Critica e verità

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LA RICERCA CRITICA

Letteratura 7.

Titolo originale Critique et vérité

© Editìons du Seuil r966 Quinta edizione Copyright © r969 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino Traduzioni di Clara Lusignoli e Andrea Bonomi

ROLAND BARTHES

CRITICA E VERITÀ

Giulio Einaudi editore

Allettare italiano

Università: in Francia, questa parola è usata·al singolare: nonostante le localizzazioni regionali, l'Università francese è- o almeno è stata fìrto a·questi ultimi tempiun'istituzione unitaria, definita da un corpo e da uno spirito, la cui unione viene appunto chiamata spirito di corpo. Il corpo dell'Università è cost~tuito dall'insieme dei professori, contraddistinti essenzialmente da un grado: il dottorato in lettere. Il dottorato, di cui oggi molto si parla per riconoscerne gl'inconvenienti, ma che non sembra stia· per essere soppresso e neppure posto in questione, è sottoposto, per vincolo di consuetudine, a un certo linguaggio che potrebbe esser detto scrittura universitaria e che è frutto di una censura generalizzata, rivolta precisamente alle forme letterarie del linguaggio. Si tratta di parlare di un testo, di un'opera, secondo una scrittura che non le è propria, e cioè di sopprimere tutti i caratteri, le figure, le ordonnances (per dirla con Mallarmé) che costituiscono in letteratura l'impero trionfale del significante. Le censure formali non sono indifferenti; ci dicono che in virru di un certo mito scientista, una scrittura piatta è reputata piu vera, piu obiettiva di una scrittura letteraria (il che non impedisce in realtà a questa piattezza di essere a sua volta rigorosamente codificata}; in generale, il linguaggio dell'Università rifiuta i giochi del significante; e in questo modo si dichiara al servizio di una ideologia del Significato. T ale ideologia è quella della Scienza [applicata alle opere culturali, come la letteratura) e dèll'Umanesimo: verità« oggettiva» del testo, valore umano dell'opera, sono queste le due divinità che hanno presieduto a una

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enorme quantità di tesi (bisogna tuttavia ammettere che nella massa vi sono eccezioni preziose) e contribuiscono a definire lo spirito dell'Università francese. Pur essendo generale (si tratta di una istituzione, e non di una semplice somma d'individui), questo spirito assume un carattere imbarazzante quando si tratta precisamente di studiare, analizzare, spiegare, in una parola commentare un'opera letteraria. Perché? per il fatto che la letteratura, quali ne siano le alienazioni storiche, è il campo stesso in cui si sovverte il linguaggio. Ma, come oggi sappiamo, lo sconvolgimento del linguaggio provoca una vacillazione del soggetto: sovvertire il linguaggio, significa sovvertire tutta la metafisica occidentale. Si verifica allora il seguente paradosso: l'incarico di gestire (istituzionalmente) le avventure del linguaggio è stata affidata dalla malignità della sorte alla scrittura piu piatta, alla morale piu conformista, al metodo di lavoro piu antiquato. Nonostante alcune brillanti eccezioni, il rapporto della letteratura con l'Università è quello di un prigioniero col suo guardiano, oppure, cosa indubbiamente piu grave da un punto di vista filosofico, quello di un oggetto con un soggetto il quale, restandone completamente all'esterno, ne diventa proprietario e rettore. Ciò spiega perché, già da circa un secolo, una disputa incessantemente rinnovata opponga l'Università a certe correnti della critica letteraria: non è oggi che Proust, Péguy o Thibaudet, partendo ognuno dalla distanza a lui propria, hanno parlato di« critica universitaria» o di« critica dei professori». La polemica che, circa due anni or sono, ha posto uno di fronte all'altro un professore della Sorbonne e l'autore di questo scritto -e di cui è traccia il presente libro - è stata dunque un fenomeno regolare o con maggiore esattezza regolatore; tendeva infatti ad assicurare, da parte dell'istituzione universitaria, una protezione vitale contro i linguaggi nuovi che rischiano periodicamen.te di sconvolgere il sistema delle lezioni, delle esercitazioni e degli esami; ma al tempo stesso quella discussione, sebbene viVace, aveva in sé qualcosa di ormai supe-

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7 rato: la disputa dell'Antico e del Nuovo, a forza di ripetersi attraverso i secoli, diviene del tutto insignificante, non insegna piu niente a nessuno, somiglia a una 3 ottobre 1965), ho scritto dei controsensi sulla lingua di Racine.· Se, per esempio, ho rilevato quanta ·respiration vi è nel verbo resPirer (R. PICARD, Nouvelle critique cit., p. 53), non vuoi dire che io abbia ignorato il senso attribuitogli all'epoca (se détendre), come d'altronde ho detto (Sur Racine cit., p. 57). Ma che il senso lessicografico non era in contraddizione col senso simbolico, che è in questo caso e in modo -assai malizioso, il senso primo. su· questo punto, come su molti altri in cui il libello di R. Picard, seguito senza controllo dai suoi fautori, prende le cose al livello piu basso, pregherò Proust di rispondere per me, ricordando quanto scrisse a Paul Souday, che lo aveva accusato di fare errori di francese: «Il mio libro può non rivelare alcun talento; ma almeno presuppone, implica abbastanza Cultura perché non sia moralmente verosimile che io commetta sbagli cosi grossolani come quelli che voi segnalate» (Choix de lettres, Plon, Paris 1965, p. 196). 2 R. PICARD, Nouvelle critiqtte cit., p, 30.

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tico, fenomenologico, ecc.; e vi è anche uno strutturalismo « scolastico » che consiste nel dare il « piano » di un'opera. Di quale strutturalismo si tratta? Come ritrovare la struttura, senza l'aiuto di un modello metodologico? Passi per la tragedia. il cui canone è noto grazie ai teorici classici; ma quale sarà mai la «struttura» del romanzo, che bisognerà opporre alle « stravaganze » della nuova critica? Queste evidenze, dunque, sono soltanto delle scelte. Presa alla lettera, la prima è irrisoria o, se si preferisce, fùori di ogni pertinenza; nessuno ha mai contestato né mai contesterà che il discorso dell'opera ha un senso letterale, di cui, all'occorrenza, ci informa la filologia; la questione è sapere se abbiamo o non abbiamo il diritto di leggere in questo discorso letterale altri sensi che non lo contraddicano; non sarà il vocabolario a rispondere a simile domanda, ma una decisione globale sulla natura simbolica del linguaggio. Lo stesso possiamo dire delle altre « evidenze»: sono già interpretazioni, perché presuppongono la scelta di un modello psicologico o strutturale; questo codice- poiché di codice si tratta- può variare; tutta l'obiettività del critico dipenderà dunque, non dalla scelta del codice, ma dal rigore con cui applicherà all'opera il modello prescelto '. E non è cosa da poco; ma siccome la nuova critica non ha mai detto altro, posando l'oggettività delle sue descrizioni sulla loro coerenza, non valeva la pena di muovere contro di lei a lancia in resta. Il verosimile critico sceglie di solito il codice della lettera; è una scelta come un'altra. Vediamo tuttavia a quale prezzo. Ci dicono che occorre « conservare alle parole il loro significato»'; in breve, che la parola ha un senso solo: quello buono. Tale regola implica abusivamente una suspicione, o, quel che è peggio, una banalizzazione generale dell'immagine: ora la vieta semplicemente (non bisogna dire che Titus assassina Bérénice perché Bérénice è morta assassinata) •; ora la ridicolizza fingendo piu o meno ironica1

Su questa nuova obiettività, cfr. pp. :;o sg. Nouvelle critique cit., p. 45·

2 R. PICARD, 3

Ibid.

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mente di prenderla alla lettera (ciò che collega Néron solare alle lacrime di Junie è ridotto all'azione del« sole che prosciuga una pozzanghera» 1 , o a «un riferimento preso in prestito all'astrologia»); ora pretende di non riconoscere in essa che un cliché dell'epoca (non bisogna sentire nessuna respiration in respirer, perché nel francese del Seicento respirer vuol dire se détendre ). Si arriva cosi a strane lezioni di lettura: bisogna leggere i poeti senza evocare: vietato innalzarsi col pensiero oltre parole semplici e concrete- comunque il tempo le abbia logorate- quali sono il porto, il serraglio, le lacrime. Al limite, le parole non hanno piu un valore referenziale, ma soltanto un valore mercantile: servono a comunicare, come nella piu piatta delle transazioni, non a suggerire. Insomma, il linguaggio non propone che una certezza: quella della banalità: è dunque questa ad essere sempre scelta. Altra vittima della lettera: il personaggio, oggetto di un credito eccessivo e irrisorio a un tempo; il personaggio non ha mai diritto d'ingannarsi su se stesso, sui propri sentimenti: l'alibi è una categoria ignorata dal verosimile critico(Oreste e Titus non possono mentire a se stessi), e cosf pure il fantasma (Eriphile ama Achille senza mai immaginare, indubbiamente, di esserne posseduta) 2 Questa sorprendente chiarezza degli esseri e dei loro rapporti non è riservata alla sola finzione artistica: per il verosimile critico, è la vita stessa che è chiara: una identica banalità regola i rapporti tra gli uomini nel libro e sulla terra. Non ha alcun interesse, dicono, vedere nell'opera di Racine un teatro della Cattività, perché questa è una situazione corrente'; cosi pure, è inutile insistere sul rapporto di forza portato sulla scena dalla tragedia raciniana poiché, ci ricordano, il potere è la base di ogni società •. È un modo davvero molto equanime di considerare la presenza della forza nei rapporti umani. Meno disincantata, la letteratura non ha cessato di commentare il carattere intollerabile delle situazioni banali, poiché è precisamente la parola a fare 1 R. PICARD,

Nouvelle critique cit., p. 17.

Ibid., p. 33· • Jbid., p. ;l2. • Ibid., p. 39· 2

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di una relazione corrente una relazione fondamentale e di questa una relazione scandalosa. Cosi il verosimile critico si sforza di abbassare tutto di un gradino; quello che è banale nella vita non va risvegliato; quello che non lo è nell'opera, dev'essere invece banalizzato: estetica davvero singolare, che condanna la vita al silenzio e l'opera all'insignificanza.

Il gusto. Passando alle altre regole· del verosimile critico, ci toc· ca scendere piu in basso, affrontare censure derisorie, entrare in contestazioni sorpassate, dialogare, attraverso i nostri vecchi critici d'oggi con i vecchi critici dell'altro ieri. Nisard o Népomucène Lemercier. Come indicare un insieme di divieti che partecipano indifferentemente della morale e dell'estetica e con cui la critica classica attacca tutti i valori che non può riportare alla scienza? Chiamiamo «gusto» 1 questo sistema di proibizioni. Che cosa vieta il gusto? di parlare degli oggetti. Trasportato in un discorso razionale, l'oggetto è considerato triviale: è una incongruità, che deriva, non dagli oggetti in sé, ma dalla mescolanza dell'astratto e del concreto (è sempre vietato mescolare i generi); ciò che appare ridicolo è che si possa parlare di spinaci a proposito di letteratura•: è la distanza tra l'oggetto e il linguaggio codificato della critica quello che scandalizza. Si arriva cosi a un curioso cbassé-croisé: mentre le rare pagine della vecchia critica sono interamente astratte l e le opere della critica nuova lo sono invece assai poco, dato che trattano di sostan~ e di oggetti, è quest'ultima a essere considerata di un'·astrazione inumana. Difatti, ciò che il verosimile chia• ma« concreto» è soltanto, ancora una volta, l'abituale. È l'abituale che regola il gusto del verosimile; per esso la critica non deve essere fatta né di oggetti (sono troppo 1 2

J!. PICARD,-Nouuelle critique cit., p. 32.. Ibid. pp. uo e I3:S·

l Cfr. fe prefaziòni di R. Picard alle tragedie di Racine, in CEuvres complètes, .. Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 19;;6, t. I.

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prosaici)', né di idee (sono troppo astratte), ma solo di valori. Qui è molto utile il gusto: al servizio insieme della.morale e dell'estetica, il gusto permette una comoda transizione tra il Bello e il Bene, confusi discretamente sotto la specie di una semplice misura. Tuttavia questa misura ha il potere indefinito di un miraggio: quando si rimprovera a un critico di parlare eccessivamente di sessualità, bisogna intender~ che parlare di sessualità è sempre eccessivo: immaginare per un istante che gli eroi classici possano essere (o non essere) provvisti di un sesso, è fare « intervenire dovunque » una sessualità « ossessiva, sbrigliata, cinica» 1 • Che la sessuaUtà possa avere un suo ruolo preciso (e non panico) nella configurazione dei personaggi non ci se lo chiede neppure; che, per di piu, questo ruolo possa variare secondo che seguiamo, ad esempio, Freud o Adler, è cosa che non penetra nemmeno per un attimo nella mente del critico tradizionale: che ne sa, lui, di Freud, se non quanto ha letto nella collezione« Que sais-je? » Il gusto è in realtà un divieto di parola. Se la psicanalisi è condannata, non è perché pensa, ma perché parla; se fosse possibile ridurla a una semplice pratica medica e immobilizzare il malato (che è sempre un altro) sul suo divano, se ne preoccuperebbero quanto dell'agopuntura. Ma ecco che estende il suo discorso all'essere sacro per eccellenza (che ognuno vorrebbe essere), allo scrittore. Per un moderno, passi, ma un classico! Racine, il piu chiaro tra i poeti, il piu pudico degli appassionati! •. In verità, l'immagine che si fa della psicanalisi la vecchia critica è incredibilmente antiquata. È un'immagine che si basa su una classificazione arcaica del corpo umano. L'uomo della vecchia critica è difatti composto di due regioni anatomiche. La prima è, per cosf dire, superiore-esterna: la testa, la creazione artistica, il nobile aspetto, ciò che si può mostrare, ciò che si deve vedere; la seconda è in· 1

In realtà, troppo simbolici.

z R. PICARD; Nouvelle critique cit,, p. 30.

I'

> «È possibile costruire su Racine, cosi chiaro, un nuovo modo oscuro di giudicare e di smembrare il genio» («Revue parlementaire», novembre ~96,).

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feriore-intema: il sesso (che non va nominato), gli istinti, gli «impulsi sommari», «l'organico», «gli automatismi anonimi»,« il mondo oscuro delle tensioni anarchiche» 1 ; qui, l'uomo primitivo, immediato; là, l'autore evoluto, dominato. La psicanalisi, dicono indignati, fa comunicare abusivamente l'alto e il basso, il dentro e il fuori; anzi, a quanto pare, accorda un privilegio esclusivo al« basso», nascosto, che diventa nella nuova critica, assicurano, il principio «esplicativo» dell'« alto» visibile. Si corre il rischio cosi, di non riconoscere piu i ciottoli dai diamanti 2 • Come raddrizzare un'immagine tanto puerile? Vorremmo spiegare ancora una volta alla vecchia critica che la psica~ nalisi non riduce il suo oggetto all'«inconscio» '; che per conseguenza la critica psicanalitica (discutibile per ben altre-ragioni, tra cui alcune psicanalitiche) non può quanto meno essere accusata di farsi un «concetto pericolosamente passivista» • della letteratura, perché invece l'autore è per essa il soggetto di un lavoro (termine che appartiene alla lingua psicanalitica, non bisogna dimenticarlo); che, d'altra parte, attribuire un valore superiore al «pensiero cosciente » e postulare come ovvio lo scarso pregio. « dell'immediato e dell'elementare» è una petizione di principio; e che, del resto, tutte queste contrapposizioni estetico-morali tra un uomo organico, impulsivo, automatico, informe, grezzo, oscuro, ecc., e-una letteratura volontaria, lucida, nobile, gloriosa a forza di costrizioni nell'espressione, sono propriamente stupide, dal momento che l'uomo psicanalitico non è divisibile geometricamente e dal momento che, secondo l'idea di Jacques Lacan, la sua topologia non è quella del dentro e del fuori 5, e ancora meno dell'alto e del basso, ma piuttosto di un diritto e d'un rovescio instabili, il cui linguaggio non cessa per l'appun1 R. PICAitD,

Nouvelle critique dt., pp. 135-36. Giacché siamo in tema di pietre, citiamo questa perla: «A volet sempre scovare a tutti i costi una ossessione di uno scrittore, si rischia di andarla a dissotterrare nelle "profondità" dove si può trovare di tutto, e dove si rischia di scambiare un ciottolo per un diamantu («Mieli libre ,., 18 novembre 1965). 3 R. PICARD, Nouvelle critique cit., pp. 122-23. 2

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Ibid., p. 142. Ibid., p. 128.

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to d'invertire i ruoli e di fare ruotare le superfici intorno a qualche cosa che, per finire e per cominciare, non è. Ma a che serve? L'ignoranza della vecchia critica nei riguardi della psicanalisi ha lo spessore e la tenacia di un mito (ed è per questo che finisce per avere qualcosa di affascinante): non è un rifiuto, è una disposizione, destinata a passare imperturbabile attraverso il tempo: «Come descrivere con quale assiduità tutta una letteratura da cinquant'anni in qua, specialmente in Francia, ha proclamato il primato dell'istinto, dell'inconscio, dell'intuizione, della volontà in senso germanico, cioè in contrapposto all'intelligenza?»- Questo non è stato scritto nel 1965 da Raymond Picard, ma nel 1927 da Julien Benda'.

La chiarezza. Ed ecco l'ultima censura del verosimile critico. Come c'è da aspettarsi, è rivolta contro il linguaggio in sé. Certi linguaggi sono interdetti al critico sotto il nome di gerghi. Gli viene imposto un linguaggio unico: la chiarezza 2 • Da tempo la nostra società francese ha visto la « chiarezza»·, non come una semplice qualità della comunicazione verbale, non come un attributo che si possa applicare a linguaggi vari, ma come una parola separata: si tratta di scrivere un certo idioma sacro, imparentato con la lingua francese, come altri scrissero in caratteri geroglifici, in sanscrito o in latino medievale'. L'idioma in questione denominato« chiarezza francese»-, è una lingua originariamente politica, nata nel momento in cui le classi superiori desiderarono- secondo un ben noto processo ideologicotramutare la loro particolare scrittura in linguaggio uni1 Citato con plauso da ocMidi libre» (I8 novembre 196,). Piccolo studio da farsi sulla posterità attuale di Julien Benda. 2 Rinuncio a citare tutte le accuse di «gergo opaco,. di cui sono stato oggetto. ' Tutto ciò è stato detto, nello stile che ci voleva, da Raymond Queneau: «quest'algebra del razionalismo newtoniano, quest'esperanto che facilitò le trattative tra Federico di Prussia e Caterina di Russia, questo gergo d.i diplomatici, d.i gesuiti e di geometri euclidei rimane presumibilmente il prototipo, l'ideale e la misura di ogni linguaggio francese» (Ba tons, chiOres et lettres, «IdéeS», Gallimard, Paiis 196,, p. ,o).

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versale, dando a credere che la« logica» del francese fosse una logica assoluta: e chiamarono questo il genio della lingua: quello del francese sta nel presentare prima di tutto il soggetto, poi l'azione, ed infine chi patisce l'azione, in conformità, si diceva, di un modello «naturale~>. Questo mito è stato smontato scientificamente dalla linguistica moderna 1 : il francese non è né piu né meno « logico » di un'altra lingua ~. Sono note tutte le mutilazioni che le istituzioni classiche hanno fatto subire alla nostra lingua. Il curioso è che i francesi, mai stanchi di gloriarsi di avere avuto il loro Racine (l'uomo dai duemila vocaboli), non si dolgano mai di non avere avuto il loro Shakespeare. Ancora oggi si battono con una passione ridicola per la loro « lingua francese»: articoli che sembrano oracoli, fulmini contro le invasioni straniere, condanne capitali di certe parole reputate indesiderabili. Occorre ripulire senza tregua, raschiare, vietare, eliminare, preservare. Imitando la maniera squisitamente medica con cui la vecchia critica giudica i lingtiaggi che non le piacciono (qualificandoli «patologici » ), diremo che vediamo in questo una specie di malattia nazionale e la chiameremo abluzionismo del linguaggio. All'etnopsichiatria lasciamo il compito di definirne il senso, pur osservando che questo maltusianesimo verbale ha in sé qualcosa di sinistro: «Presso i papuani- dice il geografo Baron - il linguaggio è poverissimo; ogni tribu ha la propria lingua il cui lessico s'impoverisce di c~ntinuo perché dopo ogni morte, vengono soppressi alcuni vocaboli in segno di lutto» 3 • Quanto a questo, noi diamo dei punti ai papuani: imbalsamiamo rispettosamente il linguaggio degli scrittori morti e rifiutiamo i vocaboli, i sensi .nuovi che vengono al mondo delle idee: da noi, il segno di lutto colpisce la nascita, non la morte. 1

Cfr.

CHAllLES BALLY,

Linguisti(Jue fl.énérale et linguistique française,

4• ed., Francke, Bern 1965 [trad. it., Linguistica generale, linguistica /ran· cese, Il Saggiatore, Milano 1963]. 1 Non bisogna ·confondere le pretese del classicismo di vedere nella sintassi francese la migliore espressione della logica universale con le ve· dute profonde di Port-Royal sui problemi logici del linguaggio in genere (riprese oggi~ N. Chomsky). 3 E. BARON, Géographie, «Classe de philosophie ,., Ed. de l'Ecole, p. 83.

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Gl'interdetti del linguaggio fanno parte di una guerricciola tra caste intellettuali. La vecchia critica è: una casta tra le altre, e la « chiarezza francese >> da lei raccomandata è un gergo come un altro. È un idioma particolare, scritto da un gruppo definito di scrittori, critici, recensori, gruppo che essenzialmente non scimmiotta neppure i nostri scrittori classici, ma il classicismo di quegli scrittori. Questo gergo passatista non è affatto determinato da esigenze precise di ragionamento o da un'assenza ascetica d'immagini, come può esserlo il linguaggio formale della logica (soltanto qui si avrebbe il diritto di parlare di « chiarezza»), ma da un fondo comune di stereotipi, a volte contorti e sovraccarichi :fino· a essere ampollosi 1 , dal gusto di certi giri di frase e, beninteso, dal rifiuto di certi vocaboli, messi alla porta con orrore o ironia come intrusi, venuti da mondi stranieri, quindi sospetti. Qui ritroviamo un partito preso conservatore che consiste nel non cambiare nulla nella separazione e nella distribuzione dei lessici: co· me in una «corsa all'oro» del linguaggio, è concesso a ogni disciplina (nozione puramente« facoltativa», in pratica), un piccolo territorio di linguaggio, un placer termi· nologico da cui è vietato uscire (la filosofia, ad esempio, ha diritto al suo gergo). Il territorio assegnato alla critica è tuttavia molto strano: riservato, poiché non possono esservi introdotte parole straniere (come se il critico avesse bisogni concettuali assai ridotti), è tuttavia promosso alla dignità di linguaggio universale. Questo universale, che è soltanto il corrente, è truccato: costituito da una straordinaria quantità di tic e di rifiuti, è ancora qualcosa di riservato: un universale da proprietari. Questo narcisismo linguistico può venire espresso in un modo diverso: il «gergo», è il linguaggio dell'altro; l'altro (e non gli altri) è ciò che non siamo noi; il suo linguaggio ci mette alla prova. Appena un linguaggio non è piu quello della nostra comunità, lo giudichiamo inutile, 1 Esempio:. «Divina musica! fa cadere tutte le prevenzioni, tutte le irritazioni nate da qualche opera precedente iil cui Orfeo era arrivato a spezzare la sua lirit, ecc.». Questo probabilmente per dire che i nuovi Mé· moires di Mauriac sono migliori dei precedenti (J. Piatier, c Le Mondo, 6 novembre 1965).

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vuoto, delirante', praticato non per serie ragioni, ma per ragioni futili o basse (snobismo, sufficienza): cosi a un « archeocritico », il linguaggio della « neocritica » appare strano come lo yiddish (paragone, del resto sospetto 2 ), al che potremmo rispondere che anch'esso, lo yiddish, s'insegna'. «Perché non dire le cose piu semplicemente?» Quante mai volte abbiamo udito questa frase? Ma quante volte avremmo il diritto di pronunciarla noi di rimando? Senza parlare del carattere sanamente e gioiosamente esoterico di certi linguaggi popolari •, la vecchia critica è proprio sicura di non avere anch'essa un suo stile pretenzioso? Se io pure fossi un vecchio critico, non avrei forse qualche ragione d'invitare i miei colleghi a scrivere: « Monsieur Piroué scrive bene», invece che: «Bisogna lodare la penna di Monsieur Piroué di pungerei cosf di frequente con l'imprevisto o la scelta felice dell'espressione», o anche chiamare modestamente «indignazione» «tutta quell'agitazione del cuore che riscalda la penna e la carica di punte assassine» 5 • Cosa pensare di questa penna dello scrittore che si riscalda, e a volte punge gradevolmente, altre volte assassina? In verità, tale linguaggio non è chiaro se non nella misura in cui viene ammesso. Sta di fatto che il linguaggio letterario della vecchia critica ci è indifferente. Sappiamo che non può scrivere in altro modo, a meno di pensare in altro modo. Perché scrivere è già organizzare il mondo, è già pensare (apprendere una lingua, è apprendere come si pensa in quella lingua). È dunque inutile (eppure in questo si ostina il verosimile critico) chiedere a qualcuno di ri-scriversi, se non è deciso 1 Monsieur de Norpois, figura eponima ddla vecchia critica, dice del linguaggio di Bergotte: « ... quel controsenso di allineare parole molto SO· nore, curandosi solo in un secondo tempo del contenuto» (M. PROUST, All'ombra delle fanciulle in fiore, trad. di Franco Calamandrei e Nicoletta Neri, Einaudi, Torino 1963, p. 52). 2 R. M. Albérès, «Arts_», r;; dicembre 1965 (Inchiesta sulla critica). Da questo yiddish pare sia esclusa la lingua dei giornali e dell'Università. Albérès è giornalista e professore. 3 All 'Ecole nationale des langues orientales. • «Programma di lavoro per i tricolori: strutturare il pack, lavorare al tallonamento, rivedere il problema del tOCCO» («L'Equipe», I 0 dicembre

196;;). 5 P. H. Simon, «Le Monde», de», 23 ottobre 1965.

I0

dicembre 1.965, e J. Piatier, «Le Mon·

31 a ri-pensarsi. Nel gergo della nuova critica non vedete che forme stravaganti applicate a contenuti piatti: è difatti possibile « ridurre» un linguaggio sopprimendo il sistema che lo costituisce, cioè i nessi che dànno il senso ai vocaboli: si può allora « tradurre » qualsiasi cosa nel buon francese di Chrysale: perché non ridurre il « super-io » freudiano alla « coscienza morale » della psicologia classica? Come! È soltanto questo? Si, se sopprimiamo tutto il rimanente. In letteratura, non esiste il rewriting, perché lo scrittore non dispone di un prelinguaggio da cui potrebbe scegliere l'espressione in mezzo a un certo numero di codici omologati {il che non vuoi dire che non abbia da cercarla instancabilmente). Esiste una chiarezza della scrittura, ma questa chiarezza ha piu rapporti con la Nuit de l' encrier di cui parlava Mallarmé, che con le moderne imitazioni di Voltaire o di Nisard. La chiarezza non è un attributo della scrittura, è la scrittura stessa, dall'istante in cui è costituita come scrittura, è la gioia della scrittura, è tutto quel desiderio che è nella scrittura. Certo, è un problema gravissimo per uno scrittore quello dei limiti dell'accoglienza da parte del pubblico; ma almeno questi limiti li sceglie lui stesso, e se gli accade di accettare che siano stretti, è precisamente perché scrivere non è stabilire un rapporto facile con una media di tutti i lettori possibili, è impegnarsi in un rapporto difficile col nostro stesso linguaggio: lo scrittore ha obblighi maggiori verso una parola che è la sua verità, che verso il critico di «La Nation française » o di «Le Monde ». Il «gergo» non è un mezzo per mettersi in mostra, come qualcuno suggerisce con inutile malignità 1 ; il « gergo » è una immaginazione (e del resto scandalizza come lei), l'approccio a un linguaggio metaforico di cui avrà un giorno bisogno il discorso intellettuale. Qui io difendo il diritto al linguaggio, non il mio « gerg~ ».D'altronde, come potrei parlarne? Si prova un profondo malessere (un malessere d'identità) nell'immaginare di poter essere proprietario di una certa parola, e che sia necessario difenderla come un bene nei suoi modi di CRITICA E VERITÀ

1 R. PICARD,

Nouvelle critique cit., p.

,2.

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essere. Dunque, io sono prima del mio linguaggio? Chi sarebbe questo io, proprietario di ciò che precisamente lo fa essere? Come po!)so vivere il mio linguaggio cot;ne un semplice attributo della mia persona? Come credere che se parlo, è perché sono? Fuori della letteratura, è forse possibile conservare queste illusioni; ma la letteratura è precisamente ciò che non lo permette. L'interdetto che lanciate sugli altri linguaggi è solo una maniera di escludervi voi stessi dalla letteratura: non è piu possibile, non dovrebbe piu esserlo, come al tempo di Saint-Marc-Girardin \svolgere funzioni di polizia su un'arte è pretendere di parlarne.

L'asimboli.a. T aie è il verosimile critico nel 1965: bisogna parlare di un libro con obiettività, gu.sto e chiarezza. Queste regole non sono del nostro tempo: le :ultime due vengono dal secolo classico, la prima dal secolo positivista. Si costituisce cosfun corpo di norme diffuse, per metà estetiche (venute dal Bello classico), per metà ragionevoli (venute dal «buon senso » ): si stabilisce una specie di rassicurante corto circuito tra l'arte e la scienza che permette di non essere mai completamente nell'una o nell'altra. Questa ambiguità si esprime in un'ultima proposizione, ripresa tanto devotamente che .si direbbe racchiuda il grande pensiero testamentario della vecchia critica: occorre rispettare la specificità della letteratura •. Montata come un piccolo ordigno di guerra contro la nuova critica che è accusata di essere indifferente «in letteratura, a ciò che è .letterario» e di distruggere« la lettefatura in quanto realtà originale » 3 , accusa ripetuta di continuo ma non spiegata mai - tale proposizione ha evidentemente la virtu inattaccabile di una tautologia: la letteratura è la lettera1 Il quale mise in guardia la giovenm contro « le illusioni e la confu · sione morali :o diffuse dai ., libri del secolo ». 2 11. ·PICAIID, Nouvelle critique cit., p. II].

3

Ibid., ·pp.

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e uz.

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tura; è possibile cosi, con un colpo solo, indignarsi dell'ingratitudine della nuova critica insensibile a quanto, per un decreto del verosimile, la letteratura comporta di Arte, di Emozione, di Bellezza, di Umanità 1, e fingere d'invitare la critica a una scienza rinnovata, che infine consideri l'oggetto letterario «in sé», senza dovere piu niente a altre scienze, storiche o antropologiche; del resto, questo «rinnovamento » sa alquanto di rancido: circa con gli stessi termini Brunetière rimproverava a Taine di avere trascurato troppo l'« essenza letteraria », cioè « le leggi proprie del genere». Tentare di stabilire la struttura delle opere 'letterarie è un'impresa -importante, e ci sono studiosi che se ne occupano, seguendo metodi, è vero, di cui la vecchia critica non dice verbo, il che è normale, dato che essa pretende di osservare le strutture senza tuttavia fare « strutturalismo» (termine irritante di cui occorre « ripulire » la lingua francese). Certo, la lettura dell'opera va fatta a livello dell'opera; ma da una parte non vediamo come, una volta stabilite le forme, si potrebbe evitare d'incontrare i contenuti, che provengono dalla storia o dalla psiche, in una parola da quegli altrove di cui la vecchia critica non vuoi sentir parlare; e d'altra parte, l'analisi strutturale delle opere costa assai piu di quanto s'immagini, perché, a meno di limitarsi a chiacchierare piacevolmente intorno al piano dell'opera, questa analisi non può esser fatta se non in funzione di modelli logici: in realtà, la specificità della letteratura non può essere postulata "che all'interno di una teoria generale dei segni: per avere il diritto di difendere una lettura immanente dell'opera, occorre sapere che cosa sia la logica, la storia, la psicanalisi; in breve, per restituire l'opera alla letteratura bisogna precisamente uscirne e far ricorso a una cultura antropologica. C'è da dubitare che la vecchia critica sia preparata a questo. Si direbbe che per essa si tratti di difendere una specificità puramente estetica: vuole proteggere nell'opera un valore assoluto, non violato da alcuno di quegli altrove indegni, che 1 « ... L'astrattezza di questa nuova critica, inumana e antiletteraria,. («Revue patlementaire», x;; ·novembre 196;1).

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sono la storia o i bassifondi della psiche: quello che vuole non è un'opera costituita, è un'opera pura, da tener lontana da ogni compromissione col mondo, da ogni conta• minazione col desiderio. II modello di questo strutturalismo pudibondo è semplicemente morale. «Se parli degli dèi- raccomandava Demetrio di Falera- devi dire che sono dèi ».Della stessa specie è l'imperativo finale del verosimile critico: «se parlate di letteratura, dite che è letteratura». Questa tautologia non è gratuita: si comincia col fingere di credere che è possibile parlare di letteratura, farne l'oggetto d'una parola; ma tale parola non ha sbocco, giacché di quell'oggetto non c'è niente da dire, se non che è se stesso. Il verosimile critico approda infatti al silenzio o al suo surrogato, lo sproloquio: un'amabile causerie, già diceva nelr921 Roman Jakobson, della storia della letteratura. Paralizzato dai divieti di cui riveste il «rispetto» per l'opera (che consisterebbe nel percepire esclusivamente la lettera), il verosimile critico può parlare appena: il6lo sottile di voce che gli lasciano tutte le sue censure gli permette solo di affermare il diritto delle istituzioni sugli scrittori defunti. Quanto ad accompagnare all'opera un'altra parola, se ne è tolto ogni possibilità, per non assumerne i rischi. Dopo tutto, il silenzio è una maniera di congedarsi. Registriamo dunque come un addio lo scacco di questa critica. Giacché il suo oggetto è la letteratura, avrebbe potuto cercare di stabilire a quali condizioni un'opera è possibile, di impostare, se non una scienza, almeno una tecnica dell'operazione letteraria; ma ha lasciato-agli scrittori stessi la cura -e la preoccupazione- di condurre l'inchiesta (e per fortuna non vi hanno rinunciato, da Mallarmé a Blanchot): non hanno cessato, questi, di riconoscere che il linguaggio è la materia stessa della letteratura, procedendo cosi, ciascuno a suo modo, verso la verità obiettiva della loro arte. Si fosse almeno accettato di liberare la critica - che non è la scienza né pretende di esserlo - in modo che potesse dirci quale senso gli uomini d'oggi possono dare alle opere.del passato. Credono forse che Racine ci riguardi in «se stesso», nélla lettera del testo? Sul serio: che mai significa per noi un teatro «violento ma pudico»? Che

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mai può voler dire, oggi, un «principe fiero e generoso » ' Quale strano linguaggio! Ci si parla di un eroe «virile» (senza tuttavia permettere nessuna allusione al suo sesso); trasportata in qualche parodia, una simile espressione farebbe ridere; e del resto è quello che ci avviene, quando la leggiamo nella « Lettera di Sofocle a Racine » composta da Gisèle, l'amica di Albertine, per la licenza normalé («i caratteri sono virili») •. Del resto, che cosa facevano Gisèle e Andrée, se non della vecchia critica, quando, a proposito dello stesso Racine, parlavano di « genere tra" gii::o », d'« intreccio» (ritroviamo qui le «leggi del genere » ), di «caratteri ben costruiti» (ed eccoci alla « coerenza delle implicazioni psicologiche»), e osservavano che Athalie non è una «tragedia amorosa» (nello stesso modo ci si fa notare che Andromaque non è un dramma patriottico), ecc.'? Il vocabolario critico in nome del quale ci sono rivolti tanti rimproveri è quello di una ragazza che si preparava alla licenza normale tre quarti di secolo fa. Dopo di allora, però, ci sono stati Marx, Freud, Nietzsche. Altrove, Lucien Febvre, Merleau-Ponty hanno reclamato il diritto di rifare senza tregua la storia della storia, la storia della filosofia, in modo che l'oggetto passato sia sempre un oggetto totale. Perché non si leva una voce analoga per assicurare alla letteratura lo stesso diritto? Se non possiamo spiegare questo silenzio, questo scacco, possiamo almeno esprimerli in altro modo. Il vecchio critico è vittima di una disposizione che gli analisti del linguaggio conoscono bene e chiamano asimbolia 4 : gli è impossibile percepire o maneggiare simboli, cioè coesistenze di senso; in lui, la funzione simbolica generale che permette agli uomini di costruire idee, immagini e opere è turbata, limitata o censurata non appena si vada al di là degli usi strettamente razionali del linguaggio. 1 R. PICARD,

Nouvelle critique cit., pp. 34 e 32. All'ombr111 delle f111nciulle in fiore cit., p. 518. 3 R. PICARD, Nouvelle aitique cit., p. 30. Evidentemente, non ho mai fatto dell' Androm111que un dramma patriottico; tali distinzioni di genere non erano nel mio proposito ed è appunto questo che mi si rimprovera. Ho parlato della figura del Padre neii'Androm111que, tutto qui. 4 H. HÉCAEN e R. ANGELERGUES, P111thologie du l111nglllge, Larousse, Paris • M. PROUST,

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Certo, è possibile parlare di un'opera letteraria astenendosi da ogni riferimento al simbolo: ciò dipende dal punto di vista prescelto, e basta indicarlo. Senza parlare dell'immenso campo delle istituzioni letterarie che è d'indole storica', e per restare all'opera singola, è sicuro che se devo trattare di Andromaque dal punto di vista degl'incassi ottenuti con le rappresentazioni o dei manoscritti di Proust dal punto qi vista materiale delle cancellàture, mi è poco necessario credere o non credere nella natura simbolica delle opere letterarie: un afasico può benissimo intrecciare panieri o far lavori di falegnameria. Ma dal momento che si pretende trattare dell'opera in se stessa, dal punto di vista della sua costituzione, diventa impossibile non porre le esigenze d'una lettura simbolica nella loro massima estensione. La nuova critica 'ha fatto appunto questo. Tutti sanno che ha lavorato apertamente, finora, partendo dalla natura simbolica déll~ opere e da quello che Bachelard chiamava le defezioni dell'immagine. Eppure, negli attacchi che le sono stati fatti recentemente, a nessuno è venuto in mente neppure per un istante che si potesse trattare dei simboli, e che quindi occorreva discutere delle libertà e dei limiti di una critica esplicitamente simbolica: sono stati affermati i diritti totalitari della lettera senza lasciar mai comprendere che anche il simbolo possa avere i suoi diritti, e che questi non si limitano forse alle poche libertà residue che la lettera si degna di concedergli. La lettera esclude il simbolo o invece lo permette? L'opera significa in modo letterale o simbolico- oppure, per dirla con Rimbaud, «letteralmente e in tutti i sensi»'? Tale poteva essere il punto della discussione. Le analisi esposte in Sur Racine si rifanno tutte a una certa analisi simbolica, come era stato dichiarato nella prefazione del libro. Occorreva o contestare nell'insieme la esistenza o la possibilità di simile logica (il che avrebbe offerto il vantaggio, come suoi 1 Cfr. il saggio Histoire ou littérature?, in Sur Raci11e, Ed. du Seuil, Paris. r963, pp. I47 sgg. [trad. it. in Saggi critici, Einaudi, Torino r966]. 2 Rimbaud a sua madre, che non capiva Une Saiso11 en en/er: «Ho voluto dire quello che li è detto, letteralmente e in tutti i sensi" (CEuvres complètes, « Bibliothèque de la Pléiade ». Gallimard, p. 656).

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ditsi, di «elevare il tono della discussione»), oppure dimostrare che l'autore di Sur Racinè ne aveva applicato male le regole - cosa che questi avrebbe riconosciuto volentieri, soprattutto dopo due anni dalla pubblicazione del libro e sei anni dopo di averlo scritto. È una strana lezione di lettura contestare tutti i particolari di un libro, senza lasciar pensare neppure per un momento di averne colto il progetto d'insieme, e cioè semplicemente: il senso. La vecchia critica ricorda quegli «arcaici » di cui parla Ombredane, i quali, messi per la prima volta davanti a un :film, vedono di tutta la scena soltanto il pollo che attraversa la piazza del villaggio. Non è ragionevole fare della lettera un impero assoluto e poi, senza avvertire, contestare ogni simbolo in nome di un principio che non è fatto per lui Potreste rimproverare a un cinese (giacché la nuova critica vi sembra una strana lingua) di fare sbagli di francese, quando parla cinese? Ma perché, dopo tutto, questa sordità ai simboli, questa asimbolia? Che cosa c'è di minaccioso nel simbolo? Fondamento del libro, perché il senso molteplice mette in pericolo la parola a proposito del libro? E perché, ancora una volta, proprio oggi?

II.

Nulla è piu essenziale a una società che la classificazione dei suoi linguaggi. Cambiare questa classificazione, spostare la parola, è fare una rivoluzione. Per due secoli il classicismo francese si è definito per la separazione, la gerarchia e la stabilità delle sue scritture, e la stessa rivoluzione romantica si è presentata co~e uno sconvolgimento di classificazione. Orbene, da circa cento anni, certo dopo Mallarmé, è in corso un vasto rimaneggiamento d~i luoghi della nostra letteratura: ciò che si scambia, si compenetra e si unifica è la doppia funzione, poetica e critica, della scrittura 1• Non solo gli scrittori stessi fanno della critica, ma spesso la lorò opera enuncia le condizioni della sua nascita (Prous~) o anche della sua assenza (Blanchot); un medesimo linguaggio tende a circolare ovunque nella letteratura, e persino dietro se stesso. Il libro è cosi preso alle spalle da-colui che lo fa; non ci sono piu né poeti né romanzieri: rimane solo una scrittura 1 •

La crisi del commento. Ed ecco che, per un movimento complementare, il critico diviene a sua volta scrittore. Naturalmente, voler essere scrittore non è la pretesa di uno statuto, ma una in1

Cfr.

GERAliD GENETTE,

Rhétorique et enseìgnement au xx" siècle,

«Annaleu, marzo-aprile 1966 [tradotto in «Si.gma,., n. n-u, dicembre 1966]. 1 «La poesia, i romat12i, le novelle sono strane antichità che non ingannano piu nessuno, o quasi. Perché mai si dovrebbero fare racconti o poesie? Non rimane piu che la scrittura. -(J.-M.-G. Le Clézio, premessa a La flèvre).

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tenzione d'essere. Che cosa ci importa sapere se è maggior gloria essere romanziere, poeta, saggista o cronista letterario? Lo scrittore nop può essere definito in termini di ruolo o di valore, ma solo da una certa coscienza di parola. È scrittore colui per il quale il linguaggio costituisce un problema, che ne sperimenta la profondità, non la strumentalità o la bellezza. Sono nati cosf alcuni libri critici che si offrono alla lettura per le stesse vie dell'opera propriamente letteraria, quantunque i loro autori siano, per statuto, dei critici, e non degli scrittori. Se la nuova critica ha qualche realtà, questa non risiede nell'unità dei suoi metodi, e tanto meno nello snobismo che, come si dice comodamente, la sostiene, ma nella solitudine dell'atto critico, affermato ormai come un atto di piena scrittura senza riguardo agli alibi della scienza o delle istituzioni. Un tempo separati dal mito consunto del« superbo creatore e dell'umile servitore, entrambi necessari, ciascuno al suo posto, ecc.», lo scrittore e il critico si incontrano nella stessa condizione difficile, di fronte allo stesso oggetto: illinguaggio. Come si è visto, quest'ultima trasgressione è mal tollerata. Eppure, quantunque si debba ancora lottare in suo favore, forse essa è già superata da un nuovo rimaneggiamento che si delinea all'orizzonte: non è piu solo la critica a cominciare questa «traversata della scrittura» 1 , che probabilmente caratterizzerà il nostro secolo, ma l'intero discorso intellettuale. Già quattro secoli fa, il fondatore dell'ordine che ha fatto di piu per la retorica, Ignazio di Loyola, lasciava nei suoi Esercizi spirituali il modello di un discorso drammatizzato, esposto a una forza diversa da quella del sillogismo o dell'astrazione, come ha acutamente osservato Georges Bataille 2 In seguito, attraverso scrittori come Sade o Nietzsche, 1 PHILIPPE SOLLERS, Dante et la traversée de l'écriture, «Te! Quel», n. 23, autunno r,96' (poi in Logiques, Ed. du Seui!, Paris 1.968). 2 « ... A questo punto, vediamo il senso secondo della parola dramma. tizzare: la volontà, che viene ad aggiungersi al discorso, di non limitarsi all'enunciato, di obbligare a sentire il gelo del vento, a essere nudi. .. Sotto questo profilo, è un errore classico attribuire gli Esercizi di sant'Ignazio al metodo discorsivo ... ,. {L'expérience intérieure, Gallimard, Paris 19,4, p. 26).

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43 le regole dell'esposizione intellettuale sono periodicamente «bruciate» (nei due sensi della parola). E, a quanto pare, proprio questo è manifestamente in causa oggi. L'intelletto accede a un'altra logica, affronta la regione nuda dell'« esperienza interiore>>: una sola e medesima verità si va cercando, comune a ogni parola, e non importa che sia fittizia, poetica o discorsiva, poiché essa è ormai la verità della parola stessa. Nel parlare', Jacques Lacan sostituisce alla tradizionale astrazione dei concetti un'espansione totale dell'immagine nel campo delle parola, di modo che questa non separa pio l'esempio dall'idea, ed è essa stessa la verità. Sotto un altro profilo, rompendo con l'abituale nozione di« sviluppo», Le cru et le cuit di Claude Lévi-Strauss propone una nuova retorica della variazione, e ci vincola cosi a una responsabilità della forma che si è poco abituati a trovare nelle opere delle scienze umane. Una trasformazione della parola discorsiva è certo in corso, ed è la stessa trasformazione che avvicina il critico allo scrittore: entriamo in una crisi generale del Commento, forse altrettanto importante di quella che ha segnato, relativamente allo stesso problema, il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Questa crisi è infatti inevitabile a partire dal momento in cui si scopre- o si riscopre -la natura simbolica del linguaggio, o, se si preferisce, la natura linguistica del simbolo. È quanto accade oggi, sotto l'azione combinata della psicoanalisi e dello strutturalismo. La società classico-borghese ha visto a lungo nella parola uno strumento o una decorazione; ora noi vi vediamo un segno e una verità. Tutto ciò che è toccato dal linguaggio è dunque, in un certo modo, rimesso in causa: la filosofia, le scienze umane, la letteratura. È certo questa la discussione nella quale dobbiamo oggi ricollocare la critica letteraria, la posta di cui essa è in parte l'oggetto. Quali sono i rapporti fra l'opera e il linguaggio? Se l'opera è simbolica, a quali regole di lettm;a siamo tenuti? Può esserci una scienza dei simboli scritti? Il linguaggio del critico può essere anch'esso simbolico? 1

Al suo seminario dell'Ecole pratique des hautes études.

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La lingua plurale. Come genere, il Diario intimo è stato trattato in due modi molto diversi dal sociologo Ajain Girard e dallo scrittore Maurice Blanchot 1• Per il primo, il Diario è l'espressione di un certo numero di circostanze sociali, familiari, professionali, ecc.; per il secondo, è un modo angoscioso di differire la fatale solitudine della scrittura. Il Diario possiede quindi per lo meno due sensi, ciascuno dei quali è plausibile perché coerente. È un dato banale di cui possiamo trovare mille esempi nella storia della critica e nella varietà delle letture che una stessa opera può ispirare: se non altro, questi fatti attestano che l'opera ha piu di un senso. Ogni epoca, può infatti credere di possedere il senso canonico dell'opera, ma basta ampliare un poco la storia, per trasformare questo senso singolare in senso plurale, e l'opera chiusa ih opera aperta •. La definizione stessa dell'opera muta: essa non è piu un fatto storico, ma diviene un fatto antropologico, giacché nessuna storia la esauri~ce. La varietà dei sensi non dipende quindi da una prospettiva relativistica sui costumi umani, non designa una inclinazione a sbagliare propria della società, ma una disposizione dell'opera all'apertura: l'opera possiede contemporaneamente piu di un senso, per struttura, e non per incapacità di coloro che la leggono. Proprio in questo essa è simbolica: il simbolo non è l'immagine, ma la pluralità stessa dei sensi 3 • Il simbolo è costante. Possono variare solo la coscienza 1 ALAIN GIRARD, Le iournal intime, PUF, Paris 1963; MAURICE BLANCHOT, L'espace littéraire, Gallimard, Paris 1955, p. 20 {trad. it., Lo spazio

letterario, Einaudi, Torino I 967]. z Cfr. UMBERTO ECO, L'Opera aperta, Bompiani, Milano 1962 (trad. frane .• Ed. du Seui!, Paris 1965). 3 Non ignoro che la parola simbolo ha un senso completamente diverso in semiologia - dove i sistemi simbolici sono quelli in cui l'oggetto per esprimersi in esso, non ne fa il predicato della propria persona. Egli riproduce una volta di piu, come un segno sganciato e differenziato, il segno delle opere stesse, il cui messaggio, filtrato all'infinito, non è una data «soggettività}>, bens{ la confusione stessa del soggetto e del linguaggio, cosicché la critica e l'opera dicono sempre: io sono letteratura, e, con le loro voci unite, la letteratura non enunda mai se non l'assenza del soggetto. Certo, la critica è una lettura profonda (o meglio: profilata); essa scopre nell'opera un certo intelligibile, e in questo modo, svolge un lavoro di decifrazione e partecipa di. una interpretazione. Tuttavia, ciò che essa svela non può essere un significato (giacché questo significato indietreggia incessantemente sino al vuoto del soggetto), ma solo delle catene di simboli, delle omologie di rapporti. Il «senso» che, del tutto legittimamente, la critica dà all'opera, non è, in definitiva, se non una nuova efflorescenza. dei simboli che costituiscono l'opera. Quando un critico trae dall'uccello e dal ventaglio di Mallarmé un « senso » comune, quello dell'andare e tornare, del virtuale', egli non designa un'ultima verità dell'immagine, ma solo una L Si riconosce qui un'eco, sia pure deformata, dell'insegnamento di ]. Lacan, svolto al suo seminario dell'Ecole pratique des hautes études. 2 «Di soggettivo c'è solo l'inesprimibile>•, dice R. Picard {Nouvelle critique cit., p. 13}. Ciò significa liquidare un po" troppo rapidamente i rapporti fra il soggetto e i! linguaggio, in cui altri « pensatori » vedono un problema particolarmente difficile, a differenza da R. Picard. 3 J.-P. RICHAilD, L'univers imaginaire cit., VI, III.

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nuova immagine, anch'essa sospesa. La critica non è una traduzione, bens1 una perifrasi. -Essa non può pretendere di ritrovare il« fondo» dell'opera, giacché questo fondo è il soggetto stesso, ossia un'assenza: ogni metafora è un segno senza fondo, ed è questa lontananza del significato che, nella sua profusione, il processo simbolico designa: il critico può solo continuare le metafore dell'opera, e non ridurle. Lo ripetiamo: se. nell'opera c'è un significato« sepolto» e «oggettivo», il simbolo è solo un eufemismo, la letteratura è solo camuffamento e la critica filologia. È sterile ricondurre l'opera a qualcosa di puramente esplicito, perché allora non c'è, immediatamente, piu nulla da dirne e perché la funzione dell'opera non può consistere nel chiudere le labbra di coloro che la leggono. Ma è quasi altrettanto inutile cercare nell'opera ciò che essa direbbe senza dirlo e attribuirle un segreto ultimo, scoperto il quale non ci sarebbe piu nulla da aggiungere: qualunque cosa si dica dell'opera, ciò che in essa rimane sempre, come al suo primo istante, è linguaggio, soggetto, assenza. La misura del discorso critico è la sua giustezza. Come in musica, quantunque una nota giusta non sia una nota «vera», la verità del canto dipende, tutto sommato, dallQ sua giustezza, poiché la giustezza è fatta di un unisono o di una armonia, cosi, per essere vero, il critico deve essere giusto e deve tentare di riprodurre nel proprio linguaggio, secondo «una esatta messa in scena spirituale » 1, le condizioni simboliche dell'opera, altrimenti egli non può « rispettarla ». Ci sono infatti due modi, a dire il vero non egualmente gravi, di non cogliere il simbolo. Come si è visto, il primo è molto sbrigativo: consiste nel negare il simbolo, nel ricondurre tutto il profilo significante dell'opera alle insulsaggini di una falsa lettera o nel rinchiuderlo entro il vicolo cieco di una tautologia. Viceversa, il secondo consiste nell'interpretare scientificamente il simbolo: da una parte nel dichiarare che l'opera si presta alla decifrazione (e in questo la si riconosce simbolica), ma dall'altra nel compiere questa decifrazione per mezzo di una parola 1 Mallarmé, prefazione a Un coup de dés iamais n'abolira le basard, in (Euvres complètes, Gallimard, Pari5, p. 455.

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letterale, priva di profondità e di fuga, incaricata di interrompere l'infinita metafora dell'opera per possedere, in questa interruzione, la sua« verità»: a questo tipo appartengono le critiche simboliche con intenzione scientifica (sociologica o psicoanalitica). In entrambi i casi, l'arbitraria disparità dei linguaggi, quello dell'opera e quello del critico, impedisce di cogliere il simbolo: voler ridurre il simbolo è altrettanto eccessivo che ostinarsi a vedere solo la lettera. Occorre che il simbolo vada a cercare il simbolo, occorre che una lingua parli pienamente un'altra lingua: solo cosi la lettera dell'opera è rispettata. Questa torsione, che finisce per restituire la critica alla letteratura, non è inutile, in quanto permette di lottare contro una duplice minaccia: parlare di un'opera ci espone infatti al pericolo di rimanere invischiati in una parola nulla, sia poi vaniloquio o silenzio, oppure in una parola reificante, la quale immobilizza sotto una lettera ultima il significato che crede di aver trovato. Nella critica, la parola giusta è possibile solo se la responsabilità dell'« interprete» verso l'opera si identifica con la responsabilità del critico verso la propria parola. Di fronte alla scienza della letteratura, il critico, anche se l'intravedé, rimane quanto mai disarmato, poiché non può disporre del linguaggio come di un bene o di uno strumento: egli è colui che non sa quale posizione assu~ere in merito alla scienza della letteratura. Quand'anche gli si dicesse che questa scienza è puramente « espositiva » (e non piu esplicativa), egli se ne troverebbe ancora separato: ciò che egli espone è il linguaggio stesso, non il suo oggetto. Tuttavia, questa distanza non è completamente deficitaria, se permette alla critica di sviluppare ciò che appunto manca alla scienza e che, con una parola, potremmo chiamare ironia. L'ironia non è altro che l'interrogativo che il linguaggio pone al linguaggio ' .. La nostra ahi tu1 Nella misura in cui fra il critico e il romanziere c'è un certo rapporto, l'ironia del critico (nei confronti del proprio linguaggio come oggetto di creazione) non è fondamentalmente diversa dall'ironia o dall'humour che sta a indicare, secondo Lukacs, René· (;ir;u-d e L. Goldmann, il modo in cui il romanziere supera la coscienza dei suoi personaggi (cfr. L. GOLDMANN, lntroduction aux problèmes d'une sociologie du roman, «Re-

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dine di dare al simbolo un orizzonte religioso o poetico ci impedisce di percepire che c'è una ironia dei simboli, un modo di mettere in questione il linguaggio mediante gli eccessi manifesti, dichiarati, del linguaggio stesso. Di fronte alla povera ironia volterriana, prodotto narcisistico di una lingua troppo :fiduciosa in se stessa, si può immaginare un'altra ironia, che, in mancanza di meglio, chiameremo barocca, in quanto gioca con le forme e non con gli esseri, in quanto dilata il linguaggio anziché comprimerlo •. Per quale motivo questa ironia dovrebbe essere negata alla critica? Essa è forse l'unica parola seria che le sia rimasta, fintanto che lo statuto della scienza o del linguaggio non è ben stabilito - come sembra. accadere ancor oggi. L'ironia è allora la possibilità concessa immediatamente al critico: la possibilità, come ha detto Kafka, di essere la verità, anziché di vederla 2 • Ecco perché noi abbiamo il diritto di chiedergli, non già: fammi credere a ciò che dici, ma piuttosto: fammi ctedere alla tua decisione di dirlo.

La lettura. Rimane ancora un'ultima illusione cui dobbiamo rinunciare: il critico non può sostituirsi in nulla al lettore. Invano egli pretenderà - o gli si chiederà - di prestare una voce, per rispettosa che sia, alla lettura degli altri, di essere solo un lettore- al quale altri lettori hanno delegato l'espressione dei propri sentimenti, in ragione del suo sapere o del suo acume-, in breve, di rappresentare i diritti di una collettività sull'opera. Perché? Per il fatto che, anche se si definisce il critico come un lettore che scrive, ciò sivue de l'Institut de sociologie», Bruxelles 1963, z, p. 229). t superfluo dire che questa ironia (o· autoironia) sfugge completamente agli avversari della nuova critica. 1 Il gongorismo nel senso ttanstorico del termine comporta sempre un elemento riflessivo; attraverso toni che possono variare molto, e che vanno dall'oratoria al semplice gioco, la figura eccessiva contiene una rillessione sul linguaggio, la cui serietà è provata (cfr. SEVERO SARDUY, Sur Gongora, «Te! Quel,., n. 25, primavera 1966). 1 «Non tutti possono vedere la verità, ma tutti possono esserlo ... " F. Kafka, citato da MARTHE ROBEJ!.T, Ka/ka cit., p. 80.

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gnifica che questo lettore incontra sulla propria strada un temibile mediatore: la scrittura. Ora, in un certo qual modo scrivere è fratturare il mondo (il libro) e rifarlo. Si pensi al modo, come sempre, profondo e sottile in cui il Medioevo aveva regolato i rapporti fra il libro (tesoro antico) e coloro che avevano il compito di ricondurre questa materia assoluta (assolutamente rispettata) attraverso una nuova parola. Oggi noi conosciamo solo lo storico e il critico (e, come se non bastasse, ci si vuole indebitamente far credere che bisogna confonderli), mentre il Medioevo aveva stabilito attorno allibro quattro funzioni distinte: lo scriptor (che ricopiava senza aggiungere nulla), il com pila t or (che non aggiungeva mai nulla di suo), il commentator (che interveniva di propria iniziativa nel testo ricopiato solo per render lo intelligibile), e infine l'auctor (che presentava le proprie idee, basandosi sempre su altre autorità). Un tale sistema- stabilito espressamente al solo scopo di essere «fedele» al testo antico, unico Libro riconosciuto (si può immaginare un« rispetto » maggiore di quello riservato dal Medioevo ad Aristotele o a Prisciano?)- ha però prodotto una « interpretazione» dell'Antichità che i moderni non hanno esitato a respingere e che sembrerebbe perfettamente « delirante» alla nostra critica« oggettiva». Il fatto è che la visione critica comincia già con il compilator: non è necessario sovrappotsi a un testo per «deformarlo»; basta citarlo, ossia articolarlo, perché nasca immediatamente un nuovo intelligibile. Questo intelligibile può essere piu o meno accettato, ma rimane pur sempre costituito. Il critico non è altro che un commentator, ma lo è pienamente (e ciò è sufficiente per rendere pericolosa la sua posizione): da una parte, infatti, è un trasmettitore, riconduce una materia passata (che spesso ne ha bisogno; in definitiva, Racine non ha forse qualche debito verso Georges Poulet, o Verlaine verso Jean-Pierre Richard?) '; e d'altra parte è un operatore, ridistribuisce gli elementi dell'opera 1 GEORGES POULET, Notes sur le temps racinien, in Etudes sur le temps humain, Plon, Paris 1950. J.·P. RICHARD, Fadeur de Verlaine, in Poésie et pro/ondeur, Ed. du Seui!, Paris I955·

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in modo da darle una certa intelligenza, ossia una certa distanza. Altra separazione fra il lettore e il critico: mentre non si sa come un lettore parla a un libro, il critico è invece costretto ad assumere un certo «tono», e tutto sommato questo tono può essere solo affermativo. Nel proprio intimo, il critico può anche dubitare e soffrire in mille modi e su punti che sfuggono al piu malevolo dei suoi censori, ma in definitiva egli può ricorrere solo a una scrittura piena, cioè assertoria. È ridicolo pretendere di evitare l'atto di istituzione che fonda ogni scrittura facendo professione di modestia, di dubbio o di prudenza: si tratta di segni codificati, come gli altri: non possono garantire nulla. La scrittura dichiara, e proprio in questo è scrittura. Come potrebbe la critica essere inter-rogativa, ottativa o dubitativa, senza malafede, poiché essa è scrittura e poiché scrivere è appunto incontrare il rischio apofantico, l'ineluttabile alternativa del vero-falso? Quello che ci dice il dogmatismo della scrittura, ammesso che sia tale, è un impegno, non una certezza o una sufficienza: non è altro che un atto, quel tanto che rimane nella scrittura. Cosi, «toccare » un testo - non con gli occhi, ma con la scrittura- scava un abisso fra la critica e la lettura, lo stesso abisso che ogni significazione crea fra il suo lato significante e quello significato. Infatti, nessuno potrebbe mai sapere nulla del senso che la lettura dà all'opera, come d'altronde del significato, forse perché questo senso, essendo il desiderio, si stabilisce al di là del codice della lingua. Solo la lettura ama l'opera, e mantiene con essa un rapporto di desiderio. Leggère è desiderare l'opera, voler essere l'opera, rifiutarsi di giustapporle una parola che le sia estranea: l'unico commento che un lettore puro, e che rimanesse tale, potrebbe produrre, è il pastiche (come testimonia l'esempio di Proust, amante delle letture e dei pastiches). Passare dalla lettura alla critica significa cambiare desiderio, desiderare non piu l'opera ma il proprio linguaggio. Tuttavia, proprio per questo, ciò significa anche rinviare l'opera al desiderio della scrittura, dalla quale essa era sorta. La parola ruota cosi attorno allibro: leggere, scrivere: ogni letteratura procede da un deside-

CRITICA E VERITÀ

rio all'altro. Quanti scrittori hanno scritto solo per aver letto? Quanti critici hanno letto solo per scrivere? Essi hanno avvicinato le due estremità del libro, le due facce del segno, affinché ne scaturisca una sola parola. La critica è solo un momento di questa storia nella quale entriamo e che ci conduce all'unità, alla verità della scrittura. Febbraio 1966.

Indice

P·.5

Al lettore italiano

I. 18 20 24

27

32

Il verosimile critico L'oggettività Il gusto La chiarezza L'asimbolia

II. 4I 44 48 .53 61

La crisi del commento La lingua plurale La scienza della letteratura La critica La lettura

Finito di stampare il24 gennaio I98I per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso le Industrie Grafiche G. Zeppegno & C. s. a. s., Torino Ristampa identica alla precedente del 26 agosto If)78 C. L. 314-_:;