione in(de)finita unica e ‘senza parti’ venisse rigettata, assieme all’idea spinoziana di un Dio-materia. Ad ogni modo la reazione dei cartesiani fu compatta nel ribadire un dualismo ‘gerarchico’ delle sostanze – in cui cioè il pensiero fosse situato in una posizione di preminenza: il pensiero è più nobile dell’estensione32.

Si trattò certamente di una massiccia e frontale petizione di principio, in cui contro il presunto materialismo dell’Ethica si propugnava l’eminenza di un Dio che, in quanto sostanza spirituale, «contiene le perfezioni del corpo in maniera più eminente che il corpo stesso». Eppure, per ironia della sorte, mai argomento fu più debole. D’altronde già Spinoza aveva mostrato con argomenti cartesiani come attribuire a Dio un possesso ‘eminente’ dell’estensione significasse già in qualche modo concepire un Dio esteso33. Né fu più fortunato l’utilizzo di quell’incerta analogia con la volontà umana che Descartes aveva sfruttato per spiegare come un Dio immateriale possa agire sui corpi34: paragonare

je remarque icy, premierement, qu’il y a une grande difference entre l’esprit et le corps, en ce que le corps, de sa nature, est tousiours divisible, et que l’esprit est entierement indivisible». In maniera identica p. poireT, Fundamenta…, cit., p. 888; f. LAmy, Le Nouvel Athéisme…, cit., p. 328; i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, p. 382; p.-s. régis, L’Usage de la Raison…, cit., p. 291. 32 f. LAmy, Le Nouvel Athéisme…, cit., pp. 161, 262, 288; p.-s. régis, L’Usage de la Raison…, cit., pp. 152, 158 ; i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, p. 401. 33 Il ragionamento lo si può leggere anche attraverso i diversi momenti della produzione di Spinoza: le premesse, ancorché con qualche esitazione, furono nei Cogitata assolutamente in linea col dettato cartesiano: «[…] poiché nella causa deve esserci almeno tanta perfezione quanta se ne dà nell’effetto, segue che tutte le perfezioni dell’estensione ineriscono a Dio. […] Ma poiché […] [credevamo] la cosa estesa […] divisibile […] fummo costretti ad ammettere che […] Dio […] contiene […] eminentemente […] in modo più eccellente le perfezioni della materia» (B. spinozA, G I, p. 237, trad. it., p. 348, corsivi nostri); nell’Etica tuttavia lo statuto della materia cambia, giacché «nessuna sostanza corporea, in quanto sostanza, è divisibile» (id., G II, p. 57, trad. it., p. 799); ne segue che, coerentemente con la premessa stabilita anni prima, «l’estensione è un attributo di Dio» (id., G II, p. 86, trad. it., p. 837). 34 «[…] se lo spirito ha un potere sul corpo tale da poter creare in esso dei movimenti […] allora non è impossibile che ci sia uno spirito che agisca per volontà su tutto l’Universo, e che vi produca dei movimenti» (i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, p. 419); già Descartes, a termini inversi: «Dio [può] muovere i corpi, anche se […] non [è] corporeo […]»; «nella mia mente non si trova

itinemami dell’antispinozismo

233

l’azione di Dio sul mondo a quella dell’anima sul corpo non era infatti molto diverso dal dire ‘spinozianamente’ che Dio è l’anima del mondo35. Si profila in tal modo, su un piano differente, la medesima situazione vista in precedenza, per cui dopo Spinoza, il problema della creazione della materia in un orizzonte dualistico non poteva più essere affrontato secondo gli schemi tradizionali dell’analogia (Jacquelot) o dell’eminenza (Poiret, Jacquelot, Lamy), poiché l’una e l’altra spiegazione erano destinate fatalmente ad incrociare in qualche modo le loro rotte con quelle dello spinozismo. Ultima via d’uscita da una tale impasse, anche l’opzione per una radicale teologia negativa (Régis) comportava esiti tutt’altro che scontati36. nessuna idea che rappresenti il modo con cui Dio […] possa muovere la materia, se non quella che mi mostra il modo con il quale io sono conscio di poter muovere il mio corpo grazie al mio pensiero» (AT V, p. 347). 35 Cfr. n. regnAuLT, Entretiens physiques d’Ariste et d’Eudoxe…, Paris, Osmont 1729, t. I, p. 354. L’origine dell’argomento, in chiave antispinozista, risale almeno al celeberrimo articolo «Spinoza» del Dictionnaire bayliano (p. BAyLe, Dictionnaire historique et critique, Amsterdam-Leyde-La HayeUtrecht, Brunel et al. 1740, t. IV, pp. 253 ss.); ma è tutto l’articolo di Bayle, nei suoi rimandi interni e financo nelle sue aporie, che diverrà poi un riferimento costante per ogni discorso intorno a Spinoza – il che richiederebbe uno studio a parte, che esula dai limiti del presente lavoro. 36 «il faut avouer […] qu’il y a de la peine à comprendre pourquoy la nature de Dieu doit consister dans l’esprit plutôt que dans le corps, car il ne semble pas que le corps soit moins excellent que l’esprit […]. Dieu n’est pas un individu […] il n’a donc aucune détermination particuliere, si ce n’est celle de n’en pouvoir avoir aucune» (p.-s. régis, L’Usage de la Raison…, cit., p. 152). Se fosse determinato, Dio non sarebbe assolutamente infinito: il che significava che per salvare l’infinità divina l’unica strada era la totale equivocità. Che la teologia negativa fosse pur sempre una strada legittima e percorribile l’aveva ammesso fra le righe lo stesso Lamy, e non a caso proprio quando si soffermava sullo stesso concetto di «assolutamente infinito». Tuttavia, aggiungeva il benedettino, restava un grosso limite in quell’approccio (per cui «si conosce Dio soltanto per negazione»), ed era che se con esso si batteva in breccia lo spinozismo, allo stesso tempo si abbandonava la concezione, cartesiana prima ancora che spinoziana, per cui «si può conoscere Dio con un’idea positiva» (f. LAmy, Le Nouvel Athéisme…, cit., pp. 254-255). Di tale défaillance cartesiana avrebbe approfittato h. de BouLAinViLLiers, Exposition…, cit., p. 240, spingendosi fino all’accusa di «athéisme tout pur» nei confronti della tesi di Régis. Del resto, che la teologia negativa fosse una prospettiva «fort embarrassant[e] pour un cartésien» è quanto scrive anche W. schmidT-BiggemAn, Spinoza dans le cartésianisme, in AA.VV., L’écriture sainte au temps de Spinoza et dans le système spinoziste, Paris, Presses de l’Uni-

234

fiommichele benigni

Il tema della creazione della materia da parte di un Dio spirituale apriva peraltro lo spazio a una problematica ulteriore, quella intorno alla libertà umana. Il nesso era immediato, e perfettamente congruo a un assetto dualistico come quello cartesiano: se la materia è il regno del divenire cieco e meccanico e lo spirito è il dominio della libertà, ne segue che il Dio di Spinoza, «esteso» e «corporeo», agisce seguendo una necessità assoluta che lo priva di fatto di ogni libertà, laddove il Dio spirituale di Descartes non solo agisce secondo fini e determina tutte le cose liberamente, ma è anche saggio e buono37. L’agire delle creature dipenderà pertanto unicamente dalla loro «maniera d’agire e di far uso della libertà», e non dal potere assoluto del creatore, mentre al contrario nella sostanza di Spinoza – materiale e dunque necessaria – «se sbagliamo, e cadiamo in errore, non è mai colpa nostra – ammesso poi che si possa parlare ancora di colpa», giacché è evidente a tutti che «senza libertà non può esservi più peccato né merito», né colpa né virtù38. Dinanzi al determinismo integrale dell’Ethica, l’apologia cartesiana della libertà divina si prolungava così in un discorso sulla libertà umana dalla nitida sequenzialità: Dio è spirito, dunque è buono e saggio, dunque l’uomo è libero e responsabile delle sue azioni. Eppure l’equilibrio dei concetti di nuovo si sarebbe incrinato nella più classica delle impasse, ovverosia la difficoltà di versité de Paris-Sorbonne 1992, p. 89. Sbrigativo il commento di J. hArdouin, Reflexions importantes qui doivent se mettre à la fin du Traité intitulé Athei detecti, in id., Opera Varia, Amsterdam-Hagae Comitum, Du Sauzet-De Hondt 1733, p. 262: «Selon Spinoza, singe de Descartes, il n’y a qu’une Realité, que Spinoza appelle aussi substance: à laquelle il donne deux attributs; la pensée et l’étenduë. Et ce qu’enseigne Descartes de l’Estre pensant, et de l’Estre étendu, sous l’Estre infini, n’est-ce pas au fond le mesme systême?». 37 «Il y a un Dieu […] ce Dieu n’est ni étendu ni corporel […] il agit pour une fin […] il est libre […] mais comme il est tout sage, tout bon, tout veritable, […] ainsi ce n’est que par le mauvais usage de nôtre liberté que nous tombons dans l’erreur»; «Spinosa veut que son Dieu soit étendu, [c’est à dire] la manière d’agir des bêtes et des plantes […] est seule digne du Dieu de Spinosa […]»; «[Si] tous les êtres particuliers ne sont que des écoulemens nécessaires de l’essence divine […] si nous nous trompons et […] tombions dans l’erreur, ce n’est pas nôtre faute (si toutefois il y a de la faute)» (f. LAmy, Le Nouvel Athéisme…, cit., pp. 489-491); «la liberté n’est pas une qualité de corps, ni de matière. Car dans un corps tout y est nécessaire et déterminé» (i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, p. 325, ma cfr. le pp. 299 ss., 325, 374: l’anima è libera, scriveva Jacquelot, poiché è spirito). 38 f. LAmy, Le Nouvel Athéisme…, cit., pp. 52-53.

itinemami dell’antispinozismo

235

conciliare l’asserita libertà delle creature razionali con la potenza assoluta di Dio. Difficoltà ancor più grave dinanzi a un autore come Spinoza, che proprio dal riconoscimento dell’onnipotenza divina aveva preso le mosse per convalidare il suo determinismo39. Eppure dell’una e dell’altra c’era bisogno, contro lo spinozismo: dell’onnipotenza e onnipresenza divine, per esaltare la piena libertà di Dio, e dell’autonomia della volontà umana, per garantire l’imputabilità – e cioè, di nuovo, la libertà… Dilemma irrisolvibile, per un cartesianismo in cui si intrecciavano le istanze dell’occasionalismo, del meccanicismo antifinalistico, dell’arbitrarismo e dell’infinita potenza divina: e anche in questo caso, il compito dei critici non fu dei più gravosi40. 4. Alcuni sviluppi A un lettore del tempo il bastione ‘filosofico’ eretto dai cartesiani per arginare l’avanzata dell’«empietà» non dovette sembrare particolarmente saldo, né tantomeno brillante. Il ‘blocco’ cartesiano non si dimostrò in definitiva all’altezza del compito 39 In p.-s. régis (L’Usage de la Raison…, cit., pp. 393-394) la conclusione è netta: «[…] le azioni del giudizio e del libero arbitrio non sono libere: abbiamo già visto infatti come nel mondo non ci sia nulla che, quanto all’esistenza o quanto all’ordine o alla ragione di bontà e verità, non dipenda da Dio come dalla propria causa efficiente». Cfr. anche p. poireT, Fundamenta…, cit., pp. 864-865; f. LAmy, Le Nouvel Athéisme…, cit., pp. 383-387; i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, p. 299 (senza convincere Bayle, cfr. ivi, t. I, pp. LXV-LXVI). 40 «il est évident que ni mr. Ar[nauld] ni aucun autre Cartésien ne scauroit nier au P[ère] M[alebranche] […] le grand principe […] [de la] prédetermination […] [selon lequel] rien de créé n’agit, et n’a aucune force d’agir […] puisqu’à chacque moment […] est créé de Dieu par un acte continuel […] cet acte influe dans toutes les operations [des choses]» (n. AuBerT de Versé, L’Impie convaincu, ou dissertation contre Spinosa, dans laquelle on réfute les fondemens de son athéisme…, Amsterdam, Crells 1685, p. 208); «I cartesiani stessi hanno incontrato qualche difficoltà nel risolvere la questione del libero arbitrio. Essi, infatti […] ritenevano […] che tutto nell’universo fosse diretto dalla provvidenza di Dio; ne nasceva però spontanea l’obiezione che allora non c’è libertà. A ciò Descartes rispondeva che […] l’esperienza interiore ci testimonia […] la nostra libertà […] [ma questo è come] come tagliare il nodo gordiano, e rispondere alla conclusione di un argomento, ma con un argomento contrario; cosa che non è affatto conforme alle leggi delle dispute filosofiche. Tuttavia la maggior parte dei cartesiani se ne è accontentata» (g. W. LeiBniz, Die philosophischen Schriften, cit., t. VI, p. 290, trad. it., pp. 422-423; l’affermazione di Descartes criticata è in AT VIII, p. 20; la sua parafrasi in p.-s. régis, Cours entier…, cit., t. I, pp. 246-248).

236

fiommichele benigni

impostogli dalla congiuntura. Il fatto è che, a ben vedere, alcune delle direttrici teoriche dell’antispinozismo cartesiano (la critica dell’anticreazionismo, o del determinismo…) non erano affatto prive di precedenti storici: anche a una lettura veloce, le massicce e talvolta meticolose confutazioni cartesiane sembravano effettivamente ripetere, indirizzandole però contro Spinoza, le stesse critiche da sempre rivolte alla dottrina di Descartes. Il che dal punto di vista della storia delle idee fu una vera e propria introiezione della logica avversaria – indipendentemente dalla spiegazione che si voglia dare di tale fenomeno, leggibile come una strategia difensiva, o come il ‘sintomo’ di un problema irrisolto (e quindi il fallimento di quella strategia). Illuminante a tal proposito è il successo dell’Impie convaincu, brillante pamphlet del sociniano Aubert de Versé in cui non si faceva altro che mostrare come sull’estensione unica infinita e indivisibile, sull’emanazione del mondo dalla sostanza di Dio, o sul rapporto fra potenza divina e libertà umana, i cartesiani (Malebranche in primis) avessero di fatto preparato il campo all’ateismo41. Ebbene, anche in questo caso a essere tirate in ballo nel discorso critico erano esattamente le medesime istanze che i cartesiani imputavano allo spinozismo – l’uomo di Spinoza è determinato e non libero, la sua estensione unica è solo un chimerico universale a parte rei, e il suo è un dio materiale da cui emana la natura corporea. Questi sui quali ci siamo soffermati sono soltanto alcuni momenti di una vicenda che aspetta ancora di essere ricostruita, per cui cartesiani prima e anticartesiani poi ripropongono lo stesso schema accusatorio variandone solo il punto di applicazione. In questo contesto la querelle su Spinoza sembrerebbe svolgere un 41 n. AuBerT de Versé, op. cit., ‘Avertissement’, s.p., secondo cui i cartesiani avevano reso manifesta quella tentazione panteistica che a suo dire si annidava al fondo di qualsiasi dottrina creazionista. La posizione di Aubert de Versé era certamente delle più comode, sostenendo egli la dottrina sociniana dell’eternità del mondo materiale; eppure, benché in una prospettiva non altrettanto eterodossa, anche f. pLuQueT, op. cit., t. II, pp. 139-140, accomunava teismo e spinozismo rispetto al problema cruciale della creazione della materia (a proposito di un altro tema scottante, l’immutabilità divina, un’analoga conclusione in Th.-J. pichon, Traité historique et critique de la nature de Dieu, Paris, Garnier 1758, pp. 445-446: su come conciliare in Dio l’attributo dell’immutabilità e quello della libertà il cristianesimo non ha certo risposte migliori dello spinozismo…).

itinemami dell’antispinozismo

237

ruolo solo accessorio, essendo lo spinozismo poco più che un paragone polemico per gli anticartesiani, e per i cartesiani un riferimento ‘differenziale’. Tuttavia le storie successive dell’antispinozismo sarebbero state profondamente influenzate dagli esiti di queste discussioni, e nello specifico dall’opera di confutazione che i cartesiani intrapresero contro Spinoza. La loro fu senz’altro una strana forma di autodifesa, che invece di respingere le accuse, sceglieva di lasciarle intatte e dirottarle altrove. Eppure, è stato sugli esiti di quest’incontro ‘forzato’ fra cartesianismi e spinozismo che in Francia si sarebbe inaugurato lo spregiudicato secolo dei Lumi. «Spinoza» – l’empio, l’ateo, il materialista, l’epicureo, il fatalista – fu l’effetto prodotto dalla strategia dei cartesiani, un effetto che però per molti aspetti altro non era che il rigetto e il disconoscimento di tendenze insite nelle loro stesse metafisiche. Non sarà inutile circoscrivere, ancorché in via provvisoria, un ulteriore nesso problematico all’interno di questo contesto. Se infatti l’impasse dell’antispinozismo cartesiano è stata finora letta come il segnale della crisi generale del cartesianismo stesso, simultaneamente all’interno di quella crisi si inscriveva un’altra vicenda, la celebre querelle fra i due grandi epigoni di Descartes, Arnauld e Malebranche. Eppure, alla luce di quanto detto, è sufficiente uno sguardo veloce per capire come non si trattasse affatto di un’altra vicenda42. Rispetto al problema del male, le posizioni sono esattamente antitetiche. L’agostinismo dell’oratoriano, a detta di Arnauld, legittima una concezione univocista dell’essere e della conoscenza. Ma da questa Malebranche si è sentito autorizzato a esprimere giudizi sulle modalità dell’agire divino: un agire a suo dire legalistico, impersonale, che si esprime per volontà generali e che pertanto, proprio per questa sua perfetta generalità, talvolta finisce per produrre anche mali, disordini, imperfezioni. Si configura in tal modo l’idea ‘cinica’ di una divinità che agisce secondo fini ma di fatto lascia il mondo in balìa del caso. Ebbene, questo Dio mostruoso, architetto necessario, necessitato e impotente dinanzi alle sue stesse opere, ha in realtà un precedente storico, a detta di 42 Per l’analisi generale della querelle, cfr. d. moreAu, Deux cartésiens. La polémique entre Antoine Arnauld et Nicolas Malebranche, Paris, Vrin 1999; e. scriBAno, Le «spinozisme» d’Arnauld, in Disguised and overt Spinozism around 1700, ed. by W. Van Bunge and W. Klever, Leiden-New York-Köln, Brill 1996, pp. 291-304.

238

fiommichele benigni

Arnauld: ed è quello del Descartes della terza parte dei Principia, secondo cui tous les corps qui composent notre monde […] se seraient avec le temps formés, arrangés et trouvés en l’état où ils sont aujourd’hui43.

Il riferimento alla celebre proposizione cartesiana poteva non essere del tutto casuale, se non altro perché si trattava del medesimo passo che in quegli anni più volte veniva chiamato in causa come il presunto ‘luogo di nascita’ dello spinozismo – da Leibniz, anzitutto, e poi, più o meno esplicitamente, da Fénelon, Jacquelot, Meslier44: se tutto in natura si genera così, per differenziazione progressiva a partire da una materia prima indifferenziata, allora le volontà particolari di Dio non hanno parte alcuna nel costituirsi del mondo, e in tal modo si giunge alle conclusioni di Malebranche, che non sono poi così lontane da quelle di Spinoza45. E Arnauld poté avanzare la propria tesi: contro l’univocità del Logos malebranchiano e i suoi esiti quasi-spinozisti, è necessario 43 A. ArnAuLd, Réflexions philosophiques et théologiques sur le nouveau système de la nature et de la grâce, in Œuvres, Paris-Lausanne, chez Sigismond d’Arnay et Compagnie 1775-83, t. XXXIX, p. 216. 44 Sul passo cartesiano in questione (AT VIII, p. 103), cfr. V. cArrAud, «La matière assume successivement toutes les formes». Note sur le concept d’ordre et sur une proposition thomiste de la cosmogonie cartésienne, «Revue de métaphysique et de morale», I, 2000, pp. 57-79. Ma questo dei Principia cartesiani fu un luogo più volte menzionato da Leibniz: le occorrenze e un’analisi in m. priAroLo, Né con Cartesio né con Spinoza. Note in margine al concetto di possibile in Leibniz, in L’eresia della libertà – omaggio a Paolo Cristofolini, a c. di C. Piazzesi, M. Priarolo, M. Sanna, Pisa, ETS 2008, pp. 163169. Cfr. anche f. féneLon, Démonstration de l’existence de Dieu, in Œuvres, éd. par J. Le Brun, Paris, Gallimard 1997, t. II, p. 625 ; J. mesLier, AntiFénelon – notes inédites sur la ‘Démonstration de l’existence de Dieu’ de Fénelon et les ‘Réflexions sur l’Athéisme’ du P. de Tournemine, in Œuvres, éd. par J. Deprun, R. Desné, A. Soboul, Paris, Anthropos 1972, t. III, p. 3 ; i. JAcQueLoT, op. cit., t. II, pp. 218 ss. 45 Il nome di Spinoza in questo luogo non compare espressamente, né compariva nella celebre confutazione di Malebranche a firma di Fénelon, che pure giungeva a conclusioni analoghe: una volta negata a Dio ogni forma di libertà, all’oratoriano non resta altro che affermare che Dio è un universo «infinito in estensione attuale; ma non imputiamogli anche quest’eccesso» – che poi era come dire che eccetto un punto, per il resto Malebranche andava nella stessa direzione di Spinoza, descrivendo un universo necessario ed eterno derivato da un Dio egli stesso vincolato alle leggi di un ordine immutabile (f. féneLon, Réfutation du système du père Malebranche sur la Nature et la Grâce, in Œuvres, cit., t. II, p. 356).

itinemami dell’antispinozismo

239

giocare la carta della libertà assoluta e della potenza infinita e indifferente di un Dio trascendente e absconditus – il tutto senz’altro conforme all’impostazione portorealista del filosofo, ma tratteggiato in termini inequivocabilmente arbitraristi e cartesiani. Senonché opporre al presunto spinozismo di Malebranche una forma oltranzistica di arbitrarismo, come sappiamo, poteva non essere la migliore delle scelte. E per l’oratoriano fu facile replicare: nel proporre un Dio del genere, potenza libera e indifferente, si vanifica ogni scelta, e la volontà creativa è ridotta ad agire cieco, arbitrario, capriccioso, casuale46. A voler forzare i termini del discorso, il quadro della querelle fra i due maggiori cartesiani del tempo può così essere letto fra le righe come l’alternativa paradossale fra uno ‘spinozismo’ necessitarista e deterministico (in Malebranche) e uno ‘spinozismo’ casualista della potenza divina cieca e priva di Ragione (in Arnauld). E con questo si è tornati al punto di partenza, e a quella anomala sequenza di caso, necessità e potenza, epicureismo e determinismo che si dipana attorno al nome di Spinoza, continuando ad agire come il sintomo della crisi dell’unità teorica cartesiana. Per un momento dinanzi alla scandalosa convergenza del Dio di Descartes e di quello spinoziano si era creduto, da parte cartesiana, di poter giocare la carta del finalismo: un agire divino libero e orientato secondo fini pareva in effetti essere il miglior antidoto contro una produttività cieca e arbitraria – insieme necessaria e casuale (ossia priva di senso). Eppure, com’è noto, anche quella strada si sarebbe rivelata ben presto impercorribile: traspa46 «Le sentiment de [Arnauld] […] est que la volonté de Dieu se détermine sans raison, et que ce n’est point sa sagesse, que tout ce que Dieu veut n’est sage précisément que parce qu’il le veut […] c’est une horrible impiété: que Dieu agit sans raison, comme un homme […] qui ne veut que parce qu’il veut»; «volonté aveugle, bizarre»; «arbitraire» (n. mALeBrAnche, Œuvres complètes, éd. par A. Robinet, Paris, Vrin 1958-1970, rispettivamente t. IX, pp. 1110-1111, t. V, p. 189, e t. VII, p. 553, cit. in d. moreAu, Deux cartésiens, cit., p. 294, corsivi nostri). E questa, come si è visto, era la sostanza dell’accusa di spinozismo che da sempre Leibniz aveva rivolto contro Descartes. La questione richiederebbe comunque uno studio ben più accurato, al fine di distinguere, nelle fasi della querelle, i differenti livelli di critica – le vie generali e i fini particolari, l’univocità e l’equivocità, la saggezza divina e la libertà divina… – e la presenza, in ognuno di essi, di riferimenti più o meno espliciti allo spinozismo. Un ringraziamento particolare va alla professoressa Emanuela Scribano per alcune preziose osservazioni su questo punto.

240

fiommichele benigni

rente e quasi primitivo nella sua estrema linearità, il finalismo malebranchiano non per questo fu meno sospetto di spinozismo47.

E lo stesso poteva dirsi di Leibniz: non è sufficiente parlare di «armonia prestabilita» o di «necessità morale» derivante dalla «saggezza divina», giacché nell’uno e nell’altro caso ciò che si profila è piuttosto una forma appena edulcorata di necessitarismo spinozista (così ripetevano i gesuiti di Trévoux, in Journal de Trévoux, juin 1737, pp. 953-991; déc. 1754, pp. 2976-2977). Naturalmente quando parliamo di ‘finalismo’, rispetto alla metafisica malebranchiana, ci riferiamo a un modello epistemologico che comunque poco ha a che vedere con il finalismo della tradizione (diverso, in ciò, da quello leibniziano; sul tema cfr. s. LAnducci, La teodicea nell’età cartesiana, Napoli, Bibliopolis 1986, pp. 80-81). 47

Francesco Giannini LA LETTERATURA RADICALE NELLA BIBLIOTECA DI BENJAMIN FURLY*

Personaggio emblematico della temperie religiosa, sociale ed intellettuale dell’Europa occidentale tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, Benjamin Furly ha attirato di recente l’attenzione di un buon numero di studiosi in virtù della sua peculiare posizione nel mondo del primo Illuminismo e dell’indubbio fascino legato alla sua figura1. Nativo di Colchester (città in cui venne alla luce nel 1636) e appartenente ad una famiglia precocemente convertitasi al quaccherismo, Furly era emigrato a metà degli anni ’50 sull’altra riva della Manica, per esercitare l’attività di mercante prima ad Amsterdam (per breve tempo) e poi a Rotterdam. Nella grande città portuale olandese non solo accumulò presto notevoli ricchezze e si fece una solida posizione sociale ma svolse anche, e per lungo tempo, il ruolo di guida della comunità quacchera locale (e fino alla sua uscita dal movimento, avvenuta nel corso degli anni ’80 del Seicento, fu uno dei rappresentanti di spicco del quaccherismo a livello internazionale). Diversamente dalla sua adesione alla fede quacchera, ciò che nel corso della sua vita non venne mai meno fu la febbrile attività di paladino delle minoranze religiose perseguitate e di militante della causa repubblicana e antiassolutistica. Furly fu infatti un apostolo della libertà di pensie* Questo articolo è una parziale rielaborazione del capitolo III della mia tesi di laurea triennale dal titolo Un campione di eterodossia all’alba dell’Illuminismo: Benjamin Furly, mercante di Rotterdam, composta tra la fine del 2006 e il 2007 e discussa nel febbraio del 2008 alla ‘Sapienza’ Università di Roma. 1 Cfr. il recentissimo volume collettaneo Benjamin Furly: a quaker merchant and his milieu, a c. di S. Hutton, Firenze, Olschki 2007.

242

fmancesco giannini

ro e della tolleranza religiosa (tra le altre cose fu l’organizzatore dell’emigrazione verso la Pennsylvania di numerosi appartenenti a minoranze religiose dell’Europa centrale e si batté per l’approvazione del Toleration Act da parte del Parlamento inglese nel 1689) e un acerrimo nemico di ogni struttura ecclesiastica e di ogni ortodossia dogmatica e intollerante. Alla lotta per la libertà religiosa unì uno strenuo sforzo a sostegno del ‘repubblicanesimo’ e lottò sia, come whig radicale, contro la monarchia degli Stuart in Inghilterra, sia contro l’assolutismo e l’aggressivo espansionismo della Francia di Luigi XiV. È senz’altro eloquente il fatto che tra i suoi amici più stretti vi fossero personalità politiche e filosofiche del calibro di John Locke, Algernon Sidney e Anthony Ashley Cooper III conte di Shaftesbury (tutti furono ospiti nella sua casa di Rotterdam durante i loro lunghi soggiorni, a volte forzati, nelle Province Unite). Furly fu un uomo di ingegno non comune, dotato di profonda cultura, autodidatta, poliglotta, e grande collezionista di libri e, sebbene non fosse che un mercante, poteva intrattenersi e discutere alla pari con alcuni dei maggiori pensatori ed eruditi dell’epoca (basti pensare ai suoi rapporti, oltre che con gli appena citati John Locke e Shaftesbury, con Pierre Bayle, Jean Le Clerc e Franciscus Mercurius Van Helmont, solo per citarne alcuni). Le sue abilità linguistiche e le sue conoscenze nel campo della critica biblica e della storia del cristianesimo, erano tanto vaste che molti studiosi, tra cui Zacharias Conrad von Uffenbach2, erano letteralmente sbalorditi dal fatto che quest’uomo, un mercante, fosse così ben versato in latino, ebraico, etc., ancor più dal momento che egli non aveva mezzi a sua disposizione, e li aveva acquisiti solo di recente3. 2 Zacharias Conrad von Uffenbach (1683-1734), erudito di origine svizzera, nel corso della sua vita mise in piedi una delle più ricche biblioteche private (circa 12.000 volumi) della Germania dell’epoca; nel 1710, durante un viaggio attraverso l’Europa occidentale alla ricerca di libri e manoscritti rari, fece tappa a Rotterdam, dove si recò in visita da Furly. Questi tuttavia frustrò la curiosità del suo ospite non permettendogli di esaminare i volumi della sua collezione e intrattenendolo invece con una lunga e accorata predica in difesa dei diritti di una setta di mistici inglesi, i Nuovi Profeti, in quel periodo perseguitata dalle autorità delle Province Unite. Un divertente resoconto della visita è stato lasciato da von Uffenbach nel suo libro di memorie (edito a Ulm nel 1753); cfr. W. i. huLL, Benjamin Furly and Quakerism in Rotterdam, Swarthmore (Penn.), Swarthmore College 1941, pp. 152-153. 3 Ivi, p. 77.

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

243

Fu grazie all’ingente fortuna guadagnata con i suoi commerci che Furly poté coltivare la sua grande passione per gli studi e procurarsi i libri necessari a soddisfare i suoi molteplici interessi. Nel corso degli anni arrivò a mettere in piedi una vasta biblioteca privata, che alla sua morte contava circa 4500 volumi a stampa e manoscritti, e che godeva di larga fama tra i contemporanei, sia in virtù dei numerosi libri rari che ospitava che dell’aura ‘eretica’ da cui, nell’opinione comune, era circondata. Furly sembra essere stato molto generoso nel mettere a disposizione di altri studiosi la propria biblioteca. Ad accedervi erano infatti non solo i più intimi amici appartenenti alla Lantaarn, il circolo intellettuale che ospitava nella sua dimora e di cui era animatore, ma anche tutti coloro che, raggiunti dalla fama della collezione e attratti dall’ospitalità del proprietario, desideravano consultare quella grande mole di materiale. Molti erano gli studiosi e gli eruditi che si recavano in ‘pellegrinaggio’ a casa di Furly. Tra questi il succitato von Uffenbach, il quale così descrive la biblioteca: […] fummo introdotti nel suo comptoir, come veniva chiamato, ma questo appariva più una biblioteca o un museo che la stanza dei conti di un mercante, dato che le pareti erano completamente rivestite di scaffali colmi di libri, nel numero di almeno quattromila. Erano principalmente di argomento teologico, del genere suspectae fidei, e sembravano ben addirsi ai gusti del signor Benjamin Furly, che è un uomo paradossale e particolare, che presto ci diede a intendere che non aderiva ad alcuna religione in particolare […]4.

Oltre che per il particolare riguardo alla collocazione della biblioteca, che è eloquente rispetto alla posizione che gli studi avevano nella vita di Furly e simboleggia bene la figura di mercantestudioso da egli incarnata, la testimonianza di von Uffenbach è importante perché riecheggia quello che, come si accennava poco sopra, già all’epoca era un luogo comune: il fatto che la biblioteca di Furly contenesse ‘principalmente’ libri di argomento teologico di contenuto eterodosso. Un’informazione, questa, che è stata presa per buona anche dall’autore di uno dei più estesi studi dedicati a Benjamin Furly (pubblicato nel 1941), William I. Hull, che della biblioteca in realtà non dice molto, limitandosi a rintracciare le opere relative a particolari dispute tenute da Furly Ivi, p. 152. Hull traduce dal tedesco usando il termine ‘religion’; in ogni caso va inteso nel senso di ‘Chiesa’. 4

244

fmancesco giannini

con i suoi avversari o ai legami di amicizia con questo o con quel personaggio con cui ebbe a che fare nella sua vita5. Chi invece ha messo in discussione tale assunto è stato Justin Champion, che recentemente ha dimostrato come esso fosse tutt’altro che fondato6. Gli è bastato fare un’analisi di massima del catalogo Bibliotheca Furliana7. Forse un po’ troppo di massima, dal momento che, come si vedrà, Champion ha sì messo in evidenza come i volumi posseduti da Furly fossero in buona parte di contenuto ortodosso, ma paradossalmente lo ha fatto attraverso dati e argomentazioni inesatti. Qui di seguito ci si preoccuperà di giustificare tale affermazione e, seguendo la traccia suggerita da Champion, di dare un’idea della qualità e della quantità dei contenuti della biblioteca, nonché di gettare uno sguardo sull’attività che in essa si svolgeva. 1. Il catalogo La biblioteca di Benjamin Furly venne venduta, pochi mesi dopo la morte del proprietario, nell’asta che si tenne dal 22 al 27 di Ottobre del 1714 «in Aedibus defuncti in Platea vulgo dicta Haringvliet» come riportato nel frontespizio del catalogo stampato per l’occasione dagli editori Fritsch e Böhm. Di questo catalogo a stampa esistono cinque copie conosciute, di cui tre a Londra e le restanti due rispettivamente ad Amsterdam e negli Stati Uniti8; una di queste, quella conservata alla British Library contiene Lo stesso Hull afferma che i libri contenuti nella biblioteca «… related to early Quakerism and to the mystics and theologians of the seventeenth century and earlier writers, most of whom where regarded as heretics or ‘freethinkers’»; cfr. ivi, p. 137. 6 Cfr. J. chAmpion, The fodder of our understanding: Benjamin Furly’s library and intellectual conversation c 1680-1714, in Benjamin Furly: a quaker merchant, cit., pp. 111-148. 7 Bibliotheca Furliana, sive Catalogus Librorum Honoratiss. & Doctiss. Viri Benjamin Furly, inter quos excellunt Bibliorum Editiones, Mystici, Libri proprii cujuscumque Sectae Christianae, & Manuscripti membranei, Rotterdam, Fritsch & Böhm 1714. 8 Questi sono gli istituti dove le cinque copie, di cui si indica la rispettiva collocazione, sono conservate: la British Library (BL 11901 A.11), la Friends House a Euston (S002.3 FUR), la Senate House Library (ULL GL 1714, n. 5186), l’Haverford College ad Haverford, Pennsylvania (BX7735.F9 B5), e la Bibliotheek van de Vereeniging ter Bevordering van de Belangen des Boekhandels ad Amsterdam; cfr. J. chAmpion, The fodder of our understanding, cit., p. 120n. 5

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

245

a fronte di ogni pagina a stampa una pagina con annotazioni a mano riportanti il nome degli acquirenti e il prezzo a cui i lotti sono stati battuti9. L’indice del catalogo suddivide i circa 4446 lotti di libri (e si sottolinea ‘lotti’, dal momento che la numerazione adottata dal catalogo è relativa ai lotti e non sempre ad ogni singolo lotto corrisponde un solo libro) in dieci categorie principali: Theologia, Historia Ecclesiastica, Historia Profana &c., Philosophia, Grammatica, Miscellanei, Manuscripti, Praetermissi & Omissi, Manuscripti Omissi, Libri Incompacti. A questi si aggiunge la categoria Curiositates, che raccoglie 60 lotti di oggetti e curiosità varie appartenuti a Furly. I lotti sono poi ulteriormente suddivisi in base al formato (fatta eccezione ovviamente per le categorie Manuscripti, Manuscripti Omissi e Libri Incompacti) e alla lingua. La categoria Theologia, quella che in questa sede interessa, comprende, con i suoi 2229 lotti, la porzione più consistente della biblioteca di Furly (i lotti appartenenti alle altre quattro categorie principali, Historia Ecclesiastica, Historici, Politici, Itinerarii, Geographi, etc., Philosophi, Mathematici, Chronologici, Medici, etc. e Lexicographi et Grammatici, messi insieme raggiungono il numero di 1482), ed è articolata in tre sottocategorie principali: Biblia, Theologia Judaica, Theologia Christiana; a loro volta queste sono suddivise in altre categorie: Biblia raccoglie Bibliorum Textus & Versiones, Libri Separati, Interpretes; Theologia Christiana comprende al suo interno Tractatus de Veritate Religionis Christianae, Concilia et Patres, Catholici, Lutherani, Reformati, Remonstrantes, Mennonitae, &c. e Mystici, Spirituales, Quackeri, Enthusiastae, Prophetae, &c… Per avere un’idea più dettagliata del tono della sezione teologica della biblioteca non ci si può fermare qui. Bisogna infatti sfogliare le pagine del catalogo ed esaminare quali siano effettivamente le categorie adottate per suddividerne il contenuto. Lo schema qui di seguito dà un’immagine più esatta della categoria Theologia di quanto non faccia il solo indice del catalogo. Per ogni sottocategoria sono riportati tra parentesi il numero dei lotti.

9 È la copia che mi è stato possibile consultare in microfiche microfiche alla Koningklijke Bibliotheek dell’Aja. Hull riporta come questa copia venne donata al British Museum insieme al Liber Inquisitionis Tholosanae dall’arcivescovo Secker, il quale li aveva acquistati da John Furly, secondo figlio di Benjamin; cfr. W. i. huLL, Benjamin Furly, cit., p. 137.

246

fmancesco giannini

Theologia (2229) -Biblia (tot. 439)

Bibliorum Textus et Versiones (tot. 72) Bibliorum Textus Hebraicus (5) Bibliorum Versiones Grecae et Latinae (13) Bibliorum Versiones Gallicae (5) Bibliorum Versiones Italicae et Hispanicae (5) Bibliorum Versiones Germanicae et Bohemicae (6) Bibliorum Versiones Belgicae (10) Bibliorum Versiones Anglicae (9) Bibliorum Versiones Danicae, Suecicae, Moscoviticae, Indicae (7) Bibliorum Editiones Polyglottae (4)

Bibliorum Libri Separati (tot.142)

Libri Veteris Testamenti (32) Novi Testamenti Textus Graecus (24) Novi Testamenti Versiones Latinae, Syriacae, Gothicae, etc. (10) Novi Testamenti Versiones Gallicae et Italicae (10) Novi Testamenti Versiones Germanicae et Helveticae (11) Novi Testamenti Versiones Belgicae (25) Novi Testamenti Versiones Anglicanae et Hibernicae (9) Novi Testamenti Hungaricae, Hebraicae, Graecae Vulgares et Indicae (5) Harmoniae Evangelicae, Epistolae et Evangelia et caeteri Libri Separati Novi Testamenti (10) Libri Apocryphi tum Vet. Tum Novi Testamenti (6)

Interpretes Bibliorum (tot. 225)

Rabbini, seu Bibliorum Interpretes Judaei (7) Bibliorum Interpretes Christiani, ac primum Generales (8) Interpretes Veteris Testamenti (51) Interpretes Novi Testamenti (74) Expositiones Criticae Variorum S. Scripturae Locorum (17) Tractatus Historico-Critico-Theologici de S. Scripturae Libris, Textu, Versionibus, Autoritate, Divinitate, Stylo, Interpretatione, Lectione, etc. (37) Concordantiae, Indices, et Dictionaria Biblica (31)

-Theologia Judaica (tot. 30)

Judaeorum Libri Theologici (13) Tractatus de Judaeorum Ritibus (6) Tractatus de Judaeorum Cabbala (4) Tractatus Polemici adversus Errores Judaeorum (7)

-Theologia Christiana (tot. 1760)

Tractatus Isagogico-Apologetico-Demonstrativi de Veritate Religionis Christianae (30)

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

247

Concilia et Patres Ecclesiastici (tot. 83)

Concilia et Synodi (10) Patres Ecclesiastici, tum Graeci, tum Latini, eorumque Collectiones (73)

Theologici (tot. 1647)

Catholici, Luterani, Reformati, Remonstrantes, Mennonitae, etc. in folio (48) Mystici, Spirituales, Quakeri, Prophetae, etc. in folio (35) Catholici, Luterani, Reformati, Remonstrantes, Mennonitae, Antitrinitarii, etc. in quarto (210) Theologi Latin., Ital., Hispan., Gallic. (48) Theologi Belgici (39) Theologi Germanici (27) Theologi Anglici (102) Theologia, vulgo dicta Quakeriana (56) Theologi Latini in Octavo, et minori Forma (178) Theologi Gallici in Octavo, et minori Forma (93) Theologi Belgici in Octavo, et minori Forma (268) Theologi Germanici in Octavo, et minori Forma (160) Theologi Anglicani in Octavo, et minori Forma (295) Prophetici Anglici in Octavo, et Minori Forma (14) Theologi vulgo dicti Quakeriani, in Octavo et minori Forma, Anglici (74)

Prima di approfondire l’analisi occorre fermarsi un momento. Se si osserva lo schema con un minimo di attenzione si notano alcune discrepanze, e non solo rispetto a quanto riportato nell’indice (cosa d’altra parte prevedibile e senza conseguenze importanti), ma riguardo alla stessa organizzazione delle categorie. Soprattutto all’interno della sottocategoria Theologia Christiana. Nella terza sotto-sottocategoria, Theologici, avviene qualcosa di sospetto: il titolo sotto cui viene raggruppata la prima serie di lotti è Catholici, Lutherani, Reformati, Remonstrantes, Mennonitae, etc. in folio, il secondo riporta la dicitura Mystici, Spirituales, Quakeri, Prophetae, etc. in-folio, il terzo Catholici, Lutherani, Reformati, Remonstrantes, Mennonitae, Antitrinitarii, etc. in-quarto; tutte e tre le serie dispongono i lotti in ordine alfabetico secondo il nome dell’autore, senza curarsi del formato o della lingua. Poi il criterio cambia improvvisamente e i lotti vengono ripartiti sotto titoli che riportano semplicemente il termine Theologi e la lingua (ma non il formato, che è in-4°); di seguito compare il titolo Theologia, vulgo dicta quakeriana, a includere i libri (in-4° anche questi) ad opera di quaccheri; poi una serie di titoli nella forma «in Octavo et Minori Forma Theologi» e la lingua (da notare che il formato è riportato in testa al titolo, diversamente da quanto avviene per

248

fmancesco giannini

i volumi in-4°); infine i titoli Prophetici Anglici in octavo et Minori Forma e Theologi vulgo dicti Quakeriani, in Octavo et Minori Forma, Anglici (notare anche in questo caso la differenza rispetto al titolo sotto cui vanno i libri quaccheri in-4°). Sembra quasi che colui che si è occupato di suddividere in categorie il materiale della biblioteca si sia ritrovato in difficoltà davanti alla sezione più numerosa delle opere teologiche e che, dopo aver iniziato a organizzarla secondo orientamento religioso, si sia accorto della scarsa convenienza di questo criterio e sia passato a quello, certamente più agevole, secondo formato e lingua, alludendo genericamente al contenuto con il termine Theologi e ricorrendo alla discriminante della confessione religiosa solo nel caso meno ambiguo, quello delle opere quacchere (riservando però, e anche questa scelta non è molto chiara, un posto a parte anche ad alcuni scritti profetici in inglese in-8° o formato minore). Sfogliando le pagine del catalogo poi, non è affatto raro imbattersi in ‘incongruenze’, quali possono essere la presenza di più libri identici catalogati in classi differenti o la presenza di Utopia di Thomas More (Parigi, de Gourmont, 15--, 8) tra gli Interpretes Novi Testamenti10. Tralasciando il fatto che di almeno un paio di manoscritti la cui presenza nella biblioteca è accertata, La Vie de Benoit de Spinosa e L’Esprit de M. Spinosa, non si ha alcuna traccia nel catalogo11, ciò che voglio dire è che certe ‘imprecisioni’ nella ripartizione e classificazione dei libri dovrebbero mettere in guardia chi volesse analizzare il contenuto del catalogo soltanto in base alle intestazioni delle categorie in cui esso è suddiviso. Ma soprattutto, se si è interessati a stabilire quanti siano i testi eterodossi presenti nella biblioteca, i titoli di categorie e sottocategorie del catalogo non tornano molto utili, dal momento che, nella maggior parte dei casi, non forniscono alcuna indicazione in proposito. Ora, sono state contate da Champion circa 160 opere ‘non ortodosse’ tra tutte le categorie appartenenti a Theologia12. Probabilmente ha ricavato questo numero sommando le opere presenti nelle quattro categorie Mystici, Spirituales, Quakeri, Prophetae, etc. in-folio, Theologia, vulgo dicta Quakeriana, Prophetici, Anglici 10

libri.

Bibliotheca Furliana, cit., p. 21 lotto 208, comprendente anche altri due

11 Con tutta probabilità erano stati accuratamente lasciati fuori dall’asta e presi in custodia da Fritsch e Böhm, al pari forse di altri testi troppo arditi presenti nella biblioteca. Sui due documenti cfr. infra. 12 Cfr. J. chAmpion, The fodder of our understanding, cit., p. 122.

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

249

in-Octavo et Minori Forma e Theologi vulgo dicti Quakeriani, inOctavo et Minori Forma, Anglici, i cui lotti ammontano, tutti insieme, a 179. Non si capisce, però, perché si sia continuato a ritenere quel dato valido anche dopo che si è constatato che, all’interno delle altre categorie di Theologia Christiana (ma anche in Biblia) sono presenti in grande quantità libri di contenuto non proprio ‘ortodosso’. A dire il vero, anche solo guardando ai titoli della prima e della terza delle sottocategorie dei Theologici, che includono i termini ‘Mennonitae’ e ‘Antitrinitarii’, si dovrebbe dubitare dell’esattezza di quella cifra (senza contare il fatto che in Mystici, Spirituales, Quakeri, Prophetae, etc. in-folio sono presenti, tra gli altri, anche scritti del calvinista Richard Baxter e di Francesco di Sales)13. Certo, si potrebbe discutere su dove cada il discrimine tra ortodossia ed eterodossia e sui requisiti necessari ad un’opera o ad un autore per essere inclusi nell’ordine dei ‘non-ortodossi’. Ma non è necessario arrivare a tanto. Forse Caspar Schwenkfeld, Giordano Bruno, Quirinus Kuhlmann14, che lo stesso Champion pure ha rilevato15, sono da considerare autori ‘ortodossi’? Già tra i Novi Testamenti sono presenti un N.T. Germanice, ex Johannis Crellis et Joach. Stegmanni versione (Racoviae, 1630), ovvero una versione sociniana del Nuovo Testamento, e un Novum Testamentum, Anglice, ex Versione Veteri ad usum Lollardorum, seu Wiclefistarum (Manuscripti in membranis)16. E che dire, solo per citarne alcuni, dei vari William Erbery, John Biddle, Edward Herbert di Cherbury, Theaurau John (alias Thomas Tany), Bernardino Ochino, Michele Serveto, Jean de Labadie, John Saltmarsh, Gerrard Winstanley17, il tutto mescolato con opere e autori cattolici, luterani, calvinisti e anglicani? A questo punto si sarà compreso che per farsi un’idea dei reali contenuti della sezione Theologia del catalogo, di quale sia il rapporto quantitativo tra ‘ortodossia’ ed ‘eterodossia’ al suo interno e della estrema commistione tra opere appartenenti ad ogni sfumatura dell’arco della religione cristiana, non c’è altro modo Bibliotheca Furliana, cit., p. 57 lotti 589, 590, 596. Ivi, p. 56 lotto 576 e p. 137 lotti 649-656, p. 141 lotto 714, p. 135 lotto 615 e p. 143 lotto 752. 15 Cfr. J. chAmpion, The fodder of our understanding, cit., pp. 124-126. 16 Bibliotheca Furliana, cit., p. 13 lotto 130 e p. 15 lotto 158. 17 Ivi, p. 67 lotti 710 e 718, p. 69 lotti 740 e 741, p. 86 lotto 955, p. 98 lotto 31, p. 104 lotti 116-123, p. 111 lotti 225-234, p.153 lotti 916-920, p. 157 lotto 979. 13

14

250

fmancesco giannini

che analizzarne attentamente le singole pagine. Pagina 89 ad esempio, nella sottocategoria Theologi Anglici, 4°: il lotto 987 è Anti-paedobaptism being a full Review of infant Baptism (London, 1657) del battista John Tombes, il 988 è The Levellers standard advanced, with others treatises, il manifesto dei Diggers e altri scritti di membri del movimento, il 990 e il 991 sono due opere del puritano Peter Sterry, il 992 è The Works of St. Theresa of Jesus (1675), il 993 raccoglie vari trattati di Edward Stillingfleet, esponente di spicco della chiesa Anglicana, il 995 e il 996 varie opere del puritano John Smyth, il 997 è Sufficiency of the Spirits Teachings without Human Learning (London, 1635) del battista Samuel Howe, il 998 e il 999, infine, sono Bloudy Tenent of Persecution for Cause of Conscience (1644) e Bloudy Tenent yet more Bloudy (Lond. 1652) di Roger Williams, forse il più celebre dei Seekers. Nella stessa sottocategoria poi sono presenti anche un gran numero di opere di Jakob Böhme, praticamente tutti i suoi scritti in traduzione inglese18, oltre ad una Collection of Divers Treatises of Ranters and Muggletons e ai Works and Tryalls (London 1645) di John Lilburne (London, 1645)19. Se si osserva l’intera sottocategoria, tra i 102 lotti presenti circa una trentina sono relativi a opere che possono essere definite ‘eterodosse’. Certo, dato che si tratta di libri in lingua inglese, la concentrazione di eterodossia risulta più elevata rispetto ad una sottocategoria che raccoglie testi in latino. Se d’altra parte si prova a fare una rassegna dei titoli contenuti nella sottocategoria Theologi Latin. Ital. Hispan. et Gallic. si scopre che tra i 48 lotti da essa contenuti quindici sono relativi ad opere cattoliche (tra cui Tommaso da Kempis, Tommaso d’Aquino, Erasmo e perfino un Calendarium, Regula, Constitutiones & Ordinarium Canonicorum Regularium Congregationis Sancti Salvatoris, Ordinis sancti Augustini, pubblicato a Roma nel 1549 e proveniente «ex Bibliotheca Papae Romani Alexandri Vi»)20, almeno sette a personalità calviniste tra cui Cocceius, Witsius, Vossius e Girolamo Zanchi21, quattro ad autori luterani22; e poi tre ad opere di Fausto Socino23, due di parte Ivi, pp. 91-92, lotti 1029-1040. Ivi, p. 92, lotti 1042 e 1043. 20 Ivi, p. 76 lotti 832-837, p. 77 lotti 848 e 852, p. 78 lotto 864, p. 79 lotti 872-874 e 877-879. 21 Ivi, p. 77 lotti 840, 846, 847 e p. 78 lotti 862, 867-870. 22 Ivi, p. 77 lotti 843, 845, 851, p. 78 lotto 860. 23 Ivi, p. 78 lotti 855-857. 18 19

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

251

arminiana24, due al collegiante Petrus Serrarius25, uno ad Edward Herbert di Cherbury26, uno a John Wyclef27, uno all’evangelista Giovanni28, due, addirittura, e questa è un’altra bizzarria, ad autori ebrei (uno dei quali è Moseh Maimonide)29; sono presenti inoltre, con un lotto a testa, Pierre Bayle30 e Richard Simon31 (sotto il nome di ‘Prieur de Bolleville’), l’uno calvinista e l’altro cattolico, ma difficilmente considerabili ‘ortodossi’32. A questo punto almeno tre cose dovrebbero essere chiare: primo, che le opere eterodosse sono molte di più delle «only some c.160» contate da Champion33; secondo, che l’ordinamento di scritti di orientamento tanto diverso sotto la categoria unica di Theologia (che non è affatto chiaro se sia stato stabilito dallo stesso Furly) sembra dettato più da ragioni di comodità che non, come sostenuto da Champion, da un’ottica imparziale verso le confessioni cristiane (che pure Furly possedeva); terzo, che le opere ascrivibili alla ‘zona ortodossa’ del cristianesimo sono sì più numerose di quelle dello ‘schieramento eterodosso’, ma non in maniera schiacciante come affermato sempre da Champion e, soprattutto, per motivi diversi da quelli da lui addotti. Infatti, una volta attribuito agli scritti di orientamento ortodosso una preponderanza così netta, Champion giustifica questo dato, sorprendente per una biblioteca da tutti ritenuta ‘eretica’, spiegando come il pensiero radicale si formi a partire da un ribaltamento, da una distorsione dell’ortodossia. Ora, questo meccanismo di distorsione del pensiero dominante al fine di formare un armamentario concettuale da rivolgere contro l’‘ortodossia’, è certamente un tratto comune nel fenomeno radicale (religioso e non). Ma non sembra essere il caso di Furly. La sua biblioteca conteneva in prevalenza materiale ortodosso per il semplice fatto che il proprietario si interessava dell’argomento ‘religione’ nel suo complesso, senza badare al discrimine ortodossia/eterodossia, e ricercava con avidità Ivi, p. 77 lotto 849 e p. 78 lotto 859. Ivi, p. 77 lotti 841-842. 26 Ivi, p. 78 lotto 861. 27 Ibidem, lotto 866. 28 Ivi, p. 76 lotto 838. 29 Ivi, p. 79 lotti 871 e 875. 30 Ivi, p. 78 lotto 863. 31 Ivi, p. 79 lotto 876. 32 Non mi è stato possibile stabilire con esattezza l’identità degli autori delle opere incluse nei rimanenti 7 lotti. 33 Cfr. J. chAmpion, The fodder of our understanding, cit., p. 122. 24 25

252

fmancesco giannini

tutto ciò che veniva pubblicato al riguardo (e che a suo giudizio valesse la pena acquistare, ovviamente). E, inutile dirlo, si pubblicavano molti più libri dai contenuti ortodossi che non scritti ‘eretici’. Detto questo, non è troppo difficile credere che, anche se inevitabilmente minore rispetto alla massa del materiale ‘ortodosso’, quella contenuta dalla biblioteca di Furly fosse una delle collezioni di letteratura eterodossa più vaste e ricche e dell’epoca. Il metodo utilizzato da Furly per costruire il suo pensiero eterodosso, come testimoniato in maniera inequivocabile in alcune sue lettere inviate a John Locke34, passa per una via diversa da quello della distorsione dell’ortodossia: egli preferisce comparare con ottica quasi scientifica le varie confessioni, chiese e sette cristiane, trattandole come un fenomeno di degradazione dell’originale spirito cristiano. Uno spirito che egli si propone di ritrovare compiendo una strada autonoma, individuale, che lo vede confrontarsi senza mediazione e con il solo uso della ragione direttamente con la sorgente della religione cristiana, il testo biblico. A fornirgli gli strumenti in questo suo approccio individuale e critico alla religione cristiana era quella parte della biblioteca che nel catalogo è raccolta sotto la categoria Biblia: circa 459 titoli (suddivisi in 439 lotti) ripartiti tra Bibliorum Textus et Versiones, Bibliorum Libri Separati e Interpretes Bibliorum. Si potrebbe dire che le prime due contengano il vero e proprio materiale su cui Furly lavorava: più di duecento tra bibbie in più di una dozzina di lingue e anche in edizioni poliglotte (tra cui quella a cura di Elias Hutter e quella di Brian Walton35) e circa 143 libri separati della Bibbia, di cui 33 parte del Vecchio Testamento, circa 95 Nuovi Testamenti, una decina di Harmoniae Evangelicae, Epistolae et Evangelia et caeteri Libri Separati Novi Testamenti e 6 Libri Apocryphi tum Veteri tum Novi Testamenti, anch’essi in uno svariato numero di lingue. Il medesimo carattere poliglotta è proprio anche della terza sotto-categoria, quella che raccoglie libri di contenuto più propriamente ‘tecnico’, circa 334 titoli tra interpreti (sia del Vecchio Testamento che del Nuovo Testamento, da Tommaso d’Aquino a Jacob Böhme, dai rabbini a Calvino, da Giovanni Crisostomo a David Joris), Expositiones Criticae Variorum S. Scripturae Locorum (che include testi di Lorenzo Val-

34 Cfr. The Correspondence of John Locke, ed. by E. S. De Beer, Oxford, Clarendon Press 1976-1989, voll. 8. 35 Bibliotheca Furliana, cit., p. 5 lotto 51 e p. 6 lotto 53.

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

253

la, Ugo Grozio e Moseh Maimonide36), Tractatus Historico-CriticoTheologici de S. Scripturae Libris, Textu, Versionibus, Autoritate, Divinitate, Stylo, Interpretatione, Lectione, etc. (all’interno del quale si trovano sei opere di Richard Simon37, tra cui l’Histoire Critique du Vieux Testament (Rotterdam, Leers, 1685) e l’Histoire Critique du Texte, des Versions, et des Commentateurs du N. Testament (Rotterdam, Leers; 1689-1693) e Concordantiae, Indices et Dictionaria Biblica). Lo strumento a cui Furly faceva ricorso nella sua ricerca era fondamentalmente quello della comparazione. La sua bibliomania, il collezionare così tante versioni in così tante lingue diverse (e non solo del testo biblico ma anche dei testi interpretativi) rispondeva alla necessità di raggiungere la ‘vera’ versione della Scrittura e della religione cristiana: per giungere al nocciolo confrontava e faceva scontrare tutte le differenti versioni e interpretazioni (comprese quelle della tradizione ‘originale’, quella ebraica) affinché le ‘impurità’ emergessero e potessero essere rimosse, così da arrivare a contemplare solo quanto vi era di autentico38. Finora non lo si è detto, ma lotti relativi ad opere non proprio conformi all’ortodossia (che sia cattolica o riformata non importa), sebbene spesso non di argomento strettamente teologico, sono disseminati in buon numero anche in altre categorie del catalogo. Per quanto concerne Historia Ecclesiastica, che contiene testi che trattano ogni periodo e argomento della storia del Cristianesimo, dai primi secoli all’inizio del XVIII secolo (ma probabilmente è la storia della Riforma e dei movimenti ereticali a fare la parte del leone), in essa sono presenti non solo titoli del calibro del Discorso dell’Origine, Forma, Leggi ed Uso dell’Ufficio Ivi, p. 31 lotti 330-333. Ivi, p. 32 lotti 336-338 (il solo lotto 336 contiene quattro volumi). 38 Un esempio del modo di procedere di Furly, nonché della sua estrema minuziosità nella critica biblica, lo si trova nella sua lettera a Locke datata 23 Febbraio/4 Marzo 1692: qui infatti richiede all’amico informazioni su di un manoscritto in lingua greca citato da Henry Hammond in A Paraphrase and Annotations upon all the Books of the New Testament, spiegandogli come desideri scoprire quale sia la parola esatta all’inizio di I Pet. 3,20 e come non gli sia stato possibile fino ad allora stabilirlo con certezza dato che vari i testi da lui consultati, ovvero la Biblia Poliglotta (Londra, Roycroft 1657) di Whalton, il Nuovo Testamento di Teodoro di Beza, l’edizione Complutense del NT (1514) e quella di Oxford, la Bibbia autorizzata dagli Stati Generali d’Olanda e il NT di Christian Hartsoecker (1680), non hanno chiarito i suoi dubbi in proposito; cfr. The Correspondence, cit., IV, p. 393. 36 37

254

fmancesco giannini

dell’Inquisitione (1639) di Paolo Sarpi39, ma anche la stragrande maggioranza delle opere di Bayle possedute da Furly: quattordici scritti40, tra cui la Lettre sur les Cometes (Cologne, 1682) e il Commentaire Philosophique sur ces Paroles, Contrain-les d’entrer (1686). C’è anche uno dei numerosi testi cabalistici presenti nel catalogo, ovvero l’Amphiteatrum aeternae Sapientiae. CristianoKabalisticum, Divino-Magicum, Physico-Chymicum, TertiunumCatholicon (Hannover 1609)41, l’opera più importante di Heinrich Khunrath, medico ed alchimista seguace di Paracelso, il cui nome, tra l’altro, venne utilizzato come pseudonimo per il frontespizio della prima edizione, a cura di Jan Rieuwertsz, del Tractatus Theologico-Politicus (Amburgo in realtà Amsterdam, 1670) di Spinoza42. Proprio quest’ultimo non poteva non essere presente nella biblioteca di Furly. Eccolo infatti ben rappresentato, nella categoria Philosophi, Mathematici, Chronologici, Medici, &c., con i suoi Opera Posthuma (1677), contenenti la prima edizione dell’Ethica in latino, il Tractatus Teologico-Politicus (Amburgo 1670), De Uytlegster der H. Schriftuure (Vrystadt, 1667), Regtfinnige Theologant, of Godgeleerde Staatkunde (Bremen, 1694) e l’edizione in lingua olandese degli Opera Posthuma, ovvero i Nagelate Schriften (1677)43. Da non passare sotto silenzio è anche la presenza, nella stessa categoria, di opere di Thomas Hobbes, tra cui il Leviathan, or the Matter, Forme and Power of a common Wealth, Ecclesiastic. And Civil (London, 1651), State of Nature (London, 1685) e la sua autobiografia in latino Vita Thomae Hobbes, Angli, Malmesburiensis Philosophi (Carolopoli [sic], 1681)44. De39 Bibliotheca Furliana, cit., p. 168 lotto 55. Di Sarpi Furly possedeva anche due copie della Historia del Concilio Tridentino (Ginevra, 1629), nonché una traduzione inglese dell’Historia, a c. di Nathanael Brent ed edita a Londra nel 1629, e una traduzione olandese della medesima opera edita ad Utrecht nel 1651; cfr. Bibliotheca Furliana cit., p. 168 lotti 57 e 58, p. 166 lotto 38 e p. 178 lotto 204. 40 Ivi, p. 174 lotti 136-148. Furly possedeva ovviamente anche l’opera capitale di Bayle, il Dictionaire Historique et Critique (Rotterdam 1697), catalogato però sotto Lexicographi et Grammatici; cfr. ivi, p. 270, lotto 6. 41 Ivi, p. 164 lotto 6. 42 Cfr. Trattato dei Tre Impostori. La vita e lo spirito del Signor Benedetto de Spinoza, a c. di S. Berti, Torino, Einaudi, 1994, p. XXVII. 43 Bibliotheca Furliana, cit., p. 244 lotto 79, p. 245 lotto 80, p. 248 lotti 117-119. 44 Ivi, p. 241 lotto 48, p. 267 lotto 343, p. 254 lotto 188.

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

255

gni di nota sono anche l’Essay concerning human Understanding (London, 1690) di Locke45, varie opere di René Descartes, tra cui il Discours de la Methode (Paris, 1658), Les Passions de l’Ame (Paris, 1664) e le Meditations Metaphysiques (Paris, 1661)46 nonché, sotto la categoria Miscellanei, le opere di Anthony Ashley Cooper, tra cui Characteristicks of Men, Manners, Opinions and Times e Sensus Communis, donate a Furly dall’autore stesso47. Insomma, se da un lato non c’è da prestare troppa fede all’indice e alle intestazioni del catalogo della Bibliotheca Furliana, dall’altro l’affermazione riportata nel frontespizio, secondo cui tra i libri della collezione «excellunt Bibliorum Editiones, Mystici,, Libri proprii cujuscumque Sectae Christianae, & Manuscripti membranei», corrisponde senz’altro a verità. 2. La biblioteca-arsenale Furly, lo si è già accennato più volte, non era l’unico ad utilizzare la biblioteca. Champion ha sottolineato con forza, facendo riferimento anche all’Advis pour dresser une bibliothèque di Gabriel Naudé, la valenza sociale del possesso di una buona collezione di libri48. Nel caso di Furly questo aspetto, e lo si capisce guardando alla stretta correlazione tra la sua biblioteca e il ‘misterioso’ circolo della Lantaarn, risulta particolarmente evidente: è difficile in effetti trovare un esempio più chiaro di come le biblioteche private dell’epoca fossero allo stesso tempo serbatoi di idee e spazio di socializzazione. La collezione di Furly era infatti inserita all’interno di un circuito intellettuale di portata europea in cui la ricerca, lo scambio e il traffico di libri erano componenti fondamentali49. Furly era solo uno dei molteplici terminali di questo network e la sua biblioteca solo uno degli arsenali a cui i componenti di questa rete di intellettuali attingevano per procurarsi il proprio armamentario ideale da usare nelle battaglie contro i loro avversari, che erano soprattutto i mastini dell’autorità religiosa e i sostenitori dell’assolutismo. E a dire il vero la biblioteca di Furly, per quanto i suoi circa 4500 volumi la ponessero sopra la media delle biblioteche private dell’epoca per consistenza, non era nemmeno il più 45 46 47 48 49

Ivi, p. 241 lotto 46. Ivi, p. 247 lotti 108-109 e p. 262 lotti 282-284. Ivi, p. 313 lotto 323. Cfr. J. chAmpion, The fodder of our understanding, cit., pp. 127-128. Ibidem.

256

fmancesco giannini

fornito di questi arsenali: sembra infatti che le collezioni di Shaftesbury, Anthony Collins, il Barone De Hohendorf e Eugenio di Savoia disponessero di collezioni ancora più nutrite: il primo sembra possedesse circa 5000 libri, il secondo 7000, il terzo intorno ai 6800 e l’ultimo addirittura 1500050. Uno dei composti più pericolosi prodotti dai ‘laboratori’ di questa connection dell’eterodossia, è il celebre Traité des Trois Imposteurs. Non è qui il caso di dilungarsi sulla storia di questo famigerato testo del primo Illuminismo; ciò che qui interessa è osservare come la biblioteca di Furly fu con tutta probabilità il luogo in cui avvenne l’assemblaggio di questa opera enigmatica e dissacrante, che attacca le tre principali religioni monoteistiche e i loro fondatori, Mosè, Gesù e Maometto. L’opera, edita nel 1719 da Charles Levier con la collaborazione di Rousset de Missy e Jean Aymon, si basa su due testi manoscritti, La Vie de Monsieur Benoit de Spinosa del giornalista francese Jean-Maximilien Lucas (1636?-1697) e l’Esprit de M. Spinosa, che lo stesso Levier copiò nella biblioteca di Furly, dove erano custoditi, nel 171151: al primo avrebbe aggiunto inoltre qualche nota, l’avvertimento e il catalogo delle opere di Spinoza; sul secondo sarebbero invece intervenuti, in maniera più consistente, con aggiunte e ritocchi, Aymon e Rousset de Missy52. Proprio sull’Esprit vale la pena spendere due parole, dato che sembra avere un legame particolare con la biblioteca di Furly. Il suo autore, e vista la gran quantità di prove al riguardo ci sono ormai pochi dubbi53, pare essere stato Jan Vroesen54; è molto proIvi, p. 146. Composta nel 1678 all’indomani della morte del filosofo, La Vie de Monsieur Benoit de Spinosa è la prima biografia di Spinoza a noi nota; cfr. Trattato dei Tre Impostori, cit., pp. XXXii-XL. 52 Per i particolari cfr. ivi, pp. XV-LXXViii. 53 Ibidem. 54 Nato a Rotterdam il 4 Ottobre 1672, il fatidico ‘Rampjaar’, e battezzato nella chiesa vallona, Vroesen apparteneva a una delle famiglie più in vista della città: suo padre, Adriaen, era una figura di spicco nella scena politica di Rotterdam ed aveva ricoperto la carica di borgomastro dal ’71 al ’72, quando venne costretto a dimettersi dal colpo di Stato orangista; lo stesso Jan, laureatosi in legge all’Università di Utrecht, intraprese la carriera diplomatica e fu prima in Francia in veste di segretario di Coenraad Van Heemskerck (dal 1701 al 1702) e poi, dal 1705 membro della corte del Brabante all’Aja. I suoi rapporti con Furly, che dovevano essere abbastanza stretti, sono testimoniati in maniera inequivocabile: un documento datato 9-10 Giugno 1704 attesta il passaggio di proprietà dal padre, Adriaen Vroesen, a Benjohan Furly, figlio 50 51

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

257

babile, vista la vicinanza di questi all’ambiente riunito intorno a Furly, che l’Esprit sia stato composto nel primo decennio del ’700 utilizzando principalmente il materiale messo a disposizione dalla biblioteca di quest’ultimo55: gli argomenti utilizzati da Vroesen per costruire il suo discorso anti-religioso sono infatti ripresi, e spesso distorti, da autori le cui opere erano in larga parte presenti nella collezione di Furly56: Spinoza e Hobbes, che costituiscono l’ossatura dell’Esprit 57, erano, come si è visto sopra, ben di Benjamin, di 967 acri di terra in Pennsylvania, e una lettera di Shaftesbury a Benjamin datata 23 Luglio 1705 contiene un passo in cui il primo manifesta il suo compiacimento per l’avanzamento di carriera del «nostro amico Mr. Vrooson [sic]», che nelle settimane precedenti era stato nominato dapprima membro straordinario (30 Giugno 1705) e poi ordinario (17 Luglio) della corte del Brabante (per l’esattezza, il passaggio della lettera in questione così recita: «I had already congratulated, and do again with great heartiness congratulate our friend Mr. Vrooson’s advancement, and the honourable manner of it. I beg my remembrances and congratulations to the whole family»). Che poi Vroesen fosse, oltre che amico di Furly e Shaftesbury, un personaggio familiare al circolo intellettuale gravitante intorno a Benjamin e avesse dimestichezza con idee eterodosse, specie con quelle dei deisti inglesi, viene indicato dal fatto che l’editore Scheurleer dedicò proprio a lui la prima opera uscita per i suoi tipi, vale a dire l’Essai sur l’usage de la raillerie et de l’enjoument dans les conversations qui roulant sur les matières les plus importantes (La Haye, 1710), traduzione in francese del Sensus communis di Shaftesbury; cfr. Trattato dei Tre Impostori, cit., pp. XLVii- LVi; W. i. huLL, Benjamin Furly, cit., p. 173; Original letters of Locke, Algernon Sidney and Anthony, Lord Shaftesbury, ed. by T. Forster, London, 1830, p. 214. 55 Cfr. Trattato dei Tre Impostori, cit., p. XLVi. 56 Per le fonti dell’autore dell’Esprit cfr. ivi, p. LXii. 57 Per i dettagli sulla struttura dell’Esprit cfr. ivi, pp. LVi-LXXVi. Va detto che il metodo adottato da Vroesen, ovvero utilizzare Hobbes e Spinoza come base su cui innestare in maniera ardita anche autori ortodossi, non era una sua esclusiva. Nel suo Miracles, No Violations of the Laws of Nature (1683), l’inglese Charles Blount, che, al pari di altri autori deisti, Vroesen conosceva, ricorre ad un procedimento analogo, affiancando citazioni da Hobbes e Spinoza con passaggi tratti da scritti di Gilbert Burnet per affermare come i miracoli non abbiano una base empirica. Di Blount Furly possedeva Anima Mundi: Historical Narration of the Opinions of the Ancients concerning Mans Soul after this Life (London, 1679) e Oracles of Reason (1693), cfr. Bibliotheca Furliana, cit., p. 179, lotto 213 e p. 313, lotto 328. Su Blount e la tecnica letteraria del collages di autori vari cfr. d. pfAnner, Charles Blount (1654-1693): la voce di un libero pensatore nella Londra di fine Seicento, in c. frAnceschini, s. TuTino, s. ViLLAni (a cura di), Questioni di Storia inglese tra Cinque e Seicento; cultura, politica e religione, Pisa, Scuola Normale Superiore 2003, pp. 279-295, lo stesso articolo è consultabile anche nella rivista telematica “Cromohs”, all’indirizzo web http://www.cromohs.unifi.it/8_2003/pfanner.html.

258

fmancesco giannini

rappresentati; c’erano poi De la Sagesse (Parigi, 1607) di Pierre Charron58, testi di Tertulliano e Giustino in quantità59, opere di Campanella, tra cui Philosophia Universalis, seu Metaphysicorum Dogmata e Apologia pro Galilaeo60, l’Apologie pour tous les Grands Personnages (L’Aja, 1697) di Gabriel Naudé61. È dunque verosimile supporre che l’autore dell’Esprit si sia servito della biblioteca di Furly, che offriva senz’altro tutto il necessario alla creazione di un testo tanto dissacrante: un ambiente estremamente favorevole alla coltura di idee eterodosse e una collezione di opere teologiche che per quantità e varietà aveva ben pochi rivali tra le biblioteche private dell’epoca. Sull’ambiente dei frequentatori della biblioteca e il tono decisamente informale delle riunioni della Lantaarn si trovano delle tracce nella corrispondenza tra Furly e Locke. Anzi, è proprio nella loro corrispondenza che, a quanto pare, compaiono gli unici riferimenti al nome, altrimenti ignoto, di questo circolo62, il quale, si è pensato, alluda al pamphlet Lucerna Super Candelabrum e all’omonimo gruppo Collegiante e Spinozista olandese63. I riferimenti alla Lantaarn compaiono almeno una mezza dozzina di volte, quasi esclusivamente nelle lettere del periodo compreso tra il 1687 e il 1688, durante il soggiorno di Locke a Rotterdam (ovviamente le comunicazioni per via epistolare avvenivano quando Locke si trovava ad Amsterdam) e solo una volta nel periodo successivo al ritorno di Locke in Inghilterra. Sono parole sporadiche, a volte semplici allusioni al clima conviviale che caratterizzava quelle riunioni64. Se riguardo alla Lantaarn le informazioni sono scarse e a volte poco chiare, molte di più sono quelle che la corrispondenza tra Furly e Locke fornisce riguardo all’universo della Repubblica delle Lettere, agli scambi e ai rapporti che legavano i suoi cittadini. Le epistole che Locke e Furly si scambiarono a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del ’600, sono infatti una vera e propria finestra sulla fitta trama, fondata sui comuni interessi intellettuali, dei rapporti tra il filosofo inglese e il mercante di Rot58 59 60 61 62 63 64

Bibliotheca Furliana, cit., p. 262 lotto 285. Ivi, p. 43 lotti 431-434, p. 47 lotto 473 e p. 48 lotto 478. Ivi., p. 239 lotto 26, p. 245 lotto 89. Ivi, p. 306 lotto 240. The Correspondence, cit., III, p. 316, nota 3. W. i. huLL, Benjamin Furly, cit., p. 87. Cfr. The Correspondence, cit., III, pp. 316-317.

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

259

terdam, e tra costoro e gli altri componenti della rete intellettuale di cui erano parte; una finestra che ci consente di avere un’idea abbastanza precisa dell’uso che si faceva della biblioteca e dell’intensa attività che vi si svolgeva quando la casa di Furly era uno dei centri di snodo di un continuo traffico di libri. La febbrile attività di cacciatori di libri che Locke e Furly conducevano in collaborazione con tanti altri studiosi ed eruditi a loro più o meno prossimi è testimoniata in maniera eloquente in numerosissimi passi della corrispondenza: […] I have in that packet which I received for mr. Le clerc [sic] sent those prints for the Professor Limborgh [sic], Dr. Veen, and Dr. Guenellon-the Inclosed I received Just now from Leers for you […]65,

oppure […] I have spake with Monsieur Bayle who salutes you and assures me that there is no better Edition of Titus Livius nor better notes upon him than in that in usum Delphini, and Leers says the price, being 6 volumes, f45-next to this is Gronovius his Edition but its out of print66.

Furly e i suoi amici più stretti potevano, in ragione dell’intreccio di rapporti personali tra i cittadini della Repubblica delle Lettere, raggiungerne ogni angolo. A ciascuno era così possibile, nella miriade di canali che aveva a disposizione, rintracciare qualsiasi (o quasi) libro di cui fosse alla ricerca per rifornire la propria biblioteca personale e richiedere materiale e informazioni per i propri studi. Il mercante di Rotterdam, con i suoi numerosi contatti e il suo ben collaudato servizio di spedizioni per l’Inghilterra, era uno degli uomini chiave di questa rete intellettuale, come testimoniato anche da una lettera di Jean Le Clerc a Locke, inviata il 25 Agosto 1693, in cui il mittente così si lamenta: […] Mr Furly notre ami, que je croiois infallibile en matiere des paquets à Londres est cause que je n’ai pas pris la voi que je devois prendre, pour envoier mon livre à Mylord Privyseal […]67.

Per avere un saggio del modo in cui Furly si valeva del materiale della sua biblioteca e della collaborazione di Locke per sostenere le proprie tesi e affrontare le aspre battaglie intellettua-

65 66 67

Ivi, V, p. 244. Ivi, p. 240. Ivi, IV, pp. 716-717.

260

fmancesco giannini

li in cui era continuamente coinvolto si può consultare la lunga lettera di Furly al filosofo inglese datata 12 Marzo 1692. In essa, prendendo spunto dalle violente critiche mosse contro l’Inghilterra, contro i Quaccheri e contro lo stesso Furly, da parte dell’autore dell’Histoire abregée de la naissance et du progrez du Kouakerisme (l’accusa contro il quaccherismo è di rigettare l’eucarestia, di esser fuori dal cristianesimo e di essere nient’altro che Deismo), il Nostro si produce in una minuziosa difesa contro quelle accuse infamanti, sostenendo la tesi che l’eucarestia non è una cerimonia istituita da Gesù, bensì una pratica di origine pagana trasmessa dai sacerdoti egiziani agli Ebrei. Quindi afferma di poter provare «by the help of Marsham and Spencer»68 che «there never was any true Religion in such things» e subito di seguito discute puntualmente la traduzione e l’integrità di Luca 22.19, «Do this in remembrance of me», e Luca 22.20, «which is given for you», sostenendo che «[…] is most likely that christ never spoke those words nor yet that Luke ever wrote them, but that they were since lukes times added to the text […]»,, citando a suffragio di ciò anche il Codex Bezae69. Trovandosi a corto di risorse e volendo chiarire i suoi dubbi, subito di seguito Furly chiede a Locke di fornirgli ulteriori informazioni e materiale per le sue ricerche: Two things I request you; first (if you can) to procure me an extract out of Bezas Cambridge Venerable old manusc: of the 22 Luke.v.16 17. 19. 20. Then to tell me what M:S. that is, that Dr. Hammond in his Annotations, calls the Kings m:s […]70.

La possibilità di consultare una quantità sterminata di libri e di discutere con alcune delle maggiori personalità intellettuali della sua epoca, avevano fatto di un mercante come Furly un abile polemista, capace di mettere alle corde anche esponenti del mondo accademico, avversari a prima vista più quotati di lui, ma dotati, per così dire, di armi più convenzionali rispetto a quelle che egli aveva a sua disposizione71. Lo spirito battagliero e la pas68 Ovvero del Chronicus Canon Aegyptiacus (1672) di John Marsham e del De Legibus Hebraeorum (1672) di John Spencer; cfr. ivi, p. 415, nota 5 e p. 416, nota 1. 69 Ivi, pp. 416-417. 70 Ibidem. 71 Basta vedere l’episodio riferito nella lettera di Furly a Locke del 10 Giugno 1689, in cui lo stesso Furly narra come uno studioso di Cambridge non

la lettematuma madicale nella biblioteca di benJamin fumlw

261

sione intellettuale non sarebbero bastati a Furly per raggiungere tale livello. Fu il suo armamentario concettuale, costruito grazie al continuo addestramento in quella palestra dell’eterodossia che era la sua biblioteca, a fare di lui un baluardo della tolleranza e della libertà di coscienza.

avesse saputo ribattere alle sue argomentazioni nel corso di una discussione sul Patriarcha di Robert Filmer. Cfr. ivi, III, p. 639.

Riccarda Suitner ATEISMO E PIETISMO IN UN DIALOGO ANONIMO DELLA FRÜHAUFKLÄRUNG*

1. Fontenelle in Germania: i «Totengespräche» Nel Settecento tedesco molti autori cedettero alla moda di scrivere dialoghi ‘nel regno dei morti’. Se a scatenare il fenomeno nelle sue proporzioni più vaste fu soprattutto il successo dei dialoghi pubblicati da David Faßmann a partire dal 1718 in forma di periodico, a porne le premesse era stata la sempre crescente diffusione dei Nouveaux dialogues des morts di Fontenelle1. Questa fortuna in età moderna non è naturalmente limitata all’area franco-tedesca. Innestandosi di volta in volta in epoche e contesti differenti, il genere si presta infatti a dar luogo a esiti estremamente originali. Si pensi anche solo alle pressoché dimenticate composizioni in italiano dello svedese Lorenzo Ignazio Thjulen in cui, con un inedito intreccio tra dialoghi dei morti e letteratura anti-illuminista, l’abate compiva la spregiudicata operazione di affidare a Voltaire il compito di demonizzare l’«empia filosofia del secolo decimo ottavo»,

* Sono debitrice di suggerimenti e consigli specifici alla dott.ssa Irene Bischoff del Universitäts- und Stadtbibliothek di Colonia e ai proff. Marino Freschi e Martin Mulsow. 1 D. fAßmAnn, Gespräche im Reiche der Toten, Leipzig, Deer 1718-1739. Sul pubblicista tedesco cfr. k. kAschmieder, David Faßmanns “Gespräche im Reiche der Toten” (1718-1740). Ein Beitrag zur deutschen Geistes- und Kulturgeschichte des 18. Jahrhunderts, Breslau, diss. univ. 1934; N. eckhArdT, Arzt, Medizin und Tod im Spiegel der von David Faßmann (1683-1744) in den Jahren 1718 bis 1739 herausgegebenen Zeitschrift “Gespräche in dem Reiche derer Todten”, Düsseldorf, diss. univ. 1987 e L. LindenBerg, Leben und Schriften David Faßmanns (1683-1744) mit besonderer Berücksichtigung seiner Totengespräche, Berlin, Ebering 1937.

264

miccamda suitnem

restituendoci un filosofo pentito del suo passato ateismo e di tutte le bassezze che in vita hanno indirizzato il suo agire2. È tuttavia nella Germania settecentesca che nasce una vera e propria corsa alla produzione di Totengespräche, che ebbe come esito la pubblicazione di centinaia di dialoghi, anche se l’approssimazione delle liste pubblicate non permette per ora di avere un’idea precisa del loro numero3. I diversi interessi degli autori e le differenti tipologie di pubblico destinatario di questi testi conferiscono ai dialoghi dei morti tedeschi una fisionomia straordinariamente varia ed eterogenea. Papesse leggendarie, celebri pittori o anche semplici bottegai si poterono ritrovare protagonisti di dialoghi dei morti; perfino un sovrano, Federico II di Prussia, si volle cimentare nella loro redazione, ponendo spregiudicatamente a confronto Madame de Pompadour e la Vergine Maria4. All’esistenza di un ristretto gruppo di Totengespräche in cui vengono tematizzate questioni controverse del primo Settecento ha accennato Martin Mulsow in un libro del 2002, che ha molto contribuito a colmare il vuoto esistente negli attuali studi su molte personalità di questa prima fase dell’Illuminismo tedesco. Lo studioso, riferendosi a tre di questi dialoghi, ipotizza che po-

2 L. I. ThJuLen, Dialogo quarantesimo quinto fra Maria Francesco Arouet de Voltaire ed Onorato Maria Ricchetti, conte di Mirabeau, in Dialoghi nel regno de’ morti, vol. XII, Roma, presso Pietro Manna 1834-35, pp. 87-88. 3 Cfr. la lista di J. ruTLedge, The Dialogue of the Dead in EighteenthCentury Germany, Bern-Frankfurt am Mein, Lang 1974, pp. 133-166, e quella di J. s. egiLsrud, Le ‘Dialogue des Morts’ dans les littératures française, allemande et anglaise (1644-1789), Paris, L’entente Linotypiste 1934, pp. 205207. Lo studio di Rutledge è l’unica monografia che tenti una considerazione di insieme dei Totengespräche tedeschi del Settecento. 4 Mi riferisco rispettivamente ai dialoghi: J. z. gLeichmAnn, Curiöses Gespräch im Reiche der Todten, zwischen der Päpstin Johanna, und dem berühmten Friderico Spanhemio […], Franckfurt und Leipzig, s.n. 1741; [g. W. knorr], Historische Künstler-Belustigung oder Gespräche in dem Reiche derer Todten, zwischen denen beeden Welt-bekannten Künstlern Albrecht Dürer und Raphael de Urbino […], Nürnberg, bey Georg Wolffgang Knorr 1738; [J. J. BAuer], Gespräch im Reich der Todten zwischen dem Buchhändler Johann Jacob Bauer und dem Kaufmann L*** […], Nürnberg, Martin Jacob Bauer 1770, rist. anast. in Der Buchmarkt um die Mitte des 18. Jahrhunderts, München, Kraus International Publications 1981; friedrich ii. könig Von preussen, Totengespräch zwischen Madame de Pompadour und der Jungfrau Maria, a c. di G. Knoll, Berlin, Spitz 2002 (ed. or. Dialogue des morts entre Madame de Pompadour et la Vierge Marie, in Oeuvres posthumes de Fréderic II, Roi de Prusse, vol. V, Londres, chez G. G. J. & J. Robinson 1789).

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

265

trebbero essere dello stesso autore, e sottolinea come l’argomento attenda ancora studi specifici5. Tra le centinaia di dialoghi dei morti settecenteschi mi è stato in effetti possibile isolare un gruppetto di dialoghi filosofici dalle caratteristiche affini, di cui si riscontra una particolare concentrazione tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta del Settecento. Si tratta di dialoghi usciti quasi sempre anonimi ed esplicitamente richiamantisi alla tradizione lucianea e fontenelliana, che avrebbero sancito l’intreccio tra l’ormai popolarissimo genere e le dispute filosofiche più recenti, determinando l’ingresso ‘nel regno dei morti’ dei maggiori pensatori della Frühaufklärung. È lo stesso schema a presiedere per esempio agli incontri tra Christian Thomasius e August Hermann Francke, René Descartes e Andreas Rüdiger, Nikolaus Hieronymus Gundling e Johann Franz Budde (protagonisti di due dialoghi), Johann Friedrich Mayer e Johann Wilhelm Petersen, ancora Budde e Gottfried Wilhelm Leibniz6. A parte pietismo e ateismo (di filosofi antichi e moderni), che sono i grandi temi che fanno da sfondo a tutti i dialoghi, i protagonisti si addentrano in complesse conversazioni che rispecchiano il dibattito tedesco ed europeo dei primi del Settecento: si

5 m. muLsoW, Moderne aus dem Untergrund. Radikale Frühaufklärung in Deutschland 1680-1720, Hamburg, Meiner 2002, pp. 309-310. Le notizie possedute da Mulsow riguardano un dialogo tra Christian Thomasius e August Hermann Francke, uno tra Leibniz e Johann Franz Budde e un riferimento, da parte del biografo di Nikolaus Hieronymus Gundling, Carl Friedrich Hempel, a una conversazione tra lo stesso Gundling e Budde intitolata Examen rigorosum zwischen Budde und Gundling im Totenreich. Per i titoli di questi dialoghi cfr. la nota sg. 6 I dialoghi si intitolano rispettivamente: Besonders curieuses Gespräch im Reich der Todten, zwischen […] Christian Thomasio,[…] und August Hermann Francken […], s.l., s.n. 1729; Curieuses Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Rüdigern, und […] Cartesio, s.l., s.n. 1731; ALeTophiLus, Examen rigorosum, welches Apollo, zwischen […] Nicolao Hyeronimo Gundlingen, […] und Sr. Magnificentz, dem Hoch-Ehrwürdigsten Herrn Joh. Francisco Buddeo, […] nach deren Tode […] beschrieben wird, registriret und promulgiret, von Aletophilo, des Apollinis geheimbten Staats-Secretario, s.l., s.n. 1731; Besonderes Gespräch in dem Reiche derer Todten, zwischen D. Nicolao Hieronymo Gundlingen, […] und Johanne Francisco Buddeo […], Franckfurt, s.n. 1731; Curieuses Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Johann Friedrich Mayern […] und Johann Wilhelm Petersen […], s.l., s.n. 1731; Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, s.l., s.n. 1730. Si discosta per alcuni aspetti da questo gruppo di dialoghi quello tra Leibniz e Thümmig cui si accennerà in seguito (cfr. infra, pp. 271-272).

266

miccamda suitnem

parla ad esempio di apocatastasi, filosofia wolffiana, rapporti tra mente e corpo e tra matematica e filosofia, spinozismo, socinianesimo, filosofia cinese, manoscritti ‘clandestini’. Ogni discussione tra i filosofi che sono chiamati a parlare in questi dialoghi si incentra principalmente su uno o pochi temi principali, ma viene trattato anche solo incidentalmente uno spettro amplissimo di questioni, che spesso trovano un più disteso sviluppo in uno dei dialoghi coevi7. L’occasione della composizione dei dialoghi è quasi sempre la morte di uno dei due interlocutori, di cui l’autore talvolta descrive l’arrivo nell’aldilà, soffermandosi sull’ovvia condizione di spaesamento che l’ingresso in questo nuovo ambiente può comportare. La logica con cui vengono scelte le coppie di dialoganti è sempre la stessa: uno di loro è stato in vita di orientamento pietista, e saranno essenzialmente le sue divergenze con l’altro interlocutore a garantire la messa in scena di brillanti scontri fittizi8. Il filosofo della Frühaufklärung Nikolaus Hieronymus Gundling, già autore di un dialogo tra Archimede e Montaigne in cui, tra le altre cose, si parlava della teoria dei vortici di Descartes e si alludeva alla polemica antiwolffiana9, si sarebbe trovato due anni

7 Questo è ad es. il caso dell’apocatastasi, cui accennano nella loro conversazione Leibniz e Budde, ma oggetto di una più lunga discussione tra i teologi Johann Friedrich Mayer e Johann Wilhelm Petersen nel dialogo di cui sono protagonisti; del dibattito sui rapporti tra conoscenza matematica e filosofica che, tema mai davvero prevalente nel dialogo tra Leibniz e Budde, sarebbe assurto a motivo decisivo del colloquio tra Descartes e Rüdiger del 1731; dello scontro tra Wolff e Budde, liquidato con poche parole da Mayer e Petersen e argomento centrale del Gespräch tra Leibniz e Budde. 8 Per evidenti questioni anagrafiche Descartes non era un avversario dei pietisti, ma l’autore del dialogo di cui è protagonista gli affida il ruolo di difensore di Christian Wolff, oltre che naturalmente delle proprie dottrine contro quelle dell’anticartesiano e antiwolffiano Rüdiger. L’iniziale amicizia tra Thomasius e Francke, e il loro successivo allontanamento, sono cosa nota; quanto a Mayer, egli ha avversato il pietismo in una serie di scritti e si ritrova, nel dialogo dei morti di cui è protagonista, a discutere con il teologo Johann Wilhelm Petersen, esponente del cosiddetto Radikalpietismus. Sulle diverse prospettive filosofiche di Gundling e di Budde cfr. M. muLsoW, Moderne aus dem Untergrund, cit., pp. 309-337 e 341-353. Su Leibniz e Budde cfr. infra. 9 n. h. gundLing, Gespräch zwischen Michel Montaigne und dem Archimedes, in Gundlingiana, darinnen allerhand zur Jurisprudentz, Philosophie, Historie, Critic, Litteratur und übrigen Gelehrsamkeit gehörige Sachen abgehandelt werden, II, Halle, zu finden in der Rengerischen Buchhandlung 1715. Sulle finalità polemiche del dialogo cfr. H. W. ArndT, Erste Angriffe der

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

267

dopo la sua morte a conversare in uno di questi dialoghi. L’allievo di Christian Thomasius non sfuggiva così a un curioso destino che lo accomuna ad altri autori i quali, dopo aver composto Totengespräche quand’erano ancora in vita, sarebbero stati a loro volta protagonisti di dialoghi dello stesso genere10. La dicitura che compare all’inizio del titolo del singolare testo, Examen rigorosum, sembra suggerire al lettore di trovarsi di fronte a una classica prova accademica; in realtà nelle prime pagine dell’opera ci si richiama esplicitamente alla tradizione dialogica che aveva trovato uno dei suoi più illustri rappresentanti in Fontenelle11. Una brillante variatio permette infatti all’autore di ambientare l’esame nach deren Tode, stabilendo un interessante connubio tra il genere tanto popolare dei dialoghi dei morti e l’ambiente universitario, che è notoriamente il terreno in cui si muovono i principali filosofi tedeschi di questa generazione e a cui anche Gundling era appartenuto. Tutto ciò che dalla lettura del testo veniamo a sapere sul conto dell’autore è che dovette pagare la pubblicazione a proprie spese e che si firmò con lo pseudonimo di «Aletophilo, il segretario intimo dello stato di Apollo»12. L’autore immagina infatti che sia il dio in persona a sottoporre Gundling e Johann Franz Budde a un serrato interrogatorio filosofico avvalendosi della collaborazione, oltre che del suo segretario, di Mercurio e delle Muse. Quando, finito l’esame, i due filosofi stanno già per alzarsi dai loro posti, si immagina che l’arrivo del messaggero Mercurio porti la discussione della compagnia riunita su due dialoghi svoltisi tra Christian Thomasius e August Hermann Francke, e tra lo stesso Budde e Gottfried Wilhelm Leibniz13. 2. Lo scontro tra Leibniz e Budde sul sistema wolffiano Considerando ora più da vicino la conversazione tra Budde e Leibniz, possiamo osservare che il primo interlocutore del diaThomasianer an Wolff, in Christian Thomasius 1655-1728. Interpretationen zu Werk und Wirkung, Hamburg, Meiner 1989, pp. 282-283. 10 Così accade ad es. anche a Christoph Martin Wieland, David Faßmann e Federico II di Prussia. 11 ALeTophiLus, Examen rigorosum, cit., pp. 12-13. 12 In quest’epoca si riscontra una straordinaria ricorrenza dell’uso dello pseudonimo adottato dall’autore dell’Examen rigorosum. Aletophilo si firmava ad es. Johann Friedrich Mayer; Aletophili si definiscono anche i membri di una società di sostenitori di Christian Wolff fondata a Berlino nel 1736. 13 ALeTophiLus, Examen rigorosum, cit., p. 78.

268

miccamda suitnem

logo era vicino ai pietisti e avversava come loro Christian Wolff, e il secondo riceve dall’autore il compito di difendere la filosofia wolffiana dagli attacchi di Budde14. Leibniz era indubbiamente l’interlocutore più adatto a prendere le parti di Wolff in un colloquio di questo tipo, tenendo conto di come le due filosofie all’epoca venissero frequentemente assimilate, e della ben nota definizione di «filosofia leibniziano-wolffiana» con cui del resto anche Budde presentava il sistema di Wolff15. Uno degli argomenti centrali del dialogo sarebbe così stato la celeberrima polemica tra Christian Wolff e l’ala pietista dell’università di Halle, che era riuscita a fare espellere il filosofo dalla Prussia nel 1723 con decreto regio, accusandolo di ateismo. Proprio la ‘pericolosità’ di Wolff e delle sue dottrine sarebbe stata argomento di discussione in parte dei dialoghi dei morti di argomento filosofico composti nella prima metà del secolo16. Com’è noto, anche Budde aveva preso posizione contro il filosofo, nell’ambito di quella serie di attacchi (e contrattacchi da parte wolffiana) guidata da Joachim Lange, la cui presenza tra gli interlocutori di dialoghi dei morti, a questo punto, non ci può sorprendere17. Non era inusuale l’impiego di dialoghi nelle controversie che coinvolgevano Wolff e i suoi avversari. Tra i numerosissimi scritti polemici che lui e i suoi allievi si scambiarono con i pietisti di 14 Sulla controversia Wolff-Budde cfr. r. ciAfArdone, La controversia tra Christian Wolff e i teologi di Halle Johann Christian Lange e Franz Budde, in Filosofia ed etica. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, a c. di G. Giordano, Soveria Mannelli, Rubbettino 2005, pp. 77-99; h. schröpfer, Die Polemik zwischen Christian Wolff und Johann Franz Buddeus – ein Orientierungspunkt für die philosophiehistorische Einordnung der Wolffschen Philosophie, in Christian Wolff als Philosoph der Aufklärung in Deutschland, a c. di H.-M. Gerlach, G. Schenk, B. Thaler, Halle, Wissenschaftliche Beiträge der Martin-LutherUniversität Halle-Wittenberg 1980, pp. 93-100. 15 J. f. Budde, Bedencken über die Wolffianische Philosophie mit Anmerckungen erläutert von Christian Wolffen […], Franckfurt am Mayn, zu finden in der Andräischen Buchhandlung 1724, rist. anast. in Ch. WoLff, Gesammelte Werke, a c. di J. École, sez. I, vol. XVII, Hildesheim-New York, Olms 1980, p. 104. L’ed. da cui si citerà è quella data alle stampe da Wolff nel 1724 con l’inserimento di sue note di difesa a pie’ di pagina. 16 Cfr. per es. Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 33; Curieuses Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Johann Friedrich Mayern […] und Johann Wilhelm Petersen […], cit., p. 82. 17 Gespräch im Reiche der Todten, zwischen Herrn D. Gottlieb Wernsdorffen, […] und Herrn D. Joachim Langen […], Franckfurt und Leipzig, s.n. 1744.

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

269

Halle risulta anche un’immaginaria conversazione in cui uno dei tre personaggi difende Wolff e un altro parla in favore dell’antiwolffiano Strähler, e una i cui interlocutori fittizi discutono delle accuse di Budde a Wolff circa il presunto ateismo di quest’ultimo18. È dunque all’ambito degli scritti polemici che si scambiarono le due fazioni che appartiene anche il nostro dialogo, segnalato infatti, unico tra i ‘Totengespräche filosofici’ precedentemente citati, nella lista di Streitschriften compresa all’interno della voce Wolfische Philosophie del Grosses vollständiges Universal-Lexicon di Johann Heinrich Zedler, redatta dal wolffiano Carl Günther Ludovici19. L’elenco presenta il dialogo come anonimo, mentre successivamente si troverà talvolta citato accompagnato dall’attribuzione a David Faßmann20. Il dialogo, che presenta fin dall’inizio delle battute esilaranti nel mettere in scena la conversazione tra i due filosofi rivali, acquista ritmo e vivacità già dalla prefazione indirizzata al lettore, in cui l’autore cerca di fornire una breve presentazione dei protagonisti, nonché un’idea del luogo in cui si trovano. «Müssen alle davon, / Gelehrt, reich, jung, alt oder schön»21: il regno dei morti è cioè un luogo dove tutti devono andare, nonostante la propria erudizione, ricchezza, o bellezza. Questa sorte è toccata anche a Budde, pur essendo filosofo di fama e grande erudito, come ci dice l’autore nella didascalia in rima dell’incisione che apre il dialogo: 18 Mi riferisco rispettivamente ai seguenti dialoghi: [B.h. TiLesius], Curieuse Reflexiones einiger guten Freunde über die neuesten Begebenheiten in der gelehrten Welt insonderheit in der Weltweißeit in einigen Gesprächen abgefasset und Herrn M. Strählern in Halle dediciret, Jena, s.n. 1723, rist. anast. in ch. WoLff, Gesammelte Werke, sez. III, vol. LXIV.1, a c. di J. École, Hildesheim-Zürich-New York, Olms 2000; Guter Freunde vertrauliches Gespräch, über Herrn D. Buddei Bedencken, über die Wolffianische Philosophie, und Herrn Professor Wolffens dargegen edirte Anmerckungen gehalten, zwischen dem Lech, Boden-See, Neckar und Donau, s.l., s.n. s.a. 19 c. g. LudoVici, «Wolfische Philosophie», in J. H. zedLer, Grosses vollständiges Universal-Lexicon […], Leipzig-Halle, s.n. 1748, rist. anast. Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt 1961-64 (ma anche in Ch. WoLff, Gesammelte Werke, a c. di J. École, Hildesheim-Zürich-New York, Olms 2001), p. 1079. La lista censisce più di 400 Streitschriften. 20 Cfr., per es., W. risse, Bibliographia philosophica vetus, vol. VII, Doxoscopia, Hildesheim-Zürich-New York, Olms 1998, p. 141; Leibniz-Bibliographie. Verzeichnis der Literatur über Leibniz bis 1980, a c. di K. Müller e A. Heinekamp, Frankfurt am Mein, Klostermann 1984, pp. 334-335. 21 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 5.

270

miccamda suitnem

Intelligenza, applicazione, scienza, arte, tutto ciò su cui si riflette, ti può, o Leibniz, regalare benissimo un monumento eterno, ma Budde dimostra che anche con erudizione e fatica la propria fama non tramonta mai22.

Come spesso è d’uso nei dialoghi di questo genere, anche nei Totengespräche del primo Illuminismo tedesco vengono di volta in volta escogitate le motivazioni più diverse per giustificare l’inizio della conversazione tra i filosofi, che vanno dall’ammirazione reciproca, al desiderio di incontrare di nuovo vecchi colleghi, o semplicemente alla mancanza di interlocutori migliori nelle vicinanze. Questa è la ragione che spinge Andreas Rüdiger, il quale avrebbe discusso ben più volentieri con altri pensatori, a confrontarsi con Descartes23. Nel nostro caso l’incontro con Leibniz è presentato come unico rimedio alla noia di Budde, costretto a rinunciare alla lettura, sua attività prediletta. Egli è ancora nuovo dell’ambiente e non è a conoscenza delle attività permesse, a differenza di Leibniz, la cui presenza nell’oltretomba dura ormai da quattordici anni24. Se nel regno dei morti leggere i libri che si trovavano in vita è assai difficoltoso, paiono infatti più agevoli altri tipi di occupazioni intellettuali: anzitutto la lettura delle stesse ‘conversazioni nel regno dei morti’, che venivano stampate e lette dai diretti interessati25, e le corrispondenze, a cui Leibniz, dopo una vita passata a dedicarvisi, non vuole rinunciare. Che dunque Leibniz non sia più nel mondo dei vivi da tempo, non è un problema: gli sono noti tutti gli scritti polemici che si sono scambiati fino a quel momento pietisti e wolffiani, poiché hanno provveduIvi, p. 2. Cfr. rispettivamente Besonderes Gespräch in dem Reiche derer Todten, zwischen D. Nicolao Hieronymo Gundlingen, […] und Johanne Francisco Buddeo […], cit., p. 6; Besonders curieuses Gespräch im Reich der Todten, zwischen […] Christian Thomasio, […] und August Hermann Francken […], cit., p. 5; Curieuses Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Rüdigern, und […] Cartesio, cit., p. 10. Il primo dialogo ricordato si presenta esplicitamente come una continuazione dell’Examen rigorosum (cfr. Besonderes Gespräch in dem Reiche derer Todten, zwischen D. Nicolao Hieronymo Gundlingen, […] und Johanne Francisco Buddeo […], cit., p. 6) di cui ripropone, con poche e non casuali varianti, l’incisione d’apertura. La differenza più significativa è senz’altro la rimozione dei musicanti alle spalle di Apollo, dovuta all’assenza delle arie che avevano caratterizzato invece la prima parte dell’Examen. 24 Ivi, p. 6. 25 Con questa originale trovata l’autore giustifi giustificherà cherà la divisione del dialogo in due parti: cfr. infra, pp. 276-277. 22 23

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

271

to i suoi corrispondenti a informarlo in dettaglio delle controversie in corso26. Già dalle prime, accese fasi della discussione tra i due pensatori, che avrebbe toccato la tuttora controversa questione del debito di Wolff nei confronti della filosofia leibniziana, la difesa del filosofo esiliato da parte di Leibniz è nettissima. È la sua orgogliosa rivendicazione di aver trascorso tutta la vita a organizzare un sistema filosofico a suscitare in Budde le reazioni più aspre. Per quest’ultimo il riordino della filosofia leibniziana si deve semmai alle premure wolffiane, fatica che a Wolff ha risparmiato, del resto, di elaborarne una propria. Questa affermazione è per Leibniz quanto mai falsa, poiché «il signor Wolff è un uomo di grande capacità nel meditare, in filosofia non lo supera nessuno, con la sua propria testa è capace di molte invenzioni a cui io non avrei mai pensato, e la sua intelligenza è veramente acuta»27. Leggendo l’accalorata difesa di Christian Wolff da parte di Leibniz, non si immaginerebbe che in un dialogo molto più tardo, uscito sempre anonimo, a Leibniz sia assegnato il ruolo opposto di screditatore della filosofia wolffiana. Nel corso di una fittizia conversazione con un pupillo di Wolff, Ludwig Philipp Thümmig, è Leibniz a ridurre Wolff a un irrilevante plagiatore della sua filosofia: Ammetto di non averne ancora sentito nulla. Ma chi è questo signor Wolff? […]. Quindi quest’uomo mi è noto, senza che ne fossi a conoscenza. In effetti mi ricordo di essere stato in rapporti abbastanza stretti con il signor Wolff di Halle. Ma dato che lui non ha fatto altro che accettare le mie opinioni, non avrei potuto mai immaginare che si sarebbe annoverato il suo nome tra la nuova setta di filosofi […]. Ma coloro che si limitano a usare le teorie degli altri non dovrebbero forse essere chiamati col nome del primo inventore? Perché gli attuali filosofi [Welt-weise] non si chiamano leibniziani, e la loro filosofia leibniziana?28

26 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 7. 27 Ivi, pp. 17-18. 28 Gespräche im Reiche der Todten, zwischen dem Freyherrn von Leibnitz und Magister Thümmig, über den gegenwärtigen Zustand der Weltweisheit, Leipzig, bey Johann Gottlieb Radolph 1745, pp. 6-7. Thümmig risponderà alla domanda sollevata da Leibniz con queste parole: «lei si dimentica, caro signore, di quanto poco abbia scritto. Pensa davvero che noi in Germania siamo così insensati come i greci, che hanno preso il nome di una loro setta di filosofi da Socrate, un uomo che in tutta la sua vita non ha scritto nemmeno una parola?» (ivi, p. 7). Anche questo dialogo è stato attribuito a David Faß-

272

miccamda suitnem

Nel nostro dialogo invece l’interesse principale di Leibniz è chiaramente uno solo, sapere qualcosa di più del litigio tra Wolff e Budde, prendendo costantemente le parti del primo: «mi dica solo, cosa l’ha spinta a partecipare alla controversia wolffiana?»29. Ogni sua speranza viene troncata tuttavia dall’interlocutore, il quale invita seccamente Leibniz a cercare la risposta alla sua curiosità leggendo i Bedencken über die Wolffische Philosophie. A questo punto il battibecco tra i due sulla filosofia wolffiana si interrompe per lasciare spazio a un excursus di Leibniz sulla propria vita, non prima che quest’ultimo rivolga a Budde il rimprovero di voler sempre evitare i discorsi a lui sgraditi e di dirottarlo su altri argomenti30. La discussione su Christian Wolff che a Budde premeva oltremodo evitare è in realtà oggetto di molta parte del dialogo tra i due pensatori. Leibniz e Budde si sarebbero infatti addentrati in un dibattito su matematica ed eclettismo, e soprattutto su un tema dominante nei dibattiti universitari contemporanei, e oggetto di una quantità esorbitante di dissertazioni tedesche: l’ateismo. Si tratta di questioni la cui discussione non sarebbe potuta prescindere dall’affrontare esplicitamente il problema wolffiano e che avrebbe di fatto costretto Leibniz e Budde a un confronto diretto sul pensiero del filosofo di Breslau. A far inaspettatamente scoppiare lo scontro tra i due filosofi su questi temi è una discussione riguardante l’accoglienza riservata ai libri dal pubblico dei lettori e il loro intrinseco valore. 3. Eclettismo, metodo matematico, ateismo Nelle fasi iniziali della loro conversazione Leibniz concorda pienamente con Budde sul fatto che i libri che vanno a ruba non mann (W. risse, Bibliographia philosophica vetus, cit., p 154) ma, a differenza del precedente, esce quando Wolff è ormai tornato a Halle. 29 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 13. La risposta che Wolff dava a questa domanda era che «si è dato inizio senza motivo a uno scontro con me […] si è pensato di rendere odiose la mia filosofia e la mia persona» (ch. WoLff, Nöthige Zugabe zu den Anmerckungen über Herrn D. Buddens Bedencken von der Wolffischen Philosophie […], Franckfurt am Mayn, zu finden bey J. B. Andreä und H. Hort 1724, rist. anast. in Ch. WoLff, Gesammelte Werke, a c. di J. École, sez. I, vol. XVIII, Hildesheim-New York, Olms 1980, cit., p. 3 non num.). 30 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., pp. 13-14.

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

273

siano sempre i migliori. Il doppio esempio da lui addotto è però quello dei libri di matematica, che pur nella loro eccellenza non godono del successo che meriterebbero, in contrapposizione ai libri di Budde, che hanno invece avuto una vasta diffusione perché scritti in bello stile, perché evitano discussioni intricate e trattano solo concetti di immediata utilità e facilmente assimilabili. Budde non esita a riconoscere la malafede celata sotto queste parole: l’antagonista gli sta rivolgendo una ben precisa accusa che ricorda molto da vicino quelle che usava scagliargli contro Christian Wolff. Un atteggiamento del genere è quanto mai sconcertante, perché non era certo abitudine di Leibniz, quand’era ancora in vita, lasciarsi andare a giudizi così malevoli. Leibniz tenta di giustificarsi alla meglio, adducendo come scusa la topica possibilità riservata a chi si trova nel regno dei morti di dire la verità senza ipocrisie: Qui non scit dissimulare, nescit regnare: chi non sa fingere, non sa regnare. Voi conoscete perfettamente la confusione della repubblica delle lettere. Così tante menti, così tanta gente e sovrani eruditi. Chi vi vuol mantenere lodi e rinomanza deve far costantemente attenzione a non litigare con nessuno, e anzi a parlare di tutti con riguardo e moderazione […] questa era la mia opinione quando vivevo ancora nel regno delle lettere, in cui ho badato a non rivolgere a nessuno un giudizio negativo, ma adesso che mi trovo nel regno dei morti […] non posso neanche esprimere liberamente la mia opinione su di voi e su altri scritti?31

Il sospetto di Budde è in effetti giustificato, poiché la distinzione di Leibniz tra regno delle lettere e regno dei morti, con il relativo codice comportamentale che è bene adottare in ciascuno dei due ambienti, è solo un escamotage dell’autore per giustificare il ruolo di portavoce di Christian Wolff assunto da Leibniz. Quest’ultimo sta infatti indirizzando contro Budde le stesse accuse che Wolff aveva rivolto al teologo nelle sue note ai Bedencken über die Wolffianische Philosophie, in cui veniva rilevato come lo scarso spessore speculativo di Budde e la sua «fine arte oratoria» non avessero consentito al teologo di addurre argomentazioni stringenti e pertinenti contro le tesi wolffiane32. Gli attacchi che Wolff aveva mosso a Budde non si limitavano però a prendere di mira la superficialità del teologo: 31 32

p. 5.

Ivi, pp. 10-12. Cfr. in part. ch. WoLff, Anmerckungen a J. f. Budde, Bedencken, cit.,

274

miccamda suitnem

Non c’è niente che il signor Budde capisca meno della filosofia, e i suoi scritti di filosofico non hanno che il nome […]. Budde, volendo fare l’eclettico, non è diventato altro che uno scettico, ignorando quali siano le opinioni da appoggiare […] evidentemente egli è di quegli eclettici che scelgono sempre il peggio33.

«Le gesta e le invenzioni di Budde non sono poi così tante»: anche Leibniz formula nel nostro dialogo una chiara critica alla filosofia eclettica di Budde, che lo rende abile nel mostrare le differenze tra le diverse opinioni dei filosofi, quanto incerto nell’esprimere le proprie34. L’eclettismo, dirà poi Leibniz, è paragonabile alla casacca di un mendicante dai molti rattoppi, o a una bevanda difficilmente digeribile perché preparata mischiando troppi ingredienti35. La reazione di Budde a queste critiche è secca: come può Leibniz giudicare i suoi libri se probabilmente non li ha mai letti, occupato com’è dalle sue speculazioni matematiche36? Questa nuova stoccata del teologo introduce uno dei Leitmotive del dialogo, lo statuto della conoscenza matematica e il suo rapporto con la speculazione filosofica, uno dei punti su cui gli avversari di Wolff avevano maggiormente insistito. L’errore di Wolff è, secondo Budde, voler fornire prove a tutti i costi e senza margini d’errore, abusando del metodo matematico e costruendo così una filosofia ‘labirintica’37. Per Leibniz è inconcepibile una dissociazione tra le due discipline, perché l’utilità Ivi, rispettivamente alle pp. 1, 1, 95. Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 12. Sull’eclettismo di Budde cfr. M. ALBrechT, ‚Eklektik’: eine Begriffsgeschichte mit Hinweisen auf die Philosophie und Wissenschaftsgeschichte, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog 1994, pp. 434-450; S. mAsi, Eclettismo e storia della filosofia in Johann Franz Budde, «Memorie della Accademia delle Scienze di Torino», Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, I, 1977, pp. 163-212. 35 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 75. 36 Ivi, p. 12. 37 Ivi, p. 33. Con parole estremamente simili Rüdiger liquiderà, parlando con Descartes, il metodo wolffiano in un dialogo pubblicato l’anno seguente (Curieuses Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Rüdigern, und […] Cartesio, cit., p. 17). I rilievi di Budde vanno considerati alla luce delle opposte accuse che Wolff gli muoveva nelle sue annotazioni ai Bedencken: «egli è un grande nemico delle dimostrazioni […] se si vuole disputare da filosofi bisogna rivolgere le proprie confutazioni ai principi, in modo che l’altro abbia modo di dimostrare le proprie proposizioni […] il signor Budde persiste nel mostrare di credere di aver semplicemente ragione nel dire tutto ciò 33 34

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

275

della matematica per il filosofo è incalcolabile: essa può addirittura essere rivolta contro il libero pensiero – per Budde conclamata Gottlosigkeit – di chi ne ha fatto un uso distorto, come Toland o l’autore dei Voyages et aventures de Jacques Massé38. L’indubbia radicalità dell’opera di Simon Tyssot de Patot rende la sua vendita oltremodo rischiosa, tant’è che i librai che vogliono assumersi questa responsabilità devono celarla sotto un frontespizio recante un titolo non suscettibile di sospetti, e lo stesso accade, assicura Budde, per la produzione spinoziana, che si può trovare ‘occultata’ sotto la denominazione Opera medica39. Ovviamente i pareri dei due dialoganti sono discordi anche in merito alla filosofia di Spinoza, che nelle dissertazioni tedesche dell’epoca svolgeva il ruolo di imputato principale della deriva atea presa dalla filosofia e veniva frequentemente accusato, secondo un topos della letteratura filosofico-erudita tedesca di fine Seicento e inizio Settecento, di essere un ‘impostore’40. Per Budde egli è solo un pericoloso nemico della religione cristiana, di cui ridicolizza i segreti; le alte competenze matematiche del filosofo di Amsterdam non permettono invece a Leibniz di negargli la sua stima41. Se però per Leibniz i più autentici e immortali esempi di filosofi-matematici sono Platone e Aristotele, Budde deriderà la sua scarsa capacità profetica: nel mondo dei morti Aristotele e gli altri beniamini del suo interlocutore, ormai, destano solo risate. Proprio perché è dell’opinione che ormai «Ceciderunt in profundum / Summus Aristoteles, / Plato & Euripides», Budde trova davvero sconsolante notare quanto invece non ci sia niente che attragga Leibniz più della matematica42. In particolare conche vuole e di non dover fornire alcuna prova» (ch. WoLff, Anmerckungen a J. f. Budde, Bedencken, cit., pp. 5, 7, 9). 38 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 40. 39 Ivi, p. 78. 40 Cfr. in part. F. E. keTTner, De duobus impostoribus, Benedicto Spinosa et Balthasare Bekkero dissertatio historica […], Lipsiae, Stannô Immanuelis Titii 1694; Ch. korThoLT, De tribus impostoribus magnis liber, Kiloni, literis & sumptibus Joachimi Reumanni 1680. 41 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 39. 42 Ivi, pp. 20-25. Più avanti arriverà la ‘risposta’ in rima di Leibniz: «Glückselig ist die Republic, wo entweder Mathematici und Philosophi regieren / oder da diejenige / so regieren / beyden Wissenschafften obliegen» (ivi, p. 59).

276

miccamda suitnem

tro Aristotele Budde mostrerà più volte nel dialogo un’eclatante ostilità, il che non può sorprendere se si pensa ai numerosi luoghi delle sue opere in cui egli si era scagliato contro il filosofo greco, discutendone l’ateismo o mettendone in relazione l’eterodossia con alcune tesi wolffiane43. La delicata questione dell’ateismo di Wolff sarebbe stata esplicitamente affrontata da Leibniz e Budde in parte del loro incontro. L’autore del nostro dialogo si rivela qui un attento lettore delle Streitschriften, attribuendo consapevolmente a Budde argomentazioni classiche tratte dagli scritti antiwolffiani redatti dal teologo e dai suoi sostenitori. Budde nega di aver mai accusato Wolff di ateismo, ma asserisce di essersi limitato a rilevare come i suoi insegnamenti siano sospetti e all’ateismo ‘aprano le porte’; spiegazione che non convince pienamente Leibniz, a cui pare di scorgere in queste insinuazioni la solita presunzione dei teologi, che avversano a priori chiunque inventi qualcosa di nuovo, come ha già fatto Voetius con Descartes44. Il wolffismo gioca un ruolo più marginale nella seconda parte del dialogo, voluta, con un curioso espediente dell’autore, dallo stesso Leibniz. Il filosofo ha appena letto il suo colloquio con Budde, ormai stampato, ma non ne è per nulla soddisfatto, e lo prega di scambiare ancora due parole con lui. La figura che ha fatto nella prima parte non è affatto dignitosa, poiché sembrava non 43 Cfr. per es. J. F. Budde, Bedencken, cit., pp. 43-51. L’ateismo dei filosofi antichi, con particolare riferimento agli scritti di Budde e Gundling – cui si devono invece numerosi scritti sull’ateismo di Platone – è un argomento centrale dell’Examen rigorosum e del Besonderes Gespräch in dem Reiche derer Todten, zwischen D. Nicolao Hieronymo Gundlingen, […] und Johanne Francisco Buddeo […], cit. 44 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., pp. 23-24. La filosofia wolffiana ‘apre le porte all’ateismo’ anche nei Bedencken: cfr. J. F. Budde, Bedencken, cit., p. 5. Proprio a un’argomentazione secondo cui Budde non avrebbe mai accusato Wolff di ateismo, quanto di avere delle dottrine che possono comportare conseguenze atee, si riferisce Wolff nella Nöthige Zugabe, cit., p. 2 non num., e p. 69. Le parole in difesa di Budde riferite da Wolff sono una citazione dall’anonimo scritto Bescheidene Antwort auf Herrn Christian Wolffens Anmerckungen über das Buddeische Bedencken dessen Philosophie betreffendt, welches selbst wieder beygefügt worden, Jena, zu finden in der Mayerischen Handlung 1724, rist. anast. in Ch. WoLff, Gesammelte Werke, a c. di J. École, sez. III, vol. XXIX, Hildesheim-Zürich-New York, Olms 1990, p. 5. A scrivere l’opuscolo, a cui la Nöthige Zugabe di Wolff intende dare una risposta, era stato il genero di Budde Johann Georg Walch.

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

277

essere più il vero filosofo che è stato, non avendo sempre espresso il suo pensiero in modo consequenziale, e avendo fatto spesso cadere nel vuoto le domande rivoltegli45. Se in questa seconda parte Leibniz si fa meno pungente, anche Budde diviene più ossequioso e, in generale, più rispettoso del suo interlocutore. Il suo ennesimo invito a Leibniz a non parlare più di Christian Wolff, questa volta pronunciato con un tono di supplica, verrà esaudito: i battibecchi su Wolff lasciano spazio a discussioni più pacate. Si parla, tra gli altri, di Marziale, Petrarca, Mersenne e Origene, e si discute di traducianesimo, di Cabala, della fondazione dell’università di Halle46. Viene ripreso il problema dell’esistenza del male, di cui i due avevano già discusso nella loro precedente conversazione con particolare riferimento ai rapporti tra Leibniz e Pierre Bayle e all’apocatastasi (Wiederbringung aller Dinge), nelle varianti con cui questa dottrina si trova formulata in Origene, Leibniz e Petersen47. Qui Leibniz torna a parlare della sua Teodicea, inizialmente curioso di conoscere l’opinione di Budde sulla sua opera. Preferirà però troncare la discussione quasi sul nascere, rinunciando così ad approfondire un dibattito in cui entrambi avrebbero certo avuto molte argomentazioni da avanzare48. Anche in questo loro nuovo incontro i due sarebbero però fatalmente tornati a parlare della controversia tra Christian Wolff e i suoi colleghi di Halle, questione spinosa che Budde avrebbe preferito tenere fuori dalla sua nuova conversazione con Leibniz. Proprio per l’annosa polemica Descartes avrebbe mostrato, nel dialogo dei morti di cui sarebbe stato protagonista l’anno successivo, tutta la sua insofferenza:

45 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 53. 46 Ivi, pp. 62-73. 47 Ivi, pp. 27-32. Di Leibniz sull’argomento si vedano in part. i due frammenti del 1715 intitolati ’Apokatavstasi" pavntwn e ’Apokatavstasi", pubblicati in G. W. LeiBniz, De l’horizon de la doctrine humaine. La restitution universelle, a c. di M. Fichant, Paris, Vrin 1991. 48 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit., p. 82. Sulla confutazione da parte di Budde della teoria leibniziana cfr. s. Lorenz, De Mundo Optimo. Studien zu Leibniz’ Theodizee und ihrer Rezeption in Deutschland (1710-91), Stuttgart, Steiner 1997, pp. 105-121; F. fABBiAneLLi, Leibniz, Budde et Wolff. Trois modèles de théodicée, «Revue philosophique de la France et de l’étranger», CXXVIII, 2003, pp. 298-301.

278

miccamda suitnem

Coloro che passano tutta la loro vita a pubblicare scritti polemici diventano certo famosi tra i loro contemporanei, ma non ottengono l’immortalità presso la posterità. Chi vuol contare su una fama durevole dopo la morte pensi a scrivere qualcosa di utile e di profondo, in cui si mostri la connessione tra le verità […]. Sono contento che la si sia fatta ormai finita con gli scritti polemici sulla questione wolffiana49.

L’interesse del Leibniz di questo dialogo verte invece tutto intorno allo scontro tra le due parti, ed ecco che allora, nonostante la promessa, egli cede alla curiosità e ritorna sull’argomento assicurandosi che Budde, prima che anche la seconda parte del dialogo giunga alla fine, gli fornisca maggiori delucidazioni sul suo rapporto con Wolff. I due tornano allora a discutere delle pericolose implicazioni spinoziste causate dalla contaminazione tra metodo matematico e filosofico con lo Spinozismus delectus dell’antiwolffiano Volkman Conrad Poppo50. Si ricade così nell’argomento che voleva essere evitato e che aveva ispirato la composizione di questa conversazione: la filosofia dell’‘ateo’ Wolff, sullo sfondo della lotta tra i suoi seguaci e i pietisti. Queste discussioni rivelano esplicitamente, per la sottigliezza delle allusioni alle controversie in corso e la grande quantità di citazioni erudite, come questo dialogo sia stato concepito per un lettore non semplicemente colto, ma appartenente al mondo accademico, in grado di cogliere le citazioni di opere rare, esperto di filosofia antica e moderna e dei dibattiti universitari contemporanei. Questa considerazione può naturalmente essere estesa a tutti i dialoghi filosofici sin qui citati. Si tratta però pur sempre di una trasposizione letteraria di questioni assai complesse, e il prezzo da pagare è un’inevitabile stilizzazione. Nel modo in cui è tratteggiato, il personaggio di Leibniz rivela infatti il suo carattere tipico, di perfetta incarnazione di quell’ideale filosofico stigmatizzato dai pensatori di orientamento pietista. Le parole con cui Leibniz difende il metodo matematico, Christian Wolff e Aristotele, la diffidenza per l’eclettismo, da lui contrapposto a una filosofia più ‘sistematica’, ne fanno la vittima di un’operazione semplificatrice per molti aspetti analoga a quella che verrà applicata a Descartes nel dialogo di cui sarà protagonista l’anno

49 Curieuses Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Rüdigern, und […] Cartesio, cit., p. 16. 50 Ausserordentliches Gespräche im Reiche derer Todten, zwischen […] Leibnitzen, und […] Buddeo, cit, p. 94.

ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della fmühaufKlämung

279

seguente. Quanto a Budde, nella maggior parte dei suoi interventi sulla questione wolffiana l’autore gli fa meramente riproporre le accuse che il filosofo aveva realmente mosso a Wolff nei Bedencken über die Wolffische Philosophie, e a cui Wolff aveva risposto nelle sue annotazioni con veemenza e sarcasmo. Anche il nostro Budde esterna il convincimento che Wolff abbia fondato il suo sistema sulla teoria dell’armonia prestabilita; egli difende il modello dell’influsso fisico contro quella dottrina che, anche secondo il Budde dei Bedencken, costituisce la premessa di una filosofia del fatalismo e della necessità, che priva l’uomo della libertà mettendo in pericolo moralità e religione51. Queste erano infatti tra le accuse di fondo che erano state mosse a Wolff e che avevano provocato il suo allontanamento da Halle; e proprio di ateismo, tema dominante nei dibattiti universitari contemporanei, ai due filosofi era particolarmente premuto parlare tra loro. Se infatti nello stesso periodo capitava che potessero ritrovarsi protagonisti di dialoghi dei morti, due delinquenti, Hemperla e Gabriel52, e che tutta una serie di dialoghi venisse dedicata a un’allora celebre coppia, i «famosi ladri, briganti e assassini Nicol List e Lips Tullian»53 – testi ben rappresentativi della vena più ‘disimpegnata’ caratterizzante molta parte dei dialoghi tedeschi – i tanto in voga Totengespräche vennero anche piegati alla messa in scena di raffinati colloqui in cui si chiamavano a raccolta pietisti, wolffiani e filosofi del passato che si scontrassero sulle questioni più controverse degli inizi dell’Illuminismo tedesco ed europeo.

Ivi, pp. 33-36; J. f. Budde, Bedencken, cit., pp. 5, 83 e 102. Besonders-curieuses Gespräch in dem Reiche derer Todten, zwischen zweyen im Reiche der Lebendigen weitberuffenen und bekannten ZiegeunerSpitzbuben Hemperla und Gabriel […], Hamburg, s.n. 1729. 53 Cfr. per es. Besonderes curieuses Gespräch im Vorhofe des Reichs der Todten zwischen zwey grossen beruffenen Dieben, Räubern und Mördern Nicol Listen und Lips Tullianen, Frankfurt, s.n. 1722. Questa è solo una delle serie di dialoghi che videro come protagonisti famose coppie di criminali. 51

52

Carlo Borghero VEROSIMIGLIANZA, PROBABILITÀ, CERTEZZA MORALE. LA DISSOLUZIONE DEL PARADIGMA CARTESIANO DELL’EVIDENZA

1. L’origine unitaria di un grappolo di problemi scientifici Sono trascorsi molti anni ormai dal giudizio perentorio pronunciato da Paul Hazard riguardo alla «faillite de l’histoire» prodotta dall’azione congiunta di cartesiani, giansenisti e libertini con la conseguenza di un generale pirronismo storico1. Si potrebbe dire che la storiografia del secondo Novecento è stata caratterizzata dalla progressiva demolizione della tesi dell’autore della Crise de la conscience eurpéenne e che, per effetto di questa revisione sostanziale, i tre gruppi imputati da Hazard nel 1935 di avere provocato la «bancarotta della storia» ci appaiono oggi sotto un’altra luce e il ‘pirronismo storico’ si è rivelato un fenomeno assai più articolato e complesso di come Hazard lo avesse rappresentato, facendo propri gli schemi ideologici dei suoi avversari seicenteschi2. Se dunque si ritorna a quel testo fortunato ma ormai lontano non è per ripercorrere le tappe di quella discussione storiografica, bensì per sottolineare come intorno al tema della conoscibilità della storia si coagulasse tra Sei e Settecento una questione di più vasta portata concernente il modo di trat1 p. hAzArd, La crise de la conscience européenne, 1680-1715, Paris, Fayard 1961, pp. 41-43 (1ª ed. Paris, Boivin 1935). 2 Per la discussione di questo aspetto e la bibliografia relativa cfr. c. Borghero, Historischer Pyrrhonismus, Erudition und Kritik, «Das achtzehnte Jahrhundert» (Historischer Pyrrhonismus, hrsg. von Gisela Schlüter), 31, 2007, pp. 164-178; ma si vedano anche N. ugLoW, The Historian’s two Bodies: the Reception of Historical Texts in France, 1701-1790, Aldershot, Ashgate 2001; e B. guion, Du bon usage de l’histoire: histoire, morale et politique à l’âge classique, Paris, H. Champion 2008.

282

camlo bomghemo

tare filosoficamente le ‘materie di fatto’ e il grado di certezza che è possibile raggiungere in questo ambito. Sicché la relazione tra il cartesianismo e la storia, come pure la questione del ‘pirronismo storico’, possono essere riguardate come casi particolari di un problema più generale che, se non è introdotto dall’arrivo del cartesianismo sulla scena filosofica, è però riformulato e posto in primo piano anche grazie a questo, tanto da permettere di riconsiderare in maniera unitaria aspetti apparentemente assai distanti. Tra Sei e Settecento la cultura europea, ancora all’oscuro dell’esistenza di Vico, era andata elaborando una riflessione molto accurata sulla conoscenza delle materie di fatto, e quindi anche dei fatti storici, in un confronto critico con la filosofia cartesiana e con la sua eredità, fino a investire l’assetto dell’enciclopedia cartesiana delle scienze. Nel corso di questa discussione il cartesianismo subirà modificazioni profonde, soprattutto ad opera della Logique di Port-Royal, la celebre Art de penser redatta dai filocartesiani Antoine Arnauld e Pierre Nicole, che eserciterà una vasta influenza fino a tutto il Settecento. Scopo delle pagine che seguono è ricordare alcuni aspetti di questa vicenda, per mostrare come la filosofia cartesiana non sia stata soltanto il punto di riferimento polemico, ma abbia contribuito alla discussione sulla conoscibilità delle materie di fatto attraverso una dislocazione teorica di alcune sue categorie, e prima di tutte di quella di evidenza che, posta in relazione con la famiglia dei concetti di verosimiglianza, probabilità, certezza morale, finì col subire alterazioni profonde rispetto al suo originario significato cartesiano. 2. Pirronismo storico e conoscenza dei fatti A produrre l’opacità che ha impedito alla storiografia di cogliere le relazioni tra le discussioni sulla conoscibilità della storia e la riflessione filosofica sulle materie di fatto è stato il giudizio di Paul Hazard sul pirronismo storico, che faceva propria l’immagine elaborata dai contemporanei per scopi di propaganda ideologica. Esaminato più da vicino, nelle relazioni che intrattenne con l’erudizione e la critica, il pirronismo storico ha rivelato di avere dato un contributo significativo alla riflessione metodologica ed epistemologica sulla storia. Ma nel corso delle dispute sei-settecentesche sulla certezza della storia non erano stati in molti a riconoscere l’opera anche costruttiva del pirronismo storico. Al contrario, per sbarazzarsi dei dubbi avanzati dagli scettici contro la fedeltà delle storie, veniva impiegato un argomento di ritorsione frequente

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

283

nell’apologetica, consistente nell’esasperare in maniera paradossale quei dubbi per renderli privi di dignità teorica e farli intendere come espressione di un difetto intellettuale se non addirittura di un vizio morale: se ne può trovare la conferma nel primo dei due Discours premessi da Pierre Nicole all’Art de penser, un testo peraltro decisivo per le discussioni che ci interessano3. Per più di mezzo secolo i ‘difensori’ della storia ripeteranno i medesimi argomenti controversistici, contro chiunque manifestasse un dubbio circa le tradizioni o cercasse di introdurre un discrimine nella valutazione dei fatti storici: erano tutti ‘pirronisti’, sia che volessero ricondurre a cause naturali qualche prodigio narrato nella storia sacra, come a giudizio di Jacques-Bénigne Bossuet faceva Nicolas Malebranche nel Traité de la nature et de la grâce (1680) muovendo un «grand combat contre l’Eglise» in nome della filosofia cartesiana4, sia che mettessero in discussione il racconto della creazione in sei giorni o esprimessero dubbi sulla storia ante-diluviana, come ancora nel 1735, quasi cinquant’anni dopo la denuncia del vescovo di Meaux e quando ormai erano apparse le Lettres philosophiques di Voltaire e le Considérations sur les Romains di Montesquieu, continuava a ripetere il professore di Kiel Adam Heinrich Lackmann5. Tuttavia proprio il contagio ‘epidemico’ che lo scetticismo avrebbe diffuso sulla storia rende difficile stabilire confini netti tra il pirronismo e la critica storica. Il caso più eclatante è proprio quello di Pierre Bayle, l’autore senza il quale nessuno avrebbe sollevato il problema del pirronismo storico. Si è ormai scritto molto sul valore delle pagine bayleane del Projet d’un dictionnaire critique, alle quali l’autore ha affidato sia la teoria del pirronismo storico sia la difesa dell’autonomia epistemologica della conoscenza relativa alle materie di fatto rispetto a quella che si occupa di enti geometrici. Nel difendere il proprio ruolo di compilateur de faits, Bayle sa bene che i fatti non si danno spontaneamente e immediatamente allo storico, ma vanno snidati e ricostruiti grazie a una discussione critica delle testimonianze, irriguardosa nei confronti 3 Cfr. p. nicoLe, Premier discours, où l’on fait voir le dessein de cette nouvelle Logique, in A. ArnAuLd e P. nicoLe, La Logique ou l’Art de penser, éd. crit. par P. Clair et F. Girbal, Paris, PUF 1965 (2ª ed. Paris, Vrin 1981), p. 18. 4 Cfr. J.-B. BossueT, Lettres diverses, cXXXVi, A un disciple de Malebranche (21 mai 1687), in Œuvres complètes, 12 voll., Bar-Le-Duc et Paris, L. Guérin 1862-1863, vol. Xi, p. 265. 5 Cfr. A. h. LAckmAnn, De testimoniis historicorum non probantibus Commentatio academica, Hamburgi, apud viduam Felgineriam 1735, pp. 10-11.

284

camlo bomghemo

del principio di autorità, e a un giudizio indipendente ed equo sia sull’opera dei protagonisti degli eventi sia su quella degli storici. Per rappresentare la difficoltà di questo compito egli tratteggiava in idea l’immagine dello storico come il Melchisedèc biblico, senza padre né madre né progenie né patria6, e ne paragonava il lavoro a quello del giudice relatore di una causa7. Bayle aveva buon gioco nell’opporre i dubbi dello storico a quelli del filosofo e le sue certezze a quelle dei matematici. Infatti, non si trova uno storico che subisca il fascino delle fumisterie dell’epoché degli scettici e non accetti come reale l’esistenza apparente dei fatti riportati8, ma la certezza morale che egli è in grado di raggiungere riguardo a questi fatti è comunque più indubitabile di quella dei matematici, alimentata dalla vanità di poter dare dimostrazioni su enti che per definizione hanno un’esistenza soltanto nelle loro menti9. Il doppio confronto con i dubbi metafisici dello scetticismo filosofico e con gli enti ideali dei matematici permetteva di collocare il lavoro del «compilatore di fatti» entro i limiti tracciati dalla critica storica per la valutazione delle prove e di asserire che «les veritez historiques peuvent être poussées à un degré de certitude plus indubitable, que ne l’est le degré de certitude à quoy l’on fai parvenir les veritez geometriques; bien entendu que l’on considerera ces deux sortes de veritez selon le genre de certitude qui leur est propre»10. Dove è inutile sottolineare l’importanza della precisazione finale, da intendersi come l’orgogliosa rivendicazione dell’autonomia epistemologica e metodologica della storia, estensibile a tutte le discipline che concernono le materie di fatto. Non è necessario arrivare ad affermare, come pure è stato fatto, che solo impropriamente Bayle può essere definito un «pirronista storico»; perché la critica storica è indissolubilmente legata al pirronismo, e perché, comunque si valuti la sincerità dell’autore, la difesa dell’autonomia epistemologica delle discipline morali e l’attenzione per le condizioni dell’evidenza fattuale e i diversi gradi di probabilità e di certezza delle prove, restano e sono testimonianze indiscutibili della grande influenza esercitata dall’Art de penser. 6 Cfr. «Usson», Rem. F, in P. BAyLe, Dictionnaire historique et critique, 4 voll., Amsterdam, P. Brunel 1740, vol. iV, p. 486 a-b. 7 Cfr. «Crysippe», Ivi, vol. ii, pp. 169 a-170 a. 8 P. BAyLe, Projet d’un Dictionnaire critique à Mr Du Rondel, in P. BAyLe, Projet et Fragmens d’un Dictionnaire critique, Rotterdam, R. Leers 1692 (rist. Genève, Slatkine 1970), p. XXXii. 9 Ivi, p. XXXii. 10 Ivi, p. XXXi.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

285

Il pirronismo storico era alimentato dall’erudizione e questa per elevarsi a critica storica, secondo gli auspici di Nicolas Fréret, doveva incontrarsi con l’esprit philosophique, dal momento che «la vraie critique n’est autre chose que cet esprit philosophique, appliqué à la discussion des faits: elle suit dans leur examen le même procédé que les philosophes employent dans la recherche des vérités naturelles»,, e, in un rapporto di reciproca integrazione, la critica «fournit à la philosophie une grande partie des faits de morale et de physique, sur lesquels elle travaille», mentre la filosofia «a éclairé, et a dirigé la critique; c’est elle qui lui a appris à douter et à suspendre son jugement; c’est elle qui l’a rendue difficile sur le choix de ses preuves et sur le degré de leur force»11. Si trattava dunque di prendere atto di questo rapporto di mutua collaborazione che a cavallo del Seicento e del Settecento era ormai evidente e consolidato non solo nell’ambito della storia, ma nelle discussioni su tutte le materie di fatto. In un libro recente Barbara Shapiro ha situato la filosofia empiristica derivata da Locke sullo sfondo della ‘cultura del fatto’ che caratterizza la storia intellettuale britannica dalla seconda metà del Cinquecento ai primi decenni del Settecento12, ma è difficile isolare l’empirismo lockiano dallo sfondo della cultura filosofica continentale, e non solo per la grande fortuna che esso ebbe nella Francia dei Lumi. All’origine di quella riflessione sui fatti c’era stato, sul Continente, anche un confronto con l’eredità cartesiana che ne aveva indebolito alcuni aspetti per renderla compatibile con una ‘logica dei fatti’. I termini di questo confronto furono fissati già nel 1662 dalla Logique di Port-Royal di Antoine Arnauld e Pierre Nicole. 3. Una logica per il contingente Com’è noto, il rigore metodologico chiesto da Descartes in filosofia era apparso eccessivo ai difensori della cultura tradizionale, abituati alla tolleranza metodologica dell’aristotelismo tradizionalmente favorevole ai ragionamenti fondati sulla probabilità. 11 n. fréreT, Réflexions sur l’étude des anciennes histoires, et sur le dégré de la certitude de leur preuves (lette all’Académie des Inscriptions et BellesLettres il 17 marzo 1724) in Œuvres complètes de Fréret, édition augmentée de plusieurs ouvrages inédits et rédigée par feu M. de Septchênes, 20 voll., Paris, Dandré 1796, vol. i, pp. 69-70. 12 Cfr. B. J. shApiro, A Culture of Fact. England, 1550-1720, Ithaca (N.Y)London, Cornell University Press 2000.

286

camlo bomghemo

Ma per alcuni l’appello cartesiano all’evidenza era stato così attraente da indurre a estenderlo all’esegesi testamentaria e alla storia sacra. Era ciò che era accaduto nei Paesi Bassi dopo la pubblicazione della Philosophia Sacrae Scripturae interpres (1666) di Lodevjick Meyer: Ludwig Wolzogen, Lambert van Velthuysen e Christoph Wittich avevano fatto della ragione umana l’interprete legittima dell’insegnamento delle Scritture, sottoposto al dubbio metodico e al criterio dell’evidenza13. Anche l’opera di Bayle, a giudizio di Elisabeth Labrousse, è stata un tentativo di applicare al dominio della storia il criterio cartesiano dell’evidenza. La questione era stata affrontata anche da Antoine Arnauld, uno degli interpreti più accreditati della filosofia cartesiana, al quale si deve la redazione della quarta parte dell’Art de penser, dove viene discussa una famiglia di nozioni (verosimiglianza, probabilità, certezza morale, evidenza fattuale, primato della geometria e autonomia delle altre scienze dallo spirito geometrico) che saranno poi riprese e sviluppate dal dibattito successivo. Per i loro scopi apologetici Arnauld e Nicole non erano interessati solo alla discussione filologica che verteva sulla questione di fatto se le proposizioni eretiche imputate a Cornelius Jansen fossero davvero contenute nell’Augustinus (1640), ma erano impegnati a definire più in generale le condizioni di una ‘logica dei fatti’ che potesse sostenere l’opera di depurazione della storia sacra dalle tradizioni divenute ormai indifendibili. Questo intento fu realizzato in due mosse: una revisione dell’enciclopedia cartesiana delle scienze che facesse spazio alle discipline aventi per oggetto le materie di fatto, e la definizione di regole per la credenza (ovvero la fede umana) che mettessero il nucleo della storia sacra al riparo dalle ‘sofisticherie’ del pirronismo storico. Si trattò di un tentativo riuscito su entrambi i fronti, come è confermato dalla grande fortuna dell’Art de penser. Un tentativo non molto diverso era stato fatto da Johann Clauberg nella sua Logica vetus et nova (1654), un’opera che, nell’ambito di una sintesi tra cartesianismo e aristotelismo, sviluppava un’ampia trattazione dell’er13 Cfr. L. WoLzogen, De Scripturarum interprete adversus exercitatorem paradoxum libri duo, Ultrajecti, apud J. Ribbium 1668, pp. 66-67 e 219; L. VAn VeLThuysen, Dissertatio de usu rationis in theologia, Trajecti ad Rhenum, T. ab Ackersdick 1668, p. 132; ch. WiTTich, Theologia pacifica, in qua […] usus philosophiae cartesianae in diversis theologiae partibus demonstratur, Lugduni Batavorum, A. Doude 1671 (3ª ed. Lugduni Batavorum, C. Boutesteyn 1683), Praefatio, p. 3.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

287

meneutica nella quale trovava posto la discussione di ciò che è contenuto nei testi, delle prove e delle testimonianze14. La cosa interessante è che, nonostante questa infedeltà rispetto all’insegnamento cartesiano, sia la Logica di Clauberg sia la Logique di Port-Royal apparvero come testi appartenenti all’orizzonte teorico del cartesianismo ai cartesiani contemporanei, evidentemente attratti dal compromesso felice che in essi veniva realizzato con la tradizione aristotelica. Sicché da più parti se ne consigliava la lettura come opere ‘cartesiane’. Nell’Avis au Lecteur del suo celebre Commentaire sur la Méthode de René Descartes (1670) NicolasJoseph Poisson indicava appunto Johann Clauberg e gli autori dell’Art de penser come coloro i quali avevano formulato una «logique complete» che poteva essere considerata come il «supsupplément» di quella di Descartes15, e chiariva in che senso l’Art de penser può servire da supplemento alla Méthode di Descartes: «la diversité des choses qu’on y a fait entrer, soit d’histoire, de moralitez, de matieres Physiques ou Mathematiques, font une application si juste des plus belles regles de Logique, qu’on ne peut faire choix d’un meilleur livre pour se conduire dans les plus serieux entretiens»16. Ma doveva trattarsi di una convinzione diffusa se nel diario redatto da Locke durante il suo soggiorno in Francia, alla data 7 marzo 1678, si può leggere la copia fatta dal filosofo di uno scritto anonimo intitolato Méthode pour bien étudier la doctrine de Mr. Des Cartes, dove l’Art de penser e la Logica di Clauberg (insieme al De mente humana di Jean-Baptiste Du Hamel) vengono considerati i testi più utili per la comprensione della logica cartesiana: la Logique di Port-Royal è definita «l’opera più perfetta che sia apparsa tra quelle di questo genere», e si dice che il testo di Clauberg è servito «da fondamento a quella»17. D’altronde che l’Art de penser fosse divenuta ‘la logica cartesiana’ per eccellenza è confermato dal fatto che alla fine del Seicento

Cfr. J. cLAuBerg, Logica vetus et nova, quadripartita, modum inveniendae ac tradendae veritatis, in genesi simul et analysi, facili methodo exhibens, Amstelodami, ex officina elzeviriana 1654, pp. 216-224. 15 N.-J. poisson, Commentaire ou Remarques sur la Méthode de René Descartes, où l’on établit plusieurs Principes généraux, necessaires pour entendre toutes ses œuvres, Vandosme, Hip 1670, Avis au Lecteur, pp. 7-8 n.n. 16 Ivi, pp. 12-13. 17 Cfr. J. Locke, An Early Draft of Locke’s Essay together with Excerpts from his Journals, ed. by R. I. Aaron and J. Gibb, Oxford, Clarendon Press 1936, p. 107. 14

288

camlo bomghemo

Pierre-Sylvain Régis aveva potuto riportarne ampi stralci nel suo Système général selon les Principes de Descartes (1690)18. In cosa consiste dunque la revisione del sistema cartesiano delle scienze operata dall’Art de penser? Porsi il problema di una logica per ciò che è contingente, cioè di un apparato di regole capace di orientare una conoscenza ragionevole delle materie di fatto, comportava un indebolimento del rigore ‘geometrico’ dell’enciclopedia cartesiana per renderla compatibile con la tradizione della topica e della retorica aristotelica, rimesse in circolazione da Cicerone e dagli umanisti e utilizzabili per gli usi dello storico oltre che del giurista perché orientavano nell’esame delle prove di fatto e delle testimonianze. Aristotele partiva dalla constatazione che il dominio dell’accidentale è molto più esteso di quello del necessario e costruiva uno strumento per trattarlo senza pretendere di arrivare alla certezza della scienza. Com’è noto, Descartes era di tutt’altra opinione. Egli aveva rifiutato come se fosse falso tutto ciò che era soltanto probabile e non aveva previsto un ambito della probabilità, intermedio tra la certezza e l’opinione. Perciò la revisione del cartesianismo operata dalla Logique di PortRoyal (come, più tardi, da Locke e da Leibniz) era innanzitutto un tentativo di ripensare l’enciclopedia cartesiana delle scienze, per ampliarla in modo da consentire uno spazio per le materie di fatto e le discipline morali, da trattarsi aggiornando strumenti conoscitivi aristotelici. Ciò richiedeva di ridefinire i poteri conoscitivi della ragione, valutare i livelli di certezza che l’uomo è in grado di raggiungere ed elaborare una compiuta teoria della conoscenza probabile. Arnauld individua proprio in questa zona intermedia tra ciò che si può conoscere con la certezza delle matematiche e ciò che supera le possibilità conoscitive dell’uomo l’ambito proprio della competenza del filosofo: Il y a donc de la certitude et de l’incertitude, et dans l’esprit et dans les sens, et ce seroit une faute égale de vouloir faire passer toutes choses ou pour certaines, ou pour incertaines. La raison au-contraire nous oblige d’en reconnoître de trois genres. Car il y en a que l’on peut connoître clairement et certainement: il y en a que l’on ne connoît pas à la vérité clai18 Cfr. P.-S. régis, Cours entier de Philosophie ou Système général selon les Principes de M. Descartes, contenant la Logique, la Métaphysique, et la Morale (1690), 3 voll., Amsterdam, Huhuetan 1691, rist. a c. di R. A. Watson, New York-London, Johnson Reprint Corporation, 1970, vol. I. La Logique ou l’Art de penser, IV, ii-iX, pp. 41-62. Si veda A. ArnAuLd e P. nicoLe, Art de penser, cit., IV, ii-iii, ed. cit., pp. 301-307, e IV, i e Xii, Ivi, pp. 291-299 e 335-338.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

289

rement, mais que l’on peut espérer de pouvoir connoître; et il y en a enfin qu’il est comme impossible de connoître avec certitude, ou parceque nous n’avons point de principes qui nous y conduisent, ou parcequ’elles sont trop disproportionnées à notre esprit. Le premier genre comprend tout ce que l’on connoît par démonstration ou par intelligence. Le second est la matiere de l’étude des Philosophes; mais il est facile qu’ils s’y occupent fort inutilement, s’ils ne savent le distinguer du troisième, c’est-àdire, s’ils ne peuvent discerner les choses où l’esprit peut arriver, de celles où il n’est pas capable d’atteindre19.

Anche Descartes aveva parlato della certezza morale (quella relativa ad alcune verità fattuali come l’esistenza di Roma) che permette di regolarmi nella condotta della vita, ma con ciò non aveva inteso istituire una linea continua tra la scienza e l’opinione, come veniva fatto dalla scolastica con le sue gerarchie della certezza (metafisica, matematica, fisica, morale). Arnauld e Nicole sviluppano invece una teoria della fede umana ancorandola alla definizione della certezza morale e della probabilità e applicandola sia agli eventi naturali sia ai fatti storici. Così, attraverso un depotenziamento del metodo cartesiano, l’Art de penser giunge a recuperare all’ambito della conoscenza le discipline che vertono su materie di fatto: Il y a des choses que nous ne connoissons que par une foi humaine, que nous devons tenir pour aussi certaines et aussi indubitables, que si nous en avions des demonstrations mathématiques: comme ce que l’on sait par une relation constante de tant de personnes, qu’il est moralement impossible qu’elles eussent pu conspirer ensemble pour assûrer la même chose, si elle n’étoit vraie20.

Di questa specificità che caratterizza la credenza degli avvenimenti umani e contingenti occorre dunque tenere conto: ciò impone di accontentarsi «d’une certitude morale dans les choses qui ne sont pas susceptibles d’une certitude métaphysique» e, quando non possiamo raggiungere neppure «une une entiere certitude morale», di prendere il partito «le plus probable», perché sarebbe «un renversement de la raison d’embrasser le moins probable»21. Ciò significa che il giudizio sulla verità o la falsità degli avvenimenti contingenti presenta caratteristiche diverse dal giudizio di verità sulla «nature nature des choses et leur essence im19 20 21

Ivi, IV, i, p. 295. Ivi, IV, Xii, p. 336. Ivi, IV, XV, p. 348.

290

camlo bomghemo

muable indépendamment de leur existence»: »: mentre questo risponde alle condizioni di necessità e universalità proprie dell’evidenza intuitiva e dimostrativa, i giudizi relativi alle materie di fatto («qui regardent les choses existantes, et sur-tout les évenemens humains et contingens») rispondono alle regole della credenza, in forza delle quali la mera possibilità dell’evento (o dell’evento contrario) non è motivo sufficiente per credere alla verità dell’accadimento (o per negarla)22. Perciò l’esame delle circostanze interne, attinenti al fatto e capaci di dirci qualcosa soltanto sulla sua possibilità, è insufficiente e va accompagnato dallo studio delle circostanze esterne, concernenti l’attendibilità dei testimoni23. Peraltro, nell’esame delle circostanze, bisogna prestare attenzione anche all’equilibrio tra circonstances communes, che si rincontrano in molti fatti e sono spesso un segno della loro verità, e le circonstances particulières, capaci in certi casi di indebolire o annullare la nostra certezza riguardo agli avvenimenti24. Secondo Arnauld e Nicole quando un fatto è sufficientemente attestato, e mancano circostanze particolari avverse, è legittimo persino il ricorso al criterio di verosimiglianza; mentre è impossibile rifiutare l’autenticità di un evento soltanto in nome della possibilità del contrario. Detto altrimenti, come nelle presunzioni giuridiche, l’onere della prova ricade sugli innovatori, cioè su chi rifiuta di accettare la tradizione: vanno perciò respinte le obiezioni generiche dei pirronisti contro l’inaffidabilità dei testimoni o la parzialità degli storici, se esse non sono accompagnate da prove positive di falsità25. Ovviamente quest’impostazione produce effetti significativi nella trattazione dei miracoli. Gli assiomi della credenza fissati nell’Art de penser rispondono a un’intenzione apologetica, che diventa esplicita soprattutto nel decimo assioma, che oppone la testimonianza alla verosimiglianza, assegnando alla testimonianza divina la capacità di sovvertire tutte le ragioni più convincenti che indurrebbero invece a dubitare di un fatto («Le témoignage d’une personne infiniment puissante, infiniment sage, infiniment bonne, et infiniment veritable, doit avoir plus de force pour persuader notre esprit, que les raisons les plus convaincantes»)26, e nell’undicesimo, che utilizza la nozione di verosimiglianza per 22 23 24 25 26

Ivi, IV, Xiii, pp. 339-340. Ivi, p. 340. Ivi, IV, XV, p. 348. Ivi, pp. 348-349. Ivi, IV, Viii, p. 322.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

291

rafforzare la catena delle testimonianze, rendendo inverosimile una cospirazione per mentire («Les faits dont les sens peuvent juger facilement, étant attestés par un très-grand nombre de personnes de divers temps, de diverses nations, de divers interêts, qui en parlent comme les sachant par eux-mêmes, et qu’on ne peut soupçonner avoir conspiré ensemble pour appuyer un mensonge, doivent passer pour aussi constans et indubitables, que si on les avoit vûs de ses propres yeux»)27. Pochi anni dopo, nella polemica col ministro Claude sulla continuità dell’insegnamento cattolico riguardo all’eucarestia, gli autori ritorneranno sul tema trasformando la certezza morale circa un avvenimento adeguatamente attestato in una sorta di impossibilità fisica del contrario, visto il numero altamente improbabile di combinazioni richieste perché si realizzi28. La sicurezza di certe proposizioni di fatto (come quelle che affermano la morte del papa Alessandro VII, l’incendio di Londra, il terremoto di Ragusa, l’impossibilità che un cieco, combinando a caso i caratteri di stampa, riesca a comporre l’Eneide di Virgilio) è tale da sfidare l’evidenza delle dimostrazioni matematiche, tant’è che sarà difficile trovare matematici disposti a scommettere la propria vita contro la certezza delle loro dimostrazioni piuttosto che contro quella dell’incendio di Londra29. La Logique di Port-Royal sottolinea pertanto l’importanza delle regole relative alla credenza umana per tutte le discipline che giudicano i fatti contingenti, e in ciò l’Art de penser contiene i presupposti dell’autonomia epistemologica della conoscenza delle materie di fatto. Ma c’è anche di più: nelle questioni che riguardano gli avvenimenti oggetto della credenza umana è possibile estendere per analogia ai fatti futuri l’esperienza maturata riguardo a quelli passati. Com’è noto Arnauld e Nicole concludono l’Art de penser con un riferimento esplicito al recente calcolo matematico delle probabilità come base solida per la decisione razionale, un tema sul quale aveva richiamato l’attenzione il loro compagno di fede giansenista Pascal30. Anche in questo caso si tratta dell’inizio di una lunga e fortunata vicenda. Già nel 1678, Ibidem. Cfr. A. ArnAuLd e P. nicoLe, La Perpetuité de la foy de l’Eglise catholique touchant l’Eucharestie, deffendue contre le livre du Sieur Claude, Ministre de Charenton, IX, Xi, 3 voll., Paris, C. Savreux 1669-1674, vol. i, p. 946. 29 Ivi, p. 947. 30 ArnAuLd e nicoLe, Art de penser, IV, XVi, pp. 351-355. 27 28

292

camlo bomghemo

pubblicando in appendice a una nuova edizione delle Pensées un suo trattato anonimo, nel quale si proponeva di provare la possibilità di dare nelle materie di fatto dimostrazioni altrettanto certe di quelle della geometria, Jean Filleau de La Chaise metteva in luce la possibilità di servirsi del calcolo matematico per attribuire alle conoscenze fattuali una certezza inattaccabile e rendeva palese il potenziale apologetico dell’argomento pascaliano del pari 31. 4. Verso un’enciclopedia post-cartesiana Dunque l’eredità dell’Art de penser si può misurare anche dalla rinnovata attenzione per nozioni come quelle di verosimiglianza e di probabilità che Descartes aveva espulso dall’enciclopedia del sapere. Perciò non desta meraviglia né la presenza nei trattati di logica sei e settecenteschi di capitoli dedicati alle condizioni di plausibilità della fede divina e umana, al valore della conoscenza dei fatti, alla probabilità da assegnare alle credenze; né che filosofi, matematici, medici, giuristi e storici abbiano visto nella Logique di Port- Royal un punto di riferimento comune per le discussioni su questi temi, assai vivaci nei rispettivi ambiti disciplinari32. Com’è noto, alla definizione del quadro concettuale relativo alle prove di fatto e alla probabilità diede un contributo risolutivo l’Essay concerning Human Understanding (1689) di Locke. Questi aveva reinterpretato l’evidenza cartesiana come un’intuizione sensibile, connotando le idee semplici con gli stessi caratteri assegnati da Descartes alle nature semplici: anche le idee semplici di sensazione e di riflessione sono ‘atomi di evidenza’ che resistono all’analisi, 31 Cfr. [J. fiLLeAu de LA chAise], Traité où l’on fait voir qu’il y a des démonstrations d’une autre espèce et aussi certaines que celles de la géométrie, et qu’on en peut donner de telles pour la religion chrétienne, in B. pAscAL, Pensées, Paris, Desprez 1678. 32 Sull’argomento sono da vedere alcuni studi ormai classici: B. shApiro, Probability and Certainty in Seventeenth-Century England, Princeton (N.J.), Princeton University Press 1983; eAd., “Beyond Reasonable Doubt” and “Probable Cause”: Historical Perspectives on the Anglo-American Law of Evidence, Berkeley (Cal.), University of California Press 1991; eAd., A Culture of Fact, cit., L. dAsTon, Classical Probability in the Enlightenment, Princeton (N.J.), Princeton University Press 1988. Tra i contributi più recenti cfr. R. kennedy, A History of Reasonableness: Testimony and Authority in the Art of Thinking, Rochester (N.Y.), The University of Rochester Press 2004; e «Dix-huitième Siècle», XXXIX, 2007 (numero monografico su Le Témoignage, a c. di C. Dornier).

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

293

devono cioè essere intuite così come si presentano e non possono essere manipolate dalla mente, che riguardo a loro è puramente passiva. Ma Locke aveva rinunciato alla pretesa cartesiana di cogliere l’essenza delle cose con l’intelletto e aveva trasformato la sostanza in una concomitanza di proprietà, conoscibili per lo più indirettamente attraverso gli effetti che esse hanno il potere di produrre sulla nostra percezione. Ne risultava una polverizzazione della fisica, la cui evidenza assumeva la medesima natura dell’evidenza con la quale conosciamo la storia: era cioè affidata all’accertamento empirico degli eventi, come accade in tutte le discipline che concernono materie di fatto. Fatta eccezione per la prevalenza assegnata alla testimonianza divina, Locke aveva cercato di definire una procedura di accertamento della verità, che evitava di trasferire il criterio della verosimiglianza dalla considerazione del fatto a quella dell’autorità dei testimoni. Se vogliono trovare le ragioni per credere ai fatti e pronunciare un giudizio di probabilità, gli uomini devono argomentare in base a due fondamenti: la conformità con la nostra esperienza e la testimonianza degli altri, fondata anch’essa sull’osservazione e l’esperienza33. Locke indica dettagliatamente ciò che occorre indagare in una testimonianza, individuando sei aspetti da prendere in considerazione (il numero, l’integrità, l’abilità dei testimoni; lo scopo dell’autore, se la testimonianza è tratta da un libro; l’accordo tra le parti della relazione e le circostanze; le testimonianze contrarie)34, ma non dedica altrettanta attenzione alle condizioni che rendono plausibile un’affermazione di conformità con l’esperienza, quasi che il «corso ordinario delle cose», non richiedesse ulteriori indagini. Eppure egli era ben consapevole della difficoltà di dare una misura universale della verosimiglianza. Lo rivela il racconto del re del Siam e dell’ambasciatore olandese, introdotto appunto per mostrare gli effetti paradossali che possono essere generati dal riferimento all’esperienza personale. Le storie raccontate dall’ambasciatore avrebbero potuto essere inventate, ma sarebbero state ugualmente credute dal re purché conformi alla sua esperienza; mentre il racconto delle acque che in Olanda d’inverno ghiacciano non fu creduto, nonostante fosse vero, perché non trovava conferma nelle osservazioni passate del suo

33 Cfr. J. Locke, An Essay concerning Human Understanding, IV, XV, 4, ed. by P. Nidditch, Oxford, Clarendon Press 1975 (2ª ed. 1979), p. 656. 34 Ivi, IV, xv, 4, pp. 655-656.

294

camlo bomghemo

ascoltatore, che perciò lo giudicò a buon diritto inverosimile35. Questo esempio suggerisce che la difficoltà non consiste nell’accettazione del criterio di verosimiglianza per il giudizio di probabilità, bensì nel suo uso che può trasformare un giudizio sul corso ordinario della natura nel riferimento all’esperienza soggettiva del testimone. In questo modo la conformità con l’esperienza passata, ovvero la verosimiglianza dell’evento, veniva fatta dipendere dal consenso dei testimoni. Questione non da poco, perché d’inverno in Olanda l’acqua gela anche se il re del Siam non ci crede, mentre le comete non sono presagi di sventura anche se tutti ci credono. Per questa ragione nel corso del Settecento l’equilibrio istituito da Locke tra i due requisiti della probabilità venne rotto a vantaggio della verosimiglianza del fatto, con un significativo rovesciamento della dottrina dell’Art de penser. Tra i tanti interventi basterà ricordare pochi esempi. Nei Philosophical Essays concerning Human Understanding, pubblicati nel 1748 come rielaborazione della materia del Treatise of Human Nature, Hume inserirà la sezione Of Miracles che nel 1737 aveva deciso di espungere dal Treatise per il timore, manifestato al suo amico Henry Home, che i suoi ragionamenti apparissero troppo offensivi per i lettori36. Qui Hume riprende l’esempio lockiano per dire che il re del Siam «ragionava giustamente» nel rifiutare di credere a un fatto che «partakes of the extraordinary and the marvellous»37. Ma i miracoli sono per definizione «a violation of the laws of nature», cioè qualcosa di opposto alla «firm and unalterable experience» che ha portato alla formulazione di quelle leggi; sicché la «proof against a miracle» tratta dalla natura stessa del fatto, deve valere come una prova completa, perlomeno quanto può esserlo un argomento di fatto («is as entire as any argument from experience can possibly be imagined»)38. In questo modo Hume non mette in discussione soltanto la distinzione posta da Locke tra ragione Locke, Essay, cit., IV, XV, 5, pp. 656-657. Cfr. la lettera di David Hume a Henry Home del 2 dicembre 1737, in New Letters of David Hume, ed. by R. Klibanski and E. C. Mossner, Oxford, Clarendon Press, 1954, p. 2. 37 Nell’edizione del 1758 i Philosophical Essays acquisirono il titolo definitivo di An Enquiry concerning Human Understanding: cfr. la sez. X, Of Miracles, in D. hume, The Philosophical Works, 4 voll., ed. by T. H. Green and T. H. Grose (London, Longmans, 1882; rist. anast. Aalen, Scientia Verlag, 1964), vol. iV, p. 91. 38 Ivi, p. 93. 35

36

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

295

e rivelazione, ma rompe la stessa parità tra la testimonianza e la conformità con l’esperienza, negando che una testimonianza possa controbilanciare l’evidenza contraria ricavata dal corso ordinario della natura. Piuttosto che ammettere una tale violazione delle leggi di natura, converrà credere al concorso della «furberia» e della «pazzia» degli uomini, fenomeni assai più comuni39. Due anni prima, nelle Pensées philosophiques pubblicate nel 1746, anche Diderot aveva opposto la verosimiglianza alla testimonianza («Moins un fait a de vraisemblance, plus le témoignage de l’histoire perd de son poids») e messo in guardia contro gli inganni degli storici o gli errori del popolo, che «ne sont pas des prodiges»40. Le conseguenze anti-religiose sono ovvie: la storia sacra ha perso ogni privilegio e va esaminata alla luce dei criteri coi quali si giudica un racconto profano, ma questi criteri impongono prioritariamente l’esame della verosimiglianza del racconto, della conformità del fatto con il corso ordinario della natura. Diderot non esita a trarle in tutta la loro evidenza polemica: Je croirais sans peine un seul honnête homme qui m’annoncerait que sa majesté vient de remporter une victoire complète sur les alliés; mais tout Paris m’assurerait qu’un mort vient de ressusciter à Passy, que je n’en croirais rien41.

Applicando la regola della verosimiglianza fino alla testardaggine e all’errore, Voltaire farà un ricorso sistematico all’ordre naturel des choses per respingere non solo favole ma anche racconti di Tacito, di Svetonio, di Guicciardini, per rigettare nell’ambito della credenza di fede quasi tutta la storia sacra, per rifiutare le ipotesi dei materialisti sulla storia della terra42. Nella sua demolizione delle tradizioni favolose Voltaire tradurrà l’insegnamento lockiano nella massima per cui «moins un fait est vraisemblable, plus il exige de preuves»43. Ma, come Diderot e Hume, ne deriverà la necessità di una valutazione della verosimiglianza morale dei

Ivi, p. 106. Cfr. D. dideroT, Pensée philosophiques, XLVI, in Œuvres complètes, éd. crit. par H. Dieckmann, J. Fabre, J. Proust, J. Varloot, 25 voll., Paris, Hermann 1975-2004, vol. ii, p. 42. 41 Ibidem. 42 Cfr. VoLTAire, Le Pyrrhonisme de l’histoire (1769), in Œuvres complètes de Voltaire, éd. par L. Moland, 52 voll., Paris, Garnier 1877-1885, vol. XXVii, pp. 259-260, 269-270, 394-395. 43 Ivi, p. 259. 39 40

296

camlo bomghemo

fatti riportati (cioè della conformità con «les moeurs ordinaires de tous les hommes») preliminare rispetto alla discussione dell’attendibilità delle fonti, che può anche rivelarsi superflua, considerato che «ce qui n’est pas dans la nature n’est jamais vrai»44. A metà Settecento è dunque ormai fallito il programma di Arnauld di ricondurre l’evidenza nelle materie di fatto a un accordo testimoniale, alla prova fornita dalla tradizione con le conseguenze che ne derivavano per l’apologetica. Ma è anche abortito il tentativo di Locke di mantenere un equilibrio tra le due fonti del giudizio di probabilità, perché l’evidenza si è spostata interamente dalla testimonianza alla verosimiglianza del fatto. Eppure, in questo naufragio di progetti apologetici e di cauti equilibri tra ragione e fede, sembra comunque essersi affermato il disegno di definire le condizioni epistemologiche per la conoscenza delle materie di fatto. La probabilità aveva aperto la strada a una trattazione ragionevole delle conoscenze escluse dall’enciclopedia cartesiana delle scienze perché ridotte al rango di semplici opinioni. La strada aperta dall’Art de penser col compromesso tra cartesianismo e aristotelismo aveva permesso di individuare le condizioni dell’evidenza morale. Locke aveva battuto questa strada riscrivendo la dottrina aristotelica della probabilità in modo da fare cadere le materie di fatto sotto il dominio delle cose suscettibili di un discorso ragionevole. Hume aveva ulteriormente indebolito il modello lockiano, riconducendo le relazioni nelle materie di fatto a un’abitudine radicata nella natura dell’uomo. Ma ciò poteva bastare a costruire una conoscenza dei fatti accettabile. Voltaire si incaricherà di trarre questa conclusione per quanto riguarda la conoscenza storica. Nell’articolo «Histoire», scritto per l’Encyclopédie, la certezza storica è definita come una extrème probabilité, e questa è riconosciuta come il limite comune a tutte le conoscenze che non possono ricorrere a dimostrazioni matematiche45. Come aveva detto più di mezzo secolo prima Bayle nel Projet d’un Dictionnaire critique, raccogliendo l’invito alla revisione del cartesianismo contenuto nell’Art de penser. Ap44 Cfr. VoLTAire, Philosophie de l’histoire (1765), crit. ed. by W. H. Barber, in The Complete Works of Voltaire, dir. by Th. Besterman, W. H. Barber, U. Kölving, H. Mason, Oxford, Voltaire Foundation – Taylor Institution 1968 ss., vol. LiX, pp. 205 e 129. 45 Cfr. «Histoire», in VoLTAire, Œuvres alphabétique, t. I, ed. crit. par J. Vercruysse, in The Complete Works, cit., vol. XXXiii, p. 177. L’articolo di Voltaire fu pubblicato nel vol. Viii dell’Encyclopédie, uscito nel 1765.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

297

plicandosi alle materie di fatto, la pretesa cartesiana dell’evidenza doveva rassegnarsi alla resurrezione di una probabilità non priva di connotati aristotelici. La revisione del cartesianismo si era trasformata nella sua dissoluzione. 5. Il modello della logica giuridica Era stato Leibniz a riprendere e sviluppare il carattere unitario della trattazione lockiana delle materie di fatto, anche se per muovere ad essa numerose critiche. Annotando il Saggio di Locke, Leibniz aveva messo in relazione la dottrina della probabilità e la nozione di verosimiglianza con la scienza dei giureconsulti, ma anche con la pratica clinica dei medici, con i tentativi dei matematici di misurare la probabilità, con la casistica dei gesuiti, con le discussioni delle testimonianze fatte dagli storici46. I Nouveaux essais rivelano perciò l’estensione interdisciplinare della discussione sulla prova e recuperano il valore conoscitivo dell’opinione, purché «fondée sur le vraisemblable»: la mancanza di una ricerca così importante come quella dei «degrés de probabilité» deve essere considerata «un grand défaut de nos logiques», perché se rinunciassimo alla verosimiglianza dovremmo rinunciare alla conoscenza storica e a molte altre47. Dunque Leibniz muove dagli stessi presupposti che avevano indotto sia Arnauld sia Locke a riformare il sistema cartesiano delle conoscenze: bisogna reinserire nell’enciclopedia delle scienze l’opinabile, il verosimile e il probabile, portando anche in questo ambito exactitude e règles, ma, nel momento in cui segnala l’importanza che avrebbe per l’art de penser una logica del probabile, Leibniz esprime anche la propria insoddisfazione per i tentativi fatti fino ad allora da Arnauld, Malebranche e Locke48. La riforma lockiana dell’intelletto cartesiano appariva a Leibniz 46 Cfr. G.W. LeiBniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain, IV, ii, 14, e IV, XVi, 5-13, in G.W. LeiBniz, Sämtliche Schriften und Briefe, hrsg. von Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Leipzig-Berlin, Akademie-Verlag 1923 ss., VI Reihe, vol. Vi, pp. 372 ss. e 465 ss. 47 Ivi, p. 372. 48 «Les plus excellents philosophes de notre temps, tels que les auteurs de l’Art de penser, de la Recherche de la vérité, et de l’Essai sur l’entendement, ont été fort éloignés de nous marquer les vrais moyens propres à aider cette faculté qui nous doit faire peser les apparences du vrai et du faux»: G. W. LeiBniz, Essais de Théodicée, Discours préliminaire de la conformité de la Foy avec la Raison, § 31, in G. W. LeiBniz, Die philosophischen Schriften, hrsg. von C. I. Ger-

298

camlo bomghemo

di scarsa utilità e addirittura ferma al punto di partenza, al rifiuto cartesiano del probabile. In particolare egli accusava Locke di essersi limitato a riproporre la nozione aristotelica di probabile, senza avere sviluppato una dottrina adeguata e quindi avendo fallito nel compito di «déterminer le degré de vraisemblance ex datis», pregiudicandosi la possibilità di «juger raisonnablement quel parti est le plus apparent»49. In conseguenza di ciò il filosofo inglese sarebbe stato costretto a limitare la conoscenza soltanto all’intuizione e alla dimostrazione, abbandonando tutto il resto all’ambito dell’opinione e della fede. Sicché, per l’arte di valutare le verosimiglianze, la lettura dei trattati di casistica dei gesuiti è più utile di quella del Saggio lockiano. Il punto è che, a giudizio di Leibniz, il probabile e il verosimile non può essere risolto nelle testimonianze ma va ricavato dalla «nature des choses», mentre l’opinione di persone anche autorevoli, pur contribuendo a rendere verosimile un’opinione, non può essere «ce qui achève toute la vérisimilitude»: l’opinione di Copernico, anche quando questi era il solo a sostenerla, era infatti pur sempre «incomparablement plus vraisemblable que celle de tout le reste du genre humain»50. Perciò stabilire l’art d’estimer les vérisimilitudes sarebbe più utile di buona parte delle nostre «sciences démonstratives», e Leibniz afferma di avere più di una volta pensato di dedicarsi a questo compito. Il tempo perduto può essere recuperato cercando nella logica dei giuristi il modello per la costruzione dell’intera logica del verosimile. Anche Locke aveva fatto riferimento a modelli giuridici per l’accettazione dell’autenticità di una prova documentale51, ma Leibniz trova nella forma delle procedure in materia di diritto criminale «une espèce de logique, appliquée aux questions de droit»52, e ripropone, in tutti i suoi aspetti, la dottrina delle prove in materia criminale costruita dai giuristi del diritto comune: Le jureconsultes, en traitant des preuves, présomptions, conjectures et indices, ont dit quantité de bonnes choses sur ce sujet, et sont allés à

hardt, 7 voll., Berlin, Weidmann 1875-1890 (rist. anast. Hildesheim, Olms 1965), vol. Vi, p. 68. 49 LeiBniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain, IV, ii, 14, p. 372. 50 Ivi, p. 373. 51 Cfr. Locke, Essay, cit., IV, XVi, 10, pp. 663-664. 52 Cfr. LeiBniz, Nouveaux essais sur l’entendement humain, IV, XVi, 9, in LeiBniz, Sämtliche Schriften, cit., vol. Vi, p. 465.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

299

quelque détail considérable. Ils commencent par la notoriété, où l’on n’a point besoin de preuve. Par après ils viennent à des preuves entières, ou qui passent pour telles, sur lesquelles, on prononce, au moins en matière civile, mais où en quelques lieux on est plus réservé en matière criminelle; et on n’a pas tort d’y demander des preuves plus que pleines et surtout ce qu’on appelle corpus delicti selon la nature du fait. Il y a donc preuves plus que pleines, et il y a aussi des preuves pleines ordinaires. Puis il y a présomptions, qui passent pour preuves entières provisionnellement, c’està-dire tandis que le contraire n’est point prouvé. Il y a preuves plus que demi-pleines (à proprement parler) où l’on permet à celui qui s’y fonde de jurer pour y suppléer (c’est juramentum suppletorium); il y en a d’autres moins que demi-pleines, où tout au contraire on défère le serment à celui qui nie le fait, pour se purger (c’est juramentum purgationis). Hors de cela il y a quantité de degrés de conjectures et des indices. Et particulièrement en matière criminelle il y a indices (ad torturam) pour aller à la question (laquelle a elle-même ses degrés marqués par les formules de l’arrêt); il y a indices (ad terrendum) suffisants à faire montrer les instruments de la torture et préparer les choses comme si l’on y voulait venir. Il y en a (ad capturam) pour s’assurer d’un homme suspect; et (ad inquirendum) pour s’informer sous main et sans bruit. Et ces différences peuvent encore servir en d’autres occasions proportionnelles53.

Com’è noto, Leibniz coltivava questi interessi fin dai suoi studi giuridici giovanili e da molto tempo seguiva con attenzione i tentativi dei matematici di calcolare la probabilità. Paradossalmente era anche questo un interesse sorto in margine al cartesianismo: nel presentare la sua Ars conjectandi, pubblicata postuma nel 1713 dal nipote Nikolaus, Jakob Bernoulli aveva fatto esplicito riferimento alla quarta parte dell’Art de penser54. Leibniz conosceva l’Ars conjectandi, che aveva potuto leggere ancora in manoscritto, e si era espresso a favore di un calcolo matematico dei gradi di verosimiglianza55. Anche Jakob e Nikolaus Bernoulli (autore di una Dissertatio mathematico-juridica de usu artis conjectandi in jure pubblicata a Basilea nel 1709)56 avevano cercato Ibidem. Cfr. JAkoB BernouLLi, Ars conjectandi, Basileae, Impensis Thurnisiorum fratrum 1713, p. 225. 55 Il manoscritto gli era stato mandato dal fratello di Jakob, Johann Bernoulli: cfr. la lettera di Johann Bernoulli a Leibniz del 2 luglio 1709 e la lettera di Leibniz a Johann Bernoulli del 6 settembre 1709, in Leibnizens mathematische Schriften, hrsg. von C.I. Gerhardt, 7 voll., Berlin, Asher 1849-1863 (rist. anast. Hildesheim, Olms 1961-1962), vol. iii, 2, pp. 844-845. 56 Cfr. Dissertatio inauguralis mathematico-juridica de usu artis conjectandi in jure, quam … in academia patria pro gradu doctoratus in utroque jure legitime 53 54

300

camlo bomghemo

di dare una veste matematica alla teoria della prova del diritto comune, cui guardava anche Leibniz. Non per caso i Nouveaux essais accostavano alla logica dei giuristi non solo la semiotica medica, essenzialmente empirica e qualitativa, ma anche il calcolo matematico applicato ai giochi d’azzardo, sviluppatosi a partire dal cavaliere de Méré57. Il tema stava molto a cuore al filosofo tedesco, il quale vi ritornerà negli Essais de théodicée per lamentare ancora una volta l’imperfezione della logica che dovrebbe insegnarci a valutare le ragioni verosimili: «l’art de juger des raisons vraisemblables n’est pas encore bien établi; de sorte que notre logique à cet égard est encore très imparfaite, et que nous n’en avons presque jusqu’ici que l’art de juger des démonstrations»58. Le nozioni di prova piena, semi-prova, quarto di prova utilizzate dai giuristi erano però poco più che metafore, data l’impossibilità di assegnare un valore eguale a ciascun indizio o testimonianza. Contro l’impossibilità di considerare indizi e testimonianze numericamente equivalenti era destinato a infrangersi anche il tentativo dei Bernoulli di estendere il calcolo matematico delle probabilità dalla teoria dei giochi, nei quali era nato, all’ambito del processo civile e penale. Restava però l’idea che la probabilità potesse essere intesa come una frazione della certezza, matematicamente misurabile, ed essere applicata al diritto, alla medicina e alla storia. In questa vicenda c’è un aspetto paradossale. Questi tentativi erano estranei alla nozione cartesiana di evidenza, che Descartes non aveva mai cercato di esprimere in formule matematiche; eppure vennero letti dai contemporanei come un esempio di applicazione dell’esprit de géométrie cartesiano. Mentre Leibniz, il quale, come si è visto, condivideva i presupposti teorici dell’applicazione del calcolo alle materie di fatto e ne seguiva con interesse gli sviluppi, fu presentato come il difensore dell’autonomia epistemologica delle discipline morali rispetto alla matematica. Se ne ha un esempio significativo, ancora una volta, in Nicolas Fréret. Contro il dominante modello geometrico, che presenta come unica certezza valida quella delle «propositions identiques» consequendo, ad diem 14 junii MDCCIX, publice defendet M. Nicolaus Bernoulli, Basiliensis, Basileae, Typis Jo.Conradi à Mechel s.d. 57 Cfr. LeiBniz, Nouveaux essais, cit., IV, XVi, 9, in LeiBniz, Sämtliche Schriften, cit., vol. Vi, pp. 465-466. 58 LeiBniz, Essais de Théodicée, Discours préliminaire, cit., § 28, in LeiBniz, Die philosophischen Schriften, cit., vol. Vi, p. 67.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

301

e considera «comme fausses, ou du moins comme très-incertaines toutes les choses dont la certitude n’est pas absolue et parfaite»59, l’erudito dell’Académie des Inscriptions rivendicava la specificità delle «sciences les plus importantes à l’homme» (morale, politica, economia, medicina, critica, giurisprudenza), tutte egualmente «incapables de cette certitude identique des démonstrations de géométrie» e nondimeno capaci, secondo l’insegnamento leibniziano, di raggiungere un livello di probabilità tale da garantire l’evidenza, senza alcun bisogno di applicare a queste materie il calcolo matematico come fa la «teoria delle combinazioni»: elles ont chacune leur dialectique à part, comme l’a remarqué M. Leibnits, et leurs démonstrations ne vont jamais qu’à la plus grande probabilité; mais cette même probabilité a une telle force dans ces matieres, que les esprits raisonnables ne refuseront jamais de s’y soumettre, ce seroit même détruire ces sciences que de vouloir leur appliquer la théorie des combinaisons, sous prétexte que les probabilités pouvant se calculer, peuvent être considérées comme des nombres, et qu’il est par conséquent facile de déterminer leur rapport60.

Sicché l’autorità di Leibniz è usata da Fréret per opporsi ai tentativi di applicare il calcolo delle probabilità alle materie di fatto61, persino a quelli del malebranchiano Raymond de Montmort, il quale, nella seconda edizione della sua opera sul calcolo applicato ai giochi d’azzardo, aveva presentato la propria dottrina come uno sviluppo delle riflessioni di Leibniz sulla mancanza di una logica del verosimile62. Da queste premesse Fréret ricava la conclusione dell’esistenza più certa degli esseri reali rispetto a quella degli enti geometrici che non esistono al di fuori dell’immaginazione «de ceux qui les considérent»63: una considerazione espressa quasi negli stessi termini impiegati più di trent’anni prima dall’avversario di Leibniz, Pierre Bayle, nel Projet d’un Dictionnaire critique.

59 n. fréreT, Réflexions sur l’étude des anciennes histoires, cit., in Œuvres complètes, cit., vol. i, p. 145. 60 Ivi, p. 146. 61 Ivi, pp. 147 ss. 62 Cfr. P.-R. de monTmorT, Essay d’analyse sur les jeux de hazard, Paris, J. Quillau 1713, pp. XLi-XLii. 63 fréreT, Réflexions sur l’étude des anciennes histoires, cit., in Œuvres complètes, cit., vol. i, p. 154.

302

camlo bomghemo

6. Dubbi e ritorni Nel citare Leibniz, Montmort e Fréret avevano fatto riferimento alla Teodicea, non potendo conoscere i Nuovi saggi, pubblicati postumi soltanto nel 176564. I tentativi di dare una misura numerica dell’attendibilità delle testimonianze e della forza degli indizi, esprimendole come frazioni della certezza piena secondo l’auspicio dell’Ars conjectandi, non erano approdati a nessun risultato concreto e nella seconda metà del secolo alcuni matematici, tra i quali Condorcet e Laplace, avevano battuto un’altra strada, cercando di calcolare la probabilità che le decisioni giudiziarie fossero conformi alla verità. Cosicché la questione dell’applicazione del calcolo matematico all’evidenza giudiziaria sembrava ancora aperta. Un buon documento di questa situazione lo si trova nell’edizione delle opere di Voltaire, pubblicata a Kehl alla fine degli anni Ottanta65, alla quale aveva collaborato anche Condorcet. L’edizione degli scritti nei quali Voltaire si era espresso contro l’impiego delle probabilités en fait de justice è preceduta da una nota editoriale in cui si prendono le distanze dall’opinione dell’autore e si dà un giudizio sostanzialmente positivo sui tentativi dei matematici di introdurre il calcolo nelle materie giudiziarie («L’idée d’appliquer aux preuves juridiques le calcul des probabilités est aussi ingénieuse que l’exécution de cette idée serait utile»), ), pur ammettendo che si tratta di un’idea «encore trop nouvelle» e «trop éloignée des idées communes» per essere accettata. Ma il discredito della teoria della prova giudiziaria del diritto comune era ormai tale da imporre la precisazione che, quando si servono di espressioni apparentemente tratte dall’aritmetica (prove piene, semiprove, quarti di prove ecc.), i giuristi usano in realtà parole «vides de sens», dal momento che «pour se permettre d’employer le langage arithmétique dans l’examen des preuves, il faudrait des connaissances qui manquent à la plupart des jurisconsultes, et des recherches qui n’ont point été faites encore»66. 64 Œuvres philosophiques latines et françaises du feu Mr. Leibnitz, publiées par M. Rud. Eric. Raspe avec une préface de Mr. Kaestner, Amsterdam et Leipzig, J. Schreuder 1765. 65 Œuvres complètes de Voltaire, 70 voll., s. l. [Kehl], De l’imprimérie de la Société littéraire typographique 1784-1789. 66 Ivi, vol. XLVi (Politique et Législation, ii), pp. 416-418. La nota degli editori di Kehl, premessa all’Essai sur les probabilités en fait de justice (1772), è leggibile ora anche nell’edizione The Complete Works of Voltaire, cit., vol. LXXiV A, Œuvres de 1772, 1, pp. 339-341: John Renwick, editore dell’Essai

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

303

Voltaire non era stato il solo a esprimere dubbi sull’opportunità di ricavare la certezza che serve al giudice per pronunciare la sentenza dalla somma di probabilità67, e in questo senso si era pronunciato anche nelle Question sur l’Encyclopédie (1772), dove aveva opposto alle probabilità la certitude entière68. Nel 1764 erano stati pubblicati Dei delitti e delle pene, in cui Cesare Beccaria aveva espresso un’uguale sfiducia circa la possibilità di definire con esattezza la certezza morale che serve al giudice e, ancor più, di ricondurla a una somma di indizi e congetture come pretendeva il sistema della prova legale69. Dunque sia per Voltaire sia per Beccaria – cioè per i due autori nei quali l’opinione pubblica europea identificava i principali oppositori del sistema giudiziario di antico regime – il ‘calcolo’ delle prove sviava dalla ricerca dell’evidenza che deve generare il convincimento del giudice, e per entrambi era preferibile trovarsi di fronte a un giudice onesto e dotato di buon senso piuttosto che a uno determinato ad applicare il calcolo delle prove a rischio di errori giudiziari. Era un modo di ribadire l’impossibilità di percorrere la strada indicata da Jakob Bernoulli, e ciò avveniva nel pieno della vicenda Calas, il caso giudiziario che aveva impegnato Voltaire e appassionato l’opinione pubblica e che si concluderà con la riabilitazione di Jean Calas ad opera della Corte di Cassazione il 9 marzo 1765, a tre anni esatti dalla sua uccisione. Perciò quando i Nouveaux essais di Leibniz furono finalmente disponibili, la celebrazione della dottrina dei giureconsulti che vi era contenuta non poteva trovare un’accoglienza favorevole: le affermazioni dell’autore furono considerate non come l’indicazione di una possibile linea di sviluppo della ricerca sulla logica del verosimile, ma piuttosto come la celebrazione tardiva di un modello che nessuna veste matematica avrebbe potuto aggiornare. Per segnare la distanza tra gli auspici leibniziani e la nuova coscienza giuridica alle soglie della Rivoluzione, torna utile il giudizio espresso da Jean-Pierre Brissot de Warville, autore di una Théosur les probabilités en fait de justice (ivi, pp. 243-384) e delle Nouvelles probabilités en fait de justice (ivi, pp. 385-414), propende anche lui per l’attribuzione della nota a Condorcet (p. 339). 67 Cfr. VoLTAire, Essai sur les probabilités en fait de justice, cit., in The Complete Works of Voltaire, cit., vol. LXXiV A, pp. 305-306. 68 Cfr. «Vérité», in VoLTAire, Questions sur l’Encyclopédie, iX (1772), in Œuvres complètes de Voltaire, ed. Moland, cit., vol. XX, pp. 560-561. 69 Cfr. C. BeccAriA, Dei delitti e delle pene (5ª ed. 1766), a c. di G. Francioni, in Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, diretta da L. Firpo e G. Francioni, vol. i, pp. 58-59 e 100.

304

camlo bomghemo

rie des lois criminelles pubblicata nel 1781, che coinvolge Leibniz nel naufragio della criminalistica di diritto comune e lo fa con un tono di cui nessuno avrebbe osato servirsi ai primi del Settecento: En lisant les Essais sur l’Entendement humain de Leibnitz, j’ai été surpris de voir ce philosophe, qui le premier connut et enseigna la véritable philosophie, admirer la chaîne des preuves présentées par les jureconsultes dans les matières criminelles. Mille exemples d’innocents martyrisés en vertu de ces preuves et demi-preuves, en ont démontré la fausseté. Cependant Leibnitz passe en revue avec une espèce d’admiration les preuves pleines, plus que pleines, demi-pleines; il n’oublie pas même l’indice nécessaire ad torturam, et il regarde la forme affreuse de ces procédures comme une logique presque infaillible, appliquée aux questions de droit. Leibnitz qui se consacra, suivant la coutume des Allemands, à l’étude de la jurisprudence, respecta trop ses décisions barbares, et ne fut que savant où il fallait être philosophe70.

A Brissot de Warville, che aveva assunto a maestro il Voltaire delle battaglie contro gli errori giudiziari – l’homme aux Calas come, secondo la testimonianza di Mme Du Deffand, veniva acclamato per le strade in occasione del suo ultimo soggiorno parigino –71 Leibniz appariva dunque come il difensore del vecchio sistema della prova legale, e l’idea di dare una misura matematica degli indizi si rivela un’utopia degna dell’abate di Saint-Pierre: Une découverte utile pour le genre humain, et qui épargnerait bien des atrocités judiciaires aux tribunaux, serait l’art de fixer le degré de certitude de chaque preuve, d’en faire une échelle invariable; mais ce thermomètre judiciaire est une chimère aussi impraticable que le projet de paix perpétuelle de l’abbé de Saint-Pierre. Le nombre des crimes est si considérable, les circonstances qui les accompagnent peuvent produire tant de milliards de combinaisons différentes, qu’il est impossible d’estimer le degré de certitude que peut donner la réunion de ces circonstances, même dans des cas donnés72.

Pertanto bisogna rinunciare alla leibniziana «art d’estimer les preuves», giudicata da Brissot «la la pierre philosophale de la ju-

70 J.-P. BrissoT de WArViLLe, Théorie des lois criminelles, nouv. éd., 2 voll., Paris, J.-P. Aillaud 1836, vol. ii, p. 88 n. 71 Cfr. la lettera di Voltaire a Brissot de Warville del 13 aprile 1778 (D 21151), in VoLTAire, Correspondence and related documents, definitive edition by Th. Besterman, 51 voll., Oxford, Voltaire Foundation – Taylor Institution 1968-1977, vol. XLV, pp. 291-292 n. 72 BrissoT de WArViLLe, Théorie des lois criminelles, cit., vol. ii, p. 88.

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

305

risprudence criminelle»73. Il linguaggio della matematica, quello metaforico dei giureconsulti come pure quello numerico di chi vuole calcolare le probabilità delle prove, non può trovare spazio nelle decisioni giudiziarie perché la prova non è divisibile in parti «comme une livre de sucre» e la decisione del giudice sulla libertà e sulla vita degli uomini non può «dépendre de mots et de calculs»74. Mentre Voltaire, di fronte agli errori giudiziari causati da testimonianze imprecise o di parte, aveva espresso la propria preferenza per i più oggettivi indizi morali e fisici, Brissot ripropone invece il valore della prova testimoniale. La cosa che qui ci interessa è però un’altra. L’autore della Théorie des lois criminelles sminuisce il valore degli indizi perché rifiuta di accettare che una prova giudiziaria possa avere un carattere congetturale ed essere fondata su un procedimento induttivo: in questo modo infatti non supererebbe il limite della verosimiglianza, e «la la vraisemblance n’est point une démonstration judiciaire», ovvero non dà al giudice la certezza che gli serve per poter decidere. Con questo atteggiamento Brissot si oppone al modello di conoscenza sperimentale che veniva indicato come auspicabile anche per il processo penale: Un indice ne pourrait prouver qu’autant qu’il aurait une liaison intime et nécessaire avec le fait principal. On connait les causes par les effets, mais c’est lorsque les effets ne peuvent découler que de la cause à laquelle on les attribue. Lors donc qu’il est possible que plusieurs causes différentes aient produit un effet, n’est-il pas déraisonnable alors d’affirmer infailliblement l’origine de cet effet? Que Newton ait deviné le profond système de l’attraction, le sage dit: cette hypothèse est vraisemblable, l’enthousiaste ou l’ignorant s’écrient que les vrais criminalistes ressemblent à ce dernier. Mais au moins, son opinion est indifférente au bien ou au mal, parce qu’elle ne fait point verser du sang; parce que, hors l’ancienne capitale de l’univers, on ne condamne point un homme à périr pour ne pas croire au mouvement des astres en raison du quarré de leur distance75.

L’evidenza richiesta per la decisione giudiziaria non può accontentarsi di quella che Brissot qualifica come la verosimiglianza congetturale delle prove newtoniane, e anzi la prova che può ri-

73 74 75

Ivi, pp. 88-89. Ivi, p. 87. Ivi, p. 150. I corsivi sono miei.

306

camlo bomghemo

cavarsi dagli indizi «est encore plus conjecturale», dal momento che la relazione esistente tra una spada che mi appartiene e un uomo trovato assassinato è meno stretta di quella che c’è tra il movimento degli astri e la legge che lo descrive76. Perciò bisogna rinunciare all’idea che accumulare indizi incerti o soltanto probabili possa portare alla certezza: Un indice n’est donc qu’un fait dont la cause est incertaine, dont le vrai rapport est incertain. Assemblez dix indices, vous n’aurez donc que dix effets dont la cause sera incertaine; et dix incertitudes peuvent-elles donner la certitude? Les ténèbres produiraient donc alors la lumière. Voilà pourtant où aboutit tout le raisonnement de ceux qui se fondent sur les indices. Nous avons dix circonstances qui marquent que l’accusé a pu commettre ce crime; donc il l’a commis, donc il doit être condamné. Tout révolte dans ce paralogisme. L’addition est composée de fractions chimériques, le résultat est faux, la conclusion en est barbare77.

Con ciò Brissot prendeva le distanze anche dal ricorso alla preuve par expert, che cercava di trasformare la certezza morale che serve in giudizio in una prova fisica corroborata dagli strumenti della scienza. L’autore della Théorie des lois criminelles si faceva forte della cautela espressa dal celebre medico Antoine Louis nel memoire scritto nel 1763, a proposito del caso Calas, sulla possibilità di distinguere, in un caso di impiccagione, tra lo strangolamento volontario di un suicida e quello provocato da un assassino. Louis aveva ricordato che il perito deve formulare un jugement particulier che tenga conto delle circostanze specifiche del fatto in questione e non può affidarsi a semplici possibilità78. Era lo stesso criterio richiesto da Arnauld per l’accertamento dei fatti storici, ma da Arnauld a Locke a Bayle erano stati in molti a cercare per le materie di fatto una certezza di rango superiore a quello della certezza morale. Anche Brissot aveva percorso per un tratto questa strada quando, in conformità con l’assioma dell’Art de penser che affermava l’impossibilità fisica di un accordo menzognero tra molti testimoni distinti, presentava «le concours de plusieurs témoignages» come una prova che

Ivi, pp. 150-151. Ivi, p. 151. 78 Cfr. A. Louis, Mémoire sur une question anatomique relative à la jurisprudence, dans lequel on établit les principes pour distinguer, à l’inspection d’un corps trouvé pendu, les signes du suicide d’avec ceux de l’assassinat, Paris, P. G. Cavelier 1763, p. 44. 76 77

vemosimiglianza, pmobabilità, cemtezza momale

307

permette di superare i dubbi perché «la seule vérité a pu réunir tant de personnes dont les esprits sont si divers et les passions si opposées»79. Ma egli si fermava qui e nella sua trattazione della prova giudiziaria, nonostante facesse riferimento alla dottrina dei tre gradi di certezza (metafisica, fisica e morale) contenuta nell’articolo «Certitude» dell’Encyclopédie, abbandonava il grado intermedio della la certezza fisica e oppone l’evidenza alla probabilità. In questo modo Brissot assumeva una posizione vicina a quella di Descartes, il quale però aveva rifiutato di entrare nel merito della conoscenza delle materie di fatto considerandole destinate a restare nell’ambito della probabilità e dell’opinione. Nel chiedere che il giudice non debba écouter que le langage de l’évidence, cioè nel pretendere un livello di certezza molto elevato, Brissot trasferiva invece in queste materie uno sguardo ‘cartesiano’: opponeva cioè l’evidence alle vraisemblances, vanificando i tentativi di dare una misura ragionevole, anche se non matematizzabile, della probabilità, che avevano segnato la fine dell’enciclopedia cartesiana da Arnauld a Locke a Leibniz.

79

BrissoT de WArViLLe, Théorie des lois criminelles, cit., vol. ii, pp. 113-114.

INDICE DEI NOMI

Aaron, R. I., 287n. Abbagnano, M., 125n. Abbagnano, N., 125n. Abelardo, 220 e n. Aboab de Fonseca, I., 164. Adam, A., 183n. Adam, Ch., XVIII. Agostini, I., 174n. Agostino Aurelio, 18 e n, 19 e n. Ainsworth, M., 77n, 81, 82n, 93n, 94n, 100n. Albanese, L., 125n. Albrecht, M., 274n. Alciato, G. A., 171 e n. Aldridge, A. O., 82n, 91n, 99 e n. Alembert, J. Le Rond d’, VII. Aleman, M., 192 e n. Alessandro VII, papa, 291. Aletophilus, 265n, 267n. Alibert, P. d’, 186. Allier, R., 180n. Allocca, N., 124n. Alquié, F., 27 e n. Altmann, A., 164n. Amboise, M. d’, 186. Anderson, P.R., 73n. Angelini, E., 124n. Annas, J., 94. Apel, K. O., 129n. Aquilecchia, G., 54n. Archimede XIII, 266. Ariew, R., 80n.

Aristotele, XII, XIII, 10, 12n, 16, 22n, 49, 50n, 52 e n, 57, 58, 59, 60n, 61, 82, 106n, 134, 135 e n, 136, 173n, 191, 196, 275, 276, 278, 288. Armogathe, J-R., 6n, 10n, 19 e n, 21n, 174n, 180n. Arnauld, A., 6, 28, 79n, 104, 108, 121, 122, 237, 238 e n, 239 e n, 282, 283n, 285, 286, 288 e n, 289, 290, 291 e n, 296, 297, 306, 307. Arndt, H. W., 266n. Aubert de Versé, N., 235n, 236 e n. Auerbach, E., 129n. Auzout, A., 186. Averroè (Ibn Rushd), XIII. Avicenna (Ibn Sina), 17n. Aymon, J., 256. Babolin, A., 79n. Bacon, F., VIII, 113, 134, 211n. Baer, Y., 162n. Baillet, A., 177n, 181n, 183n, 186n. Baldi, M., 74n. Balzac, J-L Guez de 192n. Barber, W. H., 296n. Barbier, A.-A., 25n, 26n. Barrell, A. R., 78n. Bartholmèss, Ch., 145 e n, 153 e n. Basson, S., 12. Bartoli, S., 128n.

310

indice dei nomi

Battail, J.-F., 201 e n. Battistini, A., 128n. Bauer, J. J., 264n. Baxter, R., 249. Bayle, F., 86n, 228, 254 e n. Bayle, P., VII, IX, XIII, 4, 7, 79n, 185n, 226n, 233n, 235n, 242n, 251, 254n, 259, 277, 283, 284 e n, 286, 296, 301, 306. Beaude, J., 206n. Beaulieu, A., 8n. Beausobre, L., de, 144 e n, 148, 149 e n, 150 e n, 151, 152, 153 e n, 155 e n, 156, 157, 158. Beccaria, C., 303 e n. Beer, E. S. de, 81n, 252n. Belgioioso, G., 91n, 174n. Benda, W., 77n. Benitez, M., 10n, 17n. Ben-Zeev, A., 117n. Bérigard, C., XIII. Berkeley, G., 103, 104, 106n, 108, 110, 123. Bernoulli, Jakob, 299 e n, 300, 303. Bernoulli, Johann, 299 e n, 300. Bernoulli, Nikolaus, 299, 300. Berti, S., 167n, 254n. Besterman, Th., 296n, 304n. Beza, T., di, 253n. Bianchi, L., 173n, 217n. Biddle, J., 249. Biderman, Sh., 166n. Bidussa, D., 167n. Bigourdan, G., 178n, 179n. Bitaud, J., 11. Blanchard, A., 182n. Bloch, O.-R., 17n. Blount, Ch., 257. Boas, G., 17n. Bodei, R., 94n. Bodin, J., 18 e n. Boerhaave, H., X. Böhm, M., 244, 248n. Böhme, J., 250, 252. Boileau, N., 183n. Bondì, R., 54n, 62n. Bonniveaux, Mme de, 184n.

Borghero, C., 107n, 204n, 206n, 216n, 281n. Bordoli, R., 172n. Bossers, A., 172n. Bossuet, J.-B., 37n, 184n, 185, 283 e n. Botturi, F., 83n. Boulainvilliers, H. de, 228n, 233n. Bourdelot (v. P. Michon). Bove, L., 219n, 220 e n, 225. Boxel, H., 219. Brague, R., 162n. Bradwardine, Th., XIII. Bredeau, C., 12 e n, 13 e n. Brent, N., 254n. Brissot de Warville, J.-P., 303, 304 e n, 305, 306, 307 e n. Brothier, le Père, 180n. Brown, Th., 110. Brugère, F., 94n. Brugmans, H.L., 177n. Brundell, B., 56n. Bruno, G., 249n. Bucchi, S., 112n. Buccolini, C., 9n. Budde, J.F., 265 e n, 266 e n, 267, 268 e n, 269 e n, 270 e n, 271 e n, 272 e n, 273 e n, 274 e n, 275 e n, 276 e n, 277 e n, 278 e n, 279 e n. Budé, G., 171 e n. Buffon, G.-L. Leclerc de, XII, 30n. Buragna, C., 128n. Burnet, G., 257n. Cacciatore, G., 130n. Caietano, Tommaso de Vio, detto, 18, 19 e n. Calas, J., 303, 304, 306. Caloprese, G., 129. Calvino, 252. Campanella, T., 258. Candale, v. Foix-Candale. Canone, E., 85n. Cantelli, G., 130n, 137n, 139n, 204n, 220n. Cantimori, D., 163. Capua, L. da, 128.

indice dei nomi

Carabelli, G., 77n. Cardano, G., 173n, 197n. Carpenter, N., detto Cosmopolitanus, 7, 15 e n, 16, 17. Carraud, V., 238n. Carré, J.-R., 208 e n. Cartesio, v. Descartes. Casaubon, M., 31n. Casini, P., 77n, 80n, 90n. Cassirer, E., 79n, 129n. Castelli, P., 55n. Castro, Orobio de, I., 163, 166 e n. Cervantes Saavedra, M. de, 192n. Cesalpino, A., XIII. Champion, J., 244 e n, 248 e n, 249 e n, 251 e n, 255 e n. Chanut, P., 87. Chapelain, J., 177, 179, 192n. Charleton, W., 86n, 88 e n, 91n. Charron, P., 18 e n, 19 e n, 204, 258. Cherbury, E. H. di, 8, 251. Chevallier, M., 226n. Childerico III, re dei Franchi (VIII sec.), 184n. Chomsky, N., 134n, 136. Ciafardone, R., 268n. Cicerone, MarcoTullio, 188, 189n, 190n, 204, 212n, 288. Clair, P., 179n, 185n, 283n. Clarke, D. K., 113n. Clarke, S., 110n. Clauberg, J., 286, 287 e n. Claude, J., 291. Clave, E. de, 10 e n. Clericuzio, A., 12n, 53n. Clerselier, M., 183n, 186. Cocceius, J., 250. Coccoli, G., 124n. Cohen Herrera, A., 165. Cohen Rosenfield, L., 17n. Colbert, J.-B., 180, 181n, 182n, 183. Colerus, J., 164 e n. Colli, G., 135n. Collier, A., 108. Collins, A., 77n, 256. Condé, Luigi II di Borbone, principe di, 176.

311

Condillac, Et. Bonnot de, 3, 24, 136. Condorcet, M.-J.-A.-N. Caritat de, VII, 302, 303n. Conlon, P. M., 26n. Copernico (Kopernik), N., XIII, 298. Cordemoy, G. de (pseud. M. de Fourneillis), 86 e n, 87n, 172, 176n, 179 e n, 181 e n, 183n, 184 e n, 185n, 187, 188, 190 e n, 191, 192, 193n, 194 e n, 195n, 196 e n, 197 e n, 198, 200 e n. Corelli, A., 143. Cornelio, T., 128. Coseriu, E., 129n. Cosmopolitanus, v. Carpenter, N. Cossart, G., 87n, 182n, 184n. Costa da, U., 166, 167 e n. Coste, P., 3 e n. Cottingham, J., 113 e n. Cousin, V., 107n, 174n, 217n. Cremonini, C., XIII. Crescas, H., 49, 165. Crisippo, 220 e n. Crispini, F., 85n, 94n. Cristina, regina di Svezia, XIII, 176. Cristofolini, P., 132n. Croce, B., 91n, 128n, 129n. Croquez, A., 182n. Cudworth, R., XIV, 79 e n, 83, 89, 91, 93n. Cuneo, T., 116n. Cuttler, E., 88n. D’Andrea, F., 128n. D’Andrea, G., 128n. Dacier, A., 161. Dagen, J., 216n. Dalgarno, M., 117n. Danesi, M., 130n. Daniel, G., 80n. Daston, L., 292n. Daval, R., 62n. Davies, J. W., 80n. De Benedictis, G., 129n.

312

indice dei nomi

De Franco, L., 54n. De Mauro, T., 130n. De Pisi, E., 125n. Deffand, Marie de Vichy-Chamrond, marchesa du, 304. Democrito, 219. Deprun, J., 238n. Descartes, R., VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XVII, XVIII, 4 e n, 5, 6, 8 e n, 9 e n, 14, 17 e n, 21 e n, 25, 28 e n, 29, 31, 36, 40n, 44, 49, 61, 62, 63, 64, 66, 67, 68, 73 e n, 74 e n, 75 e n, 78, 79n, 80 e n, 81 e n, 82, 83, 84, 85 e n, 86, 87, 88n, 89, 90, 91 e n, 92, 93, 94 e n, 95 e n, 96 e n, 97, 98 e n, 99, 100, 101, 104, 105, 106 e n, 107 e n, 108, 109 e n, 110, 111, 112, 113 e n, 114 e n, 121, 122 e n, 123, 124, 125 e n, 128, 129 e n, 132, 133 e n, 134, 135n, 136, 137, 139, 140 e n, 148, 153, 171, 172, 175, 177 e n, 181n, 183n, 186 e n, 188, 191 e n, 193 e n, 195 e n, 196n, 198 e n, 199n, 200, 216n, 220, 221, 222 e n, 223, 224, 225, 226n, 227n, 230 e n, 231 e n, 232 e n, 234 e n, 236, 237, 238, 239n, 255, 265, 266 e n, 270, 274n, 276, 277, 278, 285, 287, 288, 289, 292, 300, 307. Desfontaines, P.-F., Guyot, 35. Desgabets, R., 21. Desné, R., 238n. Di Cesare, D., 130n. Diderot, D., X, XI, XII, 17n, 200, 295 e n. Dieckmann, H., 295n. Diodoro, 220 e n. Doria, P. M., 128n, 129. Dornier, C., 292n. Doujat, J., 184n. Drabkin, I. E., 53n. Drake, S., 53n. Du Bellay, J., 127, 173n, 193 e n. Du Bosc, Ch., 179n. Du Hamel, J.-B., 179 e n, 297.

Du Molinet, C., 181n. Du Prat, A., 179n. Du Rondel, J., 284n. Dunin-Borkovski S. von, 164. Dupuis, C., 175. Eckhardt, N., 263n. École, J., 268n, 269n, 272n, 276n. Edwards, J., 77n. Egilsrud, J. S., 264n. Ehrard, J., 48n. Elisabetta di Boemia, 28, 87, 96n. Ennio, Q., 189n. Epicuro, 60n, 74, 219, 220, 221 e n. Epitteto, 82, 94. Erasmo da Rotterdam, 250. Erbery, W., 249. Ermete Trismegisto, 18, 19n. Eschine, 190n. Esopo, 127. Fabbianelli, F., 277n. Fabre, J., 295n. Faramond, re dei Franchi (V sec.), 184n. Faßmann, D., 263 e n, 267, 269, 272. Fattori, M., 55n. Feé, R., 176n, 186. Federico II, re di Prussia, 144, 145, 153, 164, 167n. 264n, 267n. Feingold, M., 81n. Felice, D., 30n. Fellmann, F., 133n. Fénelon, F., 224, 230n, 238 e n. Fichant, M., 277n. Ficino, M., 20. Fiering, N., 86n. Fierz, M., 71n. Filère, A. de, 188 e n. Filleau de la Chaise, J., 292 e n. Filmer, R., 261n. Filopono, G., 49, 52n. Filoramo, G., 167n. Firpo, L., 303n. Fleury, Cl., 177 e n, 182 e n, 183n, 184n, 186 e n, 187, 188, 189 e n, 190 e n, 193n, 194, 195, 200.

indice dei nomi

Foix-Candale, F. de, 18, 19n. Fontenelle, B. Le Bovier de, 127, 203 e n, 204 e n, 205 e n, 206n, 208n, 210n, 211n, 212n, 213 e n, 215 e n, 216 e n, 217, 218, 263, 267. Force, J. E., 163n. Formey, J. H. S., 146 e n, 154 e n. Formigari, L., 130n. Forster, T., 257n. Fortuna, S., 130n. Foucault, M., 144n. Fouquet, N., 180 e n, 181 e n, 182, 185n. Fourneillis, M. de, v. Cordemoy. Fraioli, M., 125n. Franceschini, C., 257n. Francesco di Sales, 249. Francioni, G., 303. Francke, A. H., 265 e n, 266n, 267. Fréret, N., 285 e n, 300, 301 e n, 302. Freudenthal, J., 164n. Fritsch, C., 244 e n, 248n. Fumaroli, M., 127n, 180n. Furly, Benjamin, 241, 242n, 243, 244, 245 e n, 251, 252, 253 e n, 254 e n, 255, 256 e n, 257 e n, 258, 259, 260 e n, 261. Furly, Benjohan, 256n. Furly, J., 245n. Gabbey, A., 73n, 79n. Gadrois, C., 176n. Galasso, A., 129n, 131 e n. Galilei, G., 8, 9n, 191n, 31. Galluzzi, P., 71n. Gaquère, F., 171n, 186n, 187. Garber, D., 80n. Garcin, L., 226n. Gassendi, P., 8, 14, 19 e n, 23, 49, 50, 55, 56 e n, 57, 58, 59, 60 e n, 61, 87, 88n, 176n, 177 e n. Gaumont, M. de, 182n. Gebhardt, C., 165 e n, 219n. Gensini, S., 130n. Gerdil, G. S., 226n, 227n. Gerhardt, C. J., 155n, 220n, 299n.

313

Gerlach, H.-M., 268n. Gessa, Kurotschka V., 130n. Gibb, J., 287n. Gilbert, W., XIII. Ginzburg, C., 163. Giovanni (evangelista), 251. Giovanni Crisostomo, 252. Girbal, F., 179n, 185n, 283n. Giuntini, C., 80n, 116n, 120n. Giustino, 258. Glanvill, J., 88n. Gleichmann, J. Z., 264n. Goulart, S., 199. Grandamy, J., 176n. Grassi, E., 129n. Green, T. H., 294n. Gregory, J., 103. Gregory, T., 12n, 19n, 56n, 211n. Grente, G., 26n. Grimaldi, C., 129. Gronovius, J. F., 259. Grose, T. H., 294n. Grozio, U., 134, 253. Guedreville, M. de, 186n. Guenellon, P., 259. Guéret. G., 186n. Guion, B., 281n. Gundling, N. H., 265 e n, 266 e n, 267, 276 e n. Hamesse, J., 55n. Hamilton, W., 110. Hammond, H., 253n, 260. Hardouin, J., 27, 234n. Hardy, C., 10n. Hart, J., 86, 87n. Hartley, D., 110, 112n. Hartsoecker, C., 253n. Harvey, W., XIII, 88n. Harvey, W. Z., 162n. Hazard, P., 281 e n. Heinekamp, A., 269n. Heisenberg, W., 141. Helvétius, C.-A., 3, 7, 24. Hemmerich, G., 77n. Hempel, C.F., 265n. Hepp, N., 171n, 186n, 187, 190. Hérouval, Y. de, 180.

314

indice dei nomi

Hill, N., 12, 17. Hobbes, Th., X, XII, XIII, 4 e n, 8, 14, 23, 75, 76 e n, 77 e n, 81 e n, 83, 100, 101, 176n, 177n, 178 e n, 213, 220 e n, 254, 257 e n. Hohendorf, G. W., barone di, 256. Holbach, P.-H. Dietrich, barone d’, X, XI, 24. Home, H., 114n, 294 e n. Howard, E., 80n. Howe, S., 250. Hubbeling, H. G., 164n. Huchard, C., 199n. Huet, P.-D., XIII, 177 e n, 179n, 184n. Hull, W. I., 242n, 243 e n, 244n, 245n, 257n, 258n. Hume, D., 103, 104 e n, 105 e n, 108, 109n, 110, 114n, 119n, 123, 294 e n, 295, 296. Hunter, R. A., 88n. Hutchison, R., 31n. Hutter, E., 252. Hutton, S., 241n. Huygens, Ch., 177 e n, 191n. Huygens, Co., 173n. Idel, M., 162n. Ilario di Poitiers, 18 e n. Immerwahr, J., 119n. Israel, J.I., 166n, 169n. Jacob, A., 62n. Jacquelot, I., 222n, 224, 226 e n, 227n, 228 e n, 229, 230n, 232n, 233, 234n, 235n, 238 e n. Jacquette, D., 120n. Jaffro, L., 84n, 85n, 94n, 97n. Jammer, M., 50n, 54n, 56n. Jansen, C., 286. Jaucourt, L. de, 34. Jenichen, G.F., 223n. Jesseph, D., 81n. Johnston, C.S., 73n. Jones, F., 87. Joris, D., 252. Justel, H., 176n.

Kahn, D., 10n. Kames, Lord (Henry Home), 114n. Kant, I., 115 e n, 145, 161. Kaplan, Y., 163n, 165 e n, 166n. Kapp, V., 171n, 186n. Kaschmieder, K., 263n. Kasher, A., 166n. Kästner, A. G., 302n. Katz, D. S., 163n, 166n. Kennedy, R., 292n. Keplero, J., XIII. Kettner, F. E., 275n. Khunrath, H., 254. Kirkinen, H., 32n. Klein, L. E., 74n, 75n, 76n, 81n. Klever, W., 170n, 237n. Klibanski, R., 294n. Knoll, G., 264n. Knorr, G. W., 264n. Kohler, J. D., 161, 164n. Kölving, U., 296n. Kortholt, Ch., 275n. Koyré, A., 71n, 173n. Kuhlmann, Q., 249. La Barde, L. de (oratoriano), 4. La Beaumelle, L. A. de, 25n. La Bruyère, J. de, 182n. La Condamine, Ch.-M. de, 3n. La Forge, L. de, 23 e n, 177 e n. La Mettrie, J. O. de, IX, X, XII, XIV, 3, 7, 25, 30 e n, 153. La Mothe Le Vayer, F. de, 176n, 203 e n, 204n, 206 e n, 208, 209n, 210n, 211 e n, 212 e n, 213 e n, 214n, 215 e n, 216n, 217, 218. La Ramée, P. de, 173n, 193 e n. La Rochefoucauld, F. de, 76, 77. Labadie, J. de, 249. Labrousse, E., 185n, 286. Lackmann, A. H., 283 e n. Laird, J., 73n. Lalemant, P., 180 e n, 181n, 186. Lamoignon, G. de, 180 e n, 181n, 183n. Lamprecht, S., 73 e n.

indice dei nomi

Lamy, F., 79n, 222n, 224, 226n, 227n, 228n, 229, 230 e n, 232n, 233 e n, 234n, 235n. Landucci, S., 121n, 240n. Lange, J., 268. Languener, 227n. Lanson, G., 3n. Laplace, P.-S., 302. Launay, J. de, 176. Le Brun, C., 172n, 180n, 238n. Le Clerc, J., 226n, 242n, 259. Le Gallois, P., 174n, 175n, 176. Le Guay De Prémontval, A.-P., 154n. Le Laboureur, L., 181n, 186. Le Peletier de Souzy, M., 182n. Lavoisier, A., X. Lecoq, A. M., 180n. Leers, R., 259. Lefèvre d’Ormesson, O., 177, 181 e n, 182n, 186. Leibniz, G. W., XII, XIII, XIV, XV, 136, 152, 153, 155 e n, 220 e n, 221, 223, 235n, 238 e n, 239n, 240n, 265 e n, 266n, 267, 268, 270, 271 e n, 272, 273, 274, 275 e n, 276, 277 e n, 278, 288, 297 e n, 298 e n, 299 e n, 300 e n, 301, 302, 303, 304, 307. Lelevel, H., 222n. Lemaire, P., 183n. Lennon, T. M., 74n. Lerner, M.-P., 54n, 173n. Lessius, L., detto Leys, 9n. Levi Mortera, E., 116n. Levi Mortera, S., 162n, 163, 164, 168. Levi, A., 95n. Levier, Ch., 256. Lilburne, J., 250. Lindenberg, L., 263n. Lipsio, Giusto (Joost Lips), 4n. Lissa, G., 204n. Locke, J., VIII, 3n, 7, 31 e n, 75 e n, 76 e n, 77 e n, 80, 82, 83, 84n, 94n, 99, 100, 104, 105, 108, 110, 119, 123, 125 e n, 148,

315

152 e n, 153, 242, 252, 253n, 255, 258, 259 260 e n, 285, 287 e n, 288, 292, 293 e n, 294 e n, 296, 297, 298 e n, 306, 307. Loisel, A., 187 e n. Lojacono, E., 85n. Lope de Vega, 200 e n. Lorenz, S., 277n. Louis le Débonnaire, re dei Franchi (VIII sec.), 184n. Louis le Fainéant, re dei Franchi (X sec.), 184n. Louis, A., 306 e n. Louvois, M., 182n. Lotti, B., 79n. Lucas, J.-M., 164 e n, 256. Luciano, 82. Lucrezio, 219. Ludovici, C. G., 269 e n. Ludovico, A., 124n, 141n. Luigi XIV, 101, 182n, 183n, 184n, 242. Luria, I., 165. Machamer, P. K., 50n. Magnard, P., 62n. Maignan, E., 179. Maigron, L., 203n, 204n, 205n, 206n, 207n, 208n, 210n, 211n, 212n, 213n, 216n. Maimonide, M., 165, 169, 251, 253. Maione, M., 109n, 115n, 117n, 119n. Malebranche, N., IX, XIII, 27 e n, 28, 30 e n, 33, 34n, 35, 36, 79 e n, 104, 106 e n, 108, 121, 123, 131, 149, 150 e n, 206 e n, 216, 224, 230n, 236, 237, 238 e n, 239 e n, 283, 297. Malherbe, M., 94n. Manzo, G., 129. Maometto, 166, 256. Marcialis, M. T., 204n, 206n. Marco Aurelio, 82. Marillac, R. de, 183 e n, 186, 187n, 188, 189n, 190, 192 e n, 193n, 195n, 196, 197. Marrone, C., 124n, 127n, 130n.

316

indice dei nomi

Marrone, F., 174n. Marsham, J., 260 e n. Marziale, M. V., 277. Masi, S., 274n. Mason, H., 296n. Matthews, E., 117n. Matton, S., 10n, 16n, 18n, 25 e n. Maupertuis, P.-L. Moreau de, 25, 30n, 145. Mayer, J. F., 265, 266n, 267n. Mayr, O., 101n. Mazauric, S., 174n. McCracken, C. J., 106n. McGuire, J. E., 62n. McKenna, A., 17n. McRae, R., 121n. Méchoulan, H., 163n, 168n. Meckel, J. F., 144 e n, 146 e n, 147, 148, 150, 151, 154 e n, 158. Meinsma, K. O., 164n, 165 e n. Melchisedèc, 284. Mercier, R., 45n. Meré, A. G. de, 300. Mersenne, M., 3, 4, 6, 7, 8 e n, 9 e n, 10n, 11e n, 12 e n, 13 e n, 15, 16, 17, 18 e n, 19, 20 e n, 21, 22, 23, 139, 140, 173n, 176n, 183n, 277n. Meschini, F. A., 174n. Meslier, J., 238 e n. Meyer, H., 78n, 164n. Meyer, L., 172n, 286. Mezeray, F. de, 185n. Michael, E.-F.S., 121n. Micheletti, M., 79n, 83n. Michon, P., detto Bourdelot, 16, 174, 175 e n. Micklethwaite, Th., 99. Mignini, F., 219n. Mill, J., 110. Mintz, S. I., 76n. Modica, M., 30n. Moland, L., 295n, 303n. Molesworth, R., 77n. Molière, Poquelin, J.-B., detto, 180n, 186n. Mongrédien, G., 181n. Monsanto, J., 166.

Montaigne, M. E. de, 4, 43, 78, 173 e n, 174 e n, 181 e n, 206n, 266. Montesquieu, Ch.-L. de Secondat, barone de La Brède e de, 30 e n, 32, 283. Montmor, Habert de, 176, 177 e n, 178n, 179, 180, 183n, 184n, 186, 191n, 195. Montmort, P.-R. de, 301 e n, 302. Moore, T., 248. More, H., 49, 50, 55, 56, 61, 62 e n, 63 e n, 64, 65 e n, 66, 67 e n, 68, 69 e n, 70n, 71n, 73n, 79 e n, 83 e n, 86n, 88, 89, 91, 92 e n, 93. Moreau, D., 237n, 239n. Moreau, I., 204n. Moreau, P.-F., 94n. Morelly, É.-G., 32n. Mori, G., 23n, 229n. Morin, J.-B., 10, 11 e n, 12, 16 e n. Mosè, 166, 168, 256. Mossner, E. C., 294n. Mothu, A., 23n. Mounin, G., 140n. Muccillo, M., 55n. Müller, K., 269n. Mulsow, M., 264, 265n, 266n. Myers, D. N., 163n. Nadler, S., 162n, 164n, 167 e n. Nardi, B., 17n. Naudé, G. XIII, 255, 258. Nemesio, 60n. Newcastle, C. Cavendish, marchese di, 88, 191n. Newton, I., VIII, 56, 71n, 80n, 99, 110, 112, 113, 305. Nicholas, J. M., 74n. Nichols, R., 115n, 117n, 119n. Nicole, P., 79n, 282, 283 e n, 285, 286, 288n, 289, 290, 291 e n. Nicolini, F., 128n, 129n, 133n. Nicolson, M., 73n. Nidditch, P. H., 152n, 293n. Niderst, A., 23n, 204n. Nisard, Ch., 177n.

indice dei nomi

Norris, J., 108. North, J. D., 73n. Numa Pompilio, 81n. Nuzzo, E., 130n. Ochino, B. Tommassini, detto, 249n. Ochman, J., 197n. Orazio, Quinto Orazio Flacco, 161, 190n. Origene, 277. Oudin, C., 192n. Pacchi, A., 62n, 73 e n. Paganini, G., 17n, 204n, 210n, 217n. Pagliaro, A., 129n. Paoletti, C., 117n. Paracelso, T. B. von Hoenheim, detto, 176n, 254. Pardies, I.-G., 80n. Parkin, J., 76n. Pascal, B., 291, 292n. Passmore, J. A., 73n, 79n. Patin, G., 180n, 181 e n, 209n, 217n. Patrizi, F., 49, 50 e n, 51 e n, 52 e n, 53n, 54 e n, 55, 56, 57, 59, 64, 67. Pauley, W. C. de, 86n. Pecquet, J., 179. Pellisson, P., 181. Petau, D., 8, 9, 19 e n. Petersen, J. W., 265, 266n, 277. Petit, P., 9 e n, 186. Petrarca, F., 277. Petronio, 212n. Pfanner, D., 257n. Piazzesi, C., 238n. Pichon, Th.-J., 236n. Pico della Mirandola, G.F., 49, 52n. Pinès, Sh., 162 e n, 169. Pintard, R., 8n, 177n. Pipino III, re dei Franchi, detto il Breve), 182n. Platone, 105, 106n, 134, 141, 275, 276n. Plempius, V.F., 191n. Pluquet, F., 222n, 236n. Plutarco, 211n.

317

Poiret, P., 224, 225n, 226, 227n, 228n, 229 e n, 232n, 233, 235n. Poisson, N.-J., 287 e n. Poitevin, G., 10 e n, 12 e n, 13, 16, 17, 18, 21, 23. Pompadour, J.-A. Poisson de, 264. Pomponazzi, P., XIII, 6, 17n, 204. Pontac, Arnaud de, 16. Poppo, V. C., 278. Porzio, L., 128n. Pottecher, F., 181n. Poulouin, C., 203n, 204n. Prado, J. De, 163, 164, 165, 166 e n, 167, 169. Priarolo, M., 238n. Priestley, J., 112n. Proust, J., 295. Psello, Michele, 20. Puliafito Bleuel, A. L., 54n, 55n. Querard, J.-M., 26n. Quintili, P., 30n. Quintiliano, 188. Rachmaninov, S., 143n. Ramesey, W., 86n, 88 e n. Rand, B., 75n, 91n. Rapin, R., 222n. Raspe, R. E., 302n. Rassiels du Vigier, 32n. Ratto, F., 137n. Régis, P.-S., 223 e n, 224, 226 e n, 228n, 229 e n, 230 e n, 231 e n, 232n, 233 e n, 235n, 288 e n. Regius, J., XI, 222n. Regnault, N., 233n. Reid, Th., 103 e n, 104 e n, 105, 106 e n, 107 e n, 108, 109 e n, 110, 111 e n, 112 e n, 113, 114 e n, 115, 116 e n, 117 e n, 118, 120, 121, 122, 123, 124, 125 e n. Renaudot, E., 184n. Renaudot, T., 175n. Renwick, J., 302n. Retz, cardinale de (J.-F. Paul de Gondi), 174n. Révah, I. S., 164n, 165, 166n, 167n.

318

indice dei nomi

Richelieu, A. Du Plessis de, cardinale, 173n, 183n. Rieuwertsz, J., 254. Risse, W., 269n, 272n. Roberval, G. Personne de, 8, 176n, 179, 183n. Robinet, A., 206n, 239n. Robinson, D. N., 105n. Roche, J.-J., 73n. Rochot, B., 8n. Rodis-Lewis, G., 150n. Roëmer, O., 184n. Rogers, G. A. J., 73 e n, 74 e n, 99. Rohault, J., 176n, 178, 179, 181n, 186. Ronsard, P., de, 200. Rorario, G. (Rorarius), 4 e n. Rousset de Missy, J., 256. Rousset, F. de, 192n. Ruderman, D. B., 162n. Rüdiger, A., 265, 266n, 270, 274n. Rutledge, J., 264n. Ryan, E. E., 55n. Saint-Elier, L.-M. Moreau de, 25e n, 26 e n, 27 e n, 28n, 29 e n, 30 e n, 31, 32 e n, 33, 35, 36 e n, 37 e n, 38 e n, 39 e n, 40 e n, 41 e n, 42, 43 e n, 44 e n, 45 e n, 46, 47 e n, 48 e n. Saint-Laurens, J.-F. de, 230n. Saint-Pierre, B. de, 304. Salem, J., 17n. Salomon, H. P., 167 e n. Saltmarsh, J., 249. Sanchez, F., 172. Sanna, M., 130n, 238n. Santucci, A., 104n, 114n. Sarpi, P., 254 e n. Sassoon, I. S. D., 167n. Saveson, J. E., 73n, 86n. Savini, M., 174n. Savoia, Eugenio di, 256. Scaligero, G. C., 134. Schenk, G., 268n. Scheurleer, H., 257n. Schmaltz, T. M., 74n. Schmidt-Biggeman, W., 233n.

Schmitt, C. B., 53n. Schneewind, J. B., 85n. Schøsler, J., 31n. Schröpfer, H., 268n. Schuhmann, K., 54n, 56n. Schuler, J., 80n. Schwenkfeld, C., 249n. Scognamiglio, A., 130n. Scribano, E., 9n, 227n, 237n. Scudérie, M. de., 192n. Secker, T., 245n. Seguier, P., 180n. Senault, J.-F., 88n. Sept-Chênes, N. Leclerc de, 285n. Serrarius, P., 251n. Serveto, M., 249. Sevilla Fernandez, J. M., 128n, 130n. Shaftesbury, A. Ashley Cooper, III conte di, 74, 74 e n, 76 e n, 77n, 78 e n, 79 e n, 80 e n, 81 e n, 82 e n, 83, 84 e n, 85 e n, 86, 89, 90 e n, 91, 92 e n, 93 e n, 94 e n, 95 e n, 96 e n, 97 e n, 98, 99 e n, 100 e n, 242, 256, 257n. Shapiro, B. J., 285 e n, 292n. Sidney, A., 242. Silhon, J. de, 19 e n. Simon, R., 228n, 251, 253. Sina, M., 226n. Smith, A., 105n. Smith, J., 86n, 88. Smyth, J., 250. Soboul, A., 238n. Socino, F., 250. Socrate, 75, 93n, 206n, 271n. Solano y Robles, T., 166n, 167. Somers, J., 77n. Sorbière, S., 177 e n, 178 e n, 179 e n. Spallanzani, M., 172n. Spencer, J., 260 e n. Speroni, S., 127. Spinelli, F. M., 129. Spinoza, B., VIII, IX, X, XII, XIII, 75n, 80n, 161, 162 e n, 163, 164 e n, 165, 166n, 167, 168, 169, 178, 219 e n, 220 e n, 221n, 222, 223 e n, 224, 225, 226 e n, 227

indice dei nomi

e n, 228, 229, 230 e n, 231 e n, 232 e n, 233 e n, 234 e n, 235, 236, 237, 238 e n, 239, 254, 256 e n, 257 e n, 275. Squillante, M., 114n. Stancati, C., 30n. Stanhope, J., 77n, 101n. Stecker, R., 123n. Stella, F., 124n. Stenger, G., 3n. Sterry, P., 250. Stewart, D., 106n, 107n, 110, 116. Stillingfleet, E., 250. Strähler, D., 269. Stratone, 220 e n. Strauss, L., 168, 169. Stuco, Agostino, detto Eugubino, 20. Sulpizio, F. A., 9n. Sulzer, J. G., 145 e n. Swift, J., 127 e n. Tacito, Publio (o Gaio) Cornelio, 134, 295. Tagliacozzo, G., 129n. Tannery, P., XVIII. Tannery, P., Mme, 8n. Tany, T., v. Theaurau J. Taraborrelli, A., 76n, 85n. Tasso, T., 181n, 182. Taton, R., 177n. Telesio, B., 49, 54 e n. Tertulliano, 258. Thaler, B., 268n. Theaurau, J., alias T. Tany, 249. Thijssen-Schoute, C. L., 172n. Thjulen, L. I., 263, 264n. Thomasius, Ch., 265 e n, 266n, 267. Thümmig, L. P., 265n, 271 e n. Tiffany, E. A., 94n. Tilesius, B. H., 269n. Tilmouth, Ch., 74n, 86n, 88n. Tindal, M., 77 e n. Toland, J., XIV, 77n, 80n, 275. Tombes, J., 250. Tommaso d’Aquino, 21, 231n, 250, 252. Tommaso da Kempis, 250.

319

Tosel, A., 224n. Totaro, F., 83n. Tournemine, R. J. de, 238n. Trabant, J., 130n, 132 e n, 133, 135 e n, 136, 137, 138 e n. Tulloch, J., 86n. Turco, L., 117n. Turing, A., 136 e n. Turnèbe, A., 188 e n. Tutino, S., 257n. Tyacke, N., 81n. Tyssot de Patot, S., 275. Uehlein, F., 94n. Uglow, N., 281n. Urfé, H. d., 192n. Valla, L., 135, 173n. Valletta, G., 129. Van Beuningen, C., 178. Van Bunge, W., 170n, 237n. Van Dale, A., 203 e n, 204, 205n, 206n, 210n, 216n, 217n. Van den Enden, F., 168. Van der Brist, M., 10n. Van Goorle, D., 12, 17. Van Heemskerck, C., 256n. Van Helmont, F. M., 242. Van Helmont, J. B., 87, 88n. Van Woudenberg, R., 116n. Vanini, L., detto Giulio Cesare, 9n, 204. Varloot, J., 295n. Vartanian, A., X, 17n, 25 e n. Vasoli, C., 54n. Vasquez, G., 18 e n, 20 e n. Vecchio, S., 137n. Veen, E., 259. Velthuysen, L. van, 286. Ventadour, H. L. de., 185n. Venturi, F., 161n. Vercruysse, J., 296n. Vernière, P., 223n. Viala, A., 175n. Vico, G., 128 e n, 129n, 130 e n, 131, 132 e n, 133 e n, 134 e n, 136, 137, 138 e n, 139, 140, 141 e n, 282. Viète, F., XIII.

320

indice dei nomi

Vigna, C., 83n. Villani, S., 257n. Villari, R., 163. Villon, A., 10 e n, 11 e n, 16. Virgilio Marone, P., 291. Vivaldi, A., 143. Vives, J. L., 135, 197n. Voetius, G., 276. Voitle, R., 94n. Voltaire, F.-M. Arouet, detto, VII, VIII, IX, XI, XII, XIV, 3n, 7, 263, 283, 295 e n, 296 e n, 302, 303 e n, 304 e n, 305. Von Uffenbach, C., 242 e n, 243. Vossius, G., 250. Voyer d’Argenson, R., 185n. Vroesen, A., 256n. Vroesen, J., 256 e n, 257 e n. Waddington, C., 173n, 193n. Walch, J. G., 276n. Waard, C. de, 8n. Watson, R. A., 288n. Webster, C., 73n, 79n. Whalton, B., 253n. Whelan, R., 217n. Whytt, R., 117. Wieland, Ch. M., 267n. Willey, B., 95n, 100n. Williams, R., 250n.

Willis, Th., 88n, 91n. Wilmot, J., conte di Rochester, 76. Wilson, C., 78n. Winkler, K., 85n. Winstanley, G., 249. Witsius, H., 250. Wittich, Ch., 286 e n. Wolff, Ch., 266n, 267n, 268 e n, 269 e n, 270, 271, 272 e n, 273 e n, 274 e n, 275n, 276 e n, 277, 278, 279. Wolfson, H. A., 165 e n. Wolterstoff, N, 116n. Wolzogen, L., 286 e n. Wood, P. B., 117n. Wright, J. P., 120n. Wyclef, J., XIII, 251. Yolton, J. W., 31n, 120n. Yovel, Y., 169 e n. Yuval, I., 162 e n. Yvon, P. di Laleu, 10n. Zaccone Sina, M.G., 227n, 230n. Zambelli, P., 17n. Zanardi, P., 77n. Zanchi, G., 250. Zanta, L., 95n. Zedler, J.H, 269 e n. Zuinger, T., 173n, 193n.

INDICE GENERALE

INTRODUZIONE Carlo Borihero, Cartesianismo, illuminismo radicale e storiografia filosofica. Una vicenda e tre racconti . . . . . p . VII Nota dei curatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » XVII PARTE I. MATERIA, MENTE-CORPO, PASSIONI Claudio Buccolini, La ‘materia pensante’ nelle Obiezioni di Mersenne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

3

Aniela Ferraro, Moreau de Saint-Elier e l’Histoire naturelle de l’homme . Un ‘racconto epistemologico’ . . . . . . »

25

Maria Muccillo, La concezione dello spazio di Francesco Patrizi (1529-1597) e la sua fortuna nell’ambito della reazione anticartesiana inglese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

49

Aniela Taraborrelli, Shaftesbury critico di Descartes . . . . »

73

Emanuele Levi Mortera, Reid, Descartes e la «Way of Ideas» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

103

Caterina Marrone, Implicazioni anticartesiane della teoria del linguaggio in G. B. Vico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

127

Olivia Pallenberi, Immaginazione e follia: una discussione all’Accademia di Berlino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

143

322

indice genemale

pArTe ii. persisTenze, AdATTAmenTi, diffusione Silvia Berti, Alle fonti della modernità: dal marranesimo a Spinoza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 161 Ettore Lojacono, Il cartesianesimo tra i dotti magistrati della fine del XVII secolo e la quaestio del linguaggio . . »

171

Francesco M. Pirocchi, Antropologia della credulità e critica degli oracoli: elementi di continuità tra La Mothe Le Vayer e Fontenelle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

203

Fiormichele Benigni, Itinerari dell’antispinozismo . . . . . . »

219

Francesco Giannini, La letteratura radicale nella biblioteca di Benjamin Furly . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

241

Riccarda Suitner, Ateismo e pietismo in un dialogo anonimo della Frühaufklärung . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

263

Carlo Borghero, Verosimiglianza, probabilità, certezza morale. La dissoluzione del paradigma cartesiano dell’evidenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

281

Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

309

FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI SETTEMBRE 2010 PER CONTO DELLA CASA EDITRICE LE LETTERE DALLA TIPOGRAFIA ABC SESTO F.NO - FIRENZE

GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA QUADERNI 1. Saverio Ricci, La fortuna del pensiero di Giordano Bruno (1660-1775). 2. Roberto Maiocchi, Non solo fermi. I fondamenti della meccanica quantistica nella cultura italiana tra le due guerre. 3. Eugenio Garin, Dal Rinascimento all'Illuminismo. Studi e ricerche. Seconda edizione riveduta e accresciuta. 4. Renzo Ragghianti, Dalla fisiologia alla sensazione all'etica dell'effort. Ricerche sull'apprendistato filosofico di Alain e la genesi della «Revue de Métaphysique et de Morale». 5. Guido Oldrini, La disputa del metodo nel Rinascimento. Indagini su Ramo e sul ramismo. 6. Helmut Holzhey, Il concetto kantiano di esperienza. Ricerche filosofiche delle fonti e dei significati. Con un'appendice sulla nozione platonico-aristotelica. 7. Lia Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di Pietro Giannone. 8. Alberto Meschiari, Psicologia delle forme simboliche. «Rivoluzione copernicana», filosofia del linguaggio e «spirito oggettivo». 9. La geografia dei saperi. Scritti in memoria di Dino Pastine. A cura di Domenico Ferraro e Gianna Gigliotti. 10. Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento. Giornata di studio. Prato, Biblioteca Roncioniana. 4 maggio 2002. A cura di Felicita Audisio e Alessandro Savorelli. 11. Alessandro Savorelli, L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano. 12. Paola Basso, Il secolo geometrico. La questione del metodo matematico in filosofia da Spinoza a Kant. 13. La riscoperta del ‘sacro’ tra le due guerre mondiali. A cura di Sandro Barbera, Cristiano Grottanelli e Alessandro Savorelli. 14. Massimo Ferrari, Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento.

15. Paola Rumore, L’ordine delle idee. La genesi del concetto di ‘rappresentazione’ in Kant attraverso le sue fonti wolffiane (1747-1787). 16. Figure di servitù e dominio nella cultura filosofica europea tra cinquecento e seicento. Atti del convegno. A cura di Nicola Panichi. 17. Loris Sturlese, Eckhart, Tauler, Suso. Filosofi e mistici nella Germania medievale. 18. Sandro Barbera, Guarigioni, rinascite e metamorfosi. Studi su Goethe, Schopenhauer e Nietzsche. A cura di Stefano Busellato. 19. Dal cartesianesimo all’illuminismo radicale. A cura di Carlo Borghero e Claudio Buccolini.