Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950

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RAYMOND WILLIAMS

CULTURA E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Inghilterra 1780-1950

Piccola Biblioteca Einaudi

C. L. 514-Q «

Verso la fine del Settecento, in Inghilterra, alcuni termini di uso corrente nelle pagine di romanzieri e saggisti — come industria, de­ mocrazia, classe, arte, cultura —, acquistarono in maniera sorpren­ dente nuove sfumature e nuove risonanze. Era questa una delle con­ seguenze del profondo rivolgimento sociale, politico ed economico suscitato dalla «rivoluzione industriale». In questo saggio, Raymond Williams studia appunto i rapporti tra la nuova età (che nella sua indagine si estende dal 1780 sino ai gior­ ni nostri) e l’idea di cultura, esemplata nell’opera di filosofi e teorici (Edmund Burke, John Ruskin, William Morris), critici letterari (co­ me Matthew Arnold), poeti e narratori (da Coleridge a Dickens, da Mrs Gaskell a George Eliot, da Shaw a D. H. Lawrence, da Orwell a T. S. Eliot). Folto di citazioni e solidamente documentato, il libro di Williams finisce per assumere un carattere esemplare, il cui interesse va ben oltre l’orizzonte inglese per investire tempi e problemi validi in ge­ nerale e di grande attualità. Raymond Williams è nato nel 1921 e ha studiato al Trinity College di Cam­ bridge. Collaboratore della BBC e di riviste letterarie, quali «The Critic» e «Essays and Criticism», è autore di saggi (Reading and Criticism, 1950; Drama from Ibsen to Eliot, 1952; The Long Revolution, 1961; Modem Tragedy, 1966; Drama from Ibsen to Brecht, 1968; The English Novel from Dickens to Lawrence, 1970; Orwell, 1971; Television: Technology and Cultural Form, 1974; Keywords, 1976), e di un romanzo, Border Country (i960).

Altre opere del catalogo Einaudi sui problemi affrontati in questo volume: Eric John Hobsbawm, Storia economica dell’Inghilterra. La rivoluzione indu­ striale e l’impero. Dal 1750 ai giorni nostri («PBE »), David Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo in­ dustriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri («Paperbacks»), George Macaulay Trevelyan, Storia della società inglese («Biblioteca di cultu­ ra storica»). - Storia dell’Inghilterra nel secolo xix (« Biblioteca di cultura storica »).

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PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI

Geografia. Storia

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Titolo originale Culture and Society 1780-1950 Chatto & Windus, London

Copyright © 1961 Raymond Williams Copyright © 1968 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Quinta edizione

Traduzione di Maria Teresa Grendi

RAYMOND WILLIAMS

CULTURA E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Inghilterra T780-T950

Piccola Biblioteca Einaudi

Indice

P-7

li

Prefazione Schema cronologico

Cultura e Rivoluzione industriale Inghilterra 1780-1950

I?

Introduzione parte prima

27 27 45

58 79

102

Una tradizione ottocentesca

1. Contrasti 1. Edmund Burke e William Cobbett 2. Robert Southey e Robert Owen

li. L’artista romantico ni. Mill a proposito di Bentham e Coleridge

iv. Thomas Carlyle

119

v. I romanzi della Rivoluzione industriale

119 124

Mary Barton, a Tale of Manchester Life (1848) North and South (1855) Hard Times. For These Times (1854) Sybil: Or, The Two Nations (1845) Alton Locke, Tailor and Poet (1850) Felix Holt the Radical (1866)

125 130

133 135 145 167

vi. J. H. Newman e Matthew Arnold vii. Arte e società A. W. Pugin, John Ruskin, William Morris

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INDICE

parte seconda 1. W.H. Mallock 2. La «nuova estetica» 3. George Gissing 4. Shaw e il fabianesimo 5.1 critici dello Stato 6. T. E. Hulme

p. 202 2O6

213 221 227 232

parte terza 243 261

Idee del ventesimo secolo

I. D. H. Lawrence

II. R. H. Tawney

273

in. T. S. Eliot

292

iv. Due critici letterari 1.1. A. Richards 2. F. R. Leavis Una nota su « organico »

292 3°I 313

315

337

Interregno

v. Marxismo e cultura vi.

George Orwell

349

Conclusione

352 355. 360 369 376 385 390

Massa e masse Comunicazione di massa Esame del comportamento della massa Comunicazione e comunità Cultura e quale sistema di vita? L’idea di comunità Lo sviluppo di una cultura comune

401

Indice dei nomi

4°5

Indice dei titoli

Prefazione

Il tema informatore di questo libro è la scoperta che l’idea di cultura e la parola stessa nei suoi comuni usi mo­ derni sorsero nel pensiero inglese nel periodo comune­ mente definito della Rivoluzione industriale. Il libro è un tentativo di dimostrare come e perché questo accadde e di tracciare lo sviluppo di quest’idea fino ai nostri giorni. Diventa cosi un resoconto e un’interpretazione delle no­ stre reazioni intellettuali e sentimentali ai cambiamenti che si verificarono nella società inglese a partire dalla fine del diciottesimo secolo. Soltanto in tale contesto è possi­ bile intendere correttamente l’uso contemporaneo della parola « cultura », e i problemi a cui la parola fa riferi­ mento. Il libro prosegue l’indagine iniziata nella rivista « Poli­ tica and Letters », che io diressi, insieme a Clifford Col­ lins e Wolf Mankowitz, dal 1946 al 1948. Il nostro sco­ po allora era di indagare, e dove possibile riinterpretare, questa tradizione che la parola « cultura » definisce, nei termini dell’esperienza della nostra generazione. Il mio debito va ai miei primi coeditori per quanto ho appreso insieme a loro durante quel primo tentativo. Per la stesu­ ra del libro, iniziata nel 1950, la mia riconoscenza va a Clifford Collins, e anche al mio collega Anthony McLean. Mi fu molto utile discutere il mio lavoro durante la stesu­ ra con Humphrey House e Francis Klingender, la cui ope­ ra sopravvive alla loro morte precoce. F. W. Bateson, E. F. Bellchambers, Henry Collins, S. J. Colman e H. P. Smith sono, tra il numero delle persone che mi hanno aiu­ tato, quelli che devo particolarmente menzionare. Mia

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PREFAZIONE

moglie ha discusso con me il manoscritto, riga per riga, al punto che, per certi capitoli, ne è anch’essa autrice. Ma in definitiva non posso implicare nessuno all’infuori di me stesso, sia per quanto riguarda i giudizi, che per quanto riguarda gli errori. A causa del carattere del libro, non ho potuto include­ re nessuna indagine dettagliata sui cambiamenti subiti dalle parole e dai significati a cui faccio riferimento. Pub­ blicherò tali studi piu tardi, in un saggio specialistico su Changes in English during thè Industriai Revolution. I brevi cenni fatti nel libro sono soggetti ai soliti pericoli della sintesi, e il lettore particolarmente interessato alle parole in quanto tali deve rivolgersi al summenzionato saggio, che aggiunge qualche nuova prova a quelle autore­ voli già esistenti. Mentre questo libro era in corso di stampa, ho conside­ rato lungo quali direttrici ulteriori lavori in questo cam­ po potrebbero muoversi con risultati positivi, ed è forse utile farne cenno. A me pare, prima di tutto, che da varie direzioni stiamo giungendo a un punto in cui una nuova teoria generale della cultura potrebbe di fatto essere for­ mulata. In questo libro ho cercato di chiarire la tradizio­ ne, ma è forse possibile, partendo da questo punto, perve­ nire a una completa ridefinizione dei principi, consideran­ do la teoria della cultura come una teoria dei rapporti tra elementi di tutto un sistema di vita. Occorre anche che noi esaminiamo in questi termini l’idea di una cultura in espansione e i suoi processi in particolare. Giacché noi vi­ viamo in una cultura in espansione, e tuttavia la nostra energia viene impiegata a rimpiangere tale fatto, piu che a cercare di capirne la natura e le condizioni. Ritengo che un’effettiva revisione di una buona parte della nostra sto­ ria culturale acquisita sia necessaria e urgente, in campi come la cultura letteraria, i livelli educativi e la stampa. Abbiamo bisogno anche di studi dettagliati sui problemi economici e sociali dell’attuale espansione culturale, co­ me mezzi per una politica comune adeguata. Infine, nel campo specialistico della critica, siamo forse in grado di estendere i nostri metodi di analisi in rapporto alle nuove definizioni di attività creativa e di comunicazione, che va-

PREFAZIONE

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ri tipi di analisi rendono ora possibili. Tutto questo lavo­ ro sarà difficile, ma può essere di aiuto una comprensione del contesto del nostro attuale vocabolario in tali argo­ menti, e questo libro viene offerto come contributo in tal senso. Alcune parti del libro sono state precedentemente pub­ blicate, in altra forma, in Essays in Criticism e « Univer­ sities and Left Review ». R. W.

Schema cronologico Nell’anno indicato accanto a ogni singolo autore questi aveva venticinque anni.

Edmund Burke Jeremy Bentham William Blake William Cobbett William Wordsworth Robert Owen S. T. Coleridge Robert Southey Lord Byron P. B. Shelley Thomas Arnold John Keats Thomas Carlyle J. H. Newman Benjamin Disraeli F. D. Maurice John Stuart Mill Elisabeth Gaskell A. W. Pugin 1 Charles Dickens J John Ruskin George Eliot Charles Kingsley Matthew Arnold William Morris 1 J. A. McN. Whistler J

Walter Pater W. H. Mallock

1754 1773 1782 1787 1795 1796 1797 1799 1813 1817 1820

1826 1829 1830 1831 1835

i 1844

1847 59

1864 1874

Bernard Shaw 1 Oscar Wilde J 1881

George Gissing Hilaire Belloc R. H. Tawney T. E. Hulme D. H. Lawrence T. S. Eliot I. A. Richards F. R. Leavis George Orwell Christopher Caudwell

1882 1895 1905 1908 1910

1913 1918 1920 1928 1932

CULTURA E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Inghilterra 1780-1950

A Merryn, Ederyn e Gwidion Madawc

Introduzione

Negli ultimi decenni del diciottesimo secolo e nella pri­ ma metà del diciannovesimo, numerose parole, che sono oggi di importanza fondamentale, entrarono per la prima volta nell’uso in Inghilterra, o, dove erano già adoperate comunemente, acquistarono significati nuovi e importan­ ti. Vi è difatti in queste parole un modo generale di tra­ sformarsi, modo che può servire come una guida di tipo particolare per riconsiderare quei piu ampi cambiamenti nella vita e nel pensiero ai quali chiaramente si collegano i mutamenti nel linguaggio. Cinque parole rappresentano i punti chiave sulla base dei quali è possibile tracciare questa guida. Esse sono: in­ dustria, democrazia, classe, arte e cultura. L’importanza di queste parole, nella nostra moderna struttura dei signi­ ficati, è ovvia. I cambiamenti nel modo di usarli verificatisi in questo periodo critico sono la prova di un cambia­ mento generale nel modo caratteristico di considerare la vita comune: le istituzioni sociali, politiche ed economi­ che; i fini che tali istituzioni devono rappresentare, e i rapporti tra le prime e i secondi e le nostre attività cultu­ rali, educative e artistiche. La prima parola importante è industria, e il periodo in cui mutò significato fu il periodo che noi oggi chiamiamo della Rivoluzione industriale. Industria, prima di questo periodo, era il nome di un particolare attributo dell’uo­ mo, nome che potrebbe essere parafrasato con « abilità, assiduità, perseveranza, diligenza». È chiaro che questo significato della parola industria sopravvive ancora. Ma negli ultimi decenni del diciottesimo secolo, industria

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INTRODUZIONE

giunse a significare anche qualcos’altro; divenne un nome collettivo per le istituzioni manifatturiere e produttive, e per le attività generali ad esse attinenti. Adam Smith in The Wealtb of Nations (1776) [La ricchezza delle nazio­ ni], è uno dei primi scrittori a usare la parola in questo significato, e da quel momento lo sviluppo in tale senso è sicuro. V’Industria, con la maiuscola, si considera una cosa a sé' stante - un’istituzione, un complesso di attivi­ tà - più che un attributo dell’uomo soltanto. A industrio­ so, che qualifica una persona, si aggiunge nel diciannove­ simo secolo, industriale, che qualifica le istituzioni. L’im­ portanza rapidamente crescente di queste istituzioni è evi­ dente dal fatto che creano un nuovo sistema, il quale nel terzo decennio del diciannovesimo secolo viene per la pri­ ma volta definito industrialismo. In parte, ciò è la sanzio­ ne di una serie di cambiamenti tecnici di somma impor­ tanza, e delle trasformazioni da questi apportate nei me­ todi di produzione. Ma è anche un riconoscimento dell’ef­ fetto di questi cambiamenti sulla società nel suo insieme, che si trasforma di pari passo. L’espressione Rivoluzione industriale lo conferma ampiamente, giacché, usata per la prima volta dagli scrittori francesi nel secondo decennio dell’ottocento e adottata a poco a poco dagli scrittori in­ glesi nel corso del secolo, è modellata esplicitamente su un’analogia con la Rivoluzione francese del 1789. Come quella aveva trasformato la Francia, cosi questa ha tra­ sformato l’Inghilterra, i mezzi sono differenti, ma il risul­ tato è analogo: ha prodotto, mediante un certo tipo di cambiamento, una nuova società. La seconda parola importante è democrazia, che, nota ai greci nel significato di « governo del popolo », entrò tuttavia nell’uso comune inglese solamente al tempo del­ le Rivoluzioni americana e francese. Weekley scrive in Words Ancient and Modern [Parole antiche e moderne] : Soltanto con la Rivoluzione francese, democrazia cessò di essere una parola letteraria e si inserì nel vocabolario politico '.

Sostanzialmente ha ragione. È vero: nei riguardi dell’A­ merica e della Francia gli esempi incominciano a moltipli­ carsi alla fine del Settecento, e vai la pena sottolineare co­

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me la maggior parte di questi esempi dimostrino che la parola veniva usata in senso negativo: strettamente uni­ ta all’odiato giacobinismo, o al governo della plebe. L’In­ ghilterra fu forse una democrazia (la parola ha talmente tante definizioni moderne) dai tempi della Magna Carta, o del Commonwealth, o dal 1688, ma certamente non si definì mai come tale. I democratici, alla fine del diciotte­ simo e al principio del diciannovesimo secolo, erano gene­ ralmente considerati pericolosi e sovversivi agitatori del popolo. Cosi come industria e le parole derivate ricorda­ no ciò che noi oggi chiamiamo Rivoluzione industriale, de­ mocrazia e democratico, con il loro ingresso nel linguag­ gio comune, registrano gli effetti in Inghilterra delle Rivo­ luzioni americana e francese, e un momento cruciale del­ la lotta, in patria, per quella che noi oggi chiameremmo rappresentanza democratica. Industria comincia a indicare un’istituzione all’incirca nel 1766; democrazia, come termine positivo, data su per giù dallo stesso periodo. La terza parola, classe, si può far risalire, per il significato moderno più importante, all’incirca al 1740. Prima di allora, il termine classe veniva usato per indicare una divisione o un gruppo nelle scuole e nei collegi: «le classi comuni di logica e filosofia». Sol­ tanto alla fine del diciottesimo secolo si comincia a co­ struire la moderna struttura di classe, in senso sociale. Dapprima viene classe inferiore, per unirsi a ordini infe­ riori, che appare agli inizi del diciottesimo secolo. Poi, dopo il 1790, abbiamo le classi alte, le classi medie e clas­ si medie inferiori seguono immediatamente; le classi la­ voratrici circa il 1815; le classi superiori negli anni tra il 1820 e il 1830. Pregiudizio di classe, legislazione di clas­ se, coscienza di classe, lotta di classe e guerra di classe se­ guono nel corso del secolo diciannovesimo. Si sente parla­ re di classi medie alte per la prima volta negli anni novan­ ta; di classi medie basse nel secolo ventesimo. È ovvio, naturalmente, che questa spettacolare storia del nuovo uso del termine classe, non indica l’inizio delle divisioni sociali in Inghilterra. Ma segna con molta chia­ rezza un mutamento nel carattere di queste divisioni, e testimonia, con uguale chiarezza, un cambiamento di at-

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teggiamento nei loro confronti. Classe è una parola più indeterminata di rango, e questa fu forse una delle ragio­ ni per cui venne introdotta. La struttura che poi vi fu co­ struita sopra, sta in un rapporto ottocentesco: in un rap­ porto, cioè, della mutata struttura sociale, e dei mutati sentimenti sociali, di un’Inghilterra che stava passando at­ traverso la Rivoluzione industriale, e che era in una fase cruciale per lo sviluppo di una democrazia politica. La quarta parola, arte, nel modo di trasformarsi, è stra­ ordinariamente simile a industria. Dal suo senso originale di un attributo dell’uomo, un’« abilità », era giunta, nel periodo di cui ci stiamo occupando, a significare una spe­ cie di istituzione, un insieme stabilito di attività di un dato genere. Un’arte, prima, era qualsiasi abilità umana; ma arte, ora, significava un particolare gruppo di abilità, le arti « della fantasia » o « della creazione ». Artista ave­ va significato una persona esperta in qualche campo, cosi come l’artigiano-, ma artista ora si riferiva soltanto a que­ ste abilità scelte. Inoltre, e molto significativamente, arte venne a significare uno speciale genere di verità, « la veri­ tà della fantasia », e artista uno speciale genere di perso­ ne, come dimostra la parola artistico, applicata per la pri­ ma volta verso il 1840, a esseri umani. Fu trovato un nuo­ vo nome, estetica, per indicare i giudizi sull’arte, e questo termine, a sua volta, diede luogo a un nome speciale per uno speciale genere di persone: esteta. Le arti — lettera­ tura, musica, pittura, scultura, teatro - furono riunite in­ sieme in questa nuova espressione, poiché avevano essenzialmente qualcosa in comune che le distingueva dalle al­ tre abilità umane. La stessa distinzione che era sorta tra artista e artigiano, sorse tra artista e operaio. Genio, dal significato di « disposizione caratteristica » giunse a signi­ ficare « grado elevato di abilità », e si fece una distinzione tra questo e talento. Come arte aveva prodotto artista nel nuovo senso, ed estetica esteta, cosi genio produsse un ge­ nio, per indicare un genere particolare di persone. Questi cambiamenti, che appartengono cronologicamente al pe­ riodo degli altri cambiamenti già esaminati, stanno a te­ stimoniare una importante trasformazione avvenuta nei concetti di natura e scopi dell’arte, e dei suoi rapporti con

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le altre attività umane e con la società nel suo insieme. La quinta parola, cultura, muta anch’essa nel medesi­ mo periodo critico. In precedenza, aveva significato in pri­ mo luogo la « cura dello sviluppo naturale », e quindi, per analogia, un progresso nella educazione dell’uomo. Ma questo secondo uso, che era stato in genere una cultura di qualcosa, fu cambiato nel Settecento e agli inizi dell’Ottocento in cultura in quanto tale, una cosa in sé. Venne a significare, primo: « uno stato generale o alito mentale », avente stretti rapporti con l’idea della perfezione umana. Secondo: « la condizione generale dello sviluppo intellet­ tuale in una società nel suo complesso ». Terzo: « l’insie­ me generale delle arti ». Quarto, più avanti nel secolo, si­ gnificò « un intero sistema di vita, materiale, intellettuale e spirituale». Giunse anche a essere una parola che, co­ me sappiamo, spesso suscitò ostilità o imbarazzo. Lo sviluppo della parola cultura è forse il più sorpren­ dente tra tutti quelli citati. Si potrebbe dire, infatti, che i problemi ora accentrati nei significati della parola cultu­ ra, sono problemi che sorgono direttamente dalle grandi trasformazioni storiche che i cambiamenti delle parole in­ dustria, democrazia e classe, a modo loro, rappresentano, e ai quali i cambiamenti nella parola arte dànno una rispo­ sta strettamente legata. Lo sviluppo della parola cultura indica un certo numero di importanti e continue reazioni a tali cambiamenti nella vita sociale, economica e politica, e può essere considerato in sé come un tipo particolare di guida mediante la quale si può studiare la natura dei cam­ biamenti. Ho brevemente illustrato il fenomeno dei mutamenti di significato di queste parole fondamentali. Come sfondo a esse, devo anche volgere l’attenzione a numerose altre pa­ role che erano nuove o che acquisirono un nuovo signifi­ cato in questo periodo cruciale. Tra le parole nuove, per esempio, troviamo: ideologia, intellettuale, razionalismo, scienziato, umanitario, utilitario, romanticismo, atomisti­ co, burocrazia, capitalismo, collettivismo, commercialismo, comunismo, dottrinario, egualitario, liberalismo, masse, medievale e medievalismo, operaio (nome), primi­ tivismo, proletariato (una nuova parola per « plebe »), so-

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cialismo, disoccupazione, eccentrico, colto, ismi e preten­ zioso. Tra le parole che acquisirono allora il significato moderno ora comune vi sono: affari, comune (= volgare), zelante (ironico), educazione e educativo, prosperare, fat­ to a mano, idealista (= visionario), progresso, ranghi * (non nel senso militare), riformatore e riformismo, rivo­ luzionario e rivoluzionare, stipendio (contrapposto a pa­ ga), scienza (= scienze naturali e fisiche), speculatore (fi­ nanziario), solidarietà, sciopero e suburbano (come deter­ minazione di atteggiamenti) ** . Il campo in cui si verifica­ no questi cambiamenti è di nuovo un campo di cambia­ menti generali, che introducono molti elementi che noi oggi consideriamo eminentemente moderni per situazioni e sentimenti. Mio compito specifico sarà descrivere i rap­ porti aU’interno di questo quadro generale di cambia­ menti. La parola che contiene il maggior numero di questi rap­ porti è cultura, con tutto il suo complesso di concetti e ri­ ferimenti. Lo scopo generale di questo libro è di illustrare e analizzare tale complesso, ed esporne la formazione sto­ rica. Proprio a causa del raggio della sua competenza, è tuttavia necessario impiantare l’indagine fin dall’inizio su un’ampia base. In origine mi ero proposto di attenermi strettamente alla cultura propriamente detta, ma più l’e­ saminavo, più i miei termini di riferimento dovevano al­ largarsi. Perché ciò che io scorgo nella storia di questa pa­ rola, nella sua struttura di significati, è un ampio e gene­ rale movimento di pensiero e di sentimenti. Spero di riu­ scire a esporre questo movimento nei particolari. Insomma, vorrei mostrare l’emergere di cultura come astrazione e come assoluto: mentre emerge, in una maniera molto complessa, rappresenta due concetti generali: primo, il ri­ conoscimento che in pratica certe attività morali e intel­ lettuali rimangono separate dallo slancio che un nuovo ge­ nere di società impone; secondo, l’importanza di queste * In inglese rank-and-file che in termini politici corrisponde all’italia­ no «base». ** Suburban (suburbano) definisce il modo di vita e la mentalità della media e piccola borghesia inglese professionale e impiegatizia, che vive alla periferia della grande città.

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attività, in quanto corte di appello umana, da porsi al di sopra dei processi di giudizi sociali pratici, e tuttavia da proporsi come una alternativa moderatrice e corroboran­ te. Ma, in entrambi i sensi, la cultura non era soltanto una reazione ai nuovi metodi di produzione, la nuova z'wdustria. Era legata, al di là di questi, ai nuovi tipi di rap­ porti personali e sociali: anche qui come riconoscimento di separazione pratica e come accentramento di alternati­ ve. L’idea di cultura sarebbe più semplice se fosse stata solo una reazione all’industrialismo, ma era anche, chiara­ mente, una reazione ai nuovi sviluppi politici e sociali, al­ la democrazia. Di nuovo, è una reazione complessa e radi­ cale ai nuovi problemi delle classi sociali. Inoltre, mentre queste reazioni definiscono certi aspetti, entro una data area esteriore che veniva indagata, vi è anche, nella for­ mazione dei significati di cultura, un evidente riferimento a un campo di esperienze personali e apparentemente pri­ vate destinato a influenzare considerevolmente il signifi­ cato e la pratica dell’arte. Questi sono i primi stadi della formulazione del concetto di cultura, ma il suo sviluppo storico è almeno altrettanto importante. Infatti il ricono­ scimento di un complesso separato di attività morali e in­ tellettuali, e la presenza di una corte d’appello umana, che rappresentano i significati originali della parola, sono riu­ niti, e all’interno cambiati, dal crescente affermarsi di tut­ to un sistema di vita, non soltanto come una misura di in­ tegrità, ma come un modo di interpretare tutta la nostra esperienza comune, che, in questa nuova interpretazione, viene trasformato. Là dove cultura significava uno stato o atteggiamento mentale, o l’insieme delle attività intellet­ tuali e morali, significa ora, anche, un intero sistema di vi­ ta. Questo sviluppo, come ognuno dei significati originali e i rapporti reciproci, non è accidentale, ma generale e profondamente significante. I miei intendimenti sono quindi non soltanto di distin­ guere i significati, ma di metterli in relazione con le loro fonti e risultati. Cercherò di fare questo esaminando non una serie di problemi astratti, ma una serie di dichiarazio­ ni di singoli individui. Non soltanto perché io, per tempe­ ramento e formazione, trovo più senso in questo genere

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di affermazioni verificate di persona, che non in un siste­ ma di astrazioni significanti. Ma anche perché, in un tema di questo genere, mi sento impegnato allo studio della lin­ gua vera; cioè alle parole e alle serie di parole che uomini e donne particolari hanno usato nel tentativo di dare un senso alla loro esperienza. È vero che mi interesserò spe­ cialmente degli sviluppi generali del significato nella lin­ gua, e questi, sempre, trascendono la persona singola. Ma, come metodo di indagine, non ho scelto di elencare certi temi, e di mettere insieme dei sommari di particolari af­ fermazioni in proposito. Mi sono piuttosto soffermato, tranne in qualche sporadica eccezione, su singoli pensato­ ri e le loro posizioni, e ho cercato di capirli e valutarli. Il piano deH’indagine è generale, ma il metodo, in partico­ lare, è lo studio delle reali posizioni e dei reali contributi di ciascun individuo. Nella prima parte, esamino alcuni pensatori del dician­ novesimo secolo, di cui molti, se non tutti, sono noti al lettore informato, ma i cui rapporti, e persino il significa­ to individuale, possono apparire da questo punto di vista in una luce un po’ differente. Esamino poi e piu breve­ mente, alcuni scrittori a cavallo dei secoli diciannovesimo e ventesimo, che formano, secondo il mio modo di vede­ re, una specie di interregno. Poi, nella terza parte, esami­ no alcuni scrittori e pensatori del nostro secolo, in un tentativo di rendere la struttura dei significati, e la lingua comune a tali argomenti, completamente con temporanee. Infine, nella conclusione, espongo la mia posizione su un aspetto di questa esperienza comune: non certamente co­ me un verdetto sulla tradizione, ma come un tentativo di ampliarla nella direzione di determinati significati e valori. Il campo di esperienza a cui il libro si riferisce ha dato luogo a difficoltà sue proprie quanto al metodo. Ma queste saranno meglio valutate e giudicate nel corso dell’indagi­ ne. Dovrei forse aggiungere che mi aspetto che il libro sia discusso; non che lo abbia scritto per il gusto della pole­ mica in sé, ma perché qualsiasi indagine di questo genere implica la discussione e la proposta di valori adatti a di­ ventare oggetto di controversia e tali da giungere a tocca­ re anche quelli che noi siamo soliti definire fatti noti. Sa-

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INTRODUZIONE

rò comunque felice se mi si risponderà, su qualsiasi piano, giacché io sto indagando nel nostro linguaggio comune su problemi di interesse comune, e quando consideriamo co­ me stanno ora le cose, il nostro continuo interesse e il no­ stro linguaggio non potrebbero mai essere troppo vivaci.

1 e.

weekley,

Words Ancient and Moderns, p. 34.

Capitolo primo

Contrasti

L’atmosfera dell’Inghilterra nel periodo della Rivolu­ zione industriale è un’atmosfera di contrasti. Il titolo, Contrasti, che Pugin avrebbe reso famoso, sintetizza il modo di pensare delle prime generazioni industriali. Noi possiamo correttamente iniziare il nostro studio con un saggio sui contrasti tra uomini e idee che hanno avuto una influenza duratura. Il mio primo contrasto è tra Ed­ mund Burke e William Cobbett; il secondo tra Robert Southey e Robert Owen.

i. Edmund Burke e William Cobbett.

Edmund Burke è stato chiamato « il primo conservatore moderno »; William Cobbett « il primo grande tribuno del proletariato industriale». Nondimeno Cobbett iniziò la sua carriera politica in Inghilterra sotto il patrocinio di William Windham, un intimo amico di Burke, uno che fece dei principi di Burke la sua bandiera politica. Fu Windham, consapevole di essere l’erede politico di Burke, che accolse nel 1800 il famoso giovane libellista antigiaco­ bino William Cobbett, di ritorno dagli Stati Uniti. Fu con i soldi raccolti da Windham che Cobbett iniziò la pubblica­ zione del suo famoso « Politicai Register », che divenne, e continuò a essere fino alla morte di Cobbett nel 1835, la più influente pubblicazione radicale del paese. Il fiero gio­ vane antigiacobino mori grande radicale, lui che era stato perseguitato in tribunali e prigioni, sotto accuse di sedi­ zione, da altri eredi politici di Burke. Ma l’accostamento

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UNA TRADIZIONE OTTOCENTESCA

di Burke e Cobbett, attraverso Windham, serve come in­ troduzione all’accostamento più importante che ora fare­ mo. Nel sommovimento provocato in Inghilterra dalla lot­ ta per la democrazia politica e dal progredire della Rivo­ luzione industriale, si levarono molte voci a condannare i nuovi sviluppi, nei termini e gli accenti di una più an­ tica Inghilterra. Tra tutte, due sono giunte fino a noi in quanto furono le più importanti: quelle di Burke e Cob­ bett. Malgrado le loro profonde differenze, questo fatto predomina. Essi attaccarono la nuova Inghilterra parten­ do dalla loro esperienza della vecchia Inghilterra, e, dal­ la loro opera, presero l’avvio potenti tradizioni di critica della nuova democrazia e del nuovo industrialismo; tradi­ zioni ancora attive e importanti alla metà del ventesimo secolo. L’attacco di Burke era contro la democrazia, come noi ora usualmente l’intendiamo. L’evento che ne accese l’ira fu la Rivoluzione francese, ma egli non si preoccupava so­ lo per la Francia, forse, e di più, si preoccupava per il le­ varsi di un’analoga ondata in Inghilterra. Non credeva che la si potesse arrestare, ma non per questo la sua oppo­ sizione fu meno salda: Voi vedete, mio caro Signore, che io non mi soffermo sulle differen­ ze riguardanti il metodo migliore per prevenire lo sviluppo di un sistema che credo entrambi non amiamo. Non posso dissentire da voi, perché penso che nessun metodo possa prevenirlo. Il male è accaduto; la cosa esiste come principio e come esempio e noi dob­ biamo attendere la buona grazia di una Mano più potente della no­ stra perché giunga il momento della sua compiuta realizzazione in questo paese e altrove. Tutto quello che ho fatto ultimamente, e tutto quello che farò da ora in poi consisterà esclusivamente nel dichiararmi innocente dall’aver preso comunque parte, attivamen­ te e passivamente, in questo gran mutamento ’.

Ora che il mutamento si è verificato, o, almeno, pare si sia verificato, un uomo in tale posizione si trova evidente­ mente isolato. La confutazione di Burke in campo politico e storico, contro la Rivoluzione francese, è oggi un eser­ cizio elementare. Per attenuare il bollore versiamo acqua fredda. I suoi scritti sulla Francia sono postillati: come la storia della creazione che ho visto una volta in una Bib­ bia, nella sala d’aspetto di una stazione « storicamente fai-

CONTRASTI

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si ». Questo genere di critica è talmente facile, che corria­ mo il rischio di trascurare un punto piu generale, che ha meno da fare con ciò che condanna che con ciò cui è affe­ zionato, e meno con la sua posizione che con la sua ma­ niera di pensare. La caratteristica di Burke è quella indi­ cata da Matthew Arnold nel suo commento su Burke in The Tunction of Criticism at thè Present Time [La fun­ zione della critica oggi]: Quasi unico in Inghilterra, egli fa si che il pensiero influisca sulla politica, satura la politica di pensiero2.

Arnold stesso è uno degli eredi politici di Burke, ma an­ che questo è meno importante che non il tipo di pensiero che Arnold indica con il verbo « saturare ». Non si tratta di « pensiero » come comune contrapposto a « sentimen­ to »; si tratta, piuttosto, di uno speciale rapporto diretto dell’esperienza che si risolve, in profondità, in un partico­ lare personificarsi di idee, che diventano, di per sé, l’uo­ mo nella sua interezza. Se queste idee siano giuste o sba­ gliate non è inizialmente in discussione, e la loro verità non deve essere da principio provata in base all’essere uti­ li o meno nel comprendere la storia o nel penetrare la po­ litica. Lo scritto di Burke è un’esperienza articolata, e co­ me tale ha una validità che può sopravvivere anche dopo che le conclusioni generali sono state demolite. Non è che l’eloquenza sopravviva là dove la causa è venuta a man­ care; l’eloquenza, se fosse soltanto la vernice di una cau­ sa, oggi non avrebbe alcun valore. Quel che sopravvive è una esperienza, uno speciale tipo di sapere: lo scritto è importante solo fin dove è in grado di comunicarla. Si tratta, in definitiva, di un’esperienza personale diventata un punto di riferimento. La mia affermazione può essere spiegata in una manie­ ra molto semplice. In politica, Burke è il grande consiglie­ re della prudenza in quanto principale virtù del governo civile. Noi lo sappiamo: l’accettiamo come un concetto. Gli oppositori formali di Burke, sapendolo, pensano di po­ terlo annientare, se contrappongono a quel principio una frase come questa, tratta da un tributo di un suo grande ammiratore:



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Le sue abilità erano soprannaturali, e soltanto una mancanza di prudenza e di saggezza politica poterono tenerlo entro le file dei mortali ’.

Esaminando, oggi, la carriera politica di Burke, confer­ miamo il giudizio di deficienza. La prudenza comune gli mancò in una crisi dopo l’altra, e la sua saggezza politica, in senso pratico, era vacillante o di poco conto. Tuttavia ciò non intacca il suo giudizio sulla virtù politica. Burke appartiene a quel gruppo di uomini che apprendono la virtù dai loro errori, che imparano cosa è la follia a loro spese. È per lo meno discutibile se questo sia il genere più importante di sapere. Burke dice dei capi dell’Assemblea nazionale: Il fine di tutte le loro idee sembra essere stato quello di ignorare e eludere le difficoltà. Fronteggiare e superare le difficoltà è stata in­ vece la gloria dei grandi maestri di tutte le arti, e una volta supera­ ta la prima difficoltà, volgerla a strumento di nuove conquiste di sempre nuove difficoltà, cosi estendendo i confini dell’impero della propria scienza o quelli dell’intendimento umano. La difficoltà è una maestra severa, prepostaci dalla legge suprema di quel paterno Guardiano e Legislatore che ci conosce meglio di quanto noi cono­ sciamo noi stessi, e ci ama meglio. ... Quel Dio che lotta con noi tempra i nostri nervi e aguzza la nostra abilità. Il nostro antagoni­ sta è il nostro migliore alleato. Questo amichevole conflitto con la difficoltà ci obbliga ad una intima conoscenza dell’oggetto dei no­ stri sforzi e ci costringe a considerarlo in tutte le sue relazioni. Non ci è consentito essere superficiali. È proprio la mancanza dell’ener­ gia mentale necessaria a tal compito, la degenerata predilezione per le scorciatoie ingannatrici, per le piccole ingannevoli convenienze, che ha creato in tante parti del mondo governi arbitrari4.

La verità di ciò può essere generalmente provata, e la lot­ ta non è meno importante né meno utile quando, sotto l’apparenza della difficoltà comune, l’antagonista di un uo­ mo è per certi aspetti lui stesso. Inoltre, il rapporto tra il genere di questo processo nell’individuo e nella società ci­ vile è rilevante e indiscutibile. Non abbiamo bisogno di essere d’accordo con Burke nel sostenere i Borboni contro l’Assemblea, per renderci conto dell’autorità di quanto segue: Se la circospezione e la cautela sono attributi saggi quando si lavora con materia inanimata, divengono attributi doverosi quando l’og­ getto delle nostre demolizioni e costruzioni non siano già mattone o legno ma individui sentienti e pensanti il cui stato, la cui condi­

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zione e le cui abitudini non possono alterarsi d’improvviso senza che ne abbiano a risentire intere moltitudini. ... Un vero legislatore dovrebbe avere un cuore pieno di sensibilità, d’amore e di rispetto per altri esseri umani e di timore di se stesso. Può avere un tempe­ ramento capace di abbracciare in uno sguardo intuitivo i suoi fini, ma dovrà procedere verso questi fini con ogni cautela. Ogni tipo di sistemazione politica, in quanto diretta a un fine sociale, deve rea­ lizzarsi solo con l’uso di mezzi non ripugnanti alla società. In casi del genere si tratta di un incontro di menti. ... Se posso osare di ap­ pellarmi a quanto è ormai cosi fuori di moda a Parigi, voglio dire all’esperienza, vi dirò che nel corso della mia vita ho conosciuto e in qualche misura, secondo le mie possibilità, cooperato con uomi­ ni grandi, e non mi è ancora mai capitato di vedere un piano che non sia stato emendato dalle osservazioni di coloro che pure erano intellettualmente tanto al di sotto della persona che era a capo del progetto. In un progresso lento, ma costante, c’è modo di control­ lare l’effetto di ogni passo sul cui esito, buono o cattivo che sia, si regola il secondo; in modo che seguendo la luce che si vien via via rilevando, si arriva salvi alla fine della nostra peregrinazione intel­ lettuale. Provvediamo cosi a che le parti del sistema non siano in conflitto tra loro. I mali latenti anche nei piu promettenti congegni vengono eliminati via via che si presentano. Un vantaggio è sacrifi­ cato il meno possibile ad un altro, in una continua opera di com­ pensazione, conciliazione e equilibrio5.

Non vi è niente di più sciocco che pensare, come riforma­ tori di varia specie hanno fatto, che si tratti semplicemen­ te di una raccomandazione di conservatorismo. È ugual­ mente sciocco, per i conservatori, pensare che tali conclu­ sioni rappresentino in qualche maniera un argomento con­ tro le più radicali riforme sociali. Burke descrive un pro­ cesso, basato su un riconoscimento della necessaria com­ plessità e difficoltà delle vicende umane, e lo descrive, di conseguenza, come uno sforzo essenzialmente sociale e collettivo di controllare e riformare. Nessuna politica può fare a meno di tali riconoscimenti; nessun tipo di politica, utilizzando una « scorciatoia ingannatrice », può arrogar­ seli. Tuttavia, detto questo, rimane ancora da discutere do­ ve dirigere lo sforzo, da decidere ciò che è necessario. Qui Burke appartiene senza alcun dubbio a quella che Arnold chiamava un’« epoca di concentrazione». Non corrispon­ de a verità il dire che egli si oppose a tutte le riforme, ma le frecce più acuminate sono riservate per tutti gli schemi di rinnovamento totale o di ricostruzione radicale:

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La riforma non consiste in un cambiamento nella sostanza o negli attributi fondamentali dell’oggetto, ma nell’applicazione diretta di un rimedio al malcontento denunciato6.

La politica è una questione di espedienti pratici, non di concetti teorici. Il commento di Burke sullo sfortunato dottor Price può servire come commento generale su tut­ ta la tradizione filosofica e letteraria che andava promuo­ vendo i cambiamenti sociali: Completamente nuovi a quel mondo cui amano tanto mescolarsi e ignari di tutti i suoi affari, su cui si pronunciano con tanta confiden­ za, dalla politica non sanno trarre altro se non le passioni che essa eccita7.

L’affermazione è stata ripresa da migliaia di uomini di mi­ nor valore, ed è oggi un argomento comune di discussio­ ne, pur tuttavia la critica contenuta nell’ultima frase con­ serva la sua forza, e la si potrebbe forse applicare persino a Burke stesso. Anche se il valore di una tradizione di pensiero in politica è sicuramente da lodarsi, questa os­ servazione non deve essere dimenticata in quanto impor­ tante clausola limitativa. Burke ha servito le cause del suo tempo, e in particola­ re la causa dell’opposizione alla democrazia. Sostenne che la democrazia tendeva alla tirannide, e osservò, inoltre, che: quelli che soffrono l’ingiustizia di un’intera moltitudine sono pri­ vati di ogni conforto esterno. Sono come messi al bando dall’uma­ nità o vinti da una cospirazione attuata dall’intera specie umana ’.

Anche questa osservazione è tratta dall’esperienza. Non c’era bisogno di una completa democrazia perché le cose stessero cosi: era la sensazione che provava Burke stesso nei momenti cattivi, sotto la pressione di un’opinione del­ la maggioranza che gli era contraria. Con questo non si nega che l’osservazione di Burke sulla democrazia possa essere giusta. Tuttavia da come la questione è stata posta dai tempi di Burke in poi, la sua posizione sembra oggi un paradosso. Si sostiene generalmente, in questo genere di critica alla democrazia, che l’individuo è oppresso dalla massa, e che, in senso lato, le virtù sono originariamente individuali e la società di massa le minaccia. Burke non

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aveva alcuna esperienza di qualcosa che potesse essere de­ finita società di massa, ma non avrebbe potuto assolutamente accettare un tale ragionamento. La sua posizione è, senza alcun dubbio, di sostenere che l’uomo in quanto in­ dividuo lasciato a se stesso è malvagio. Ogni virtù umana è creazione della società, e in questo senso è non « natu­ rale», ma «artificiale»: «l’arte è la natura dell’uomo». La realizzazione e la garanzia della vera « umanità » del­ l’uomo è la comunità storica. I diritti dell’uomo compren­ dono il diritto a essere frenato: Il governo è un espediente della saggezza umana per provvedere ai bisogni umani. ... Tra questi bisogni si trova quello, che denota una società civile, di porre sufficiente freno alle proprie passioni. Il vi­ ver sociale richiede non solo che le passioni siano tenute sotto con­ trollo, ma anche che nell’insieme dei singoli, cosi come avviene per ogni singolo, le inclinazioni degli uomini debbano essere frequen­ temente contrastate, le loro volontà controllate e le loro passioni soffocate. Questo può essere ottenuto soltanto da un potere esterno a loro e libero, nell’esercizio delle sue funzioni, da quel volere e da quelle passioni che è suo ufficio imbrigliare e domare. In questo senso i freni posti agli uomini vanno annoverati, al pari delle loro libertà, tra i loro diritti ’.

In quanto la democrazia è un sistema che permette agli individui di decidere come governarsi (questa non è l’uni­ ca definizione di democrazia; ma era corrente, insieme al­ le dottrine dell’individualismo economico, ai tempi in cui Burbe scriveva) tale critica è sostanziale. Come Burke di­ ce, in opposizione con un sistema di pensiero che andava per la maggiore nel diciottesimo secolo : Ci guardiamo bene dal permettere a esseri umani di vivere e agire sulla sola scorta dei lumi della propria individuale razionalità, per­ ché sospettiamo che tale scorta sia assai limitata in ogni individuo e che pertanto sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio ge­ nerale di esperienza accumulato dai popoli nel corso di lunghi se­ coli 10.

Settant’anni dopo questa doveva essere la base della defi­ nizione di cultura di Matthew Arnold. In opposizione alle idee di democrazia individualistica, Burke formulò l’idea di popolo: In uno Stato di natura primitiva non vi può essere questione di po­ polo. Un certo numero di uomini non ha di per se stesso una capa2

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cita collettiva. L’idea di un popolo ha in sé quella di una corpora­ zione. È completamente artificiale, e costruita, come tutte le altre funzioni legali, di comune accordo. Quale sia stata la natura parti­ colare di quell’accordo si può ricavare dalla forma in cui è stata or­ ganizzata quella particolare società

Tutto il progredire dell’uomo dipende cosi non soltanto dalla comunità storica in senso astratto, ma dalla natura di quella particolare comunità in cui è nato. Nessun uomo può astrarsene, né dipende da lui solo il cambiare: È vero che la società è un contratto. ... Si possono sciogliere a piace­ re dei contratti minori per merci di interesse occasionale. Ma quan­ do si tratta lo Stato con la stessa capricciosità che distingue i piccoli interessi passeggeri, quando lo si dissolve a piacere delle parti, allo­ ra lo si considera davvero alla stregua di un qualsiasi contratto con­ cernente lo scambio di pepe, caffè, mussolina o tabacco. Bisogna guardare allo Stato con ben altra riverenza, perché questo è un con­ tratto che riguarda ben altre esigenze di quelle pertinenti agli inte­ ressi animali di una natura effimera e corruttibile. È questo un con­ tratto che ha in sé tutte le arti, tutte le scienze, tutte le virtù e la più grande perfezione. E siccome il fine di tale contratto non è per­ seguibile che nel corso di molte generazioni ecco che questo contrat­ to non vincola solo i vivi, ma i vivi, i morti e coloro non ancora nati12.

Si può osservare che, in questa argomentazione, Burke passa da società a Stato, e che l’essenziale reverenza per la società non deve essere confusa, come Burke sembra fa­ re, con quella particolare forma di società che è lo Stato in qualsiasi momento dato *. Secondo lui, non vi era asso­ lutamente nulla di accidentale in nessuna forma partico­ lare; gli uomini disponevano dell’idea di società solo nella forma in cui l’avevano ereditata. Inoltre, il progresso del­ la società umana era « la nota marcia della consueta prov­ videnza di Dio»; la forma ereditata era divina quanto a origine e direzione, era lo strumento della volontà di Dio che l’uomo raggiunga la perfezione. Senza ... la società civile l’individuo che ne è membro troverebbe impossibile non solo arrivare a conseguire tutta la perfezione di cui è capace la sua natura, ma persino muovere un passo verso di essa. ... Colui che concesse alla nostra natura di essere migliorata dalla * L’osservazione è importante, ma Burke non ne sarebbe stato impres­ sionato.

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nostra virtù, deve averla altresì provveduta dei mezzi necessari al proprio perfezionamento. E quindi lo Stato fa parte del suo dise­ gno, nella sua connessione con la fonte e l’originale archetipo di ogni perfezione 13.

Le difficoltà di una tale posizione naturalmente sorgono allorché cambia la forma dello Stato, come era successo in Francia, e per di più tale forma nuova viene considerata distruttrice della società civile. Se la creazione delle for­ me di Stato è « la nota marcia della consueta provvidenza di Dio », allora anche i grandi cambiamenti cui Burke si opponeva potrebbero trovarsi al di là del controllo uma­ no. Lo riconobbe anche lui verso la fine della vita, ma il riconoscerlo non modificò la sua opposizione: Coloro che insistono a opporsi a questa potente corrente delle vi­ cende umane, faranno la figura di resistere piuttosto ai decreti della Provvidenza, che ai meri disegni degli uomini ** .

La difficoltà è utile per illustrare ancora una volta i tempi di Burke. Le sue dottrine riposavano su un’esperienza di stabilità, che conteneva delle imperfezioni, ma non era minacciata nella sua essenza. Via via che la corrente del mutamento si ingrossava, la posizione si trasformò in una difesa disperata. E ancora mentre Burke scriveva, il gran­ de torrente dei cambiamenti economici scorreva potente, trascinando con sé molti di quei mutamenti politici con­ tro i quali si affannava a discutere. Egli parla partendo dalla relativa stabilità del diciottesimo secolo contro i pri­ mi segni del flusso e della confusione del diciannovesimo, ma parla anche contro quelle nuove dottrine che il diciot­ tesimo secolo aveva prodotto, e che sarebbero diventate la filosofia propria di quel cambiamento. Cosi facendo, preparava un atteggiamento nella mentalità inglese, che avrebbe continuamente attaccato il progredire dell’indutrialismo e del liberalismo. Formulò il concetto di Sta­ to come agente necessario della perfezione umana, e nei termini di tale concetto l’aggressivo individualismo del di­ ciannovesimo secolo era destinato a venire condannato. Egli formulò, inoltre, il concetto di quella che è stata chia­ mata una « società organica », in cui si pone l’accento piut­ tosto sulla relazione e la continuità delle attività umane,

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che sulla divisione in sfere di interesse, ognuna governata da leggi proprie. Una nazione non è soltanto un’idea di estensione locale, un momen­ taneo agglomerato individuale; ma è un’idea di continuità, che si estende nel tempo cosi come in numeri e spazio. E questa è non la scelta di un giorno o di un gruppo di persone, non una scelta rapi­ da e tumultuosa; è un’opzione deliberata delle età e delle genera­ zioni; è una costituzione fatta da ciò che è diecimila volte meglio che la scelta; è fatta dalle particolari circostanze, occasioni, tem­ peramenti, disposizioni, e dalle abitudini morali, civili e sociali del popolo, che si rivelano soltanto attraverso un lungo periodo di tempo 1!.

Subito dopo Burke, l’insieme di concetti che egli descrive sarebbe stato chiamato lo « spirito della nazione »; alla fi­ ne del diciannovesimo secolo, sarebbe stato definito una « cultura » nazionale. L’esame dell’influenza e dello sviluppo di queste idee avrà luogo negli ultimi capitoli. Qui è sufficiente prende­ re nota delle definizioni di Burke. È in questi termini che Burke ha durato, ma tale sopravvivere comporta una se­ parazione di queste idee dalle restanti sue asserzioni. Og­ gi se lo si guarda come un tutto, lo si vede storpiato da incomprensioni di vario genere. Se noi collochiamo la sua polemica di fronte alla successiva « nota marcia », egli ci pare cieco davanti a molti dei cambiamenti che già men­ tre scriveva stavano trasformando l’Inghilterra. Come al­ trimenti, ci si domanda, nel mezzo di un periodo' di ses­ santanni che vide l’approvazione di 3029 « decreti di re­ cinzione » della terra comune per tradizione, avrebbe egli potuto scrivere una frase come questa: Nel nostro Parlamento si tratta più cerimoniosamente il diritto di affitto di un orticello, un anno di interesse su una piccola casupola, la concessione di una birreria o di un forno, insomma anche l’om­ bra di quel che possa assomigliare ad una proprietà, di quanto da voi si faccia per le più antiche e valutate proprietà fondiarie “.

Più di ogni altro pensatore inglese, Burke avrebbe dovuto riconoscere senza alcun dubbio che quei quattro milioni di acri che il Parlamento stornava in mani private erano proprietà comune per diritto di prescrizione e consuetu­ dinario. L’osservazione non è polemica contro Burke; ma,

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se mai, una indicazione della tendenza della storia e delle opinioni. La «società organica» a cui il nome di Burke sarebbe stato legato, si stava frantumando sotto i suoi oc­ chi per le nuove forze economiche, mentre egli protesta­ va per altre cose. La conclusione di tutta la sua polemica, in un brillante giudizio di lui stesso, è questa: Gli uomini saggi indirizzeranno i loro rimedi alla sostanza dei vizi, non ai nomi di essi; alle cause permanenti del male, non agli organi occasionali nei quali il male si manifesta e ai modi transitori in cui appare. Altrimenti sarete savi storicamente, ma pazzi in pratica. Ra­ ramente si sono viste due età in cui il male si sia presentato sotto gli stessi modi e pretesti. In genere il male è un principio assai piu in­ ventivo. ... Cammina libero nell’aria e continua a perpetrare i suoi danni mentre voi ne impiccate la carcassa, o ne demolite la tomba. Vi fate paura con fantasmi ed apparizioni, senza accorgervi che la vostra stessa casa è diventata nido di predoni ”.

Il vigore dell’analisi, se applicata a Burke stesso, serve so­ lo a sottolinearne l’ironia. È qui, credo, che Cobbett è cosi pertinente. Cobbett era più giovane di Burke tanto da vivere le guerre napo­ leoniche e le loro conseguenze e da vedere i primi effetti in città e in campagna di quel complesso di mutamenti che chiamiamo Rivoluzione industriale. Non aveva nean­ che in parte la profondità di pensiero di Burke, ma ave­ va ciò che in quel periodo cosi confuso era almeno altret­ tanto importante, una straordinaria sicurezza di istinto. Tra Cobbett l’antigiacobino e Cobbett il radicale c’erano più cose in comune di quello che di solito si pensa; c’è la stessa arroganza, la stessa asprezza, la stessa avidità di trovare una classe di uomini da odiare. Spogliato della sua sicurezza di istinto, Cobbett in gran parte rientra nel tipo peggiore del giornalista popolare. Ci sono stati infat­ ti dopo di lui, un migliaio di piccoli Cobbett, che imitano i difetti di quella classe sociale e sono privi delle sue vir­ tù. Ciò serve a mostrare, non soltanto la continuità, ma anche le qualità di Cobbett, giacché la sicurezza dell’istin­ to non era casuale — era, se mai, qualcosa di vitale e di incrollabile, una vera personificazione del valore. « Gli uomini saggi indirizzeranno i loro rimedi alla so­ stanza dei vizi, non ai nomi di essi »; questo è fondamen­ talmente il motto adatto a Cobbett, e contribuiva anche

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alla sua saggezza, in questo periodo di particolare confu­ sione, l’essere relativamente indifferente alle idee. Pote­ va tuonare, con Burke, contro una moltitudine di orrida barbarie, quale occhio mai non vide, lin­ gua mai espresse o fantasia mai concepì, fino all’inizio della Rivolu­ zione francese 18.

Poteva felicitarsi con se stesso, partendo dagli Stati Uni­ ti nel 1800, di ritornare alla sua terra natia, che non guastano né il tarlo della democrazia né la rug­ gine del federalismo 15.

Ma quando vide le condizioni dell’Inghilterra, e in parti­ colare le condizioni dei lavoratori più poveri, non rivolse la sua reazione a nessuna categoria determinata, né ebbe paura di fare nomi: Ahimè! Puoi sussultare; puoi urlare giacobino ed egualitario quan­ to ti piace. Voglio vedere i poveri dell’Inghilterra come erano quan­ do sono nato; e nulla all’infuori della mancanza dei mezzi mi farà desistere dal tentativo di realizzare questo desiderio20.

Vide, e capi, i mutamenti nella campagna: Il sistema fiscale e gli investimenti ... hanno ... portato la vera pro­ prietà della nazione nelle mani di pochi; hanno reso la terra e l’a­ gricoltura oggetti di speculazione, hanno in ogni parte del regno fu­ so molte tenute in una; hanno quasi completamente fatto sparire la razza dei piccoli coltivatori; da un capo all’altro dell’Inghilterra le case che prima contenevano piccoli agricoltori con le loro famiglie felici si vedono adesso cadere in rovina, tutte le finestre, eccetto una o due chiuse, lasciando solo luce sufficiente perché qualche brac­ ciante, il cui padre era, forse, il piccolo agricoltore, possa guardare i suoi bambini mezzi nudi e mezzi morti di fame, mentre dalla porta scorge tutto intorno a sé la terra che abbonda dei mezzi della ric­ chezza per il suo padrone opulento fuor di misura. ... Ogni giorno avanziamo verso lo stato in cui non ci saranno che due classi di uo­ mini, padroni, e abietti dipendenti21.

Questo fu sempre il suo tema principale: In Inghilterra un uomo che lavora, con una moglie e solo tre figli, anche se non perde mai una giornata lavorativa, anche se lui e la sua famiglia sono parchi, frugali e industriosi nel senso più ampio di queste parole, non è in grado di procurarsi con il suo lavoro un solo piatto di carne in tutto l’anno. È questo lo stato in cui dovreb­ be trovarsi un uomo che lavora22?

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Metteva in contrasto l’apparente ricchezza con la pover­ tà reale: Ecco le risorse! Ecco la ricchezza! Ecco tutti i mezzi del potere del­ la nazione e l’abbondanza e la felicità degli individui! E tuttavia, alla fine di queste dieci miglia splendide, coperte di tutti i mezzi per procurare lusso sotto forma di cibo e vestiti, entrammo in quella città di Coventry che, su ventimila abitanti, conteneva proprio in quel momento fino a ottomila miserabili indigenti23.

Cosi l’accusa si ingrossava, e si generalizzava: L’Inghilterra ha per lungo tempo sofferto sotto un sistema commer­ ciale che è il più oppressivo di tutti i sistemi possibili ed è, quella che produce, una oppressione silenziosa, calma, soffocante, più odio­ sa di tutte le altre

I termini della critica sociale di Cobbett sono cosi simili a critiche successive e più organiche che è facile dimenti­ care l’esperienza da cui partiva, e i valori in base ai qua­ li giudicava. Chiamava il nuovo sistema di classi, molto significativamente, «innaturale». Nella polemica, accusò un avversario di cercare di spezzare la catena dei rapporti tra il ricco e il povero. Voi siete per l’aboli­ zione di tutti i piccoli commercianti. Voi siete per ridurre la comu­ nità a due classi: padroni e schiavi. ... Quando i termini erano pa­ drone e uomo ognuno era al suo posto e tutti erano liberi. Ora, di fatto, si tratta di padroni e schiavi.

Nel lavoro produttivo alle vecchie relazioni sociali si so­ stituivano uomini ridotti a « mani », al servizio dei Signori del Ritorto, sovrani del Filatoio, grandi proprietari del Fi­ lato “.

II nuovo sistema industriale era contro natura, e Cobbett prevedeva che gran danno sarebbe nato da cose come le nuove ferrovie : Sono effetti innaturali, che derivano dal fatto che le ricchezze del paese sono state innaturalmente riunite in grossi mucchi27.

L’accento è sempre su innaturale, e la parola è la chiave di volta di una tradizione continua di critica alla nuova ci­ viltà industriale destinata a continuare. La reazione di Cobbett, tuttavia, è soprattutto di due



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tipi. C’è la reazione dell’uomo di campagna, che è diven­ tata una tradizione inglese importante. Posto di fronte al­ la nuova economia industriale, al tipo di prodotti e al mo­ do di soddisfare le necessità, pubblicò un manuale del­ l’Inghilterra che ricordava: Economia del Cottage: contenente informazioni riguardanti la fer­ mentazione della birra, il fare il pane, l’allevamento delle mucche, maiali, api, pecore, capre, pollame e conigli, e riguardanti altri sog­ getti considerati utili nella conduzione degli affari di una famiglia contadina.

Era un segno dei tempi, naturalmente, che gran parte di queste informazioni dovessero essere rese note attra­ verso la stampa, ma il titolo riassume questa parte del­ la reazione positiva di Cobbett. Avrebbe voluto salvare quello che poteva dell’industria domestica e dei mestieri quotidiani tradizionali. C’è anche, tuttavia, l’altra reazione di Cobbett, che era, ed è ancora, molto più polemica. Nella miseria che si era abbattuta sul povero dell’Inghilterra, Cobbett si oppose fermamente a ogni forma di « consolazione ». Non voleva aver niente a che fare con progetti caritatevoli, la divulga­ zione di opuscoli religiosi e neppure con il genere di istru­ zione popolare che era allora consigliata : Il sistema della «consolazione» implica necessariamente interfe­ renza da una parte e dipendenza dall’altra2!.

Non voleva violenza, ma si aspettava resistenza. Si aspet­ tava e osservava con simpatia tutti gli sforzi dei lavorato­ ri poveri per migliorare la loro condizione mediante un’a­ zione loro propria: Sapevo che tutto il discutere del mondo, tutto il lusingare, il blan­ dire, il pregare; sapevo che tutto il gridare e minacciare; sapevo che tutto l’insegnare delle compagnie religiose; che tutto l’imprigiona­ re, il frustare, l’attaccare a carri e carretti; sapevo che tutto questo non sarebbe riuscito a persuadere l’onesto sensibile e industrioso lavoratore inglese, che egli non aveva un irrevocabile diritto a vive­ re. ... Non vi è uomo, se non sia di natura malvagia, che possa assi­ stere senza gran pena alla distruzione della proprietà che si sta veri­ ficando nelle contee del sud; ma io a questo oppongo il corso delle cose veramente naturale quello in cui il lavoratore, colui che produ­ ce, non morirà di fame 29.

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Di conseguenza, e a suo gran rischio personale, si oppose ad ogni genere di oppressione da parte dell’autorità sta­ tale: Parlare di essi [i rivoltosi], come ha fatto il «Times» come di una plebaglia organizzata, facilmente battuta dai soldati; e dire che sa­ rebbe augurabile che il risentimento scoppiasse dappertutto con­ temporaneamente, cosi che il fastidio di domarlo possa finire più presto; parlare in questa maniera leggera e spavalda è fatto apposta per trasformare lo scontento in rabbia e disperazione

Rifiutò la spiegazione ortodossa di disordine come dovu­ to a « complotti » e « agitatori »: In questa situazione il ministero sarà più imbarazzato che mai. Non riescono a trovare agitatori. È un movimento proprio del popolo31.

Condannò l’istituzione delle leggi sulle associazioni come un’arma contro il sindacalismo: Quando si scopri che gli uomini non potevano mantenere le loro fa­ miglie decentemente sulla base dei salari che i ricchi padroni deci­ devano di dare loro, e che gli uomini non volevano lavorare, e che riuscivano ad associarsi, in modo da essere in grado di vivere per un certo periodo, senza lavorare; allora si trovò necessario per le mire in vista, di chiamare questa associazione con il nome di cospirazio­ ne; si trovò necessario distoreere le leggi cosi da punire degli uomi­ ni perché domandavano ciò che ritenevano valesse il loro lavoro “.

Considerava il lavoro la sola proprietà del popolo, e chie­ deva che avesse gli stessi diritti delle altre proprietà: Il principio in base al quale ogni proprietà esiste è questo: che un uomo ha diritto di farne ciò che vuole. Che ha diritto di venderla o di tenersela, che ha il diritto di rifiutarsi assolutamente di disfarse­ ne; o, se decide di venderla, di insistere sul prezzo che stabilisce di chiedere: se non è cosi, un uomo non ha nessuna proprietà ”,

Il principio proviene direttamente dal pensiero individua­ lista del diciottesimo secolo, ma estendendolo a una nuo­ va specie di proprietà e di qui a tutta una nuova classe, minacciava la base economica di una società concepita proprio su questo principio. Il nuovo datore di lavoro re­ clamava il diritto di fare quello che voleva di ciò che gli apparteneva; Cobbett, in base allo stesso principio, recla­ mava lo stesso diritto per i lavoratori. Cosi come aveva visto emergere la struttura classista

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della nuova società, Cobbett ne vedeva le conseguenze nella lotta di classe: Essi [i lavoratori] si uniscono per ottenere un aumento delle pa­ ghe. I padroni si uniscono contro di essi. Una parte si lamenta del­ l’altra; ma nessuna delle due conosce la causa dell’agitazione, e l’a­ gitazione continua. Le varie corporazioni si uniscono e chiamano la loro unione General union. Ecco come una classe della società si è unita per opporsi a un’altra M.

Per Cobbett questo era inevitabile, sulla base del princi­ pio che aveva avanzato, e che i lavoratori stessi avevano difeso. Non pensava che il problema dovesse essere risol­ to dai datori di lavoro adottando un migliore atteggia­ mento verso i lavoratori; questo faceva parte del « siste­ ma paternalistico » e veniva praticato persino dai proprie­ tari di schiavi verso i loro uomini. I lavoratori non avreb­ bero avuto una posizione sociale migliore degli schiavi se non si estendevano i diritti tradizionali della proprietà al­ la loro unica proprietà, il lavoro. Voleva che la classe la­ voratrice si rendesse conto della propria posizione in que­ sti termini. Come disse nel 1830 a proposito degli avve­ nimenti francesi: Sono contento della Rivoluzione, specialmente per questo motivo, perché fa si che le classi lavoratrici vedano la loro reale importanza, e la vedano anche coloro che le disprezzano35.

Cobbett aveva scoperto, infatti, la debolezza essenziale, la contraddizione insita nelle teorie dell’individualismo eco­ nomico. Sarebbe forse piu esatto dire che egli vi si era imbattuto per caso, unendo insieme la sua eredità del di­ ciottesimo secolo e l’attaccamento, per istinto e per espe­ rienza, al lavoratore povero. Egli cosi vide e approvò, ai suoi inizi, il movimento dei lavoratori, e sapeva che non sarebbe stato sconfitto dalle leggi: Meglio chiedere una legge che prevenga quelle cose scomode chia­ mate maree sigiziali 3‘.

Che la sua valutazione della situazione fosse realistica, molto più realistica di quella della maggioranza dei suoi contemporanei, è oggigiorno ovvia. Come punti focali della critica al nuovo sistema indù-

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striale, abbiamo quindi Cobbett l’uomo di campagna, con il suo attaccamento a un diverso sistema di vita e Cobbett il tribuno, che incoraggia il nascente movimento dei lavo­ ratori. Nel secondo ruolo è stato da molti continuato e, nel mutare delle circostanze, molte volte sostituito. Nel primo rimane insostituibile: Rural Rides [Passeggiate ru­ rali], e i valori che rappresentano, sono ancora una pietra miliare. Rimangono da esaminare brevemente altri due aspetti della sua opera: uno scontato, l’altro piuttosto sor­ prendente. Il primo è la sua posizione nei confronti del­ l'istruzione popolare, che è molto simile a quella di Di­ ckens in Hard Times [Tempi difficili]. Pensava, per ra­ gioni politiche, che i lavoratori dovessero dirigere i propri movimenti per l’istruzione; qualsiasi altro provvedimento sarebbe rientrato nel « sistema paternalistico », nella con­ tinua esortazione a «stare tranquilli». Dickens non era interessato a questo, ma riteneva, con Cobbett, che il sa­ pere astratto da un intero sistema di vita, e quindi usato come stampo in cui plasmare tutte le giovani vite, fosse inumano e pericoloso. Cobbett insisteva che l’imparare non poteva essere separato dal fare; e che una buona edu­ cazione sgorgava da tutto un sistema di vita, ed era una preparazione per parteciparvi, più che una libresca astra­ zione isolata. La posizione è giusta, anche se spesso ne è stato fatto cattivo uso; Cobbett stesso è spesso soltanto un filisteo. Giacché proprio i cambiamenti economici e so­ ciali che Cobbett attaccava imponevano con la forza una separazione tra la cultura e le altre attività umane. Criti­ care la separazione era cosa pregevole; ma bisognava far­ lo con forse maggior prudenza di quanto Cobbett fosse in grado di fare, nei termini positivi dell’unità delle attività umane, più che nei termini negativi di un pregiudizio con­ tro «la cultura libresca». Vedremo gli ulteriori sviluppi di questo argomento in altri scrittori. L’altro aspetto dell’opera di Cobbett è la parte di re­ sponsabilità che egli ebbe, inaspettatamente, in quell’i­ dealizzazione del Medioevo che è cosi caratteristica della critica sociale dell’ottocento. Come movimento lettera­ rio, il medievalismo si era andato sviluppando fin dalla metà del secolo diciottesimo. Per Cobbett, l’aspetto più

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interessante di tale movimento fu il valersi dei monasteri come modelli di istituzioni sociali; l’immagine di come funzionava una società comunitaria in quanto utile alter­ nativa alle rivendicazioni dell’individualismo. Burke l’a­ veva sottolineato nelle Reflections [Riflessioni sulla Ri­ voluzione francese]; più tardi Pugin, Carlyle, Ruskin, e Morris l’avrebbero tutti messo in evidenza, in maniera esplicita e autorevole. È un po’ sorprendente trovare Cobbett in questa compagnia. Il suo modello, di solito, era « l’Inghilterra nella quale sono nato ». E tuttavia non solo egli lo pose in rilievo, ma fu in gran parte responsabile della sua divulgazione. Egli lesse la History of England [La storia dell’Inghilterra] di Lingard, opera di uno stu­ dioso cattolico, e l’adoperò con libertà tipica, come base della sua History of thè Protestant «Reformation » [Sto­ ria della « Riforma » protestante]. Questo libro ebbe, per i suoi tempi, un’immensa diffusione, e ci devono essere stati per un certo periodo migliaia di lettori che si avvici­ narono a queste idee attraverso Cobbett più che attraver­ so la conoscenza di qualcuna delle fonti più attendibili. Per Cobbett, come per molti altri, la scelta era istintiva; il sentimento da cui aveva origine era semplicemente la ripugnanza per i cosi diversi ideali sociali dell’industria­ lismo nascente. Burke e Cobbett, se si segue attentamente il loro pen­ siero, sono figure molto diverse, quasi antagonistiche. Burke non visse abbastanza per esprimere la sua opinione su Cobbett il radicale, ma è probabile che sarebbe stato d’accordo con il giudizio di Coleridge del 1817: Io ho verso ... i Cobbetts ... e tutte queste creature - e verso i se­ guaci di Fox, che hanno allevato le vipere - un sentimento più si­ mile all’odio di quanti ne abbia mai nutriti verso altra Carne e San­ gue 37.

Cobbett, altrettanto dogmaticamente, ci ha lasciato la te­ stimonianza di una opinione su Burke tipica per la sua li­ mitatezza: Come è divertente sentire il mondo che discute e si azzuffa intorno ai motivi e i principi, e le opinioni di Burke\ Egli non aveva idee, né principi, né opinioni personali, quando scrisse la sua famosa

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opera ... era un povero, bisognoso dipendente di un intrallazzatore e per servirlo e compiacerlo, egli scrisse; e assolutamente per nes­ sun altro motivo. E tuttavia quanta gente legge gli scritti di que­ st’uomo come se fossero scaturiti dalla sua mente. ...38.

Tuttavia associare i nomi di Burke e di Cobbett è impor­ tante, non soltanto come contrasto, ma perché noi possia­ mo capire questa tradizione di critica alla nuova società industriale, solamente se riconosciamo che è formata da elementi molto diversi e a volte persino direttamente con­ trastanti. Lo sviluppo della nuova società era cosi confu­ so persino per le menti più preparate, che le posizioni ve­ nivano confrontate in termini di categorie ereditate, che allora rivelavano suggestioni insospettate e persino oppo­ ste. C’erano molti punti coincidenti, anche nelle posizioni opposte di un Cobbett e di un Burke, e l’attacco continuo all’utilitarismo, e alla filosofia che guidava il nuovo indu­ strialismo, avrebbe dato luogo a parecchie altre strane as­ sociazioni: Marx, per esempio, avrebbe attaccato il capi­ talismo nei suoi scritti giovanili, con un linguaggio molto simile a quello di Coleridge, di Burke e ... di Cobbett. L’utilitarismo stesso era destinato ad avere svolgimenti insospettati e il liberalismo a dividersi in una confusione di significati. Non è più di quanto ci si potesse aspettare nei primi momenti di un cosi grande cambiamento. Lo sforzo che gli uomini dovevano fare, per capirlo e sanzio­ narlo, era in verità enorme; ed è lo sforzo, la lezione spe­ rimentale che è importante per noi conoscere. Possiamo ancora essere grati che uomini del livello di Burke e di Cobbett, malgrado le loro divergenze, fossero là a cercare di imparare e di registrare, e di affermare, in modo cosi splendido, fino al limite estremo delle loro forze. 2. Robert Southey e Robert Owen. Se voi proponete di rendere la civiltà completa estendendola a quel­ le classi che sono abbrutite dalle istituzioni della società, metà delle persone a cui voi vi rivolgete domanderà, come incominciare? E l’altra metà, dove finire? Senza dubbio entrambe sono domande se­ rie. Owen di Lanark in verità risponderebbe a entrambe ”.

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Questo è Southey, per bocca del suo personaggio Mon­ tesinos, nei Colloquies (Sir Thomas More: or, Colloquies on thè Progress and Prospects of Society, 1829 [Sir Tho­ mas More: o, colloqui sul progresso e sulle prospettive del­ la società]. L’osservazione ci descrive il famoso Owen di Lanark, il quale, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei che avevano compreso le insufficienze del­ la nuova società, dava risposte là dove essi ponevano do­ mande; dava fiducia là dove essi scorgevano difficoltà; da­ va schemi, confortati da successi pratici, che mostravano chiaramente dove il processo di completamento della ci­ viltà doveva cominciare, e dove sarebbe finito. Southey aggiunge: Ma, poiché promette troppo, non si mette alla prova il bene che i suoi schemi potrebbero probabilmente compiere w.

Ci sono, forse, altre ragioni oltre a questa. Southey prosegue criticando e lodando Owen. Lo de­ scrive come « uno dei tre uomini che, in questa generazio­ ne, hanno dato un impulso al mondo morale », e conti­ nua: Clarkson e il dottor Bell sono gli altri due. Essi hanno visto i primi frutti del loro raccolto. Cosi credo avrebbe Owen già da tempo, se non avesse allarmato la parte migliore della nazione sbandierando sul più serio tra tutti gli argomenti, giudizi che sono ugualmente fatali alla felicità individuale e al bene comune. ... Tuttavia ammiro l’uomo. ... Un craniologo, oso dire, affermerebbe che l’organo della teopatia manca nella testa di Owen, perché quello della benevolen­ za è cosi grosso che non ha lasciato spazio per esso4l.

Southey ha ragione nell’asserire, come Owen sapeva be­ nissimo, che gli attacchi di Owen alla religione, iniziati nel 1817, conducevano a un ridimensionamento generale delle prospettive di Owen e distruggevano il genere di raccolto — un attivo sistema caritatevole, di genere pater­ nalistico - che egli aveva precedentemente preparato. Ma l’uomo che è oggi considerato uno dei fondatori del socia­ lismo inglese e del movimento cooperativistico, richiede un’analisi più acuta di quella di un craniologo; vi erano altri organi, non soltanto in Owen, ma nella società, che ne determinarono l’effettivo sviluppo.

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Southey e Owen, retrospettivamente, sono lontani l’u­ no dall’altro quanto Burke e Cobbett, per le loro posizio­ ni di principio dichiarate. E Southey, per noi, è la figura piu scialba: il lavoro di una vita diluito in poche poesie da antologia, e bollato per sempre dalla Vision of Judge­ ment [Una visione del giudizio] di Byron: He said - (I only give the heads) - he said, He meant no harm in scribbling; ’twas his way Upon all topics; ’twas, besides, his bread, Of which he butter’d both sides; ’twould delay Too long the assembly (he was pleased to dread) And take up rather more time than a day, To name his works - he would but cite a few ‘Wat Tyler’ - ‘Rhymes on Blenheim’ - ‘Waterloo’ *.

In questo, come in un centinaio di passaggi minori, Sou­ they era il prototipo del voltagabbana e del reazionario, ma una caricatura non è una vita, e in Southey c’è di piu, cosi come in Shelley e Byron c’è più del fatto che essi fos­ sero (per usare la frase di Southey) membri « della scuola satanica». Nel suo pensiero sociale almeno, Southey ri­ mane una figura influente anche se misconosciuta; e il suo riconoscimento di Owen ci ricorda la complessità di que­ sto difficile periodo. Là dove Cobbett si burlava dei « pa­ rallelogrammi di poveri » di Owen, Southey, insieme a moltissimi operai dell’industria inglese della nuova gene­ razione, li approvava. In un movimento come il sociali­ smo cristiano, si può scorgere facilmente l’influenza di en­ trambi, di Southey e di Owen. Ma Owen, nei suoi aspet­ ti più importanti, portò al socialismo e alle cooperative; Southey, con Burke e Coleridge, al nuovo conservatori­ smo. In questo movimento la parte di Southey, inoltre, non fu secondaria; Smythe, per esempio, citò i Colloquies come una delle fonti principali delle idee della Giovane Inghilterra, e chiamò Southey « il vero fondatore del mo* «E disse... (trascrivo soltanto il sommario) ... disse che poetando non aveva alcuna cattiva intenzione; che aveva la mania di trattare tutti i sog­ getti, da cui però ritraeva il pane spalmato col burro da tutte le parti; che sarebbe stato un abusare dei momenti dell’assemblea (egli avea la bontà di temerlo) il parlare delle sue opere, la cui sola enumerazione avrebbe ri­ chiesto più d’un giorno; che non ne avrebbe quindi citate che poche... Wat Tyler..., Versi sopra Blenheim..., Waterloo» 42.

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vimento»43. Quello che Southey disse nel 1816 avrebbe potuto essere detto da molti nel corso di questa genera­ zione, compresi molti di quelli che lo attaccarono: Il grande male è lo stato del povero, che ... ci espone costantemente agli orrori di un bellum servile, e presto o tardi, se non vi si pone rimedio, si finirà in una guerra del genere44.

I Colloquies rimangono la più importante opera di Sou­ they in questo campo, ma già nel 1807, nelle Letters from England: By Don Manuel Alvarez Espriella [Lettere dal­ l’Inghilterra di don Manuel Alvarez Espriella] aveva esposto il genere di critica al nuovo sistema industriale che in seguito divenne assiomatico in numerose scuole diffe­ renti, e che è quasi identico alle più tarde osservazioni di Owen. In questo aspetto essenziale non cambiò le pro­ prie opinioni, e i Colloquies sono soltanto un’affermazio­ ne più completa di una posizione che molte migliaia di persone hanno ereditato. Sir Thomas More, nei Colloquies, domanda: « Può una nazione essere troppo ricca? » Southey, attraverso il per­ sonaggio di Montesinos, replica: Non posso rispondere a quella domanda senza distinguere tra un popolo e uno Stato. Uno Stato non può avere più ricchezza a sua di­ sposizione di quella che è in grado di adoperare per il bene genera­ le, poiché spendere liberamente in opere pubbliche è uno dei mezzi più sicuri per promuovere la prosperità nazionale, e il beneficio è ancora più evidente in una spesa diretta ai fini del miglioramento nazionale. Ma un popolo può essere troppo ricco, perché è la ten­ denza del sistema commerciale, e più specificamente di quello indu­ striale, di accumulare ricchezza piuttosto che diffonderla ... i grandi capitalisti diventano come lucci in uno stagno, che divorano i pesci più deboli; ed è fin troppo certo che la povertà di una parte del po­ polo sembra aumentare nella stessa proporzione la ricchezza del­ l’altra 4!.

Mentre le operazioni naturali del commercio sono assolu­ tamente benefiche e legano nazione a nazione e uomo a uomo, l’effetto del sistema industriale è per tendenza com­ pletamente opposto: L’effetto immediato e interno del sistema industriale, portato innan­ zi come è adesso, su grande scala, produrrà mali fisici e morali, pro­ porzionalmente alla ricchezza che crea

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Gli uomini sono ridotti a macchine, e colui che, all’inizio della sua carriera, usa i suoi simili come macchi­ ne umane per produrre ricchezza, finisce non di rado con il diven­ tare egli stesso una macchina intellettuale, occupata ad aumentare di continuo ciò che per lui è impossibile godere ”.

Intanto, le nuove case di coloro che producono [cioè gli operai] sono ... se­ condo il modello industriale ... nude e una in fila all’altra. Come mai, mi domando, ogni cosa attinente alle industrie presenta tali aspetti di inqualificabile bruttezza? ... Il tempo non può migliorar­ le; la natura non le rivestirà né le nasconderà, e saranno sempre un’offesa sia per l’occhio sia per lo spirito 48.

I capi di questo atto d’accusa generale, e alcune delle sue frasi specifiche suoneranno familiari a molti che conosco­ no Southey soltanto come un « rinnegato ». Sono tra i pri­ missimi giudizi di questo tipo. Il punto di vista di Southey è caratteristico come suo atto di accusa, ed è anch’esso tra i primi esempi di una po­ sizione che è diventata generale. Una delle sue componen­ ti è il contrasto con la società medievale, sebbene non molto messo in rilievo. La forma stessa dei Colloquies — il portare More a discutere la nuova società - indica una cosciente continuità con la prima fase della sfida umanisti­ ca, durante la quale furono in pratica formulate molte del­ le idee ora riassunte nel significato di « cultura ». Southey tratta il contrasto storico in questo commento messo in bocca a More: Tutti coloro che appartengono alla parte della comunità che com­ mercia cercano di comperare al prezzo piu basso, e di vendere al piu alto, senza badare all’equità in entrambi i casi. Per quanto cattivi fossero i tempi feudali, etano, meno di questi tempi dediti al com­ mercio, offensivi verso i sentimenti gentili e generosi della natura umana *.

II commento indica anche una caratteristica fondamenta­ le della posizione di Southey e tale da unirlo strettamente a Owen. Criticando l’economia politica ortodossa, con il pretesto che esclude le considerazioni morali, Montesinos aggiunge: [Vede] la causa di tutte le difficoltà ..., non nella costituzione della società, ma della natura umana50.

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Conseguentemente, Southey insiste sulle funzioni positi­ ve del governo : Non può esservi salute, né solidità nello Stato, finché il governo non considererà il progresso morale del popolo come il suo primo gran­ de dovere. Lo stesso rimedio è necessario per il ricco e per il pove­ ro. ... Qualche reprobo volontario ci sarà sempre, che nessuna ami­ chevole protezione e nessuna sollecitudine paterna può salvare dal­ l’autodistruzione, ma se qualcuno è perduto per mancanza di cura e di cultura, c’è un peccato di omissione da parte della società alla quale appartiene 51.

La parola cultura indica qui la linea che sarebbe poi stata tanto ampiamente seguita, il contrapporre alla società del laissez-faire degli economisti politici un concetto di go­ verno attivo e responsabile il cui primo dovere era di pro­ muovere il bene generale della società. L’idea, quale sa­ rebbe diventata usuale, era legata al rispetto dei « senti­ menti » - il commento di More, come quello di Burbe, sul nascere della nuova società, è: Entrò il calcolo e usci il sentimento ”.

Southey espone anche una sua opinione sul miglioramen­ to dei sentimenti effettuato dalla letteratura, che l’autore di Utopia avrebbe approvato. In risposta all’atto di accu­ sa mosso da More contro l’iniquità della nazione, Montesinos dice: Possiamo trarre speranza dal miglioramento dei sentimenti effettua­ to dalla letteratura, che adesso per la prima volta ha cominciato ad agire su tutte le classiB.

Tutti questi punti sono formulati da Southey proprio al­ l’inizio di quella che sarebbe diventata una delle principa­ li tradizioni del diciannovesimo secolo. Le proposte specifiche di riforma di Southey sono me­ no interessanti delle sue affermazioni generali: esse in­ cludono la colonizzazione pianificata, un migliore ordina­ mento parrocchiale, una polizia più efficiente, un sistema di istruzione nazionale, insegnamento religioso universa­ le, casse di risparmio, e, infine, forse unendosi tra di loro in comunità owenite, le classi lavoratrici avranno maggiori agi e benessere assicurato, se non mancano verso se stesse di prudenza e buona condotta 54.

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È il noto programma paternalistico, ma Owen, come si deve ora sottolineare, è collocato al posto giusto in questo contesto. Southey termina con uno scambio di domande tra Montesinos e More: Voi vorreste farmi intendere, allora, che noi abbia­ mo progredito nelle scopette chimiche e meccaniche più veloce­ mente di quanto sia conforme al vero benessere della società. more Non si può progredire troppo in fretta, purché la cultura morale della specie tenga il passo con l’incremento dei suoi po­ teri materiali. È stato cosiS!?

montesinos

Non potete avanzare troppo in fretta', questo certamente avrebbe avuto un senso per Owen. La vera originalità che dà valore all’opera di Owen è che egli parte dall’accetta­ zione del grande aumento di potere apportato dalla Rivo­ luzione industriale, e vede proprio in questo aumento di potere l’occasione per un nuovo mondo morale. Egli è l’in­ dustriale riuscito e non lo studioso o il poeta; per tempe­ ramento e personalità è d’accordo con i nuovi industriali che stavano trasformando l’Inghilterra, ma per lui la tra­ sformazione è morale e materiale insieme. Cosi come la nuova generazione di industriali avrebbe organizzato i po­ sti di lavoro per la produzione o per il profitto, cosi egli avrebbe organizzato l’Inghilterra per la felicità. Egli è ri­ gidamente paternalista e essenzialmente autoritario, tan­ to quanto un riformatore conservatore come Southey, ma accetta, senza equivoci, l’aumento di ricchezza come un mezzo per finanziare la cultura. Owen nelle Observations on thè Effect of thè Manu­ facturing System (1815) [Osservazioni sulle conseguenze del sistema industriale] espone il giudizio ora comune: La diffusione generale delle industrie in un paese genera un nuovo carattere nei suoi abitanti; e poiché questo carattere è formato in base a un principio del tutto contrario alla felicità individuale o ge­ nerale, provocherà i mali più deplorevoli e duraturi, a meno che ta­ le tendenza non sia controbilanciata dall’intervento e dalla direzio­ ne legislativa. Il sistema industriale si è già talmente esteso nell’im­ pero britannico, da provocare un cambiamento essenziale nel carat­ tere generale della massa del popolo. Questa trasformazione è anco­ ra in rapido progresso e, entro breve tempo, la semplicità relativa­ mente felice del contadino andrà del tutto perduta tra noi. Già ades­ so è difficile trovarla se non mista a quelle abitudini che sono il pro­ dotto dell’industria, degli affari e del commercio “.

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Owen è cosi con Southey e contro gli economisti politici, nell’individuare le « cause di tutte le nostre difficoltà », non nella natura umana, ma nella « costituzione della so­ cietà». Inoltre, egli espone, con una chiarezza mai rag­ giunta prima, le due proposte che da allora sono state co­ si largamente sostenute: 1 ) che un cambiamento nelle condizioni della produzione causa un cambiamento essenziale nei produttori umani; 2) che la Rivoluzione industriale era un cambiamento di primaria importanza, e produsse quello che praticamente era una nuova specie di essere umano.

Egli attacca il cambiamento come una cosa naturale: Tutti i legami tra i datori di lavoro e i lavoratori sono ridotti alla considerazione di quale guadagno immediato ognuno può ricavare dall’altro. Il datore di lavoro considera i lavoratori come un mero strumento di guadagno, mentre il carattere di questi diventa grosso­ lano e cattivo; se non verranno prese accorte misure legislative in­ tese a prevenire tale tendenza e a migliorare le condizioni di questa classe, presto o tardi il paese piomberà in uno stato di pericolo spa­ ventoso e forse senza via d’uscita ”.

La scelta, secondo Owen, è tra il nuovo mondo morale e l’anarchia. Il problema, come si presentava a Owen, era un problema di ingegneria sociale: l’espressione puntua­ lizza esattamente la situazione. Egli definisce cosi la sua posizione fondamentale : A qualsiasi comunità, persino al mondo nel suo insieme, si può im­ primere un carattere generale, ottimo o pessimo, di ignoranza o di intelligenza, usando mezzi appropriati; tali mezzi sono largamente a disposizione e sotto il controllo di coloro che dirigono gli affari degli uomini “.

A volte, e particolarmente nei suoi primissimi scritti, egli non va oltre l’esprimere tale principio in termini di razio­ nalismo spicciolo, quali ancora si possono trovare nelle discussioni dei rapporti nella società industriale. Se, allora, la debita attenzione allo stato delle vostre macchine ina­ nimate può produrre risultati cosi benefici, che cosa non ci si po­ trebbe aspettare se dedicaste pari attenzione alle vostre macchine viventi, che sono costruite in modo assai più meraviglioso? Quando avrete acquisito una esatta conoscenza di queste, dei loro curiosi meccanismi, delle loro capacità di adattamento, quando la giusta

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spinta verrà impressa ai loro vari movimenti - voi diverrete consci del loro reale valore. ... Il meccanismo vivente più delicato e com­ plesso sarà anch’esso migliorato se addestrato alla forza e all’attivi­ tà; ... sarà anche una economia mantenerlo pulito e in ordine; trat­ tarlo con gentilezza, di modo che i movimenti della sua mente non subiscano un attrito troppo irritante. ... In base all’esperienza che non può ingannarmi, mi permetto di assicurarvi che il vostro tempo e il vostro denaro cosi impiegati, se guidati da una vera conoscenza del soggetto, vi renderanno non il cinque, il dieci, o quindici per cento del capitale cosi speso, ma spesso il cinquanta, e in molti casi il cento per cento s’.

Paragonato a questo aspetto di Owen, il volgare scettici­ smo di Cobbett appare dal punto di vista umano assai piu raffinato. Tuttavia la personalità di Owen, nel suo complesso non è equamente rappresentata dal suo indulgere in tali mez­ zi di argomentazione. Gli asili infantili di New Lanark erano abbastanza originali nelle loro tecniche educative, ma erano assai piu innovatori nella loro umanità e bene­ volenza. Quando Owen parlava di creare la felicità uma­ na, non si metteva al servizio di un’astrazione, ma di una esperienza attiva e profondamente sentita. L’istituzione di queste scuole, descritta in modo cosi avvincente da pa­ gina 186 a pagina 196 della sua autobiografia, si pone tra una delle maggiori conquiste individuali del secolo: I bambini erano allevati e educati senza punizioni e paura di rice­ verne, ed erano, a scuola, senza alcun dubbio gli esseri umani più felici che io abbia mai visto. ... La natura umana, le sue capacità e possibilità, devono ancora essere apprese dal mondo ",

Tutta l’impresa di New Lanark, in verità, è una conqui­ sta umana talmente grande e positiva da essere praticamente incredibile, in tale campo, negli anni correnti tra i luddisti e Peterloo. Sempre è l’esperienza di Owen che commuove — l’a­ spetto vissuto della sua nuova visione della società: Non ne potevo più di soci che erano ammaestrati esclusivamente a comperare a buon mercato e a vendere caro. Questa occupazione deteriora, e spesso distrugge, le migliori e più belle qualità della no­ stra natura. Da un’esperienza di una lunga vita, nella quale io passai attraverso tutti i gradi del commercio, dell’industria, degli affari, io sono fermamente convinto che non può esistere un carattere supe­

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riore formato sotto questo sistema assolutamente egoistico. Verità, onestà, virtù saranno semplici nomi, come sono adesso e come sono sempre stati. Sotto questo sistema non può esservi vera civiltà; per­ ché da esso tutti sono ammaestrati socialmente a combattersi e spesso a distruggersi l’un l’altro per mezzo del contrasto di interessi creatosi. È una maniera bassa, volgare, ignorante e scadente di con­ durre gli affari della società; e nessun miglioramento duraturo, ge­ nerale e sostanziale può sorgere finché non sarà sostituita da un mo­ do migliore di formare il carattere e creare la ricchezza61.

Hazlitt disse per primo, e altri, citandolo o meno, hanno ripetuto, che Owen era un uomo da un’unica idea. Il com­ mento di Owen a tale affermazione è solo: se avesse detto che io ero un uomo di un unico principio fondamen­ tale e delle sue conseguenze pratiche, sarebbe stato più vicino al ve­ ro. Perché invece della nozione che « il carattere dell’uomo è forma­ to per lui e non da lui » considerata « una unica idea » si scoprirà che essa, come il piccolo grano di senape, è in grado di riempire la men­ te di idee nuove e veraci, e di sopraffare, nelle sue conseguenze, tut­ te le idee ad essa contrarie “.

Il tono di Owen è, sovente, messianico, e, negli ultimi an­ ni, diviene stridente a causa delle delusioni subite nella pratica. Tuttavia 1’« idea unica », con la speranza insita in essa, si è certamente dimostrata in grado di riempire la mente dell’Inghilterra. Da ima parte, l’idea di Owen di un nuovo mondo morale, da crearsi mediante un governo attivo e un sistema di istruzione nazionale, si fuse signifi­ cativamente con l’idea di cultura positiva che andava ac­ quistando forza e largo favore con l’avanzare del secolo. Dall’altra, mettendo da parte il paternalismo, le genera­ zioni successive dei lavoratori inglesi dell’industria si as­ sunsero loro stessi il compito di realizzare « il principio fondamentale e le sue conseguenze pratiche » di Owen. È solo necessario aggiungere, con una nota a piè di pagina carica di significato, una domanda e una risposta di A New View of Society (1814) [Nuova visione della società] di Owen. d

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Non è forse da temere che ordinamenti tali quali voi contem­ plate, producano una monotona uniformità di carattere, reprima­ no i geni, e lascino il mondo senza speranza di futuri migliora­ menti? A me pare che ciò che seguirà sarà esattamente l’opposto di tut­ to questo. ... Non è facile immaginare, con le nostre idee attuali,

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che cosa può essere realizzato da esseri umani educati in questo modo e posti in tali condizioni. ... Soltanto quando le tenebre nelle quali la società è adesso avviluppata si saranno fino a un certo punto diradate, il beneficio ... potrà essere in parte apprez­ zato

La risposta, sebbene nel contesto convinca, è nei termini del concetto per cui Owen è importante in questa tradi­ zione: che la natura umana è essa stessa il prodotto di un « intero sistema di vita », di una « cultura ».

1 E. Burke, lettera del 21 novembre 1791 a Fitzwilliam; cit. in p. MAGNUS, Edmund Burke, A Life, London 1939, appendice 5, p. 348. 2 m. Arnold, Essays in Criticism, ed. 1918, p. 18. 3 Lord Charlemont, 19 agosto 1797; cit. in p. magnus, Edmund Burke, A Life cit., p. 296. 4 e. burke, Reflections on the Revolution in France, ed. « World’s Classics», 1950. Trad. it. di A. Martelloni, Riflessioni sulla Rivolu­ zione francese, in Scritti politici, Torino 1963, pp. 350-51. 5 Ibid., pp. 352-53. 6 E. burke, Letter to a Noble Lord, in Works, vol. V, p. 186. 7 id., Reflections on the Revolution in France, trad, cit., pp. 163164. 8 Ibid., p. 302. ’ Ibid., p. 224. 10 Ibid., p. 257. 11 e. burke, Appeal from the New to the Old Whigs, in Works, vol. III. Trad, it., Ricorso dai nuovi agli antichi Whigs, in Scritti politici cit., p. 539. 12 id., Reflections on the Revolution in France, trad, cit., p. 268. 13 Ibid., p. 270. 14 e. burke, Thoughts on French Affairs, in Works, vol. Ili, p. 37515 id., Reform of Representation in the House of Commons, in Works, vol. VI, p. 147. “ id., Reflections on the Revolution in France, trad, cit., p. 333. 17 Ibid., p. 321. 18 w. cobbett, The Bloody Buoy, 1796, in Porcupine’s Works, vol. Ill, 1801. *’ id., Porcupine’s Works cit., vol. XII, p. 1. 20 W. Cobbett in «Political Register», 28 febbraio 1807. 21 Ibid., 15 marzo 1806. 22 Ibid., 6 dicembre 1806. 23 Ibid 12 luglio 1817.

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24 Ibid., 2i novembre 1807. 25 Ibid., 14 aprile 1821. 26 Ibid., io luglio 1824. 27 Ibid., 8 marzo 1834. 28 Ibid., 16 luglio 1808. 29 Ibid., 13 novembre 1830, “ Ibid., 2 maggio 1812. 31 Ibid., 25 luglio 1812. 32 Ibid., 19 dicembre 1818. 33 Ibid. 34 Ibid., 27 agosto 1825. 33 w. cobbett, Lectures on the French and Belgian Revolutions, I, P- I36 W. Cobbett in «Political Register», 7 dicembre 1833. 37 S. T. Coleridge, lettera a T. J. Street, 22 marzo 1817, in «No­ nesuch Coleridge», pp. 668-69. 38 W. Cobbett in «Political Register», 8 giugno 1816. 39 r. southey, Sir Thomas More: or, Colloquies on the Progress and Prospects of Society, 2 voli., 1829, VI, p. 132. 40 Ibid. 41 Ibid.,pp. 132-33. 42 G. G. Byron, The Vision of Judgment, stanza xcvi, in Poetical Works of Lord Byron, ed. 1945. Trad. it. La visione del giudizio, in Opere complete di Lord Byron, trad, di C. Rusconi, Torino 1914, vol. IV, p. 523. 43 Cit. in m. grennan, William Morris, Mediaevalist and Revo­ lutionary, New York 1912, p. 12. 44 Letters of Robert Southey, a cura di Fitzgerald, p. 273. 45 r. southey, Sir Thomas More ecc. cit., VII, pp. 193-94. 46 Ibid., p. 197. 47 Ibid., p. 170. 48 Ibid., p. 174. 49 Ibid., XIII, p. 246. 50 Ibid., p. 262. 51 Ibid., XV, pp. 424-25. 52 Ibid., TV, p. 79. 53 Ibid., XV, p. 418. 54 Ibid., p. 420. 55 Ibid., VIII, p. 206. 56 r. owen, Observations on the Effect of the Manufacturing Sys­ tem with hints for the improvement of those parts of it which are most injurious to health and morals: dedicated most respectfully to the British Legislature, London 1815, p. 5. 57 Ibid., pp. 10-11. 58 R. Owen, A New View of Society, London 1913; Essay First on the Formation of Character, risi, col titolo A New View of So­ ciety and Other Writings, a cura di Cole, ed. «Everyman», 1927, p. 16. 59 id., A New View of Society cit., allocuzione premessa al III saggio, pp. 8-9.

CONTRASTI

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“ in., The Life of Robert Owen: by Himself, rist. London 1920, pp. 186-89, passim. 61 Ibid., pp. 122-23. 62 Ibid., p. 105. 63 r. owen, A New Vieto of Society cit., pp. 178-79.

Jl

Capitolo secondo

L’artista romantico

Ci sono state poche generazioni di scrittori creativi più profondamente interessati e più impegnati nello studio e nella critica della società del proprio tempo dei poeti vis­ suti tra Blake e Wordsworth e Shelley e Keats. Tuttavia un fatto cosi evidente e cosi facile da dimostrare, si accor­ da difficilmente oggi con quel popolare concetto generico dell’« artista romantico » che, paradossalmente, era sorto in origine proprio dallo studio di quei poeti. In tale con­ cezione, il poeta, l’artista, è per natura indifferente alle brutali cose del mondo e al materialismo della politica e delle questioni sociali; piuttosto si dedica alle più ricche sfere della bellezza naturale e del sentimento personale. Gli elementi di questo paradosso sono evidenti nell’opera dei poeti romantici stessi, ma la presunta opposizione tra l’interesse per la bellezza naturale e l’interesse per il go­ verno, o fra il sentimento personale e la natura dell’uo­ mo nella società, è in complesso uno sviluppo posteriore. Quelli che alla fine dell’ottocento erano considerati inte­ ressi disparati, tra i quali un uomo deve scegliere e nell’at­ to della scelta dichiararsi poeta o sociologo, al principio del secolo erano comunemente considerati interessi inter­ dipendenti : una decisione su un sentimento personale di­ veniva una decisione a proposito della società, e un’osser­ vazione sulla bellezza naturale portava con sé necessaria­ mente un riferimento morale alla vita dell’uomo tutta e una. La successiva dissociazione di interessi certamente ci impedisce di scorgere il pieno significato di questo ec­ cezionale periodo, ma dobbiamo aggiungere che la disso­ ciazione è essa stessa in parte un prodotto naturale del

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tentativo romantico. Per intanto, quasi come una specie di garanzia contro i segni della dissociazione, può essere utile ricordarci che Wordsworth scrisse libelli politici, che Blake era amico di Tom Paine e fu processato per sedizio­ ne, che Coleridge scrisse di politica sui giornali e di filoso­ fia sociale, che Shelley, oltre a ciò, distribuiva opuscoli per le strade, che Southey fu continuamente un commen­ tatore politico, che Byron parlò dei tumulti violenti e mo­ ri volontario in una guerra politica; e, inoltre, cosa che deve sicuramente apparire ovvia dalla poesia di tutti gli scrittori sopra nominati, che queste attività non erano né marginali né casuali, ma erano in un rapporto essenziale con gran parte dell’esperienza da cui nasceva la poesia stessa. D’altronde, soltanto quando siamo accecati dal pre­ giudizio della dissociazione troviamo che un tale com­ plesso di attività in qualche maniera ci sorprende. Giac­ ché queste due generazioni di poeti vissero nel periodo cruciale nel quale il sorgere sia della democrazia sia del­ l’industria stava provocando cambiamenti qualitativi nel­ la società: cambiamenti che per la loro natura erano sen­ titi tanto a livello personale come generale. L’anno della Rivoluzione francese, Blake aveva trentadue anni, Words­ worth diciannove, Coleridge diciassette e Southey quindi­ ci. Nell’anno di Peterloo, Byron aveva trentun anni, Shel­ ley ventisette, Keats ventiquattro. Le date sono indicazio­ ni sufficienti di un periodo di inquietudine politica e di controversie abbastanza accese perché fosse molto diffici­ le rimanere indifferenti persino alle persone meno sensi­ bili. Le pietre miliari dei cambiamenti piu lenti, piu ampi, meno visibili che noi chiamiamo la Rivoluzione industria­ le, sono meno ovvie; ma gli anni della vita di Blake tra il 1757 e il 1827 sono in generale, il periodo decisivo. I mu­ tamenti che noi accettiamo come significativi avvennero in questi anni, e furono nel senso della fame, la sofferen­ za, i conflitti, gli spostamenti; la speranza, le energie, le intuizioni, le dedizioni. Ciò che determinò il cambiamen­ to non fu l’ambiente quale noi possiamo oggi essere ten­ tati di studiarlo; fu, piuttosto, lo stampo nel quale l’espe­ rienza generale veniva plasmata. È possibile ricavare un resoconto politico dagli scritti

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di questi poeti, ma ciò non è particolarmente importante. L’evoluzione di Wordsworth, Coleridge e Southey da gra­ di diversi di ardore rivoluzionario in gioventù a gradi diversi di conservatorismo burkiano nella maturità è in­ teressante. Una distinzione tra i principi rivoluzionari di Shelley e il raffinato opportunismo libertario di Byron è utile. Ricordare che Blake e Keats non possono essere ri­ dotti a una qualsiasi indeterminatezza ideale, ma furono, come uomini e poeti, appassionatamente impegnati nella tragedia del loro tempo, è opportuno. In ogni caso, tutta­ via, la critica politica è ora meno interessante della piu ampia critica sociale: quelle prime intuizioni del significa­ to essenziale della Rivoluzione industriale, che tutti sen­ tirono e nessuno negò. Oltre a ciò, vi è anche un diverso genere di reazione, che è un fondamento importante del­ l’idea di cultura. Proprio in questo periodo di cambiamen­ ti politici, sociali ed economici vi è un radicale cambia­ mento anche nel concetto di arte e di artista, e del loro posto nella società. È questo cambiamento significativo che desidero addurre a prova. Vi sono cinque punti principali: primo, che un impor­ tante cambiamento si stava verificando nella natura dei rapporti tra lo scrittore e i suoi lettori; secondo, che si an­ dava instaurando un diverso atteggiamento abituale ver­ so il pubblico; terzo, che la produzione artistica veniva ora considerata come uno tra i tanti tipi di produzione spe­ cializzata, soggetta a quasi le stesse condizioni della pro­ duzione generale; quarto, che una teoria della «realtà superiore » dell’arte, quale sede della verità fantastica, andava acquistando sempre più rilievo; quinto che l’i­ dea dello scrittore creativo indipendente, genio autono­ mo, stava diventando una specie di regola. Nell’enumerare questi punti, naturalmente è necessario aggiungere su­ bito che evidentemente sono molto strettamente connes­ si, e che alcuni potrebbero essere definiti cause, e altri ef­ fetti, se il processo storico non fosse cosi complesso da rendere impossibile una netta divisione. Il primo punto è chiaramente molto importante. Dal terzo e quarto decennio del diciottesimo secolo si era an­ dato formando un numeroso pubblico di lettori della nuo­

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va classe media, il cui aumento corrisponde molto da vici­ no all’aumento di influenza e di potere della classe stessa. Come risultato, il sistema del mecenatismo si era tramu­ tato nell’editoria per sottoscrizione e quindi nella generi­ ca editoria commerciale di tipo moderno. Questi sviluppi interessavano gli scrittori sotto molti aspetti. Significava­ no, per quelli fortunati, un passo avanti verso l’indipen­ denza e verso una posizione sociale: lo scrittore diveniva un rispettabile «professionista». Ma il cambiamento si­ gnificò anche l’istituzione del mercato come il vero rap­ porto reale tra scrittore e società. Sotto un mecenate lo scrittore aveva almeno una relazione diretta con un circo­ lo di lettori immediati, dal quale, per precauzione o per spontanea volontà, perché degna di rispetto o in segno di rispetto, era abituato a accettare e, a volte, a seguire la critica. È possibile dimostrare che questo sistema dava al­ lo scrittore una libertà più pertinente di quella che aveva avuto finora. In ogni caso, in contrapposto all’essere di­ pendenti, talvolta servili, al dover sottostare ai capricci del mecenate, bisognava mettere la relazione diretta dello scrittore con almeno qualche settore della società, perso­ nalmente conosciuto, e la sensazione, quando i rapporti erano favorevoli, che egli «vi apparteneva». D’altra par­ te, di fronte all’indipendenza e l’elevata posizione sociale regolata dal successo sul mercato, bisognava porre obbli­ ghi simili al sottostare ai capricci dei critici e al compia­ cerli, ma non più verso individui conosciuti personalmen­ te, bensì verso un’istituzione che sembrava in gran parte impersonale. Allo sviluppo del «mercato letterario» co­ me rapporto tipo tra lo scrittore e i suoi lettori sono do­ vuti molti cambiamenti fondamentali di atteggiamento. Ma bisogna aggiungere, naturalmente, che tale sviluppo non è mai uniforme, sia nel funzionamento che nei risul­ tati. Forse solo nel nostro secolo è diventato cosi univer­ sale da essere quasi determinante. Al principio del dician­ novesimo secolo l’istituzione ormai esisteva, ma venne però modificata da molte sopravvivenze delle condizioni preesistenti. Le reazioni importanti, tuttavia, furono im­ postate in questo periodo. Una di queste reazioni, evidentemente, è quella definita

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nel secondo punto: il sorgere di un diverso atteggiamento abituale verso il pubblico. Gli scrittori, è ovvio, prima di questo periodo, avevano sovente espresso un sentimento di insoddisfazione verso il pubblico, ma all’inizio del di­ ciannovesimo secolo questo sentimento divenne acuto e diffuso. Lo si trova in Keats : « Non ho il minimo senso di umiltà verso il pubblico»; in Shelley: «Non accettare consigli dai semplici. Il tempo capovolge il giudizio del­ la moltitudine stupida. La critica contemporanea non è altro che la somma della follia contro la quale il genio de­ ve combattere ». Lo si trova, espresso in modo piu sensi­ bile e per esteso in Wordsworth: Ancora più deplorevole è l’errore di colui che può credere che vi è qualcosa dell’infallibilità divina nel clamore di quella piccola anche se rumorosa parte della comunità, sempre diretta da false influenze, che sotto il nome di pubblico, si fa passare presso la gente ignoran­ te per il popolo. Verso il pubblico, lo scrittore spera di sentire tut­ ta la deferenza che questo merita; ma verso il popolo definito in ter­ mini filosofici, e verso lo spirito incarnato del suo sapere ... egli de­ ve il suo devoto rispetto, la sua reverenza ’.

Naturalmente, è piu facile essere rispettoso e reverente verso «il popolo, definito in termini filosofici», che ver­ so un pubblico, che si fa riconoscere dal rumore. Words­ worth, nella sua concezione del popolo, attinge abbon­ dantemente alla teoria sociale di Burke, e per ragioni non dissimili. Comunque si svolgesse la discussione immedia­ ta, qualunque fosse la reazione dei lettori, vi era cosi a disposizione un appello finale allo «spirito incarnato ... del popolo »: cioè a un’idea, un lettore ideale, un model­ lo che si poteva porre al di sopra dello schiamazzo degli effettivi rapporti dello scrittore con la società. Lo « spiri­ to incarnato », cosa abbastanza naturale, era una ben ac­ cetta alternativa al mercato. Ovviamente, un tale atteg­ giamento influisce quindi sull’atteggiamento dello scritto­ re stesso verso il suo lavoro. Egli non accetterà la quota­ zione di mercato della popolarità: Basta quindi con la ripetizione senza senso della parola popolare applicata a nuove opere di poesia, come se non vi fosse altra misura per valutare l’eccellenza della prima tra le arti belle, se non che tut­ ti gli uomini debbano correre dietro a ciò che essa produce, come spinti dalla bramosia, o costrettivi da un incantesimo2.

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Continuerà a insistere, infatti, su un’idea, un modello di eccellenza, lo « spirito incarnato » del sapere di un popo­ lo, come qualcosa di superiore all’effettivo corso degli eventi, l’effettivo andamento del mercato. Quest’insisten­ za, vai la pena di sottolineare, è una delle fonti originali dell’idea di cultura. La cultura, lo « spirito incarnato di un popolo », il vero modello di eccellenza, divenne nel corso del secolo, come la corte di appello in cui venivano definit i i valori reali, di solito in opposizione ai valori « fittizi » diffusi dal mercato e da simili attività sociali. La dipendenza dell’arte dalle leggi del mercato, e il con­ siderarla come una forma specializzata di produzione sog­ getta a condizioni quasi analoghe ad altre forme di produ­ zione, erano state previste in gran parte del pensiero del lardo Settecento. Adam Smith aveva scritto: 1 n società ricche e commerciali, inoltre, il pensare o il ragionare di­ venta, come ogni altra occupazione, una particolare attività, che vie­ ne svolta da pochissime persone, le quali forniscono alla gente tutti i pensieri e tutte le argomentazioni che diventano patrimonio delle vaste moltitudini lavoratrici3.

Questa è una descrizione precisa di quella speciale classe di persone che a partire dal 1820 sarebbero state chiama­ te «intellettuali». Descrive anche le nuove condizioni di specializzazione dell’artista, la cui opera, come Adam Smith aveva detto del sapere, veniva adesso in pratica acquistata come si acquistano le scarpe o le calze, da coloro la cui attività è quella di produrre e preparare per il mercato questa parti­ colare specie di merci ’.

l'ale posizione, e tale specializzazione di funzione, seguiva inevitabilmente l’instaurarsi dell’editoria commerciale. Il romanzo, in particolare, era ben presto divenuto un gene­ re di prima necessità; la sua storia essenziale come forma letteraria segue, com’è noto, proprio il sorgere di queste nuove condizioni. Ma gli effetti erano evidenti anche nel­ la poesia, per la quale le conseguenze di un rapporto di mercato erano inevitabilmente gravi. Mentre si rifiutava­ no il pubblico e la popolarità come misure di valore, ci si lamentava sempre di più che la letteratura fosse diventata un mestiere. Le due cose, infatti, erano di solito trattate

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insieme. Sir Egerton Brydges scriveva nel secondo decen­ nio dell’Ottocento: È un male spregevole che la letteratura sia diventata un mestiere in tutta l’Europa. Non si era mai giunti fino a un tale punto nell’educare un gusto corrotto, e nel dare ai non intellettuali autorità sugli in­ tellettuali. Il merito è adesso universalmente calcolato in base al numero di lettori che un autore è in grado di attirare. ... Lo spirito incolto ammirerà ciò che delizia quello colto 5?

Similmente nel 1834 Tom Moore parlava dell’ abbassamento del livello che deve necessariamente derivare dall’allargarsi del circolo dei giudici; dal permettere alla plebe di votare, particolarmente in un periodo in cui il mercato è cosi importante per gli autori6.

Continuava, distinguendo tra la « plebe » e i « pochi col­ ti». È ovvio, qui, come l’aggettivo «colto» favorisse le astrazioni « coltivazione e cultura » divenute recentemen­ te necessarie. In questo genere di ragionamento, « cultu­ ra » divenne normalmente l’antitesi di mercato. Ho dato rilievo a questo nuovo tipo di rapporto tra un autore e i suoi lettori perché credo che tali vicende siano sempre importanti in ogni genere di attività letteraria. Mi volgo adesso, a quello che è certamente un aspetto a que­ sto connesso, ma che solleva i più difficili problemi di in­ terpretazione. È un fatto che in questo stesso periodo in cui il mercato e l’idea di produzione specializzata acquista­ vano un rilievo sempre maggiore, sorse anche un sistema filosofico sull’arte del quale i più importanti elementi so­ no, primo, il porre l’accento sulla speciale natura dell’atti­ vità artistica come mezzo per giungere alla verità immagi­ nativa e, secondo, il porre l’accento sul tipo speciale di persona che è l’artista. Sarebbe allettante interpretare queste teorie come una reazione diretta al reale cambia­ mento dei rapporti tra artista e società. Certamente, nelle testimonianze del tempo, vi sono alcuni elementi ovvi di compensazione: in un periodo in cui l’artista viene defini­ to nient’altro che un produttore in più di genere di prima necessità per il mercato, egli definisce se stesso come una persona particolarmente dotata, la luce che guida la vita comune. Tuttavia, senza dubbio, questo significa semplifi-

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care il problema, perché la reazione non è solamente una reazione professionale. È anche (e questo ha avuto la mas­ sima importanza in seguito) un porre in rilievo che nel­ l’arte sono incorporati certi valori umani, capacità, ener­ gie, che lo sviluppo della società verso una civiltà indu­ striale si pensava minacciasse o persino distruggesse. L’a­ spetto di protesta professionale è senza dubbio presente, ma lo scopo piu importante è l’opposizione, per ragioni utnane universali, al genere di civiltà che era stato inau­ gurato. Il romanticismo è un movimento europeo generale, ed è possibile porre in relazione le nuove idee, man mano che sorgono, solamente con un più vasto sistema di idee del pensiero europeo nel suo insieme. L’influenza di Rous­ seau, di Goethe, di Schiller e di Chateaubriand si possono certamente rintracciare. Anzi se noi consideriamo le idee in astratto, possiamo far risalire l’idea dell’artista come persona di tipo speciale e del genio « folle » alla definizio­ ne socratica del poeta nell’ione di Platone. La « realtà su­ periore » dell’arte poggia su numerosi testi classici, e, nel periodo considerato, è chiaramente in relazione con la fi­ losofia idealistica tedesca e con la forma attenuata in In­ ghilterra attraverso Coleridge e Carlyle. Questi rapporti sono importanti, tuttavia un’idea può forse soltanto esse­ re valutata, soltanto capita con una mentalità particolare e in una particolare situazione. In Inghilterra, queste idee che noi chiamiamo romantiche devono essere comprese nei termini dei problemi presenti nell’esperienza che esse erano costrette ad affrontare. Un buon esempio è una definizione che si trova in uno dei primi documenti del romanticismo inglese, Conjec­ tures on Original Composition (1759) [Congetture sulla composizione originale] di Young: Un originale si può dire che è di natura vegetale-, nasce spontanea­ mente dalla radice vitale del genio; cresce, non è fatto-, le imitazio­ ni sono spesso una specie di manufatto prodotto mediante i mecca­ nismi, arte e lavoro, con materiali preesistenti non loro propri7.

Questa è una teoria letteraria romantica molto nota: con­ trapporre il lavoro spontaneo del genio al lavoro imitati3

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vo formale, limitato da una serie di regole. Come anche Young scrive: Gli scrittori moderni devono fare una scelta. ... Essi possono elevar­ si nelle regioni della libertà, o muoversi entro i tenui vincoli della facile imitazione

Ma ciò che dice Young quando definisce un « originale » è, se si considerano i termini da lui usati, strettamente collegato a tutto un movimento generale della società. È certamente teoria letteraria, ma altrettanto certamente non è stata formulata da sola. Quando egli dice di un ori­ ginale che « nasce, non è fatto », adopera i termini esatti sui quali Burke basava tutta la sua critica filosofica alla nuova politica. Il contrasto tra « nasce » e « fatto » sareb­ be diventato il contrasto tra « organico » e « meccanico » che sta proprio al centro di una tradizione continuata fino ai giorni nostri. Ancora, quando definisce un’« imitazio­ ne », Young la condanna nei termini propri dei processi industriali che stavano per trasformare la società inglese: « una specie di manufatto prodotto da quei meccanismi... con materiali preesistenti, non loro propri». L’afferma­ zione può o non può reggere nella teoria letteraria; ma questi sono certamente i termini e i valori impliciti in ba­ se ai quali la nascente civiltà industriale sarebbe stata con­ dannata. Burke condannava la nuova società nei termini della sua esperienza (o della sua idealizzazione) della società precedente. Ma via via che enormi cambiamenti si verifi­ cavano la condanna diveniva sempre piu specializzata e, in un certo senso, astratta. Un aspetto della specializza­ zione era il crescere del livello di « coltivazione » o « cul­ tura »; un altro, strettamente legato a questo, e che più tardi infatti si sarebbe a questo unito, era lo sviluppo del­ la nuova idea di arte. Questa nuova idea di una realtà su­ periore, e persino di un potere superiore, è espressa da Blake in maniera efficace: « Now Art has lost its mental charms France shall subdue thè World in Arms ». So spoke an Angel at my birth, Then said, « Descend thou upon Earth. Renew thè Arts on Britain’s Shore,

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And France shall fall down and adore. With works of Art their armies meet, And War shall sink beneath thy feet. But if thy Nation Arts refuse, And if they scorn thè immortai Muse, France shall thè arts of Peace restore, And save thee frotn thè ungrateful shore ». Spirit, who lov’st Britannia’s Isle, Round which thè Fiends of Commerce smile. ...’*.

In Blake si possono facilmente discernere le pene causate dalla professione, perché egli soffri tremendamente nel «desolato mercato dove nessuno viene a comperare». Ci ricorda Young, quando attacca l’interesse del commerciante monopolizzatore che fabbrica l’arte con le mani di ignoranti operai giornalieri finché ... egli è considerato il più gran genio che sia in grado di vendere una merce buona a nulla ad un gran prezzo “.

Ma, parimenti la critica di Blake va molto al di là del la­ mento professionale: l’immaginazione che, per lui, l’arte impersona non è merce, ma una rappresentazione di ciò che esiste eternamente, realmente e im­ mutabilmente n.

È in tale luce che si devono considerare e condannare le inadeguatezze della società esistente e del genere di vita che essa promuove. È importante valutare la portata di questa rivendica­ zione, perché la fraintenderemmo se considerassimo sol­ tanto alcune delle divagazioni tardive sul concetto di ge­ nio. La parola ambigua nella definizione di Young è « Imi­ tazione », che in quasi tutta la teoria romantica acquistò un significato fortemente spregiativo. E ciò perché « imi­ tazione » veniva intesa come « imitazione di opere già fat­ * « “ Ora l’Arte ha perduto i suoi incanti mentali | la Francia soggio­ gherà il Mondo in Armi ”, | Cosi parlò un Angelo alla mia nascita | Poi disse, “ Discendi sopra la Terra. | Rinnova le Arti sul Lido della Britannia | e la Francia si inchinerà e adorerà. | Con opere d’Arte, andranno in­ contro agli eserciti | e la Guerra sprofonderà sotto i tuoi piedi. | Ma se la tua Nazione rifiuta le Arti, | e se essi scherniscono la Musa immortale, i la Francia reinstaurerà le arti della Pace, | e ti salverà dal Lido ingrato”. | Spirito, che ami l’isola di Britannia, | intorno a cui i Demoni del Com­ mercio sorridono. ...»

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te», cioè conformismo a una data serie di regole. L’elo­ quenza spiegata contro le regole è notevole e, in definiti­ va, noiosa. Ciò che si stava verificando non era niente al­ tro, da un punto di vista tecnico, che un cambiamento nel­ le convenzioni, il che quando è di qualche entità, porta con sé come fenomeno secondario appunto l’eloquenza. Se il cambiamento è piu di un cambiamento nelle con­ venzioni — e i cambiamenti nelle convenzioni avvengono soltanto quando si verificano radicali cambiamenti nella struttura generale del sentimento — la parola « imitazio­ ne» è particolarmente disorientante. Perché invero, per la migliore teoria « classicista », imitazione è il termine normalmente usato per definire ciò che Blake ha descrit­ to, e che tutti gli scrittori romantici hanno messo in rilie­ vo: «una rappresentazione di ciò che esiste eternamen­ te, realmente e immutabilmente». L’imitazione, nel suo significato migliore, non era intesa come l’adesione alle regole di qualcun altro; era, piuttosto, « imitazione della realtà universale ». I precetti di un artista non derivavano tanto da opere d’arte precedenti quanto dagli « universa­ li » (nella accezione aristotelica) o realtà permanenti. Ta­ le teoria, in realtà, era stata pienamente formulata negli scritti rinascimentali. La tendenza del romanticismo è verso un violento ri­ fiuto dei dogmi del metodo in arte, ma è anche, molto chiaramente, verso una rivendicazione che ogni buona teo­ ria classica avrebbe accettato: cioè che il compito dell’ar­ tista è di « leggere il manifesto segreto dell’universo ». Un critico « romantico » come Ruskin, per esempio, basa tut­ ta la sua teoria dell’arte proprio su questa teoria « classi­ cista». L’artista percepisce e rappresenta la realtà essen­ ziale, e fa questo in virtù della facoltà in lui predominante, l’immaginazione. Infatti, le dottrine del « genio » (l’auto­ nomo artista creativo) e della « superiore realtà dell’arte » (penetrazione in una sfera di verità universale) erano nel pensiero romantico due aspetti della stessa asserzione. Tanto il romanticismo quanto il classicismo sono in que­ sto senso teorie idealistiche dell’arte; in realtà non sono tanto in opposizione tra loro, quanto con il naturalismo. La cosa importante in questo momento era il rilievo

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dato a un genere di esperienza e attività umana che il pro­ gresso della società sembrava sempre piti negare. Wordsworth può sostenere con particolare convinzione l’idea del genio perseguitato, ma c’è un significato più generale nel suo atteggiamento verso la poesia, e invero verso l’ar­ te nel suo insieme: High is our calling, Friend! - Creative Art ... Demands thè Service of a mind and heart Though sensitive, yet in their weakest part Heroically fashioned - to infuse Faith in thè whispers of thè lonely Muse While thè whole world seems rnerit to desert12 *.

Questi sono i versi dedicati al pittore Haydon, nel dicem­ bre 1815. Essi sono significativi anche per il fatto che se­ gnano la fusione nella comune « sfera della verità dell’im­ maginazione» delle due arti, o tecniche, separate, della poesia e della pittura. Mentre in un senso il mercato por­ tava l’artista a specializzarsi, gli artisti da parte loro, sta­ vano cercando di generalizzare le loro abilità nel comune possesso della verità dell’immaginazione. Sempre, un ri­ salto del genere è un modo di difesa; il tono difensivo dei versi di Wordsworth è molto ovvio, e in questo sono as­ solutamente caratteristici. A un certo livello la difesa è evidentemente compcnsatrice: il grado della rivendicazio­ ne dell’artista è anche il grado della sua disperazione. Essi precisavano enfaticamente la loro alta vocazione, ma era­ no portati a precisarla e a porla in rilievo perché erano convinti che i principi sui quali la nuova società si andava organizzando erano intensamente ostili ai principi indi­ spensabili dell’arte. Tuttavia, se considerare la questione in tal modo serve a spiegare il nuovo risalto, non significa darne ragione. Ciò che era formulato come reazione difen­ siva divenne nel corso del secolo un principio positivo molto importante, che in tutte le sue implicazioni era pro­ fondamente e universalmente umano. * «Alta è la nostra vocazione, Amico! - L’Arte creativa ... | richiede il servizio di una mente e un cuore | sebbene sensibili, tuttavia persino nella loro parte piu debole | forgiati eroicamente - per infondere | fede nei sus­ surrìi della Musa solitaria | mentre il mondo intero sembra abbandonare il merito».



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Molti testi possono illustrare questo principio, ma il più caratteristico, anche perché è tra i più conosciuti, è la prefazione di Wordsworth del 1800 alle Lyrical Ballads [Ballate liriche]. Qui Wordsworth sottolinea non soltan­ to la verità ma l’umanità universale della poesia: prima di tutto attaccando quelli che parlano di poesia come di materia di divertimento e di vano pia­ cere; che sono pronti a conversare seriamente con noi su un gusto per la poesia, come essi lo chiamano, come se si trattasse di una cosa indifferente come un gusto per il funambulismo, o il frontiniac o lo sherry ”,

Il concetto di gusto — che implica una specie di rapporto tra scrittore e lettore — è inadeguato perché è una metafora, presa da un senso passivo del corpo umano, e tra­ sferito a cose che non sono nella loro essenza passive - a atti e ope­ razioni intellettuali. ... Ma il profondo e lo squisito nel sentimento, l’elevato e l’universale nel pensiero e nell’immaginazione ... non so­ no nessuno dei due, esattamente, oggetti di una facoltà che mai sen­ za un immergersi nello spirito delle Nazioni potrebbe essere defi­ nita con la metafora Gusto. E perché? Perché senza l’impiego di una attività cooperante nella mente del lettore, non può esservi ade­ guata simpatia con nessuna di queste emozioni: senza questo im­ pulso ausiliario, una passione elevata o profonda non può esistere “.

Questo brano ribadisce in un’altra maniera un’importan­ te critica al nuovo genere di rapporti sociali nell’arte: quando l’arte è una merce, il gusto è sufficiente, ma quan­ do è qualcosa di più, un rapporto più attivo è essenziale. Il « qualcosa di più » è definito nei termini usuali: Aristotele, mi è stato narrato, ha detto che la poesia è il piu filosofico di tutti i modi di scrivere: è vero: il suo oggetto è la verità, non individuale e particolare, ma generale e operante; non posata su te­ stimonianze esterne, ma portata viva nel cuore dalla passione; la ve­ rità che è testimone di se stessa, che conferisce competenza e fidu­ cia al tribunale a cui si appella, e le riceve dallo stesso tribunale. ... Il poeta scrive con una sola restrizione, cioè la necessità di dare im­ mediato piacere a un essere umano che possieda quel sapere che ci si può aspettare da lui, non in quanto avvocato, o medico, o mari­ naio, o astronomo, o scienziato, ma in quanto uomo. ... Il poeta ri­ volge soprattutto la sua attenzione a questo sapere che tutti gli uo­ mini hanno in sé, e a queste affinità attraverso le quali, senz’altra di­ sciplina che quella della nostra vita quotidiana, siamo capaci di go­ dere. ... Egli è la rocca difensiva della natura umana; un sostegno e

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un protettore che porta ovunque con sé simpatia e amore. Nono­ stante la differenza di suolo e di clima, di lingua e di mode, di leggi