Critica della teologia politica: Voci ebraiche su Carl Schmitt [1 ed.] 9788822901897, 9788822910448

Walter Benjamin, Hans Kelsen, Leo Strauss, Karl Löwith e Jacob Taubes sono i cinque filosofi che i curatori di questo vo

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Critica della teologia politica: Voci ebraiche su Carl Schmitt [1 ed.]
 9788822901897, 9788822910448

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Quodlibet Studio Filosofia e politica

Walter Benjamin, Hans Kelsen, Karl Löwith, Leo Strauss, Jacob Taubes

Critica della teologia politica Voci ebraiche su Carl Schmitt A cura di Giorgio Fazio e Federico Lijoi

Quodlibet

Prima edizione: giugno 2019 © 2019 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) ISBN 978-88-229-0189-7 | e-ISBN 978-88-229-1044-8

Quodlibet studio. Filosofia e politica Collana diretta da Elettra Stimilli Comitato scientifico: Emanuele Coccia, Dario Gentili, Federica Giardini, Paolo Napoli, Judith Revel, Massimiliano Tomba

Indice



7 Introduzione

di Giorgio Fazio e Federico Lijoi



Walter Benjamin

15 Origine del dramma barocco tedesco 25 Curriculum [III] 26 Walter Benjamin a Carl Schmitt (Berlino, 9 dicembre 1930) 27 Appunti sul “carattere distruttivo” 30 Sul concetto di storia [Tesi VIII] 31 Lo stato d’eccezione come regola. Walter Benjamin come rovescio di Carl Schmitt di Dario Gentili

Hans Kelsen 49 Chi dev’essere il custode della costituzione? 101 Si può difendere la democrazia con la dittatura? Hans Kelsen e Carl Schmitt sul custode della costituzione di Federico Lijoi

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indice

Leo Strauss

125 Note su Carl Schmitt, «Il concetto di politico» 147 Carl Schmitt, Leo Strauss e la strana lotta tra due liberalismi di Massimo Palma

Karl Löwith 167 Decisionismo politico 199 L’occasionalismo della decisione sovrana e i diritti imprescrittibili dell’uomo. Karl Löwith a confronto con Carl Schmitt di Giorgio Fazio

Jacob Taubes 223 Il Leviatano come Dio mortale. L’attualità di Thomas Hobbes 233 Lettera a Carl Schmitt (18 settembre 1978) 239 L’enigma del Leviatano e “il primo ebreo liberale”. Carl Schmitt e Jacob Taubes a confronto con Hobbes di Elettra Stimilli

Introduzione

I saggi che abbiamo raccolto in questa antologia, corredati di un commento che ne illustra il contesto storico e teorico, testimoniano l’incidenza che la teologia politica di Carl Schmitt, in una forma che va dall’ammirazione critica al rifiuto netto, ha avuto su alcuni degli intellettuali più acuti del Novecento ebraico-tedesco. Walter Benjamin, Hans Kelsen, Leo Strauss, Karl Löwith e Jacob Taubes sono i cinque filosofi che abbiamo voluto porre sullo sfondo del comune riferimento critico a Carl Schmitt: tutti protagonisti indiscussi del Novecento filosofico e, allo stesso tempo, testimoni in prima persona dei suoi drammi e delle sue tragedie. In momenti cruciali dei loro itinerari di pensiero, sullo sfondo della drammatica crisi politica e culturale della Repubblica di Weimar, ciascuno di questi filosofi, infatti, dal proprio peculiare punto di vista, ha avvertito l’esigenza di fare i conti con il pensiero del giurista tedesco, illuminandone, da una parte, le aporie interne e sottolineandone, dall’altra, le immediate implicazioni politiche reazionarie. Sempre a partire dalla consapevolezza, però, che il pensiero di Carl Schmitt sia per certi versi inaggirabile, perché capace, come pochi altri, di mettere in evidenza, con coerenza e radicalità, tendenze di lungo periodo, problemi aperti e aporie di fondo, dell’intero progetto politico della modernità, diagnosticandone, spesso in anticipo sui tempi, le faglie di rottura interne alla contemporaneità politica. Non è un caso, del resto, che il dibattito intorno alla teoria del giurista tedesco continui ad arricchirsi di nuovi contributi e approfondimenti, a conferma della sua attualità in un momento storico che, come il nostro, ha esperito la smentita di affrettate letture lineari della secolarizzazione come processo di esilio della religione dallo spazio pubblico, sperimentando per contro una ripresa in grande stile della teologia politica.

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Che sia possibile tuttavia raggruppare questi cinque autori sotto la comune denominazione di “voci ebraiche” è una scelta tutt’altro che ovvia e merita pertanto una breve delucidazione. Ci si può richiamare, in prima istanza, al semplice fatto che ciascuno di questi autori aveva origini ebraiche e fu costretto a subire, in modo diretto o indiretto, gli effetti della persecuzione nazista: abbandonando a tempo debito la Germania (Kelsen, Strauss, Löwith), rimanendone lontano con la propria famiglia, seppure attanagliato dai sensi di colpa per essere sopravvissuto a molti dei suoi cari, uccisi nei campi di sterminio (Taubes) o fuggendo da essa, fino all’estrema e disperata decisione di togliersi la vita per non cadere nelle mani della Gestapo nazista (Benjamin). L’esperienza dell’esilio, della discriminazione, dell’esclusione per motivi razziali, ha quindi accomunato, seppure in modo diverso, i destini biografici di questi filosofi, persino nei casi in cui l’identità ebraica, fino a quel momento, non aveva ricoperto alcun ruolo significativo nella loro vita personale e intellettuale. Si pensi a tal proposito a Hans Kelsen e a Karl Löwith, i quali, per così dire, si “accorsero” di essere ebrei grazie a Hitler. Basterebbe pertanto il richiamo a questa comune condizione di discriminazione per conferire al confronto filosofico con la teoria politica di Schmitt, già dal maggio 1933 ufficialmente compromesso con la vita istituzionale del Terzo Reich, quel primo e più apparente significato che la denominazione “voci ebraiche” tenta di catturare: una condizione esistenziale che drammaticamente si torce in una condizione politica e diviene, infine, un punto di vista filosofico “privilegiato” per analizzare, da una prospettiva proficuamente ancipite, esterna e interna allo stesso tempo, la tragica discesa agli inferi della Repubblica di Weimar e le ragioni spirituali di tale Verdunkelung. Ci si potrebbe limitare a questo richiamo, dunque. E del resto, dalla lettura delle analisi critiche mosse alla teoria politica schmittiana, emerge con chiarezza come gli orientamenti filosofici, le sensibilità intellettuali, le stesse opzioni politiche di questi cinque filosofi si lascino difficilmente ricondurre a un denominatore comune. Si potrebbe persino affermare che, in un contesto storico diverso, le loro traiettorie intellettuali avrebbero potuto dispiegarsi lungo sentieri intellettuali e politici anche molto differenti, persino opposti, rendendo possibile a stento un’operazione di accostamento come quella che qui si propone.

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Tuttavia, l’ipotesi di ricerca da cui muove questo volume è che sia proprio l’accostamento tra questi diversi punti di vista filosofici a consentire l’emersione di un punto di convergenza insospettato, capace di conferire alla denominazione “voci ebraiche” – o “ebraicotedesche”, come si potrebbe anche dire – un significato più pregnante. Pur muovendo da orientamenti e approcci eterogenei, infatti, tutti questi filosofi hanno individuato nella critica della teologia politica di Carl Schmitt il varco attraverso cui penetrare nella dimensione più ambigua e ideologica del suo pensiero, avviando così un lavoro di attenta discussione dei presupposti che il giurista tedesco aveva posto alla base del rapporto tra teologia e politica. Focalizzandosi sulla teologia politica di Schmitt, ciascuno di questi filosofi non si è voluto confrontare soltanto con il metodo storico-genealogico che Schmitt aveva eletto a via privilegiata per fare luce, di contro alle prevalenti auto-interpretazioni della modernità occidentale, sulla matrice teologica della moderna concettualità politica e giuridica. L’obiettivo polemico era costituito soprattutto dal modo in cui il rapporto tra certi nessi concettuali di matrice teologica e il problema della sovranità politica – su cui il giurista tedesco aveva edificato la sua virulenta critica alla democrazia liberale – si erano trovati all’origine di un vero e proprio cortocircuito ideologico. Soltanto a mezzo di un processo di ri-sacralizzazione, infatti, a Schmitt era stato consentito di salvare un’idea della sovranità politica come monistica, escludente e verticale, che in realtà aveva già perso il proprio Sitz im Leben nella Germania weimariana e che per questo poteva essere riproposta soltanto in una forma estremizzata e sfigurata: quella di un inedito potere totalitario come nuova religione politica. Così in Benjamin, tutta la critica a Schmitt si svolge sullo sfondo dell’assunto secondo cui «l’ordine del profano non può essere costruito sulla concezione del Regno di Dio» e pertanto «la teocrazia non ha alcun senso politico, bensì soltanto un senso religioso» (infra, p. 36). Per Benjamin, infatti, nel tempo moderno, «nessuna sovranità può – né per emanazione né per analogia – farsi espressione dell’ordine divino, e nessun ordine profano può – di nuovo: né per emanazione né per analogia – essere costruito a immagine del Regno di Dio» (ibid.). E la critica di Benjamin consiste proprio nello svelare, a partire da questo assunto, l’assenza di fondamento che si cela dietro la concezione personalistica e indivisibile della sovranità di Schmitt

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e che solo un’ideologia reazionaria può camuffare, spacciando il sovrano per «l’ultima istanza che trascende la norma giuridica» (infra, p. 45). Pur all’interno di un quadro teorico assai lontano dall’orientamento an-archico di Benjamin, anche Kelsen, «nell’indebito espediente ideologico di una legittimità giuridica extra-legale (all’occorrenza, anche anti-legale) e, in ogni caso, non positiva», riconosce un dispositivo di matrice teologica, «indegno di quella modernità che con il suo metodo scientifico era stata in grado di smascherare le ipostatizzazioni e i raddoppiamenti di cui si nutriva il pensiero politico reazionario, con i suoi mitologemi del popolo costituente e dell’unità politica» (infra, p. 104). Legittimità trascendente cui il giurista austriaco propone di sostituire l’habitus democratico della discussione e del dialogo, nella direzione di un’autodeterminazione politica (di tipo parlamentare) ben lontana da qualsiasi tentazione paternalistica di “governo per il popolo”. Intorno al problema teologico-politico si concentrano anche le riflessioni di Leo Strauss e Karl Löwith. Pur condividendo l’accusa di nichilismo che il giurista tedesco muove al liberalismo moderno, Strauss rimprovera a Schmitt di non aver mai preso congedo da un quadro valoriale di matrice teologica, del tutto estraneo alla tradizione antica della ragione filosofica, e di aver ritenuto, in base all’idea di una natura umana moralmente corrotta, che il governo politico non fosse altro che un “male necessario”. A questa teoria del “politico” che si rivela una mera immagine rovesciata del liberalismo, Strauss contrappone il «ritorno alla posizione liberale antica, a suo modo aristocratica, del governo dei migliori, dei ben riusciti» (infra, p. 156). Proponendo un’argomentazione apparentemente simile a quella di Strauss, ma in realtà innervata da istanze filosofiche differenti, anche Löwith si concentra sul carattere ideologico del decisionismo politico schmittiano, rovesciando contro di esso l’accusa di occasionalismo che Schmitt aveva scagliato contro il romanticismo politico. Proprio come l’esiziale soggettività estetica del romanticismo, la decisione sovrana di Schmitt, nel suo essere svincolata da qualsiasi criterio di misura normativo e oggettivo, è destinata a legittimare qualsiasi energia politica dominante, purché capace di decidere e di produrre un ordine politico monistico, escludente e anti-liberale. Infine, Taubes, il quale imposta il suo confronto con Schmitt sullo sfondo dell’orizzonte dischiuso da Paolo, secondo cui «tra politica e

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teologia non può essere messo in atto alcun processo di identificazione, tale da consentire all’elemento teologico, eccedente rispetto al politico, di mantenersi allo stesso tempo dentro e fuori di esso come ultima autolegittimazione del potere» (infra, p. 259), come invece aveva preteso Schmitt. Nella prospettiva messianica di Paolo, che Taubes fa propria, la teologia non mira a un’identificazione con la politica, ma a una divergenza capace di creare una tensione perpetua «attraverso cui dentro e fuori sono di volta in volta continuamente separati e sempre di nuovo differentemente riarticolati» (infra, p. 260). In conclusione, dunque, forse non è illegittimo leggere in tutte queste critiche alla teologia politica di Schmitt una certa “somiglianza di famiglia”, consistente anche nello sforzo comune di rendere permeabile lo spazio della politica a un’istanza di giustizia, le cui radici non si lascino divellere da un’ideologica sacralizzazione del potere e la cui azione serva a delegittimare un’illusoria tentazione di saturazione e di conclusività: la promessa messianica di redenzione degli oppressi della storia per Benjamin, l’educazione ai principi fondamentali della democrazia costituzionale per Kelsen, il razionalismo classico per Strauss, l’imprescrittibilità dei diritti umani per Löwith, il messianesimo politico per Taubes. In ciò consiste dunque il rinvio a una convergente, ma mai identica, critica “ebraico-tedesca” alla modernità politica, orientata a individuarne, non a caso sullo sfondo (presente o evocato) delle drammatiche circostanze politiche della Repubblica di Weimar, l’assolutismo che la informa, come un rovescio negativo mai definitivamente superabile. Un assolutismo che sembra riemergere ogni volta che le fragili basi della convivenza umana vengono scosse da una crisi e la tentazione di assolutizzare i concetti della modernità politica (popolo, sovranità, nazione etc.), svuotandone la carica emancipatoria, si riaffaccia minacciosamente. Una forma di critica, come è evidente, più che mai attuale, in un tempo, come il nostro, in cui i demoni della sovranità politica e delle teologie politiche che la nutrono sono tornati a occupare la scena teorica e politica dell’attualità. g. f., f. l.

Walter Benjamin Origine del dramma barocco tedesco Curriculum [III] Walter Benjamin a Carl Schmitt Appunti sul “carattere distruttivo” Sul concetto di storia [Tesi VIII] A cura di Dario Gentili

W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1925), in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, vol. I/1, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, pp. 245-253. Lebenslauf III (1928), in ivi, vol. VI, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, pp. 218-219. A Carl Schmitt (Berlin, 09/12/1930), in Id., Gesammelte Briefe, a cura di C. Gödde e H. Lonitz, vol. III (1925-1930), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, pp. 558-559. Notizen zum «destruktiven Charakter», in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, vol. IV/2, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, pp. 999-1001. Über den Begriff der Geschichte (1940), in ivi, vol. I/2, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, p. 697.

Origine del dramma barocco tedesco

Teoria della sovranità Il sovrano rappresenta la storia. Tiene in mano l’accadere storico come uno scettro. Questa idea è tutt’altro che una prerogativa della gente di teatro. Ne è il fondamento la concezione giuridica dello Stato. In un confronto finale con le teorie giuridiche del Medioevo, nel XVII secolo si configura un nuovo concetto di sovranità. Fulcro di questa contesa era l’annoso caso di scuola del tirannicidio. Tra i generi di tirannia che la precedente dottrina dello Stato distingueva, la trattazione di quello dell’usurpatore era da sempre stata particolarmente controversa. La Chiesa lo aveva abbandonato al suo destino, e tuttavia si continuava a dibattere se il segnale per l’eliminazione dell’usurpatore dovesse venire dal popolo, dall’anti-re, oppure unicamente dalla curia. La presa di posizione della Chiesa non aveva perso d’attualità; proprio in un secolo di guerre di religione, il clero si atteneva a una dottrina che metteva nelle sue mani armi contro i principi ostili. Il protestantesimo ne condannò le pretese teocratiche e con l’uccisione di Enrico IV di Francia la mise definitivamente alla gogna. E con la pubblicazione degli articoli gallicani del 1682 cadde l’ultima posizione della dottrina teocratica dello Stato: l’assoluta inviolabilità del sovrano per cui la curia aveva combattuto fino alla fine. Questa dottrina estrema del potere del principe ne era all’origine, malgrado lo schieramento dei partiti controriformisti, più acuta e profonda della sua riformulazione moderna. Se il concetto moderno di sovranità conduce al supremo potere esecutivo del principe, quello barocco si sviluppa a partire da una discussione sullo stato d’eccezione e stabilisce che l’escluderlo è la competenza più importante del principe1. Chi esercita il dominio è 1 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 35 sgg.

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pertanto destinato già preventivamente a essere il detentore del potere dittatoriale nello stato d’eccezione, sia esso prodotto dalla guerra, dalla rivolta o da altre catastrofi. Questa è una posizione controriformistica. Dal ricco sentimento vitale proprio del Rinascimento si emancipa il suo elemento dispotico-mondano, per dispiegare fino alle estreme conseguenze l’idea di una piena stabilizzazione, di una altrettanto piena restaurazione tanto ecclesiastica quanto statale. Una di queste conseguenze è l’esigenza di un principato il cui status giuridico-statuale assicuri la continuità di quella collettività che prospera attraverso le armi e le scienze, le arti e il clero. Nella mentalità giuridico-teologica così caratteristica del secolo2, si esprime all’estremo la tensione dilazionante alla trascendenza, che è a fondamento del Barocco e di tutti i suoi accenti provocatoriamente mondani. Dunque, nel Barocco, all’ideale storico della Restaurazione si contrappone in modo antitetico l’idea di catastrofe. Ed è su questa antitesi che è coniata la teoria dello stato d’eccezione. Pertanto, se si vuole spiegare come mai «la diffusa consapevolezza del significato del caso d’eccezione che domina il diritto naturale del XVII secolo»3 sia andata in seguito perduta, non si dovrà rinviare soltanto alla maggiore stabilità delle relazioni politiche del XVIII secolo. Se infatti «per Kant il diritto di necessità non è più in nessun modo diritto»4, ciò dipende dal suo razionalismo teologico. L’uomo religioso del Barocco si aggrappa così tanto al mondo in quanto si sente trascinato insieme con esso verso una cateratta. Non esiste alcuna escatologia barocca; bensì, proprio per questo, un meccanismo che accumula ed esalta ogni creatura sulla terra prima di consegnarla alla morte. L’aldilà è svuotato di tutto ciò in cui spira anche soltanto il più flebile alito di mondo, e a esso il Barocco strappa una gran quantità di cose che di solito erano sottratte a ogni raffigurazione e, al suo culmine, le riporta alla luce in figure crude, sgomberando un ultimo cielo e ponendovi al centro un vuoto, in cui un giorno annientare con catastrofica violenza la terra. La medesima condizione riguarda, soltanto trasposta, la concezione secondo cui il naturalismo barocco sarebbe «l’arte delle minime distanze […]. In ogni caso il mezzo naturalistico serve ad abbreviare le distanze […]. Proprio per poter riguadagnare di 2 Cfr. A. Koberstein, Geschichte der deutschen Nationalliteratur vom Anfang des siebzehnten bis zum zweiten Viertel des achtzehnten Jahrhunderts, Vogel, Leipzig 1872, p. 15. 3 C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 40. 4 Ibid.

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slancio le sublimità della forma e i vestiboli del metafisico, esso cerca di far leva sul terreno degli oggetti e dell’attualità più vivente»5. Le forme esaltate del bizantinismo barocco non rinnegano dunque neanche la tensione tra mondo e trascendenza. Hanno un suono inquieto e l’appagamento dell’emanatismo è loro estraneo. La prefazione degli Heldenbriefe [Lettere degli eroi] dice: «Nutro la consolante fiducia che non sia considerato troppo ostilmente il mio ardire, di aver io rinnovellato quei moti amorosi da lungo tempo svaniti di alcune illustri casate che io devotamente onoro, e sono anzi pronto a venerare, se non è contrario a Iddio»6. Insuperabile è Birken: quanto più in alto stanno i personaggi, tanto meglio se ne fa la lode, «in quanto spetta eminentemente a Dio e ai pii dèi terreni»7. Non è forse un contraltare piccolo-borghese ai cortei regali di Rubens? «In essi il principe appare non solo come l’eroe di un antico trionfo, ma è anche posto in rapporto diretto con esseri divini, che lo servono e lo festeggiano: ed è così divinizzato egli stesso. Personaggi terrestri e celesti si mescolano nel suo seguito, subordinandosi alla stessa idea di glorificazione». Ma questa resta pagana. Nel dramma barocco il monarca e i martiri non sfuggono all’immanenza. All’iperbole teologica si accompagna un’argomentazione cosmologica molto diffusa: il paragone tra il principe e il sole si ripete innumerevoli volte nella letteratura dell’epoca. E con ciò si prende innanzitutto di mira l’unicità di questa istanza decisiva: «Chi metta qualcuno su un trono / Al fianco suo, è degno che gli si tolga / Porpora e corona. Un solo principe e un solo sole / Vi sono per il mondo e per i regni»8. «Il cielo può tollerare un solo sole, / Due non possono pascolare in trono e nel letto nuziale»9, dice l’Ambizione nella Mariamne di Hallmann. Quanto facilmente l’altra interpretazione di questa metaforica passi dalla definizione giuridica della posizione di dominio in politica interna a un ideale grandioso di dominio del mondo – tanto congeniale alla passione teocratica barocca quanto incompatibile con la sua ragion 5

W. Hausenstein, Vom Geist des Barock, Piper, München 1921, p. 42. C. Hofmann von Hofmannswaldau, Helden-Briefe, Fellgiebel, Leipzig-Breßlau 1680, pp. 8 sgg. 7 S. von Birken, Deutsche Redebind- und Dichtkunst, Riegel, Nürnberg 1679, p. 242. 8 A. Gryphius, Trauerspiele, a cura di H. Palm, Bibliothek des literarischen Vereins in Stuttgart, Tübingen 1882, p. 61 (Leo Armenius, II, pp. 433 sgg.). 9 J.C. Hallmann, Trauer- Freuden- und Schäffer-Spiele [Drammi, commedie e drammi pastorali], Fellgiebel, Breßlau 1684, p. 17 [Die beleidigte Liebe oder die großmütige Mariamne]. 6

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di Stato – lo si apprende da una singolare considerazione di Saavedra Fajardo in Idea de un príncipe político cristiano representada en cien empresas. A proposito di un’incisione allegorica che raffigura un’eclisse solare con l’iscrizione Praesentia nocet (sc. lunae), si precisa che i principi devono evitare la vicinanza reciproca. «I principi mantengono vicendevolmente una buona amicizia per mezzo dei loro subalterni e mediante lettere; ma là dove, a proposito di qualche cosa, vogliono tra loro discutere, ben presto, dalla presenza deriva sospetto e ripugnanza, poiché l’uno non trova nell’altro ciò che aveva immaginato ci fosse, e nessuno di loro giudica sé stesso, poiché comunemente non c’è uno di loro che più di quanto per diritto gli spetta essere non voglia. L’incontro e la presenza dei principi è una guerra permanente, nella quale si lotta soltanto per la propria pompa e ciascuno vuol avere il sopravvento e lotta contro l’altro per ottenere la vittoria»10. Fonti bizantine Di preferenza il dramma barocco si rivolge alla storia orientale, dove la monarchia assoluta palesava un’ostentazione del potere sconosciuta all’Occidente. Così, in Catharina von Georgien, Gryphius ricorre allo scià di Persia, e Lohenstein, nel primo e nell’ultimo dei suoi drammi, al sultanato. Il ruolo principale è tuttavia giocato dall’impero bizantino, fondato su basi teocratiche. È cominciata a quell’epoca «la scoperta e lo studio sistematico della letteratura bizantina […] con le grandi edizioni degli storici bizantini, che […] sotto gli auspici di Ludovico XIV sono state curate da eruditi francesi quali Du Cange, Combefis, Maltrait e altri»11. Questi storici, soprattutto Cedreno e Zonara, erano molto letti, forse non solo per amore dei sanguinosi resoconti che fornivano sul destino dell’impero romano d’Oriente, ma anche per la parte riservata alle immagini esotiche. L’influsso di queste fonti si è costantemente accresciuto nel corso del XVII e fino al XVIII secolo. Quanto più, sul finire del barocco, il tiranno del Trauerspiel ha assun10

D. Saavedra Fajardo, Abris Eines Christlich-Politischen Printzens, Friessem, Coloniae 1674, p. 897. 11 K. Krumbacher, Die griechische Literatur des Mittelalters, in Die Kultur der Gegenwart. Ihre Entwicklung und ihre Ziele, a cura di P. Hinneberg, parte I, sezione 8: Die griechische und lateinische Literatur und Sprache, Teubner, Leipzig-Berlin 1912, p. 367.

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to quel ruolo secondario che ha trovato una fine non ingloriosa nelle farse viennesi di Stranitzky, tanto più si rivelavano appropriate le cronache, pullulanti di misfatti, della Roma d’Oriente. Vale allora a dire: «Si impicchi, si bruci, si arroti, grondi di sangue e anneghi nello Stige chi ci offende (fa di tutto un mucchio e se ne va adirato)»12. Oppure: «Fiorisca la giustizia, domini la crudeltà, trionfino il delitto e la tirannia, affinché Venceslao possa salire su cadaveri grondanti come fossero gradini verso il suo trono vittorioso»13. Allo scioglimento delle Hauptund Staatsaktionen [Azioni principali e di Stato] nell’opera nordica corrisponde questo finale viennese nel segno della parodia. Eine neue Tragoedie, Betitult: Bernardon Die Getreue Prinzeßin Pumphia, Und Hanns-Wurst Der tyrannische Tartar-Kulikan, Eine Parodie in lächerlichen Versen [Una nuova tragedia, intitolata: Bernardone La Fedele Principessa Pumfia, E il Pagliaccio, Il tirannico Culicano dei Tartari, Una parodia in Versi per ridere]14, con i personaggi del tiranno dal piede di lepre e della castità che si salva nel matrimonio, porta all’assurdo i motivi del grande dramma barocco. Persino la farsa viennese quasi assumerebbe come motto un passo di Gracian, che chiarisce quanto precisamente il ruolo del principe debba essere vincolato a un modello e a un estremo: «I re non si giudicano secondo la media. Li si annovera tra gli ottimi o tra i pessimi»15. I drammi di Erode Ai «pessimi» è riservato il dramma del tiranno e la paura; agli «ottimi» il dramma del martire e la compassione. Queste due forme conservano la loro curiosa compresenza solo finché non si prende in considerazione l’aspetto giuridico del principato barocco. Se si seguono le indicazioni dell’ideologia, esse appaiono strettamente complementari. Tiranno e martire sono, nel Barocco, i due volti di Giano della testa 12

[Anonimo], Die Glorreiche Marter Joannes von Nepomuck [Il glorioso martire Giovanni Nepomuceno], cit. in K. Weiss, Die Wiener Haupt- und Staatsaktionen. Ein Beitrag zur Geschichte des deutschen Theaters, Gerold, Wien 1854, p. 154. 13 Ivi, p. 120. 14 J.F. Kurz, Prinzessin Pumphia, Konegen, Wien 1883, p. 1. 15 Lorentz Gratians Staats-kluger Catholischer Ferdinand, trad. dallo spagnolo di D.C. von Lohenstein, Trescher, Breßlau 1676, p. 123.

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coronata. Sono le impronte necessarie ed estreme dell’essenza regale. Per quanto riguarda il tiranno, ciò è facilmente evidente. La teoria della sovranità, per cui è esemplare il caso eccezionale con le istanze dittatoriali che manifesta, impone senz’altro di definire la figura del sovrano esclusivamente nel senso del tiranno. Il dramma si preoccupa esclusivamente di rendere caratteristico del dominio il gesto dell’esecuzione e di consolidarlo con le parole e le condotte del tiranno, anche laddove le situazioni non lo richiedono; così come solo in via eccezionale la pompa, la corona e lo scettro erano assenti all’entrata in scena del regnante16. Questa norma della regalità – ed è questo il tratto barocco del quadro – non risulta propriamente intaccata nemmeno dal degrado più spaventoso della persona del sovrano. I discorsi solenni, con le loro continue varianti della massima «la porpora li copre»17, risultano provocatori, ma si tende ancora a provare per essi ammirazione, anche laddove devono coprire il fratricidio, come nel Papinian di Gryphius, o l’incesto, come nella Agrippina di Lohenstein, o l’infedeltà, come nella Sophonisbe sempre di Lohenstein, o l’uxoricidio, come nella Mariamne di Hallmann. Proprio la figura di Erode, che compare dovunque sulle scene teatrali europee dell’epoca18, è caratteristica per la concezione del tiranno. La sua storia offriva tratti molto avvincenti alla rappresentazione della presunzione regale. Non fu certo quest’epoca la prima ad ammantare la figura del re di un mistero terribile. Prima che, in quanto despota folle, diventasse un emblema della creazione stravolta, era presente nel cristianesimo primitivo con le sembianze ancora più spaventose dell’Anticristo. Tertulliano – e non è l’unico – parla di una setta, gli Erodiani, che venerava Erode come messia. La sua vita non è stata solo materia di drammi. L’opera latina giovanile di Gryphius – il ciclo di Erode – mostra con la massima evidenza che cosa catturasse l’interesse degli uomini del tempo: il sovrano del XVII secolo, il vertice della creazione, che esplode di furia come un vulcano e annienta sé stesso insieme a tutta la corte che lo circonda. Alla pittura piaceva raffigurarlo mentre, tenendo tra le mani due neonati sul punto di sfracellarli, veniva travolto dalla follia. Lo spirito del dramma regale si manifesta chiaramente: in questa fine 16

Cfr. W. Flemming, Andreas Gryphius und die Bühne, Niemeyer, Halle 1921, p. 386. A. Gryphius, Trauerspiele, cit., p. 212 (Catharina von Georgien, III, 438). 18 Cfr. M. Landau, Die Dramen von Herodes und Mariamne, in «Zeitschrift für vergleichende Litteraturgeschichte», VIII (1895), pp. 175-212 e 279-317; IX (1896), pp. 185-223. 17

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tipica del re dei Giudei sono intessuti i tratti della tragedia martirologica. Se infatti nel sovrano all’apoteosi del suo potere si portava a rivelazione la storia e al contempo l’istanza che pone freno alle sue alterne vicende, a favore del Cesare smarrito nel delirio del potere depone questa sola cosa: vittima di una sproporzione della dignità gerarchica illimitata di cui Dio lo ha investito, egli decade allo stadio della sua misera condizione umana. Incapacità di decidere L’antitesi tra il potere del sovrano e la sua capacità di dominio ha conferito al dramma barocco un tratto peculiare, solo apparentemente di genere, che risalta chiaramente solo sulla scorta della teoria della sovranità. Si tratta dell’incapacità di decidere del tiranno. Il principe, sul quale grava la decisione sullo stato d’eccezione, alla prima occasione dimostra che una risoluzione gli è quasi impossibile. Come la pittura dei manieristi non conosce affatto composizioni dalla luce raccolta, così i personaggi teatrali dell’epoca appaiono nella luce accecante della loro volubile determinazione. In loro non s’impone tanto la sovranità, che i luoghi comuni dello stoicismo ostentano, quanto il capriccioso arbitrio delle loro ogni volta mutevoli tempeste emotive, quando soprattutto i personaggi di Lohenstein si inalberano come bandiere lacere e sventolanti. Non sono dissimili i personaggi del Greco con la piccolezza delle loro teste (se è lecito intendere questa espressione in senso figurato)19. Perché non sono pensieri a condizionarli, bensì impulsi fisici oscillanti. Si adatta a tale genere l’affermazione secondo cui «la letteratura del tempo, anche l’epica più disinvolta, coglie felicemente anche i gesti minimi, mentre è del tutto disarmata di fronte al volto umano»20. Tramite un messaggero, Disalce, Massinissa invia a Sofonisba il veleno per sottrarla alla prigionia romana: «Disalce, va’, e non oppormi più parola alcuna. / Eppure, fermati! Mi sento mancare, tremo, sono impietrito! / E vai! Non è più tempo di dubitare. Fermati! / Indugia! Oh! guarda, mi si spezza l’occhio, e il cuore! / Avanti, avanti! La de19

Cfr. W. Hausenstein, Vom Geist des Barock, cit., p. 94. H. Cysarz, Deutsche Barockdichtung. Renaissance, Barock, Rokoko, Haessel, Leipzig 1924, p. 31. 20

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cisione è irrevocabile»21. Nel passo equivalente di Catharina, Chach Abas congeda l’imano Kuli ordinando l’esecuzione di Caterina e conclude: «Non farti più vedere / Se non compiuta l’opera! Ah, cosa mai paralizza d’orrore / il petto ferito! Dimora! vacci! oh, no! / Fermati! Vieni qui! No va’! Bisogna ormai che così sia»22. Anche nella farsa viennese è presente quel complemento della tirannia sanguinaria, la volubilità: «Pelifonte: Eh! e che viva, che viva, – ma no –, sì, sì, che viva […]. No, no, muoia, trapassi, privata sia dell’anima […]. E vai, bisogna che viva»23. Così, interrotto brevemente da altri, il tiranno. Tiranno in quanto martire, martire in quanto tiranno Nel declino del tiranno, di nuovo, affascina il contrasto, nella coscienza dell’epoca, tra l’impotenza e l’abiezione della sua persona e la convinzione della violenza sacrosanta del suo ruolo. Non è pertanto concesso in alcun modo ricavare dalla fine del tiranno una piatta soddisfazione moralistica nello stile dei drammi di Hans Sachs. Se egli infatti non fallisce in proprio, in quanto persona, bensì in quanto sovrano e in nome dell’umanità storica, allora il suo declino avviene come in un’aula di tribunale, dal cui giudizio si sente colpito anche il suddito. Quel che nel dramma di Erode risulta solo a una più attenta osservazione è invece ovvio in opere come Leo Armenius, Carolus Stuardus, Papinian, che senz’altro confinano con le tragedie martirologiche o sono da ascrivere a esse. Non è dunque un’esagerazione dire che in tutte le definizioni del dramma barocco fornite dai manuali si riconosce in fondo la descrizione del dramma martirologico. Esse hanno di mira non tanto le gesta dell’eroe quanto il suo patire, anzi, più spesso, non tanto i tormenti dell’anima quanto le torture fisiche che gli vengono inflitte. Eppure il dramma di martirio non è mai richiamato espressamente, se non in una frase di Harsdörffer: «L’eroe 21 D.C. von Lohenstein, Afrikanische Trauerspiele. Cleopatra. Sophonisbe, a cura di K.G. Just, Bibliothek des literarischen Vereins in Stuttgart, Stuttgart 1957, p. 327 (Sophonisbe, IV, 505 sgg.). 22 A. Gryphius, Trauerspiele, cit., p. 213 (Catharina von Georgien, III, 457 sgg.). Cfr. J.C. Hallmann, Trauer-, Freuden- und Schäferspiele, cit. p. 86 (Mariamne, p. 86 [V, 351]). 23 J.A. Stranitzky, Wiener Haupt- und Staatsaktionen, a cura di R.P. von Thurn, Verlag des literarischen Vereins in Wien, Wien 1908, vol. I, p. 301 (Die Gestürzte Tyrannay in der Person deß Messinischen Wüttrichs Pelifonte, II, 8).

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[…] dev’essere un esempio di tutte le più perfette virtù / e dev’essere colpito dall’iniquità dei suoi amici / e nemici; e tuttavia in modo tale da mostrarsi / magnanimo in ogni occorrenza, e da superare con fortezza il dolore / che si fa strada fra i sospiri / le esclamazioni e i lamenti di ogni genere»24. Afflitto «dall’iniquità dei suoi amici e nemici» – potrebbe essere detto della figura di Cristo nella Passione. Come Cristo, in quanto re, ha sofferto in nome dell’umanità, così secondo la visione degli scrittori barocchi deve soffrire la maestà tout court. «Tollat qui te non noverit» recita l’epigrafe del LXXI foglio dell’Emblematum ethico-politicorum centuria di Zincgref. In primo piano in un paesaggio, si mostra una poderosa corona. Di sotto i versi: «Questo fardello appare altro a colui che lo porta, / Che a coloro che abbaglia col suo lustro ingannevole, / Costoro mai ne conobbero il peso, / Ma l’altro sa, esperto, quale tormento comporta»25. Pertanto, non si esitava in certe occasioni a conferire espressamente ai principi il titolo di martire. Carolus il Martire, Carolus Martyr, sta scritto sotto il frontespizio della Königlichen Verthätigung für Carl I [Apologia regale di Carlo I]26. In modo insuperato, però sconcertante, queste antitesi s’intrecciano nel primo dramma di Gryphius. La posizione elevata dell’imperatore, da un lato, e l’impotenza abietta del suo agire dall’altro lasciano in fondo in sospeso se si sia al cospetto del dramma di un tiranno oppure della storia di un martire. Gryphius si sarebbe certamente riconosciuto nella prima ipotesi; Stachel sembra considerare ovvia la seconda27. In questi drammi è la struttura a mettere fuori corso quegli schemi contenutistici. In nessun caso comunque più che nel Leo Armenius, a discapito di un’apparenza etica chiaramente delineata. Non c’è quindi bisogno qui di un’indagine più approfondita per scorgere come in ogni dramma della tirannia si nasconda un elemento della tragedia martirologica. Molto meno facilmente si scova il momento del dramma del tiranno nella storia del martire. Per far ciò, condizione preliminare è considerare quanto fosse singolare nel 24 G.P. Harsdörffer, Poetischen Trichters zweyter Theil [Seconda parte dell’Imbuto poetico], Endter, Nürnberg 1648, p. 84. 25 J.W. Zincgref, Emblematum Ethico-Politicorum Centuria, Editio secunda, Mareschall, Franckfort 1624, Embl. 71. 26 C. Salmasio, Königliche Verthätigung für Carl den I. geschrieben an den durchläuchtigsten König von Großbritannien Carl den Andern, Rotterdam 1650. 27 Cfr. P. Stachel, Seneca und das deutsche Renaissancedrama. Studien zu Literaturund Stilgeschichte des 16. und 17. Jahrhunderts, Mayer und Müller, Berlin 1907, p. 29.

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Barocco, almeno in quello letterario, l’immagine tradizionale del martire. Essa non ha nulla in comune con le concezioni religiose; il martire perfetto non si sottrae all’immanenza, e tanto meno l’immagine ideale del monarca. Nel dramma barocco egli è uno stoico radicale e dà prova di sé in occasione di un conflitto per la corona o di una disputa religiosa, alla fine dei quali lo aspetta la tortura e la morte. Resta la particolarità che in alcuni di questi drammi – come in Catharina von Georgien di Gryphius, in Sophia e in Mariamne di Hallmann e in Maria Stuarda di Haugwitz – è la donna a intervenire quale vittima dell’esecuzione. Per una corretta valutazione della tragedia martirologica ciò è determinante. Compito del tiranno è la restaurazione dell’ordine nello stato d’eccezione: una dittatura, la cui utopia resterà sempre quella di porre, al posto dell’instabile accadere storico, la ferrea costituzione delle leggi di natura. Di una simile stabilità vuole tuttavia rendere capaci anche la tecnica stoica: dominare le passioni in quello che è per l’anima uno stato d’eccezione. Anch’essa persegue una nuova creazione antistorica – nella donna l’affermazione della castità – che non è meno lontana dall’innocenza dello stato originario della creazione di quanto lo sia la costituzione dittatoriale del tiranno. Se in un caso il riferimento emblematico è la devozione borghese, nell’altro lo è l’ascesi fisica. Pertanto nel dramma martirologico la casta regina occupa il primo posto. [Traduzione di Dario Gentili]

Curriculum [III]

[…] Come Benedetto Croce, attraverso la distruzione della teoria dei generi letterari, ha scoperto la via che porta alla singola e concreta opera d’arte, così i tentativi da me condotti finora si impegnano a spianare la via per l’opera d’arte attraverso la distruzione della teoria del carattere settoriale dell’arte. Il loro comune proposito programmatico è promuovere – attraverso un’analisi dell’opera d’arte che in essa riconosca un’espressione integrale, in nessun caso delimitabile per settori, delle tendenze religiose, metafisiche, politiche, scientifiche di un’epoca – il processo di integrazione della scienza, che depone sempre più quelle rigide pareti divisorie tra le discipline che hanno contraddistinto il concetto di scienza del secolo scorso. Questo tentativo, che ho intrapreso su scala maggiore nel già menzionato Ursprung des deutschen Trauerspiels, da un lato si riallaccia alle idee metodologiche elaborate da Alois Riegl nella sua teoria del volere artistico, dall’altro alle ricerche contemporanee di Carl Schmitt, il quale nella sua analisi delle forme politiche ha intrapreso un analogo tentativo di integrazione dei fenomeni, che solo in apparenza sono da isolare per settori. Soprattutto, però, una tale considerazione mi sembra essere il presupposto di ogni comprensione fisiognomica delle opere d’arte che sia convincente, dove esse sono incomparabili e irripetibili. Pertanto, si avvicina di più alla considerazione eidetica dei fenomeni che a quella storica. […] [Traduzione di Dario Gentili]

Walter Benjamin a Carl Schmitt (Berlino, 9 dicembre 1930)

Egregio Professore, riceverà in questi giorni dalla casa editrice il mio libro Ursprung des deutschen Trauerspiels. Con queste righe vorrei non solo annunciarglielo, ma anche esprimerLe la mia gioia perché, su iniziativa di Albert Salomon, mi è permesso farglielo inviare. Noterà subito quanto il libro Le debba nella sua interpretazione della dottrina della sovranità nel XVII secolo. Posso forse in aggiunta dirLe che anche dalle sue opere più recenti, in particolare da La dittatura, ho tratto la conferma delle mie modalità di ricerca nella filosofia dell’arte attraverso le sue nella filosofia politica. Se la lettura del mio libro Le suscitasse chiaramente questa sensazione, il proposito del mio invio sarebbe soddisfatto. Con l’espressione della più grande stima, Suo devoto Walter Benjamin [Traduzione di Dario Gentili]

Appunti sul “carattere distruttivo”

Potrebbe capitare a qualcuno che, nel guardare indietro alla propria vita, si renda conto che quasi tutti i più profondi vincoli che ha sofferto in questa vita siano derivati da persone sul cui “carattere distruttivo” tutti erano d’accordo. Potrebbe un giorno imbattersi forse per caso in questi dati di fatto e, allora, quanto più forte sarebbe lo shock subito, tanto maggiori sarebbero le sue probabilità di arrivare a una descrizione del carattere distruttivo. Fare spazio: con questa parola d’ordine si potrebbe illustrare con particolare evidenza l’azione del carattere distruttivo. “Fammi posto!” è la parola d’ordine su cui il carattere distruttivo imposta il suo agire. E si troverà pure qualcuno che ne ha bisogno senza occuparlo. Perché il carattere distruttivo non distrugge per suo stesso volere: è un mandatario. Questo carattere distruttivo non è un Tersite; anzi, è giovane e allegro. Ne rappresenta addirittura l’immagine opposta, di una bellezza perfino apollinea: piena di giovinezza e di allegria. Distruggere infatti ringiovanisce, perché spazza via i testimoni della nostra età; e rallegra, perché ogni rimozione significa per colui che distrugge una schiarita, una perfetta – per dirla in termini matematici – riduzione, se non estrazione della radice della propria condizione. A una simile concezione apollinea del distruttore induce più che mai la comprensione di come si semplifichi straordinariamente il mondo qualora lo si esamini in base alla dignità d’essere distrutto. È il grande nastro che avvolge armonicamente ogni esistente. Ed è una visione che, al carattere distruttivo, appare gradevole e consolante. (Al contrario, nel caso del carattere edificante: ogni giorno le basi della sua esistenza si fanno più difficili, più condizionate, e più condizionato diviene il suo operato e sempre più precario il suo equilibrio, che comunque

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non è quello stabile del carattere distruttivo, bensì quello labile del carattere creativo). Il carattere distruttivo è sempre fresco al lavoro. È la natura a dettargli il tempo, indirettamente almeno: perché deve prevenirla. Altrimenti s’incaricherà essa stessa della distruzione. Il carattere distruttivo non ha alcuna immagine in mente. Ha poche esigenze, e la minima è: sapere che cosa subentra a ciò che è distrutto. In un primo momento, per un attimo almeno, lo spazio vuoto: il posto dove era la cosa, dove era vissuto l’uomo. Si troverà pur qualcuno che ne ha bisogno senza occuparlo. Il carattere distruttivo non ha nulla a che fare con quello decadente e altrettanto poco con quello demoniaco. Non gli importano le imprese private, ma solo la certezza di non vivere neppure un attimo senza un mandato storico. Il carattere distruttivo non si uccide. Perché? Perché non c’è niente a cui sgomberare la via. È in un punto d’indifferenza: la sua esistenza è creazione, il suo operare distruzione. Il carattere distruttivo agisce in ogni situazione come se fosse una situazione storica. Come un segno trigonometrico collocato in cima è esposto da ogni lato al vento, così il carattere distruttivo – e specialmente le sue gesta – sono esposte da ogni parte alle chiacchiere. Proteggerlo da esse è insensato. Alcuni rendono le cose tramandabili (e sono soprattutto i collezionisti, nature conservatrici, conservanti), altri rendono le situazioni agibili, per così dire citabili – e questi sono i caratteri distruttivi. Il carattere distruttivo non è affatto interessato a essere capito. Considera superficiali gli sforzi in questo senso. L’essere frainteso non gli nuoce. Anzi, egli provoca l’equivoco, esattamente come lo provocavano gli oracoli, queste istituzioni statali distruttive. Il più piccolo borghese di tutti i fenomeni borghesi, il pettegolezzo, insorge solo perché la gente non vuole essere fraintesa. Il carattere distruttivo lascia che lo si fraintenda – e non provoca pettegolezzi. Il carattere distruttivo è il nemico dell’uomo-custodia. L’uomocustodia cerca la sua comodità, e l’involucro ne è la quintessenza. L’interno dell’involucro è la traccia foderata di velluto che egli ha impresso nel mondo. Anche l’uomo creativo – in ogni caso l’uomo creativo dei nostri giorni – è partecipe della comodità d’una simile

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esistenza. E il fatto di non essere oggetto di chiacchiere, di conservare una dimensione privata, quanto meno come creatore e durante il processo della creazione, è una massima comodità. L’atto distruttivo è sempre pubblico. Come l’uomo creatore cerca la solitudine, quello distruttore deve continuamente circondarsi di gente, di testimoni. Neppure per un attimo il carattere distruttivo è incline a cercare un “senso” della vita. Se potesse conferirvi per un attimo un senso, fosse pure soltanto quello insito nella distruzione di ciò che distrugge, otterrebbe già di più di quanto avesse sperato. Il carattere distruttivo non vive nella sensazione che la vita sia degna d’essere vissuta, bensì in quella per cui non vale la pena suicidarsi . Il carattere distruttivo ha la consapevolezza dell’essere umano storico, il cui sentimento fondamentale è una incoercibile diffidenza nel corso delle cose, unita alla prontezza con cui prende costantemente atto che tutto può andare storto. Per questo il carattere distruttivo è l’affidabilità in persona. Il carattere distruttivo non vede niente di duraturo. Ma proprio per questo vede ovunque vie. Anche lì dove altri vanno a sbattere contro muri o montagne, lui intravede una via. Per lui non c’è situazione senza via d’uscita, ed è per questo che per lui il suicidio non è in questione. Tuttavia, proprio perché scorge ovunque una via, deve anche sgomberare ovunque la strada. Non sempre con brutale violenza, talora anche gentilmente. E poiché scorge vie ovunque, si trova sempre a un crocevia: nessun attimo può sapere che cosa porterà il successivo. Riduce ciò che è potente in macerie non per amore delle macerie, bensì della via che le attraversa. Il carattere distruttivo non crede mai di “avere la scelta”. È abituato a esaminare ogni situazione solo in cerca della via d’uscita che gli lascia. È in grado di valutare in ogni attimo della vita che “non si va avanti così” – perché in effetti, dentro di sé, nel suo intimo, non si va avanti così, ma da un estremo all’altro. [Traduzione di Dario Gentili]

Sul concetto di storia

Tesi VIII La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato d’eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo pervenire a un concetto di storia che vi corrisponda. Ci starà allora dinanzi il compito di provocare lo stato d’eccezione “effettivo”; e di conseguenza migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La cui chance consiste non da ultimo nel fatto che gli avversari lo fronteggiano in nome del progresso in quanto norma della storia. Lo stupore per cui le cose che viviamo sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella per cui la rappresentazione della storia da cui deriva è insostenibile. [Traduzione di Dario Gentili]

Lo stato d’eccezione come regola Walter Benjamin come rovescio di Carl Schmitt Dario Gentili

1. Sulla critica della violenza La prima volta in cui Walter Benjamin fa riferimento a Carl Schmitt – a che risulti – risale al 1923, e precisamente alla lettera del 23 marzo indirizzata a Richard Weissbach, l’editore presso cui pubblicherà di lì a pochi mesi la traduzione dei Tableaux Parisiens di Baudelaire. In questa breve lettera, Benjamin chiede a Weissbach il favore di spedirgli la copia della Politische Theologie di Schmitt che ha dimenticato presso di lui quando gli ha fatto visita. Benjamin avanza la sua richiesta non senza una certa premura, dovuta al fatto che la Teologia politica di Schmitt è “molto importante” per il libro a cui sta lavorando: il Trauerspielbuch1. Anche sulla scorta delle informazioni che provengono dall’epistolario benjaminiano, dove è a più riprese dichiarata l’importanza della Teologia politica schmittiana per l’analisi della teoria della sovranità in Origine del dramma barocco tedesco, si è soliti avviare il confronto tra Benjamin e Schmitt a partire dalle citazioni della Teologia politica nella prima parte del capitolo Trauerspiel und Tragödie del Trauerspielbuch2. In Stato d’eccezione, tuttavia, Giorgio Agamben 1 Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, vol. II (1919-1924), a cura di C. Gödde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1996, p. 327. 2 A proposito del confronto, molto e bene indagato (soprattutto in Italia), tra Benjamin e Schmitt, incentrato in particolare sul riferimento alla Politische Theologie all’interno della teoria della sovranità di Ursprung des deutschen Trauerspiels, cfr. M. Cacciari, Intransitabili Utopie, in H. von Hofmannstahl, La Torre, Adelphi, Milano 1979, pp. 155-226; C. Galli, Presentazione dell’edizione italiana, in C. Schmitt, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma (1956), a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 1983, pp. 7-35; E. Castrucci, La forma e la decisione, Giuffrè, Milano 1985, in part. Parte Seconda; U. Fadini, Esperienze della modernità: Carl Schmitt e Walter Benjamin, «La Po-

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ha avanzato l’ipotesi «che come primo documento si debba iscrivere nel dossier non la lettura benjaminiana della Teologia politica, ma la lettura schmittiana del saggio benjaminiano Per la critica della violenza (1921)»3. Nonostante non vi siano in Schmitt testimonianze dirette dell’influenza del saggio benjaminiano sulla concezione e sulla stesura della Teologia politica, secondo Agamben è però riscontrabile come Schmitt fosse un fedele e assiduo lettore della rivista dove fu pubblicato Zur Kritik der Gewalt, l’«Archiv für Sozialwissenschaften und Sozialpolitik», la stessa rivista in cui per giunta nel 1927 pubblicò Der Begriff des Politischen. Insomma, risulterebbe davvero improbabile che un testo come quello di Benjamin non avesse destato la curiosità se non proprio l’interesse di Schmitt. L’ipotesi di Agamben non soltanto retrodata il confronto tra Benjamin e Schmitt, ma soprattutto ne ribalta l’ordine di azione e reazione: è Schmitt a reagire con una concezione della sovranità fondata sulla decisione nello stato d’eccezione a quell’eccedenza insopprimibile della giustizia e della Gewalt divina che Benjamin stabilisce rispetto alla Gewalt di ogni ordinamento giuridico, ovvero – per usare la nota formulazione di Zur Kritik der Gewalt – rispetto alla violenza che pone il diritto e al potere che lo conserva. A livello esegetico, assume un grande valore il fatto che la funzione fondamentale attribuita all’eccezione, da cui Schmitt fa procedere la legittimazione litica», 3-4/1985, pp. 43-56; S. Heil, Gefährliche Beziehungen. Walter Benjamin und Carl Schmitt, J.B. Metzler, Stuttgart 1996; M. Rumpf, Elite und Erlösung. Zu antidemokratischen Lektüren Walter Benjamins, Junghans, Cuxhaven 1997; H. Bredekamp, Von Benjamin zu Carl Schmitt, via Thomas Hobbes, «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 46/6, 1998, pp. 901-916; A. Amendola, Carl Schmitt tra decisione e ordinamento concreto, ESI, Napoli 1999, in part. pp. 54-63; G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000, in part. pp. 321-328; C. Schmidt, Zeit und Spiel. Geistergespräche zwischen Walter Benjamin und Carl Schmitt über Ästhetik und Politik, in J. Mattern/G. Motzkin/S. Sandbank (Hrsg.), Jüdisches Denken in einer Welt ohne Gott. FS für Stéphane Mosès, Vorwerk, Berlin 2001, pp. 78-95; D. Gentili, Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia” di Walter Benjamin, Guida, Napoli 2002, pp. 129-136; M. Palma, Schmitt secondo Benjamin: dal simbolo all’allegoria. La critica della sovranità schmittiana nel Dramma barocco tedesco, «Links. Rivista di letteratura e cultura tedesca», III/2003, pp. 77-95; D. Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida, Quodlibet, Macerata 2009, pp. 95-159; B. Menke, Das Trauerspiel-Buch. Der Souverän – das Trauerspiel – Konstellationen – Ruinen, transcript, Bielefeld 2010; S. Weigel, Walter Benjamin. La creatura, il sacro, le immagini (2008), Quodlibet, Macerata 2014. 3 G. Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer, II, 1, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 69.

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della decisione sovrana, non gli derivi soltanto dal contesto politico e giuridico della Repubblica di Weimar (nella cui Costituzione l’articolo 48 contempla appunto lo “stato d’eccezione”), ma anche dal proposito di neutralizzare quella violenza pura ed extra-giuridica di cui l’ebreo e anarchico Benjamin legittima l’esistenza, denunciandone per di più l’usurpazione da parte di ogni potere legale. Pertanto, l’affermazione benjaminiana dell’VIII tesi Sul concetto di storia – «lo stato d’eccezione in cui viviamo è la regola»4 – a sua volta non rappresenta l’ultima reazione in ordine di tempo alla teoria della sovranità di Schmitt, bensì ribadisce quello che, con Zur Kritik der Gewalt, costituisce in realtà l’avvio del confronto. E tuttavia, i riferimenti che lo stesso Benjamin fa a Schmitt non sembrano suffragare l’ipotesi di Agamben – o almeno non vi emerge il sospetto che la così “importante” Teologia politica presupponesse in fondo la sua Zur Kritik der Gewalt. Per di più, nel Curriculum del 1928, Benjamin sembra quasi richiamare l’«analisi delle forme politiche» intrapresa da Schmitt come una delle fonti per l’Ursprung des deutschen Trauerspiels5. Pare insomma che “per Benjamin” – ed è questo il punto di vista che qui si assume – il confronto con Schmitt prenda avvio con la sua “reazione” alla Teologia politica. 2. Origine del dramma barocco tedesco Il primo brano di Ursprung des deutschen Trauerspiels, in cui Benjamin fa esplicito riferimento in nota alla Teologia politica di Schmitt, è il seguente: «Se il concetto moderno di sovranità conduce al supremo potere esecutivo del principe, quello barocco si sviluppa a partire da una discussione sullo stato d’eccezione e stabilisce che l’escluderlo è la competenza più importante del principe»6. Benjamin sta sostenendo che la teoria della sovranità del barocco sorge dalla crisi della dottrina teocratica che in passato ne era a fondamento. Come la storia durante il Barocco ha perduto ogni finalità escatologica – «non esiste alcuna escatologia barocca»7 –, così il sovrano – che 4

W. Benjamin, Sul concetto di storia, supra, p. 30. Cfr. W. Benjamin, Curriculum [III], supra, p. 25. 6 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, supra, p. 15. 7 Ivi, p. 16. 5

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«rappresenta la storia»8 – ha smesso la veste teocratica medioevale e indossa ora i panni dell’“usurpatore” di un’autorità che non ha più il diritto di impersonare ed esercitare. Nelle pagine della Teologia politica a cui Benjamin si riferisce9, Schmitt afferma che la competenza fondamentale della sovranità moderna – che fa risalire a Bodin – consiste nella decisione sullo stato d’eccezione in entrambe le sue articolazioni: la decisione sulla sussistenza del caso estremo di emergenza e la decisione di sospendere l’ordinamento vigente per restaurare la norma, il nomos. Benjamin si richiama a Schmitt per sostenere a proposito del Barocco esattamente il contrario: la competenza del principe non è di decidere sullo stato d’eccezione, bensì la sua decisione consiste nell’escluderlo, nell’evitarlo. Lo stato d’eccezione rivelerebbe infatti che la sua decisione non è risolutrice, non conduce alla restaurazione dell’ordine: «Il principe, sul quale grava la decisione sullo stato d’eccezione, alla prima occasione dimostra che una risoluzione gli è quasi impossibile»10. Sebbene la sua irresolutezza o l’inefficacia della sua decisione siano tragicamente predeterminate, il “destino” del principe resta comunque quello di decidere sullo stato d’eccezione. Il mandato di cui è storicamente investito fa sì che l’esercizio della sovranità – privo di un fondamento teocratico – si configuri in “potere dittatoriale”: «Chi esercita il dominio è pertanto destinato già preventivamente a essere il detentore del potere dittatoriale nello stato d’eccezione, sia esso prodotto dalla guerra, dalla rivolta o da altre catastrofi»11. È il carattere dittatoriale che assume il suo potere a definire il principe del Trauerspiel quale usurpatore della sovranità teocratica; ma la necessità di adempiere al suo ruolo, che fa sfociare la sua dittatura in tirannide, corrisponde alla ineluttabilità della catastrofe in cui si risolve il suo tentativo, che lo rende al contempo “martire” di un destino segnato: «Tiranno e martire sono, nel Barocco, i due volti di Giano della testa coronata»12. L’esito della decisione risulta dunque segnato: non la restaurazione dell’ordine da cui proviene la legittimità del potere decisionale del principe, bensì la catastrofe in cui precipita lui e l’ordine che rappre8

Ivi, p. 15. Cfr. C. Schmitt, Teologia politica (1922), in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 35 sgg. 10 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, supra, p. 21. 11 Ivi, p. 16. 12 Ivi, pp. 19-20. 9

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senta: «Se egli infatti non fallisce in proprio, in quanto persona, bensì in quanto sovrano e in nome dell’umanità storica, allora il suo declino avviene come in un’aula di tribunale, dal cui giudizio si sente colpito anche il suddito»13. Per il sovrano barocco decidere sullo stato d’eccezione – all’opposto di quanto sostiene Schmitt nella Teologia politica – svela l’infondatezza del suo potere: «nel Barocco, all’ideale storico della Restaurazione si contrappone in modo antitetico l’idea di catastrofe. Ed è su questa antitesi che è coniata la teoria dello stato d’eccezione»14. Pertanto, la teoria dello stato di eccezione di cui si fa espressione il Barocco va distinta da quella della Restaurazione, a cui Schmitt fa risalire la sua genealogia per legittimare e affermare una sovranità chiamata a restaurare l’ordine dello Stato nel momento in cui ne viene messa in discussione l’autorità. Per Benjamin, invece, lo stato d’eccezione riconducibile al Barocco si fa espressione di una tendenza che procede in senso inverso. L’aggettivo che Benjamin utilizza per qualificare tale tendenza è “dilazionante”, in tedesco verzögernd: termine giuridico che ritorna, dallo stesso Schmitt a Erik Peterson, nel dibattito sulla teologia politica. Non è da escludere che Benjamin lo assuma dal medesimo lessico giuridico-teologico da cui Schmitt e Peterson lo traggono per riferirlo alla funzione del katechon. Per Benjamin, tuttavia, la “tendenza dilazionante” del Barocco non svolge la funzione del katechon nella teologia politica schmittiana, che “trattiene, frena, rallenta, dilaziona, differisce” l’avvento dell’Anticristo – cioè dell’anomia e del disordine – e restaura così quell’ordine configurato dal “nomos della terra”15. A essere invece “differita e dilazionata” è la trascendenza quale fine escatologico: a differenza della teologia politica di Schmitt, il Regno di Dio non ha un suo analogo in una forma della sovranità – Stato o Impero che sia – nell’ordine mondano e profano. La tendenza dilazionante alla trascendenza del Barocco, piuttosto che comporre un nesso tra teologia e politica, separa in modo incolmabile teologico e politico, ordine divino e ordine profano, radicalizzando all’estremo la dimensione mondana di quest’ultimo: «Nella mentalità giuridico-teologica così caratteristica del secolo, si esprime all’estremo la tensione dilazio13

Ivi, p. 22. Ivi, p. 16. 15 Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europeum” (1950), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991. 14

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nante alla trascendenza, che è a fondamento del Barocco e di tutti i suoi accenti provocatoriamente mondani»16. 2.1. Frammento teologico-politico Attraverso l’interpretazione del Trauerspiel barocco, Benjamin fa trapelare la sua concezione della politica, elaborata pochi anni prima in una serie di frammenti appartenenti al progetto di un’opera, intitolata Politik, che non portò a termine e di cui doveva far parte anche Zur Kritik der Gewalt. Di questi frammenti il più significativo per chiarire i paragrafi del Trauerspiel dedicati alla teoria della sovranità è senz’altro il Frammento teologico-politico, che risale al 1920-1921. Il titolo è stato attribuito da Adorno quando, tra il 1937 e il 1938, Benjamin glielo lesse. Fonte d’ispirazione di questa titolazione – che Benjamin poi accolse – non è certo la Teologia politica di Schmitt, quanto piuttosto gli echi spinoziani che Adorno vi colse. Fin dalle battute iniziali del frammento, la presa di posizione di Benjamin è perentoria: «l’ordine del profano non può essere costruito sulla concezione del Regno di Dio, perciò la teocrazia non ha alcun senso politico, bensì soltanto un senso religioso»17. Nessuna sovranità può dunque – né per emanazione né per analogia – farsi espressione dell’ordine divino; e nessun ordine profano può – di nuovo: né per emanazione né per analogia – essere costruito a immagine del Regno di Dio. Se la teocrazia ha un senso esclusivamente religioso, allora nessuna politica può farsene espressione nell’ordine del profano18. La separazione tra teologico e politico è dunque estrema; eppure, ciò non toglie che, sebbene non diretta, sussista una qualche relazione tra teologico e politico. Nella conclusione del frammento, Benjamin definisce “nichilismo” quel compito della politica mondiale che, muovendo in direzione inversa rispetto a ogni escatologia politica 16

W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, supra, p. 16. W. Benjamin, Frammento teologico-politico (1920-1921), in Id., La Politica e altri scritti. Frammenti III, a cura di D. Gentili, Mimesis, Milano 2016, p. 55. 18 Nel Frammento teologico-politico, Benjamin aggiunge che «aver negato con la massima intensità il significato politico della teocrazia è il più grande merito di Spirito dell’utopia di Bloch» (ivi, p. 55). Benjamin si riferisce alla prima edizione del 1918 di Spirito dell’utopia. Cfr. E. Bloch, Geist der Utopie – Erste Fassung (1918), Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2018. 17

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e a «ogni piena stabilizzazione e altrettanto piena restaurazione»19 dell’ordine nello stato d’eccezione, rende puramente profano l’ordine del profano e lo pone così in relazione con la natura messianica: Alla restitutio in integrum spirituale che introduce nell’immortalità ne corrisponde una mondana che conduce all’eternità di un tramonto, e il ritmo di questo mondano che eternamente trapassa, che trapassa nella sua totalità, che trapassa nella sua totalità spaziale ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è felicità. Perché la natura è messianica per il suo eterno e totale trapassare. Aspirarvi – anche per quegli stadi dell’essere umano che sono natura – è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve chiamarsi nichilismo20.

Per venire ora all’Origine del dramma barocco tedesco, lo stato d’eccezione corrisponde nella storia al «ritmo della natura messianica». Pertanto, è proprio quella politica – «il cui metodo deve chiamarsi nichilismo» –, che depone il potere sovrano nella sua volontà di stabilità e restaurazione, a porsi in relazione con il teologico o, nella declinazione benjaminiana, con il “messianico”. La storia senza escatologia asseconda la natura messianica: lo stato d’eccezione diventa perciò la regola. L’utopia del tiranno del Trauerspiel consiste piuttosto nell’attribuire alla natura la regola della stabilità invece che quella della caducità, a cui la sua stessa sovranità non può sottrarsi: «Compito del tiranno è la restaurazione dell’ordine nello stato d’eccezione: una dittatura, la cui utopia resterà sempre quella di porre, al posto dell’instabile accadere storico, la ferrea costituzione delle leggi di natura»21. 2.2. Barbarico e politico Nel 1956, nel secondo Excursus di Amleto o Ecuba, nell’unico riferimento a Benjamin all’interno della sua opera, Schmitt discute l’Origine del dramma barocco tedesco, richiamando en passant la lettera di apprezzamento che Benjamin gli scrisse nel 193022. L’argomentazione, incentrata sull’Amleto di Shakespeare, si concentra sul rapporto tra la tragedia shakespeariana e la situazione politica dell’Inghilterra del 19

W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, supra, p. 16. W. Benjamin, Frammento teologico-politico, cit., p. 56. 21 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, supra, p. 24. 22 Cfr. W. Benjamin, A Carl Schmitt (Berlino, 9 dicembre 1930), supra, p. 26. 20

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tempo. Schmitt sostiene in sostanza che la citazione benjaminiana della sua Teologia politica è inappropriata in riferimento sia ad Amleto che al Trauerspiel, poiché in entrambi i casi il contesto storico è quello di una sovranità pre-statuale – “barbarica” e non ancora “politica”, per usare i suoi termini23 –, mentre la sua genealogia della sovranità, che infatti si rifà alla Francia di Bodin, va collocata interamente all’interno della teoria dello Stato. Pertanto, il “dramma del destino” – quel destino che rende il sovrano martire dell’accadere storico –, in cui per Benjamin si risolve la sovranità sia nell’Amleto che nel Trauerspiel, sarebbe una categoria inapplicabile alla sovranità dello Stato. Insomma, nella Teologia politica, la stabilità che la decisione del sovrano è chiamata a restaurare non è rivolta all’accadere storico abbandonato dall’escatologia, bensì è rivolta all’ordinamento dello Stato, che lo stato d’eccezione “sospende” ma non depone. Nello stato d’eccezione, quindi, non ritorna l’anomia del “barbarico”, in quanto le istituzioni dello Stato moderno lo hanno una volta per tutte “messo a norma”: «È grazie a queste istituzioni che lo Stato riesce a creare quelle condizioni che esso stesso definisce pace, sicurezza, ordine pubblico, e a stabilizzare una situazione generale e diffusa di controllo “di polizia”. Politica, polizia e politesse divengono così il singolare “tiro a tre” del progresso moderno, in contrapposizione al fanatismo ecclesiastico e all’anarchia feudale, e, in breve, alla barbarie medievale»24. Schmitt sembra voglia eludere la portata del ribaltamento della sua teoria della sovranità – è lo stato d’eccezione che decide sulla sovranità – riducendo il confronto con Benjamin a una questione di storia delle dottrine politiche se non proprio di storia del teatro. In sostanza, Schmitt non pone la critica della sovranità avanzata da Benjamin sullo stesso piano – quello “politico” che ha ripercussioni sull’attualità – su cui si colloca la Teologia politica, bensì la circoscrive a un’epoca ancora “barbarica”. Eppure, nella Premessa gnoseologica all’Origine del dramma barocco tedesco, Benjamin dichiara l’attualità del Barocco per il tempo presente, anch’esso un’“epoca di decadenza”25. E ciò non riguarda soltanto le forme artistiche – 23

Cfr. C. Schmitt, Amleto o Ecuba, cit., p. 112. Ivi, p. 114. 25 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1925), in Id., Opere complete. II. Scritti 1923-1927, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001, p. 95. 24

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l’Espressionismo, infatti, si richiama esplicitamente al Barocco – ma anche il contesto politico della Repubblica di Weimar, che attraversa una vera e propria “crisi di sovranità”, a cui gli stessi scritti schmittiani di quegli anni si propongono di rispondere. 3. Il carattere distruttivo Esiste un altro luogo benjaminiano del confronto con Schmitt che finora non ha attirato l’attenzione della critica26. Lo suggerisce lo stesso Benjamin nella lettera a Schmitt, dove dichiara, insieme all’importanza della Teologia politica per l’“interpretazione della dottrina della sovranità nel XVII secolo”, come sia da La dittatura che «ho tratto la conferma delle mie modalità di ricerca nella filosofia dell’arte attraverso le sue nella filosofia politica»27. Siamo nel dicembre del 1930 – Die Diktatur è del 1921 ma Benjamin ne lesse la seconda edizione del 1928 – e di lì a qualche mese Benjamin pubblica sulla «Frankfurter Zeitung» Der destruktive Charakter28. Di questo testo breve ed evocativo ci è pervenuta una stesura preparatoria, Notizen zum «destruktiven Charakter». Ed è proprio questa versione che qui ci interessa alla luce del confronto con Schmitt. In particolare, compare nelle Notizen zum «destruktiven Charakter» ed è invece espunta da Der destruktive Charakter la definizione del carattere distruttivo come “mandatario”: «il carattere distruttivo non distrugge per suo stesso volere: è un 26 Un ulteriore luogo benjaminiano in cui compare un riferimento a Carl Schmitt sono gli Appunti relativi alla seconda stesura di Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in cui Benjamin, a proposito del rapporto tra politica e tecnica, riporta un brano dell’articolo di Karl Löwith Max Weber und seine Nachfolger (1940), che si riferisce allo scritto schmittiano del 1929 Über das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen (trad. it. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (1929), in Id., Le categorie del “politico”, cit., pp. 167-183). Cfr. W. Benjamin, Gesammelte Schriften, VII/2, cit., p. 672 (trad. it. W. Benjamin, Appendice a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Id., Opere complete. VII. Scritti 1938-1940, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2006, p. 334). Per l’articolo di Löwith, cfr. K. Löwith, Max Weber e Carl Schmitt, a cura di A. Bolaffi, «Micromega», 2/1987, pp. 197-205. 27 W. Benjamin, Curriculum [III], supra, p. 25. 28 Sulla concezione benjaminiana della “distruzione” e sulle diverse linee interpretative che Il carattere distruttivo apre, cfr. Seminario di studi benjaminiano (a cura di), Le vie della distruzione. A partire da Il carattere distruttivo di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2010.

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mandatario (Mandatar)»29. Il concetto di “mandato” (Auftrag) risulta centrale proprio in Die Diktatur di Schmitt, dove interviene a contraddistinguere la peculiarità politico-giuridica della dittatura e soprattutto il suo rapporto con la sovranità, che abbiamo evidenziato essere strettissimo nell’Origine del dramma barocco tedesco: «Ogni dittatura, abbiamo detto, implica una commissione; sorge quindi il problema di vedere se commissione (Kommission) e sovranità sono conciliabili e fino a che punto la dipendenza da un mandato (Auftrag) contraddice al concetto di sovranità»30. Sarebbe sufficiente questo primo accenno per capire come, anche in Die Diktatur, la questione fondamentale sia quella della sovranità – e, infatti, vi sono esplicitamente presenti tutti i concetti portanti della concezione schmittiana. La peculiarità della forma giuridica della dittatura consiste dunque nel “mandato”; ogni dittatura deriva la propria legittimità a sospendere lo stato normale di diritto dal mandato su cui si fonda e, pertanto, è nella sua stessa essenza “commissaria”: «Il mandato di compiere ciò che di volta in volta è reso necessario dalle circostanze nell’interesse generale, congiunto con le appropriate facoltà di rappresentare l’autorità dello Stato, è appunto il contenuto caratteristico di una commissio»31. Certo, si potrebbe obiettare che la prossimità temporale tra il richiamo a La dittatura nella lettera a Schmitt e gli Appunti sul “carattere distruttivo” potrebbe da sola non giustificare un riferimento esplicito del Mandatar benjaminiano al Kommissar schmittiano. Eppure, un tale confronto presenta ulteriori aspetti e sicuramente aggiunge elementi sulla ricezione e l’assunzione critica della teoria della sovranità schmittiana da parte di Benjamin. Infatti, qualificare il carattere distruttivo come “mandatario” comporta un chiarimento su chi per Benjamin ha l’autorità per decidere sullo stato d’eccezione. In Die Diktatur, la celebre definizione della sovranità nella Politische Theologie – «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione (Souverän ist, wer über den Ausnahmezustand entscheid)»32 – sembra trovare una precedente formulazione che attribuisce la priorità allo “stato d’eccezione” e, come nell’Origine del dramma barocco tedesco, 29

W. Benjamin, Appunti sul “carattere distruttivo”, supra, p. 27. C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria (1921), a cura di A. Caracciolo, Settimo Sigillo, Roma 2006, p. 174. 31 Ivi, pp. 64-65. 32 C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 33. 30

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definisce la dittatura quale forma di sovranità sua peculiare: «la dittatura è necessariamente “stato d’eccezione” (Ausnahmezustand)»33. È allora dall’istituto della dittatura – che lo stesso Schmitt fa risalire al diritto romano, cioè ben prima della costituzione dello Stato moderno – che prende forma quella sovranità la cui prerogativa è la decisione sullo stato d’eccezione: «Il problema di chi decide di questo potere, di chi decide cioè del caso non regolato dal diritto, diventa il problema stesso della sovranità»34. La questione del mandato risulta fondamentale proprio per determinare la conversione della dittatura in sovranità. Essendo ogni dittatura per sua stessa natura “commissaria”, il passaggio dalla dittatura semplicemente commissaria a quella commissaria e sovrana si compie nel momento in cui il dittatore dipende da un mandato che non gli viene da un potere già costituito, ma il mandato consiste nel poter “dettare legge anche al suo mandante”, consiste cioè nella costituzione stessa del potere: «Il dittatore commissario è incondizionato commissario d’azione di un pouvoir constitué, la dittatura sovrana è commissione d’azione di un pouvoir constituant»35. Il concetto di dittatura sovrana sorge nel corso della Rivoluzione Francese e rappresenta, secondo Schmitt, la premessa della dittatura del proletariato nella teoria comunista, motivo ispiratore di Die Diktatur: «Nel XVIII secolo, per la prima volta nella storia dell’Occidente cristiano, compare un concetto di dittatura secondo il quale il dittatore è sì ancora commissario, ma commissario diretto del popolo in virtù del potere non costituito, ma costituente del popolo, e dunque un dittatore che detta legge anche al suo mandante senza cessare per questo di dipenderne quanto alla propria legittimazione»36. Il passaggio dalla dittatura sovrana alla sovranità tout court è breve come il passaggio da Die Diktatur alla Politische Theologie: il dittatore diventa sovrano a tutti gli effetti se può autolegittimarsi a sospendere la legalità per costituire una nuova situazione normativa. Veniamo ora a Benjamin e al carattere distruttivo in quanto “mandatario”. L’azione del carattere distruttivo dipende da un mandato, ma a tale mandato non può dettare la legge della sua volontà sovra-

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C. Schmitt, La dittatura, cit., p. 8. Ivi, p. 236. 35 Ivi, p. 183. 36 Ivi, p. 12. 34

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na: «distrugge non per suo stesso volere»37. Infatti, la distruzione ha il suo spazio d’azione nello stato d’eccezione determinato dall’accedere storico, dove ogni situazione può richiedere l’intervento del carattere distruttivo: «Il carattere distruttivo agisce in ogni situazione come se fosse una situazione storica»38. E tuttavia tale intervento non si configura mai come una decisione sullo stato d’eccezione: «Il carattere distruttivo non crede mai di “avere la scelta” (die Wahl zu haben). È abituato a esaminare ogni situazione solo in cerca della via d’uscita che gli lascia»39. La via d’uscita non è quella dallo stato d’eccezione che la decisione sovrana aprirebbe; la via d’uscita che la distruzione apre è piuttosto quella da ogni stabilizzazione dell’accadere storico, che neutralizza proprio quelle “situazioni” di eccezione rispetto all’ordine costituito. È nel lasciare lo stato d’eccezione che consiste il «mandato (Auftrag) storico»40 del carattere distruttivo. Il termine è esattamente lo stesso di Schmitt: Auftrag. Anche nel caso di Benjamin il “mandato” indica una “dipendenza”, ma in tal caso non da una “commissione” proveniente da un’autorità superiore, bensì dalla storia. Se per Schmitt è il mandato a non rendere pienamente “sovrana” la “dittatura commissaria”, per Benjamin – come emerge dall’Origine del dramma barocco tedesco – è invece proprio questo mandato, che lo lega indissolubilmente alla storia, a fare infine di ogni sovrano un dittatore. È per questo che il carattere distruttivo rappresenta esemplarmente la critica benjaminiana della sovranità: esso non attribuisce a sé stesso la decisione nello stato d’eccezione, è piuttosto il mandatario di quello stato d’eccezione che è l’accadere storico nel suo assecondare il ritmo della natura messianica: «Il carattere distruttivo non vede niente di duraturo. Ma proprio per questo vede ovunque vie. […] E poiché vede vie ovunque, si trova sempre a un crocevia: nessun attimo può sapere che cosa porterà il successivo»41. Stando alla critica della decisione sovrana e allo stato d’eccezione come regola dell’accadere storico, l’ottava tesi di Über den Begriff der Geschichte è in piena continuità tanto con Der destruktive 37

W. Benjamin, Appunti sul “carattere distruttivo”, supra, p. 27. Ivi, p. 28. 39 Ivi, p. 29. 40 Ivi, p. 28. 41 Ivi, p. 29. 38

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Charakter quanto con il Theologisch-politisches Fragment. «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato d’eccezione” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo pervenire a un concetto di storia che vi corrisponda. Ci starà allora dinanzi il compito di provocare lo stato d’eccezione “effettivo” (wirklichen); e di conseguenza migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo»42. Lo stato d’eccezione in quanto regola è “effettivo” (wirklich) se non attende una sovranità che lo risolva, è reale (wirklich) se è fine a sé stesso. Come suo mandatario, il carattere distruttivo sospende la regola, ma non per restaurare l’ordine, bensì per lasciare lo stato d’eccezione come tale. Come fin da Die Diktatur Schmitt ben sa, è lo stato d’eccezione la chance nella lotta contro il fascismo, che invece lo considera soltanto in quanto eccezione al progresso quale norma della storia: «La […] chance consiste non da ultimo nel fatto che gli avversari fronteggiano [lo stato d’eccezione] in nome del progresso in quanto norma della storia»43. Per Benjamin, insomma, nello stato d’eccezione si può presentare quella “chance rivoluzionaria” che Schmitt tanto temeva; neanche Schmitt, infatti, crede che il progresso sia la norma della storia ed è per questo che, per farvi fronte, riconduce lo stato d’eccezione alla sovranità. 4. Chi e chiunque Tra Benjamin e Schmitt, un’affinità nell’impostazione del discorso e una distanza altrettanto radicale nelle soluzioni si può riscontrare anche a proposito del rapporto tra legalità e legittimità. In un testo del 1932, Legalität und Legitimität, dedicato proprio alla critica del sistema parlamentare della Repubblica di Weimar, in cui Jacques Derrida riconosce un’affinità con Zur Kritik der Gewalt di Benjamin44, Schmitt scrive: Non si può ignorare tuttavia che lo Stato legislativo parlamentare, con il suo ideale e il suo sistema di una legalità perfettamente conchiusa di ogni 42

W. Benjamin, Sul concetto di storia, supra, p. 30. Ibid. 44 Cfr. J. Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità» (1994), a cura di F. Garritano, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 43

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aspetto della vita statale, ha sviluppato un sistema di giustificazione del tutto particolare. “Legalità” ha qui precisamente il senso e il compito di negare e rendere superflue sia la legittimità (del monarca o della volontà popolare plebiscitaria) sia qualunque autorità o potestà, fondata su se stessa o superiore. Se in questo sistema viene ancora impiegato un termine come “legittimo” o come “autorità”, è solo in quanto espressione e derivato della legalità45.

Il sistema dello “Stato legislativo parlamentare”, assimilabile alla situazione politico-costituzionale della Repubblica di Weimar, non neutralizza affatto con il dominio della legalità la questione dell’autorità sul diritto e della legittimità nell’esecuzione delle leggi: in sostanza, la questione di chi ha l’autorità legittima. Come per il Benjamin di Zur Kritik der Gewalt, anche per Schmitt ogni violenza che pone il diritto non neutralizza quell’originario «privilegio dei re o dei grandi, in breve: dei potenti»46; ma, anche in un ordine parlamentare, produce potere supplementare, presente in ogni posizione del diritto, come emerge in modo esemplare nel degenerare del sistema parlamentare di legalità nello Stato di polizia, preso in esame da entrambi: «il mero possesso del potere statale produce, al di là di ogni normatività, un plusvalore politico supplementare che si aggiunge al potere meramente normativistico-legale, un premio sovralegale per il possesso legale del potere legale e per la conquista della maggioranza»47. Nella critica al sistema “meramente normativistico-legale” della Repubblica di Weimar, sia Benjamin che Schmitt individuano, dal di fuori di un tale sistema, per entrambi ormai in crisi, uno spazio vuoto di autorità; ma le due posizioni decisamente divergono riguardo a chi ha quel “plusvalore politico” su tale spazio per “costituire il suo potere su nuove basi”: «Allora tutto si riduce ormai, in definitiva, a un’unica questione: chi per ultimo, quando si giunge davvero a questo punto, nel momento in cui l’intero sistema di legalità viene soppresso, ha nelle sue mani il potere legale e può quindi costituire il suo potere su nuove basi»48. Di chi è lo spazio vuoto dell’autorità? Della persona del sovrano che decide, risponderebbe Schmitt nel 1932 (e di lì a un anno sarà 45 C. Schmitt, Legalità e legittimità (1932), a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2018, p. 43. 46 W. Benjamin, Sulla critica della violenza (1921), in Id., La Politica e altri scritti, cit., p. 114. 47 C. Schmitt, Legalità e legittimità, cit., pp. 65-66. 48 Ivi, p. 70.

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Hitler a impersonarlo). Ovvero di chi “per ultimo” ha l’autorità legittima – che non può essere chiunque esegue in quanto “mandatario” una commissio che gli proviene da un’ultima e superiore istanza. Sovrano è dunque chi deriva la propria autorità non dalla legge e dalla norma, bensì da sé stesso, come evidenzia la Politische Theologie, che non lascia alcun dubbio a proposito: In base a questo tipo di forma però diventa inspiegabile come possa entrare nella dottrina del diritto e dello Stato un momento personalistico. Ciò corrisponde alla tradizione originaria dello Stato di diritto che è sempre partita dal presupposto che solo una massima giuridica generale possa fungere da criterio di giudizio. “La legge dà autorità” dice Locke, impiegando il termine “legge” in antitesi consapevole con “commissio”, cioè con il comando personale del monarca. Ma egli non vede che la legge non dice a chi (wem) dà l’autorità. Eppure non è che chiunque (jeder) possa eseguire e realizzare ogni possibile norma giuridica. Quest’ultima in quanto norma di decisione dice solo come si deve decidere non anche chi (wer) deve decidere. Chiunque (jeder) potrebbe appellarsi alla giustezza del contenuto, se non vi fosse un’ultima istanza. Ma l’ultima istanza non deriva dalla norma49.

Lo spettro della teoria schmittiana della sovranità è pertanto “chiunque”, cioè nessun “chi” in particolare, nessuna soggettività personale. Per certi versi, complementare alla minaccia dell’anomia, che il nomos terreno del katechon è chiamato a contenere e frenare mediante la forma politica, è il venir meno del nesso per Schmitt strettissimo tra persona sovrana e autorità, tra soggettività e volontà. Il brano di Legalità e legittimità svela quello sfondo potenzialmente an-archico della stessa teoria schmittiana della sovranità, che lui per primo aveva intravisto e fermamente scongiurato con l’appello a un’ultima istanza. È infatti a un’ultima istanza che trascende la norma giuridica che si appella Schmitt per salvaguardare una concezione personalistica e indivisibile della sovranità; fin dall’inizio è fuori questione chi sia il sovrano: la sua “posizione”, in ultima istanza, non è ex-posta all’eccezione, ma vi è pre-supposta. In quanto rovescio del chi della sovranità, “chiunque” è allora lo spettro della teoria della sovranità di Schmitt: è senz’altro lo spettro del comunismo, ma per lui rappresenta altrettanto lo spettro dell’individualismo liberale a fondamento della logica del mercato, che risale appunto a quel John 49

C. Schmitt, Teologia politica, cit., pp. 56-57.

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Locke, la teoria giuridica del quale – alla base del common law – Schmitt evoca e stigmatizza. È invece proprio l’assenza, nell’ordine profano della storia, di un’ultima istanza – che in quanto tale non può non essere di matrice teologica – che, per Benjamin, la politica del carattere distruttivo deve salvaguardare. Si potrebbe definire tale politica “anarchica”, poiché, anche al di là dell’anarchismo giovanile di Benjamin ancora ben presente in Zur Kritik der Gewalt, l’azione distruttrice consiste nello svelare l’assenza di arché dell’ordine del profano. Del resto, il termine stesso Destruktion – da tradurre in base al significato di Abbau (“smantellamento, smontaggio pezzo per pezzo”) piuttosto che a quello di Zerstörung, “distruzione” in senso stretto – suggerisce tale matrice an-archica. E dunque il “mandato” del carattere distruttivo non proviene da nessuna “ultima istanza”, ma è immanente all’accadere storico in quanto dettato dal ritmo anarchico della natura messianica. Pertanto, il carattere distruttivo fa spazio (räumen) non per poterlo lui stesso occupare, ma per chiunque ne abbia bisogno: «Ha poche esigenze, e la minima è: sapere che cosa subentra a ciò che è distrutto. In un primo momento, per un attimo almeno, lo spazio vuoto: il posto dove era la cosa, dove era vissuto l’uomo. Si troverà pur qualcuno che ne ha bisogno senza occuparlo»50. Espone pubblicamente l’assenza di chi è sovrano, e con questa la fine della soggettività moderna e della sua decisione creatrice: «L’atto distruttivo è sempre pubblico. Come l’uomo creatore cerca la solitudine, quello distruttore deve continuamente circondarsi di gente, di testimoni»51. Espone pubblicamente pure il vuoto di legittimità, lo stato d’eccezione; suo mandato è di non risolverlo con la decisione, bensì di lasciare che lo stato d’eccezione sia la regola.

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W. Benjamin, Appunti sul “carattere distruttivo”, supra, p. 27. Ivi, p. 29.

Hans Kelsen Chi dev’essere il custode della costituzione? A cura di Federico Lijoi

H. Kelsen, Wer soll der Hüter der Verfassung sein?, «Die Justiz» (Monatsschrift für Erneuerung des Deutschen Rechtswesens. Zugleich Organ des Republikanischen Richterbundes), 6. Band, 1931, pp. 576-628.

Chi dev’essere il custode della costituzione?

i. Custode della costituzione: nel senso originario del termine si intende un organo la cui funzione è quella di proteggere la costituzione dalle violazioni. Di solito si parla pertanto anche di garanzia della costituzione. Poiché essa è un ordinamento e, quindi, un complesso di norme con un certo contenuto, per violazione della costituzione si intende la posizione, commissiva od omissiva, di una fattispecie contraria a queste norme; si ha omissione però solo quando non si adempie a un dovere, non quando non si fa valere un diritto che la costituzione accorda a un organo. Come ogni altra norma, la costituzione può essere violata soltanto da chi la deve eseguire. Ciò può avvenire in modo mediato o immediato. La violazione di una legge emanata in base alla costituzione, per esempio, è una violazione mediata della costituzione, anche se la legalità dell’esecuzione della legge è richiesta dalla costituzione. Se si sta parlando di istituti a protezione della costituzione, allora si intende ovviamente una protezione contro le violazioni immediate della costituzione. Gli organi da cui tali violazioni possono provenire sono organi immediatamente subordinati alla costituzione, perché si trovano sotto il suo controllo. La richiesta, sul piano della politica del diritto, di garanzie della costituzione, e cioè di istituti atti a controllare la legittimità costituzionale del comportamento di certi organi statali posti sotto il controllo immediato della costituzione, come il parlamento o il governo, risponde al principio, tipico dello Stato di diritto, della massima legalità dell’azione statale. Quanto all’opportunità di tale richiesta – a seconda del punto di vista politico e in rapporto alle varie costituzioni – sono possibili opinioni molto diverse. Possono darsi situazioni particolari in cui la costituzione non può essere attuata in nessuna delle sue parti o in

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certi punti essenziali, e così le garanzie costituzionali perdono qualunque significato, dal momento che sono destinate a rimanere inefficaci. Anche la questione tecnico-giuridica circa la migliore strutturazione di queste garanzie può ricevere risposte molto diverse, se si tiene conto della specificità di ciascuna costituzione e della distribuzione del potere politico da essa prescritto: se, nello specifico, si debbano preferire garanzie repressive o preventive, se si debba dare maggiore importanza all’annullamento dell’atto incostituzionale o alla responsabilità personale dell’organo che lo ha posto in essere, etc. Su tutto questo si può seriamente discutere. Solo un punto è sembrato sinora fuori questione, trattandosi di un dato così evidente che si è ritenuto a malapena necessario sottolinearlo nell’accurato esame cui il problema della garanzia costituzionale è stato sottoposto negli ultimi anni, e cioè che, se deve essere creato un istituto che permetta di controllare la conformità alla costituzione di taluni atti statali – in particolare, del parlamento e del governo – ad essa immediatamente subordinati, tale controllo non può essere affidato a uno degli organi i cui atti devono essere controllati. La funzione politica della costituzione è quella di porre limiti giuridici all’esercizio del potere e garanzia della costituzione significa la certezza che questi limiti non siano oltrepassati. Ora, se c’è qualcosa di indubitabile è che nessun organo è meno idoneo a tale compito di quello cui la costituzione attribuisce – in tutto o in parte – l’esercizio del potere e che proprio per questo motivo può avere l’impulso politico e l’occasione giuridica di violarla. Infatti, su nessun altro principio tecnicogiuridico si è così tanto unanimi come su quello per cui nessuno può essere giudice in causa propria. Quando, pertanto, i rappresentanti della dottrina costituzionale del XIX secolo, orientati verso il cosiddetto principio monarchico, avanzarono la tesi che il naturale custode della costituzione fosse il monarca, si trattava soltanto – e chi oggi potrebbe ancora dubitarne? – di un’ideologia fin troppo facile da smascherare, una delle tante ideologie il cui sistema costituisce la cosiddetta dottrina costituzionale e tramite cui questa interpretazione della costituzione cercava di nascondere il suo vero intento: quello di compensare la perdita di potere che il capo dello Stato aveva subìto nel passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale1. Si voleva in realtà 1 Nella mia Dottrina generale dello Stato (1925), a cura di J. Luther e E. Daly, Giuffrè, Milano 2013, ho mostrato questa tendenza del costituzionalismo in molte delle sue tesi.

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impedire – per ragioni il cui valore politico non è qui in discussione – una efficace garanzia della costituzione, quanto meno dinanzi a chi maggiormente poteva metterla in pericolo, cioè il monarca, o meglio il governo, vale a dire il monarca insieme con i ministri che controfirmano i suoi atti, giacché egli non poteva agire da solo. E anche questo appartiene al metodo dell’ideologia costituzionale, parlare cioè solo del monarca, dove in realtà agiva un organo collegiale di cui il monarca non costituiva una parte autonoma. Poiché non se ne poteva dichiarare lo scopo propriamente politico, che era quello d’impedire efficaci garanzie della costituzione, allora lo si mascherava con la dottrina secondo cui la garanzia della costituzione è compito del capo dello Stato. La costituzione della monarchia costituzionale ha uno spiccato carattere dualistico. Essa distribuisce il potere politico tra due organi, il parlamento e il governo, dei quali il secondo ha, sin dall’inizio, una certa preponderanza rispetto al primo, non solo de facto, ma anche de jure. Che il governo, e in particolare il monarca che ne sta al vertice, sia, tanto nella realtà politica quanto secondo la costituzione, un organo che, come il parlamento, e anzi in misura maggiore di esso, esercita il potere statale, non può essere posto in dubbio; né tanto meno si può dubitare che il potere ad esso attribuito si trovi in perenne concorrenza con quello del parlamento. Per accreditare l’idea che proprio il governo e soltanto esso sia il naturale custode della costituzione è pertanto necessario occultare la reale natura della sua funzione. A ciò serve la nota dottrina secondo cui il monarca è – esclusivamente o anche – una terza istanza obiettiva che si trova al di sopra del contrasto (consapevolmente instaurato dalla costituzione) tra i due organi del potere e titolare di un potere neutrale. Solo su questo presupposto, infatti, appare giustificata la tesi che spetti a lui e soltanto a lui vigilare affinché l’esercizio del potere non oltrepassi i limiti stabiliti dalla costituzione. Si tratta di una finzione di notevole audacia, se si pensa che nell’arsenale del costituzionalismo campeggia anche la dottrina secondo cui il monarca sia propriamente l’unico, perché il supremo, organo che esercita il potere statale e, più specificamente, sia anche il titolare del potere legislativo; da esso e non dal parlamento, proverrebbe il comando della legge, mentre alla rappresentanza popolare spetterebbe soltanto il compito di partecipare alla determinazione del contenuto della legge. Ma come potrebbe il

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monarca, titolare di una gran parte se non di tutto il potere statale, essere tuttavia un’istanza neutrale rispetto all’esercizio di tale potere e, pertanto, la sola istanza chiamata al controllo della sua costituzionalità? L’obiezione che questa sia un’insostenibile contraddizione sarebbe del tutto fuori luogo, perché in tal modo si applicherebbe il modello della conoscenza scientifica (scienza giuridica o dottrina dello Stato) a qualcosa che può essere compreso solo in termini di ideologia politica. In un sistema spirituale la cui stretta parentela con la teologia non sfugge più a nessuno, il principio di contraddizione non ha cittadinanza. Ciò che importa non è che le tesi di una simile teoria costituzionale siano vere, ma che raggiungano il loro scopo politico. E ciò è avvenuto in massima misura. Nell’atmosfera politica della monarchia, questa dottrina del monarca come custode della costituzione era una mossa efficace contro la richiesta, che già allora ogni tanto affiorava, di un tribunale costituzionale2. ii. Nella situazione politica in cui la costituzione democratico-parlamentare della Germania si è ineluttabilmente venuta a trovare, in un momento in cui tale costituzione – per la propria difesa, come sperano i  suoi sostenitori – si è per così dire ritirata in uno solo dei suoi articoli, l’articolo 48, e quindi in uno spazio giuridico che è evidentemente troppo angusto perché, in seguito a una tale manovra, esso non corra il rischio di essere forzato, in un simile stato di cose sarebbe certamente comprensibile che la discussione sulla questione delle garanzie costituzionali venisse rimandata a data da destinarsi. È quindi tanto più sorprendente che una nuova serie di monografie di diritto pubblico, cioè i Contributi al diritto pubblico odierno3, si apra con un lavoro che, con il titolo di Il custode della costituzione, è dedicato proprio al problema della garanzia della costituzione. 2 Quando è il parlamento a essere proclamato custode della costituzione, si tratta ovviamente della stessa ideologia, seppure stavolta al servizio del principio democratico, poiché, come afferma Bluntschli, «il corpo legislativo», in virtù del modo in cui si forma, fornisce le maggiori garanzie «di non esercitare le sue prerogative con spirito incostituzionale» (Allgemeines Staatsrecht, 4. ed., 1868, I, pp. 561-562). 3 Editore J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1931.

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Ma è ancora più sorprendente che in questo scritto si tiri fuori dal ripostiglio del teatro costituzionale il pezzo di scenario più vecchio, vale a dire la tesi che il capo dello Stato e nessun altro organo sia designato quale custode della costituzione, e ciò al fine di rimettere in uso, per la repubblica democratica in generale, e in particolare per la costituzione di Weimar, un arnese giustamente abbandonato alla polvere. Ma la cosa che sorprende più di tutto è che questo scritto, che sostanzialmente vuole restaurare la dottrina di uno dei più vecchi e provati ideologi della monarchia costituzionale, la dottrina del pouvoir neutre del monarca di Benjamin Constant, e applicarla senza riserve al capo dello Stato repubblicano, abbia come autore proprio Carl Schmitt, professore di diritto pubblico presso la Handelshochschule di Berlino, la cui ambizione è quella di mostrarci «quanto talune formule e concetti tradizionali dipendano totalmente da situazioni precedenti ed oggi non siano più nemmeno otri vecchi per un vino nuovo, ma solo etichette invecchiate e false»4 e che non si stanca di ricordare «che la situazione della monarchia costituzionale del XIX secolo, con la sua separazione tra Stato e società, politica ed economia, è ormai superata»5 e che pertanto le categorie del costituzionalismo non possono essere applicate alla costituzione di una democrazia parlamentare-plebiscitaria qual è la Germania di oggi. Da ciò egli deduce, per esempio, che il  concetto di «legge formale», che risale alla dottrina costituzionale del XIX secolo e che doveva assicurare al parlamento, in quanto legislatore, il diritto, nei confronti del monarca, di deliberare il bilancio, nella costituzione di Weimar non può più avere il suo originario significato; pertanto, nonostante le espresse disposizioni contenute negli artt. 85 e 87, per l’adozione del bilancio, l’autorizzazione di prestiti e l’assunzione di garanzie, la forma di legge non sarebbe richiesta «in modo assoluto e incondizionato», bastando la semplice ordinanza presidenziale ex art. 48 comma 2 (pp. 187-188). Analoghi tentativi di dissolvere o indebolire la cosiddetta riserva finanziaria della costituzione vennero senz’altro compiuti anche dalla teoria costituzionale, il cui concetto di «legge formale» non ha impedito di sostenere che il monarca po4 C. Schmitt, La dottrina della costituzione (1928), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, p. 7. 5 C. Schmitt, Il custode della costituzione (1931), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1981, p. 194; cfr. anche p. 169.

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tesse adottare il bilancio e autorizzare prestiti mediante ordinanze di necessità; così come in Austria, per esempio, è dimostrato dalla prassi e dalla teoria del famigerato §14. Eppure, la coscienza «storico-critica» che ci protegge dal «vuoto formalismo» di intendere la disposizione costituzionale per cui «il bilancio è adottato con legge» e «tale acquisizione (di mezzi finanziari mediante prestiti) come pure l’assunzione di garanzie a carico del Reich possono aver luogo solo con autorizzazione di una legge del Reich» nel senso che il bilancio può essere approvato solo con legge e che l’autorizzazione di prestiti e l’assunzione di garanzie possono aver luogo solo in base a una legge – questa «coscienza storico-critica» non ci impedisce di ripescare una ideologia del costituzionalismo che, più chiaramente di qualunque altra, reca scritto in fronte il suo carattere contingente, il fatto di aver avuto origine da una specifica situazione storico-politica: la dottrina del pouvoir neutre del capo dello Stato! E proprio questa formula di Constant diviene, nelle mani di Schmitt, lo strumento fondamentale per interpretare la costituzione di Weimar. Solo servendosi di esso egli giunge a stabilire che il custode della costituzione non è, come dovrebbe risultare dall’art. 19, la corte costituzionale o un’altra corte di giustizia, ma solo il presidente del Reich, e ciò proprio in base alla costituzione vigente e non, poniamo, in seguito a una riforma costituzionale. Quando Constant afferma che il monarca è titolare di un potere neutrale, fonda quest’affermazione essenzialmente sull’assunto che l’esecutivo si divida in due distinti poteri, uno passivo e l’altro attivo, e che il monarca detenga soltanto quello passivo. Solo in quanto passivo è un potere neutrale. La finzione qui operante è palese: essa consiste nel far apparire come meramente passivo il potere del monarca cui la costituzione affida la rappresentanza dello Stato verso l’esterno, in particolare la stipulazione dei trattati, la sanzione delle leggi, l’alto comando dell’esercito e della flotta, la nomina dei funzionari e dei giudici etc., e nel contrapporlo al resto dell’esecutivo, inteso come potere attivo6. Tuttavia, il tentativo di applicare al capo dello Stato 6

B. Constant, in origine repubblicano moderato, dopo la Rivoluzione diviene monarchico e, dopo la caduta di Napoleone, nel libro De l’esprit de la conquête et de l’usurpation, si schiera a favore delle dinastie legittime. Con questo scritto diviene anche uno dei fondatori dell’ideologia legittimista. Ciononostante, partecipa al tentativo di portare sul trono Bernadotte e, poiché questo fallisce, parteggia per i Borboni. Nel «Journal des

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di una repubblica democratica l’ideologia del pouvoir neutre del monarca formulata da Constant diviene particolarmente sospetto quando compare insieme alla tendenza ad estendere, quanto possibile, la competenza di quest’organo anche al di là dell’ambito delle attribuzioni costituzionali di un monarca. Infatti, allo scopo di farlo apparire come un idoneo custode della costituzione, Schmitt caratterizza il pouvoir neutre del capo dello Stato non come un’istanza posta al di sopra dei «titolari dei poteri di influenza e di decisione politica» o come «un terzo di grado più alto» e neppure come «un signore sovrano dello Stato», ma come un «organo equiordinato», e cioè come un potere «che sta non sopra ma accanto agli altri organi costituzionali» (p. 203). Nello stesso tempo, però, ricorrendo a un’interpretazione più che estensiva dell’art. 48, egli cerca di ampliare la competenza del presidente del Reich in modo da renderlo proprio un signore sovrano dello Stato, e quindi gli fa conseguire una tale posizione di potere cui nulla toglie il fatto che Schmitt si rifiuti di chiamarla dittatura; la quale, in ogni caso, secondo quanto detto sopra, non è compatibile con la funzione di garante della costituzione. Che Schmitt ritenga senz’altro lecito applicare la tesi ideologica del pouvoir neutre del monarca costituzionale al capo dello Stato di una repubblica democratica eletto sotto la pressione febbrile dei partiti politici è strano anche perché, all’occorrenza, egli vede con chiarezza i fatti reali che rendono evidente il carattere ideologico della dottrina costituzionale del monarca come custode della costituzione. Egli afferma così che, nella monarchia costituzionale, il pericolo di una violazione della costituzione proveniva dal governo e quindi dalla sfera dell’esecutivo, circostanza che avrebbe dovuto eliminare alla radice l’idea di un potere neutrale del monarca che funge da capo del governo e dell’esecutivo e di una sua vocazione a fare il custode della costituzione. Senonché Schmitt riconosce che nel secolo XIX il débats» scrive contro Napoleone che torna dall’Elba che egli è un Attila e un Gengis Khan. Dopo alcune settimane, però, diviene membro del consiglio di Stato e su incarico di Napoleone scrive gli atti supplementari alle costituzioni dell’Impero. Dopo la seconda Restaurazione, Constant è di nuovo seguace della Charte e dei Borboni. Cosi, per esempio, nel 1820, egli dice alla camera dei deputati che «Les Bourbons avec la charte sont un immense avantage, parce que c’est un immense avantage qu’une famille antique sur un trône incontesté». Dopo la cacciata di Carlo X, lo ritroviamo quale zelante difensore della legittimità di Luigi Filippo. Cfr. A.M. Dolmatowsky, Der Parlamentarismus in der Lehre Benjamin Constants, «Zeitschrift. f. d. ges. Staatswissenschaften», 63 Jahrg., 1907, 602.

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pericolo proveniva dal governo monarchico unicamente allo scopo di poter affermare che oggi, vale a dire nel secolo XX e in una repubblica democratica, il timore di una violazione della costituzione sussiste «soprattutto nei confronti del legislatore», non cioè nei riguardi del governo presidenziale ma del parlamento (p. 45). Come se oggi, in Germania, il problema della legittimità costituzionale dell’attività che il governo, composto dal presidente e dai ministri, svolge in base all’art. 48 non fosse una questione di vita o di morte per la costituzione di Weimar! Certo, se si prescinde dalla possibilità di violazioni costituzionali da parte del governo, allora la formula che proclama il capo dello Stato custode della costituzione non contiene alcun pericolo; non c’è più neanche bisogno di contestare ulteriormente l’esattezza di una formula tramite cui la funzione di garanzia della costituzione viene rivendicata non solo – come potrebbe sembrare – per la persona del presidente, ma anche per il collegio composto da lui e dai ministri che controfirmano i suoi atti. Ma sarà bene non perdere di vista che quest’argomentazione appartiene ad una teoria politica del come se. iii. Per sostenere la tesi che il presidente del Reich è il custode della costituzione, Schmitt deve schierarsi contro l’introduzione più volte invocata, e in alcuni Stati anche realizzata, di una giurisdizione costituzionale, cioè contro l’affidamento della funzione di garanzia della costituzione a un tribunale indipendente. Quest’ultimo funge da tribunale costituzionale centrale che deve decidere, attraverso un procedimento contenzioso, sulla legittimità costituzionale degli atti del parlamento (in particolare leggi) o anche del governo (in particolare decreti) che siano stati impugnati, cassando tali atti se incostituzionali, e deve giudicare, eventualmente, anche sulla responsabilità di determinati organi posti sotto accusa. Sull’utilità di un tale istituto si può certamente discutere e nessuno affermerà che si tratti di una garanzia efficace in ogni circostanza. Quale che sia però il punto di vista da cui il problema politico-giuridico di un tribunale costituzionale venga dibattuto e in qualunque modo si giudichino i suoi pro e i suoi contra, una cosa è veramente irrilevante: se cioè quest’organo sia

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un tribunale e la sua funzione propriamente giurisdizionale. Sul piano della teoria del diritto, questo rappresenta un problema di classificazione assai importante. Dalla sua soluzione in un senso o nell’altro, però, non deriva nulla che si esprima a favore o contro la possibilità di affidare la funzione designata ad un organo collegiale ai cui membri, in qualche modo nominati, sia garantita la piena indipendenza: un’indipendenza dal governo e dal parlamento che si chiama giudiziaria perché nelle moderne costituzioni si è soliti concederla ai tribunali (e non solo, del resto). Concludere da un qualche concetto di giurisdizione che l’istituto qui designato come «tribunale costituzionale» sia impossibile o inattuabile, sarebbe un caso tipico di quella giurisprudenza dei concetti che oggi può considerarsi superata. È da supporre che neanche Schmitt abbia intenzione di proporre una tale argomentazione. È egli stesso però a lasciar intendere il contrario, dal momento che, nella sua battaglia contro la giurisdizione costituzionale, in uno scritto interamente condotto sul piano della politica del diritto, dà la massima importanza alla questione, che appartiene alla teoria del diritto, se si tratti di vera giurisdizione, e anzi formula il problema cruciale nei seguenti termini: se la giurisdizione possa fungere da custode della costituzione. Appare strano che egli ritenga di dover dimostrare, con uno sforzo relativamente grande, che i tribunali civili, penali e amministrativi tedeschi, che esercitano un controllo materiale sulle leggi da applicare, non sono custodi della costituzione in senso stretto (p. 27). Per motivi poco comprensibili, però, non contesta questo titolo alla corte suprema degli Stati Uniti, sebbene questo tribunale abbia sostanzialmente gli stessi compiti dei tribunali tedeschi quando esercitano il loro potere di controllo, e cioè quello di non applicare al caso concreto le leggi ritenute incostituzionali. Da un tribunale costituzionale centrale con poteri di cassazione, che Carl Schmitt non si rifiuterà di sussumere sotto il concetto di custode della costituzione, anche qualora non voglia considerarlo un tribunale, da un tale vero custode, i tribunali che dispongono di poteri di controllo si differenziano però solo sul piano quantitativo, cioè per il fatto che il primo toglie validità alla legge incostituzionale non per il solo caso concreto – come fanno gli altri – ma per tutti i casi. Che senso ha allora affermare, come fa Schmitt, che la funzione costituzionale del custode della costituzione consiste «nel sostituire e rendere superfluo questo diritto generale e occasionale di rifiuto dell’obbedienza e di re-

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sistenza», in cui il potere di controllo materiale consiste, e che «esiste soltanto un custode della costituzione in senso istituzionale»? (p. 40). Ciò in realtà non riesce a darci il senso stretto del concetto di custode della costituzione, ma solo a concludere che i tribunali, anche quando esercitano il potere di controllo, «non sono da considerare custodi della costituzione». Affermazione puramente terminologica. Schmitt, infatti, non può mettere in dubbio che un tribunale, quando rifiuta di applicare una legge incostituzionale e quindi ne annulla la validità per il caso concreto, funziona materialmente come garante della costituzione, anche se non gli si conferisce il titolo altisonante di «custode della costituzione», rinunciando così a un’espressione il cui pathos, già da solo, è un monito contro le tendenze ideologiche che vi sono collegate. Ciò che importa è se sia opportuno affidare in questo modo ai tribunali la funzione di garanzia della costituzione e, in caso negativo, se sia necessario togliere loro il potere di controllo. Inutilmente si cercherà in Schmitt una chiara soluzione a tale questione. Vi si troverà invece, come si è detto, una gran quantità di argomenti con i quali – in modo tutt’altro che sistematico – si cerca continuamente di dimostrare che la decisione sulla costituzionalità delle leggi e l’annullamento delle leggi incostituzionali da parte di un collegio di giudici indipendenti in un procedimento contenzioso – Schmitt non presta alcuna attenzione alla possibilità del controllo giudiziario di altri atti immediatamente subordinati alla costituzione – non sono «giurisdizione». Gli argomenti addotti, però, non solo non provano nulla quanto alla questione determinante, cioè sul piano della politica del diritto, ma sono anche inutilizzabili sotto il profilo della teoria del diritto. iv. Essi partono dall’erroneo presupposto che tra la funzione giurisdizionale e le funzioni politiche vi sia un contrasto di principio e che, in particolare, la decisione sulla costituzionalità delle leggi e l’annullamento delle leggi incostituzionali siano un atto politico, e pertanto non giurisdizionale. Se al termine «politico», polisenso e smisuratamente abusato, si deve dare un qualche significato preciso, allora, in un contesto come questo, in cui esso si trova opposto a giurisdizione,

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si può soltanto assumere che qui venga usato per esprimere qualcosa come l’esercizio del potere (contrapposto all’esercizio del diritto). Politica è la funzione del legislatore che assoggetta gli individui al proprio volere ed esercita un potere proprio perché li costringe a perseguire i loro interessi entro i limiti delle norme da lui poste, risolvendo così i conflitti d’interessi esistenti; il giudice, invece, applica l’ordinamento creato dal legislatore non come soggetto di questo potere ma come strumento. Una simile concezione è però errata, perché presuppone che l’esercizio del potere si esaurisca nel procedimento legislativo. Non si vede, o non si vuole vedere, che esso trova la sua sostanziale continuazione, e in talune circostanze perfino il suo vero inizio, tanto nella giurisdizione quanto nell’altro ramo dell’esecutivo, l’amministrazione. Se nel politico si scorge la risoluzione dei conflitti di interesse, la «decisione», per usare la terminologia di Schmitt, allora in ogni sentenza giudiziaria è presente, in varia misura, un elemento decisorio, una parte di esercizio del potere. Il carattere politico della giurisdizione è tanto più marcato quanto più ampio è il potere discrezionale che la legislazione, generale per sua natura, le deve necessariamente lasciare. L’opinione che solo la legislazione, ma non la vera giurisdizione, sia politica è tanto errata quanto l’opinione che solo la legislazione sia produttiva creazione del diritto, mentre la giurisdizione è mera applicazione riproduttiva. Si tratta, in fondo, di due varianti dello stesso errore. Nel momento in cui il legislatore autorizza il giudice a valutare, entro certi limiti, interessi tra loro contrastanti e a decidere i contrasti in favore dell’uno o dell’altro, gli attribuisce una competenza a creare diritto e, in tal modo, un potere che conferisce alla funzione giudiziaria lo stesso carattere politico posseduto, seppure in misura maggiore, dalla legislazione. Tra il carattere politico della legislazione e quello della giurisdizione vi è una differenza puramente quantitativa e non qualitativa. Se fosse nella natura della giurisdizione quello di essere non politica sarebbe impossibile una giurisdizione internazionale; o meglio, la decisione, secondo le norme del diritto internazionale, delle controversie fra Stati, che si distinguono dai conflitti interni solo perché appaiono più chiaramente come conflitti di potere, dovrebbe cambiare denominazione. Nella teoria del diritto internazionale si usa distinguere tra conflitti arbitrabili e non arbitrabili, conflitti giuridici e di interesse (di potere), controversie giuridiche e politiche. Ma questo che cosa

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significa? Ogni conflitto giuridico è senz’altro un conflitto di interessi e di potere, e pertanto ogni controversia giuridica è una controversia politica, e ogni conflitto che venga qualificato come conflitto di interessi, di potere o politico può essere deciso come controversia giuridica, nel momento in cui si ponga la questione se la pretesa che uno Stato avanza nei riguardi di un altro e che l’altro si rifiuta di soddisfare – in ciò consiste ogni conflitto – sia fondata sul diritto internazionale oppure no. E tale questione può sempre essere risolta secondo il diritto internazionale, cioè giuridicamente. Essa infatti è decisa secondo il diritto internazionale, positivamente, se la pretesa è accolta, negativamente, se la pretesa è rigettata. Tertium non datur. Un conflitto è non arbitrabile o politico non perché, per sua natura, non possa essere un conflitto giuridico e quindi non possa essere deciso da un tribunale, ma perché una o entrambe le parti, per qualunque motivo, non vogliono deferirne la decisione a un’istanza obiettiva. A questi bisogni e alle tendenze che ne scaturiscono, avverse allo sviluppo di una giurisdizione internazionale, la teoria del diritto internazionale, con i suoi concetti di conflitto arbitrabile e non arbitrabile, di controversia giuridica e politica, fornisce la necessaria ideologia. Schmitt non fa che trasferire tali concetti nel diritto interno quando – come molti altri giuspubblicisti – distingue tra materie oggetto di giurisdizione e materie non oggetto di giurisdizione per mettere in guardia dall’estensione della giurisdizione a queste ultime, poiché, come egli spiega, da ciò la giurisdizione «può essere soltanto danneggiata» (p. 41). Secondo Schmitt, le questioni politiche non sono oggetto di giurisdizione. Tutto quello che si può dire da un punto di vista teorico è che la funzione di un tribunale costituzionale ha un carattere politico assai più marcato di quello degli altri tribunali – e i fautori della sua istituzione non hanno mai misconosciuto o negato l’eminente significato politico delle sue sentenze –, ma non che, per questo motivo, non si tratti di un tribunale e che la sua funzione non sia giurisdizionale; tanto meno, che non sia lecito affidare questa funzione ad un organo dotato dell’indipendenza giudiziaria. Ciò significherebbe dedurre da un concetto qualsiasi, come per esempio quello di giurisdizione, pretese concernenti la forma dell’organizzazione statale.

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v. Dal momento che Schmitt attribuisce un grande valore alla dimostrazione che la cosiddetta giurisdizione costituzionale non è in realtà giurisdizione, sarebbe lecito attendersi da lui una definizione chiara e precisa di questo concetto. L’attesa viene però fortemente delusa. Ciò che egli ci rifila come essenza della giurisdizione è ben misera cosa e in sostanza non è altro che un ritorno a concezioni già da tempo riconosciute errate. Se si raccolgono le sue distratte osservazioni su questo punto, se ne ricava presso a poco la tesi seguente: la giurisdizione è per sua natura legata alle norme, e precisamente a norme che «rendono possibile una sussunzione conforme alla fattispecie»  e che inoltre, riguardo al contenuto, non siano «dubbie e controverse» (pp. 37, 62 sgg.). Perciò, dato che nella decisione sulla costituzionalità di una legge non vi sarebbe mai «sussunzione conforme alla fattispecie» ma, per lo più, «determinazione del contenuto di una legge costituzionale dubbia sotto questo aspetto», allora qui non vi è alcuna giurisdizione. Tanto per cominciare, per quanto concerne il secondo dei caratteri che vengono attribuiti alla giurisdizione, si può solo rimanere stupiti del fatto che Schmitt sembri sostenere che i tribunali civili, penali e amministrativi, il cui carattere giurisdizionale egli peraltro non mette in discussione, dovrebbero applicare sempre e soltanto norme il cui contenuto non sia dubbio e controverso, e che nel caso di una controversia giuridica sottoposta alla decisione di questi tribunali si tratta sempre di una questione di fatto e mai di una cosiddetta questione di diritto, che sorge solo quando il contenuto della norma da applicare è dubbio e perciò controverso. Come esempio di un caso in cui non c’è contraddizione manifesta tra una legge costituzionale e una legge ordinaria, ma esistono dubbi e divergenze di opinione sulla questione «se e in quale misura vi sia una contraddizione», viene addotta come prova l’eventualità che «una legge costituzionale disponga il mantenimento delle facoltà teologiche e una legge ordinaria disponga la soppressione delle accademie teologiche» (p. 70). Qui il contenuto della legge costituzionale è palesemente dubbio perché è incerto se nelle facoltà teologiche siano da comprendere anche le accademie teologiche. È superflua ogni parola spesa per dimostrare che la giurisprudenza dei tribunali ordinari – il cui carattere giurisdi-

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zionale è indubitabile e non è mai stato messo in dubbio – comporta in numerosi casi la determinazione del contenuto di una legge che, in modo del tutto identico, sotto tale profilo è dubbia. Quando Schmitt parla «della fondamentale differenza tra una decisione processuale e la decisione di dubbi e divergenze di opinione sul contenuto di una norma costituzionale» (p. 13), si può solo replicare che la maggior parte delle decisioni processuali sono decisioni di dubbi e divergenze di opinione sul contenuto di una disposizione di legge. E, in effetti, sulla giurisdizione non era mai stata fatta un’affermazione che ne disconoscesse così ampiamente la natura: «Ogni giurisdizione è vincolata a norme e viene meno se le norme stesse diventano nel loro contenuto dubbie e controverse» (p. 36). Soltanto il capovolgimento di questa affermazione ci riconduce alla verità semplice e visibile da ognuno, per cui la giurisdizione comincia proprio là dove il contenuto delle norme diventa dubbio e controverso, giacché altrimenti vi sarebbero solo controversie su fatti e nessuna autentica controversia giuridica. Si può dubitare sulla opportunità di affidare a un tribunale indipendente la determinazione del contenuto di una legge costituzionale dubbia e controversa e si può, per varie ragioni, preferire che di questa funzione si occupino il governo o il parlamento. Ma è impossibile ritenere che la funzione di un tribunale costituzionale non sia giurisdizione quando la norma che esso è chiamato ad applicare ha un contenuto dubbio e la sua sentenza consiste quindi nella determinazione di questo contenuto: è infatti impossibile ritenere che l’incertezza del contenuto normativo sia, in una legge costituzionale, qualcosa di diverso che in una legge ordinaria. L’altro criterio, secondo cui le norme da applicare in sede giurisdizionale devono consentire una sussunzione conforme alla fattispecie, in realtà non è inesatto; inesatta è invece la tesi per cui la decisione sulla costituzionalità di una legge non implichi una tale sussunzione. Purtroppo, Schmitt tralascia di spiegare meglio che cosa intenda per fattispecie. Si può forse supporre però che egli veda realizzato il procedimento di sussunzione della fattispecie, in tutta la sua chiarezza e semplicità, quando un tribunale penale deve decidere su un reato. Se un  tribunale stabilisce che il comportamento dell’imputato è proprio quella fattispecie che la legge penale prevede come reato e cioè come condizione di una determinata pena, questo procedimento è assolutamente identico a quello

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che si verifica quando un tribunale costituzionale dichiara incostituzionale una legge impugnata da una parte qualsiasi. L’incostituzionalità di una legge può consistere non solo – come appare a un primo sguardo – nel fatto che la legge non è stata posta in essere secondo il procedimento stabilito dalla costituzione, ma anche nel fatto che essa ha un contenuto che secondo la costituzione non può avere; la costituzione infatti non regola soltanto il  procedimento legislativo, ma in qualche modo anche il contenuto delle leggi future, per esempio mediante la fissazione di direttive, principi, etc. Poiché però una giurisdizione costituzionale sulle leggi è possibile soltanto quando le norme costituzionali materiali si presentano anche nella specifica forma costituzionale, e cioè come leggi qualificate, dal momento che, se così non fosse, ogni legge costituzionale materiale sarebbe abrogata o modificata da una legge ordinaria che si trova in contraddizione con essa, e una legge incostituzionale non sarebbe quindi possibile, il controllo di costituzionalità di una legge da parte di un tribunale costituzionale comporta sempre la soluzione della questione se la legge sia stata posta in essere costituzionalmente. Anche quando, infatti, una legge è incostituzionale perché ha un contenuto incostituzionale, essa è incostituzionale già per il solo fatto di non essere stata adottata come legge di modifica della costituzione. Infatti, dire che una legge è incostituzionale perché ha un contenuto incostituzionale equivale ad affermare che è incostituzionale perché non è stata posta in essere come una legge di modifica della costituzione. E anche nel caso in cui la costituzione escluda del tutto un determinato contenuto legislativo, per cui nessuna legge che abbia un tale contenuto possa essere adottata in modo conforme alla costituzione – per esempio, la legge di uno Stato-membro che incide sulla competenza federale (e che, anche se adottata come legge costituzionale dello Stato-membro, non è conforme alla costituzione federale) –, anche in questo caso l’incostituzionalità della legge sta nella sua adozione; non nel fatto che non sia stata adottata nel modo dovuto, ma nel solo fatto che è stata adottata. La fattispecie che nelle decisioni sulla costituzionalità di una legge è da sussumere sotto la norma costituzionale non è una norma – fattispecie e norma sono concetti diversi –, bensì la produzione di una norma: è un’autentica fattispecie, quella fattispecie che è regolata dalla norma costituzionale e che, in quanto e nella misu-

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ra in cui è regolata dalla costituzione, può essere sussunta sotto la costituzione come qualunque altra fattispecie sotto qualunque altra norma. È infatti possibile sussumere una fattispecie sotto la norma solo in quanto la norma regola la fattispecie, e cioè la pone come condizione o come conseguenza. Se un tribunale civile decide sulla validità di un testamento o di un contratto, se dichiara illegittimo un regolamento, affinché non lo si applichi nel caso concreto, se un tribunale costituzionale dichiara incostituzionale una legge: sono tutti casi in cui è la fattispecie della produzione di una norma che viene sussunta sotto la norma che la regola e che viene riconosciuta conforme o contraria ad essa. Per di più, il tribunale costituzionale reagisce alla cognizione della incostituzionalità di una legge con un atto che corrisponde, in quanto actus contrarius, alla fattispecie incostituzionale della produzione della norma, cioè con l’annullamento della norma incostituzionale, sia soltanto – individualmente – nel caso concreto, sia – generalmente – per tutti i casi. Quando Schmitt caratterizza il controllo di costituzionalità di una legge nel senso che qui viene solo «confrontato il contenuto di questa legge con il contenuto dell’altra» e «si mettono a confronto delle regole generali, ma non sono sussunte o “applicate” le une alle altre» (p. 70), si preclude la comprensione della vera realtà delle cose, poiché non coglie la differenza tra la legge come norma e la produzione della legge come fattispecie. Egli è semplicemente vittima di un equivoco. Di conseguenza, il suo argomento, che ricorre in tutte le possibili variazioni, consiste nel sostenere che non esiste «una giurisdizione della legge costituzionale sulla legge ordinaria», che non c’è «una giurisdizione di una norma sopra un’altra norma», che «una legge non può essere il custode di un’altra legge». La giurisdizione costituzionale non consiste – come Schmitt imputa alla teoria normativa che analizza questa funzione – nel fatto che «una norma si deve normativamente tutelare da sé» o che una legge più debole viene tutelata da una più forte o viceversa, ma semplicemente nel fatto che una norma dev’essere annullata per il caso concreto o in generale perché la fattispecie della sua produzione contrasta con la norma che regola questa fattispecie e che, proprio per questo motivo, è di grado più elevato.

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vi. Per non dover configurare il controllo di costituzionalità come giurisdizione, per poterlo caratterizzare come legislazione, Schmitt si richiama a una concezione dei rapporti tra queste due funzioni che finora e a buon diritto era ritenuta da lungo tempo tramontata. Si tratta della concezione per cui la decisione giudiziaria, contenuta già bell’e pronta nella legge, viene solo dedotta da essa mediante un’operazione logica: la giurisdizione come automatismo giuridico! Schmitt, infatti, ritiene in tutta serietà che la «decisione» del giudice «“contenutisticamente” è “dedotta” da un’altra decisione già racchiusa in modo misurabile e calcolabile nella legge» (p. 64). Anche questa dottrina discende dal patrimonio ideologico della monarchia costituzionale: il giudice divenuto indipendente dal monarca non deve prendere coscienza del potere che la legge gli conferisce e che, più precisamente, deve conferirgli, dal momento che la legge ha soltanto carattere generale. Egli deve considerarsi un mero automa che non crea il diritto, ma lo trova già formato, perché trova la decisione già pronta nella legge. Questa dottrina è stata confutata da tempo7. Non è quindi tanto strano che Schmitt, dopo che questa teoria dell’automa gli era servita per distinguere in via di principio la giurisdizione come semplice applicazione dalla legislazione come creazione del diritto e dopo che gli aveva assicurato il principale argomento teorico per la sua lotta contro il controllo di costituzionalità – che cioè una legge non è una sentenza, una sentenza non è una legge – la metta da parte e dichiari con enfasi: «In ogni decisione, perfino in quella di un tribunale che decide processualmente sussumendo in modo conforme alla fattispecie, c’è un elemento di pura decisione, che non può essere derivato dal contenuto della norma» (p. 75). Proprio da questa concezione, tuttavia, deriva che tra legge e sentenza giudiziaria non c’è una differenza qualitativa: questa produce diritto al pari di quella, la sentenza di un tribunale costituzionale, infatti, proprio perché è un atto di legislazione, cioè di produzione del diritto, non cessa di essere un atto di giurisdizione, cioè di applicazione del diritto, e, non da ultimo, questa ha carattere politico al pari di quella, poiché l’elemento della decisione non è affatto limitato alla funzione 7

Cfr. la mia Dottrina generale dello Stato (1925), cit., pp. 522 sgg., p. 672.

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legislativa ma è anche contenuto – e necessariamente – nella funzione giurisdizionale. In tal modo, tutta l’argomentazione secondo cui il controllo di costituzionalità non sarebbe giurisdizione a causa del suo carattere politico viene a cadere. Resta solo da capire perché mai un autore dall’ingegno così straordinario come Schmitt si avviluppi in contraddizioni così evidenti al solo scopo di poter sostenere la tesi che il controllo di costituzionalità non è attività giurisdizionale ma legislativa, quando proprio dalle sue vedute si ricava che esso può e dev’essere entrambe le cose nello stesso tempo. È quasi impossibile trovare una spiegazione diversa da questa: la tesi che il controllo di costituzionalità non è giurisdizione appare così importante da essere sostenuta da Schmitt persino in contrasto con le proprie vedute teoriche perché costituisce il presupposto di una richiesta di politica del diritto. Infatti, dal momento che la decisione sulla costituzionalità di una legge e l’annullamento di una legge incostituzionale in un procedimento di tipo giudiziario non sono giurisdizione, tale funzione non può essere affidata a un collegio di giudici indipendenti, bensì deve essere conferita a un organo diverso. È solo un’altra variante della stessa argomentazione quella di dividere gli Stati, come fa Schmitt – a seconda della funzione di volta in volta in essi prevalente – in Stati giurisdizionali e Stati legislativi (p. 119), per poi dedurre, dal fatto che uno Stato, come il Reich tedesco di oggi, sia uno Stato legislativo, che «in uno Stato legislativo, invece, non può esservi alcuna giurisdizione costituzionale o statale quale custode della costituzione in senso proprio» (p. 121). Allo stesso modo (a p. 39), si afferma: «In uno Stato che non sia puramente giurisdizionale, essa (la giurisdizione) non può esercitare tale funzione». Forse però sarebbe più corretto desumere che uno Stato, la cui costituzione preveda un tribunale costituzionale, non è affatto uno Stato legislativo, piuttosto che concludere, dal fatto che non rientra in questo schema teorico, che in esso non può esserci un tribunale costituzionale. Ancora una volta Schmitt deduce una struttura giuridica desiderata da un concetto giuridico presupposto, commettendo così il tipico errore di mescolare teoria giuridica e politica del diritto8. 8 La tesi secondo cui vi sarebbe una differenza essenziale tra legge e decisione giudiziaria – che nessuno contrasta cosi energicamente come fa Schmitt quando afferma che hanno la stessa natura, dal momento che sono entrambe «decisioni» – costituisce stranamente, proprio per questo stesso autore, anche la base di una polemica contro la teoria gradualistica da me soste-

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Una ricerca scientifica che ha come oggetto la possibilità di una giurisdizione costituzionale non dovrebbe infine tralasciare il fatto che già esiste uno Stato – ovvero l’Austria – in cui da più di un decennio funziona un controllo di costituzionalità centrale e compiutamente sviluppato. Analizzarne la reale efficacia sarebbe certamente più fruttuoso che indagare sulla sua compatibilità con il concetto di Stato legislativo. Schmitt si accontenta di mettere la soluzione austriaca tra virgolette e di osservare che, «nella stanchezza del primo decennio dopo la catastrofe, la reale portata di un tale allargamento della giurisdizione non era stata adeguatamente discussa e ci si era accontentati di astratti normativismi e formalismi» (pp. 15 sgg.). I nuta, che, riconoscendo la medesima natura alla legislazione e alla giurisdizione, va alla ricerca di una differenza quantitativa. Quando la teoria gradualistica scorge, tanto nell’una quanto nell’altra, una produzione di norme, procede metodologicamente come Schmitt, quando riconosce in entrambe un elemento decisorio. Si spiega così tutta la veemenza della sua polemica, che, invece di argomenti oggettivi, utilizza piuttosto giudizi di valore emotivi, come «astrazioni inconsistenti», «metafore fantasiose», «logica a zampa d’oca». La «gerarchia delle norme», e cioè il risultato della teoria gradualistica, elaborata in seguito a una critica metodologica radicale e in lotta implacabile contro ogni tipo di antropomorfismo, viene sbrigativamente liquidata in una nota come «antropomorfismo della norma acritico e privo di metodo» e «allegoria improvvisata» (pp. 64 sgg.). Nella recensione a un lavoro che si occupa innanzitutto di politica del diritto, avrebbe poco senso discutere una teoria che non vuole offrire altro che un’analisi strutturale del diritto. Mi limito quindi ad affermare che la dottrina contro la quale Schmitt polemizza non ha quasi nulla a che fare con la teoria da me sostenuta. C’è qui un grosso malinteso. Schmitt ritiene di confutare questa teoria gradualistica scrivendo che: «Se il procedimento di modifica di una norma è più complesso rispetto a quello di un’altra, ciò costituisce – sotto ogni possibile riguardo: logico, giuridico, sociologico – qualcosa di diverso da una gerarchia; una norma costituzionale attributiva di competenza non sta, rispetto agli atti che devono essere emanati dall’organo competente, nella posizione di un’autorità sovraordinata (una normazione non è infatti un’autorità), e la legge ordinaria, a fortiori, non è subordinata alla legge più difficile da modificare». Ora, se io sostenessi che la costituzione si trova al di sopra della legge solo perché è più difficile modificarla, la mia teoria sarebbe in effetti cosi assurda come Schmitt la espone. In questa esposizione, però, viene trascurato un dettaglio: io distinguo molto attentamente tra costituzione in senso materiale e costituzione in senso formale, motivando la sovraordinazione del grado della costituzione al grado della legge non con la forma, puramente accidentale e non essenziale, ma con il contenuto della costituzione. La costituzione rileva come norma che sta al di sopra della legislazione in quanto determina il procedimento legislativo e, in una certa misura, anche il contenuto delle leggi (da emanare in base alla costituzione); nella stessa misura in cui la legislazione sta al di sopra della cosiddetta esecuzione (giurisdizione, amministrazione) in quanto regola la formazione e, in misura assai ampia, anche il contenuto dei suoi atti. Nel rapporto tra il grado della legislazione e quello dell’esecuzione, il problema della più facile o più difficile modificabilità non ha alcuna importanza. Se Schmitt, di tutti i miei scritti, avesse letto anche solo La garanzia giurisdizionale della Costituzione (trad. it. in H. Kelsen, La giustizia costituzionale, a cura di C. Geraci, Giuffrè, Milano 1981, pp. 143 sgg.), lo saprebbe.

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«normativismi e formalismi» sarebbero quelli della Scuola di Vienna, cui però le «astrazioni non hanno impedito di portare a termine anche una concreta parte di lavoro giuridico creativo, come la corte costituzionale austriaca per esempio, che Schmitt, in ogni caso, dall’alto delle proprie astrazioni, non è sceso ad esaminare nel suo «reale significato». L’impossibilità teorica di questo metodo, la sua interna contraddittorietà, si manifestano anche a conclusione del suo scritto, dove Schmitt, dalle premesse della sua teoria del diritto, deduce il risultato desiderato sul piano della politica del diritto. Si afferma che «prima dunque d’introdurre, per le questioni e i conflitti eminentemente politici, un tribunale come custode della costituzione e di sovraccaricare e mettere in pericolo, con tale politicizzazione, la giurisdizione» (p. 240), ci si dovrebbe ricordare del contenuto positivo della costituzione di Weimar, che secondo Schmitt erige a proprio custode il presidente del Reich. Ciò significa, né più né meno, che, per le questioni e i conflitti eminentemente politici, non si dovrebbe introdurre come custode della costituzione un tribunale, dal momento che la giurisdizione verrebbe politicizzata, sovraccaricata e compromessa dall’attività di un tale tribunale. La giurisdizione? Come potrebbe proprio la giurisdizione essere sovraccaricata e compromessa dal controllo di costituzionalità se quest’ultimo – come Schmitt si è sforzato accuratamente di dimostrare – non è giurisdizione? Con ciò non si vuole negare che il problema posto da Schmitt circa i limiti della giurisdizione in generale e della giurisdizione costituzionale in particolare sia del tutto legittimo. È solo che in questo contesto esso va posto come un problema che non riguarda il concetto di giurisdizione, ma il miglior modo di organizzare la sua funzione, e queste due cose vanno tenute nettamente separate. Se si vuole limitare il potere dei tribunali e quindi il carattere politico  della loro funzione – tendenza che si manifesta in particolare nella monarchia costituzionale ma che si può osservare anche nella repubblica democratica –, allora l’ambito della discrezionalità che le leggi attribuiscono per la loro applicazione dev’essere ristretto il più possibile. Le norme costituzionali che un tribunale è chiamato ad applicare, in particolare quelle che stabiliscono il contenuto delle leggi future, come le disposizioni sui diritti fondamentali

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e simili, non devono essere formulate in termini troppo generici, né devono fare uso di espressioni vaghe come libertà, uguaglianza, giustizia etc. Altrimenti sussiste il pericolo di uno spostamento di potere, non previsto dalla costituzione e politicamente assai inopportuno, dal parlamento ad un organo esterno ad esso «che può essere espressione di forze politiche del tutto diverse da quelle rappresentate in parlamento»9. Questo però non è un problema che 9 H. Kelsen, La garanzia giurisdizionale, cit., p. 190. Queste frasi si trovano nel contesto di un’argomentazione che riporto per intero, per mostrare, a chi ha letto soltanto lo scritto di Schmitt, come ragiona uno degli «zeloti di un cieco normativismo» (p. 52) e la sua «logica normativistica e formalistica», (p. 67) e come appaiono «le devastazioni che questo tipo di logica ha portato nel concetto di legge» (p. 64): «Si incontra talora l’affermazione che, al di sopra della costituzione di ciascuno Stato, vi sarebbero delle regole di diritto naturale che anche le autorità statali preposte all’applicazione del diritto dovrebbero rispettare. Ora, se si tratta di principi incorporati nella costituzione o in un altro grado dell’ordinamento giuridico e che vengono enucleati dal contenuto del diritto positivo soltanto tramite astrazione, è cosa abbastanza innocua formularli come norme giuridiche autonome. La loro applicazione ha luogo infatti con le norme giuridiche in cui sono incorporati, e solo con esse. Se però si tratta di principi che ancora non sono stati tradotti in norme di diritto positivo, ma che dovrebbero esserlo, soltanto perché rappresentano la “giustizia” (sebbene i sostenitori di questi principi li ritengano già, in modo più o meno chiaro, diritto), siamo in presenza di postulati giuridicamente non vincolanti (che in realtà esprimono solo gli interessi di alcuni gruppi) e che vengono formulati all’indirizzo degli organi preposti alla produzione del diritto: non solo del legislatore, il cui potere di accoglierli è quasi illimitato, ma anche degli organi inferiori, che hanno questo potere in misura tanto più ridotta quanto più grande è la parte che essi hanno nell’applicazione del diritto, ma che sussiste tuttavia nella stessa misura in cui possiedono un potere discrezionale, cioè, nella giurisdizione e nell’amministrazione, quando si tratta di scegliere tra varie interpretazioni possibili. Proprio nel fatto che il richiamo o la realizzazione di questi principi, ai quali finora, nonostante ogni sforzo, non è stato possibile dare un contenuto anche solo approssimativamente univoco, non hanno e non possono avere nel processo di produzione del diritto, per i motivi indicati, il carattere di un’applicazione del diritto in senso tecnico, si trova la risposta al problema se possano essere applicati da un tribunale costituzionale. E la situazione è diversa solo in apparenza, solo formalmente, quando, come talvolta accade, la stessa costituzione si riferisce a questi principi richiamando gli ideali di equità, di giustizia, di libertà, di eguaglianza, di moralità etc., senza minimamente precisare di che cosa si tratti. Se queste formule servono solo a coprire la solita ideologia politica con la quale ogni ordinamento cerca di rivestirsi, il rinvio all’equità, alla libertà, all’uguaglianza, alla giustizia, alla moralità etc., in mancanza di una precisazione di questi valori, significa solo che tanto il legislatore quanto gli organi preposti all’esecuzione della legge sono autorizzati a riempire discrezionalmente lo spazio lasciato loro dalla costituzione e dalla legge. Le concezioni della giustizia, della libertà, dell’uguaglianza, della moralità, etc. differiscono infatti talmente, a seconda del punto di vista degli interessati, che, se il diritto positivo non accoglie nessuna di esse, qualunque contenuto giuridico può essere giustificato sulla base di una qualunque di queste possibili concezioni. In ogni caso, però, il rinvio ai valori in questione non significa e non può significare che gli organi preposti alla produzione del diritto siano mai dispensati

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riguarda soltanto la giurisdizione costituzionale, ma vale anche per i rapporti tra la legge e i tribunali civili, penali e amministrativi che sono chiamati ad applicarla. Si tratta dell’antichissimo dilemma platonico: politeia o nomoi, re-giudice o re-legislatore? Dal punto di vista teorico, la differenza tra un tribunale costituzionale con il potere di cassare le leggi e un tribunale civile, penale o amministrativo ordinario è che, nonostante entrambi applichino e producano diritto, il secondo produce solo norme individuali mentre il primo, in quanto applica la costituzione a una fattispecie di produzione legislativa e perviene all’annullamento della norma incostituzionale, non produce ma annulla una norma generale, e cioè pone in essere l’actus contrarius speculare alla produzione giuridica, agisce cioè – secondo un’espressione che ho usato altrove – come legislatore

dall’applicare il diritto positivo che contrasti con la loro concezione personale della libertà, dell’uguaglianza, etc. In linea generale, pertanto, le formule in questione non hanno una grande importanza. Anche se si rinuncia ad esse, la realtà effettiva del diritto non cambia. Senonché, proprio nel campo della giurisdizione costituzionale, esse possono svolgere un ruolo assai pericoloso, e precisamente quando si tratta di controllare la costituzionalità delle leggi. Le disposizioni costituzionali che invitano il legislatore a conformarsi alla giustizia, alla libertà, all’equità, alla moralità etc., potrebbero essere infatti interpretate come direttive riguardanti il contenuto di leggi future: naturalmente a torto, perché sarebbe così solo se la costituzione stabilisse un indirizzo preciso, se essa indicasse un qualunque criterio oggettivo. Il limite tra queste formule, che servono solo come ornamento politico della costituzione, e la tradizionale definizione del contenuto delle leggi future nel catalogo dei diritti e delle libertà fondamentali, può venire meno facilmente; non è quindi affatto da escludere la possibilità che un tribunale costituzionale, chiamato a decidere sulla questione di costituzionalità di una determinata legge, annulli questa legge perché è ingiusta, essendo la “giustizia” un principio costituzionale che il tribunale pertanto deve applicare. Ciò equivarrebbe però a conferire al tribunale costituzionale una pienezza di poteri da considerare assolutamente inammissibile. Ciò che la maggioranza dei giudici di questo tribunale considera giusto può essere in totale contrasto con ciò che ritiene giusto la maggioranza della popolazione e contrasta sicuramente con ciò che ha ritenuto giusto la maggioranza del parlamento che ha adottato questa legge. È evidente infatti che la costituzione non ha inteso, usando un termine così impreciso ed equivoco come quello di giustizia o altro simile, far dipendere la sorte di ogni legge votata dal parlamento dal gradimento di un collegio composto in modo più o meno arbitrario dal punto di vista politico, com’è il caso di un tribunale costituzionale. Se quindi si deve evitare tale spostamento di potere – certo non voluto dalla costituzione e politicamente assai inopportuno – dal parlamento a un organo che si trova fuori di esso e che può diventare espressione di forze politiche del tutto diverse da quelle che si esprimono nel parlamento, la costituzione, quando istituisce un tribunale costituzionale, deve astenersi da una simile fraseologia e, se vuole stabilire principi, direttive e limiti al contenuto delle leggi da emanare, deve definirli nel modo più preciso possibile».

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negativo10. Ma tra la funzione di un tale tribunale costituzionale e quella dei normali tribunali si frappone una forma intermedia assai notevole, con il suo potere di controllo su leggi e regolamenti. Infat10

Cfr. La garanzia giurisdizionale, cit., p. 173. In previsione della principale obiezione all’introduzione del controllo di costituzionalità, e cioè la separazione tra giurisdizione e legislazione, ho scritto: «E non molto diversamente stanno le cose quanto alla seconda obiezione che ci si deve aspettare quando si tratta di difendere l’istituto del controllo di costituzionalità, e cioè il richiamo al principio della separazione dei poteri. Bisogna innanzitutto riconoscere che l’annullamento di un atto legislativo da parte di un organo diverso dall’organo legislativo costituisce, come si usa dire generalmente, una interferenza nel potere legislativo. Questo argomento, tuttavia, appare assai problematico non appena si consideri che l’organo cui è affidato l’annullamento delle leggi incostituzionali, anche se viene chiamato tribunale e, in virtù della sua “indipendenza”, dal punto di vista organizzativo è un tribunale, dal punto di vista della funzione, invece, non agisce come un tribunale. Per quanto si possa distinguerle, la differenza tra la funzione giurisdizionale e la funzione legislativa consiste anzitutto nel fatto che questa crea norme generali mentre quella crea solo norme individuali. Che anche questa non sia una differenza di principio e che, in particolare, anche il legislatore (specialmente il parlamento) possa porre norme individuali, è cosa di cui qui non dobbiamo occuparci. Ora, se a un tribunale viene affidato il compito di annullare una legge, esso viene autorizzato a porre una norma generale, dal momento che tale annullamento ha lo stesso carattere di generalità della formazione della legge, essendo per così dire una emanazione di segno negativo. Anche l’annullamento delle leggi è quindi una funzione legislativa e un tribunale che annulla una legge è anch’esso organo del potere legislativo. Nell’annullamento di una legge da parte di un tribunale si potrebbe vedere quindi tanto una interferenza nel potere legislativo quanto l’affidamento del potere legislativo a due organi. E nel caso in cui il potere legislativo venga affidato a due organi, non sempre si tende a parlare di contrasto col principio della separazione dei poteri, come accade, per esempio, quando, nella costituzione della monarchia costituzionale, la legislazione, cioè la produzione di norme giuridiche generali, è di regola affidata al parlamento insieme con il monarca, sebbene in taluni casi eccezionali al monarca (insieme con i ministri) sia riservata l’emanazione di decreti che sostituiscono o modificano la legge (decreti di necessità). Ci porterebbe troppo lontano indagare in questa sede i motivi politici sui quali riposa l’intero principio della separazione dei poteri, anche se sarebbe l’unico modo di chiarire il significato autentico di questo principio che si fonda soprattutto sulla condizione del potere politico nella monarchia costituzionale. Se esso deve avere un senso razionale anche nella repubblica democratica, dei suoi vari significati viene in considerazione solo quello che, più che con separazione, è reso col termine ripartizione dei poteri. È il concetto della distribuzione del potere tra vari organi, non tanto al fine del loro reciproco isolamento, quanto piuttosto al fine del loro reciproco controllo. E ciò non soltanto per impedire una eccessiva concentrazione di poteri in un solo organo, pericolosa per la democrazia, ma specialmente per garantire che l’azione dei vari organi sia conforme al diritto. Ma allora l’introduzione del controllo di costituzionalità non solo non contrasta col principio della separazione dei poteri, ma ne rappresenta la conferma. Stando così le cose, la questione se l’organo chiamato ad annullare le leggi incostituzionali possa essere un tribunale è del tutto priva d’importanza. L’indipendenza di tale organo sia dal parlamento sia dal governo è una esigenza evidente. Il parlamento e il governo, infatti, in quanto partecipano al procedimento legislativo, devono essere soggetti al controllo del tribunale costituzionale».

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ti, un tribunale, che nel caso concreto disapplica una legge perché incostituzionale o un regolamento perché illegittimo, annulla una norma generale e agisce quindi anch’esso come legislatore negativo (nel senso materiale della parola legge). Solo che l’annullamento della validità della norma generale è limitato a un solo caso e non – come nella sentenza di un tribunale costituzionale – in toto, cioè per tutti i possibili casi. vii. È questione di politica del diritto se il procedimento con il quale un organo dotato d’indipendenza giudiziaria verifica la costituzionalità di una legge debba essere sostanzialmente configurato alla stregua di un processo civile, penale o amministrativo e, in particolare, se debba avere carattere contenzioso; se cioè lo si debba organizzare in modo tale che i pro e i contra della costituzionalità siano, ove possibile, discussi pubblicamente. Un tale procedimento non appartiene esclusivamente alla giurisdizione: anche il procedimento amministrativo può essere organizzato in questo modo. Se a questo proposito si parla di forma giudiziaria è perché storicamente esso ha fatto la sua comparsa nei tribunali, dove nella maggior parte dei casi lo si ritrova ancora oggi. Nell’antica Atene, per un certo periodo, perfino il procedimento legislativo aveva questa forma: quando una legge vecchia doveva essere sostituita con una nuova, la prima veniva processata dinanzi ai nomoteti. E di certo Atene non era uno Stato giurisdizionale nel senso inteso da Schmitt. Il procedimento dialettico del moderno parlamento è – in sostanza – qualcosa di molto simile alla forma giudiziaria del processo davanti ad un tribunale. Il suo scopo è quello di portare alla luce tutto ciò che è a favore o contro un determinato progetto, e l’esperienza dimostra che il modo migliore per conseguire questo risultato è affidare attacco e difesa a organi diversi. Cosa senz’altro possibile se nella questione in esame vi sono due individui o due gruppi di individui con interessi contrastanti. Ora, questo è indubbiamente il caso della questione di costituzionalità di una legge. Vi sono contrasti di interesse di carattere nazionale, religioso, economico, contrasti tra gruppi interessati all’accentramento o al decentramento, e molti altri: dare loro un’espressione adeguata sul pia-

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no tecnico-processuale è compito dell’ordinamento processuale. La struttura contenziosa, la c.d. forma giudiziaria del procedimento, è senz’altro appropriata anche quando si tratta di applicare una norma costituzionale che concede un ampio margine di discrezionalità. La controversia, allora, non verte, o meglio, non verte solo e non solo direttamente sulla questione di costituzionalità, ma anche sull’opportunità dell’atto impugnato; è anche un dibattito sul modo migliore in cui la creazione – individuale o generale – del diritto debba svolgersi nel quadro delineato dalla costituzione. Il contrasto d’interessi esistente è della massima importanza proprio nel caso in cui una legge ordinaria violi la costituzione e quest’ultima sul punto non offra un significato preciso, per cui la sentenza del tribunale costituzionale comporterebbe in realtà uno sviluppo della costituzione in una certa direzione. E proprio in questi casi è particolarmente importante fare in modo che la formazione della volontà statale che si manifesta nella sentenza del tribunale costituzionale abbia luogo nell’ambito di un procedimento che porti a espressione il contrasto d’interessi esistente. Nel processo civile, a seconda del potere discrezionale che la legge accorda al giudice, la controversia verte anche sull’opportunità della decisione e la forma giudiziaria si dimostra appropriata all’attività politica di creazione del diritto svolta dal tribunale, proprio nella misura in cui la sentenza realizza una ponderazione degli interessi. Per non parlare del procedimento amministrativo, la cui forma giudiziaria non reca alcun danno alla discrezionalità riconosciuta già in così larga parte all’amministrazione. Anche se, considerando il potere discrezionale riconosciuto all’applicazione del diritto, si volesse parlare – nel senso della politica del diritto e non della teoria del diritto – di norme più o meno soggette alla giurisdizione, sarebbe del tutto sbagliato sostenere che «insieme alla norma soggetta a giurisdizione» venga meno in egual misura anche «il presupposto per una possibile forma giudiziaria» del procedimento (p. 66). D’altra parte, non si può che fraintendere il senso autentico della cosiddetta forma giudiziaria e la sua utilizzabilità per il procedimento dinanzi a un’autorità che funga da custode della costituzione, se non si guarda al fatto sociologico fondamentale da cui scaturisce l’istituzione del procedimento contenzioso, che cioè, come in qualsiasi altra configurazione giuridica, cosi anche nella decisione di un tribunale, e in particolare di un custode della costituzione, si contrappon-

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gono interessi contrastanti e che ogni decisione decide su contrasti di interesse, cioè a favore dell’una o dell’altra parte, oppure nel senso di una mediazione fra esse; sicché un procedimento contenzioso serve quanto meno a portare alla luce l’effettiva situazione degli interessi. Tutto questo però non si può vedere se il contrasto d’interessi viene celato dalla finzione di un interesse comune o di una unità d’interessi, che è qualcosa di essenzialmente diverso e molto maggiore di ciò che può accadere nel migliore dei casi, vale a dire un compromesso di interessi. È la tipica finzione cui si ricorre quando si opera, in un senso non meramente formale, con l’unità della volontà dello Stato o con la totalità del collettivo, allo scopo di giustificare una struttura dell’ordinamento statale che abbia un certo contenuto. A una simile rappresentazione conducono anche le argomentazioni con cui Schmitt sviluppa la categoria dello Stato totale e la contrappone al sistema del pluralismo. viii. Entrambi i concetti vengono introdotti per caratterizzare la concreta situazione costituzionale dell’odierno Reich tedesco (i concetti di policrazia e federalismo, che Schmitt usa accanto a quello di pluralismo, hanno una funzione relativamente insignificante). Per pluralismo egli intende «una molteplicità di complessi di forze sociali saldamente organizzati che attraversano lo Stato, e cioè tanto i diversi ambiti della vita statale quanto i confini territoriali dei Länder e degli enti locali autonomi e che, come tali, si impadroniscono della formazione della volontà dello Stato, senza cessare di essere semplici formazioni sociali (cioè non-statali)» (p. 113). Quanto a questi «complessi di forze sociali», il pensiero corre in primo luogo ai partiti politici e la realtà che Schmitt designa con il termine pluralismo è soprattutto costituita dalla situazione finora definita come Stato di partiti. Come risulta dalla definizione, il presupposto decisivo per parlare di una struttura politica «pluralistica» è l’esistenza di un reale contrasto fra Stato e società. Il pluralismo consiste proprio nel fatto che un complesso di forze caratterizzato come «soltanto sociale» ed espressamente «non-statale» si impadronisce della formazione della volontà statale. Si può quindi parlare di pluralismo solo quando

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esista una sfera di vita sociale libera dallo Stato, che influisca, sotto vari profili, sulla formazione della volontà dello Stato. Il trapasso allo Stato totale si verifica invece, secondo Schmitt, quando il contrasto tra Stato e società scompare: «La società divenuta Stato è uno Stato dell’economia, della cultura, della previdenza, del benessere, dell’assistenza; lo Stato divenuto auto-organizzazione della società, e pertanto da essa non più separabile, abbraccia tutto il sociale, cioè tutto ciò che riguarda la convivenza umana. Non c’è più alcun settore rispetto al quale lo Stato possa osservare una neutralità incondizionata nel senso del non-intervento» (p. 124). In questo «enorme trapasso» allo «Stato totale», in questo superamento dello Stato liberale, non interventista, limitato a poche funzioni sociali, che lasciava ampio spazio a una società libera da esso e pertanto costituiva il concreto presupposto dell’opposizione concettuale tra Stato e società, Schmitt coglie la caratteristica decisiva del moderno Stato legislativo, includendovi anche l’odierno Reich tedesco. Che il concetto di Stato totale, com’è stato fin qui definito, non offra in nessun modo una rinnovata comprensione della realtà sociologica, ma solo una parola diversa per ciò che finora è stato chiamato azione statale espansiva e contrapposto ad azione statale limitata; che lo Stato totale del XX secolo non sia affatto una novità, come Schmitt sembra credere, dal momento che già lo Stato antico e lo Stato assoluto, cioè lo Stato di polizia del XVIII secolo, erano uno Stato totale, e pertanto non costituisce una loro progressione dialettica; che proprio lo Stato liberale del XIX secolo fosse una reazione contro lo Stato totale: tutto questo non ha più importanza. Dare nuove denominazioni a realtà conosciute da tempo è oggi un metodo prediletto e assai diffuso nella letteratura politica. Ancora più degno di nota è invece il tentativo di descrivere la concreta situazione costituzionale del Reich tedesco tramite due caratteristiche che si escludono a vicenda. Com’è possibile che questa situazione sia, per cosi dire, un punto culminante del pluralismo e, nel contempo, un trapasso allo Stato totale, se il pluralismo è possibile solo quando la formazione della volontà statale sia influenzata da una sfera sociale, non-statale, nella cui soppressione e statalizzazione consiste appunto il trapasso allo Stato totale? Questa contraddizione pone anche a Schmitt difficoltà non irrilevanti. Dei partiti politici, che esistono anche nello Stato totale, egli dice: «I partiti, in cui si organizzano i diversi interessi e le varie tendenze sociali,

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sono la stessa società divenuta Stato dei partiti…» (p. 124). Poiché nello Stato totale non c’è più una società, Schmitt deve fare in modo che la società, con i suoi partiti, divenga Stato, e cioè deve presentare i partiti come formazioni statali e non più sociali. In questo modo, però, la sua categoria di pluralismo diviene inutilizzabile. E a nulla serve cercare di rattoppare la contraddizione scrivendo: «L’esistenza di una molteplicità di simili complessi che si fanno concorrenza e si mantengono reciprocamente entro certi limiti, e quindi di uno Stato pluralistico dei partiti, impedisce che lo Stato totale si affermi con quello stesso impeto che ha già dimostrato nei cosiddetti Stati a partito unico, cioè nella Russia sovietica e in Italia» (p. 131). Dal momento che, secondo la definizione originaria, lo Stato pluralistico si distingue da quello totale perché questo assorbe la sfera sociale mentre quello no, a nulla serve quest’ulteriore tentativo di sciogliere la contraddizione: «Il trapasso allo Stato totale non viene eliminato dalla pluralizzazione, ma viene, per così dire, parcellizzato, in quanto ogni complesso organizzato di forze sociali – dall’associazione corale e dal club sportivo fino all’autodifesa armata – cerca di realizzare la totalità in sé e per sé» (p. 131). Questa totalità parcellizzata è semplicemente una contradictio in adjecto. Il motivo più profondo della contraddizione sta nel fatto che Schmitt, con i termini pluralismo e Stato totale, unisce insieme due coppie di opposti che non hanno nulla in comune – l’opposizione tra Stato e società e l’opposizione tra una formazione della volontà autocratico-accentrata e una formazione democratico-decentrata – e che nei concetti di pluralismo e Stato totale viene in primo piano ora l’una ora l’altra opposizione. Lo Stato totale, in quanto assorbe completamente la società e abbraccia tutte le funzioni sociali, può assumere tanto la forma di una democrazia, in cui il processo di formazione della volontà dello Stato è il risultato della lotta tra i partiti politici, quanto la forma di un’autocrazia, all’interno della quale la formazione di partiti politici è del tutto esclusa. Lo Stato totale può essere anche uno Stato pluralistico dei partiti, dal momento che una così ingente espansione degli scopi dello Stato è ancora conciliabile con una ripartizione molto estesa del popolo in partiti politici. Anche un ampio decentramento sarebbe compatibile con uno Stato totale inteso in questo senso, ma non con uno Stato totale nel senso di una comunità in cui la formazione della

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volontà sia accentrata, unitaria e quindi forte; impeto della volontà che, in uno Stato democratico dei partiti, viene invece spezzato. Ma perché mai Schmitt appesantisce la sua definizione di pluralismo con l’opposizione di Stato e società, che – come dimostrano il suo Stato totale pluralistico e la sua totalità parcellizzata – è del tutto irrilevante per la fattispecie da ricomprendere sotto il concetto di pluralismo e non fa che generare contraddizioni? Ma, soprattutto, perché l’opposizione di Stato e società viene completamente superata nel concetto di Stato totale, in aperta contraddizione con la realtà sociale che questo concetto deve esprimere? Non occorre essere seguaci della concezione materialistica della storia per riconoscere che uno Stato il cui ordinamento giuridico garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione, mantiene la produzione economica e la distribuzione dei prodotti essenzialmente come funzioni non statali e affida l’assolvimento di questo compito, che è forse il più importante, a un settore che può essere distinto dallo Stato solo in quanto società, non può essere uno Stato totale nel senso della definizione di Schmitt, uno Stato, cioè, che «abbraccia tutto il sociale». In questo senso, nel senso cioè di un ordinamento coercitivo che assorbe completamente la società, solo lo Stato socialista può essere uno Stato totale. Se si ritiene che l’odierno Stato capitalistico sia uno Stato totale, ma non si può dimostrare – cosa in effetti impossibile e che Schmitt non tenta neppure – che il suo ordinamento abbia già compiuto una svolta decisiva verso il socialismo di Stato, non ci si potrà neanche difendere dall’obiezione che il trapasso allo Stato totale sia solo un’ideologia borghese con cui viene dissimulata la situazione di violento contrasto in cui il proletariato o comunque una gran parte di esso si trova oggi rispetto allo Stato legislativo della democrazia parlamentare, proprio come la borghesia, all’inizio del XIX secolo, si trovava in contrasto con lo Stato totale di polizia della monarchia assoluta. Questa ideologia afferma un’unità di Stato e società che di fatto non esiste, poiché la lotta di classe non si svolge nei termini di un contrasto tra organi statali, ma come una lotta che una parte della società, che non sta nello Stato, perché non s’identifica con esso, intraprende contro un’altra parte della società che è lo Stato perché e in quanto il suo ordinamento garantisce gli interessi di questa parte. Si suppone che col trapasso allo Stato totale, il contrasto tra Stato

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e società perda il suo significato. Ma dal punto di vista del proletariato e di una teoria sociale proletaria, tale contrasto ha oggi esattamente la stessa importanza che aveva un tempo dal punto di vista della borghesia e di una dottrina borghese dello Stato e della società, ed è quindi attuale ora come allora11.  I concetti di pluralismo e di Stato totale non potrebbero quindi resistere a una critica sociologica. Il loro significato diviene chiaro non appena si presti attenzione alla marcata valorizzazione che li caratterizza. Il pluralismo è una situazione in cui la società spinge indietro lo Stato, in cui tendenze ostili minacciano l’esistenza dello Stato, in quanto ne mettono in pericolo l’unità; pluralismo significa «potere di più gruppi sociali sulla formazione della volontà statale» (p. 113), «dissoluzione» del concetto di Stato (p. 107), «divisione dello Stato» (p. 99), «disgregazione dell’unità dello Stato e della costituzione» (p. 100). Il trapasso allo Stato totale è invece uno sviluppo nella direzione opposta, è la vittoria dello Stato sulla società a esso ostile, è la 11

Se l’essenza del «pluralismo» – come Schmitt sottolinea a p. 113 – è caratterizzata dall’«opposizione a una piena e compatta unità dello Stato» e se in questo concetto – secondo la definizione modificata di p. 124 – rientra l’opposizione tra Stato e società (anche come formazioni statali, i partiti politici in lotta rappresentano un elemento pluralistico), il federalismo di uno Stato federale deve ritenersi solo una pluralistica frantumazione dell’unità dello Stato. Ciò vale anche per lo smembramento dello Stato mediante una costituzione corporativa. Anche per ciò che riguarda la richiesta di una costituzione economica, di uno Stato dei ceti, dei sindacati o dei consigli, Schmitt ammette che «la sua attuazione non rafforzerebbe l’unità della volontà statale, ma la metterebbe soltanto in pericolo; i contrasti economici e sociali non sarebbero risolti e superati, ma verrebbero ancora di più allo scoperto e diverrebbero più violenti, poiché i gruppi in lotta non sarebbero più costretti a passare per le elezioni generali e la rappresentanza politica» (p. 153). Ciò significa esattamente che il sistema corporativo viene rifiutato in quanto pluralistico. Del tutto diversa è però la sua posizione dinanzi al federalismo dello Stato federale. Qui Schmitt concede solo la «possibilità» che pluralismo e federalismo – che, secondo la definizione modificata di pluralismo, può essere in effetti solo un caso particolare di esso e per giunta particolarmente pericoloso – «si connettano». Poi però fa marcia indietro e concede che il federalismo sia «un contrappeso pur sempre particolarmente forte alle formazioni di potere pluralistiche e ai metodi della loro politica di partito» (p. 148). In un altro contesto si accenna al fatto «che la costituzione si attiene al carattere statale dei Länder» e «che il federalismo può essere un serbatoio di forze statali» (p. 165). Non c’è quindi da meravigliarsi se il federalismo viene poi giustificato proprio come «antidoto contro i metodi di un pluralismo partitico» (p. 148). Qui pluralismo significa qualcosa di ancora diverso; e, d’altra parte, questa giustificazione del federalismo semplicemente ignora che, con una moltiplicazione del sistema parlamentare come quella che la costituzione federale comporta, è connessa anche una moltiplicazione di quel pluralismo, cui pertanto tutto può fungere da contrappeso tranne che il federalismo!

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situazione di garantita unità dello Stato. Contro le forze pluralistiche ostili allo Stato e che ne minacciano l’unità si cercano «rimedi» (pp. 149  sgg.) e ci si pone la domanda se sia «legittimo, appellandosi al principio di associazione tipicamente germanico, spingere ancora oltre questo sviluppo verso il pluralismo» (p. 165). E Schmitt dà alla domanda una risposta decisamente negativa. Il suo giudizio di valore viene allo scoperto quando afferma che «il sistema pluralistico, con i suoi continui accordi di partito e di frazione, trasforma lo Stato in una giustapposizione di compromessi e contratti mediante i quali i partiti che di volta in volta partecipano all’accordo di coalizione si spartiscono tutti gli incarichi, le rendite e i vantaggi secondo il criterio della percentuale, scambiando magari per giustizia la parità che osservano nel far questo» (p. 168). Alla fine, il pluralismo viene dichiarato addirittura «incostituzionale» (p. 199). La categoria di pluralismo può quindi servire ad accantonare quella soluzione del problema della garanzia della costituzione che consiste nell’introduzione di una giurisdizione costituzionale; e lo Stato totale può servire per dare un fondamento a quella soluzione che viene garantita come giusta in quanto assicura l’unità dello Stato minacciata, anzi distrutta, dal contrasto tipicamente pluralistico di Stato e società. ix. Schmitt ritiene che la giurisdizione costituzionale abbia un carattere pluralistico perché si svolge nella forma di un processo in cui vengono fatti valere diritti soggettivi alla costituzione o al potere statale (p. 109). Qualificare tutto questo come una dissoluzione del concetto di Stato è completamente privo di fondamento. Se la costituzione di uno Stato federale legittima tanto l’unione quanto gli Stati-membri ad impugnare davanti a un tribunale costituzionale centrale le leggi degli uni o dell’altra che violano il principio di competenza, se autorizza i tribunali o altre autorità a far valere l’incostituzionalità delle norme che sono chiamati ad applicare, e anche se introduce un’actio popularis per annullare ab origine atti incostituzionali, in questo modo non vengono affatto creati diritti soggettivi nel senso di diritti rivolti contro lo Stato perché rivolti contro il diritto oggettivo; vale a dire, nel senso giusnaturalistico di diritti innati, indipendenti dall’or-

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dinamento oggettivo dello Stato e del diritto, che esso sia tenuto a rispettare, ma che non ha conferito e che pertanto non può abrogare. Il diritto soggettivo, che non consiste se non nella legittimazione processuale, nella possibilità di attivare presso un’autorità centrale un procedimento che ha come scopo l’annullamento di un atto incostituzionale, la rimozione di un illecito, un tale diritto soggettivo non è altro che un espediente tecnico a garanzia dell’ordinamento statale e quindi proprio l’opposto di ciò che si può chiamare la «dissoluzione pluralistica dello Stato» (p. 107). Allo stesso modo si potrebbe parlare di una «disgregazione pluralistica» dell’unità dello Stato a proposito della magistratura inquirente e giudicante, dal momento che nel processo penale lo Stato si scinde in accusatore e giudice. Il trapasso allo Stato totale sortisce effetti innanzitutto sulla giurisdizione costituzionale, perché essa viene intesa come il tentativo di impedire un tale trapasso e, pertanto, il processo di rafforzamento e consolidamento dello Stato, la sua vittoria sulla società. «Non c’è da meravigliarsi che la difesa da una tale espansione dello Stato» – e si intende qui il trapasso allo Stato economico, che rappresenta la fase decisiva lungo la via del trapasso allo Stato totale – «appaia anzitutto come difesa da quell’attività statale che in un simile momento determina proprio il modo di essere dello Stato, e pertanto come difesa dallo Stato legislativo. Vengono quindi richieste in primo luogo garanzie contro il legislatore. In questo modo si spiegano anche i primi non chiari tentativi di trovare un rimedio che […] si aggrappavano alla giurisdizione per ottenere un contrappeso a un legislatore sempre più potente e invadente. Dovevano risolversi in vuoti formalismi […]. Il loro vero errore stava nel fatto che essi potevano opporre al potere del moderno legislatore solo una giurisdizione che era vincolata da norme precise, emanate proprio da questo legislatore, oppure poteva contrapporgli solo principi indeterminati e controversi, con il cui aiuto non era possibile fondare un’autorità che si trovasse al di sopra del legislatore» (p. 128). Ma chi mai in tutto il mondo si è aspettato che un tribunale costituzionale si opponesse all’allargamento della competenza legislativa? Forse che l’espansione del potere legislativo si può realizzare soltanto attraverso violazioni della costituzione? Un’interpretazione più falsa e maliziosa del controllo di costituzionalità difficilmente sarebbe possibile. E quando Schmitt prosegue: «In una situazione così mutata e considerando un simile allargamento

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dei compiti e dei problemi dello Stato, il governo può forse offrire un rimedio, ma non certo la giurisdizione», preparando così la richiesta che non un tribunale, ma il governo divenga il custode della costituzione, proprio in questo contesto non si possono chiudere gli occhi dinanzi al fatto che l’espansione legislativa si attua, in grande misura, anche mediante il potere di ordinanza del governo, e in special modo quando, in base a un’interpretazione dell’art. 48 comma 2, vivamente sostenuta proprio da Schmitt, il potere di ordinanza del governo si sostituisce al potere legislativo del parlamento. Un tribunale costituzionale, del resto, è uno strumento del tutto inutile per impedire il trapasso allo Stato totale. Ma non si può screditare un’istituzione partendo da uno scopo che le è del tutto estraneo e affermando poi che non è in grado di conseguirlo. Un effetto non irrilevante della dottrina dello Stato totale consiste nel fatto che essa sminuisce fortemente il valore di un argomento fondamentale che milita per l’affidamento del controllo a un tribunale indipendente e non al governo. Poiché la costituzione ripartisce, in sostanza, il potere tra due organi, parlamento e governo (dove per governo deve intendersi l’organo composto dal capo dello Stato e dai ministri che ne controfirmano gli atti), già solo per questo motivo tra parlamento e governo non può che esserci un antagonismo permanente. E il pericolo di una violazione della costituzione nasce soprattutto dall’eventualità che uno dei due organi oltrepassi i limiti che la costituzione gli ha assegnato. Dal momento che, proprio nei casi più importanti in cui la costituzione viene violata, parlamento e governo sono parti in causa, conviene che la controversia sia decisa da una terza istanza che stia al di fuori di questo contrasto e che non partecipi in alcun modo all’esercizio del potere che la costituzione ripartisce essenzialmente tra parlamento e governo. Che questa istanza abbia per questo motivo un certo potere, è inevitabile. Ma c’è un’enorme differenza tra l’affidare a un organo nient’altro che il potere del controllo di costituzionalità e il rafforzare il potere di una delle due principali parti in causa con questa ulteriore attribuzione. Il vantaggio fondamentale di un tribunale costituzionale sta in ciò, che esso, non partecipando fin dal principio all’esercizio del potere, non si pone necessariamente in contrasto col parlamento o col governo. Secondo la dottrina dello Stato totale, invece, non esiste alcun contrasto tra parlamento e governo e da ciò deriva – senza che ci

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sia bisogno di dirlo espressamente e senza che pure Schmitt lo dica espressamente – che se il governo – cioè il capo dello Stato insieme con i ministri – diviene custode della costituzione per difenderla dalle leggi incostituzionali, il controllo di costituzionalità non è affidato a un organo che sia parte della controversia. L’eliminazione del contrasto tra governo e parlamento, decisivo per la soluzione del problema della garanzia della costituzione, risulta dal fatto che Schmitt indica tale contrasto solo come conseguenza o variante del dualismo di Stato e società, destinato a sparire col trapasso allo Stato totale: «Questa distinzione (tra Stato e società) si trova alla base di tutte le importanti istituzioni e normazioni di diritto pubblico che si sono sviluppate in Germania nel corso del XIX secolo e che costituiscono gran parte del nostro diritto pubblico. Che, in generale, lo Stato della monarchia costituzionale tedesca, con le sue contrapposizioni di principe e popolo, corona e parlamento, governo e rappresentanza popolare, sia stato costruito dualisticamente, è solo espressione del più generale e fondamentale dualismo di Stato e società. La rappresentanza popolare, il parlamento, il corpo legislativo, era concepito come lo scenario in cui la società compariva e affrontava lo Stato» (pp. 116 sgg.). «Questo Stato che, in un senso liberale e non interventista, era essenzialmente neutrale nei riguardi della società e dell’economia […] si trasformava tuttavia dalle fondamenta, proprio nella stessa misura in cui quella costruzione dualistica di Stato e società, governo e popolo, perdeva la sua tensione e lo Stato legislativo veniva a compimento. Lo Stato, infatti, ora diviene infatti auto-organizzazione della società. Cade pertanto, come accennato, la distinzione finora sempre presupposta tra Stato e società, governo e popolo, ragion per cui tutti i concetti e gli istituti (leggi, bilancio, autogoverno) costruiti su tale presupposto diventano problemi nuovi» (p. 123). Nello Stato totale, che abbraccia tutto il sociale, non può esserci nessun contrasto tra governo e parlamento, poiché tale contrasto sparisce necessariamente insieme a quello tra Stato e società. Schmitt però non trae espressamente questa conclusione, mentre afferma soltanto, apertis verbis, che col trapasso allo Stato totale viene meno la distinzione tra Stato e società e quindi la distinzione tra governo e popolo. Quando caratterizza lo Stato totale, egli non parla del dualismo tra governo e parlamento, che nell’analisi della monarchia costituzionale del XIX secolo descrive

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come semplice variante del contrasto fra Stato e società. Lascia che sia il lettore a proseguire in questa direzione. Dice però abbastanza chiaramente che «tutte le contrapposizioni finora usuali, legate al presupposto dello Stato neutrale, che compaiono in seguito alla distinzione tra Stato e società e che sono soltanto applicazioni e trascrizioni di questa distinzione, vengono meno. Separazioni antitetiche, come Stato ed economia, Stato e cultura […] Stato e diritto, politica e diritto […] perdono il loro significato e diventano vuote» (p. 124). A queste «separazioni antitetiche» appartiene, tuttavia, secondo le sue precedenti osservazioni, il contrasto tra governo e parlamento. Non occorre un acume particolare per mostrare che, nello Stato moderno, il contrasto tra governo e parlamento è sparito tanto poco quanto quello tra Stato e società, con cui peraltro non si identifica affatto. Esso non ha perduto il suo senso, ma lo ha solo modificato: non esprime più il contrasto tra i ceti popolari rappresentati dalla maggioranza parlamentare e i gruppi d’interesse che operano attraverso il monarca e il suo governo, ma il contrasto in parlamento tra una minoranza e una maggioranza, che ha nel governo il proprio fiduciario. Questo però non è affatto l’unico significato che il contrasto tra parlamento e governo può avere oggi. Esso può assumere un altro significato quando siano in carica un governo di minoranza o un capo dello Stato eletto solo da una minoranza del popolo, e specialmente quando un governo, poiché non ha alle spalle una maggioranza parlamentare, governa incostituzionalmente senza parlamento. In un momento in cui il governo del Reich si vede costretto a minacciare le proprie dimissioni per il caso in cui il parlamento o una sua commissione, in accordo con il desiderio della maggioranza parlamentare, si riuniscano, è difficile accettare le ultime conseguenze della dottrina dello Stato totale e ritenere che governo e parlamento siano una separazione antitetica, che col trapasso allo Stato legislativo ha perduto il suo significato ed è diventata inutile. x. Del resto, anche per un lettore molto attento, le vie che dallo Stato totale conducono al capo dello Stato come custode della costituzione non sono facili da trovare. Sembra che l’effettiva unità dello Stato

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totale costituisca una sorta di fondamento sociologico per un’altra unità, e cioè per quella presupposta dal preambolo della costituzione di Weimar, la quale – se dev’essere qualcosa di più dell’unità giuridica del popolo dello Stato che ogni costituzione stabilisce – è soltanto un’altra versione della medesima ideologia. «La vigente costituzione del Reich si attiene all’idea democratica dell’omogenea e inscindibile unità di tutto il popolo tedesco che, in forza del proprio potere costituente, con una decisione politica positiva, cioè con un atto unilaterale, si è dato questa costituzione. In questo modo, tutte le interpretazioni e applicazioni della costituzione di Weimar, che si sono sforzate di fare di essa un contratto, un compromesso o qualcosa di simile, sono solennemente respinte come una violazione dello spirito della costituzione» (p. 98). Il legame intrinseco – che Schmitt non rende esplicito da nessuna parte – esistente tra la costruzione dello Stato totale e l’«omogenea, inscindibile unità di tutto il popolo tedesco», risulta chiaro dal fatto che il pluralismo contrasta tanto con questa quanto con quell’unità che esprime lo Stato totale. Il pluralismo è espressamente caratterizzato dal «contrasto con una piena e compatta unità dello Stato» (p. 113). E come il pluralismo, con il contrasto di Stato e società che in esso si esprime, attenua l’«impeto» dello Stato totale, «parcellizza» la totalità, cosi l’«elemento pluralistico» che si trova «nella realtà della nostra odierna situazione costituzionale» (p. 98) mette in pericolo questa «omogenea, inscindibile unità» alla quale la costituzione di Weimar «si attiene». È principalmente su questa unità che Schmitt fonda la sua interpretazione costituzionale. Questa unità non è un mero postulato etico-politico, come di solito viene presentata nei preamboli delle costituzioni, ma una realtà sociale: a condizione che il contrasto pluralistico tra Stato e società, che la mette in pericolo, sia realmente eliminato e lo Stato totale che elimina tale contrasto sia divenuto realtà. Anche la realtà è dipinta come scaduta in una disgregazione pluralistica. Ciò però non impedisce di accusare «gli interessati a questo pluralismo» (o i teorici che li favoriscono?) di «velare la realtà con l’aiuto del cosiddetto formalismo» (p. 101). Questa «omogenea, inscindibile unità di tutto il popolo tedesco», richiamata dal preambolo della costituzione, è il supporto principale della tesi per cui il «custode della costituzione» è il presidente del Reich. Dunque, dal fatto «che la costituzione di Weimar è una deci-

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sione politica dell’unitario popolo tedesco in quanto titolare del potere costituente» – in realtà questa costituzione è deliberazione di un parlamento, la cui identità con l’«unitario popolo tedesco» può essere affermata solo mediante la finzione della rappresentanza – Schmitt conclude che «alla questione del custode della costituzione si può dare una risposta diversa da quella che può offrire una fittizia forma giudiziaria» (p. 109). La soluzione è che il presidente del Reich sia il custode della costituzione: eletto da tutto il popolo, è infatti chiamato, «in qualità di contrappeso al pluralismo dei gruppi di potere sociali ed economici, a preservare l’unità del popolo come totalità politica» e, mediante l’indizione del referendum popolare, ha il potere «di collegarsi direttamente con la volontà generale del popolo tedesco», «di agire come custode e garante dell’unità e della totalità costituzionali del popolo tedesco» (p. 242). Più tardi dovremo tornare sul fatto che il presidente del Reich viene qui definito «custode della costituzione» in un senso che non si potrà mai applicare a un tribunale costituzionale e che non è stato mai adoperato da nessuno, per cui contrapporre il presidente del Reich a un tribunale costituzionale ha tanto poco senso quanto affermare che, poiché l’esercito è la migliore difesa dello Stato, non abbiamo bisogno di ospedali. Qui basti dire che quando la costituzione istituisce un tribunale costituzionale, questo non è una «fittizia forma giudiziaria» ma un organo reale e che, se c’è qualcosa che va ritenuto fittizio, si tratta proprio di quella unità del popolo che Schmitt – su una presunta base costituzionale – «presuppone» come realmente data, dichiarandola però, nel contempo, eliminata dall’attuale sistema pluralistico, così da poter poi presentare il capo dello Stato come rimedio per questa situazione e come restauratore di questa unità. Quella di rendere visibile all’esterno l’unità dello Stato è senza dubbio la funzione che tutte le costituzioni che prevedono un tale organo affidano al capo dello Stato. Certamente, come dice Schmitt, «la posizione del capo dello Stato è strettamente legata alla rappresentazione dell’unità politica nella sua totalità» (p. 239). Ma questo, per una conoscenza oggettiva e libera da ogni ideologia, significa soltanto che la funzione del capo dello Stato è quella di esprimere simbolicamente l’esigenza irrinunciabile di un’unità più che formale, di un’unità materiale dello Stato. Si può dire che questa sia addirittura la funzione principale di quell’organo che le varie

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costituzioni chiamano capo dello Stato. Essa consiste non tanto nelle competenze materiali attribuite a quest’organo e che comunque esso deve esercitare non da solo ma con i ministri, in quanto parte non indipendente di un organo composto (che non è affatto l’organo supremo, ma solamente uno degli organi supremi dello Stato), quanto nella sua denominazione di capo dello Stato, imperatore, re, presidente e nei privilegi onorifici ad esso conferiti. L’importanza politica di questa funzione simbolica non dev’essere affatto sottovalutata. Significa tuttavia confondere l’ideologia con la realtà voler vedere – come fa Schmitt sulla scorta della dottrina della monarchia costituzionale – nell’istituto del capo dello Stato non solo il simbolo di un’unità dello Stato postulata sul piano etico-politico, ma il prodotto o il produttore di un’unità realmente data, nel senso di una effettiva solidarietà d’interessi. Il vero significato della dottrina del pouvoir neutre del monarca, che Schmitt trasferisce al capo dello Stato repubblicano, consiste infatti nel mascherare l’effettivo e radicale conflitto di interessi che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancora più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro. La formula di questa finzione, nella sua versione pseudodemocratica, suona all’incirca così: il popolo che forma lo Stato è un collettivo unitario omogeneo e ha quindi un interesse collettivo unitario che si esprime in una volontà collettiva unitaria. Questa volontà collettiva che si situa al di là dei contrasti di interesse e quindi al di sopra dei partiti politici – essa è la vera volontà dello Stato – non è creata dal parlamento, che rappresenta invece lo scenario dei conflitti di interesse, dello smembramento partitico (Schmitt direbbe «pluralistico»). Ne è artefice o strumento il capo dello Stato. Il carattere ideologico di questa interpretazione è palese. Si trova già in contraddizione con il fatto che la costituzione lega gli atti del capo dello Stato alla collaborazione dei ministri responsabili di fronte al parlamento. Del resto, se anche esistessero atti autonomi del capo dello Stato, resterebbe pur sempre un mistero come sia possibile realizzare in questi atti un’armonia d’interessi che altrimenti non esiste, l’«oggettivo» interesse dello Stato, che non è l’interesse di questo o di quel gruppo particolare. Anche un referendum popolare – indetto dal capo dello Stato – esprime, nella migliore delle ipotesi, la volontà di una maggioranza, che solo una tipica finzione democratica può spacciare per la «volontà generale del popolo».

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Che un capo dello Stato, nella misura in cui è indipendente da gruppi di interesse in conflitto, perseguirà nei propri atti una linea mediana, cioè la linea del compromesso, si comprende facilmente. Questa è infatti la condotta che, di regola, garantisce la sua posizione. Ma il suo potere neutrale deve consistere in qualcosa di più che nella possibilità di comporre interessi. E proprio questa possibilità è notevolmente limitata dal fatto, già accennato, che egli non può agire senza la collaborazione di ministri che dipendano dalla maggioranza parlamentare. Se si considera, in modo del tutto realistico e senza infingimenti ideologici, la «neutralità» del capo dello Stato dal punto di vista della possibilità, garantita dalla sua indipendenza dai partiti politici, di influenzare la formazione della volontà dello Stato nel senso di un compromesso, allora si deve ammettere che un monarca ereditario offre di più di un presidente eletto e rieleggibile. L’elezione del capo dello Stato, che – inevitabilmente – si svolge sotto la pressione dei partiti politici, è un metodo certamente democratico, ma non ne garantisce l’indipendenza in modo particolare. Concludere, dal fatto che il capo dello Stato è eletto da tutto il popolo – cioè in realtà nominato da una maggioranza e, in alcune circostanze, persino da una minoranza del popolo in lotta con altri gruppi –, che esso esprimerà la volontà collettiva dell’intero popolo, è quindi discutibile non solo perché una tale volontà collettiva non esiste, ma anche perché proprio l’elezione non offre alcuna garanzia che il capo dello Stato assolva una funzione di composizione degli interessi in conflitto. Se tale funzione, di regola, ha effettivamente luogo, ciò accade nonostante tale metodo di nomina. Vedere nell’elezione, come fa Schmitt (p. 231), una garanzia d’indipendenza è possibile solo a patto di chiudere gli occhi davanti alla realtà. E neppure è lecito sopravvalutare i consueti mezzi che le costituzioni delle repubbliche democratiche approntano a garanzia dell’indipendenza del capo dello Stato eletto, come per esempio una più lunga durata in carica e una revoca più difficile, tanto più che essi vengono in parte paralizzati dalla possibilità, prevista dalla costituzione, di una rielezione. E nemmeno la clausola di incompatibilità ha tutta l’importanza che Schmitt le attribuisce, soprattutto perché è vietata l’appartenenza a corpi legislativi ma non a organizzazioni politiche: divieto che in ogni caso ha ben scarso rilievo pratico. In particolare, non vi sono ragioni sufficienti per ritenere l’indipendenza

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del capo dello Stato eletto più solida o meglio garantita di quella del giudice o del funzionario. Non è possibile, nello specifico, svalutare la neutralità del giudice di professione a vantaggio di quella del capo dello Stato con l’argomento che «i detentori effettivi del potere politico possono influenzare facilmente la composizione degli uffici giudiziari e la nomina degli esperti competenti. Quando questo avviene, la risoluzione in forma giudiziaria o tecnica delle controversie diventa un comodo strumento della politica, e ciò è proprio il contrario di quello che ci si era originariamente proposti con la neutralizzazione» (p. 167). Ora, i giudici sono di regola nominati dal capo dello Stato: non è questi un effettivo detentore del potere politico? E se è vero che soltanto i partiti politici detengono effettivamente il potere politico, allora l’abolizione della neutralità del giudice non presuppone l’abolizione della neutralità di quell’istanza che nomina il giudice? «Dal punto di vista pratico – dice Schmitt – è pur sempre un freno notevole ai metodi partitici di assegnazione delle cariche consentire la nomina dei funzionari non direttamente al compagno di partito divenuto ministro ma a un capo dello Stato indipendente dal parlamento, cioè da un partito» (p. 229). Ma dov’è la garanzia che non venga eletto un compagno di partito come capo dello Stato e da quando in qua i partiti politici non hanno, anche fuori dal parlamento, la possibilità di influenzare gli organi eletti da loro o grazie a loro? Se la neutralità garantita dall’indipendenza costituisce il presupposto essenziale per la funzione di custode della costituzione, allora il capo dello Stato non è per lo meno superiore in nulla a un tribunale indipendente; in questo modo però non si può evitare di tralasciare un fatto fondamentale, che senz’altro non va sopravvalutato, ma che tuttavia è capace di motivare una certa superiorità del tribunale, e cioè che il giudice è condotto alla neutralità dalla sua stessa etica professionale. Poiché Schmitt non può dimostrare che il capo dello Stato è più indipendente e neutrale degli organi giurisdizionali e della burocrazia, alla fine dichiara: «La giurisdizione e la burocrazia di carriera vengono gravate in modo insostenibile se a loro si addossano tutte le decisioni e i compiti politici per i quali si desidera indipendenza e neutralità rispetto ai partiti politici» (p. 235). Questo passaggio dalla qualità alla quantità è però del tutto inammissibile e non prova assolutamente nulla. Non si può paragonare la giurisdizione a un cammello che stramazzerà al suolo qualora lo si carichi anche della soma

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del controllo di costituzionalità. Qui non è in discussione la giurisdizione come tale, ma un singolo tribunale. I suoi compiti non sovraccaricano la giurisdizione, che non esiste come quantità, essendo qualcosa di astratto che come tale non può essere sovraccaricato, ma solo questo concreto tribunale, del quale peraltro Schmitt ha in precedenza dimostrato che non è autorità giurisdizionale. E si tratta solo di vedere se è più indipendente e neutrale un tale tribunale oppure il capo dello Stato. Ricorrendo all’immagine impropria di un sovraccarico della giurisdizione, Schmitt tenta invano di evitare di ammettere che non è riuscito a dimostrare che il capo dello Stato è più idoneo di un tribunale al compito di custode della costituzione, poiché possiede la qualità dell’indipendenza e quindi della neutralità in misura maggiore di quest’ultimo. Anzi, proprio la formula con cui Schmitt stesso definisce l’essenza di quella neutralità che deve costituire il presupposto dell’ufficio di custode della costituzione è modellata precisamente su un tribunale costituzionale e si rivolge direttamente contro il capo dello Stato. «In uno Stato di diritto con poteri separati – egli dice – non appare conseguente affidare questa ulteriore funzione (quella di custode della costituzione) a uno dei poteri esistenti, poiché altrimenti esso acquisterebbe preponderanza sugli altri e potrebbe sottrarsi al controllo. In tal modo diverrebbe il signore della costituzione. È quindi necessario porre, accanto agli altri poteri, uno speciale potere neutrale e collegarlo e bilanciarlo con essi mediante specifiche attribuzioni» (p. 203). Non è infatti il capo dello Stato uno «dei poteri esistenti», specialmente in una costituzione che congiunge l’elemento parlamentare a quello plebiscitario e che ripartisce il potere politico tra parlamento e presidente del Reich (unitamente ai ministri)? E ciò proprio dal punto di vista di una interpretazione costituzionale che si è sforzata con ogni mezzo di spostare il centro di gravità del potere verso il capo dello Stato! È di un tribunale chiamato a esercitare nient’altro che un controllo di costituzionalità o è invece del capo dello Stato che si può dire che è posto, come speciale potere neutrale, «accanto agli altri poteri»? È di questo tribunale o è invece del capo dello Stato che si deve dire che – qualora sia chiamato alla funzione di custode della costituzione – è incaricato di questa funzione come «ulteriore» e acquista in tal modo una «preponderanza» rispetto agli altri poteri istituiti dalla costituzione, così che «potrebbe sottrarsi al controllo»? Neppure l’ideologia del pouvoir neutre del monarca, di

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Benjamin Constant, potrebbe dissimulare questa questione tanto da rendere seriamente dubbia la risposta. xi. Lo scritto di Schmitt non fa che confermare, piuttosto che contraddire, l’idea che il capo dello Stato, nel contesto di una costituzione come quella di Weimar, non sia l’organo più appropriato alla funzione di controllo della costituzione e che, in particolare, quanto a indipendenza e neutralità, non sia affatto preferibile a un tribunale costituzionale. Ma Schmitt afferma non solo che il capo dello Stato è l’organo più adatto a fungere da custode della costituzione ma che, secondo la vigente costituzione, tale compito appartiene al presidente del Reich e solo a lui (pp. 240 sgg.). Ora nessuno negherà che egli sia anche questo, che funga da garante della costituzione accanto alla corte costituzionale istituita dall’art. 19 oppure all’altro tribunale qui menzionato, così come pure accanto ai tribunali civili, penali e amministrativi che esercitano un potere di controllo materiale sulle leggi, in quanto ha il compito di esaminare, insieme a questi organi, la costituzionalità delle leggi e di altri atti. Egli svolge tale funzione quando, ai sensi dell’art. 70, rifiuta di promulgare una deliberazione legislativa in contrasto con la costituzione o quando ai sensi dell’art. 48 comma 1, con l’aiuto della forza armata, costringe un Land che violi la costituzione all’adempimento dei propri obblighi; in base al presupposto che non si limiti a eseguire la sentenza di un tribunale che ha accertato la violazione della costituzione in un procedimento oggettivo, fungendo quindi soltanto da organo esecutivo di un custode della costituzione (come fa, per esempio, il presidente federale ai sensi dell’art. 146 della costituzione austriaca)12. Dichiarare il presidente del Reich unico custode della costituzione contraddice alle più chiare disposizioni costituzionali. Schmitt afferma incidentalmente: «Quando nelle costituzioni tedesche del XIX secolo, accanto ad altre garanzie, si prevede una speciale corte per la “tutela giudiziaria della costituzione”, trova espressione la semplice verità che tale tutela 12 Cfr. in proposito, H. Kelsen, L’esecuzione federale, in Id., La giustizia costituzionale, cit., pp. 72 sgg.

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può costituire soltanto uno degli istituti posti a presidio e garanzia della costituzione e che sarebbe sbrigativa superficialità dimenticare, a questo proposito, i limiti assai stretti di ogni giurisdizione e i molti altri tipi e metodi di garanzia della costituzione» (p. 23). Ma poiché nessuno ha mai affermato che il tribunale costituzionale è l’unico custode della costituzione, si può dire a maggior ragione che quando, nella costituzione di Weimar, il presidente del Reich è previsto come garante della costituzione accanto ad altre garanzie, viene a espressione la semplice verità che questa garanzia può costituire soltanto uno degli istituti posti a difesa della costituzione e che sarebbe sbrigativa superficialità, quanto al presidente del Reich come garante della costituzione, dimenticare i limiti assai stretti di questo tipo di garanzia e i molti altri tipi e metodi di garanzia della costituzione! La tesi che unicamente il presidente del Reich sia il custode della costituzione può apparire giustificata solo se al concetto di custode della costituzione – cioè di un organo che deve assicurare la costituzionalità di alcuni atti dello Stato reagendo in un certo modo alle violazioni della costituzione – si attribuisce un significato che non ha mai avuto e che non è lecito attribuirgli, se è vero che il presidente del Reich, in quanto custode della costituzione, deve essere contrapposto a un tribunale costituzionale e se Schmitt può dire: «Prima quindi di istituire, per le questioni e i conflitti eminentemente politici, un custode della costituzione e di sovraccaricare e mettere in pericolo, a causa di tale politicizzazione, la giurisdizione, ci si dovrebbe anzitutto ricordare del contenuto positivo della costituzione di Weimar e del suo sistema di legislazione costituzionale. Secondo il presente contenuto della costituzione di Weimar, un custode della costituzione esiste già ed è il presidente del Reich» (p. 240). Dovrebbe già colpire il fatto che fra le prerogative del presidente del Reich, in cui si estrinseca la sua funzione di custode della costituzione, Schmitt annoveri anche quelle che con la garanzia della costituzione non hanno il benché minimo rapporto. Egli scorge infatti l’esercizio di tale funzione più o meno in tutti i compiti che la costituzione affida al presidente: la competenza prevista dagli artt. 45 e sgg., cioè la rappresentanza nei rapporti internazionali, la dichiarazione di guerra, la conclusione di pace, la nomina dei funzionari, il comando supremo delle forze armate, etc., lo scioglimento del Reichstag ai sensi dell’art. 25, l’indizione di referendum popolare ai sensi dell’art. 73 e, in particolare,

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tutto ciò che il capo dello Stato (insieme con i ministri) è autorizzato a fare dall’art. 48 (e non solo dal suo primo comma). Ora, se il presidente «custodisce» la costituzione esercitando tutte queste funzioni che essa gli affida, «custode della costituzione» non significa altro se non esecutore della costituzione. Ma allora il Reichstag e gli altri organi costituzionali sono «custodi della costituzione» tanto quanto lo è il presidente e, nello stesso senso, si potrebbero definire «custodi» delle leggi i tribunali e le autorità amministrative. Schmitt ritiene poi di poter riscontrare la funzione di garanzia costituzionale anche nella formula del giuramento contenuta nell’art. 42, dal momento che definisce il presidente custode della costituzione anche perché egli giura che «tutelerà la costituzione». Ma in tale articolo non si trova scritto – come citato da Schmitt – «tutelare la costituzione», ma «tutelare la costituzione e le leggi del Reich» e ciò significa solo eseguire la costituzione e le leggi, esercitare le proprie funzioni in conformità alla costituzione e alle leggi. In questo senso, il presidente è tanto «custode» della costituzione quanto delle leggi. L’argomentazione di Schmitt, infatti, finisce per qualificare come «custode della costituzione» la funzione di uno solo degli organi creati dalla costituzione per la propria immediata esecuzione, la posizione di uno solo degli organi portanti della costituzione, e cioè il presidente del Reich – più precisamente, il governo composto dal presidente e dai ministri – di contro alle funzioni di tutti gli altri organi costituzionali, in particolare del Reichstag. In questo modo egli non solo opera un travisamento, ma suscita anche l’impressione che un controllo di costituzionalità sugli atti di quest’organo – e un tale controllo, nella misura in cui la sua funzione non è essa stessa di controllo, è del tutto possibile – sarebbe quanto meno superfluo. «Custode della costituzione», nel senso originario del termine, significa garante della costituzione. Custodire il «custode» sarebbe il primo passo di un regressus ad infinitum privo di senso sul piano della politica del diritto. Solo che Schmitt, nel concetto di custode della costituzione da lui utilizzato, comprende funzioni del tutto diverse da quelle del controllo di costituzionalità, e anzi proprio su queste funzioni pone l’accento. Il vero significato che Schmitt collega al concetto di «custode della costituzione» da lui introdotto nella discussione sulla garanzia della costituzione, quello che soprattutto gli sta a cuore, emerge nel modo più chiaro e preciso in quel punto del suo scritto in cui crede

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di aver assestato al concetto di controllo di costituzionalità il colpo di grazia, ovvero dove liquida questo istituto come antidemocratico. Egli argomenta che «si abusa dei concetti di forma giudiziaria e di giurisdizione, come pure della garanzia istituzionale della burocrazia tedesca, se in tutti i casi in cui, per motivi pratici, appaiono opportune o necessarie l’indipendenza e la neutralità, si vuole subito introdurre un tribunale composto da giuristi di professione e una forma giudiziaria» (p. 235). E dopo aver formulato quell’osservazione che abbiamo già respinto in precedenza, che cioè in tal modo la «giurisdizione» viene «sovraccaricata», vibra il colpo più duro che, dal punto di vista del principio democratico – che Schmitt accetta – si possa vibrare contro la richiesta, avanzata dalla politica del diritto, di creare un tribunale costituzionale: «L’introduzione di un simile custode della costituzione – si noti: anche un tale tribunale costituzionale sarebbe un «custode della costituzione», per quanto molto peggiore del presidente, e Schmitt usa il concetto di custode della costituzione generalmente anche in questo senso! – «sarebbe anche in diretto contrasto con la coerenza politica del principio democratico». E perché mai un tribunale costituzionale dovrebbe essere un custode antidemocratico della costituzione, meno democratico del capo dello Stato? Il carattere democratico di un tribunale costituzionale, non diversamente da quello del capo dello Stato, può solo dipendere dal modo in cui viene nominato e dalla sua posizione giuridica. Se si vuole dare a questo tribunale una struttura democratica, nulla vieta che venga eletto dal popolo, come accade per il capo dello Stato, e che i suoi membri, proprio come quest’ultimo, non siano funzionari di professione; anche se può restare aperta la questione se questo modo di creare e di qualificare l’organo sia poi il più opportuno in rapporto alla sua funzione. Ma considerazioni analoghe vanno fatte anche per il capo dello Stato. In ogni caso, non si può affermare che un tribunale non possa essere strutturato altrettanto democraticamente quanto un altro organo. Quando Schmitt dice che «dal punto di vista democratico sarebbe pressoché impossibile affidare tali funzioni a un’aristocrazia della toga», questa obiezione cade non appena si osservi che un tribunale costituzionale eletto dal popolo o anche dal parlamento – sul genere di quello istituito dalla costituzione austriaca del 1920 – è tutt’altro che un’«aristocrazia della toga». Ma un tribunale costituzionale appare antidemocratico, secondo Schmitt,

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non solo perché deve essere presumibilmente organizzato in modo burocratico-aristocratico, ma anche per un altro motivo, che Schmitt non adduce espressamente a sostegno del suo carattere antidemocratico, ma che almeno tacitamente fa valere come tale, dal momento che connette questo argomento direttamente con la tesi che l’istituzione di un tribunale costituzionale sia in contrasto col principio democratico. Nel quadro della democrazia plebiscitaria-parlamentare del XX secolo – cosi argomenta – un tribunale costituzionale non sarebbe, come nella monarchia costituzionale del XIX secolo, «rivolto contro un monarca ma contro il parlamento». Senonché, nei riguardi del monarca un organo giudiziario poteva avere successo, mentre come «contrappeso al parlamento» non può essere preso in seria considerazione. Infatti «la necessità di istituzioni stabili e di un contrappeso al parlamento è oggi in Germania un problema del tutto diverso da quello che un tempo era il controllo del monarca. E questo vale sia per il controllo giudiziario generale e diffuso sia per il controllo accentrato in un’unica istanza» (p. 236). Siamo qui senza dubbio dinanzi a uno dei più singolari ragionamenti di questo libro, non povero di sorprese logiche. Che un tribunale costituzionale debba contrastare solo il parlamento e non anche il governo è una tesi che si trova in chiara contraddizione con la realtà. Se Schmitt avesse dedicato maggiore attenzione alla «soluzione austriaca», che invece degna solo di un ironico accenno, saprebbe che questo tribunale, con la sua giurisprudenza, si è trovato proprio con il governo in un conflitto che ha minacciato la sua stessa esistenza. Ma l’intero scritto di Schmitt è permeato dalla tendenza a ignorare la possibilità di violazioni della costituzione da parte del capo dello Stato o del governo, possibilità che esiste proprio in rapporto a una costituzione che, tra le sue più importanti disposizioni, annovera l’art. 48. Schmitt, però, sostenendo la tesi indimostrata e indimostrabile che il tribunale costituzionale sarebbe in opposizione soltanto con il parlamento, modifica la funzione di questo «custode della costituzione» da controllo di costituzionalità degli atti dello Stato, in particolare delle leggi (si noti: promulgate dal capo dello Stato) in «contrappeso al parlamento». Questo è in effetti il ruolo che la costituzione di Weimar assegna al presidente del Reich; o meglio, la posizione giuspubblicistica che la costituzione conferisce al presidente può essere politicamente valutata in questi termini. Non è certo questa però la funzione di un

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tribunale costituzionale. Non è possibile, infatti, sostenere che esso, secondo l’intenzione del costituente che lo ha istituito, debba fungere da «contrappeso al parlamento». Dal fatto che non possa svolgere una funzione per essa mai pensata né pensabile, non si può naturalmente inferire nulla contro questa istituzione, che proprio per questo motivo può esistere accanto a un capo dello Stato che funga da «contrappeso al parlamento» e che anzi, proprio a causa dell’esistenza di un tale «contrappeso», è doppiamente necessaria. xii. A questo punto, però, risulta anche chiaro che cosa Schmitt intenda propriamente per custode della costituzione. Nulla, assolutamente nulla che possa giustificare la contrapposizione del presidente del Reich, inteso come custode della costituzione, a un tribunale costituzionale che controlli anche tale custode, nulla che autorizzi a ritenere impossibile che un tribunale costituzionale possa essere custode della costituzione, perché a essere qualificato come tale è il presidente del Reich; come se si trattasse della stessa funzione, per la quale nel capo dello Stato venga cercato e trovato semplicemente un più idoneo titolare, proprio come fa Schmitt quando formula il risultato della sua ricerca in questo modo: prima di proporre un tribunale come custode della costituzione, compito al quale non è adatto, bisogna ricordarsi che la costituzione chiama a tale compito proprio il presidente del Reich (p. 240). Se la costituzione concepisce il presidente del Reich come «contrappeso al parlamento», cosa che senz’altro non occorre negare, allora non è possibile qualificare questa funzione come custode della costituzione se nel contempo si usa lo stesso nome per designare la garanzia della costituzione da parte di un tribunale costituzionale. Non si tratta di una semplice precisazione terminologica, poiché da questo inammissibile equivoco Schmitt trae uno dei suoi argomenti principali contro l’istituzione di una giurisdizione costituzionale. E questa argomentazione gli consente non solo di sopravvalutare la competenza funzionale del presidente, cioè di uno dei due organi portanti della costituzione, ma anche di sottovalutare quella dell’altro, cioè del parlamento. Se, come sostiene Schmitt, il parlamento è lo «scenario del sistema pluralistico» (pp.

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115 sgg.), in quanto è la sede in cui i contrasti d’interesse realmente esistenti vengono a espressione come tali attraverso i gruppi d’interesse organizzati in partiti politici per influire sulla formazione della volontà dello Stato, si tratta di un processo che nonostante tutti i pericoli che potrebbe comportare per una proficua formazione della volontà dello Stato, non può essere designato come incostituzionale. La costituzione di Weimar, infatti, non solo nomina un presidente del Reich «eletto da tutto il popolo» ma anche, e anzitutto, un Reichstag eletto dallo stesso popolo e pertanto quel sistema politico che Schmitt qualifica come «pluralistico». Se la costituzione fa del presidente un «contrappeso» al Reichstag, è solo perché pone quest’ultimo, e quindi il sistema «pluralistico» che ad esso è essenzialmente connesso, come «peso» nel gioco delle forze politiche. Dal punto di vista di un qualche ideale politico, questo sistema può apparire deleterio; ma chiamarlo incostituzionale per questo e solo per questo motivo è un abuso giusnaturalistico di una categoria che ha senso solo per il diritto positivo. Il sistema in questione non sarebbe incostituzionale neppure se il parlamento, per mancanza di una stabile maggioranza o per l’ostruzionismo della minoranza, non fosse in grado di funzionare; tanto più se in questo caso è la costituzione a individuare nel capo dello Stato un organo sostitutivo, come, secondo il modo in cui Schmitt interpreta la costituzione di Weimar, dovrebbe essere giusto. Esattamente come non c’è violazione della costituzione quando il monarca costituzionale non è più in grado di funzionare (si veda il caso di Ludovico II di Baviera) e l’organo che esercita la funzione sostitutiva può fungere da custode della costituzione. Ma è proprio questo il significato che il concetto di «custode della costituzione» assume in Schmitt. E poiché soltanto il presidente del Reich, e non anche il secondo (o meglio, il primo) organo portante della costituzione, cioè il Reichstag, viene dichiarato, con il complesso delle competenze che la costituzione gli attribuisce e, in particolare, grazie al suo potere di sostituirsi a un Reichstag che non è in grado di funzionare, custode della costituzione, allora la funzione di questo Reichstag, «scenario del sistema pluralistico», che, in modo esclusivo e unilaterale, viene contrapposta, in quanto «centrifuga» (p. 226), a quella centripeta esercitata dal presidente del Reich, e presentata quindi come in contrasto con la difesa della costituzione, non può che apparire del tutto illegale. Dal «sistema pluralistico»,

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da una categoria sociologica all’origine avalutativa, discendono improvvisamente i «metodi che dissolvono lo Stato propri del pluralistico Stato dei partiti» (pp. 236 sgg.), i «metodi che distruggono la costituzione propri del sistema pluralistico» (p. 178) e infine «il pluralismo incostituzionale» (p. 199), dal quale il presidente ha il compito di «salvare» lo Stato. La costituzione non consiste nelle norme che regolano gli organi e il procedimento legislativo, come pure la posizione e la competenza degli organi esecutivi più elevati, non è fatta di norme o leggi. Essa è una «situazione», la situazione dell’unità del popolo tedesco. In che cosa consista questa «unità» che ha un carattere sostanziale e non meramente formale, non viene meglio precisato. Si può solo trattare di una situazione auspicata da un determinato punto di vista politico. Al posto del concetto giuridico-positivo di costituzione subentra l’unità come ideale giusnaturalistico. Avvalendosi di questo ideale è allora possibile interpretare il sistema pluralistico, di cui il parlamento è lo scenario, e quindi la funzione di quest’organo portante della costituzione, come violazione, perché distrugge o mette in pericolo l’«unità» subentrata alla costituzione, mentre si può interpretare come custodia la funzione del capo dello Stato, dal momento che ripristina o difende tale «unità». Questa interpretazione della costituzione non può culminare se non in un’apoteosi dell’art. 48. Essa conduce al risultato – tanto più paradossale, perché non previsto – per cui l’elemento che «nel Reich tedesco turba o mette in pericolo in misura notevole la sicurezza e l’ordine pubblico» è il sistema pluralistico cioè, in chiare lettere, il Reichstag, la cui vera funzione, in quanto essenzialmente pluralistica, appare quella di soddisfare in modo permanente la condizione cui la costituzione di Weimar collega l’applicazione dell’art. 48 comma 213. 13

Che il sistema parlamentare non abbia fallito in nessun luogo, lo mostra uno sguardo all’Austria, alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati nordici. Ciò nondimeno, Schmitt ritiene lecito pronunciare la sentenza di morte nei confronti del parlamentarismo come tale, indistintamente. Il metodo di cui si serve a tal fine è quello di una dialettica addirittura mistica: «Il parlamento, il corpo legislativo, titolare e punto centrale dello Stato legislativo, nel momento stesso in cui la sua vittoria appariva totale, divenne una creazione in sé contraddittoria, che rinnegava i suoi propri presupposti e i presupposti della sua vittoria. La posizione e la preponderanza avute finora, la sua spinta espansiva rispetto al governo, il suo esordio in nome del popolo, tutto ciò presupponeva una distinzione tra Stato e società che, dopo la sua vittoria, in ogni caso non continuò più a sussistere in questa forma. La sua unità, anzi la sua identità con sé stesso, era stata determinata dal suo antagonista

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Dei due titolari del potere statale creati dalla costituzione l’uno diviene nemico, l’altro amico dello Stato; uno vuole distruggerlo, cioè distruggere la sua unità, l’altro vuole difenderlo da tale distruzione; l’uno viola, l’altro custodisce la costituzione. Tutto ciò non ha più nulla a che fare con una interpretazione della costituzione in termini di diritto positivo; si tratta ormai della mitologia di Ormuzd e Arimane in termini di diritto pubblico. Quest’analisi critica, naturalmente, non vuole e non può mettere in questione il valore politico che nelle circostanze date hanno la richiesta della massima possibile espansione del potere del presidente del Reich, cioè del governo, e il conseguente rifiuto di una giurisdizione costituzionale. Lo scritto di Schmitt è oggetto di questa critica non perché serva a questo scopo, che qui non deve affatto venire sminuito come «partitico», ma solo perché si serve, per tale scopo politico, di certi metodi che si presentano come conoscenza sociologica e internella politica interna, lo Stato militare e burocratico della vecchia monarchia. Quando questo venne meno, il parlamento andò, per cosi dire, in pezzi» (p. 129). Se si identifica il parlamento con la società rivolta contro lo Stato, e Stato totale significa il superamento di questa opposizione, allora, secondo la logica di questa filosofia sociale, nello Stato totale non c’è posto per il parlamento. Nel caso però che si giunga a pensare che il superamento dell’opposizione tra Stato e società, e quindi lo Stato totale, potrebbe forse essere realizzato anche da parte di un parlamento che espandesse la propria competenza e mantenesse «la propria unità, anzi la propria identità con sé stesso» ponendosi come massimo organo statale in cui fosse concentrato ogni potere, viene obiettato che «lo Stato è attualmente, come si suole dire, auto-organizzazione della società, ma ci si chiede in quale modo la società che si auto-organizza pervenga all’unità e se l’unità sia realmente il risultato dell’auto-organizzazione. L’auto-organizzazione, infatti, è in primo luogo un postulato e un procedimento caratterizzato dal contrasto con precedenti metodi, oggi non più usati, di formazione della volontà e dell’unità dello Stato, e quindi in modo solo negativo e polemico. L’identità, che si trova nel prefisso “auto”, che è linguisticamente collegato con “organizzazione”, non occorre si manifesti sempre e comunque, né come unità della società in sé stessa né come unità dello Stato. Come abbiamo abbastanza spesso sperimentato, vi sono anche organizzazioni infruttose e improduttive» (p. 129). L’unità dello Stato totale non può in alcun modo essere realizzata dal parlamento, ma solo dal capo dello Stato! Per una critica che muova da un punto di vista politico opposto, per esempio una critica marxista, non è difficile smascherare una simile argomentazione come ideologia. Questo parlamento, che nel momento stesso della sua vittoria, va misteriosamente in pezzi e diventa una formazione che rinnega i propri presupposti solo perché non deve più dividere il potere con un monarca; ebbene, non dovrebbe questa essere semplicemente la dimostrazione del fatto che, là dove il parlamento ha smesso di essere uno strumento del dominio di classe, in seguito alla forma assunta dalla lotta di classe, la borghesia modifica il proprio ideale politico e passa dalla democrazia alla dittatura?

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pretazione costituzionale, in breve come trattazione scientifica. Questa critica mostra, ricorrendo a un esempio particolarmente istruttivo e altamente sintomatico per l’attuale situazione della nostra dottrina dello Stato e del nostro diritto pubblico, quanto sia giustificata la richiesta della più rigorosa separazione tra conoscenza scientifica e giudizio politico. La commistione di principio, oggi tanto amata, tra scienza e politica è il tipico metodo della moderna ideologia. Dal punto di vista della conoscenza scientifica, tale commistione dev’essere rigettata anche quando è un fenomeno del tutto inconsapevole, come accade il più delle volte e certamente anche in questo caso. Data l’acuita consapevolezza critica del nostro tempo, questo metodo non può, alla lunga, giovare alla politica. Fin troppo facilmente, infatti, può essere smascherato dai suoi avversari o venire usato per una ugualmente discutibile legittimazione di scopi ad esso opposti. Ma proprio per questo motivo esso può tanto più duramente danneggiare la scienza. Tutto il valore della scienza, infatti – e perciò la politica cerca sempre di nuovo di legarsi a essa, proprio per i migliori motivi etici, perché nell’interesse di una causa ritenuta buona – questo valore, che è un valore intrinseco, del tutto distinto da quello etico-politico, resiste solo a condizione che la scienza, in questo conflitto per essa quasi tragico, trovi la forza di sottrarsi a un’unione cosi allettante con la politica. [Traduzione di Federico Lijoi]

Si può difendere la democrazia con la dittatura? Hans Kelsen e Carl Schmitt sul custode della costituzione Federico Lijoi

La controversia sul custode della costituzione che nel 1931 ha impegnato le energie dialettiche di Hans Kelsen e Carl Schmitt è uno degli episodi scientifici più celebri e affascinanti del Novecento morale e giuridico. Si tratta del più alto punto di tensione tra due dottrine dello Stato che per lungo tempo, e in modo più o meno esplicito, si sono fronteggiate con le armi in pugno. L’occasione che si trova all’origine del confronto si rivela particolarmente preziosa, poiché raccoglie in sé la drammaticità della circostanza storico-istituzionale e la profondità teorica degli interventi, consentendo così di mettere in luce gli universi assiologici dei due giuristi in tutta la loro incompatibile esclusività. 1. Dottrina dello Stato «senza Stato» e teologia dello Stato Menzionato con favore nel saggio su Gesetz und Urteil, per aver «messo in evidenza con impressionante consequenzialità la differenza tra considerazione sociologica e giuridica»1, Kelsen diviene bersaglio polemico di Schmitt già nella sua dissertazione di abilitazione su Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, discussa a Strasburgo nel 1914, il cui intero impianto concettuale era teso a dimostrare come la separazione tra fatti e norme non implicasse in nessun modo, come voleva Kelsen, l’identità di Stato e diritto. Per Schmitt, infatti, lo Stato doveva essere una potenza reale e la sua produzione giuridica positiva, proprio perché rivolta alla realizzazione 1 C. Schmitt, Gesetz und Urteil. Eine Untersuchung zum Problem der Rechtspraxis (1912), Otto Liebmann, Berlin 1912, p. 56.

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della Idee des Rechts, rimanere sempre al vaglio di questa conformità ideale. Lo Stato non è diritto, quindi, ma una «funzione del diritto», e sebbene formuli le norme cui si sottomette, «riconosce espressamente di pronunciarle solo perché sono diritto e di assoggettarsi ad esse solo per questo motivo»2. Non è un caso, allora, che la polemica contro Kelsen trovi piena espressione nella Politische Theologie, dove il giurista tedesco afferma che alla base della tesi kelseniana si trova «una metafisica che identifica legge di natura e legge normativa», e che essa «riposa sul ripudio di ogni “arbitrio” e cerca di eliminare ogni eccezione dall’ambito dello spirito umano»3. Proprio sull’eccezione, invece, sulla strutturale non-razionalità del reale, e dunque sull’impossibile immanenza dell’agire politico, fa perno il discorso schmittiano nel proporre la ben nota analogia tra teologia e giurisprudenza. La profonda crisi che la razionalità politica dello Stato liberale stava subendo in quel torno di anni richiama così in gioco la legittimità di un paradigma di governo autoritario e verticale, quale unica efficace risposta all’intransitabilità discorsiva della frattura tra Idea e realtà, ordine e contingenza. Dal canto suo, Kelsen non aveva mai preso posizione così chiaramente contro Schmitt né, per così dire, aveva mai risposto in modo così ampio e sistematico alle sue provocazioni, nonostante l’intera Reine Rechtslehre, nella sua impostazione di principio e in molte delle sue articolazioni, possa essere letta come un contrappunto critico alle tesi schmittiane. Già nei Hauptprobleme, infatti, troviamo scritto che «il problema della nascita e della distruzione del dovere non risiede più nel campo di osservazione interno al metodo di conoscenza normativo»4. E anche dopo aver adottato, a partire dal 1914, la prospettiva nomodinamica di Merkl5, Kelsen era rimasto fedele al 2 C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo (1914), a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2013, p. 57. 3 C. Schmitt Teologia politica (1922), in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 65. 4 H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico (19111; 19232), a cura di A. Carrino, ESI, Napoli 1997, p. 48. 5 A.J. Merkl, Sul problema dell’interpretazione (1916), in Il duplice volto del diritto. Il sistema kelseniano e altri saggi, a cura di C. Geraci, Giuffrè, Milano 1987, pp. 255279; Il diritto dal punto di vista applicativo (1918), in Il duplice volto del diritto, cit., pp. 281-323; F. Weyr, Zum Problem eines einheitlichen Rechtssystems, «Archiv für öf-

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suo dualismo Sein-Sollen, semplicemente spostando al vertice della piramide ordinamentale, e cioè rinserrandolo nell’enigmatico concetto di Grundnorm6, il problematico rapporto tra diritto e realtà, che in tal modo veniva esemplato – e anche, per così dire, devitalizzato – in una norma non positiva, ma fondamentale, cui gli atti del primo costituente, altrimenti giuridicamente inspiegabili, obbedivano. Questo dualismo di essere e dovere, posto da Kelsen a fondamento di un monismo normativo radicale, quasi parmenideo7, sortiva così la conseguenza di escludere il Sein dalla considerazione giuridica e, in tal modo, di dissolvere completamente quei dualismi che si trovavano all’interno della stessa scienza giuridica ed erano dovuti proprio alla mancata separazione tra i due ambiti. Da un lato, quello tra diritto soggettivo e diritto oggettivo, che rivendicava l’esistenza di diritti precedenti – quindi naturali – all’esistenza dello Stato, la cui funzione risultava così soltanto quella di proteggerli, e dall’altro quello tra diritto privato e diritto pubblico, che, accordando allo Stato un Mehrwert rispetto ai soggetti privati della società civile, lo rendeva, in nome del suo essere creatore – Schöpfer – del diritto, legibus solutus, e cioè libero di perseguire l’interesse pubblico senza vincolo di legge8. Ora, ognuno di questi dualismi, dietro cui si celava, secondo la dinamica del conflitto costituzionale, una coppia di soggetti dagli interessi contrapposti, la società borghese (rappresentanza popolare), nel primo caso, e lo Stato (monarca), nel secondo, costituiva una conseguenza diretta del dualismo principale, quello fra Stato e diritto, che secondo Kelsen celava il vero e proprio peccato originale della Staatslehre ottocentesca. Proprio qui, infatti, alligna il contrasto più acuto con Schmitt, perché nell’indebito espediente ideologico di una legittimità giuridica extrafentliches Recht», 23, 1908, pp. 529-580; L. Pitamic, Denkökonomische Voraussetzungen der Rechtswissenschaft, «Österreichische Zeitschrift für öffentliches Recht», 3, 1917, pp. 339-367. 6 H. Kelsen, Legge del Reich e legge del Land nella costituzione austriaca (1914), a cura di N. Bersier Ladavac, Giappichelli, Torino 2006, p. 17. 7 G. Winkler, Teoria del diritto e dottrina della conoscenza. Per la critica della dottrina pura del diritto (1990), trad. it. di A. Carrino, ESI, Napoli 1994, p. 52. 8 H. Kelsen, Problemi fondamentali, cit., passim e pp. 547-569; B. Sordi, Tra Weimar e Vienna: amministrazione pubblica e teoria giuridica nel primo dopoguerra, Giuffrè, Milano 1987, pp. 35-208; G. Bongiovanni, Reine Rechtslehre e dottrina giuridica dello Stato. H. Kelsen e la costituzione austriaca del 1920, Giuffrè, Milano 1998, pp. 57-90; F. Lijoi, L’ordinamento delle pulsioni. Hans Kelsen lettore di Freud, in F. Lijoi, F.S. Trincia, L’anima e lo Stato. Hans Kelsen e Sigmund Freud, Morcelliana, Brescia 2015, pp. 15-72.

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legale (all’occorrenza, anche anti-legale) e, in ogni caso, non positiva, Kelsen scorgeva un dispositivo di matrice teologica, indegno di quella modernità che con il suo metodo scientifico era stata in grado di smascherare le ipostatizzazioni e i raddoppiamenti di cui si nutriva il pensiero politico reazionario, con i suoi mitologemi del popolo costituente e dell’unità politica. «Si opera e si manipola appunto», scrive nel 1922, «accanto all’ordinamento giuridico, anche con un secondo ordinamento, che rappresenta la così detta ragion di Stato» e in questo operare con due ordinamenti, aggiunge poco più avanti, «risiede il momento caratteristico della teologia: questo e non altro è il metodo teologico!»9. Quindi, nella stessa misura in cui il concetto di Dio era stato assorbito in quello di natura, dando abbrivio a una Naturwissenschaft rigorosa, così era ora necessario che il concetto extra-positivo e sovra-giuridico di Stato venisse ridotto a quello di diritto, in quanto condizione indispensabile per lo sviluppo di un’autentica scienza del diritto positivo, una reine Rechtslehre, appunto, purificata cioè da ogni giusnaturalismo che si presenti nella veste camuffata della politica o della sociologia: «L’esigenza che la dottrina dello Stato debba smettere di essere teologia dello Stato si indirizza esclusivamente contro il dualismo di sistema che è caratteristico della teologia»10. 2. Una danza «intorno al cratere di un vulcano»: intermezzo su Weimar e Vienna Negli anni in cui la disputa fra Kelsen e Schmitt ebbe luogo, la situazione politica della Repubblica di Weimar era incandescente. Proclamata nel novembre 1918 dal socialdemocratico Scheidemann, insanguinata poco dopo da una serie di efferati omicidi politici (gli spartachisti Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il presidente della USPD bavarese Kurt Eisner, lo scrittore anarchico Gustav Landauer), prostrata dall’art. 231 del Trattato di Versailles, con la sua celebre “Schuldklausel”, la Repubblica si dotò della sua controversa costituzione nell’agosto del 1919. 9 H. Kelsen, Il concetto sociologico e il concetto giuridico dello Stato (1922), a cura di A. Carrino, ESI, Napoli 1997, pp. 145 e 254; Id., Dio e Stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito (1922), a cura di A. Carrino, ESI, Napoli 1988, p. 159. 10 H. Kelsen, Il concetto sociologico e il concetto giuridico dello Stato, cit., p. 262.

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Nonostante gli sforzi di Preuss, il giurista ebreo e democratico allievo di Gierke che ne fu l’artefice11, il nuovo assetto costituzionale provocò un’insoddisfazione diffusa12. Coloro che vi aderirono lo fecero in ogni caso tiepidamente e solo per scelta intellettuale, come a un male minore posto tra la barbarie della destra e il radicalismo della sinistra. Fra le scelte più contestate vi furono la proporzione tra centralismo e federalismo, l’elezione popolare del presidente (che i socialdemocratici definirono un «trucco napoleonico»13), il referendum e l’iniziativa popolare, il sistema elettorale proporzionale, il rapporto tra scuola e confessione religiosa. Ma fu in particolare l’art. 48 sui poteri eccezionali del Reichpräsident a costituire la pietra meno assestata del nuovo ordine: il parlamento, che non ne emanò mai la legge di attuazione, come previsto dal quinto comma, contribuì in buona misura a lasciare nell’incertezza il confine tra stato di emergenza e normalità14. Nel complesso si trattò comunque di una costituzione moderna e «sotto certi aspetti fu un documento avanzatissimo»15, basti pensare in special modo alla sezione sui diritti e doveri fondamentali, che proprio Kelsen, nella sua Selbstdarstellung del 1947, definirà la «parte più caratteristica» della costituzione di Weimar16. Fu precisamente in quest’ambito, del resto, quello della teoria e della politica costituzionale, che la vita scientifica e personale di Kelsen venne ad intrecciarsi con quella di Schmitt e con la tragica sorte della neonata democrazia tedesca. Spostiamoci a Vienna. Nel 1918, appena dopo aver concluso il servizio militare come diretto referente del Kriegsminister, ormai ultima autorità marziale della monarchia austro-ungarica, Kelsen era stato 11

M. Stolleis, Storia del diritto pubblico in Germania, vol. II (1992), trad. it. di C. Ricca e S. Pietropaoli, Giuffrè, Milano 2014, pp. 526-535. 12 Al proposito, si veda S. Mezzadra, La costituzione del sociale: il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, il Mulino, Bologna 1998, pp. 277-354. 13 H.A. Winkler, La Repubblica di Weimar (1993), trad. it. di Michele Sampaolo, Donzelli, Roma 1998, p. 107. 14 Sul punto, K. Schultes, Die Jurisprudenz zur Diktatur der Reichspräsidenten: nach art. 48 abs. II der Weimarer Verfassung: Ein Kritischer Rubrick, Ludwig Rohrscheid Verlag, Bonn 1934. 15 P. Gay, La cultura di Weimar. The outsider as insider (1968), a cura di C. Cases, Dedalo, Bari 1978, p. 199. 16 H. Kelsen, Scritti autobiografici (1947), a cura di M.G. Losano, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 108.

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incaricato da Karl Renner, allora Cancelliere di Stato del governo provvisorio austriaco, di redigere il progetto definitivo di costituzione repubblicana da sottoporre all’assemblea nazionale. Le direttive politiche essenziali erano la struttura federale e il sistema rappresentativo. Il modello da seguire, «fin dove si poteva», era proprio quello preussiano della costituzione di Weimar, riferimento che però «poté avere luogo solo in misura limitata, perché Renner nella soluzione del problema della presidenza prese una posizione molto più democratica della costituzione di Weimar»17. Ad un capo dello Stato, quindi, che l’art. 60 prevedeva eletto dall’Assemblea federale e non dal popolo, si aggiungeva anche l’istituzione di un tribunale costituzionale, posto a garanzia del corretto svolgimento delle funzioni statali. Per Kelsen, che in esso vedeva «il suo personale lavoro» e «la sua opera più amata», qui risiedeva il «nocciolo giuridico della costituzione»18, in una giurisdizione, vale a dire, che non aveva precedenti nella storia del diritto costituzionale, perché «fino ad allora nessun tribunale aveva avuto la competenza di abrogare delle leggi per incostituzionalità con efficacia generale, cioè non limitata al singolo caso»19. Eletto giudice costituzionale nel 1919 e relatore permanente nel 1921, il suo entusiasmo durò poco, perché nel 1929, una radicale riforma della costituzione su proposta del Bundeskanzler cristianosociale Ignaz Seipel sia rafforzò «il potere del Presidente federale e quindi di tutto l’esecutivo, rendendo così possibile un governo senza parlamento»20, sia condusse a un riordino della Corte costituzionale, i cui giudici ora risultavano non più eletti dal parlamento, ma dal governo. Un vulnus all’indipendenza giudiziaria che Kelsen ritenne intollerabile, specialmente perché «una della principali funzioni della Corte consisteva nel controllo di costituzionalità degli atti del governo»21. Profondamente amareggiato e vittima di attacchi politici e personali, Kelsen lasciò Vienna e accettò una chiamata all’università di Colonia. Nominato nell’agosto del 1930 professore ordinario di diritto in17

H. Kelsen, Scritti autobiografici, cit., p. 108. Ivi, p. 109. 19 Ibid.; G. Bongiovanni, Reine Rechtslehre e dottrina giuridica dello Stato, cit., pp. 141 sgg.; S. Lagi, Il pensiero politico di Hans Kelsen (1911-1920). Le origini di “Essenza e valore della democrazia”, Name Edizioni, Genova 2008, pp. 161-190. 20 H. Kelsen, Scritti autobiografici, cit., p. 111. Sul punto e oltre, è ancora valido P. Petta, Schmitt, Kelsen e il “custode della costituzione”, «Storia e politica», 1977, XVI, pp. 505-551. 21 H. Kelsen, Scritti autobiografici, cit., p. 120. 18

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ternazionale, vi trascorse tre anni «assai gradevoli»22 e nel 1932 venne eletto preside della Facoltà di giurisprudenza. Ma l’episodio austriaco non poteva considerarsi isolato. In una lettera a William Rappard del 16 dicembre 1930, riferendosi alla positiva recensione che il suo allievo Eric Voegelin aveva riservato alla Verfassungslehre di Schmitt (il numero della ZÖR è del 1931, ma è certo che il contenuto di essa fosse già noto a Kelsen, che ne era il direttore), il giurista austriaco denunciava «l’influenza di certe correnti intellettuali che sta[vano] crescendo in Germania – non a vantaggio della scienza – per le quali [era] di moda sostituire la costruzione romantica, orientata soltanto ai sentimenti, all’esatta determinazione concettuale e alla ricerca empirica». E concludeva, infine, che «oggi è veramente difficile per i giovani sottrarsi a tale moda intellettuale, tanto più che essa – chiaramente per ragioni politiche – ha il plauso e l’appoggio di professori molto influenti»23. Nel 1933 Kelsen fu tra i primi professori ad essere destituito dal governo nazista. Riuscì ad ottenere l’autorizzazione all’espatrio e, dopo essere tornato a Vienna, accettò una chiamata dell’Institut Universitaire des Hautes Études Internationales di Ginevra. Rudolf Métall, suo amico e biografo, racconta come Carl Schmitt, che proprio con l’appoggio di Kelsen era stato chiamato come successore di Fritz Stier-Somlo, morto l’anno precedente per una malattia cardiaca, fu l’unico collega della facoltà di Colonia che non si unì alla lettera di protesta, redatta per iniziativa del nuovo preside Nipperdey, contro l’allontanamento accademico di Kelsen24. 3. Presidente del Reich e tribunale costituzionale: quale dialogo? Pubblicato nel 1931 sulla rivista tedesca «Die Justiz», il saggio di Kelsen costituisce una risposta polemica al volume schmittiano su Il custode della costituzione25, apparso nello stesso anno. In esso, 22

Ivi, p. 123. Brief von Hans Kelsen an William Rappard, Köln, 16. Dezember 1930, Archiv der Universität Wien. 24 R.A. Métall, Hans Kelsen: Leben und Werk, Deuticke, Wien 1969, p. 61; R. Mehring, Carl Schmitt: Aufstieg und Fall, C. H. Beck, München 2009, pp. 294 sgg.; C. Schmitt, Imperium. Conversazioni con Klaus Figge e Dieter Groh (1971), trad. it. di C. Badocco, Quodlibet, Macerata 2015, p. 127. 25 Sui prodromi di questo confronto, si veda S.L. Paulson, Hans Kelsen and Carl Schmitt. Growing Discord, Culminating in the “Guardian” Controversy of 1931, in J. Meierhen23

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come pure nel lavoro successivo su Legalità e legittimità (1932), il giurista tedesco aveva portato a piena maturazione teorica quella serrata critica al liberalismo che, intrapresa quasi un decennio prima nel fortunato libretto sul Parlamentarismus (1923), aveva trovato nella Dottrina della costituzione (1928) la sua formulazione più propriamente giuridica. Non si può negare, del resto, che gli eventi politici occorsi nel frattempo avessero dato ragione alle sue fosche previsioni. Secondo Schmitt, infatti, la crisi di Weimar doveva ascriversi al combinato disposto di una serie di fattori, tra i quali una drammatica conflittualità sociale, cui l’istituzione parlamentare, lacerata dal particolarismo partitico, non riusciva a offrire adeguata composizione e una logorante crisi economica, che rendeva le masse sensibilmente più esposte alle sirene della demagogia. Intricava il tutto, sbarrando l’unica possibile via d’uscita, l’indolenza del Reichspräsident che, con la complicità di una Verfassung dilatoria, non si decideva a far uso della propria legittimazione democratica per commissariare pro tempore lo Stato legale-legislativo e, in tal modo, ripristinare l’ordine dietro l’ordinamento: la decisione fondamentale della costituzione, l’unità politica dello Stato. Non era stato un caso, dunque, che Schmitt, dinanzi al parlamento impotente e a uno «Stato totale per debolezza»26, avesse invocato una interpretazione estensiva dell’art. 48, che si era poi andata radicalizzando dopo la morte di Ebert nel febbraio del 1925: nel giro di due anni, da misure (maßnahmen) volte al ristabilimento dell’ordine pubblico, dominate dalla clausola rebus sic stantibus e in nessun modo ritenute «un diritto provvisorio di legiferare», come Schmitt asseriva nell’appendice del 1924 a La dittatura (1921)27, i provvedimenti menzionati nel comma 2 si erano trasformati in «un diritrich, O. Simons (a cura di), The Oxford Handbook of Carl Schmitt, Oxford University Press, Oxford 2016, pp. 510-546. 26 C. Schmitt, Etica dello Stato e Stato pluralistico (1930), in Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 2007, pp. 217-236; Id., Il custode della costituzione (1931), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1981, pp. 113 sgg. 27 C. Schmitt, La dittatura del Presidente del Reich secondo l’art. 48 della costituzione di Weimar (1924), ora in Id., La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria (1921), a cura di A. Caracciolo, Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 288 sgg.

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to eccezionale di produzione legislativa che corre accanto al diritto ordinario di produzione legislativa esercitato dal Reichstag», come invece troviamo scritto nella voce Diktatur, pubblicata nel 1926 per lo Staatslexikon della Görres Gesellschaft28. In breve, erano dunque queste le istanze polemiche che Schmitt, nel saggio del 1931, riannodava in un unico nonché efficacissimo Angriffspunkt: il parlamento come istituzione inattuale, propria del liberalismo ottocentesco e della sua società omogenea29, non più capace, in un momento storico in cui emergono forze esistenzialmente incompatibili (partiti che non vogliono più stare al gioco delle parti e ambiscono all’intero dello Stato30), di far valere la propria concezione razionalistica dell’ordine politico. Al sogno della democrazia parlamentare, dunque, alla sua ambizione borghese di disinnescare le tensioni politiche tramite la logica mercantile del compromesso e della contrattazione31, il giurista tedesco contrapponeva l’esigenza di un ordine che non si configurava come il risultato di una dialettica discorsiva tra le parti, ma occorreva fosse imposto loro dall’alto. «Prima c’è il comando, gli uomini vengono dopo»32, scriveva il suo amato Däubler. Si trattava, insomma, di recuperare quella oggettività che in Politische Romantik (1919) Schmitt riteneva erosa dal ganglio romantico e protestante del liberalismo, dalla sua estetizzazione economica della «vita seria», destinata a dileguarsi nello svilente gorgo della produzione e del consumo33. Per dirla con Popitz, al rischio di un monstrum «policratico»34, Schmitt eccepiva la necessità di un potere neutrale, capace di contenere le pressioni centrifughe dei partiti, neutralizzare i conflitti interni e ripristinare l’unità politica. In una situazione di crisi come quella di Weimar, pertanto, il mandato commissario del Hüter 28

C. Schmitt, Dittatura. Voce per una enciclopedia (1926), ora in Id., La dittatura, cit., p. 309. 29 C. Schmitt, La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo (1923), a cura di G. Stella, Giappichelli, Torino 2004, pp. 45 sgg. 30 C. Schmitt, Il custode della costituzione, cit., p. 131. 31 M. Nicoletti, Trascendenza e potere: la teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 197 sgg.; C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, il Mulino, Bologna 1996, pp. 513 sgg.; H. Hofmann, Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt (1992), ESI, Napoli 1999, p. 111. 32 C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, cit., p. 21. 33 C. Schmitt, Il concetto di “politico” (1932), in Id., Le categorie del “politico”, cit., p. 159. 34 C. Schmitt, Il custode della costituzione, cit., p. 142.

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doveva consistere nel “ri-evocare” e, quindi, nel “ri-calcare”, quella distinzione amico-nemico da cui lo Stato aveva avuto origine e che ora si era venuta sbiadendo: nel riaffermare, dunque, la decisione politica originaria, attualmente minacciata. E proprio sotto questa luce, infatti, acquistava pieno significato la tesi, escogitata qualche anno prima nelle pagine iniziali della sua Verfassungslehre, secondo cui la «vera» costituzione non andava cercata in quelle leggi costituzionali che il Reichstag, avvalendosi della procedura aggravata prescritta dall’art. 76, poteva modificare ad libitum, ma nella «sostanza della costituzione», ossia nelle «decisioni politiche concrete», espresse nel preambolo e negli artt. 1, 2 e 17 della Verfassung, «che fissano la forma dell’esistenza politica del popolo tedesco e formano il presupposto fondamentale per tutte le altre normazioni, anche quelle delle leggi costituzionali»35. Schmitt aveva quindi buoni argomenti per reclamare che la dittatura fosse la negazione del parlamentarismo, e non della democrazia, di cui piuttosto costituiva l’“inveramento”36. Secondo il giurista di Plettenberg, infatti, il problema della Repubblica di Weimar era proprio quello di possedere una struttura costituzionale troppo parlamentare e troppo poco democratica, cioè presidenziale. Come avrebbe potuto un simile assetto, in tali condizioni, affrontare il dilemma di una situazione giuridicamente legale, ma politicamente illegittima? Cosa avrebbe contrapposto ad un “partito totale” che si fosse accaparrato il plusvalore politico, ovvero il «premio super-legale» per il «possesso legale del potere legale»? Chi avrebbe dovuto far fronte all’eventualità che tale soggetto politico fosse intenzionato a «chiudere dietro di sé la porta della legalità attraverso cui è entrato» e a far così collassare tutto il sistema avvalendosi dei suoi stessi presupposti?37. Ma soprattutto, si domanda Schmitt, in una intervista radiofonica del 1971, «che cosa avrebbe fatto Kelsen nella mia situazione»?38. A questo epimeteico «che fare?» del giurista tedesco, anche Kelsen in effetti aveva tentato, all’epoca degli eventi, di fornire la sua risposta, 35 C. Schmitt, La dottrina della costituzione (1928), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, pp. 42-43; Id., Legalità e legittimità, a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2018, in particolare pp. 71-128; H. Hofmann, Legittimità contro legalità, cit., pp. 157 sgg. 36 M. Nicoletti, Trascendenza e potere, cit., p. 211. 37 J.-F. Kervégan, Che fare di Carl Schmitt? (2011), a cura di F. Mancuso, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 135. 38 C. Schmitt, Imperium, cit., p. 132. Sul punto, O. Beaud, Les derniers jours de Weimar. Carl Schmitt face à l’avènement du nazisme, Descartes & Cie, Paris 1997.

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e lo aveva fatto cominciando innanzitutto con il porsi di nuovo la stessa drammatica domanda: wer soll der Hüter der Verfassung sein? In breve, la tesi principale proposta da Kelsen consisteva nell’ascrivere al tribunale costituzionale, invece che al capo dello Stato, le funzioni di difensore dell’unità politica. La sua linea argomentativa si sviluppa lungo tre direttrici, che possiamo compendiare come segue: 1) il controllo di costituzionalità delle leggi costituisce un portato irrinunciabile dello Stato di diritto e del suo nucleo vitale: il principio di legalità dell’azione statale; 2) tale controllo non può essere affidato all’organo da controllare, ma ad un terzo indipendente e neutrale; 3) il parlamento non è lo scenario mefitico di una «totalità parcellizzata», ma un dispositivo fondamentale per la mediazione democratica fra interessi contrastanti39. Sul primo punto, sulla connessione tra Rechtsstaat e Gesetzlichkeit, Kelsen si era già soffermato in uno scritto del 191340, polemizzando con l’idea, propugnata da Otto Mayer nel suo Deutsches Verwaltungsrecht del 189541, che fosse lo Stato, ovvero il plesso monarca-burocrazia, e non la società, a dover «produrre» lo Staatswille, e che tale volontà, pertanto, dovesse considerarsi non solo superiore per qualità a quella dei privati, ma da essa anche sconnessa e inderivabile, visto che per Mayer la Gesellschaft doveva ritenersi situata agli antipodi della persona statale fondata nel popolo costituente, l’una minacciosamente plurale e centrifuga, l’altra rassicurante, unitaria e centripeta42. Una polarizzazione radicale, dunque, cui Kelsen contrapponeva energicamente una tesi ben diversa, quella di una legislazione come «funzione sociale» e di uno Stato come «forma della società, che va pensata come l’elemento sostanziale, come il contenuto di questa forma»43. 39 Al proposito, si veda O. Beaud, P. Pasquino (a cura di), La controverse sur “le gardien de la Constitution” et la justice constitutionnelle: Kelsen contre Schmitt, PanthéonAssas, Paris 2007; A. Simard, La loi désarmée: Carl Schmitt et la controverse: légalitélégitimité sous Weimar, Maison des Sciences de l’Homme, Laval 2009. 40 H. Kelsen, Zur Lehre vom öffentlichen Rechtsgeschäft, «Archiv des öffentlichen Recht, 31, 1913, pp. 53-98, 190-249. 41 M. Fioravanti, Otto Mayer e la scienza del diritto amministrativo, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2, 1983, pp. 600-659. 42 M. Fioravanti, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica dell’Ottocento, in G. Gozzi, P. Schiera, Crisi istituzionale e teoria dello Stato in Germania dopo la prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1987, p. 65. 43 H. Kelsen, Problemi fondamentali, cit., p. 460.

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Reso identico all’ordinamento giuridico, lo Stato è allora la circonferenza sul cui perimetro insistono soggetti e contenuti, in tal modo tutti equidistanti dal centro, ciascuno ugualmente intitolato a concorrere alla formazione della volontà generale. Una transizione graduale dal basso verso l’alto, dunque, che spezza l’immagine, per Kelsen del tutto implausibile, di una società civile puramente economico-privata, da una parte, e di un potere statale granitico e separato, dall’altra44. Se Schmitt, quindi, appartiene in pieno alla Staatslehre ottocentesca, esemplata da Mayer e votata al presupposto per cui la legalità non esaurisce il problema della richtige Entscheidung, come emergeva pure nei ragionamenti di Gesetz und Urteil, che autorizzavano il giudice a decidere contra legem, là dove i valori dell’ordine e della stabilità fossero stati vulnerati45, allora coglie nel segno il rimprovero di inattualità che questa volta è Kelsen a rivolgere contro Schmitt. A un contesto istituzionale ormai «unzeitgemäß», infatti, si richiama la richiesta di un Reichspräsident che funga da «contrappeso al parlamento». Solo in base, cioè, ad una «finzione di notevole audacia», tratta dall’arsenale ideologico e conservatore della monarchia costituzionale, era possibile giustificare una teoria del pouvoir neutre del monarca, come quella di Benjamin Constant, il cui reale proposito consisteva nel voler «assicurare un rifugio al principio monarchico»46, minacciato dall’emergere della rappresentanza popolare. Come può accordarsi tutto questo, esclama Kelsen, con la democrazia moderna, in cui il governo compare come il fiduciario di una maggioranza parlamentare?47 Rimosso il velo dell’ideologia, allora, la difesa dell’unità politica appare a Kelsen nient’altro che la decisione su un conflitto di interessi, che come tale esige un arbitro terzo e imparziale. E a nulla valgono, a tal proposito, le obiezioni di Schmitt, il quale, nel frattempo, 44

M. Fioravanti, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica dell’Ottocento, cit., p. 65; H. Kelsen, Problemi fondamentali, cit., p. 12; contra, C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, cit., p. 76. 45 F. Lijoi, La decisione tra astratto e concreto. Appunti sul problema della Rechtsverwirklichung nel giovane Schmitt, «La Cultura», 1, 2017, pp. 75-96. 46 H. Kelsen, Dottrina generale dello Stato (1925), a cura di J. Luther e E. Daly, Giuffrè, Milano 2013, pp. 576 sgg.; Id., Lineamenti di teoria generale dello Stato (1926), a cura di A. Carrino, Giappichelli, Torino 2004, p. 90. 47 H. Kelsen, Chi dev’essere il custode della costituzione?, supra, p. 83.

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immemore di quanto sostenuto in Gesetz und Urteil, aveva provato a far leva sulla differenza fra una questione politica, come quella in cui consiste la difesa della costituzione, e l’automatismo sussuntivo di una sentenza giudiziaria. Forma giuridica e forma politica, infatti, per Kelsen non divergono affatto per qualità, poiché entrambe prevedono l’esercizio di un potere discrezionale, seppure in misura diversa48. L’ultima categoria di argomenti, infine, è quella con cui Kelsen sferra i colpi più duri. Le osservazioni critiche svolte finora si vengono a convogliare nella formulazione del principio che secondo il giurista austriaco anima l’intera proposta schmittiana, ovvero l’idea che il parlamento, additato da Schmitt come il luogo putrescente di un «pluralismo incostituzionale»49, rappresenti, come tale, l’istituzione più temibile per l’unità dello Stato, l’autentica radix malorum dell’ordine costituito. Ora, se la società, di cui il parlamento non è che un riflesso altrettanto entropico, sortisce sullo Stato un effetto di «totalizzazione particolaristica»50 occorre che alla debolezza del compromesso si sostituisca la forza della decisione: e non solo eccezionalmente. Questo è il punto sul quale Kelsen affonda le lame della sua critica negli ultimi passaggi del «Wer soll?». Lo scopo di Schmitt e del suo appello a barricare l’intera costituzione dietro l’art. 48, infatti, non aveva nulla di occasionale o indifferente, bensì puntava a «giustificare una struttura dell’ordinamento statale che abbia un certo contenuto»51. Vale a dire: la vera funzione di un’interpretazione della costituzione che culminava in un’apoteosi dell’art. 48 consisteva nel rendere permanente «la condizione cui la costituzione di Weimar collega l’applicazione dell’art. 48,2»52. Un rischio, quello paventato dal giurista austriaco, che nello stesso torno di anni raccoglieva ampi riscontri tra le fila di chi non accettava l’immagine, tipica della propaganda conservatrice, di una democrazia che «chiacchiera ma non decide». Basti pensare a Franz Neumann, che addebitava al concetto schmittiano di Verfassung, perché troppo sostanziale, l’incapacità di governare la trasforma48

H. Kelsen 1931, supra, pp. 72-74. H. Kelsen 1931, supra, p. 97. 50 H. Kelsen 1931, supra, p. 76; C. Schmitt, Il custode della costituzione, cit., p. 131. 51 H. Kelsen 1931, supra, p. 74. 52 H. Kelsen 1931, supra, p. 97. 49

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zione sociale53; a Hermann Heller, che al carattere compromissorio di una «costituzione senza decisione» riconosceva invece apertura e dinamicità, e pertanto un profilo aggiornato al passaggio moderno da Gemeinschaft a Gesellschaft, per dirla con Tönnies54; a Ernst Fraenkel, che nel 1932, in Abschied von Weimar?, scriveva assai incisivamente che «non il compromesso, ma la possibilità che non si possa raggiungere più un compromesso mette in pericolo l’esistenza della costituzione»55; e infine a Otto Kirchheimer, forse il caso più curioso, quello cioè di un giurista che, in un primo momento, da allievo e seguace di Schmitt, nelle pagine di Weimar – und dann? scritte nel 1930, aveva rimproverato alla democrazia tedesca, dal momento che «non ha saputo prendere una decisione»56, un carattere meramente privatistico e non autenticamente politico, mentre due anni dopo, in Legalität und Legitimität e, in forma ancora più minuziosa e articolata, nelle Bemerkungen del 1933, composte insieme a Nathan Leites, aveva apertamente convenuto su posizioni kelseniane, asserendo che «poiché ogni deliberazione assunta dalla maggioranza del momento ha valore di legge per la maggioranza stessa e per tutto il popolo, la legittimità di tale forma di Stato coincide con la sua legalità»57. La contrapposizione tra decisione e compromesso, quindi, era da respingere e il compromesso, al contrario, da considerare l’unica forma possibile di decisione in una società non socialmente omogenea. Inaccettabile, pertanto, appariva a Kelsen la ripartizione manichea, proposta da Schmitt, tra i due organi del potere statale creati dalla costituzione, di cui «l’uno diviene nemico, l’altro amico dello Stato; uno vuole distruggerlo, cioè distruggere la sua unità, l’altro vuole difenderlo da tale distruzione; l’uno viola, l’altro custodisce la costi53

F. Neumann, Il diritto del lavoro fra democrazia e dittatura (1935), trad. it. di L. Gaeta, G. Vardaro, A. Capobianco, il Mulino, Bologna 1983, p. 60. 54 H. Heller, Freiheit und Form in der Verfassung, «Die Justiz», 5, 1929-30, pp. 672677: 672. 55 E. Fraenkel, Abschied von Weimar? (1932), in Id., Gesammelte Schriften, Nomos, Baden Baden 2011, Bd. 1, pp. 481-495: 488. 56 O. Kirchheimer, Weimar – e che cosa dopo? Analisi di una costituzione (1930), in Id. Potere e conflitto. Saggi sulla costituzione di Weimar, a cura di A. Scalone, Mucchi Editore, Modena 2017, pp. 51-89: 87. 57 O. Kirchheimer, Legalità e legittimità (1932) e Osservazioni su “Legalità e legittimità” di Carl Schmitt (1933), in Id. Potere e conflitto, cit., pp. 91-141: 96.

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tuzione. Tutto ciò non ha più nulla a che fare con una interpretazione della costituzione in termini di diritto positivo; si tratta ormai della mitologia di Ormuzd e Arimane in termini di diritto pubblico»58. Una mitologia gnostica, dunque, una malia anti-scientifica e un «ideale giusnaturalistico»: una proposta, insomma, quella avanzata da Schmitt, che veicola un’ideologia politica camuffata da «wissenschaftliche Behandlung»59. Soltanto di questo si trattava, per il giurista austriaco, di una strategia per evitare che l’attribuzione a un tribunale dell’onere di difendere la costituzione impedisse il trapasso allo «Stato totale per forza», non consentendo in tal modo di trasformare l’attuale forma di governo democratico-parlamentare ab imis fundamentis. «Schmitt però», precisa Kelsen, «non trae espressamente questa conclusione, mentre afferma soltanto, apertis verbis, che col trapasso allo Stato totale viene meno la distinzione tra Stato e società e quindi la distinzione tra governo e popolo»60. Eppure per Kelsen era già molto, anzi era tutto ciò che gli importava. Sulla nozione di popolo e sul suo rapporto con il sovrano, infatti, ovvero sul modo in cui il popolo può essere rappresentato come soggetto politico e potere costituente, si divaricano irrimediabilmente metodo scientifico e metodo teologico61. Per quel «sistema spirituale la cui stretta parentela con la teologia non sfugge più a nessuno» e in cui «il principio di contraddizione non ha cittadinanza»62, l’espressione della volontà popolare, «unitaria e indivisibile», dimostra di possedere un ordito esistenziale, senza essere «né un fatto normativo, né un processo, né una procedura»63, bensì «il grido della moltitu-

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H. Kelsen 1931, supra, p. 98. H. Kelsen 1931, supra, p. 99; sul punto, T. Storme, Carl Schmitt et le marcionisme: l’impossibilité théologico-politique d’un oeucuménisme judéo-chrétien?, Les Éditions du Cerf, Paris 2008; Id., Carl Schmitt, un marcionite moderne? Retour sur le statut du judaïsme dans la pensée du juriste catholique, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 95, 4, 2011, pp. 835-860. 60 H. Kelsen 1931, supra, p. 82. 61 Sul punto, senza esaustività: H.F. Pitkin, The Concept of Representation, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1967; H. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento (1974), trad. it. di C. Tommasi, Giuffrè, Milano 2007; D. Kelly, Carl Schmitt’s Political Theory of Representation, «Journal of the History of Ideas», 65, 1/2004, pp. 113-134. 62 H. Kelsen 1931, supra, p. 52. 63 C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 277. 59

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dine riunita che approva o respinge, l’acclamazione»64. Una natura naturans, questa del popolo esistente e acclamante, che per Schmitt viene prima della legge costituzionale e mai può esaurirsi in essa. Assiso dinanzi al Volk, il sovrano ne costituisce pertanto il “punto di rifrazione” politico, la persona capace di darne rappresentazione, colui che, «conservando il primato del diritto rispetto alla potenza»65, realizza la mediazione tra i «zwei Reiche» dell’Idea e della realtà. Ma è proprio nel modo di questa fusione tra Stato e società, nel tipo peculiare di identità rappresentativa di sovrano e popolo, che sta il problema. Cosa può significare, si chiede Kelsen, questa «unità che ha un carattere sostanziale e non meramente formale»? Di cosa può trattarsi, se non di «una condizione auspicata da un determinato punto di vista politico»?66. Quale potenza irrazionale, quale oscura allusività, vuole essere evocata quando si afferma che il presidente del Reich ha «la possibilità […] di collegarsi direttamente con la volontà generale del popolo tedesco»?67. A quale logica obbedisce l’immagine di un sovrano che, alla luce dell’Idea, coglie, corrisponde e attualizza (in una parola, rappresenta) l’unità del popolo, come nel caso della dittatura sovrana, oppure la custodisce e ri-evoca, come in quello della dittatura commissaria, mediante una decisione (Ent-scheidung) che, separando il nemico all’esterno, socializza e rappacifica l’interno? Assillato da simili questioni problematiche, Kelsen mette a soqquadro il tavolo su cui il giurista di Plettenberg aveva meticolosamente allestito i propri concetti e lo appronta ex novo. In conformità all’immanentismo nominalistico e meccanicistico della sua Rechtslehre, sottrae sostanzialità tanto empirica (perché indimostrabile dal punto di vista sociologico) quanto trascendente (perché mero ideale giusnaturalistico) al sortilegio dell’«unità del popolo» e ne fa un costrutto giuridico, uno «Zustand» per nulla esistenziale, ma creato «nur auf Grund einer (positiven) Norm»68. Nella rilettura normativa dei tre elementi della Staatslehre ottocentesca (popolo, territorio, sovranità), il popolo compare allora descritto dal complesso delle 64

Ivi, p. 120. C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, cit., p. 47. 66 H. Kelsen 1931, supra, p. 97. 67 H. Kelsen 1931, supra, p. 85, c.vo mio. 68 G. Bongiovanni, Reine Rechtslehre e dottrina giuridica dello Stato, cit., p. 23. 65

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norme sulla cittadinanza e la Staatsgewalt disciplinata dalle norme costituzionali sulla rappresentanza e sull’esercizio del potere legislativo. Il governo, perciò, né “interpreta”, né “si collega” all’Idea, ma si limita, seppure con un certo grado di discrezionalità, ad applicare le norme deliberate dal parlamento, di cui la volontà dello Stato, giusta il principio di legalità, è soltanto il contenuto. Un’idea di interesse pubblico, dunque, quella proposta da Kelsen, che non si configura come un’ulteriorità trascendente posta al di là della somma delle privatezze e degli individui, bensì come il risultato di una mediazione e di un compromesso, negoziato sui binari della procedura parlamentare, fra gli interessi dei gruppi rappresentati in assemblea69. Si tratta della coerente e inevitabile conseguenza che Kelsen trae dalla sua impostazione etica relativista e non-cognitivista, risoluta nel non voler cedere alla tentazione di sostituire al «governo del popolo» la retorica del «governo per il popolo»70, e che a una concezione del mondo metafisico-assolutista, con la sua corrispondente attitudine autocratica, contrappone una concezione critico-relativista, con le sue istituzioni parlamentari, il principio di maggioranza, la rappresentanza proporzionale, i partiti, il tribunale costituzionale71. 4. Il dilemma etico della democrazia Eppure, le parole pronunciate da Kirchheimer nel 1932 toccavano un punto assai dolente. Al di là della contrapposizione tra un modello di sovranità top-down, come quello trascendente di Schmitt, e un modello bottom-up, come quello immanente di Kelsen, la situazione di Weimar poneva un serio interrogativo a entrambi i giuristi. In quell’anno, infatti, la Repubblica si stava avviando verso un piano scosceso che il 23 marzo del 1933 avrebbe condotto il Reichstag, dopo l’improvvida nomina di Hitler a cancelliere da parte di 69 A. Scalone, Una battaglia contro gli spettri: diritto e politica nella Reine Rechtslehre di Hans Kelsen (1905-1934), Giappichelli, Torino 2008, pp. 93 sgg. 70 H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia (1929), in La democrazia, a cura di M. Barberis, Il Mulino, Bologna 1995, p. 147. 71 A. Carrino, L’ordine delle norme. Stato e diritto in Hans Kelsen, ESI, Napoli 1992, pp. 105-133.

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Hindenburg, all’approvazione dello Ermächtigungsgesetz, una legge parlamentare di revisione costituzionale (ex art. 76) che, attribuendo piena potestà legislativa al governo del Reich, di fatto obliterava il parlamento, un atto che «chiudeva la porta della legalità» da cui si era entrati. «Così in Germania», è stato scritto, «la democrazia parlamentare fu definitivamente sepolta»72. Questo era dunque il nervo scoperto: il tipo di legalità dello Stato legislativo celava un vulnus micidiale, poiché poteva essere utilizzata per legittimare la sospensione di sé stessa, ovvero dello stesso metodo democratico73. Schmitt lo sapeva bene. Cosa avrebbe potuto fare, in effetti, il tribunale costituzionale di Kelsen dinanzi a una legge legale? Quale efficace «contrappeso» avrebbe potuto esercitare, in quella drammatica circostanza, un «controllo» di costituzionalità? Nessuno74. Qui entrava invece in gioco la teoria di Schmitt, il cui scopo era appunto quello di invocare la superiore legittimità dello spirito della costituzione contro la vuota legalità dello Stato di diritto, la «légalité qui tue», come la stigmatizzò Lamennais75. In altri termini, la proposta schmittiana non era «quella di opporre alla legalità una legittimità trascendente, ma di pensare la legittimità come norma immanente e principio di autocorrezione di una legalità degradata a “mancanza di sostanza e di contenuto, meramente funzionalistica e fondata su computi puramente aritmetici”»76. Una forma di «superlegalità costituzionale», insomma, un surrogato di legittimità di cui lo Stato aveva dimostrato di avere un disperato bisogno da quando la struttura di auto-referenzialità tipica della modernità secolare lo aveva privato della garanzia precedentemente offerta da un ordine trascendente77. Non si può dire, del resto, che Kelsen non avesse a cuore il problema. Nel saggio sul Wer soll?, 72

W.L. Shirer, Storia del Terzo Reich (1959), trad. it. di G. Glaesser, Einaudi, Torino 1990, p. 311; sulla tattica della legalità e la “rivoluzione legale”, si veda K.D. Bracher, La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazionalsocialismo in Germania, trad. it. di F. Negri Tedeschi, il Mulino, Bologna 1973, pp. 227-307 (in particolare, pp. 258-268). 73 M. Nicoletti, Trascendenza e potere, cit., p. 363. 74 E.-W. Böckenförde, Il concetto di “politico” come chiave per intendere l’opera giuspubblicistica di Carl Schmitt (1988), in Id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 127-128. 75 C. Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea (1943), a cura di A. Carrino, Pellicani, Roma 1996, p. 84. 76 J.-F. Kervégan, Che fare di Carl Schmitt?, cit., p. 141. 77 E.-W. Böckenförde, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione (1967), in Id., Diritto e secolarizzazione, cit., p. 52.

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infatti, aveva esplicitamente dichiarato che la sua analisi critica «non vuole e non può mettere in questione il valore politico che in determinate situazioni hanno la richiesta della massima possibile espansione del potere del presidente del Reich, cioè del governo, e il conseguente rifiuto del controllo di costituzionalità»78. Ma il suo timore era un altro. Esso era dovuto piuttosto all’aver scorto una certa sistematicità nelle ragioni che Schmitt aveva addotto per fronteggiare la contingenza critica. E non si trattava semplicemente di sospettare un secondo fine dietro al primo79. Si può infatti lasciare impregiudicato se Schmitt fosse stato in buona fede o meno, quando si impegnò nella difesa (o nella trasformazione, appunto?) della costituzione di Weimar. Né conviene interpretare questi fatti, che sono precedenti, con quelli successivi concernenti la sua adesione al nazismo, dal momento che un rimprovero di opportunismo politico sarebbe sufficiente a vanificare il collegamento. Il punto critico era di natura teorica. Kelsen aveva probabilmente intravisto, infatti, come per Schmitt l’eccezione non costituisse soltanto il margine smagliato di un tessuto altrimenti ben annodato, quasi un “irrazionale nel concetto”, bensì il lembo sporgente di una trama ulteriore, sottostante e più profonda, alla quale, pertanto, un più originario e più autentico modello di sovranità era chiamato a corrispondere. A Kelsen, insomma, il governo della crisi cui Schmitt ambiva con la sua proposta non poteva sembrare soltanto una soluzione per il caso di emergenza (Ernstfall), una strategia di «ritorno alla normalità», quanto piuttosto l’imperdibile (e funesta) occasione per affermare, a partire da quel «nulla culturale e sociale» che la crisi rivelava e che Schmitt aveva evocato nel Begriff80, la straordinarietà di una «vita seria», non più falsificata dall’estetica borghese della «normalità», e cioè dalla chiacchiera, la curiosità e l’equivoco di una esistenza spoliticizzata e in balia del desiderio privato. A tale malcelato intento schmittiano, il giurista austriaco aveva reagito, da un lato, sbarazzandosi di quella concezione fosca e tetra dell’individuo, che, soltanto se afferrato dallo Stato e inserito nel suo ritmo81, smette di essere una «massa di atomi messi insieme 78

H. Kelsen 1931, supra, p. 98. J.-F. Kervégan, Che fare di Carl Schmitt?, cit., p. 141. 80 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 181. 81 C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, cit., p. 88. 79

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dal movimento»82; dall’altro, decostruendo la falsa alternativa tra Wertfülle e Wertneutralität83, tra pienezza dei valori e neutralità assiologica. Tertium datur: la scienza moderna, infatti, quella che smaschera i raddoppiamenti gnoseologici e le ipostatizzazioni (Dio dietro la natura, lo Stato dietro il diritto) è per Kelsen l’unica capace di offrire un modello metodico all’altezza dell’«età secolare»84, il paradigma di una neutralità formale il cui valore alligna nell’uguaglianza di tutti gli interessi e di tutti i soggetti, vale a dire in un relativismo che non è indifferenza ai valori, ma imparziale partecipazione alla produzione della verità politica. Un meccanismo di equivalenza rappresentativa, quindi, che contiene in sé stesso la propria legittimità e il proprio dispositivo di autodifesa: chi vuole la democrazia, poiché vuole il relativismo e la concezione della verità che ne consegue, non può nel contempo volere un valore che escluda tutti gli altri valori, che pretenda cioè di eludere e aggirare quel processo dialettico che, per tentativi ed errori, accomodamenti e compromessi, governa instancabilmente e caratterizza pienamente la vita democratica85. Cosa accade, allora, se «il popolo in parlamento» non vuole più la democrazia, cedendo all’incantesimo di «un collegamento diretto con la verità e con l’Idea»? Per Kelsen ciò significa, semplicemente, che quel popolo ha smesso di essere democratico e la democrazia, che persuade ma non costringe, educa ma non obbliga, altro non può fare se non sperare che esso torni a volerla. Se non riesce a darsi da sola la voglia di sopravvivere, dunque, nessuna garanzia può esserle fornita dall’esterno, nessun «padre» può provvedere alla soddisfazione dei suoi bisogni e trarla fuori, una volta per tutte, dall’impaccio della sua precarietà. Se solo per mano di un popolo educato alla democrazia i conflitti possono trovare una composizione pacifica e gli appetiti autoritari vivere vita breve, perché disinnescati dallo stesso relativismo che ne consente e, paradossalmente, ne alleva l’insorgere, nulla può una democrazia dinanzi a un popolo diseducato che non 82

Ivi, p. 93; cfr. F. Lijoi, Sul valore dell’individuo e la critica dello Stato nel giovane Schmitt, «Iride», 75, 2015, pp. 381-390. 83 Sul punto, C. Schmitt, Legalità e legittimità, cit., p. 83. 84 C. Taylor, L’età secolare (2007), a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009. 85 H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia (1929), cit.; F. Lijoi, Parlamentarismo ed educazione alla democrazia. Riflessioni su Hans Kelsen, «La Cultura», 2, 2011, pp. 227-248.

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la vuole più e a nient’altro può condurre il relativismo democratico, in tal caso, se non alla disarmata constatazione della propria disdetta. In questo senso, l’unica legittimità di uno Stato democratico può essere soltanto il suo habitus, la sua prassi sedimentata per il dialogo e la discussione. Su tutto ciò meditava, con drammatica coerenza, Hans Kelsen, quando, nel 1932, alla vigilia dell’annus horribilis, trasse queste dolorose ma inevitabili conclusioni, quale ultimo atto del suo dialogo con Carl Schmitt sul custode della costituzione: Ma in rapporto a questa situazione ci si chiede anche se perciò non si debba smetterla di difendere la democrazia con le teorie, se la democrazia non debba essere difesa contro il popolo che non la vuole più, contro una maggioranza unanime solo nella volontà di distruzione della democrazia. Porre questi interrogativi significa già negarli. Una democrazia che cerchi di affermarsi contro la volontà della maggioranza, di affermarsi con la forza, ha cessato di essere democrazia. Un potere popolare non può continuare ad esistere contro il popolo. E non deve nemmeno tentarlo: chi è per la democrazia non può farsi prendere nella funesta contraddizione di ricorrere alla dittatura per difendere la democrazia. Bisogna rimanere fedeli alla propria bandiera anche quando la nave affonda; nell’abisso si può portare con sé solo la speranza che l’ideale della libertà sia indistruttibile e che quanto più sprofonda con tanto maggior passione tornerà a vivere86.

86 H. Kelsen, Difesa della democrazia (1932), in Id., Sociologia della democrazia, a cura di A. Carrino, ESI, Napoli 1991, p. 50. Sul punto, si ricordi anche la celebre affermazione di J. Dewey in The Public and Its Problems (1927), in Id., The Later Works (19251953), vol. II (1925-1927), edited by Ann Boydston, Southern Illinois University Press, London and Amsterdam 2008: «The cure for the ills of democracy is more democracy» (p. 325).

Leo Strauss Note su Carl Schmitt, «Il concetto di politico» A cura di Massimo Palma

Leo Strauss, Anmerkungen zu Carl Schmitt, «Der Begriff des Politischen», in Id., Gesammelte Schriften, vol. 3, Hobbes’ politische Wissenschaft und zugehörige Schriften – Briefe, a cura di H. Meier – W. Meier, Metzler, Stuttgart 20082 (2001), pp. 217-238.

Note su Carl Schmitt, «Il concetto di politico»

i. Il trattato di Schmitt1 è al servizio della questione dell’«ordine delle cose umane» (81), ossia dello Stato. Rispetto al dato di fatto che lo Stato oggi è divenuto problematico come non accadeva almeno da secoli (11), la comprensione dello Stato esige una fondazione radicale, «un’esposizione semplice ed elementare» del fondamento dello Stato, vale a dire del politico, perché «il concetto dello Stato presuppone quello del politico» (7). Occorre comprendere questa tesi, con cui viene aperta l’indagine sul concetto del politico, secondo i principî generali dell’approccio interpretativo di Schmitt. Secondo tali principî l’enunciato «il politico precede lo Stato» non può voler esprimere una verità eterna, ma solo attuale. Infatti «ogni spirito (è) spirito presente» (66); «tutti i concetti della sfera spirituale, incluso il concetto di spirito, sono in sé pluralisti e possono esser compresi solo a partire dall’esistenza politica concreta» (71); «tutti i concetti, le rappresentazioni e i termini politici (hanno) un senso polemico; mirano a un’antitesi concreta, sono legati a una situazione concreta […]» (18). Stando a tali principî occorre chiedersi: in che misura la situazione presente obbliga a riconoscere nel politico il fondamento dello Stato? Rispetto a quale avversario il politico emerge come fondamento dello Stato? La situazione attuale è connotata dal fatto che un processo lungo tre secoli «è giunto al suo termine» (80). L’epoca alla fine della quale 1 Der Begriff des Politischen. Mit einer Rede über das Zeitalter der Neutralisierungen und Entpolitisierungen neu herausgegeben von Carl Schmitt, Duncker & Humblot, München und Leipzig 1932. Le cifre riportate tra parentesi nel testo si riferiscono ai numeri di pagina di questo scritto.

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ci troviamo è «l’epoca delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni». La spoliticizzazione non è solo il risultato contingente o anche necessario dell’evoluzione moderna, ma la sua originaria e autentica mèta; il movimento in cui lo spirito moderno ha sviluppato la sua efficacia maggiore, il liberalismo, è appunto connotato dalla negazione del politico (55 sgg.). Se il liberalismo ha nondimeno perso credibilità, se pertanto gli si deve opporre un «altro sistema», allora la prima parola contro il liberalismo sarà in ogni caso la posizione del politico. E se il liberalismo ha creduto di portare a termine la fondazione dello Stato, o meglio, l’instaurazione della convivenza ragionevole, mediante la negazione del politico, dopo il fallimento del liberalismo si impone tuttavia l’idea che lo Stato possa essere compreso solo a partire dalla posizione del politico. Perciò la tesi fondamentale di Schmitt è determinata integralmente dalla polemica contro il liberalismo; va «intesa» solo in chiave polemica, solo «a partire dall’esistenza politica concreta». Il compito di Schmitt è determinato dal fatto del fallimento del liberalismo. In questo fallimento le cose sono andate in questo modo: il liberalismo ha negato il politico, ma non lo ha eliminato dal mondo, bensì lo ha solo occultato, col risultato che adesso si fa politica mediante una retorica antipolitica. Il liberalismo ha ucciso quindi non il politico, ma solo la comprensione del politico, la franchezza verso il politico (53 sgg.). Per eliminare l’offuscamento della realtà cagionato dal liberalismo occorre mettere in risalto il politico come tale e come un che di semplicemente innegabile. Perché possa esser posta sul serio la questione dello Stato, il politico va tratto fuori dall’occultamento causatogli dal liberalismo e va restituito alla luce del giorno. Non basta dunque constatare il fallimento del liberalismo come un fatto; né basta mostrare come il liberalismo spinga sé stesso ad absurdum in ogni atto politico; né ricordare «che tutti i buoni osservatori […] hanno disperato di trovarvi [scil. nel liberalismo] un principio politico o una coerenza teorica» (57). Né basta discernere che la palese incoerenza di ogni politica liberale è la conseguenza necessaria della negazione di principio del politico (56). Occorre piuttosto sostituire la «sistematica sorprendentemente coerente del pensiero liberale», che si palesa nell’incoerenza di ogni politica liberale, con un «altro sistema» (58), vale a dire con un sistema che non neghi il politico, bensì lo porti al riconoscimento.

note su carl schmitt, «il concetto di politico»

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Schmitt sa – e basti questo per delineare l’importanza del suo sforzo; proprio in virtù di questa consapevolezza egli è del tutto isolato nelle fila degli avversari del liberalismo, che di solito recano in dote un’elaborata dottrina illiberale – che la «sistematica sorprendentemente coerente del pensiero liberale», «nonostante tutti i colpi subiti, oggi in Europa non è stata ancora sostituita da un altro sistema» (58). Con questo Schmitt allude alla difficoltà fondamentale anche della sua indagine. Perché se è vero che la «sistematica del pensiero liberale» «non è stata ancora sostituita in Europa da un altro sistema», allora bisogna aspettarsi che anch’egli sia costretto, esponendo le sue opinioni, a far uso di elementi del pensiero liberale. Da cui discende il carattere preliminare delle argomentazioni di Schmitt. Lo dice lui stesso: non vuole far altro che «“inquadrare” sul piano teorico un problema incommensurabile»; le tesi del suo scritto «sono intese come punto di partenza di una discussione oggettiva» (82). Ne consegue per il critico l’obbligo di prestare più ascolto ai frangenti in cui Schmitt prende le distanze dall’opinione dominante, che ai luoghi in cui egli la segue. ii. Schmitt rinuncia espressamente a fornire una «definizione esaustiva» del politico (14). Dall’inizio intende la questione sull’«essenza del politico» (7) come una questione sulla specificità del politico (8 e 13 sgg.). Certo non perché consideri già risolta o addirittura indifferente la questione del genere al cui interno debba esser determinata la differenza specifica del politico, ma proprio perché parte da una profonda diffidenza nei confronti della risposta oggi più ovvia: egli si apre la strada per una risposta originaria alla questione del genere, portando ad absurdum la risposta più ovvia sul fenomeno del politico. La risposta autenticamente liberale ancora oggi più ovvia, a dispetto di ogni contestazione, alla domanda su quale sia il genere rispetto a cui è determinabile la peculiarità del politico, e con ciò dello Stato, suona: questo genere è la «cultura», ossia la totalità «del pensiero e dell’agire umani», che si ripartisce in «diversi ambiti oggettivi, relativamente indipendenti» (13), in «province culturali» (Natorp). Schmitt resterebbe nell’orizzonte di questa risposta se dicesse, come

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pare all’inizio: come «nell’ambito del morale le distinzioni ultime sono buono e malvagio, nell’estetico bello e brutto, nell’economico utile e nocivo», così la «distinzione specificamente politica» è «la distinzione tra amico e nemico» (14). Questa coordinazione ed equiparazione del politico con altre «province culturali» viene però espressamente rifiutata: la distinzione tra amico e nemico «non è né equivalente né analoga alle altre distinzioni»; il politico non designa «propriamente un ambito oggettivo nuovo» (14). Il che vuol dire che la comprensione del politico implica una critica di principio almeno al concetto dominante di cultura. Schmitt non rende ovunque esplicita questa critica. Anche lui – seguendo la maniera di esprimersi di tutta una letteratura – parla di «diversi ambiti oggettivi, relativamente indipendenti, del pensiero e dell’azione umana» (13) o delle diverse «sfere della vita e del pensiero umano» (53). In un passo (59), si esprime in modo tale che un lettore superficiale potrebbe ricavarne l’impressione che Schmitt, dopo che il liberalismo ha portato a riconoscere l’autonomia dell’estetico, della morale, della scienza, dell’economia etc., voglia da parte sua, certo contro il liberalismo, ma in continuità con le aspirazioni liberali all’autonomia, far riconoscere l’autonomia del politico. Quanto questa non sia affatto l’opinione di Schmitt è tuttavia ben mostrato dalle virgolette di cui egli rifornisce il termine “autonomia” nell’espressione «autonomia dei diversi ambiti della vita umana». La cosa diventa ancora più chiara nel risalto dato alla “naturalezza” con cui il liberalismo «non solo riconosce l’“autonomia” dei diversi ambiti della vita umana, ma la spinge sino alla specializzazione e persino al completo isolamento» (59). La distanza di Schmitt dal concetto di cultura dominante diviene perfettamente chiara nella seguente caratterizzazione dell’estetico: «il percorso dal metafisico e dal morale all’economico passa per l’estetico, e il percorso attraverso il consumo e il godimento estetico, per quanto sublimi, è la via più sicura e comoda per l’economicizzazione generale della vita spirituale […]» (70); il concetto dominante di cultura infatti include in ogni caso il riconoscimento del valore autonomo dell’estetico, posto che non sia in genere costituito proprio da questo riconoscimento. Da qui deriva perlomeno la pretesa che il concetto dominante di cultura venga rimpiazzato da un altro concetto di cultura. E tale sostituzione deve radicarsi in una comprensione della specificità del politico.

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Come abbiamo visto, Schmitt rinuncia espressamente a una «definizione esaustiva» del politico. Prendendo le mosse dalla tesi per cui «i diversi ambiti oggettivi, relativamente indipendenti, del pensiero e dell’azione umana» (il morale, l’estetico, l’economico etc.) hanno i loro «propri criteri», attraverso cui vengono costituiti nella loro relativa indipendenza, egli indaga il «criterio del politico». I criteri in questione hanno il carattere di «distinzioni ultime», meglio, «antitesi» ultime. Così il criterio del morale è l’antitesi bene-male, il criterio dell’estetico l’antitesi bello-brutto etc. Orientandosi in base a questo rapporto generale Schmitt determina quale «distinzione specificamente politica […] la distinzione tra amico e nemico» (13 sgg.). Con «nemico» – e anche con «amico» – occorre intendere sempre soltanto il nemico (amico) pubblico, «una collettività di individui in lotta almeno in linea eventuale, ossia nella possibilità reale, contro una collettività analoga» (16). Dei due elementi della prospettiva amico-nemico, «nemico» ha una preminenza – come risulta già dal fatto che Schmitt, quando discute più nel dettaglio questa prospettiva, in realtà parla solo del significato di «nemico» (cfr. 14, 16 e 20). Si può dire che ogni «collettività di individui» si guarda attorno in cerca di amici, ha amici, solo perché ha già nemici; «nel riferimento a una contrapposizione concreta [è] custodita l’essenza delle relazioni politiche» (18). «Nemico» ha una preminenza su «amico» perché nel «concetto di nemico» – e quindi non nel concetto di amico come tale – rientra l’«eventualità, compresa nell’ambito del reale, di una lotta» (20) e dall’eventualità della guerra, dell’«emergenza» (Ernstfall), dalla «possibilità più estrema» «la vita degli uomini» acquista «la sua tensione specificamente politica» (22 sgg.). La possibilità della guerra non costituisce il politico come tale; la guerra non è semplicemente il «mezzo politico più estremo», è l’emergenza non meramente all’interno di un ambito «autonomo» – ossia l’ambito del politico –, ma è l’emergenza per l’uomo tout court, perché sta e rimane in relazione «con la possibilità reale dell’uccisione fisica» (20); quest’orientamento costitutivo per il politico mostra che il politico è fondamentale e non è un «ambito oggettivo relativamente autonomo» assieme agli altri. Il politico è ciò che è «determinante» (26). Così bisogna intendere che il politico «non [è] equivalente [né] analogo» al morale, all’estetico (14). Questa determinazione del politico è legata nel modo più stretto alla critica del concetto di cultura dominante accennata da Schmitt.

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Questa critica mette in questione l’«autonomia» dei diversi «ambiti oggettivi del pensiero e dell’agire umano». Secondo il concetto di cultura dominante, «autonome» non sono però solo le singole «province culturali» in rapporto reciproco, ma in primo luogo è «autonoma» la cultura nel suo insieme, la creazione sovrana, la «pura produzione» dello spirito umano. Concependo le cose in questo modo, si arriva a dimenticare che «cultura» presuppone sempre qualcosa che viene coltivato: cultura è sempre cultura della natura. Questo in origine significa che la cultura forma le disposizioni naturali; è cura premurosa della natura – che sia suolo terrestre o spirito umano –; obbedisce alle indicazioni che dà la natura stessa. Può anche significare vincere la natura obbedendo alla natura (parendo vincere, nella formula di Bacone); poiché la cultura non è tanto cura leale della natura quanto lotta dura e astuta contro la natura. Che la cultura venga intesa come cura della natura o come lotta con la natura dipende da come è intesa la natura: se come ordine esemplare o come disordine da eliminare. Comunque la si intenda, in ogni caso la «cultura» è cultura della natura. La «cultura» è a tal punto cultura della natura che essa può essere intesa come creazione dello spirito solo quando la natura che viene coltivata venga presupposta come antitesi dello spirito e dimenticata. Poiché con «cultura» intendiamo eminentemente la cultura della natura umana, il presupposto della cultura è eminentemente la natura umana, e, poiché l’uomo nella sua natura è un animal sociale, allora la natura umana che è alla base della cultura è la convivenza naturale degli uomini, ovvero la modalità con cui l’uomo si comporta con gli altri uomini prima di ogni cultura. Il termine per una convivenza naturale così intesa è status naturalis. Si può quindi dire: il fondamento della cultura è lo status naturalis. Nel senso del concetto di cultura specificamente moderno – resti qui in sospeso se in genere si possa parlare con qualche rigore di un concetto di cultura diverso da quello moderno – Hobbes ha inteso lo status civilis, che è il presupposto di ogni cultura in senso proprio (ossia d’ogni cura delle arti e delle scienze) e che in sé si fonda già su una determinata cultura, ossia su un disciplinamento del volere umano, come antitesi dello status naturalis. Prescindiamo qui dal fatto che Hobbes concepisce il rapporto tra status naturalis e cultura (nel senso più ampio) come antitesi: sottolineiamo soltanto il fatto che Hobbes connota lo status naturalis come status belli per eccellenza,

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considerando che «the nature of war, consisteth not in actuall fighting; but in the known disposition thereto» (Leviathan XIII). Questo nella terminologia di Schmitt significa: lo status naturalis è lo stato autenticamente politico; infatti anche per Schmitt «il politico [sta] non nella lotta stessa […], ma in un comportamento determinato da questa possibilità reale […]» (25). Ne risulta quindi che il politico esaltato da Schmitt come fondamentale è lo «stato di natura» che è alla base di ogni cultura; Schmitt riporta in auge il concetto hobbesiano di stato di natura (vedi 47). Con ciò si risponde anche alla questione sul genere al cui interno si possa determinare la differenza specifica del politico: il politico è uno status dell’uomo; e precisamente è lo status in quanto «naturale», lo status fondamentale ed estremo dell’uomo. Lo stato di natura in Schmitt viene determinato in modo completamente diverso rispetto a Hobbes. Per Hobbes è lo stato della guerra tra individui – per Schmitt è lo stato della guerra tra gruppi (in particolare tra popoli). Per Hobbes nello stato di natura ciascuno è nemico di ogni altro – per Schmitt ogni condotta politica è indirizzata ad amico e nemico. Questa differenza è motivata dal fatto che la determinazione hobbesiana dello stato di natura è intesa in chiave polemica: il fatto che lo stato di natura sia lo stato della guerra di tutti contro tutti deve appunto causare l’abbandono dello stato di natura. A questa negazione dello stato di natura o del politico Schmitt oppone la posizione del politico. Ma in Hobbes non si parla mai di una totale negazione del politico; stando alla sua dottrina lo stato di natura permane almeno nel rapporto tra le nazioni. E per questo la polemica hobbesiana contro lo stato di natura come stato di guerra tra individui, che Schmitt, come mostra la sua osservazione che ricalca espressamente le orme di Hobbes sul rapporto tra protezione e obbedienza (40 sgg.; cfr. anche 34), sembra far propria implicite, non sembra dover mettere in questione il politico nel senso di Schmitt, ossia il carattere «naturale» delle relazioni tra associazioni umane. Secondo Schmitt invece fa parte dell’essenza dell’associazione politica il fatto che essa possa «esigere dai membri del proprio popolo la disponibilità a morire» (34); e la giustificazione di questa pretesa viene perlomeno delimitata da Hobbes: chi in battaglia abbandona le schiere perché teme per la propria vita agisce «solo» in modo disonorevole, ma non ingiusto (Lev.

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XXI). Lo Stato può esigere dal singolo individuo solo un’obbedienza condizionata, ossia un’obbedienza che non sia in contraddizione con la salvezza o la conservazione della vita di questo individuo: l’assicurazione della vita è il fondamento ultimo dello Stato. Pertanto l’uomo è sì obbligato all’obbedienza incondizionata per ogni altra questione, ma non a rischio della vita: la morte è appunto il male più grande. Hobbes non si ritrae di fronte alla conseguenza di dover esplicitamente negare il carattere di virtù al coraggio (De homine XIII 9). La medesima attitudine si palesa nella sua determinazione di salus populi: la salus populi consiste: 1. nella difesa contro il nemico esterno; 2. nel mantenimento della pace all’interno; 3. nell’arricchimento equo e sobrio dei singoli individui, che si ottiene assai più col lavoro e la parsimonia che mediante guerre vittoriose, e che in particolare viene promosso dalla cura della meccanica e della matematica; 4. nel godimento di una libertà innocua (De cive XIII 6 e 14). Questi principî, non appena l’«umanità» diventa soggetto od oggetto del programma, debbono portare all’ideale della civiltà (Zivilisation), ossia alla pretesa di una convivenza secondo ragione dell’umanità in quanto è una «consociazione di consumo e produzione» (46). Hobbes è in misura assai maggiore di un Bacone il fondatore dell’ideale della civiltà. Appunto per questo è il fondatore del liberalismo. Il diritto all’assicurazione della nuda vita (nacktes Leben) in cui si risolve il diritto naturale di Hobbes presenta un compiuto carattere di diritto umano inalienabile, ossia di una pretesa dei singoli che precede lo Stato, che ne determina lo scopo e i limiti; la fondazione hobbesiana della pretesa giusnaturalistica all’assicurazione della nuda vita suggerisce l’evoluzione verso l’intero sistema dei diritti umani nel senso del liberalismo, posto che non lo esiga direttamente. Hobbes si distingue dal liberalismo evoluto soltanto e proprio in quanto sa e vede contro cosa l’ideale liberale, civilizzatore, deve combattere: non solo contro i mezzi corrotti, contro il volere malvagio di uno strato dominante, ma contro la malvagità naturale dell’uomo; lui, in un mondo illiberale, contro la – sit venia verbo – natura illiberale dell’uomo impone la fondazione del liberalismo, mentre i successori, ignari dei loro presupposti e dei loro scopi, confidano nella bontà originaria della natura umana, fondata sulla creazione e sulla provvidenza divina, oppure nutrono speranze in un miglioramento della natura sulla base della neutralità scientifica – speranze cui l’esperienza dell’uomo

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su sé stesso non dà alcun diritto. Hobbes, al cospetto dello stato di natura, cerca di superare lo stato di natura, nei limiti in cui questo è superabile, mentre i successori si fingono uno stato di natura oppure dimenticano lo stato di natura sulla base di una supposta concezione più profonda della storia e con questa dell’essenza dell’uomo. Ma – non si può negare giustizia ai successori di Hobbes – quella finzione e quell’oblio sono in ultima analisi solo la conseguenza della negazione dello stato di natura, della posizione della civiltà, che è stata introdotta da Hobbes. Se è vero che l’autocoscienza finale del liberalismo è la filosofia della cultura, allora in sintesi possiamo dire che il liberalismo, racchiuso e prigioniero in un mondo di cultura, dimentica il fondamento della cultura, lo stato di natura, ossia la natura umana nella sua pericolosità e vulnerabilità. Schmitt, contro il liberalismo, ritorna al suo iniziatore, Hobbes, per trovare nella negazione hobbesiana dello stato di natura la radice del liberalismo2. Mentre Hobbes compie in un mondo illiberale la fondazione del liberalismo, Schmitt intraprende la critica del liberalismo in un mondo liberale. iii. Alla negazione liberale del politico Schmitt contrappone la posizione del politico, ovvero il riconoscimento della realtà del politico. La posizione del politico, stando all’espressa opinione di Schmitt, è indifferente rispetto all’ipotesi che il politico sia ritenuto auspicabile o detestabile: essa non va intesa «né in senso bellicista o militaristico, né imperialista, né pacifista» (21). Schmitt vuole conoscere solo cosa è. Ciò non significa che egli ritenga le sue analisi «neutrali rispetto ai valori» (wertfrei), o che, preoccupato di garantire la scientificità della sua ricerca, o della libertà della decisione personale, voglia lasciare aperte tutte le possibilità di una presa di posizione valoriale sul politico. Gli preme piuttosto precludere qualsiasi possibilità del 2

Schmitt nella prima versione di questo trattato aveva definito Hobbes come «di gran lunga il maggiore e forse l’unico pensatore politico davvero sistematico» («Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. 58, p. 25). Ma adesso egli ne parla solo come di «un grande e veramente sistematico pensatore politico» (64). In verità è il pensatore antipolitico, intendendo “politico” nel senso di Schmitt.

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genere: il politico non può affatto essere oggetto di giudizi di valore, esser commisurato a un ideale; applicati al politico, tutti gli ideali altro non sono che «astrazioni», tutte le «normatività» nient’altro che «finzioni» (37 sgg. e 16). Infatti il politico è costituito dalla relazione «alla possibilità reale dell’uccisione fisica» di uomini da parte di uomini (20); e «non v’è alcun fine razionale, alcuna norma per quanto corretta, alcun programma per quanto esemplare, alcun ideale sociale per quanto bello, alcuna legittimità o legalità che potrebbe giustificare che gli uomini si uccidano reciprocamente in suo nome» (37). La posizione del politico presenta come conseguenza la descrizione non polemica del politico. Come tale essa si contrappone alla descrizione polemica hobbesiana dello stato di natura. Hobbes aveva rappresentato lo stato di natura come in sé impossibile: lo stato di natura è lo stato della guerra di tutti contro tutti; nello stato di natura ciascuno è nemico di ogni altro. Secondo Schmitt i soggetti dello stato di natura non sono individui, ma collettività; e inoltre non ogni collettività è nemica di ogni altra, ma oltre alla possibilità dell’ostilità vi è anche quella dell’alleanza e della neutralità (22). Lo stato di natura così inteso è possibile in se stesso. Che esso sia anche reale è testimoniato dall’intera storia dell’umanità fino a oggi. Può darsi che vi sarà un giorno uno stato dell’umanità interamente spoliticizzato – «se e quando giungerà questo stato della terra e dell’umanità, io non lo so» – a ogni modo, «al momento non si dà», e pertanto sarebbe «una finzione disonesta supporlo già presente […]» (42). Ora, possiamo tranquillizzarci, e tanto più può farlo Schmitt stesso, perché «al momento non si dà» la situazione di spoliticizzazione (42), e «la guerra è oggi ancora presente come possibilità reale» (24). Di fronte al fatto che oggi esiste un forte movimento che ambisce all’eliminazione totale della possibilità reale della guerra, quindi all’abolizione del politico, di fronte al fatto che non solo esercita una grande influenza sulla mentalità dell’epoca, ma determina in modo decisivo i rapporti reali – se è vero che questo movimento ha portato a che la guerra «oggi non [è] verosimilmente né alcunché di pio, né di moralmente buono, né di profittevole» (24), mentre nei secoli precedenti poteva ben essere tutto questo –, di fronte a questo fatto bisogna chiedersi, andando oltre l’oggi: ammesso che la guerra è ancora presente oggi come possibilità reale», lo sarà ancora domani, o dopodomani? In altri termini: se l’abolizione del politico finora non

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è in alcun modo riuscita, non è comunque possibile in futuro? È possibile in genere? A questa domanda Schmitt dà la seguente risposta: il politico è un carattere fondamentale della vita umana; la politica è in questo senso il destino; pertanto l’uomo non può eludere la politica (24, 54, 64 sgg.). L’ineludibilità del politico si mostra nella contraddizione in cui si vede invischiato l’uomo quando tenta di eliminare il politico. Quest’ambizione ha possibilità di successo laddove e solo laddove divenga politica; ossia quando «sia forte abbastanza da raggruppare gli uomini secondo amico e nemico», quando cioè «riuscisse a indurre in guerra i pacifisti contro i non-pacifisti, in una “guerra contro la guerra”». La guerra contro la guerra verrebbe allora intrapresa come l’«ultima guerra dell’umanità». Una tale guerra è però «necessariamente particolarmente intensa e disumana», perché in essa il nemico viene combattuto «in quanto mostro disumano […], che non viene solo respinto, ma deve esser definitivamente annientato» (24). Non bisogna però attendersi che l’umanità, una volta messasi alle spalle una guerra particolarmente disumana, diventi particolarmente umana e quindi impolitica. Così l’aspirazione a eliminare il politico per amore dell’umanità presenta come esito necessario null’altro che l’incremento di disumanità. Pertanto quando si dice che il politico è un carattere fondamentale della vita umana – in altre parole: che l’uomo cessa di essere uomo quando cessa di essere politico –, con questo si sta dicendo esattamente che l’uomo cessa di essere umano (human), quando cessa di essere politico. Quando l’uomo, nel tentativo di eliminare il politico, si invischia necessariamente in contraddizioni, tale tentativo in ultima analisi è possibile solo su basi disoneste: «esecrare la guerra come assassinio e poi esigere dagli uomini che muovano guerra e in guerra uccidano e si lascino uccidere perché “non vi sia più guerra” è un inganno manifesto» (37). Il politico non è solo possibile, ma è anche reale; e non solo reale, ma anche necessario. È necessario, perché è dato assieme alla natura umana. Pertanto l’antitesi tra la negazione e la posizione del politico riporta a una contesa sullo stato di natura. Si disputa in ultima analisi se l’uomo sia per natura buono o malvagio. «Buono» e «malvagio» tuttavia «non vanno presi in un senso particolarmente morale o etico», ma «buono» va inteso come «innocuo», e «malvagio» come «pericoloso». È dunque questa la domanda ultima: «se l’uomo sia un

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essere pericoloso o innocuo, un essere offensivo oppure innocuamente inoffensivo» (46). «Tutte le teorie politiche genuine» presuppongono la pericolosità dell’uomo. La tesi della pericolosità dell’uomo è dunque l’ultimo presupposto della posizione del politico. Il processo argomentativo appena restituito non è certo l’ultima parola né la più profonda che Schmitt abbia da dire. Esso sottende un ragionamento che spunta fuori in abiti affatto diversi, e che non concorda con quanto detto. Schmitt definisce come ultimo presupposto della posizione del politico la tesi della pericolosità dell’uomo: tanto è salda la pericolosità dell’uomo, tanto la necessità del politico. Ma la pericolosità dell’uomo è inequivocabilmente salda? Lo stesso Schmitt qualifica la tesi della pericolosità dell’uomo come «supposizione», come «professione di fede antropologica» (46). Ma se la pericolosità dell’uomo è solo supposta o creduta, non propriamente conosciuta, allora anche l’opposto può esser ritenuto possibile e può essere intrapreso il tentativo di eliminare quella pericolosità dell’uomo che è sempre stata reale. Se la pericolosità dell’uomo è solo creduta, essa, e con essa il politico, è sotto minaccia. La minaccia fondamentale in cui versa il politico viene da Schmitt ammessa quando dice: «se e quando giungerà questo stato della terra e dell’umanità, io non lo so» (42). Il politico non potrebbe esser minacciato se fosse semplicemente ineludibile, come Schmitt ribadisce in una serie di passi. Pertanto la sua affermazione che il politico è ineludibile va munita di una limitazione ovvia: il politico è ineludibile finché vi è anche un’unica possibilità di una contrapposizione politica, anche solo a livello potenziale. Questa delimitazione viene definita da Schmitt in sostanza nell’argomentazione sopra riportata riguardante il pacifismo: infatti tale argomentazione presuppone che non svanisca l’antitesi tra pacifisti e non-pacifisti. L’ineludibilità del politico sussiste solo in modo condizionato; in ultima analisi si resta al politico sotto minaccia. Se il politico in ultima analisi è minacciato, allora la posizione del politico alla fine deve esser qualcosa di più del riconoscimento della realtà del politico: ovvero un intervento a favore del politico minacciato, un’affermazione del politico. Per questo bisogna chiedersi: perché Schmitt afferma il politico? Il politico è minacciato nella misura in cui è minacciata la pericolosità dell’uomo. Pertanto l’affermazione del politico è l’affermazio-

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ne della pericolosità dell’uomo. Come va intesa quest’affermazione? Se va intesa in senso politico, allora, come ogni cosa politica, «non può» avere «alcun senso normativo, ma solo esistenziale» (37). Dovremo allora chiederci: «una collettività di individui che combattono» nel pericolo, nell’«emergenza» afferma la pericolosità del suo nemico? Desidera nemici pericolosi? E dovremo rispondere di no, nel senso in cui si espresse C. Fabricius, quando sentì un filosofo greco porre il piacere come bene supremo: se solo Pirro e i Sanniti, finché siamo in guerra con loro, fossero dell’opinione di questo filosofo! Di converso, un popolo in pericolo desidera la sua propria pericolosità non per amore della pericolosità, ma per salvarsi dal pericolo. L’affermazione del pericolo come tale non ha un senso politico, ma solo “normativo”, morale; portata a espressione adeguata è l’affermazione della forza come forza che costruisce gli Stati – la virtù nel senso di Machiavelli. Anche questo ci fa pensare di nuovo a Hobbes, che nella capacità di suscitare timore aveva individuata la virtù specifica dello stato di natura (e da lui negata quanto lo stato di natura stesso), intendendo per quella capacità di destare timore però la fama e il coraggio. In questo modo una morale guerriera sembra l’ultimo fondamento giuridico per l’affermazione schmittiana del politico, e l’antitesi tra negazione e posizione del politico sembra coincidere con l’antitesi tra internazionalismo pacifista e nazionalismo bellicista. Ma è davvero così? Si potrà nutrire qualche dubbio, se si pensa con quale risolutezza Schmitt rifiuti di opporsi da bellicista ai pacifisti (21). E si dovrà contestare quest’ipotesi, non appena si sarà guardato con più precisione come egli giunga alla pericolosità dell’uomo come ultimo presupposto della posizione del politico. Dopo aver rifiutato per ben due volte l’ideale pacifista adducendo che esso non ha in alcun modo importanza per la condotta nella situazione attuale e per la comprensione di questa situazione (24 e 42), egli infine, riconoscendo la possibilità in linea di principio dello «Stato mondiale» come una «consociazione di consumo e produzione» del tutto apolitica dell’umanità unita, pone la domanda: «a quali uomini toccherà in sorte la terribile potenza che è legata a una centralizzazione economica e tecnica su scala mondiale?»; in altre parole: quali uomini domineranno nello «Stato mondiale»? «Non si può certo ricusare questa domanda perché si spera […] che il governo degli uomini sugli uomini diverrebbe superfluo, perché gli uomini a quel punto sarebbero

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divenuti completamente liberi; infatti occorre chiedersi per che cosa sarebbero liberi. Domanda a cui si può rispondere con supposizioni ottimistiche o pessimistiche», ovvero con la supposizione ottimistica che l’uomo sarebbe a quel punto innocuo, oppure con quella pessimistica che sarebbe pericoloso (46). La questione della pericolosità o non pericolosità dell’uomo emerge quindi allorché ci si chiede se sia o sarà necessario o superfluo il governo dell’uomo sull’uomo. Pertanto pericolosità significa: bisogno di dominio. E la contesa finale non ha luogo tra bellicismo e pacifismo (ovvero nazionalismo e internazionalismo), ma tra «teorie autoritarie e teorie anarchiche» (48). Lo scontro tra teorie autoritarie e teorie anarchiche ruota attorno alla questione se l’uomo sia buono o malvagio per natura. Ma «buono» e «malvagio» «non vanno presi in un senso squisitamente morale o etico», ma vanno intesi rispettivamente come «pericoloso» e «innocuo». Ciò che si intende in questo modo diviene chiaro se si tiene conto del duplice significato di «malvagità» enunciato da Schmitt. «La “malvagità” può apparire come corruzione, debolezza, viltà, stupidità, ma anche come “rozzezza”, impulsività, vitalità, irrazionalità etc.» (46). Ossia la «malvagità» può essere intesa o come inferiorità umana o come forza animale, come umana impotentia o naturae potentia (Spinoza, Eth. III, praef.). Ora, se la «malvagità» non va intesa in senso morale, allora può spettarle solo il secondo significato. In questo senso i «filosofi politici del XVII secolo (Hobbes, Spinoza, Pufendorf)» hanno definito gli uomini nello stato di natura «malvagi»: ovvero «malvagi» «come le bestie spinte dai loro impulsi (fame, cupidigia, paura, gelosia)» (47). Occorre chiedersi perché questi filosofi, perché in particolare Hobbes abbia inteso l’uomo «malvagio come le bestie». Egli dovette intendere la malvagità come «malvagità» innocente, perché negava il peccato; e doveva negare il peccato perché non riconosceva alcuna obbligazione primaria dell’uomo che precedesse ogni pretesa come pretesa legittima, perché intendeva l’uomo come libero per natura, ossia privo di obbligazioni; per lui pertanto il fatto politico fondamentale era il diritto di natura come pretesa giustificata dell’individuo, la cui obbligazione egli concepiva come restrizione successiva. Partendo da questo approccio, non si possono muovere osservazioni di principio contro la proclamazione dei diritti umani come pretese degli individui nei confronti dello Stato e contro lo Stato, contro la distinzione di società e Stato, contro il liberalismo; posto che il liberalismo non sia in

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generale la conseguenza inevitabile dell’approccio hobbesiano. E una volta che si intende la malvagità dell’uomo come la «malvagità» innocente della bestia, ma una bestia tale che può divenire intelligente a scapito di qualcosa e venirne così educata, allora nei fatti la questione diventa una mera «supposizione» di quali limiti si pongano all’educazione: se limiti assai stretti, quali quelli posti dallo stesso Hobbes, che divenne per questo sostenitore della monarchia assoluta, o limiti più ampi come il liberalismo, oppure se le si dia credito quasi totale, come l’anarchismo. L’antitesi tra malvagità e bontà perde la sua asprezza, perde proprio il suo significato, non appena la malvagità viene intesa come «malvagità» innocente e con ciò la bontà viene intesa come elemento della malvagità stessa. Per la critica radicale del liberalismo a cui ambisce Schmitt ne risulta quindi il compito di revocare la concezione della malvagità umana come «malvagità» animale e pertanto innocente, e di tornare alla concezione della malvagità umana come cattiveria morale; solo in questo modo Schmitt può restare in accordo con sé stesso, se altrove «il nucleo dell’idea politica è la decisione moralmente ambiziosa» (Politische Theologie 56). Questa esigenza non solo non è sufficientemente soddisfatta dalla correzione proposta da Schmitt della concezione della malvagità in Hobbes e nei suoi successori, ma ne è contraddetta. Mentre in Hobbes la «malvagità» naturale e pertanto innocente in ultima analisi viene messa in rilievo perché possa esser combattuta, Schmitt parla della «malvagità» da non intendere in senso morale con innegabile simpatia. Questa simpatia non è altro che l’ammirazione della forza animale; e per questa ammirazione vale quanto affermato da Schmitt in un passo già riportato sull’estetico. Inoltre la sua inadeguatezza si palesa direttamente nel fatto che ciò che viene ammirato non è scoperto affatto come privilegio, ma come una lacuna, come uno stato di bisogno (ovvero come un bisogno di dominio). La pericolosità dell’uomo scoperta come bisogno di dominio può essere intesa adeguatamente solo come cattiveria morale. Come tale essa può esser sì riconosciuta, ma non affermata. Ma che senso ha dunque l’affermazione del politico? Perché Schmitt affermi il politico prima ancora di affermarlo e lo riconosca non solo come reale o necessario è spiegato con estrema chiarezza nella sua polemica contro l’ideale che corrisponde alla negazione del politico. In ultima analisi, questo ideale non viene affatto rigettato da Schmitt perché utopico – anche se afferma che non

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sa se la sua realizzazione sia possibile –, ma perché detestato. Che Schmitt non ostenti quest’attitudine in senso moralizzante, ma tenti di nasconderla, rende la sua polemica ancora più efficace. Ascoltiamolo: «qualora cessasse anche la sola eventualità della distinzione amico-nemico, vi sarebbero solo, depurati dalla politica, la visione del mondo, la cultura, la civiltà, l’economia, la morale, il diritto, l’arte, l’intrattenimento etc., ma non la politica né lo Stato» (42). Abbiamo sottolineato il termine «intrattenimento» perché Schmitt fa di tutto per far quasi sparire l’intrattenimento infilandolo in una serie di occupazioni serie dell’uomo; soprattutto quell’«etc.» che segue immediatamente l’«intrattenimento» nasconde il fatto che «intrattenimento» è davvero l’ultimo della serie, il suo finis ultimus. Schmitt fa capire così che gli avversari del politico possono dire ciò che vogliono; possono richiamarsi per il loro proposito alle più alte cause dell’uomo; non si negherà loro la buona fede. Ammesso che visione del mondo, cultura etc. non debbono essere intrattenimento, ma possono diventarlo, è invece impossibile menzionare politica e Stato insieme a «intrattenimento»; l’unica garanzia che il mondo non diventi un mondo d’intrattenimento sono la politica e lo Stato; pertanto ciò che vogliono gli avversari del politico approda a una produzione di un mondo d’intrattenimento, un mondo del divertimento, un mondo senza serietà. «Una sfera terrestre definitivamente pacificata», dice Schmitt in un passo precedente, «sarebbe un mondo senza politica. Potrebbero forse darsi in essa contrapposizioni e contrasti molto interessanti, concorrenze e intrighi d’ogni sorta, ma sensatamente nessuna antitesi in ragione della quale venga richiesto agli individui il sacrificio della propria vita» (23, corsivo mio). Anche qui ciò che Schmitt concede alla situazione ideale dei pacifisti, ciò che di essa gli salta all’occhio, è il suo essere interessante, il suo carattere d’intrattenimento; anche qui si perita di nascondere la critica contenuta in quest’asserzione: «forse molto interessanti». Naturalmente non vuole così mettere in dubbio che il mondo senza politica non sia interessante: di nulla è più convinto del fatto che esso sia molto interessante («concorrenze e intrighi d’ogni sorta»); il «forse» mette solo in questione, e tuttavia lo fa, che questo essere interessante possa esigere l’interesse di un uomo che meriti questo nome; nasconde e tradisce il disgusto per questo essere interessante, che è possibile solo laddove l’uomo abbia dimenticato quel che ve-

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ramente importa. Diventa chiaro perché Schmitt rifiuta l’ideale del pacifismo (in maniera più radicale: della civiltà), perché egli afferma il politico: afferma il politico poiché nel suo esser minacciato vede minacciata la serietà della vita umana. L’affermazione del politico in ultima analisi non è altro che l’affermazione del morale. Allo stesso risultato si giunge se si considera più nel dettaglio la caratterizzazione schmittiana della modernità come età delle spoliticizzazioni. Sia chiaro, con questa caratterizzazione non si intende che nel XIX e XX secolo la politica sia meno destino che nel XVI e nel XVII: l’umanità si scompone oggi non meno di prima in «collettività che hanno la possibilità reale di lottare». Ma una mutazione si è compiuta non nel fatto che si combatte, ma sul perché si combatte. Perché si combatte dipende da ciò che è considerato importante, decisivo. Per ogni secolo viene considerato decisivo qualcosa di diverso: nel XVI secolo la teologia, nel XVII la metafisica, nel XVIII la morale, nel XIX l’economia e nel XX la tecnica. In linea di principio in ogni secolo un diverso «ambito oggettivo» è «ambito centrale» (67-71). Il politico, dato che non è un «ambito oggettivo vero e proprio» (14), non è mai «ambito centrale». Mentre cambiano gli «ambiti centrali», il politico resta costantemente il destino. Ma in quanto destino umano esso dipende da ciò che importa in ultima analisi agli uomini: «anche lo Stato (prende) la sua realtà e forza dall’ambito centrale in auge, poiché i temi di contesa determinanti dei raggruppamenti amico-nemico si determinano parimenti secondo l’ambito oggettivo determinante» (73). Il senso esatto della spoliticizzazione caratterizzante per la modernità si può quindi riconoscere solo se si comprende quale legge regna nella «sequenza degli ambiti centrali che si avvicendano». Questa legge è la «tendenza alla neutralizzazione», ossia l’aspirazione ad acquisire un terreno che «renda possibile sicurezza, evidenza, intesa e pace» (75). Intesa e pace – vale a dire, intesa e pace a ogni costo. Ma l’intesa bisogna in linea di principio raggiungerla sui mezzi per uno scopo già fissato, mentre sugli scopi stessi c’è sempre disputa: disputiamo l’uno con l’altro e all’interno di noi stessi sempre e solo sul giusto e sul buono (Platone, Eutifrone 7b-d e Fedro 263a). Se si vuole l’intesa a ogni costo, allora non vi è altra strada che sbarazzarsi della questione del giusto e concentrarsi solo sui mezzi. Allora diventa chiaro che l’Europa moderna, dopo essere andata alla ricerca di un terreno neutrale come tale, per sfug-

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gire alla contesa sulla giusta fede, è approdata infine alla fede nella tecnica. «L’evidenza della fede oggi diffusa nella tecnica si fonda solo sul fatto che si è ritenuto di aver trovato nella tecnica il terreno assolutamente e definitivamente neutrale. Rispetto alle domande teologiche, metafisiche, morali e anche economiche, su cui si può disputare in eterno, i problemi puramente tecnici hanno qualcosa di confortevolmente oggettivo; conoscono soluzioni illuminanti […]» (76). Ma la neutralità della tecnica è solo apparente. «La tecnica è sempre strumento e arma, e proprio perché è al servizio di ciascuno non è neutrale» (77). Nella parvenza di neutralità si svela il controsenso del tentativo di trovare un terreno «assolutamente e definitivamente neutrale», di raggiungere l’intesa a ogni costo. L’intesa a ogni costo è possibile solo come intesa a spese del senso della vita umana; poiché è possibile solo laddove l’uomo rinuncia a porre la questione del giusto. Ma se egli pone sul serio la questione del giusto, di fronte «all’inestricabile problematica» si accende la contesa, la contesa per la vita e la morte: il politico – il raggrupparsi dell’umanità in amici e nemici – ha il suo fondamento giuridico nella serietà della questione del giusto. L’affermazione del politico è l’affermazione dello stato di natura. Schmitt contrappone l’affermazione dello stato di natura alla negazione che ne fa Hobbes. Lo stato di natura è lo status belli per eccellenza. Per questo l’affermazione dello stato di natura sembra potersi intendere solo in chiave bellicista. Questa parvenza svanisce non appena si comprende cosa significhi per Schmitt il ritorno allo stato di natura. L’affermazione dello stato di natura non significa l’affermazione della guerra, ma «la rinuncia alla sicurezza dello status quo» (80). Si rinuncia alla sicurezza non perché la guerra sia un che di «ideale», ma perché dalla «splendida rappresentazione», dal «comfort e dall’agio dello status quo esistente» occorre tornare al «nulla culturale o sociale», all’«inizio segreto, inappariscente», «alla natura intatta, incorrotta» (80), perché «dalla forza di un sapere integro» possa di nuovo sorgere «l’ordine delle cose umane» (81). Se pertanto, secondo l’opinione autentica di Schmitt, la posizione del politico riporta alla posizione del morale, come può accordarsi con questo la polemica contro il primato della morale al cospetto della politica, che attraversa l’intero suo scritto? Una prima ragione è offerta dal fatto che in questa polemica con «morale» si intende una

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determinata morale, vale a dire una morale che è in contraddizione in linea di principio col politico. «Morale» per Schmitt – almeno nel contesto di cui stiamo parlando – è sempre «morale-umanitario» (cfr. 67 sgg.). Vale a dire: Schmitt si riallaccia alla concezione morale del suo avversario, invece di porre in questione la pretesa della morale pacifistico-umanitaria di essere morale; egli resta preso nella concezione che combatte. Ora, la polemica contro la morale – contro gli “ideali” e le “normatività” – non impedisce a Schmitt di formulare un giudizio morale sulla morale umanitaria, sull’ideale del pacifismo. Tuttavia egli si sforza, come abbiamo mostrato, di nascondere questo giudizio. In questo tentativo di nasconderlo viene a esprimersi un’aporia: che il politico sia sotto minaccia rende ineludibile una presa di posizione valoriale sul politico, mentre al contempo si solleva una riserva che scaturisce dalla cognizione dell’essenza del politico, contro ogni presa di posizione valoriale sul politico. Infatti una simile presa di posizione sarebbe una «libera risoluzione, non controllabile, che non riguarda se non colui che liberamente si risolve» – essenzialmente sarebbe «una questione privata» (36); il politico è però sottratto a ogni discrezione privata; esso ha il carattere di una vincolatività ultra-privata. Ora, se si presuppone che tutti gli ideali siano privati e perciò non-vincolanti, allora la vincolatività non può essere concepita come tale, non come obbligo, ma solo come ineludibile necessità. Ovvero, questo presupposto è ciò che mette Schmitt in condizione di affermare l’ineludibilità del politico e di nascondere il suo giudizio morale, non appena, costretto dalla materia stessa, non può più sostenere quest’asserzione; e questo presupposto, come egli stesso rileva, è il presupposto caratteristico della «società liberale-individualistica» (36). Ci è ormai chiaro in linea di principio cosa dovrebbe significare un’affermazione del politico che prescinda dal morale, cosa voglia dire il primato del politico rispetto al morale. Essere politici significa essere orientati all’“emergenza”. Pertanto l’affermazione del politico come tale è l’affermazione della lotta come tale, del tutto a prescindere dal perché si lotti. Ovvero chi afferma il politico come tale si atteggia a neutrale rispetto a tutti i raggruppamenti amico-nemico. Questa neutralità può ancora distinguersi dalla neutralità di chi nega il politico come tale – chi afferma il politico come tale e proprio per questo si atteggia a neutrale rispetto a tutti i raggruppamenti amico-

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nemico non vuole «porsi […] al di fuori della collettività politica e vivere come privato» (40); non ha la volontà di “neutralizzazione”, di evitare la decisione a ogni costo, ma è teso appunto alla decisione. Come tensione verso la decisione qualsiasi essa sia tale neutralità fa uso della possibilità di un al di là di ogni decisione, originariamente aperta al fine della neutralizzazione. Chi afferma il politico come tale rispetta tutti coloro che vogliono combattere; è tollerante esattamente come i liberali – solo con un’intenzione opposta: mentre il liberale rispetta e tollera tutte le convinzioni “oneste”, purché riconoscano solo l’ordine legale, la pace come sacrosanta, chi afferma il politico come tale rispetta e tollera tutte le convinzioni “serie”, ossia tutte le decisioni dirette alla reale possibilità della guerra. In questo modo l’affermazione del politico come tale si palesa come un liberalismo di segno rovesciato. E così si autoavvera l’affermazione schmittiana secondo cui «la sistematica straordinariamente conseguente del pensiero liberale» non è «ancora stata sostituita in Europa da nessun altro sistema» (58). L’affermazione del politico come tale può pertanto essere solo la prima parola di Schmitt contro il liberalismo; può solo preparare la critica radicale al liberalismo. In un precedente scritto Schmitt ha detto di Donoso Cortés che questi «disprezza i liberali, mentre rispetta il socialismo ateistico-anarchistico come suo nemico mortale» (Politische Theologie 55). La lotta si compie solo tra nemici mortali: questi spingerebbero da parte, con sommo disprezzo, il “neutrale”, che voglia mediare tra loro, barcamenandosi – tra pesanti insulti o nel rispetto delle regole di cortesia, a seconda della disposizione d’animo. Il “disprezzo” va preso alla lettera: non se ne curano. Ciascuno guarda con tensione al proprio nemico; fanno cenno di spostarsi al “neutrale” che si metta in mezzo e disturbi la vista del nemico – con la mano, senza neanche guardarlo, per avere il campo di tiro sgombro. La polemica contro il liberalismo può pertanto avere solo il senso di un’azione di accompagnamento o di preparazione: deve liberare il campo per la battaglia decisiva tra lo «spirito della tecnica», la «fede di massa di un attivismo antireligioso immanente» (79) e lo spirito e la fede opposta, che pare non abbia ancora un nome. In ultima analisi vi sono due risposte radicalmente opposte alla questione del giusto, che non ammettono mediazione e neutralità alcuna (cfr. la nota sulle «antitesi dualistiche» e «gli schemi» o «costruzioni

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dualistiche» a p. 60). A Schmitt non importa in definitiva della battaglia contro il liberalismo. Per questo l’affermazione del politico come tale non è la sua ultima parola. La sua ultima parola è «l’ordine delle cose umane» (81). Con ciò non è in discussione che la polemica contro il liberalismo spesso sembri essere l’ultima parola di Schmitt, che egli spesso e volentieri venga irretito nella polemica contro il liberalismo e venga così allontanato dalla sua autentica intenzione, sul piano delimitato dal liberalismo. Questo irretimento non è certo un esito casuale, ma è la conseguenza necessaria del fatto che «tutti i concetti della sfera spirituale […] vadano intesi solo a partire dall’esistenza politica concreta» (71), e che «tutti i concetti, le rappresentazioni e le idee politiche» hanno «un senso polemico» (18). In concreto Schmitt contrasta questo principio – in tutto e per tutto legato a presupposti liberali –, contrapponendo al concetto polemico hobbesiano dello stato di natura il suo concetto non polemico di stato di natura; ed egli lo rigetta in linea di principio, quando attende l’ordine delle cose umane da un «sapere integro». Infatti un sapere integro non è mai, per quanto contingente, polemico; può ottenersi non «dall’esistenza politica concreta», dalla situazione dell’epoca, ma solo mediante un ritorno all’origine, alla «natura intatta, incorrotta» (80). Abbiamo detto che Schmitt intraprende in un mondo liberale la critica del liberalismo, e abbiamo inteso con ciò che la sua critica del liberalismo si realizza nell’orizzonte del liberalismo; la sua tendenza illiberale viene frenata dall’ancora oggi insuperata «sistematica del pensiero liberale». La critica al liberalismo introdotta da Schmitt può pertanto giungere a compimento solo allorché riesca ad aprirsi un orizzonte oltre il liberalismo. È in un tale orizzonte che Hobbes ha compiuto la fondazione del liberalismo. Pertanto una critica radicale del liberalismo è possibile solo sulla base di un’adeguata comprensione di Hobbes. Mostrare cosa è possibile apprendere da Schmitt per ottemperare a questo compito urgente era l’ambizione maggiore di queste note. [Traduzione di Massimo Palma]

Carl Schmitt, Leo Strauss e la strana lotta tra due liberalismi Massimo Palma

Così, da buon liberale, si limita a tacere, non fa nulla, non decide nulla e lascia che Simonide parli e se ne vada in pace A. Kojève, Tirannide e saggezza

1. Biographica I. Incontri, lettere, LTI Il legame tra Carl Schmitt e Leo Strauss non era un segreto. Tra allusioni tardive e omissioni risonanti durate decenni, non dovette sorprendere che, quattro anni post mortem, Arnaldo Momigliano parlasse esplicitamente di Strauss come d’un «ebreo tedesco che si era nutrito di Max Weber, Heidegger e Carl Schmitt»1. D’altronde il rapporto era antico, risaliva agli ultimi sospiri di Weimar. Erano spiriti quanto mai lontani i due, quanto mai alieni per formazione ed esiti di vita e di pensiero, ma il loro incontro biografico e teorico non ha mancato di offrire spunti per sviamenti anche gravi. Entrambi, l’uno già in vita, l’altro post mortem, sono stati accusati di nefandezze intellettuali notevoli, per quanto incomparabili: l’uno nazionalsocialista, l’altro maestro – è un dato di fatto – di alcuni neocon statunitensi2. 1

A. Momigliano, Ermeneutica e pensiero politico classico in Leo Strauss (1967), con Aggiunta (febbraio 1977), in L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica?, a cura di P. F. Taboni, Argalia, Urbino 1977, pp. 7-21: 21. 2 Mette ordine nella serie di accuse mosse a Strauss di aver nutrito i fondamenti teorici della nuova destra americana M. Farnesi Camellone, I seminari di Leo Strauss sul «Gorgia» di Platone, «Filosofia politica», 2, 2017, pp. 329-340: 329-330, nota 1. Si vedano, circa la medesima letteratura, anche le osservazioni di P. Ciccarelli, Hobbes schmittiano o Schmitt hobbesiano? Sul “cambio di orientamento” nelle «Note a Carl Schmitt» di Leo Strauss, «Bollettino telematico di filosofia politica», 2017, pp. 1-20: 5, nota 13.

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L’inizio della loro storia somiglia ai tanti rapporti che sorgono tra docenti affermati e studiosi promettenti, salvo per un appellativo che ricorre nel più anziano quando pensa al più giovane. “Ebreo tedesco” il giovane, certo, ma quando il nome di Strauss appare nei diari di Carl Schmitt, la prima connotazione è solo quella ebraica. Per lui, Strauss è innanzitutto un ebreo. Il Dott. Strauß si è annunciato, è venuto alle 5. Un ebreo elegante, erudito, lavora su Hobbes. Mi sono rallegrato della sua tesi, per quanto possa averla delineata apposta per me. Voleva una raccomandazione per la Rockefeller o per un’altra fondazione. A ogni modo, una gran bella conversazione, mi ha fatto bene3.

A parlare – è il 26 novembre 1931 – è uno Schmitt accademico affermato, ormai insediatosi a Berlino, all’apice della fama, nel vortice degli impegni: riceve il giovane tra mille appuntamenti, ma è una visita che gli “fa bene”. Strauss torna a trovarlo poco prima di Natale, portandogli «il suo manoscritto su Hobbes». Ma quel giorno Schmitt ne ricava meno slancio: a fine giornata il diario lo restituisce «triste, depresso, completamente annientato». Il copione si ripete il 25 gennaio seguente: «a casa è arrivato Leo Strauß; abbiamo parlato per bene di Hobbes». Schmitt ripete: «vuole una raccomandazione per la fondazione Rockefeller». Tra telefonate e visite, il diario li vede insieme ancora il 7 giugno e il 5 luglio 19324. Appena dopo, ad agosto-settembre, per il weberiano «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» esce il saggio Note su Carl Schmitt, Il concetto di politico, di certo sotto gli auspici del recensito. E in quei mesi Strauss scrive allo «stimatissimo professore» tre lettere che non hanno risposta. Tutte lo ringraziano. La prima per essersi alfine espresso a favore di Strauss per la borsa Rockefeller che lo porterà a Parigi, e per aver mostrato tanto interesse alla sua interpretazione di Hobbes. La terza lo ragguaglia – è già il 10 luglio 1933 – su vita e incontri a Parigi. Da ultimo gli chiede di intercedere per incontrare Maurras, che tanto somiglia a Hobbes. Ma è la seconda, vergata il 4 3

C. Schmitt, Tagebücher 1930-1934, a cura di W. Schuller e G. Giesler, Akademie, Berlin 2010, p. 149. 4 Ivi, pp. 159, 171, 195, 200.

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settembre 1932 da Berlino, a presentare ampi sviluppi della recensione, di cui occorrerà parlare5. Arriva il 30 gennaio 1933: la Machtergreifung di Hitler. Strauss, da Parigi, manifesta ancora riconoscenza a Schmitt per il “parere” decisivo espresso per quella borsa di studio: lo testimonia una lettera indirizzata a Gershom Scholem il 7 dicembre 19336. Può sorprendere, ma destinatario della riconoscenza è quello stesso Schmitt che in quei mesi è alle prese con un’attività scientifica che ha il suo punto infimo nel contributo Il Führer difende il diritto. Non può stupire, dunque, che Schmitt dimentichi il grato allievo, benché questi si chieda non senza ingenuità perché egli non risponda. Glielo spiega Karl Löwith: Schmitt lo farebbe pure, «nonostante l’antisemitismo di principio», ma «in quanto “consigliere di Stato” è molto impegnato»7. Silenzio, dunque, da parte di Schmitt, fino a quando, nel 1938, lo «studioso ebreo Leo Strauss» non viene ripescato in un saggio sull’iconografia del Leviatano. In privato come in pubblico, Strauss per Schmitt è innanzitutto ebreo. E se fosse tutta una questione di LTI? Della LTI, acronimo buffo e fortunato, ha parlato Victor Klemperer8 in un libro pensato per anni e scritto in pochi mesi, Lingua Tertii Imperii, che è la lista pesante, onerosa, dei tic verbali imposti alla lingua tedesca dal dominio nazionalsocialista. Un elenco lungo e sgradevole, dove campeggia inevitabilmente, accanto a parole mutuate dall’uso comune e tradotte in discriminazione e terrore, l’onnipervasivo attributo di “ebraico”, anteposto a ogni fenomeno reputato sgradevole, indigesto, ingestibile – la guerra, su tutto. Il tic antipatico di Schmitt, quell’anteporre ebreo ogniqualvolta parla di Leo Strauss, è quindi un mero fatto di LTI? Automatismi da linguaggio nazista, dunque? La questione dell’antisemitismo schmittiano è tanto solare quanto complessa, ma il caso del suo rapporto 5

H. Meier, Carl Schmitt e Leo Strauss. Per una critica della Teologia politica (1998), trad. it. di C. Badocco, Cantagalli, Siena 2011, pp. 129-133. 6 L. Strauss – G. Scholem, Lettere dall’esilio. Carteggio (1933-1973), trad. it. di S. Battelli, a cura di C. Altini, Giuntina, Firenze 2008, p. 140. 7 L. Strauss – K. Löwith, Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione. Carteggio (19321971), trad. it. di M. Rossini, introd. di C. Altini, Carocci, Roma 2012, p. 100. 8 V. Klemperer, LTI. Notizbuch eines Philologen (1947); trad. it. di P. Buscaglione Candela, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, pref. di M. Ranchetti, Giuntina, Firenze 2010, pp. 208-228.

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con Strauss lo è ancor di più9. Innanzitutto, le date non combaciano. L’appunto diaristico di Schmitt viene dall’età di Weimar, quando Hitler era solo una componente berciante dell’inquietante ultradestra e la Lingua Tertii Imperii era ben lungi dal costringere un coltissimo giurista come Schmitt a passaggi obbligati come quelli, si vedrà, del 1938, in cui l’ebraicità andava menzionata solo per stigmatizzarla o insultarla. Il problema è che quell’uso censorio era perfettamente coerente coi suoi modi prenazisti. Ma quell’antisemitismo così marcato non sembrò sufficiente a una rottura aperta del rapporto, per quanto solo ideale. «Leo Strauss non se ne è mai avuto a male per queste osservazioni», chiosò un sardonico, ottuagenario Schmitt nel 1971, quando gli chiesero il perché delle mancate ristampe del suo libro sul Leviatano, ricco di dettagli rivelatori del suo antisemitismo e per questo mai riproposto fino al 198210. E d’altronde Il concetto di “politico” non sarebbe di lì a poco apparso – Strauss appena defunto, Schmitt ancora vivente – in un’edizione inglese con le Note di Strauss in appendice, a suggellare agli occhi dei lettori quello strano connubio, quel dissenso ancora una volta concorde?11 Come fare chiarezza in questo evidente disordine, tra testimonianze divergenti e condotte abiette? Perché, va detto, in questo quadro anche sul versante di Strauss ci sono dettagli che non tornano. 2. Biographica II. Silenzio e gratificazioni tardive Per il tempo di una generazione, dopo il 1938 del Leviatano schmittiano e nazionalsocialista, una spessa coltre di silenzio venne stesa 9 Il rapporto non è indagato nell’ampia monografia di R. Gross, Carl Schmitt und die Juden. Eine deutsche Rechtslehre. Erweiterte Ausgabe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2005 (2000) – salvo p. 67, nota 112. Mentre sull’uso del termine “ebreo” nei diari si sofferma W. Schuller, Nachwort, in C. Schmitt, Tagebücher 1930-1934, cit., pp. 457-467: 466. 10 C. Schmitt, Imperium. Conversazioni con Klaus Figge e Dieter Groh (2010), trad. it. di C. Badocco, Quodlibet, Macerata 2015, p. 115. 11 C. Schmitt, The Concept of the Political, a cura di G. Schwab, Rutgers University Press, New Brunswick 1976, contiene L. Strauss, Notes on Carl Schmitt, The Concept of Political, trad. di J. Harvey Lomax, pp. 97-122. Osserva N. Behnegar, Carl Schmitt and Strauss’s Return to Premodern Philosophy, in Reorientation. Leo Strauss in the 30s, a cura di M. D. Yaffe - R. S. Ruderman, Palgrave Macmillan, New York 2014, pp. 115-129: 127 nota 1, che le Anmerkungen sono l’unico testo che Strauss abbia pubblicato quattro volte (in due lingue)

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da entrambi. Fino al 1963, anno della storica riedizione de Il concetto di “politico” del 1932 – quella criticata da Strauss –, il nome di quello «studioso ebreo» sembra scomparire dalla produzione schmittiana, quanto mai varia e fitta pur in tempi oscuri. Scompare anche nel privato: Strauss è del tutto assente in quel documento complesso, autoassolutorio e apologetico che è il Glossarium postbellico, che pure pullula di riferimenti alla “questione ebraica”12. Nel testo del 1963, ecco che Strauss riappare in una lunga nota che mira a puntualizzare il concetto di Spiel-gioco. Nel 1932 Strauss aveva rinfacciato al giurista di avere una visione troppo “seria” del concetto di politico: «ciò che vogliono gli avversari del politico approda alla produzione di un mondo d’intrattenimento (Unterhaltung), un mondo del divertimento (Amüsement), un mondo senza serietà (Ernst)»13. Trent’anni dopo, nel dar parzialmente ragione a Strauss, Schmitt definisce le linee di un’anti-critica al concetto ludico del politico, che però elude il cuore dell’obiezione di Strauss – in poche parole, la fondazione morale del politico evidenziata dall’immissione del concetto di serietà. Nella sua recensione del 1932 Strauss punta l’indice sul termine intrattenimento. A ragione. Il termine infatti non è appropriato e corrisponde allo stadio allora incompleto della mia riflessione. Oggi direi gioco (Spiel), per esprimere con maggior pregnanza il concetto opposto a serietà (Ernst), che Strauss ha correttamente individuato. In tal modo verrebbero chiariti anche i tre concetti di “politico” derivanti dalla polis e che poi sono stati fondati e differenziati fra loro dallo strapotere dell’ordinamento dello Stato europeo ai suoi inizi: politica verso l’esterno, politica all’interno e politesse come gioco di corte e “piccola politica”. Cfr. su questo il mio saggio Amleto o Ecuba. L’irrompere dell’epoca nel dramma. In tutte queste espressioni, Spiel andrebbe tradotto con play. […] Nel termine da me impiegato di intrattenimento sono però presenti anche riferimenti allo sport, all’impiego del tempo libero e ai nuovi fenomeni di una “società del superfluo” di cui non avevo ancora chiara coscienza nel clima allora dominante della filosofia tedesca del lavoro14. 12

C. Schmitt (1991), Glossarium, a cura di P. Dal Santo, Giuffrè, Milano 2001. L. Strauss, Anmerkungen zu Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LXVII, 6, agosto-settembre 1932, pp. 732-749; ora in Id., Hobbes’ politische Wissenschaft, cit., pp. 217-238: 232-233; trad. it. Note su Carl Schmitt, «Il concetto di politico», supra, p. 140. 14 C. Schmitt, Il concetto di “politico”. Testo del 1932 con una premessa e tre corollari (1963), in Id., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 87-208: 138, nota 40, trad. mod. 13

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Interessante tracciato autobiografico che restituisce i meriti a Strauss di avergli suggerito uno dei filoni più eccentrici e fecondi del suo percorso nell’età della senescenza, la nota sembra non sia sfuggita all’“allievo”, se questi, quasi a controcanto ideale, decide di far tradurre il suo saggio su Schmitt in una sede non del tutto appropriata, vale a dire in coda alla riedizione del suo Spinoza-Buch del 1930, tradotto in inglese del 196515. Non solo: nella lunga, rivelativa Prefazione a quella versione – un bozzetto autobiografico però datato agosto 1962, quindi temporalmente coincidente con la riedizione di Schmitt –, più di trent’anni dopo quegli incontri personali, quei pareri di Schmitt, Strauss aveva rivendicato a buon diritto l’appellativo di “ebreo tedesco”16. L’incipit della Preface recitava: «l’autore di questo studio era un giovane ebreo nato e cresciuto in Germania, che si trovò preso nel problema teologico-politico»17. In quell’autoritratto dallo stile prima limpido poi sempre più denso, egli fa menzione dell’articolo che ha corretto la strada di Schmitt solo in coda, per un istante, in modo oscuro ma gravido di significati: «questo studio [su Spinoza] era basato sulla premessa, sancita da un potente pregiudizio, che un ritorno alla filosofia premoderna fosse impossibile. Il cambio di orientamento che trovò la sua prima espressione, non del tutto accidentalmente, nell’articolo pubblicato alla fine di questo volume, mi ha spinto a impegnarmi in una serie di studi nei quali ho avuto sempre più cura di come i pensatori eterodossi di altre epoche scrivevano i loro libri»18. Non del tutto per caso, quindi. Stando a quanto sostiene l’autore guardando indietro, Schmitt non avrebbe giocato solo «un ruolo periferico ma non insignificante nelle idee del

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L. Strauss, Comments on Der Begriff des Politischen by Carl Schmitt, in Id., Spinoza’s Critique of Religion, Schocken, New York 1965, pp. 331-351. 16 Non di “giovane ebreo ortodosso”, come appare nell’acuto studio di J.-F. Kervégan, Che fare di Carl Schmitt? (2011), a cura di F. Mancuso, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 32, che va a contraddire l’esclamazione epistolare rivolta a Löwith nel giugno 1935: «Io non sono un ebreo ortodosso!» (L. Strauss – K. Löwith, Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione, cit., p. 118). 17 L. Strauss, Prefazione alla critica spinoziana della religione (1965), trad. it. di S. Antonelli e C. Geraci, in Id., Liberalismo antico e moderno, Giuffrè, Milano 1973, pp. 273-321: 273. 18 Ivi, p. 321. Dedica un’analisi profonda, tanto in chiave biografica quanto teoretica, al «cambio di orientamento» o «mutamento di direzione» menzionato nella Preface P. Ciccarelli, Hobbes schmittiano o Schmitt hobbesiano?, cit., pp. 18-20.

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giovane Strauss»19. Per contrasto, per affinità, per odio, ma soprattutto per le sterzate metodologiche impostegli dal confronto, Schmitt ha significato piuttosto una svolta scomodamente radicale nel pensiero del giovane Strauss. 3. Il valore-cultura La storia, diceva, è un incubo, durante il quale lui cercava di assicurarsi ogni notte qualche ora di sonno Saul Bellow, Il dono di Humboldt

La riedizione del 1963 de Il concetto di “politico” prendeva in carico un’altra tra le critiche di Strauss, che aveva isolato il concetto di “autonomia del politico” nel saggio schmittiano, per mostrarne i debiti con la Wertphilosophie. La prima menzione del saggio di Strauss in nota riguarda appunto tale aspetto, che viene riplasmato secondo una delimitazione “pratico-didattica” dell’autonomia del criterio del politico. Lettori attenti del nostro saggio, come Leo Strauss […] e Helmut Kuhn, hanno ugualmente osservato che noi dovremmo preoccuparci soltanto di segnare una strada […] e che qui si tratta di qualcosa di diverso dall’«autonomia degli ambiti di fatto» o degli «ambiti di valore»20.

Le antiche obiezioni di Strauss sembrano venire accolte. Da un lato la questione complessa della Unterhaltung, dall’altro quella metodologica del ruolo della filosofia della cultura, che divideva lo scibile in ambiti valoriali distinti e autonomi, nel meccanismo espositivo di Schmitt. Nondimeno, nulla viene detto della più urticante delle osservazioni di Strauss: «chi afferma il politico come tale rispetta tutti coloro che vogliono combattere; è tollerante esattamente come i liberali»21. Con sovrana noncuranza degli effetti di quella critica, 19 S. Rosen, Leo Strauss and the Problem of the Modern, in The Cambridge Companion to Leo Strauss (a cura di S. B. Smith), Cambridge University Press, New York 2009, pp. 119-136: 125. 20 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 110, nota 16. 21 L. Strauss, Anmerkungen zu Carl Schmitt, «Der Begriff des Politischen», cit., p. 236; trad. it. supra, p. 144.

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il punto sensibile individuato da Strauss è che vi sarebbe un nesso teorico potente tra la Kulturphilosophie e l’opzione teorica liberale, di cui Schmitt sarebbe esponente inconsapevole. È un’importante monografia di Strauss scritta proprio in quegli anni, Filosofia e legge, e miracolosamente pubblicata ancora in Germania nel 1935 per Schocken, a determinare il punto con più agio, riferendosi inizialmente a Julius Guttmann. Certamente Guttmann […] crede che l’«ambito di validità» sia il «genere» (Genus) che abbraccia tanto la «cultura», quanto la religione. In ogni caso si vede tuttavia costretto dal fatto della religione come tale, che proprio qui si dimostra essere una croce per la filosofia della cultura, a prendere evidentemente le distanze dalla filosofia della cultura.

Sancita l’esteriorità del fenomeno religioso-teologico a ogni categorizzazione nel senso della filosofia della cultura, in nota, rimandando proprio allo scritto su Schmitt, Strauss attribuiva la medesima esteriorità – e radicalità – al fenomeno politico. L’altra croce della filosofia della cultura è il «fatto» del politico. «Religione» e «politico» sono i fatti che trascendono la «cultura», o, per meglio dire, sono i fatti originari, tanto che la critica radicale del concetto di «cultura» è possibile solo nella forma di un «trattato teologico-politico» […] oppost[o] rispetto ai trattati teologico-politici del XVII secolo, in particolare quelli di Hobbes e Spinoza22.

Le due questioni di fatto che trascendono la cultura, secondo un amico assai bene informato come Jacob Klein, costituivano i due «interessi primari» di Strauss23 e fondavano la sua personale critica e rideterminazione del liberalismo. L’osservazione mossa a Schmitt, nel dargli dell’epigono della tradizione liberale che egli asserisce di aborrire – movenza tipica delle critiche a Schmitt –, lo schiaccia sulla filosofia che avvalora la cultura come Kampf contro la natura. L’elemento autenticamente liberale nel “politico” schmittiano sarebbe 22

L. Strauss, Filosofia e legge. Contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori (1935), trad. it. di C. Altini, Giuntina, Firenze 2003, p. 157 e nota 2. 23 J. Klein – L. Strauss, A Giving of Accounts (1970), in L. Strauss, Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, a cura di K. Hart Green, State University of New York Press, Albany 1997, pp. 457-466: 458.

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per Strauss esattamente la tendenza, che condivide con Hobbes, a individuare il tratto agonale del liberalismo nel cuore della “cultura”. Cultura necessaria per “mettere in sicurezza” la nuda vita dell’uomo24, che lotta precisamente contro la natura umana che di per sé, insinua Strauss, è illiberale. Ed è precisamente la natura umana vista sotto questa prospettiva che consente a Schmitt una critica del liberalismo. Schmitt arriva quindi correttamente alle radici, ma oblitera un passaggio che ne sposta l’analisi dal piano razionale a quello di una “rivelazione”: la pericolosità umana è oggetto di una sedicente «professione di fede antropologica»25, non di altro. E quindi, solo postulata, gode del privilegio dell’indimostrabile, ma anche del perpetuo stato di minaccia che enuncia. Trarre dalla pericolosità umana l’indice per affermare il politico vuol dire sancire al contempo l’ineludibile necessità del dominio come sfogo delle passioni del pericolo (gloria e acquisizione), anziché leggere il dominio come esito di un confronto. Ed è questo che piega la lettura schmittiana a una variante autoritaria del liberalismo: se la natura umana è corrotta, la decisione politica la integra solo, non potendola correggere. E rispettare (meglio, affermare nel “riconoscere”) il politico produce un’equalizzazione, schiettamente liberale nella professione di fede che tutela, di tutti coloro che lottano26. Ma il fondamento di questo liberalismo – morale – è riducibile a un’opzione teologica, a un giudizio di valore radicato in una credenza teologica, a dispetto di ogni reticenza schmittiana. Ed è rispetto a questa credenza nel «“male necessario” che il liberalismo ha promosso a topos indiscusso dell’ineliminabilità del governo politico»27 che Strauss proporrà da parte sua, e solo in seguito a quel «cambio di orientamento» determinato assieme a Schmitt contro Schmitt, un 24

Si noti in L. Strauss, Anmerkungen zu Carl Schmitt, «Der Begriff des Politischen», cit., p. 224, trad. it. supra, p. 132. L’espressione nacktes Leben, non blosses Leben come nell’ormai famigerata formula benjaminiana di Per la critica della violenza. 25 Ivi, p. 228; trad. it. supra, p. 136. 26 Sul punto dell’affermazione del “politico” come epifenomeno della lotta contro il liberalismo svolge considerazioni molto opportune F. Lijoi, La “moralità” del politico. Leo Strauss interprete di Carl Schmitt, «Iride», XXXI, n. 83, gennaio-aprile 2018, pp. 13-27: 17-18. Cfr. anche oltre, ove si rileva come «Strauss trasform[i] così Hobbes in un pensatore antipolitico e Schmitt in un pensatore antihobbesiano» (ivi, p. 20). 27 F. M. De Sanctis, Oltre l’ipocrisia egalitaria. Il liberalismo ha radici antiche?, in Id., “Luoghi” e “tempi” del pensiero giuridico, Editoriale scientifica, Napoli 2010, pp. 65-83: 76.

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ritorno alla posizione liberale antica, a suo modo aristocratica – del governo dei migliori, dei ben riusciti – che mira all’innocuità dei governati per chi governa, ottenuta con una “buona”, moderata, lungimirante organizzazione sociale delle schiere di chi è sotto le élites, da parte dei “pochi saggi”, nel senso dell’amato Maimonide, che si occupano della teoria. 4. Cultura come funzione di potere: Hobbes in Strauss, 1930 Gran parte delle osservazioni straussiane avevano le loro radici nel decennale confronto con Spinoza che aveva portato al grande libro del 1930, La critica della religione in Spinoza. È qui che viene definito il cuore del particolare “liberalismo” che Strauss ha in mente quando tratta i classici moderni, ben diverso dall’accezione odierna. È un liberalismo di matrice razionale e profondamente illuminista, che mira all’eguaglianza giuridica dei consociati e fonda un individualismo diffuso, ma prima è passato per la critica della religione rivelata, per l’emancipazione da ogni condizionamento teologico. In questa tensione, Spinoza aveva contratto debiti nei confronti di Hobbes, che Strauss affronta difatti in un lungo capitolo introduttivo per preparare il terreno alla critica spinoziana della religione. Nel rilevare come l’intenzione hobbesiana generale fosse stata di distinguere radicalmente l’indagine religiosa e quella scientifica («Hobbes concepisce continuamente i rapporti tra la scienza e la religione nel senso di una contrapposizione radicale»28), nello studio del 1930 Strauss aveva enucleato le due condotte ritenute legittime da Hobbes: il timore e di qui l’accumulo strumentale di dominio. Timore della morte violenta e sforzo proteso al dominio (Herrschaft) sulle cose: sono queste, fondamentalmente, le due determinazioni della volontà che Hobbes riconosce come legittime29.

28 L. Strauss, La critica della religione in Spinoza (1930), trad. it. di R. Caporali, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 68, trad. mod. Una recente, efficace lettura complessiva dell’interpretazione spinoziana giovanile di Strauss è in R. Caporali, Introduzione. Il moderno incompiuto (sullo Spinoza di Strauss), in L. Strauss, Il testamento di Spinoza, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 7-32. 29 L. Strauss, La critica della religione in Spinoza, cit., p. 69.

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La legittimità sta nell’evitare il male e nel perseguire il dominio, un dominio che nella connotazione hobbesiana è connotato come un moto perpetuo che elude il godimento – «non si tratta più del godimento dell’oggetto di volta in volta desiderato, ma solo della conquista dell’oggetto in quanto strumento al servizio della potenza (Macht), o del suo riconoscimento (Anerkennung)»30. La felicità diventa un processo di accumulo di potere (nell’autotraduzione hobbesiana, all’inglese power corrisponde potentia). Risuona qui il perturbante Leviatano XI sulla felicity («Felicity is a continuall progress of the desire, from one object to another; the attaining of the former, being still but the way to the latter»31), che va a fornire la matrice della critica di Strauss a Schmitt. La legittima aspirazione all’appagamento (Genuß) si esprime nel desiderio di potenza. La rincorsa alla reputazione viene invece respinta. È dall’aspirazione alla potenza che si comprende la filosofia (o, più precisamente, la fisica nella sua differenza rispetto all’antropologia): scientia propter potentiam. Il suo scopo è la cultura, la cultura della natura32.

L’elemento antropologico cruciale si radica quindi nella prevedibilità degli effetti dell’incontro tra corpi e nella loro utilizzabilità. Il calcolo raziocinante coltiva la natura per determinarne effetti in serie. E per farlo deve conoscerla scientificamente: «la cultura […] segue le tracce che la natura stessa ha lasciato realizzando»33. La cultura viene determinata come metodo, come funzione, strumento dell’unica invariante che è il nervo scoperto della potenza – la teleologia essendo l’assicurazione dell’effetto. Strauss prosegue qui al limite del paradosso, giocando sul nesso coltura-cultura, sul metodo che innaffia la tendenza naturale: «la scienza, il cui scopo è la cultura, consiste nel coltivare la tendenza naturale dell’uomo a ricercare le cause nella ricerca metodica delle cause»34. Di qui il giudizio sulla religione come «il risultato di una ricerca delle cause condotta senza metodo», che ostacola l’indagine a ritroso – l’elemento filosofico –, dando spazio all’invenzione. La scienza invece, mirando al dominio della natura, deve comprendere gli 30

Ivi, p. 71. Th. Hobbes, Leviathan (1651), a cura di N. Malcolm, vol. 2, The English and Latin Texts, Clarendon Press, Oxford 2012, pp. 150-151. 32 L. Strauss, La critica della religione in Spinoza, cit., p. 72. 33 Ibid. 34 Ivi, p. 73. 31

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stadi immaginativi e onirici come false strade, e coltivare solo le produzioni di cause naturali come produzione tout court. Ma qui si insinua il problema della natura a partire da cui – condizione – e in virtù di cui – principio – bisogna produrre. La natura umana è infatti infestata da «un male primario (erstes Übel): la morte, il “terribile nemico della natura”, specie la morte violenta […]. La morte è il sommo male», sancisce Strauss riprendendo De cive I, 7. La prospettiva della morte violenta riorienta l’indagine, diventa «il primo fondamento del diritto naturale»35, eguagliatore dei destini di tutti coloro che aspirano a potenza e onore, fattori che si rivelano così sussidiari rispetto al fondamento, al principio sensibile-emotivo (il timore) dell’organizzazione statuale stessa che mira quindi alla pace. Lo Stato si configura pertanto come «declinazione “tecnica” […] di un’inclinazione morale»36, la paura della morte violenta. Lo Stato è quell’associazione che tecnicizza la legge naturale giuridificandone il carattere di calcolo razionale, imponendo leggi civili che neutralizzino il fondamento giusnaturalistico e permettano alla potentia di seguire la strada della scienza, della cultura, tornando sul fondamento solo per coltivarlo a esser messo tra parentesi. 5. Condizione e non principio Il presupposto teorico della critica a Schmitt era dunque già nel capitolo hobbesiano dello Spinoza-Buch. Strauss glielo fece presente in pubblico, nel saggio, ma anche in privato, de visu e per epistola. Ad esempio nella seconda delle tre lettere inviate a Schmitt nel 193233, che contiene sviluppi ulteriori alla recensione appena pubblicata. La lettera è lunga e schietta. Schmitt, insinua il giovane, è stato sciatto nella definizione principale del suo saggio. La Sua tesi si presta a fraintendimenti specialmente perché talvolta lei si esprime ad esempio nella seguente maniera: la contrapposizione politica è quella del grado d’intensità maggiore rispetto a tutte le possibili contrapposizioni tra gruppi. Formulazioni come questa […] lasciano intendere che il politi35

Ivi, p. 76. C. Altini, La storia della filosofia come filosofia politica. Carl Schmitt e Leo Strauss lettori di Hobbes, Ets, Pisa 2004, p. 32. 36

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co presupponga sempre come già esistenti contrapposizioni umane di carattere impolitico, […] come se il politico fosse qualcosa che viene dopo. Se però ho inteso correttamente il suo punto di vista – e questo grazie a un colloquio più che al Suo scritto –, allora Lei pensa precisamente che esista una tendenza primaria della natura umana a formare gruppi esclusivi.

Andando oltre i fraintendimenti possibili, se il politico è una tendenza primaria iscritta nella natura, se quindi gode di anteriorità logica rispetto ad altri tipi di contrapposizione, Strauss, seguendo Schmitt, legge il criterio amico-nemico sotto la lente di un primato naturale dell’esclusione. Ma se politica è quella condizione in cui ci si raggruppa escludendo, in privato Strauss mostra di individuare nella posizione di Schmitt – «grazie a un colloquio più che al suo scritto» – anche una premessa polemica, ossia la battaglia culturale contro il concetto del politico che veniva offerto da “sinistra”. Ma anche nell’ambito di questa postura polemica, cui Strauss non sembra affatto insensibile, l’argomentazione schmittiana viene definita fallace. Si ha l’impressione che la polemica contro la sinistra si scomponga in due serie di pensieri inconciliabili […]. La contrapposizione sinistra-destra si presenta: 1) come contrapposizione tra pacifismo internazionalista e nazionalismo bellicista, e 2) come contrapposizione tra società anarchica e società autoritaria. […] In sé queste due contrapposizioni non coincidono. Nella mia recensione l’ho spiegato, mostrando perché la seconda contrapposizione (anarchiaautorità) mi sembri quella più radicale e, in ultima istanza, la sola a esser presa in considerazione. […] Corrisponde alle Sue intenzioni analizzare il nesso tra “autoritarismo” e nazionalismo […] nella maniera seguente: il fondamento ultimo della destra è la tesi della naturale “malvagità” dell’uomo; poiché l’uomo è malvagio per natura, ha pertanto bisogno di dominio.

Se il pensiero di sinistra viene ridotto a una non meglio specificata posizione anarchica, questa poggia su un fondamento di ottimismo antropologico insostenibile per la posizione schmittiana che sceglie invece una natura malvagia, e di qui il bisogno artificiale – culturale – di dominio contro altri uomini (non solo su cose) come destino. Ma è su questa destinalità del politico – la sua “naturalità” – che Strauss costruisce un ultimo tassello critico. Ma il dominio si può stabilire solo in modo artificiale, cioè gli uomini possono essere uniti soltanto in una unione contro – cioè contro altri uomini. Ogni

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associazione di uomini è necessariamente un’esclusione nei confronti di altri uomini. Questa tendenza all’esclusione (e quindi al raggrupparsi dell’umanità in amico-nemico) è data con la natura umana e in tal senso è il destino. Ma il politico così inteso non è il principio costitutivo dello Stato, dell’“ordine”, cioè dell’ordine normativo o ordinamento, ma è solo la condizione da cui esso dipende. Questo rapporto gerarchico tra politico e Stato non emerge tuttavia, credo, in maniera sufficiente nel Suo scritto. La Sua proposizione: “Il concetto di Stato presuppone il concetto di politico” è ambigua, infatti “presupposto” può voler dire “principio”, ma anche “condizione da cui dipende”37.

Il pensiero “condizionale” attraverso cui viene letta l’organizzazione sociale – dipendente dalla natura umana – è una spia della veste morale celata dal “politico” schmittiano. Il politico non struttura lo Stato come un “principio”, non gli imprime le sue nervature formali e funzionali, perché è solo una condizione morale. La malvagità umana in quanto sostanza del “politico” sarebbe per Schmitt ciò che possiede i tratti di quella «vincolatività ultra-privata», ultra-soggettiva, che spinge l’uomo al dominio e alla sua accettazione, senza – a suo avviso – possedere i tratti dell’ambito valoriale. Ma è questo il falso assunto: condizione e non principio, il “presupposto” per affermare il politico è appunto, insiste Strauss, un giudizio “privato” di valore sulla natura umana. È questo il segreto idiotismo del politico schmittiano, il suo fondamento in ultima analisi liberale: «chi afferma il politico come tale rispetta e tollera tutte le convinzioni “serie”, ossia tutte le decisioni dirette alla reale possibilità della guerra. In questo modo l’affermazione del politico come tale si palesa come un liberalismo di segno rovesciato»38. Non sono note le reazioni di Schmitt al giudizio che lo invitava a riflettere meglio sui suoi presupposti per non esser così liberale, pur dicendo di essere antiliberale. Le note del 1963 tacciono. Si sa invece, lo si è accennato all’inizio, che molto prima, in un’altra epoca, egli aveva spostato il piano di discussione tornando a Hobbes, rispondendo all’ebreo Strauss attraverso l’ebreo Spinoza.

37 H. Meier, Carl Schmitt e Leo Strauss. Per una critica della Teologia politica, cit., pp. 130-131. 38 L. Strauss, Anmerkungen zu Carl Schmitt, «Der Begriff des Politischen», cit , p. 237; trad. it. supra, p. 144.

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6. La vendetta è un piatto freddo e nazionalsocialista Scrivendogli da Heidelberg, il 28 giugno 1956, Karl Löwith riporta a Leo Strauss una scoperta piuttosto significativa. Alla nostra biblioteca del Dipartimento mancava il suo libro su Spinoza del 1930. Pensi: lo abbiamo ordinato da un antiquario e ci siamo accorti che si tratta della copia di Carl Schmitt con molte annotazioni! Un timbro segnala che il libro, evidentemente, è stato sequestrato dalle autorità statunitensi con la sua intera biblioteca. Sulla prima pagina Schmitt ha riportato a mano: 1° incontro: Primavera 1932; 2° incontro: Estate 1937; 3° incontro: Luglio 1945. […] Com’è da intendere questo cosiddetto terzo incontro?39

Non conosciamo la risposta di Strauss, né possiamo verificare a cosa si riferisca l’allusione a una triplice Begegnung (che sia personale è assai improbabile: se si osserva che la prima data posticipa di alcuni mesi l’incontro effettivo e che Strauss nel 1937 era in Inghilterra, e se si richiamano infine le ben diverse ubicazioni dei due nel luglio 1945, non stupisce lo stupore di Löwith). È assai più probabile che si tratti di un incontro spirituale col libro. E se i fitti appunti provano che Schmitt fece ampio uso dello scritto di Strauss su Spinoza – più che di quello su Hobbes (lo avrà conosciuto in tempo nella sua versione inglese del 1936? O si limitò al “manoscritto” consegnatogli nel 1931 citato nel diario?) –, a colpirlo in quel testo è proprio il capitolo hobbesiano che si è rapidamente discusso, che sostanzia la critica pubblica e privata del 1932. Forse proprio per questo motivo è solo anni dopo, in contesti del tutto mutati, che Schmitt torna su Strauss. Lo fa in un passaggio “osceno” e perciò problematico del primo capitolo del libro Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Il mostro del libro di Giobbe è qui interpretato come simbolo di uno di quei miti politici «d’intensità senz’altro magica; creati dai cabalisti, possiedono naturalmente un carattere esoterico»40. Schmitt poi prosegue: «Secondo queste interpretazioni ebraico-cabalistiche […] gli ebrei se ne stanno da parte, a guardare come i popoli della Terra si uccidono a vicen39

L. Strauss – K. Löwith, Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione, cit., p. 176. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico (1938), in Id., Sul Leviatano, a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2011, pp. 35-128: 44. 40

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da: per loro, questi reciproci “macelli e sgozzamenti” sono legali e kosher. Per questo si cibano della carne dei popoli uccisi e ne traggono vita»41. In questo quadro, l’esigenza di Schmitt – trovare una “controinterpretazione” – va nella direzione di esasperare il desolante quadro antisemita già tinteggiato: i miti Leviatano e Behemot sono letti come «immagini, viste con occhi ebraici, della potenza vitale e della fecondità dei popoli pagani […], che l’odio ebraico e il senso di superiorità ebraico hanno sfigurato in forma di mostri»42. È indice del peculiare antisemitismo radicale di Schmitt che l’entrata in scena di Strauss, ein jüdischer Gelehrter, nel libro sia preparata da queste frasi e venga contrapposta alla lettura di Helmut Schelsky, «da parte tedesca»43. Ed è un segnale chiaro dello stato della scrittura schmittiana in questo testo, «scopertamente mimetica rispetto all’ambiente esterno (l’antisemitismo e l’anticattolicesimo del nazismo)», dove il cinquantenne giurista «esternalizza razzialmente, per dir così, le contraddizioni della politica moderna»44. Uno studioso ebreo, Leo Strauss, in un libro pubblicato nel 1930, ha esaminato il Tractatus theologico-politicus di Spinoza, e ha accertato l’ampia dipendenza di Spinoza da Hobbes. Egli sottolinea inoltre che Hobbes ha indicato negli ebrei gli effettivi promotori della distinzione – sediziosa e sovvertitrice dello Stato – fra religione e politica. Ciò è corretto soltanto con questa limitazione, che Hobbes combatte la frattura, tipicamente ebraico-cristiana, dell’originaria unità politica. Secondo Hobbes, la distinzione tra i due poteri, quello temporale e quello spirituale, era estranea ai pagani, per i quali la religione era una parte della politica; gli ebrei, invece, producevano l’unità a partire dal versante religioso. Soltanto la Chiesa papista di Roma e le chiese o le sette presbiteriane, avide di dominio, vivono della separazione – distruttiva per lo Stato – fra potere spirituale e temporale. La superstizione e l’abuso della credenza in spiriti esterni, risultante dalla paura e dal sogno, hanno distrutto l’originaria e naturale unità pagana di politica e religione. Il senso autentico della teoria politica di Hobbes, come sottolinea Leo Strauss, sta proprio nella lotta contro quel “Regno delle Tenebre” a cui aspira la chiesa papista di Roma, sta cioè nella restaurazione dell’unità originaria. E ciò è giusto45. 41

Ivi, p. 45. Ivi, p. 46 (trad. mod.). 43 Ivi, p. 48. 44 C. Galli, Introduzione. Schmitt e Hobbes: una strana coppia?, in C. Schmitt, Sul Leviatano, cit., pp. 7-32: 8. 45 C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, cit., pp. 47-48. 42

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Nulla resta delle critiche mossegli nel 1932, e dell’accezione “illuministico-liberale” rinvenuta da Strauss nella lotta di Hobbes contro il “Regno delle Tenebre”. Il lessico affaticato si affianca a tesi semplicistiche, di cui Strauss non può esser ritenuto responsabile, come pure Schmitt vorrebbe suggerire. Ma accanto al tentativo di ascrivere Hobbes a una lotta anti-ebraica per l’unità tra politica e religione, decisiva è la nota, cripticamente teologico-politica46, in cui Schmitt critica la tesi di Strauss, propendendo per una lettura tecnicizzante della separazione foro interno-foro esterno, religione-politica. In Hobbes il politico sarebbe preservato nell’enunciato Jesus is the Christ posto al vertice della sovranità. Strauss invece non coglierebbe l’argomentazione di Hobbes, e nel parlare del suo cristianesimo lo “ebraizzerebbe” – colpa non da poco, dato il contesto storico. Strauss semplifica l’esposizione di Hobbes alla mera opposizione tra ebrei e pagani, mentre Hobbes è in lotta contro le dottrine tipicamente ebraicocristiane e in concreto argomenta in chiave pagano-cristiano-erastiana, in cui presuppone una comunità cristiana, la civitas christiana, ove il sovrano non sfiora ma tutela l’unico enunciato di fede essenziale – that Jesus is the Christ. […] La tecnicizzazione dello Stato rende poi tutte queste distinzioni tra ebrei, pagani e cristiani prive di oggetto e porta a un ambito di neutralità totale47.

Se è sin da subito evidente la «falsificazione antisemita di una tradizione talmudica (non cabbalistica!) del Leviatano»48, che governa le premesse storico-ideali della lettura da parte di Schmitt del Leviatano hobbesiano, in cui rientra anche lo «studioso ebreo», tali premesse vanno a preparare il terreno per una teologia politica “contorta” e rifunzionalizzata al dominio nazionalsocialista, più che a delineare un autoritratto da “resistente” interno – come Schmitt proverà ad accreditarsi anni dopo. Ma soprattutto, come è stato notato, Schmitt evita di sottolineare il percorso genealogico interno all’illuminismo europeo che Strauss aveva scelto individuando nella coppia Spinoza-Hobbes la radice: «sembra miri ad altro»49. 46

C. Galli, Introduzione, cit., p. 14. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, cit., pp. 4748, nota 12 (trad. mod.). 48 G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer II, 2, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 66. 49 C. Altini, La storia della filosofia come filosofia politica. Carl Schmitt e Leo Strauss lettori di Hobbes, cit., p. 10. 47

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Mirando ad altro – lo scimmiottamento del lessico al potere allora in Germania –, non comprende i testi che cita. Elude quindi la «rivolta contro la rivelazione» principiata da Hobbes e proseguita da Spinoza che vede, da prospettiva integralmente filosofica – di un’élite consapevolmente mantenuta e tutelata rispetto alle masse –, Leo Strauss quale suo peculiare erede. Strauss lo scriverà nella Preface apparsa nel 1965: quella di Spinoza è una prospettiva eccentricamente ma compiutamente liberale, che comprende – che supera – l’ortodossia nel pieno intendimento dei suoi fondamenti emotivi, del bisogno che se ne ha. Strauss vi aggiungerà lo sguardo rivolto alla filosofia politica antica. Questo ateismo è erede e giudice della fede nella rivelazione. […] Esso affronta l’ortodossia pieno di questioni complesse e sofisticate, di gratitudine, di rivolte, di desideri e di indifferenza, ed è, nella sua semplice probità (probity), tanto capace di una comprensione originaria delle radici umane della fede in Dio quanto nessuna altra filosofia precedente. L’ultima parola e la definitiva giustificazione della critica di Spinoza è l’ateismo della probità intellettuale che sottomette (overcomes) radicalmente l’ortodossia comprendendola radicalmente50.

Ecco, accanto al profilo di Spinoza, «che ora comprende Spinoza solo assecondandone tutte le contraddizioni»51, l’autoritratto tardonovecentesco di quel filosofo che l’ossimoro di Schmitt, con intento razzista, aveva paradossalmente ben descritto. Strauss che parla di Schmitt si intende radicalmente come uno «studioso ebreo» che lavora nelle pieghe della tradizione rivelata per comprenderla, ma anche per rivoltarsi contro di essa a partire dalla ragione. Nel radicalismo della sua argomentazione razionale, naturalmente rifiuta l’ineffabile accusa di “ebraismo cattolico” rivolta da Schmitt alla sua lettura di Hobbes. Ma al contempo, nella strana lotta tra due liberalismi così lontani dall’accezione vulgata e così vicini alla sua radice indiscussa, offre profondità filosofica, e autocoscienza, a quel liberalismo antidemocratico di cui il suo “stimatissimo professore” era stato esponente inconsapevole. Gli toglie il fondamento morale, l’opzione teologica di fondo, e la radica nella filosofia, nella responsabilità per pochi prodotta dall’insolubile “problema teologico-politico” in cui, giovane ebreo nato e cresciuto in Germania, si era formato. 50

L. Strauss, Prefazione alla critica spinoziana della religione, cit. p. 320 (trad. mod.). C. Galli, Schmitt, Strauss e Spinoza (2007), in Id., Lo sguardo di Giano, il Mulino, Bologna 2008, pp. 107-128: 113. 51

Karl Löwith Decisionismo politico A cura di Giorgio Fazio

Il saggio di Karl Löwith Decisionismo politico è stato pubblicato per la prima volta nel 1935 in tedesco nella rivista «Revue internationale de la théorie du droit/Internationale Zeitschrift für Theorie des Rechts», IX, n. 2 (1935), pp. 101-123 e, pressoché in contemporanea, in italiano, con il titolo Il concetto della politica di Carl Schmitt e il problema della decisione, nella rivista «Nuovi Studi di diritto, economia e politica», VIII (1935), trad. it. di D. Cantimori, pp. 58-83. In entrambi i casi, esso apparve sotto la firma pseudonima di Hugo Fiala. Questa prima edizione del saggio è stata pubblicata una seconda volta in italiano con il titolo Decisionismo politico in «Nuovi Studi Politici», 1, 1977, pp. 3-36, trad. it. di C. Bonomo. Esiste una ristampa identica a quest’ultima edizione in K. Löwith - S. Valitutti, La politica come destino, Bulzoni Editore, Roma s.d. (ma 1978), pp. 7-40. Una versione riveduta e ampliata del saggio del ’35, con parti aggiuntive dedicate a M. Heidegger e a F. Gogarten, è stata pubblicata da Löwith successivamente con il titolo: Der okkasionelle Dezisionismus von Carl Schmitt, in K. Löwith, Kritik der geschichtlichen Existenz, Kohlhammer, Stuttgart 1959. Questa seconda versione del saggio è stata poi accolta nelle Opere complete di Karl Löwith: Sämtliche Schriften, Metzler, Stuttgart 1984, vol. VIII, pp. 32-61. Di questa seconda versione, con il titolo Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, esistono in italiano due traduzioni, la prima in K. Löwith, Critica dell’esistenza storica, tr. it. a cura di A. L. Künkler Giavotto, Morano, Napoli 1967, pp. 113-161; la seconda in K. Löwith, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 123-166, trad. it. di A.M. Pozzan. Per la presente edizione si è preferito pubblicare una nuova traduzione in italiano del testo originale del 1935, in quanto ci è apparso più aderente al contesto storico nel quale vide la luce e più capace di restituire i moventi di fondo della critica di Löwith a Schmitt.

Decisionismo politico

Man mano che la razza peggiora, l’azione assume il carattere della decisione1 E. Jünger

Quando uno studioso di diritto pubblico, così acuto e influente sul piano pratico come il Consigliere di Stato Carl Schmitt, esprime il suo pensiero attorno alla questione del politico, l’efficacia e l’intenzione delle sue esposizioni vanno molto al di là della sua disciplina scientifica. Il saggio su Il concetto di “politico”2, nel quale Schmitt tratta questa questione, si può perciò comprendere in tutta la sua portata solo facendo riferimento ad un discorso, ad esso legato sul piano dei contenuti, sulla ormai trascorsa Epoca delle neutralizzazioni e delle spolicitizzazioni3 e a due saggi precedenti: Romanticismo politico e Teologia politica4. Infatti, il concetto di cui Schmitt si av1

E. Jünger, Foglie e pietre, trad. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1994, p. 189. Apparso per la prima volta in: «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», poi in seconda edizione, insieme alla conferenza sull’Epoca delle neutralizzazioni (Dunkler & Humblot, München 1932), ed infine in terza edizione presso la Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1933. Si cita, salvo diversa indicazione, dalla seconda edizione. [Il saggio venne pubblicato autonomamente nel 1928 (W. Rothschild, Berlin-Grunewald). Löwith non tiene conto di questa edizione e indica come seconda l’edizione del 1932, che invece sarebbe la terza, e come terza quella del 1933, che invece sarebbe la quarta. L’edizione del 1932 è stata ristampata nel 1963 dallo stesso Schmitt: Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, Duncker & Humblot, Berlin. L’edizione de Il concetto di “politico” del 1933 è stata tradotta in italiano da D. Cantimori in C. Schmitt, I principi politici del nazionalsocialismo, Sansoni, Firenze 1935. L’edizione del 1932, ripresentata nel 1963 da Schmitt, che è il testo cui si riferisce Löwith, è stata tradotta in italiano da G. Miglio e P. Schiera in C. Schmitt, Le categorie del “politico”, il Mulino, Bologna 1972, pp. 101-165. N.d.C.]. 3 C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni (1929) in C. Schmitt, Le categorie del “politico”, cit., pp. 167-183. 4 Politische Romantik (1919 e 1925) e Politische Theologie (1922 e 1934). Entrambi gli scritti sono citati dalla seconda edizione. [Cfr. C. Schmitt, Romanticismo politico, a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano 1981; Id., Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottri2

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vale per definire l’essenza peculiare della politica è contraddistinto in generale dal fatto che esso è, in primo luogo, un concetto polemico, antitetico a quello romantico e, oltre a questo, un concetto secolarizzato, subordinato rispetto a quello teologico. Il concetto fondamentale con cui Schmitt caratterizza il romanticismo politico, in particolare quello di Adam Müller, è l’occasionalismo ironico, e quello con cui caratterizza la teologia politica, in particolare quella di Donoso Cortés, è il sovrano decisionismo. Come si mostrerà, il decisionismo antiromantico e ateologico di Schmitt non è che il rovescio del suo agire ogni volta secondo l’occasione e le circostanze. Le trattazioni di Schmitt sono essenzialmente «polemiche», non si dirigono cioè solo occasionalmente contro questo o quell’oggetto solo per chiarire la propria personale opinione, ma basano la loro «giustezza», in tutto e per tutto, sull’oggetto contro cui sono dirette. Il suo avversario è lo Stato liberale del XIX secolo, il cui carattere apolitico Schmitt legge in connessione alla tendenza generale dell’epoca moderna alla spoliticizzazione5. Dal momento che questa tendenza alla spoliticizzazione dello Stato è caratterizzata dal ricercare un terreno politicamente neutrale, soprattutto attraverso l’economia e la tecnica, Schmitt definisce questa tendenza alla spoliticizzazione anche come tendenza alla neutralizzazione. Dall’epoca dell’emancipazione del «terzo stato», della formazione della democrazia borghese e della sua successiva trasformazione in democrazia industriale di massa, questa neutralizzazione delle differenze politicamente decisive e il dilazionamento della loro determinazione si sono sviluppati fino al punto critico in cui si rovesciano nel loro opposto: in una totale politicizzazione di tutti i settori della vita, anche di quelli apparentemente più neutrali. Così, nella Russia marxista, nacque uno Stato dei lavoratori, «che è più, e più intensivamente statalizzante di qualsiasi Stato retto dal più assoluto dei principi»; nell’Italia fascista, è nato uno Stato corporativo che pone norme, oltre che per il lavoro nazionale, anche per il dopolavoro e per l’intera vita spirituale; nella Germania nazionalsocialista, è nato uno Stato dalla perfetta organizzazione onnipresente che, con leggi razziali e simili, politicizza anche quella che sinora era stata la vita privata. na della sovranità, trad. it. condotta sulla seconda edizione, in C. Schmitt, Le categorie del “politico”, cit., pp. 29-74. N.d.C.]. 5 C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, cit., pp. 167-183.

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Schmitt vede il presupposto negativo di questa politicizzazione nel «nulla spirituale» che si ebbe alla fine dell’epoca delle neutralizzazioni6. Ma, nel passaggio al XX secolo, questa situazione poteva essere solo «un fatto provvisorio»: il «significato finale» della nostra cosiddetta epoca tecnica, emerge soltanto «quando appare chiaro quale tipo di politica è abbastanza forte da impadronirsi della nuova tecnica e quali siano i reali raggruppamenti amico-nemico che crescono su questo terreno»7. Tuttavia, Schmitt non pensa che questa nuova centralità assunta dalla politica significhi che, ora, questa subentri al posto delle precedenti «sfere spirituali» in cui l’uomo europeo degli ultimi quattro secoli ha trovato «il centro della sua concreta esistenza umana», e che essa diventi la «sostanza» dello Stato8. È certo che nel corso degli ultimi quattro secoli il centro di riferimento dell’esistenza spirituale si è spostato quattro volte: dal teologico, al metafisico, da qui al morale-umanistico e infine all’economico, spostando così anche il senso di tutti i concetti specifici9; ma, anche lo Stato acquista la sua «realtà e la sua forza» dal «centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo»10. Tuttavia, il “politico” non è, in generale, un particolare settore materiale e, perciò, non è nemmeno una possibile realtà centrale11. Schmitt non dice però quale sia ora, nel nostro tempo, il settore decisivo. Egli espone solo la successione storica degli ultimi quattro secoli, e ciò che rimane certo è solo la visione negativa secondo cui la realtà centrale della vita non può, per principio, essere in nessun caso neutrale. Ma non è affatto stabilito su quale terreno lo Stato totale 6 «La generazione tedesca che ci ha preceduto era pervasa dal senso della decadenza della civiltà, che già si era manifestato prima della guerra mondiale e senza bisogno di aspettare la rovina del 1918 e Il tramonto dell’Occidente di Spengler. In Ernst Troeltsch, in Max Weber, in Walther Rathenau si trovano numerose testimonianze di un tale stato d’animo […]. Dopo che si era fatto astrazione, prima, dalla religione e dalla teologia, poi dalla metafisica e dallo Stato, sembrava ora che si dovesse fare astrazione da tutto ciò che è cultura e che fosse raggiunta la neutralità della morte culturale» (ivi, p. 182). 7 Ibid. 8 Ivi, p. 178. 9 Ivi, pp. 169-175. 10 Ivi, p. 174. 11 Ivi, p. 108.

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del XX secolo fondi la propria forza spirituale e la sua realtà, a meno che non si voglia pensare a un «mito del XX secolo». È vero che Schmitt ha distinto una volta la «musica intellettuale di un programma politico» dall’«irrazionalità» del mito politico che sgorgherebbe dall’«attività politica» in relazione ad una «guerra reale»12. Ma, a prescindere dal fatto che resta romanticamente oscuro in cosa consisterebbe poi questa «reale», vera e propria guerra13, ne Il concetto di “politico” non si trova nessuna indicazione riguardo ad un nuovo mito come base spirituale della moderna attività politica. Nel quadro di questa ricostruzione storica che si basa su Vico e su Comte, Schmitt attribuisce un ruolo particolare al romanticismo. Infatti, con esso si compie la transizione problematica dal XVIII al XIX secolo, cioè dal predominio della morale umanitaria all’economia tecnica. «In realtà, il romanticismo del XIX secolo […] significa solo la fase intermedia dell’estetica fra il moralismo del Settecento e l’economicismo dell’Ottocento; cioè soltanto una transizione che si attuò, in verità facilmente e con grande successo, per mezzo dell’estetizzazione di tutti i settori della vita spirituale. Infatti il cammino dal metafisico al morale e all’economico passa attraverso l’estetico»14. Questa estetizzazione di tutti i settori della vita non è quindi che una prefigurazione di quella radicale neutralizzazione che poi si è compiuta attraverso l’economia e la tecnica. Il veicolo del movimento romantico è la nuova borghesia. «La sua epoca comincia nel XVIII secolo; essa, nel 1789, ha trionfato con forza rivoluzionaria su monarchia, nobiltà e Chiesa; ma, nel giugno 1848, stava già dall’altra parte della barricata per difendersi dal proletariato rivoluzionario»15. Schmitt ha un’incontestabile affinità con questo romanticismo e col suo rappresentante poliedrico Adam Müller, l’inventore della teoria dello Stato totale; questa affinità rende particolarmente istruttiva la sua critica: «come, in generale, il romanticismo tedesco, del quale recentemente si è detto che doveva essere superato, sia un inesauribile serbatoio cui attinge spiritualmente chiunque non pensi in modo piattamente

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C. Schmitt, Romanticismo politico, cit., pp. 236. Ivi, pp. 135 sgg. 14 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 171 [trad. leggermente modificata, N.d.C.]. 15 C. Schmitt, Romanticismo politico, cit., p. 15. 13

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esatto»16. Ciò che, secondo l’analisi di Schmitt, caratterizza in termini generali i romantici è che, per essi, qualsiasi cosa può diventare centro della vita spirituale, perché la loro stessa esistenza è priva di un centro fondamentale. Per l’autentico romantico è centrale sempre soltanto il suo Io ironico e pieno di spirito ma, in fondo, privo di contenuti. «L’individuo singolo, isolato ed emancipato, diventa nel mondo liberale e borghese, […] l’ultima istanza, l’assoluto»17. Ma questo suo proprio assoluto, mancando di un mondo pieno di contenuto, è esso stesso un assoluto nulla18. Solo un passo separa questo estremo isolamento e questa assoluta privatizzazione dell’esistenza umana dall’esatto contrario di un estremo vincolo pubblico, sia esso alla comunità della Chiesa cattolica o alla politica nazionale, che poi diventa essa stessa una sorta di faccenda religiosa19. Ma, finché il romantico resta romantico, il mondo intero è per lui un semplice pretesto, una pura circostanza o occasio; detto in termini romantici: il «veicolo», l’«incitamento» e il «punto elastico» per l’attività produttrice del suo Io ironico ed intrigante. Questo concetto romantico dell’occasio nega – come il concetto della decisione di Schmitt! – «ogni vincolo ad una norma»20. 16 C. Schmitt, Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di Theodor Däubler (1916), a cura di S. Nienhaus, ESI, Napoli 2015, pp. 10 sgg. [trad. leggermente modificata, N.d.C.]. 17 C. Schmitt, Romanticismo politico, cit., p. 141. 18 «Soltanto in una società minata dall’individualismo la produttività estetica del soggetto poteva porsi come centro spirituale della realtà; soltanto in un mondo borghese si poteva costringere l’individuo, spiritualmente isolato e lasciato a se stesso, a farsi carico di tutti quei pesi che un tempo erano invece ripartiti fra le diverse funzioni gerarchiche dell’ordinamento sociale. Soltanto in una società di questo tipo l’individuo privato può venire abbandonato ad essere il sacerdote di se stesso […]: in questo sacerdozio privato sta la radice ultima del romanticismo e dei fenomeno romantici» (ivi, p. 24). 19 Ivi, p. 89. 20 «È […] un concetto altamente dissolvitore poiche tutto ciò che può fornire un ordine consequenziale alla vita e ai fatti storici – sia una casualità meccanicamente calcolabile, sia un rapporto finalistico o normativo – è assolutamente incompatibile con la rappresentazione della mera occasionalità: chi ha a princpio l’occasionale e il casuale viene a trovarsi in una posizione di grande superiorità rispetto alla normalità e a tutti i suoi limiti. […] Nella filosofia di Malebranche, è Dio che costituisce l’istanza ultima ed assoluta, mentre il mondo con tutto ciò che vi accade è soltanto la semplice occasione per il Suo esclusivo operare. Quest’immagine dell’Universo è davvero grandiosa, e la tascendenza divina ne viene innalzata a vertici fantastici ed incommensurabili. Ora, questo atteggiamento occasionalistico può fermarsi a questo punto, ma può collocare al posto di Dio, come istanza suprema e fattore decisivo, qualcosa d’altro: come lo Stato, il popolo, o anche il singolo soggetto. Quest’ultimo è proprio il caso del romanticismo» (ivi, p. 21); e il primo è il caso dell’antiromanticismo di Schmitt!

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La forma peculiare del discorso romantico non è il comando o una qualsiasi affermazione apodittica, ma «l’eterno dialogo», il discorso occasionalmente intrigante senza principio e scopo determinati. Il romantico mescola tutte le categorie, è incapace di pervenire ad una distinzione e ad una risoluzione univoca, ad una decisione indiscutibile21. Il romanticismo politico è soltanto pseudopolitico, perché è privo di serietà morale e di energia politica. Ma, il fatto che in ogni epoca sono gli uomini decisi a determinare il corso delle cose umane, significa che l’irresolutezza priva di sostanza del romanticismo sta, senza volerlo, al servizio di decisioni estranee22. Con tale romanticismo, però, Schmitt caratterizza, in ultima istanza, anche sé stesso: il suo decisionismo, infatti, è un decisionismo occasionale. Marx e Kierkegaard hanno per primi contrapposto simile «decisione» al borghese e all’esistenza romantica23. Il primo capitolo della Teologia politica di Schmitt contiene, alla fine, un breve accenno a Kierkegaard, mentre «la dittatura nel pensiero marxista» viene analizzata dettagliatamente e approfonditamente nella trattazione La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo e nel libro La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria (rispettivamente del 1923 e del 1928). Tuttavia alla teoria della politica di Schmitt manca, insieme al riferimento ad una sfera centrale della realtà che dà la norma, non solo la metafisica della decisione che egli riconosce, giustamente, come il 21 «Il teorico delle antitesi [si allude ad Adam Müller] è incapace di vedere altre antitesi al di fuori di quella estetica. Non è in grado di operare né distinzioni logiche, né giudizi morali di valore, né decisioni politiche. Le fonti più importanti della vitalità politica, la fede nel diritto e lo sdegno per l’ingiustizia, per lui non esistono» (C. Schmitt, Romanticismo politico, cit., p. 184; cfr. Id., La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo [1923; 1926], a cura di G. Stella, Giappichelli, Torino 2004, pp. 45 sgg.). 22 «Malgrado le sue ironie e i suoi paradossi, il romanticismo rivela di essere in una costante posizione di dipendenza. Negli stretti limiti della sua specifica produttività – la poesia lirica o la musica – l’occasionalismo soggettivo può anche attingere qualche momento di libera creatività, ma anche in questo caso si sottomette inconsapevolmente alla potenza esteriore più vicina e più forte. La sua pretesa su di un presente che è assunto solo occasionalisticamente subisce così un capovolgimento supremamente ironico: ogni forma di romanticismo è in effetti al servizio di altre energie non romantiche, e la sua pretesa sublimità rispetto alle definizioni e alle decisioni si rovescia in un accompagnamento servile di forze e di decisioni che gli sono estranee» (C. Schmitt, Romanticismo politico, cit., pp. 238-239). 23 Cfr. soprattutto S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia (1841), a cura di D. Borso, Rizzoli, Milano 2005 e Id., Kritik der Gegenwart, trad. ted. di T. Haecker, Basel 1946, e K. Marx, 18 Brumaio di Luigi Buonaparte (1852), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 2006.

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fondamento portante del socialismo «scientifico» di Marx, ma anche il fondamento teologico che supporta la decisione religiosa di Kierkegaard per un governo autoritario24. Ci si deve dunque domandare: su che poggia in generale la fede di Schmitt nella «decisione morale ed esigente»25, se egli non crede né alla teologia del XVI secolo, né alla metafisica del XVII, e tanto meno alla morale umanitaria del XVIII secolo, ma ancora soltanto alla forza della decisione?26 Ciò che Schmitt pone in evidenza in Kierkegaard è esclusivamente la sua apparente apologia dell’«eccezione» perché, come afferma la prima frase di Teologia politica, «sovrano è chi decide dello stato d’eccezione». Quello che a Schmitt piace in Kierkegaard è che egli si orienta sull’estremo «caso limite» e non sul «caso normale»; ciò corrisponderebbe ad una «filosofia della vita concreta»27. Il fatto che l’extremus necessitatis casus, inteso in senso giuridico e riferito alla politica, non abbia nulla in comune dal punto di vista contenutistico con la decisione esistenzial-religiosa di Kierkegaard per «l’uno, che è necessario», non importa a Schmitt, perché per lui c’è solo da garantire l’anormale diritto della decisione puramente in quanto tale, qualsiasi sia il suo «che cosa» e «per che cosa». L’autorità in quanto tale che, in forza della propria autorità, decide su una situazione d’eccezione in senso eminente, gli dimostra «che essa non ha bisogno di diritto per creare diritto». Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma, per Schmitt, il caso d’eccezione, decisivo dal punto di vista politico, è la guerra, la quale, proprio in quanto situazione d’eccezione, è anche «quella che dà la norma» e che non può essere riferita a nient’altro. L’eccezione, dice Schmitt con un modo di dire sospetto di romanticismo, è «più interessante» del caso normale, e, 24 Cfr. S. Kierkegaard, L’uno, che è necessario (1847/48), trad. ted. in «Zeitwende», III (1927), 1. 25 C. Schmitt, La situazione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., pp. 91 sgg. 26 Categorie realmente morali come «fedeltà», «disciplina interiore» e «onore» determinano il pensiero politico di Schmitt solo dopo che egli ha abbandonato il decisionismo nel suo ultimo scritto I tre tipi di pensiero giuridico (1934), in C. Schmitt, Le categorie del “politico“, cit., pp. 247-275. [La traduzione italiana di questo saggio presenta sostanziali modifiche a cura dello stesso Schmitt. Cfr. ivi, Avvertenza, p. 17, N.d.C.]. 27 Categorie realmente morali come «fedeltà», «disciplina interiore» e «onore» determinano il pensiero politico di Schmitt solo dopo che egli ha abbandonato il decisionismo nel suo ultimo scritto I tre tipi di scienza giuridica (1934). Cfr. C. Schmitt, I tre tipi di scienza giuridica (1934), a cura di G. Stella, Giappichelli, Torino 2002.

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non solo conferma la regola, ma anzi, la regola stessa, in generale, vive solo d’eccezione28. Solo per questo egli si interessa a Kierkegaard, il quale, tuttavia, non ha mai voluto giustificare l’eccezione in quanto tale, quando diceva che l’eccezione spiega l’universale e sé stessa e che, se si vuole giustamente studiare l’universale, si deve soltanto cercare un’eccezione reale. Prescidendo completamente dal fatto che Kierkegaard non voleva decidere politicamente lo stato d’eccezione politica del 1848 e che, invece, si decise per l’autorità cristiana, è certamente significativo il fatto che Schmitt, nella citazione di Kierkegaard, faccia cadere serenamente un passo che non si acccorda con il suo personale pensiero. Nel passo si legge che: «l’eccezione giustificata è conciliata nell’universale» e «l’universale è fondamentalmente polemico nei confronti dell’eccezione» (corsivo mio, K. L.); mentre Schmitt, al contrario, pone polemicamente l’eccezione contro l’universale. Kierkegaard stesso, in proposito, non aveva affatto rinunciato a pensare ciò che è normale e universale: voleva solo non pensarli «superficialmente», ma con «energica passione»; per lui l’eccezione trova un diritto solo nel suo rapporto con l’universalità. Il suo «singolo» doveva proprio rendere riconoscibile quel che «ognuno» può essere. Così, per non ingannare se stesso, «egli trasforma il singolo nell’universale». Viene «in aiuto al singolo dandogli il significato dell’universale», perché l’universale è per l’eccezione un duro signore e giudice»29. Kierkegaard non eleva, dunque, l’eccezione e il caso limite semplicemente al di sopra della regola e del caso normale, ma sapeva distinguere tra la pura mediocrità e quel che è la misura dell’essere umano, e per la quale la pretesa del cristianesimo era, per lui, il metro eternamente valido. Ma si tratta di una teologia politica nel problema della decisione, perchè lo stato d’eccezione, sul quale si deve decidere sovranamente, ha «per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia»30. Schmitt vuole mostrare che tutti i concetti giuridici che 28

Cfr. al contrario il nuovo scritto citato sopra [Tre tipi di scienza giuridica, N.d.C.] dove «la realtà concreta deve venir compresa per mezzo di concetti ordinativi naturali, che si orientano sulla situazione normale» (C. Schmitt, I tre tipi di scienza giuridica [1934], cit., pp. 55-56). 29 S. Kierkegaard, Aut-Aut (1843), a cura di R. Cantoni, Mondadori, Milano 2016 [trad. modificata]. 30 C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 61.

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sono espressione d’una decisione sovrana, di autorità e di dominio, sono concetti secolarizzati che, non solo rinviano linguisticamente a idee teologiche, ma che sono nati, anche contenutisticamente, da esse. Solo sotto il predominio della moderna democrazia, del pensiero scientifico-naturalistico e di una economia che pensa secondo concetti scientifico-naturalistici, il pensiero decisionistico, che culmina in una decisione della volontà personale, è stato sostituito dalla fede in leggi anonime scientifico-naturalistiche. Il sistema della democrazia moderna, concepito in termini teologici, costituisce l’espressione politica di una scientificità liberata da miracoli e dogmi e fondata sull’intelletto umano31. Allora «il quadro metafisico che una certa epoca si costruisce del mondo ha la stessa struttura di ciò che si presenta, a prima vista, come la forma della sua organizzazione politica. La sociologia del concetto di sovranità consiste proprio nella determinazione di un’identità del genere. Essa prova che […] la metafisica è l’espressione più intensiva e chiara di un’epoca»32. Tuttavia, in Schmitt non si riesce a trovare questa più chiara espressione perché, stando alla sua stessa costruzione storica della moderna totalità del politico, manca a quest’ultima un fondamento metafisico trasparente, un vero e proprio «tema di lotta» e un ambito specifico determinante. Di conseguenza, anche il suo collegarsi alla decisione indiscutibile della teologia politica dei pensatori politici della controrivoluzione (de Maistre, Bonald, Donoso Cortés) rimane non vincolante. Mentre questi, permanendo nella fede cattolica, si decidono contro le conseguenze politiche della rivoluzione francese, il decisionismo profano di Schmitt diventa necessariamente occasionale perché ad esso mancano, non solo i presupposti teologici e metafisici, ma anche quelli umanitari e morali dei secoli precedenti. La sua decisione, fluttuante perché non sostenuta da altro che da sé stessa, si trova perciò, non occasionalmente, in quel pericolo da lui stesso riconosciuto, di lasciarsi sfuggire, anche nei grandi rivolgimenti politici, la «sostanza durevole», mentre si volge a «puntualizzare l’istante»33. Ma quella decisione, fin dal principio, è sempre, inevitabilmente soggetta a questo pericolo, poiché le è connaturato l’occasionalismo, anche se in forma decisionistica e non romantica. Schmitt sostiene una politica della decisione sovrana; ma il contenuto o il fine per il quale 31

Ivi, p. 69. Ibid. 33 Cfr. la Premessa alla seconda edizione di C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 30. 32

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essa si decide realmente proviene solo dalla casuale occasio delle situazioni politiche che volta per volta si presentano. Tale decisione non risulta affatto dalla «forza di un integro sapere» circa le origini della giustizia e del diritto, come nel concetto platonico dell’essenza della politica, da cui sorge un ordine delle cose umane34. Schmitt ritorna tanto poco alla «intatta, incorrotta natura», che, piuttosto, egli lascia le cose umane nella loro condizione di corruzione e ne decide solo dal loro interno, in un modo o nell’altro, purché si «decida». Ciò si mostrerà ancora più chiaramente nell’esposizione della problematica di quella che per Schmitt è la distinzione fondamentale e determinante: quella amico-nemico. L’esposizione della filosofia dello Stato della controrivoluzione di Schmitt comincia a sua volta con una contrapposizione tra romantici e decisionisti: i primi costituiscono il classico esempio dell’indecisione liberale della borghesia persa in discussioni e trattative35. L’affermazione di De Maistre: «Tout gouvernement est bon lorsqu’il est établi» viene interpretata nel modo seguente: «già nella semplice esistenza di una autorità superiore vi è una decisione e, a sua volta, la decisione ha valore per se stessa, perché, proprio nelle cose più importanti, è più importante che si decida, piuttosto che il come si decide»36. La cosa essenziale è che «nessuna istanza superiore controlli la decisione». 34

C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 181. «I romantici tedeschi hanno una caratteristica peculiare: il dialogo eterno, Novalis e Adam Müller vi si muovono come nella realizzazione più vera del loro spirito. I filosofi dello Stato cattolici, che in Germania vengono chiamati romantici poiché erano conservatori o reazionari e idealizzavano le condizioni del Medioevo, De Maistre, Bonald e Donoso Cortés, avrebbero certamente considerato il dialogo eterno come un prodotto fantastico di orribile comicità. Infatti ciò che caratterizzava la loro filosofia controrivoluzionaria dello Stato è la consapevolezza che il tempo richiede una decisione e, con un’energia che raggiunge il suo apice fra le due rivoluzioni del 1789 e del 1848, il concetto di decisione viene ad occupare il punto centrale del loro pensiero. Dovunque la filosofia cattolica del XIX secolo si manifestò con vivida attualità, essa espresse, in una forma o nell’altra, l’idea che s’imponesse ormai una grande alternativa che non consentiva mediazioni. […]. Tutti formulano un’alternativa radicale, la cui rigorosità tende più verso la dittatura che non verso un dialogo eterno» (C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 75). 36 In contrasto con questa decisione della volontà, sembra a Schmitt che «il destino della democrazia sia quello di negarsi nel problema della formazione della volontà». Ma, contemporaneamente, egli sottolinea anche la possibile conformità di democrazia e dittatura nel bolscevismo e nel fascismo in funzione della comune distinzione dal liberalismo borghese e dallo Stato parlamentare. C. Schmitt, La situazione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., pp. 38-44. 35

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E, «come il radicalismo rivoluzionario è infinitamente più profondo e conseguente nella rivoluzione proletaria del 1848 che nella rivoluzione del terzo stato del 1789, così anche nel pensiero politico della controrivoluzione cresce l’intensività della decisione. Solo in questa chiave si può comprendere lo sviluppo da De Maistre a Donoso Cortés: dalla legittimità alla dittatura»37. La decisione dittatoriale è l’estrema contrapposizione al colloquio romantico e alla discussione parlamentare38. Ma, se Schmitt, nell’Avvertenza al suo scritto sul parlamentarismo, profetizza la fine dell’epoca della discussione e, d’altra parte, con riferimento alla sua stessa trattazione, ha il «pessimistico presentimento» e «teme» che «una discussione obiettiva di concetti politici» troverebbe ormai solo poco interesse e poca comprensione, allora gli si deve domandare se egli stesso, con il suo scritto, non abbia contribuito in misura eminente a che, oggi, «una discussione rigorosamente scientifica, che si sottragga ad ogni strumentalizzazione della politica di partito e non faccia opera di propaganda per alcuno», sia di fatto un «anacronismo». Schmitt non vede che ci può essere, e c’è stato, anche un modo diverso, rispetto alla cosiddetta discussione, dell’argomentare e contro-argomentare politici: ossia quello della comunità pubblica della polis greca e del dialogo platonico. E trascura ciò perché la sua posizione radicalmente polemica si commisura alla moderna politica dello Stato liberale fondato sui partiti, mentre egli, in contrapposizione esplicita ad essa, «riconosce il politico come totalità». Ciò che lo impressiona in particolare di Donoso Cortés è la «consapevole grandezza di un successore spirituale dei grandi inquisitori». Tuttavia nella esposizione di Schmitt non viene in alcun modo preso in considerazione il fatto che Donoso Cortés, in quanto devoto cattolico, sottoponeva alla fine sempre le proprie decisioni al verbo pontificio e che, solo sulla base del suo credo ortodosso, egli era anche il deciso statista che poteva decidere giustamente39. Schmitt individua il significato storico di Donoso Cortés soprattutto nel fatto che questo statista, sapendo che il tempo dei re sovrani volgeva al termine, aveva spinto il suo decisionismo sino alla conseguenza radicale di una «dittatura politica». Il suo avversario più serio non era ormai più la «clasa discutidora», la borghesia, ma il socialismo 37

C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 77. Id., La situazione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., pp. 15 e 73 sgg. 39 Cfr. ivi, p. 75, con riferimento all’estrema evidenza della fede socialistica di Marx. 38

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anarchico, rappresentato per lui da Proudhon e, più tardi, dall’ancor più radicale Bakunin. Ma, se Schmitt, in questo contesto, dice che l’essenza dello Stato si riduce necessariamente ad una decisione assoluta, «creata dal nulla», e non giustificabile, con ciò, egli identifica la propria personale posizione, ma non quella di Donoso Cortés, il quale, in quanto cristiano, credeva che solo Dio e non l’uomo possa creare qualcosa dal nulla. Questo attivo nichilismo è invece caratteristico di Schmitt stesso e di quei tedeschi del XX secolo che gli sono spiritualmente affini40. Donoso Cortés avrebbe visto in una decisione 40

Rispetto a questo moderno nichilismo il «pessimismo» realistico di Hobbes, cui Schmitt ritiene di essere vicino – cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 149 – è ancora una specie di fede nel progresso verso una possibile limitazione dello stato di natura. Stato di natura che, tuttavia, Schmitt approva proprio in quanto «status belli». Il moderno nichilismo è stato penetrato filosoficamente soltanto da Nietzsche che, per primo, ha riconosciuto che l’uomo moderno che non crede più a nulla e non sa più «perché» in generale esiste, «preferisce volere il nulla al non volere». «La volontà stessa» viene «salvata» da questo nichilismo della forza. Questo nichilismo divenuto attivo trova l’espressione più ricca di suggestione negli scritti di Ernst Jünger, ai quali, a sua volta, rinvia anche Schmitt. Nel diario giovanile di Jünger, Il cuore avventuroso (1929), si trovano le seguenti affermazioni: «Forse non sapremo mai perché siamo qui; tutti i cosiddetti fini possono essere soltanto pretesti del destino, ma ciò che conta è […] che si è qui». «Ecco perché questa epoca richiede soprattutto una virtù: quella della decisione (Entschiedenheit). È necessario volere e riuscire a credere prescindendo completamente dai contenuti che questo volere e questa fede si danno. Così oggi le comunità si ritrovano; oggi gli estremi si toccano più violentemente che mai». «Ma, oggi, qualsiasi battaglia per bandiere e simboli, per leggi e dogmi, per ordini e sistemi, fa solo accademia. Già il tuo orrore per queste contese […] rivela che tu non hai bisogno di risposte, ma di più profondi interrogativi, non di bandiere, ma di combattenti, non di ordinamenti, ma di insurrezioni, non di sistemi, ma di uomini». «Noi abbiamo lavorato per alcuni anni, in rigido nichilismo, con la dinamite e, rinunciando anche alla minima foglia di fico di un’autentica problematica, abbiamo raso al suolo il XIX secolo e noi stessi; solo alla fine si profilano uomini e mezzi del XX secolo. Noi, da buoni europei, riuniti, in accordo con gli altri, intorno ad una roulette che aveva un solo colore, quello dello zero che in ogni caso fa vincere il banco, abbiamo dichiarato guerra all’Europa. Noi tedeschi non abbiamo dato all’Europa alcuna chance di perdere. Ma togliendo ogni possibilità di perdita non le abbiamo dato neppure nulla da guadagnare: noi giocavamo contro il banco col suo proprio capitale». «Questa è una posizione nella quale si lavora bene. Questo prender la norma dal misterioso primo metro della civilizzazione conservato a Parigi – significa per noi perdere fino in fondo la nostra guerra già perduta, significa la logica esecuzione di un atto nichilistico fino al suo punto necessario. Noi da tempo marciamo verso un magico punto zero che riuscirà a superare solo chi disporrà di altre invisibili fonti di energia. La nostra speranza è legata a ciò che resta, perché non può essere misurata con il metro europeo, ma è misurata a se stessa». Jünger sa che questo consapevole nichilismo fa tutt’uno con l’anarchismo risoluto che agisce solitario e chiuso in sé. «Questa attività interseca quello che io chiamo magico punto zero, un punto che noi passeremo e nel quale si trovano contemporaneamente il nulla e il tutto». Tutto ciò corrisponde perfettamente anche all’intimo atteggiamento fondamentale

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creata dal nulla qualcosa di non meno «grottesco» dell’eterno dialogo del romanticismo. Questo fondamento nichilistico di una decisione sciolta da ogni vincolo acquista piena chiarezza nel concetto del politico41. Se, come vuole Schmitt, per determinare il politico attraverso il concetto di una decisione sovrana si fa astrazione da ogni ambito centrale della realtà, ne consegue che l’unico fine della decisione resta la guerra, che trascende e rende problematici tutti i settori della realtà: ossia la disponibilità al nulla, cioè alla morte intesa come sacrificio della vita ad uno Stato, il cui proprio «presupposto» è già la realtà decisiva del politico. La decisione di Schmitt per il politico non è, come quella religiosa, metafisica, morale, e spirituale in generale, una decisione per un determinato e determinante ambito oggettivo della realtà; non è altro che una decisione per la risolutezza – quale ne sia il fine – poiché essa costituisce già l’essenza specifica del politico. Questa decisione formale nega proprio quanto rende libera e concreta una decisione, perché per questo è necessario che ci si decida per qualche cosa di determinato e che si rimanga per sempre legati a ciò che si è deciso una volta. Nel concetto dell’essenza della politica di Schmitt, per il quale il caso normale della convivenza in una comunità pubblica non costitudella ontologia esistenziale di Heidegger e della politica esistenziale di Schmitt. Bäumler ha volgarizzato questo atteggiamento in una edizione popolare, interessante soprattutto per il suo adattamento di Nietzsche: la volontà in generale non vuole, non è nemmeno potenza, ma è una volontà «come potenza». Agire per lui non significa decidersi per qualcosa, ma soltanto «imboccare una direzione», «in forza di un compito fatidico e di un personale diritto». È invece «secondaria» la decisione per qualcosa che io abbia riconosciuta come giusta perché so ciò che voglio. Cfr. anche A. Bäumler, Männerbund und Wissenschaft, Junker und Dünnhaupt, Berlin 1934, p. 108 e, per la critica, H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato (1934), in Id., Cultura e società (1965), a cura di F. Cerutti, Einaudi, Torino 1969. 41 Schmitt usa il termine “politico” al genere neutro [in tedesco il sostantivo utilizzato da Schmitt das Politische è di genere neutro. N.d.C.]. Questa scelta desta l’impressione che, come il kierkegaardiano parlare dell’estetico, dell’etico e del religioso, il politico sia un vero e proprio settore della realtà, sebbene, per Schmitt, non dovrebbe essere così. Ma la ragione profonda di questa indeterminatezza della formulazione potrebbe essere quella che egli, di fatto, non può dire dove il “politico” sia di casa e dove si debba trovare, se non in una totalità che ponga sotto di sé ogni aspetto determinato della realtà e che neutralizzi tutto senza distinzione alcuna, ma in direzione opposta a quella della spoliticizzazione. Il senso positivo dello Stato totale sarebbe, allora, dato soltanto dalla negazione polemica dello Stato neutrale o liberale. Questo Stato, quindi, non abbraccia, come lo Stato universale di Hegel, i momenti concreti della società civile, ma, muovendo dalla situazione politica di emergenza, totalizza sia lo Stato che la società. Cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit. p. 112.

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isce un carattere specifico del fenomeno politico, l’«istanza suprema» diventa solo la disponibilità ad essere uccisi e ad uccidere42, e non un qualsiasi ordinamento della vita comune, come si presuppone nel senso originario della polis. Schmitt afferma, a mo’ d’introduzione: In base al suo significato etimologico e alla sua vicenda storica, lo Stato è una situazione, definita in modo particolare, di un popolo, è anzi la situazione che fa da criterio nel caso decisivo, e costituisce perciò lo status esclusivo, di fronte ai molti possibili status individuali e collettivi. A questo punto non è possibile dire di più. Tutti i caratteri di questa definizione – status e popolo – acquistano il loro significato solo grazie all’ulteriore carattere del politico e divengono incomprensibili se viene fraintesa l’essenza di quest’ultimo. Per il momento non si può dire altro. Tutte le caratteristiche di questa idea – status e popolo – traggono il loro significato dall’ulteriore carattere del politico e diventano incomprensibili, se viene fraintesa l’essenza di quest’ultimo43.

Il caso decisivo, nel quale lo status politico del popolo acquista valore determinante per ogni membro del popolo, è il caso di estrema emergenza oppure, come Schmitt per lo più dice, il caso di emergenza politico della guerra, che richiede dagli uomini il sacrificio della vita. Attraverso questa suprema e insormontabile istanza, che riguarda l’esserci (Dasein) in quanto tale, cioè il dato di fatto che semplicemente «si è qui», ovvero la «fatticità», l’analisi schmittiana del politico, come l’analitica dell’esserci di Heidegger44, si ritiene incontrovertibilmente garantita di fronte ad un qualsiasi contenuto («che cosa») della concreta esistenza (Dasein) politica. Il puro dato di fatto, che in guerra la cosa fondamentale è l’essere pronti alla morte e ad uccidere, 42

C. Schmitt, Il concetto di “politico”, pp. 34 e sgg. Ivi, p. 101. 44 In Essere e tempo di Heidegger, la suprema istanza per la comprensione dell’essere, che sono io stesso, non è certo il sacrificio dela vita per la totalità di uno status politico, ma la libertà di fronte alla morte attraverso la quale il singolo ed isolato esserci può essere come un tutto (ganz-sein können). Tuttavia un discorso tenuto da Heidegger come rettore, in occasione della festa commemorativa di Schlagater, mostra che il passaggio dalla libertà di fronte alla morte al sacrificio della vita è possibile in ogni momento. Infatti, ciò che in ogni singolo orizzonte dell’esserci esistente appare come libertà di fronte alla morte, può apparire come sacrificio della vita nell’orizzonte politico di una totalità in lotta, perché, in ambedue i casi, il principio è la morte. Con riferimento all’atteggiamento dei tedeschi di fronte alla morte, cfr. J. Clemenceau, J. Martet, Der Tiger, weitere Unterhaltungen Clemenceaus mit seinem Sekretär Jean Martet, Rowohlt, Berlin 1930, pp. 64 sgg. 43

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conferisce una sovranità su tutto «ciò che è», analoga alla «superiorità» che ha il politico romantico con il suo principio dell’occasio45 e il borghese liberale con la relatività dei suoi molteplici legami, nessuno dei quali è assolutamente vincolante46. Questa «libertà di fronte alla morte» interpretata politicamente presuppone che vi siano diversi Stati che si contrappongono come nemici. Secondo la teoria schmittiana della decisione, quindi, la distinzione fondamentale alla quale si possono ricondurre tutte le azioni e i motivi politici, è la distinzione-amico-nemico, infatti l’amico politico non contesta il nostro proprio essere, non pone una distinzione tra essere proprio ed essere estraneo, laddove l’estraneo è la totale negazione del proprio essere. Ma che significa qui far riferimento ad un «modo di essere» proprio o altrui e, in generale, ad una «conformità all’essere», quando l’esistenza politica come tale e nella totalità non rinvia affatto ad un modo di essere particolare tra gli altri, ma alla conservazione dell’essere proprio e alla negazione di quello estraneo? Qui, per la possibilità della guerra, è decisiva una differenza data per natura tra l’esser proprio e l’essere estraneo oppure, al contrario, la distinzione di essere proprio ed essere estraneo è, anzitutto e solamente, il risultato del fatto di una reale decisione bellica? In altre parole: il caso politico di emergenza della guerra si verifica perché vi sono popoli e Stati, cioè forme di esistenza della politica, che sono essenzialmente diversi nel modo di essere, oppure quei legami e quelle separazioni estremamente carichi di tensione e puramente esistenziali, che secondo Schmitt, costituiscono lo specifico carattere esistenziale del politico, si definiscono soltanto in occasione di una guerra, quindi casualmente e in modo occasionale? Questo secondo caso troverebbe corrispondenza nel dato di fatto – che però, in quanto tale, è del tutto indipendente da un giusto o da un errato concetto dell’esistenza del politico – che, per esempio nell’ultima guerra i Turchi erano «amici» della Germania, mentre gli uguali di stirpe (artgleich) Inglesi erano i suoi nemici; il che, però, in un’altra guerra può andare in modo del tutto diverso. Infatti, questi «raggruppamenti» fattuali – un concetto del tutto sociologico-liberale – sono, e proprio nella situazione di emergenza, stabiliti in misura determinante dall’occasionale sistema 45 46

C. Schmitt, Romanticismo politico, cit., p. 22. C. Schmitt, Principi politici del nazionalsocialismo (1934), cit. pp. 68-69.

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di alleanze, così come esso risulta dalla situazione storica e dalla congiuntura politica al momento dello scoppio della guerra, e non da uno stabile «modo di essere». Le formulazioni di Schmitt lasciano significativamente aperte entrambe le possibilità d’interpretazione. In molti passi sembra che il nemico sia «proprio» semplicemente un «estraneo» e «un altro», «uno che ha una natura diversa»47, cosicché, nella situazione di emergenza, con lui è possibile un conflitto per la vita e per la morte, che deve essere deciso solo dagli interessati stessi; infatti, l’avversario politico non è né un «antagonista», né un semplice «concorrente» o «oppositore di una discussione»48. Ancora più esplicitamente, si dice della guerra che essa non è una lotta spirituale o un combattere simbolico, ma una lotta che riguarda l’«originarietà esistenziale», che sgorga dai differenti modi dell’ «esser proprio» e di quello «estraneo». Essa deriva dall’ostilità, è solo l’estrema «realizzazione» e «conseguenza» delle esistenti differenze esistenziali49. D’altra parte, però, il reale reciproco essere ostili non viene presentato come una realtà data per natura, ma come una possibilità che riguarda la natura dell’esistenza politica, come un poter-essere e non come un fatto determinato dalla natura, che è come è e non può essere diversamente. Si nega anche esplicitamente che la distinzione amico-nemico debba significare, per esempio, che un «determinato popolo debba essere in eterno l’amico o il nemico di un altro determinato popolo», o che una neutralità non possa avere senso politico e che l’evitare la guerra non possa essere politicamente giusto50. Di più, proprio la guerra sembra non avere senso, se si commisura il suo senso ai fini concreti e ai beni della vita, invece che al loro nudo presupposto: l’affermazione ed il mantenimento dell’esistenza politica. L’idea di una guerra giusta viene derubricata velocemente da Schmitt con un rinvio a Grozio, così pure ogni giustificazione morale. Il fatto che, conseguentemente, come possibile fondamento giuridico della guerra resti soltanto la lotta contro un nemico «reale», l’«affermazione conforme all’essere» della propria esistenza che non ha bisogno di nessuna giustificazione, non significa che il concetto del politico in Schmitt non abbia proprio nessun presupposto morale e metafisico, siano 47

C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 109-110. Ivi, p. 109. 49 Ivi, pp. 20 e 23. 50 Ivi, p. 118. 48

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essi anche di tipo immoralistico e nichilistico. Questi presupposti restano, tuttavia, nascosti a lui stesso dal legame polemico alla morale umanitaria e alla positività liberale51. Schmitt afferma, certo, che la sua definizione del politico non è «né bellicistica o militaristica, né imperialistica, né pacifista»; tuttavia, essa non è nemmeno neutrale, anzi è anti-pacifista e, proprio a causa di questa negazione polemica, indubbiamente bellicista in sé52. Non ci si deve lasciar fuorviare dall’insidioso “né-né” di Schmitt, dal momento che il nerbo di tutte le sue trattazioni, fin dalla dedica, è una manifesta simpatia per i «momenti culminanti della grande politica», cioè per la guerra in quanto è pericolosa e rischiosa53. Ma, dal dato di fatto inoppugnabile e che nessun pacifista discute, che la lotta per la vita e per la morte, nella quale tutte le contrapposizioni concrete perdono la loro importanza determinante, è una possibilità reale, deriva forse un qualsiasi concetto del “politico”? Per tacere poi della possibilità di comprendere quel che costituisce l’essenza dell’essere-nella-polis, e non soltanto il riconoscimento di questo semplice dato di fatto della guerra che «in dati 51

Cfr., in proposito, la recensione critica de Il concetto di “politico” di Leo Strauss (1932), cfr. supra, pp. 125-145. 52 Cfr., in proposito, il recente scritto di Schmitt: Compagine statale e crollo del secondo impero tedesco (1934), in: C. Schmitt, Principi politici del nazionalsocialismo, cit., pp. 111-171, dove questo bellicismo formale riceve tardivamente un contenuto storico con la tesi che solo lo Stato militare prussiano sia la vera sostanza del Reich tedesco. 53 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 143. Cfr. invece la precedente caratterizzazione della guerra che Schmitt ha fatto nello scritto su Däubler, Aurora boreale, cit., p. 43. «Il fenomeno del politico si può comprendere solo riferendosi alla reale possibilità del raggruppamento amico-nemico, prescindendo dalle conseguenze che ne derivano quanto alla valutazione religiosa, morale, estetica, economica del “politico” stesso. […]. La guerra non ha bisogno di essere né religiosa, né moralmente buona, né redditizia: oggi probabilmente non è nulla di tutto ciò. Questa semplice considerazione è complicata dal fatto che contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico. Il problema continua dunque ad essere sempre lo stesso: se cioè un raggruppamento amico-nemico di tal genere esista oppure no come possibilità reale o come realtà, senza che importi quali motivi umani sono forti abbastanza da provocarlo» (C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 119). Nella terza edizione si continua così: «In un’epoca che vela moralisticamente od economicisticamente i propri contrasti metafisici, la guerra non è verosimilmente nulla di tutto questo». Il possibile senso della guerra, quindi, viene ricondotto, anche con riferimento alla nostra epoca, a contrapposizioni metafisiche, sebbene tutte le trattazioni di Schmitt trovino la loro specifica nota polemica proprio nel negare il teologico, il morale, il metafisico o l’economico come determinanti per il politico vero e proprio.

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casi» è l’«ultima ratio» ingiustificabile razionalmente. Non dovrebbe allora Schmitt, per essere conseguente, rinunciare a parlare, anche in generale, di un possibile “senso” della guerra e di una conoscenza del “politico”? Infatti come dovrebbe essere possibile riconoscere “giustamente” la situazione politica e distinguere “giustamente” tra nemico e amico54, se questo riconoscimento si limita de facto allo stabilire che, in caso di emergenza, ciascuno degli interessati deve decidere con piena sovranità se questo caso di emergenza è in generale dato o no, e chi, «nel caso determinato», nega il proprio modo di esistenza politica?55 Ma, se solo ed unicamente nel caso di conflitto si può decidere se è necessaria l’estrema conseguenza dell’uccidere e del sacrificarsi fisicamente, allora il nemico non è determinato «in modo conforme all’essere» (seinsmässig) – dato che ciò deve pure significare qualcosa di più rispetto al fatto che qualcuno «è», casualmente, proprio il mio nemico – ma solo «occasionalmente», cioè dal fatto che egli mette in questione e nega la singola esistenza politica, del tutto indipendentemente dal particolare modo di essere? Allora il nemico non nega affatto la particolare «forma di esistenza» o il particolare «modo» di essere, ma né più e né meno della nuda esistenza, il factum brutum della concreta esistenza pubblico-politica, al di là di tutte le più particolari determinazioni dei diversi modi, reciprocamente ostili od anche amichevoli: l’essere etnico e razziale, religioso e morale, civilizzatorio ed economico. Allora la distinzione fondamentale di amico e nemico non ha nulla di specifico in sé, ma trapassa e va oltre tutte le distinzioni e le comunanze tra gli esseri umani: essa è intesa in modo «puramente» esistenziale perché è «solamente» il massimo «grado d’intensità» di un possibile legame o di una possibile separazione, senza che sia possibile determinare di che cosa essa sia intensità56. Anzi, si può dire che la tensione politica è tanto più intensivamente «politica», nel senso di Schmitt, quanto più impersonale e indifferente è il contenuto oggettivo dell’inimicizia: infatti questa intensità non riguarda, in generale, niente 54

C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 109 e 120. Ivi, p. 109, p. 129, pp. 131-132, p. 133. 56 «Il politico può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo: esso infatti non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini, i motivi della quale possono essere di natura religiosa, nazionale (in senso etnico o culturale), economica o di altro tipo e possono causare, in tempi diversi, differenti unioni e separazioni» (C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 121-122). 55

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di determinato o di individuato nell’esistenza politica degli uomini, ma solo il puro essere o non essere. L’estremo acuirsi della situazione politica, quale si ha nella situazione di emergenza della guerra, diventa per Schmitt la base del suo concetto dell’esistenza politica, in un modo consonante con l’ontologia esistenziale di Heidegger, secondo la quale «la situazione emotiva fondamentale» (Grundbefindlichkeit) dell’esserci risiede nel fatto «che esso è» e – non si sa perché – «ha da essere»57. Questo «fatto che» io, in generale, sono e non non-sono o che, in generale, vi è un’unità politica, conta qui come la cosa che, in quanto totale e radicale, è fondamentale, in rapporto alla quale qualsiasi «esserqualcosa» (Was-Sein) è indifferente. Se fin da principio è certo che «sempre e soltanto» questo è il caso esistenziale di conflitto, «ciò che conta» non è se un uomo od uno Stato ha questa o quella organizzazione o costituzione, se, per esempio, sia uno Stato nazionale imperialistico o capitalistico, oppure uno Stato comunistico di proletari o uno Stato di sacerdoti, di commercianti o di soldati, uno Stato di funzionari o un qualsiasi altro tipo di unità politica58. Ciò che conta è sempre e soltanto il fatto che esso, in generale, è un’unità cui si deve far riferimento che, nella situazione di emergenza, provoca un raggruppamento secondo amici e nemici e decide sovranamente sulla vita degli uomini. Questa radicale indifferenza della decisione puramente formale nei confronti di ogni contenuto politico, da cui consegue che gli stessi contenuti sono indifferenti l’uno rispetto all’altro, ossia equivalenti59, caratterizza il fondamentale concetto esistenzial-politico della guerra di Schmitt, come momento culminante della grande politica. L’esempio più imponente di questa grande politica è per Schmitt, ancor più dell’odio antifrancese del barone von Stein e del disprezzo di Lenin contro il «bourgeois», l’implacabile avversione del protesante inglese Cromwell60 contro la Spagna papista. Ma proprio in questo suo riferimento a Cromwell si vede ancora una volta il nulla di contenuti portanti, il fondamento nichilistico del concetto schmit57

M. Heidegger, Essere e tempo (1927), Longanesi, Milano 2005, §§ 9 e 29. C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 121. 59 Cfr. in proposito L. Strauss, Note su Carl Schmitt, «Il concetto di “politico”», supra, pp. 125-145, cfr. in particolare l’ottimo riassunto supra, pp. 143-144. 60 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 154. 58

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tiano della politica. Per Cromwell la Spagna era il nemico non perché essa, in una situazione determinata, mettesse in pericolo l’esistenza della nazione inglese, ma perché era un nemico naturale, eterno, predestinato, e voluto da Dio, un nemico con cui non si sarebbe mai potuto giungere ad un «raggruppamento» diverso: era un «providential» e «natural enemy put into him by God». Chi pensava ch’essa fosse soltanto un «accidental enemy», questi, per Cromwell, non conosceva la Sacra Scrittura e le cose divine; cose di cui Schmitt non fa menzione. Allo stesso modo, secondo l’osservazione dello stesso Schmitt, per i greci i «barbari» non erano semplicemente altri ed estranei, il cui esser-estraneo doveva essere prima «stabilito», ma nemici dati per natura, con i quali il conflitto non poteva che essere guerra (pólemos), e non stasis, come con gli altri Elleni61. Di fronte a ciò Schmitt si trova in una posizione ambigua. Per poter dimostrare che il suo concetto di “politico”, orientato sulla guerra, è qualcosa di specifico e autonomo62, egli deve, da una parte, attenersi ad una sostanzialità – non più corrispondente alla sua situazione storica – con la quale riempire l’ostilità di un contenuto oggettivo; da un’altra parte, in quanto uomo moderno, post-romantico, che pensa troppo occasionalisticamente per poter ancora credere a differenze date da Dio e dalla natura, deve nuovamente relativizzare questi presupposti sostanziali, e relegare tutta la sua distinzione fondamentale in una esistenzialità formale. Di conseguenza, le sue formulazioni determinanti della distinzione amico-nemico ondeggiano indecise tra una inimicizia o amicizia concepite rispettivamente come sostanziali o come occasionali, cosicché non si sa se si tratta di uomini della stessa o di diversa natura (glech- und andergeartete) o soltanto di uomini che sono occasionalmente legati con o contro qualcuno63. Sul fondamento ondeggiante di questa ambiguità, Schmitt costituisce il proprio concetto del “politico”, il cui carattere essenziale non è più la vita nella polis, ma ormai solo lo ius belli. Insieme con il problema dell’ordinamento della vita pubblica cade necessariamente anche quello, intimamente connessovi, del rapporto 61

Ivi, p. 111. Ivi, p. 112. 63 Questa equivocità emerge direttamente una volta nella designazione degli amici come «uomini aventi la stessa natura e alleati» (C. Schmitt, Principi del nazionalsocialismo, cit., p. 8). 62

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della polis con il singolo. Schmitt affronta il problema della totalità dell’individuo nel quadro di una sua privatizzazione polemica e, in questo modo, la sua pretesa di raggiungere una reale totalità si nega da sé. Il suo concetto totale dell’essere politico, paradossalmente, non comprende né l’ordinamento delle cose umane in una polis, né la costituzione dell’individuo in sé stesso64; ma totalizza tutto ciò che è con riferimento alla situazione di emergenza, che è poi la possibilità dell’annientamento o dell’affermazione della nuda esistenza di Stato e di individuo. In verità, Schmitt accenna una volta al dato di fatto che l’uomo vive allo stesso tempo in legami e vincoli molteplici e diversi: in quanto appartenente alla propria famiglia e alla propria categoria professionale, in quanto membro della propria comunità religiosa e della propria nazione e, non ultimo, con sé stesso, in quanto uomo singolo o individuo65. Ma la problematicità racchiusa in questi diversi «in quanto» dell’esser uomo non viene presa in considerazione da Schmitt: egli la elimina semplicemente a partire dallo Stato. Questo «pluralismo»66 ha per lui il significato negativo di negare l’unità sovrana dello Stato e ciò che riguarda il proprio esser-sé (Selbstsein) e la ogni volta propria decisione di essere o non essere non è che una «questione privata», la cui privatezza dimostra 64 Nello scritto Il valore dello Stato e il significato dell’individuo (1914), a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2013, in cui Schmitt sostiene ancora una concezione estremamente giuridico-normativa dell’onnipotenza dello Stato, egli afferma che lo Stato non è una costruzione dell’uomo, ma che viceversa lo Stato fa una costruzione di ogni uomo. «Con il riconoscimento della dignità sovrapersonale dello Stato […] il singolo individuo concreto scompare. Infatti lo Stato è un servitore dell’individuo o un servitore del diritto. Poiché solo quest’ultima possibilità corrisponde al vero, lo Stato precede l’individuo come il diritto è anteriore allo Stato e, come la continuità dello Stato risulta solo dal diritto, così la continuità dell’individuo che vive nello Stato deriva soltanto dallo Stato. Lo Stato è […] l’unico soggetto dell’ethos giuridico, l’unico che abbia un dovere in senso eminente verso il diritto; l’individuo concreto, invece, viene costretto dallo Stato e il suo dovere, come la sua giustificazione, sono solo il riflesso di una coercizione […]. Per lo Stato l’individuo in quanto tale è il semplice incaricato di un compito che, poi, è la sola cosa importante, è l’incaricato di una funzione determinata che deve svolgere. In via di principio, quindi, lo Stato non può ritenere nessuno insostituibile o non rappresentabile; da questo fenomeno generale del funzionario, […] del pubblico ufficiale, il senso dello Stato si potrebbe chiarire assai più profondamente che attraverso il suo avvilimento a negotiorum gestor della personalità, intesa come la sola cosa importante» (C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, cit., trad. modificata). 65 Cfr. in proposito K. Löwith, L’individuo nel ruolo del co-uomo (1928), a cura di A. Cera, Guida, Napoli 2007, pp. 121 sgg. 66 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 127-128.

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politicamente soltanto il carattere liberal-individualisico della società borghese. «L’uomo singolo può morire liberamente per ciò che vuole, il che, come tutto ciò che di essenziale vi è in una società individualistico-liberale, costituisce solo una “questione privata”, cioè riguarda una risoluzione individuale, libera, incontrollata e che non interessa nessun altro all’infuori di chi la prende»67. Però neppure Schmitt può sottrarsi alla distinzione di pubblico e privato, e di conseguenza neanche alla loro connessione68. Infatti il nemico, inteso politicamente, non è «l’avversario privato», ma solo «il nemico pubblico», ed esso è una collettività che combatte. Il nemico è hostis, ma non inimicus. Come privato l’uomo non ha nemici politici69, perché per il «singolo in quanto tale» non vi è nessun nemico «col quale si debba combattere per la vita o per la morte, se egli personalmente non lo vuole: costringerlo alla lotta contro il suo volere è in ogni caso, dal punto di vista dell’individuo privato, mancanza di libertà e violenza»70. Quindi, la richiesta dello Stato del sacrificio della vita, «per l’individualismo del pensiero liberale», non è il alcun modo «soddisfacibile e motivabile»71. Ma con questa caratterizzazione antiliberale e puramente polemica della decisione personale, viene in qualche modo, non dico risolto, ma anche soltanto chiarito il problema del fatto che è pur sempre uno stesso uomo indivisibile che partecipa ed è interessato tanto allo status politico del suo popolo quanto alla vita dei suoi parenti più prossimi e, non ultimo, alla sua stessa vita? Che nella guerra lo status politico divenga, de facto, «determinante» nei confronti di tutte le altre obbligazioni che gli sono subordinate, non contraddice, ma anzi prova la loro insopprimibile esistenza. Proprio la guerra mostra che l’uomo, anche nella situazione di emergenza, non diventa senz’altro e semplicemente nemico del nemico, ma conserva tanto dall’una che dall’altra parte le sue qualità «private», apolitiche. Proprio la guerra mostra che gli stessi uomini che erano pronti ad uccidersi l’un l’altro potevano diventare pacifici 67

Ivi, p. 132. La forma politica di questa distinzione nell’esistenza umana è, da Rousseau in poi, quella di citoyen e bourgeois. Ad essa si riferisce anche Marx, nella sua Critica della filosofia hegeliana dello Stato, per mostrare che lo «Stato meramente politico» è la forma pubblica del carattere privato della vita borghese! 69 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 136. 70 Ivi, 157. 71 Cfr. invece W. von Humboldt, Gesammelte Werke, 7 voll., Berlin 1841-52, vol. I, cap. 5. 68

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compagni che trattavano gli uni con gli altri e conversavano insieme e, tuttavia, restavano nemici politici72. E lo status della prigionia di guerra è solo un caso estremo di questa pacifica ostilità. Il fatto che, in linea generale, le qualità private e pubbliche dell’uomo non si separino, ma si colleghino le une con le altre, in modo compromissorio, senza che da ciò sorga alcun serio caso di collisione, non significa che, anche qui, non sia possibile una situazione di emergenza, che, poi, in quanto eccezione, può essere particolarmente illuminante per la comprensione della regola. Questa possibile situazione di emergenza è discussa anche da Schmitt. Ma è solo una conseguenza della sua privatizzazione della totalità individuale il fatto che egli, nella situazione di emergenza dello Stato, debba pretendere la sospensione della decisione personale sull’essere e il non essere di altri o anche di sé stessi. Come a nessuna istituzione che non sia sovrana come lo Stato spetta uno ius belli, o anche soltanto una dichiarazione di ostilità nazionale, ma tutt’al più uno ius vitae ac necis, così in guerra non può più esserci un diritto alla vendetta del sangue73. 72

Una situazione analoga si presenta oggi nella questione ebraica, che è diventata un problema politico; in particolare nel caso caratteristico in cui ci siano «antisemiti» amici degli ebrei che, pubblicamente, sono nemici dell’ebraismo e, contemporaneamente, in privato, sono amici degli ebrei (cfr. in proposito la dedica di Schmitt nella Dottrina della costituzione e lo studio Aurora boreale su Theodor Däubler). La posizione di Schmitt a questo proposito viene chiarita indirettamente dal modo in cui egli adatta a suo uso e consumo il rapporto tra la situazione politica di emergenza e l’imperativo cristiano dell’amore per i nemici. Dalla circostanza che la frase evangelica dice: «Diligite inimicos vestros» egli trae la conseguenza che essa non si riferisce all’hostis ma solo al nemico privato. La richiesta cristiana, quindi, non riguarderebbbe affatto la distinzione politica fondamentale di Schmitt, cioè quella di hostis e amico. Ma ciò significa che egli riduce, secondo il miglior metodo liberale – e in palese contrasto con la sua stessa interpretazione data in Cattolicesimo romano e forma politica (1925) [a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 2010] –, l’esigenza assoluta della religione cristiana ad un affare privato e contingente. Ma in realtà, dal fatto che (nella traduzione latina della Vulgata) l’imperativo cristiano non si riferisce anche espressamente all’hostis, segue tutt’altra cosa: segue che esso, che è per sé stesso una totale determinazione dell’essere umano, deve essere per l’essere umano regola nella totalità del suo rapporto con il mondo. Nel mondo il cristiano non conosce né amici né nemici, siano essi privati o anche pubblici, perché si comporta in ogni caso, con amici e con nemici, in modo del tutto diverso dal pagano precristiano. Chi è in questo mondo come se non fosse di questo mondo, e considera come situazione di emergenza decisiva non la guerra, ma il giudizio universale, può anche, in via di principio, non fare distinzioni tra nemici privati e nemici pubblici. Cfr. in proposito la Dottrina della costituzione di Schmitt e K. Thieme, Religiöse Besinnung, Äbschussheft 1933, pp. 45 sgg. 73 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 131-132: «Un gruppo di uomini che volesse rinunciare a queste conseguenze dell’unità politica, non sarebbe un gruppo poli-

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Lo Stato, se l’unità politica richiede il sacrificio della loro vita, non può certo consentire che i suoi sudditi muoiano o compiano suicidio per la propria personale fede. La stessa possibilità limite di uccidersi o di farsi uccidere in guerra, in modo che la propria volontà di morire desti l’apparenza di un eroico sacrificio per la totalità, illumina nel modo più vivo il caso in cui la «libertà di fronte alla morte» si contrappone al «sacrificio della vita», l’esistenza privata a quella pubblica e la propria unità alla totalità politica74. Ma questo caso problematico può sempre verificarsi, non meno che la aproblematica guerra, perché è essenzialmente impossibile che le due unità (quella privata e quella pubblica) si dissolvano l’una nell’altra. Da questa differenza di due totalità egualmente originarie, nessuna delle quali sussiste senza l’altra, discende, come problema naturale della politica, quello dell’istituzione di un ordinamento comunitario, fondato sul rapporto di unità politica e individualità personale. All’interno di una teoria dello Stato radicalmente decisionistica, per la quale lo Stato sia lo status politico del popolo, questo problema si esprime nella necessità di rispondere alla domanda attorno al tipo di legame che sussiste tra il «capo» (Führer) che decide sovranamente e il suo «seguito» (Gefolgschaft). Anche qui la semplice polemica contro il concetto umanitario di umanità e contro l’«omogeneità»75 democratica non può eliminare il problema dell’eguaglianza umana76. Neppure Schmitt riesce a fare a meno di cercare una qualche uguaglianza che sostenga e garantisca umanamente l’unità politica fra colui che guida e coloro che gli ubbidiscono. Schmitt pretende che tale uguaglianza sia la cosiddetta uguaglianza di stirpe (Arttico, poiché rinuncerebbe alla possibilità di decidere in modo definitivo chi considerare e trattare come nemico». 74 «Non appena scoppia una qualsiasi guerra, insieme ad essa scoppia sempre, anche nei più nobili di un popolo, una voluttà, certo tenuta segreta: essi si gettano affascinati incontro al nuovo pericolo della morte perché, nel sacrificio per la patria, credono di aver finalmente trovato quel permesso cercato da lungo tempo: il permesso di sottrarsi ai propri fini: la guerra è per essi una via indiretta per il suicidio, ma una via indiretta accompagnata da buona coscienza» (F. Nietzsche, La gaia scienza, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1992 [dall’aforisma 338]). 75 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 140; Id., La situazione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., pp. 16 sgg., 20. 76 Cfr. in proposito C. Schmitt, La dottrina della costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, cit., pp. 297 sgg. e al contrario Th. Haecker, Was ist der Mensch?, Leipzig 1933, pp. 21-22 e 71 sgg.

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gleichheit). Questa sostituisce per lui l’uguaglianza davanti a Dio, davanti alla morale e davanti alla legge. In una conferenza sullo spirito del nuovo diritto pubblico, Schmitt sostenne che lo Stato finora aveva trattato in modo uguale cose ineguali. Invece, secondo lui, la nuova legge sui funzionari cercava di raggiungere una sostanziale uguaglianza di stirpe tra popolo tedesco e governo politico: poiché sarebbe impossibile dirigere quelli che sono di una stirpe estranea. Questa uguaglianza di stirpe fornisce per Schmitt anche la risposta alla questione se il nuovo Stato sia uno Stato di diritto. Esso sarebbe uno Stato giusto, perché sarebbe sostenuto dalla fiducia di un popolo di stirpe omogenea. Tuttavia, ne Il concetto di “politico” Schmitt non precisa in nessun luogo in modo più particolareggiato il modo peculiare di questa eguaglianza di stirpe. Solo in un punto diventa indirettamente evidente che egli, come la maggior parte degli altri, intende un’uguaglianza etnica (völkische) nel senso della razza77. Il suo concetto del politico è così non solo antiliberale, ma anche antisemitico: e molto di più di quanto egli voglia ammettere. Infatti Schmitt non è solo tanto anti-liberale da tollerare tutti i raggruppamenti, non importa di che specie, purché siano «seri», ma anche tanto anti-semita, da fare propaganda per le caratteristiche razziali come base dell’esistenza comune. A loro volta queste caratteristiche vengono intese in senso essenzialmente polemico. Schmitt intende riferirsi alla contrapposizione di non-ariani o ebrei e cosiddetti ariani o non-ebrei. E, di fatto, non c’è migliore esempio di concetto puramente polemico: perché si può determinare in generale ciò che è un «ariano» solo attraverso il fatto che egli non è non-ariano. Lo specifico «modo di essere» cui si riferisce la distinzione fondamentale di amico e nemico ha, quindi, in politica interna, come fondamento inespresso, una sostanzialità ariana che gli dà una parvenza di contenuto, e che è rivolta polemicamente contro il modo di essere essenzialmente estraneo di chi è «non-ariano». Spiace che questa esigenza di uguaglianza di stirpe compaia solo in un certo adattamento che Schmitt ha compiuto tra la seconda e la terza edizione de Il concetto di “politico”, tramite la modifica di una osservazione. Il passo indicato dice: 77

Cfr. in proposito il precedente giudizio di Schmitt su Romantik der Rassenlehre [Romanticismo della dottrina della razza] a p. 14 del suo scritto del 1916 su Aurora boreale di Th. Däubler, cit.

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2. ed. (1932), p. 50 [trad. it. cit., pp. 148-149]

3. ed. (1933), p. 44 [trad. it. cit., p. 88]

È dubbio quanto a lungo lo spirito di Hegel abbia risieduto realmente a Berlino. Ad ogni modo, la tendenza che venne acquistando influenza a Berlino dopo il 1840 preferì farsi fornire una filosofia «conservativa» dello Stato da F.J. Stahl, mentre lo spirito di Hegel attraverso K. Marx e Lenin trasmigrava verso Mosca. Là il suo metodo dialettico conservò la sua concreta energia, nel nuovo concreto concetto di nemico: quello del nemico di classe; trasmutando tanto sé stesso […] come tutto il resto: legalità e illegalità, lo Stato, e perfino il compromesso con l’avversario, in un’«arma» di questa lotta. Tale attualità di Hegel trova in G. Lukács la sua vitalità più forte.

È dubbio quanto a lungo lo spirito di Hegel abbia risieduto realmente a Berlino. Ad ogni modo, la tendenza che venne acquistando influenza a Berlino dopo il 1840 preferì farsi fornire una filosofia «conservativa» dello Stato da F.J. Stahl; questo «conservatore» cambiò la sua fede e la sua nazione, cambiò il suo nome, e poi si mise ad addottrinare i Tedeschi sulla Pietà, sulla Continuità e sulla Tradizione. Egli trovava che il tedesco Hegel [del resto esattamente come il tedesco Schopenhauer! Karl Löwith] era «vuoto e falso», «di cattivo gusto» e «squallido».

Il fatto che Schmitt, nella terza edizione, elimini tacitamente l’osservazione, ormai inopportuna, su Marx e sull’ebreo marxista Lukács, per inserire al suo posto un’opportuna osservazione sull’ebreo prussiano Stahl, colpisce tanto più in quanto egli, in un’altra occasione, in una nota sul trattato di Versailles, ci tiene ad aggiungere che l’opera è rimasta «immutata dal 1927»78. 78

C. Schmitt, Principi del nazionalsocialismo, cit., p. 99. Un analogo «miglioramento», tra la seconda e la terza edizione de Il concetto di “politico” (rispettivamente pp. 163 e 104) si ha anche a proposito della critica alla concezione dello Stato di Oppenheimer, e proprio con una formulazione che, per sua natura, non può indurre l’ignaro lettore a pensare che l’aggiunta di Schmitt potrebbe essere stata compiuta dopo la vittoria della rivoluzione nazionalsocialista; sarebbe infatti veramente strano se, proprio dopo il 1933 (al tempo della terza edizione), questi «ceti» sociali, di cui Oppenheimer è un rappresentante, «si infiltrino» oltre, pur «non essendo ancora» loro accessibili i ceti dei militari e dei funzionari! Ma, anche se Schmitt continua dicendo che «non è ammissibile, né giusto, sia dal punto di vista morale, sia da quello psicologico, e tanto meno da quello scientifico definire semplicemente per mezzo di giudizi moralmente squalificanti», solo così lui può

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Ma che cosa di sostanziale si può concludere dal fatto marginale di una nota modificata, in conformità delle mutate circostanze politiche? Una sorta di conferma dell’affermazione schmittiana che «prima e dopo» la «politica» è il «destino»79. Infatti, l’esperienza dell’ultima guerra e gli ulteriori avvenimenti nella politica tedesca sono senz’altro determinanti per il modo con cui Schmitt concepisce la sua epoca e in essa il politico. Ciò è tanto vero che ci si deve domandare se è, qui, un «destino» che determina il modo e la maniera in cui un attivo partecipe concepisce il “politico”, oppure se egli è semplicemente guidato da ciò che di fatto accade. Ma, se il modo di concepire e il concetto personali sono determinati dagli avvenimenti politici dell’epoca, non diventa ogni concetto e ogni idea, necessariamente, «ideologia», nel senso marxiano? La differenza tra la dittatura del marxismo e la sentenza di una teoria decisionistica dello Stato si limiterebbe allora al fatto che, mentre la critica teoretica di Marx riferisce ogni essere politico e spirituale alla fondamentale distinzione dialettica di borghesia e proletariato, la polemica teoretica di Schmitt lo riferisce alla fondamentale distinzione adialettica di Stato liberale e Stato sovrano, di discussione e decisione. In entrambi i casi la fiducia in una discussione concettuale cede di fronte ad una «teoria dell’azione diretta»80. Ma questo significa che questo concepire, che in sé stesso è “politico”, in fondo non vuole assolutamente capire che cos’è il fenomeno politico, ma, anzi, esso nega sé stesso, volendo un’azione politica particolare. Questo capovolgimento della meditazione filosofica sull’essenza della politica in uno strumento intellettuale dell’azione politica si ebbe, in modo consapevole ed intenzionale, per la prima volta, nel confronto di Marx con Hegel. In Schmitt si ha lo stesso capovolgimento, tuttavia in modo relativamente liberale, nella tesi che tutti i concetti politici sono necessariamente «polemici»81, perché sono legati ad una «situazione» essere definito, tanto più che un simile giudizio può essere riferito sia allo Stato sovrano che alla società liberale. Ma, il principio di tutti i diversi cambiamenti, nelle diverse edizioni schmittiane, è sempre solo l’occasionalismo che caratterizza le sue decisioni, legate alle situazioni e, perciò, di volta in volta polemiche. 79 C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 164. 80 C. Schmitt, La situazione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., p. 76. 81 Se Schmitt crede di trovare nella critica hegeliana della società borghese la «prima definizione polemico-politica del bourgeois», dimentica che, tuttavia, lo Stato hegeliano non nega affatto polemicamente la società borghese e il suo principio, l’individualismo, ma lo «supera» positivamente in sé. Il cosiddetto individualismo non è per Hegel, come per Marx,

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determinata. Per Schmitt non esistono in generale concetti politici che non guardino ad «una contrapposizione concreta», in definitiva alla situazione di emergenza del riferimento al nemico politico, e che non siano legate ad una tale situazione82. «L’inevitabile parzialità (non voleva Schmitt cercare di evitarla?) di ogni decisione politica» è per lui «il riflesso» della distinzione di amico e nemico, che è immanente in ogni concetto e comportamento politico. Ma, in via di principio, il fatto che questa si manifesta solo nelle «misere forme e nei miseri orizzonti della occupazione dei posti operata dai partiti politici», o anche nella forma grandiosa della cromwelliana volontà annientatrice, non fa differenza, se fin dall’inizio è stabilito, anche nei confronti del comprendere, il diritto supremo della decisione, sia essa palese o velata, radicale o moderata. Dal punto di vista della storia spirituale, l’origine di questa teoria della decisione, che capovolge il senso anche etimologico della filosofia, si trova nella tesi antiromantica di Kierkegaard sul pensatore esistenziale e sulla sua appassionata soggettività, e nella rivendicazione marxiana in chiave antiborghese di una realizzazione della teoria nella prassi. Così l’uno e l’altro si sono opposti con passione, anche se con intenzioni diverse e con fini opposti, a tutta lo situazione interna ed esterna della loro epoca «raziocinante», la cui «prima legge» era la mancanza di decisione. Il compimento spirituale di una storia di due millenni operato da Hegel era, per entrambi, la «preistoria» che precede una rivoluzione estensiva e una riforma intensiva. Le concrete mediazioni hegeliane si rovesciano in decisioni astratte, per il vecchio Dio cristiano e di un nuovo mondo terreno. Il fatto che Marx ponga di fronte ad una decisione i rapporti di esistenza esterni ed universali e per Schmitt, una semplice caratteristica della società borghese, ma si fonda sul principio cristiano del «diritto della soggettività assoluta», della «personalità infinitamente libera» del singolo, che non si era ancora aperto una strada nello Stato «solo sostanziale» degli antichi. Cfr. G. W. F. Hegel, Filosofia del diritto, § 185 e Enc., § 163, Appendice 1 e § 482. 82 «Termini come Stato, repubblica, società, classe, ed inoltre: sovranità, Stato di diritto, assolutismo, dittatura, piano, Stato neutrale o totale, marxismo, proletari e lavoratori, sono incomprensibili, se non si sa chi in concreto deve venire colpito, negato e contrastato attraverso quei termini stessi. Il carattere polemico domina soprattutto l’impiego linguistico dello stesso termine “politico”, sia che si qualifichi l’avversario come “non politico” sia che lo si voglia squalificare e denunziare come “politico” per porsi al di sopra di lui in quanto “apolitici”» (C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 113-114; Id., La situazione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, cit., p. 32).

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delle masse, e Kierkegaard quelli interni del singolo con sé stesso, che Marx pensi senza Dio e Kierkegaard al cospetto di Dio, queste e altre evidenti differenze hanno in comune come presupposto il mondo cristiano-borghese e la decisa rottura con esso. Significativamente sono due «eccezioni» a rappresentare ancora, nel declino di questo mondo ormai invecchiato, l’«universalità» dell’essere umano. Così per il primo la massa del proletariato, esclusa dalla società borghese, garantisce il possibile ristabilimento del vero essere dell’uomo, per il secondo l’isolata eccezione cristiana, rispetto alla cristianità esistente, garantisce il possibile ristabilimento del vero essere-cristiano. L’energia spirituale con la quale essi si oppongono alla rovina della loro epoca, non si fonda però semplicemente su una loro propria decisione per la risolutezza, ma sul fatto che entrambi, di fronte alla degradazione e al livellamento dell’uomo83, ancora credevano ad un più alto centro, fosse esso «Dio» e l’«umanità», come riferimento per la loro decisione. Con questi due grandi avversari della filosofia hegeliana del sapere assoluto comincia, per la prima volta, ma ancora all’interno dell’ampio orizzonte della filosofia classica tedesca, la decadenza, poi legittimata, della buona coscienza di fronte alla scienza, alla sapienza e al sapere84. In via di principio da allora si pone, in proposito, solo 83 Nella critica del presente di Kierkegaard questo livellamento è l’espressione etica, sempre ricorrente, di quanto, sotto il rispetto politico, Schmitt chiama «neutralizzazione» e di quanto, sotto il rispetto culturale, in una conferenza del 1927 – a cui Schmitt si riferisce polemicamente –, Scheler chiama «pareggiamento» (Ausgleich). In queste diverse denominazioni dello stesso, ma polisenso, stato di cose si rivela una fondamentale differenza d’interpretazione, differenza che somiglia a quella che Schmitt mostra nei due concetti politici di «tribuno» e di «riparazione». C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., p. 114. 84 Dopo la morte di Hegel, attraverso l’attività pubblicistica di A. Ruge, penetra nella gran parte delle coscienze l’esigenza politica di un sostanziale legame tra la filosofia e lo «spirito del tempo». Il che, dopo, attraverso la metafisica della volontà di Schopenhauer e di Nietzsche, a poco a poco, determina la teoria della conoscenza della filosofia accademica; in Dilthey porta ad una filosofia della «vita», in Scheler ad una teoria dell’ «impotenza dello spirito» di fronte alla forza dell’«impulso» e in Heidegger ad una interpretazione esistenziale del problema del comprendere che culmina in una «impotenza creatrice del sapere» e in una «sapiente risolutezza». Questo autosuperamento della filosofia è, a poco a poco, diventato così popolare che, ormai, il suo motivo originario è appena riconoscibile. L’attuale discussione, però, non si muove più in generale sul terreno di una filosofia diventata in sé problematica, ma esprime solo il rovesciamento della problematica scientifica di Max Weber, in sé stessa secondaria. Ma, mentre questi voleva ancora conoscere scientificamente anche là, dove sapeva che la scienza che si pretende libera da vincoli ha come presupposto valutazioni che non sono ulteriormente fondabili in modo scientifico, ora, al contrario, si cerca di rivalutare una attività scientifica e una oggettività diventate prive di valore con «valutazioni» indiscutibili e marcatamente soggettive.

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la differenza tra chi in generale vuole ancora comprendere qualcosa, e chi vuole ormai solo «decidersi», tra chi vuole esprimere qualcosa con le proprie parole, e chi vuole «colpire, combattere, negare e confutare». Una simile forza polemica delle parole, che allora diventano soltanto parole ad effetto, è però qualcosa di completamente diverso dalla «forza di un integro sapere», dal quale scaturisce un ordine delle cose umane e non solo una decisione nichilistica. Nel suo scritto del 1934 I tre tipi di scienza giuridica, Schmitt non solo rifiuta, come in precedenza, il normativismo impersonale del «pensiero che pone regole e leggi», ma rifiuta anche il decisionismo personale e dittatoriale da lui stesso sostenuto, diventa ormai l’avvocato di un «pensiero ordinativo e formativo»85, sovrapersonale, «concreto» e specificamente «tedesco». Questo ultimo cambiamento del mobile pensiero di Schmitt, a prima vista, sembra rovesciare tutta l’interpretazione che abbiamo proposto, ma in verità esso conferma solo il carattere del tutto occasionale del suo pensiero politico. Infatti, è soltanto una semplice conseguenza dell’intrinseca vuotezza di contenuto della decisione, se essa di volta in volta si lasci riempire di un contenuto da ciò che de facto accade politicamente, un contenuto che, però, rende il decisionismo in quanto tale inattuabile e conseguentemente privo di oggetto proprio. Quando il caso politica di emergenza è di fatto eliminato da un atto decidente, anche il decisionismo come concetto politico fondamentale diventa inutile. Con questo abbandono della decisione Schmitt si tradisce solo in apparenza: poiché il suo pensiero, se mai, resta «fedele» a sé stesso proprio nel fatto che, da un esasperato normativismo (nello scritto su Il valore dello Stato, 1914), passa al concetto decisionistico del “politico” (1927), fino al pensiero ordinativo (del 1934), ripensando fedelmente quello che, di volta in volta, più lo colpisce nelle situazioni politiche. Quanto prima era «decisiva» l’anormale situazione dell’«eccezione», tanto ora, per il pensiero politico giusto e giuridico, diventa decisiva la situazione «normale» e stabilizzata, insieme con l’«uomo normale»86. L’antitesi principale cui far riferimento ora non è più quella di norma e decisione; ma quella tra norma e organizzazione. I concetti politici perdono così il carattere che, precedentemente, era stato affermato come 85 Schmitt accenna per la prima volta al pensiero ordinativo come pensiero «istituzionale» nella premessa della seconda edizione della Teologia politica; cfr. in proposito il nuovo scritto C. Schmitt, I tre tipi di scienza giuridica, cit., pp. 56-57. 86 C. Schmitt, I tre tipi di scienza giuridica, cit., pp. 10, 22-23 e 56.

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essenziale, quello cioè di essere polemici. Essi diventano essenzialmente positivi, conformemente alla nuova organizzazione positiva dello Stato dopo la decisione politica della rivoluzione nazionalsocialista. La decisione sovrana di una volta si inserisce, dopo che è stata presa, nel concreto ordinamento recentemente formato. Il puro decisionismo, come quello rappresentato classicamente da Hobbes, presuppone un «disordine» che può essere trasformato in ordine soltanto dal fatto che vi sia (non importa come) una decisione in generale; questa decisione appare ora già presa in funzione di una «vita comunitaria ordinata», la cui espressione giuridica è il pensiero ordinativo e non più il pensiero rappresentato dalla pura decisione87. In questa esposizione «dello sviluppo tedesco fino al presente» si vede anche lo sviluppo del pensiero politico di Schmitt dal 1917 fino al 1934, non diversamente da come egli stesso asserisce sprezzantemente del suo avversario Kelsen88. In questo sviluppo meraviglia solo il fatto che Schmitt ritenga manifestamente del tutto superfluo accennare, sia pure con una sola parola, al necessario mutare della sua sovrana decisione dalla prima edizione de Il concetto di “politico”, o anche solo di giustificarlo di fronte al suo lettore, sia pure con un riferimento ad un «destino» onnipotente o anche alla «forza normativa della realtà di fatto». Nessun uomo che pensi può mettere in dubbio che ogni spirito sia «presente» ed «attuale» e legato ad una situazione concreta. Da ciò, però, non consegue che lo spirito dell’uomo si esaurisca nell’essere espressione di una situazione determinata, invece di sorpassare, in forza della sua spiritualità, ogni atteggiamento polemico, nella ricerca di una durevole essenza delle cose umane. Hegel non ha fabbricato reti intellettuali in «apolitica purezza», non perché il suo spirito fosse presente, cioè attuale nel senso schmittiano, ma perché egli, anche nei suoi scritti politici attuali, era qualcosa di più di un abile scrittore politico: era un sapiente filosofo per il quale lo spirito significava la vita dell’uomo e ciò lo rendeva libero da tutti i legami immediati e anche capace, quindi, di una decisione spirituale. [Traduzione di Giorgio Fazio]

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Ivi, p. 52. Ivi, p. 15, n. 1.

L’occasionalismo della decisione sovrana e i diritti imprescrittibili dell’uomo. Karl Löwith a confronto con Carl Schmitt Giorgio Fazio

1. Hugo Fiala e Carl Schmitt a Roma nel 1936 Il saggio Decisionismo politico venne ultimato da Karl Löwith alla fine del 1934. In quel periodo, il filosofo tedesco di origini ebraiche si trovava in Italia, a Roma. La promulgazione dei primi provvedimenti antisemiti da parte del regime nazionalsocialista e il clima di odio nei confronti degli ebrei che aveva cominciato a diffondersi a macchia d’olio nella società tedesca, lo avevano spinto da poco ad abbandonare la Germania e a prendere la strada dell’esilio: a risolversi cioè per una decisione che fino all’ultimo aveva dilazionato, nella speranza di rimanere nel proprio paese di origine e di poter mantenere la propria regolare posizione di libero docente all’università di Marburgo. Il caso volle che, proprio a Roma, Löwith ebbe modo di incontrare per la prima volta Carl Schmitt. L’occasione fu offerta da una conferenza sulla “nuova scienza dello Stato” che lo Staatsrat del regime nazista tenne, nel 1936, all’Istituto di Studi Germanici di Villa Sciarra. Löwith si recò a questa conferenza con curiosità, ma anche con ironico distacco, avendo saputo che Schmitt aveva letto il suo saggio, ma aveva creduto di riconoscere, dietro la firma pseudonima di Hugo Fiala con cui era apparso, la mano di György Lukács1. Con ogni probabilità, il teorico dello Stato totale era caduto in questo errore anche perché, in un luogo del testo, si fa riferimento al modo in cui lui stesso aveva fatto cadere, nella quarta edizione de Il concetto di “politico”, posteriore alla Machtergreifung di Hitler, «l’osserva1 Cfr. K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 (1941), trad. it. di E. Grillo, il Saggiatore, Milano 1988, p. 119.

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zione ormai inattuale su Marx e sull’ebreo marxista Lukács, sostituendola con un’osservazione attuale sull’ebreo prussiano Stahl»2. Più in generale, però, il fatto che Schmitt avesse attribuito il saggio a Lukács provava, agli occhi di Löwith, che egli aveva riconosciuto un’alta regia filosofica nel saggio, al di là della vena polemica con cui si presentava. Oltre a ciò, Schmitt non poteva certo sospettare che, tra il pubblico della sua conferenza di Roma, fosse presente anche l’autore dell’articolo e che, per di più, questi era amico di Delio Cantimori, ossia di colui che aveva tradotto in italiano tanto i suoi scritti politici quanto il saggio Decisionismo politico3. Löwith non ha mai chiarito se a margine di questa conferenza ci fu un contatto diretto con Schmitt, magari mediato dallo stesso Cantimori, anche lui presente in quell’occasione. Ciò che in seguito ha voluto ricordare di questo evento è stata soltanto la profonda delusione che provò, anche su un piano strettamente umano, dopo aver ascoltato la conferenza di quello che all’epoca era uno degli intellettuali di punta del regime nazionalsocialista. Questo consigliere di Stato non era affatto un dittatore sicuro di sé ma soltanto un petit-bourgeois con un viso roseo e liscio. Al termine della sua conferenza, mentre conversava, si guardava attorno con fare insicuro e sospettoso, come se temesse qualcosa dal pubblico. L’argomento della sua conferenza fu tanto coerente quanto abietto: lo Stato totale scaturiva dalla guerra totale; ma la guerra totale implicava anche un nemico totale […]. Rimase inespresso un punto: se Schmitt per nemico totale intendesse allora il bolscevismo e oggi, naturalmente, l’Inghilterra4.

Si tratta di un ritratto caustico e impietoso, in cui riaffiorano alcuni dei giudizi che erano stati già formulati nel saggio Decisionismo politico, sebbene in forma ben più velata. Già qui, Löwith aveva implicitamente associato la condotta intellettuale di Schmitt a quella di un petit-bourgeois opportunista, suggerendo l’esistenza di un’in2

Cfr. supra, p. 197. Per le traduzioni di Cantimori cfr. C. Schmitt, Principi politici del nazionalsocialismo, a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1935; K. Löwith, Il concetto della politica di Carlo Schmitt e il problema della decisione, in «Nuovi studi di diritto, economia e politica», VIII, 1935, pp. 58-83. Sul rapporto tra Cantimori e Löwith cfr. G. Sasso, Leo Naphta e Hugo Fiala, «La cultura», XII, 1974, pp. 100-112; Id., Ancora su Leo Naphta e Hugo Fiala, «La cultura», 1992, pp. 119-124. 4 Karl Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, cit., p. 120. 3

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tima affinità tra la sua parabola politica e quella del consigliere di Stato Adam Müller: ossia l’idealtipo di un intellettuale romantico, evanescente e ondivago; l’esponente di una borghesia in lotta con sé stessa5, tanto protesa a esaltare l’assolutezza del proprio Io privato e fluttuante, di contro alla piattezza della vita ordinaria, quanto puntualmente destinata, per l’assenza di qualsiasi centro di riferimento interiore – secondo la folgorante descrizione che ne aveva compiuto lo stesso Schmitt nel suo testo giovanile Romanticismo politico – a patire il destino di rovesciarsi in strumento servizievole dell’energia politica di volta in volta dominante. Ed è chiaro che questa analogia tra il pensatore romantico e il teorico decisionista, entrambi al fondo «occasionalisti», conteneva già anche un giudizio di natura morale sulla condotta personale di Schmitt. Giudizio per il quale, in quel momento, a Löwith non mancavano di certo elementi probanti. Se tuttavia il saggio di Löwith è potuto divenire nel corso del XX secolo un punto di riferimento classico e ineludibile nel dibattito attorno alla teoria politica di Schmitt, ciò è perché nel suo nucleo più profondo esso trascende questo piano di discorso. Il nerbo dell’accusa di “occasionalismo”, rivolta al pensiero e alla condotta di Schmitt, non è di natura morale, bensì innanzitutto filosofica6. Prima di soffermarsi su questo punto, tuttavia, giova richiamare alcuni dati, che consentono di collocare storicamente i toni innegabilmente anche polemici, che percorrono a tratti il saggio di Löwith. 2. «Il Führer protegge il diritto» Si tende a perdere di vista, quando si parla dei rapporti tra Schmitt e il nazismo, che fino al 1932, fino a quando cioè era stato un giurista schierato a difesa dell’ordine costituzionale della repubbli5

Per un inquadramento sociologico dell’intellettualità tedesca, unita tra le due guerre sotto le insegne del “decisionismo” e poi confluita nel nazismo, ancora attuale è il testo di C.G. v. Krockow, Die Entscheidung: Eine Untersuchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Campus, Frankfurt-New York 1990. 6 Sull’importanza del saggio di Löwith nella storia della ricezione del pensiero di Schmitt, con particolare riferimento al contesto filosofico italiano, dominato dall’idealismo storicistico e poi in seguito dal marxismo, ancora utile è il saggio di C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1, 1979, pp. 80-160, in particolare pp. 88-89.

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ca weimariana, sebbene nella veste, a tratti paradossale, di strenuo difensore di un’interpretazione estensiva dell’articolo 48 della Verfassung del 19197, Schmitt era stato anche un fermo oppositore del partito nazionalsocialista. Se l’obiettivo ultimo di un partito come quello nazionalsocialista – argomentava allora il giurista – era quello di sovvertire l’ordine costituzionale, non ci si poteva limitare ad assumere una posizione meramente legalitaria rispetto alla sua avanzata. Bisognava piuttosto concedere al Presidente del Reich la facoltà effettiva di prendere misure eccezionali per limitare il diritto di questo partito – così come di quello comunista – a godere di uguali chance, rispetto a quelle degli altri partiti, a formare un governo. Si doveva impedire a questa nuova forza politica, quindi, di stravolgere, a colpi di voti di maggioranza parlamentare, l’ordinamento repubblicano. Queste argomentazioni, sviluppate da Schmitt in un testo come Legalità e legittimità su un piano strettamente giuridico e senza alcun riferimento diretto al partito nazionalsocialista8, vennero però anche esplicitate pubblicamente. A pochi giorni dalle elezioni federali del luglio del ’32, nelle quali l’NSDAP di Hitler avrebbe ottenuto un successo elettorale straordinario, Schmitt pubblicò un articolo sulle colonne del quotidiano filo-governativo «Die Tägliche Rundschau» intitolato L’abuso della legalità9. In questo testo, egli dichiarò che chiunque avesse contribuito con il proprio voto a concedere la maggioranza al partito nazionalsocialista avrebbe agito in modo demenziale, giacché avrebbe offerto a questo partito la possibilità di sovvertire la stessa costituzione che rendeva possibile votare. È bene tenere a mente la data di questo articolo, perché fu nel giro di brevissimo tempo che il giurista si rese protagonista di una sterzata politica a dir poco spettacolare. A pochi mesi dalla nomina di Hitler a Cancelliere (30 gennaio 1933) Schmitt prese la tessera del NSDAP (1˚ maggio del 1933), fu nominato ai vertici delle principali istituzioni giuridiche della Germania, ottenne la cattedra di diritto costituzionale all’u7

Cfr. C. Schmitt, Il custode della costituzione (1931), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1981. 8 C. Schmitt, Legalità e legittimità, (1932), in Id., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 209-244. 9 Cfr C. Schmitt, Der Mißbrauch der Legalität, in «Die Tägliche Rundschau», 19 luglio 1932. Cfr. su questo per lo meno W. J. Bendersky, Carl Schmitt teorico del Reich (1983), a cura di M. Ghelardi, il Mulino, Bologna 1989.

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niversità di Berlino e cominciò ad offrire il proprio contributo alla fondazione della giurisprudenza nazionalsocialista. A questo periodo di fervida militanza a sostegno del nuovo regime risalgono i testi in cui egli si sforzò di rendere le proprie teorie compatibili con la dottrina nazionalsocialista: tra questi in particolare sono da annoverare Stato, movimento, popolo (1933), la quarta edizione di Il concetto di “politico” (1933), I tre tipi di scienza giuridica (1934)10. Un rapidissimo riallineamento teorico che raggiunse il suo apice quando, subito dopo la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli” (30 giugno-1˚ luglio 1934), in cui vennero brutalmente decimati i vertici delle SA e assassinato l’ex-Cancelliere Kurt von Schleicher – di cui era stato uno dei più stretti collaboratori – Schmitt scrisse il famigerato articolo in cui legittimò, con una sorta di parere giuridico-costituzionale, l’operato di Hitler e il discorso che questi aveva tenuto nel Reichstag a sua propria difesa. In questo pamphlet, intitolato Il Früher protegge il diritto, si legge tra l’altro: «il Führer protegge il diritto dal peggiore abuso, quando nell’istante del pericolo, in virtù della sua dittatura, crea il diritto in qualità di giudice supremo»11. Erano parole che certificavano pubblicamente una fedeltà al nuovo regime, che avrebbero garantito a Schmitt la propria posizione ai vertici apicali della giurisprudenza tedesca. È significativo, tuttavia, che in questo testo, certamente d’“occasione” e non scientifico, egli si servì di una logica argomentativa non troppo dissimile da quella a cui era ricorso, soltanto qualche mese prima, per invocare l’esercizio di poteri eccezionali da parte del Presidente del Reich, al fine di mettere al bando il partito nazionalsocialista. Löwith aveva certamente presente questa sconcertante successione di eventi quando osserva nel suo saggio che «il consigliere di Stato Carl Schmitt», «così abile» e «influente sul piano pratico», era passato nel giro di pochi anni ««da un esasperato normativismo (nello scritto Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, 1914)» «al 10

C. Schmitt, Stato, movimento, popolo (1933), in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 255-312; Id., I tre tipi di scienza giuridica (1934), a cura di G. Stella, Giappichelli, Torino 2002; Id., I principi politici del nazionalsocialismo, Sansoni, Firenze 1935. 11 C. Schmitt, Il Führer protegge il diritto (1934), in Id., Posizione e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles (1923-1939), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 2007, pp. 326-335, qui p. 329.

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concetto decisionistico del “politico” (1927), fino al pensiero ordinativo (del 1934), ripensando fedelmente quello che, di volta in volta, più lo colpisce nelle situazioni politiche»12. E come si è già accennato a proposito dello scambio di persona con Lukács, egli non manca di ricordare come, in concomitanza con quest’ultima svolta di pensiero, Schmitt aveva cominciato a depurare i suoi testi di ogni riferimento ad autori sgraditi al regime e ad inserirvi tutta una serie di più o meno velati riferimenti antisemiti. Tutto ciò, dicevamo, chiarisce l’origine delle pieghe anche polemiche che percorrono il saggio di Löwith, così come la condanna morale, che in esso viene emessa, di quello che non poteva non apparire, ad un esule scappato da poco dalla furia nazionalsocialista, come un comportamento umanamente e intellettualmente «abietto». Non è questo tuttavia il piano su cui scorre la linea argomentativa centrale del saggio. Si deve anzi dire che l’adesione di Schmitt al regime nazionalsocialista – al pari di quella di Heidegger, anch’essa presa in considerazione nel testo13 – da questione personale e circoscritta è trasformata in una questione schiettamente filosofica. La tesi di fondo dell’articolo è infatti che la rapidità con cui Schmitt, in seguito alla Machtergreifung nazista, aveva messo mano alla sua precedente concezione giuridica e politica, fino a raggiungere una sintonia con il nuovo corso politico-ideologico della Germania, non poteva essere letta (soltanto) come un’espressione di opportunismo, di cinica ambizione personale, di pressioni esterne, di paura o, anche, come il segno di una legittima e fisiologica evoluzione di pensiero. Questa adesione doveva essere ricondotta, piuttosto, ai caratteri strutturali della sua stessa concezione della politica. La teoria radicalmente decisionistica della politica di Schmitt non aveva mai affermato, infatti, una decisione politica piuttosto che un’altra, sulla base di un quadro di riferimenti normativi determinati. Questa teoria aveva esaltato invece l’a-normale decisione sovrana in quanto tale, «sciolta da ogni vincolo 12

Cfr. supra, pp. 196-7 Cfr. M. Heidegger, L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933-34, a cura di C. Angelino, il melangolo, Genova 2002. Per la critica di Löwith all’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo cfr. K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, cit., pp. 56-60 e Id., Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt (1959), in Id., Marx, Weber, Schmitt, trad. it. di E. Brissa, A. K. Giavotto, A. M. Pozzan, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 151-164. 13

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normativo», «indiscutibile» e «fondata sul nulla». A causa di questa assenza di riferimenti normativi, quindi, la teoria della sovranità decidente di Schmitt era fin dall’inizio predisposta a legittimare qualsiasi decisione sovrana in quanto tale, purché anti-liberale, ed era perciò destinata a negare sé stessa quando «il casus necessitatis politico» sarebbe stato di fatto eliminato da una decisione concreta, capace di determinare un nuovo ordine “sostanziale”, attraverso l’esclusione di un pericolo per l’unità del popolo, qualunque fosse stato poi il volto concreto che avrebbe assunto questo «nemico pubblico», interno o esterno: il partito nazionalsocialista o gli ebrei, il bolscevismo o l’Inghilterra. Per Löwith, è questo carattere di fondo del decisionismo politico di Schmitt – il suo non essere espressione di una scienza avalutativa dell’essenza della politica, ma il suo tendere strutturalmente a risolversi in un’arma intellettuale al servizio dell’ordine di discorso e dei rapporti di forza che si impongono nel momento dato – a sollevare una questione eminentemente filosofica. Se la teoria decisionistica della politica di Schmitt si rivela il punto di precipitazione ultimo di una bancarotta generale della filosofia politica, della sua funzione critica e veritativa, della sua irriducibilità al piano delle visioni del mondo, diventa allora necessario chiedersi in che modo sia possibile riabilitare una teoria della politica capace di preservare criteri universali della convivenza umana, con i quali anche solo riconoscere la dismisura e la disumanità di un potere totalitario come quello nazionalsocialista. Per rispondere a questo interrogativo, Löwith non si volge tanto ai modelli della filosofia politica classica, pure continuamente evocati nel suo saggio come esempi di una theoría filosofia ancora non risolta in prassi politica e per questo capace di comprendere i problemi permanenti della politica. Dopo aver messo in luce le aporie della concezione della politica di Schmitt, Löwith sviluppa piuttosto una serie di considerazioni sulla tensione moderna tra l’autonomia individuale e l’unità dell’ordine politico, che alla fine culminano in una sobria difesa del valore imprescrittibile dei diritti umani fondamentali. Il confronto che Löwith ingaggiò con Schmitt in questi anni incise comunque in profondità sulla sua successiva evoluzione di pensiero14. Fu anche in seguito a questo corpo a corpo intellettuale che egli co14 Cfr. a questo proposito anche K. Löwith, Max Weber e Carl Schmitt, a cura di A. Bolaffi, «Micromega», 2/1987, pp. 197-205.

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minciò ad assegnare una centralità sempre maggiore nei suoi scritti al tema della secolarizzazione: intesa non come lineare processo di dissolvimento della religione e di erosione del sacro, ma come dinamica di trasferimenti concettuali e simbolici dal sacro al profano, nella quale il vuoto lasciato dalla crisi moderna della religione cristiana quale suprema fonte di legittimità dell’ordine politico, piuttosto che essere lasciato vuoto, tende ad essere rioccupato da altre istanze che si sostituiscono alle funzioni che prima erano attribuite a Dio15. Per Löwith, si tratterà di riportare alla luce il tratto ideologico contenuto in questa dinamica di trasferimenti e di rioccupazioni, che segna il tempo della secolarizzazione moderna, al di là delle sue narrazioni emancipative e illuministiche. E in questo quadro, egli individuerà nel decisionismo politico di Schmitt e nella sua teologia politica, non un elemento di resistenza alle ideologie della secolarizzazione, ma un approccio che, in ultima istanza, ne radicalizza gli aspetti più ideologici. E questo proprio per la tendenza, che innerva anche l’approccio di Schmitt, a leggere il tempo storico moderno in termini escatologici: come un tempo cioè di crisi e di dissoluzione, come un tempo che va salvato, volta per volta nell’attimo storico, da una «forza che trattiene»16. Non a caso, in questo senso, proprio nel saggio su Schmitt, Löwith stabilisce per la prima volta quel parallelo tra Kierkegaard e Marx – interpretati come matrici filosofiche rispettivamente di un decisionismo teologico-politico reazionario e di un escatologismo politico ateo e rivoluzionario – che costituirà il perno concettuale della ricostruzione genealogica, svolta nel suo opus magnum Da He15

Cfr. su questo J. A. Barash, Karl Löwith e la politica della secolarizzazione, in Id., Politiche della storia. Lo storicismo come promessa e come mito, Jaca Book, Milano 2009, pp. 161-183; E. Donaggio, Una sobria inquietudine. Karl Löwith e la filosofia, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 112-145; G. Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 74-137; J. Monod, La querelle de la sécularisation: théologie politique et philosophies de l’histoire de Hegel à Blumenberg, Vrin, Paris 2002, pp. 203-241. 16 Nella sua recensione al testo di Löwith Meaning in History, ricostruendo la critica alle implicazioni teologico-politiche della filosofia della storia, Schmitt sosterrà che la possibilità di conciliare visione escatologica e coscienza storica – possibilità esclusa da Löwith – è quella di pensare la storia alla luce del medium “paolino” del katechon, in quanto «forza che trattiene e sconfigge i malvagi». Cfr. C. Schmitt, Tre possibilità di un’immagine cristiana della storia (1950), trad. it. di G. Agamben ed E. Coccia, in Id., Un giurista davanti a se stesso, cit., pp. 249-254. Cfr. su questo R. Mehring, Karl Löwith, Carl Schmitt, Jacob Taubes und das Ende der Geschichte, «Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte», 3, 1996, pp. 231-248.

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gel a Nietzsche17. In quest’opera, lo sforzo di Löwith sarà quello di mostrare, anche contro Schmitt, che questo doppio attacco decisionistico alla filosofia della mediazione hegeliana e ad un mondo cristiano-borghese ormai in declino – attacco sorretto ancora però da «centri di riferimento» teologici (Kierkegaard) e umanitari (Marx), e non svuotato, come nel caso del decisionismo politico di Schmitt, di ogni centro di riferimento normativo – affondava le proprie origini nella stessa filosofia della storia di Hegel e, ancora più in profondità, nel generale processo di secolarizzazione dell’escatologia cristiana che attraversa tutta la modernità occidentale18. Contro queste letture escatologiche della storia, e le loro immediate implicazioni politiche, Löwith si volgerà a riabilitare nella maturità una teoria filosofica impolitica e in-attuale, orientata a meditare, sul modello tardo-antico, sulle leggi permanenti del cosmo naturale. Leggi capaci di illuminare, nella loro sovrumana eternità, il senso dei limiti della conditio humana e, con ciò, il tratto ideologico contenuto in ogni pretesa di arrestare o di compiere il movimento della Weltgeschichte, alla luce di un presunto stato di crisi finale che esigerebbe una Decisione sovrana – quindi un taglio e una divisione – da parte di un Soggetto, investito di una funzione catecontica o anche redentiva19. 3. La «grandiosa immagine» occasionalista di Dio La questione della secolarizzazione della concettualità teologica, e delle sue immediate implicazioni politiche, attraversa già però la critica a Schmitt articolata nel saggio Decisionismo politico. È questa questione a permettere a Löwith di rovesciare contro Schmitt 17

K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche (1941/1949), trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1993. Cfr. su quest’opera G. Fazio, Alle origini della catastrofe tedesca. “Da Hegel a Nietzsche” e “Die verspätete Nation” a confronto, «Studi filosofici», XXXIX, 2016, pp. 183-211. Il parallelo tra Marx e Kierkegaard verrà ripreso da Jacob Taubes nel suo testo Escatologia occidentale (1947) a cui Löwith a propria volta si richiamerà nel suo Meaning in History (1949). Cfr. J. Taubes, Escatologia occidentale, trad. it di G. Valent, Garzanti, Milano 1997. 18 Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia (1949/1953), trad. it. di F.T. Negri, il Saggiatore, Milano 1991. Su questi temi cfr. G. Fazio, Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità, Mimesis, Milano 2015, in particolare pp. 173 sgg. 19 Sull’approdo naturalistico di Löwith cfr. O. Franceschelli, Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla, Donzelli, Roma 2008.

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quell’accusa di «occasionalismo», che questi aveva originariamente scagliato contro l’esistenza romantica. Nel suo brillante saggio giovanile Romanticismo politico, Schmitt aveva identificato nell’occasionalismo il trait-d’union di tutti i fenomeni romantici. Con questa categoria «altamente dissolvitrice», egli aveva definito un tipo di atteggiamento nei confronti del mondo fondato sulla negazione di «ogni causalità necessaria e chiaramente calcolabile, così come anche di ogni solido legame ad una forma fissa»20. Inseguendo l’ideale di una produttività meramente estetica, che si esauriva in realtà nella costruzione di un mondo meramente soggettivo, formato con materiali attinti casualmente dalla realtà e uniti sulla spinta di un’«emozione di accompagnamento», l’esistenza romantica finiva per assumere ogni dato, situazione o evento come un mero «punto elastico» della propria libera attività creativa. Schmitt mostrava, quindi, come proprio questa attitudine, che si traduceva nell’esaltazione della superiorità della categoria di possibilità su quella di realtà, era ciò che faceva subire all’esistenza romantica «un rovesciamento davvero ironico». L’assenza di qualsiasi centro di riferimento condanna l’esistenza romantica ad una perpetua dipendenza da qualche cosa, ad un’inconscia soggezione alla forza più vicina e più vigorosa. «Ogni romanticismo sta al servizio di energie differenti da esso, non romantiche, e la sublimità sopra definizioni e decisioni si trasforma in un servizievole accondiscendere a forze estranee, e a decisioni estranee»21. È significativo, tuttavia, che nel testo del 1919, Schmitt inquadrava questa figura dello spirito – e la sua declinazione politica, impersonata dalla traiettoria del consigliere di Stato Adam Müller – all’interno di un determinato quadro storico-genealogico. Il fenomeno romantico veniva interpretato come un’espressione del generale processo di secolarizzazione, nel quale le funzioni che prima erano state di Dio sono sostituite da istanze immanenti: in primo luogo, dai due nuovi «demiurghi» della modernità, la «Società» e la «Storia» e, infine, appunto, dal «soggetto isolato». In quest’ultima variante, la secolarizzazione dell’idea di Dio come assoluta istanza di un mondo ridotto «a pura occasione della sua unica e sola attività», annunciava 20

C. Schmitt, Romanticismo politico (1919; 1925), a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano 1981, p. 39. 21 Ivi, p. 228.

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il carattere «privato» di un’esistenza borghese, inserita in una società, come quella economico-liberale, in cui ciascuno è abbandonato a sé stesso, sono indeboliti i vincoli pubblici e viene meno una presa efficace dell’autorità politica sulla dialettica storica e sui conflitti che l’attraversano. Se per un verso, quindi, Schmitt criticava questo processo di sostituzione delle funzioni teologiche, simboleggiato dall’esistenza romantica, per altro verso, però, lo presentava in forme assai più ambivalenti. In questo stesso processo, infatti, riconosceva anche l’espressione di una crisi irreversibile dei riferimenti metafisici e autoritativi tradizionali: crisi che chiama in causa, come un destino, una funzione sostitutiva e ordinativa della politica. Non a caso, egli esprimeva anche parole di profonda ammirazione per la «grandiosa immagine di Dio» tratteggiata dalla filosofia occasionalista di Malebranche. Di più, egli ribadiva che «il contegno caratteristicamente occasionalistico può permanere, anche se nello stesso tempo qualcos’altro sostituisce Dio come suprema istanza e fattore principale». Gli esempi che richiamava a questo proposito erano «il singolo soggetto» – e questo era appunto il caso del romanticismo, da lui aspramente criticato –, ma anche «lo Stato oppure il popolo»22. Questa medesima analogia tra il teologico e il politico e, più determinatamente, tra l’immagine di un Dio onnipotente, non sottoposto alle leggi della normalità e anzi capace di produrre occasionalisticamente, volta per volta, ogni nesso causale tra il soggetto e il mondo, e la funzione decidente di un potere sovrano, rappresentativo del popolo e anch’esso «libero da ogni vincolo normativo», nella sua prerogativa ultima di decidere sullo stato di eccezione e di ristabilire, volta per volta, l’ordine minacciato, viene ripresa e sviluppata nel testo Teologia politica23. Secondo la nota tesi del saggio, le procedure giuridiche dello Stato moderno devono il loro funzionamento normale all’esistenza di un’istanza decidente, da essi non ricavabile e pure di essi fondante, che fa sporgere l’ordinamento giuridico sull’eccezione. Simile istanza ha per la giurisprudenza una funzione analoga a quella che ha il miracolo per la teologia, e coincide con la prerogativa ultima di dichiarare lo stato di eccezione: ossia di sospendere l’intero ordinamento vigente 22 23

Ivi, p. 141. C. Schmitt, Teologia politica (1922) in Id., Le categorie del “politico”, cit., pp. 27-86.

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di fronte ad un «caso estremo» e di ristabilire, attraverso l’espulsione di chi mette in pericolo l’ordine, la situazione di normalità sulla base della quale soltanto possono funzionare e avere efficacia le norme giuridiche. C’era al fondo di queste tesi degli anni Venti, come si è già accennato, una presa di posizione rispetto a dibattiti giuridicocostituzionali di stringente attualità, che concernevano l’assetto della fragile repubblica di Weimar e le strategie per garantire, di fronte alle spinte politiche centrifughe che la dilaniavano, e che l’avrebbero poi fatta capitolare, la salvaguardia dei fondamenti materiali di realizzazione del diritto, al di là della sua cornice meramente legale. Più che sul versante giuridico della riflessione di Schmitt, tuttavia, l’analisi di Löwith si concentra sul modo in cui il concetto di decisione sovrana, tratteggiato in Teologia politica, aveva alle spalle lo stesso processo di trasposizione secolare di un’idea di trascendenza divina, non sottoposta ad alcun vincolo ontologico e normativo, che Schmitt aveva rilevato genealogicamente alla base dell’esistenza romantica e del suo destino occasionalistico. Il sovrano politico, si legge in Teologia politica, dimostra «un’indubbia superiorità sulla validità della norma». Nella dichiarazione dello stato d’eccezione «la decisione si rende libera da ogni vincolo normativo e diventa assoluta in senso proprio»24. E quasi avvertendo la vicinanza con l’universo concettuale romantico, Schmitt puntualizzava: «solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, e non in base ad una ironia romantica per il paradosso, ma con tutta la serietà di un punto di vista che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che comunemente si ripete»25. 4. Il “politico” nell’età della tecnica È la concezione politica delineata in Il concetto di “politico” a confermare in modo definitivo, per Löwith, il tratto occasionalista del concetto «secolarizzato» di decisione politica sovrana di Sch24 25

Ivi, p. 39. Ivi, p. 41.

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mitt26. Anche in questo caso, la critica di Löwith assegna un’importanza fondamentale alla lettura genealogica del processo di secolarizzazione compiuta da Schmitt. In particolare, viene preso in considerazione il discorso che il teorico del politico aveva tenuto nel 1929 al Congresso della Federazione internazionale della cultura, e che poi aveva incluso come Postilla all’edizione del Concetto di “politico” del 1932: ossia L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni27. Il punto di partenza delle analisi condotte in questa conferenza era il rimando al «fatto concreto» che nella storia europea si è assistito ad un passaggio del «centro di riferimento» della società dalla «teologia» alla «metafisica», dalla «morale umanistica» all’«economia», fino alla «tecnica»28. Il movente di fondo di questa dinamica di trasferimenti è stato sempre «l’aspirazione ad una sfera neutrale», ossia la ricerca di un centro di riferimento più unificante e meno divisivo. Senonché, alle guerre di religione sono succedute le guerre nazionali e a queste ultime le guerre politico-economiche. Schmitt spiegava infatti come «lo Stato ha sempre acquistato la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, perché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo». Finché al centro si trovava il dato teologico-religioso, la massima «cuius regio eius religio» aveva un significato politico. Quando lo Stato ha acquistato la sua forza da un altro centro di riferimento, questa sentenza ha perso significato politico e si è passati alla fase del principio di nazionalità («cuius regio eius natio»). Nel momento in cui, successivamente, l’economia da terreno neutrale è divenuta, a propria volta, campo di lotta politica, si è giunti alla nuova formula «cuius regio eius oeconomia». Al «termine di questo processo di progressiva neutralizzazione dei diversi ambiti della vita culturale», e di loro successiva politicizzazione, l’ulteriore spostamento del centro di riferimento sulla tecnica aveva fatto sorgere l’aspettativa che, sul suo terreno, sarebbe stato possibile realizzare definitivamente la pace e un ordinato progresso sociale. «A differenza delle questioni teologiche, metafisiche, morali o anche 26

C. Schmitt, Le categorie del “politico”, cit., pp. 87-165. C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni (1932), in Id., Le categorie del “politico”, cit., pp. 167-185. 28 Ivi, p. 170. 27

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economiche, intorno alle quali si può discutere all’infinito, i problemi puramente tecnici hanno qualcosa di serenamente concreto, conoscono soluzioni plausibili». Da qui era sorta la nuova religione della tecnica: la fede nel fatto che ormai problemi e contrasti politici fossero superabili con il progresso tecnico. Senonché l’apparente trionfo della totale neutralizzazione tecnica non rappresentava altro, in definitiva, che il presupposto di una nuova politicizzazione, anch’essa totale. Proprio perché «la tecnica è sempre soltanto strumento ed arma» e «può servire a tutti», essa non può mai essere realmente neutrale: «ogni tipo di civiltà, ogni popolo ed ogni religione, ogni guerra e ogni pace può servirsi come arma della tecnica». Ma, dal momento che «dai suoi principi e dai suoi punti di vista solo tecnici non deriva né una problematica politica né una risposta politica»29 – concludeva Schmitt nel ’29 con l’occhio rivolto ai nuovi Stati totalitari –, il significato finale dell’epoca contemporanea «si ricava soltanto quando appare chiaro quale tipo di politica è abbastanza forte da impadronirsi della nuova tecnica e quali sono i reali raggruppamenti amico-nemico che crescono su questo terreno». Löwith punta l’attenzione, dunque, su quello che individua come il punto cieco di tutta l’argomentazione di Schmitt: nel momento in cui questi aveva pronosticato una nuova politicizzazione dello Stato nella nuova età tecnica, egli non aveva potuto indicare rispetto a quale ambito specifico e a quale settore concreto della società questa nuova politicizzazione avrebbe potuto determinarsi. Infatti, egli aveva stabilito che tanto la tecnica quanto il “politico” non possono trasformarsi mai, in senso proprio, in centri di riferimento della vita spirituale. In Il concetto di “politico”, Schmitt aveva affermato: Il politico può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo; esso infatti non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini, i motivi della quale possono essere di natura religiosa, nazionale (in senso etnico o culturale), economica o di altro tipo e possono causare, in tempi diversi, differenti unioni e separazioni30.

29 30

Ivi, pp. 179-180. C. Schmitt, Il concetto di “politico”, cit., pp. 120-121.

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La distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è soltanto la distinzione amico-nemico. Nel momento in cui si manifesta, questa distinzione si rivela «il raggruppamento umano decisivo», in quanto s’istituisce sullo sfondo della possibilità reale dell’uccisione fisica del nemico. Se il nemico è semplicemente l’altro, lo straniero, allora «l’alterità dello straniero nel conflitto concretamente esistente significa la negazione del proprio modo di esistere» e rende necessario «difendersi e combattere, per preservare il proprio, peculiare, modo di vita». Ma se il “politico” indica soltanto il «grado d’intensità» di un conflitto pubblico-politico tra gruppi disposti a uccidersi, pur di difendere il proprio peculiare modo di vivere, il “politico” in quanto tale non è, in senso proprio, un settore centrale della realtà, nel senso in cui lo sono stati teologia, metafisica, morale umanitaria, economia. È quanto, al contrario, ha ogni volta destabilizzato questi centri di riferimento, nella loro pretesa di essere un terreno di pacificazione conclusiva. D’altra parte, la tecnica non è a propria volta un centro di riferimento come quelli che l’hanno preceduta: da essa non deriva «né una problematica politica né una risposta politica». Da qui la domanda di Löwith: in cosa può consistere la politica come destino e totalità, in un’età a cui manca «un fondamento metafisico trasparente, e un vero e proprio tema di lotta e un ambito specifico su cui orientarsi»? In questa strutturale assenza di ancoramento a un «centro di riferimento» sta dunque la dimostrazione – ottenuta lavorando sulla stessa genealogia della secolarizzazione schmittiana – che «il decisionismo profano di Schmitt diventa necessariamente occasionale, perché gli mancano non solo i presupposti teologici e metafisici, ma anche quelli umanitari e morali dei secoli passati»31. Il contenuto e il fine della politicizzazione totale, evocata da Schmitt come reazione e rimedio alla neutralizzazione economico-liberale e poi tecnica, rimangono strutturalmente indeterminati. Questi contenuti possono quindi provenire soltanto dalla casuale occasio delle situazioni politiche che volta per volta si presentano. Acutamente, Löwith osserva che, non potendo dire «dove il politico sia a posto e dove si trovi» nella società differenziata e «neutralizzata» del presente, Schmitt deve identificarlo con «una totalità 31

Cfr. supra, p. 184.

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sorpassante ogni determinato ambito specifico, neutralizzandoli tutti allo stesso modo, sebbene in direzione inversa alla spoliticizzazione»32. L’unica dimensione che effettivamente trascende ogni ambito specifico, rendendolo problematico, è la guerra. Coerentemente, Schmitt aveva identificato nella guerra il momento culminante in cui si realizza compiutamente l’esercizio assoluto della sovranità politica: è nell’orizzonte del conflitto contro un nemico pubblico che il sovrano politico impone allo status politico «de facto valore normativo su tutti gli obblighi ad esso subordinati», potendo verificare l’efficacia del suo comando nella effettiva disponibilità dei sudditi all’obbedienza fino al sacrificio della propria vita. Ma di nuovo, se è il sovrano a determinare, volta per volta, quale è il nemico che mette in questione l’unità politica, così come la stessa identità del popolo che va salvaguardata, sulla base di quali criteri può avvenire questa dichiarazione dello stato di eccezione? Negando l’esistenza di ogni tipo di criterio normativo, vincolante la decisione, il decisionismo politico legittima qualsiasi dichiarazione dello stato di eccezione, purché decisa da un potere sovrano capace di produrre, attraverso la guerra, quell’unità politica che si dà la norma, che in definitiva è l’unica cosa che importa: secondo un procedimento che, proprio perché privo di ogni criterio normativo, deve in ultima istanza spostarsi continuamente, fino a trasformare lo stato di eccezione della guerra in una condizione permanente. 5. Leo Strauss e l’appello ai Droits imprescriptibles de l’homme Nel saggio Decisionismo politico, Löwith segue un tracciato argomentativo che ricalca, per alcuni aspetti, le argomentazioni critiche che aveva formulato Leo Strauss nella sua recensione a Il concetto di “politico” del ’3233. Del resto, Löwith era in quegli anni in stretto contatto con Strauss, come attesta il loro ricco scambio epistolare34. Strauss aveva posto in rilievo che chi afferma «la lotta come tale, 32

Cfr. supra, p. 187. Cfr. su questo G. Fazio, La critica di Karl Löwith al decisionismo politico di Carl Schmitt e il suo rapporto con Note sul concetto del politico di Carl Schmitt di Leo Strauss, «La Cultura», 48, 2, 2010, pp. 263-300. 34 L. Strauss – K. Löwith, Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione. Carteggio (19321971), trad. it. di M. Rossini, introd. di C. Altini, Carocci, Roma 2012. 33

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del tutto indifferente da per cosa si combatta», «non ha la volontà di “neutralizzazione”, di evitare la decisione a ogni costo, ma è teso appunto alla decisione. Come tensione verso la decisione qualsiasi essa sia tale neutralità fa uso della possibilità di un al di là di ogni decisione, originariamente aperta al fine della neutralizzazione»35. Facendo riferimento a questo passaggio dell’articolo di Strauss, Löwith ribadisce nel suo testo come «dalla radicale indifferenza della decisione, solamente formale, verso ogni contenuto politico» di Schmitt, consegue che «tutti i contenuti sono indifferenti l’uno rispetto all’altro, ossia equivalenti». E questa è la prova che Schmitt capovolge la sistematica concettuale del proprio referente polemico – il liberalismo politico, il romanticismo occasionalistico – ma rimane all’interno del suo orizzonte concettuale “avalutativo”. In realtà, Löwith segue il percorso di lettura di Strauss anche perché va oltre questa prima constatazione. Come aveva fatto Strauss, anch’egli osserva che, nonostante la concezione della politica di Schmitt rimanga parassitaria rispetto al suo referente polemico, questa stessa concezione non è nemmeno realmente avalutativa: non è vero cioè che essa non abbia «proprio nessun presupposto etico e metafisico». La dimostrazione di ciò è che «il nerbo di tutte le sue trattazioni […] sta in una manifesta simpatia per i “momenti culminanti della grande politica”, cioè per la guerra che è pericolosa e rischiosa»36. Ci sono quindi delle premesse etiche belliciste, al fondo dell’equazione, apparentemente neutrale rispetto ai valori, tra politico e guerra. Tuttavia, Löwith segue Strauss fino a questo punto, ma non oltre. Quest’ultimo aveva tentato di riportare alla luce, nell’etica guerriera rilevata al fondo del discorso di Schmitt sul politico, una tensione a trascendere un modello di civiltà, come quello liberale, fondato sulla rimozione dell’elemento di serietà e di pericolosità della natura umana, e sulla riduzione della cultura a superficiale esercizio di intrattenimento. Un modello di civiltà, questo, notava Strauss, che affonda le sue origini in Hobbes, nella misura in cui questi per primo ha concepito l’ordine civile come contrapposto allo stato di natura. Tra le pieghe meno visibili del discorso di Schmitt si lasciava riconoscere quindi per Strauss un’istanza, pregiudicata tuttavia dalla polemica 35 36

Cfr. supra, p. 144. Cfr. supra, p. 183.

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contro il liberalismo, volta ad operare un ritorno a un modello di civiltà precedente al liberalismo, e precedente alla modernità. Un modello di civiltà capace di includere, invece che rimuovere, il proprio fondamento naturale e conflittuale: di riconoscerlo come sorgente vitale e creativa, per quanto tragica e rischiosa, di ogni vita culturale e di ogni tensione politica verso la giustizia37. La direzione di fondo dell’argomentazione di Löwith è un’altra. Per il filosofo, non c’è più nulla da salvare nel discorso di Schmitt. Nella sua diversa prospettiva, i presupposti etici bellicisti che sostengono la critica schmittiana al modello di civiltà liberale, che livellerebbe l’esistenza umana nel ritmo della produzione e del consumo, dello svago e dell’intrattenimento, alienandola dall’elemento serio e pericoloso della sua natura, sono di specie puramente «immoralistica e nichilistica». Nell’opzione etica di Schmitt per la guerra, in altre parole, traluce soltanto quel nichilismo divenuto attivo che era stato già profetizzato da Nietzsche, nel momento in cui aveva riconosciuto che l’uomo moderno, che non crede più a nulla e non sa più «perché» vivere, preferisce alla fine «volere il nulla al non volere». È la stessa forma di nichilismo attivistico che aveva trovato espressione nei primi scritti di Ernst Jünger. Ed è lo stesso «nichilismo della risolutezza» che, per Löwith, si lascia riconoscere alla base del decisionismo esistenziale di Heidegger. In tutti questi esponenti terminali della filosofia tedesca è un’analoga forma di nichilismo a spiegare, in ultima istanza, l’intima affinità spirituale nei confronti dell’atmosfera e della mentalità naziste38. A cospetto di questa risoluzione della teoria filosofica in un appello prassistico in favore di una mobilitazione politica totale, programmaticamente priva di fini e valori universali e per questo intrinsecamente nichilistica, Löwith si richiama al modello 37

Cfr. su questo M. De Carolis, Il rovescio della libertà, Quodlibet, Macerata 2017, pp. 99-104. 38 Scriverà Löwith: «lo spirito del nazionalsocialismo aveva a che fare non tanto con il nazionale e con il sociale, quanto piuttosto con quel radicale decisionismo e dinamismo che rifiutano qualsiasi discussione e intesa, perché contano unicamente ed esclusivamente su se stessi – sul poter-essere (tedesco) sempre proprio di ciascuno. Sono sempre espressioni di violenza quelle che definiscono il vocabolario della politica nazionalsocialista […]. I loro concetti e le loro parole sono l’espressione della dura e spietata risolutezza di una volontà che si afferma di fronte al nulla, di un esistere senza pace e senza gioia, orgoglioso del suo disprezzo per la felicità e per qualsiasi umanità» (K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, cit., pp. 60-61).

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classico di una theorìa filosofica, ancora capace di trascendere l’hic et nunc del momento storico, per operare una «meditazione sull’essenza permanente delle cose» e sui problemi naturali dell’essere-nellapolis. Ma come va inteso questo richiamo? Löwith osserva come la concezione schmittiana del “politico” come politicizzazione di ogni ambito della vita umana, rimuove i problemi normali della «politica», «posti dal caso normale della convivenza in una comunità pubblica»: ossia il problema dell’ordinamento interno della vita pubblica e il «problema del rapporto tra la polis e il singolo». Tuttavia, Löwith accenna allo stesso tempo al fatto che, se queste due questioni impegnano la riflessione filosofica sulla politica fin dall’antichità, nella modernità esse si ripresentano con un grado di radicalità inedito. Anche per questa ragione, quindi, nell’orizzonte moderno, una meditazione filosofica sulla politica non può esaurirsi in una mera riproposizione dei modelli classici della filosofia politica antica. Per Löwith, Schmitt coglie il fatto che la società moderna è caratterizzata da un processo di differenziazione, nel quale una bürgerliche Gesellschaft si autonomizza dallo Stato politico, facendo emergere un pluralismo sociale di legami e di associazioni, di interessi e di valori, che fluidificano appartenenze e identità sostanziali, e dischiudono irriducibili sfere di esercizio di libertà individuali. Schmitt non riesce a vedere, tuttavia, come questo stesso pluralismo sociale, e le soglie di libertà individuale che lo accompagna, una volta emerso, non si lascia più riassorbire nel quadro di un’unità politica monistica e totale. È quindi «il problema del rapporto tra polis e singolo», nella sua declinazione specificamente moderna, a costituire per Löwith il vero e proprio terreno di verifica ultimo del tratto ideologico della teoria politica di Schmitt. Nel testo in cui aveva delineato la sua concezione identitaria di democrazia di massa, fondata su una popolazione omogenea e guidata da un leader carismatico, Dottrina della Costituzione39, Schmitt aveva sviluppato una critica radicale alla concezione liberale dei diritti soggettivi. Egli aveva affermato che l’uguaglianza democratica non andava intesa, nel senso liberale, come un’uguaglianza impolitica 39 C. Schmitt, Dottrina della Costituzione (1928), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984.

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di tutti gli uomini dell’umanità sommata in termini individualistici, bensì come una sostanza concreta: l’appartenenza a una determinata razza comune, a credenze, a un destino comune e a una tradizione. Il corollario di questa idea dell’omogeneità del demos, quale base inaggirabile della democrazia di massa era, quindi, un netto ripudio della concezione liberale dei diritti soggettivi e umani. Questi ultimi venivano ridotti esclusivamente ad espressione della spoliticizzazione economico-liberale, nel senso di una minaccia arrecata alle possibilità politiche della comunità politica, e interpretati come il travestimento ideologico con cui le potenze occidentali possono arrogarsi il diritto di dominare le altre, conducendo guerre di espansione imperialistica, in nome della difesa dell’umanità. Da qui la sentenza: «chi dice umanità vuole trarre in inganno»40. Riferendosi a questa lettura dei diritti soggettivi e dei diritti umani, Löwith ribadisce come, in realtà, la distinzione moderna tra dimensione privata e dimensione pubblica dell’esistenza umana – nei termini definiti per la prima volta da Rousseau, tra homme-bourgeois e citoyen – lungi dall’essere riducibile ad una «contraddizione» tra società borghese e Stato che può essere superata in un’incondizionata cittadinanza statale – secondo il credo di tutte le dottrine totalitarie dello Stato – è una distinzione insopprimibile. Questa insopprimibilità, come affermerà Löwith in altri testi, è quanto affermano tutte le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, che riconoscono accanto ai diritti del cittadino uno spettro irriducibile di diritti dell’uomo in quanto uomo, che reclamano rispetto a prescindere dall’appartenenza di ciascun essere umano a quella che di volta in volta può essere intesa come una sostanza politica omogenea e determinata. E questo in ragione della naturale unità e eguaglianza di tutti gli esseri umani41. 40

Löwith si era misurato con un’analoga liquidazione dei diritti dell’uomo anche nello scambio epistolare con Leo Strauss. In una lettera datata 19 maggio 1933, Strauss aveva perentoriamente affermato che «solo partendo dai principi di destra, dai principi fascisti, autoritari, imperiali, è possibile protestare decorosamente contro la barbarie», non invece ricorrendo al «ridicolo e pietoso appello ai droits imprescriptibles de l’homme» (L. Strauss – K. Löwith, Oltre Itaca, cit., pp. 73-74). A questa affermazione, Löwith aveva risposto: «i diritti dell’uomo saranno anche diventati ridicoli, ma non lo sono»; «sto studiando Rousseau e ritengo che il suo sviluppo della contraddizione tra homme-bourgeois e citoyen sia più onesto e istruttivo di tutte le successive dottrine dogmatiche dello Stato messe insieme» (ivi, p. 79). 41 Cfr. su questo K Löwith, L’unità e la diversità degli uomini (1938), a cura di G. Fazio, «Micromega», 1, 2013, pp. 190-205.

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Löwith nota come la distinzione tra pubblico e privato, tra dimensione politica e impolitica della vita umana, si ripresenta nello stesso stato di eccezione della guerra, dove pure, secondo Schmitt, lo status politico dovrebbe «de facto imporsi su tutti gli obblighi ad esso subordinati». Anche nella guerra continuano a manifestarsi margini di riconoscimento reciproco, universalmente umani, che attraversano i confini imposti dai raggruppamenti amico-nemico, nonché margini di autonomia, di resistenza e di dissenso di ciascun individuo che, per quanto silenziosi, smentiscono la pretesa che sia possibile giungere ad un’integrale irreggimentazione della vita umana in un’identificazione politica totale. La forma di radicale contrapposizione cui perviene, in questi casi, il rapporto tra esistenza privata ed esistenza pubblica, tra homme e citoyen, dimostra che è essenzialmente impossibile risolvere una totalità nell’altra. «Proprio da tale incancellabile differenza fra due totalità egualmente originarie, nessuna delle quali può sussistere senza l’altra», discende «il problema naturale della politica, ossia quello dell’istituzione di un ordinamento comune, fondato sul rapporto tra unità politica e individualità personale»42. Problema che può essere risolto, quindi – suggerisce implicitamente Löwith –, soltanto ancorando la base di legittimità dell’ordinamento politico su un vincolo capace di riconoscere l’autonomia di ogni individuo, piuttosto che escluderla come semplice residuo borghese, e di accogliere il pluralismo all’interno dell’unità politica, piuttosto che espellerlo verso l’esterno. Tutto ciò rimanda all’istituzionalizzazione di forme di protezione legale dei diritti umani fondamentali e di meccanismi di discussione pubblica. In Da Hegel a Nietzsche, Löwith ribadirà come la «peculiare debolezza» degli Stati democratici moderni, di contro alla apparente compattezza degli Stati totalitari, nasce dal fatto che essi riconoscono, per lo meno in termini di principio, l’irresolubile tensione tra i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino43. Ogni volta che, invece, il principio democratico di sovranità popolare è affermato a scapito dei diritti umani, esso muta fisionomia, divenendo veicolo di nuovi meccanismi di esclusione e di discriminazione, di violazione della dignità umana. Esattamente ciò che si annunciava già nella concezione 42 43

Cfr. supra, p. 190. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, cit., p. 161.

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identitaria di una democrazia di massa fondata su una popolazione omogenea, ancor prima che Schmitt individuasse, occasionalisticamente, il contenuto concreto di questa omogeneità politica tedesca nelle caratteristiche razziali di un popolo, “ariano” solo in quanto anti-semita.

Jacob Taubes Il Leviatano come Dio mortale Lettera a Carl Schmitt A cura di Elettra Stimilli

Il saggio di Taubes Leviathan als sterblicher Gott. Zur Aktualität von Thomas Hobbes è stato pubblicato per la prima volta in Religionstheorie und Politische Theologie, a cura di J. Taubes, vol. I: Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, Fink, MünchenPadrerborn-Wien-Zürich 1983, pp. 9-15. La lettera di Taubes a Schmitt del 18/09/1978 è stata inizialmente pubblicata in Germania nel volumetto composto in vita dallo stesso Taubes, ma erroneamente datata 1979: cfr. J. Taubes, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, Merve Verlag, Berlin 1987, pp. 39-44; tr. it. di G. Scotto e E. Stimilli, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996, pp. 49-54. Entrambi i testi compaiono ora tra i materiali compresi nell’intero epistolario TaubesSchmitt: cfr. Jacob Taubes - Carl Schmitt. Briefwechsel, Hrsg. H. Kopp-Oberstebrink, T. Palzhoff, M. Treml, W. Fink, München 2012, pp. 58-66 e 228-237; tr. it. di G. Gurisatti, Ai lati opposti delle barricate. Corrispondenza e scritti 1948-1987, a cura di H. KoppOberstebrink, T. Palzhoff, M. Treml, ed. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2018, pp. 66-69 e 195-205. Quella pubblicata in questo volume è una nuova traduzione.

Il Leviatano come Dio mortale L’attualità di Thomas Hobbes

Gli eventi della politica mondiale hanno ridestato nella coscienza pubblica il significato politico della “teocrazia”. Un pezzo di storia che fin dall’Illuminismo avevamo archiviato ci afferra di nuovo. Quanto era considerato “superato”, parla con rinnovata potenza. Il conflitto tra Illuminismo e potere teocratico della Chiesa non è affatto risolto. Al fine di cogliere la situazione spirituale del nostro tempo, occorre quindi imparare a comprendere le fonti del conflitto tra Illuminismo e ortodossia. Questo è il motivo per cui oggi ritorno ancora a Hobbes. Morto da tre secoli, Thomas Hobbes rappresenta la guida per decifrare il problema di qualsiasi teologia politica. Trecento anni dopo la sua morte Thomas Hobbes è per la filosofia un enigma più grande di quanto avrebbe potuto esserlo per i suoi contemporanei – come per esempio, l’universalmente colto Leibniz, l’illuminato Descartes, il dotto Gassendi – o anche per tutta la schiera litigiosa di apologeti e critici fino al tardo XIX secolo. Non c’è stato bisogno però di attendere il panorama politico dei tempi più recenti per screditare l’autore del Leviatano con l’addebito di intrighi totalitari. Questa accusa è antica e appartiene al destino di un uomo che – secondo una formula di Carl Schmitt – voleva così tanto la pace che ha concesso qualsiasi cosa allo Stato. È tuttavia lo sviluppo storico di questo stesso Stato, dal potere assoluto allo Stato costituzionale democratico, ad avere introdotto nelle dottrine di Hobbes curiose aporie. Sul piano politico, la filosofia di Hobbes si è venuta sviluppando sullo sfondo delle costellazioni politiche del XVII secolo. Essa è innanzitutto l’immediato riflesso delle guerre civili confessionali divampate da una parte e dall’altra della Manica. Le premesse da cui muove sono, da un lato, lo specchio delle esperienze di violenza e

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terrore, dall’altro lato, sono intensificate dal diritto di natura. L’essere umano, poiché vive in una condizione non pacificata, persegue la propria autoconservazione in modo spietato e a spese del suo prossimo. Nel De Homine e nel De Cive, Hobbes ha posto i fondamenti antropologici sui quali è stato costruito il Leviatano. Da questa visione pessimistica, che non ha quasi nulla in comune con la solarità del “Siècle des lumières”, discende una costruzione in tutto e per tutto artificiale – nello spirito di un Illuminismo che per prima cosa aveva insegnato la dimestichezza con i corpi celesti, poi la fisica della terra e infine le condizioni tecniche della societas civilis. Lo Stato, che detiene il monopolio della forza verso l’esterno e verso l’interno, garantisce protezione ai suoi cittadini, assicura la pace e sorveglia sulle forme di culto, è definito da Hobbes una machina machinarum [grande macchina]. Appartiene all’aura dell’artificio il fatto che lo Stato di Hobbes sia il risultato di un contratto sociale. La ragione ha causato il fatto che gli uomini, stanchi della guerra di tutti contro tutti, rimettano al potere del sovrano la loro tendenza naturale all’autoconservazione. Questo sovrano è decorato con l’immagine mitica del Leviatano. Il Leviatano è la risposta politica a una sfida politica determinata, documentabile storicamente. Quando uscì in lingua inglese nel 1651, tre anni dopo la conclusione della Guerra dei Trent’anni, il suo autore sapeva di doversi aspettare persecuzione e arresto. Nessuno dei partiti di allora comprese i segni che promanavano da questo libro e che erano simboleggiati nell’incisione sul frontespizio, un capolavoro di raffigurazione barocca. Il grande uomo fatto di tantissimi piccoli uomini, che governa sulla città, difendendola con spada e pastorale, non è altro, però, che la metafora di uno Stato che amministra politica e teologia. La rivolta contro le pretese della Chiesa papale romana in lotta con gli Stati è perciò inevitabile. Hobbes le ha dato un linguaggio chiaro soltanto nel Leviatano, mentre nel capitolo conclusivo del De Cive, tematicamente affine, essa è ancora camuffata. Comunque sia, dal momento che lo Stato dispone dell’attività religiosa esterna, esso impedisce la guerra di religione. In quanto Stato, esso è nel contempo la comunità cristiana, e l’unica nel suo territorio. E tuttavia la pretesa del Leviatano non è soltanto pratica. Con la sua dottrina, infatti, Hobbes mira allo Stato ideale, lontano da ogni contingenza storica, più vicino all’eredità di Platone che a quella di Ugo Grozio.

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Contrariamente a tutti gli indizi e a tutte le dichiarazioni cristiane del suo autore, il Leviatano sembra sottrarsi improvvisamente a tutte le classificazioni storiche. Quando parla della nascita dello Stato, Hobbes ha davanti agli occhi l’inizio mitico che precede ogni storia, più che la genesi del moderno Stato territoriale a partire dal Rinascimento e dalla Riforma. Così come la religione appartiene alla natura umana, allo stesso modo appartiene alla natura dello Stato mettere su una via sicura il legame con il divino. Tuttavia, il terreno che deve assicurare al Leviatano una durata senza tempo non è altro che la comprensione della natura umana. Ad essa è legato l’energico rifiuto della divisione dei poteri e la lotta contro il diritto di resistenza. Mentre Montesquieu proclama la prima e Kant giustifica il secondo, e mentre gli Stati compiono il loro sviluppo, il Leviatano getta un’ombra misteriosa. Esso è la profezia dello Stato industriale secolarizzato? Esso è l’ammonimento profetico dinanzi al terrore delle coscienze proprio delle rivoluzioni moderne? – Thomas Hobbes è morto il 4 dicembre 1679, all’età di novantuno anni. La sua tesi, sostenuta per allusioni, proprio come chi per un attimo apre la finestra, ma subito la richiude per paura della tempesta, rimanda a qualcosa di più che a una vita movimentata in un tempo movimentato. Il XVII secolo è il primo periodo della storia moderna in cui si vede la terraferma. Nelle costellazioni di questo secolo riconosciamo noi stessi e i nostri problemi. Hobbes ha vissuto questo periodo con consapevolezza e riflessione. Le divisioni tra i partiti della guerra civile confessionale, cui per una vita intera ha tentato di sottrarsi, erano abbastanza pericolose da minacciarlo. La maggior parte dei suoi contemporanei era contagiata dallo spirito della guerra civile e a causa sua è andata in rovina. Egli fa parte di quel ristretto numero di persone che imparò a guardare i partiti allo stesso tempo dall’interno e dall’esterno. Per questo è stato capace di lasciare in sospeso la decisione per un regime o per l’altro, fino al momento in cui il suo spirito non ha preso forma e i suoi pensieri non si sono condensati in opere. Hobbes appartiene a quegli spiriti audaci agli albori della modernità che non arretrano di fronte alle conseguenze del loro pensiero e osano una logica degli estremi. Anche se questa sua logica degli estremi lo conduce di fronte all’abisso, egli affascina per il chiaro svolgimento dei suoi pensieri. Per questa ragione ritorno sempre a Hobbes, anche se con riluttanza.

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«Hobbes» – così comincia l’importante libro di Carl Schmitt sul Leviatano: è stato reso più famoso e più famigerato dal Leviatano che da tutto il resto della sua opera. Secondo una sommaria vulgata egli non è complessivamente nient’altro che un “profeta del Leviatano”. Se Hegel poteva affermare che il libro intitolato al Leviatano era «un’opera malfamata», proprio il nome ha certamente contribuito a questa fama. Nominare il Leviatano, infatti, non ha il semplice valore di illustrare un pensiero […]; piuttosto, col Leviatano si evoca un simbolo mitico, pieno di reconditi significati1.

Nel libro di Giobbe – capitolo 41, versetto 24 – si dice del Leviatano: «Nessun potere sulla terra può essere paragonato al suo». Hobbes ha fatto di questa frase il motto del suo libro. Alla fine della vita, quando ha descritto la storia della guerra civile inglese, è tornato di nuovo su questo capitolo di Giobbe. Leviatano e Behemoth sono i punti focali della sua ellissi. Il Leviatano è l’unico correttivo di Behemoth. Lo Stato è il primo dei mostri, la rivoluzione è l’altro. Simboli mitici Sorprende quanto raramente gli interpreti e gli esegeti di Hobbes si siano rifatti a quel capitolo del libro di Giobbe da cui è preso il titolo mitico della sua opera. Le bestie mitiche dell’abisso, siano queste terrestri o marine, appaiono nella tempesta, quando Dio risponde a Giobbe. La risposta di Dio alla protesta di Giobbe, che priva l’uomo Giobbe anche di ogni risposta, è l’Alpha della teo-logica di Hobbes. La potentia absoluta della volontà divina tardomedievale, che traspare dalla sua dottrina della sovranità assoluta di Dio, è per Hobbes prefigurata nel Dio di Giobbe. Dall’arsenale del suo discorso hanno origine i due animali mitici dell’abisso, attraverso i quali Hobbes caratterizza i due poli del comportamento umano. Mi sembrerebbe avventato voler ricostruire, anche solo in modo rozzo e abbozzato, un sistema della sua dottrina. I tentativi di espor1

C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico (1938), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano 1986, p. 65.

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re in forma sistematica il pensiero di Hobbes da parte di scribani filosofici fanno sobbalzare. Essi sono in contrasto tra loro e ogni tentativo di sintesi o di armonizzazione è votato al fallimento. Nessuno dei gettoni correnti che la sistematica filosofica ha da offrire, nessuno degli “ismi” di cui si è fatto uso, può servire come chiave per scardinare la serratura della sua opera. Carl Schmitt è stato il primo che si è lasciato alle spalle l’infinita e inutile discussione “filosofica” su Hobbes, ricordandosi della citazione mitica del titolo della sua opera principale. Quattro decenni fa egli ha conferito un senso al nome dell’opera principale, sapendo che un nome non è una parola vuota. Muovendo da questo nome Carl Schmitt ha tentato di sviluppare le intenzioni profonde dell’opera di Hobbes. Questo salto di tigre nel XVII secolo è riuscito così bene grazie alla profonda affinità elettiva che lega Schmitt al grande inglese. Il fatto che l’interpretazione di Carl Schmitt porti i segni spaventosi del suo tempo appartiene al destino – anche a quello dell’autore del Leviatano. L’intervento di Carl Schmitt rimane incontestato perché ha fatto rinvio all’incisione sul frontespizio che accompagna la prima edizione inglese del Leviatano. Insieme al titolo Leviatano e al motto dal libro di Giobbe – non est potestas super terram quae conparetur [non c’è potere sulla terra a lui paragonabile] – l’emblema dell’incisione sul frontespizio assicura all’opera di Hobbes, già al primo sguardo, un’impressione del tutto insolita. Di più, conduce al centro dell’esegesi: Un grande uomo di forme gigantesche, composto dall’unione di innumerevoli piccoli uomini, con la mano destra impugna una spada e con la sinistra un pastorale, in gesto protettivo, sopra una città pacifica. Sotto ciascun braccio, sia quello temporale sia quello spirituale, si trova una serie di cinque illustrazioni: sotto la spada, una roccaforte, una corona, un cannone, e poi armi, lance e bandiere, e infine una battaglia; corrispondenti e paralleli a questi, sotto il braccio spirituale, una chiesa, una mitria pastorale, le folgori della scomunica, acuminate sottigliezze, sillogismi e dilemmi, e infine un concilio. Queste immagini rappresentano i tipici strumenti di potere e di lotta dei conflitti temporali e spirituali. La lotta politica, con la sua incessante e inevitabile contrapposizione amico-nemico, che pervade tutti gli ambiti dell’attività umana, produce armi specifiche da entrambe le parti. Alle fortezze e ai cannoni corrispondono, dall’altra parte, istituzioni e metodi di tipo intellettuale, la cui efficacia polemica non è inferiore2. 2

Ivi, p. 73.

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Magnus Homo È stupefacente che, tanto nel titolo quanto nei testi illustrativi di Hobbes, il Leviatano appaia sotto le sembianze di un uomo. Ci saremmo aspettati che il Leviatano fosse raffigurato come un mostro marino, un animale degli abissi marini che traduce le frasi del libro di Giobbe in un simbolo emblematico. Il Leviatano appare tuttavia sotto l’emblema di un maestoso grande uomo. Anche nel testo di Hobbes si parla nel contempo di magnus homo e magnus Leviathan. I due nomi sono intercambiabili. Per questo occorre una spiegazione. Il “grande uomo” non è per Hobbes un essere naturale. Viene introdotto subito all’inizio dell’opera come un ente “sovrannaturale”. Sovrannaturale in quanto “artificiale”. Il Leviatano viene presentato da Hobbes come animal artificiale. Chi è dunque questo homo magnus artificiale, soprannominato Leviatano? Nel secondo libro, il De civitate, al capitolo 17, c’è un rimando a quanto, mi pare, fornisce la chiave per aprire la porta di quest’opera intricata. In questo capitolo Hobbes ricostruisce la nascita dello Stato. Lo Stato supera lo stato di natura, dominato dalla guerra di tutti contro tutti. Attraverso un contratto virtuale di ciascuno con ogni altro emerge una persona rappresentativa o un corpo, che da parte sua trasforma la moltitudine che conclude il contratto in una persona unitaria: lo Stato. In questo è racchiuso, dice Hobbes, il mistero della nascita dello Stato. La frase decisiva sul tema della nascita dello Stato è la seguente: «Questa è la generazione del grande Leviatano o piuttosto (per parlare in maniera più riverente) di quel Dio mortale a cui dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa»3. Hobbes prosegue e giustifica la sua tesi centrale in questo modo: Infatti, con l’autorità che gli è stata data da ogni singolo uomo nello Stato, egli detiene l’uso di tutto il potere e di tutta la forza che gli sono stati conferiti, tanto che, con il terrore suscitato da queste cose, è in grado di conformare la volontà di tutti alla pace in patria e all’aiuto reciproco contro i nemici all’estero. E consiste in lui l’essenza dello Stato…4

3 4

T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2004, p. 283. Ibid.

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Non posso credere che in questo punto, che definisce il centro della sua dottrina, Hobbes introduca la figura del Leviatano en passant, quasi che si tratti – come afferma Schmitt – di un’«idea letteraria e semi-ironica, generata dal buon “humour” inglese»5. La frase, dura e tagliente, è provocatoria e ricorda, nel modo in cui essa determina la posizione del Leviatano, il teologumeno scolastico sull’uomo in quanto secundus deus. Se si ha presente l’emblema del Leviatano che Hobbes ha aggiunto alla sua opera, allora in questo passo risulta evidente quale sia il confronto in questione: quello tra il Leviatano come [un] Dio mortale e Cristo come Dio mortale. Basta solo scambiare spada e pastorale del magnus homo, ossia mettergli il pastorale alla destra e la spada alla sinistra, per guadagnare una perfetta simbolizzazione della dottrina teocratico-medievale della societas christiana in quanto Corpus unico, il cui capo è Cristo, che domina entrambi i poteri, spirituale e mondano. Questo riferimento iconologico, che l’illustre canonista Hans Barion, nella recensione di un libro sul problema del potere papale nel Medioevo, colloca al margine, quasi fosse un’osservazione di dettaglio, illumina come un lampo il panorama nel quale si sviluppa la scena del Leviatano. Da qui risulta chiaro come la lotta per la teocrazia agognata dalla Chiesa romana papale, che Hobbes descrive come “regno dell’oscurità”, costituisca il vero significato della sua teoria politica. Con riferimento a questo punto è possibile misurare anche il grado di decadimento di tutte le interpretazioni accademiche correnti, o meglio di tutte le interpretazioni puramente teoricopolitiche. In alcune attuali edizioni del Leviatano, introdotte da rinomati politologi e storici della filosofia, questa quarta parte viene addirittura definita interessante “soltanto” dal punto di vista storico. Questi scrittori di politica e di storia della filosofia apprendono solo ora, forse, dai recenti eventi nei paesi islamici e in Israele, che la teocrazia, in quanto utopicum, si annida sempre in forma latente nelle religioni rivelate, così che quella quarta parte del Leviatano acquista un’impensata attualità per comprendere l’ABC di ogni politica post Christum natum. In quest’epoca il tema della politica è Matter, Form 5 C. Schmitt, Lo Stato come meccanismo in Hobbes e in Cartesio (1936-37), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, cit., p. 51.

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and Power of a Common Wealth, Ecclesiastical and Civil, come recita il sottotitolo del Leviatano, che stabilisce il tema dell’opera, ossia la linea di separazione tra potere spirituale e temporale, e nient’altro. La differenziazione e la divisione tra spirituale e temporale, che all’inizio erano state escogitate da parte papale come arma nella lotta per le investiture, sono divenute nel frattempo il segno dell’autocomprensione dell’Occidente. Attraverso questa differenziazione è stato liberato il saeculum e, per la prima volta, l’ordine politico è stato immesso sui suoi propri binari come potere autonomo. Thomas Hobbes ha riconosciuto il senso puramente politico di ogni pretesa spirituale di decisione. Il potere spirituale non è meno politico di quello temporale. Per questa ragione anch’esso deve passare attraverso la porta stretta della sanzione sovrana. Con piglio sicuro Hobbes ha sollevato formalmente la questione della sanzione. Egli non ha estromesso dalla discussione l’aut-aut in cui consiste la decisione sovrana – avvenga poi questa con pretesa spirituale o temporale. L’arco si estende dal Dictatus papae di Gregorio VII e dalla bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII fino al Leviatano di Thomas Hobbes. Hobbes rovescia l’ordine e procede a tracciare un nuovo confine tra spirituale e profano. Nella storia dell’Occidente sono labili i confini tra potere spirituale e potere temporale. E anche se in Hobbes il potere spirituale, contro le reciproche pretese da un lato della Chiesa papale e dall’altro dei Presbiteriani e degli indipendentisti puritani di Inghilterra, diventa virtualmente un utopicum, avvicinandosi asintoticamente al punto zero, rimane confermato anche per lui che senza questa linea di confine il Cesarismo pagano ci soprassalirebbe. Il sottotitolo del Leviatano non è scelto a caso: abbraccia il tema intero del libro. Attacchi Non è un caso che, nel nostro tempo, uno degli attacchi più radicali contro Hobbes sia provenuto da un allievo di Karl Barth. Nel 1963 Dietrich Braun ha pubblicato il primo volume della sua Dissertazione di Basilea con il titolo Il Dio mortale, o Leviatano contro Behemoth. Già solo il titolo definisce nitidamente i fronti e traccia i confini allo stesso modo in cui li aveva tracciati Hobbes. L’autore propone – così il sottotitolo del suo scritto – considerazioni sul luogo,

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il significato e la funzione della dottrina del potere regale di Cristo nel Leviatano di Thomas Hobbes. Come è noto, la teologia dialettica di Karl Barth e del suo allievo ha un rapporto molto ambivalente con la politica. Non può stupire, quindi, che questa scuola abbia scoperto in Hobbes l’Anticristo che si infiltra in modo sovversivo nel campo teologico. Giacché una cosa è che, a partire da Agostino, i teologi cristiani espongano lo “Stato divino” a condizione che altri – cioè i pagani – si preoccupino degli affari politici. Altra cosa è quando si deve edificare lo Stato umano dei cristiani che si comprendono come “popolo di Dio peregrinante”. Oggi la supplica di Agostino si perpetua attraverso teologi cristiani, che ormai soltanto con questa supplica credono di liquidare il problema di una teologia politica. Ma essi dimenticano o tacciono il fatto che loro stessi, in quanto cittadini terreni, hanno una responsabilità nella città degli uomini e non possono sottrarsi alle domande che Hobbes ha posto loro. Ci si deve liberare dalle costrizioni del nostro presente e sottrarsi ai trabocchetti tesi dagli schemi della teoria politica: assolutista, totalitario, fascista, liberale, etc. Si deve evitare ogni attualizzazione troppo frettolosa, per porsi al centro della Cristo-logica del Leviatano di Thomas Hobbes. Con intenti elevati Rousseau ha denominato una volta Hobbes “un auteur chrétien”6 [uno scrittore cristiano]. Cristiana è la sua dottrina dello stato di natura, che io piuttosto definirei dottrina dello stato di natura dell’uomo. In quanto tale è più a casa nella teologia cristiana che nella filosofia politica. Lo stato di natura (state of nature) venne differenziato, in una prospettiva teologica, dallo stato di grazia (state of grace). Hobbes secolarizza i teologumeni fondamentali del cristianesimo. In quanto li secolarizza, però, li conserva. Quando Hobbes descrive la nascita dello Stato come trasfigurazione dell’uomo dallo stato creaturale, naturale e privo di grazia, allo stato civile “di grazia”, che assicura la pace, questo avviene nella prospettiva di quel “Cesare con l’anima di Cristo”, di cui Nietzsche parla in uno dei suoi attimi di maggiore illuminazione. Lo stato di natura dell’uomo drammatizza la guerra civile universale: il diritto di natura sta contro il diritto di natura e, di conseguenza, il soggetto di diritto contro il soggetto di diritto, l’uomo-lupo 6 Cfr. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), trad. it di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1966, p. 175.

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contro l’uomo-lupo. È nel momento in cui l’uomo-lupo si assoggetta al Leviatano che l’uomo si fa uomo. La ragione è il sommo di questa trasfigurazione. Il farsi uomo – dell’uomo – sotto il segno del Leviatano, in Hobbes, sta sullo stesso piano del farsi uomo di Dio in Cristo. Non sorprende quindi che la frase fondamentale di Hobbes nel Leviatano, ripetuta più di quaranta volte, sia la seguente: that Jesus is the Christ. Nella linea di fuga dischiusa da questa prospettiva si possono riconoscere più chiaramente i tratti della sua dottrina. Ciò che Hobbes descrive è il farsi uomo dell’uomo al cospetto del “Dio mortale” che si manifesta: il Leviatano – Cristo. Questa dottrina era (e rimane) un boccone teologico e filosofico troppo difficile da ingoiare per la società borghese. È riuscita a ingoiarlo solo quando le è stato servito “a rate” da Hegel. Giacché Hegel, nelle sue Lezioni di filosofia del diritto, con candore quasi piccolo-borghese, non descrive nient’altro che il divenire-uomo dell’uomo di fronte al divenire-uomo di Dio, che si dispiega in epoche. La dottrina di Hobbes è entrata nel programma hegeliano dello spirito del mondo e dello Stato, in quanto «Dio che si manifesta»: ossia nella comoda forma di una filosofia della storia. [Traduzione di Elettra Stimilli]

Lettera a Carl Schmitt

Maison des Sciences de l’homme Parigi, 18 settembre 1978 Egregio Signor Schmitt, mi permetta di ringraziarLa di nuovo per la sua accoglienza cordiale, anzi amichevole, per la pazienza e per la franchezza con cui mi ha parlato anche dei passi falsi nella Sua lunga vita di giurista. Anche nei Suoi passi falsi, se mi è permesso variare una frase che mi è rimasta nell’orecchio dai tempi in cui ero studente, “un incomparabile maestro politico”1. Proprio in quanto arci-ebreo [Erzjude], so trattenermi dal pronunciare una condanna. Perché in tutto l’indicibile orrore, almeno una cosa ci è stata risparmiata. Non avevamo scelta: Hitler ci aveva eletti a nemico assoluto. Ma dove non esiste scelta, non c’è neppure giudizio – tanto meno sugli altri. Questo non significa che io non mi senta assillato dal dover capire ciò che è “propriamente” accaduto (non in senso storico, ma nel senso escatologico del caso di emergenza), in che punto si è imboccato il binario che ha portato alla catastrofe (la nostra e la Sua). E questo ci porta al tema della teologia politica, all’“attacco da Parto” di Peterson2. 1

Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico (1938), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, a cura di C. Galli, Giuffré, Milano 1986, p. 132. 2 Taubes si riferisce al saggio di E. Peterson, Il monoteismo come problema politico (1935), trad. it. di H. Ulianich, Queriniana, Brescia 1983. È questo il testo in cui Peterson, contro lo scritto schmittiano del 1922, nega la possibilità di ogni teologia politica. In risposta a questa critica Schmitt torna sul tema in uno scritto in cui cita il saggio di Hans Barion dove si trova l’espressione “attacco da Parto” utilizzata anche da Taubes in riferimento a Peterson: cfr. C. Schmitt, Teologia Politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1992, p. 4.

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Il lavoro onesto e accurato dello heidelberghese3, come Le avevo accennato, ha reso il problema soltanto piú chiaro. L’essenziale si trova già nella Teologia politica II, certo come critica a Peterson – senza notare, però, che le debolezze di Peterson sono la sua forza, la sua attualità (nel 1935). Dedicato a Sant’Agostino, introdotto da una preghiera a questo Padre della Chiesa perché rimanga accanto a noi, anche nel presente, in una “svolta dei tempi” (cito a memoria), chiuso con un accenno alla Teologia politica di Carl Schmitt – con un ultimo (sic) rimando, esiliato in nota, sull’impossibilità teologica di una teologia politica… questa che al tempo stesso è un’introduzione (Einleitung) e un estratto (Ausleitung) assolutamente unico nel suo genere era (ed è) rivolto esclusivamente a Lei. In un maestro di stile dell’importanza di Peterson non ha valore (solo) ciò che egli ripete spesso – ciò che dunque anche un computer potrebbe (e dovrebbe) elaborare – ma bisogna cogliere soprattutto quello che è unico, quello che viene presentato fulmineamente, bisogna prestare attenzione al suo “salto” (da Eusebio ad Agostino). Come se il “professor” Erik Peterson non lo avesse “notato” da solo e non avesse potuto, volendo, preparare il suo lavoro “come si deve” dal punto di vista accademico! È unica – l’ha scoperto Lei – l’espressione “guida” (Führer), così come unico è il riferimento all’”ideologia cristiana” per il Theologoumenon di Eusebio. Sorprendente anche l’accenno a Civitas Dei III, 30, che non offre nulla dal punto di vista “storico”, ma che, nel 1935, era di bruciante attualità: caecus atque improvidus futurorum, un monito cifrato, rivolto a Lei – e che non la raggiunge. Lei non ha avuto un amico migliore di Peterson, che Lei ha anche avviato sulla via della Ecclesia. «Sono leali le ferite inflitte dalla freccia di un amico» (in ebraico: ne`emanim pizei ohew) dice il salmista da qualche parte (qui alla Maison non c’è una Bibbia a portata di mano)4. Quella di Peterson non è una “freccia del Parto”, ma una freccia del cristiano Peterson. Anche se non prendo in alcun modo alla leggera il fatto che il programma nazista parlava di “cristianesimo positivo”, e che sia da parte cattolica che da parte protestante queste parole sono state prese 3 Si tratta del libro a cura di A. Schindler, Monotheismus als politisches Problem? Erik Peterson un die Kritik der politischen Theologie, Gerd Mohn, Gütersloh 1978, nato dal lavoro dell’Evangelisch-theologischen Seminar dell’Università di Heidelberg. 4 Il passo biblico si trova in realtà in Proverbi 27, 6.

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“sul serio” (si è potuto ma si è voluto anche prenderle sul serio: Hitler e Goebbels non si erano mai allontanati dalla “Chiesa” – cioè, se intendo bene, non hanno mai smesso di pagare la “tassa a favore della Chiesa”, fino all’ultimo!), con la “questione della razza”, però, è stata introdotta e annunciata a suon di campana una “teo-zoologia” politica (l’espressione non è mia, ma di Liebenfels, che la intende “in senso positivo” e la passa a Hitler)5, che avrebbe dovuto mettere in guardia. O no? Non riesco a sentirlo dall’interno della Chiesa…voglio soltanto riuscire a “comprendere” perché qui non si sono colti i limiti, nonostante Rom. 13. Cerco di farmi strada nella nuova letteratura su Hobbes, per senso del dovere, e non finisco mai di stupirmi di quanto poco essa abbia compreso i testi che legge – eppure Hobbes, nelle immagini e nelle parole, non mancava certo di chiarezza sul fatto che il Leviatano parli del rapporto del “commonwealth”, in primo luogo “ecclesiastical”, e poi “civil”. Allora devo tornare al suo libriccino, ormai vecchio di quarant’anni (sic), sul simbolo del Leviatano6, e non posso evitare di avere pensieri tristi sul progresso nella scienza. Mi chiedo se non si debba leggere Hobbes ancor più à la lettre di quanto non suggerisca Lei. Perché il Leviatano dovrebbe essere considerato solo una “invenzione letteraria”? Hobbes è mortalmente serio quando parla del “great Leviathan” come del “mortal God” a cui – e questo è il punto decisivo – “under the immortal God” dobbiamo “peace and defence”. Per questo anche “that Jesus is the Christ” non è una vuota formula, ma una frase che ritorna continuamente. Per questo la macchina dello Stato non è un perpetuum mobile, un regno millenario, sine fine, bensì è mortale, ovvero un fragile equilibrio tra un dentro e un fuori, mortale e dunque sempre fallibile. Non è stato il “primo ebreo liberale”7 a scoprire quel “punto di frattura”, ma l’apostolo Paolo (pure “stimato” moltissimo dal “primo ebreo liberale”). Paolo, a cui io mi volgo nelle svolte epocali, distingueva, anche per il “politico”, tra un dentro e un fuori. Senza questa distinzione 5 Cfr. J. L. v. Liebenfels, Theozoologie oder die Kunde von den Sodoms-Äffligen und dem Götter-Elektron. Eine Einfürung in die älteste und neueste Weltanschauung und eine Rechtfertigung des Fürstentums und des Adels, Moderner Verlag, Wien/Leipzig/Budapest 1905. 6 Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, cit. 7 Il riferimento è a Spinoza, cfr. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, cit., p. 106.

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siamo abbandonati alla mercé dei troni e dei poteri costituiti, che in un cosmo “monistico” non conoscono più un al di là. La delimitazione tra spirituale e mondano può risultare controversa, e va tracciata ogni volta di nuovo (un’attività perpetua della teologia politica), ma se questa separazione non ha luogo, viene a mancare il respiro (occidentale), a noi come a Thomas Hobbes, che, come sempre distingue tra “power ecclesiastical and civil”. Il Suo riferimento all’accenno di Barion nella rivista di Savigny rende superflue intere biblioteche di “letteratura” su Hobbes8. Sto per andare a Zurigo, dove mi sarà più facile trovare il materiale (qui non riesco a scovare né Barion né Kempf) e, a partire da tale riferimento (che oltrepassa in acume anche il Suo libriccino su Hobbes), intendo svolgere il corso su Hobbes e Spinoza – per studenti che, se va bene, hanno come manuale lo Strauss9, nel caso peggiore il Macpherson10. Questo corso è un’impresa rischiosa nell’atmosfera marxistoide e, con l’indicazione “solo per studenti avanzati”, si distacca volutamente dall’offerta media del nostro Istituto al mercato degli studenti di filosofia. Il corso verrà tenuto probabilmente a porte chiuse, cosa che può andare solo a suo vantaggio. Stia certo: non jam frustra doces, Carl Schmitt, anche per i passi falsi e gli errori (persino nei confronti del povero Julius Stahl11 – che 8 Taubes si riferisce al saggio di Schmitt Il compimento della Riforma. Osservazioni e cenni su alcune nuove interpretazioni del Leviatano (1965), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 159-190). Qui Schmitt fa esplicito riferimento alla recensione di H. Barion al saggio di F. Kemps S. J., pubblicata nella «Savigny Zeitschrift». In essa, come fa notare Carl Schmitt, Hans Barion, teologo cattolico e studioso di diritto canonico, accenna brevemente a Giovanni di Salisbury e, contrapponendolo a Hobbes, problematizza l’antitesi storica tra potere spirituale e potere temporale. 9 Le opere di Leo Strauss a cui Taubes fa riferimento sono: Diritto naturale e storia (1953) e la Critica della religione in Spinoza (1930). 10 Si tratta del libro di Crawford B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke (1962), trad. it. di S. Borutti, pref. di A. Negri, Mondadori, Milano 1982. 11 Friedrich Julius Stahl (München 1802 – Bad Brückenau 1861), giurista e pensatore politico, fu professore di diritto pubblico a Erlangen, a Würzburg, quindi, dal 1840, a Berlino. La sua opera principale è Die Philosophie des Rechts nach geschichtlicher Ansicht (1830-37). Il suo pensiero esercitò grande influenza sul re di Prussia e sulla chiesa luterana, dando veste teorica allo spirito del conservatorismo monarchico della Prussia dell’epoca. Di origini ebraiche, Stahl si convertì alla chiesa evangelica luterana. Fu aspramente criticato da Schmitt che scrive di lui: «Ammantato di molte belle parole, come “Stato cristiano” e “legittimità” controrivoluzionaria, il filofoso ebreo prosegue con istintiva sicurezza e con

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in cuor mio credo “se lo meriti”!). Forse verrà davvero il momento in cui potremo parlare della teologia politica della Lettera ai Romani IX-XI, che io ritengo la più importante sia dal punto di vista ebraico, che da quello cristiano12. Qui ricorre anche la parola “nemico” e, in senso assoluto, ma – e questo mi smebra il punto massimamente decisivo – puntellata da “amato”. Che, nel 1935 (come del resto anche nel 1978), toccasse a questi capitoli, Peterson – (dall’esterno) il Suo critico e (dall’interno) il Suo migliore amico – lo sapeva, e questo lo distingue dagli esistenzialismi del più importante esegeta neotestamentario suo contemporaneo, Rudolf Bultmann. Passando attraverso Peterson ancora molti troveranno, dovranno trovare la strada per Plettenberg. La saluta amichevolmente il suo Jacob Taubes [Traduzione di Elettra Stimilli]

chiarezza di fini, la linea che va da Spinoza a Moses Mendelssohn». Richiamando il suo nome ebraico, poco dopo continua: «Stahl-Jolson è l’esponente più audace di questo fronte ebraico, poiché si infiltra dentro lo Stato prussiano e dentro la Chiesa evangelica. Il sacramento cristiano del battesimo […] gli serve […] come permesso d’entrata nel santuario di uno Stato tedesco ancora ben solido» (cfr. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello stato di Thomas Hobbes, cit., pp. 118-119.) 12 Questa discussione è avvenuta nel 1984, pochi mesi prima della morte di Carl Schmitt. Taubes ha trattato della Lettera ai Romani IX-XI in quattro conferenze da lui tenute ad Heidelberg poco prima di morire. Ora in J. Taubes, La teologia politica di San Paolo. Lezioni tenute dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg, trad. it. di P. del Santo, a cura di A. e J. Assmann, Adelphi, Milano 1997.

L’enigma del Leviatano e “il primo ebreo liberale” Carl Schmitt e Jacob Taubes a confronto su Hobbes Elettra Stimilli

La storia del rapporto tra il giurista teorico del nazionalsocialismo Carl Schmitt e il rabbino Jacob Taubes è ormai nota grazie al racconto che quest’ultimo ha reso pubblico poco prima di morire1, ma anche grazie ai riferimenti all’opera schmittiana contenuti nella trascrizione del seminario sulla Lettera ai Romani2, oltre che alla pubblicazione dell’epistolario tra i due3. Forse il documento più interessante di questa esplosiva relazione è la lettera che Taubes scrive a Schmitt da Parigi il 18 settembre 1978, dopo una delle sue visite a Plettenberg4. Si tratta di uno scritto privato. Eppure, sembra pensato sin dall’inizio come un testo pubblico. Del resto, non è un caso che sia stata inserita nel volume che Taubes stesso ha dedicato a Schmitt5. La prima parte della lettera, la più nota, è quella nella quale Taubes ricorda l’incontro con Schmitt. È qui che lo ringrazia per la «pazienza» e la «franchezza», con cui questi «ha parlato anche dei passi falsi nella Sua lunga vita di giurista». Ma gli ricorda anche che «proprio in quanto arci-ebreo [Erzjude]», si trattiene «dal pronunciare una condanna», perché «in tutto l’indicibile orrore» almeno una cosa gli è stata risparmiata: essendo stato eletto da Hitler «nemico assoluto», secondo la stessa teoria schmittiana, non aveva scelta e 1 Cfr. J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt (1987), tr. it. di G. Scotto e E. Stimilli, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996. 2 Cfr. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo. Lezioni tenute dal 23 al 27 febbraio 1987 alla Forschungsstätte della Evangelische Studiengemeinschaft di Heidelberg (1993), tr. it. di P. del Santo, a cura di A. e J. Assmann, Adelphi, Milano 1997. 3 J. Taubes – C. Schmitt, Ai lati opposti delle barricate. Corrispondenza e scritti 19481987, a cura di H. Kopp-Oberstebrink, T. Palzhoff, M. Treml, ed. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2018. 4 Cfr. supra, pp. 233-237. 5 J. Taubes, In divergente accordo, cit., pp. 49-54.

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quindi non poteva esprimere neppure un giudizio. Questo, tuttavia, non gli ha impedito di cercare di comprendere cosa fosse realmente accaduto: «in che punto si è imboccato il binario che ha portato alla catastrofe»6. Nonostante lo stile epistolare, la lettera è molto densa dal punto di vista teorico e ricca di riferimenti importanti. Il richiamo a Peterson e ad Agostino è volto a definire l’ambiguo rapporto tra il cristianesimo e il programma nazista. Non solo Taubes ricorda a Schmitt che «Hitler e Goebbels non si erano mai allontanati dalla “Chiesa”»; ma nomina anche Adolf Lanz von Liebenfels, monaco cistercense, poi scomunicato, teorico antisemita della «teozoologia» politica, tra i principali ispiratori della concezione mistico-religiosa del Terzo Reich. Seppure di impronta neopagana, il discorso di Liebenfels non era privo di risorse provenienti da una certa cultura cristiana antiebraica, che aveva caratterizzato il programma nazista. È all’interno di questo quadro che Taubes colloca la parte finale della lettera dedicata a Thomas Hobbes, che costituisce il motivo principale per cui è stata inclusa in questa raccolta, accanto al saggio sul Leviatano7, a dimostrazione della centralità della teoria hobbesiana nel confronto-scontro tra Taubes e Schmitt. Un capitolo, questo, ancora poco conosciuto rispetto al più famoso scambio tra i due su Walter Benjamin8; una discussione per molti aspetti in ombra, non solo in Italia, ma anche in Germania, dove pure è stato riedito solo di recente9. In realtà, si tratta di un testo denso di conseguenze per la definizione del rapporto tra due autori «in divergente accordo». 1. Attualità e limiti della teologia politica di Thomas Hobbes L’assunto implicito del paradigma della «secolarizzazione», con cui è stato definito il fenomeno del progressivo distacco dai compor6

Cfr. supra, p. 233. Cfr. supra, pp. 222-232. 8 Cfr. almeno J. Taubes, In divergente accordo, cit., pp. 37 sgg. e J. Taubes – C. Schmitt, Ai lati opposti delle barricate, cit., pp. 47 sgg., 51 sgg., 56 sgg., 177 sgg. 9 Oltre le indicazioni bibliografiche già segnalate (cfr. supra, p. 222), v. J. Taubes, Apokalypse und Politik. Aufsätze, Kritiken und kleinere Schriften, a cura di H. KoppOberstebrink, M. Treml, W. Fink, München 2017, pp. 262-270. 7

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tamenti sacrali, caratteristica fondante di tanta parte delle società e della vita politica in Occidente in epoca moderna, è lo sviluppo continuo e diacronico che viene sottinteso nel passaggio dall’ambito religioso a quello politico. A seconda della posizione che si assume rispetto all’idea di un mondo secolarizzato, questo passaggio può essere interpretato come un «progresso» o come un «declino», ma solo raramente viene come tale problematizzato. Alla categoria di «secolarizzazione» inerisce cioè essenzialmente una filosofia della storia, l’idea di uno sviluppo, di un’evoluzione lineare teleologicamente orientata, che soggiace agli eventi. Ed è precisamente da questa idea che prende le distanze il paradigma della «teologia politica» elaborato da Schmitt. Si può dire infatti che il paradigma della «teologia politica» si sviluppi e sia utilizzato proprio per definire i rapporti, i legami, le relazioni tra politica e religione a prescindere dal loro sviluppo storico. O, per meglio dire, il paradigma della teologia politica viene elaborato in modo tale che la relazione tra il campo religioso a quello politico sia problematizzata come tale e non solo intesa come un processo che si sviluppa in maniera lineare sul piano della storia. Questo è il cuore della definizione di «teologia politica» da Schmitt articolata nel suo noto saggio del 192210, che costituisce un punto di riferimento nella riflessione di Taubes. Il problema centrale che Schmitt affronta in questo scritto è quello della realizzazione del diritto, del modo, cioè, in cui si dà in epoca moderna una forma giuridica efficace, tale da sorgere dalla stessa concretezza giuridica senza perdere il suo statuto formale. L’esempio massimo di questo sviluppo, per Schmitt, è la teologia politica di Thomas Hobbes, che rappresenta, ai suoi occhi, il culmine della modernità, facendo dell’autore del Leviatano il padre fondatore dello Stato moderno. L’interesse di Schmitt per Hobbes risale già agli anni Venti. Ad esempio, nella Teologia politica Hobbes riveste un ruolo centrale come «rappresentante classico del tipo decisionistico»11. Il suo «spirito razionalistico» viene qui chiaramente distinto dall’«immanentismo» giuridico borghese dell’Ottocento, perché contiene una profonda tensione in direzione di una trascendenza che, secondo Schmitt, va mantenuta anche all’interno di un ordinamento giuridico moderno. L’assolutismo 10

C. Schmitt, Teologia politica (1922), in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86. 11 Ivi, p. 57.

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hobbesiano, in quanto specifica forma politica individuata dalla decisione concreta, secondo Schmitt, giustifica l’identificazione della legge con il comando, che non coincide con l’arbitrio, ma che sorge piuttosto da un più complesso progetto di ordine non identico all’ordine naturale, proveniente da una sovrana volontà di forma che si origina ex novo dal caos. Di qui la centralità della relazione di reciprocità tra «protezione e obbedienza», su cui si fonda il progetto hobbesiano e intorno a cui Schmitt si sofferma in Teologia politica. Ma è soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Trenta che l’interesse di Schmitt per Hobbes si acuisce e tende a concentrarsi sul Leviatano non solo come forma dell’unità politica dello Stato moderno, ma soprattutto come simbolo politico. Il più importante testo a riguardo è quello del ’38, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes12, che è preceduto da un altro scritto dedicato a Hobbes, intitolato Lo Stato come meccanismo in Hobbes e Cartesio13, da cui quello si origina. Il testo del ’38 sul Leviatano è uno scritto molto denso, che risente della complessità generale del momento storico in cui è stato scritto e della vicenda personale del suo autore, tanto che occupa un posto particolare nella biografia di Schmitt. Il Kronjurist sostenitore del regime nazista assume – nel 1938 – il Leviatano come massimo esempio dello «Stato totale», che così viene da lui teorizzato come alternativa allo Stato liberale borghese, dilaniato – dal suo punto di vista – dalla separazione tra il «politico» e la «società», origine delle pretese individualistiche e delle prerogative di poteri indiretti (potestates indirectae). Salta soprattutto agli occhi in questo scritto il tono antisemita con cui Schmitt individua le insidie e le minacce da cui lo Stato può essere colpito. Un elemento, questo, che non sfugge agli occhi di Taubes, e su cui – come vedremo – non manca di soffermarsi nella lettera del ’78. Proprio perché il problema al centro della riflessione schmittiana nella seconda metà degli anni Trenta è quello della forma e dell’unità politica, l’analisi contenuta nel testo del ’38 è centrata sul ruolo dell’immagine del Leviatano, inteso come uno dei più potenti miti e simboli 12

C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico (1938), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano 1986, pp. 60-143. 13 Id., Lo stato come meccanismo in Hobbes e in Descartes (1937), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 45-59.

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politici di ogni tempo, la cui vicenda plurisecolare è caratterizzata da una forza espressiva capace di attraversare le più diverse tradizioni e interpretazioni. In primo luogo, Schmitt si sofferma sul fatto che il Leviatano sia un’immagine biblica tratta dal Libro di Giobbe, potenza «abissale», forza delle pulsioni elementari, solitamente rappresentato come un animale marino (grande pesce, dragone, serpente, ecc.), mentre Behemoth viene descritto come animale terraneo (il toro, l’elefante, ecc.). Per Schmitt, alla luce delle tante interpretazioni che il Leviatano ha avuto nei secoli della sua storia, risulta determinante capire la posizione assunta da Hobbes nell’eleggerlo a simbolo dello Stato moderno: mostro marino, immagine dello Stato terrestre. Mette così in evidenza l’intima contraddittorietà implicita nel discorso hobbesiano che, ad un tempo, contiene suggestioni mitiche e descrizioni razionali. Come fa notare, infatti, l’immagine del frontespizio della prima edizione inglese (1651) non corrisponde in fondo all’apparato mitico di cui il Leviatano è portatore, visto che non viene raffigurato né come drago, né come serpente, ma come un grande e maestoso uomo. Inoltre, osserva Schmitt, nel corso di tutto il testo il Leviatano viene citato solo raramente come tale. Questo lo induce a pensare che l’immagine mitica sia stata lentamente abbandonata da Hobbes in favore di una rappresentazione razionale, che finisce per depotenziare il carattere politico dello Stato hobbesiano. Il grande Leviatano, che rappresenta il detentore del potere sovrano, viene prima inteso come «grande uomo», quindi come «grande animale», poi come «grande macchina», creata ad arte dall’intelligenza dell’uomo e dalla sua «scientificità meccanica». Infine, il Leviatano viene definito «Dio mortale», perché detiene in sé, indivisa, la più forte potenza terrena grazie a cui tutti gli uomini gli sono sottomessi e grazie alla quale tiene a freno tutte le forze inferiori. Ma progressivamente, da predatore, il Leviatano diventa «apparato», «dispositivo», inaugurando così l’epoca della tecnica; l’epoca in cui, più d’ogni altra, la potenza mondana dello Stato si trova in lotta contro l’anarchia, simboleggiata da Behemoth. Per Schmitt, tuttavia, il fallimento hobbesiano nella rielaborazione del simbolo del Leviatano non dipende tanto dalla deriva anarchico-individualistica, pure presente in esso, quanto piuttosto dalla mancata percezione da parte dello stesso Hobbes delle trasformazioni a cui l’immagine del Leviatano è andata incontro. È questo il punto in cui Schmitt, in maniera molto ambigua, richiama alcune

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«interpretazioni ebraico-cabalistiche» senza fornire fonti dirette, ma riferendo piuttosto della loro conoscenza da parte di alcuni autori, indicativamente citati a questo proposito, come Johann A. Eisenmenger, autore di Entdeckte Judentum (1711), considerato da molti una sorta di pioniere dell’antisemitismo moderno, o come Lutero, autore, tra l’altro, del noto libello Degli ebrei e delle loro menzogne. Stando a queste interpretazioni, il Leviatano risulterebbe essere «“la bestia sulle mille montagne” (Salmi 50, 10) e cioè i popoli pagani» e la storia del mondo apparirebbe «come un combattimento dei popoli pagani gli uni contro gli altri», mentre «gli ebrei se ne stanno da una parte, a guardare come i popoli della terra si uccidono a vicenda», essendo «questi reciproci “macelli e sgozzamenti” […] legali e kosher»14. Il posto peculiare che, in conformità con queste cosiddette «interpretazioni ebraico-cabalistiche», Schmitt attribuisce al popolo ebraico, da un lato, manifesta il chiaro intento antisemita del suo discorso; dall’altro, mette in luce il suo proposito di evidenziare il Leviatano come simbolo di una potenza demonica dotata di realtà ontologica. Nulla in confronto alla successiva immagine grottesca e umoristica, che ai suoi occhi appare soltanto come il frutto di raccapriccianti fantasie letterarie, di un certo interesse per il loro senso «ironico», ma sicuramente non centrali da un punto di vista politico. Il significato «ironico-letterario» dell’immagine del Leviatano è al centro del suo saggio del ’37, in cui «la grande macchina» viene affiancata all’uomo macchina di Cartesio15. Nel saggio del ’38, invece, questo percorso viene abbandonato, per lasciare spazio all’immagine del «Dio mortale», che in definitiva risulta essere la più efficace per comprendere il Leviatano come mito politico e non solo come figura letteraria. È attraverso questa immagine che viene confermata la prospettiva «teologia politica» già espressa nel testo del ’22. Le categorie teologiche secolarizzate alla base del concetto di sovranità, che Schmitt mette in luce in Hobbes, già a partire dal saggio sulla teologia politica del ’22, non riguardano tanto la loro origine storica, quanto piuttosto la stessa struttura sistematica. «La persona sovrano rappresentativa» proposta da Hobbes, per Schmitt, trascende la semplice somma delle volontà individuali, visto che è essa stessa a 14 15

Id., Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, cit., p. 69. Id., Lo Stato come meccanismo in Hobbes e in Descartes, cit., p. 81.

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creare – e non semplicemente a rappresentare, a delegare o a dare il mandato – la forma e l’unità dello Stato. Schmitt non manca di notare come il modello artificiale del contratto e la costituzione tecnicofunzionalistica dello Stato, come meccanismo «neutrale» e totalmente immanente, siano presenti nella proposta hobbesiana. Il punto, però, secondo lui, è il fatto che sin dall’origine questo processo non avviene solo su un piano tecnico, ma coinvolge l’ambito teologico intrinsecamente connesso al dominio del politico. Questa è la questione che interessa Taubes, perché in questo passaggio egli individua tutta l’attualità del discorso di Hobbes interpretato da Schmitt. Ciò che desta la sua attenzione è l’intimo legame che egli intravede, in questo punto del discorso hobbesiano messo in luce da Schmitt, con la teocrazia, presupposto implicito, secondo lui, di ogni teologia politica. Come egli scrive nell’incipit del testo qui pubblicato, gli eventi della politica mondiale tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso – nell’epoca in cui il suo saggio di Taubes sul Leviatano è stato concepito – «hanno ridestato nella coscienza pubblica il significato politico della teocrazia». Ed è a partire da questo riferimento che egli, con un richiamo agli avvenimenti relativi allo Stato d’Israele e alla rivoluzione islamica iraniana – con e contro Schmitt – propone di tornare a Hobbes. Perché, se un pezzo di storia che a partire dall’Illuminismo sembrava archiviato risulta ancora centrale, ciò significa che esso è ancora profondamente connesso al «problema di qualsiasi teologia politica». Ciò che è in gioco, da un lato, è qualcosa di simile al «potere teocratico della Chiesa», una «teocrazia dall’alto» si potrebbe dire utilizzando le parole da lui stesso impiegate nell’introduzione al terzo volume della serie dedicata alla «teoria della religione e alla teologia politica», di cui il primo è quello in cui è uscito il saggio su Hobbes16. D’altro lato, invece, si tratta di quella che egli definisce «teocrazia dal basso»17, il processo su cui è realmente incentrata la sua attenzione.

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Questi i tre volumi della serie Religionstheorie und Politische Theologie a cura di Taubes: vol. I: Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, cit.; vol. II: Gnosis und Politik, Schöning, München-Paderborn-Wien-Zürich 1984; vol. III: Theokratie, Schöning, München-Paderborn-Wien-Zürich 1987. 17 Cfr. J. Taubes, Theokratie, cit., p. 6.

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2. Il mistero della nascita dello Stato La prima volta che Taubes fa riferimento al saggio di Schmitt sul Leviatano del 1938 è nella lettera del 17 novembre 1977: poiché decorre il trecentesimo anniversario della morte di Spinoza, propone la pubblicazione della quinta parte di questo saggio, dove compare un confronto tra questi e Hobbes che, secondo lui, «non è ancora entrato sufficientemente nella “discussione”»; l’uscita è prevista in un «aperiodico di “ermeneutica e scienze dell’humanitas”», che «(polemicamente contro le scienze sociali, che sono cadute in basso in senso volgarmente marxista o ancora peggio positivista) si chiamerà […] KASSIBER (gergo rotwelsch per kataw ktiwa, in ebraico scritto, lettera, testo, “insomma” ermeneutica)»18. Schmitt naturalmente declina l’invito19. Nelle lettere successive Taubes lo informa comunque della sua attività accademica, gli parla dei seminari, ma anche dei suoi scontri con la politica universitaria, e continua a fargli proposte editoriali20. Da quanto emerge nell’epistolario, nel periodo che va dal 1977 al 1980, si confronta sempre più assiduamente con gli scritti e con il pensiero di Schmitt. Nel semestre invernale 1978-1979 organizza un Hermeneutisches Colloquium dal titolo Politische Theologie als Theorie von Revolution am Beispiel von Walter Benjamin und Carl Schmitt21. Nel 1979 comincia a progettare la Tagung su Politische Theologie als hermeneutisches Problem22, quindi il Colloquium su Hobbes23, che darà origine, nel 1983, alla pubblicazione del primo volume di Religionstheorie und Politische Theologie, interamente dedicato a Carl Schmitt, in cui compare Leviathan als sterblicher Gott, qui tradotto, di cui esistono due versioni precedenti di poco differenti da quella pubblicata nel libro. La prima, uscita nel 197924, è quella che Schmitt deve aver ricevuto direttamente da Taubes, come risulta dalla lettera dell’11 novembre 1979, in cui questi manifesta anche la

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Cfr. J. Taubes – C. Schmitt, Ai lati opposti delle barricate, cit. pp. 51-52. Ivi, pp. 53-54. 20 Cfr. in particolare ivi, pp. 56 sgg. 21 Cfr. ivi, pp. 177 sgg. 22 Cfr. ivi, pp. 180 sgg. 23 Cfr. ivi, pp. 183 sgg. 24 J. Taubes, Leviathan als sterblicher Gott. Zum 300. Todestag von Thomas Hobbes (4. Dezember), «Neue Zürcher Zeitung», 30 nov. 1979, Fernausgabe, 278, pp. 35-36. 19

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speranza di essere riuscito a mostrare il suo «omaggio a Schmitt»25. La seconda viene invece pubblicata nel 198026. Tutte e tre le versioni sono una sorta di risposta alle questioni aperte dal testo di Schmitt sul Leviatano del 1938 e dagli altri suoi scritti su Hobbes, che non si capirebbe senza la prima risposta, quella contenuta nella lettera del 18 settembre 1978. In entrambi i casi Taubes tenta una lettura incrociata dei due autori. Hobbes è per Schmitt l’autore con cui mantiene un confronto costante. Nei testi successivi al Nomos della terra27, il riferimento più importante a Hobbes, dopo il saggio intitolato Il compimento della Riforma28 – anch’esso centrale nell’interpretazione di Taubes, come avremo modo di vedere in seguito – è la famosa nota sul «cristallo di Hobbes», pubblicata nell’ultima edizione de Il concetto di “politico”29, che darà la linea a un’interpretazione nettamente «teologico-politica», confermata anche nei passi hobbesiani contenuti nella Teologia politica II30. La questione chiave che emerge nel «cristallo di Hobbes» è quella teologico-politica dell’«apertura» che caratterizza il sistema hobbesiano, un’apertura in due sensi: non solo, cioè, verso la trascendenza, ma anche verso la concretezza. In Hobbes, Schmitt non legge una volontà di neutralizzare il religioso, ma la volontà giuridica di neutralizzare – attraverso un sistema «attivo» di mediazioni proprie dell’incarnazione politica, in questo senso riflesso dell’incarnazione divina – gli effetti politici che derivano da un uso secondo lui improprio di concetti religiosi. Costruendo un sistema politico che oscilla tra il polo trascendente e il polo dei bisogni, Hobbes propone una neutralizzazione «attiva» del cristianesimo, che riconosce, così, come esperienza centrale nella fondazione dell’istituzione moderna 25

Cfr. J. Taubes – C. Schmitt, Ai lati opposti delle barricate, cit., p. 40. J. Taubes, Leviathan als sterblicher Gott. Zur Aktualität von Thomas Hobbes, «Evangelische Kommentare», XIII, 10, ottobre 1980, pp. 571-574. 27 C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum» (1950), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991. 28 Id., Il compimento della Riforma. Osservazioni e cenni su alcune nuove interpretazioni del Leviatano (1965), in Id., Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 159-190. 29 Id., Il concetto di “politico” (1932), in Id., Le categorie del “politico”, cit., pp. 150-152. 30 Id., Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica (1970), a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1992. 26

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dello Stato. Hobbes, nella lettura di Schmitt, continua ad attribuire al cristianesimo un potere legittimante nella misura in cui riconosce come fondamento dell’autorità sovrana il monopolio giuridico dell’interpretazione legittima della verità rilevante sul piano pubblico, contro ogni pretesa delle potestates indirectae, che pretendono obbedienza senza assumersi la responsabilità della protezione. In questo senso, la dimensione religiosa, o meglio, la trascendenza, per Schmitt, entra direttamente dentro la politica – che non può dunque essere «pura» immanenza – in quanto esprime il fondamento della domanda sull’ordine e sulla distinzione politica fondamentale, quella dell’amico e del nemico. Anche nel saggio Il compimento della Riforma, che pure dovrebbe essere un ripensamento dell’interpretazione totalitaria del Leviatano espressa negli anni Trenta, Schmitt ritorna su questi temi, sottolineando come Hobbes debba essere definito un «autore cristiano», lontano da ogni mitologia relativa a un ordine politico puramente mondano. In questo senso il decisionismo hobbesiano – pur essendo implicato nella vicenda della scristianizzazione e della secolarizzazione della vita pubblica – diventa una diretta conseguenza della sua teologia politica, del riconoscimento, cioè, della necessità di un ordine politico fondato né solo «oggettivamente», né solo «soggettivamente»31. Per Schmitt, dunque, Hobbes non può essere interpretato come il fondatore del liberalismo: la sua neutralizzazione è «attiva», non mira alla costruzione di un ordine politico completamente razionale e trasparente, ma alla definizione di uno spazio di «concretezza» all’interno del quale il «politico» sorge come consapevolezza del nemico teologico-politico. Malgrado ciò, in quanto fondatore dello Stato moderno a partire da un principio individualistico, in grado cioè di rendere conto della vicenda politica moderna come opposizione tra Stato sovrano e società borghese-liberale, Hobbes risulta anche il «padre spirituale del moderno positivismo giuridico», vale a dire di ciò che egli individua all’origine dell’autodistruzione dell’istituzione statale. Sulle orme di Schmitt, Taubes sottolinea l’immagine mitica del Leviatano che costitutivamente inerisce alla condizione artificiale della sovranità hobbesiana. Se, «quando parla della nascita dello Stato, Hobbes ha davanti agli occhi l’inizio mitico che precede ogni storia, 31

Id., Il compimento della Riforma, cit., pp. 177-179.

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più che la genesi del moderno Stato territoriale a partire dal Rinascimento e dalla Riforma»32, ciò che va compreso, allora, dal suo punto di vista, è il senso di tale riferimento a una preistoria mitica e, quindi, la sua relazione con la storia. Nonostante la fama di Hobbes come «profeta del Leviatano» sia molto legata al titolo del libro, Taubes non manca di notare come solo raramente i suoi interpreti abbiano fatto riferimento al Libro di Giobbe, dove è contenuta la sua origine mitica. L’unico a gettare nuova luce sulla portata mitica del titolo dell’opera di Hobbes, secondo lui, è stato proprio Schmitt, che è riuscito a fare «questo salto di tigre nel XVII secolo […] grazie alla profonda affinità elettiva che [lo] lega […] al grande inglese»33. «Tigersprung», «salto di tigre», è un chiaro riferimento a Benjamin, che Taubes sembra utilizzare per mettere in evidenza il peculiare rapporto che Schmitt e Hobbes hanno con la storia, non concepita soltanto nel suo sviluppo lineare e continuo, com’è, appunto, nell’idea benjaminiana del «salto di tigre nel passato»34. Ma l’utilizzo dell’espressione benjaminiana è anche una provocazione nei confronti di Schmitt e della sua interpretazione di Hobbes, che porta con sé «i segni spaventosi del suo tempo»; cosa che «appartiene al destino – come a quello dell’autore del Leviatano»35. Taubes cita le parole con cui Schmitt descrive la famosa immagine del frontespizio della prima edizione del Leviatano e sostiene che questa rappresentazione non solo lascia il segno già al primo sguardo, ma conduce anche nel cuore dell’esegesi. Degno di nota ai suoi occhi è il fatto che Schmitt abbia sottolineato come il Leviatano appaia nelle sembianze di un uomo, mentre, stando al Libro di Giobbe, ci si sarebbe aspettati di trovare un mostro marino che emerge dall’abisso più profondo. Anche Taubes sottolinea come «il «grande uomo», per Hobbes, non sia un essere naturale, ma «sovrannaturale» in quanto «artificiale». Per comprendere la natura di «questo magnus homo artificiale», Taubes si rifà al diciasettesimo capitolo del secondo libro del Leviata32

Cfr. supra, p. 225. Cfr. supra, p. 227. 34 Cfr. W. Benjamin Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 47. 35 Cfr. supra, p. 227. 33

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no, dove ritiene sia contenuta la chiave di volta di tutta l’opera: ovvero il fatto che dal patto virtuale stretto da ciascuno con ognuno degli altri uomini nasce la persona rappresentativa, che eleva la massa dei contraenti a una persona nuova e unitaria, lo Stato, che dà corpo alla loro stessa persona. «Questa è la generazione del grande Leviatano, o piuttosto (per parlare in maniera più riverente) di quel Dio mortale a cui dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa»36. Questo, secondo Taubes, è il punto decisivo, in cui il «mistero della nascita dello Stato» viene svelato. Ed egli non può credere che proprio nel passaggio in cui «definisce il centro della sua dottrina, Hobbes introduca la figura del Leviatano en passant, quasi si tratti […] “di un’idea letteraria e semi-ironica”, generata dal “buon humor inglese”»37, come si sarebbe portati a pensare, se si seguisse solo una delle possibili strade percorse nell’interpretazione schmittiana. Piuttosto, sottolineando la centralità di questa definizione, Taubes aggiunge: «Se si ha presente l’emblema del Leviatano, che Hobbes ha aggiunto alla sua opera, allora in questo passo risulta evidente quale sia il confronto in questione: quello tra il Leviatano come [un] Dio mortale e Cristo, come Dio mortale»38. Se nell’immagine del frontespizio si invertono la spada e il pastorale del magnus homo, se cioè si mette il pastorale a destra e la spada a sinistra, si ottiene, secondo Taubes, «una perfetta simbolizzazione della dottrina teocratico-medievale della societas christiana in quanto Corpus unico, il cui capo è Cristo, che domina entrambi i poteri, spirituale e mondano»39. Questo riferimento iconologico, come ricorda Taubes, è di Hans Barion, il famoso teologo cattolico studioso di diritto canonico, secondo cui «Hobbes, con la sua immagine mitica del Leviatano, rovescia di fatto solo la dottrina della societas christiana del Medioevo ierocratico», contrapponendo così un «pendant statuale» alla dottrina ierocratica di Giovanni di Salisbury40. Il rimando di Barion a Giovanni di Salisbury, secondo Taubes, «illumina come un lampo il 36

T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2004, p. 283. Cfr. supra, p. 229. 38 Ibid. 39 Ibid. 40 H. Barion, Recensione di Saggi storici intorno al Papato dei professori della Facoltà di Storia Ecclesiastica, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1959, «Zeitschrift der SavignyStiftung für Rechtsgeschichte», Kanonistische Abteilung, XLVI, Weimar 1960, p. 500. 37

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panorama nel quale si sviluppa la scena del Leviatano»41. A partire da qui, infatti, diventa chiaro come la teoria politica di Hobbes si scagli contro la teocrazia della Chiesa cattolica romana che viene da lui descritta come «Regno delle tenebre». In questo senso, secondo lui, la posizione di Hobbes è di «impensata attualità per comprendere l’ABC di ogni politica post Christum natum»42, quella cioè che deve occuparsi di circoscrivere «Matter, Forme and Power of A Common Wealth, Ecclesiastical and Civil». La definizione del confine tra il potere spirituale e il potere temporale a partire da Hobbes è la questione al cuore di ogni politica post Christum natum; una separazione che segna la storia occidentale. Di qui passa la nascita del saeculum e dell’ordinamento politico come potere autonomo. Il presupposto imprescindibile perché tutto questo diventi possibile è il fatto che «Hobbes ha riconosciuto il senso puramente politico di ogni pretesa spirituale di decisione»43; ha riconosciuto, cioè, che «il potere spirituale non è meno politico di quello temporale»44. Questo è il nucleo del discorso hobbesiano, che Taubes ritrova in Schmitt, seppure in forma distorta. Nel saggio del 1965, Il compimento della Riforma, Schmitt si confronta con tre interpretazioni di Hobbes, l’ultima delle quali, più vicina ai suoi intenti, è proprio quella di Hans Barion, menzionata, non a caso, anche da Taubes. È questo il saggio in cui Schmitt prende le distanze dalla sua precedente lettura «ironica» sostenendo che, «nonostante ogni ironia, la forza mitica del Leviatano si impone sempre di nuovo»45. L’elemento mitico-simbolico del Leviatano viene qui interpretato da Schmitt, sulla scorta di Barion, come una cosciente appropriazione polemica da parte di Hobbes dell’immagine mostruosa che Giovanni di Salisbury contrapponeva alla Chiesa di Roma. In tal senso, la lettura hobbesiana di Dietrich Braun – con cui pure Taubes si confronta nel suo saggio – appare a Schmitt distorta. Nel libro Der sterbliche Gott oder Leviathan gegen Behemoth, del 196346, il teologo protestante, allievo di Karl Barth, individua in 41

Cfr. supra, p. 229. Ibid. 43 Cfr. supra, p. 230. 44 Ibid. 45 C. Schmitt, Il compimento della Riforma, cit., p. 164. 46 D. Braun, Der sterbliche Gott oder Leviathan gegen Behemoth, EVZ-Verlag, Zürich 1963. 42

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Hobbes l’Anticristo, infiltrato in ambito teologico con intento sovversivo. L’aspetto demoniaco della dottrina di Hobbes, per Braun, consiste nel fatto che il Leviatano, conservando esteriormente le forme e le formule del cristianesimo, vuole impadronirsi, per via indiretta, della fede cristiana come di un potenziale politico. Tanto che Schmitt arriva a sostenere che Hobbes, «il grande teorico della potestas directa […] viene ascritto da Braun, con sorprendente rivolgimento, fra i sostenitori della potestas indirecta, poiché il potere politico può essere esercitato pienamente e direttamente soltanto attraverso lo sfruttamento indiretto della forza della fede religiosa»47. Per Schmitt, invece, con Hobbes non irrompe sulla scena della storia l’Anticristo, ma «la chiara antitesi statuale al monopolio decisionale della Chiesa cattolica. Questa […] è davvero – ai suoi occhi – “l’espressione del compimento della Riforma”»48, incarnazione puramente politica dell’autorità spirituale della decisione propria della Chiesa cattolica. Di qui l’ambiguo rapporto che Schmitt, insieme a Hobbes, intrattiene con il cristianesimo e, in particolare, con la Chiesa di Roma. Un rapporto che Taubes, nella lettera del 18 settembre 1978, mette a tema in riferimento al programma nazista. Nel saggio sul Leviatano Taubes indica la posizione di Braun – che apre alla prospettiva dei Presbiteriani e degli indipendentisti inglesi, cittadini del Regno di Cristo già in atto sulla terra – come quella che revoca in causa la questione teologico-politica fondamentale, il problema cioè che riguarda il modo in cui si dovrebbe costituire la città terrena dei cristiani che si riconoscono come «popolo di Dio peregrinante»49. Quindi, con chiaro riferimento a Peterson50, egli aggiunge che qui è in gioco «la supplica di Agostino» che «si perpetua attraverso teologi cristiani, che soltanto con questa supplica credono di liquidare il problema di una teologia politica», trascurando, così, «che loro stessi, in quanto cittadini terreni, hanno la responsabilità nella città degli uomini e non possono sottrarsi alle domande che Hobbes ha posto loro»51. 47

C. Schmitt, Il compimento della Riforma, cit., p. 168. Ivi, p. 182. 49 Cfr. supra, p. 231. 50 Cfr. E. Peterson, Il monoteismo come problema politico (1935), trad. it. di H. Ulianich, Queriniana, Brescia 1983, p. 104. 51 Cfr. supra, p. 231. 48

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Emerge così quello che, per Taubes, è il cuore della teologia politica hobbesiana: la «Cristo-logica del Leviatano»52. Un percorso, questo, che lo induce a portare alle estreme conseguenze il passaggio «dalla teologia politica alla cristologia politica»53, che lo stesso Schmitt ha compiuto nella Teologia politica II, proprio in un confronto serrato con le critiche rivoltegli da Peterson. Alla base di questo percorso c’è l’«apertura alla trascendenza», da Schmitt teorizzata nel «cristallo di Hobbes»54, su cui si fonda anche la prospettiva teologico-politica del saggio del ’6555. Per Schmitt, in Hobbes si tratta dell’impossibilità di esaurire la forma politica moderna in una chiusa e inerte tautologia razionalistica – nonostante la deriva tecnica della macchina statale da lui pure rilevata. Di qui la necessità, secondo lui, di evidenziare tutti gli elementi teologici presenti nella struttura del Leviatano, gli unici che rendono possibile in Hobbes quell’apertura alla trascendenza da Schmitt attestata e, allo stesso tempo, auspicata. Il cristianesimo di Hobbes, allora, si risolve, per Schmitt, nella coazione ad un ordine unitario a partire dalla «verità» secondo cui «Gesù è il Cristo». Tale «verità» è fondatrice di ordine e, in nome dell’autorità, acquista «valore legale» attraverso l’istanza decisionale e sovrana di trascendenza contemporaneamente aperta sulla struttura artificiale dello Stato e sulla condizione mitica naturale (è nota, a questo proposito, la massima «Auctoritas, non veritas facit legem», a cui Schmitt si rifà per attestare che «la verità non si compie da sola, ma ha bisogno di comandi coercibili»). Ma la natura di Hobbes va intesa, secondo Schmitt, «nel senso di physis», «in termini antichi, nella misura in cui presuppone la costanza dei tipi»56. L’idea di uno statuto «teologico» dello stato di natura hobbesiano viene, allora, da Schmitt negato o quanto meno minimizzato. In contrasto con Schmitt, Taubes sottolinea invece la valenza autenticamente cristiana e teologica dell’idea hobbesiana dello stato di natura, da intendere fondamentalmente «come dottrina dello stato di natura dell’uomo». «Lo stato di natura (state of nature) – afferma Tau52

Ibid. C. Schmitt, Teologia politica II, cit., p. 5. 54 Id., Il concetto di “politico”, cit., p. 151. 55 Id., Il compimento della Riforma, cit. 56 Id., Il concetto di “politico”, cit., p. 150. 53

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bes – venne differenziato, in una prospettiva teologica, dallo stato di grazia (state of grace). Hobbes secolarizza i teologumeni fondamentali del cristianesimo. In quanto li secolarizza, però, li conserva»57. Sulla base di tale secolarizzazione, Taubes interpreta la nascita dello Stato descritta da Hobbes «come [la] trasfigurazione dell’uomo dallo stato creaturale, naturale e privo di grazia, allo stato civile “di grazia”»58. «È solo nel momento in cui l’uomo-lupo si assoggetta al Leviatano, che l’uomo si fa uomo. La ragione è il sommo di questa trasfigurazione. Il divenire-uomo – dell’uomo – sotto il segno del Leviatano, in Hobbes, sta sullo stesso piano del divenire-uomo di Dio in Cristo. Non sorprende quindi che la frase fondamentale di Hobbes nel Leviatano […] sia la seguente: that Jesus is the Christ»59. Se, da un lato, la machina machinarum del Leviatano risulta la macchina antropologica volta alla produzione dell’umano attraverso la separazione dell’uomo dall’uomo-lupo, della razionalità dall’animalità, dello stato di grazia dallo stato di natura, tale separazione, d’altro lato, per Taubes, si compie col «farsi uomo di Dio in Cristo»: «ciò che Hobbes descrive è il farsi uomo dell’uomo al cospetto del “Dio mortale” che si manifesta: il Leviatano – Cristo»60. «Questa dottrina – scrive Taubes – era (e rimane) un boccone teologico e filosofico troppo difficile da ingoiare per la società borghese. È riuscita a ingoiarlo solo quando le è stato servito “a rate” da Hegel. […]: ossia nella comoda forma di una filosofia della storia»61. Taubes critica la traduzione della macchina antropologica costruita da Hobbes nei termini della filosofia della storia hegeliana. L’operazione hegeliana, in definitiva, è stata quella di far confluire gli elementi teologici e quelli mitici in un programma esclusivamente filosofico, in cui entrambi sono razionalmente superati. Un progetto che non esaurisce la portata mitico-teologica del programma hobbesiano – ne è consapevole lo stesso Schmitt, ma in senso opposto rispetto a quello che Taubes vuole evidenziare, che critica così la stessa teologia politica schmittiana. Ma per comprendere a pieno le conclusioni a cui Taubes giunge in questo saggio, bisogna fare nuovamente riferimento alla lettera a Schmitt del 18 settembre 1978. 57

Cfr. supra, p. 231. Ibid. 59 Cfr. supra, p. 232. 60 Ibid. 61 Ibid. 58

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3. Paolo o il “primo ebreo liberale”? Il maggiore problema dello Stato moderno, per Schmitt, è il fatto di essere il primo prodotto dell’età della tecnica. Neppure la decisiva presenza della persona sovrano-rappresentativa della teoria politica hobbesiana, il fatto cioè di impersonare nella sovranità statale l’anima dei contraenti del patto, dal suo punto di vista, ha potuto sottrarre lo Stato assoluto alla progressiva meccanicizzazione portata a termine dallo Stato borghese, che funziona in base a una logica esclusivamente tecnica, neutrale, di stampo legislativo e positivistico, garante del “buon” funzionamento della gestione statale. Malgrado il processo di «spersonalizzazione» del sovrano di cui è intriso anche il discorso hobbesiano, Schmitt vede in Hobbes il lucido teorico politico lontano da qualsiasi vano progressismo e ottimismo antropologico. Non l’«illuminista» radicale, dunque, che crede nell’efficacia dell’educazione e nella possibilità di una trasformazione della natura umana, ma lo schietto osservatore dell’asocialità dell’uomo, agitato dalla paura del presente e dalla preoccupazione per il futuro, da un desiderio di prestigio e dalla passione per la concorrenza, fiducioso nella creazione razionale di uno Stato che tenga a freno il distruttivo individualismo naturale: la pericolosità e l’egoismo vengono vinti dall’intelletto e dal calcolo. Se, dunque, Schmitt vede riconfermata in Hobbes la dimensione tecnico-artificiale dello Stato, efficace strumento per la reciproca pericolosità, questo non significa però, per lui, che Hobbes sia responsabile in forma diretta e immediata di tutte le conseguenze che in materia di neutralizzazione sono state prodotte fino alla realizzazione dello Stato come esclusivo strumento tecnico-neutrale, indipendente da ogni fine politico, giuridico, religioso. La «macchina» nel senso di Hobbes, per Schmitt, è ancora un prodotto della più alta capacità creatrice umana. In questo senso, «meccanismo» e «macchina» conservano ancora, per lui, «un valore pienamente mitico»62. Per comprendere il punto debole della macchina statale hobbesiana, Schmitt concentra allora la sua attenzione sulla distinzione tra interno ed esterno, che risulta fondamentale nell’istituzione dello Stato moderno. È in particolare nel saggio del ’38 che egli si impegna in una lunga analisi storico-critica, una genealogia della vittoria del rovesciamen62

C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, cit., p. 91.

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to dell’impianto hobbesiano: la vittoria dell’interno sull’esterno. Con il rovesciamento della distinzione hobbesiana tra interno e esterno lo Stato assoluto del XVII secolo finisce, secondo lui, per esigere tutto dal cittadino, ma solo esteriormente, perché tutto ciò che riguarda l’attività dell’intelletto e dello spirito umano rimane una «riserva» privata, fino ad arrivare all’istituzione dello Stato legislativo, onnipotente verso l’esterno ma impotente verso l’interno. Malgrado il decisionismo, individuato da Schmitt come caratteristica fondamentale del Leviatano, Hobbes risulta nella sua interpretazione anche colui che ha inaugurato la distinzione tra interno ed esterno – privato e pubblico, fede e confessione, pietà e culto esteriore – a cui è seguita la progressiva vittoria dell’interno sull’esterno, fatale per lo stesso progetto hobbesiano. Questa distinzione ha infatti condotto il potere politico ad essere “solamente” potere pubblico, esteriore, cioè vuoto, senz’anima. Contro di esso si sono rovesciate istanze tra loro anche contraddittorie, poste dai titolari dei cosiddetti «poteri indiretti». Sono questi poteri infatti che indicano nel Leviatano il simbolo politico di un «morto meccanismo». Il «Dio mortale» di Hobbes è così diventato un Dio morente o, per meglio dire, già morto proprio a causa di quella distinzione tra interno ed esterno che, secondo Schmitt, è stata la vera e propria ferita mortale nella costruzione dello Stato «totale», a cui egli, nel ’38, guardava con favore. Il politico ha perso in questo modo la propria specificità; ciò proprio nel momento in cui lo Stato cercava di organizzarsi come meccanismo. «Politico» e «non politico», per Schmitt, non devono strutturarsi come sfere separate, come vuole il liberalismo, attraverso la contrapposizione tra il «pubblico» e il «privato». Questo è il punto che ha condotto il Leviatano alla sua fine. La morte del Leviatano, però, non ha implicato la morte dello Stato moderno, della «macchina» statale. Anzi, è proprio da questo passaggio che si è originata la strutturazione dello «Stato legislativo», fondato su un sistema di «legalità» e sul funzionamento della burocrazia, principale protagonista della tecnicizzazione della macchina statale, fondamentalmente basata sulla difesa dei diritti e delle libertà individuali. Più che giustificazione dello «Stato totalitario» il Leviatano di Hobbes è allora diventato il varco che ha aperto la strada allo moderno Stato di diritto positivo. In questa ambivalenza propria del progetto hobbesiano si gioca per Schmitt tutto il rapporto tra grandezza

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e fallimento di questa operazione, ad un tempo filosofica, politica e giuridica. Il Leviatano, mito dello Stato come grande macchina, che assomma in sé il massimo del potere terreno, temporale e spirituale, è rimasto sconfitto, secondo Schmitt, nella secolare lotta tra poteri diretti e poteri indiretti. La «libera» sfera privata, costituzionalmente garantita, è stata sottratta allo Stato e consegnata alla «società» liberale, in definitiva, al pluralismo delle forse economiche e politiche della borghesia. Senza la costruzione di una volontà unitaria, lo Stato moderno ha così preparato la propria autodistruzione. Non va in alcun modo sottovalutato il fatto che, nel saggio del ’38, Schmitt indichi la «linea ebraica» tra le principali cause del rovesciamento della distinzione hobbesiana tra interno e esterno, che avrebbe dato origine al processo di tecnicizzazione e neutralizzazione dello Stato63. Spinoza viene da lui indicato come «il primo ebreo liberale»64 che, nel Trattato teologico-politico, avrebbe per primo aperto questa strada. Più che matrice del processo di tecnicizzazione e neutralizzazione dello Stato, il Trattato teologico-politico, però, è l’elaborazione di una sua radicale alternativa, che segna un’altra modernità forse ancora da compiersi65. Il Trattato teologico-politico non è solo una drastica critica contro il potere totalizzante dello Stato, che, oltre a tendere alla sottomissione dei corpi, mira anche a controllare le idee, le opinioni, le credenze, le passioni, le anime. Ma soprattutto è l’espressione di una diversa forma politica, alternativa anche allo Stato liberale, che ha avuto origine nella teocrazia ebraica come comunità in cui nessuno può essere asservito a un suo uguale. Una «teocrazia dal basso», si potrebbe dire con Taubes, quella su cui si è concentrato fin dall’inizio dei suoi studi, e che è all’origine dell’implicito atto d’accusa che egli rivolge a Schmitt nella sua lunga lettera teorica del 1978. Non a caso la lettera si conclude con un confronto in questo senso con l’interpretazione schmittiana di Hobbes. 63

Su questo si veda P. Bookbinder, Carl Schmitt, Der Leviathan, and the Jews, «International Social Science Review», LXI, 3, 1991, pp. 99-109. 64 C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, cit., p. 106. 65 Riprendo qui la prospettiva di Donatella Di Cesare che individua nel Trattato teologico-politico di Spinoza l’origine di un’“altra modernità”, matrice di un pensiero dissidente – marrano – interno all’Occidente moderno, eppure a questo alternativo e ancora non compiuto (cfr. D. Di Cesare, Marrani. L’altro dell’altro, Einaudi, Torino 2018).

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«Hobbes – scrive Taubes a Schmitt – è mortalmente serio quando parla del “great Leviathan” come del “mortal God” a cui – e questo è il punto decisivo – “under the immortal God” dobbiamo “peace and defence”. Per questo anche “that Jesus is the Christ” non è una vuota formula, ma una frase che ritorna continuamente. Per questo la macchina della Stato non è un perpetuum mobile, un regno millenario, sine fine, bensì mortale, ovvero un fragile equilibrio tra un dentro e un fuori, mortale e dunque sempre fallibile»66. Quindi, subito dopo, continua: «Non è stato il “primo ebreo liberale” a scoprire quel “punto di frattura”, ma l’apostolo Paolo (pure “stimato” moltissimo dal “primo ebreo liberale”). Paolo, a cui io mi rivolgo nelle svolte epocali, distingueva, anche per “il politico”, tra un dentro e un fuori. Senza questa distinzione siamo abbandonati alla mercé dei troni e dei poteri costituiti, che in un cosmo “monistico” non conoscono più un al di là. La delimitazione tra spirituale e mondano può risultare controversa, e va tracciata ogni volta di nuovo (un’attività perpetua della teologia politica), ma se questa separazione non ha luogo, viene a mancare il respiro (occidentale), a noi come a Thomas Hobbes, che, come sempre, distingue tra “power ecclesiastical and civil”»67. Con queste parole Taubes si riferisce alla quinta parte del saggio schmittiano del ’38, quella che aveva proposto di pubblicare nella lettera del 17 novembre 1977. Si tratta precisamente del passaggio in cui, discutendo delle cause della fragilità della macchina statale hobbesiana, Schmitt delinea l’origine ebraica del liberalismo e vede in Spinoza colui che è riuscito a portare «questo germe al massimo sviluppo»68. Nella lettera in cui si confronta con Schmitt sulle sue responsabilità di giurista del regime nazista, Taubes smaschera l’antisemitismo radicale di questa prospettiva. Ma non si ferma qui. Se, per Schmitt, «la malattia» che ha condotto a morte il Leviatano è stata «la distinzione tra interno ed esterno», Taubes sostiene che all’origine di questa cesura non c’è Spinoza, ma Paolo di Tarso, «pure “stimato” moltissimo dal “primo ebreo liberale”». Su Paolo di Tarso Taubes e Schmitt hanno discusso nei loro incontri ed è proprio da questo confronto che è nata l’idea del seminario 66

Cfr. supra, p. 235. Ibid. 68 C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello stato di Thomas Hobbes, cit., p. 106. 67

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sulla Lettera ai Romani69, un capitolo con cui, forse, il giurista cattolico non ha mai fatto i conti fino in fondo. La separazione tra «interno» ed «esterno» che emerge dalla prospettiva messianica paolina è ciò su cui si incentra l’interpretazione taubesiana di Paolo70, e che costituisce anche la sua forza e la sua novità rispetto alla definizione schmittiana di teologia politica. La distinzione tra spirituale e mondano attuata da Paolo, «anche per “il politico”», come scrive Taubes a Schmitt, deve restare «un’attività perpetua della teologia politica». Ciò che conta in essa è il fatto che la separazione tra «stato di natura» e «stato di grazia», tra «carne» e «spirito», in termini paolini – o, come si potrebbe dire con linguaggio moderno, tra «natura» e «cultura», tra «natura e «storia» –, deve risultare un’attività perpetua mai definitiva. Tra essi non c’è un’articolazione finale unitaria, com’è in Hobbes – ma come risulta anche, seppure in modo totalmente differente, nella traduzione del progetto del Leviatano nei termini hegeliani della filosofia della storia, o come emerge nell’interpretazione totalitaria e teologico-politica di Schmitt. Nell’orizzonte aperto da Paolo di Tarso e portato alla luce da Taubes71, tra politica e teologia non può essere messo in atto alcun processo di identificazione, tale che consenta all’elemento teologico, eccedente rispetto al politico, di mantenersi allo stesso tempo dentro e fuori di esso come ultima autolegittimazione del potere – un potere che, seppure non esclusivamente tecnico e razionalistico, resta comunque «monistico», come è in Schmitt. Nella prospettiva messianica di Paolo, che emerge nell’interpretazione di Taubes, la teologia non mira ad un’identificazione con la politica: tra le due non c’è un’articolazione legittimante, piuttosto una cesura, quasi una divergenza, che crea una tensione interna, riprodotta da un’«attività perpetua» attraverso cui interno e esterno sono di volta in volta continuamente separati e sempre di nuovo differentemente riarticolati.

69

J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, cit., pp. 20-21. Cfr. Id., Il prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2017 (seconda edizione ampliata). 71 Per un’analisi più ampia del pensiero di Taubes rimando alla monografia: E. Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004. 70

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Tommaso Giartosio, Non aver mai finito di dire. Classici gay, letture queer Daria Biagi, Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D’Arrigo Angela Albanese, Identità sotto chiave. Lingua e stile nel teatro di Saverio La Ruina Paolo Desogus, Laboratorio Pasolini. Teoria del sogno e del cinema Mimmo Cangiano, La nascita del modernismo italiano. Filosofie della crisi, storia e letteratura (1903-1922)

lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino e Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain Matteo Majorano (a cura di), La giostra dei sentimenti Giusi Alessandra Falco, La violenza inapparente nella letteratura francese dell’extrême contemporain Sylviane Coyault et Marie Thérèse Jacquet (a cura di), Les chemins de Pierre Bergounioux Matteo Majorano (a cura di), L’incoerenza creativa nella narrativa francese contemporanea Valeria Gramigna, Scritture in ascolto. Sentimenti e musica nella prosa francese contemporanea letteratura tradotta in italia Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia

lingua, didattica, società

Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina Ilaria Tani, Lingua e legame sociale. La nozione di comunità linguistica e le sue trasformazioni

musica e spettacolo

Luca Aversano, Jacopo Pellegrini (a cura di), Mille e una Callas. Voci e studi

quaderni dell’«ospite ingrato»

Luca Lenzini, Verso la trasparenza. Studi su Sereni

scienze del linguaggio

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio Franco Lorenzi, Alejandro Marcaccio (a cura di), Testualità e metafora



scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei «Promessi Sposi» Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresentazione. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Roberta Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale Roberta Coglitore, Le vertigini della materia. Roger Caillois, la letteratura e il fantastico Daniele Balicco, Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo Raffaello Palumbo Mosca (a cura di), La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo 2000-2016 Lorenzo Marchese, Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction?

scienze umane e sociali

Franco Bianco, Studi su Max Weber 1980-2002 Franco Bianco, Il giovane Dilthey. La genesi della critica storica della ragione

storia dell’arte

Alessandro Angelini, Il primato dell’occhio. Temi e metodo della storia dell’arte in età moderna

teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore d’arte a Parigi Pietro Conte, In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell’iperrealismo Laura Iamurri, Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte in Italia. 1995-1970

Alessandra Acocella, Caterina Toschi (a cura di), Arte a Firenze 1970-2015. Una città in prospettiva Luca Pietro Nicoletti, Argan e l’Einaudi. La storia dell’arte in casa editrice Carlotta Sylos Calò, Corpo a corpo. Estetica e politica nell’arte italiana degli anni Sessanta Ferdinando Amigoni, L’ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari