Critica della ragion pratica. Testo tedesco a fronte [10 ed.] 8842051152, 9788842051152

Le opere fondamentali del pensiero filosofico di tutti i tempi. In edizione economica, con testo a fronte e nuovi appara

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Critica della ragion pratica. Testo tedesco a fronte [10 ed.]
 8842051152, 9788842051152

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Economica

Kant Critica della ragion pratica TRADUZIONE DI FRANCESCO CAPRA INTRODUZIONE DI SERGIO LANDUCCI Classici della filosofia con testo a fronte

Editori Laterza

Economica Laterza 94 CLASSICI DELLA FILOSOFIA CON TESTO A FRONTE

Immanuel Kant

Kritik der praktischen Vernunft

Immanuel Kant

Critica della ragion pratica Traduzione di Francesco Capra Introduzione di Sergio Landucci

Editori Laterza

© 1997, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1997 Quinta edizione 2006 Traduzione di Francesco Capra del 1909 riveduta da Eugenio Garin nel 1955 con Glossario e Indice dei nomi a cura di Vittorio Mathieu del 1971 Introduzione di Sergio Landucci del 1997

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-5115-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione GENESI E STRUTTURA DELL’OPERA di Sergio Landucci

«La filosofia è o critica o metafisica. E la metafisica è o metafisica della natura o metafisica dei costumi». Quest’articolazione della filosofia, che si trova nella Critica della ragion pura – la critica, fondativa o propedeutica, e, la metafisica, sistematica – Kant l’aveva fissata dacché aveva concepito il progetto di quello che sarebbe poi stato il criticismo; e la manterrà sempre. Da subito aveva pensato anche alle due metafisiche, della natura e rispettivamente dei costumi (denominazione, questa seconda, del sistema della morale). Ma, fino alla Critica della ragion pura inclusa, pensò ad una critica sola, per entrambe le metafisiche. Sappiamo che alla Metafisica dei costumi Kant lavorava già nel 1767, poi nel 1770, e di nuovo dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura (1781). Ma, inaspettatamente, nell’agosto 1783 annunciava una «prima parte» della sua Morale, e cioè quella che due anni dopo sarà la Fondazione della metafisica dei costumi («prima», perché la seconda parte sarebbe stata la Metafisica dei costumi stessa). Per l’innanzi Kant non aveva mai programmato un’opera del genere, una ‘propedeutica’ specifica al futuro sistema morale. E con ciò veniva meno la sufficienza, tanto per la filosofia teoretica quanto per la filosofia pratica, della Critica della ragion pura (che, da allora in poi, Kant prende a ribattezzare «Critica della ragion pura speculativa», e cioè teoretica). Dopo la Fondazione, egli si dava ancora una volta alla Metafisica dei costumi; ma neanche questa era quella buona (uscirà solo nel 1797, praticamente ultima delle opere pubblicate dal-

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l’autore). Invece, nel giugno 1787, un altro annuncio del tutto inatteso: della Critica della ragion pratica (che uscirà l’anno successivo). Della possibilità d’una tal Critica Kant aveva bensì parlato già nella Prefazione della Fondazione della metafisica dei costumi; ma allora aveva anche dichiarato di non avere intenzione di comporla mai. All’origine della Fondazione della metafisica dei costumi e rispettivamente della Critica della ragion pratica si trovano dunque dei mutamenti repentini: prima, l’abbandono dell’idea che nella Critica della ragion pura fosse contenuta la fondazione anche della Metafisica dei costumi; poi, l’abbandono dell’idea che, come propedeutica a questa, fosse sufficiente la Fondazione, e non necessaria una Critica della ragion pratica. Quel che nella Critica della ragion pura si trovava sulla morale (alla quale era riservato il capitolo Il canone della ragion pura) era palesemente insufficiente, troppo sommario. Ma, se Kant scrisse la Fondazione della metafisica dei costumi, fu perché nel Canone della ragion pura aveva sostenuto (al pari che nei suoi corsi, da un decennio e più) una dottrina che ora invece rinnegava completamente: che solo l’attesa delle punizioni e dei premi ultraterreni, e cioè la paura e la speranza, possono indurci a rispettare i precetti morali, o funzionare da «moventi» per l’adempimento del dovere; e pertanto – se non esistesse un Dio giudice e la nostra anima non fosse immortale – la legge morale risulterebbe vana, chimerica, appunto in quanto ininfluente quanto alla pratica effettiva. Invece, nella Fondazione della metafisica dei costumi ciò si trova rifiutato con sdegno come l’esatto opposto della moralità, in quanto verrebbe a rendere del tutto eteronoma l’etica, di contro a quella individuazione del principio della moralità nell’«autonomia della volontà» che si trova consegnata appunto alla Fondazione. Era stata quindi questa scoperta, del principio dell’autonomia, ad indurre Kant a scrivere la Fondazione, in alternativa al Canone della ragion pura (e chiamare «Critica della ragion pura speculativa» la Critica del 1781 equivaleva ad espungerne idealmente appunto il Canone). Sull’autonomia dell’etica, naturalmente, la Critica della ragion pratica non farà che ripetere la Fondazione. Da questo punto di vista, quindi, non c’era alcun bisogno d’una Critica della ra-

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gion pratica. Ce n’era bisogno, invece, per altro. Nella Fondazione della metafisica dei costumi, infatti, era presentata come insolubile la questione del «movente» della moralità: abbandonate la paura e la speranza nell’al di là, Kant non riusciva a spiegare come avvenga che la sensibilità si sottometta alla ragion pratica; e, poi, era completamente assente quella problematica delle prove ‘morali’ di Dio e dell’immortalità – concetto del «sommo bene» (virtù + felicità), e condizioni della sua realizzazione (esistenza di Dio, immortalità dell’anima) – che Kant aveva affrontata nel Canone della ragion pura, nel modo che sappiamo (e che era pur presente anche in tutti i suoi corsi di lezioni). Invece, nella Critica della ragion pratica la questione del «movente» della moralità (a cui sarà dedicato il capitolo III dell’Analitica) verrà data per risolta, non senza compiacimento; e ai ‘postulati’ necessari per pensare come possibile la realizzazione del «sommo bene» sarà dedicata un’intera parte: la Dialettica della ragion pura pratica. Naturalmente, in entrambi i casi, con un ribaltamento di posizioni rispetto al mercenarismo che improntava il Canone della ragion pura. Su queste due questioni l’alternativa è dunque fra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica; anche se certamente il passaggio dall’una all’altra è comandato da quanto scoperto nel frattempo nella Fondazione della metafisica dei costumi relativamente al principio della moralità. Il rapporto della Fondazione col Canone della ragion pura è allora questo: autonomia dell’etica, di contro ad una patente eteronomia; ma non ancora una risposta nuova, adeguata a questo capovolgimento, per gli interrogativi Come è possibile che si agisca moralmente? e Cosa si può sperare? Il rapporto della Critica della ragion pratica con la Fondazione: laddove i primi due capitoli dell’Analitica della ragion pura pratica corrispondono al contenuto delle prime due sezioni della Fondazione, il cap. III presenta invece la risposta nuova, all’altezza del principio dell’«autonomia», su come possa darsi una motivazione propriamente morale, e la Dialettica della ragion pura pratica su quel che sia lecito agli uomini di sperare. Beninteso, neppure i primi due capitoli dell’Analitica della ragion pura pratica sono una ripetizione della Fondazione della

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metafisica dei costumi. Per esempio, mentre nella Fondazione (sezione II) si avevano le famose tre formule dell’imperativo categorico, invece nella Critica della ragion pratica (Analitica, cap. I, § 7) la formula è una sola, quella che nella Fondazione era la prima: «opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»; e ciò è rilevante perché la seconda formula – l’umanità come fine in sé – era quantomeno problematica a fronte della formalità dell’etica, e la terza – l’autolegislatività della volontà – si trova messa da parte, nella Critica, col riferimento della legislazione morale sempre e solo alla «ragione». Ancora, nella Critica della ragion pratica è abbandonata quella teoria logicoformale del giudizio morale (contraddittorietà o meno d’una massima una volta elevata a legge) che nella Fondazione era illustrata, a proposito della prima formula dell’imperativo categorico, con i quattro esempi altrettanto famosi; e nell’appendice al cap. II dell’Analitica della ragion pura pratica intitolata Della tipica del giudizio puro pratico, l’operazione è di chiedersi semplicemente se s’accetterebbe razionalmente un mondo, di cui si facesse parte, in cui tutti si comportassero in un determinato modo. Soprattutto, poi, nella Critica della ragion pratica si trova che della legge morale non è possibile una «deduzione» (naturalmente nel senso di ‘deduzione trascendentale’): la si può solo «esporre», e cioè illustrare (com’è detto nel paragrafo Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica, in appendice al cap. I dell’Analitica); mentre tutta la III sezione della Fondazione era stata dedicata alla ricerca proprio d’una tale deduzione. A questo scopo, allora si muoveva dalla libertà del volere; laddove nella Critica il percorso è invertito: è dalla realtà della legge morale che viene dedotta la realtà della libertà della volontà. Tutto ciò, perché nella Critica (si veda anche il § 7 del cap. I dell’Analitica) la legge morale è considerata da Kant come «un fatto della ragione», autogarantito: di una ‘deduzione’, essa non avrebbe dunque neppur bisogno. Una netta presa di distanza dalla Fondazione è nella Prefazione della Critica della ragion pratica, là dove di quest’opera vien detto che «suppone» sì l’altra, ma «solo» perché vi si può

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attingere una «prima» conoscenza del principio del dovere; che è davvero ben minimizzante. E tuttavia, non fu certo per procedere a modifiche come quelle accennate, per quanto rilevanti, che Kant s’indusse a scrivere l’opera che solo tre anni innanzi aveva detta non necessaria. Cosa invece l’abbia deciso risulta da sue confidenze epistolari (tutte del 1787)1. Un’indicazione è la presentazione dell’intera Critica della ragion pratica come destinata a recuperare, con la ragion pratica pura, quell’accesso al sovrasensibile precluso invece (secondo la Critica della ragion pura) alla ragione speculativa, e additare così la strada giusta a quei dogmatici che insensatamente continuano a puntare su una strada teoretica. Quest’allusione anticipata è, naturalmente, alle nuove prove ‘morali’, anziché teoretiche, dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, alle quali verrà riservata la Dialettica della ragion pura pratica. Così, le Dialettiche delle due Critiche verranno a corrispondersi, in simmetria architettonica, come pars destruens e rispettivamente construens. Ma a procedere alla pars construens Kant era stato sfidato da Moses Mendelssohn (filosoficamente un vecchio leibniziano, ideologicamente prestigioso rappresentate dell’illuminismo a Berlino), che, in apertura d’un libro uscito nell’autunno 1785 – Morgenstunden, oder Vorlesungen über das Dasein Gottes – aveva presentato Kant come uno «schiacciatutto», o stritolatutto, in riferimento alla Dialettica della Critica della ragion pura, ed aveva auspicato che volesse ora «ricostruire», con lo stesso coraggio, quanto là aveva distrutto. Questa sfida, Kant l’accolse appunto con la Dialettica della ragion pura pratica. A sua volta, il libro del Mendelssohn era la risposta a quelle Lettere sulla dottrina dello Spinoza2 che, nello stesso 1785, gli aveva indirizzate Jacobi, dando così il via alla battaglia che va sotto il nome di Pantheismusstreit. Poi, un certo Wizenmann (che si troverà menzionato anche in una nota a pie’ di pagina nel § 8 del cap. II del1 Dell’Epistolario filosofico di Kant si ha, in trad. it., la scelta a cura di O. Meo, Il Melangolo, Genova 1990. 2 Trad. it. di F. Capra, rivista da V. Verra, Laterza, Bari 1969.

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la Dialettica della ragion pura pratica) ne aveva profittato per rilanciare un cristianesimo tradizionalistico. E alla fine anche Kant dovette prendere posizione, per segnare le distanze da tutti i contendenti nello stesso tempo. Lo fece – nel 1786, col saggio Che cosa significa orientarsi nel pensare?3 – elaborando la prospettiva di una «fede razionale» nell’esistenza di Dio e nell’immortalità dell’anima. ‘Fede’, di contro alle pretese dogmatiche di prove teoretiche, alla Mendelssohn; ma ‘razionale’, in alternativa (oltre che all’oscurantismo del Wizenmann) alla fede teorizzata da Jacobi, il quale alla ragione opponeva il «cuore», sostenendo che, lasciata a se stessa, la ragione non poteva invece che portare allo spinozismo. Per Kant, dunque, la posta in gioco era di difendere l’illuminismo, in presenza di simile deriva irrazionalistica (e delle avvisaglie d’una stretta reazionaria da parte del governo, all’indomani della scomparsa di Federico II), ma a condizione di non farne dipendere le sorti dal persistente dogmatismo filosofico. Del resto, nella Critica della ragion pratica, verso la fine della Delucidazione critica in appendice all’Analitica, si trova anche una menzione esplicita di Mendelssohn, in riferimento all’opera già citata. In questo contesto, i «maestri dommatici della metafisica» sono messi a confronto con Spinoza, al quale è riconosciuta la coerenza mancante invece a quelli (come dire, quindi, che il panteismo è la verità di ogni metafisica, finché si rimanga al dogmatismo); ma il criticismo, infine, è presentato come l’unica alternativa vittoriosa allo spinozismo medesimo. Ed una simile strategia argomentativa, in precedenza mai praticata da Kant, si spiega appunto col Pantheismusstreit. Con la «fede razionale» del 1786 egli superava dunque la crisi testimoniata dalla Fondazione della metafisica dei costumi, allorché – abbandonata la teoria che aveva sostenuta nel Canone della ragion pura – ancora non aveva trovato come procedere a rinnovate prove ‘morali’ dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima. E l’anno successivo, 1787, alla «fede razionale» si trova dedicato il più (dopo le prime pagine) della Prefazione al3 Trad. it. in Kant, Scritti sul criticismo, a cura di G. De Flaviis, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 13-29.

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la nuova edizione della Critica della ragion pura. Circostanza invero ben singolare, questa; e che non si spiega se non sullo sfondo di quanto s’è accennato fin qui. Fra l’altro, vi si trova la famosa dichiarazione: «Ho dovuto sopprimere il sapere», relativamente al sovrasensibile, «per sostituirvi la fede» (una autointerpretazione, dunque, per cui la distruzione delle prove teoretiche di Dio e dell’anima sarebbe stata già in funzione della restaurazione attraverso prove morali). Poi, finalmente, la «fede razionale» trovava elaborazione compiuta, l’anno ancora successivo, nella Dialettica della Critica della ragion pratica; e così si concludeva il ciclo apertosi inopinatamente, nella riflessione di Kant, con la Fondazione della metafisica dei costumi. Un’altra indicazione che si ricava dall’epistolario è questa: la Critica della ragion pratica servirà ad «eliminare gli equivoci a cui ha dato luogo la Critica della ragion pura teoretica», o «le contraddizioni che i partigiani della vecchia filosofia pretendono di trovare» in essa. Queste allusioni saranno riprese nella Prefazione dell’opera, là dove Kant preannuncia una risposta a quelle, delle obiezioni fino ad allora rivoltegli, che giudicava come le più rilevanti: «da una parte, la realtà oggettiva delle categorie applicate ai noumeni, negata nella conoscenza teoretica e affermata nella conoscenza pratica; dall’altra parte, l’esigenza paradossale di far se stesso, come soggetto della libertà, noumeno, ma nello stesso tempo, rispetto alla natura, nella propria coscienza empirica, fenomeno». Anche qui, si può indicare a cosa Kant si riferisse: a quanto gli era stato contestato in poche dense pagine di una recensione uscita nel 1786 (anonima, ma di H.A. Pistorius, lo stesso a cui c’è un riferimento nella quarta delle note a pie’ di pagina della Prefazione della Critica della ragion pratica)4. In questione era la concezione kantiana della libertà della volontà, in quanto libertà «trascendentale» (a cominciare dalla Soluzione della Terza Antinomia nella Dialettica della Critica della ragion pura). Infatti, una siffatta libertà non può esser collocata che nel mondo «intelligibile» (noumenico), ché quello fe4 Per i dati, cfr. S. Landucci, Sull’etica di Kant, Guerini, Milano 1984, pp. 172-74.

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nomenico è dominato, anche per Kant, dal determinismo più rigido; l’attribuzione all’uomo della libertà implica allora considerarlo quale ‘cosa in sé’, anziché quale oggetto fenomenico, come si coglie invece nella propria esperienza interna (coscienza empirica); però così si viene ad applicare a questa particolare cosa in sé che è l’uomo, in quanto portatore della libertà, la categoria di «sostanza»; e, dal momento che la libertà stessa è una forma di causalità (la «causalità per libertà»), si viene ad applicarle appunto anche la categoria della «causalità». Ma com’è possibile conciliare tutto ciò con la limitazione dell’uso delle categorie al mondo fenomenico predicata nella Critica della ragion pura? La risposta si trova (dopo che, assai oscuramente, in un capitoletto aggiunto nella 2a edizione della Critica della ragion pura, intitolato Osservazione generale intorno al passaggio dalla psicologia razionale alla cosmologia) nell’Analitica – questa volta – della Critica della ragion pratica: già nella Prefazione stessa, e poi, tematicamente, nel paragrafo Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a un’estensione che non le è possibile nell’uso speculativo, seconda delle appendici al cap. I. E qui si registra uno spostamento effettivamente notevole, rispetto alla Critica della ragion pura del 1781: «il concetto di una causa, in quanto derivato interamente dall’intelletto puro [...], e quindi per sé non limitato ai fenomeni (se non quando se ne volesse fare un uso teoretico determinato), può senza dubbio essere applicato a cose che sono enti puri dell’intelletto». Perché una simile presa di posizione non risulti platealmente incompatibile col criticismo, Kant punta sulla differenza fra decidere se si dia o no la libertà, nell’uomo, e invece determinare quel ch’essa sia o come sia possibile. Su questo secondo punto, anche per il Kant della Critica della ragion pratica si rimane del tutto al buio. Invece, sulla prima questione, ora – a differenza che nella Critica della ragion pura e nella Fondazione della metafisica dei costumi – egli è convinto d’essersi definitivamente assicurato della realtà della libertà del volere col dedurla dalla realtà della legge morale.

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Per Kant, la ‘ragion pratica’ è la ragione che guida l’agire (aristotelicamente, il práttein). È esclusa così, oltre alla razionalità meramente teoretica (il qewreîn), anche la razionalità tecnica (il poieîn), che applica delle conoscenze; e, all’interno dell’ambito pratico, sono esclusi i comportamenti non guidati da regole, o impulsivi. Però la ragione può guidare il comportamento in due sensi diversi, e tanto diversi che secondo Kant si tratta in realtà di due ragioni diverse. L’intera Analitica della ragion pura pratica porta su questa differenza, per l’individuazione della razionalità specificamente morale. Secondo Kant, dal punto di vista morale non sono pertinenti le azioni, in quanto realizzazioni effettive di propositi, bensì esclusivamente le Gesinnungen («intenzioni»), sia che si realizzino sia che non si realizzino in azioni, purché, naturalmente, ci s’impegni quanto possibile a che ciò avvenga. Il valore o disvalore morale attiene solo alla disposizione interiore, all’animus, anziché al successo (dalla prima all’ultima pagina della Critica della ragion pratica si parla di ‘azioni’, ma spesso e volentieri è dunque una metonimia: il tutto per la parte). E questa è la prospettiva della ragion pratica pura, che è la ragione propriamente morale. Se invece viene assunta la prospettiva del successo, la ragione viene ad avere una funzione strumentale (o «pragmatica», come talora Kant la denomina), al servizio dalla sensibilità, in quanto ha di mira il soddisfacimento di inclinazioni. Naturalmente, perché sia un soddisfacimento razionale, anche questo non dev’essere immediato, bensì oculato, e richiederà quindi il sacrificio di inclinazioni attuali in vista di vantaggi a più lungo termine. Un simile calcolo rivolto al futuro ha da sempre un nome, nel pensiero occidentale: ‘prudenza’; e cioè non un’abilità tecnica, specializzata, bensì un’avvedutezza complessiva nella gestione del proprio esser nel mondo. E il fine ultimo a cui è normalmente rivolta la prudenza è la propria felicità (o quel che tutti sono d’accordo nel chiamare felicità, precisa Kant, ché ognuno la concepisce poi a modo suo). Si ha così l’opposizione che attraversa tutta l’Analitica della ragion pura pratica: intenzione morale, da una parte, e, dall’altra, ricerca della felicità. Opposizione, però, non già perché si sia tanto più virtuosi quanto me-

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no felici (un masochismo estraneo a Kant), bensì perché, se si miri unicamente alla propria felicità, si preferirà questa anche allorché la legge morale ci richieda invece di sacrificarla. Alle due diverse ragioni pratiche – pura e prudenziale – corrispondono, nella Critica della ragion pratica, le due specie degli imperativi, «categorici» (incondizionati) e rispettivamente «ipotetici» (condizionati), e poi l’opposizione fra l’«autonomia» e l’«eteronomia» della volontà. Ma alla radice ci sono due concezioni eterogenee della ragione stessa. La ragione che Kant considera prudenziale è infatti la ragione tradizionale (diánoia), definita in base al suo modo di procedere, come facoltà di inferenze mediate, cioè discorsiva, o, giustappunto, calcolante (a contrasto con l’intuizione, noûv). Nella concezione che Kant aveva inaugurata con la Critica della ragion pura, invece la ragione veniva ad esser definita essenzialmente dall’oggetto a cui è rivolta, come la facoltà che (a contrasto con l’«intelletto») mira al trascendente, assoluto, sovrasensibile, incondizionato, ed è quindi sempre e solo pura, in quanto priva di alcun rapporto con la sensibilità. Secondo Kant, tale intenzionalità è destinata a rimanere frustrata in sede teoretica; ma trova soddisfazione in sede pratica, perché qui l’oggetto è perfettamente accessibile: la legge morale, che, in sé considerata, è appunto trascendente (rispetto a qualsiasi esperienza possibile), assoluta, sovrasensibile, incondizionata; e come tale viene appresa dalla ragione. Quest’ultima è allora autonoma, immanente a se stessa, di contro a quella dipendenza da altro – la sensibilità – che caratterizza invece la ragion pratica prudenziale. Il titolo Critica della ragion pratica è spiegato, da Kant, così: si tratta di mostrare che non si dà solo una ragion pratica strumentale, prudenziale, ma anche una ragion pratica pura, organo della legge morale, e che questa seconda reclama d’esser preferita, sacrificando la prima, in tutti i casi in cui si abbia un conflitto fra di esse. Ovvero – secondo la metafora tribunalizia con cui Kant aveva introdotto l’idea di una ‘critica’ della ragione – si tratta di sottoporre a giudizio la pretesa della ragione prudenziale d’esaurire essa tutta la razionalità pratica, argomentandone l’illegittimità. Una critica della ragion pratica ha dunque da

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mostrare che esiste una ragion pratica pura; ma per questo occorre appunto esaminare tutta intera la ragion pratica, cioè in entrambe le sue forme, per mostrare la loro irriducibilità reciproca e la priorità, quanto a dignità, della forma pura. La strutturazione interna della Critica della ragion pratica ripete quella della Critica della ragion pura, a cominciare dalla partizione formalmente principale: Dottrina degli elementi e Dottrina del metodo (questi due titoli risultano dall’adattamento d’una terminologia in uso nell’epoca). Nella Critica della ragion pratica, l’elaborazione della teoria si ha nella Dottrina degli elementi, mentre la Dottrina del metodo è applicativa. In quest’ultima è infatti presentata una pedagogia (in senso ampio) rispondente alla teoria già esposta. Quanto sostenuto nella Dottrina degli elementi è così ripresentato con tono ed andamento discorsivi, senza tecnicismi; e quindi questa parte risulta ben leggibile (si potrebbe suggerire ad un principiante di cominciare di qui, per farsi un’idea), ma anche senza niente di nuovo dal punto di vista filosofico. La Dottrina degli elementi è suddivisa in Analitica della ragion pura pratica e Dialettica della ragion pura pratica; mentre nella Critica della ragion pura la Dottrina degli elementi era suddivisa in Estetica trascendentale e Logica trascendentale, ed era quest’ultima ad esser suddivisa, a sua volta, in Analitica e Dialettica (titoli, questi ultimi, risultanti dall’adattamento d’una terminologia all’origine aristotelica). Nella Critica della ragion pratica, dunque, all’Analitica non è premesso alcunché di corrispondente a quella che nella Critica della ragion pura era l’Estetica trascendentale, per «estetica» intendendosi la dottrina della sensibilità. Invece, cominciando direttamente dall’Analitica, nella Critica della ragion pratica ci si trova fin dal principio all’altezza della ragione, anzi della ragione pura, che per Kant è la facoltà più distante dalla sensibilità (intermedio è l’intelletto). Eppure l’elemento sensibile – in questo caso i desideri o (come si trova di solito) le «inclinazioni» – risulta necessario onde si abbia moralità. Questa consiste infatti, per Kant, in una repressione delle inclinazioni a vantaggio della legge morale. Non già, al solito, che le inclinazioni siano in se stesse viziose e quindi da combattersi

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in quanto tali (in se stesse sono invece innocenti), ma sono da combattere ogniqualvolta si trovino in contrasto con la legge morale, perché in tal caso, se le si seguissero, si violerebbe la legge. La moralità consiste dunque nella vittoria della ragione (pura pratica) sulle inclinazioni; mentre un ente che fosse tutto e solo razionale, privo di inclinazioni sensibili (come per esempio Dio) non sarebbe morale, bensì ‘santo’. In una Critica della ragion pratica non si può allora prescindere dalla presenza della sensibilità in un ente razionale sì, ma finito, com’è l’uomo. Ma quanto se ne deve sapere? Davvero molto poco, proprio il minimo. È chiarito nella terzultima delle note a pie’ di pagina nella Prefazione: basta solo sapere che, oltre che ragione, l’uomo è anche desiderio; ma qualsiasi più dettagliata conoscenza di questo aspetto dell’uomo attiene, non già alla filosofia, bensì ad una disciplina empirica come la psicologia. Le due partizioni principali – Analitica e Dialettica – si distinguono per le due diverse prospettive in cui è presentato il rapporto fra la moralità e la felicità. Beninteso, col passaggio alla Dialettica queste nozioni rimangono identiche, concettualmente, a com’erano nell’Analitica; ché la moralità continua a consistere nell’intenzione virtuosa disinteressata, e la felicità in una soddisfazione compiuta e stabile dei propri desideri. La domanda che apre la Dialettica è se sia esaustivo quanto sostenuto nell’Analitica, e cioè: senz’altro lecito ricercare la felicità, però a condizione che non vada a scapito del rispetto per la legge morale, ché moralmente non è consentito d’anteporla al perseguimento della virtù. Ma – osserva ora Kant – se ci si limitasse a questo, la virtù da sola sarebbe tutto il bene morale. Eppure c’è un bene morale ancora maggiore, perché più completo che non la virtù da sola, e da considerare quindi, classicamente, come il «sommo bene»: virtù + felicità. Qui la felicità non è più considerata in quanto ricercata per la sua attrattiva, eventualmente anche a scapito della moralità, bensì in quanto la si meriti, e l’unico modo di meritarla è proprio di resistere all’attrattiva di essa al fine di rispettare la legge morale. Che la virtù sia premiata (e il vizio punito, s’intende) è dunque una rigorosa esigenza morale. Non c’entra neanche un po’ la ‘prudenza’ interessata; a par-

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lare è solo la ragion pratica pura. Infatti, cosa costituisce il merito d’una persona? Solo la sua virtuosità morale. Ma un merito reclama pur un riconoscimento, è un credito. E, per un ente finito – e cioè, dal punto di vista pratico, bisognoso – il premio, o il compenso, non può essere che la soddisfazione dei suoi desideri. Così, esser virtuoso si ridefinisce come «esser degno d’essere felice»; e la Dialettica della ragion pura pratica può prendere avvio. Ma, prima, c’è l’Analitica. Kant riteneva che un’etica filosofica dovesse 1) illustrare e fondare il principio della moralità, 2) delucidare il criterio dei giudizi morali, 3) spiegare la motivazione al rispetto degli obblighi morali. E queste tre questioni sono affrontate nell’Analitica della ragion pura pratica: rispettivamente, nel cap. I (Dei princìpi della ragion pura pratica); in quell’appendice al cap. II ch’è intitolata Della tipica del giudizio puro pratico, ben più rilevante che il capitolo stesso e che l’altra appendice, Tavola delle categorie della libertà in relazione ai concetti del bene e del male, aggiunta solo per amor di simmetria con la Critica della ragion pura, per la sua celebre ‘tavola delle categorie’ (concetti puri dell’intelletto); nel cap. III (Dei moventi della ragion pura pratica). Il capitolo I è strutturato secondo il metodo geometrico: alcune Definizioni, quattro Teoremi, due Problemi, con i relativi Scolii e Corollari; ma il § 7 è intitolato direttamente Legge fondamentale della ragion pura pratica. Tutto il capitolo è comandato dall’opposizione fra apriori ed aposteriori, o forma e materia, a cominciare dai primi due teoremi: i desideri sono fenomeni empirici, e, se vengono elevati a regole del comportamento, e cioè a princìpi pratici, questi non possono essere se non materiali, cioè dipendenti appunto dagli oggetti del desiderio. Princìpi siffatti sono funzione dell’amor proprio individuale; e si riportano, in ultimo, al fine della felicità (sulla quale Kant tornerà più volte, nel séguito). È di contro a ciò che, nel teorema III, si staglia la formalità dell’unica legge pratica, la legge morale, in quanto principio oggettivo, cioè invariabile, indipendente dalle diversità interindividuali, e quindi a priori ed universale, perché non tributario dell’empiria. Quando si ha a che fare con l’empi-

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ria si ha sempre a che fare con la datità, ch’è la materia; e quindi un principio universale, una ‘legge’, o non sarà o sarà rigorosamente formale. Così, formale viene a significare valevole per chiunque, indipendentemente dai desideri, dalle preferenze e dagli interessi di ciascuno. A seconda che il soggetto si faccia guidare, nel suo comportamento, dalla legge morale ovvero da princìpi materiali, si ha l’opposizione fra l’«autonomia» della volontà e rispettivamente la sua «eteronomia», sulla quale porta il teorema IV. Naturalmente, autonomia ed eteronomia si distribuiscono dal punto di vista della razionalità pratica pura: una volontà è autonoma quando è conforme a tale razionalità, ed eteronoma quando invece è succube delle inclinazioni sensibili. Ciò offre il destro a Kant di presentare – nel seguito, sempre, del § 8 – le filosofie morali del passato e del suo presente (con una scelta secondo lui esaustiva dei tipi fondamentali), per criticarle tutte come eteronome, anche quando a primo aspetto non si presentino così. Questa illustrazione è in parte anticipata ed in parte posposta, rispetto alla tabella schematica che n’è offerta. Precisamente, nel capoverso che comincia «Finalmente, nell’idea della nostra ragion pratica vi è ancora qualcosa...» vengono considerate le morali teologiche, che riportano tutto alla volontà di Dio e all’attesa di felicità; nel capoverso che comincia «Più sottile ancora, benché altrettanto falsa,...» viene considerata la teoria del ‘senso morale’, che s’era sviluppata in Inghilterra da Hutcheson a Hume ed oltre, per cui organo della morale sarebbe il sentimento, in quanto capace di reazioni disinteressate di approvazione o disapprovazione di fronte ai diversi comportamenti; mentre nel capoverso subito dopo la tabella («Quelli che stanno a sinistra...», ecc.) viene considerata l’etica della ‘perfezione’ di Christian Wolff e in genere dello stoicismo. Nessun commento Kant fa invece sulle altre tre etiche – «dell’educazione», «del governo civile» e «del sentimento fisico» –, evidentemente perché ritiene neppur bisognosa di illustrazione la loro eteronomicità, tanto è patente. Il § 7, dunque, enuncia la «legge fondamentale della ragion pura pratica», che suona: «opera in modo che la massima della

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tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale», ossia opera sempre in modo che il criterio d’azione che segui possa avere validità universale, e cioè esser valido per tutti, anzi che soltanto per te, nelle circostanze particolari in cui ti trovi. Qualora questa formula risultasse opaca, verrà chiarita nel paragrafo Della tipica del giudizio puro pratico. Da notare che nello scolio I al § 7 compare per la prima volta la qualificazione della legge morale (e della nostra coscienza di essa) come un Factum della ragione, poi illustrata nella prima delle appendici a questo stesso capitolo, Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica. E nel ‘corollario’ che subito segue ne viene tratta la conclusione: «La ragion pura è per sé sola pratica»; col che è data per risolta, quindi, quella che nell’Introduzione era stata presentata come la questione di fondo di una Critica della ragion pratica. Con i due Problemi dei §§ 5 e 6, infine, veniva introdotta la nozione della libertà della volontà. Per un verso, vi si sostiene, solo una volontà libera può determinarsi al rispetto della legge morale, anziché essere sempre e solo in balia delle inclinazioni sensibili (senza libertà, non ci sarebbe l’alternativa fra obbedire alla legge morale o violarla); e, per un altro verso, se la legge morale non è una chimera, è solo perché la volontà umana è in grado di adottarla come principio pratico. La questione della libertà verrà ripresa più volte, nel seguito, mostrando come ora si disponga della premessa necessaria per passare dalla mera «possibilità» della libertà (oltre la quale non consentiva di andare la ‘soluzione’ della terza delle antinomie considerate nella Critica della ragion pura) alla «realtà» di essa; premessa fornita proprio dalla ‘realtà’ della legge morale, ora acquisita. Quanto poi alla nozione di libertà che è in gioco, il chiarimento si ha soprattutto al centro della Dilucidazione critica in appendice a tutta l’Analitica; dove Kant oppone la propria concezione – la «libertà trascendentale», e cioè facoltà di dare inizio da sé ad una serie di eventi, incondizionatamente – alla concezione di Leibniz (ripetuta dai tanti suoi epigoni), della libertà come semplice spontaneità. Questa, Kant la qualifica come meramente «psicologica», perché fondata sulla internità dei motivi (cause) che opera-

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no sulla volontà, i quali però sono retti, al pari di tutti gli altri fenomeni, dal determinismo più stretto. Il cap. I dell’Analitica è tanto rilevante quanto faticoso, nonostante l’andamento geometrico. Se ne presentano qui, a mo’ d’esempi, il primo e l’ultimo paragrafo. Nel § 1 vengono introdotte, concitatamente, alcune nozioni fondamentali. La più generale è quella dei «princìpi» pratici, o regole generali di comportamento. Dall’insieme si ricava che sono di tre specie, a seconda del rapporto con le inclinazioni sensibili. Se si ha solo conformità con queste, la regola non è imperativa (per es., ascoltare musica un tanto ogni giorno, da parte d’una persona che la ami). Una regola è imperativa, invece, allorché per seguirla sia necessario il sacrificio, o la repressione, di inclinazioni. È la ragione (pratica) a formularla e a chiedere alla volontà di darsi da fare per realizzare il sacrificio. Ma qui i casi sono due, a seconda che il sacrificio sia richiesto per un calcolo prudenziale oppure per rispettare la legge morale. Nel primo caso – che è quello dell’imperativo ipotetico – la prescrizione è di sacrificare alcune inclinazioni per il soddisfacimento di altre, di norma differito nel tempo (per es., risparmiare in gioventù per non trovarsi a mal partito in vecchiaia). Nel secondo – che è quello dell’imperativo categorico –, di prescindere dalle inclinazioni ed opporsi a quelle che eventualmente resistano (per es., non testimoniare il falso ai danni di un innocente, nonostante un forte desiderio di non attirarsi guai). I princìpi pratici sono classificati, nel § 1, a seconda della loro oggettività ovvero soggettività. Kant comincia con opporre le «massime» soggettive e la «legge» (morale) oggettiva; ma il rapporto fra queste due nozioni non è esaurito da simile contrapposizione schematica, perché si possono ben seguire massime non rivolte al rispetto della legge morale (come sono le regole non imperative e gli imperativi ipotetici), ma seguire la legge morale significa proprio assumerla a massima del proprio volere. Decidere di darle la preferenza è infatti un atto soggettivo; ed è l’atto morale nella sua interezza. Ad essere oggettiva è dunque solo la legge morale di per sé, cioè quando la si consideri facendo astrazione dalla dinamica del volere individuale, in rapporto ad essa.

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Poi, alle «massime» soggettive Kant oppone gli «imperativi», sostenendo che questi sono oggettivi tutti quanti, compresi quindi quelli ipotetici. Ma anche qui si impone qualche precisazione, dopo che come oggettiva era stata classificata solo la legge morale. In effetti, l’imperativo categorico è senz’altro oggettivo, appunto nello stesso senso in cui lo è anche la legge morale, cioè finché lo si consideri in sé, prescindendo dall’eventuale adozione di esso a ‘massima’ di comportamento da parte di un soggetto individuale; laddove negli imperativi ipotetici, e cioè in proposizioni di tipo ‘se vuoi y, allora fa x’, ad essere oggettivo è solo il nesso se... allora (ovviamente nell’ipotesi che sia ben fondato); e difatti Kant avverte anche che l’imperativo ipotetico è pur «condizionato soggettivamente», in quanto nella condizione, «se vuoi...», si riferisce a quanto eventualmente desiderato da qualcuno, e i desideri sono sempre soggettivi. Due sono, allora, le oggettività e le soggettività in gioco. L’oggettività della legge morale e dell’imperativo categorico è la loro incondizionatezza, in contrasto con la condizionatezza dell’imperativo ipotetico e con la completa soggettività delle massime non imperative; mentre l’oggettività dell’imperativo ipotetico è empirica, fattuale, dipendendo dall’esser stato constatato che x porti a y. La soggettività in questione nell’opzione per la legge morale o per l’imperativo categorico, poi, è la soggettività della Gesinnung virtuosa; mentre, quando si seguano massime non imperative o imperativi ipotetici, è la soggettività delle inclinazioni sensibili. Nel § 8, dopo una prima formulazione iniziale dell’opposizione fra l’«autonomia» e l’«eteronomia», Kant propone questa riformulazione: «il principio unico della moralità consiste nell’indipendenza della legge da ogni materia (ossia da un oggetto desiderato) e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima dev’esser capace». I predicati (logici) sono dunque due, diversi: prima, «indipendenza della legge»; poi, «determinazione del libero arbitrio» (la quale, naturalmente, è un’autodeterminazione, e libero arbitrio si può assumere come sinonimo di quella che finora s’è chiamato ‘volontà’). Ma così sono ac-

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cavallate due prospettive, entrambe essenziali, per Kant, ma che qui ha lasciato da dipanare al lettore. Una è la prospettiva della legge morale qua talis; l’altra è la prospettiva della volontà, o del libero arbitrio, in rapporto alla legge morale (ovviamente è in questione solo il caso che la volontà si determini al rispetto della legge morale, perché si sta parlando appunto del «principio unico della moralità»). E le due considerazioni sono dunque esplicitabili più o meno così: a) se per «principio della moralità» s’intende il criterio, o la norma, della moralità, allora consiste nella legge morale, la quale è indipendente da qualsiasi materia; b) se per «principio della moralità» s’intende invece ciò in cui consiste la moralità intesa come pratica effettiva, allora è la determinazione della volontà, e cioè il decidersi, indipendentemente dai desideri e solo per rispetto della legge morale. Il capitolo II dell’Analitica – Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica – è il più scorrevole di tutta la Critica della ragion pratica; ma, precisando come intendere i concetti del ‘bene’ e del ‘male’ in senso morale, non aggiunge granché di nuovo rispetto al capitolo precedente, del quale – e in particolare del paragrafo su autonomia ed eteronomia – si può quindi considerare come una prosecuzione. Nell’appendice Della tipica del giudizio puro pratico, invece, è illustrato come decidere sulla qualità morale delle nostre ‘massime’. Per esempio, sono incerto se mantenere o no una promessa, ché, se non la mantenessi, non solo non me ne verrebbe danno, ma anzi me ne verrebbe vantaggio. Suppongo allora che in un mondo immaginario nessuno mantenga mai le promesse quando gliene venga vantaggio, come se in tale mondo questa fosse una legge naturale necessaria, relativamente al comportamento umano (è in questo senso che Kant propone di assumere quale «tipo» della legge morale, ogni volta, una immaginata legge naturale). E mi chiedo se acconsentirei mai ad un simile mondo, cioè se lo riterrei mai razionalmente accettabile, o non piuttosto orripilante. Insomma, potrei mai volere razionalmente che davvero tutti si comportassero sempre in quel modo? Secondo Kant, la risposta non ammette esitazioni. Quel che è decisivo, in-

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vece, è quindi porsi la domanda; perché con questa ci si trasferisce, dalle contingenze della propria situazione personale, al livello dell’universalità (‘tutti’), che è quello in cui opera la ragione pura. Così si sarebbe in grado di conoscere cosa la legge morale ci richieda. Però, stante la sommarietà della Tipica, rimangono in ombra i diversi esiti possibili del confronto fra le massime e la legge. Ora, se una massima non risulta razionalmente accettabile una volta universalizzata (cioè nell’ipotesi che tutti si comportassero in quel modo), si ha senz’altro il dovere di non adottarla a guida del proprio comportamento. Se invece non risulta inaccettabile che tutti si comportino sempre secondo una certa massima, allora non si ha alcun dovere, relativamente ad essa: siamo nell’ambito di quel che è lecito, o indifferente, dal punto di vista morale, cioè né vietato né obbligatorio. Vero è però che, per decidere che una certa massima sia, eventualmente, lecita, è pur necessario essersi chiesti cosa risulterebbe se tutti la seguissero sempre; e in questo senso la ragion pratica pura ha giurisdizione sull’intero ambito della praticità, niente le è sottratto di principio. Ma, infine, come decidere allora i doveri prescrittivi, gli obblighi positivi? Ad essere obbligatorie sono le massime contrarie a quelle vietate: basta sapere che non è lecito testimoniare il falso, per sapere automaticamente che si ha il dovere di rendere testimonianze veraci, costi quel che costi. Non è affatto vero, quindi, che Kant riconosca soltanto dei divieti; anche se è vero che, secondo lui, è attraverso di essi che si conoscono i doveri positivi. Il capitolo III dell’Analitica individua il movente della moralità nel «rispetto» per la legge morale. Dalla legge morale considerata in se stessa, si passa ora alla nostra «coscienza» (consapevolezza) di essa. E la questione è come siffatta coscienza possa operare contro le inclinazioni sensibili, che sono sempre all’erta per affermarsi, anche a scapito della legge morale (quando ci sia contrasto). Secondo Kant, alla consapevolezza della legge morale si accompagna automaticamente il rispetto per essa, ossia il riconoscimento della sua superiorità e dignità; e questo è tutto quel che sta dalla parte della legge nel confronto con

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le massime ispirate invece dalle inclinazioni. Si tratterà quindi di rafforzare un simile rispetto, con le tecniche pedagogiche illustrate nella Dottrina del metodo della Critica della ragion pratica. Beninteso, il rispetto per la legge morale non è un sentimento, e cioè un fenomeno empirico della psiche umana al pari di tutti i sentimenti veri e propri, appunto perché è prodotto direttamente dalla coscienza della legge morale stessa; e tuttavia opera come se fosse un sentimento, perché opera contro dei sentimenti, e in questo senso lo si può anche dire un «analogo» del sentimento. – Da notare, all’inizio del capitolo, una chiara formulazione di un’opposizione fondamentale per tutta l’etica kantiana: fra la moralità e la legalità (evangelicamente, fra lo spirito e la lettera). La legalità è la conformità esteriore d’un comportamento ad una norma morale, senza però la Gesinnung di rispettarla, ma con altra motivazione; come nel caso di un commerciante che non imbroglia sul prezzo, ma per paura di perdere clienti. La Dialettica della ragion pura pratica è intitolata così per il modo in cui la problematica di tutta questa parte dell’opera è impostata nei primi due paragrafi del cap. II: L’antinomia della ragion pratica, e Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica; in parallelo con un punto della Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura. In questa, infatti, Kant aveva esaminato gli oggetti sovrasensibili – anima, mondo, Dio – e, a proposito del mondo, aveva presentato quattro antinomie (per esempio, nel mondo c’è anche libertà / nel mondo tutto accade di necessità), procedendo poi a ‘risolverle’ mercé i princìpi del criticismo. Ma, curiosamente, nel paragrafo su L’antinomia della ragion pratica Kant si scorda di formularla, l’antinomia di cui discorre; per cui si potrà supplire pedantescamente. Si ha un’antinomia quando si presentino come entrambe vere due proposizioni reciprocamente contraddittorie, cioè tali che ciascuna sia negazione dell’altra (nella Critica della ragion pura, Kant le aveva chiamate rispettivamente Tesi ed Antitesi). E l’antinomia della ragion pratica si produce sul concetto del «sommo bene»; ossia di una proporzione esatta fra la virtù mo-

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rale di un individuo e la sua felicità. Ora, nel paragrafo in questione si trovano bensì due proposizioni: a) la ricerca della propria felicità non può produrre l’intenzione morale, b) la virtuosità non produce automaticamente un corrispettivo di felicità; ma queste non sono affatto contraddittorie l’una con l’altra. Al contrario, vanno congiunte: (A) Il sommo bene è impossibile, perché (a) la ricerca della felicità non produce virtù e (b) la virtù non produce felicità. Ed è la contraddittoria di questa proposizione che non si trova, qui. In compenso è facilmente ricavabile dal capitolo precedente (e la si può considerare come la Tesi, se si considera A come l’Antitesi): (T) Il sommo bene deve essere possibile, perché è l’oggetto necessario della ragion pratica pura, o della legge morale.

Infatti, è la stessa ragion pratica pura, nella sua imparzialità e nel suo disinteresse, a considerare moralmente inaccettabile che sia privo della felicità chi ne abbia bisogno e ne sia anche degno; ché ogni disarmonia fra virtù e felicità è ingiusta, e, dal punto di vista morale, la giustizia è imprescindibile. Esser degni della felicità e non goderne è come aver svolto un duro lavoro e non ricevere il compenso proporzionato, tanto più dovuto in quanto il lavoro non sia stato svolto per averne questo compenso, bensì disinteressatamente, com’è nel caso della virtù morale. Così, per risolvere l’antinomia, e cioè eliminare la contraddizione, Kant sosterrà che (A) non è completa, perché (a) è senz’altro vera, ma (b) no. Quest’altra, infatti, è vera solo se ci si riferisce al mondo che conosciamo per esperienza; ma questo – il mondo sensibile, o fenomenico – non è l’unico pensabile: c’è anche il mondo «intelligibile», o noumenico, e in questo il sommo bene è possibile (sul fondamento dell’immortalità dell’anima umana e dell’esistenza d’un Dio giudice saggio). L’antinomia si risolve, dunque, modificando (A) in maniera tale che non sia più l’antitesi di (T):

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Il sommo bene è possibile perché – nonostante che la ricerca della felicità non produca virtù e nonostante che in questo mondo la virtù non produca felicità – tuttavia è possibile che ciò avvenga in un altro mondo.

Le partizioni interne della Dialettica della ragion pura pratica – due capitoli, uno brevissimo, ed il secondo articolato invece in nove paragrafi – non hanno rilevanza strutturale. Nel cap. I è elaborato il concetto del «sommo bene». Nel II, §§ 4 e 5, sono introdotti i «postulati» della ragion pura pratica (esistenza di Dio e immortalità dell’anima). In quanto segue Kant s’affatica a precisare lo statuto di tali postulati, in quanto proposizione in se stesse teoretiche, ma fondate sul diritto della ragion pura pratica; ed a chiarire il rapporto che così si viene ad instaurare fra la ragion pura pratica e la ragion pura speculativa. Semmai, nel paragrafo Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica si trova un’inserzione estranea all’andamento dell’argomentazione: quattro capoversi, da quello che comincia «Se noi ci vediamo obbligati a cercare la possibilità del sommo bene...» a quello che termina «... è analogo alla proprietà di bastare a se stesso, che si può attribuire solo all’essere supremo». A questo punto il discorso riprenderà da dove s’era interrotto: «Da questa soluzione dell’antinomia della ragion pura pratica segue...», ecc.; la soluzione di cui s’era parlato nei primi capoversi del paragrafo. Nei quattro intramezzati, dunque, vien proposto l’ideale di una «contentezza di sé», nell’adempimento della virtù, simile alla beatitudine divina, e del tutto diversa dalla felicità, in quanto questa consiste nella soddisfazione delle inclinazioni. Ma proprio così la felicità era intesa invece nel concetto del sommo bene presentato fino a quel punto; tant’è vero che Kant aveva rifiutato, oltre all’epicureismo, anche lo stoicismo (identificazione della felicità con la virtuosità morale), mentre quella ‘contentezza di sé’ che sopravviene inopinatamente è autosufficienza della virtù, e cioè nient’altro che stoicismo. Così verrebbe meno il problema stesso, impostato com’era sull’idea dell’uomo quale ente bisognoso di felicità, appunto; e verrebbe meno la soluzione, che si troverà nei paragrafi seguenti: se a ren-

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der contenti di sé, in modo che non s’avrebbe più bisogno di nient’altro, fosse la consapevolezza della propria virtuosità morale, allora non ci sarebbe più da ‘postulare’ l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio quali condizioni per la realizzazione del sommo bene; ché si realizzerebbe già in questo mondo, per chi sia in grado di raggiungerlo, com’era infatti per i ‘saggi’ stoici.

Delle molte edizioni della Kritk der praktischen Vernunft a far testo è ancora quella a cura di P. Natorp, nel vol. V delle Gesammelte Schriften di Kant (cosiddetta ‘edizione dell’Accademia’), Reimer, Berlin 1908. L’anno successivo usciva la prima traduzione italiana, a cura di F. Capra (Laterza, Bari), poi sempre ristampata. Poiché il Capra non aveva fatto in tempo ad adoperare l’edizione Natorp, su questa la traduzione fu rivista, a partire dalla 7a edizione (1955), ad opera di E. Garin. A partire dal 1971 le sono stati aggiunti un Glossario e un Indice dei nomi a cura di V. Mathieu. E così viene ripubblicata nel presente volume. Recentissimo, il maggior strumento di lavoro: Stelleindex und Konkordanz zur «Kritik der praktischen Vernunft», a cura di H. P. Delfosse e M. Oberhausen, vol. XVI del Kant-Index diretto da N. Hinske, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1995. Il testo tedesco qui riportato è quello dell’edizione curata da Karl Vorländer, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1990. I numeri al margine sono quelli delle pagine della I edizione della Critica della ragion pratica di solito indicata con la A, a loro volta riportati ai margini delle principali edizioni.

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE DI KANT* 1724 Immanuel Kant nasce a Königsberg (Prussia Orientale) il 22 aprile da Johann Georg, sellaio o correggiaio proveniente da Memel (Lituania), e da Anna Regina Reuter, originaria per parte di padre di Norimberga. È il quarto di nove figli, di cui solo cinque sopravvissuti dopo i primi tempi di vita. 1732 Ha inizio la sua frequenza del Collegio Fridericiano, che durerà fino al 1740. 1737

Morte della madre.

1740 nigsberg.

In data 24 settembre viene immatricolato all’Università di Kö-

1746 Morte del padre. Kant lascia l’Università. Porta a termine il suo primo scritto, i Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, che esce però nel 1749. 1747 Ha inizio la sua attività di precettore in case private, che per molti anni lo tiene lontano dalla città natale. Opera a Judtschen, ad Arnsdorf e forse a Rautenburg in casa dei conti Keyserling. 1754 Con ogni probabilità è da quest’anno di nuovo a Königsberg, dove pubblica due brevi ma importanti scritti di fisica terrestre. 1755 Esce anonima e dedicata a Federico II la Storia universale della natura e teoria del cielo. Ottiene la promozione a magister con il De igne. Si abilita alla docenza, 27 settembre, con lo scritto: Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio.

* da A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 1996.

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1756 Nel gennaio-aprile escono tre suoi scritti sui terremoti. Si candida alla cattedra già ricoperta dal suo maestro Martin Knutzen (m. nel 1751). Il 10 aprile vede discussa la sua Monadologia physica. Il 25 aprile pubblica il suo programma per le lezioni del semestre estivo, dal titolo: Nuove annotazioni a chiarimento della teoria dei venti. 1757 Programma per il semestre estivo: Abbozzo e annunzio di un corso di geografia fisica. 1758 Programma per il semestre estivo: Nuova dottrina del moto e della quiete. Aspira senza risultato alla cattedra di logica e metafisica di Königsberg. 1759 mismo.

Programma per il semestre invernale: Considerazioni sull’otti-

1762-63 Redige nell’ordine i seguenti scritti: La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche (pubbl. 1762); L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (pubbl. 1763); Indagine sulla distinzione dei princìpi della teologia naturale e della morale (pubbl. 1764); Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative (1763). 1764 Rinunzia a ricoprire la cattedra di arte poetica dell’Università di Königsberg. Escono le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime e il Saggio sulle malattie della testa. 1765 Esce la sua Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, vero sommario degli interessi, della cultura e dell’attività di Kant professore. A ottobre concorre per il posto di sottobibliotecario presso la «Königliche Schlossbibliothek» di Königsberg. 1766 È nominato, in aprile, sottobibliotecario presso la «Schlossbibliothek», dove lavorerà, oltre i suoi impegni accademici, fino al maggio del 1772. Escono i Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica. 1768

Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio.

1769

Non accoglie l’invito a insegnare nell’Università di Erlangen.

1770 Dopo essere stato chiamato a insegnare a Jena concorre a Königsberg per l’ordinariato di logica e metafisica. Ottiene la nomina il 31 marzo. Dissertazione inaugurale: De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis. La discussione ha luogo il 21 agosto: «Respondent», Marcus Herz. Ha inizio il lungo periodo di ricerche che si concluderà con la pubblicazione della Critica della ragion pura.

Cronologia

XXXI

1772 Il 21 febbraio scrive la famosa lettera a Herz, che contiene un bilancio delle posizioni raggiunte, ma anche un riferimento più che chiaro ai problemi centrali del criticismo: la determinazione e la natura delle funzioni logiche dell’intelletto. 1775 Programma delle lezioni di geografia fisica per il semestre estivo: Delle diverse razze degli uomini.. 1776-78 Attività in favore dell’Istituto educativo di Dessau, il Philanthropin, fondato da Joh. B. Basedow. Nel ’78 declina la chiamata presso l’Università di Halle; diviene membro del senato dell’Università di Königsberg. 1781

A maggio esce a Riga la Critica della ragion pura.

1783 Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza. 1784-86 Escono i primi testi dell’etica critica e della filosofia kantiana della storia. Dell’84 sono: Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?; dell’85, oltre le recensioni a Herder e un nuovo scritto sulle razze (Determinazione del concetto di razza umana), la Fondazione della metafisica dei costumi; dell’86, le Congetture sull’origine della storia. Dell’86 sono ancora il breve saggio Che cosa significa orientarsi nel pensare? e i Primi princìpi metafisici della scienza della natura. Kant diviene membro dell’Accademia delle Scienze di Berlino. Inoltre, nel semestre estivo, sempre dell’86, è rettore dell’Università di Königsberg. 1787 Esce la seconda edizione della Critica della ragion pura, in più punti rimaneggiata e rifatta. La nuova Prefazione è dell’aprile dell’87: sono le ultime pagine della grande Critica scritte da Kant. 1788 Critica della ragion pratica; Intorno all’uso dei princìpi teleologici in filosofia. Durante il semestre estivo Kant è ancora una volta rettore dell’Università. 1790 Critica del Giudizio. E, contro Joh. A. Eberhard: Intorno a una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura deve esser resa superflua da una più antica. 1791

Intorno all’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea.

1792 Esce in aprile sulla «Berlinische Monatsschrift» il saggio sul male radicale nella natura umana, destinato a divenire la prima parte della Religione. La pubblicazione delle rimanenti parti viene impedita dalla censura.

Cronologia

XXXII

1793 La religione nei limiti della semplice ragione. A settembre esce anche il saggio: Sopra il detto comune: «Questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica». 1794 La fine di tutte le cose. Entra a far parte dell’Accademia di Pietroburgo. In ottobre riceve un minaccioso rescritto di Federico Guglielmo II, che gli ingiunge di non persistere nella sua opera di deformazione dei dogmi fondamentali e capitali della Scrittura e del cristianesimo. Kant si difende con profondità e abilità. 1795

Per la pace perpetua.

1796

Il 23 luglio Kant tiene l’ultima lezione: è una lezione di logica.

1797 Esce la Metafisica dei costumi e, inoltre, lo scritto: Sopra un presunto diritto di mentire per amore dell’umanità. 1798 Vedono la luce Il conflitto delle Facoltà e l’Antropologia dal punto di vista pragmatico. 1799

Nell’agosto interviene contro Fichte.

1800-1803 Escono le lezioni di Kant a cura dei discepoli: Logica (1800, ed. Jasche); Geografia fisica (1802, ed. Rink); Pedagogia (1803, ed. Rink). 1804 Amorevolmente assistito dal discepolo Wasianski si spegne alle 11 del mattino del 12 febbraio. Viene sepolto il 28. Il 23 aprile l’Università di Königsberg lo commemora solennemente. Compare, a cura di Rink, l’inedito kantiano: I progressi della metafisica.

NOTA DEL TRADUTTORE 1. La «Critica della ragion pratica» nel sistema di Kant L’opera presente, comparsa la prima volta nel 1788, è la seconda, in ordine logico e cronologico, delle tre opere critiche fondamentali kantiane. La Critica della ragion pura, pubblicata sette anni prima, accenna già alla conferma, che i princìpi puramente regolativi, che essa ammette, devono avere nell’uso pratico, e stabilisce la relazione delle diverse teorie metafisiche con la morale. Specialmente nella seconda edizione di quell’opera si afferma la necessità di sostituire al sapere trascendente una fede basata sulla ragion pratica. La Critica della ragion pratica, in relazione alla prima, deve mettere in chiaro l’unità della ragione speculativa con la pratica di un principio comune. Infine, la Critica del Giudizio, pubblicata due anni dopo, afferma la necessità teologica del principio morale e fa consistere in esso il fondamento dei postulati dell’esistenza di Dio, come creatore morale, e dell’immortalità dell’anima. Delle opere morali, la Critica della ragion pratica suppone la Grundlegung zur Methaphysik der Sitten (Fondamento alla metafisica dei costumi)1, in quanto essa segue il principio morale nel suo passaggio dalla conoscenza comune a quella filosofica, dalla filosofia popolare alla metafisica dei costumi e da questa alla critica della ragion pura pratica. La Grundlegung è una propedeutica alla opera seguente, insieme con la quale deve servire 1

Riga, bey Joh. Fr. Hartknock, 1785.

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Nota del traduttore

di base alla Methaphysik der Sitten (Metafisica dei costumi)2. Questa distingue il dovere in dovere di diritto, o diritto, e dovere di virtù, o dovere propriamente detto, e fa una classificazione empirica dei diritti e dei doveri. Conviene aggiungere, che già nei Träume eines Geistersehers (Sogni di un visionario) del 1766, la legge morale pare sufficiente a Kant per stabilire, indipendentemente da ogni considerazione teoretica, la libertà, Dio e l’immortalità. 2. Le varie edizioni Delle molte edizioni della Critica della ragion pratica tre apparvero vivente Kant: la prima nel 1788 a Riga, presso G.F. Hartknoch, la seconda nel 1792, e nel 1797 quella che vien chiamata la quarta edizione, per una terza, che è menzionata da Rosenkranz, Hartenstein e Kirchmann, nelle loro edizioni di quest’opera, ma che probabilmente non è mai esistita. Oltre a questi, solo il Kayser nel Vollständiges Bücher-Lexikon menziona con la quarta la terza edizione, ambedue senza data. Dopo la morte del Kant, la seconda Critica fu pubblicata ancora nel 1818 e nel 1827. Fu poi pubblicata dal Rosenkranz, due volte dall’Hartenstein, nelle loro edizioni complete di Kant3 e fece parte della Biblioteca filosofica del Kirchmann4. Infine, il Kehrbach, nel 1878, ne curò l’edizione per l’Universal-Bibliothek del Reclam, sul testo della prima edizione, coi riscontri della seconda e della quarta. Il testo non ebbe mai varianti sostanziali, ma solo correzioni di sviste.

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Königsberg, bey Fr. Nicolovius, 1796-7. In Sämmtliche Werke, pubbl. da K. Rosenkranz e F. W. Schubert (Lipsia, 1838-1842), vol. VIII. In Verke, pubbl. da G. Hartenstein (Lipsia, 1838), vol. IV, n. 2. In Sämmtliche Werke, pubbl. da G. Hartenstein (Lipsia, 1867), vol. V, n. 1. 4 In Philosophische Bibliothek, di F. H. von Kirchmann (Berlino, 1869), vol. VIII. 3

Nota del traduttore

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3. Di questa traduzione La prima traduzione della Critica della ragion pratica fu fatta in latino dal Born e pubblicata fra il 1796 e il 1798, insieme con altre opere kantiane da lui voltate nella stessa lingua. Nel 1848 ne uscì (Parigi, Ladrange) la traduzione francese del Barni5 e nel 1889 quella inglese dell’Abbot. Una nuova eccellente traduzione francese fu fatta dal Picavet, edita dall’Alcan nel 1888 e, per la seconda volta, nel 1902, con note e con un saggio sulla fortuna della filosofia kantiana in Francia dal 1773 al 1814. In italiano non era stata mai tradotta finora. La mia traduzione è letterale, per quanto è possibile, e serba quasi sempre il periodo kantiano. Nelle note, ho chiarito i termini strettamente filosofici e quelli che non potevano essere adeguatamente resi in italiano; e ho distinto con la sigla [T] le note mie e con la sigla [P] quelle che ho attinte al Picavet. Francesco Capra Torino, 7 febbraio 1908

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Si veda intorno a essa B. Spaventa, Da Socrate a Hegel, Bari, Laterza 1905, pp. 123-50.

NOTA DEL REVISORE La traduzione di Francesco Capra, uscita la prima volta nel 1909, raggiunse nel 1947 la sesta edizione, sostanzialmente immutata così nel testo come nella prefazione. La sua grande fedeltà all’originale giustifica la sua fortuna. Tuttavia nel ristamparla per la settima volta essa è stata rivista con cura, non solo per eliminare qualche svista, per chiarire qualche punto oscuro, ma anche per togliere alcune di quelle «balourdises particulièrement amusantes», di cui diceva Gide in una lettera del 1928, che sono i curiosi errori che si insinuano nelle ristampe, e che poi si conservano e si riproducono. Una confusione più volte ripetuta fra «fuorché» e «finché» – per far solo un esempio – può recare, in un testo come questo di Kant, non poca oscurità: e non si tratta che di un errore di stampa. Qualche correzione si è ugualmente introdotta nell’interpunzione; il Capra, per un discutibile criterio di aderenza, aveva spesso reso difficilmente comprensibile anche periodi abbastanza chiari. Così, qua e là, a una fedeltà del tutto estrinseca si è preferita una effettiva ‘traduzione’. «Je crois absurde de se cramponner au texte de trop près» – osservava ancora Gide, soggiungendo giustamente che «il importe de ne pas traduire des mots, mais des phrases». Già il Born nell’avvertenza al lettore, posta in calce al primo volume della sua versione latina, aveva affermato l’esigenza di rispettare sì il tecnicismo di certi termini e di certe frasi, ma senza venir meno alle esigenze della lingua in cui si rendeva il testo kantiano («satius esse duxi ut, quoad possem et liceret, a genere dicendi puro disertoque haud recederem, ubi autem

Nota del revisore

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verbum latinum minus occurreret, vel metuendum videretur ne sententia eo redderetur ambigua atque incerta, aut pluribus idem verbis exposui, aut exprimi verbum e verbo malui»). E quanto poi a quel tecnicismo di Kant, il cui presunto rigore induceva Max Müller a parlarne come di una specie di lingua franca della filosofia moderna, si richiederebbe ben altro di scorso; ché non solo da opera a opera, ma nello stesso scritto kantiano sono frequenti le oscillazioni di significato del medesimo termine1. Comunque, accettata la traduzione del Capra per i suoi innegabili meriti, la revisione non poteva non ridursi a qualche minima correzione, precisazione e rettifica, rispettando al massimo l’originale anche là dove non sarebbe stato poi troppo difficile rendere Kant con maggiore scioltezza. Alle poche note storiche del Capra, o dal Capra tratte dal Picavet (contrassegnate le prime con la sigla T, le seconde con la sigla P), se ne sono aggiunte alcune altre, fra parentesi quadra, di numero assai limitato, storiche anch’esse (o volte a indicare le fonti di alcune citazioni). Il lavoro di revisione è stato condotto sul testo stabilito dal Natorp per l’edizione delle opere dell’Accademia prussiana2, e su quello, in qualche punto diverso, del dottor Benzion Kellermann nel quinto volume dell’edizione del Cassirer3, ma s’è anche avuto presente un esemplare dell’ultima edizione pubblicata prima della morte di Kant, indicata come quarta sul frontespizio, ma in realtà terza, e che corrisponde anche nella paginazione alla prima4. La genesi dell’opera, le vicende della pubblicazione, le po1

Immanuel Kant, Critique of pure reason, In Commemoration of the centenary of its First Pubblication, translated into english by Max Müller, Macmillan, London 1881, vol. I, p. XIV. Per le oscillazioni a proposito di termini caratteristici della morale cfr. per es. le note del Delbos, La philosophie pratique de Kant, Paris 1905, pp. 340-2, sul rispetto (Achtung), avvicinato all’amore ragionevole di sé, all’approvazione di sé (Selbstbilligung), alla soddisfazione di sé (Selbstzufriedenheit), a una facoltà di bastarsi (Selbstgenugsamkeit), pp. 433-34, su Wille e Willkür ecc. (cfr. anche Rudolf Eisler, Kant-Lexikon, Berlin, 1930, oltre a H. Ratke, Systemat. Handlexikon zur Kr. d. r. V., Leipzig 1929). 2 Kant’s Werke, Band V, Berlin 1908, pp. 1-163. 3 Kant’s Werke, Band V, Berlin 1914. 4 Critik / der / praktischen Vernunft / von / Immanuel Kant. / Vierte Aufla-

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Nota del revisore

lemiche suscitate dalla Grundlegung – e di cui l’eco risuona specialmente nella prefazione della Critica – sono già state minutamente illustrate dal Natorp nella sua edizione5: quanto sembrava necessario ad intendere il testo si è – anche se in forma estremamente succinta – indicato nelle note aggiunte a questa ristampa. Un più preciso elenco delle edizioni e delle traduzioni – troppo sommariamente indicate dal Capra fino al 1908 – per essere veramente utile dovrebbe trasformarsi in un capitolo, e non certo dei meno importanti, di storia della cultura filosofica6. La traduzione latina del Born comparve nel 1797 nel terzo volume della sua versione delle opere kantiane, insieme con la Critica del Giudizio (IMMANUELIS KANTII Opera ad Philosophiam Criticam latine vertit Fredericus Gottlob Born. Volumen tertium Lipsiae, Impensis Engelhard Ben. Schwickerti, 1797, pp. I-XVIII [prefazione di Kant], XIX-XXI [indice], 1-168). Ma anche in Inghilterra sembra essersi destato molto presto l’interesse per gli scritti morali di Kant (Essays and Treatises on moral, political, and various philosophical subjects. From the German by the translator of the principles of Critical Philosophy, voll. 2, London, William Richardson, 1798-9). Nel 1873, stampate a Dublino, ma edite a Londra, cominciano a uscire le versioni degli scritti morali di Kant a cura di ge. / Riga, / bey Johan Friedrich Hartknoch. / 1797. Secondo il Natorp, loc. cit., p. 498, l’indicazione quarta edizione sarebbe dovuta dal fatto che la tiratura della seconda edizione era stata di 2000 esemplari invece dei soliti mille. 5 Cfr. le pp. 489-509, dell’ed. dell’Accademia. Sul testo della Critica, oltre le correzioni del Grillo, Druckfehlerverzeichnis, «Philos. Anzeiger», I. Jahrg., 1795 (non «un dott. Grillo» – come scriveva il Gentile – ma Friedrich Grillo [17391802] professore di filosofia ‘bei dem Kadettenkorps’ a Berlino), cfr. Erich Adickes, Korrekturen und Konjekturen zu Kants etischen Schriften, «Kantstudien», V, 1901, pp. 211-4; Emil Wille, Konjekturen zu Kants Kritik der praktischen Vernunft, «Kantstudien», VIII, 1903, pp. 467-71. 6 La prima ed. del 1788, Riga, Johann Friedrich Hartknoch, ha lo stesso numero di pagine (292) della III-IV. La seconda, che doveva uscire nel ’90, vide la luce dallo stesso editore nel 1792 (dopo la morte di Kant fu ancora ristampata nel 1818 e nel 1827). Fu inclusa nella raccolta delle opere del Rosenkranz-Schubert (1838), nelle due dello Hartenstein (1838 e 1867), in quella di J. H. von Kirchmann (1869), oltre che in quelle già citate dell’Accademia e del Cassirer. Fu pubblicata dal Kehrbach nella Reclam, e dal Vorländer (Lipsia, 1906). Sono ristampe abusive quelle del 1791 e del 1795 a Francoforte e a Lipsia, e quella del 1796 a Grätz.

Nota del revisore

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Thomas Kingsmill Abbot, vissuto fra il 1829 e il 1913 (KANT’S Theory of Ethics of Practical Philosophy: comprising 1. Fundamental Principles of the metaphysics of morals. 2. Dialectic and methodology of practical reason. 3. On the Radical Evil in human nature, Translated by T.K. Abbot, London 1873; KANT’S Critique of Practical Reason, and Other Works on the Theory of Ethics, Translated by T.K. Abbot... An enlarged edition..., 1879; terza ed. 1883). Nel 1949 è uscita una traduzione americana a Chicago (Critique of Practical Reason and Other Writings in Moral Philosophy [la Fondazione, la Distinzione dei princìpi della teologia naturale e della morale, lo scritto sull’Illuminismo ecc.]. Translated and Edited, with an Introduction, by Lewis White Beck, The University of Chicago Press,1949). Nel 1848, a cura del Barni, usciva la fortunatissima prima traduzione francese (Critique de la Raison Pratique, précédée des Fondements de la métaphysique des moeurs, trad. par. J. Barni, Paris 1848), seguita nel 1888 da quella del Picavet (edita più volte dall’Alcan, e nel 1943 «avec une introduction nouvelle de Ferdinand Alquié»), e nel 1945 da quella del Gibelin7. In Italia, dopo quella del Capra, completa, si ebbero non poche edizioni parziali della Critica, alcune delle quali assai pregevoli8, per uso scolastico. Eugenio Garin 7 Nel 1879 usciva una traduzione russa: trad. spagnola a cura di Manuel Garcia Morente, autore anche di uno studio su La filosofia de Kant, 1917 (cfr. José Ferrater Mora, Diccionario de filosofia, México 1941, pp. 218 e 303). 8 A cura di G. Vidari (Torino, 1924); di C. Motzo Dentice di Accadia (Firenze 1932), di G. E. Barié (Firenze, 1936). A proposito di quanto è accennato sopra circa le variazioni della terminologia kantiana è da vedere il notevole saggio di G. Tonelli, La formazione del testo della «Kritik der Urteilskraft», «Revue Internationale de Philos.», n. 30, 1954, fasc. 4 (tutto dedicato a Kant). La più recente letteratura kantiana è esaminata da L. Sichirollo nell’accurata rassegna Per una storia della storiografia kantiana, «Studi Urbinati», anno XXVI, 1952 [1953], pp. 95-113 (v. anche W. H. Walsh, A Survey of Work on Kant, «Philos. Quarterly», 1953, pp. 257-70). Numerose le pubblicazioni del ’54 per memoria dei 150 anni dalla morte: cfr. per es. il vol. delle «Kantstudien» (Band 45, Heft 1-4, 1953-4) «zur Erinnerung an Immanuel Kant aus Anlass der einhundertfünfzigsten Wiederkehr seines Todestages 12. Februar 1954».

KRITIK DER PRAKTISCHEN VERNUNFT

CRITICA DELLA RAGION PRATICA

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| VORREDE

Warum diese Kritik nicht eine Kritik der reinen praktischen, sondern schlechthin der praktischen Vernunft überhaupt betitelt wird, obgleich der Parallelismus derselben mit der spekulativen das erstere zu erfordern scheint, darüber gibt diese Abhandlung hinreichenden Aufschluß. Sie soll bloß dartun, d a ß e s r e i n e p r a k t i s c h e Ve r n u n i t g e b e , und kritisiert in dieser Absicht ihr ganzes p r a k t i s c h e s Ve r m ö g e n . Wenn es ihr hiermit gelingt, so bedarf sie das r e i n e Ve r m ö g e n s e l b s t nicht zu kritisieren, um zu sehen, ob sich die Vernunft mit einem solchen als einer bloßen Anmaßung n i c h t ü b e r s t e i g e (wie es wohl mit der spekulativen geschieht). Denn wenn sie als reine Vernunft wirklich praktisch ist, so beweist sie ihre und ihrer Begriffe Realität durch die Tat, und alles Vernünfteln wider die Möglichkeit, es zu sein, ist vergeblich. | Mit diesemVermögen steht auch die transzendentale F r e i h e i t nunmehr fest, und zwar in derjenigen absoluten Bedeutung genommen, worin die spekulative Vernunft beim Gebrauche des Begriffs der Kausalität sie bedurfte, um sich wider die Antinomie zu retten, darin sie unvermeidlich gerät, wenn sie in der Reihe der Kausalverbindung sich das U n b e d i n g t e denken will; welchen Begriff sie aber nur problematisch, als nicht unmöglich zu denken, aufstellen konnte, ohne ihm seine obiektive Realität zu sichern, sondern allein, um nicht durch vorgebliche Unmöglichkeit dessen, was sie doch wenigstens als denkbar gelten lassen muß, in ihrem Wesen angefochten und in einen Abgrund des Skeptizismus gestürzt zu werden. Der Begriff der Freiheit, sofern dessen Realität durch ein apodiktisches Gesetz der praktischen Vernunft bewiesen ist, macht

PREFAZIONE

La seguente trattazione spiega abbastanza il motivo per cui questa Critica non è intitolata Critica della ragion p u r a pratica, ma semplicemente Critica della ragion pratica in genere, benché il parallelismo di essa con la ragione speculativa sembri richiedere il primo titolo. Essa deve semplicemente dimostrare che v i è u n a r a g i o n p u r a p r a t i c a , e a questo fine ne critica l ’ i n t e r a f a c o l t à p r a t i c a . Se riesce in ciò, essa non ha bisogno di criticare la s t e s s a f a c o l t à p u r a , per vedere se la ragione n o n o l t r e p a s s i se stessa con questa facoltà, come con una semplice presunzione (come invero accade con la ragione speculativa). Poiché se essa, come ragion pura, è veramente pratica, dimostra la realtà propria e quella dei suoi concetti mediante il fatto, ed è vano ogni sofisticare contro la sua possibilità di esser tale. Con questa facoltà è ormai stabilita anche la l i b e r t à trascendentale e, invero, presa nel senso assoluto del quale aveva bisogno la ragione speculativa nell’uso del concetto di causalità, per scampare dall’antinomia in cui essa inevitabilmente cade quando vuol concepire l ’ i n c o n d i z i o n a t o nella serie delle relazioni causali; il quale concetto però essa poteva stabilire il modo solamente problematico, come non impossibile a pensare, senza assicurargli la realtà oggettiva, soltanto per non esser attaccata nella sua essenza e precipitata in un abisso di scetticismo, mediante la pretesa impossibilità di ciò che essa deve lasciar valere almeno come pensabile. Il concetto della libertà, in quanto la realtà di essa è dimostrata mediante una legge apodittica della ragion pratica, costi-

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nun den S c h l u ß s t e i n von dem ganzen Gebäude eines Systems der reinen, selbst der spekulativen Vernunft aus, und alle anderen Begriffe (die von Gott und Unsterblichkeit), welche als bloße Ideen in dieser ohne Haltung bleiben, schließen sich nun an ihn an und bekommen mit ihm und durchihn Bestand und objektive Realität, d. i. die | M ö g l i c h k e i t derselben wird dadurch b e w i e s e n , daß Freiheit wirklich ist; denn diese Idee offenbart sich durchs moralische Gesetz. Freiheit ist aber auch die einzige unter allen Ideen der spekulativen Vernunft, wovon wir die Möglichkeit a priori w i s s e n , ohne sie doch einzusehen, weil sie die Bedingung* des moralischen Gesetzes ist, welches wir wissen. Die Ideen von G o t t und U n s t e r b l i c h k e i t sind aber nicht Bedingungen des moralischen Gesetzes, sondern nur Bedingungen des notwendigen | Objekts eines durch dieses Gesetz bestimmten Willens, d. i. des bloß praktischen Gebrauchs unserer reinen Vernunft; also können wir von jenen Ideen auch, ich will nicht bloß sagen nicht die Wirklichkeit, sondern auch nicht einmal die Möglichkeit zu e r k e n n e n und e i n z u s e h e n behaupten. Gleichwohl aber sind sie die Bedingungen der Anwendung des moralisch bestimmten Willens auf sein ihm a priori gegebenes Objekt (das höchste Gut). Folglich kann und muß ihre Möglichkeit in dieser praktischen Beziehung a n g e n o m m e n werden, ohne sie doch theoretisch zu erkennen und einzusehen. Für die letztere Forderung ist in praktischer Absicht genug, daß sie keine innere Unmöglichkeit (Widerspruch) enthalten. Hier ist nun ein in Vergleichung mit der spekulativen Vernunft bloß s u b j e k t i v e r Grund des Fürwahrhaltens, der doch einer ebenso reinen, aber praktischen Vernunit o b i e k t i v gültig ist, dadurch den Ideen von Gott und Unsterblichkeit vermittelst des Be* Damit man hier nicht I n k o n s e q u e n z e n anzutreffen wähne, wenn ich jetzt die Freiheit die Bedingung des moralischen Gesetzes nenne und in der Abhandlung nachher behaupte, daß das moralische Gesetz die Bedingung sei, unter der wir uns allererst der Freiheit b e w u ß t w e r d e n können, so will ich nur erinnern, daß die Freiheit allerdings die ratio essendi des moralischen Gesetzes, das moralische Gesetz aber die ratio cognoscendi der Freiheit sei. Denn wäre nicht das moralische Gesetz in unserer Vernunft e h e r deutlich gedacht, so würden wir uns niemals berechtigt halten, so etwas, als Freiheit ist (ob diese gleich sich nicht widerspricht), a n z u n e h m e n . Wäre aber keine Freiheit, so würde das moralische Gesetz in uns gar n i c h t a n z u t r e f f e n sein.

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tuisce la c h i a v e d i v o l t a dell’intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della speculativa, e tutti gli altri concetti (quelli di Dio e dell’immortalità), i quali, come semplici idee, nella ragione speculativa rimangono senza sostegno, ora si uniscono ad esso e ricevono con esso e per mezzo di esso la stabilità e la realtà oggettiva, ossia la loro p o s s i b i l i t à è d i m o s t r a t a dal fatto che la libertà è reale; poiché quest’idea si manifesta con la legge morale. Ma la libertà è anche l’unica fra tutte le idee della ragione speculativa di cui noi c o n o s c i a m o a priori la possibilità senza tutta via percepirla, perché essa è la condizione* della legge morale che noi conosciamo. Le idee di D i o e d e l l ’ i m m o r t a l i t à , invece, non sono condizioni della legge morale, ma soltanto condizioni dell’oggetto necessario di una volontà determinata mediante questa legge, cioè dell’uso semplicemente pratico della nostra ragion pura. Quindi noi possiamo affermare di non c o n o s c e r e , n é p e r c e p i r e , non dico semplicemente la realtà, ma neanche la possibilità di queste idee. Nondimeno queste sono le condizioni dell’applicazione della volontà determinata moralmente all’oggetto che le è dato a p r i o r i (il sommo bene). Perciò si può e si deve a m m e t t e r e la loro possibilità in questa relazione pratica, senza però conoscerla né percepirla teoricamente. Per quest’ultima esigenza è sufficiente allo scopo pratico che esse non contengano impossibilità interna (contraddizione). Questo è il fondamento del consenso, semplicemente s o g g e t t i v o in confronto con la ragione speculativa, ma di valore o g g e t t i v o per una ragione bensì pura, ma pratica, pel quale alle idee di Dio e della immortalità mediante il * Perché qui non si creda di trovare i n c o e r e n z e 1, se ora chiamo la libertà la condizione della legge morale, e poi nella trattazione asserisco che la legge morale è la condizione alla quale solamente possiamo d i v e n t a r c o n s c i i della libertà, ricorderò soltanto che la libertà è senza dubbio la ratio essendi della legge morale, ma la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. Poiché, se la legge morale non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci terremmo mai autorizzati a d a m m e t t e r e una cosa come la libertà (benché questa non sia contraddittoria). Ma se non vi fosse libertà, la legge morale non si potrebbe assolutamente t r o v a r e in noi.

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griffs der Freiheit objektive Realität und Befugnis, ja subjektive Notwendigkeit (Bedürfnis der reinen Vernunft) sie anzunehmen verschafft wird, ohne daß dadurch doch die Vernunft im theoretischen Erkenntnisse erweitert, sondern nur die Möglichkeit, die vorher nur P r o b l e m war, hier | A s s e r t i o n wird, gegeben und so der praktische Gebrauch der Vernunft mit den Elementen des theoretischen verknüpft wird. Und dieses Bedürfnis ist nicht etwa ein hypothetisches einer b e l i e b i g e n Absicht der Spekulation, daß man etwas annehmen müsse, wenn man zur Vollendung des Vernunftgebrauchs in der Spekulation hinaufsteigen w i l l , sondern ein g e s e t z l i c h e s , etwas anzunehmen, ohne welches nicht geschehen kann, was man sich zur Absicht seines Tuns und Lassens unnachlaßlich setzen s o l l . Es wäre allerdings befriedigender für unsere spekulative Vernunft, ohne diesen Umschweif iene Aufgaben für sich aufzulösen und sie als Einsicht zum praktischen Gebrauche aufzubewahren; allein es ist einmal mit unserem Vermögen der Spekulation nicht so gut bestellt. Diejenigen, welche sich solcher hohen Erkenntnisse rühmen, sollten damit nicht zurückhalten, sondern sie öffentlich zur Prüfung und Hochschätzung darstellen. Sie wollen beweisen; wohlan! so mögen sie denn beweisen, und die Kritik legt ihnen als Siegern ihre ganze Rüstung zu Füßen. Quid statis? Nolunt. Atqui licet esse beatis. – Da sie also in der Tat nicht wollen, vermutlich, weil sie nicht | können, so müssen wir jene doch nur wiederum zur Hand nehmen, um die Begriffe von G o t t , F r e i h e i t und U n s t e r b l i c h k e i t , für welche die Spekulation nicht hinreichende Gewährleistung ihrer M ö g l i c h k e i t findet, in moralischem Gebrauche der Vernunft zu suchen und auf demselben zu gründen. Hier erklärt sich auch allererst das Rätsel der Kritik, wie man dem übersinnlichen G e b r a u c h e der K a t e g o r i e n in der Spekulation objektive R e a l i t ä t a b s p r e c h e n und ihnen doch in Ansehung der Objekte der reinen praktischen Vernunft diese R e a l i t ä t z u g e s t e h e n könne; denn vorher muß dieses notwendig i n k o n s e q u e n t aussehen, solange man einen solchen praktischen Gebrauch nur dem Namen nach kennt. Wird man aber jetzt durch eine vollständige Zergliederung der letzteren inne, daß gedachte Realität hier gar auf keine theoretische B e s t i m m u n g d e r K a t e g o r i e n und Erweiterung der Erkenntnis zum Übersinnlichen hinausgehe, sondern nur hierdurch gemeint sei, daß ihnen in dieser Beziehung überall e i n O b j e k t zukomme,

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concetto della libertà son procurati la realtà oggettiva e il diritto, anzi la necessità soggettiva (bisogno della ragion pura) di ammetterle, senza che perciò tuttavia la ragione sia estesa nella sua conoscenza teoretica; vien data soltanto la possibilità, che prima era solo un p r o b l e m a , e qui diventa a s s e r z i o n e , è così l’uso pratico della ragione è connesso con gli elementi dell’uso teoretico. E questo bisogno non è il bisogno quasi ipotetico di un intento a r b i t r a r i o della speculazione, che si debba ammettere qualcosa, se si vuol salire alla perfezione dell’uso della ragione nella speculazione; ma è bisogno [avente forza] di l e g g e ammettere qualcosa senza cui non può avvenire ciò che irremissibilmente si d e v e porre come scopo del proprio fare e per mettere. Senza dubbio sarebbe più soddisfacente per la nostra ragione speculativa risolvere da sé quei problemi, senza questo rigiro, e conservarli come criterio per l’uso pratico; ma la cosa non va così bene per la nostra facoltà di speculazione. Quelli che si vantano di avere cognizioni così alte, non dovrebbero nasconderle, ma esporle pubblicamente all’esame e alla venerazione. Essi vogliono d i m o s t r a r e ; ebbene! dimostrino pure, e la critica deporrà le armi ai loro piedi, come a vincitori. Quid statis? Nolint. Atqui licet esse beatis2. – Dunque, siccome veramente non vogliono, probabilmente per ché non possono, così noi dobbiamo solo riprendere in mano le armi per cercare nell’uso morale della ragione, e fondar su di esso, i concetti di D i o , l i b e r t à e i m m o r t a l i t à , alla cui p o s s i b i l i t à la speculazione non trova garanzia sufficiente. Qui si spiega anche anzitutto l ’ e n i g m a della critica, come nella speculazione si possa n e g a r e l a r e a l t à oggettiva all’uso soprasensibile delle c a t e g o r i e , eppure questa r e a l t à si possa loro c o n c e d e r e relativamente agli oggetti della ragion pura pratica; poiché ciò deve necessariamente parere i n c o e r e n t e , finché si conosce un simile uso pratico soltanto di nome. Ma se ora, mediante un’analisi compiuta di questa, si viene a conoscere che la realtà pensata qui non riesce punto a una d e t e r m i n a z i o n e t e o r e t i c a d e l l e c a t e g o r i e , né a un’estensione della conoscenza al soprasensibile, ma è solo creduta per il fatto che alle categorie in questa relazione conviene

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weil sie entweder in der notwendigen Willensbestimmung a priori enthalten oder mit dem Gegenstande derselben unzertrennlich verbunden | sind, so verschwindet jene Inkonsequenz, weil man einen anderen Gebrauch von jenen Begriffen macht, als spekulative Vernunft bedarf. Dagegen eröffnet sich nun eine vorher kaum zu erwartende und sehr befriedigende Bestätigung der k o n s e q u e n t e n D e n k u n g s a r t der spekulativen Kritik darin, daß, da diese die Gegenstände der Erfahrung als solche und darunter selbst unser eigenes Subjekt nur für E r s c h e i n u n g e n gelten zu lassen, ihnen aber gleichwohl Dinge an sich selbst zum Grunde zu legen, also nicht alles Übersinnliche für Erdichtung und dessen Begriff für leer an Inhalt zu halten einschärfte: praktische Vernunft jetzt für sich selbst, und ohne mit der spekulativen Verabredung getroffen zu haben, einem übersinnlichen Gegenstande der Kategorie der Kausalität, nämlich der F r e i h e i t , Realität verschafft (obgleich als praktischem Begriffe auch nur zum praktischen Gebrauche), also dasjenige, was dort bloß g e d a c h t werden konnte, durch ein Faktum bestätigt. Hierbei erhält nun zugleich die befremdliche, obzwar unstreitige Behauptung der spekulativen Kritik, daß sogar d a s d e n k e n d e S u b j e k t i h m s e l b s t in der inneren Anschauung b l o ß E r s c h e i n u n g s e i , in der Kritik der praktischen Vernunft auch ihre volle Bestätigung, so gut, daß | man auf sie kommen muß, wenn die erstere diesen Satz auch gar nicht bewiesen hätte.* Hierdurch verstehe ich auch, warum die erheblichsten Einwürfe wider die Kritik, die mir bisher noch vorgekommen sind, sich gerade um diese zwei Angeln drehen: nämlich e i n e r s e i t s im theoretischen Erkenntnis geleugnete und im praktischen behauptete objektive Realität der auf Noumenen angewandten Kate-

* Die Vereinigung der Kausalität als Freiheit mit ihr als Naturmechanismus, davon die erste durchs Sittengesetz, die zweite durchs Naturgesetz und zwar in einem auf demselben Subjekte, dem Menschen, feststeht, ist unmöglich, ohne diesen in Beziehung auf das erstere als Wesen an sich selbst, auf das zweite aber als Erscheinung, jenes im r e i n e n , dieses im e m p i r i s c h e n Bewußtsein vorzustellen. Ohne dieses ist der Widerspruch der Vernunft mit sich selbst unvermeidlich.

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dappertutto un o g g e t t o , perché esse, o sono contenute nella determinazione necessaria a p r i o r i della volontà, o sono legate indissolubilmente coll’oggetto di essa; quell’incoerenza scompare, perché di quei concetti si fa un uso diverso da quello di cui aveva bisogno la ragione speculativa. Invece si presenta una conferma, che era appena da aspettare ed è assai soddisfacente, della c o e r e n z a del modo di p e n s a r e della Critica speculativa, in ciò che, mentre questa ingiungeva di lasciar valere soltanto come f e n o m e n i gli oggetti dell’esperienza come tali, e perciò anche il nostro soggetto, e nondimeno di porre loro a fondamento le cose in se stesse, e quindi di non tenere tutto il soprasensibile per invenzione e il concetto di esso vuoto di contenuto; ora la ragion pratica, per se stessa e senza aver fatto un accordo colla ragione speculativa, procura la realtà a un oggetto soprasensibile della categoria della causalità, cioè alla l i b e r t à (benché, come concetto pratico, anche soltanto per l’uso pratico), e perciò conferma mediante un fatto quello che colla speculazione poteva essere semplicemente p e n s a t o . Nello stesso tempo, insieme con questa, la strana, benché indubitabile asserzione della Critica speculativa, che anche il s o g g e t t o p e n s a n t e è a s e s t e s s o , nell’ i n t u i z i o n e i n t e r n a , s e m p l i c e m e n t e u n f e n o m e n o , riceve la sua piena conferma nella Critica della ragion pratica, e in modo tale che si dovrebbe giungere a questa conferma anche se la prima Critica non avesse dimostrato affatto questa proposizione*. Quindi comprendo anche perché le obbiezioni più notevoli contro la Critica, che finora mi siano occorse, si aggirino appunto su questi due pernî: cioè da u n a p a r t e la realtà oggettiva delle categorie applicate ai noumeni, negata nella conoscenza teoretica e affermata nella conoscenza pratica, d a l l ’ a l * L’unione della causalità come libertà con la causalità come meccanismo naturale, delle quali la prima è mediante la legge morale, la seconda mediante la legge naturale, e invero in un solo e medesimo soggetto, cioè l’uomo, è impossibile se l’uomo non vien rappresentato relativamente alla prima legge come essere in sé, e relativamente alla seconda come fenomeno, quello nella coscienza p u r a , questo nell’e m p i r i c a . Senza di che la contraddizione della ragione con se stessa è inevitabile.

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gorien, a n d e r e r s e i t s die paradoxe Forderung, sich als Subjekt der Freiheit zum Noumen, zugleich aber auch in Absicht auf die Natur zum Phänomen in seinem eigenen empirischen Bewußtsein zu machen. Denn solange man sich noch keine bestimmten Begriffe von Sittlichkeit und Freiheit machte, konnte man nicht | erraten, was man einerseits der vorgeblichen Erscheinung als Noumen zum Grunde legen wolle, und andererseits, ob es überall auch möglich sei, sich noch von ihm einen Begriff zu machen, wenn man vorher alle Begriffe des reinen Verstandes im theoretischen Gebrauche schon ausschließungsweise den bloßen Erscheinungen gewidmet hätte. Nur eine ausführliche Kritik der praktischen Vernunft kann alle diese Mißdeutung heben und die konsequente Denkungsart, welche eben ihren größten Vorzug ausmacht, in ein helles Licht setzen. Soviel zur Rechtfertigung, warum in diesem Werke die Begriffe und Grundsätze der reinen spekulativen Vernunft, welche doch ihre besondere Kritik schon erlitten haben, hier hin und wieder nochmals der Prüfung unterworfen werden, welches dem systematischen Gange einer zu errichtenden Wissenschaft sonst nicht wohl geziemt (da abgeurteilte Sachen billig nur angeführt und nicht wiederum in Anregung gebracht werden müssen), doch h i e r erlaubt, ja nötig war: weil die Vernunft mit jenen Begriffen im Übergange zu einem ganz anderen Gebrauche betrachtet wird, als den sie d o r t von ihnen machte. Ein sol|cher Übergang macht aber eine Vergleichung des älteren mit dem neueren Gebrauche notwendig, um das neue Gleis von dem vorigen wohl zu unterscheiden und zugleich den Zusammenhang derselben bemerken zu lassen. Man wird also Betrachtungen dieser Art, unter anderen diejenige, welche nochmals auf den Begriff der Freiheit, aber im praktischen Gebrauche der reinen Vernunft gerichtet worden, nicht wie Einschiebsel betrachten, die etwa nur dazu dienen sollen, um Lücken des kritischen Systems der spekulativen Vernunft auszufüllen (denn dieses ist in seiner Absicht vollständig) um, wie es bei einem übereilten Baue herzugehen pflegt, hintennach noch Stützen und Strebepfeiler anzubringen, sondern als wahre Glieder, die den Zusammenhang des Systems bemerklich machen, um Begriffe, die dort nur problematisch vorgestellt werden konnten, jetzt in ihrer realen Darstellung einsehen zu lassen. Diese Erinnerung geht vornehmlich den Begriff der Freiheit an, von dem man mit Befremdung bemerken muß, daß noch so viele ihn ganz wohl einzusehen

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t r a p a r t e l’esigenza paradossale di far se stesso, come soggetto della libertà, noumeno, ma, nello stesso tempo, rispetto alla natura, nella propria coscienza empirica, fenomeno. Poiché, finché non ci fossimo fatto un concetto determinato della moralità e della libertà non potevamo indovinare, da una parte che cosa si deve porre come noumeno a fondamento del supposto fenomeno, e dall’altra se è possibile in genere farci ancora un concetto del noumeno, se prima si erano già applicati tutti i concetti dell’intelletto puro nell’uso teoretico esclusivamente ai semplici fenomeni. Solo un’ampia critica della ragion pratica può togliere tutti questi equivoci, e porre bene in chiaro il modo coerente di pensare che costituisce appunto il suo maggior pregio. Questo per render ragione del fatto che in quest’opera i concetti e i princìpi della ragion pura speculativa, che pure hanno già sostenuto la loro critica speciale, sono di nuovo sottoposti ad esame; cosa che del resto non conviene al processo sistematico con cui viene stabilita una scienza (dove cose giudicate definitivamente possono essere giustamente citate, ma non di nuovo discusse), ma che q u i era lecita, anzi necessaria; perché la ragione vien considerata nel passaggio a un uso di quei concetti affatto diverso da quello che là e s s a ne faceva. Ma un tale passaggio rende necessario un confronto dell’uso antico col nuovo, per distinguere bene la via nuova dalla precedente, e nello stesso tempo far notare la connessione tra di loro. Considerazioni dunque di questo genere, tra le altre quelle che furono rivolte ancora una volta al concetto della libertà (ma nell’uso pratico della ragion pura), non si riterranno interpolazioni che debbano forse servire soltanto a riempire i vuoti del sistema critico della ragione speculativa (poiché questo sistema dal suo punto di vista è perfetto), e a mettervi ancora sostegni e contrafforti, come suole avvenire in un edificio costruito troppo in fretta; ma si riterranno membra genuine, che rendono visibile la coerenza del sistema, in modo da far percepire ad esso, nella loro rappresentazione reale, concetti che prima potevano esser pensati in modo solo problematico. Questa osservazione riguarda specialmente il concetto della libertà, del quale si deve notare con meraviglia, come ancor tan-

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und die Möglichkeit derselben erklären zu können sich rühmen, indem sie ihn bloß in psychologischer Beziehung betrachten, indessen daß, wenn sie ihn vorher in transzendentaler genau erwogen hät|ten, sie sowohl seine U n e n t b e h r l i c h k e i t als problematischen Begriffs in vollständigem Gebrauche der spekulativen Vernunft, als auch die völlige U n b e g r e i f l i c h k e i t desselben hätten erkennen und, wenn sie nachher mit ihm zum praktischen Gebrauche gingen, gerade auf die nämliche Bestimmung des letzteren in Ansehung seiner Grundsätze von selbst hätten kommen müssen, zu welcher sie sich sonst so ungern verstehen wollen. Der Begriff der Freiheit ist der Stein des Anstoßes für alle E m p i r i s t e n , aber auch der Schlüssel zu den erhabensten praktischen Grundsätzen für k r i t i s c h e Moralisten, die dadurch einsehen, daß sie notwendig r a t i o n a l verfahren müssen. Um deswillen ersuche ich den Leser, das, was zum Schlusse der Analytik über diesen Begriff gesagt wird, nicht mit flüchtigem Auge zu übersehen. Ob ein solches System, als hier von der reinen praktischen Vernunft aus der Kritik der letzteren entwickelt wird, viel oder wenige Mühe gemacht habe, um vornehmlich den rechten Gesichtspunkt, aus dem das Ganze derselben richtig vorgezeichnet werden kann, nicht zu verfehlen, muß ich den Kennern einer dergleichen Arbeit zu beurteilen überlassen. Es setzt | zwar die G r u n d l e g u n g z u r M e t a p h y s i k d e r S i t t e n voraus, aber nur insofern, als diese mit dem Prinzip der Pflicht vorläufige Bekanntschaft macht und eine bestimmte Formel derselben angibt und rechtfertigt*; sonst besteht es durch sich selbst. Daß die E i n t e i l u n g aller praktischen Wissenschaften zur Vo l l s t ä n d i g k e i t nicht mit beigefügt worden, wie es die Kritik der spekulativen Vernunft leistete, dazu ist auch gültiger Grund in der Beschaffenheit dieses praktischen Vernunftvermögens anzutreffen. Denn die besondere Bestimmung der Pflichten als Menschen|pflichten, um sie einzu* Ein Rezensent, der etwas zum Tadel dieser Schrift sagen wollte, hat es besser getroffen, als er wohl selbst gemeint haben mag, indem er sagt: daß darin kein neues Prinzip der Moralität, sondern nur eine n e u e F o r m e l aufgestellt worden. Wer wollte aber auch einen neuen Grundsatz aller Sittlichkeit einführen und diese gleichsam zuerst erfinden? gleich als ob vor ihm die Welt in dem, was Pflicht sei, unwissend oder in durchgängigem Irrtume gewesen wäre. Wer aber weiß, was dem Mathematiker eine F o r m e l bedeutet, die das, was zu tun sei, um eine Aufgabe zu befolgen, ganz genau bestimmt und nicht verfehlen läßt, wird eine Formel, welche dieses in Ansehung aller Pflichten überhaupt tut, nicht für etwas Unbedeutendes und Entbehrliches halten.

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ti si vantino di poterlo comprendere benissimo e di poterne spiegare la possibilità, perché lo considerano semplicemente sotto l’aspetto psicologico, laddove se prima l’avessero esaminato accuratamente sotto l’aspetto trascendentale, avrebbero conosciuto tanto la sua n e c e s s i t à assoluta come concetto problematico nell’uso completo della ragione speculativa, quanto anche la sua totale i n c o m p r e n s i b i l i t à . Se poi fossero andati al suo uso pratico, avrebbero dovuto giungere da sé proprio alla stessa determinazione di quest’uso riguardo ai suoi princìpi, alla quale consentono così malvolentieri. Il concetto della libertà è l’inciampo di tutti gli e m p i r i s t i , ma anche la chiave dei princìpi pratici supremi per i moralisti c r i t i c i , che per mezzo di esso comprendono di dover necessariamente procedere in modo r a z i o n a l e . Perciò prego il lettore di non scorrere con occhio distratto ciò che su questo concetto si dirà in fine dell’Analitica. Se un tale sistema, come la ragion pura pratica qui lo sviluppa dalla sua critica, abbia speso molta o poca fatica per non smarrire il vero punto di vista da cui può esser ben disegnato l’insieme di esso, devo lasciarne giudicare a chi conosce questo genere di lavoro. Esso suppone invero il Fondamento alla metafisica dei costumi, ma solo in quanto questo scritto dà la prima conoscenza del principio del dovere, e trova e giustifica una formula determinata del dovere*; del resto, esso sussiste per sé. Se la d i v i s i o n e di tutte le s c i e n z e pratiche non è qui aggiunta a c o m p l e m e n t o , come fece la Critica della ragione speculativa, il motivo valido di ciò è da trovare nella natura di questa facoltà pratica della ragione. Poiché la determinazione particolare dei doveri come doveri umani, per la divisione di essi, è pos* Un critico3, volendo dire qualcosa in biasimo di quest’opera, ci è riuscito meglio di quanto egli stesso poteva pensare, poiché dice che in quest’opera non fu stabilito alcun nuovo principio della moralità, ma soltanto una n u o v a f o r m u l a . Ma chi pretenderebbe introdurre anche un nuovo principio di tutta la moralità, ed esser quasi il primo a trovar questa? Come se prima di lui il mondo avesse ignorato in che consista il dovere, o a questo riguardo fosse stato in un errore universale. Ma chi sa che cosa significa pel matematico una f o r m u l a che determina esattamente ciò che è da fare per eseguire un problema, e non permette di sbagliare, non stimerà come qualcosa d’insignificante e d’inutile una formula che ha un simile ufficio riguardo a ogni dovere.

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teilen, ist nur möglich, wenn vorher das Subjekt dieser Bestimmung (der Mensch) nach der Beschaffenheit, mit der er wirklich ist, obzwar nur soviel, als in Beziehung auf Pflicht überhaupt nötig ist, erkannt worden; diese aber gehört nicht in eine Kritik der praktischen Vernunft überhaupt, die nur die Prinzipien ihrer Möglichkeit, ihres Umfangs und Grenzen vollständig ohne besondere Beziehung auf die menschliche Natur angeben soll. Die Einteilung gehört also hier zum System der Wissenschaft, nicht zum System der Kritik. Ich habe einem gewissen wahrheitliebenden und scharfen, dabei also doch immer achtungswürdigen Rezensenten eener G r u n d l e g u n g z u r M e t a p h y s i k d e r S i t t e n auf seinen Einwurf: d a ß d e r B e g r i f f d e s G u t e n d o r t n i c h t (wie es seiner Meinung nach nötig gewesen wäre) v o r d e m m o r a l i s c h e n P r i n z i p f e s t g e s e t z t w o r d e n *, in dem zweiten Hauptstücke der Analytik, | wie ich hoffe, Genüge getan; ebenso auch auf manche andere Einwürfe Rücksicht genommen, die | mir

* Man könnte mir noch den Einwurf machen: warum ich nicht auch den Begriff des B e g e h r u n g s v e r m ö g e n s oder des G e f ü h l s d e r L u s t vor16 hererklärthabe; obgleich | dieser Vorwurf unbillig sein würde, weil man diese Erklärung, als in der Psychologie gegeben, billig sollte voraussetzen können. Es könnte aber freilich die Definition daselbst so eingerichtet sein, daß das Gefühl der Lust der Bestimmung des Begehrungsvermögens zum Grunde gelegt würde (wie es auch wirklich gemeinhin so zu geschehen pflegt), dadurch aber das oberste Prinzip der praktischen Philosophie notwendig empirisch ausfallen müßte, welches doch allererst auszumachen ist und in dieser Kritik gänzlich widerlegt wird. Daher will ich diese Erklärung hier so geben, wie sie sein muß, um diesen streitigen Punkt, wie billig, im Anfang unentschieden zu lassen. – Leben ist das Vermögen eines Wesens, nach Gesetzen des Begehrungsvermögens zu handeln. Das Begehrungsvermögen ist das Ve r m ö g e n desselben, durch seine Vorstellungen Ursache von der Wirklichkeit der Gegenstände dieser Vorstellungen zu sein. Lust ist die Vorstellung der Übereinstimmung des Gegenstandes oder der Handlung mit den subj e k t i v e n B e d i n g u n g e n d e s L e b e n s , d . i . mit dem Vermögen der Kausalität einer Vorstellung in Ansehung der Wirklichkeit ihres Objekts (oder der Bestimmung der Kräfte des Subjekts zur Handlung, es hervorzubringen). Mehr brauche ich nicht zum Behuf der Kritik von Begriffen, die aus der Psychologie entlehnt werden; das übrige leistet die Kritik selbst. Man 17 | wird leicht gewahr, daß die Frage, ob die Lust dem Begehrungsvermögen jederzeit zum Grunde gelegt werden müsse, oder ob sie auch unter gewissen Bedingungen nur auf die Bestimmung desselben folge, durch diese Erklärung unentschieden bleibt; denn sie ist aus lauter Merkmalen des reinen Verstandes, d.

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sibile solo se prima si è conosciuto il soggetto di questa determinazione (l’uomo), secondo la natura con la quale egli realmente esiste, benché solo per quanto è necessario in relazione al dovere in genere. Ma questa determinazione non spetta a una critica della ragion pratica in genere, la quale deve solo stabilire perfettamente i princìpi della possibilità, dell’estensione e dei limiti della ragion pratica senza particolare relazione alla natura umana. La divisione spetta, dunque, in questo caso al sistema della scienza, non al sistema della critica. Nel secondo capitolo dell’Analitica ho soddisfatto, come spero, un certo critico4 amante della verità e severo, ma sempre degno di estimazione, che obbiettava che, nel Fondamento alla metafisica dei costumi, i l c o n c e t t o d e l b e n e n o n è s t a b i l i t o p r i m a d e l p r i n c i p i o m o r a l e (come a suo parere sarebbe stato necessario)*. Ho pure tenuto conto di altre ob-

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* Mi si potrebbe ancora obbiettare, per qual ragione non ho anche spiegato pri ma il concetto della f a c o l t à d i d e s i d e r a r e o d e l s e n t i m e n t o d e l p i a c e r e ; quest’obbiezione tuttavia sarebbe ingiusta perché si doveva ragionevolmente supporre questa spiegazione come data nella psicologia. Ma quivi, a dir vero, la definizione potrebbe essere stabilita in modo che il sentimento del piacere fosse posto a base della determinazione della facoltà di desiderare (come anche realmente suole avvenire in generale); per altro, così, il principio supremo della filosofia pratica verrebbe necessariamente ad essere e m p i r i c o . La qual cosa è da decidere anzitutto, e in questa Critica sarà confutata interamente. Perciò qui voglio dare questa spiegazione, come dev’esser data, per lasciare, com’è giusto in principio, insoluto questo punto controverso. – La vita è la facoltà, che un essere ha, di agire secondo le leggi della facoltà di desiderare. L a f a c o l t à d i d e s i d e r a r e è l a f a c o l t à di quest’essere d i e s s e r e mediante le sue rappresentazioni la causa della realtà degli oggetti di queste rappresentazioni. Il piacere è la rappresentazione della corrispondenza dell’oggetto o dell’azione colle condizioni soggettive della vita, cioè col potere di causalità di una rappresentazione relativamente alla realtà d e l s u o o g g e t t o (o determinazione delle forze del soggetto all’azione di produrre l’oggetto). Di altri concetti che siano presi in prestito dalla psicologia, io non ho bisogno per la critica. Il resto lo fa la critica stessa. Si può vedere fa- 17 cilmente che con questa spiegazione rimane insoluta la questione, se il piacere debba sempre esser posto a base della facoltà di desiderare, oppure se sotto certe condizioni esso segua alla determinazione di questa facoltà; poiché questa spiegazione consta di sole caratteristiche dell’intelletto puro, cioè di categorie, e

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von Männern zu Händen gekommen sind, die den Willen blicken lassen, daß die Wahrheit auszumitteln ihnen am Herzen liegt (denn die, so nur ihr | altes System vor Augen haben, und bei denen sehon vorher beschlossen ist, was gebilligt oder mißbilligt werden soll, verlangen doch keine Erörterung, die ihrer Privatabsicht im Wege sein könnte); und so werde ich es auch fernerhin halten. Wenn es um die Bestimmung eines besonderen Vermögens der menschlichen Seele nach seinen Quellen, Inhalte und Grenzen zu tun ist, so kann man zwar nach der Natur der menschlichen Erkenntnis nicht anders als von den Teilen derselben, ihrer genauen und (soviel als nach der jetzigen Lage unserer schon erworbenen Elemente derselben möglich ist) vollständigen Darstellung anfangen. Aber es ist noch eine zweite Aufmerksamkeit, die mehr philosophisch und a r c h i t e k t o n i s c h ist: nämlich die I d e e d e s G a n z e n richtig zu fassen und aus derselben alle jene Teile in ihrer wechselseitigen Beziehung aufeinander, vermittelst der Ableitung derselben von dem Begriffe jenes Ganzen, in einem reinen Vernunftvermögen ins Auge zu fassen. Diese Prüfung und Ge|währleistung ist nur durch die innigste Bekanntschaft mit dem System möglich, und die, welche in Ansehung der ersteren Nachforschung verdrossen gewesen, also diese Bekanntschaft zu erwerben nicht der Mühe wert geachtet haben, gelangen nicht zur zweiten Stufe, nämlich der Übersicht, welche eine synthetische Wiederkehr zu demjenigen ist, was vorher analytisch gegeben worden, und es ist kein Wunder, wenn sie allerwärts Inkonsequenzen finden, obgleich die Lücken, die diese vermuten lassen, nicht im System selbst, sondern bloß in ihrem eigenen unzusammenhängenden Gedankengange anzutreffen sind. Ich besorge in Ansehung dieser Abhandlung nichts von dem i. Kategorien, zusammengesetzt, die nichts Empirisches enthalten. Eine solche Behutsamkeit ist in der ganzen Philosophie sehr empfehlungswürdig und wird dennoch oft verabsäumt, nämlich seinen Urteilen vor der vollständigen Zergliederung des Begriffs, die oft nur sehr spät erreicht wird, durch gewagte Definition nicht vorzugreifen. Man wird auch durch den ganzen Lauf der Kritik (der theoretischen sowohl als praktischen Vernunft) bemerken, daß sich in demselben mannigfaltige Veranlassung vorfinde, manche Mängel im alten dogmatischen Gange der Philosophie zu ergänzen und Fehler abzuändern, die nicht eher bemerkt werden, als wenn man von Begriffen einen Gebrauch der Vernunfts macht, d e r a u f s G a n z e d e r s e l b e n g e h t .

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biezioni, che mi sono venute da uomini che dimostrano di avere a cuore la scoperta della verità (poiché coloro che hanno presente soltanto il loro vecchio sistema, e per cui è già stabilito prima ciò che devono approvare e ciò che devono disapprovare, non desiderano nessuna spiegazione che potrebbe esser d’ostacolo al loro peculiare modo di vedere); e così mi regolerò anche in avvenire. Quando si tratta della determinazione di una facoltà particolare dell’anima umana, quanto alle sue origini, al suo contenuto e ai suoi limiti, non si può invero, secondo la natura della conoscenza umana, cominciare da altro che dalle p a r t i di questa determinazione, dalla spiegazione esatta e (per quanto lo permette la condizione presente dei princìpi da noi già acquisiti) completa di esse. Ma si deve ancora far attenzione a un’altra cosa, che è più filosofica e più a r c h i t e t t o n i c a : cioè ad afferrar bene l ’ i d e a d e l t u t t o , e da essa, in una facoltà razionale pura, tutte quelle parti nella loro relazione reciproca, mediante la loro dipendenza dal concetto di quel tutto. Questo esame e questa garanzia sono solo possibili con l’intima conoscenza del sistema; e coloro che sono rimasti neghittosi riguardo alla prima ricerca, e perciò non hanno stimato meritevoli di fatica l’acquisto di questa condizione, non arrivano al secondo gradino, cioè a quella veduta che è un ritorno sintetico a ciò che prima è stato dato analiticamente; e non c’è da meravigliarsi se essi trovano dovunque incoerenze, sebbene le lacune che essi fanno supporre, non si trovino proprio nel sistema ma semplicemente nel loro modo sconnesso di pensare. Riguardo a questa trattazione, non mi preoccupo del rimqueste non contengono niente d’empirico. Una tale precauzione è da raccomandar molto in tutta la filosofia, mentre viene spesso trascurata: e cioè bisogna guardarsi dal precorrere con una definizione arrischiata i propri giudizi, prima di una analisi compiuta del concetto, la quale spesso non vien condotta a termine che dopo lungo tempo. Mediante l’intero corso della critica (tanto teoretica come pratica) si vedrà pure che in esso si trovano varie occasioni di supplire a parecchie deficienze del vecchio procedimento dogmatico della filosofia, e di correggere difetti che non si scorgono prima di fare dei concetti un uso di ragione c h e s p e t t a a l l ’ i n s i e m e d i q u e s t a .

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Vorwurfe, eine neue Sprache einführen zu wollen, weil die Erkenntnisart sich hier von selbst der Popularität nähert. Dieser Vorwurf konnte auch niemanden in Ansehung der ersteren Kritik beifallen, der sie nicht bloß durchgeblättert, sondern durchgedacht hatte. Neue Worte zu künsteln, wo die Sprache schon so an Ausdrücken für gegebene Be|griffe keinen Mangel hat, ist eine kindische Bemühung, sich unter der Menge, wenn nicht durch neue und wahre Gedanken, doch durch einen neuen Lappen auf dem alten Kleide auszuzeichnen. Wenn daher die Leser jener Schrift populärere Ausdrücke wissen, die doch dem Gedanken ebenso angemessen sind, als mir jene zu sein scheinen, oder etwa die Nichtigkeit dieser Gedanken selbst, mithin zugleich jedes Ausdrucks, der ihn bezeichnet, darzutun sich getrauen: so würden sie mich durch das erstere sehr verbinden, denn ich will nur verstanden sein, in Ansehung des zweiten aber sich ein Verdienst um die Philosophie erwerben. Solange aber jene Gedanken noch stehen, zweifle ich sehr, daß ihnen angemessene und doch gangbarere Ausdrücke dazu aufgefunden werden dürften*.

* Mehr (als jene Unverständlichkeit) besorge ich hier hin und wieder Mißdeutung in Ansehung einiger Ausdrücke, die ich mit größter Sorgfalt aussuckte, um den Begriff nicht verfehlen zu lassen, darauf sie weisen. So hat in der Tafel der Kategorien der p r a k t i s c h e n Vernunft, in dem Titel der Modalität, das 21 E r l a u b t e und U n e r l a u b | t e (praktisch-objektiv Mögliche und Unmögliche) mit der nächstfolgenden Kategorie der P f l i c h t und des P f l i c h t w i d r i g e n im gemeinen Sprachgebrauche beinahe einerlei Sinn; hier aber soll das erstere dasjenige bedeuten, was mit einer bloß möglichen praktischen Vorschrift in Einstimmung oder Widerstreit ist (wie etwa die Auflösung aller Probleme der Geometrie und Mechanik), das z w e i t e , was in solcher Beziehung auf ein in der Vernunft überhaupt w i r k l i c h liegendes Gesetz steht, und dieser Unterschied der Bedeutung ist auch dem gemeinen Sprachgebrauche nicht ganz fremd, wenngleich etwas ungewöhnlich. So ist es z. B. einem Redner als solchem u n e r l a u b t , neue Worte oder Wortfügungen zu schmieden; dem Dichter ist es in gewissem Maße erlaubt; in keinem von beiden wird hier an Pflicht gedacht. Denn wer sich um den Ruf eines Redners bringen will, dem kann es niemand wehren. Es ist hier nur um den Unterschied der I m p e r a t i v e n unter problematischem, assertorischem und apodiktischem Bestimmungsgrunde zu tun. Ebenso habe ich in derjenigen Note, wo ich die mo22 ralischen Ideen praktischer Vollkommenheit in ver|schiedenen philosophischen Schulen gegeneinander stellte, die Idee der Weisheit von der der Heiligkeit unterschieden, ob ich sie gleich selbst im Grunde und objektiv für einerlei erklärt habe. Allein ich verstehe an diesem Orte darunter nur diejenige Weisheit, die sich der Mensch (der Stoiker) anmaßt also subjektiv als Eigenschaft dem

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provero di introdurre un nuovo l i n g u a g g i o , perché questo genere di conoscenza si avvicina di per sé alla popolarità. Questo rimprovero, anche riguardo alla prima Critica, non poteva venire in mente ad alcuno che l’avesse non soltanto letta superficialmente, ma meditata. Foggiar nuove parole, quando il linguaggio non manca già di espressioni per dati concetti, è uno sforzo puerile nel distinguersi dalla folla, se non per concetti nuovi e veri, almeno per un pezzo di panno nuovo sopra l’abito vecchio. Quindi se i lettori di quell’opera conoscono espressioni più popolari, che pure siano così adatte al pensiero come a me pare siano le altre, o se mai sono capaci di dimostrare il nessun valore di quel pensiero, e perciò anche di ogni espressione che lo denota: nel primo caso obbligheranno molto la mia riconoscenza, perché io voglio soltanto essere compreso; nel secondo caso poi saranno benemeriti della filosofia. Ma finché quei pensieri rimangono, dubito molto che si possano trovare per essi altre espressioni più adatte e più in uso*.

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* Più di quella oscurità io mi curo qui e nuovamente della cattiva interpretazione riguardo ad alcune espressioni, che io scelsi con grandissima cura per non lasciar equivoco circa il concetto che esse indicano. Così nella tavola delle categorie della ragion p r a t i c a , sotto il titolo della modalità, il l e c i t o e l ’ i l l e c i t o (ciò che è, in modo praticamente obbiettivo, possibile o impossibile) 21 nell’uso comune hanno un senso quasi uguale a quello della categoria seguente del d o v e r e e del c o n t r a r i o d e l d o v e r e : qui invece la prima categoria deve significare ciò che è in armonia o in contraddizione con un precetto pratico semplicemente p o s s i b i l e (come, per es., la soluzione di tutti i problemi della geometria e della meccanica), la s e c o n d a , ciò che si trova in tale relazione con una legge che è r e a l m e n t e nella ragione in genere. Questa differenza di significato non è neanche del tutto estranea all’uso comune, sebbene essa sia qualcosa d’insolito. Così per es., a un oratore, come tale, non è l e c i t o fabbricar nuove parole o sostituzioni di parole, al poeta ciò è l e c i t o fino ad un certo punto, ma in nessuno dei due casi qui si pensa al dovere. Poiché chi vuol privarsi della fama di oratore, non può esser impedito in ciò da nessuno. Qui si deve solo porre la distinzione degli i m p e r a t i v i in motivi determinanti p r o b l e m a t i c i , a s s e r t o r i i e a p o d i t t i c i . Così in quella nota dove posi l’una contro l’altra le idee morali della percezione pratica nelle diverse scuole 22 filosofiche, distinsi l’idea della saggezza da quella della santità, benché in sostanza e oggettivamente le abbia dichiarate identiche. Ma in questo luogo io intendo per saggezza soltanto quella che l’uomo (lo stoico) si attribuisce, dunque,

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| Auf diese Weise wären denn nunmehr die Prinzipien a priori zweir Vermögen des Gemüts, des | Erkenntnis- und Begehrungsvermögens, ausgemittelt und nach den Bedingungen, dem Umfange und | Grenzen ihres Gebrauchs bestimmt, hierdurch aber zu einer systematischen, theoretischen sowohl als praktischen, Philosophie als Wissenschaft sicherer Grund gelegt. Was Schlimmeres könnte aber diesen Bemühngen wohl nich begegnen, als wenn jemand die unerwartete Entdeckung machte, daß es überall gar keine Erkenntnis a priori gebe, noch geben könne. Allein es hat hiermit keine Not. Es wäre ebensoviel, als ob jemand durch Vernunft beweisen wollte, daß es keine Vernunft gebe. Denn wir sagen nur, daß wir etwas durch Vernunft erkennen, wenn wir uns bewußt sind, daß wir es auch hätten wissen können, wenn es uns auch nicht so in der Erfahrung vorgekom|men wäre; mithin ist Vernunfterkenntnis und Erkenntnis a priori einerlei. Aus einem Erfahrungssatze Notwendigkeit (ex pumice aquam) auspressen wollen, mit dieser auch wahre Allgemeinheit (ohne welche kein Vernunftschluß, mithin auch nicht der Schluß aus der Analogie, welche eine wenigstens präsumierte Allgemeinheit und objektive Notwendigkeit ist und diese also doch immer voraussetzt) einem Urteile verschaffen wollen, ist gerader Widerspruch. Subjektive Notwendigkeit, d. i. Gewohnheit, statt der objektiven, die nur in

Menschen angedichtet. (Vielleicht könnte der Ausdruck Tu g e n d , womit der Stoiker auch großen Staat trieb, besser das Charakteristische seiner Schule bezeichnen.) Aber der Ausdruck eines P o s t u l a t s der reinen praktischen Vernunft konnte noch am meisten Mißdeutung veranlassen, wenn man damit die Bedeutung vermengte, welche die Postulate der reinen Mathematik haben, und welche apodiktische Gewißheit bei sich führen. Aber diese postulieren die M ö c l i c h k e i t e i n e r H a n d l u n g , deren Gegenstand man a priori theoretisch mit völliger Gewißheit als m ö g l i c h voraus erkannt hat. Jenes aber postuliert die Möglichkeit eines G e g e n s t a n d e s (Gottes und der Unsterblichkeit der Seele) selbst aus apodiktischen p r a k t i s c h e n Gesetzen, also nur zum Behuf einer praktischen Vernunft; da denn diese Gewißheit der postulierten 23 Möglichkeit gar nicht | theoretisch, mithin auch nicht apodiktisch, d. i in Ansehung des Objekts erkannte Notwendigkeit, sondern in Ansehung des Subjekts zur Befolgung ihrer objektiven, aber praktischen Gesetze notwendige Annehmung, mithin bloß notwendige Hypothesis ist. Ich wußte für diese subjektive, aber doch wahre und unbedingte Vernunftnotwendigkeit keinen besseren Ausdruck auszufinden.

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In questo modo dunque i princìpi a p r i o r i di due facoltà dello spirito, della facoltà della conoscenza e di quella del desiderio, sarebbero ormai trovati e determinati secondo le condizioni, l’estensione e i limiti del loro uso; e con ciò sarebbe posto un fondamento sicuro a una filosofia sistematica, tanto teoretica come pratica, in quanto scienza. Ma invero niente di peggio potrebbe succedere a questi sforzi, che se qualcuno facesse l’inattesa scoperta che non vi è in nessun luogo, né vi può essere, conoscenza a p r i o r i . Ma di ciò non v’è pericolo. Sarebbe come se qualcuno volesse dimostrare mediante la ragione che non vi è ragione. Poiché noi diciamo di conoscere qualcosa mediante la ragione soltanto se sappiamo che avremmo potuto conoscere questa cosa anche se essa non ci fosse apparsa tale nell’esperienza; quindi la conoscenza razionale e la conoscenza a p r i o r i sono identiche. È una vera contraddizione voler ricavare la necessità da una proposizione empirica (ex pumice aquam)5, e con questa necessità voler procurare a un giudizio anche la vera universalità (senza le quali non vi è nessuna deduzione razionale, e quindi nemmeno la deduzione per analogia, poiché l’analogia è un’universalità ed è una necessità soggettiva almeno presunta, e quindi suppone sempre l’universalità e la necessità vera). Sostituire la necessità soggettiva,

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s o g g e t t i v a m e n t e , come una proprietà attribuita all’uomo. (Forse l’espressione v i r t ù , di cui lo stoico faceva sì grande sfoggio, potrebbe meglio designare la caratteristica della sua scuola.) Ma l’espressione di un p o s t u l a t o della ragion pura pratica potrebbe ancora dar motivo più di tutto a una falsa interpretazione, se si confondesse col senso che hanno i postulati della matematica pura, i quali implicano la certezza apodittica. Ma questi postulano la p o s s i b i l i t à d i u n ’ a z i o n e il cui oggetto è conosciuto prima a p r i o r i , teoreticamente con piena certezza come p o s s i b i l e ; quello postula, invece, la possibilità di un o g g e t t o (Dio e l’immortalità dell’anima), inferendola da leggi p r a t i c h e apodittiche, quindi soltanto per uso di una ragione pratica; poiché questa certezza della possibilità postulata non è affatto una necessità teoretica, 23 quindi nemmeno apodittica, cioè riconosciuta relativamente all’oggetto, ma è una supposizione necessaria relativamente al soggetto, per l’osservanza delle sue leggi oggettive, ma pratiche, e perciò semplicemente un’ipotesi necessaria. Non saprei trovare espressione migliore per questa necessità razionale soggettiva, ma pure vera e incondizionata.

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Urteilen a priori stattfindet, unterschieben heißt der Vernunft das Vermögen absprechen, über den Gegenstand zu urteilen, d. i. ihn, und was ihm zukomme, zu erkennen und z. B. von dem, was öfters und immer auf einen gewissen vorhergehenden Zustand folgte, nicht sagen, daß man aus diesem auf jenes s c h l i e ß e n könne (denn das würde objektive Notwendigkeit und Begriff von einer Verbindung a priori bedeuten), sondern nur ähnliche Fälle (mit den Tieren auf ähnliche Art) erwarten dürfe, d. i. den Begriff der Ursache im Grunde als falsch und | bloßen Gedankenbetrug verwerfen. Diesem Mangel der objektiven und daraus folgenden allgemeinen Gültigkeit dadurch abhelfen wollen, daß man doch keinen Grund sähe, anderen vernünftigen Wesen eine andere Vorstellungsart beizulegen, wenn das einen gültigen Schluß abgäbe, so würde uns unsere Unwissenheit mehr Dienste zu Erweiterung unserer Erkenntnis leisten als alles Nachdenken. Denn bloß deswegen, weil wir andere vernünftige Wesen außer dem Menschen nicht kennen, würden wir ein Recht haben, sie als so beschaffen anzunehmen, wie wir uns erkennen, d. i. wir würden sie wirklich kennen. Ich erwähne hier nicht einmal, daß nicht die Allgemeinheit des Fürwahrhaltens die objektive Gültigkeit eines Urteils (d. i. die Gültigkeit desselben als Erkenntnisses) beweise, sondern, wenn jene auch zufälligerweise zuträfe, dieses doch nicht einen Beweis der Übereinstimmung mit dem Objekt abgeben könne; vielmehr die objektive Gültigkeit allein den Grund einer notwendigen allgemeinen Einstimmung ausmache. | H u m e würde sich bei diesem S y s t e m d e s a l l g e m e i n e n E m p i r i s m u s in Grundsätzen auch sehr wohl befinden; denn er verlangte, wie bekannt, nichts mehr, als daß statt aller objektiven Bedeutung der Notwendigkeit im Begriffe der Ursache eine bloß subjektive, nämlich Gewohnheit, angenommen werde, um der Vernunft alles Urteil über Gott, Freiheit und Unsterblichkeit abzusprechen; und er verstand sich gewiß sehr gut darauf, um, wenn man ihm nur die Prinzipien zugestand, Schlüsse mit aller logischen Bündigkeit daraus zu folgern. Aber so allgemein hat selbst H u m e den Empirismus nicht gemacht, um auch die Mathematik darin einzuschließen. Er hielt ihre Sätze für analytisch, und wenn das seine Richtigkeit hätte, würden sie in der Tat auch apodiktisch sein, gleichwohl aber daraus kein Schluß auf ein Vermögen der Vernunft, auch in der Philosophie apodiktische Urteile, nämlich solche, die synthetisch wären (wie der Satz der Kausalität), zu fäl-

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cioè l’abitudine, a quella oggettiva, che ha luogo soltanto nei giudizi a p r i o r i , vuol dire negare alla ragione la facoltà di giudicare l’oggetto, cioè di conoscere l’oggetto e ciò che gli appartiene, per es., di ciò che seguì sempre a un certo stato antecedente, non dire che si può c o n c l u d e r e da questo a quello (poiché ciò significherebbe la necessità oggettiva e il concetto di un legame a p r i o r i ), ma soltanto che ci sarebbero da aspettare (allo stesso modo delle bestie) casi simili, cioè, in sostanza, rigettare il concetto di causa come falso e come semplice illusione. Se voler riparare a questa mancanza di valore oggettivo, e perciò universale, col dire che non si vede nessun motivo di attribuire un altro modo di rappresentazione ad altri esseri razionali, fosse un procedimento valido, la nostra ignoranza servirebbe, più che ogni riflessione, all’estensione della nostra conoscenza. Poiché semplicemente per il fatto che noi non conosciamo altri esseri razionali oltre l’uomo, avremmo una ragione di supporli tali quali noi conosciamo di essere; cioè noi li conosceremmo realmente. Io qui non ricordo neppure che l’universalità del consenso non dimostra il valore oggettivo di un giudizio (cioè il valore di esso come conoscenza); se anche quell’universalità, per caso, avesse luogo, non potrebbe ancora fornire una prova dell’accordo con l’oggetto; anzi, soltanto il valore oggettivo costituisce il fondamento di un consenso universale necessario. Hume6 si adatterebbe anche benissimo ai princìpi, in questo sistema dell’e m p i r i s m o u n i v e r s a l e , poiché, com’è noto, egli non desiderava nient’altro se non che nel concetto di causa, invece di ogni significato oggettivo della necessità, ne fosse ammesso uno semplicemente soggettivo, cioè l’abitudine, per negare alla ragione ogni giudizio su Dio, la libertà e l’immortalità; ed era certamente assai capace, purché gli si concedessero i princìpi, di trarne le conseguenze con tutta la precisione logica. Ma Hume stesso non fece così universale l’empirismo da includervi anche la matematica. Egli riteneva i suoi princìpi come analitici, e, se ciò fosse giusto, essi veramente sarebbero anche apodittici; non di meno da questo non si potrebbe conchiudere niente riguardo a una facoltà della ragione di produrre anche nella filosofia giudizi apodittici cioè sintetici (come il principio della cau-

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len, gezogen werden können. Nähme man aber den Empirismus der Prinzipien a l l g e m e i n an, so wäre auch Mathematik damit eingeflochten. | Wenn nun diese mit der Vernunft, die bloß empirische Grundsätze zuläßt, in Widerstreit gerät, wie dieses in der Antinomie, da Mathematik die unendliche Teilbarkeit des Raumes unwidersprechlich beweist, der Empirismus aber sie nicht verstatten kann, unvermeidlich ist: so ist die größte mögliche Evidenz der Demonstration mit den vorgeblichen Schlüssen aus Erfahrungsprinzipien in offenbarem Widerspruch, und nun muß man, wie der Blinde des C h e s e l d e n , fragen: was betrügt mich, das Gesicht oder Gefühl? (Denn der Empirismus gründet sich auf einer g e f ü h l t e n , der Rationalismus aber auf einer e i n g e s e h e n e n Notwendigkeit.) Und so offenbart sich der allgemeine Empirismus als der echte S k e p t i z i s m u s , den man dem H u m e fälschlich in so unbeschränkter Bedeutung beilegte*, da er wenigstens einen sicheren | Probierstein der Erfahrung an der Mathematik übrig ließ, statt daß jener schlechterdings keinen Probierstein derselben (der immer nur in Prinzipien a priori angetroffen werden kann) verstattet, obzwar diese doch nicht aus bloßen Gefühlen, sondern auch aus Urteilen besteht. Doch da es in diesem philosophischen und kritischen Zeitalter schwerlich mit jenem Empirismus Ernst sein kann, und er vermutlich nur zur Übung der Urteilskraft und um durch den Kontrast die Notwendigkeit rationaler Prinzipien a priori in ein helleres Licht zu setzen, aufgestellt wird, so kann man es denen doch Dank wissen, die sich mit dieser sonst eben nicht belehrenden Arbeit bemühen wollen.

* Namen, welche einen Sektenanhang bezeichnen, haben zu aller Zeit viel Rechtsverdrehung bei sich geführt; ungefähr so, als wenn jemand sagte: N . i s t e i n I d e a l i s t . Denn ob er gleich durchaus nicht allein einräumt, sondern darauf dringt, daß unseren Vorstellungen äußerer Dinge wirkliche Gegenstände 28 äuße|rer Dinge korrespondieren, so will er doch, daß die Form der Anschauung derselben nicht ihnen, sondern nur dem menschlichen Gemüte anhänge.

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salità). Ma, se si ammettesse come u n i v e r s a l e l’empirismo dei princìpi, vi sarebbe compresa anche la matematica. Ora, se questa viene a contrasto con la ragione, che ammette princìpi semplicemente empirici, com’è inevitabile nell’antinomia, in cui la matematica dimostra in modo inconfutabile la divisibilità infinita dello spazio, e l’empirismo invece non la può ammettere; allora la maggior evidenza possibile della dimostrazione è in aperta contraddizione con le pretese deduzioni dai princìpi dell’esperienza, e si deve domandare come il cieco di Cheselden7: che cos’è che m’inganna, la vista o il tatto? (poiché l’empirismo si fonda su una necessità s e n t i t a , ma il razionalismo su una necessità c o n o s c i u t a )8. E così l’empirismo universale si manifesta come il vero s c e t t i c i s m o che a torto si attribuì a Hume in senso così illimitato* perché egli almeno lasciava alla matematica una pietra di paragone dell’esperienza, laddove lo scetticismo non ne ammette alcuna (perché la prova può sempre soltanto esser trovata nei princìpi a p r i o r i ), benché l’esperienza non consista solo di sentimenti, ma anche di giudizi. Tuttavia, siccome in questo secolo filosofico e critico difficilmente si può prender sul serio quell’empirismo, e probabilmente lo si espone solo per esercitare la facoltà del giudizio a metter più in chiaro mediante il contrasto la necessità di princìpi razionali a p r i o r i , così si può esser grati a coloro i quali si applicarono a questo lavoro, che nel resto non è istruttivo.

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* I nomi che designano i seguaci di una setta hanno sempre dato luogo a molti cavilli; come per es. se alcuno dicesse: N. è u n i d e a l i s t a , perché, quantunque non solo ammetta assolutamente che alle nostre rappresentazioni di cose esterne corrispondono oggetti reali di cose esterne, ma insista su ciò, egli vuo- 28 le tuttavia che la forma dell’intuizione di queste cose non dipenda da esse, ma soltanto dallo spirito umano9.

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EINLEITUNG VON DER IDEE EINER KRITIK DER PRAKTISCHEN VERNUNFT

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Der theoretische Gebrauch der Vernunft beschäftigte sich mit Gegenständen des bloßen Erkenutnisvermögens, und eine Kritik derselben in Absicht auf diesen Gebrauch betraf eigentlich nur das r e i n e Erkenntnisvermögen, weil dieses Verdacht erregte, der sich auch hernach bestätigte, daß es sich leichtlich über seine Grenzen, unter unerreichbare Gegenstände oder gar einander widerstreitende Begriffe verlöre. Mit dem praktischen Gebrauche der Vernunft verhält es sich schon anders. In diesem beschäftigt sich die Vernunft mit Bestimmungsgründen des Willens, welcher ein Vermögen ist, den Vorstellungen entsprechende Gegenstände entweder hervorzubringen oder doch sich selbst zur Bewirkung derselben (das physische Vermögen mag nun hinreichend sein | oder nicht), d. i. seine Kausalität zu bestimmen. Denn da kann wenigstens die Vernunft zur Willensbestimmung zulangen und hat sofern immer objektive Realität, als es nur auf das Wollen ankommt. Hier ist also die erste Frage: ob reine Vernunft zur Bestimmung des Willens für sich allein zulange, oder ob sie nur als empirischbedingte ein Bestimmungsgrund desselben sein könne? Nun tritt hier ein durch die Kritik der reinen Vernunft gerechtfertigter, obzwar keiner empirischen Darstellung fähiger Begriff der Kausalität, nämlich der der F r e i h e i t ein; und wenn wir jetzt Gründe ausfindig machen können zu beweisen, daß diese Eigenschaft dem menschlichen Willen (und so auch dem Willen aller vernünftigen Wesen) in der Tat zukomme, so wird dadurch nicht allein dargetan, daß reine

INTRODUZIONE

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DELL’IDEA DI UNA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

L’uso teoretico della ragione si applicava agli oggetti della sola facoltà della conoscenza, e una critica della ragione, relativamente a quest’uso, riguardava solo propriamente la facoltà pura della conoscenza, poiché questa faceva nascere il sospetto, che si confermava anche in seguito, che essa si perdesse facilmente oltre i suoi limiti, dietro oggetti inaccessibili o concetti affatto contraddittori. Con l’uso pratico della ragione accade ormai diversamente. In questo la ragione si applica ai motivi determinanti della volontà, la quale è una facoltà o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni, oppure di determinare se stessa, cioè la propria causalità, all’attuazione di essi (sia o no sufficiente il potere fisico). Poiché qui almeno la ragione può bastare alla determinazione della volontà, ed ha sempre realtà oggettiva, in quanto si tratta solamente del volere. Ecco dunque la prima questione: se la ragion pura basti per sé sola alla determinazione della volontà, oppure se soltanto come condizionata empiricamente possa essere un motivo determinante di essa. Ora qui si fa avanti un concetto della causalità giustificato mediante la Critica della ragion pura, sebbene non suscettibile di rappresentazione empirica, cioè il concetto della l i b e r t à ; e se noi ora possiamo trovar argomenti da dimostrare che questa proprietà appartiene veramente alla volontà umana (e così pure alla volontà di tutti gli esseri razionali), con ciò verrà

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Vernunft praktisch sein könne, sondern, daß sie allein, und nicht die empirisch-beschränkte, unbedingterweise praktisch sei. Folglich werden wir nicht eine Kritik der r e i n e n p r a k t i s c h e n , sondern nur der p r a k t i s c h e n Vernunft überhaupt zu bearbeiten haben. Denn reine Vernunft, wenn allererst dargetan worden, daß es eine solche gebe, bedarf keiner Kritik. Sie ist es, welche selbst die Richtschnur zur Kritik alles ihres Gebrauchs enthält. Die | Kritik der praktischen Vernunft überhaupt hat also die Obliegenheit, die empirisch bedingte Vernunft von der Anmaßung abzuhalten, ausschließungsweise den Bestimmungsgrund des Willens allein abgeben zu wollen. Der Gebrauch der reinen Vernunft, wenn, daß es eine solche gebe, ausgemacht ist, ist allein immanent; der empirisch-bedingte, der sich die Alleinherrschaft anmaßt, ist dagegen transzendent und äußert sich in Zumutungen und Geboten, die ganz über ihr Gebiet hinausgehen, welches gerade das umgekehrte Verhältnis von dem ist, was von der reinen Vernunft im spekulativen Gebrauche gesagt werden konnte. Indessen da es immer noch reine Vernunft ist, deren Erkenntnis hier dem praktischen Gebrauche zum Grunde liegt, so wird doch die Einteilung einer Kritik der praktischen Vernunft, dem allgemeinen Abrisse nach, der der spekulativen gemäß angeordnet werden müssen. Wir werden also eine E l e m e n t a r l e h r e und M e t h o d e n l e h r e derselben, in jener als dem ersten Teile eine Analytik als Regel der Wahrheit und eine D i a l e k t i k als Darstellung und Auflösung des Scheins in Urteilen der praktischen Vernunft, haben müssen. Allein die Ordnung in der Unterabteilung | der Analytik wird wiederum das Umgewandte von der in der Kritik der reinen spekulativen Vernunft sein. Denn in der gegenwärtigen werden wir von G r u n d s ä t z e n anfangend zu B e g r i f f e n und von diesen allererst womöglich zu den Sinnen gehen; da wir hingegen bei der spekulativen Vernunft von den Sinnen anfingen und bei den Grundsätzen endigen mußten. Hiervon liegt der Grund nun wiederum darin, daß wir es jetzt mit einem Willen zu tun haben und die Vernunft nicht im Verhältnis auf Gegenstände, sondern auf diesen Willen und dessen Kausalität zu erwägen haben, da denn die Grundsätze der empirisch unbedingten Kausalität den Anfang machen müssen, nach welchem der Versuch ge-

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messo in chiaro, non solo che la ragion pura può essere pratica, ma che essa solo, e non la ragione limitata empiricamente, è pratica in modo incondizionato. Perciò noi avremo da trattare una critica, non della ragion p u r a p r a t i c a , ma soltanto della ragion p r a t i c a in genere. Poiché la ragion pura, quando si sia dimostrato che vi è una tale ragione, non ha bisogno di critica. Essa stessa contiene la regola per la critica di tutto il suo uso. La critica della ragion pratica in genere ha dunque l’obbligo di distogliere la ragione, condizionata empiricamente, dalla pretesa di dar essa solo esclusivamente il motivo determinante della volontà. L’uso della ragion pura, se è stabilito che essa esista, è solo immanente; invece l’uso empiricamente condizionato, che si arroga il potere dispotico, è al contrario trascendente e si manifesta in pretese e precetti, che superano affatto il suo dominio. Il che è precisamente l’opposto di ciò che poteva esser detto della ragione pura nell’uso speculativo. Intanto, siccome ancor sempre la conoscenza della ragion pura è qui a fondamento dell’uso pratico, così la divisione di una critica della ragion pratica, nelle sue linee generali, dovrà esser stabilita conforme a quella della ragione speculativa. Noi dovremo dunque avere una d o t t r i n a d e g l i e l e m e n t i e una d o t t r i n a d e l m e t o d o . Quella, essendo la prima parte, conterrà un’ a n a l i t i c a come regola della verità, e una d i a l e t t i c a come esposizione e soluzione dell’apparenza dei giudizi della ragion pratica. Ma l’ordine della suddivisione dell’analitica sarà invece l’opposto di quello seguito nella Critica della ragion pura speculativa. Infatti nella critica presente, cominciando dai p r i n c ì p i , andremo ai c o n c e t t i , e soltanto da questi, se sarà possibile, andremo ai sensi; mentre invece nella ragione speculativa cominciammo dai sensi e dovemmo finire ai princìpi. Il motivo di ciò consiste nel fatto, che noi ora ci dobbiamo occupare di una volontà e dobbiamo esaminare la ragione in relazione, non agli oggetti, ma a questa volontà e alla sua causalità. Quindi i princìpi della causalità incondizionata empiricamente devono essere il cominciamento; e soltanto dopo si potrà tentare di stabilire i nostri concetti del motivo determinante di una

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macht werden kann, unsere Begriffe von dem Bestimmungsgrunde eines solchen Willens, ihre Anwendung auf Gegenstände, zuletzt auf das Subjekt und dessen Sinnlichkeit allererst festzusetzen. Das Gesetz der Kausalität aus Freiheit, d. i. irgend ein reiner praktischer Grundsatz, macht hier unvermeidlich den Anfang und bestimmt die Gegenstände, worauf er allein bezogen werden kann.

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tale volontà, della sua applicazione agli oggetti e, infine, al soggetto e alla sua sensibilità. La legge della causalità per la libertà, cioè un principio puro pratico, è qui inevitabilmente di cominciamento, e determina gli oggetti ai quali può soltanto essere applicata.

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| Erster Teil DER KRITIK DER PRAKTISCHEN VERNUNFT ELEMENTARLEHRE DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT

Parte prima DELLA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

DOTTRINA DEGLI ELEMENTI DELLA RAGION PURA PRATICA

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| Erstes Buch DIE ANALYTIK DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT Erstes Hauptstück VON DEN GRUNDSÄTZEN DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT § 1. ERKLÄRUNG. Praktische G r u n d s ä t z e sind Sätze, welche eine allgemeine Bestimmung des Willens enthalten, die mehrere praktische Regeln unter sich hat. Sie sind subjektiv oder M a x i m e n , wenn die Bedingung nur als für den Willen des Subjekts gültig von ihm angesehen wird; objektiv aber oder praktische G e s e t z e , wenn jene als objektiv, d. i. für den Willen jedes vernünftigen Wesens gültig erkannt wird. ANMERKUNG.

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Wenn man annimmt, daß r e i n e Vernunft einen praktisch, d. i. zur Willensbestimmung hinreichenden Grund in sich ent|halten könne, so gibt es praktische Gesetze; wo aber nicht, so werden alle praktischen Grundsätze bloße Maximen sein. In einem pathologisch affizierten Willen eines vernünftigen Wesens kann ein Widerstreit der Maximen wider die von ihm selbst erkannten praktischen Gesetze angetroffen werden. Z. B. es kann sich jemand zur Maxime machen, keine Beleidigung ungerächt zu erdulden, und doch zugleich einsehen, daß dieses kein praktisches Gesetz, son-

Libro primo

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ANALITICA DELLA RAGION PURA PRATICA Capitolo primo DEI PRINCÌPI DELLA RAGION PURA PRATICA § 1. DEFINIZIONE. I p r i n c ì p i pratici sono proposizioni che contengono una determinazione universale della volontà, la quale ha sotto di sé parecchie regole pratiche. Essi sono soggettivi, ossia m a s s i m e , se la condizione vien considerata dal soggetto come valida soltanto per la sua volontà; ma oggettivi, ossia l e g g i pratiche, se la condizione vien riconosciuta come oggettiva, cioè valida per la volontà di ogni essere razionale. SCOLIO.

Se si ammette che la ragion pura possa contenere in sé un motivo pratico, cioè che basti alla determinazione della volontà, allora vi sono leggi pratiche; se no, tutti i princìpi pratici saranno semplici massime. Nella volontà affetta patologicamente di un essere razionale si può trovare un contrasto delle massime con le leggi pratiche riconosciute dalla stessa volontà. Per es., ciascuno può farsi una massima di non sopportare invendicata alcuna offesa, eppure nello stesso tempo vedere che questa non

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dern nur seine Maxime sei, dagegen als Regel für den Willen eines jeden vernünftigen Wesens in einer und derselben Maxime mit sich selbst nicht zusammenstimmen könne. In der Naturerkenntnis sind die Prinzipien dessen, was geschieht (z. B. das Prinzip der Gleichheit der Wirkung und Gegenwirkung in der Mitteilung der Bewegung) zugleich Gesetze der Natur; denn der Gebrauch der Vernunft ist dort theoretisch und durch die Beschaffenheit des Objekts bestimmt. In der praktischen Erkenntnis, d. i. derjenigen, welche es bloß mit Bestimmungsgründen des Willens zu tun hat, sind Grundsätze, die man sich macht, darum noch nicht Gesetze, darunter man unvermeidlich stehe, weil die Vernunft im Praktischen es mit dem Subjekte zu tun hat, nämlich dem Begehrungsvermögen, nach dessen besonderer Beschaffenheit sich die Regel vielfältig richten kann. Die praktische Regel ist jederzeit ein Produkt der Vernunft, weil sie Handlung als Mittel zur Wirkung als Absicht vorschreibt. Diese Regel ist aber für ein Wesen, bei dem Vernunft nicht ganz allein Bestimmungsgrund des Willens ist, ein I m p e r a t i v, d. i. eine Regel, die durch ein Sollen, welches die objektive Nötigung der Handlung ausdrückt, bezeichnetwird, und bedeutet, daß, wenn die Vernunft den Willen gänzlich bestimmte, die Handlung unausbleiblich nach dieser Regel geschehen würde. Die Imperativen gelten also objektiv | und sind von Maximen, als subjektiven Grundsätzen, gänzlich unterschieden. Jene bestimmen aber entweder die Bedingungen der Kausalität des vernünftigen Wesens als wirkender Ursache bloß in Ansehung der Wirkung und Zulänglichkeit zu derselben, oder sie bestimmen nur den Willen, er mag zur Wirkung hinreichend sein oder nicht. Die ersteren würden hypothetische Imperativen sein und bloße Vorschriften der Geschicklichkeit enthalten; die zweiten würden dagegen kategorisch und allein praktische Gesetze sein. Maximen sind also zwar G r u n d s ä t z e , aber nicht I m p e r a t i v e n . Die Imperativen selber aber, wenn sie bedingt sind, d. i. nicht den Willen schlechthin als Willen, sondern nur in Ansehung einer begehrten Wirkung bestimmen, d. i. hypothetische Imperativen sind, sind zwar praktische Vo r s c h r i f t e n , aber keine G e s e t z e . Die letzteren müssen den Willen als Willen, noch ehe ich frage, ob ich gar das zu einer begehrten Wirkung erforderliche Vermögen habe, oder was mir, um diese hervorzubringen, zu tun sei, hinreichend bestimmen, mit-

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è una legge pratica, ma soltanto una sua massima, mentre come regola per la volontà di ogni essere razionale non potrebbe andar d’accordo con se stessa in un’unica massima. Nella conoscenza della natura i princìpi di ciò che accade (per es., il principio dell’uguaglianza dell’azione e della reazione nella comunicazione del movimento) sono nello stesso tempo leggi della natura; poiché l’uso della ragione là è teoretico e determinato dalla natura dell’oggetto. Nella conoscenza pratica, cioè in quella che si occupa semplicemente dei motivi determinanti della volontà, i princìpi che c’imponiamo non sono ancora perciò delle leggi alle quali sia inevitabile sottostare, perché la ragione nell’uso pratico ha da fare col soggetto, cioè con la facoltà di desiderare, e secondo la disposizione particolare di questa facoltà si può adattare variamente la regola. La regola pratica è sempre un prodotto della ragione, perché prescrive l’azione come mezzo all’effetto come fine. Ma per un essere, per cui il motivo determinante della volontà non è unicamente la ragione, questa regola è un i m p e r a t i v o , cioè una regola che viene caratterizzata mediante un dovere esprimente la necessità oggettiva dell’azione: essa significa che, se la ragione determinasse interamente la volontà, l’azione avverrebbe immancabilmente secondo questa regola. Gl’imperativi hanno dunque valore oggettivo, e sono affatto differenti dalle massime, in quanto queste sono princìpi soggettivi. Quelli invece, o determinano le condizioni della causalità dell’essere razionale, come causa efficiente, semplicemente riguardo all’effetto e alla sufficienza ad esso, o determinano soltanto la volontà, sia questa sufficiente o no all’effetto. I primi sarebbero imperativi ipotetici, e conterrebbero semplici precetti dell’abilità; i secondi invece sarebbero imperativi categorici e soltanto leggi pratiche. Dunque le massime sono bensì p r i n c ì p i , ma non i m p e r a t i v i . Ma gli stessi imperativi, se son condizionati, cioè se determinano la volontà non semplicemente come volontà, ma soltanto relativamente a un effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipotetici, sono bensì p r e c e t t i pratici, ma non l e g g i . Queste ultime devono determinare sufficientemente la volontà come volontà, ancor prima che io domandi se ho il potere necessario a un effetto desiderato, o che cosa debba fare per produrlo. Quindi esse devono essere cate-

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hin kategorisch sein, sonst sind es keine Gesetze; weil ihnen die Notwendigkeit fehlt, welche, wenn sie praktisch sein soll, von pathologischen, mithin dem Willen zufällig anklebenden Bedingungen unabhängig sein muß. Saget jemand z. B., daß er in der Jugend arbeiten und sparen müsse, um im Alter nicht zu darben, so ist dieses eine richtige und zugleich wichtige praktische Vorschrift des Willens. Man sieht aber gleich, daß der Wille hier auf etwas a n d e r e s verwiesen werde, wovon man voraussetzt, daß er es begehre, und dieses Begehren muß man ihm, dem Täter selbst, überlassen, ob er noch andere Hilfsquellen außer seinem selbst erworbenen Vermögen vorhersehe, oder ob er gar nicht hoffe, alt zu werden, oder sich denkt im Falle der Not dereinst schlecht behelfen zu können. Die Vernunft, aus der allein | alle Regel, die Notwendigkeit enthalten soll, entspringen kann, legt in diese ihre Vorschrift zwar auch Notwendigkeit (denn ohne das wäre sie kein Imperativ), aber diese ist nur subjektiv bedingt, und man kann sie nicht in allen Subjekten in gleichem Grade voraussetzen. Zu ihrer Gesetzgebung aber wird erfordert, daß sie bloß sich selbst vorauszusetzen bedürfe, weil die Regel nur alsdann objektiv und allgemein gültig ist, wenn sie ohne zufällige subjektive Bedingungen gilt, die ein vernünftiges Wesen von dem anderen unterscheiden. Nun sagt jemanden, er solle niemals lügenhaft versprechen, so ist dies eine Regel, die bloß seinen Willen betrifft; die Absichten, die der Mensch haben mag, mögen durch denselben erreicht werden können oder nicht; das bloße Wollen ist das, was durch jene Regel völlig a priori bestimmt werden soll. Findet sich nun, daß diese Regel praktisch richtig sei, so ist sie ein Gesetz, weil sie ein kategorischer Imperativ ist. Also beziehen sich praktische Gesetze allein auf den Willen unangesehen dessen, was durch die Kausalität desselben ausgerichtet wird, und man kann von der letzteren (als zur Sinnenwelt gehörig) abstrahieren, um sie rein zu haben. § 2. LEHRSATZ I. Alle praktischen Prinzipien, die ein O b j e k t (Materie) des Begehrungsvermögens als Bestimmungsgrund des Willens vor-

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goriche, altrimenti non sono leggi, perché manca loro la necessità che, se dev’essere pratica, dev’esser indipendente da condizioni patologiche, quindi da condizioni che aderiscano accidentalmente alla volontà. Se, per es., dite a qualcuno che deve lavorare e risparmiare nella giovinezza per non stentare nella vecchiezza: questo è un precetto pratico giusto, e nello stesso tempo importante, della volontà. Ma si vede facilmente che la volontà qui è diretta a qualche a l t r a c o s a , di cui si suppone in essa il desiderio; desiderio che dev’essere lasciato all’agente stesso, sia che egli preveda ancora altri mezzi oltre al patrimonio acquistato, o che non speri punto di diventar vecchio, o pensi che un giorno, in caso di povertà, potrà campare alla peggio. La ragione, dalla quale solamente possono derivare tutte quelle regole che contengono la necessità, pone bensì in questo suo precetto anche la necessità (poiché altrimenti esso non sarebbe un imperativo), ma la necessità è condizionata soltanto soggettivamente, e non può esser supposta nello stesso grado in tutti i soggetti. Affinché la ragione possa dare leggi, si richiede che essa abbia bisogno di presupporre semplicemente s e s t e s s a , perché la regola è oggettiva e universalmente valida solo quando vale senza condizioni accidentali e soggettive, che distinguono un essere razionale da un altro. Ora, se dite ad alcuno che egli non deve mai far promesse false, questa è una regola che riguarda semplicemente la sua volontà: i fini che l’uomo può avere possono venire o no conseguiti mediante essa; il semplice volere è ciò che dev’essere determinato interamente a p r i o r i mediante quella regola. Ora, se si trova che questa regola è praticamente giusta, essa è una legge, perché è un imperativo categorico. Dunque le leggi pratiche si riferiscono soltanto alla volontà, senza considerare ciò che vien effettuato mediante la causalità di essa; e si può astrarre dalla causalità (come appartenente al mondo sensibile), per aver queste leggi pure. § 2. TEOREMA I. Tutti i princìpi pratici, che presuppongono un o g g e t t o (materia) della facoltà di desiderare come motivo determinante

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aussetzen, sind insgesamt empirisch und können keine praktischen Gesetze abgeben. Ich verstehe unter der Materie des Begehrungsvermögens einen Gegenstand, dessen Wirklichkeit begehrt wird. Wenn die Begierde nach diesem Gegenstande | nun vor der praktischen Regel vorhergeht und die Bedingung ist, sie sich zum Prinzip zu machen, so sage ich (e r s t l i c h ): dieses Prinzip ist alsdann jederzeit empirisch. Denn der Bestimmungsgrund der Willkür ist alsdann die Vorstellung eines Objekts und dasjenige Verhältnis derselben zum Subjekt, wodurch das Begehrungsvermögen zur Wirklichmachung desselben bestimmtwird. Ein solches Verhältnis aber zum Subjekt heißt die L u s t an der Wirklichkeit eines Gegenstandes. Also müßte diese als Bedingung der Möglichkeit der Bestimmung der Willkür vorausgesetzt werden. Es kann aber von keiner Vorstellung irgend eines Gegenstandes, welche sie auch sei, a priori erkannt werden, ob sie mit L u s t oder U n l u s t verbunden oder i n d i f f e r e n t sein werde. Also muß in solchem Falle der Bestimmungsgrund der Willkür jederzeit empirisch sein, mithin auch das praktische materiale Prinzip, welches ihn als Bedingung voraussetzte. Da nun (z w e i t e n s ) ein Prinzip, das sich nur auf die subjektive Bedingung der Empfänglichkeit einer Lust oder Unlust (die jederzeit nur empirisch erkannt und nicht für alle vernünftige Wesen in gleicher Art gültig sein kann) gründet, zwar wohl für das Subjekt, das sie besitzt, zu ihrer M a x i m e , aber auch für diese selbst (weil es ihm an objektiver Notwendigkeit, die a priori erkannt werden muß, mangelt), nicht zum | G e s e t z e dienen kann, so kann ein solches Prinzip niemals ein praktisches Gesetz abgeben. § 3. LEHRSATZ II. Alle materialen praktischen Prinzipien sind als solche insgesamt von einer und derselben Art und gehören unter das allgemeine Prinzip der Selbstliebe oder eigenen Glückseligkeit. Die Lust aus der Vorstellung der Existenz einer Sache, sofern sie ein Bestimmungsgrund des Begehrens dieser Sache sein soll, gründet sich auf der E m p f ä n g l i c h k e i t des Subjekts, weil sie

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della volontà, sono empirici e non possono fornire leggi pratiche. Per materia della facoltà di desiderare intendo un oggetto, la cui realtà è desiderata. Se il desiderio di questo oggetto precede la legge pratica, ed è la condizione per cui ci facciamo di essa un principio, io dico (in primo luogo): che allora questo principio è sempre empirico. Poiché allora il motivo determinante del libero arbitrio è la rappresentazione di un oggetto e quella relazione di essa col soggetto mediante la quale la facoltà di desiderare è determinata all’attuazione di esso. Ma una tale relazione col soggetto si chiama il piacere della realtà di un oggetto. Dunque questo piacere dovrebbe essere presupposto come condizione della possibilità della determinazione del libero arbitrio. Ma di nessuna rappresentazione di un oggetto, qualunque essa sia, si può conoscere a priori se essa sarà legata col p i a c e r e o col d i s p i a c e r e , o se sarà i n d i f f e r e n t e . Dunque, in tal caso, il motivo determinante del libero arbitrio deve sempre essere empirico; e quindi anche il principio pratico materiale che lo presuppone come condizione. Ora, siccome ( i n s e c o n d o l u o g o ) un principio che si fonda soltanto sulla condizione soggettiva della capacità di sentire un piacere o un dispiacere (la quale condizione può soltanto esser conosciuta empiricamente, e non può esser valida allo stesso modo per tutti gli esseri razionali), può certamente servire come m a s s i m a per il soggetto che la possiede ma non come l e g g e per questa stessa capacità (poiché gli manca la necessità oggettiva che dev’esser conosciuta a p r i o r i ) , così un tale principio non può mai fornire una legge pratica. § 3. TEOREMA II. Tutti i princìpi pratici materiali, come tali, sono di una sola e medesima specie, e appartengono al principio universale dell’amor proprio, ossia della propria felicità. Il piacere che proviene dalla rappresentazione dell’esistenza di una cosa, in quanto dev’essere un motivo determinante nel desiderio di questa cosa, si fonda sulla c a p a c i t à d i s e n t i -

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von dem Dasein eines Gegenstandes a b h ä n g t ; mithin gehört sie dem Sinne (Gefühl) und nicht dem Verstande an, der eine Beziehung der Vorstellung a u f e i n O b j e k t nach Begriffen, aber nicht auf das Subjekt nach Gefühlen ausdrückt. Sie ist also nur sofern praktisch, als die Empfindung der Annehmlichkeit, die das Subjekt von der Wirklichkeit des Gegenstandes erwartet, das Begehrungsvermögen bestimmt. Nun ist aber das Bewußtsein eines vernünftigen Wesens von der Annehmlichkeit des Lebens, die ununterbrochen sein ganzes Dasein begleitet, die G l ü c k s e l i g k e i t , und das Prinzip, diese sich zum höchsten Bestimmungsgrunde der | Willkür zu machen, das Prinzip der Selbstliebe. Also sind alle materialen Prinzipien, die den Bestimmungsgrund der Willkür in der aus irgendeines Gegenstandes Wirklichkeit zu empfindenden Lust oder Unlust setzen, sofern gänzlich von e i n e r l e i A r t , daß sie insgesamt zum Prinzip der Selbstliebe oder eigenen Glückseligkeit gehören. FOLGERUNG. Alle m a t e r i a l e n praktischen Regeln setzen den Bestimmungsgrund des Willens im u n t e r e n B e g e h r u n g s v e r m ö g e n , und gäbe es gar keine b l o ß f o r m a l e n Gesetze desselben, die den Willen hinreichend bestimmten, so würde auch k e i n o b e r e s B e g e h r u n g s v e r m ö g e n eingeräumt werden können. ANMERKUNG I. Man muß sich wundern, wie sonst scharfsinnige Männer einen Unterschied zwischen dem u n t e r e n und o b e r e n B e g e h r u n g s v e r m ö g e n darin zu finden glauben können, ob die Vo r s t e l l u n g e n , die mit dem Gefühl der Lust verbunden sind, in den S i n n e n oder dem Ve r s t a n d e ihren Ursprung haben. Denn es kommt, wenn man nach den Bestimmungsgründen des Begehrens fragt und sie in einer von irgend etwas erwarteten Annehmlichkeit setzt, gar nicht darauf an, wo die Vo r s t e l l u n g die-

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r e del soggetto, perché d i p e n d e dall’esistenza di un oggetto; appartiene quindi al senso (sentimento) e non all’intelletto, il quale esprime una relazione della rappresentazione c o n u n o g g e t t o secondo concetti, ma non col soggetto secondo sentimenti. Il piacere è dunque pratico solo per quanto la sensazione del diletto, che il soggetto si aspetta dalla realtà dell’oggetto, determina la facoltà di desiderare. Ma in un essere razionale la coscienza del diletto della vita, che accompagna incessantemente la sua intiera esistenza, è la f e l i c i t à , e il principio di far della felicità il supremo motivo determinante del libero arbitrio è il principio dell’amor proprio. Dunque, tutti i princìpi materiali, che ripongono il motivo determinante del libero arbitrio nel piacere o nel dispiacere che si trova nella realtà di un oggetto qualsiasi, sono affatto della s t e s s a s p e c i e , in quanto appartengono tutti al principio dell’amor proprio, ossia della propria felicità. COROLLARIO.

Tutte le regole pratiche m a t e r i a l i ripongono il motivo determinante della volontà nella f a c o l t à d i d e s i d e r a r e i n f e r i o r e ; e, se non vi fossero leggi s e m p l i c e m e n t e f o r m a l i di essa che determinassero sufficientemente la volontà, non si potrebbe neanche ammettere una f a c o l t à d i d e s i derare superiore. SCOLIO I.

C’è da meravigliarsi che uomini, per altro acuti, possano credere di trovar la differenza fra la f a c o l t à d i d e s i d e r a r e i n f e r i o r e e quella s u p e r i o r e nell’aver le r a p p r e s e n t a z i o n i che sono legate col sentimento del piacere la loro origine nei s e n s i o nell’i n t e l l e t t o . Infatti, quando si ricercano i motivi determinanti del desiderio, e si ripongono in un diletto che si aspetta da qualcosa, non importa donde provenga la rap-

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ses vergnügenden Gegenstandes herkomme, sondern nur, wie sehr sie v e r g n ü g t . Wenn eine Vorstellung, sie mag immerhin im Verstande ihren Sitz und Ursprung haben, die Willkür nur dadurch bestimmen kann, daß sie ein Gefühl einer Lust im Subjekte voraussetzt, so ist, daß sie ein Bestimmungsgrund der Willkür sei, gänzlich von der Beschaffenheit des inneren Sinnes abhängig, daß dieser nämlich dadurch mit Annehmlichkeit affiziert werden kann. Die Vor|stellungen der Gegenstände mögen noch so ungleichartig, sie mögen Verstandes-, selbst Vernunftvorstellungen im Gegensatze der Vorstellungen der Sinne sein, so ist doch das Gefühl der Lust, wodurch jene doch eigentlich nur den Bestimmungsgrund des Willens ausmachen (die Annehmlichkeit, das Vergnügen, das man davon erwartet, welches die Tätigkeit zur Hervorbringung des Objekts antreibt) nicht allein sofern von einerlei Art, daß es jederzeit bloß empirisch erkannt werden kann, sondern auch sofern, als es eine und dieselbe Lebenskraft, die sich im Begehrungsvermögen äußert, affiziert und in dieser Beziehung von jedem anderen Bestimmungsgrunde in nichts als dem Grade verschieden sein kann. Wie würde man sonst zwischen zwei der Vorstellungsart nach gänzlich verschiedenen Bestimmungsgründen eine Vergleichung der G r ö ß e nach anstellen können, um den, der am meisten das Begehrungsvermögen affiziert, vorzuziehen? Ebenderselbe Mensch kann ein ihm lehrreiches Buch, das ihm nur einmal zu Händen kommt, ungelesen zurückgeben, um die Jagd nicht zu versäumen, in der Mitte einer schönen Rede weggehen, um zur Mahlzeit nicht zu spät zu kommen, eine Unterhaltung durch vernünftige Gespräche, die er sonst sehr schätzt, verlassen, um sich an den Spieltisch zu setzen, sogar einen Armen, dem wohlzutun ihm sonst Freude ist, abweisen, weil er jetzt eben nicht mehr Geld in der Tasche hat, als er braucht, um den Eintritt in die Komödie zu bezahlen. Beruht die Willensbestimmung auf dem Gefühle der Annehmlichkeit oder Unannehmlichkeit, die er aus irgendeiner Ursache erwartet, so ist es ihm gänslich einerlei, durch welche Vorstellungsart er affiziert werde. Nur wie stark, wie lange, wie leicht erworben und oft wiederholt diese Annehmlichkeit sei, daran liegt es ihm, um sich zur Wahl zu entschließen. Sowie dem|jenigen, der Gold zur Ausgabe braucht, gänzlich einerlei ist, ob die Materie desselben, das Gold, aus dem Gebirge gegraben oder aus

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presentazione di quest’oggetto che piace, ma importa solo quanto esso p i a c e . Se una rappresentazione, benché abbia la sua sede ed origine nell’intelletto, può determinare il libero arbitrio solo per ciò che essa suppone nel soggetto un sentimento di piacere, dipende completamente dalla natura del senso interno che essa sia un motivo determinante del libero arbitrio: cioè dal poter essere questo senso impressionato gradevolmente mediante quella rappresentazione. Le rappresentazioni degli oggetti possono pur essere diverse, possono essere rappresentazioni dell’intelletto e anche della ragione in contrapposizione alle rappresentazioni dei sensi; tuttavia, il sentimento del piacere, per cui soltanto propriamente costituiscono il motivo determinante della volontà (il diletto, la contentezza che se ne aspetta, e che eccita l’attività alla produzione dell’oggetto), è della stessa specie, non solo in quanto può essere sempre soltanto conosciuto empiricamente, ma anche in quanto agisce su una sola e medesima forza vitale, che si manifesta nella facoltà di desiderare, e in questa relazione non può essere differente, fuorché nel grado, da ogni altro motivo determinante. Altrimenti come si potrebbe far un confronto rispetto alla q u a n t i t à fra due motivi determinanti affatto differenti rispetto al modo di rappresentazione, per preferire quello che muove di più la facoltà di desiderare? Un medesimo uomo può restituire, senz’averlo letto, un libro per lui istruttivo, che gli viene tra mani solo una volta, per non lasciare la caccia; può andarsene durante un bel discorso per non giunger troppo tardi a pranzo; lasciare una conversazione sensata, che del resto egli apprezza molto, per mettersi alla tavola da giuoco; perfino respingere un povero, che del resto egli ha piacere di beneficare, perché non ha denaro in tasca più di quel che gli abbisogna per pagar l’ingresso alla commedia. Se la determinazione della volontà si fonda sul sentimento del piacere o del dispiacere che egli si aspetta da una cosa, gli è affatto indifferente il modo di rappresentazione mediante il quale viene affetto. Quanto intenso è questo piacere, quanto lungo, quanto facile a procurare e quanto spesso ripetuto, ecco che cosa importa a lui per risolversi alla scelta. Come a colui che ha bisogno di oro per spendere, è affatto indifferente che la materia di esso,

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dem Sande gewaschen ist, wenn es nur allenthalben für denselben Wert angenommen wird, so fragt kein Mensch, wenn es ihm bloß an der Annehmlichkeit des Lebens gelegen ist, ob Verstandes- oder Sinnesvorstellungen, sondern nur, w i e v i e l u n d g r o ß e s Ve r g n ü g e n sie ihm auf die längste Zeit verschaffen. Nur diejenigen, welche der reinen Vernunft das Vermögen, ohne Voraussetzung irgendeines Gefühls den Willen zu bestimmen, gerne abstreiten möchten, können sich soweit von ihrer eigenen Erklärung verirren, das, was sie selbst vorher auf ein und ebendasselbe Prinzip gebracht haben, dennoch hernach für ganz ungleichartig zu erklären. So findet sich z. B., daß man auch an bloßer K r a f t a n w e n d u n g , an dem Bewußtsein seiner Seelenstärke in Überwindung der Hindernisse, die sich unserem Vorsatze entgegensetzen, an der Kultur der Geistestalente usw. Vergnügen finden könne, und wir nennen das mit Recht f e i n e r e Freuden und Ergötzungen, weil sie mehr wie andere in unserer Gewalt sind, sich nicht abnutzen, das Gefühl zu noch mehrerem Genuß derselben vielmehr stärken und, indem sie ergötzen, zugleich kultivieren. Allein sie darum für eine andere Art, den Willen zu bestimmen als bloß durch den Sinn, auszugeben, da sie doch einmal zur Möglichkeit jener Vergnügen ein darauf in uns angelegtes Gefühl, als erste Bedingung dieses Wohlgefallens, voraussetzen, ist gerade so, als wenn Unwissende, die gerne in der Metaphysik pfuschern möchten, sich die Materie so fein, so überfein, daß sie selbst darüber schwindlig werden möchten, denken und dann glauben, auf diese Art sich ein g e i s t i g e s und doch ausgedehntes Wesen erdacht zu haben. Wenn wir es mit dem E p i k u r bei der Tugend aufs | bloße Vergnügen aussetzen, das sie verspricht, um den Willen zu bestimmen, so können wir ihn hernach nicht tadeln, daß er dieses mit denen der gröbsten Sinne für ganz gleichartig hält; denn man hat gar nicht Grund, ihm aufzubürden, daß er die Vorstellungen, wodurch dieses Gefühl in uns erregt würde, bloß den körperlichen Sinnen beigemessen hätte. Er hat von vielen derselben den Quell, soviel man erraten kann, ebensowohl in dem Gebrauch des höheren Erkenntnisvermögens gesucht; aber das hinderte ihn nicht und konnte ihn auch nicht hindern, nach genanntem Prinzip das Vergnügen selbst, das uns jene allenfalls intellektuellen Vorstellungen gewähren, und wodurch sie allein Bestimmungsgründe

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l’oro, sia stata cavata dalla montagna, o detersa dalla sabbia, purché sia ricevuto dappertutto per lo stesso valore, così nessuno, se gl’importa semplicemente del piacere della vita, ricerca se le rappresentazioni sono dell’intelletto o del senso, ma soltanto il n u m e r o e l ’ i n t e n s i t à d e l p i a c e r e che esse gli procurano nel maggior tempo. Solo coloro che toglierebbero volentieri alla ragione il potere di determinare la volontà senza la presupposizione di un sentimento, possono deviare talmente dalla loro propria definizione, da dichiarare poi tuttavia affatto diverso ciò che prima essi stessi hanno ricondotto a un solo e medesimo principio. Così si vede, per es., che si può trovar piacere anche nel semplice u s o d e l l a f o r z a , nella coscienza della propria forza di animo in quanto supera gli ostacoli che si oppongono al nostro proposito, nel coltivar le doti dello spirito ecc.; e giustamente noi chiamiamo ciò le gioie e i piaceri p i ù s q u i s i t i , perché essi, più che gli altri, sono in nostro potere, non si affievoliscono, piuttosto rinvigoriscono il sentimento per un godimento ancor maggiore di essi, e, mentre dilettano, educano. Ma spacciarli perciò come determinanti la volontà in altro modo che mediante il senso, mentre essi suppongono tuttavia per la possibilità di quei piaceri un sentimento posto in noi a quest’effetto come prima condizione di questo piacere, è [agire] proprio come quando gli ignoranti, che volentieri s’immischiano di metafisica, suppongono la materia sì fina, sì sopraffina, che a loro stessi ne viene il capogiro, e poi credono a questo modo di aver trovato un’essenza s p i r i t u a l e eppure estesa. Se con Epicuro noi stabiliamo che nella virtù ciò che determina la volontà sia il semplice piacere che essa promette, non possiamo poi disapprovarlo perché egli ritiene questo piacere omogeneo con quello dei sensi più grossolani; non si ha infatti motivo di fargli carico di aver attribuito unicamente ai sensi corporali le rappresentazioni mediante le quali vien prodotto in noi questo piacere. Per quanto si può indovinare, di molte di queste rappresentazioni egli ricercò l’origine appunto nell’uso della facoltà superiore della conoscenza; ma ciò non gl’impedì, e non gli poteva impedire di ritenere, secondo il principio citato, affatto omogeneo con gli altri il piacere stesso che quelle rappresentazioni ma-

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des Willens sein können, gänzlich für gleichartig zu halten. K o n s e q u e n t zu sein, ist die größte Obliegenheit eines Philosophen und wird doch am seltensten angetroffen. Die alten griechischen Schulen geben uns davon mehr Beispiele, als wir in unserem s y n k r e t i s t i s c h e n Zeitalter antreffen, wo ein gewisses K o a l i t i o n s s y s t e m widersprechender Grundsätze voll Unredlichkeit und Seichtigkeit erkünstelt wird, weil es sich einem Publikum besser empfiehlt, das zufrieden ist, von allem etwas und im ganzen nichts zu wissen und dabei in allen Sätteln gerecht zu sein. Das Prinzip der eigenen Glückseligkeit, soviel Verstand und Vernunft bei ihm auch gebraucht werden mag, würde doch für den Willen keine anderen Bestimmungsgründe, als die dem unteren Begehrungsvermögen angemessen sind, in sich fassen, und es gibt also entweder gar kein oberes Begehrungsvermögen, oder r e i n e Ve r n u n f t muß für sich allein praktisch sein, d. i. ohne Voraussetzung irgendeines Gefühls, mithin ohne Vorstellungen des Angenehmen oder Unangenehmen, als der Materie des Begehrungsvermögens, die jederzeit eine empirische Bedingung der Prinzipien ist, durch die bloße Form der praktischen Regel | den Willen bestimmen können. Alsdann allein ist Vernunft, nur sofern sie für sich selbst den Willen bestimmt (nicht im Dienste der Neigungen ist), ein wahres o b e r e s Begehrungsvermögen, dem das pathologisch bestimmbare untergeordnet ist, und wirklich, ja s p e z i f i s c h von diesem unterschieden, sodaß sogar die mindeste Beimischung von den Antrieben der letzteren ihrer Stärke und Vorzuge Abbruch tut, sowie das mindeste Empirische, als Bedingung in einer mathematischen Demonstration, ihre Würde und Nachdruck herabsetzt und vernichtet. Die Vernunft bestimmt in einem praktischen Gesetze unmittelbar den Willen, nicht vermittelst eines dazwischenkommenden Gefühls der Lust und Unlust, selbst nicht an diesem Gesetze, und nur, daß sie als reine Vernunft praktisch sein kann, macht es ihr möglich, g e s e t z g e b e n d zu sein.

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gari intellettuali ci procurano, e per il quale soltanto esse possono essere motivi determinanti della volontà. Essere c o e r e n t e è il dovere più grande di un filosofo; eppure è quello che vien soddisfatto più di rado. Le antiche scuole greche ci danno di ciò più esempi che non ne troviamo nel nostro secolo s i n c r e t i s t i c o , in cui si è prodotto artificiosamente un certo s i s t e m a d i c o a l i z i o n e 10 di princìpi che si contraddicono, pieno di slealtà e di superficialità, perché ciò si raccomanda di più a un pubblico che è contento di saper qualcosa di tutto, e in sostanza [non sa] niente, e di aver così un mantello a ogni acqua. Il principio della propria felicità, per quanto possano esser usati in esso anche l’intelletto e la ragione, non conterrebbe tuttavia altri motivi determinanti per la volontà se non quelli che sono adeguati alla facoltà i n f e r i o r e di desiderare; e perciò, non vi è affatto facoltà superiore di desiderare, o la r a g i o n p u r a dev’essere per sé sola pratica, ossia [deve] poter determinare la volontà mediante la semplice forma delle regole pratiche senza la presupposizione di un sentimento, e quindi senza le rappresentazioni del piacevole o dello spiacevole come materia della facoltà di desiderare, la quale materia è sempre una condizione empirica dei princìpi. Soltanto la ragione quindi, in quanto determina per se stessa la volontà (non in servigio delle inclinazioni), è una vera facoltà s u p e r i o r e di desiderare, a cui è subordinata quella patologicamente determinabile. La ragione differisce realmente, anzi s p e c i f i c a m e n t e , da questa facoltà, in modo che anche la minima mescolanza degli impulsi di quest’ultima nuoce alla sua forza e preminenza, allo stesso modo che il minimo elemento empirico, come condizione, in una dimostrazione matematica, diminuisce e annulla il suo valore e la sua efficacia. La ragione in una legge pratica determina la volontà immediatamente, non mediante l’intervento di un sentimento di piacere o dispiacere, neanche di un sentimento per questa legge; e solo il fatto, che essa come ragion pura può essere pratica, le rende possibile di essere l e g i s l a t r i c e .

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II.

Glücklich zu sein, ist notwendig das Verlangen jedes vernünftigen, aber endlichen Wesens und also ein unvermeidlicher Bestimmungsgrund seines Begehrungsvermögens. Denn die Zufriedenheit mit seinem ganzen Dasein ist nicht etwa ein ursprünglicher Besitz und eine Seligkeit, welche ein Bewußtsein seiner unabhängigen Selbstgenugsamkeit voraussetzen würde, sondern ein durch seine endliche Natur selbst ihm aufgedrungenes Problem, weil es bedürftig ist; und dieses Bedürfnis betrifft die Materie seines Begehrungsvermögens, d. i. etwas, was sich auf ein subjektiv zum Grunde liegendes Gefühl der Lust oder Unlust bezieht, dadurch das, was es zur Zufriedenheit mit seinem Zustande bedarf, bestimmt wird. Aber ebendarum, weil dieser materiale Bestimmungsgrund von dem Subjekte bloß empirisch erkannt werden kann, ist es unmöglich, diese Aufgabe als ein Gesetz zu betrachten, weil dieses als objektiv in allen Fällen und für alle vernünftigen Wesen | e b e n d e n s e l b e n B e s t i m m u n g s g r u n d des Willens enthalten müßte. Denn obgleich der Begriff der Glückseligkeit der praktischen Beziehung der O b j e k t e aufs Begehrungsvermögen a l l e r w ä r t s zum Grunde liegt, so ist er doch nur der allgemeine Titel der subjektiven Bestimmungsgründe und bestimmt nichts spezifisch, darum es doch in dieser praktischen Aufgabe allein zu tun ist, und ohne welche Bestimmung sie gar nicht aufgelöst werden kann. Worin nämlich jeder seine Glückseligkeit zu setzen habe, kommt auf jedes sein besonderes Gefühl der Lust und Unlust an, und selbst in einemunddemselben Subjekt auf die Verschiedenheit des Bedürfnisses nach den Abänderungen dieses Gefühls, und ein s u b j e k t i v n o t w e n d i g e s Gesetz (als Naturgesetz) ist also o b j e k t i v ein gar sehr z u f ä l l i g e s praktisches Prinzip, das in verschiedenen Subjekten sehr verschieden sein kann und muß, mithin niemals ein Gesetz abgeben kann; weil es bei der Begierde nach Glückseligkeit nicht auf die Form der Gesetzmäßigkeit, sondern lediglich auf die Materie ankommt, nämlich ob und wieviel Vergnügen ich in der Befolgung des Gesetzes zu erwarten habe. Prinzipien der Selbstliebe können zwar allgemeine Regeln der Geschicklichkeit (Mittel zu Absichten auszufin-

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51 SCOLIO II.

Esser felici è necessariamente il desiderio di ogni essere razionale ma finito, e perciò un motivo determinante inevitabile della sua facoltà di desiderare. Infatti, la contentezza per la propria intiera esistenza, non è già un possesso originario e una beatitudine, che supporrebbe una coscienza di autosufficienza e indipendenza, ma un problema che a quest’essere è imposto mediante la sua stessa natura finita; perché esso ha dei bisogni, e questi bisogni riguardano la materia della sua facoltà di desiderare, cioè qualcosa che si riferisce a un sentimento soggettivo di piacere o dispiacere, che sta alla base, e così è determinato ciò di cui esso abbisogna per la contentezza del suo stato. Ma appunto perché questo motivo determinante materiale può esser conosciuto solo empiricamente dal soggetto, è impossibile considerare questo problema come una legge, perché questa come oggettiva dovrebbe contenere in tutti i casi e per tutti gli esseri razionali l o s t e s s o m o t i v o d e t e r m i n a n t e della volontà. Poiché sebbene il concetto della felicità sia d a p p e r t u t t o a base della relazione pratica degli o g g e t t i con la facoltà di desiderare, pure esso è solo il carattere comune dei motivi determinanti soggettivi, e non determina niente in modo specifico, mentre solo di ciò si tratta in questo problema pratico, il quale senza quella determinazione specifica non può esser risolto. Quello, cioè, in cui ciascuno deve riporre la sua felicità, dipende dal suo sentimento particolare di piacere o dispiacere, e, anche in un solo e medesimo soggetto, dalla diversità dei bisogni che seguono le variazioni di tale sentimento; una legge s o g g e t t i v a m e n t e n e c e s s a r i a (come legge naturale) è dunque o g g e t t i v a m e n t e un principio pratico molto a c c i d e n t a l e , che può e dev’essere assai differente in soggetti differenti; quindi non può mai dar luogo a una legge perché nel desiderio della felicità non si tratta della forma della conformità alla legge, ma soltanto della materia, cioè se debba aspettarmi dei piaceri, e quanti me ne debba aspettare nell’osservanza della legge. I princìpi dell’amor proprio possono bensì contenere regole universali dell’abilità (di trovar i mezzi ai fini), ma allora essi so-

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den) enthalten; alsdann sind es aber bloß theoretische Prinzipien*, z. B. wie | derjenige, der gerne Brot essen möchte, sich eine Mühle auszudenken habe. Aber praktische Vorschriften, die sich auf sie gründen, können niemals allgemein sein, denn der Bestimmungsgrund des Begehrungsvermögens ist auf das Gefüfl der Lust und Unlust, das niemals als allgemein auf dieselben Gegenstände gerichtet angenommen werden kann, gegründet. Aber gesetzt, endliche vernünftige Wesen dächten auch in Ansehung dessen, was sie für Objekte ihrer Gefühle des Vergnügens oder Schmerzes anzunehmen hätten, imgleichen sogar in Ansehung der Mittel, deren sie sich bedienen müssen, um die ersteren zu erreichen, die anderen abzuhalten, durchgehends einerlei: so würde das P r i n z i p d e r S e l b s t l i e b e dennoch von ihnen durchaus für k e i n p r a k t i s c h e s G e s e t z ausgegeben werden können; denn diese Einhelligkeit wäre selbst doch nur zufällig. Der Bestimmungsgrund wäre immer doch nur subjektiv gültig und bloß empirisch und hätte diejenige Notwendigkeit nicht, die in einem jeden Gesetze gedacht wird, nämlich die objektive aus Gründen a priori; man müßte denn diese Notwendigkeit gar nicht für praktisch, sondern für bloß physisch ausgeben, nämlich daß die Handlung durch unsere Neigung uns ebenso unausbleiblich abgenötigt würde als das Gähnen, wenn wir andere gähnen sehen. Man würde eher behaupten können, daß es gar keine praktischen Gesetze gebe, sondern nur A n r a t u n g e n zum Behuf unserer Begierden, als daß bloß subjektive Prinzipien zum Range praktischer Gesetze erhoben würden, die durchaus objektive und nicht bloß subjektive Notwendigkeit haben und durch Vernunft a priori, nicht durch Erfahrung (so empirisch allgemein diese auch sein

* Sätze, welche in der Mathematik oder Naturlehre p r a k t i s c h genannt werden, sollten eigentlich t e c h n i s c h heißen. Denn um die Willensbestimmung ist es diesen Lehren gar nicht zu tun; sie zeigen nur das Mannigfaltige der möglichen Handlung an, welches eine gewisse Wirkung hervorzubringen hinreichend ist, und sind also ebenso theoretisch als alle Sätze, welche die Verknüpfung der Ursache mit einer Wirkung aussagen. Wem nun die letztere beliebt, der muß sich auch gefallen lassen, die erstere zu sein.

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no princìpi semplicemente teoretici* (per es., come chi ha voglia di mangiar del pane, debba inventare un mulino). Ma i precetti pratici, che si fondano su questi princìpi, non possono mai essere universali, perché il motivo determinante della facoltà di desiderare è fondato sul sentimento del piacere e del dispiacere, che non si può mai ammettere come applicato universalmente agli stessi o g g e t t i . Ma, supposto che esseri razionali finiti pensassero in genere allo stesso modo anche relativamente a ciò che essi dovessero ammettere come oggetti dei loro sentimenti di piacere e dolore, e così pure relativamente ai mezzi di cui dovessero servirsi per ottenere i primi e tener lontani i secondi; tuttavia il p r i n c i p i o d e l l ’ a m o r p r o p r i o non potrebbe esser mai spacciato da essi per una l e g g e p r a t i c a ; poiché quest’unanimità sarebbe anch’essa soltanto accidentale. Il motivo determinante sarebbe pur sempre soltanto valevole soggettivamente e semplicemente empirico; e non avrebbe quella necessità che si concepisce in ogni legge, cioè la necessità oggettiva per princìpi a p r i o r i ; quindi questa necessità non si dovrebbe punto spacciare come pratica, ma semplicemente come fisica: cioè mediante la nostra inclinazione l’azione ci sarebbe imposta così inevitabilmente, come lo sbadigliare quando vediamo sbadigliare altri. Si potrebbe asserire che non vi sono leggi pratiche, ma soltanto c o n s i g l i per uso dei nostri desideri, piuttosto che ammettere che princìpi semplicemente soggettivi fossero elevati al grado delle leggi pratiche, le quali hanno una necessità affatto oggettiva e non semplicemente soggettiva, e devono esser conosciute a p r i o r i mediante la ragione e non mediante l’esperienza (per quanto empiricamente universale questa possa essere). Perfino

* Le proposizioni, che nella matematica o nella fisica si chiamano p r a t i c h e , dovrebbero propriamente chiamarsi t e c n i c h e . Poiché queste scienze non trattano punto della determinazione della volontà, quelle proposizioni dimostrano soltanto il molteplice dell’azione possibile, il quale è sufficiente a produrre un dato effetto, e perciò sono altrettanto teoretiche, quanto tutte le proposizioni che enunciano la connessione della causa coll’effetto. Ora, colui che vuole l’effetto, deve anche adattarsi alla causa.

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mag) erkannt sein müssen. Selbst die Regeln einstimmiger Erscheinungen werden nur Naturgesetze (z. B. die mechanischen) genannt, wenn man sie entweder wirklich a priori erkennt oder | doch (wie bei den chemischen) annimmt, sie würden a priori aus objektiven Gründen erkannt werden, wenn unsere Einsicht tiefer ginge. Allein bei bloß subjektiven praktischen Prinzipien wird das ausdrücklich zur Bedingung gemacht, daß ihnen nicht objektive, sondern subjektive Bedingungen der Willkür zum Grunde liegen müssen; mithin, daß sie jederzeit nur als bloße Maximen, niemals aber als praktische Gesetze vorstellig gemacht werden dürfen. Diese letztere Anmerkung scheint beim ersten Anblicke bloße Wortklauberei zu sein; allein sie ist die Wortbestimmung des allerwichtigsten Unterschiedes, der nur in praktischen Untersuchungen in Betrachtung kommen mag. § 4. LEHRSATZ III.

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Wenn ein vernünftiges Wesen sich seine Maximen als praktische allgemeine Gesetze denken soll, so kann es sich dieselben nur als solche Prinzipien denken, die nicht der Materie, sondern bloß der Form nach den Bestimmungsgrund des Willens enthalten. Die Materie eines praktischen Prinzips ist der Gegenstand des Willens. Dieser ist entweder der Bestimmungsgrund des letzteren oder nicht. Ist er der Bestimmungsgrund desselben, so würde die Regel des Willens einer empirischen Bedingung (dem Verhältnisse der bestimmenden Vorstellung zum Gefühle der Lust oder Unlust) unterworfen, folglich kein praktisches Gesetz sein. Nun bleibt von einem Gesetze, wenn man alle Materie, d. i. jeden Gegenstand des Willens (als Bestimmungsgrund) davon absondert, nichts übrig | als die bloße Form einer allgemeinen Gesetzgebung. Also kann ein vernünitiges Wesen sich s e i n e subjektiv-praktischen Prinzipien d. i. Maximen entweder gar nicht zugleich als allgemeine Gesetze denken, oder es muß annehmen, daß die bloße Form derselben, nach der jene s i c h z u r a l l g e m e i n e n G e s e t z g e b u n g s c h i c k e n , sie für sich allein zum praktischen Gesetze mache.

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le regole di fenomeni concordanti sono chiamate soltanto leggi naturali (per es., quelle meccaniche), quando sono conosciute veramente a p r i o r i , oppure si ammette (come in quelle chimiche) che esse sarebbero conosciute a p r i o r i per princìpi oggettivi, se la nostra cognizione andasse più a fondo. Solo nei princìpi pratici semplicemente soggettivi vien posta manifestamente la condizione che ad essi devono esser di base condizioni non oggettive, ma soggettive del libero arbitrio; quindi che essi possono essere sempre soltanto rappresentati come semplici massime, e non mai come leggi pratiche. Quest’ultima osservazione sembra a prima vista una pedanteria; ma essa contiene la definizione della differenza più importante che si possa considerare nelle ricerche pratiche.

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§ 4. TEOREMA III. Se un essere razionale deve concepire le sue massime come l e g g i p r a t i c h e universali, esso può concepire queste massime soltanto come princìpi tali che contengano il motivo determinante della volontà, non secondo la materia, ma semplicemente secondo la forma. La materia di un principio pratico è l’oggetto della volontà. Questo è il motivo determinante della volontà, oppure non è. Se è il motivo determinante, la regola della volontà è soggetta a una condizione empirica (la relazione della rappresentazione determinante al sentimento del piacere e del dispiacere), quindi non è una legge pratica. Ora, di una legge, se si astrae da essa ogni materia, cioè ogni oggetto della volontà (come motivo determinante), non rimane che la semplice f o r m a di una legislazione universale. Dunque un essere razionale, o non può affatto concepire nello stesso tempo i s u o i princìpi soggettivamente pratici, cioè le sue massime, come leggi universali, oppure deve ammettere che la semplice forma di quelle massime, secondo la quale esse s o n o a t t e a l l a l e g i s l a z i o n e u n i v e r s a l e , le faccia per sé sola leggi pratiche.

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Welche Form in der Maxime sich zur allgemeinen Gesetzgebung schicke, welche nicht, das kann der gemeinste Verstand ohne Unterweisung unterscheiden. Ich habe z. B. es mir zur Maxime gemacht, mein Vermögen durch alle sicheren Mittel zu vergrößern. Jetzt ist ein D e p o s i t u m in meinen Händen, dessen Eigentümer verstorben ist und keine Handschrift darüber zurückgelassen hat. Natürlicherweise ist dies der Fall meiner Maxime. Jetzt will ich nur wissen, ob jene Maxime auch als allgemeines praktisches Gesetz gelten könne. Ich wende jene also auf gegenwärtigen Fall an und frage, ob sie wohl die Form eines Gesetzes annehmen, mithin ich wohl durch meine Maxime zugleich ein solches Gesetz geben könnte: daß jedermann ein Depositum ableugnen dürfe, dessen Niederlegung ihm niemand beweisen kann. Ich werde sofort gewahr, daß ein solches Prinzip als Gesetz sich selbst vernichten würde, weil es machen würde, daß es gar kein Depositum gäbe. Ein praktisches Gesetz, was ich dafür erkenne, muß sich zur allgemeinen Gesetzgebung qualifizieren; dies ist ein identischer Satz und also für sich klar. Sage ich nun: mein Wille steht unter einem praktischen G e s e t z e , so kann ich nicht meine Neigung (z. B. im gegenwärtigen Falle meine Habsucht) als den zu einem allgemeinen praktischen Gesetze schicklichen Bestim|mungsgrund desselben anführen; denn diese, weit gefehlt, daß sie zu einer allgemeinen Gesetzgebung tauglich sein sollte, so muß sie vielmehr in der Form eines allgemeinen Gesetzes sich selbst aufreiben. Es ist daher wunderlich, wie, da die Begierde zur Glückseligkeit, mithin auch die M a x i m e , dadurch sich jeder diese letztere zum Bestimmungsgrunde seines Willens setzt, allgemein ist, es verständigen Männern habe in den Sinn kommen können, es darum für ein allgemein p r a k t i s c h e s G e s e t z auszugeben. Denn da sonst ein allgemeines Naturgesetz alles einstimmig macht, so würde hier, wenn man der Maxime die Allgemeinheit eines Gesetzes geben wollte, gerade das äußerste Widerspiel der Einstimmung, der ärgste Widerstreit und die gänzliche Vernichtung der Maxime selbst und ihrer Absicht erfolgen. Denn der Wille aller hat alsdann nicht einunddasselbe Objekt, sondern ein jeder hat das seinige (sein eigenes Wohlbefinden), welches sich zwar zufälligerwei-

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Quale forma nella massima si adatti alla legislazione universale, quale no, questo lo può distinguere, senza bisogno d’istruzione, l’intelletto più comune. Io mi son fatto, per es., una massima di aumentare con tutti i mezzi sicuri le mie sostanze. Ora è nelle mie mani un d e p o s i t o , e il padrone di esso è morto e non ha lasciato nessuno scritto a questo riguardo. Naturalmente questo è il caso della mia massima. Ora, io voglio soltanto sapere se quella massima può anche valere come l e g g e pratica universale. Io l’applico dunque al caso presente, e domando se essa può ricevere la forma di una legge, e quindi se io, mediante la mia massima, potrei nello stesso tempo far una legge di questo genere: che ognuno può negare di aver un deposito, la cui consegna nessuno può provare. Io vedo subito che un tal principio, come legge, distruggerebbe se stesso, perché farebbe sì che non vi sarebbe più alcun deposito. Una legge pratica, che io riconosca per tale, deve rendersi atta alla legislazione universale; questa è una proposizione identica, e quindi chiara per sé. Ora, se io dico che la mia volontà è soggetta a una l e g g e pratica, non posso addurre la mia inclinazione (per es., nel caso presente la mia cupidigia) come motivo determinante di essa, conveniente a una legge pratica universale; perché quest’inclinazione, ben lungi da poter essere atta a una legislazione universale, deve piuttosto distruggere se stessa nella forma di una legge universale. Perciò è cosa strana che, siccome il desiderio della felicità, quindi la m a s s i m a mediante la quale ognuno si pone la felicità a motivo determinante della sua volontà, è universale, così possa esser venuto in mente a uomini di criterio di spacciar questa massima per una l e g g e p r a t i c a universale. Poiché, laddove negli altri casi una legge universale della natura fa tutto concorde, qui, se si volesse dare alla massima l’universalità di una legge, ne seguirebbe proprio l’opposto della concordia: il più grave conflitto e l’intera distruzione della massima stessa e del suo scopo. Poiché in quel caso il volere di tutti non ha un solo e medesimo oggetto, ma ognuno ha il suo (il proprio benessere), il quale può bensì anche accordarsi accidentalmente con

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se auch mit anderer ihren Absichten, die sie gleichfalls auf sich selbst richten, vertragen kann, aber lange nicht zum Gesetze hinreichend ist, weil die Ausnahmen, die man gelegentlich zu machen befugt ist, endlos sind und gar nicht bestimmt in eine allgemeine Regel befaßt werden können. Es kommt auf diese Art eine Harmonie heraus, die derjenigen ähnlich ist, welche ein gewisses Spottgedicht auf die Seeleneintracht zweier sich zugrunde richtenden Eheleute schildert: O wunderbare Harmonie, was er will, will au ch sie u s w. , oder was von der Anheischigmachung König F r a n z des Ersten gegen Kaiser K a r l den Fünften erzählt wird: Was mein Bruder Karl haben will (Mailand), das will ich auch haben. Empirische Bestimmungsgründe taugen zu keiner allgemeinen äußeren Gesetzgebung, aber auch ebensowenig zur inneren; denn jeder legt | sein Subjekt, ein anderer aber ein anderes Subjekt der Neigung zum Grunde, und in jedem Subjekt selber ist bald die bald eine andere im Vorzuge des Einflusses. Ein Gesetz ausfindig zu machen, das sie insgesamt unter dieser Bedingung, nämlich mit allseitiger Einstimmung regierte, ist schlechterdings unmöglich. § 5. AUFGABE I. Vorausgesetzt, daß die bloße gesetzgebende Form der Maximen allein der zureichende Bestimmungsgrund eines Willens sei: die Beschaffenheit desjenigen Willens zu finden, der dadurch allein bestimmbar ist. Da die bloße Form des Gesetzes lediglich von der Vernunft vorgestellt werden kann und mithin kein Gegenstand der Sinne ist, folglich auch nicht unter die Erscheinungen gehört: so ist die Vorstellung derselben als Bestimmungsgrund des Willens von allen Bestimmungsgründen der Begebenheiten in der Natur nach dem Gesetze der Kausalität unterschieden, weil bei diesen die bestimmenden Gründe selbst Erscheinungen sein müssen. Wenn aber auch kein anderer Bestimmungsgrund des Willens für diesen zum Gesetz dienen kann als bloß jene allgemeine gesetzgebende Form: so muß ein solcher Wille als gänzlich unabhängig von dem Naturgesetz der Erscheinungen, nämlich dem Gesetze der Kausalität, beziehungsweise aufeinander gedacht werden. Eine solche Unabhän-

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le intenzioni che altri rivolgono parimente a se stessi, ma è del tutto insufficiente a far una legge, perché le eccezioni, che all’occasione si ha il diritto di fare, sono infinite, e non possono punto esser contenute in modo determinato in una regola universale. In questo modo risulta un’armonia, la quale è simile a quella che una certa satira rappresenta a proposito della concordia di due sposi che si rovinano: O m i r a b i l e a r m o n i a , q u e l l o c h e l u i v u o l e , v u o l e a n c h e l e i , ecc.; o è simile anche a ciò che si racconta dell’impegno preso dal re Francesco I verso l’imperatore Carlo V: ciò che mio fratello Carlo vuole (Milano), lo voglio anch’io. I motivi determinati empirici non sono atti a nessuna legislazione universale esterna, ma neanche a una legislazione universale interna; poiché a base dell’inclinazione questi pone un soggetto, ma un altro un soggetto tutto diverso, e anche in ciascun soggetto è ora un’inclinazione, ora un’altra che ha l’influsso maggiore. È assolutamente impossibile trovare una legge che regga tutte le inclinazioni sotto questa condizione, cioè in concordia universale. § 5. PROBLEMA I. Supposto che la semplice forma legislativa delle massime sia il motivo determinante sufficiente di una volontà, trovare la natura di quella volontà che è determinata solo per questa forma. Siccome la semplice forma della legge non può esser rappresentata se non dalla ragione, e quindi non è un oggetto dei sensi, e per conseguenza non appartiene nemmeno ai fenomeni; così la rappresentazione di essa come motivo determinante della volontà si distingue da tutti i motivi che determinano gli eventi naturali secondo la legge di causalità, perché in questi i motivi determinanti devono anche essere fenomeni. Ma, se nessun altro motivo determinante della volontà può servir di legge a questa, se non semplicemente quella forma legislativa universale: una tale volontà dev’essere considerata come affatto indipendente dalla legge naturale dei fenomeni, cioè dalla legge di causalità degli uni rispetto agli altri. Ma una tale indipendenza

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gigkeit aber heißt F r e i h e i t im strengsten, d. i. transzendentalen Verstande. Also | ist ein Wille, dem die bloße gesetzgebende Form der Maxime allein zum Gesetze dienen kann, ein freier Wille. § 6. AUFGABE II. Vorausgesetzt, daß ein Wille frei sei: das Gesetz zu finden, welches ihn allein notwendig zu bestimmen tauglich ist. Da die Materie des praktischen Gesetzes, d. i. ein Objekt der Maxime, niemals anders als empirisch gegeben werden kann, der freie Wille aber, als von empirischen (d. i. zur Sinnenwelt gehörigen) Bedingungen unabhängig, dennoch bestimmbar sein muß: so muß ein freier Wille, unabhängig von der M a t e r i e des Gesetzes, dennoch einen Bestimmungsgrund in dem Gesetze antreffen. Es ist aber außer der Materie des Gesetzes nichts weiter in demselben als die gesetzgebende Form enthalten. Also ist die gesetzgebende Form, sofern sie in der Maxime enthalten ist, das einzige, was einen Bestimmungsgrund des Willens ausmachen kann. ANMERKUNG.

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Freiheit und unbedingtes praktisches Gesetz weisen also wechselsweise aufeinander zurück. Ich frage hier nun nicht, ob sie auch in der Tat verschieden seien, und nicht vielmehr ein unbedingtes Gesetz bloß das Selbstbewußtsein einer reinen praktischen Vernunft, diese aber ganz einerlei mit dem positiven Begriffe der Freiheit sei; sondern wovon unsere E r k e n n t n i s des UnbedingtPraktischen a n h e b e , ob von der | Freiheit oder dem praktischen Gesetze. Von der Freiheit kann sie nicht anheben; denn deren können wir uns weder unmittelbar bewußt werden, weil ihr erster Begriff negativ ist, noch darauf aus der Erfahrung schließen, denn Erfahrung gibt uns nur das Gesetz der Erscheinungen, mithin den Mechanismus der Natur, das gerade Widerspiel der Frelheit, zu erkennen. Also ist es das m o r a l i s c h e G e s e t z , dessen wir uns unmittelbar bewußt werden (sobald wir uns Maximen des Willens

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si chiama l i b e r t à nel senso più stretto, cioè trascendentale. Dunque una volontà, a cui la semplice forma legislativa delle massime può servir di legge, è una volontà libera.

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§ 6. PROBLEMA II. Supposto che una volontà sia libera, trovar la legge che sola è atta a determinarla necessariamente. Siccome la materia della legge pratica, cioè un oggetto della massima, non può mai essere data se non empiricamente, ma la volontà libera, come indipendente dalle condizioni empiriche (cioè appartenenti al mondo sensibile), deve nondimeno esser determinabile; così una volontà libera, indipendente dalla m a t e r i a della legge, deve tuttavia trovare un motivo determinante nella legge. Ma, oltre la materia, nella legge non è contenuto altro che la forma legislativa. Dunque la forma legislativa, in quanto è contenuta nella massima, è ciò che solo può costituire un motivo determinante della volontà libera. SCOLIO.

La libertà e la legge pratica incondizionata si corrispondono dunque reciprocamente. Ora io qui non domando se esse siano anche differenti in realtà, e se una legge incondizionata non sia piuttosto semplicemente la coscienza di sé di una ragion pura pratica, e questa sia affatto identica col concetto positivo della libertà; ma donde c o m i n c i a la nostra c o n o s c e n z a dell’incondizionato pratico, se dalla libertà, o dalla legge pratica. Dalla libertà non può cominciare; infatti noi non possiamo né divenir consci di essa immediatamente, perché il suo primo concetto è negativo, né dedurla dall’esperienza, perché l’esperienza ci manifesta soltanto la legge dei fenomeni, e quindi il meccanismo della natura, il quale è affatto l’opposto della libertà. Dunque è la l e g g e m o r a l e ciò di cui diveniamo consci immediatamente (appena formiamo la massima della volontà), ciò che ci

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entwerfen), welches sich uns z u e r s t darbietet und, indem die Vernunft jenes als einen durch keine sinnliche Bedingung zu überwiegenden, ja davon gänzlich unabhängigen Bestimmungsgrund darstellt, gerade auf den Begriff der Freiheit führt. Wie ist aber auch das Bewußtsein jenes moralischen Gesetzes möglich? Wir können uns reiner praktischer Gesetze bewußt werden, ebenso wie wir uns reiner theoretischer Grundsätze bewußt sind, indem wir auf die Notwendigkeit, womit sie uns die Vernunft vorschreibt, und auf Absonderung aller empirischen Bedingungen, dazu uns jene hinweist, achthaben. Der Begriff eines reinen Willens entspringt aus den ersteren, wie das Bewußtsein eines reinen Verstandes aus dem letzteren. Daß dieses die wahre Unterordoung unserer Begriffe sei, und Sittlichkeit uns zuerst den Begriff der Freiheit entdecke, mithin p r a k t i s c h e Ve r n u n f t zuerst der spekulativen das unauflöslichste Problem mit diesem Begriffe aufstelle, um sie durch denselben in die größte Verlegenheit zu setzen: erhellt schon daraus, daß, da aus dem Begriffe der Freiheit in den Erscheinungen nichts erklärt werden kann, sondern hier immer Naturmechanismus den Leitfaden ausmachen muß, überdem auch die Antinomie der reinen Vernunft, wenn sie zum Unbedingten in der Reihe der Ursachen aufsteigen will, sich bei einem so sehr wie bei dem anderen in Unbegreiflich|keiten verwickelt, indessen daß doch der letztere (Mechanismus) wenigstens Brauchbarkeit in Erklärung der Erscheinungen hat, man niemals zu dem Wagstücke gekommen sein würde, Freibeit in die Wissenschaft einzuführen, wäre nicht das Sittengesetz und mit ihm praktische Vernunft dazu gekommen und hätte uns diesen Begriff nicht aufgedrungen. Aber auch die Erfahrung bestätigt diese Ordnung der Begriffe in uns. Setzet, daß jemand von seiner wollüstigen Neigung vorgibt, sie sei, wenn ihm der beliebte Gegenstand und die Gelegenheit dazu vorkämen, für ihn ganz unwiderstehlich: ob, wenn ein Galgen vor dem Hause, da er diese Gelegenheit trifft, aufgerichtet wäre, um ihn sogleich nach genossener Wollust daran zu knüpfen, er alsdann nicht seine Neigung bezwingen würde? Man darf nicht lange raten, was er antworten würde. Fragt ihn aber, ob, wenn sein Fürst ihm unter Androhung derselben unverzögerten Todesstrafe zumutete, ein falsches Zeugnis wider einen ehrlichen Mann, den er gerne unter scheinbaren Vorwänden verderben möchte, abzulegen, ob er da, so

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si presenta anzitutto, e che, poiché la ragione ci presenta quella legge come un motivo determinante sopra cui le condizioni sensibili non possono prevalere, ma che è affatto indipendente da esse, ci conduce direttamente al concetto della libertà. Ma come è anche possibile la coscienza di quella legge morale? Noi possiamo divenir consci delle leggi pure pratiche, come siamo consci dei princìpi teoretici puri, se poniamo mente alla necessità con cui la ragione ce li prescrive, e all’astrazione da tutte le condizioni empiriche che essa ci indica. Il concetto di una volontà pura deriva da quelle leggi, come la coscienza di un intelletto puro deriva da quei princìpi. Che questa sia la vera subordinazione dei nostri concetti, e che soltanto la moralità ci riveli il concetto della libertà, e quindi solamente la r a g i o n p r a t i c a in questo concetto presenti alla ragione speculativa il problema più insolubile, per metterla mediante esso nel più grande imbarazzo, appare già da questo: che, siccome niente può venir spiegato nei fenomeni per il concetto della libertà, ma qui il meccanismo naturale deve sempre costituire il filo conduttore; e inoltre anche l’antinomia della ragion pura, se nella serie delle cause vuol salire all’incondizionato, s’involge nell’incomprensibile, tanto con un concetto come coll’altro, mentre l’ultimo (il meccanismo) è almeno atto alla spiegazione dei fenomeni; non si sarebbe mai venuti all’impresa pericolosa d’introdurre la libertà nella scienza, se la legge morale, e con essa la ragion pratica, non vi fossero pervenute e non ci avessero imposto questo concetto. Ma anche l’esperienza conferma quest’ordine dei concetti in noi. Supponete che qualcuno asserisca della sua inclinazione lussuriosa, che essa gli è affatto invincibile quando gli si presentano`l’oggetto amato e l’occasione propizia; e domandate se, qualora fosse rizzata una forca d’avanti alla casa dove egli trova quest’occasione, per impiccarvelo appena avesse goduto il piacere, in tal caso egli non vincerebbe la sua inclinazione. Non ci vuol molto a indovinare ciò che egli risponderebbe. Ma domandategli se, qualora il suo principe, con minacce della stessa pena di morte immediata, pretendesse che egli facesse una falsa testimonianza contro un uomo onesto, che il principe volesse rovinare con speciosi pretesti, se allora egli, per quanto grande

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groß auch seine Liebe zum Leben sein mag, sie wohl zu überwinden für möglich halte? Ob er es tun würde oder nicht, wird er vielleicht sich nicht getrauen zu versichern; daß es ihm aber möglich sei, muß er ohne Bedenken einräumen. Er urteilt also, daß er etwas kann, darum weil er sich bewußt ist, daß er es soll, und erkennt in sich die Freiheit, die ihm sonst ohne das moralische Gesetz unbekannt geblieben wäre. § 7. GRUNDGESETZ DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT. Handle so, daß die Maxime deines Willens jederzeit zugleich als Prinzip einer allgemeinen Gesetzgebung gelten könne. 55

| ANMERKUNG. Die reine Geometrie hat Postulate als praktische Sätze, die aber nichts weiter enthalten als die Voraussetzung, daß man etwas tun könne, wenn etwas gefordert würde, man s o l l e es tun, und diese sind die einzigen Sätze derselben, die ein Dasein betreffen. Es sind also praktische Regeln unter einer problematischen Bedingung des Willens. Hier aber sagt die Regel: man solle schlechthin auf gewisse Weise verfahren. Die praktische Regel ist also unbedingt, mithin als kategorisch praktischer Satz a priori vorgestellt, wodurch der Wille schlechterdings und unmittelbar (durch die praktische Regel selbst, die also hier Gesetz ist), objektiv bestimmt wird. Denn reine, a n s i c h p r a k t i s c h e Ve r n u n f t ist hier unmittelbar gesetzgebend. Der Wille wird als unabhängig von empirischen Bedingungen, mithin, als reiner Wille, durch die bloße Form des Gesetzes als bestimmt gedacht und dieser Bestimmungsgrund als die oberste Bedingung aller Maximen angesehen. Die Sache ist befremdlich genug und hat ihresgleichen in der ganzen übrigen praktischen Erkenntnis nicht. Denn der Gedanke a priori von einer möglichen allgemeinen Gesetzgebung, der also bloß problematisch ist, wird, ohne von der Erfahrung oder ir-

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possa essere il suo amore alla vita, crederebbe possibile vincerlo. Forse egli non oserebbe assicurare se lo vincerebbe o no; ma che ciò gli sia possibile, lo deve ammettere senza difficoltà. Egli giudica dunque di poter fare qualche cosa, perché è conscio di doverlo fare, e conosce in sé la libertà che altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe rimasta incognita. § 7. LEGGE FONDAMENTALE DELLA RAGION PURA PRATICA. Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale. SCOLIO.

La geometria pura ha dei postulati come proposizioni pratiche, le quali però non contengono se non la supposizione che s i p o s s a fare qualcosa, e, se mai si richiedesse, s i d e b b a farla; e queste sono le sole sue proposizioni che riguardino un’esistenza. Sono adunque leggi pratiche sotto una condizione problematica della volontà. Ma qui la regola dice che si deve assolutamente operare in un certo modo. La regola pratica è dunque incondizionata, e quindi rappresenta a p r i o r i come una proposizione pratica categorica, mediante la quale la volontà viene assolutamente e immediatamente (per la regola pratica stessa, la quale qui è dunque legge) determinata oggettivamente. Poiché qui la r a g i o n pura p r a t i c a in sé è immediatamente legislativa. La volontà è concepita come indipendente dalle condizioni empiriche, e quindi come volontà pura, determinata m e d i a n t e l a s e m p l i c e f o r m a d e l l a l e g g e ; e questo motivo determinante è considerato come la condizione suprema di tutte le massime. La cosa è abbastanza singolare, e non ha l’uguale in tutta la conoscenza pratica rimanente. Poiché il pensiero a p r i o r i di una legislazione universale possibile, il quale dunque è semplicemente problematico, vien presentato incon-

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gend einem äußeren Willen etwas zu entlehnen, als Gesetz unbedingt geboten. Es ist aber auch nicht eine Vorschrift, nach welcher eine Handlung geschehen soll, dadurch eine begehrte Wirkung möglich ist (denn da wäre die Regel immer physisch bedingt), sondern eine Regel, die bloß den Willen in Ansehung der Form seiner Maximen a priori bestimmt, und da ist ein Gesetz, welches bloß zum Behuf der s u b j e k t i v e n Form der Grundsätze dient, als Bestimmungsgrund durch die o b j e k t i v e Form eines Gesetzes überhaupt, wenigstens zu denken nicht unmöglich. Man kann das Be|wußtsein dieses Grundgesetzes ein Faktum der Vernunft nennen, weil man es nicht aus vorhergehenden Datis der Vernunft, z. B. dem Bewußtsein der Freiheit (denn dieses ist uns nicht vorher gegeben) herausvernünfteln kann, sondern weil es sich für sich selbst uns aufdringt als synthetischer Satz a priori, der auf keiner, weder reinen noch empirischen, Anschauung gegründet ist, ob er gleich analytisch sein würde, wenn man die Freiheit des Willens voraussetzte, wozu aber, als positivem Begriffe, eine intellektuelle Anschauung erfordert werden würde, die man hier gar nicht annehmen darf. Doch muß man, um dieses Gesetz ohne Mißdeutung als g e g e b e n anzusehen, wohl bemerken, daß es kein empirisches, sondern das einzige Faktum der reinen Vernunft sei, die sich dadurch als ursprünglich gesetzgebend (sic volo, sic iubeo) ankündigt. FOLGERUNG. Reine Vernunft ist für sich allein praktisch und gibt (dem Menschen) ein allgemeines Gesetz, welches wir das S i t t e n g e s e t z nennen. ANMERKUNG. Das vorher genannte Faktum ist unleugbar. Man darf nur das Urteil zergliedern, welches die Menschen über die Gesetzmäßigkeit ihrer Handlungen fällen: so wird man jederzeit finden, daß,

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dizionatamente come legge, senza prender in prestito qualcosa dall’esperienza o da una volontà esterna. Ma esso non è neanche un precetto secondo il quale deve avvenire un’azione per cui è possibile un effetto desiderato (poiché allora la regola sarebbe sempre condizionata fisicamente), ma è una regola che determina a p r i o r i semplicemente la volontà rispetto alla forma delle sue massime; e allora una legge, la quale serve semplicemente allo scopo della forma soggettiva dei princìpi, non è impossibile, almeno a concepirsi, come motivo determinante mediante la forma oggettiva di una legge in genere. La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto11 della ragione, non perché si possa dedurre per ragionamento da dati precedenti della ragione, per es., dalla coscienza della libertà (perché questa coscienza non ci è data prima), ma perché essa ci s’impone per se stessa come proposizione sintetica a p r i o r i , la quale non è fondata su nessuna intuizione né pura né empirica; mentre essa sarebbe analitica, se si presupponesse la libertà della volontà, per la quale però, come concetto positivo, si richiederebbe un’intuizione intellettuale, la quale qui non si può affatto ammettere. Eppure, per riguardare senza falsa interpretazione questa legge come d a t a , si deve ben notare che essa non è empirica, ma è il fatto particolare della ragion pura, la quale per esso si manifesta come originariamente legislativa (sic volo, sic iubeo). COROLLARIO.

La ragion pura è per sé sola pratica, e dà (all’uomo) una legge universale che noi chiamiamo l e g g e m o r a l e . SCOLIO.

Il fatto sovracitato è innegabile. Occorre soltanto analizzare il giudizio che gli uomini fanno sulla conformità delle loro azioni alla legge, e si vedrà sempre che, qualunque cosa l’inclinazio-

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was auch die Neigung dazwischen sprechen mag, ihre Vernunft dennoch, unbestechlich und durch sich selbst gezwungen, die Maxime des Willens bei einer Handlung jederzeit an den reinen Willen halte, d. i. an sich selbst, indem sie sich als a priori praktisch betrachtet. Dieses Prinzip der Sittlichkeit nun, eben um der Allgemeinheit der Gesetzgebung willen, die es zum formalen obersten Bestimmungsgrunde des Willens unangesehen aller subjektiven Verschiedenheiten des|selben macht, erklärt die Vernunft zugleich zu einem Gesetze für alle vernünftigen Wesen, sofern sie überhaupt einen Willen, d. i. ein Vermögen haben, ihre Kausalität durch die Vorstellung von Regeln zu bestimmen, mithin sofern sie der Handlungen nach Grundsätzen, folglich auch nach praktischen Prinzipien a priori (denn diese haben allein diejenige Notwendigkeit, welche die Vernunft zum Grundsatze fordert), fähig sind. Es schränkt sich also nicht bloß auf Menschen ein, sondern geht auf alle endlichen Wesen, die Vernunft und Willen haben, ja schließt sogar das unendliche Wesen, als oberste Intelligenz, mit ein. Im ersteren Falle aber hat das Gesetz die Form eines Imperativs, weil man an jenem zwar als vernünftigem Wesen einen reinen, aber als mit Bedürfnissen und sinnlichen Bewegursachen affiziertem Wesen keinen heiligen Willen, d. i. einen solchen, der keiner dem moralischen Gesetze widerstreitenden Maximen fähig wäre, voraussetzen kann. Das moralische Gesetz ist daher bei jenen ein Imperativ, der kategorisch gebietet, weil das Gesetz unbedingt ist; das Verhältnis eines solchen Willens zu diesem Gesetze ist A b h ä n g i g k e i t , unter dem Namen der Verbindlichkeit, welche eine N ö t i g u n g , obzwar durch bloße Vernunft und deren objektives Gesetz, zu einer Handlung bedeutet, die darum Pflicht heißt, weil eine pathologisch affizierte (obgleich dadurch nicht bestimmte, mithin auch immer freie) Willkür einen Wunsch bei sich führt, der aus s u b j e k t i v e n Ursachen entspringt, daher auch dem reinen objektiven Bestimmungsgrunde oft entgegen sein kann und also eines Widerstandes der praktischen Vernunft, der ein innerer, aber intellektueller Zwang genannt werden kann, als moralischer Nötigung bedarf. In der allergenugsamsten Intelligenz wird die Willkür als keiner Maxime fähig, die nicht zugleich objektiv Gesetz sein könnte, mit Recht | vorgestellt, und der Begriff der H e i l i g -

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ne possa dire in contrario, pure la loro ragione incorruttibile e obbligata mediante se stessa tiene sempre, in un’azione, la massima della volontà salda nella volontà pura, cioè in se stessa, in quanto si considera come pratica a p r i o r i . Ora questo principio della moralità, appunto per l’universalità della legislazione che lo fa motivo determinante formale supremo della volontà, senza tener conto di tutte le differenze soggettive di essa, la ragion lo definisce una legge per tutti gli esseri razionali, in quanto essi hanno in genere una volontà, cioè una facoltà di determinare la loro causalità mediante la rappresentazione di regole, e quindi in quanto sono capaci di azioni secondo princìpi, e per conseguenza anche secondo princìpi pratici a p r i o r i (poiché questi soltanto hanno quella necessità che la ragione richiede pel principio). Esso non si limita dunque semplicemente all’uomo, ma si estende a tutti gli esseri finiti, che hanno la ragione e la volontà, anzi comprende perfino l’essere infinito come intelligenza suprema. Ma nell’uomo la legge ha la forma di un imperativo, perché in esso, a dir vero, come essere razionale, si può bensì supporre una volontà p u r a , ma, in quanto essere soggetto a bisogni ed a cause determinanti sensibili, non si può supporre una volontà s a n t a , cioè tale che non sarebbe capace di nessuna massima contraria alla legge morale. Per quegli esseri la legge morale è dunque un i m p e r a t i v o che comanda categoricamente, perché la legge è incondizionata. La relazione di una tale volontà a questa legge è d i p e n d e n z a , e ha nome di obbligo, che significa un c o s t r i n g i m e n t o a un’azione, benché mediante la semplice ragione e la legge oggettiva di questa. La quale azione perciò si chiama dovere, perché un libero arbitrio affetto patologicamente (quantunque non determinato patologicamente e quindi ancor sempre libero), implica un desiderio che deriva da cause s o g g e t t i v e , e quindi può anche spesso esser contrario al motivo determinante oggettivo puro, e perciò abbisogna, come di costringimento morale, di un’opposizione della ragion pratica, che può esser chiamata un costringimento interno, ma intellettuale. Nell’intelligenza affatto sufficiente a se stessa il libero arbitrio vien rappresentato a ragione come non capace di nessuna massima che nello stesso tempo non possa es-

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k e i t , der ihr um deswillen zukommt, setzt sie zwar nicht über alle praktischen, aber doch über alle praktisch-einschränkenden Gesetze, mithin Verbindlichkeit und Pflicht weg. Diese Heiligkeit des Willens ist gleichwohl eine praktische Idee, welche notwendig zum U r b i l d e dienen muß, welchem sich ins Unendliche zu nähern das einzige ist, was allen endlichen vernünftigen Wesen zusteht, und welche das reine Sittengesetz, das darum selbst heilig heißt, ihnen beständig und richtig vor Augen hält, von welchem ins Unendliche gehenden Progressus seiner Maximen und Unwandelbarkeit derselben zum beständigen Fortschreiten sicher zu sein: d. i. Tugend, das Höchste ist, was endliche praktische Vernunft bewirken kann, die selbst wiederum wenigstens als natürlich erworbenes Vermögen nie vollendet sein kann, weil die Sicherheit in solchem Falle niemals apodiktische Gewißheit wird und als Überredung sehr gefährlich ist. § 8. LEHRSATZ IV.

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Die A u t o n o m i e des Willens ist das alleinige Prinzip aller moralischen Gesetze und der ihnen gemäßen Pflichten; alle H e t e r o n o m i e der Willkür gründet dagegen nicht allein gar keine Verbindlichkeit, sondern ist vielmehr dem Prinzip derselben und der Sittlichkeit des Willens entgegen. In der Unabhängigkeit nämlich von aller Materie des Gesetzes (nämlich einem begehrten Objekte) und zugleich doch Bestimmung der Willkür durch die bloße allgemeine gesetzgebende Form, deren eine Maxime fähig sein muß, besteht das alleinige Prinzip der Sittlichkeit. J e n e U n a b h ä n g i g k e i t aber | ist Freiheit im n e g a t i v e n , diese e i g e n e G e s e t z g e b u n g aber der reinen und als solche praktischen Vernunft ist Freiheit im p o s i t i v e n Verstande. Also drückt das moralische Gesetz nichts anderes aus als die A u t o n o m i e der reinen praktischen Vernunft, d. i. der Freiheit, und diese ist selbst die formale Bedingung aller Maximen, unter der sie allein mit dem obersten praktischen Gesetze zusammenstimmen können. Wenn daher die Materie des Wollens, welche nichts anderes als das Objekt einer Begierde sein kann, die mit dem Gesetz verbunden wird,

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sere una legge oggettiva; e il concetto della s a n t i t à , che perciò le conviene, non la pone invero al di sopra di tutte le leggi pratiche, ma al di sopra di tutte le leggi praticamente restrittive, e quindi al di sopra dell’obbligo e del dovere. Questa santità della volontà è nondimeno un’idea pratica, la quale deve necessariamente servire di p r o t o t i p o . Avvicinarsi all’infinito ad essa è l’unica cosa che appartenga a tutti gli esseri razionali e finiti; e questa idea tiene loro sempre e giustamente davanti agli occhi la legge morale pura, che perciò si chiama anch’essa santa. Esser sicuri di questo progresso all’infinito delle proprie massime e dell’immutabilità di esse nel progresso costante, e questo è la virtù, è la cosa più alta che la ragion pratica finita possa attuare. La quale, tuttavia, a sua volta, almeno come potere acquistato naturalmente, non può mai esser perfetta, perché la sicurezza in tal caso non diventa mai certezza apodittica, e, come persuasione, è assai pericolosa.

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§ 8. TEOREMA IV. L’ a u t o n o m i a della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono: invece ogni e t e r o n o m i a del libero arbitrio, non solo non è la base di alcun obbligo, ma piuttosto è contraria al principio di questo e alla moralità della volontà. Cioè il principio unico della moralità consiste nell’indipendenza da ogni materia della legge (ossia da un oggetto desiderato), e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima dev’essere capace. Ma quell’i n d i p e n d e n z a è la libertà nel senso n e g a t i v o ; invece, questa l e g i s l a z i o n e p r o p r i a della ragion pura e, come tale, pratica, è la libertà nel senso p o s i t i v o . Dunque la legge morale non esprime nient’altro che l ’ a u t o n o m i a della ragion pura pratica, cioè della libertà; e questa è anche la condizione formale di tutte le massime, alla quale condizione soltanto esse possono accordarsi con la legge pratica suprema. Se dunque la materia del volere, la quale non può esser altro che l’oggetto di un de-

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in das praktische Gesetz a l s B e d i n g u n g d e r M ö g l i c h k e i t d e s s e l b e n hineinkommt, so wird daraus Heteronomie der Willkür, nämlich Abhängigkeit vom Naturgesetze, irgend einem Antriebe oder Neigung zu folgen, und der Wille gibt sich nicht selbst das Gesetz, sondern nur die Vorschrift zur vernünftigen Befolgung pathologischer Gesetze; die Maxime aber, die auf solche Weise niemals die allgemein-gesetzgebende Form in sich enthalten kann, stiftet auf diese Weise nicht allein keine Verbindlichkeit, sondern ist selbst dem Prinzip einer r e i n e n praktischen Vernunft, hiermit also auch der sittlichen Gesinnung entgegen, wenngleich die Handlung, die daraus entspringt, gesetzmäßig sein sollte. ANMERKUNG I. 60

Zum praktischen Gesetze muß also niemals eine praktische Vorschrift gezählt werden, die eine materiale (mithin empi|rische) Bedingung bei sich führt. Denn das Gesetz des reinen Willens, der frei ist, setzt diesen in eine ganz andere Sphäre als die empirische, und die Notwendigkeit, die es ausdrückt, da sie keine Naturnotwendigkeit sein soll, kann also bloß in formalen Bedingungen der Möglichkeit eines Gesetzes überhaupt bestehen. Alle Materie praktischer Regeln beruht immer auf subjektiven Bedingungen, die ihr keine Allgemeinheit für vernünftige Wesen als lediglich die bedingte (im Falle ich dieses oder jenes b e g e h r e , was ich alsdann tun müsse, um es wirklich zu machen) verschaffen, und sie drehen sich insgesamt um das Prinzip der e i g e n e n G l ü c k s e l i g k e i t . Nun ist freilich unleugbar, daß alles Wollen auch einen Gegenstand, mithin eine Materie haben müsse; aber diese ist darum nicht eben der Bestimmungsgrund und Bedingung der Maxime; denn ist sie es, so läßt diese sich nicht in allgemein gesetzgebender Form darstellen, weil die Erwartung der Existenz des Gegenstandes alsdann die bestimmende Ursache der Willkür sein würde, und die Abhängigkeit des Begehrungsvermögens von der Existenz irgend einer Sache dem Wollen zum Grunde gelegt werden müßte, welche immer nur in empirischen Bedingungen gesucht werden und daher niemals den Grund zu einer notwendigen und allgemeinen Regel abgeben kann. So wird fremder Wesen Glückseligkeit das Objekt des Willens eines vernünftigen Wesens sein können. Wäre

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siderio unito con la legge, entra nella legge pratica c o m e c o n d i z i o n e d e l l a p o s s i b i l i t à d i e s s a , allora ne deve seguire l’eteronomia del libero arbitrio, cioè la dipendenza dalla legge naturale, da un impulso o da un’inclinazione, e la volontà non si dà essa stessa la legge, ma soltanto il precetto dell’osservanza razionale delle leggi patologiche; ma la massima, che in questo modo non può mai contenere la forma legislativa universale, in tal maniera non solo non è la base di alcun obbligo, ma è anzi contraria al principio di una ragion pratica p u r a , e quindi anche all’intenzione morale, se pur l’azione che ne risulta dovesse esser conforme a legge. SCOLIO I.

Dunque non può mai esser tenuto per legge pratica un precetto pratico, che implichi una condizione materiale (e quindi empirica). Infatti, la legge della volontà pura, che è libera, pone questa in una sfera del tutto diversa dall’empirica; e la necessità che essa esprime, siccome non dev’essere una necessità naturale, così può consistere semplicemente nelle condizioni formali della possibilità di una legge in genere. Ogni materia delle regole pratiche si fonda sempre su condizioni soggettive, le quali non procurano loro, per esseri razionali, nessun’altra universalità se non l’universalità condizionata (nel caso che io desideri questa o quella cosa, che cosa debba fare per effettuarla), e si riferiscono tutte al p r i n c i p i o d e l l a f e l i c i t à p r o p r i a . Ora è bensì innegabile, che ogni volere deve anche avere un oggetto, e quindi una materia; ma non perciò questa è il motivo determinante e la condizione della massima; perché se lo fosse, non si potrebbe esporre nella forma universalmente legislativa, perché allora l’aspettazione dell’esistenza dell’oggetto sarebbe la causa determinante del libero arbitrio, e la dipendenza della facoltà di desiderare dall’esistenza di una cosa dovrebbe esser posta a base del volere, la quale dipendenza può sempre soltanto esser cercata nelle condizioni empiriche, e quindi non può mai fornire la base di una regola necessaria e universale. Così la felicità di altri esseri potrà esser l’oggetto della volontà di un esse-

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sie aber der Bestimmungsgrund der Maxime, so müßte man voraussetzen, daß wir in dem Wohlsein anderer nicht allein ein natürliches Vergnügen, sondern auch ein Bedürfnis finden, sowie die sympathetische Sinnesart bei Menschen es mit sich bringt. Aber dieses Bedürfnis kann ich nicht bei jedem vernünftigen Wesen (bei Gott gar nicht) voraussetzen. Also kann zwar die Materie der Maxime bleiben; sie muß aber | nicht die Bedingung derselben sein, denn sonst würde diese nicht zum Gesetze taugen. Also die bloße Form eines Gesetzes, welche die Materie einschränkt, muß zugleich ein Grund sein, diese Materie zum Willen hinzuzufügen, aber sie nicht vorauszusetzen. Die Materie sei z. B. meine eigene Glückseligkeit. Diese, wenn ich sie jedem beilege (wie ich es denn in der Tat bei endlichen Wesen tun darf), kann nur alsdann ein o b j e k t i v e s praktisches Gesetz werden, wenn ich anderer ihre in dieselbe mit einschließe. Also entspringt das Gesetz, anderer Glückseligkeit zu befördern, nicht von der Voraussetzung, daß dieses ein Objekt für jedes seine Willkür sei, sondern bloß daraus, daß die Form der Allgemeinheit, die die Vernunft als Bedingung bedarf, einer Maxime der Selbstliebe die objektive Gültigkeit eines Gesetzes zu geben, der Bestimmungsgrund des Willens wird; und also war das Objekt (anderer Glückseligkeit) nicht der Bestimmungsgrund des reinen Willens, sondern die bloße gesetzliche Form war es allein, dadurch ich meine auf Neigung gegründete Maxime einschränkte, um ihr die Allgemeinheit eines Gesetzes zu verschaffen und sie so der reinen praktischen Vernunft angemessen zu machen, aus welcher Einschränkung, und nicht dem Zusatz einer äußeren Triebfeder, alsdann der Begriff der Ve r b i n d l i c h k e i t , die Maxime meiner Selbstliebe auch auf die Glückseligkeit anderer zu erweitern, allein entspringen konnte. ANMERKUNG II. Das gerade Widerspiel des Prinzips der Sittlichkeit ist: wenn das der e i g e n e n Glückseligkeit zum Bestimmungsgrunde des Willens gemacht wird; wozu, wie ich oben gezeigt habe, alles überhaupt gezählt werden muß, was den Bestimmungsgrund, der zum Gesetze dienen soll, irgend worin anders als in der gesetzgebenden

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re razionale. Ma, se essa fosse il motivo determinante della massima, si dovrebbe supporre che del benessere degli altri, non soltanto sentiamo un piacere naturale, ma anche un bisogno, come lo richiede il sentimento simpatico negli uomini. Ma questo bisogno io non lo posso supporre in ogni essere razionale (niente affatto in Dio). Dunque, la materia della massima può bensì rimanere, ma non dev’esser la condizione di essa, perché altrimenti questa non varrebbe come legge. Dunque, la semplice forma di una legge, che limita la materia, dev’essere nello stesso tempo un motivo per raggiungere questa materia alla volontà, ma non per presupporla. La materia sia, per es., la mia propria felicità. Questa materia, se io l’attribuisco a ciascuno (come infatti posso fare negli esseri finiti), può diventare una legge pratica o g g e t t i v a solo quando comprendo in essa la felicità degli altri. Dunque, la legge di promuovere la felicità degli altri non deriva dalla supposizione che questo sia un oggetto per il libero arbitrio di ciascuno, ma semplicemente da ciò, che la forma dell’universalità, di cui la ragione ha bisogno come di condizione per dare a una massima dell’amor proprio il valore oggettivo di una legge, diventa il motivo determinante della volontà; e quindi non fu l’oggetto (la felicità degli altri) il motivo determinante della volontà pura, ma la semplice forma legislatrice, per cui io limitai la mia massima fondata sull’inclinazione, per procurarle l’universalità di una legge, e così farla atta alla ragion pura pratica. Soltanto da questa limitazione, e non dall’aggiunta di un motivo esterno, poté allora derivare il concetto dell’o b b l i g o di estendere la massima del mio amor proprio anche alla felicità degli altri. SCOLIO II.

Precisamente il contrario del principio della moralità ha luogo se vien fatto motivo determinante della volontà il principio della p r o p r i a felicità; al quale, come ho mostrato di sopra, dev’essere riferito in generale tutto ciò che ripone il motivo determinante, che deve servire come legge, in altro che nella for-

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Form der Maxime setzt. Dieser | Widerstreit ist aber nicht bloß logisch, wie der zwischen empirisch-bedingten Regeln, die man doch zu notwendigen Erkenntnisprinzipien erheben wollte, sondern praktisch, und würde, wäre nicht die Stimme der Vernunft in Beziehung auf den Willen so deutlich, so unüberschreibar, selbst für den gemeinsten Menschen so vernehmlich, die Sittlichkeit gänzlich zugrunde richten; so aber kann sie sich nur noch in den kopfverwirrenden Spekulationen der Schulen erhalten, die dreist genug sind, sich gegen jene himmlische Stimme taub zu machen, um eine Theorie, die kein Kopfbrechen kostet, aufrecht zu erhalten. Wenn ein dir sonst beliebter Umgangsfreund sich bei dir wegen eines falschen abgelegten Zeugnisses dadurch zu rechtfertigen vermeinte, daß er zuerst die seinem Vorgeben nach heilige Pflicht der eigenen Glückseligkeit vorschützte, alsdann die Vorteile herzählte, die er sich alle dadurch erworben, die Klugheit namhaft machte, die er beobachtet, um wider alle Entdeckung sicher zu sein, selbst wider die von seiten deiner selbst, dem er das Geheimnis darum allein offenbart, damit er es zu aller Zeit ableugnen könne; dann aber im ganzen Ernst vorgäbe, er habe eine wahre Menschenpflicht ausgeübt: so würdest du ihm entweder gerade ins Gesicht lachen oder mit Abscheu davon zurückbeben, ob du gleich, wenn jemand bloß auf eigene Vorteile seine Grundsätze gesteuert hat, wider diese Maßregel nicht das mindeste einzuwenden hättest. Oder setzet: es empfehle euch jemand einen Mann zum Haushalter, dem ihr alle eure Angelegenheiten blindlings anvertrauen könnet, und, um euch Zutrauen einzuflößen, rühmte er ihn als einen klugen Menschen, der sich auf seinen eigenen Vorteil meisterhaft verstehe, auch als einen rastlos wirksamen, der keine Gelegenheit dazu ungenutzt vorbeigehen ließe; endlich, damit | auch ja nicht Besorgnisse wegen eines pöbelhaften Eigennutzes desselben im Wege stünden, rühmte er, wie er recht fein zu leben verstünde, nicht im Geldsammeln oder brutaler Üppigkeit, sondern in der Erweiterung seiner Kenntnisse, einem wohlgewählten belehrenden Umgange, selbst im Wohltun der Dürftigen sein Vergnügen suchte, übrigens aber wegen der Mittel (die doch ihren Wert oder Unwert nur vom Zwecke entlehnen) nicht bedenklich wäre, und fremdes Geld und Gut ihm hierzu, sobald er nur wisse, daß er es unentdeckt und ungehindert tun könne, so gut wie sein eigenes wäre: so würdet ihr entweder glauben, der Empfehlende habe euch zum

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ma legislativa della massima. Questa contraddizione non è semplicemente logica, come quella tra regole empiricamente condizionate, che però si vorrebbero elevare a princìpi necessari della conoscenza, ma è pratica, e distruggerebbe affatto la moralità, se la voce della ragione riguardo alla volontà non fosse così chiara, così impossibile a coprire, così distinta anche per l’uomo più volgare. Essa si può mantenere ancora solo nelle speculazioni ingarbugliate delle scuole, le quali sono abbastanza sfacciate da restar sorde a quella voce celeste, per mantenere una teoria che non costa rompicapi. Se uno, che del resto ti fosse amico intimo, pensasse di giustificarsi presso di te di una falsa testimonianza da lui fatta, con l’addurre anzitutto il suo, secondo lui, sacro dovere della propria felicità, e poi enumerasse i vantaggi che egli si è procurato con quel mezzo, facesse notare la prudenza che egli usa per esser sicuro da ogni scoperta, anche da parte tua, cui egli rivela il segreto solo per questo, per poterlo negare in ogni tempo; se poi sostenesse con tutta serietà di aver adempiuto a un vero dovere umano, allora tu, o gli rideresti addirittura in faccia, o ti ritrarresti con orrore. Quantunque, se alcuno avesse fondato i suoi princìpi semplicemente sui propri vantaggi, tu non avresti da fare la minima obiezione a questo metodo. Oppure supponete che qualcuno vi raccomandasse un tale come economo, a cui voi possiate confidare ciecamente tutti i vostri interessi; e che, per ispirarvi fiducia, egli ve lo vantasse come un uomo prudente, il quale sappia perfettamente il suo tornaconto, e come uno di attività instancabile che non lascia passare nessuna occasione senza trarne profitto, e, infine, perché non rimanessero timori di un vile egoismo di costui, egli vantasse come quegli sia pratico del vivere raffinato, e non cerchi il suo piacere nell’ammassar denaro o nella libidine brutale, ma nell’estendere le sue cognizioni, in una scelta conversazione istruttiva, e anche nel far del bene al bisognoso, ma [aggiungendo] che del resto non sarebbe scrupoloso sui mezzi (i quali, però, traggono il loro valore o non valore soltanto dal fine), e che il denaro e la roba altrui gli servirebbero tanto come i propri, appena sapesse di poterlo fare senz’essere scoperto e liberamente; allora voi credereste che

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besten, oder er habe den Verstand verloren. – So deutlich und scharf sind die Grenzen der Sittlichkeit und der Selbstliebe abgeschnitten, daß selbst das gemeinste Auge den Unterschied, ob etwas zu der einen oder der anderen gehöre, gar nicht verfehlen kann. Folgende wenige Bemerkungen können zwar bei einer so offenbaren Wahrheit überflüssig scheinen, allein sie dienen wenigstens dazu, dem Urteile der gemeinen Menschenvernunft etwas mehr Deutlichkeit zu verschaffen. Das Prinzip der Glückseligkeit kann zwar Maximen, aber niemals solche abgeben, die zu Gesetzen des Willens tauglich wären, selbst wenn man sich die a l l g e m e i n e Glückseligkeit zum Objekte machte. Denn weil dieser ihre Erkenntnis auf lauter Erfahrungsdatis beruht, weil jedes Urteil darüber gar sehr von jedes seiner Meinung, die noch dazu selbst sehr veränderlich ist, abhängt, so kann es wohl g e n e r e l l e , aber niemals u n i v e r s e l l e Regeln, d. i. solche, die im Durchschnitte am öftesten zutreffen, nicht aber solche, die jederzeit und notwendig gültig sein müssen, geben; mithin können keine praktischen G e s e t z e darauf gegründet werden. Ebendarum, weil hier ein Objekt der Willkür der Regel derselben zum Grunde gelegt | und also vor dieser vorhergehen muß, so kann diese nicht worauf anderes als auf das, was man empfiehlt, und also auf Erfahrung bezogen und darauf gegründet werden, und da muß die Verschiedenheit des Urteils endlos sein. Dieses Prinzip schreibt also nicht allen vernünftigen Wesen ebendieselben praktischen Regeln vor, ob sie zwar unter einem gemeinsamen Titel, nämlich dem der Glückseligkeit, stehen. Das moralische Gesetz wird aber nur darum als objektiv notwendig gedacht, weil es für jedermann gelten soll, der Vernunft und Willen hat. Die Maxime der Selbstliebe (Klugheit) r ä t bloß an; das Gesetz der Sittlichkeit g e b i e t e t . Es ist aber doch ein großer Unterschied zwischen dem, wozu man uns a n r ä t i g ist, und dem, wozu wir v e r b i n d l i c h sind. Was nach dem Prinzip der Autonomie der Willkür zu tun sei, ist für den gemeinsten Verstand ganz leicht und ohne Bedenken einzusehen; was unter Voraussetsung der Heteronomie derselben zu tun sei, schwer und erfordert Weltkenntnis; d. i.: was P f l i c h t

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chi fa questa raccomandazione, o si prenda giuoco di voi, o abbia perduto il senno. I limiti della moralità e dell’amor proprio sono segnati con tanta chiarezza e precisione, che anche l’occhio più volgare non può mancar di distinguere se qualcosa appartenga all’una o all’altro. Le poche osservazioni seguenti possono invero parere superflue per una verità così evidente, ma esse servono almeno a questo, a procurare alquanto maggior chiarezza al giudizio della ragione umana ordinaria. Il principio della felicità può bensì fornire massime, ma non mai tali da servire come leggi della volontà, se anche si facesse oggetto la felicità u n i v e r s a l e . Poiché, siccome la cognizione di esso si fonda soltanto su dati empirici, siccome ogni giudizio su di esso dipende assai dall’opinione di ciascuno, la quale inoltre è anche molto variabile, questo principio può dar leggi g e n e r a l i , ma non mai u n i v e r s a l i , cioè leggi che in complesso si verifichino nella maggior parte dei casi, ma non tali da dover valere sempre e necessariamente; quindi su di esso non si possono fondare leggi pratiche. Appunto perché qui un oggetto del libero arbitrio dev’esser posto a base della sua regola, e quindi deve precedere la regola, questa non può esser riferita ad altro se non a ciò che si sente, e quindi all’esperienza, e può esser fondata soltanto su questa, e allora la diversità del giudizio dev’essere infinita. Questo principio non prescrive dunque a tutti gli esseri razionali le stesse regole pratiche, benché esse a dir vero stiano tutte sotto un titolo comune, cioè quello della felicità. Ma la legge morale vien concepita come oggettivamente necessaria soltanto per questo, che essa deve valere per chiunque abbia ragione e volontà. La massima dell’amor proprio (prudenza) c o n s i g l i a soltanto, la legge della moralità c o m a n d a . Ma vi è una gran differenza fra ciò che ci è c o n s i g l i a t o e ciò a cui siamo o b bligati. Ciò che sia da fare secondo il principio dell’autonomia del libero arbitrio, l’intelletto più volgare lo vede facilmente e senza alcun dubbio; ciò che sia da fare con la supposizione dell’eteronomia di esso, è difficile e richiede la cognizione del mondo; cioè, che cosa sia d o v e r e si presenta da sé a ciascuno: ma

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sei, bietet sich jedermann von selbst dar; was aber wahren dauerhaften Vorteil bringe, ist allemal, wenn dieser auf das ganze Dasein erstreckt werden soll, in undurchdringliches Dunkel eingehüllt und erfordert viel Klugheit, um die praktisch darauf gestimmte Regel durch geschickte Ausnahmen auch nur auf erträgliche Art den Zwecken des Lebens anzupassen. Gleichwohl gebietet das sittliche Gesetz jedermann und zwar die pünktlichste Befolgung. Es muß also zu der Beurteilung dessen, was nach ihm zu tun sei, nicht so schwer sein, daß nicht der gemeinste und ungeübteste Verstand selbst ohne Weltklugheit damit umzugehen wüßte. Dem kategorischen Gebote der Sittlichkeit Genüge zu leisten, ist in jedes Gewalt zu aller Zeit, der empirisch-bedingten | Vorschrift der Glückseligkeit nur selten, und bei weitem nicht, auch nur in Ansehung einer einzigen Absicht, für jedermann möglich. Die Ursache ist, weil es bei dem ersteren nur auf die Maxime ankommt, die echt und rein sein muß, bei der letzteren aber auch auf die Kräfte und das physische Vermögen, einen begehrten Gegenstand wirklich zu machen. Ein Gebot, daß jedermann sich glücklich zu machen suchen sollte, wäre töricht; denn man gebietet niemals jemandem das, was er schon unausbleiblich von selbst will. Man müßte ihm bloß die Maßregeln gebieten oder vielmehr darreichen, weil er nicht alles das kann, was er will. Sittlichkeit aber gebieten unter dem Namen der Pflicht, ist ganz vernünitig; denn deren Vorschrift will erstlich eben nicht jedermann gerne gehorchen, wenn sie mit Neigungen im Widerstreite ist, und was die Maßregeln betrifft, wie er dieses Gesetz befolgen könne, so dürfen diese hier nicht gelehrt werden; denn was er in dieser Beziehung will, das kann er auch. Der im Spiel v e r l o r e n hat, kann sich wohl über sich selbst und seine Unklugheit ä r g e r n ; aber wenn er sich bewußt ist, im Spiel b e t r o g e n (obzwar dadurch gewonnen) zu haben, so muß er sich selbst v e r a c h t e n , sobald er sich mit dem sittlichen Gesetze vergleicht. Dieses muß also doch wohl etwas anderes als das Prinzip der eigenen Glückseligkeit sein. Denn zu sich selber sagen zu müssen: ich bin ein N i c h t s w ü r d i g e r, ob ich gleich meinen Beutel gefüllt habe, muß doch ein anderes Richtmaß des Urteils ha-

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che cosa apporti un vantaggio vero e duraturo, è sempre, se questo vantaggio dev’essere esteso all’intiera esistenza, avvolto in un’oscurità impenetrabile, e richiede molta prudenza per conformare la regola pratica così determinata, anche solo in modo sopportabile, mediante adatte eccezioni, ai fini della vita. Tuttavia la legge morale comanda a ciascuno l’osservanza, e in vero l’osservanza più esatta. Quindi il giudicare ciò che secondo questa legge è da fare, non dev’esser così difficile che l’intelletto più volgare e meno esercitato non sappia cavarsela anche senz’alcuna esperienza del mondo. Soddisfare il comando categorico della moralità è sempre in potere di ognuno; soddisfare al precetto empiricamente condizionato della felicità è possibile solo di rado per ognuno, e per lo più non è possibile neanche rispetto a un unico scopo. La cagione è, che nel primo caso si tratta soltanto della massima, la quale dev’esser vera e pura, ma nel secondo si tratta anche delle forze e del potere fisico di produrre realmente un oggetto desiderato. Un comando, che [imponesse che] ciascuno debba cercare di rendersi felice, sarebbe stolto; poiché non si comanda mai ad alcuno ciò che egli vuole già spontaneamente e immancabilmente di per se stesso. Si dovrebbero comandare semplicemente le misure da prendere, o piuttosto darle, perché l’uomo non può fare tutto quello che vuole. Ma comandare la moralità, col nome di dovere, è affatto ragionevole; poiché al precetto di essa nessuno obbedisce volentieri, se esso è in contrasto con le inclinazioni, e, per quel che riguarda le misure per potere obbedire a questa legge, esse qui non devono esser insegnate; poiché ciò che sotto questo rispetto ciascuno vuole, anche lo può. Chi ha p e r d u t o al giuoco, può bensì adirarsi di se stesso e della sua imprudenza; ma, se è conscio di aver b a r a t o al giuoco (benché così abbia guadagnato), deve d i s p r e z z a r se stesso, appena si mette a confronto con la legge morale. Questa dunque deve esser ben altro che il principio della propria felicità. Poiché, per dover dire a se stesso: io sono un i n d e g n o , quantunque abbia riempito la mia borsa, si deve pur avere un’altra regola di giudizio che non per approvare se stesso e dire: io sono un uomo p r u d e n t e perché ho aumentato il mio tesoro.

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ben, als sich selbst Beifall zu geben und zu sagen: ich bin ein k l u g e r Mensch, denn ich habe meine Kasse bereichert. Endlich ist noch etwas in der Idee unserer praktischen Vernunft, welches die Übertretung eines sittlichen Gesetzes begleitet, nämlich ihre S t r a f w ü r d i g k e i t . Nun läßt sich mit | dem Begriffe einer Strafe als einer solchen doch gar nicht das Teilhaftigwerden der Glückseligkeit verbinden. Denn obgleich der, so da straft, wohl zugleich die gütige Absicht haben kann, diese Strafe auch auf diesen Zweck zu richten, so muß sie doch zuvor als Strafe, d. i. als bloßes Übel für sich selbst gerechtfertigt sein, sodaß der Gestrafte, wenn es dabei bliebe und er auch auf keine sich hinter dieser Härte verbergende Gunst hinaussähe, selbst gestehen muß, es sei ihm recht geschehen und sein Los sei seinem Verhalten vollkommen angemessen. In jeder Strafe als solcher muß zuerst Gerechtigkeit sein, und diese macht das Wesentliche dieses Begriffs aus. Mit ihr kann zwar auch Gütigkeit verbunden werden, aber auf diese hat der Strafwürdige nach seiner Aufführung nicht die mindeste Ursache sich Rechnung zu machen. Also ist Strafe ein physisches Übel, welches, wenn es auch nicht als n a t ü r l i c h e Folge mit dem Moralisch-Bösen verbunden wäre, doch als Folge nach Prinzipien einer sittlichen Gesetzgebung verbunden werden müßte. Wenn nun alles Verbrechen, auch ohne auf die physischen Folgen in Ansehung des Täters zu sehen, für sich strafbar ist, d. i. Glückseligkeit (wenigstens zum Teil) verwirkt, so wäre es offenbar ungereimt zu sagen: das Verbrechen habe darin eben bestanden, daß er sich eine Strafe zugezogen hat, indem er seiner eigenen Glückseligkeit Abbruch tat (welches nach dem Prinzip der Selbstliebe der eigentliche Begriff alles Verbrechens sein müßte). Die Strafe würde auf diese Art der Grund sein, etwas ein Verbrechen zu nennen, und die Gerechtigkeit müßte vielmehr darin bestehen, alle Bestrafung zu unterlassen und selbst die natürliche zu verhindern; denn alsdann wäre in der Handlung nichts Böses mehr, weil die Übel, die sonst darauf folgten, und um deren willen die Handlung allein böse hieß, nunmehr abgehalten | wären. Vollends aber alles Strafen und Belohnen nur als das Maschinenwerk in der Hand einer höheren Macht anzusehen, welches vernünftige Wesen da-

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Finalmente, nell’idea della nostra ragion pratica vi è ancora qualcosa che accompagna la trasgressione di una legge morale, cioè l’esser m e r i t e v o l e d i p u n i z i o n e . Ora il divenir partecipe della felicità non va affatto legato col concetto d’una punizione, in quanto punizione. Perché, sebbene chi così punisce possa avere nello stesso tempo la buona intenzione di dirigere questa punizione anche a questo scopo, pure essa dev’esser anzitutto giustificata per se stessa come punizione, cioè come semplice male, sicché il punito, se la cosa finisce lì, ed egli non vede nessun favore nascosto dietro questo rigore, deve pur confessare che ben gli sta, e che la sua sorte è perfettamente conforme al suo procedere. In ogni punizione come tale dev’esserci anzitutto giustizia, e questa costituisce l’essenziale di tale concetto. Con essa può invero esser legata anche la bontà, ma su questa il meritevole di punizione, secondo la sua condotta, non ha la minima ragione di contare. Dunque la punizione è un male fisico che, se anche non fosse legato col moralmente cattivo come conseguenza n a t u r a l e , pure dovrebbe esservi legato come conseguenza secondo i princìpi di una legislazione morale. Ora se ogni delitto, anche senza guardare alle conseguenze fisiche rispetto al reo, per sé è meritevole di punizione, cioè fa perdere la felicità (al meno in parte), sarebbe manifestamente assurdo dire che il delitto consiste appunto in questo, che il reo si è attirata una punizione poiché ha diminuito la propria felicità (il che, secondo il principio dell’amor proprio, dovrebbe essere il concetto proprio di ogni delitto). In questo modo la punizione sarebbe il motivo per cui si chiama qualcosa un delitto, e la giustizia dovrebbe piuttosto consistere in questo: nell’astenersi da ogni punizione e impedire anche quelle naturali; poiché allora nell’azione non vi sarebbe più niente di cattivo12, perché i mali13, che in caso diverso seguirebbero e per cui soltanto si chiama cattiva l’azione, ormai sarebbero tenuti lontani. Inoltre, riguardare ogni punizione e ogni ricompensa unicamente come l’ordigno che, in mano di una potenza superiore, dovrebbe solo servire a porre gli esseri razionali in azione per conseguire il loro scopo finale (la felicità), è un meccanismo della volontà il quale toglie ogni libertà; e ciò è troppo evidente, perché sia necessario fermarvisi.

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durch zu ihrer Endabsicht (der Glückseligkeit) in Tätigkeit zu setzen allein dienen sollte, ist gar zu sichtbar ein alle Freiheit aufhebender Mechanismus ihres Willens, als daß es nötig wäre uns hierbei aufzuhalten. Feiner noch, obgleich ebenso unwahr, ist das Vorgeben derer, die einen gewissen moralischen besondern Sinn annehmen, der und nicht die Vernunft das moralische Gesetz bestimmt, nach welchem das Bewußtsein der Tugend unmittelbar mit Zufriedenheit und Vergnugen, das des Lasters aber mit Seelenunruhe und Schmerz verbunden wäre, und so alles doch auf Verlangen nach eigener Glückseligkeit aussetzen. Ohne das hierher zu ziehen, was oben gesagt worden, will ich nur die Täuschung bemerken, die hierbei vorgeht. Um den Lasterhaften als durch das Bewußtsein seiner Vergehungen mit Gemütsunruhe geplagt vorzustellen, müssen sie ihn der vornehmsten Grundlage seines Charakters nach schon zum voraus als, wenigstens in einigem Grade, moralisch gut, sowie den, welchen das Bewußtsein pflichtmäßiger Handlungen ergötzt, vorher schon als tugendhaft vorstellen. Also mußte doch der Begriff der Moralität und Pflicht vor aller Rücksicht auf diese Zufriedenheit vorhergehen und kann von dieser gar nicht abgeleitet werden. Nun muß man doch die Wichtigkeit dessen, was wir Pflicht nennen, das Ansehen des moralischen Gesetzes und den unmittelbaren Wert, den die Befolgung desselben der Person in ihren eigenen Augen gibt, vorher schätzen, um jene Zufriedenheit in dem Bewußtsein seiner Angemessenheit zu demselben und den bitteren Verweis, wenn man sich dessen Übertretung vorwerfen kann, zu fühlen. Man kann also | diese Zufriedenheit oder Seelenunruhe nicht vor der Erkenntnis der Verbindlichkeit fühlen und sie zum Grunde der letzteren machen. Man muß wenigstens auf dem halben Wege schon ein ehrlicher Mann sein, um sich von jenen Empfindungen auch nur eine Vorstellung machen zu können. Daß übrigens, sowie vermöge der Freiheit der menschlicheWille durchs moralische Gesetz unmittelbar bestimmbar ist, auch die öftere Ausübung diesem Bestimmungsgrunde gemäß subjektiv zuletzt ein Gefühl der Zufriedenheit mit sich selbst wirken könne, bin ich gar nicht in Abrede; vielmehr gehört es selbst zur Pflicht, dieses, welches eigentlich allein das moralische Gefühl genannt zu werden verdient, zu gründen und zu kultivieren; aber der Begriff der Pflicht kann davon nicht abgeleitet werden, sonst müßten wir uns

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Più sottile ancora, benché altrettanto falsa, è la supposizione di coloro che ammettono un certo senso morale particolare, il quale, e non la ragione, determinerebbe la legge morale: secondo la quale supposizione la coscienza della virtù sarebbe legata immediatamente con la contentezza e col piacere; quella del vizio, invece, coll’inquietudine dell’animo e col dolore; e così abbandonano tutto al desiderio della propria felicità. Senza ripetere qui ciò che fu detto di sopra, voglio soltanto far notare l’illusione che qui ha luogo. Per immaginare il vizioso tormentato dall’inquietudine dell’anima mediante la coscienza dei suoi falli, lo devono immaginare già prima, quanto all’elemento principale del suo carattere, come moralmente buono, almeno in qualche grado; così come devono immaginare già prima come virtuoso colui che è rallegrato dalla coscienza di azioni conformi al dovere. Quindi il concetto della moralità e del dovere dovette precedere ogni considerazione di questa contentezza e non può affatto esserne derivato. Ora si deve apprezzare prima l’importanza di ciò che noi chiamiamo dovere, l’autorità della legge morale, e il valore immediato che con l’osservanza di questa la persona acquista davanti a se stessa, per sentire quella contentezza nella coscienza della propria conformità alla legge, e l’amara rimostranza quando ci si deve rimproverare la trasgressione della legge. Non si può dunque sentire questa contentezza o questa inquietudine prima di conoscere l’obbligo, e porla a base di quest’ultimo. Si deve già essere un uomo onesto almeno a metà, per potersi fare anche soltanto una rappresentazione di quei sentimenti. Io non nego punto, del resto, che, come mediante la libertà la volontà umana può essere determinata immediatamente dalla legge morale, anche l’esercizio frequente conforme a questo motivo determinante, possa produrre infine soggettivamente un sentimento di contentezza di se stesso. Piuttosto è anche un dovere come un altro lo stabilire e coltivare questo, che solo merita veramente di esser chiamato il sentimento morale; ma il concetto del dovere non può esser derivato da esso, altrimenti noi dovremmo immaginare il sentimento di una legge come tale, e fare oggetto della sensazione ciò che può esser soltanto pensato mediante la ragione. Il che, se non

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ein Gefühl eines Gesetzes als eines solchen denken und das zum Gegenstande der Empfindung machen, was nur durch Vernunft gedacht werden kann; welches, wenn es nicht ein platter Widerspruch werden soll, allen Begriff der Pflicht ganz aufheben und an deren Statt bloß ein mechanisches Spiel feinerer, mit den gröberen bisweilen in Zwist geratender Neigungen setzen würde. Wenn wir nun unseren f o r m a l e n obersten Grundsatz der reinen praktischen Vernunft (als einer Autonomie des Willens) mit allen bisherigen m a t e r i a l e n Prinzipien der Sittlichkeit vergleichen, so können wir in einer Tafel alle übrigen als solche, dadurch wirklich zugleich alle möglichen anderen Fälle außer einem einzigen formalen erschöpft sind, vorstellig machen und so durch den Augenschein beweisen, daß es vergeblich sei, sich nach einem anderen Prinzip als dem jetzt vorgetragenen umzesehen. – Alle möglichen Bestimmungsgründe des Willens sind nämlich entweder bloß s u b j e k t i v und also empirisch, oder auch o b j e k t i v und rational; beide aber entweder ä u ß e r e oder i n n e r e . | Praktische materiale Bestimmungsgründe im Prinzip der Sittlichkei sind SUBJEKTIVE ÄUBERE

der Erzie- der bürgerlihung (nach chen VerfasMONTAIGNE) sung (nach MANDEVILLE)

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OBJEKTIVE INNERE

des physischen Gefühls (nach EPIKUR)

des moralischen Gefühls (nach HUTCHESON)

INNERE

ÄUBERE

der Vollkommenheit (nach WOLFF und den Stoikern)

des Willens Gottes (nach CRUSIUS und anderen theologischen Moralisten).

| Die auf der linken Seite stehenden sind insgesamt empirisch und taugen offenbar gar nicht zum allgemeinen Prinzip der Sittlichkeit. Aber die auf der rechten Seite gründen sich auf die Vernunft (denn Vollkommenheit, als B e s c h a f f e n h e i t der Dinge, und die höchste Vollkommenheit in S u b s t a n z vorgestellt, d. i. Gott, sind beide nur durch Vernunftbegriffe zu denken). Allein der erstere Begriff, nämlich der Vo l l k o m m e n h e i t , kann entweder in t h e o r e t i s c h e r Bedeutung genommen werden, und da bedeutet er nichts als Vollständigkeit eines jeden Dinges in seiner Art (transzendentale), oder eines Dinges bloß als Dinges überhaupt

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dev’essere una contraddizione grossolana, annullerebbe affatto ogni concetto del dovere, e in suo luogo porrebbe semplicemente un giuoco meccanico d’inclinazioni più squisite che a volte vengono a contrasto con inclinazioni più rozze. Ora, se noi paragoniamo il nostro principio supremo f o r m a l e della ragion pura pratica (come di un’autonomia della volontà) con tutti i p r i n c ì p i m a t e r i a l i della moralità fin qui esposti, possiamo presentare in una tavola tutti questi princìpi, come tali, coi quali invero sono esauriti ad un tempo tutti gli altri casi possibili, eccetto uno solo, che è formale; e così dimostrare ad evidenza come sia inutile cercare un altro principio diverso da quello ora esposto. Cioè, tutti i motivi determinanti possibili della volontà sono, o semplicemente s o g g e t t i v i e quindi empirici, oppure o g g e t t i v i e razionali; ma gli uni e gli altri sono o e s t e r n i o i n t e r n i . I motivi d e t e r m i n a n t i p r a t i c i m a t e r i a l i nel principio della moralità sono dunque14: OGGETTIVI

SOGGETTIVI ESTERNI

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INTERNI

d e l l ’ e d u c a - del governo del sentimenzione (secon- civile (secon- to fisico (sedo MONTAI- do MANDE- condo EPICUGNE) VILLE) RO)

del sentimento morale (secondo HUTCHESON)

INTERNI

ESTERNI

della perfezione (secondo WOLFF e gli Stoici)

della volontà di Dio (secondo CRUSIUS e gli altri moralisti teologi)

Quelli che stanno a sinistra sono tutti empirici e manifestamente non servono al principio universale della moralità. Ma quelli di destra si fondano sulla ragione (perché la perfezione, come q u a l i t à delle cose, e la perfezione suprema rappresentata nella s o s t a n z a , cioè Dio, si devono pensare l’una e l’altra solo mediante concetti razionali). Ma il primo concetto, cioè quello della p e r f e z i o n e , può esser preso in senso t e o r e t i c o ; e allora non significa altro che l’integrità di ogni cosa nel suo genere (trascendentale) o di una cosa semplicemente come cosa in generale (metafisica); e di questo non si può trattare qui.

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(metaphysische), und davon kann hier nicht die Rede sein. Der Begriff der Vollkommenheit in p r a k t i s c h e r Bedeutung aber ist die Tauglichkeit oder Zulänglichkeit eines Dinges zu allerlei Zwecken. Diese Vollkommenheit, als B e s c h a f f e n h e i t des Menschen, folglich innerliche, ist nichts anderes als Ta l e n t und, was dieses stärkt oder ergänzt, G e s c h i c k l i c h k e i t . Die höchste Vollkommenheit in S u b s t a n z , d. i. Gott, folglich äußerliche (in praktischer Absicht betrachtet), ist die Zulänglichkeit dieses Wesens zu allen Zwecken überhaupt. Wenn nun also uns Zwecke vorher gegeben werden müssen, in Beziehung auf welche der Begriff der Vo l l k o m m e n h e i t (einer inneren an uns selbst oder einer äußeren an Gott) allein Bestimmungsgrund des Willens werden kann, ein Zweck aber als O b j e k t , welches vor der Willensbestimmung durch eine praktische Regel vorhergehen und den Grund der Möglichkeit einer solchen enthalten muß, mithin die M a t e r i e des Willens, als Bestimmungsgrund desselben genommen, jederzeit empirisch ist, mithin zum E p i k u r i s c h e n Prinzip der Glückseligkeitslehre, niemals aber zum reinen Vernunftprinzip der Sittenlehre und der Pflicht dienen kann (wie denn Talente und ihre Beför|derung nur, weil sie zu Vorteilen des Lebens beitragen, oder der Wille Gottes, wenn Einstimmung mit ihm, ohne vorhergehendes von dessen Idee unabhängiges praktisches Prinzip, zum Objekte des Willens genommen worden, nur durch die G l ü c k s e l i g k e i t , die wir davon erwarten, Bewegursache desselben werden können), so folgt e r s t l i c h : daß alle hier aufgestellten Prinzipien m a t e r i a l sind; z w e i t e n s : daß sie alle möglichen materialen Prinzipien befassen, und daraus e n d l i c h der Schluß: daß, weil materiale Prinzipien zum obersten Sittengesetz ganz untauglich sind (wie bewiesen worden), das f o r m a l e p r a k t i s c h e P r i n z i p der reinen Vernunft, nach welchem die bloße Form einer durch unsere Maximen möglichen allgemeinen Gesetzgebung den obersten und unmittelbaren Bestimmungsgrund des Willens ausmachen muß, das e i n z i g e m ö g l i c h e sei, welches zu kategorischen Imperativen, d. i. praktischen Gesetzen (welche Handlungen zur Pflichtmachen), und überhaupt zum Prinzip der Sittlichkeit sowohl in der Beurteilung als auch der Anwendung auf den menschlichen Willen in Bestimmung desselben tauglich ist.

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Ma il concetto della perfezione in senso p r a t i c o è l’attitudine ossia la sufficienza di una cosa a vari fini. Questa perfezione, come q u a l i t à dell’uomo, e quindi interna, è nient’altro che il t a l e n t o , e ciò che rinforza o completa questo, cioè l ’ a b i l i t à . La perfezione suprema nella s o s t a n z a , cioè Dio, e quindi esterna (considerata nel rispetto pratico), è la sufficienza di quest’essere a tutti i fini in genere. Se dunque a noi devono prima esser dati dei fini, relativamente ai quali soltanto il concetto della p e r f e z i o n e (di una perfezione interna, in noi stessi, o di una esterna, in Dio) può diventar motivo determinante della volontà; se un fine come o g g e t t o , che deve precedere la determinazione della volontà mediante una regola pratica e contenere il fondamento della possibilità di questa, quindi la m a t e r i a della volontà presa come motivo determinante di essa, è sempre empirico, e quindi può servire al principio e p i c u r e o della dottrina della felicità, ma non mai al principio razionale puro della dottrina morale e del dovere (come i talenti e il favorirli sol perché contribuiscono ai vantaggi della vita, o la volontà di Dio, se la conformazione ad essa è stata presa per oggetto della volontà, senza un principio pratico antecedente indipendente dall’idea di essa, possono divenir cause determinanti della volontà solo per la f e l i c i t à che noi aspettiamo da essi): segue allora di qui, i n p r i m o l u o g o , che tutti i princìpi su esposti sono m a t e r i a l i , i n s e c o n d o l u o g o che essi comprendono tutti i princìpi materiali possibili onde i n f i n e si conclude che, siccome i princìpi materiali non servono alla legge morale suprema (come si è dimostrato), i l p r i n c i p i o p r a t i c o f o r m a l e della ragion pura, secondo il quale la semplice forma di una legislazione universale possibile mediante le nostre massime deve costituire il motivo determinante supremo e immediato della volontà, è l ’ u n i c o p r i n c i p i o p o s s i b i l e che serva agl’imperativi categorici, cioè alle leggi pratiche (che fanno delle azioni un dovere), e in genere al principio della moralità, tanto nel giudizio, come pure nell’applicazione alla volontà umana, nella determinazione di essa.

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I. Von der Deduktion der Grundsätze der reinen praktischen Vernunft. Diese Analytik tut dar, daß reine Vernunft praktisch sein, d. i. für sich, unabhängig von allem Empirischen den Willen bestimmen könne, – und dieses zwar durch ein Faktum, worin sich reine Vernunft bei uns in der Tat praktisch beweist, nämlich die Autonomie in dem Grundsatze der Sittlichkeit, wodurch sie den Willen zur Tat bestimmt. – Sie zeigt zugleich, daß dieses Faktum mit dem Bewußtsein der Freiheit des Willens unzertrennlich verbunden, ja mit ihm einerlei sei, wodurch der Wille eines vernünftigen Wesens, das, als zur Sinnenwelt gehörig, sich gleich anderen wirksamen Ursachen notwendig den Gesetzen der Kausalität unterworfen erkennt, im Praktischen doch zugleich sich auf einer anderen Seite, nämlich als Wesen an sich selbst, seines in einer intelligibelen Ordnung der Dinge bestimmbaren Daseins bewußt ist, zwar nicht einer besonderen Anschauung seiner selbst, sondern gewissen dynamischen Gesetzen gemäß, die die Kausalität des selben in der Sinnenwelt bestimmen können; denn daß Freiheit, wenn sie uns beigelegt wird, uns in eine intelligibele Ordnung der Dinge versetze, ist anderwärts hinreichend bewiesen worden. | Wenn wir nun damit den analytischen Teil der Kritik der reinen spekulativen Vernunft vergleichen, so zeigt sich ein merkwürdiger Kontrast beider gegeneinander. Nicht Grundsätze, sondern reine sinnliche A n s c h a u u n g (Raum und Zeit) war daselbst das erste Datum, welches Erkenntnis a priori und zwar nur für Gegenstände der Sinne möglich machte. – Synthetische Grundsätze aus bloßen Begriffen ohne Anschauung waren unmöglich, vielmehr konnten diese nur in Beziehung auf jene, welche sinnlich war, mithin auch nur auf Gegenstände möglicher Erfahrung stattfinden, weil die Begriffe des Verstandes, mit dieser Anschauung verbunden, allein diejenige Erkenntnis möglich machen, welche wir Erfahrung nennen. – Über die Erfahrungsgegenstände hinaus, also von Dingen als Noumenen wurde der spekulativen Vernunft alles Positive einer E r k e n n t n i s mit völligem Rechte abgesprochen. – Doch leistete diese soviel, daß sie den Begriff der Noumenen, d. i. die Möglichkeit, ja Notwendigkeit, dergleichen zu denken, in Sicherheit setzte und z. B. die Freiheit,

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I. Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica. L’analitica dimostra che la ragion pura può esser pratica, cioè può determinare per sé, indipendentemente da ogni elemento empirico, la volontà; – e invero dimostra ciò mediante un fatto in cui la ragion pura appare a noi realmente pratica, cioè l’autonomia nel principio della moralità mediante il quale essa determina la volontà all’azione. – Nello stesso tempo questa analitica mostra che questo fatto è legato inseparabilmente con la coscienza della libertà della volontà, anzi è a quella identico; e mediante esso la volontà di un essere razionale, che come appartenente al mondo sensibile si riconosce soggetto necessariamente come le altre cause efficienti alle leggi di causalità, ha nel pratico, però nello stesso tempo, da un altro lato, cioè come essere in sé, coscienza della sua esistenza determinabile in un ordine intelligibile delle cose, invero non conforme a un’intuizione particolare di se stesso, ma a certe leggi dinamiche che determinano la causalità di esso nel mondo sensibile; poiché è stato abbastanza dimostrato altrove che la libertà, se ci è attribuita, ci trasporta in un ordine intellegibile delle cose. Ora, se noi confrontiamo con ciò la parte analitica della Critica della ragion pura speculativa, appare un notevole contrasto delle due analitiche l’una rispetto all’altra. Là non erano dei princìpi, ma l ’ i n t u i z i o n e sensibile pura (lo spazio e il tempo) il primo dato che faceva possibile la conoscenza a p r i o r i , e invero solo per gli oggetti dei sensi. Princìpi sintetici derivati da semplici concetti senza intuizione erano impossibili, anzi potevano esistere soltanto in relazione alla intuizione, che era sensibile, e quindi anche soltanto in relazione agli oggetti di un’esperienza possibile, perché i concetti dell’intelletto legati con quest’intuizione, rendevano possibile soltanto quella conoscenza che chiamiamo esperienza. Oltre gli oggetti dell’esperienza, e quindi delle cose come noumeni, di pieno diritto era negata alla ragione speculativa ogni conoscenza positiva. Pure questa faceva tanto da porre al sicuro il concetto dei noumeni, cioè la possibilità, anzi la necessità di pensarli, e, per es., salvava da ogni obbiezione l’ammetter la libertà, considerata negativamente, co-

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negativ betrachtet, anzunehmen, als ganz verträglich mit jenen Grundsätzen und Einschränkungen der reinen theoretischen Vernunft, wider alle Einwürfe rettete, ohne doch von solchen Gegenständen irgend etwas Bestimmtes und Erweiterndes zu erkennen zu geben, indem sie vielmehr alle Aussicht dahin gänzlich abschnitt. | Dagegen gibt das moralische Gesetz, wenngleich keine A u s s i c h t , dennoch ein schlechterdings aus allen Datis der Sinnenwelt und dem ganzen Umfange unseres theoretischen Vernunfgebrauchs unerklärliches Faktum an die Hand, das auf eine reine Verstandeswelt Anzeige gibt, ja diese sogar p o s i t i v b e s t i m m t und uns etwas von ihr, nämlich ein Gesetz, erkennen läßt. Dieses Gesetz soll der Sinnenwelt, als einer s i n n l i c h e n N a t u r (was die vernünftigen Wesen betrifit), die Form einer Verstandeswelt, d. i. einer ü b e r s i n n l i c h e n N a t u r, verschaffen, ohne doch jener ihrem Mechanismus Abbruch zu tun. Nun ist Natur im allgemeinsten Verstande die Existenz der Dinge unter Gesetzen. Die sinuliche Natur vernünftiger Wesen überhaupt ist die Existenz derselben unter empirisch bedingten Gesetzen, mithin für die Vernunft H e t e r o n o m i e . Die übersinnliche Natur ebenderselben Wesen ist dagegen ihre Existenz nach Gesetzen, die von aller empirischen Bedingung unabhängig sind, mithin zur A u t o n o m i e der reinen Vernunft gehören. Und da die Gesetze, nach welchen das Dasein der Dinge von der Erkenntnis abhängt, praktisch sind, so ist die übersinnliche Natur, soweit wir uns einen Begriff von ihr machen können, nichts anderes als e i n e N a t u r u n t e r d e r A u t o n o m i e d e r r e i n e n p r a k t i s c h e n Ve r n u n f t . Das Gesetz dieser Autonomie aber ist das moralische Gesetz; welches also das Grundgesetz einer übersinnlichen Natur und einer reinen | Verstandeswelt ist, deren Gegenbild in der Sinnenwelt, aber doch zugleich ohne Abbruch der Gesetze derselben existieren soll. Man könnte jene die u r b i l d l i c h e (natura archetypa), die wir bloß in der Vernunft erkennen, diese aber, weil sie die mögliche Wirkung der Idee der ersteren als Bestimmungsgrundes des Willens enthält, die nachgebildete (natura ectypa) nennen. Denn in der Tat versetzt uns das moralische Gesetz der Idee nach in eine Natur, in welcher reine Vernunft, wenn sie mit dem ihr angemessenen physischen Vermögen begleitet wäre, das höchste Gut hervorbringen würde, und bestimmt unseren Willen, die Form der

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me affatto compatibile con quei princìpi e quelle limitazioni della ragion pura teoretica, senza però far conoscere di tali oggetti qualcosa di determinato e di estensivo, ché anzi toglieva ogni veduta di essi. Invece la legge morale, quantunque non se ne dia nessuna v e d u t a , pure presenta un fatto assolutamente inesplicabile con tutti i dati del mondo sensibile e con tutto l’àmbito dell’uso teoretico della nostra ragione, un fatto che ci indica un mondo dell’intelletto puro, anzi lo d e t e r m i n a in modo affatto p o s i t i v o e ce ne fa conoscere qualcosa, e cioè una legge. Questa legge deve procurare al mondo dei sensi, come a una n a t u r a s e n s i b i l e (per quanto riguarda gli esseri razionali), la forma di un mondo dell’intelletto, cioè di una n a t u r a s o p r a s e n s i b i l e , senza però recar danno al suo meccanismo. Ora la natura nel senso più generale è l’esistenza delle cose sotto leggi. La natura sensibile degli esseri razionali in genere è l’esistenza di essi sotto leggi condizionate empiricamente; quindi, per la ragione, è e t e r o n o m i a . La natura soprasensibile degli stessi esseri è invece la loro esistenza secondo leggi, le quali sono indipendenti da ogni condizione empirica, e quindi appartengono all’a u t o n o m i a della ragion pura. E siccome le leggi secondo le quali l’esistenza delle cose dipende dalla conoscenza sono pratiche, così la natura soprasensibile, in quanto ci possiamo fare un concetto di essa, è nient’altro che u n a n a t u r a s o t t o l ’ a u t o n o m i a d e l l a r a g i o n p u r a p r a t i c a . Ma la legge di questa autonomia è la legge morale, la quale è dunque la legge fondamentale di una natura soprasensibile e di un mondo puro dell’intelletto, la copia del quale deve esistere nel mondo sensibile, per altro nello stesso tempo, senza danno delle leggi di questo. Si potrebbe chiamare a r c h e t i p a quella natura (natura archetypa), che noi conosciamo solamente nella ragione; e questa invece che contiene l’effetto possibile dell’idea della prima come motivo determinante della volontà, si potrebbe chiamare e c t i p a (natura ectypa). Poiché invero la legge morale ci trasporta in modo ideale in una natura in cui la ragion pura, se fosse accompagnata dal potere fisico conveniente, produrrebbe il sommo bene; e determina la nostra volontà a dar la

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Sinnenwelt, als einem Ganzen vernünftiger Wesen, zu erteilen. Daß diese Idee wirklich unseren Willensbestimmungen gleichsam als Vorzeichnung zum Muster liege, bestätigt die gemeinste Aufmerksamkeit auf sich selbst. Wenn die Maxime, nach der ich ein Zeugnis abzulegen gesonnen bin, durch die praktische Vernunft geprüft wird, so sehe ich immer danach, wie sie sein würde, wenn sie als allgemeines Naturgesetz gelte. Es ist offenbar, in dieser Art würde es jedermann zur Wahrhaftigkeit nötigen. Denn es kann nicht mit der Allgemeinheit eines Naturgesetzes bestehen, Aussagen für beweisend und dennoch als vorsätzlich unwahr gelten zu lassen. Ebenso wird die Maxime, die ich in | Ansehung der freien Disposition über mein Leben nehme, sofort bestimmt, wenn ich mich frage, wie sie sein müßte, damit sich eine Natur nach einem Gesetze derselben erhalte. Offenbar würde niemand in einer solchen Natur sein Leben will k ü r l i c h endigen können, denn eine solche Verfassung würdekeine bleibende Naturordnung sein, und so in allen übrigen Fällen. Nun ist aber in der wirklichen Natur, sowie sie ein Gegenstand der Erfahrung ist, der freie Wille nicht von selbst zu solchen Maximen bestimmt, die für sich selbst eine Natur nach allgemeinen Gesetzen gründen könnten, oder auch in eine solche, die nach ihnen angeordnet wäre, von selbst paßten; vielmehr sind es Privatneigungen, die zwar ein Naturganzes nach pathologischen (physischen) Gesetzen, aber nicht eine Natur, die allein durch unseren Willen nach reinen praktischen Gesetzen möglich wäre, ausmachen. Gleichwohl sind wir uns durch die Vernunft eines Gesetzes bewußt, welchem, als ob durch unseren Willen zugleich eine Naturordnung entspringen müßte, alle unsere Maximen unterworfen sind. Also muß dieses die Idee einer nicht empirisch-gegebenen und dennoch durch Freiheit möglichen, mithin übersinnlichen Natur sein, der wir, wenigstens in praktischer Beziehung, objektive Realität geben, weil wir sie als Objekt unseres Willens als reiner vernünftiger Wesen ansehen. | Der Unterschied also zwischen den Gesetzen einer Natur, welcher der W i l l e u n t e r w o r f e n i s t , und einer N a t u r, d i e e i n e m W i l l e n (in Ansehung dessen, was Beziehung desselben auf seine freien Handlungen hat) unterworfen ist, beruht darauf,

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forma al mondo sensibile, come a un insieme di esseri razionali. Che quest’idea serva realmente come modello alle determinazioni della nostra volontà, è confermato dalla più comune osservazione su se stessi. Se la massima, seguendo la quale io ho intenzione di dare una testimonianza, viene esaminata mediante la ragion pratica, io guardo sempre com’essa sarebbe, se valesse quale legge universale della natura. È chiaro che, in questo modo, essa costringerebbe ciascuno alla sincerità. Poiché non è compatibile con l’universalità di una legge naturale far valere come prove delle testimonianze false di proposito. Così la massima che io prendo riguardo alla libera disposizione della mia vita, vien determinata appena mi domando come essa dovrebbe essere, perché una natura si conservi secondo una legge di questa massima. Evidentemente in una natura simile nessuno potrebbe por fine a r b i t r a r i a m e n t e alla sua vita, poiché una tale situazione non costituirebbe un ordine naturale permanente, e così in tutti gli altri casi. Ma nella natura reale, in quanto questa può essere un oggetto dell’esperienza, la volontà libera non è determinata da se stessa a tali massime, capaci di stabilire per se stesse una natura secondo leggi universali, oppure di adattarsi da sé in una natura ordinata secondo esse; sono piuttosto inclinazioni particolari, che costituiscono un insieme naturale secondo leggi patologiche (fisiche), ma non una natura che sarebbe possibile solo mediante la nostra volontà secondo leggi pure pratiche. Tuttavia, mediante la ragione, noi siamo consci di una legge, alla quale sono soggette tutte le nostre massime, come se mediante la nostra volontà dovesse aver origine un ordine naturale. Quindi questa legge dev’essere l’idea di una natura non data empiricamente, eppur possibile mediante la libertà, perciò soprasensibile, alla quale noi diamo realtà oggettiva, almeno nel rispetto pratico, perché la consideriamo come oggetto della nostra volontà in quanto siamo esseri razionali puri. Dunque la differenza tra le leggi di una natura a cui la v o l o n t à è s o g g e t t a , e quelle di u n a n a t u r a c h e è s o g g e t t a a u n a v o l o n t à (rispetto alla relazione di questa volontà con le sue azioni libere), consiste in ciò che in quella gli og-

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daß bei jener die Objekte Ursachen der Vorstellungen sein müssen, die den Willen bestimmen, bei dieser aber der Wille Ursache von den Objekten sein soll, sodaß die Kausalität derselben ihren Bestimmungsgrund lediglich in reinem Vernunftvermögen liegen hat, welches deshalb auch eine reine praktische Vernunft genannt werden kann. Die zwei Aufgaben also: wie reine Vernunft e i n e r s e i t s a priori Objekte e r k e n n e n , und wie sie a n d e r e r s e i t s unmittelbar ein Bestimmungsgrund des Willens, d. i. der Kausalität des vernünftigen Wesens in Ansehung der Wirklichkeit der Objekte (bloß durch den Gedanken der Allgemeingültigkeit ihrer eigenen Maximen als Gesetzes sein könne, sind sehr verschieden. Die erste, als zur Kritik der reinen spekulativen Vernunft gehörig, erfordert, daß zuvor erklärt werde, wie Anschauungen, ohne welche uns überall kein Objekt gegeben und also auch keines synthetisch erkannt werden kann, a priori möglich sind, und ihre Auflösung fällt dahin aus, daß sie insgesamt nur sinnlich sind, daher auch keine spekulative Erkenntnis möglich werden lassen, die weiter ginge, als mögliche Erfahrung reicht, | und daß daher alle Grundsätze jener reinen spekulativen Vernunft nichts weiter ausrichten, als Erfahrung entweder von gegebenen Gegenständen oder denen, die ins Unendliche gegeben werden mögen, niemals aber vollständig gegeben sind, möglich zu machen. Die zweite, als zur Kritik der praktischen Vernunft gehörig, fordert keine Erklärung, wie die Objekte des Begehrungsvermögens möglich sind, denn das bleibt als Aufgabe der theoretischen Naturerkenntnis der Kritik der spekulativen Vernunft überlassen, sondern nur, wie Vernunft die Maxime des Willens bestimmen könne, ob es nur vermittelst empirischer Vorstellungen als Bestimmungsgründe geschehe, oder ob auch reine Vernunft praktisch und ein Gesetz einer möglichen, gar nicht empirisch erkennbaren Naturordnung sein würde. Die Möglichkeit einer solchen übersinnlichen Natur, deren Begriff zugleich der Grund der Wirklichkeit derselben durch unseren freien Willen sein könne, bedarf keiner Anschauung a priori (einer intelligibelen Welt), die in diesem Falle als übersinnlich für uns auch unmöglich sein müßte. Denn es kommt nur auf den Bestimmungsgründ des Wollens in den Maximen des-

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getti devono esser cause delle rappresentazioni che determinano la volontà, in questa invece la volontà dev’esser causa degli oggetti, sicché la causalità di essa ha il suo motivo determinante soltanto nella facoltà razionale pura, la quale perciò può anche esser chiamata una ragion pura pratica. Quindi sono assai diversi i due problemi: come d a u n a p a r t e la ragione può c o n o s c e r e oggetti a p r i o r i , e come d ’ a l t r a p a r t e essa può esser immediatamente un motivo determinante della volontà, cioè della causalità dell’essere razionale rispetto alla realtà degli oggetti (semplicemente mediante il pensiero del valore universale delle sue massime come legge). Il primo problema, appartenendo alla Critica della ragion pura speculativa, richiede che si spieghi anzitutto come sono possibili a p r i o r i intuizioni, senza le quali non ci può esser dato assolutamente alcun oggetto, e quindi neanche ne può esser conosciuto alcuno sinteticamente. La soluzione di questo problema riesce a ciò: che le intuizioni sono tutte soltanto sensibili, quindi neppure rendono possibile una conoscenza speculativa che vada oltre l’esperienza possibile, e che perciò tutti i princìpi di quella ragion pura speculativa non fanno altro che render possibile l’esperienza, o degli oggetti dati, o di quelli che posson esser dati in infinito, ma non sono mai dati completamente. Il secondo in quanto appartenente alla Critica della ragion pratica, non richiede che si spieghi come sono possibili gli oggetti della facoltà di desiderare, poiché questo, come problema della conoscenza teoretica della natura, è lasciato alla Critica della ragione speculativa; ma soltanto come la ragione può determinare la massima della volontà, se ciò avviene solo mediante rappresentazioni empiriche come motivi determinanti, ovvero se la ragion pura sia pratica, e legge di un ordine naturale possibile che non si può affatto conoscere empiricamente. La possibilità di una tale natura soprasensibile, il concetto della quale possa essere nello stesso tempo, mediante la nostra volontà libera, il fondamento della realtà di essa, non ha bisogno di alcuna intuizione a p r i o r i (di un mondo intelligibile) che, in questo caso, come soprasensibile, dovrebbe anche essere impossibile per noi. Poiché si tratta soltanto del motivo determi-

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selben an, ob jener empirisch oder ein Begriff der reinen Vernunft (von der Gesetzmäßigkeit derselben überhaupt) sei, und wie er letzteres sein könne. Ob die Kausalität des Willens zur Wirklichkeit der Objekte zulange oder nicht, bleibt den theoretischen Prin|zipien der Vernunft zu beurteilen überlassen, als Untersuchung der Möglichkeit der Objekte des Wollens, deren Anschauung also in der praktischen Aufgabe gar kein Moment derselben ausmacht. Nur auf die Willensbestimmung und den Bestimmungsgrund der Maxime desselben als eines freien Willens kommt es hier an, nicht auf den Erfolg. Denn wenn der W i l l e nur für die reine Vernunft gesetzmäßig ist, so mag es mit dem Ve r m ö g e n des selben in der Ausführung stehen, wie es wolle; es mag nach diesen Maximen der Gesetzgebung einer möglichen Natur eine solche wirklich daraus entspringen oder nicht, darum bekümmert sich die Kritik, die da untersucht, ob und wie reine Vernunft praktisch, d. i. unmittelbar willenbestimmend sein könne, gar nicht. In diesem Geschäft kann sie also ohne Tadel und muß sie von reinen praktischen Gesetzen und deren Wirklichkeit anfangen. Statt der Anschauung aber legt sie denselben den Begriff ihres Daseins in der intelligibelen Welt, nämlich der Freiheit, zum Grunde. Denn dieser bedeütet nichts anderes, und jene Gesetze sind nur in Beziehung auf Freiheit des Willens möglich, unter Voraussetzung derselben aber notwendig, oder umgekehrt: diese ist notwendig, weil jene Gesetze als praktische Postulate notwendig sind. Wie nun dieses Bewußtsein der moralischen Gesetze oder, welches einerlei ist, das der Freiheit möglich sei, läßt sich | nicht weiter erklären, nur die Zulässigkeit derselben in der theoretischen Kritik gar wohl verteidigen. Die E x p o s i t i o n des obersten Grundsatzes der praktischen Vernunft ist nun geschehen, d. i. erstlich, was er enthalte, daß er gänzlich a priori und unabhängig von empirischen Prinzipien für sich bestehe, und dann, worin er sich von allen anderen praktischen Grundsätzen unterscheide, gezeigt worden. Mit der D e d u k t i o n , d. i. der Rechtfertigung seiner objektiven und allgemeinen Gültigkeit und der Einsicht der Möglichkeit eines solchen synthetischen Satzes a priori, darf man nicht so gut fortzukommen hoffen, als es mit den Grundsätzen des reinen theoretischen Verstandes anging. Denn diese bezogen sich auf Gegenstände mögli-

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nante del volere nelle sue massime, cioè se sia empirico o concetto della ragion pura (della conformità alla legge della ragion pura in genere), e come possa essere un concetto. Se la causalità della volontà pervenga o no alla realtà dell’oggetto, devono giudicare i princìpi teoretici della ragione, come ricerca della possibilità degli oggetti del volere, la cui intuizione perciò non costituisce alcun momento del problema pratico. Qui non si tratta del risultato, ma soltanto della determinazione della volontà e del motivo determinante della massima di questa, in quanto essa è una volontà libera. Infatti, posto che per la ragion pura la v o l o n t à sia conforme alla legge, di quel che avviene del p o t e r e di essa nell’attuazione e se ne risulti realmente o no una natura secondo queste massime della legislazione di una natura possibile, di ciò non si occupa punto la critica, la quale ricerca soltanto, se e come la ragion pura può esser pratica, cioè determinante immediatamente la volontà. In quest’affare dunque la critica può, senza errore, e deve cominciare dalle leggi pure pratiche e dalla loro realtà. Ma invece dell’intuizione essa pone a base di queste leggi il concetto della loro esistenza nel mondo intelligibile, cioè della libertà. Poiché questo concetto non significa nient’altro, e quelle leggi sono soltanto possibili in relazione alla libertà della volontà, ma nella supposizione di questa libertà sono necessarie; o, inversamente, questa è necessaria perché quelle leggi, come postulati pratici, sono necessarie. Ora, come sia possibile questa coscienza delle leggi morali, o, che è lo stesso, quella della libertà, non si può spiegare di più, e soltanto si può difender bene la loro ammissibilità nella critica teoretica. L’e s p o s i z i o n e del principio supremo della ragion pratica ora è terminata; cioè, si è dimostrato anzitutto quel che contiene, che esiste per sé affatto a p r i o r i e indipendentemente da princìpi empirici, e poi in che si differenzî da tutti gli altri princìpi pratici. Nella d e d u z i o n e , cioè nella giustificazione del valore oggettivo e universale di questo principio, e nell’esame della possibilità di una tale proposizione sintetica a p r i o r i , non si può sperare di proceder così bene, come avvenne coi princìpi dell’intelletto puro teoretico. Questi infatti si riferivano

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cher Erfahrung, nämlich auf Erscheinungen, und man konnte beweisen, daß nur dadurch, daß diese Erscheinungen nach Maßgabe jener Gesetze unter die Kategorien gebracht werden, diese Erscheinungen als Gegenstände der Erfahrung e r k a n n t werden können, folglich alle mögliche Erfahrung diesen Gesetzen angemessen sein müsse. Einen solchen Gang kann ich aber mit der Deduktion des moralischen Gesetzes nicht nehmen. Denn es betrifft nicht die Erkenntnis von der Beschaffenheit der Gegenstände, die der Vernunft irgendwodurch anderwärts gegeben werden mögen, sondern eine Erkenntnis, sofern sie der Grund von der Existenz der Gegenstände selbst werden kann und die Vernunft durch | dieselbe Kausalität in einem vernunftigen Wesen hat, d. i. reine Vernunft, die als ein unmittelbar den Willen bestimmendes Vermögen angesehen werden kann. Nun ist aber alle menschliche Einsicht zu Ende, sobald wir zu Grundkräften oder Grundvermögen gelangt sind; denn deren Möglichkeit kann durch nichts begriffen, darf aber auch ebensowenig beliebig erdichtet und angenommen werden. Daher kann uns im theoretischen Gebrauche der Vernunft nur Erfahrung dazu berechtigen, sie anzunehmen. Dieses Surrogat, statt einer Deduktion aus Erkenntnisquellen a priori empirische Beweise anzuführen, ist uns hier aber in Ansehung des reinen praktischen Vernunftvermögens auch benommen. Denn was den Beweisgrund seiner Wirklichkeit von der Erfahrung herzuholen bedarf, muß den Gründen seiner Möglichkeit nach von Erfahrungsprinzipien abhängig sein, für dergleichen aber reine und doch praktische Vernunft schon ihres Begriffs wegen unmöglich gehalten werden kann. Auch ist das moralische Gesetz gleichsam als ein Faktum der reinen Vernunft, dessen wir uns a priori bewußt sind, und welches apodiktisch gewiß ist, gegeben, gesetzt daß man auch in der Erfahrung kein Beispiel, da es genau befolgt wäre, auftreiben könnte. Also kann die objektive Realität des moralischen Gesetzes durch keine Deduktion, durch keine Anstrengung der theoretischen, spekulativen oder empirisch unterstützten Vernunft bewiesen und | also, wenn man auch auf die apodiktische Gewißheit Verzicht tun wollte, durch keine Erfahrung bestätigt und so a posteriori bewiesen werden, und steht dennoch für sich selbst fest.

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agli oggetti dell’esperienza possibile, cioè ai fenomeni, e si poté dimostrare che soltanto per ciò che questi fenomeni sono sottoposti alle categorie conforme a quelle leggi, questi fenomeni possono essere c o n o s c i u t i come oggetti dell’esperienza, e che quindi ogni esperienza possibile dev’essere conforme a queste leggi. Ma io non posso procedere così nella deduzione della legge morale. Poiché non si tratta della conoscenza della natura degli oggetti che possono essere dati alla ragione in qualche altro modo, ma di una conoscenza che può diventar il fondamento dell’esistenza degli oggetti stessi, e per la quale la ragione ha la causalità in un essere razionale, cioè della ragion pura, che può esser considerata come una facoltà che determini immediatamente la volontà. Ma ogni perspicacia umana è finita, quando siamo giunti alle forze o facoltà fondamentali, poiché la possibilità di esse non può esser concepita in nessun modo, ma non può neppure esser inventata ed ammessa arbitrariamente. Quindi nell’uso teoretico della ragione soltanto l’esperienza ci può autorizzare ad ammetterla. Ma anche questo succedaneo di addurre una prova empirica, invece di una deduzione dalle origini della conoscenza a p r i o r i , qui ci è tolto rispetto alla facoltà della ragion pura pratica. Poiché ciò che ha bisogno di prendere dai princìpi dell’esperienza la prova della sua realtà, dev’esser dipendente dall’esperienza quanto ai fondamenti della sua possibilità; ma la ragion pura e nondimeno pratica non può esser tenuta per tale a cagione del suo concetto. Inoltre, la legge morale è data, per così dire, come un fatto della ragion pura, del quale noi siamo consci a p r i o r i , e che è apoditticamente certo, anche supposto che nell’esperienza non si potesse trovar nessun esempio nel quale essa fosse esattamente osservata. Dunque, la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla certezza apodittica, quella realtà non potrebbe venir confermata mediante l’esperienza così dimostrata a p o s t e r i o r i ; e tuttavia essa è stabile per se stessa.

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Etwas anderes aber und ganz Widersinnisches tritt an die Stelle dieser vergeblich gesuchten Deduktion des moralischen Prinzips, nämlich daß es umgekehrt selbst zum Prinzip der Deduktion eines unerforschlichen Vermögens dient, welches keine Erfahrung beweisen, die spekulative Vernunft aber (um unter ihren kosmologischen Ideen das Unbedingte seiner Kausalität nach zu finden, damit sie sich selbst nicht widerspreche) wenigstens als möglich annehmen mußte: nämlich das der Freiheit, von der das moralische Gesetz, welches selbst keiner rechtfertigenden Gründe bedarf, nicht bloß die Möglichkeit, sondern die Wirklichkeit an Wesen beweist, die dies Gesetz als für sie verbindend erkennen. Das moralische Gesetz ist in der Tat ein Gesetz der Kausalität durch Freiheit und also der Möglichkeit einer übersinnlichen Natur, sowie das metaphysische Gesetz der Begebenheiten in der Sinnenwelt ein Gesetz der Kausalität der sinnlichen Natur war, und jenes bestimmt also das, was spekulative Philosophie unbestimmt lassen mußte, nämlich das Gesetz für eine Kausalität, deren Begriff in der letzteren nur negativ war, und verschafft diesem also zuerst objektive Realität. | Diese Art von Kreditiv des moralischen Gesetzes, da es selbst als ein Prinzip der Deduktion der Freiheit, als einer Kausalität der reinen Vernunft, aufgestellt wird, ist, da die theoretische Vernunft wenigstens die Möglichkeit einer Freiheit anzunehmen genötigt war, zu Ergänzung eines Bedürfnisses derselben statt aller Rechtfertigung a priori völlig hinreichend. Denn das moralische Gesetz beweist seine Realität dadurch auch für die Kritik der spekulativen Vernunft genugtuend, daß es einer bloß negativ gedachten Kausalität, deren Möglichkeit jener unbegreiflich und dennoch sie anzunehmen nötig war, positive Bestimmung, nämlich den Begriff einer den Willen unmittelbar (durch die Bedingung einer allgemeinen gesetzlichen Form seiner Maximen) bestimmenden Vernunft hinzufügt und so der Vernunft, die mit ihren Ideen, wenn sie spekulativ verfahren wollte, immer überschwenglich wurde, zum ersten Male objektive, obgleich nur praktische Realität zu geben vermag und ihren t r a n s z e n d e n t e n Gebrauch in einen i m m a n e n t e n (im Felde der Erfahrung durch Ideen selbst wirkende Ursache zu sein) verwandelt.

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Ma a questa deduzione invano cercata del principio morale sottentra qualcosa di diverso e affatto paradossale: cioè che essa stessa invece serve come principio della deduzione di una facoltà imperscrutabile, che nessuna esperienza poteva dimostrare, ma che la ragione speculativa (per trovare tra le sue idee cosmologiche l’incondizionato secondo la sua causalità, per non contraddire se stessa) doveva ammettere almeno come possibile, cioè la facoltà della libertà, di cui la legge morale, che non abbisogna essa stessa di alcun motivo che la giustifichi, dimostra, non semplicemente la possibilità, ma la realtà, negli esseri che riconoscono questa legge come obbligatoria per essi. La legge morale è invero una legge della causalità mediante la libertà, e quindi della possibilità di una natura soprasensibile, come la legge metafisica degli eventi nel mondo dei sensi era una legge della causalità della natura sensibile; e perciò quella determina ciò che la filosofia speculativa doveva lasciar indeterminato, cioè la legge per una causalità, il concetto della quale nella speculazione era soltanto negativo, e quindi soltanto essa procura a questo concetto la realtà oggettiva. Questa specie di credito della legge morale, quando essa stessa vien posta come un principio della deduzione della libertà come di una causalità della ragion pura, poiché la ragion teoretica era obbligata ad a m m e t t e r e almeno la possibilità di una libertà, è affatto sufficiente, invece d’ogni giustificazione a p r i o r i , a soddisfare il bisogno di essa. La legge morale infatti dimostra la sua realtà in modo soddisfacente anche per la Critica della ragione speculativa, con questo che essa, a una causalità concepita solo negativamente, la cui possibilità era per la ragione speculativa inconcepibile, eppure necessaria ad ammettere, aggiunge una determinazione positiva, cioè il concetto di una ragione che determina immediatamente la volontà (con la sola condizione di una forma legislativa universale delle sue massime). Così può dare per la prima volta una realtà oggettiva, benché soltanto pratica, alla ragione, la quale nelle sue idee, se voleva procedere speculativamente, diveniva sempre trascendente; e muta l’uso t r a s c e n d e n t e della ragione in un uso immanente (la ragione stessa è causa efficiente nel campo dell’esperienza mediante le idee).

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Die Bestimmung der Kausalität der Wesen in der Sinnenwelt als einer solchen konnte niemals unbedingt sein, und dennoch muß es zu aller Reihe der Bedingungen notwendig etwas Unbedingtes, mithin auch eine sich gänzlich von selbst bestimmende Kausalität ge|ben. Daher war die Idee der Freiheit, als eines Vermögens absoluter Spontaneität, nicht ein Bedürfnis, sondern, w a s d e r e n M ö g l i c h k e i t b e t r i f f t , ein analytischer Grundsatz der reinen spekulativen Vernunft. Allein da es schlechterdings unmöglich ist, ihr gemäß ein Beispiel in irgend einer Erfahrung zu geben, weil unter den Ursachen der Dinge als Erscheinungen keine Bestimmung der Kausalität, die schlechterdings unbedingt wäre, angetroffen werden kann, so konnten wir nur den G e d a n k e n von einer frei handelnden Ursache, wenn wir diesen auf ein Wesen in der Sinnenwelt, sofern es andererseits auch als Noumenon betrachtet wird, anwenden, v e r t e i d i g e n , indem wir zeigten, daß es sich nicht widerspreche, alle seine Handlungen als physisch bedingt, sofern sie Erscheinungen sind, und doch zugleich die Kausalität derselben, sofern das handelnde Wesen ein Verstandeswesen ist, als physisch unbedingt anzusehen und so den Begriff der Freiheit zum regulativen Prinzip der Vernunft zu machen; wodurch ich zwar den Gegenstand, dem dergleichen Kausalität beigelegt wird, gar nicht erkenne, was er sei, aber doch das Hindernis wegnehme, indem ich einerseits in der Erklärung der Weltbegebenheiten, mithin auch der Handlungen vernünftiger Wesen dem Mechanismus der Naturnotwendigkeit, vom Bedingten zur Bedingung ins Unendliche zurückzugehen, Gerechtigkeit widerfahren lasse, andererseits aber der spekulativen Vernunft | den für sie leeren Platz offen erhalte, nämlich das Intelligibele, um das Unbedingte dahin zu versetzen. Ich konnte aber diesen G e d a n k e n nicht r e a l i s i e r e n , d. i. ihn nicht in E r k e n n t n i s eines so handelnden Wesens, auch nur bloß seiner Möglichkeit nach, verwandeln. Diesen leeren Platz füllt nun reine praktische Vernunft durch ein bestimmtes Gesetz der Kausalität in einer intelligibelen Welt (durch Freiheit), nämlich das moralische Gesetz aus. Hierdurch wächst nun zwar der spekulativen Vernunft in Ansehung ihrer Einsicht nichts zu, aber doch in Ansehung der S i c h e r u n g ihres proble-

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La determinazione della causalità degli esseri nel mondo sensibile come tale, non poteva mai esser incondizionata; eppure deve necessariamente esservi per ogni serie di condizioni qualcosa d’incondizionato, e quindi anche una causalità che si determini affatto da sé. Perciò l’idea della libertà come di una facoltà di assoluta spontaneità, non era un bisogno, ma, p e r q u e l c h e r i g u a r d a l a p o s s i b i l i t à d i e s s a , era un principio analitico della ragion pura speculativa. Ma, siccome è affatto impossibile dar un esempio conforme ad essa in qualche fatto empirico, perché tra le cause delle cose, come fenomeni, non si può trovare nessuna determinazione della causalità, la quale sia affatto incondizionata, così noi potevamo s o s t e n e r e i l p e n s i e r o di una causa che agisca liberamente soltanto se applicavamo questo pensiero a un essere del mondo sensibile, considerato d’altra parte anche come noumeno; poiché dimostrammo che non vi è contraddizione a riguardare tutte le sue azioni come fisicamente condizionate, in quanto sono fenomeni, ma nello stesso tempo la causalità di queste come fisicamente incondizionata, in quanto l’essere agente è un essere intellettuale; e così a far del concetto della libertà il principio regolativo della ragione, per il quale invero io non conosco affatto che cosa sia l’oggetto a cui vien attribuita tale causalità, ma pure tolgo l’ostacolo, poiché da una parte nella spiegazione degli eventi del mondo, e quindi anche delle azioni delle creature razionali, lascio al meccanismo della necessità naturale il diritto di retrocedere all’infinito dal condizionato alla condizione, ma d’altra parte conservo libero alla ragione speculativa il posto vuoto per essa, cioè l’intelleggibile, per trasportarvi l’incondizionato. Ma io non potevo r e a l i z z a r e q u e s t o p e n s i e r o , cioè non lo potevo mutare in una c o n o s c e n z a di un essere agente in tal modo, neanche semplicemente rispetto alla possibilità di quest’essere. Questo posto vuoto lo occupa soltanto la ragion pura pratica, mediante una legge determinata della causalità in un modo intellegibile (mediante la libertà), cioè mediante la legge morale. Perciò di niente invero si accresce la ragione speculativa relativamente alla cognizione; ma se ne accresce, tuttavia, relativamente alla certezza del suo concetto pro-

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matischen Begriffs der Freiheit, welchem hier o b j e k t i v e und obgleich nur praktische, dennoch unbezweifelte R e a l i t ä t verschafft wird. Selbst den Begriff der Kausalität, dessen Anwendung, mithin auch Bedeutung eigentlich nur in Beziehung auf Erscheinungen, um sie zu Erfahrungen zu verknüpfen, stattfindet (wie die Kritik der reinen Vernunft beweist), erweitert sie nicht so, daß sie seinen Gebrauch über gedachte Grenzen ausdehne. Denn wenn sie darauf ausginge, so müßte sie zeigen wollen, wie das logische Verhältnis des Grundes und der Folge bei einer anderen Art von Anschauung, als die sinnliche ist, synthetisch gebraucht werden könne, d. i. wie causa noumenon möglich sei; welches sie gar nicht leisten kann, worauf sie aber auch als praktische Vernunft gar nicht Rücksicht nimmt, indem sie nur den B e s t i m m u n g s g r u n d der Kausalität | des Menschen als Sinnenwesens (welche gegeben ist), i n d e r r e i n e n Ve r n u n f t (die darum praktisch heißt) setzt, und also den Begriff der Ursache selbst, von dessen Anwendung auf Objekte zum Behuf theoretischer Erkenntnisse sie hier gänzlich abstrahieren kann (weil dieser Begriff immer im Verstande, auch unabhängig von aller Anschauung, a priori angetroffen wird), nicht um Gegenstände zu erkennen, sondern die Kausalität in Ansehung derselben überhaupt zu bestimmen, also in keiner anderen als praktischen Absicht braucht und daher den Bestimmungsgrund des Willens in die intelligibele Ordnung der Dinge verlegen kann, indem sie zugleich gerne gesteht, das, was der Begriff der Ursache zur Erkenntnis dieser Dinge für eine Bestimmung haben möge, gar nicht zu verstehen. Die Kausalität in Ansehung der Handlungen des Willens in der Sinnenwelt muß sie allerdings auf bestimmte Weise erkennen, denn sonst könnte praktische Vernunft wirklich keine Tat hervorbringen. Aber den Begriff, den sie von ihrer eigenen Kausalität als Noumenon macht, braucht sie nicht theoretisch zum Behuf der Erkenntnis ihrer übersinnlichen Existenz zu bestimmen und also ihm sofern Bedeutung geben zu können. Denn Bedeutung bekommt er ohnedem, obgleich nur zum praktischen Gebrauche, nämlich durch das moralische Gesetz. Auch theoretisch betrachtet, bleibt er immer ein reiner, a priori gegebener Verstandesbegriff, der auf | Gegenstände angewandt werden kann, sie mögen sinnlich oder nicht sinnlich gegeben werden; wiewohl er im

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blematico della libertà, al quale qui vien procurata la r e a l t à o g g e t t i v a , e, benché solo pratica, pure indubitata. Anche il concetto di causalità, la cui applicazione, e quindi anche il cui significato, ha luogo propriamente solo in relazione ai fenomeni per connetterli in esperienze (come dimostra la Critica della ragion pura), essa [ragione pratica] non amplia in modo da estenderne l’uso oltre i detti limiti. Poiché, se andasse oltre, dovrebbe dimostrare come la relazione logica del principio e della conseguenza possa essere usata sinteticamente in un altro modo d’intuizione, diversa dalla sensibile, cioè come sia possibile la c a u s a n o u m e n o n . Il che non può fare, e neppure, come ragion pratica, considera, perché pone solo nella r a g i o n p u r a (che perciò si chiama pratica) il m o t i v o d e t e r m i n a n t e della causalità dell’uomo come essere sensibile (la quale causalità è data). Quindi usa il concetto della causa stessa, dalla cui applicazione agli oggetti per la conoscenza teoretica essa qui può affatto astrarre (perché questo concetto vien sempre trovato a p r i o r i nell’intelletto, anche indipendentemente da ogni intuizione), non per conoscere gli oggetti, ma per determinare la causalità relativamente agli oggetti in genere; quindi non l’usa a nessun altro scopo che a quello pratico, e perciò può trasportare il motivo determinante della volontà nell’ordine intellegibile delle cose, poiché nello stesso tempo confessa volentieri di non intendere affatto qual determinazione il concetto della causa possa avere per la conoscenza di queste cose. La causalità rispetto alle azioni della volontà nel mondo sensibile essa la deve conoscere in modo affatto determinato, perché altrimenti la ragion pratica non potrebbe produrre realmente alcuna azione. Ma essa non ha bisogno di determinare teoreticamente, ad uso della conoscenza della sua esistenza soprasensibile, il concetto che si fa della propria causalità come noumeno, e quindi [non ha bisogno] di poter dare ad esso, sotto questo rispetto, un significato. Poiché esso riceve un significato in altro modo, benché solo per l’uso pratico, cioè mediante la legge morale. Anche teoreticamente considerato, esso rimane sempre un concetto puro dell’intelletto, dato a p r i o r i , il quale può esser applicato agli oggetti, siano essi dati sensibilmente o no; benché nel-

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letzteren Falle keine bestimmte theoretische Bedeutung und Anwendung hat, sondern bloß ein formaler, aber doch wesentlicher Gedanke des Verstandes von einem Objekte überhaupt ist. Die Bedeutung, die ihm die Vernunft durchs moralische Gesetz verschafft, ist lediglich praktisch, da nämlich die Idee des Gesetzes einer Kausalität (des Willens) selbst Kausalität hat oder ihr Bestimmungsgrund ist. II. Von dem Befugnisse der reinen Vernunft, im praktischen Gebrauche zu einer Erweiterung, die ihr im spekulativen für sich nicht möglich ist.

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An dem moralischen Prinzip haben wir ein Gesetz der Kausalität aufgestellt, welches den Bestimmungsgrund der letzteren über alle Bedingungen der Sinnenwelt wegsetzt, und den Willen, wie er als zu einer intelligibelen Welt gehörig bestimmbar sei, mithin das Subjekt dieses Willens (den Menschen) nicht bloß als zu einer reinen Verstandeswelt gehörig, obgleich in dieser Beziehung als uns unbekannt (wie es nach der Kritik | der reinen spekulativen Vernunft geschehen konnte), gedacht, sondern ihn auch in Ansehung seiner Kausalität vermittelst eines Gesetzes, welches zu gar keinem Naturgesetze der Sinnenwelt gezählt werden kann, bestimmt, also unsere Erkenntnis über die Grenzen der letzteren erweitert, welche Anmaßung doch die Kritik der reinen Vernunft in aller Spekulation für nichtig erklärte. Wie ist nun hier praktischer Gebrauch der reinen Vernunft mit dem theoretischen ebenderselben in Ansehung der Grenzbestimmung ihres Vermögens zu vereinigen? D a v i d H u m e , von dem man sagen kann, daß er alle Anfechtung der Rechte einer reinen Vernunft, welche eine gänzliche Untersuchung derselben notwendig machten, eigentlich anfing, schloß so: Der Begriff der U r s a c h e ist ein Begriff, der die N o t w e n d i g k e i t der Verknüpfung der Existenz des Verschiedenen und zwar, sofern es verschieden ist, enthält, sodaß, wenn A gesetzt ist, ich erkenne, daß etwas davon ganz verschiedenes, B, notwendig auch existieren müsse. Notwendigkeit kann aber auch nur einer Verknüpfung beigelegt werden, sofern sie a priori erkannt

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l’ultimo caso non abbia nessun significato teoretico determinato e nessuna applicazione, ma sia semplicemente un pensiero formale, eppure essenziale dell’intelletto riguardo a un oggetto in genere. Il significato, che la ragione gli procura mediante la legge morale, è soltanto pratico, poiché l’idea della legge di una causalità (della volontà), ha in se stesso una causalità, ossia è il motivo determinante di tale causalità. II. Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a una estensione che non le è possibile nell’uso speculativo per sé. Nel principio morale abbiamo proposto una legge della causalità, la quale mette il motivo determinante della causalità molto al di sopra di tutte le condizioni del mondo sensibile; e non abbiamo semplicemente c o n c e p i t o la volontà, come possa esser determinata in quanto appartenente a un mondo intelligibile, e quindi il soggetto di questa volontà (l’uomo) in quanto appartenente a un mondo intellegibile puro, benché in questa relazione a noi sconosciuto (come poteva avvenire secondo la Critica della ragion pura speculativa), ma l’abbiamo anche d e t e r m i n a t a relativamente alla sua causalità mediante una legge, la quale non può essere annoverata fra le leggi naturali del mondo sensibile. Quindi abbiamo e s t e s o la nostra conoscenza oltre i limiti del mondo sensibile, ancorché tale pretesa la Critica della ragion pura speculativa abbia dichiarato vana in ogni speculazione. Ora, come conciliare qui l’uso pratico con l’uso teoretico della ragion pura, relativamente alla determinazione dei confini del suo potere? D a v i d H u m e , dal quale, si può dire, incominciò propriamente ogni contestazione dei diritti di una ragion pura, onde si rese necessario un esame completo di essa, ragionò così. Il concetto dalla c a u s a è un concetto che contiene la necessità della connessione dell’esistenza del diverso, e, invero, in quanto è diverso, in modo che, se A vien posto, io conosco che qualcosa di affatto diverso da esso, B, deve necessariamente anche esistere. Ma la necessità può essere attribuita a una connessione so-

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wird; denn die Erfahrung würde von einer Verbindung nur zu erkennen geben, daß sie sei, aber nicht, daß sie so notwendigerweise sei. Nun ist es, sagt er, unmöglich, die Verbindung, die zwischen einem Dinge und einem a n d e r e n (oder einer Bestimmung und einer anderen, | ganz von ihr verschiedenen), wenn sie nicht in der Wahrnehmung gegeben werden, a priori und als notwendig zu erkennen. Also ist der Begriff einer Ursache selbst lügenhaft und betrügerisch und ist, am gelindesten davon zu reden, eine sofern noch zu entschuldigende Täuschung, da die G e w o h n h e i t (eine s u b j e k t i v e Notwendigkeit), gewisse Dinge oder ihre Bestimmungen öfters neben- oder nacheinander ihrer Existenz nach als sich beigesellt wahrzunehmen, unvermerkt für eine o b j e k t i v e Notwendigkeit, in den Gegenständen selbst eine solche Verknüpfung zu setzen, genommen, und so der Begriff einer Ursache erschlichen und nicht rechtmäßig erworben ist, ja auch niemals erworben oder beglaubigt werden kann, weil er eine an sich nichtige, chimärische, von keiner Vernunft haltbare Verknüpfung fordert, der gar kein Objekt jemals korrespondieren kann. – So ward nun zuerst in Ansehung aller Erkenntnis, die die Existenz der Dinge betrifft (die Mathematik blieb also davon noch ausgenommen), der E m p i r i s m u s als die einzige Quelle der Prinzipien eingeführt, mit ihm aber zugleich der härteste S k e p t i z i s m u s selbst in Ansehung der ganzen Naturwissenschaft (als Philosophie). Denn wir können nach solchen Grundsätzen niemals aus gegebenen Bestimmungen der Dinge ihrer Existenz nach auf eine Folge s c h l i e ß e n (denn dazu würde der Begriff einer Ursache, der die Notwendigkeit einer solchen Verknüpfung enthält, | erfordert werden), sondern nur nach der Regel der Einbildungskraft ähnliche Fälle wie sonst erwarten; welche Erwartung aber niemals sicher ist, sie mag auch noch so oft eingetroffen sein. Ja bei keiner Begebenheit könnte man sagen: es müsse etwas vor ihr vorhergegangen sein, worauf sie n o t w e n d i g folgte, d. i. sie müsse eine U r s a c h e haben, und also, wenn man auch noch so öftere Fälle kennte, wo dergleichen vorherging, sodaß eine Regel davon abgezogen werden konnte, so könnte man darum es nicht als immer und notwendig sich auf die Art zutragend annehmen, und so müsse man dem blinden Zufalle, bei welchem aller Vernunftgebrauch aufhört, auch sein Recht lassen; welches denn den Skeptizismus in

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lo in quanto può esser conosciuta a p r i o r i ; poiché l’esperienza farebbe conoscere di una connessione soltanto che essa è, ma non che è in modo necessario. Ora, egli dice, è impossibile conoscere a p r i o r i e come necessario il legame che esiste fra una cosa e un’a l t r a (o fra una determinazione e un’altra affatto differente da essa), se quel legame non ci vien dato nella percezione. Dunque, il concetto stesso di una causa è falso e ingannevole, e, per parlarne nei termini più miti, è un’illusione scusabile, in quanto l’ a b i t u d i n e (una necessità s o g g e t t i v a ) di percepire spesso certe cose, o le loro determinazioni, l’una accanto o dopo l’altra, come associate nella loro esistenza, è presa senz’avvedersene per una necessità o g g e t t i v a di porre una tale connessione negli oggetti stessi; e così il concetto della causa è usurpato e non è acquistato in modo giusto, anzi non può mai essere acquistato o attestato, perché richiede una connessione in sé vana, chimerica, e che non resiste davanti a nessuna ragione, e alla quale non può mai corrispondere alcun oggetto. – Così, relativamente a ogni conoscenza che riguarda l’esistenza della cose (la matematica quindi ne rimase ancora esclusa), anzitutto era presentato l’ e m p i r i s m o come la sola origine dei princìpi, ma insieme con esso il più rigido s c e t t i c i s m o relativamente all’intera scienza della natura (come filosofia). Poiché, secondo tali princìpi, noi non possiamo mai i n f e r i r e da date determinazioni delle cose, quanto alla loro esistenza, una conseguenza (poiché a ciò si richiederebbe il concetto di una causa, il quale contiene la necessità di una tale connessione); possiamo soltanto, secondo la regola dell’immaginazione, aspettarci casi simili a precedenti, ma questa aspettazione, per quanto spesso si possa avverare, non è mai sicura. Anzi di nessun evento si potrebbe dire: d e v e averlo preceduto qualcosa, a cui è seguito n e c e s s a r i a m e n t e , e cioè ha dovuto avere una c a u s a ; e quindi, se anche si conoscessero casi sì frequenti, in cui vi fosse un antecedente simile, da poterne trarre una regola, non per questo si potrebbe ammettere che ciò debba accadere sempre e necessariamente in tal modo; e così si dovrebbe anche lasciare la sua parte al cieco caso, in cui cessa ogni uso della ragione; il che stabilisce e rende incontrastabile lo scetti-

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Ansehung der von Wirkungen zu Ursachen aufsteigenden Schlüsse fest gründet und unwiderleglich macht. Die Mathematik war so lange noch gut weggekommen, weil H u m e dafür hielt, daß ihre Sätze alle analytisch wären, d. i. von einer Bestimmung zur anderen um der Identität willen, mithin nach dem Satze des Widerspruchs fortschritten (welches aber falsch ist, indem sie vielmehr alle synthetisch sind, und, obgleich z. B. die Geometrie es nicht mit der Existenz der Dinge, sondern nur ihrer Bestimmung a priori in einer möglichen Anschauung zu tun hat, dennoch ebensogut wie durch Kausalbegriffe von einer Bestimmung A zu einer ganz verschiedenen, B, als dennoch | mit jener notwendig verknüpft, übergeht). Aber endlich muß jene wegen ihrer apodiktischen Gewißheit so hochgepriesene Wissenschaft doch dem E m p i r i s m u s i n G r u n d s ä t z e n aus demselben Grunde, warum H u m e an der Stelle der objektiven Notwendigkeit in dem Begriffe der Ursache die Gewohnheit setzte, auch unterliegen und sich unangesehen alles ihres Stolzes gefallenlassen, ihre kühnen, a priori Beistimmung gebietenden Ansprüche herabzustimmen und den Beifall für die Allgemeingültigkeit ihrer Sätze von der Gunst der Beobachter erwarten, die als Zeugen es doch nicht weigern würden zu gestehen, daß sie das, was der Geometer als Grundsätze vorträgt, jederzeit auch so wahrgenommen hätten, folglich, ob es gleich eben nicht notwendig wäre, doch fernerhin es so erwarten zu dürfen erlauben würden. Auf diese Weise führt H u m e s Empirismus in Grundsätzen auch unvermeidlich auf den Skeptizismus, selbst in Ansehung der Mathematik, folglich in allem w i s s e n s c h a f t l i c h e n theoretischen Gebrauche der Vernunft (denn dieser gehört entweder zur Philosophie oder zur Mathematik). Ob der gemeine Vernunftgebrauch (bei einem so schrecklichen Umsturz, als man den Häuptern der Erkenntnis begegnen sieht) besser durchkommen und nicht vielmehr noch unwiederbringlicher in ebendiese Zerstörung alles Wissens werde verwickelt werden, mithin ein a l l g e m e i n e r Skeptizismus nicht aus denselben Grundsätzen fol|gen müsse (der freilich aber nur die Gelehrten treffen würde), das will ich jeden selbst beurteilen lassen. Was nun meine Bearbeitung in der Kritik der reinen Vernunft betrifft, die zwar durch jene H u m e s c h e Zweifellehre veranlaßt ward, doch viel weiter ging und das ganze Feld der reinen theore-

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cismo, relativamente alle argomentazioni che risalgono dagli effetti alle cause. La matematica per così lungo tempo ancora se l’era cavata, perché H u m e riteneva che le proposizioni di essa fossero tutte analitiche, cioè procedessero da una determinazione all’altra in virtù dell’identità, e quindi secondo il principio di contraddizione (ma ciò è falso, perché esse sono piuttosto tutte sintetiche, e benché, per es., la geometria non si occupi dell’esistenza delle cose, ma soltanto della loro determinazione a p r i o r i in un’intuizione possibile, pure procede proprio come per concetti causali da una determinazione A a un’altra affatto diversa B, in quanto tuttavia connessa necessariamente con quella). Ma quella scienza, tanto pregiata per la sua certezza apodittica, deve pure infine esser vinta dall’ e m p i r i s m o n e i p r i n c ì p i , per lo stesso motivo per cui Hume pose l’abitudine al posto della necessità oggettiva nel concetto della causa, e deve pure rassegnarsi, malgrado tutto il suo orgoglio, a moderare le ardite pretese che reclamavano il consenso a p r i o r i , per aspettare l’approvazione del valore universale delle sue proposizioni dal favore degli osservatori; i quali però come testimoni non esiterebbero a confessare che ciò che il geometra propone come princìpi, essi l’hanno anche osservato sempre, e quindi, sebbene non necessariamente, pure concederebbero che si possa attendere così in avvenire. In questo modo l’empirismo di Hume nei princìpi conduce inevitabilmente allo scetticismo anche rispetto alla matematica, e quindi in ogni uso teoretico s c i e n t i f i c o della ragione (poiché quest’uso appartiene o alla filosofia o alla matematica). Se l’uso ordinario della ragione (in un crollo così terribile come quello che si vede accadere nei capisaldi delle cognizioni) possa cavarsela meglio, e non sia anzi coinvolto ancor più irreparabilmente in questa distruzione di ogni sapere, e non debba quindi seguire dagli stessi princìpi uno scetticismo u n i v e r s a l e (il quale però colpirebbe soltanto i dotti): è cosa che lascio giudicare a ciascuno. Ora, per quel che riguarda il mio lavoro nella Critica dalla ragion pura, al quale invero dette occasione la dottrina scettica di Hume, ma che andò molto più avanti, e comprese l’intero

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tischen Vernunft im synthetischen Gebrauche, mithin auch desjenigen, was man Metaphysik überhaupt nennt, befaßte: so verfuhr ich in Ansehung der den Begriff der Kausalität betreffenden Zweifel des schottischen Philosophen auf folgende Art. Daß H u m e , wenn er (wie es doch auch fast überall geschieht) die Gegenstände der Erfahrung für D i n g e a n s i c h s e l b s t nahm, den Begriff der Ursache für trüglich und falsches Blendwerk erklärte, daran tat er ganz recht; denn von Dingen an sich selbst und deren Bestimmungen als solchen kann nicht eingesehen werden, wie darum, weil etwas A gesetzt wird, etwas anderes B auch notwendig gesetzt werden müsse, und also konnte er eine solche Erkenntnis a priori von Dingen an sich selbst gar nicht einräumen. Einen empirischen Ursprung dieses Begriffs konnte der scharfsinnige Mann noch weniger verstatten, weil dieser geradezu der Notwendigkeit der Verknüpfung widerspricht, welche das Wesentliche des Begriffs der Kausalität ausmacht; mithin ward der Begriff in die Acht erklärt, und in seine Stelle trat die Gewohnheit im Beobachten des Laufs der Wahrnehmungen. | Aus meinen Untersuchungen aber ergab es sich, daß die Gegenstände, mit denen wir es in der Erfahrung zu tun haben, keineswegs Dinge an sich selbst, sondern bloß Erscheinungen sind, und daß, obgleich bei Dingen an sich selbst gar nicht abzusehen ist, ja unmöglich ist einzusehen, wie, wenn A gesetzt wird, es w i d e r s p r e c h e n d sein solle, B, welches von A ganz verschieden ist, nicht zu setzen (die Notwendigkeit der Verknüpfung zwischen A als Ursache und B als Wirkung): es sich doch ganz wohl denken lasse, daß sie als Erscheinungen i n e i n e r E r f a h r u n g auf gewisse Weise (z. B. in Ansehung der Zeilverhältnisse) notwendig verbunden sein müssen und nicht getrennt werden können, ohne derjenigen Verbindung zu w i d e r s p r e c h e n , vermittelst deren diese Erfahrung möglich ist, in welcher sie Gegenstände und uns allein erkennbar sind. Und so fand es sich auch in der Tat: sodaß ich den Begriff der Ursache nicht allein nach seiner objektiven Realität in Ansehung der Gegenstände der Erfahrung beweisen, sondern ihn auch als Begriff a priori wegen der Notwendigkeit der Verknüpfung, die er bei sich führt, d e d u z i e r e n , d. i. seine Möglichkeit aus reinem Verstande ohne empirische Quellen dartun, und so, nach Wegschaffung des Empirismus seines Ursprungs, die unvermeidliche Folge desselben, nämlich den Skeptizismus, zuerst in

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campo della ragion pura teoretica nell’uso sintetico, e quindi anche ciò che in genere si chiama metafisica, riguardo al dubbio del filosofo scozzese relativo al concetto di causalità io procedetti nel modo seguente. Se Hume (come avviene per altro quasi dappertutto) riteneva gli oggetti dell’esperienza c o s e i n s e s t e s s e , e dichiarava il concetto della causa una menzogna e un’illusione, faceva benissimo; poiché delle cose in se stesse, e delle loro determinazioni in quanto tali, non si può vedere come, per il fatto che vien posta qualche cosa A, debba anche esser posta necessariamente qualche altra cosa B; e quindi egli non poteva per nulla ammettere una tale conoscenza a p r i o r i delle cose in se stesse. L’acuto uomo poteva ancor meno ammettere un’origine empirica di questo concetto, poiché questa contraddice affatto alla necessità della connessione, che costituisce l’essenziale del concetto di causalità; e quindi questo concetto era bandito, e gli sottentrava l’abitudine nell’osservazione del corso delle percezioni. Ma dalle mie ricerche è risultato che gli oggetti con i quali siamo in relazione nell’esperienza non sono affatto cose in sé, ma soltanto fenomeni, e che, quantunque nelle cose in se stesse non si possa comprendere, anzi sia impossibile vedere come, posto A, debba esser c o n t r a d d i t t o r i o non porre B, che è affatto diverso da A (la necessità della connessione tra A come causa e B come effetto), è invece del tutto concepibile che, come fenomeni, debbano essere necessariamente legati in u n ’ e s p e r i e n z a in un certo modo (per es. rispetto alla relazione di tempo), e non possano esser separati senza c o n t r a d d i r e a quel legame mediante il quale è possibile quest’esperienza nella quale essi sono oggetti e sono conoscibili soltanto a noi. E così appunto sta in realtà: sicché io potei, non solo dimostrare il concetto della causa secondo la sua realtà oggettiva relativamente agli oggetti dell’esperienza, ma anche d e d u r l o , come concetto a p r i o r i , a cagione della necessità della connessione che esso implica, cioè ricavare la sua possibilità dall’intelletto puro, senza origini empiriche; e così, dopo aver eliminato l’empirismo della sua origine, potevo anche togliere radicalmente la conseguenza inevitabile dell’empirismo, cioè lo scetticismo, dapprima

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Ansehung der Naturwissenschaft, dann auch, wegen des ganz vollkommen aus denselben Grün|den Folgenden, in Ansehung der Mathemathik, beider Wissenschaften, die auf Gegenstände möglicher Erfahrung bezogen werden, und hiermit den totalen Zweifel an allem, was theoretische Vernunft einzusehen behauptet, aus dem Grunde heben konnte. Aber wie wird es mit der Anwendung dieser Kategorie der Kausalität (und so auch aller übrigen, denn ohne sie läßt sich keine Erkenntnis des Existierenden zustande bringen) auf Dinge, die nicht Gegenstände möglicher Erfahrung sind, sondern über dieser ihre Grenze hinaus liegen? Denn ich habe die objektive Realität dieser Begriffe nur in Ansehung der G e g e n s t ä n d e m ö g l i c h e r E r f a h r u n g deduzieren können. Aber ebendieses, daß ich sie auch nur in diesem Falle gerettet habe, daß ich gewiesen habe, es lassen sich dadurch doch Objekte d e n k e n , obgleich nicht a priori bestimmen: dieses ist es, was ihnen einen Platz im reinen Verstande gibt, von dem sie auf Objekte überhaupt (sinnliche oder nicht sinnliche) bezogen werden. Wenn etwas noch fehlt, so ist es die Bedingung der A n w e n d u n g dieser Kategorien, und namentlich der der Kausalität, auf Gegenstände, nämlich die Anschauung, welche, wo sie nicht gegeben ist, die Anwendung zum B e h u f d e r t h e o r e t i s c h e n E r k e n n t n i s des Gegenstandes als Noumenon unmöglich macht, die also, wenn es jemand darauf wagt (wie auch in der Kritik der reinen Vernunft geschehen), gänzlich verwehrt wird, indessen | daß doch immer die objektive Realität des Begriffs bleibt, auch von Noumenen gebraucht werden kann, aber ohne diesen Begriff theoretisch im mindesten bestimmen und dadurch eine Erkenntnis bewirken zu können. Denn daß dieser Begriff auch in Beziehung auf ein Objekt nichts Unmögliches enthalte, war dadurch bewiesen, daß ihm sein Sitz im reinen Verstande bei aller Anwendung auf Gegenstände der Sinne gesichert war, und ob er gleich hernach etwa, auf Dinge an sich selbst (die nicht Gegenstände der Erfahrung sein können) bezogen, keiner Bestimmung zur Vorstellung e i n e s b e s t i m m t e n G e g e n s t a n d e s zum Behuf einer theoretischen Erkenntnis fähig ist, so konnte er doch immer noch zu irgend einem anderen (vielleicht dem praktischen) Behuf einer Bestimmung zur Anwendung desselben fähig sein, welches nicht sein würde, wenn nach H u m e dieser Begriff der Kausalität etwas, das überall zu denken unmöglich ist, enthielte.

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rispetto alla scienza della natura, poi perciò che seguiva perfettamente dagli stessi motivi anche rispetto alla matematica, due scienze che vengon riferite agli oggetti dell’esperienza possibile; e con questo toglievo completamente il dubbio su tutto ciò che la ragion teoretica asserisce di comprendere. Ma che avviene dell’applicazione di questa categoria della causalità (e così pure di tutte le altre, poiché senza di esse non può aver luogo alcuna conoscenza dell’esistente) alle cose che non sono oggetti dell’esperienza possibile, ma sono oltre i suoi limiti? Giacché io ho potuto dedurre la realtà oggettiva di questi concetti soltanto riguardo agli o g g e t t i d e l l ’ e s p e r i e n z a p o s s i b i l e . Ma appunto questo, che io li ho salvati soltanto in questo caso, in cui ho dimostrato che mediante questi concetti si possono tuttavia p e n s a r e degli oggetti, benché non si possano determinare a p r i o r i ; questo è ciò che dà loro un posto nell’intelletto puro, dal quale essi sono riferiti agli oggetti in genere (sensibili, o non sensibili). Se qualcosa manca ancora, è la condizione dell’ a p p l i c a z i o n e di queste categorie, e specialmente di quella della causalità, agli oggetti, e cioè l’intuizione, che, se non è data, rende impossibile l’applicazione allo s c o p o d e l l a c o n o s c e n z a t e o r e t i c a dell’oggetto come noumeno; la quale dunque, se alcuno l’arrischia (com’è anche avvenuto nella Critica della ragion pura), viene affatto impedita, mentre tuttavia la realtà oggettiva del concetto rimane sempre, e può anche essere usata per i noumeni, ma senza che si possa in minimo grado determinare teoreticamente e produrre così una conoscenza. Che poi tale concetto non contenga niente di impossibile anche in relazione a un oggetto, fu dimostrato per il fatto che gli fu assicurato un posto nell’intelletto puro in ogni applicazione agli oggetti dei sensi; e benché poi, riferito alle cose in se stesse (le quali non possono essere oggetti dell’esperienza), non sia capace di nessuna determinazione per la rappresentazione di un o g g e t t o d e t e r m i n a t o , ad uso di una conoscenza teoretica, pure esso poteva ancor sempre esser capace in un altro uso (forse nell’uso pratico) di una determinazione per l’applicazione di esso; il che non si darebbe, se, come vuole Hume, questo concetto della causalità contenesse qualcosa di assolutamente impossibile a pensare.

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Um nun diese Bedingung der Anwendung des gedachten Begriffs auf Noumenen ausfindig zu machen, dürfen wir nur zurücksehen, w e s w e g e n w i r n i c h t m i t d e r A n w e n d u n g d e s selben auf Erfahrungsgegenstände zufrieden sind, sondern ihn auch gern von Dingen an sich selbst brauchen möchten. Denn da zeigt sich bald, daß es nicht eine theoretische, sondern praktische Absicht sei, welche uns dieses zur Notwendigkeit macht. Zur Spekulation würden wir, wenn es uns | damit auch gelänge, doch keinen wahren Erwerb in Naturkenntnis und überhaupt in Ansehung der Gegenstände, die uns irgend gegeben werden mögen, machen, sondern allenfalls einen weiten Schritt vom Sinnlichbedingten (bei welchem zu bleiben und die Kette der Ursachen fleißig durchzuwandern wir so schon genug zu tun haben) zum Übersinnlichen tun, um unsere Erkenntnis von der Seite der Gründe zu vollenden und zu begrenzen, indessen daß immer eine unendliche Kluft zwischen jener Grenze und dem, was wir kennen, unausgefüllt übrigbliebe, und wir mehr einer eiteln Fragsucht als einer gründlichen Wißbegierde Gehör gegeben hätten. Außer dem Verhältnisse aber, darin der Ve r s t a n d zu Gegenständen (in der theoretischen Erkenntnis) steht, hat er auch eines zum Begehrungavermögen, das darum der Wille heißt, und der reine Wille, sofern der reine Verstand (der in solchem Falle Vernunft heißt) durch die bloße Vorstellung eines Gesetzes praktisch ist. Die objektive Realität eines reinen Willens oder, welches einerlei ist, einer reinen praktischen Vernunft ist im moralischen Gesetze a priori gleichsam durch ein Faktum gegeben; denn so kann man eine Willensbestimmung nennen, die unvermeidlich ist, ob sie gleich nicht auf empirischen Prinzipien beruht. Im Begriffe eines Willens aber ist der Begriff der Kausalität schon enthalten, mithin in dem eines reinen Willens der Begriff | einer Kausalität mit Freiheit, d. i. die nicht nach Naturgesetzen bestimmbar, folglich keiner empirischen Anschauung als Beweises seiner Realität fähig ist, dennoch aber in dem reinen praktischen Gesetze a priori seine objektive Realität, doch (wie leicht einzusehen) nicht zum Behufe des theoretischen, sondern bloß praktischen Gebrauchs der Vernunft vollkommen rechtfertigt. Nun ist der Begriff eines Wesens, das freien Willen hat, der Begriff einer causa noumenon; und daß sich die-

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Ora, per scoprire questa condizione dell’applicazione ai noumeni del concetto menzionato, dobbiamo soltanto richiamare alla memoria p e r c h é n o n c i c o n t e n t i a m o d e l l’applicazione di esso agli oggetti dell’esper i e n z a , ma desidereremmo anche adoperarlo per le cose in se stesse. Appare subito, infatti, che non è un fine teoretico, ma pratico, quello che ci fa una necessità di questo desiderio. Quand’anche lo realizzassimo, noi non otterremmo per la speculazione alcun vero profitto nella scienza della natura, e in genere relativamente agli oggetti che ci possono esser dati in un modo qualunque, ma faremmo in ogni caso un passo avanti dal sensibilmente condizionato (ed abbiamo già abbastanza da fare a rimanerci, e a percorrere diligentemente la catena delle cause) al soprasensibile, per completare e limitare la nostra conoscenza dal lato dei princìpi, anche se rimarrebbe sempre vuoto un abisso infinito fra quei limiti e ciò che conosciamo e avremmo dato ascolto a una vana curiosità piuttosto che a un desiderio profondo di sapere. Ma l’ i n t e l l e t t o , oltre la relazione con gli oggetti (nella conoscenza teoretica), ne ha anche una con la facoltà di desiderare, la quale perciò si chiama volontà, e volontà pura, in quanto l’intelletto puro (che in tal caso si chiama ragione) è pratico mediante la semplice rappresentazione d’una legge. La realtà oggettiva di una volontà pura, o, che è lo stesso, di una ragione pura pratica, è data nella legge morale a priori, per così dire, mediante un fatto, poiché così si può chiamare una determinazione della volontà la quale è inevitabile, benché non si fondi su princìpi empirici. Ma nel concetto di una volontà è già contenuto il concetto della causalità, e quindi in quello di una volontà pura il concetto di una causalità con libertà, e cioè di una causalità che non è determinabile secondo leggi naturali, e quindi non è capace di un’intuizione empirica quale prova della sua realtà, ma che però giustifica perfettamente nella legge pura pratica a p r i o r i la sua realtà oggettiva, benché (com’è facile vedere) non allo scopo dell’uso teoretico, ma semplicemente dell’uso pratico della ragione. Ora il concetto di un essere che ha la volontà libera, è il concetto di una causa noumenon; e che

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ser Begriff nicht selbst widerspreche, davor ist man schon dadurch gesichert, daß der Begriff einer Ursache, als gänzlich vom reinen Verstande entsprungen, zugleich auch seiner objektiven Realität in Ansehung der Gegenstände überhaupt durch die Deduktion gesichert, dabei seinem Ursprunge nach von allen sinnlichen Bedingungen unabhängig, also für sich auf Phänomene nicht eingeschränkt (es sei denn, wo ein theoretischer bestimmter Gebrauch davon gemacht werden wollte), auf Dinge als reine Verstandeswesen allerdings angewandt werden könnte. Weil aber dieser Anwendung keine Anschauung, als die jederzeit nur sinnlich sein kann, untergelegt werden kann, so ist causa noumenon in Ansehung des theoretischen Gebrauchs der Vernunft, obgleich ein möglicher, denkbarer, dennoch leerer Begriff. Nun verlange ich aber auch dadurch nicht die Beschaffenheit eines Wesens, s o f e r n es einen r e i n e n Willen hat, t h e o r e t i s c h z u k e n n e n ; es ist mir|genug, es dadurch nur als ein solches zu bezeichnen, mithin nur den Begriff der Kausalität mit dem der Freiheit (und was davon unzertrennlich ist, mit dem moralischen Gesetze als Bestimmungsgrunde derselben) zu verbinden; welche Befugnis mir vermöge des reinen, nicht empirischen Ursprungs des Begriffs der Ursache allerdings zusteht, indem ich davon keinen anderen Gebrauch als in Beziehung auf das moralische Gesetz, das seine Realität bestimmt, d. i. nur einen praktischen Gebrauch zu machen mich befugt halte. Hätte ich mit H u m e dem Begriffe der Kausalität die objektive Realität im theoretischen Gebrauche nicht allein in Ansehung der Sachen an sich selbst (des Übersinnlichen), sondern auch in Ansehung der Gegenstände der Sinne genommen, so wäre er aller Bedeutung verlustig und als ein theoretisch unmöglicher Begriff für gänzlich unbrauchbar erklärt worden, und da von nichts sich auch kein Gebrauch machen läßt, der praktische Gebrauch eines t h e o r e t i s c h - n i c h t i g e n Begriffs ganz ungereimt gewesen. Nun aber der Begriff einer empirisch unbedingten Kausalität theoretisch zwar leer (ohne darauf sich schickende Anschauung), aber immer doch möglich ist und sich auf ein unbestimmtes Objekt bezieht, statt dieses aber ihm doch an dem moralischen Gesetze, folglich in praktischer Beziehung Bedeutung gegeben wird, so habe ich zwar keine Anschauung, die ihm seine objektive theoretische Realität bestimmte, aber | er hat nichtsdestoweniger wirkliche Anwendung, die sich in concreto in Gesinnungen oder Maximen darstel-

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questo concetto non contraddica se stesso, è già stato assicurato dal fatto che il concetto di una causa, in quanto derivato interamente dall’intelletto puro, e nello stesso tempo anche accertato mediante la deduzione riguardo alla sua realtà oggettiva relativamente agli oggetti in genere, e inoltre indipendente quanto alla sua origine da tutte le condizioni sensibili, e quindi per sé non limitato ai fenomeni (se non quando se ne volesse fare un uso teoretico determinato), può senza dubbio essere applicato a cose che sono essenze pure dell’intelletto. Ma, siccome a questa applicazione non può esser sottoposta nessuna intuizione, che non può esser se non sensibile, così la causa noumenon rispetto all’uso teoretico della ragione, benché sia un concetto possibile e pensabile, tuttavia è un concetto vuoto. Ma ora io neppur desidero c o n o s c e r e t e o r e t i c a m e n t e la natura di un essere i n q u a n t o ha una volontà p u r a ; a me basta indicarla come tale mediante quel concetto, e quindi soltanto legare il concetto della causalità con quello della libertà (e con ciò che ne è inseparabile, con la legge morale come suo motivo determinante); e questo diritto mi appartiene assolutamente in virtù dell’origine pura e non empirica del concetto di causa, né mi credo in potere di farne alcun uso fuorché in relazione alla legge morale, la quale determina la sua realtà, cioè soltanto un uso pratico. Se io avessi tolto, con Hume, al concetto della causalità la realtà oggettiva nell’uso pratico15 non solo rispetto alle cose in se stesse (al soprasensibile), ma anche rispetto agli oggetti dei sensi, esso avrebbe perduto ogni significato e, come un concetto teoreticamente impossibile, sarebbe stato dichiarato affatto inutile e, siccome del niente nessun uso si può fare, l’uso pratico di un concetto t e o r e t i c a m e n t e n u l l o sarebbe stato assurdo. Ma il concetto di una causalità empiricamente incondizionata è bensì vuoto (senza un’intuizione appropriata), ma pure è sempre possibile, e si riferisce a un oggetto indeterminato; nella legge morale invece, e quindi nel raporto pratico, gli vien dato un significato; e così io non ne ho alcuna intuizione, che ne determini la realtà oggettiva teoretica, ma esso ha nondimeno un’applicazione reale, che si manifesta in concreto nelle inten-

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len läßt, d. i. praktische Realität, die angegeben werden kann; welches denn zu seiner Berechtigung selbst in Absicht auf Noumenen hinreichend ist. Aber diese einmal eingeleitete objektive Realität eines reinen Verstandesbegriffs im Felde des Übersinnlichen gibt nunmehr allen übrigen Kategorien, obgleich immer nur, sofern sie mit dem Bestimmungsgrunde des reinen Willens (dem moralischen Gesetze) in n o t w e n d i g e r Verbindung stehen, auch objektive, nur keine andere als bloß praktisch-anwendbare Realität, indessen sie auf theoretische Erkenntnisse dieser Gegenstände, als Einsicht der Natur derselben durch reine Vernunft, nicht den mindesten Einfluß hat, um dieselbe zu erweitern. Wie wir denn auch in der Folge finden werden, daß sie immer nur auf Wesen als I n t e l l i g e n z e n , und an diesen auch nur auf das Verhältnis der Ve r n u n f t zum W i l l e n , mithin immer nur aufs P r a k t i s c h e Beziehung haben und weiter hinaus sich keine Erkenntnis derselben anmaßen; was aber mit ihnen in Verbindung noch sonst für Eigenschaften, die zur theoretischen Vorstellungsart solcher übersinnlicher Dinge gehören, herbeigezogen werden möchten, diese insgesamt alsdann gar nicht zum Wissen, sondern nur zur Befugnis (in praktischer Absicht aber gar zur Notwendigkeit) sie anzunehmen und vorauszusetzen gezählt | werden, selbst da, wo man übersinnliche Wesen (als Gott) nach einer Analogie, d. i. dem reinen Vernunftverhältnisse, dessen wir in Ansehung der sinnlichen uns praktisch bedienen, annimmt, und so der reinen theoretischen Vernunft durch die Anwendung aufs Übersinnliche, aber nur in praktischer Absicht, zum Schwärmen ins Überschwengliche nicht den mindesten Vorschub gibt.

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zioni, ossia nelle massime: che cioè ha una realtà pratica che può esser indicata; il che poi è sufficiente a giustificarlo anche riguardo ai noumeni. Ma questa realtà oggettiva di un concetto puro dell’intelletto, una volta introdotta nel campo del soprasensibile, dà ormai a tutte le altre categorie, benché sempre solo in quanto sono in unione n e c e s s a r i a col motivo determinante della volontà pura (con la legge morale), anche una realtà oggettiva: ma solo applicabile praticamente, senza il minimo influsso per estendere la conoscenza teoretica di questi oggetti come cognizione della natura di essi mediante la ragion pura. Così vedremo poi anche in seguito che le categorie hanno rapporto sempre soltanto con gli esseri come i n t e l l i g e n z e ; ed anche in queste soltanto con la relazione della r a g i o n e con la v o l o n t à ; quindi sempre soltanto col p r a t i c o , senza attribuirsi oltre a ciò nessuna conoscenza di questi esseri; ma, d’altronde, quanto alle proprietà appartenenti al modo di rappresentazione teoretico di tali cose soprasensibili, e che potrebbero essere legate con esse, sono tutte ascritte, non al sapere, sibbene soltanto al diritto (nel rapporto pratico, alla necessità) di ammetterle e di supporle, anche dove si ammettono esseri soprasensibili (come Dio), secondo un’analogia, cioè secondo la relazione pura della ragione, di cui ci serviamo praticamente relativamente agli esseri sensibili; e così mediante l’applicazione al soprasensibile, ma soltanto nel rapporto pratico non si dà il minimo pretesto alla ragion pura teoretica di vagare nel trascendente.

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Unter einem Begriffe eines Gegenstandes der praktischen Vernunft verstehe ich die Vorstellung eines Objekts als einer möglichen Wirkung durch Freikeit. Ein Gegenstand der praktischen Erkenntnis als einer solchen zu sein, bedeutet also nur die Beziehung des Willens auf die Handlung, dadurch er oder sein Gegenteil wirklich gemacht würde, und die Beurteilung, ob etwas ein Gegenstand der r e i n e n praktischen Vernunft sei oder nicht, ist nur die Unterscheidung der Möglichkeit oder Unmöglichkeit, diejenige Handlung zu w o l l e n , wodurch, wenn wir das Vermögen dazu hätten (worüber die Erfahrung urteilen muß), ein gewisses Objekt wirklich wer|den würde. Wenn das Objekt als der Bestimmungsgrund unseres Begehrungsvermögens angenommen wird, so muß die p h y s i s c h e M ö g l i c h k e i t desselben durch freien Gebrauch unserer Kräfte vor der Beurteilung, ob es ein Gegenstand der praktischen Vernunft sei oder nicht, vorangehen. Dagegen wenn das Gesetz a priori als der Bestimmungsgrund der Handlung, mithin diese als durch reine praktische Vernunft bestimmt betrachtet werden kann, so ist das Urteil, ob etwas ein Gegenstand der reinen praktischen Vernunft sei oder nicht, von der Vergleichung mit unserem physischen Vermögen ganz unabhängig, und die Frage ist nur, ob wir eine Handlung, die auf die Existenz eines Objekts gerichtet ist, w o l l e n dürfen, wenn dieses in unserer Gewalt wäre; mithin muß die m o r a l i s c h e M ö g l i c h k e i t der Handlung vorangehen; denn da ist nicht der Gegenstand, sondern das Gesetz des Willens der Bestimmungsgrund derselben. Die alleinigen Objekte einer praktischen Vernunft sind also die vom G u t e n und B ö s e n . Denn durch das erstere versteht man

Capitolo secondo DEL CONCETTO DI UN OGGETTO DELLA RAGION PURA PRATICA Per un concetto della ragion pratica intendo la rappresentazione di un oggetto come di un effetto possibile mediante la libertà. Essere oggetto di conoscenza pratica come tale significa dunque soltanto la relazione del volere a una azione, mediante la quale l’oggetto, o il suo contrario, sarebbe realmente effettuato; e il giudizio, se qualcosa sia o no un oggetto della ragion p u r a pratica, è soltanto la distinzione della possibilità o dell’impossibilità di v o l e r e quell’azione mediante la quale, se noi avessimo il potere necessario (del che deve giudicare l’esperienza), un certo oggetto diventerebbe reale. Se l’oggetto è supposto come il motivo determinante della nostra facoltà di desiderare, la p o s s i b i l i t à f i s i c a di esso mediante il libero uso delle nostre forze deve precedere il giudizio, se esso sia o no un oggetto della ragion pratica. Invece se la legge a p r i o r i può esser considerata come il motivo determinante dell’azione, e perciò questa come determinata mediante la ragion pura pratica, il giudizio, se qualcosa sia o no un oggetto della ragion pura pratica, è affatto indipendente dal confronto col nostro potere fisico; e la questione è soltanto, se ci è lecito v o l e r e un’azione diretta all’esistenza di un oggetto, essendo questo in nostro potere; e quindi la p o s s i b i l i t à morale dell’azione deve precedere; poiché in questo caso non è l’oggetto, ma la legge della volontà il motivo determinante di essa. I soli oggetti di una ragion pratica sono dunque il b e n e e il m a l e . Col primo s’intende un oggetto necessario della facoltà

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einen notwendigen Gegenstand des Begehrungs-, durch das zweite des Verabscheuungsvermögens, beides aber nach einem Prinzip der Vernunft. Wenn der Begriff des Guten nicht von einem vorhergehenden praktischen Gesetze abgeleitet werden, sondern diesem vielmehr zum Grunde dienen soll: so kann er | nur der Begriff von etwas sein, dessen Existenz Lust verheißt und so die Kausalität des Subjekts zur Hervorbringung desselben, d. i. das Begehrungsvermögen bestimmt. Weil es nun unmöglich ist, a priori einzusehen, welche Vorstellung mit L u s t , welche hingegen mit U n l u s t werde begleitet sein, so käme es lediglich auf Erfahrung an, es auszumachen, was unmittelbar gut oder böse sei. Die Eigenschaft des Subjekts, worauf in Beziehung diese Erfahrung allein angestellt werden kann, ist das G e f ü h l der Lust und Unlust, als eine dem inneren Sinne angehörige Rezeptivität, und so würde der Begriff von dem, was unmittelbar gut ist, nur auf das gehen, womit die Empfindung des Ve r g n ü g e n s unmittelbar verbunden ist, und der von dem Schlechthin-Bösen auf das, was unmittelbar S c h m e r z erregt, allein bezogen werden müssen. Weil aber das dem Sprachgebrauche schon zuwider ist, der das A n g e n e h m e vom G u t e n , das U n a n g e n e h m e vom B ö s e n unterscheidet und verlangt, daß Gutes und Böses jederzeit durch Vernunft, mithin durch Begriffe, die sich allgemein mitteilen lassen, und nicht durch bloße Empfindung, welche sich auf einzelne Subjekte und deren Empfänglichkeit einschränkt, beurteilt werde, gleichwohl aber für sich selbst mit keiner Vorstellung eines Objekts a priori eine Lust oder Unlust unmittelbar verbunden werden kann: so würde der Philosoph, der sich genötigt glaubte, ein Gefühl der Lust seiner praktischen | Beurteilung zum Grunde zu legen, g u t nennen, was ein M i t t e l zum Angenehmen, und B ö s e s , was U r s a c h e der Unannehmlichkeit und des Schmerzes ist; denn die Beurteilung des Verhältnisses der Mittel zu Zwecken gehört allerdings zur Vernunft. Obgleich aber Vernunft allein vermögend ist, die Verknüpfung der Mittel mit ihren Absichten einzusehen (sodaß man auch den Willen durch das Vermögen der Zwecke definieren könnte, indem sie jederzeit Bestimmungsgründe des Begehrungsvermögens nach Prinzipien sind), so würden doch die praktischen Maximen, die aus dem obigen Begriffe des Guten bloß als Mittel folgten, nie et-

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setzt wird: wir begehren nichts als in Rücksicht auf unser Wo h l oder We h ; dagegen er, wenn man ihn so gibt: wir wollen nach Anweisung der Vernunft nichts, als nur sofern wir es für gut oder böse halten, ungezweifelt gewiß und zugleich ganz klar ausgedrückt wird. Das Wo h l oder Ü b e l bedeutet immer nur eine Beziehung auf unseren Zustand der Annehmlichkeit oder U n a n n e h m l i c h k e i t , des Vergnügens und Schmerzens, und wenn wir darum ein Objekt begehren oder verabscheuen, so geschieht es nur, sofern es auf unsere Sinnlichkeit und das Gefühl der Lust und Unlust, das es bewirkt, bezogen wird. Das G u t e oder B ö s e bedeutet aber jederzeit eine Beziehung auf den W i l l e n , sofern dieser durchs Ve r n u n f t g e s e t z bestimmt wird, sich etwas zu seinem Objekte zu machen; wie er denn durch das Objekt und dessen Vorstellung niemals unmittelbar bestimmt wird, sondern ein Vermögen ist, sich eine Regel der Vernunft zur Bewegursache einer Handlung (dadurch ein Objekt wirklich werden kann) zu machen. Das Gute oder Böse wird also eigentlich auf Handlungen, nicht auf den Empfindungszustand der Person be|zogen; und sollte etwas schlechthin (und in aller Absicht und ohne weitere Bedingung) gut oder böse sein oder dafür gehalten werden, so würde es nur die Handlungsart, die Maxime des Willens und mithin die handelnde Person selbst, als guter oder böser Mensch, nicht aber eine Sache sein, die so genannt werden könnte. Man mochte also immer den Stoiker auslachen, der in den heftigsten Gichtschmerzen ausrief: Schmerz, du magst mich noch so sehr foltern, ich werde doch nie gestehen, daß du etwas Böses (kakón, malum) seist! er hatte doch recht. Ein Übel war es, das fühlte er, und das verriet sein Geschrei; aber daß ihm dadurch ein Böses anhinge, hatte er gar nicht Ursache einzuräumen; denn der Schmerz verringert den Wert seiner Person nicht im mindesten, sondern nur den Wert seines Zustandes. Eine einzige Lüge, deren er sich bewußt gewesen wäre, hätte seinen Mut niederschlagen müssen; aber der Schmerz diente nur zur Veranlassung, ihn zu erheben, wenn er sich bewußt war, daß er ihn durch keine unrechte Handlung verschuldet und sich dadurch strafwürdig gemacht habe. Was wir gut nennen sollen, muß in jedes vernünftigen Menschen Urteil ein Gegenstand des Begehrungsvermögens sein, und

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was für sich selbst, sondern immer nur i r g e n d w o z u Gutes zum Gegenstande des Willens enthalten; das Gute würde jederzeit bloß das Nützliche sein, und das, wozu es nützt, müßte allemal außerhalb dem Willen in der Empfindung liegen. Wenn diese nun als angenehme Empfindung vom Begriffe des Guten unterschieden werden müßte, so würde es überall nichts unmittelbar Gutes geben, sondern das Gute nur in den Mitteln zu etwas anderem, nämlich irgend einer Annehmlichkeit, gesucht werden müssen. Es ist eine alte Formel der Schulen: nihil appetimus nisi sub ratione boni, nihil aversamur nisi sub ratione mali; und sie hat einen oft richtigen, aber auch der Philosophie oft sehr nachteiligen Gebrauch, weil die Ausdrücke des boni und mali eine Zweideu|tigkeit enthalten, daran die Einschränkung der Sprache schuld ist, nach welcher sie eines doppelten Sinnes fähig sind, und daher die praktischen Gesetze unvermeidlich auf Schrauben stellen und die Philosophie, die im Gebrauche derselben gar wohl der Verschiedenheit des Begriffs bei demselben Worte inne werden, aber doch keine besonderen Ausdrücke dafür finden kann, zu subtilen Distinktionen nötigen, über die man sich nachher nicht einigen kann, indem der Unterschied durch keinen angemessenen Ausdruck unmittelbar bezeichnet werden konnte.* Die deutsche Sprache hat das Glück, die Ausdrücke zu besitzen, welche diese Verschiedenheit nicht übersehen lassen. Für das, was die Lateiner mit einem einzigen Worte bonum benennen, hat sie zwei sehr verschiedene Begriffe und auch ebenso verschiedene Ausdrücke: für bonum das G u t e und das Wo h l , für malum das B ö s e und das Ü b e l (oder We h ); sodaß es zwei | ganz verschiedene Beurteilungen sind, ob wir bei einer Handlung das G u t e und B ö s e derselben oder unser Wo h l und We h (Übel) in Betrachtung ziehen. Hieraus folgt schon, daß obiger psychologischer Satz wenigstens noch sehr ungewiß sei, wenn er so über* Überdem ist der Ausdruck sub ratione boni auch zweideutig. Denn er kann soviel sagen: wir stellen uns etwas als gut vor, wenn und w e i l wir es b e g e h r e n (wollen); aber auch: wir begehren etwas darum, w e i l wir es uns a l s g u t v o r s t e l l e n , sodaß entweder die Begierde der Bestimmungsgrund des Begriffs des Objekts als eines guten, oder der Begriff des Guten der Bestimmungsgrund des Begehrens (des Willens) sei; da denn das sub ratione boni im ersteren Falle bedeuten würde: wir wollen etwas u n t e r d e r I d e e des Guten; im zweiten: z u f o l g e d i e s e r I d e e , welche vor dem Wollen als Bestimmungsgrund desselben vorhergehen muß.

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come oggetto della volontà qualcosa di buono per se stesso, ma sempre soltanto di buono a qualche cosa; il bene sarebbe semplicemente l’utile, e ciò a cui è utile dovrebbe sempre essere fuori della volontà, nella sensazione. Ora, se questa, come sensazione piacevole, dovesse essere distinta dal concetto del bene, allora non si darebbe in nessun luogo una cosa immediatamente buona, ma il bene dovrebbe soltanto esser cercato nei mezzi per raggiungere qualche altra cosa, cioè qualche soddisfazione. È una vecchia formola delle Scuole: nihil appetimus, nisi sub ratione boni; nihil adversamur, nisi sub ratione mali, ed ha un uso spesso giusto, ma spesso anche assai nocivo alla filosofia perché le espressioni boni e mali contengono un equivoco, di cui è causa la povertà della lingua, secondo il quale esse sono capaci di un duplice significato e quindi danno un senso ambiguo alle leggi pratiche, e obbligano la filosofia, che nell’uso di esse può benissimo veder la differenza di concetto nella stessa parola, ma non può trovare espressioni specifiche, a distinzioni sottili, sulle quali si può poi non esser d’accordo, poiché la distinzione non poté esser designata immediatamente con nessuna espressione adatta*. La lingua tedesca ha la fortuna di possedere espressioni che non lasciano sfuggire questa differenza. Per ciò che i latini chiamano con una sola parola bonum, essa ha due concetti assai diversi, e anche due altrettanto diverse espressioni. Per bonum essa ha Gute e Wohl; per malum, Böse e Uebel o Weh: sicché sono due giudizî assai diversi, se in un’azione consideriamo il Gute e il Böse di essa, oppure il nostro Wohl e il nostro Weh (Uebel). Di qui segue già che la proposizione psicologica citata è almeno ancora assai incerta, quando vien tradotta così: noi non desideria* Inoltre, anche l’espressione sub ratione boni è equivoca. Poiché essa può voler dire tanto: noi ci rappresentiamo qualcosa come buona, se e p e r c h é l a d e s i d e r i a m o (vogliamo); come anche: noi desideriamo qualcosa, p e r c h é c e l a r a p p r e s e n t i a m o come b u o n a , sicché o è il desiderio il motivo determinante del concetto dell’oggetto come di un bene, o è il concetto del bene il motivo determinante del desiderio (della volontà); poiché l’espressione sub ratione boni nel primo caso significherebbe: noi vogliamo qualcosa con l’ i d e a del buono, nel secondo, i n s e g u i t o a q u e s t a i d e a , che deve precedere la volontà come motivo determinante di essa.

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di desiderare, col secondo un oggetto necessario della facoltà di aborrire, ma tutti e due secondo un principio della ragione. Se il concetto del bene non dev’essere derivato da una legge pratica precedente, ma piuttosto deve servir di base a questa, esso può soltanto essere il concetto di qualcosa, la cui esistenza promette piacere, e così determina alla produzione la causalità del soggetto, cioè la facoltà di desiderare. Ora, siccome è impossibile vedere a p r i o r i quale rappresentazione sarà accompagnata da p i a c e r e , e quale, invece, da d i s p i a c e r e , così spetterebbe soltanto all’esperienza stabilire ciò che sia immediatamente buono o cattivo. La proprietà del soggetto, in relazione alla quale soltanto quest’esperienza può esser posta, è il s e n t i m e n t o del piacere e del dispiacere, come una recettività appartenente al senso intero; e così il concetto di quel che è immediatamente buono spetterebbe soltanto a ciò con cui è legata immediatamente la sensazione del p i a c e r e , e il concetto di quel che è assolutamente cattivo, dovrebbe soltanto esser riferito a ciò che reca immediatamente d o l o r e . Ma siccome ciò è già contrario all’uso linguistico, il quale distingue il p i a c e v o l e dal b e n e , lo s p i a c e v o l e dal m a l e , e richiede che il bene e il male siano sempre giudicati mediante la ragione, e quindi mediante concetti che si possano comunicare universalmente, e non mediante la semplice sensazione la quale si limita agli oggetti particolari e alla loro recettività, mentre per se stessi un piacere o un dispiacere non possono esser legati immediatamente con nessuna rappresentazione di un oggetto a p r i o r i ; così il filosofo che si credesse obbligato a porre un sentimento di piacere a base del suo giudizio pratico, chiamerebbe b u o n o ciò che è un m e z z o al piacevole, e c a t t i v o ciò che è c a u s a del dispiacere e del dolore; poiché il giudizio della relazione dei mezzi ai fini appartiene certamente alla ragione. Ma quantunque soltanto la ragione sia in grado di vedere la connessione dei mezzi con i loro fini (sicché si potrebbe anche definire la volontà mediante la facoltà dei fini, poiché i fini sono sempre motivi determinanti della facoltà di desiderare secondo princìpi), pure le massime pratiche che deriverebbero semplicemente come mezzi dal concetto su menzionato del bene, non conterrebbero mai

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mo niente, se non per riguardo al nostro Wohl o al nostro Weh; invece viene espressa in modo indubitamente certo, e nello stesso tempo affatto chiaramente, se è resa così: noi non vogliamo niente, secondo la direzione della ragione, che in quanto lo riteniamo gut o böse. Wohl o Uebel significano sempre soltanto una relazione al nostro stato di p i a c e r e o d i s p i a c e r e , di contentezza o di dolore; e, se noi perciò desideriamo un oggetto, o lo detestiamo, ciò accade solo in quanto esso vien riferito alla nostra sensibilità, e al sentimento del piacere o del dispiacere che esso produce. Ma Gute o Böse significano sempre una relazione alla v o l o n t à , in quanto questa è determinata mediante la l e g g e r a z i o n a l e a far di qualcosa il suo oggetto; perché essa non è mai determinata immediatamente mediante l’oggetto e la sua rappresentazione, ma è una facoltà di farsi di una regola della ragione la causa determinante di un’azione (mediante la quale un oggetto può diventar reale). Gute o Böse sono dunque propriamente riferiti ad azioni, non allo stato sensibile della persona; e se qualcosa dovesse esser semplicemente (e sotto ogni rispetto e senz’altra condizione) gut o böse o esser ritenuto tale, sarebbe soltanto il modo d’agire, la massima della volontà, e quindi la persona stessa agente come uomo buono o cattivo, ma non una cosa che potrebbe esser chiamata tale. Si può sempre ridere dello stoico che nei più violenti dolori artritici gridava: Dolore tu mi puoi ancora tormentar tanto, tuttavia io non riconoscerò mai che tu sia qualcosa di male16 (kakóu, malum)!; eppure egli aveva ragione. Ciò che sentiva, e che il suo grido accusava, era un Uebel; egli non aveva alcuna ragione di ammettere che per questo egli aveva un Böses; poiché il dolore non diminuiva minimamente il valore della sua persona, ma solo il valore del suo stato. Una sola bugia, della quale egli fosse stato conscio, avrebbe dovuto abbattere il suo animo. Ma il dolore serviva soltanto ad elevarlo, se egli era conscio di non averlo meritato con nessun’azione ingiusta e di non essersi in tal modo reso meritevole di castigo. Ciò che noi dobbiamo chiamar gut, dev’essere nel giudizio di ogni uomo ragionevole un oggetto della facoltà di desiderare;

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das Böse in den Augen von jedermann ein Gegenstand des Abscheues; mithin bedarf es außer dem Sinne zu dieser Beurteilung noch | Vernunft. So ist es mit der Wahrhaftigkeit im Gegensatz mit der Lüge, so mit der Gerechtigkeit im Gegensatz der Gewalftätigkeit usw. bewandt. Wir können aber etwas ein Übel nennen, welches doch jedermann zugleich für gut, bisweilen mittelbar, bisweilen gar unmittelbar erklären muß. Der eine chirurgische Operation an sich verrichten läßt, fühlt sie ohne Zweifel als ein Übel; aber durch Vernunft erklärt er und jedermann sie für gut. Wenn aber jemand, der friedliebende Leute gerne neckt und beunruhigt, endlich einmal anläuft und mit einer tüchtigen Tracht Schläge abgefertigt wird, so ist dieses allerdings ein Übel, aber jedermann gibt dazu seinen Beifall und hält es an sich für gut, wenn auch nichts weiter daraus entspränge; ja selbst der, der sie empfängt, muß in seiner Vernunft erkennen, daß ihm recht geschehe, weil er die Proportion zwischen dem Wohlbefinden und Wohlverhalten, welche die Vernunft ihm unvermeidlich vorhält, hier genau in Ausübung gebracht sieht. Es kommt allerdings auf unser Wohl und Weh in der Beurteilung unserer praktischen Vernunft gar s e h r v i e l und, was unsere Natur als sinnlicher Wesen betrifft, a l l e s auf unsere G l ü c k s e l i g k e i t an, wenn diese, wie Vernunft es vorzüglich fordert, nicht nach der vorübergehenden Empfindung, sondern nach dem Einflusse, den diese Zufälligkeit auf unsere ganze Existenz und die Zufriedenheit mit derselben hat, beurteilt | wird; aber a l l e s ü b e r h a u p t kommt darauf doch nicht an. Der Mensch ist ein bedürftiges Wesen, sofern er zur Sinnenwelt gehört, und sofern hat seine Vernunft allerdings einen nicht abzulehnenden Auftrag von seiten der Sinnlichkeit, sich um das Interesse derselben zu bekümmern und sich praktische Maximen auch in Absicht auf die Glückseligkeit dieses und womöglich auch eines zukünftigen Lebens zu machen. Aber er ist doch nicht so ganz Tier, um gegen alles, was Vernunft für sich selbst sagt, gleichgültig zu sein und diese bloß zum Werkzeuge der Befriedigung seines Bedürfnisses als Sinnenwesens zu gebrauchen. Denn im Werte über die bloße Tierheit erhebt ihn das gar nicht, daß er Vernunft hat, wenn sie ihm nur zum Behuf desjenigen dienen soll, was bei Tieren der Instinkt verrichtet; sie wäre alsdann nur eine besondere Manier, deren sich die Na-

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e il Böse dev’essere agli occhi di ognuno un oggetto di avversione, e quindi per questo giudizio occorre, oltre al senso, ancora la ragione. Così è della veracità in opposizione alla menzogna, della giustizia in opposizione alla violenza, ecc. Ma noi possiamo chiamare un Uebel qualcosa, che nello stesso tempo ognuno deve dichiarare gut, a volte mediatamente, a volte affatto immediatamente. Chi si lascia fare un’operazione chirurgica, la sente senza dubbio come un Uebel, ma mediante la ragione egli, e ognuno, la dichiarano gut. Ma, se ad alcuno che stuzzica e infastidisce volentieri la gente pacifica, una volta finalmente càpita male, ed è spedito con una buona carica di busse; questo è senza dubbio un Uebel, ma a cui ognuno dà la propria approvazione, e lo ritiene gut in sé, anche se non ne risulta niente di più; ed anzi quello stesso che riceve le busse nella sua ragione deve riconoscere che ben gli sta, perché in questo caso egli vede messa rigorosamente in pratica quella proporzione fra il benessere e la buona condotta che la ragione gli presenta inevitabilmente. Senza dubbio, il giudizio della nostra ragion pratica dipende n e l l a m a s s i m a p a r t e dal nostro Wohl e dal nostro Weh, e, per quel che riguarda la nostra natura di esseri sensibili, tutto dipende dalla nostra f e l i c i t à , se questa, come la ragione richiede principalmente, non viene giudicata secondo la sensazione transitoria, ma secondo l’influsso che questo caso fortuito ha su tutta la nostra esistenza e sulla contentezza di questa; ma pure non t u t t o i n g e n e r e dipende da questo. L’uomo è un essere che ha bisogni in quanto appartiene al mondo sensibile; e in questo la sua ragione ha certamente un compito; che non può rifiutare da parte della sensibilità, di curarsi dell’interesse di essa e di farsi delle massime pratiche riguardo alla felicità di questa vita, e, se è possibile, anche di una vita avvenire. Ma, tuttavia, egli non è affatto così animale, da essere indifferente a tutto ciò che la ragione per se stessa dice, e da usar questa solo come strumento del suo bisogno, in quanto egli è essere sensibile. Poiché al pregio di essere al di sopra della semplice animalità, non lo innalza per niente il fatto di possedere la ragione, se essa gli deve servire soltanto a ciò che l’istinto fa negli animali; in tal caso la ragione sarebbe soltanto una maniera particolare di cui la

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tur bedient hätte, um den Menschen zu demselben Zwecke, dazu sie Tiere bestimmt hat, auszurüsten, ohne ihn zu einem höheren Zwecke zu bestimmen. Er bedarf also freilich, nach dieser einmal mit ihm getroffenen Naturanstalt, Vernunft, um sein Wohl und Weh jederzeit in Betrachtung zu ziehen, aber er hat sie überdem noch zu einem höheren Beruf, nämlich auch das, was an sich gut oder böse ist, und worüber reine, sinnlich gar nicht interessierte Vernunft nur allein urteilen kann, nicht allein mit in Überlegung zu nehmen, sondern diese Beurteilung | von jener gänzlich zu unterscheiden und sie zur obersten Bedingung des letzteren zu machen. In dieser Beurteilung des an sich Guten und Bösen zum Unterschiede von dem, was nur beziehungsweise auf Wohl oder Übel so genannt werden kann, kommt es auf folgende Punkte an. Entweder ein Vernunftprinzip wird schon an sich als der Bestimmungsgrund des Willens gedacht, ohne Rücksicht auf mögliche Objekte des Begehrungsvermögens (also bloß durch die gesetzliche Form der Maxime); alsdann ist jenes Prinzip praktisches Gesetz a priori und reine Vernunft wird für sich praktisch zu sein angenommen. Das Gesetz bestimmt alsdann u n m i t t e l b a r den Willen, die ihm gemäße Handlung ist an s i c h s e l b s t g u t , ein Wille, dessen Maxime jederzeit diesem Gesetze gemäß ist, ist s c h l e c h t e r d i n g s , i n a l l e r A b s i c h t g u t und d i e o b e r s t e B e d i n g u n g a l l e s G u t e n . Oder es geht ein Bestimmungsgrund des Begehrungsvermögens vor der Maxime des Willens vorher, der ein Objekt der Lust und Unlust voraussetzt, mithin etwas, das v e r g n ü g t oder s c h m e r z t , und die Maxime der Vernunft, jene zu befördern, diese zu vermeiden, bestimmt die Handlungen, wie sie beziehungsweise auf unsere Neigung, mithin nur mittelbar (in Rücksicht auf einen anderweitigen Zweck, als Mittel zu demselben) gut sind, und diese Maximen können alsdann niemals Gesetze, dennoch aber vernünftige praktische Vorschriften heißen. Der Zweck | selbst, das Vergnügen, das wir suchen, ist im letzteren Falle nicht ein G u t e s , sondern ein Wo h l , nicht ein Begriff der Vernunft, sondern ein empirischer Begriff von einem Gegenstande der Empfindung; allein der Gebrauch des Mittels dazu, d. i. die Handlung (weil dazu vernünftige Überlegung erfordert wird), heißt dennoch gut, aber nicht schlechthin, sondern nur in Beziehung auf unsere Sinnlichkeit in Ansehung ihres Gefühls der

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natura si sarebbe servita per indirizzare l’uomo allo stesso fine a cui ha determinato gli animali, senza determinarlo a un fine superiore. Egli dunque, secondo la disposizione della natura a suo riguardo, abbisogna certamente della ragione per tener sempre presente il suo Wohl e il suo Weh; ma egli ha la ragione anche per un fine superiore, cioè non solo per considerare anche ciò che è gut o böse in sé, e di cui può giudicare soltanto la ragion pura, affatto disinteressata dal punto di vista sensibile, ma per distinguere assolutamente questo giudizio da quello, e far di esso la condizione suprema dell’altro. In questo giudizio del bene e del male in sé, a differenza di ciò che può essere chiamato tale solo relativamente al Wohl o all’Uebel, si tratta di considerare i punti seguenti. O un principio razionale vien già considerato in sé come il motivo determinante della volontà, senza riguardo agli oggetti possibili della facoltà di desiderare (dunque solo mediante la forma di legge della massima); e allora quel principio è una legge pratica a p r i o r i , e la ragion pura è da ammettere come pratica per sé. Allora la legge determina i m m e d i a t a m e n t e la volontà; l’azione conforme a questa legge è gut in se stessa; una volontà, la cui massima è sempre conforme a questa legge, e gut a s s o l u t a m e n t e , s o t t o o g n i r i s p e t t o , ed è la c o n d i z i o n e s u p r e m a d i o g n i b e n e . Oppure alla massima della volontà va innanzi un motivo determinante della facoltà di desiderare, il quale suppone un oggetto di piacere o dispiacere, e quindi qualcosa che c o n t e n t a o a d d o l o r a ; e la massima della ragione, di secondar quello e di fuggir questo, determina le azioni, in quanto sono gut relativamente alle nostre inclinazioni, e quindi gut soltanto mediatamente (rispetto a un altro fine, come mezzo ad esso); e allora queste massime non possono mai chiamarsi leggi, ma precetti pratici razionali. Il fine stesso, la contentezza che noi cerchiamo, nell’ultimo caso non è un Gutes ma un Wohl, non un concetto della ragione, ma un concetto empirico di un oggetto della sensazione; solo l’uso del mezzo conveniente, cioè l’azione (giacché per questo si richiede una considerazione razionale) si dice tuttavia gut, non semplicemente, ma soltanto in relazione alla nostra sensibilità rispetto al suo sentimento del piacere e del

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Lust und Unlust; der Wille aber, dessen Maxime dadurch affiziert wird, ist nicht ein reiner Wille, der nur auf das geht, wobei reine Vernunft für sich selbst praktisch sein kann. Hier ist nun der Ort, das Paradoxon der Methode in einer Kritik der praktischen Vernunft zu erklären: d a ß n ä m l i c h d e r Begriff des Guten und Bösen nicht vor dem moralischen Gesetze (dem er dem Anschein nach sogar zum Grunde gelegt werden müßte), sondern nur (wie hier auch geschieht) nach demselben und d u r c h d a s s e l b e b e s t i m m t w e r d e n m ü s s e . Wenn wir nämlich auch nicht wüßten, daß das Prinzip der Sittlichkeit ein reines, a priori den Willen bestimmendes Gesetz sei, so müßten wir doch, um nicht ganz umsonst (gratis) Grundsätze anzunehmen, es anfänglich wenigstens u n a u s g e m a c h t lassen, ob der Wille bloß empirische oder auch reine Bestimmungsgründe a priori habe; denn es ist wider alle Grundregeln des philosophischen Verfahrens, das, | worüber man allererst entscheiden soll, schon zum voraus als entschieden anzunehmen. Gesetzt wir wollten nun vom Begriffe des Guten anfangen, um davon die Gesetze des Willens abzuleiten, so würde dieser Begriff von einem Gegenstande (als einem guten) zugleich diesen als den einzigen Bestimmungsgrund des Willens angeben. Weil nun dieser Begriff kein praktisches Gesetz a priori zu seiner Richtschnur hatte, so könnte der Probierstein des Guten oder Bösen in nichts anderem als in der Übereinstimmung des Gegenstandes mit unserem Gefühle der Lust oder Unlust gesetzt werden, und der Gebrauch der Vernunft könnte nur darin bestehen, teils diese Lust oder Unlust im ganzen Zusammenhange mit allen Empfindungen meines Daseins, teils die Mittel, mir den Gegenstand derselben zu verschaffen, zu bestimmen. Da nun, was dem Gefühle der Lust gemäß sei, nur durch Erfahrung ausgemacht werden kann, das praktische Gesetz aber der Angabe nach doch darauf als Bedingung gegründet werden soll, so würde geradezu die Möglichkeit praktischer Gesetze a priori ausgeschlossen; weil man vorher nötig zu finden meinte, einen Gegenstand für den Willen auszufinden, davon der Begriff als eines guten den allgemeinen, obzwar empirischen Bestimmungsgrund des Willens ausmachen müsse. Nun aber war doch vorher nötig zu untersuchen,

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dispiacere; ma la volontà, la cui massima è da ciò influenzata, non è una volontà pura, che riguarda soltanto ciò in cui la ragion pura può essere per se stessa pratica. Ecco qui il luogo di spiegare il paradosso del metodo di una Critica della ragion pratica: c h e c i o è i l c o n c e t t o d e l bene e del male non deve esser determinato prima della legge morale (a cui esso in apparenza dovrebbe esser posto a base), ma soltanto (come anche qui avviene) dopo di essa e mediante e s s a . Cioè, anche se non sapessimo che il principio della moralità è una legge pura a p r i o r i che determina la volontà, pure dovremmo, per non ammettere dei princìpi del tutto gratuiti (gratis), lasciare i n d e t e r m i n a t o , almeno inizialmente, se la volontà abbia solo motivi determinanti empirici, o anche puri a p r i o r i ; poiché è contro tutte le regole fondamentali del procedimento filosofico ammettere come già risolto ciò che si deve ancora risolvere. Posto che ora volessimo cominciare dal concetto del bene, per far derivare da esso le leggi della volontà, questo concetto di un oggetto (come buono) darebbe nello stesso tempo questo oggetto come l’unico motivo determinante della volontà. Ora, siccome questo concetto non avrebbe nessuna legge pratica a p r i o r i per sua regola; così la pietra di paragone del bene o del male non potrebbe consistere in altro che nella concordanza dell’oggetto col nostro sentimento del piacere o del dispiacere, e l’uso della ragione potrebbe consistere solo in questo, nel determinare questo piacere o dispiacere nella connessione completa con tutte le sensazioni della mia esistenza, e così, pure i mezzi di procurarmi l’oggetto di esso. Ora, siccome può esser determinato solo mediante l’esperienza ciò che è conforme al sentimento del piacere; e la legge pratica, secondo il dato, dovrebbe esser tuttavia fondata su questo sentimento come su condizione; sarebbe così esclusa affatto la possibilità di leggi pratiche a p r i o r i ; perché si crederebbe necessario trovare prima un oggetto della volontà, il concetto del quale, come concetto di un bene dovrebbe costituire il motivo determinante universale, benché empirico, della volontà. Ma pure era necessario ricercare prima, se non vi sia anche un motivo determi-

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ob es nicht auch einen Bestimmungsgrund des Willens a priori gebe (welcher nie|mals irgendwo anders als in einem reinen praktischen Gesetze, und zwar sofern dieses die bloße gesetzliche Form ohne Rücksicht auf einen Gegenstand den Maximen vorschreibt, wäre gefunden worden). Weil man aber schon einen Gegenstand nach Begriffen des Guten und Bösen zum Grunde alles praktischen Gesetzes legte, jener aber ohne vorhergehendes Gesetz nur nach empirischen Begriffen gedacht werden konnte, so hatte man sich die Möglichkeit, ein reines praktisches Gesetz auch nur zu denken, schon zum voraus benommen; da man im Gegenteil, wenn man dem letzteren vorher analytisch nachgeforscht hätte, gefunden haben würde, daß nicht der Begriff des Guten als eines Gegenstandes das moralische Gesetz, sondern umgekehrt das moralische Gesetz allererst den Begriff des Guten, sofern es diesen Namen schlechthin verdient, bestimme und möglich mache. Diese Anmerkung, welche bloß die Methode der obersten moralischen Untersuchungen betrifft, ist von Wichtigkeit. Sie erklärt auf einmal den veranlassenden Grund aller Verirrungen der Philosophen in Ansehung des obersten Prinzips der Moral. Denn sie suchten einen Gegenstand des Willens auf, um ihn zur Materie und dem Grunde eines Gesetzes zu machen (welches alsdann nicht unmittelbar, sondern vermittelst jenes an das Gefühl der Lust oder Unlust gebrachten Gegenstandes der Bestimmungsgrund des Willens sein | sollte), anstatt daß sie zuerst nach einem Gesetze hätten forschen sollen, das a priori und unmittelbar den Willen und diesem gemäß allererst den Gegenstand bestimmte. Nun mochten sie diesen Gegenstand der Lust, der den obersten Begriff des Guten abgeben sollte, in der Glückseligkeit, in der Vollkommenheit, im moralischen Gefühl oder im Willen Gottes setzen, so war ihr Grundsatz allemal Heteronomie, sie mußten unvermeidlich auf empirische Bedingungen zu einem moralischen Gesetze stoßen: weil sie ihren Gegenstand als unmittelbaren Bestimmungsgrund des Willens nur nach seinem unmittelbaren Verhalten zum Gefühl, welches allemal empirisch ist, gut oder böse nennen konnten. Nur ein formales Gesetz, d. i. ein solches, welches der Vernunft nichts weiter als die Form ihrer allgemeinen Gesetzgebung zur obersten Bedingung der Maximen vorschreibt, kann a priori ein Bestimmungsgrund der praktischen Vernunft sein. Die Alten verrieten in-

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nante a p r i o r i della volontà (il quale non si sarebbe mai trovato altrove che in una legge pura pratica, e invero in quanto questa prescrive alle massime la semplice forma di legge senza riguardo a un oggetto). Ma siccome si era già posto a base di ogni legge pratica un oggetto determinato secondo i concetti del bene e del male, senza una legge precedente; e siccome esso poteva esser pensato soltanto secondo concetti empirici, così si era già tolta la possibilità anche solo di pensare una legge pura pratica; mentre invece, se si fosse ricercata prima analiticamente questa legge, si sarebbe trovato che non è il concetto del bene, come concetto di un oggetto, che determina e rende possibile la legge morale, ma al contrario è la legge morale che anzitutto determina e rende possibile il concetto del bene, in quanto esso meriti davvero questo nome. Quest’osservazione, che riguarda semplicemente il merito delle supreme ricerche morali, è importante. Essa espone in una volta sola la causa occasionale di tutti gli errori dei filosofi relativamente al supremo principio della morale. Essi infatti cercavano un oggetto della volontà, per fare di esso la materia e il fondamento di una legge (la quale allora non immediatamente, ma mediante quell’oggetto riferito al sentimento del piacere o del dispiacere, dovrebbe essere il motivo determinante della volontà), laddove essi avrebbero dovuto prima cercare una legge che determinasse a p r i o r i e immediatamente la volontà, e solo conforme a questa legge l’oggetto. Ora essi potevano riporre quest’oggetto del piacere, che doveva dare il concetto del bene, nella felicità, nella perfezione, nel sentimento morale17, o nella volontà di Dio; ma il loro principio era sempre eteronomia, ed essi dovevano inevitabilmente riuscire a condizioni empiriche per una legge morale, perché potevano chiamar buono o cattivo il loro oggetto, come motivo determinante immediato della volontà, soltanto secondo la sua relazione immediata al sentimento, il quale è sempre empirico. Soltanto una legge formale, cioè tale che non prescriva alla ragione niente altro che la forma della sua legislazione universale come condizione suprema delle massime, può essere a p r i o r i un motivo determinante della ragion pratica. Gli antichi lasciavano vedere chiaramente que-

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dessen diesen Fehler dadurch unverhohlen, daß sie ihre moralische Untersuchung gänzlich auf die Bestimmung des Begriffs vom h ö c h s t e n G u t , mithin eines Gegenstandes setzten, welchen sie nachher zum Bestimmungsgrunde des Willens im moralischen Gesetze zu machen gedachten: ein Objekt, welches weit hinterher, wenn das moralische Gesetz allererst für sich bewährt und als unmittelbarer Bestimmungsgrund des Willens gerechtfertigt ist, dem nunmehr seiner Form nach a priori be|stimmten Willen als Gegenstand vorgestellt werden kann, welches wir in der Dialektik der reinen praktischen Vernunft uns unterfangen wollen. Die Neueren, bei denen die Frage über das höchste Gut außer Gebrauch gekommen, zum wenigsten nur Nebensache geworden zu sein scheint, verstecken obigen Fehler (wie in vielen anderen Fällen) hinter unbestimmten Worten, indessen daß man ihn gleichwohl aus ihren Systemen hervorblicken sieht, da er alsdann allenthalben Heteronomie der praktischen Vernunft verrät, daraus nimmermehr ein a priori allgemein gebietendes moralisches Gesetz entspringen kann. Da nun die Begriffe des Guten und Bösen, als Folgen der Willensbestimmung a priori, auch ein reines praktisches Prinzip, mithin eine Kausalität der reinen Vernunft voraussetzen, so beziehen sie sich ursprünglich nicht (etwa als Bestimmungen der synthetischen Einheit des Mannigfaltigen gegebener Anschauungen in einem Bewußtsein) auf Objekte, wiedie reinen Verstandesbegriffe oder Kategorien der theoretisch gebrauchten Vernunft, sie setzen diese vielmehr als gegeben voraus; sondern sie sind insgesamt Modi einer einzigen Kategorie, nämlich der der Kausalität, sofern der Bestimmungsgrund derselben in der Vernunftvorstellung eines Gesetzes derselben besteht, welches, als Gesetz der Freiheit, die Vernunft sich selbst gibt und dadurch sich a priori als praktisch beweist. Da indes|sen die Handlungen e i n e r s e i t s zwar unter einem Gesetze, das kein Naturgesetz, sondern ein Gesetz der Freiheit ist, folglich zu dem Verhalten intelligibeler Wesen, a n d e r e r s e i t s aber doch auch, als Begebenheiten in der Sinnenwelt, zu den Erscheinungen gehören, so werden die Bestimmungen einer praktischen Vernunft nur in Beziehung auf die letztere, folglich zwar den Kategorien des Verstandes gemäß, aber nicht in der Absicht eines theoretischen Gebrauchs desselben, um das Mannigfal-

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st’errore riponendo interamente la loro ricerca morale nella determinazione del concetto del sommo bene, e perciò di un oggetto del quale essi pensavano di fare il motivo determinante della volontà nella legge morale: un oggetto il quale, molto dopo, quando la legge morale sia già stata ben confermata per se stessa, e giustificata come il motivo determinante immediato della volontà, può esser rappresentato come oggetto alla volontà ormai determinata a p r i o r i quanto alla sua forma; il che noi intraprenderemo nella dialettica della ragion pura pratica. I moderni, presso i quali la questione del sommo bene sembra sia andata in disuso, o almeno sia diventata una questione soltanto secondaria, nascondono l’errore menzionato (come in molti altri casi) sotto parole indeterminate; tuttavia lo si vede spuntar fuori dai loro sistemi, dove riesce a ogni sorta di eteronomie della ragion pratica, donde non può mai risultare una legge morale che comandi universalmente a p r i o r i . Ora, siccome i concetti del bene e del male, quali conseguenze della determinazione a p r i o r i della volontà, suppongono anche un principio puro pratico, e quindi una causalità della ragion pura; così essi non si riferiscono originalmente (quasi come determinazioni dell’unità sintetica del molteplice di intuizioni date in una coscienza) ad oggetti, come i concetti puri dell’intelletto, ossia le categorie della ragione usata teoreticamente, ché al contrario essi suppongono questi oggetti come dati; ma sono tutti m o d i di una sola categoria, cioè di quella della causalità, in quanto il motivo determinante di essi consiste nella rappresentazione razionale di una loro legge, la quale, come legge della libertà, la ragione dà a se stessa, e così si dimostra a p r i o r i come pratica. Tuttavia, siccome le azioni, da u n a p a r t e appartengono a una legge che non è una legge naturale, ma una legge della libertà, e quindi riguardante il modo di procedere di esseri intelligibili, ma d’ a l t r a p a r t e appartengono anche, come eventi del mondo sensibile, ai fenomeni; così le determinazioni di una ragion pratica potranno aver luogo soltanto in relazione ai fenomeni, e quindi certamente in conformità alle categorie dell’intelletto, ma non al fine di un uso teoretico di esso, [ossia] per ricondurre il molteplice dell’ i n t u i z i o n e (sen-

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tige der (sinnlichen) A n s c h a u u n g unter ein Bewußtsein a priori zu bringen, sondern nur um das Mannigfaltige der B e g e h r u n g e n der Einheit des Bewußtseins einer im moralisehen Gesetze gebietenden praktischen Vernunft oder eines reinen Willens a priori zu unterwerfen, statthaben können. Diese K a t e g o r i e n d e r F r e i h e i t , denn so wollen wir sie statt jener theoretischen Begriffe als Kategorien der Natur benennen, haben einen augenscheinlichenVorzug vor den letzteren, daß, da diese nur Gedankenformen sind, welche nur unbestimmt Objekte überhaupt für jede uns mögliche Anschauung durch allgemeine Begriffe bezeichnen, diese hingegen, da sie auf die Bestimmung einer f r e i e n W i l l k ü r gehen (der zwar keine Anschauung völlig korrespondierend gegeben werden kann, die aber, welches bei keinen Begriffen des theoretischen Gebrauchs unseres Erkenntnisvermögens stattfindet, ein reines.praktischen Gesetz a priori zum Grunde | liegen hat), als praktische Elementarbegriffe statt der Form der Anschauung (Raum und Zeit), die nicht in der Vernunft selbst liegt, sondern anderwärts, nämlich von der Sinnlichkeit hergenommen werden muß, die F o r m e i n e s r e i n e n W i l l e n s in ihr, mithin dem Denkungsvermögen selbst, als gegeben zum Grunde liegen haben; dadurch es denn geschieht, daß, da es in allen Vorschriften der reinen praktischen Vernunft nur um die W i l l e n s b e s t i m m u n g , nicht um die Naturbedingungen (des praktischen Vermögens) der A u s f ü h r u n g s e i n e r A b s i c h t zu tun ist, die praktischen Begriffe a priori in Beziehung auf das oberste Prinzip der Freiheit sogleich Erkenntnisse werden und nicht auf Anschauungen warten dürfen, um Bedeutung zu bekommen, und zwar aus diesem merkwürdigen Grunde, weil sie die Wirklichkeit dessen, worauf sie sich beziehen (die Willenegesinnung) selbst hervorbringen, welches gar nicht die Sache theoretischer Begriffe ist. Nur muß man wohl bemerken, daß diese Kategorien nur die praktische Vernunft überhaupt angehen, und so in ihrer Ordnung von den moralisch noch unbestimmten und sinnlich-bedingten zu denen, die, sinnlich-unbedingt, bloß durchs moralische Gesetz bestimmt sind, fortgehen.

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sibile) sotto una coscienza a p r i o r i , ma soltanto per assoggettare il molteplice dei d e s i d e r i dell’unità della coscienza di una ragion pratica, che comanda nella legge morale, o di una volontà pura a p r i o r i . Queste c a t e g o r i e d e l l a l i b e r t à , poiché così vogliamo chiamarle, mentre quei concetti teoretici chiamiamo categorie della natura, hanno un vantaggio evidente su queste ultime. Poiché, laddove queste sono soltanto forme del pensiero, le quali, mediante concetti universali, denotano soltanto oggetti indeterminati in genere per ogni intuizione a noi possibile, quelle invece, riferendosi alla determinazione di un l i b e r o a r b i t r i o (al quale invero non può esser data nessuna intuizione pienamente corrispondente, ma che ha a fondamento una legge pura pratica a p r i o r i , il che non avviene con nessun concetto dell’uso teoretico della nostra facoltà di conoscere) come concetti pratici elementari, invece della forma dell’intuizione (spazio e tempo), che non si trova nella ragione stessa ma dev’essere ricavata altrove, e cioè dalla sensibilità, hanno nella volontà libera, e perciò nella stessa facoltà di pensare la f o r m a d i u n a v o l o n t à p u r a come fondamento intrinseco. Per cui avviene poi che, siccome in tutti i precetti della ragion pura pratica si tratta soltanto della d e t e r m i n a z i o n e d e l l a v o l o n t à , e non delle condizioni naturali (della facoltà pratica) dell’ a t t u a z i o n e d e l s u o f i n e , i concetti pratici a p r i o r i in relazione col principio supremo della libertà diventano tosto conoscenze, e non devono aspettare le intuizioni per avere un significato; e questo per l’importante ragione che producono essi stessi la realtà di quello a cui si riferiscono (l’intenzione della volontà), il che non succede punto coi concetti teoretici. Solo si deve notare bene che queste categorie riguardano esclusivamente la ragion pratica in generale; e così procedono nel loro ordine da quelle che sono ancora indeterminate moralmente e condizionate sensibilmente, a quelle che, incondizionate sensibilmente, sono determinate solo mediante la legge morale.

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| TAFEL DER KATEGORIEN DER FREIHEIT ANSEHUNG DER BEGRIFFE DES GUTEN UND BÖSEN

1. DER QUANTITÄT

2. DER QUALITÄT

3. DER RELATION

4. DER MODALITÄT

Subjektiv, nach Maximen (Willensmeinungen des Individuums). Objektiv, nach Prinzipien (Vorschriften). A priori objektive sowohl als subjektive Prinzipien der freiheit (Gesetze).

Praktische Regeln des Begehens (praeceptivae). Praktische Regeln des Unterlassens ( prohibitivae). Praktische Regeln der Ausnahmen (exceptivae).

Auf die Persönlichkeit. Auf den Zustand der Person. Wechselseitig einer Person auf den Zustand der anderen.

Das Erlaubte und Unerlaubte. Die Pflicht und das Pflichtwidrige. Vo l l k o m m e n e und unvollkommene Pflicht.

Man wird hier bald gewahr, daß in dieser Tafel die Freiheit als eine Art von Kausalität, die aber empirischen Bestimmungsgründen nicht unterworfen ist, in Ansehung der durch sie möglichen Handlungen als Erscheinungen in der Sinnenwelt betrachtet werde, folglich sich auf die Kategorien ihrer Naturmöglichkeit beziehe, indessen daß doch jede Kategorie so allgemein genommen wird, daß der Bestimmungsgrund jener Kausalität auch außer der Sinnenwelt in der Freiheit als Eigenschaft eines intelligibelen Wesens angenommen werden kann, bis die Kategorien der Modalität den Übergang von praktischen Prinzipien überhaupt zu denen der Sittlichkeit, aber nur p r o b l e m a t i s c h einleiten, welche nachher durchs moralische Gesetz allererst d o g m a t i s c h dargestellt werden können. Ich füge hier nichts weiter zur Erläuterung gegenwärtiger Tafel bei, weil sie für sich verständlich genug ist. Dergleichen nach Prinzipien abgefaßte Einteilung ist aller Wissenschaft, ihrer Gründlichkeit sowohl als Verständlichkeit halber, sehr zuträglich. So weiß man z. B. aus obiger Tafel und der ersten Nummer derselben sogleich, wovon man in praktischen Erwägungen anfangen müsse: von den Maximen, die jeder auf seine Neigung gründet, den Vorschriften, die für eine Gattung vernünftiger Wesen, sofern sie in gewissen Neigungen übereinkommen, gelten, und endlich dem Gesetze, welches für alle unangesehen ihrer Nei|gungen gilt usw. Auf

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TAVOLA DELLE CATEGORIE DELLA LIBERTÀ,

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IN RELAZIONE AI CONCETTI DEL BENE E DEL MALE

1. DELLA QUANTITÀ Soggettiva, secondo massime (opinioni pratiche dell’individuo). Oggettiva, secondo princìpi (precetti). Princìpi a priori, tanto oggettivi come soggettivi, della libertà (leggi).

2. DELLA QUALITÀ

3. DELLA RELAZIONE

4. DELLA MODALITÀ

Regole pratiche Alla personalità. dell’azione (praecepAllo stato della tivae). persona. Regole, pratiche Reciproca di una d e l l ’ o m i s s i o n e persona allo stato (prohibitivae). dell’altra. Regole pratiche dell’eccezione (exceptivae).

Il lecito e l’illecito. Il dovere e il contrario al dovere. Dovere perfetto e dovere imperfetto.

Si vede presto che, in questa tavola, la libertà vien considerata come una specie di causalità, la quale però non è soggetta a motivi determinanti empirici rispetto alle azioni che essa può produrre come fenomeni nel mondo sensibile, e che quindi essa si riferisce alle categorie della loro possibilità naturale, mentre ogni categoria vien presa così universalmente che il motivo determinante di quella causalità può anche esser supposto fuori del mondo sensibile, nella libertà come proprietà di un essere intelligibile, finché le categorie della modalità dispongono il passaggio, ma soltanto p r o b l e m a t i c a m e n t e , dai princìpi pratici in genere a quelli della moralità, i quali poi possono essere stabiliti d o m m a t i c a m e n t e soltanto mediante la legge morale. Non aggiungo nient’altro qui a spiegazione della presente tavola, perché essa è abbastanza chiara per sé. Una simile divisione fatta secondo princìpi e assai utile a ogni scienza, tanto per la sua saldezza come per la sua chiarezza. Così, per es., dalla tavola precedente e dal primo numero di essa si sa subito di dove si deve cominciare nelle considerazioni pratiche: dalle massime, che ognuno fonda sulle sue inclinazioni; dai precetti, che valgono per una specie di esseri razionali in quanto essi convengono in certe inclinazioni; e, infine, dalla legge, che vale per tutti,

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diese Weise übersieht man den ganzen Plan von dem, was man zu leisten hat, sogar jede Frage der praktischen Philosophie, die zu beantworten, und zugleich die Ordnung, die zu befolgen ist. VON DER TYPIK DER REINEN PRAKTISCHEN URTEILSKRAFT.

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Die Begriffe des Guten und Bösen bestimmen dem Willen zuerst ein Objekt. Sie stehen selbst aber unter einer praktischen Regel der Vernunft, welche, wenn sie reine Vernunft ist, den Willen a priori in Ansehung seines Gegenstandes bestimmt. Ob nun eine uns in der Sinnlichkeit mögliche Handlung der Fall sei, der unter der Regel stehe oder nicht, dazu gehört praktische Urteilskraft, wodurch dasjenige, was in der Regel allgemein (in abstracto) gesagt wurde, auf eine Handlung in concreto angewandt wird. Weil aber eine praktische Regel der reinen Vernunft e r s t l i c h , a l s p r a k t i s c h , die Existenz eines Objekts betrifft, und z w e i t e n s , als p r a k t i s c h e R e g e l der reinen Vernunft, Notwendigkeit in Ansehung des Daseins der Handlung bei sich führt, mithin praktisches Gesetz ist, und zwar nicht Naturgesetz durch empirische Bestimmungsgründe, sondern ein Gesetz der Freiheit, nach welchem der Wille unabhängig von allem Empirischen (bloß durch die Vorstellung eines Gesetzes überhaupt und dessen | Form) bestimmbar sein soll, alle vorkommenden Fälle zu möglichen Handlungen aber nur empirisch, d. i. zur Erfahrung und Natur gehörig sein können: so scheint es widersinnisch, in der Sinnenwelt einen Fall antreffen zu wollen, der, da er immer sofern nur unter dem Naturgesetze steht, doch die Anwendung eines Gesetzes der Freiheit auf sich verstatte, und auf welchen die übersinnliche Idee des Sittlichguten, das darin in concreto dargestellt werden soll, angewandt werden könne. Also ist die Urteilskraft der reinen praktischen Vernunft ebendenselben Schwierigkeiten unterworfen als die der reinen theoretischen, welche letztere gleichwohl aus denselben zu kommen ein Mittel zur Hand hatte: nämlich, da es in Ansehung des theoretischen Gebrauchs auf Anschauungen ankam, darauf reine Verstandesbegriffe angewandt werdenkönnten, dergleichen Anschauungen (obzwar nur von Gegenständen der Sinne) doch a

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astrazion fatta dalle loro inclinazioni, ecc. In questo modo si abbraccia tutto il piano di ciò che si deve fare, anzi ogni questione della filosofia pratica che si deve risolvere, e, nello stesso tempo, l’ordine da seguire. DELLA TIPICA DEL GIUDIZIO PURO PRATICO. I concetti del bene e del male determinano, anzitutto, un oggetto per la volontà. Ma essi stessi sono soggetti a una regola pratica della ragione, la quale, se è ragion pura, determina a p r i o r i la volontà relativamente al suo oggetto. Ora per decidere se un’azione, a noi possibile nel mondo sensibile, sia o no il caso soggetto alla regola, si richiede un giudizio pratico mediante il quale, quel che in una regola fu detto in modo universale (in abstracto), venga applicato in concreto a un’azione. Ma siccome una regola pratica della ragion pura riguarda i n p r i m o l u o g o , come p r a t i c a , l’esistenza di un oggetto, e i n s e c o n d o l u o g o , come r e g o l a p r a t i c a della ragion pura, implica la necessità rispetto all’esistenza dell’azione, e quindi è una legge pratica e non una legge naturale mediante motivi determinanti empirici, ma una legge della libertà, secondo la quale la volontà dev’essere determinabile indipendentemente da ogni elemento empirico (solo mediante la rappresentazione di una legge in genere e della sua forma); e siccome tutti i casi che avvengono possono appartenere ad azioni possibili, ma soltanto empiriche, cioè all’esperienza e alla natura; così pare assurdo voler trovare nel mondo sensibile un caso che, mentre come tale è sempre soltanto soggetto alla legge naturale, pure ammetta l’applicazione a se stesso di una legge della libertà, e al quale possa essere applicata l’idea soprasensibile del moralmente buono, che in esso dev’essere manifestata in concreto. Il giudizio della ragion pura pratica è dunque soggetto alle stesse difficoltà di quello della ragion pura teoretica; il quale ultimo però possedeva un mezzo per trarsi da questa difficoltà; se, cioè, rispetto all’uso teoretico si trattava d’intuizioni a cui potevano esser applicati i concetti puri dell’intelletto, tuttavia tali intuizioni (benché soltanto di og-

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priori, mithin was die Verknüpfung des Mannigfaltigen in denselben betrifft, den reinen Verstandesbegriffen a priori gemäß (als S c h e m a t e ) gegeben werden können. Hingegen ist das Sittlichgute etwas dem Objekte nach Übersinnliches, für das also in keiner sinnlichen Anschauung etwas Korrespondierendes gefunden werden kann, und die Urteilskraft unter Gesetzen der reinen praktischen Vernunft scheint daher besonderen Schwierigkeiten unterworfen zu sein, die darauf beruhen, daß ein Gesetz der Freiheit auf Handlungen | als Begebenheiten, die in der Sinnenwelt geschehen und also sofern zur Natur gehören, angewandt werden soll. Allein hier eröffnet sich doch wieder eine günstige Aussicht für die reine praktische Urteilskraft. Es ist bei der Subsumtion einer mir in der Sinnenwelt möglichen Handlung unter einem r e i n e n p r a k t i s c h e n G e s e t z e nicht um die Möglichkeit der H a n d l u n g als einer Begebenheit in der Sinnenwelt zu tun; denn die gehört für die Beurteilung des theoretischen Gebrauchs der Vernunft nach dem Gesetze der Kausalität, eines reinen Verstandesbegriffs, für den sie ein S c h e m a in der sinnlichen Anschauung hat. Die physische Kausalität oder die Bedingung, unter der sie stattfindet, gehört unter die Naturbegriffe, deren Schema transzendentale Einbildungskraft entwirft. Hier aber ist es nicht um das Schema eines Falles nach Gesetzen, sondern um das Schema (wenn dieses Wort hier schicklich ist) eines Gesetzes selbst zu tun; weil die W i l l e n s b e s t i m m u n g (nicht die Handlung in Beziehung auf ihren Erfolg) durchs Gesetz allein, ohne einen anderen Bestimmungsgrund, den Begriff der Kausalität an ganz andere Bedingungen bindet, als diejenigen sind, welche die Naturverknüpfung ausmachen. Dem Naturgesetze als Gesetze, welchem die Gegenstände sinnlicher Anschauung als solche unter | worfen sind, muß ein Schema, d. i. ein allgemeines Verfahren der Einbildungskraft (den reinen Verstandesbegriff, den das Gesetz bestimmt, den Sinnen a priori darzustellen) korrespondieren. Aber dem Gesetze der Freiheit (als einer gar nicht sinnlich bedingten Kausalität), mithin auch dem Begriffe des Unbedingt-Guten kann keine Anschauung, mithin kein Schema zum Behuf seiner Anwendung in concreto untergelegt werden. Folglich hat das Sittengesetz kein anderes die An-

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getti dei sensi) potevano esser date a p r i o r i , e quindi, per quel che riguarda la connessione del molteplice in esse, conformi a p r i o r i (come s c h e m i ) ai concetti puri dell’intelletto. Il moralmente buono, invece è, quanto all’oggetto, qualcosa di soprasensibile per cui, dunque, non si può trovare qualcosa di corrispondente in nessuna intuizione sensibile; e perciò il giudizio sotto le leggi della ragion pura pratica sembra esser soggetto a difficoltà speciali, che consistono in questo, che una legge della libertà dev’esser applicata ad azioni come ad eventi che accadono nel mondo sensibile, e che quindi, come tali, appartengono alla natura. Ma nondimeno qui si apre di nuovo una prospettiva favorevole per il giudizio puro pratico. Nella sussunzione di un’azione possibile per me nel mondo sensibile sotto una l e g g e p u r a p r a t i c a , non si tratta della possibilità dell’a z i o n e come di un evento nel mondo sensibile; questa possibilità infatti è di pertinenza del giudizio intorno all’uso teoretico della ragione secondo la legge di causalità, che è un concetto puro dell’intelletto, per cui essa ha uno s c h e m a nell’intuizione sensibile. La causalità fisica, ossia la condizione in base alla quale questa possibilità ha luogo, appartiene ai concetti della natura, il cui schema è tracciato dall’immaginazione trascendentale. Ma qui non si tratta dello schema di un caso secondo leggi, ma dello schema (se qui è propria questa parola) di una legge, perché la d e t e r m i n a z i o n e d e l l a v o l o n t à (non l’azione relativamente al suo risultato) solo mediante la legge, senza un’altro motivo determinante, lega il concetto della causalità a condizioni affatto diverse da quelle che costituiscono la connessione della natura. Alla legge naturale, come legge a cui sono soggetti gli oggetti dell’intuizione sensibile come tali, deve corrispondere uno schema, cioè un procedimento universale della immaginazione (per manifestare a p r i o r i ai sensi il concetto puro dell’intelletto che la legge determina). Ma alla legge della libertà (come legge di una causalità non condizionata sensibilmente), e quindi anche al concetto dell’incondizionatamente buono, non può esser sottoposta nessuna intuizione, e quindi nessuno schema per la sua applicazione in concreto. Quindi la legge morale non

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wendung desselben auf Gegenstände der Natur vermittelndes Erkenntnisvermögen als den Verstand (nicht die Einbildungskraft), welcher einer Idee der Vernunft nicht ein S c h e m a der Sinnlichkeit, sondern ein Gesetz, aber doch ein solches, das an Gegenständen der Sinne in concreto dargestellt werden kann, mithin ein Naturgesetz, aber nur seiner Form nach, als Gesetz zum Behuf der Urteilskraft unterlegen kann, und dieses können wir daher den Ty p u s des Sittengesetzes nennen. Die Regel der Urteilskraft unter Gesetzen der reinen praktischen Vernunft ist diese: Frage dich selbst, ob die Handlung, die du vorhast, wenn sie nach einem Gesetze der Natur, von der du selbst ein Teil wärest, geschehen sollte, sie du wohl als durch deinen Willen möglich ansehen könntest? Nach dieser Regel beurteilt in der Tat jedermann Handlungen, ob sie sittlich gut oder böse sind. So sagt man: Wie, wenn, e i n j e d e r, | wo er seinen Vorteil zu schaffen glaubt, sich erlaubte zu betrügen, oder befugt hielte, sich das Leben abzukürzen, sobald ihn ein völliger Überdruß desselben befällt, oder anderer Not mit völliger Gleichgültigkeit ansähe, und du gehörtest mit zu einer solchen Ordnung der Dinge, würdest du darin wohl mit Einstimmung deines Willens sein? Nun weiß ein jeder wohl, daß, wenn er sich insgeheim Betrug erlaubt, darum eben nicht jedermann es auch tue, oder wenn er unbemerkt lieblos ist, nicht sofort jedermann auch gegen ihn es sein würde; daher ist diese Vergleichung der Maxime seiner Handlungen mit einem allgemeinen Naturgesetze auch nicht der Bestimmungsgrund seines Willens. Aber das letztere ist doch ein Ty p u s der Beurteilung der ersteren nach sittlichen Prinzipien. Wenn die Maxime der Handlung nicht so beschaffen ist, daß sie an der Form eines Naturgesetzes überhaupt die Probe hält, so ist sie sittlich unmöglich. So urteilt selbst der gemeinste Verstand; denn das N a t u r g e s e t z liegt allen seinen gewöhnlichsten, selbst den Erfahrungsurteilen immer zum Grunde. Er hat es also jederzeit bei der Hand, nur daß er in Fällen, wo die Kausalität aus Freiheit beurteilt werden soll, jenes N a t u r g e s e t z b l o ß zum Typus eines G e s e t z e s d e r F r e i h e i t macht, weil er, ohne etwas, was er zum Beispiele im Erfahrungsfalle machen könnte, bei Hand zu haben, dem Gesetze einer reinen praktischen Vernunft nicht den Gebrauch in der Anwendung verschaffen könnte.

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ha nessun’altra facoltà conoscitiva che ne medî l’applicazione agli oggetti della natura, fuorché l’intelletto (non l’immaginazione), il quale a un’idea della ragione non può sottoporre uno s c h e m a della sensibilità, ma una legge, tale però che possa essere manifestata in concreto negli oggetti dei sensi, e quindi una legge naturale, ma solo quanto alla forma, come legge per il giudizio; e questa legge noi la possiamo chiamare perciò il tipo della legge morale. La regola del giudizio sotto le leggi della ragion pura pratica è questa: Domanda a te stesso se l’azione che tu hai in mente, la potresti considerare possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse accadere secondo una legge della natura, della quale tu stesso fossi una parte. Secondo questa regola, infatti, ciascuno giudica se le azioni sono moralmente buone o cattive. Così si dice: se c i a s c u n o , quando credesse di fare il suo vantaggio, si permettesse di truffare; se si credesse in diritto di abbreviarsi la vita, appena gliene venisse un disgusto completo; se guardasse con indifferenza completa alla miseria altrui; tu, appartenendo a un tal ordine di cose, ti troveresti bene in esso, col consenso della tua volontà? Ora ciascuno sa bene che, se egli di nascosto si permettesse una truffa, non per questo tutti farebbero lo stesso; o se egli senza accorgersene fosse freddo di cuore, tali non sarebbero senz’altro tutti verso di lui; quindi, questo paragone delle massime delle sue azioni con una legge universale della natura, non è neanche il motivo determinante della sua volontà. Ma la legge è però un tipo del giudizio delle azioni secondo princìpi morali. Se la massima delle azioni non è tale da reggere al confronto con la forma di una legge naturale in genere, essa è moralmente impossibile. Così giudica anche l’intelletto più comune, poiché la legge naturale è sempre alla base di tutti i suoi giudizi più consueti, anche di quelli empirici. Esso l’ha dunque sempre alla mano; ma nei casi in cui dev’esser giudicata la causalità della libertà, fa di quella l e g g e n a t u r a l e semplicemente il tipo di una l e g g e d e l l a l i b e r t à , perché se non avesse sotto mano qualcosa capace di servirgli d’esempio nel caso empirico, non potrebbe procurare alla legge di una ragion pura pratica l’uso nell’applicazione.

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| Es ist also auch erlaubt, die N a t u r der S i n n e n w e l t a l s Ty p u s einer i n t e l l i g i b e l e n N a t u r zu brauchen, solange ich nur nicht die Anschauungen, und was davon abhängig ist, auf diese übertrage, sondern bloß die Form der Gesetzmäßigkeit überhaupt (deren Begriff auch im gemeinsten Vernunftgebrauche stattfindet, aber in keiner anderen Absicht, als bloß zum reinen praktischen Gebrauche der Vernunft a priori bestimmt erkannt werden kann) darauf beziehe. Denn Gesetze als solche sind sofern einerlei, sie mögen ihre Bestimmungsgründe hernehmen, woher sie wollen. Übrigens, da von allem Intelligibelen schlechterdings nichts als (vermittelst des moralischen Gesetzes) die Freiheit, und auch diese nur, sofern sie eine von jenem unzertrennliche Voraussetzung ist, und ferner alle intelligibelen Gegenstände, auf welche uns die Vernunft nach Anleitung jenes Gesetzes etwa noch führen möchte, wiederum für uns keine Realität weiter haben als zum Behuf desselben Gesetzes und des Gebrauches der reinen praktischen Vernunft, diese aber zum Typus der Urteilskraft die Natur (der reinen Verstandesform derselben nach) zu gebrauchen berechtigt und auch benötigt ist: so dient die gegenwärtige Anmerkung dazu, um zu verhüten, daß, was bloß zur Ty p i k der Begriffe gehört, nicht zu den Begriffen selbst gezählt werde. Diese also, als Typik der Urteilskraft, bewahrt vor dem E m p i r i s m u s der praktischen Vernunft, der die | praktischen Begriffe des Guten und Bösen bloß in Erfahrungsfolgen (der sogenannten Glückseligkeit) setzt, obzwar diese und die unendlichen nützlichen Folgen eines durch Selbsthilfe bestimmten Willens, wenn dieser sich selbst zugleich zum allgemeinen Naturgesetze machte, allerdings zum ganz angemessenen Typus für das Sittlichgute dienen kann, aber mit diesem doch nicht einerlei ist. Ebendieselbe Typik bewahrt auch vor dem M y s t i z i s m u s der praktischen Vernunft, welcher das, was nur zum S y m b o l diente, zum S c h e m a macht, d. i. wirkliche und doch nicht sinnliche Anschauungen (eines unsichtbaren Reichs Gottes) der Anwendung der moralischen Begriffe unterlegt und ins Überschwengliche hinausschweift. Dem Gebrauche der moralischen Begriffe ist bloß der R a t i o n a l i s m u s der Urteilskraft angemessen, der von der sinnlichen Natur nichts weiter nimmt, als was auch

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Dunque, è anche lecito usare la n a t u r a d e l m o n d o s e n s i b i l e come t i p o di una n a t u r a i n t e l l i g i b i l e , purché non vi si trasportino le intuizioni e ciò che da esse dipende, ma vi si riferisca semplicemente la f o r m a d e l l a c o n f o r m i t à a l l a l e g g e in genere (il concetto della quale ha luogo anche nell’uso più comune della ragione, ma non può esser riconosciuto a p r i o r i in modo determinato sotto nessun altro rispetto, fuorché per l’uso puro pratico della ragione). Poiché le leggi, come tali, sotto questo rispetto sono identiche, abbiano i loro motivi determinati donde che sia. Del resto, siccome in ogni intelligibile non vi è assolutamente niente altro se non la libertà (mediante la legge morale), e anche quella solo in quanto è una supposizione inseparabile da tale legge; e, inoltre, siccome tutti gli oggetti intelligibili, a cui la ragione, secondo la direzione di quella legge, ci potrebbe ancora condurre, a loro volta non hanno per noi nessun’altra realtà se non per lo scopo di quella legge e dell’uso della ragion pura pratica, che a sua volta è giustificata e anzi obbligata a servirsi della natura (secondo la forma pura intelligibile di essa) come di tipo del giudizio; così la presente osservazione serve a impedire che venga annoverato fra i concetti stessi ciò che serve semplicemente alla t i p i c a dei concetti. Questa, dunque, come tipica del giudizio, ci preserva dall’ e m p i r i s m o della ragion pratica, il quale pone i concetti pratici del bene e del male semplicemente nelle conseguenze dell’esperienza (nella così detta felicità); e benché la felicità e le infinite conseguenze utili di una volontà determinata mediante l’amor proprio, se l’amor proprio nello stesso tempo si faccia legge universale della natura, possono senza dubbio servire come tipo affatto conveniente del moralmente buono, pure non sono identiche con questo. La stessa tipica presenza anche dal m i s t i c i s m o della ragion pratica, il quale di ciò che serviva soltanto come s i m b o l o fa uno s c h e m a cioè sottopone all’applicazione dei concetti morali istituzioni reali eppure non sensibili (di un regno invisibile di Dio), e vaga nel trascendente. All’uso dei concetti morali è adatto solo il r a z i o n a l i s m o del giudizio, il quale della natura sensibile non prende nient’altro se non ciò che anche la ragion pura per

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reine Vernunft für sich denken kann, d. i. die Gesetzmäßigkeit, und in die übersinnliche nichts hineinträgt, als was umgekehrt sich durch Handlungen in der Sinnenwelt nach der formalen Regel eines Naturgesetzes überhaupt wirklich darstellen läßt. Indessen ist die Verwahrung vor dem E m p i r i s m u s der praktischen Vernunft viel wichtiger und anratungswürdiger, weil der M y s t i z i s m u s sich doch noch mit der Reinigkeit und Erhabenheit des moralischen Gesetzes zusammen verträgt, und außerdem es nicht eben natürlich und der gemeinen Denkungsart angemessen ist, seine Einbil|dungskraft bis zu übersinnlichen Anschauungen anzuspannen, mithin auf dieser Seite die Gefahr nicht so allgemein ist; dahingegen der Empirismus die Sittlichkeit in Gesinnungen (worin doch und nicht bloß in Handlungen der hohe Wert besteht, den sich die Menschheit durch sie verschaffen kann und soll) mit der Wurzel ausrottet und ihr ganz etwas anderes, nämlich ein empirisches Interesse, womit die Neigungen überhaupt unter sich Verkehr treiben, statt der Pflicht unterschiebt, überdem auch ebendarum mit allen Neigungen, die (sie mögen einen Zuschnitt bekommen, welchen sie wollen), wenn sie zur Würde eines obersten praktischen Prinzips erhoben werden, die Menschheit degradieren, und da sie gleichwohl der Sinnesart aller so günstig sind, aus der Ursache weit gefährlicher ist als alle Schwärmerei, die niemals einen dauernden Zustand vieler Menschen ausmachen kann.

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sé può pensare, cioè la conformità alla legge, e nella natura soprasensibile non introduce se non ciò che al contrario si può manifestar realmente mediante le azioni nel mondo sensibile secondo la regola formale di una legge naturale in genere. Tuttavia, è molto più importante e degno di raccomandazioni il preservarsi dall’e m p i r i s m o della ragion pratica, perché il m i s t i c i s m o comporta ancora la purezza e la sublimità della legge morale, e inoltre non è naturale e proporzionato al modo ordinario di pensare il tendere la propria immaginazione fino alle intuizioni soprasensibili, sicché da questo lato il pericolo non è così universale; mentre invece l’empirismo estirpa fino alla radice la moralità nelle intenzioni (nelle quali tuttavia, e non semplicemente nelle azioni, consiste l’alto valore che l’umanità si può e si deve procurare mediante la moralità), e al dovere sostituisce qualcosa di affatto diverso, cioè un interesse empirico con cui le inclinazioni in generale entrano in reciproco rapporto; inoltre l’empirismo, appunto perché è unito con tutte le inclinazioni, le quali (qualunque forma prendano), se vengono innalzate alla dignità di principio pratico supremo, degradano l’umanità, e poiché queste sono così favorevoli al modo di sentire di tutti, per tale ragione è molto più pericoloso di ogni entusiasmo mistico, che non può mai costituire una condizione durevole di molti uomini.

Drittes Hauptstück VON DEN TRIEBFEDERN DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT

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Das Wesentliche alles sittlichen Werts der Handlungen kommt darauf an, d a ß d a s m o r a l i s c h e G e s e t z u n m i t t e l b a r d e n W i l l e n b e s t i m m e . Geschieht die Willensbestimmung zwar g e m ä ß dem moralischen Gesetze, aber nur vermittelst eines Gefühls, welcher | Art es auch sei, das vorausgesetzt werden muß, damit jenes ein hinreichender Bestimmungsgrund des Willens werde, mithin nicht u m d e s G e s e t z e s w i l l e n , so wird die Handlung zwar L e g a l i t ä t , aber nicht M o r a l i t ä t enthalten. Wenn nun unter Tr i e b f e d e r (elater animi) der subjektive Bestimmungsgrund des Willens eines Wesens verstanden wird, dessen Vernunft nicht schon vermöge seiner Natur dem objektiven Gesetze notwendig gemäß ist, so wird erstlich daraus folgen: daß man dem göttlichen Willen gar keine Triebfedern beilegen könne, die Triebfeder des menschlichen Willens aber (und jedes von jenem erschaffenen vernünftigen Wesens) niemals etwas anderes als das moralische Gesetz sein könne, mithin der objektive Bestimmungsgrund jederzeit und ganz allein zugleich der subjektiv hinreichende Bestimmungsgrund der Handlung sein müsse, wenn diese nicht bloß den B u c h s t a b e n des Gesetzes, ohne den Geist* desselben zu enthalten, erfüllen soll. Da man also zum Behuf des moralischen Gesetzes, und um ihm Einfluß auf den Willen zu verschaffen, keine ander weitige Triebfeder, dabei die des moralischen Gesetzes entbehrt werden könnte, suchen muß, weil das | alles lauter Gleisnerei ohne Bestand be* Man kann von jeder gesetzmäßigen Handlung, die doch nicht um des Gesetzes willen geschehen ist, sagen: sie sei bloß dem B u c h s t a b e n , aber nicht dem G e i s t e (der Gesinnung) nach moralisch gut.

Capitolo terzo DEI MOVENTI18 DELLA RAGION PURA PRATICA L’essenziale di ogni valore morale delle azioni dipende da questo: c h e l a l e g g e m o r a l e d e t e r m i n i i m m e d i a t a m e n t e l a v o l o n t à . Se la determinazione della volontà avviene bensì c o n f o r m e m e n t e alla legge morale, ma solo mediante un sentimento di qualunque specie, che si deve presupporre perché diventi un motivo determinante sufficiente della volontà; se quindi l’azione non avviene p e r l a l e g g e , l’azione conterrà bensì la l e g a l i t à , ma non la m o r a l i t à . Ora, se per movente (elater animi) viene inteso il motivo determinante soggettivo della volontà di un essere, la cui ragione, già per sua natura, non è conforme necessariamente alla legge oggettiva, ne seguirà anzitutto: che non si può affatto attribuire alcun movente alla volontà divina, ma che il movente della volontà umana (e di ogni essere razionale creato) non può mai essere altro che la legge morale; e quindi il motivo determinante oggettivo dev’essere sempre e nello stesso tempo il solo motivo determinante soggettivamente sufficiente dell’azione, se questa non deve osservare la l e t t e r a della legge senza contenerne lo s p i r i t o * . Siccome dunque per lo scopo della legge morale, e per procurare ad essa un influsso sulla volontà, non si deve cercare nessun altro movente col quale far senza quello della legge morale, perché tutto ciò produrrebbe una mera ipocrisia senza consi* Di ogni azione conforme alla legge, che pure non è fatta per la legge, si può dire che è moralmente buona soltanto secondo la l e t t e r a , ma non secondo lo s p i r i t o (l’intenzione).

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wirken würde, und sogar e s b e d e n k l i c h ist, auch nur n e b e n dem moralischen Gesetze noch einige andere Triebfedern (als die des Vorteils) mitwirken zu lassen: so bleibt nichts übrig, als bloß sorgfältig zu bestimmen, auf welche Art das moralische Gesetz Triebfeder werde, und was, indem sie es ist, mit dem menschlichen Begehrungsvermögen, als Wirkung jenes Bestimmungsgrundes auf dasselbe, vorgehe. Denn wie ein Gesetz für sich und unmittelbar Bestimmungsgrund des Willens sein könne (welches doch das Wesentliche aller Moralität ist), das ist ein für die menschliche Vernunft unauflösliches Problem und mit dem einerlei: wie ein freier Wille möglich sei. Also werden wir nicht den Grund, woher das moralische Gesetz in sich eine Triebfeder abgebe, sondern was, sofern es eine solche ist, sie im Gemüte wirkt (besser zu sagen, wirken muß), a priori anzuzeigen haben. Das Wesentliche aller Bestimmung des Willens durchs sittliche Gesetz ist: daß er als freier Wille, mithin nicht bloß ohne Mitwirkung sinnlicher Antriebe, sondern selbst mit Abweisung aller derselben und mit Abbruch aller Neigungen, sofern sie jenem Gesetze zuwider sein könnten, bloß durchs Gesetz bestimmt werde. Soweit ist also die Wirkung des moralischen Gesetzes als Triebfeder nur negativ, und als solche kann diese Triebfeder a priori erkannt werden. Denn alle Nei|gung und jeder sinnliche Antrieb ist auf Gefühl gegründet, und die negative Wirkung aufs Gefühl (durch den Abbruch, der den Neigungen geschieht) ist selbst Gefühl. Folglich können wir a priori einsehen, daß das moralische Gesetz als Bestimmungsgrund des Willens, dadurch daß es allen unseren Neigungen Eintrag tut, ein Gefühl bewirken müsse, welches Schmerz genannt werden kann, und hier haben wir nun den ersten, vielleicht auch einzigen Fall, da wir aus Begriffen a priori das Verhältnis einer Erkenntnis (hier ist es einer reinen praktischen Vernunft) zum Gefühl der Lust oder Unlust bestimmen konnten. Alle Neigungen zusammen (die auch wohl in ein erträgliches System gebracht werden können, und deren Befriedigung alsdann eigene Glückseligkeit heißt) machen die S e l b s t s u c h t (solipsismus) aus. Diese ist entweder die der S e l b s t l i e b e , eines über alles gehenden Wo h l w o l l e n s gegen sich selbst (philautia), oder die des Wo h l g e f a l l e n s an sich selbst (arrogantia). Jene heißt be-

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stenza; e siccome è p e r i c o l o s o anche solo far cooperare a c c a n t o alla legge morale alcuni altri moventi (come quello del vantaggio), così non rimane che determinare accuratamente in che modo la legge morale diventi movente, e cosa avvenga quando essa è tale, nella facoltà di desiderare, come effetto di quel motivo determinante su questa facoltà. Poiché, come una legge possa essere per sé e immediatamente un motivo determinante della volontà (il che è pure l’essenziale di ogni moralità), è un problema insolubile per la ragione umana e identico a questo: come sia possibile una volontà libera. Dunque, noi avremo da dimostrare a p r i o r i , non il motivo per cui la legge morale ha in sé un movente, ma ciò che essa, in quanto movente, opera (o, meglio, deve operare) nell’anima. L’essenziale di ogni determinazione della volontà mediante la legge morale è: che essa venga determinata solo mediante la legge come volontà libera, e quindi non soltanto senza il concorso degl’impulsi sensibili, ma anche con l’esclusione di tutti questi impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni, in quanto possano esser contrarie a quella legge. In questo senso, dunque, l’effetto della legge morale come movente è soltanto negativo, e come tale può essere conosciuto a p r i o r i . Invero, ogni inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul sentimento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a p r i o r i che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a p r i o r i , possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del dispiacere. Tutte le inclinazioni insieme (che possono anche venire ridotte in un sistema tollerabile, e la soddisfazione delle quali in questo caso si chiama felicità) costituiscono l’egoismo (solipsismus). Questo è, o l’egoismo dell’amore di sé, d i u n a b e n e v o l e n z a verso se stesso (philautia) che supera tutto, o l’egoismo della c o m p i a c e n z a di se stesso (arrogantia). Quello si chiama particolarmente a m o r

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sonders E i g e n l i e b e , diese E i g e n d ü n k e l . Die reine praktische Vernunft tut der Eigenliebe bloß A b b r u c h , indem sie solche, als natürlich und noch vor dem moralischen Gesetze in uns rege, nur auf die Bedingung der Einstimmung mit diesem Gesetze einschränkt; da sie alsdann v e r n ü n f t i g e S e l b s t l i e b e genannt wird. Aber den Eigendünkel s c h l ä g t sie gar n i e d e r, indem alle Ansprüche der Selbstschätzung, die vor der Übereinstimmung mit dem sittlichen Gesetze vor|hergehen, nichtig und ohne alle Befugnis sind, indem eben die Gewißheit einer Gesinnung, die mit diesem Gesetze übereinstimmt, die erste Bedingung alles Wertes der Person ist (wie wir bald deutlicher machen werden), und alle Anmaßung vor derselben falsch und gesetzwidrig ist. Nun gehört der Hang zur Selbstschätzung mit zu den Neigungen, denen das moralische Gesetz Abbruch tut, sofern jene bloß auf der Sinnlichkeit beruht. Also schlägt das moralische Gesetz den Eigendünkel nieder. Da dieses Gesetz aber doch etwas an sich Positives ist, nämlich die Form einer intellektuellen Kausalität, d. i. der Freiheit, so ist es, indem es im Gegensatze mit dem subjektiven Widerspiele, nämlich den Neigungen in uns, den Eigendünkel s c h w ä c h t , zugleich ein Gegenstand der A c h t u n g , und indem es ihn sogar n i e d e r s c h l ä g t , d. i. demütigt, ein Gegenstand der größten A c h t u n g , mithin auch der Grund eines positiven Gefühls, das nicht empirischen Ursprungs ist und a priori erkannt wird. Also ist Achtung fürs moralische Gesetz ein Gefühl, welches durch einen intellektuellen Grund gewirkt wird, und dieses Gefühl ist das einzige, welches wir völlig a priori erkennen, und dessen Notwendigkeit wir einsehen können. Wir haben im vorigen Hauptstück gesehen, daß alles, was sich als Objekt des Willens v o r dem moralischen Gesetze darbietet, von den Bestimmungsgründen des Willens, unter dem Namen des Unbedingt-Guten, | durch dieses Gesetz selbst als die oberste Bedingung der praktischen Vernunft ausgeschlossen werde, und daß die bloße praktische Form, die in der Tauglichkeit der Maximen zur allgemeinen Gesetzgebung besteht, zuerst das, was an sich und schlechterdings gut ist, bestimme und die Maxime eines reinen Willens gründe, der allein in aller Absicht gut ist. Nun finden wir aber unsere Natur als sinnlicher Wesen so beschaffen, daß die Materie des Begehrungsvermögens (Gegenstände der Neigung, es sei

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p r o p r i o , questo p r e s u n z i o n e . La ragion pura pratica reca semplicemente d a n n o all’amor proprio, costringendolo soltanto, come naturale e desto in noi ancor prima della legge morale, ad accordarsi con tale legge; esso viene allora chiamato a m o r r a z i o n a l e d i s é . Ma la ragion pura pratica a b b a t t e completamente la presunzione, in quanto tutte le pretese della stima di sé, le quali precedono l’accordo con la legge morale, sono vane e senza alcun diritto, e in quanto appunto la certezza di un’intenzione, che s’accordi con la legge morale, è la prima condizione di ogni valore della persona (come presto spiegheremo meglio), e ogni pretesa anteriore ad essa è falsa e contraria alla legge. Ora, la tendenza alla stima di sé appartiene alle inclinazioni a cui la legge morale reca danno, in quanto quella stima si fonda soltanto sulla sensibilità. Dunque la legge morale abbatte la presunzione. Ma siccome questa legge è qualcosa di positivo in sé, e cioè la forma di una causalità intellettuale, ossia della libertà, così, quando in opposizione al contrario soggettivo, cioè alle inclinazioni in noi, i n d e b o l i s c e la presunzione, essa è nello stesso tempo un oggetto di r i s p e t t o ; e quando l’abbatte completamente, e cioè l’umilia, è un obbietto del massimo r i s p e t t o , e quindi anche la base di un sentimento positivo che non è di origine empirica, ma vien conosciuto a p r i o r i . Dunque, il rispetto alla legge morale è un sentimento che vien prodotto mediante un principio intellettuale; e questo sentimento è il solo che noi conosciamo affatto a p r i o r i , e di cui possiamo vedere la necessità. Nel capitolo precedente abbiamo visto che tutto ciò che si presenta come oggetto della volontà p r i m a della legge morale, vien escluso dai motivi determinanti della volontà, che abbiamo chiamati il bene incondizionato, mediante questa stessa legge, come la condizione suprema della ragion pratica; e che la semplice forma pratica, che consiste nell’attitudine delle massime a una legislazione universale, determina anzitutto ciò che è buono in sé ed assolutamente, e fonda la massima di una volontà pura, che sola è buona sotto ogni rispetto. Ma noi troviamo la nostra natura, come esseri sensibili, così fatta che la materia della facoltà di desiderare (oggetti dell’inclinazione, sia della spe-

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der Hoffnung oder Furcht) sich zuerst aufdringt, und unser pathologisch bestimmbares Selbst, ob es gleich durch seine Maximen zur allgemeinen Gesetzgebung ganz untauglich ist, dennoch, gleich als ob es unser ganzes Selbst ausmachte, seine Ansprüche vorher und als die ersten und ursprünglichen geltend zu machen bestrebt sei. Man kann diesen Hang, sich selbst nach den subjektiven Bestimmungsgründen seiner Willkür zum objektiven Bestimmungsgrunde des Willens überhaupt zu machen, die S e l b s t l i e b e nennen, welche, wenn sie sich gesetzgebend und zum unbedingten praktischen Prinzip macht, E i g e n d ü n k e l heißen kann. Nun schließt das moralische Gesetz, welches allein wahrhaftig (nämlich in aller Absicht) objektiv ist, den Einfluß der Selbstliebe auf das oberste praktische Prinzip gänzlich aus und tut dem Eigendünkel, der die subjektiven Bedingungen der ersteren als Gesetze vorschreibt, unendlichen Abbruch. Was nun unserem Eigendünkel in un|serem eigenen Urteil Abbruch tut, das demütigt. Also demütigt das moralische Gesetz unvermeidlich jeden Menschen, indem dieser mit demselben den sinnlichen Hang seiner Natur vergleicht. Dasjenige, dessen Vorstellung a l s B e s t i m m u n g a g r u n d u n s e r e s W i l l e n s , uns in unserem Selbstbewußtsein demütigt, erweckt, sofern als es positiv und Bestimmungsgrund ist, für sich A c h t u n g . Also ist das moralische Gesetz auch subjektiv ein Grund der Achtung. Da nun alles, was in der Selbstliebe angetroffen wird, zur Neigung gehört, alle Neigung aber auf Gefühlen beruht, mithin, was allen Neigungen insgesamt in der Selbstliebe Abbruch tut, ebendadurch notwendig auf das Gefühl Einfluß hat, so begreifen wir, wie es möglich ist, a priori einzusehen, daß das moralische Gesetz, indem es die Neigungen und den Hang, sie zur obersten praktischen Bedingung zu machen, d. i. die Selbstliebe, von allem Beitritte zur obersten Gesetzgebung ausschließt, eine Wirkung aufs Gefühl ausüben könne, welche einerseits bloß n e g a t i v ist, andererseits und zwar in Ansehung des einschränkenden Grundes der reinen praktischen Vernunft p o s i t i v ist, und wozu gar keine besondere Art von Gefühl, unter dem Namen eines praktischen oder moralischen, als vor dem moralischen Gesetze vorhergehend und ihm zum Grunde liegend angenommen werden darf. | Die negative Wirkung aufs Gefühl (der Unannehmlichkeit) ist, sowie aller Einfluß auf dasselbe und wie jedes Gefühl über-

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ranza o del timore) s’impone anzitutto, e il nostro io patologicamente determinabile, benché sia del tutto inadatto mediante le sue massime a una legislazione universale, tuttavia, come se costituisse tutto il nostro io, s’è sforzato di far valere le sue pretese come prime e originali. Questa tendenza a far di se stesso, secondo i motivi determinanti soggettivi del proprio libero arbitrio, il motivo determinante oggettivo della volontà in generale, si può chiamare a m o r p r o p r i o , il quale, se si fa legislativo e principio pratico incondizionato, si può chiamare p r e s u n z i o n e . Ora la legge morale, la quale soltanto è veramente (cioè sotto ogni rispetto) oggettiva, esclude completamente l’influsso dell’amor proprio sul principio pratico supremo, e reca un danno infinito alla presunzione la quale prescrive come leggi le condizioni soggettive dell’amor proprio. Ma ciò che reca danno alla nostra presunzione del nostro proprio giudizio, umilia. Dunque la legge morale umilia inevitabilmente ogni uomo, quando esso paragoni con tale legge la tendenza sensibile della sua natura. Quello, la cui rappresentazione, come m o t i v o d e t e r m i n a n t e d e l l a n o s t r a v o l o n t à , ci umilia nella nostra coscienza, eccita, in quanto è positivo ed è motivo determinante, il r i s p e t t o verso di sé. Dunque, la legge morale è anche soggettivamente un motivo di rispetto. Ora, siccome tutto ciò che si trova nell’amor proprio appartiene all’inclinazione, ma ogni inclinazione si fonda su sentimenti, e quindi ciò che reca danno a tutte le inclinazioni riunite nell’amor proprio, appunto perciò, ha necessariamente un influsso sul sentimento; così comprendiamo come è possibile vedere a p r i o r i che la legge morale, poiché esclude da ogni partecipazione alla suprema legislazione le inclinazioni e la tendenza a fare di esse la condizione pratica suprema, cioè l’amor proprio, può esercitare sul sentimento un effetto che, da una parte, è semplicemente n e g a t i v o , e dall’altra, relativamente al principio limitativo della ragion pura pratica, è p o s i t i v o ; perciò non si può affatto ammettere col nome di sentimento pratico o morale una specie di sentimento che preceda la legge morale e che le sia di base. L’effetto negativo sul sentimento (del dispiacere) è, come ogni influsso su di esso, e come ogni sentimento in genere, p a -

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haupt, p a t h o l o g i s c h . Als Wirkung aber vom Bewußtsein des moralischen Gesetzes, folglich in Beziehung auf eine intelligibele Ursache, nämlich das Subjekt der reinen praktischen Vernunft als obersten Gesetzgeberin, heißt dieses Gefühl eines vernünftigen von Neigungen affizierten Subjekts zwar Demütigung (intellektuelle Verachtung), aber in Beziehung auf den positiven Grund derselben, das Gesetz, zugleich Achtung für dasselbe; für welches Gesetz gar kein Gefühl stattfindet, sondern im Urteile der Vernunft, indem es den Widerstand aus dem Wege schafft, die Wegräumung eines Hindernisses einer positiven Beförderung der Kausalität gleichgeschätzt wird. Darum kann dieses Gefühl nun auch ein Gefühl der Achtung fürs moralische Gesetz, aus beiden Gründen zusammen aber ein m o r a l i s c h e s G e f ü h l genannt werden. Das moralische Gesetz also, sowie es formaler Bestimmungsgrund der Handlung ist durch praktische reine Vernunft, sowie es zwar auch materialer, aber nur objektiver Bestimmungsgrund der Gegenstände der Handlung unter dem Namen des Guten und Bösen ist, so ist es auch subjektiver Bestimmungsgrund d. i. Triebfeder zu dieser Handlung, indem es auf die Sinnlichkeit des Subjekts Einfluß hat und ein Gefühl bewirkt, welches dem Einflusse des Gesetzes auf den Willen beför|derlich ist. Hier geht kein Gefühl im Subjekt v o r h e r, das auf Moralität gestimmt wäre. Denn das ist unmöglich, weil alles Gefühl sinnlich ist; die Triebfeder der sittlichen Gesinnung aber muß von aller sinnlichen Bedingung frei sein. Vielmehr ist das sinnliche Gefühl, was allen unseren Neigungen zum Grunde liegt, zwar die Bedingung derjenigen Empfindung, die wir Achtung nennen, aber die Ursache der Bestimmung desselben liegt in der reinen praktischen Vernunft, und diese Empfindung kann daher ihres Ursprunges wegen nicht pathologisch, sondern muß p r a k t i s c h g e w i r k t heißen; indem dadurch, daß die Vorstellung des moralischen Gesetzes der Selbstliebe den Einfluß und dem Eigendünkel den Wahn benimmt, das Hindernis der reinen praktischen Vernunft vermindert und die Vorstellung des Vorzuges ihres objektiven G e s e t z e s vor den Antrieben der Sinnlichkeit, mithin das Gewicht des ersteren relativ (in Ansehung eines durch die letztere affizierten Willens) durch die Wegschaffung des Gegengewichtes im Urteile der Vernunft hervorgebracht wird. Und so ist die Achtung fürs Gesetz nicht Triebfeder zur Sittlichkeit, sondern sie ist die Sittlichkeit selbst,

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t o l o g i c o . Ma come effetto della coscienza della legge morale, e quindi in relazione a una causa intelligibile, cioè al soggetto della ragion pura pratica come legislatrice suprema, questo sentimento di un oggetto razionale affetto da inclinazioni si chiama bensì umiliazione (disprezzo intellettuale), ma in relazione al principio positivo di questa umiliazione, alla legge, si chiama anche rispetto alla legge. Per la quale legge non v’è sentimento alcuno; ma nel giudizio della ragione, quando la legge toglie di mezzo l’ostacolo, il togliere un impedimento vien tenuto in ugual conto di un’azione19 p o s i t i v a della causalità. Perciò questo sentimento si può anche chiamare un sentimento di rispetto alla legge morale; e per tutt’e due queste ragioni riunite un s e n t i m e n t o m o r a l e . Dunque, la legge morale, com’è il motivo determinante formale dell’azione mediante la ragion pura pratica; com’è anche il motivo determinante materiale, ma soltanto oggettivo, degli oggetti dell’azione chiamati bene e male; così è anche il motivo determinante soggettivo, cioè il movente di quest’azione, poiché ha un influsso sulla moralità del soggetto e produce un sentimento favorevole all’influsso della legge sulla volontà. Qui non p r e c e d e nessun sentimento nel soggetto, che fosse disposto alla moralità. Invero ciò è impossibile, perché ogni sentimento è sensibile, e il movente dell’intenzione morale dev’essere libero da ogni condizione sensibile. Piuttosto, il sentimento sensibile, che è fondamento di tutte le nostre inclinazioni, è bensì la condizione di quella sensazione che chiamiamo rispetto, ma la causa della determinazione di quel sentimento risiede nella ragion pura pratica; e perciò questa sensazione, per la sua origine, non si deve chiamare patologica, ma p r o d o t t a p r a t i c a m e n t e ; poiché per il fatto che la rappresentazione della legge morale toglie l’influsso all’amor di sé e l’illusione alla presunzione, essa diminuisce l’ostacolo alla ragion pura pratica, e nel giudizio della ragione vien prodotta la rappresentazione della superiorità della sua legge oggettiva sugl’impulsi della sensibilità, e quindi è aumentato relativamente il peso della legge (rispetto a una volontà affetta mediante la sensibilità) col togliere il contrappeso. E così il rispetto alla legge non è un movente alla moralità, ma è la

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subjektiv als Triebfeder betrachtet, indem die reine praktische Vernunft, dadurch daß sie der Selbstliebe im Gegensatze mit ihr alle Ansprüche abschlägt, dem Gesetze, das jetzt allein Einfluß hat, Ansehen verschafft. Hierbei ist nun zu bemerken, daß, sowie die Achtung eine Wir|kung aufs Gefühl, mithin auf die Sinnlichkeit eines vernünftigen Wesens ist, sie diese Sinnlichkeit, mithin auch die Endlichkeit solcher Wesen, denen das moralische Gesetz Achtung auferlegt, voraussetze, und daß einem höchsten oder auch einem von aller Sinnlichkeit freien Wesen, welchem diese also auch kein Hindernis der praktischen Vernunft sein kann, Achtung fürs G e s e t z nicht beigelegt werden könne. Dieses Gefühl (unter dem Namen des moralischen) ist also lediglich durch Vernunft bewirkt. Es dient nicht zur Beurteilung der Handlungen oder wohl gar zur Gründung des objektiven Sittengesetzes selbst, sondern bloß zur Triebfeder, um dieses in sich zur Maxime zu machen. Mit welchem Namen aber könnte man dieses sonderbare Gefühl, welches mit keinem pathologischen in Vergleichung gezogen werden kann, schicklicher belegen? Es ist so eigentümlicher Art, daß es lediglich der Vernunft und zwar der praktischen reinen Vernunft zu Gebote zu stehen scheint. A c h t u n g geht jederzeit nur auf Personen, niemals auf Sachen. Die letzteren können N e i g u n g und, wenn es Tiere sind (z. B. Pferde, Hunde usw.) sogar L i e b e , oder auch F u r c h t , wie das Meer, ein Vulkan, ein Raubtier, niemals aber A c h t u n g in uns erwecken. Etwas, was diesem Gefühl schon näher tritt, ist B e w u n d e r u n g , und diese als Affekt, das Erstaunen, | kann auch auf Sachen gehen, z. B. himmelhohe Berge, die Größe, Menge und Weite der Weltkörper, die Stärke und Geschwindigkeit mancher Tiere usw. Aber alles dieses ist nicht Achtung. Ein Mensch kann mir auch ein Gegenstand der Liebe, der Furcht oder der Bewunderung, sogar bis zum Erstaunen und doch darum kein Gegenstand der Achtung sein. Seine scherzhafte Laune, sein Mut und Stärke, seine Macht durch seinen Rang, den er unter anderen hat, können mir dergleichen Empfindungen einflößen, es fehlt aber immer noch an innerer Achtung gegen ihn. F o n t e n e l l e sagt: Vo r e i n e m Vo r n e h m e n b ü c k e i c h m i c h , a b e r m e i n G e i s t b ü c k t s i c h n i c h t . Ich kann hinzusetzen: Vor einem

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moralità stessa considerata soggettivamente come movente, poiché la ragion pura pratica, per il fatto che abbatte ogni pretesa dell’amor di sé in contrasto con essa, procura autorità alla legge, la quale soltanto ha ora l’influsso. A questo riguardo è da osservare che, come il rispetto è un’azione sul sentimento, e quindi sulla sensibilità di un essere razionale, ciò suppone questa sensibilità, e quindi anche la finitezza degli esseri a cui la legge morale impone rispetto; e che a un essere supremo, oppure a un essere libero da ogni sensibilità, al quale per ciò la sensibilità non può neppure essere un ostacolo per la ragion pratica, non può esser attribuito il rispetto alla l e g g e . Questo sentimento (col nome di sentimento morale) è, dunque, prodotto soltanto dalla ragione. Esso non serve al giudizio delle azioni né a fondare la legge morale oggettiva, ma semplicemente come movente a fare in sé di questa legge una massima. Ma con che nome si potrebbe chiamare più convenientemente questo sentimento singolare, il quale non può esser messo a confronto con alcun sentimento patologico? Esso è d’una natura così caratteristica, che sembra stare soltanto a disposizione della ragione e precisamente della ragion pura pratica. Il r i s p e t t o si riferisce sempre soltanto alle persone, non mai alle cose. Le cose possono far nascere in noi la p r o p e n s i o n e ; e, se sono animali (per es., cavalli, cani ecc.), perfino l ’ a m o r e ; o anche la p a u r a , come il mare, un vulcano, una bestia feroce; ma non mai il r i s p e t t o . Qualcosa che s’avvicina già di più a questo sentimento è l ’ a m m i r a z i o n e ; e questa, come affezione, cioè lo stupore, può anche riferirsi a cose, per es. a montagne altissime, alla grandezza, alla moltitudine, alla distanza dei corpi celesti, alla forza e alla velocità di parecchi animali, ecc. Ma tutto ciò non è rispetto. Un uomo può essere per me un oggetto d’amore, di paura, o d’ammirazione fino allo stupore, e, con tutto questo, può non essere un oggetto di rispetto. Il suo umore faceto, il suo coraggio e la sua forza, la sua potenza, per il grado che egli ha tra gli altri uomini, possono ispirarmi tali sentimenti; ma manca ancor sempre il rispetto interno verso di lui. Fontenelle20 dice: A u n g r a n s i g n o r e i o m ’ i n c h i n o , m a i l m i o s p i r i t o n o n s ’ i n c h i n a . Io

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niedrigen, bürgerlich-gemeinen Mann, an dem ich eine Rechtschaffenheit des Charakters in einem gewissen Maße, als ich mir von mir selbst nicht bewußt bin, wahrnehme, b ü c k t s i c h m e i n G e i s t , ich mag wollen oder nicht und den Kopf noch so hoch tragen, um ihn meinen Vorrang nicht übersehen zu lassen. Warum das? Sein Beispiel hält mir ein Gesetz vor, das meinen Eigendünkel niederschlägt, wenn ich es mit meinem Verhalten vergleiche, und dessen Befolgung, mithin die Tu n l i c h k e i t desselben ich durch die Tat bewiesen vor mir sehe. Nun mag ich mir sogar eines gleichen Grades der Rechtschaffenheit bewußt sein, und die Achtung bleibt doch. Denn da beim Menschen immer alles Gute mangelhaft ist, so | schlägt das Gesetz, durch ein Beispiel anschaulich gemacht, doch immer meinen Stolz nieder, wozu der Mann, den ich vor mir sehe, dessen Unlauterkeit, die ihm immer noch anhängen mag, mir nicht so wie mir die meinige bekannt ist, der mir also in reinerem Lichte erscheint, einen Maßstab abgibt. A c h t u n g ist ein Tr i b u t , den wir dem Verdienste nicht verweigern können, wir mögen wollen oder nicht; wir mögen allenfalls äußerlich damit zurückhalten, so können wir doch nicht verhüten, sie innerlich zu empfinden. Die Achtung ist so w e n i g ein Gefühl der L u s t , daß man sich ihr in Ansehung eines Menschen nur ungern überläßt. Man sucht etwas ausfindig zu machen, was uns die Last derselben erleichtern könne, irgend einen Tadel, um uns wegen der Demütigung, die uns durch ein solches Beispiel widerfährt, schadlos zu halten. Selbst Verstorbene sind, vornehmlich wenn ihr Beispiel unnachahmlich scheint, vor dieser Kritik nicht immer gesichert. Sogar das moralische Gesetz selbst in seiner f e i e r l i c h e n M a j e s t ä t ist diesem Bestreben, sich der Achtung dagegen zu erwehren, ausgesetzt. Meint man wohl, daß es einer anderen Ursache zuzuschreiben sei, weswegen man es gern zu unserer vertraulichen Neigung herabwürdigen möchte, und sich aus anderen Ursachen alles so bemühe, um es zur beliebten Vorschrift unseres eigenen wohlverstandenen Vorteils zu machen, als daß man der abschrekkenden | Achtung, die uns unsere eigene Unwürdigkeit so strenge vorhält, loswerden möge? Gleichwohl ist darin doch auch wiederum s o w e n i g U n l u s t , daß, wenn man einmal den Eigendünkel abgelegt und jener Achtung praktischen Einfluß verstattet hat, man sich wiederum an der Herrlichkeit dieses Gesetzes nicht sattsehen kann, und die Seele sich in dem Maße selbst zu erheben glaubt, als

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posso aggiungere: a un uomo di umile condizione e del popolo, nel quale io vedo una integrità di carattere in un certo grado che non sento in me stesso, i l m i o s p i r i t o s ’ i n c h i n a , ch’io voglia o no, e per quanto io vada con la testa alta per non lasciargli dimenticare la mia superiorità. Perché ciò? Il suo esempio mi presenta una legge che abbatte la mia presunzione, se paragono questa legge col mio metodo di procedere e vedo dimostrata mediante il fatto l’osservanza di questa legge, e quindi la p o s s i b i l i t à di e s e g u i r l a . Ora, io posso esser conscio di aver anch’io un tale grado d’integrità, e, tuttavia, il rispetto rimane. Poiché, siccome nell’uomo ogni bene è sempre imperfetto, la legge, resa evidente mediante un esempio, abbatte pur sempre la mia superbia, perché l’uomo che io vedo avanti a me, essendo l’imperfezione, che può ancor sempre esser unita a lui, non così nota a me come la mia, mi appare perciò in una luce più pura, e mi serve di misura. Il r i s p e t t o è u n t r i b u t o che, volere o non volere, non possiamo negare al merito; possiamo magari non lasciarlo apparire esteriormente, ma non possiamo impedirci di sentirlo interiormente. Il rispetto è sì p o c o un sentimento di p i a c e r e , che solo mal volentieri vi si cede riguardo a un uomo. Si va in cerca di qualcosa che ce ne possa alleviare il peso, di qualche difetto, per compensarci dell’umiliazione che abbiamo mediante un tale esempio. Anche i morti, specialmente se il loro esempio pare inimitabile, non sono sempre al sicuro da questa critica. Perfino la legge morale, nella sua s o l e n n e m a e s t à , è esposta a questo sforzo di difenderci dal rispetto. Credete forse che si debba attribuire a un’altra causa il desiderio di abbassare al livello della nostra inclinazione familiare la legge morale? e ogni nostro sforzo per fare di questa legge il precetto favorito del nostro interesse ben inteso è fatto forse per altre ragioni, che per liberarci da questo rispetto spaventevole che ci mostra così severamente la nostra indegnità? Nondimeno, in questo rispetto, vi è tuttavia anche si p o c o d i s p i a c e r e , che una volta che si sia smessa la presunzione, e che si sia concesso a quel rispetto un influsso pratico, non ci si può saziare di mirar la maestà di questa legge; e l’anima crede di elevarsi nella stessa misura in cui vede eleva-

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sie das heilige Gesetz über sich und ihre gebrechliche Natur erhaben sieht. Zwar können große Talente und eine ihnen proportionierte Tätigkeit auch Achtung oder ein mit derselben analogisches Gefühl bewirken, es ist auch ganz anständig, es ihnen zu widmen, und da scheint es, als ob Bewunderung mit jener Empfindung einerlei sei. Allein, wenn man näher zusieht, so wird man bemerken, daß, da es immer ungewiß bleibt, wieviel das angeborene Talent und wieviel Kultur durch eigenen Fleiß an der Geschicklichkeit teil habe, so stellt uns die Vernunft die letztere mutmaßlich als Frucht der Kultur, mithin als Verdienst vor, welches unseren Eigendünkel merklich herabstimmt und uns darüber entweder Vorwürfe macht oder uns die Befolgung eines solchen Beispiels in der Art, wie es uns angemessen ist, auferlegt. Sie ist also nicht bloße Bewunderung, diese Achtung, die wir einer solchen Person (eigentlich dem Gesetze, was uns sein Beispiel vorhält) beweisen; welches sich auch dadurch bestätigt, daß der gemeine Haufe der Liebhaber, wenn | er das Schlechte des Charakters eines solchen Mannes (wie etwa Vo l t a i r e ) sonstwoher erkundigt zu haben glaubt, alle Achtung gegen ihn aufgibt, der wahre Gelehrte aber sie noch immer wenigstens im Gesichtspunkte seiner Talente fühlt, weil er selbst in einem Geschäfte und Berufe verwicke ist, welches die Nachahmung desselben ihm gewissermaßen zum Gesetze macht. Achtung fürs moralische Gesetz ist also die einzige und zugleich unbezweifelte moralische Triebfeder, sowie dieses Gefühl auch auf kein Objekt anders als lediglich aus diesem Grunde gerichtet ist. Zuerst bestimmt das moralische Gesetz objektiv und unmittelbar den Willen im Urteile der Vernunft; Freiheit, deren Kausalität bloß durchs Gesetz bestimmbar ist, besteht aber eben darin, daß sie alle Neigungen, mithin die Schätzung der Person selbst auf die Bedingung der Befolgung ihres reinen Gesetzes einschränkt. Diese Einschränkung tut nun eine Wirkung aufs Gefühl und bringt Empfindung der Unlust hervor, die aus dem moralischen Gesetze a priori erkannt werden kann. Da sie aber bloß sofern eine n e g a t i v e Wirkung ist, die, als aus dem Einflusse einer reinen praktischen Vernunft entsprungen, vornehmlich der Tätigkeit des Subjekts, sofern Neigungen die Bestimmungsgründe desselben sind, mithin der Meinung seines persönlichen Werts Abbruch tut (der ohne Einstimmung mit dem moralischen Gesetze

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ta al disopra di sé e della sua fragile natura la legge santa. Invero grandi talenti, e un’attività proporzionata ad essi, possono anche produrre il rispetto, o un sentimento analogo; è anche affatto conveniente dedicar loro il rispetto, e sembra che in questo caso l’ammirazione sia identica a tal sentimento. Ma se si guarda più da vicino, si vedrà che, siccome rimane sempre incerto quanta parte abbia nell’abilità il talento innato, e quanta la cultura mediante l’applicazione propria, la ragione ci presenta l’abilità come frutto probabile della cultura, e quindi come merito che diminuisce notevolmente la nostra presunzione, e o ce ne fa rimproveri, o c’impone di seguire un tale esempio nel modo per noi conveniente. Non è dunque semplice ammirazione questo rispetto che manifestiamo a una tale persona (propriamente alla legge, che il suo esempio ci manifesta); il che è confermato anche mediante il fatto che il volgo dei dilettanti, se crede di essere stato in qualche modo informato del lato cattivo del carattere di un tale uomo (come, per esempio di Voltaire), perde ogni rispetto verso di lui; ma il vero dotto sente ancor sempre il rispetto almeno dal punto di vista del suo talento, perché egli stesso è impegnato in un’occupazione e in uno stato che in certo modo gli fanno una legge d’imitare quell’uomo. Il rispetto alla legge morale è, dunque, l’unico, e nello stesso tempo indubitato, movente morale; e così pure questo sentimento non si applica a nessun oggetto per altro motivo che per questo. Anzitutto la legge morale determina oggettivamente e immediatamente la volontà nel giudizio della ragione; ma la libertà, la cui causalità è determinabile solo mediante la legge, consiste, precisamente in ciò, che essa limita tutte le inclinazioni, e quindi anche la stima della persona, alla condizione dell’osservanza della sua legge pura. Ora, questa limitazione ha un effetto sul sentimento, e produce una sensazione di dispiacere, che può esser conosciuta a p r i o r i per la legge morale. Ma siccome questo è un effetto semplicemente negativo, che, come derivato dall’influsso di una ragion pura pratica, reca danno specialmente all’attività del soggetto, in quanto le inclinazioni sono i motivi determinanti di esso, e quindi all’opinione che esso si fa del suo valore personale (il quale, se non è in accordo colla leg-

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auf nichts herabgesetzt wird), so ist | die Wirkung dieses Gesetzes aufs Gefühl bloß Demütigung, welche wir also zwar a priori einsehen, aber an ihr nicht die Kraft des reinen praktischen Gesetzes als Triebfeder, sondern nur den Widerstand gegen Triebfedern der Sinnlichkeit erkennen können. Weil aber dasselbe Gesetz doch objektiv, d. i. in der Vorstellung der reinen Vernunft ein unmittelbarer Bestimmungsgrund des Willens ist, folglich diese Demütigung nur relativ auf die Reinigkeit des Gesetzes stattfindet, so ist die Herabsetzung der Ansprüche der moralischen Selbstschätzung, d. i. die Demütigung auf der sinnlichen Seite eine Erhebung der moralischen, d. i. der praktischen Schätzung des Gesetzes selbst auf der intellektuellen, mit einem Worte Achtung fürs Gesetz also auch ein seiner intellektuellen Ursache nach positives Gefühl, das a priori erkannt wird. Denn eine jede Verminderung der Hindernisse einer Tätigkeit ist Beförderung dieser Tätigkeit selbst. Die Anerkennung des moralischen Gesetzes aber ist das Bewußtsein einer Tätigkeit der praktischen Vernunft aus objektiven Gründen, die bloß darum nicht ihre Wirkung in Handlungen äußert, weil subjektive Ursachen (pathologische) sie hindern. Also muß die Achtung fürs moralische Gesetz auch als positive, aber indirekte Wirkung desselben aufs Gefühl, sofern jenes den hindernden Einfluß der Neigungen durch Demütigung des Eigendünkels schwächt, mithin als subjektiver Grund der Tätigkeit, | d. i. als Tr i e b f e d e r zur Befolgung desselben und als Grund zu Maximen eines ihm gemäßen Lebenswandels angesehen werden. Aus dem Begriffe einer Triebfeder entspringt der eines I n t e r e s s e , welches niemals einem Wesen, als was Vernunft hat, beigelegt wird und eine Tr i e b f e d e r des Willens bedeutet, sofern sie durch Ve r n u n f t v o r g e s t e l l t wird. Da das Gesetz selbst in einem moralisch guten Willen die Triebfeder sein muß, so ist das m o r a l i s c h e I n t e r e s s e ein reines sinnenfreies Interesse der bloßen praktischen Vernunft. Auf dem Begriffe eines Interesse gründet sich auch der einer M a x i m e . Diese ist also nur alsdann moralisch echt, wenn sie auf dem bloßen Interesse, das man an der Befolgung des Gesetzes nimmt, beruht. Alle drei Begriffe aber, der einer T r i e b f e d e r , eines I n t e r e s s e und einer M a x i m e , können nur auf endliche Wesen angewandt werden. Denn sie setzen insgesamt eine

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ge morale, vien ridotto a niente), così l’effetto di questa legge sul sentimento è semplicemente un’umiliazione, che noi quindi conosciamo bensì a p r i o r i , ma in cui non possiamo conoscere la forza della legge pura pratica come movente, ma soltanto la resistenza ai moventi della sensibilità. Ma siccome la stessa legge oggettivamente, cioè nella rappresentazione della ragion pura, è un motivo determinante immediato della volontà, e perciò quest’umiliazione avviene solo relativamente alla purezza della legge, così l’abbassamento delle pretese della stima morale di sé, cioè l’umiliazione dal lato sensibile, è un’elevazione della stima morale, cioè pratica, della legge stessa dal lato intellettuale: in una parola, è il rispetto alla legge, e quindi anche un sentimento positivo, quanto alla sua causa intellettuale, il quale vien conosciuto a p r i o r i . Poiché ogni diminuzione degli ostacoli di un’attività è un’agevolazione di quest’attività stessa. Ma il riconoscimento della legge morale è la coscienza di un’attività della ragion pratica per princìpi oggettivi, che non manifesta il suo effetto in azioni semplicemente perché cause soggettive (patologiche) lo impediscono. Dunque il rispetto alla legge morale deve esser considerato anche come un effetto positivo, ma indiretto, di essa sul sentimento, in quanto indebolisce l’influsso contrario delle inclinazioni mediante l’umiliazione della presunzione, e quindi come principio soggettivo dell’attività, cioè come m o v e n t e all’osservanza di questa legge, e come principio di massime di un modo di vivere ad essa conforme. Dal concetto di un movente deriva quello di un interesse; il quale non è mai attribuito ad altro essere che a quello che ha la ragione, e significa un m o v e n t e della volontà, in quanto è r a p p r e s e n t a t o mediante la ragione. Siccome la legge stessa dev’essere il movente in una volontà moralmente buona, così l’ i n t e r e s s e m o r a l e è un interesse puro e libero dai sensi, della semplice ragion pratica. Sul concetto di un interesse si fonda anche quello di una m a s s i m a . Questa è dunque veramente morale solo quando si fonda sul semplice interesse che si prende all’osservanza della legge. Ma tutti e tre i concetti, quello di un m o v e n t e , quello di un i n t e r e s s e e quello di una m a s s i m a , possono esser applicati soltanto ad esseri finiti. Essi infatti sup-

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Eingeschränktheit der Natur eines Wesens voraus, da die subjektive Beschaffenheit seiner Willkür mit dem objektiven Gesetze einer praktischen Vernunft nicht von selbst übereinstimmt; ein Bedürfnis, irgendwodurch zur Tätigkeit angetrieben zu werden, weil ein inneres Hindernis derselben entgegensteht. Auf den göttlichen Willen können sie also nicht angewandt werden. Es liegt so etwas Besonderes in der grenzenlosen Hochschätzung des reinen, von allem Vorteil entblöß|ten moralischen Gesetzes, sowie es praktische Vernunft uns zur Befolgung vorstellt, deren Stimme auch den kühnsten Frevler zittern macht und ihn nötigt, sich vor seinem Anblicke zu verbergen, daß man sich nicht wundern darf, diesen Einfluß einer bloß intellektuellen Idee aufs Gefühl für spekulative Vernunft unergründlich zu finden und sich damit begnügen zu müssen, daß man a priori doch noch soviel einsehen kann: ein solches Gefühl sei unzertrennlich mit der Vorstellung des moralischen Gesetzes in jedem endlichen vernünftigen Wesen verbunden. Wäre dieses Gefühl der Achtung pathologisch und also ein auf dem inneren S i n n e gegründetes Gefühl der Lust, so würde es vergeblich sein, eine Verbindung desselben mit irgend einer Idee a priori zu entdecken. Nun aber ist es ein Gefühl, was bloß aufs Praktische geht und zwar der Vorstellung eines Gesetzes lediglich seiner Form nach, nicht irgend eines Objekts desselben wegen anhängt, mithin weder zum Vergnügen noch zum Schmerze gerechnet werden kann und dennoch ein I n t e r e s s e an der Befolgung desselben hervorbringt, welches wir das m o r a l i s c h e nennen; wie denn auch die Fähigkeit, ein solches Interesse am Gesetze zu nehmen (oder die Achtung fürs moralische Gesetz selbst), eigentlich d a s m o r a l i s c h e G e f ü h l ist. Das Bewußtsein einer f r e i e n Unterwerfung des Willens unter das Gesetz, doch als mit einem unver|meidlichen Zwange, der allen Neigungen, aber nur durch eigene Vernunft angetan wird, verbunden, ist nun die Achtung fürs Gesetz. Das Gesetz, was diese Achtung fordert und auch einflößt, ist, wie man sieht, kein anderes als das moralische (denn kein anderes schließt alle Neigungen von der Unmittelbarkeit ihres Einflusses auf den Willen aus). Die Handlung, die nach diesem Gesetze, mit Ausschließung aller Bestimmungsgründe aus Neigung, objektiv praktisch ist, heißt P f l i c h t , welche um dieser Ausschließung willen in ihrem Be-

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pongono tutti una limitatezza della natura di un essere, in cui la natura soggettiva del suo libero arbitrio non si accorda da sé con la legge oggettiva di una ragion pratica; suppongono un bisogno di essere stimolati in qualche modo alla attività, perché un ostacolo interno si oppone ad essa. Perciò non possono esser applicati alla volontà divina. Vi è dunque qualcosa di particolare nella stima illimitata della legge morale pura, scevra da ogni utile, come la presenta alla nostra osservanza la ragion pratica, la cui voce fa tremare anche il malfattore più audace, e l’obbliga a nascondersi al suo cospetto: sicché non c’è da meravigliarsi di trovar impenetrabile per la ragione speculativa quest’influsso di un’idea semplicemente intellettuale sul sentimento, e di doversi contentare di questo, che si può ancora conoscere a p r i o r i , che un tale sentimento è indivisibilmente legato con la rappresentazione della legge morale in ogni essere razionale finito. Se questo sentimento di rispetto fosse patologico, e perciò sentimento di piacere fondato sul s e n s o interno, sarebbe inutile scoprire un legame di questo rispetto con una qualche idea a p r i o r i . Ma esso è un sentimento che si riferisce semplicemente alla pratica, che dipende dalla rappresentazione di una legge solo quanto alla forma, non per qualche oggetto di questa legge, e quindi non può esser riferito né al piacere, né al dolore: eppure produce un i n t e r e s s e all’osservanza di questa legge che noi chiamiamo i n t e r e s s e m o r a l e ; come la capacità di prendere un tale interesse alla legge (ossia il rispetto alla legge morale stessa) è propriamente il s e n t i m e n t o m o r a l e . Ora la coscienza di un assoggettamento l i b e r o della volontà alla legge, legata tuttavia con una coercizione inevitabile che vien fatta a tutte le inclinazioni, ma solo mediante la propria ragione, è il rispetto alla legge. La legge, che esige, e anche ispira, questo rispetto, è, come si vede, niente altro che la legge morale (poiché nessuna altra esclude tutte le inclinazioni dall’immediatezza del loro influsso sulla volontà). L’azione che, secondo questa legge, con esclusione di tutti i motivi determinanti che derivano dall’inclinazione, è oggettivamente pratica, si chiama d o v e r e ; il quale, per questa esclusione, contiene nel suo con-

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griffe praktische N ö t i g u n g , d. i. Bestimmung zu Handlungen, so u n g e r n e wie sie auch geschehen mögen, enthält. Das Gefühl, das aus dem Bewußtsein dieser Nötigung entspringt, ist nicht pathologisch, als ein solches, was von einem Gegenstande der Sinne gewirkt würde, sondern allein praktisch, d. i. durch eine vorhergehende (objektive) Willensbestimmung und Kausalität der Vernunft möglich. Es enthält also, als U n t e r w e r f u n g unter ein Gesetz, d. i. als Gebot (welches für das sinnlich affizierte Subjekt Zwang ankündigt), keine Lust, sondern sofern vielmehr Unlust an der Handlung in sich. Dagegen aber, da dieser Zwang bloß durch Gesetzgebung der e i g e n e n Vernunft ausgeübt wird, enthält es auch E r h e b u n g , und die subjektive Wirkung aufs Gefühl, sofern davon reine praktische Vernunft die alleinige Ursache ist, kann also bloß S e l b s t b i l l i g u n g in Ansehung der letz|teren heißen, indem man sich dazu ohne alles Interesse, bloß durchs Gesetz bestimmt erkennt, und sich nunmehr eines ganz anderen, dadurch subjektiv hervorgebrachten Interesse, welches rein praktisch und f r e i ist, bewußt wird, welches an einer pflichtmäßigen Handlung zu nehmen nicht etwa eine Neigung anrätig ist, sondern die Vernunft durchs praktische Gesetz schlechthin gebietet und auch wirklich hervorbringt, darum aber einen ganz eigentümlichen Namen, nämlich den der Achtung, führt. Der Begriff der Pflicht fordert also an der Handlung o b j e k t i v Übereinstimmung mit dem Gesetze, an der Maxime derselben aber subjektiv Achtung fürs Gesetz, als die alleinige Bestimmungsart des Willens durch dasselbe. Und darauf beruht der Unterschied zwischen dem Bewußtsein, p f l i c h t m ä ß i g und a u s P f l i c h t , d. i. aus Achtung fürs Gesetz, gehandelt zu haben, davon das erstere (die Legalität) auch möglich ist, wenn Neigungen bloß die Bestimmungsgründe des Willens gewesen wären, das zweite aber (die M o r a l i t ä t ), der moralische Wert, lediglich darin gesetzt werden muß, daß die Handlung aus Pflicht, d. i. bloß um des Gesetzes willen geschehe.*

* Wenn man den Begriff der Achtung für Personen, so wie er vorher dargelegt worden, genau erwägt, so wird man gewahr, daß sie immer auf dem Bewußtsein einer Pflicht beruhe, die uns ein Beispiel vorhält, und daß also Ach-

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cetto un c o s t r i n g i m e n t o pratico, cioè una determinazione alle azioni, per quanto m a l v o l e n t i e r i esse avvengano. Il sentimento che deriva dalla coscienza di questo costringimento non è patologico come un sentimento che fosse prodotto da un oggetto dei sensi, ma è soltanto pratico, cioè possibile mediante una determinazione precedente (oggettiva) della volontà e la causalità della ragione. Esso dunque, come a s s o g g e t t a m e n t o a una legge, cioè come comando (che significa violenza per un soggetto affetto sensibilmente), non contiene nessun piacere, ma, in questo senso, piuttosto dispiacere per l’azione in sé. D’altra parte, siccome questa violenza viene esercitata solo mediante la legislazione della p r o p r i a ragione, esso contiene anche un’ e l e v a z i o n e , e l’effetto soggettivo sul sentimento, in quanto la ragion pura pratica ne è la sola causa, si può quindi chiamare semplicemente a p p r o v a z i o n e di sé relativamente all’elevazione, poiché ci si riconosce determinati senza un interesse, solo mediante la legge, e si viene a conoscenza ormai di un interesse affatto diverso, e per ciò stesso prodotto soggettivamente, puramente pratico e libero, che non ci è consigliato da un’inclinazione per un’azione conforme al dovere, ma che la ragione mediante la legge pratica comanda semplicemente ed anche produce realmente, e perciò porta un nome affatto speciale, cioè quello di rispetto. Il concetto del dovere richiede dunque nell’azione, o g g e t t i v a m e n t e , l’accordo con la legge, ma nella massima di essa, s o g g e t t i v a m e n t e , il rispetto alla legge, come il solo modo di determinazione della volontà mediante la legge. E in ciò consiste la differenza fra la coscienza di aver agito c o n f o r m e m e n t e a l d o v e r e e quella d’aver agito p e r i l d o v e r e , cioè pel rispetto alla legge: il primo caso (la legalità) è possibile anche se semplicemente le inclinazioni siano state i motivi determinanti della volontà; il secondo caso ( l a m o r a l i t à ) , il valore morale, dev’esser posto invece soltanto in ciò che l’azione avvenga pel dovere, cioè semplicemente per la legge*. * Se si esamina accuratamente il concetto del rispetto alle persone, come già fu esposto, si vede che esso si fonda sempre sulla coscienza di un dovere, che un

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| Es ist von der größten Wichtigkeit in allen moralischen Beurteilungen, auf das subjektive Prinzip aller Maximen mit der äußersten Genauigkeit acht zu haben, damit alle Moralität der Handlungen in der Notwendigkeit derselben a u s P f l i c h t und aus Achtung fürs Gesetz, nicht aus Liebe und Zuneigung zu dem, was die Handlungen hervorbringen sollen, gesetzt werde. Für Menschen und alle erschaffenen vernünftigen Wesen ist die moralische Notwendigkeit Nötigung, d. i. Verbindlichkeit, und jede darauf gegründete Handlung als Pflicht, nicht aber als eine von uns selbst schon beliebte oder beliebt werden könnende Verfahrungsart vorzustellen. Gleich als ob wir es dahin jemals bringen könnten, daß ohne Achtung fürs Gesetz, welche mit Furcht oder wenigstens Besorgnis vor Übertretung verbunden ist, wir wie die über alle Abhängigkeit erhabene Gottheit von selbst, gleichsam durch eine uns zur Natur gewordene, niemals zu verrückende Übereinstimmung des Willens mit dem reinen Sittengesetze (welches also, da wir niemals versucht werden könnten, ihm | untreu zu werden, wohl endlich gar aufhören könnte, für uns Gebot zu sein) jemals in den Besitz einer H e i l i g k e i t des Willens kommen könnten. Das moralische Gesetz ist nämlich für den Willen eines allervollkommensten Wesens ein Gesetz der H e i l i g k e i t , für den Willen jedes endlichen vernünftigen Wesens aber ein Gesetz der P f l i c h t , der moralischen Nötigung und der Bestimmung der Handlungen desselben durch A c h t u n g für das Gesetz und aus Ehrfurcht für seine Pflicht. Ein anderes subjektives Prinzip muß zur Triebfeder nicht angenommen werden; denn sonst kann zwar die Handlung, wie das Gesetz sie vorschreibt, ausfallen, aber, da sie zwar pflichtmäßig ist, aber nicht aus Pflicht geschieht, so ist die Gesinnung dazu nicht moralisch, auf die es doch in dieser Gesetzgebung eigentlich ankömmt. Es ist sehr schön, aus Liebe zu Menschen und teilnehmendem Wohlwollen ihnen Gutes zu tun oder aus Liebe zur Ordnung gerecht zu sein, aber das ist noch nicht die echte moralische Maxime unseres Verhaltens, die unserem Standpunkte unter vernünftigen Wesen a l s M e n s c h e n angemessen ist, wenn wir uns anmaßen, tung niemals einen anderen als moralischen Grund haben könne, und es sehr gut, sogar in psychologischer Absicht zur Menschenkenntnis sehr nützlich sei, allerwärts, wo wir diesen Ausdruk brauchen, auf die geheime und wundernswürdige, dabei aber oft vorkommende Rücksicht, die der Mensch in seinen Beurteilungen aufs moralische Gesetz nimmt, acht zu haben.

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In tutti i giudizi morali è della più grande importanza far attenzione con somma diligenza al principio soggettivo di tutte le massime, affinché ogni moralità delle azioni venga posta nella necessità di agire per d o v e r e e per rispetto alla legge, non per amore o per propensione a ciò che le azioni devono produrre. Per gli uomini e per tutti gli esseri razionali creati la necessità morale è un costringimento, cioè un obbligo; ogni azione fondata su di essa si deve immaginare come dovere, e non come un modo di procedere che già ci piace o può diventarci piacevole. Proprio come se noi, senza il rispetto alla legge che è legato al timore o almeno con l’apprensione per la trasgressione, non potessimo da noi, come la divinità che è superiore a ogni dipendenza, e quasi per un accordo divenuto naturale per noi, che non dovesse mai esser turbato, della volontà con la legge pura morale (la quale perciò, giacché non potremmo mai tentare di esserle infedeli, potrebbe bene infine cessar di essere un comando per noi), venire in possesso di una santità della volontà. Vale a dire, la legge morale è per la volontà di un essere perfettissimo una legge della s a n t i t à , ma per la volontà di ogni essere finito razionale è una legge del d o v e r e , del costringimento morale e della determinazione delle azioni di essa mediante il r i s p e t t o a questa legge e per ossequio al dovere. Non si deve prendere per movente un altro principio soggettivo, poiché altrimenti l’azione può bensì avvenire come la prescrive la legge, ma, essendo essa conforme sì al dovere, ma non compiuta per il dovere, l’intenzione di essa non è morale; ed in questa legislazione si tratta invece propriamente dell’intenzione morale. È cosa molto bella far del bene agli uomini per amore verso di essi e per affettuosa benevolenza, oppure esser giusti per amore dell’ordine; ma questa non è ancora la vera massima morale del nostro modo di procedere, conforme alla nostra condizione, tra esseri razionali come u o m i n i , quando pretendiamo, esempio ci presenta, e che quindi il rispetto non può mai avere se non un fondamento morale, e che è cosa assai buona, anzi, dal punto di vista psicologico, assai utile alla conoscenza degli uomini, far attenzione, dovunque usiamo quest’espressione, al riguardo segreto e degno di ammirazione, ma tuttavia frequente, che l’uomo nei suoi giudizi ha alla legge morale.

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gleichsam als Volontäre, uns mit stolzer Einbildung über den Gedanken von Pflicht wegzusetzen und, als vom Gebote unabhängig, bloß aus eigener Lust das tun zu wollen, wozu für uns kein Gebot | nötig wäre. Wir stehen unter einer D i s z i p l i n der Vernunft und müssen in allen unseren Maximen der Unterwürfigkeit unter derselben nicht vergessen, ihr nichts zu entziehen, oder dem Ansehen des Gesetzes (ob es gleich unsere eigene Vernunft gibt) durch eigenliebigen Wahn dadurch etwas abkürzen, daß wir den Bestimmungsgrund unseres Willens, wenngleich dem Gesetze gemäß, doch worin anders als im Gesetze selbst und in der Achtung für dieses Gesetz setzten. Pflicht und Schuldigkeit sind die Benennungen, die wir allein unserem Verhältnisse zum moralischen Gesetze geben müssen. Wir sind zwar gesetzgebende Glieder eines durch Freiheit möglichen, durch praktische Vernunft uns zur Achtung vorgestellten Reichs der Sitten, aber doch zugleich Untertanen, nicht das Oberhaupt desselben, und die Verkennung unserer niederen Stufe als Geschöpfe und Weigerung des Eigendünkels gegen das Ansehen des heiligen Gesetzes ist schon eine Abtrünnigkeit von demselben dem Geiste nach, wenngleich der Buchstabedesselben erfüllt würde. Hiermit stimmt aber die Möglichkeit eines solchen Gebots als: Liebe Gott über alles und deinen Nächsten als d i c h s e l b s t * , ganz wohl zusammen. Denn | es fordert doch als Gebot Achtung für ein Gesetz, das L i e b e b e f i e h l t , und überläßt es nicht der beliebigen Wahl, sich diese zum Prinzip zu machen. Aber Liebe zu Gott als Neigung (pathologische Liebe) ist unmöglich; denn er ist kein Gegenstand der Sinne. Ebendieselbe gegen Menschen ist zwar möglich, kann aber nicht geboten werden; denn es steht in keines Menschen Vermögen, jemanden bloß auf Befehl zu lieben. Also ist es bloß die p r a k t i s c h e L i e b e , die in jenem Kern aller Gesetze verstanden wird. Gott lieben heißt in dieser Bedeutung: seine Gebote g e r n e tun; den Nächsten lieben

* Mit diesem Gesetze macht das Prinzip der eigenen Glückseligkeit, welches einige zum obersten Grundsatze der Sittlichkeit machen wollen, einen seltsamen Kontrast. Dieses würde so lauten: L i e b e d i c h s e l b s t ü b e r a l l e s , Gott aber und deinen Nächsten um dein selbst willen.

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come soldati volontari, con superbia chimerica, di non curarci del pensiero del dovere e, come indipendenti dal comando, di voler fare soltanto per proprio piacere quello per cui non ci sarebbe necessario alcun comando. Noi stiamo sotto una d i s c i p l i n a della ragione, e in tutte le nostre massime dello assoggettamento ad essa non dobbiamo dimenticare di non toglierle niente, e di non diminuire con un errore egoistico l’autorità della legge (quantunque l’autorità gliela dia la nostra ragione), ponendo il motivo determinante della nostra volontà, benché conforme al dovere, in qualche cosa di altro dalla legge stessa, e dal rispetto per questa legge. Dovere e obbligo sono le denominazioni che dobbiamo dare soltanto alla nostra relazione con la legge morale. Noi siamo bensì membri legislativi di un regno dei costumi, possibile mediante la libertà, rappresentato a noi mediante la ragion pratica come oggetto di rispetto; ma nello stesso tempo ne siamo i sudditi, non il sovrano, e il disconoscere il nostro grado inferiore come creature, e il rifiuto presuntuoso dell’autorità della legge santa, è già una infedeltà alla legge secondo lo spirito, quand’anche se ne osservi la lettera. Ma con ciò s’accorda benissimo la possibilità di un comandamento come questo: A m a D i o s o p r a o g n i c o s a e i l p r o s s i m o t u o c o m e t e s t e s s o * . Come comandamento infatti esige il rispetto per una legge che c o m a n d a l ’ a m o r e , e non lascia alla scelta arbitraria il farci di questo amore un principio. Ma l’amore di Dio come inclinazione (amore patologico) è impossibile; perché Dio non è un oggetto dei sensi. Un simile amore è bensì possibile verso gli uomini, ma non può essere comandato; poiché non è in potere di nessun uomo amare qualcuno semplicemente per precetto. Dunque è semplicemente l ’ a m o r e p r a t i c o che viene inteso in quel nucleo di tutte le leggi. Amar Dio, in questo senso, vuol dire eseguir v o l e n t i e r i i suoi comandamenti; amare il prossimo vuol dire metter in * Con questa legge è in forte contrasto il principio della propria felicità, di cui alcuni voglion fare il principio supremo della moralità. Questo suonerebbe così: A m a t e s t e s s o s o p r a o g n i c o s a , m a D i o e i l p r o s s i m o t u o per amor di te stesso.

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heißt: alle Pflicht gegen ihn g e r n e ausüben. Das Gebot aber, das dieses zur Regel macht, kann auch nicht diese Gesinnung in pflichtmäßigen Handlungen zu h a b e n , sondern bloß danach zu s t r e b e n gebieten. Denn ein Gebot, daß man etwas gerne tun soll, ist in sich widersprechend, weil, wenn wir, was uns zu tun obliege, schon von selbst wissen, wenn wir uns überdem auch bewußt wären, es gerne zu tun, ein Gebot darüber ganz unnötig, und, tun wir es zwar, aber eben nicht gerne, sondern nur aus Achtung fürs Gesetz, ein Gebot, welches diese Achtung eben zur Triebfeder der Maxime macht, gerade der gebotenen Gesinnung zuwi|der wirken würde. Jenes Gesetz aller Gesetze stellt also, wie alle moralische Vorschrift des Evangelii, die sittliche Gesinnung in ihrer ganzen Vollkommenheit dar, sowie sie als ein Ideal der Heiligkeit von keinem Geschöpfe erreichbar, dennoch das Urbild ist, welchem wir uns zu nähern und in einem ununterbrochenen, aber unendlichen Progressus gleich zu werden streben sollen. Könnte nämlich ein vernünftig Geschöpf jemals dahin kommen, alle moralischen Gesetze völlig g e r n e zu tun, so würde das soviel bedeuten als: es fände sich in ihm auch nicht einmal die Möglichkeit einer Begierde, die ihn zur Abweichung von ihnen reizte; denn die Überwindung einer solchen kostet dem Subjekt immer Aufopferung, bedarf also Selbstzwang, d. i. innere Nötigung zu dem, was man nicht ganz gern tut. Zu dieser Stufe der moralischen Gesinnung aber kann es ein Geschöpf niemals bringen. Denn da es ein Geschöpf, mithin in Ansehung dessen, was es zur gänzlichen Zufriedenheit mit seinem Zustande fordert, immer abhängig ist, so kann es niemals von Begierden und Neigungen ganz frei sein, die, weil sie auf physischen Ursachen beruhen, mit dem moralischen Gesetze, das ganz andere Quellen hat, nicht von selbst stimmen, mithin es jederzeit notwendig machen, in Rücksicht auf dieselben die Gesinnung seiner Maximen auf moralische Nötigung, nicht auf bereitwillige Ergebenheit, sondern auf Achtung, welche die Befolgung des Gesetzes, obgleich | sie ungerne geschähe, f o r d e r t , nicht auf Liebe, die keine innere Weigerung des Willens gegen das Gesetz besorgt, zu gründen, gleichwohl aber diese letztere, nämlich die bloße Liebe zum Gesetze (da es alsdann aufhören würde, G e b o t zu sein, und Mo-

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pratica v o l e n t i e r i tutti i doveri verso di esso. Ma il comandamento che fa di ciò una regola non può comandare di a v e r quest’intenzione nelle azioni conformi al dovere, ma soltanto di a s p i r a r v i . Un comandamento infatti che imponga di fare qualcosa volentieri è in sé contraddittorio; perché se sapessimo già da noi medesimi ciò che dobbiamo fare, ed inoltre avessimo coscienza di farlo volentieri, un comandamento a questo riguardo sarebbe affatto inutile; e se noi lo facessimo sì, ma non volentieri, e soltanto per rispetto alla legge, un comandamento, che facesse di questo rispetto il movente della massima, agirebbe affatto in contrario all’intenzione comandata. Quella legge di tutte le leggi presenta dunque, come tutti i precetti morali del Vangelo, l’intenzione morale nella sua intera perfezione come un ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura, e che tuttavia è l’esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci e diventare pari in un progresso ininterrotto, ma infinito. Se cioè una creatura razionale potesse mai venire ad adempiere affatto v o l e n t i e r i tutte le leggi morali, vorrebbe dire che in essa non si trova neanche una volta la possibilità di un appetito che la ecciti alla trasgressione di quelle leggi; poiché il vincere un tale appetito costa sempre un sacrificio al soggetto, e quindi abbisogna di violenza su di sé, e cioè di costringimento interno, il che non si fa del tutto volentieri. Ma a questo grado d’intenzione morale una creatura non può mai pervenire. Infatti, siccome è una creatura, e quindi sempre dipendente rispetto a ciò che essa richiede per essere perfettamente contenta del suo stato, così non può mai esser affatto libera da appetiti e inclinazioni, le quali, dipendendo da cause fisiche, non s’accordano da sé con la legge morale, che ha tutt’altre origini, e quindi rendono sempre necessario fondare riguardo ad essa l’intenzione delle proprie massime sul costringimento morale; non già sulla sommissione volenterosa, ma sul rispetto che r i c h i e d e l ’osservanza della legge, ancorché essa avvenga mal volentieri; non già sull’amore, che non teme nessuna esitazione interna della volontà dinanzi alla legge, ma facendo di esso, cioè del semplice amore alla legge (che cesserebbe allora di essere u n c o m a n d a m e n t o mentre la moralità, che allora si cambierebbe soggettivamente in

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ralität, die nun subjektiv in Heiligkeit überginge, aufhören würde, Tu g e n d zu sein) sich zum beständigen, obgleich unerreichbaren Ziele seiner Bestrebung zu machen. Denn an dem, was wir hochschätzen, aber doch (wegen des Bewußtseins unserer Schwächen) scheuen, verwandelt sich durch die mehrere Leichtigkeit, ihm Genüge zu tun, die ehrfurchtsvolle Scheu in Zuneigung und Achtung in Liebe; wenigstens würde es die Vollendung einer dem Gesetze gewidmeten Gesinnung sein, wenn es jemals einem Geschöpfe möglich wäre, sie zu erreichen. Diese Betrachtung ist hier nicht sowohl dahin abgezweckt, das angeführte evangelische Gebot auf deutliche Begriffe zu bringen, um der R e l i g i o n s s c h w ä r m e r e i in Ansehung der Liebe Gottes, sondern die sittliche Gesinnung auch unmittelbar in Ansehung der Pflichten gegen Menschen genau zu bestimmen, und einer b l o ß m o r a l i s c h e n Schwärmerei, welche viel Köpfe ansteckt, zu steuern oder womöglich vorzubeugen. Die sittliche Stufe, worauf der Mensch (aller unserer Einsicht nach auch jedes vernünftige Geschöpf) steht, ist Achtung fürs moralische Gesetz. Die Gesinnung, die ihm dieses zu befolgen obliegt, ist: es aus Pflicht, | nicht aus freiwilliger Zuneigung und auch allenfalls unbefohlener, von selbst gern unternommener Bestrebung zu befolgen, und sein moralischer Zustand, darin er jedesmal sein kann, ist Tu g e n d , d. i. moralische Gesinnung im K a m p f e , und nicht H e i l i g k e i t im vermeinten B e s i t z e einer völligen R e i n i g k e i t der Gesinnungen des Willens. Es ist lauter moralische Schwärmerei und Steigerung des Eigendünkels, wozu man die Gemüter durch Aufmunterung zu Handlungen als edler, erhabener und großmütiger stimmt, dadurch man sie in den Wahnversetzt, alswäre es nicht Pflicht, d. i. Achtung fürs Gesetz, dessen J o c h (das gleichwohl, weil es uns Vernunft selbst auferlegt, sanft ist) sie, wenngleich ungern, tragen müßten, was den Bestimmungsgrund ihrer Handlungen ausmachte, und welches sie immer noch demütigt, indem sie es befolgen (ihm gehorchen); sondern als ob jene Handlungen nicht aus Pflicht, sondern als barer Verdienst von ihnen erwartet würden. Denn nicht allein, daß sie durch Nachahmung solcher Taten, nämlich aus solchem Prinzip, nicht im mindesten dem Geiste des Gesetzes ein Genüge getan hätten, welcher in der dem Gesetze sich unterwerfenden Gesinnung, nicht in der Gesetzmäßigkeit der Handlung (das Prinzip möge sein, welches es

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santità, cesserebbe di essere v i r t ù ) lo scopo permanente, benché irraggiungibile, dei propri sforzi. Poiché in ciò che stimiamo altamente, ma pure (per la coscienza della nostra debolezza) temiamo, il timore rispettoso, mediante la maggior facilità di soddisfarlo, si cambia in propensione, e il rispetto in amore; ciò almeno sarebbe la perfezione di un’intenzione consacrata alla legge, se mai fosse possibile ad una creatura di raggiungerla. Questa considerazione ha per scopo non tanto di ridurre in concetti chiari il comandamento evangelico citato, in vista del f a n a t i s m o r e l i g i o s o riguardo all’amore di Dio, quanto di determinare esattamente l’intenzione morale, anche immediatamente riguardo ai doveri verso gli uomini, e di opporsi a un fanatismo s e m p l i c e m e n t e m o r a l e che infetta molte menti, o, se è possibile, di prevenirlo. Il grado morale in cui l’uomo (e, secondo ogni nostra cognizione, anche ogni creatura razionale) si trova, è il rispetto alla legge morale. L’intenzione che gli è imposta, di osservare questa legge, è di osservarla per dovere, non per propensione arbitraria, e neanche magari per uno sforzo non comandato ma intrapreso volentieri da lui stesso; e il suo stato morale, in cui si può sempre trovare, è la v i r t ù , cioè l’intenzione morale in l o t t a , e non la s a n t i t à nel creduto p o s s e s s o di una p u r e z z a perfetta delle intenzioni della volontà. È a un semplice fanatismo morale, e a un aumento di presunzione, che vengono disposti gli animi mediante l’incitamento ad azioni dichiarate più nobili, più sublimi e più magnanime; onde gli uomini son posti nell’illusione, come se non fosse il dovere, e cioè il rispetto alla legge, della quale, se pure non volentieri, d e b b a n o sopportare il giogo (giogo, tuttavia, dolce, perché ce l’impone la ragione stessa), ciò che costituisce il motivo determinante delle loro azioni, e ciò che li umilia ancor sempre quando essi lo osservano (gli o b b e d i s c o n o ) ; e come se da essi si attendessero quelle azioni, non per dovere, ma come puro merito. Essi mediante l’imitazione di tali atti, per tale principio, non solo non avrebbero soddisfatto minimamente allo spirito della legge, il quale consiste nella sommissione dell’intenzione alla legge, e non nella conformità dell’azione alla legge (qualunque sia il principio); ma ponendo il movente p a t o l o g i c a m e n t e

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auch wolle) besteht, und die Triebfeder pathologisch (in der Sympathie oder auch Philautie), nicht moralisch (im Gesetze) setzen: so bringen sie auf diese Art eine windige, überfliegende, phan|tastische Denkungsart hervor, sich mit einer freiwilligen Gutartigkeit ihres Gemüts, das weder Sporns noch Zügel bedürfe, für welches gar nicht einmal ein Gebot nötig sei, zu schmeicheln, und darüber ihrer Schuldigkeit, an welche sie doch eher denken sollten als an Verdienst, zu vergessen. Es lassen sich wohl Handlungen anderer, die mit großer Aufopferung und zwar bloß um der Pflicht willen geschehen sind, unter dem Namen e d l e r und e r h a b e n e r Taten preisen, und doch auch nur sofern Spuren da sind, welche vermuten lassen, daß sie ganz aus Achtung für seine Pflicht, nicht aus Herzensauwallungen geschehen sind. Will man jemandem aber sie als Beispiele der Nachfolge vorstellen, so muß durchaus die Achtung für Pflicht (als das einzige echte moralische Gefühl) zur Triebfeder gebraucht werden: diese ernste, heilige Vorschrift, die es nicht unserer eiteln Selbstliebe überläßt, mit pathologischen Antrieben (sofern sie der Moralität analogisch sind) zu tändeln und uns auf v e r d i e n s t l i c h e n Wert was zugute zu tun. Wenn wir nur wohl nachsuchen, so werden wir zu allen Handlungen, die anpreisungswürdig sind, schon ein Gesetz der Pflicht finden, welches g e b i e t e t und nicht auf unser Belieben ankommen läßt, was unserem Hange gefällig sein möchte. Das ist die einzige Darstellungsart, welche die Seele moralisch bildet, weil sie allein fester und genau bestimmter Grundsätze fähig ist. | Wenn S c h w ä r m e r e i in der allgemeinsten Bedeutung eine nach Grundsätzen unternommene Überschreitung der Grenzen der menschlichen Vernunft ist, so ist m o r a l i s c h e S c h w ä r m e r e i diese Überschreitung der Grenzen, die die praktische reine Vernunft der Menschheit setzt, dadurch sie verbietet, den subjektiven Bestimmungsgrund pflichtmäßiger Hlandlungen, d. i. die moralische Triebfeder derselben irgend worin anders als im Gesetze selbst, und die Gesinnung, die dadurch in die Maximen gebracht wird, irgend anderwärts als in der Achtung für dies Gesetz zu setzen, mithin den alle A r r o g a n z sowohl als eitle P h i l a u t i e niederschlagenden Gedanken von Pflicht zum obersten L e b e n s p r i n z i p aller Moralität im Menschen zu machen gebietet. Wenn dem also ist, so haben nicht allein Romanschreiber oder empfindelnde Erzieher (ob sie gleich noch so sehr wider Emplindelei eifern), sondern bisweilen selbst Philosophen, ja die strengsten unter allen, die Stoiker, m o r a l i s c h e S c h w ä r m e r e i statt

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(nella simpatia oppure nell’amore di sé), non moralmente (nella legge), in tal modo produrrebbero una maniera di pensare leggiera, superficiale, fantastica, vantandosi di una bontà spontanea del loro animo, che non abbisogni né di sproni né di freno, e per cui non sia neanche necessario un comandamento, e di menticando a questo riguardo il loro obbligo, a cui tuttavia essi dovrebbero pensare prima che al merito. Senza dubbio, le azioni di altri, che furono fatte con maggiore sacrificio e veramente solo per il dovere, possono esser lodate col nome di fatti nobili e sublimi; e tuttavia solo in quanto esistono tracce, che lasciano supporre che quelle azioni furono fatte assolutamente per rispetto al proprio dovere, non per impeti del cuore. Ma se si vuol presentare ad alcuno queste azioni come esempi da imitare, il rispetto al dovere (come l’unico vero sentimento morale) dev’essere assolutamente usato come movente: severo e santo precetto che non permette al nostro frivolo amor proprio di trastullarsi cogli impulsi patologici (in quanto essi sono analoghi alla moralità), e a noi di vantarci del nostro m e r i t o . Purché cerchiamo bene, per tutte le azioni che son degne di lode troveremo una legge del dovere, che c o m a n d a e non lascia dipendere dal nostro arbitrio ciò che potrebbe piacere alla nostra tendenza. Questo è il solo modo di rappresentazione che rende morale l’anima, perché solo esso è capace di princìpi saldi ed esattamente determinati. Se il f a n a t i s m o nel senso più generale è una trasgressione, intrapresa secondo princìpi, dei limiti della ragione umana, il f a n a t i s m o m o r a l e è questo passare i limiti che la ragion pura pratica pone all’umanità, per cui essa vieta di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al dovere, cioè il movente morale di esse, in qualche cosa che non sia la legge stessa, e l’intenzione, che per essa vien recata nelle massime, altrove che nel rispetto per questa legge, e quindi comanda di fare del pensiero del dovere, che abbatte ogni p r e s u n z i o n e e così pure il vano a m o r d i s é , i l p r i n c i p i o d i v i t a supremo di ogni moralità nell’uomo. Se è così, non solo i romanzieri e i pedagoghi sentimentali (benché inveiscano ancor tanto contro la sensibilità affettata), ma persino i filosofi, anzi i più rigidi di tutti, gli stoici, hanno in-

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nüchterner, aber weiser Disziplin der Sitten eingeführt, wenngleich die Schwärmerei der letzteren mehr heroisch, der ersteren von schaler und schmelzender Beschaffenheit war; und man kann es, ohne zu heucheln, der moralischen Lehre des Evangelii mit aller Wahrheit nachsagen: daß es zuerst durch die Reinigkeit des moralischen Prinzips, zugleich aber durch die Angemessenheit dessel|ben mit den Schranken endlicher Wesen alles Wohlverhalten des Menschen der Zucht einer hinen vor Augen gelegten Pflicht, die sie nicht unter moralischen geträumten Vollkommenheiten schwärmen läßt, unterworfen und dem Eigendünkel sowohl als der Eigenliebe, die beide gerne ihre Grenzen verkennen, Schranken der Demut (d. i. der Selbsterkenntnis) gesetzt habe. P f l i c h t ! du erhabener großer Name, der du nichts Beliebtes, was Einschmeichelung bei sich führt, in dir fassest, sondern Unterwerfung verlangst, doch auch nichts drohest, was natürliche Abneigung im Gemüte erregte und schreckte, um den Willen zu bewegen, sondern bloß ein Gesetz aufstellst, welches von selbst im Gemüte Eingang findet und doch sich selbst wider Willen Verehrung (wenngleich nicht immer Befolgung) erwirbt, vor dem alle Neigungen verstummen, wenn sie gleich insgeheim ihm entgegenwirken: welches ist der deiner würdige Ursprung, und wo findet man die Wurzel deiner edeln Abkunft, welche alle Verwandtschaft mit Neigungen stolz ausschlägt, und von welcher Wurzel abzustammen die unnachläßliche Bedingung desjenigen Werts ist, den sich Menschen allein selbst geben können? Es kann nichts minderes sein, als was den Menschen über sich selbst (als einen Teil der Sinnenwelt) erhebt, was ihn an eine Ordnung der Dinge knüpft, die nur der Verstand denken kann, und die zu|gleich die ganze Sinnenwelt, mit ihr das empirisch bestimmbare Dasein des Menschen in der Zeit und das Ganze aller Zwecke (welches allein solchen unbedingten praktischen Gesetzen als das moralische angemessen ist) unter sich hat. Es ist nichts anderes als die P e r s ö n l i c h k e i t , d. i. die Freiheit und Unabhängigkeit von dem Mechanismus der ganzen Natur, doch zugleich als ein Vermögen eines Wesens betrachtet, welches eigentümlichen, nämlich von seiner eigenenen Vernunft gegebenen reinen praktischen Gesetzen, die Person also als zur Sinnenwelt gehörig ihrer eigenen Persönlichkeit unterworfen ist, sofern sie zugleich zur intelligibe-

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trodotto il f a n a t i s m o m o r a l e , invece della fredda, ma saggia disciplina dei costumi, ancorché il fanatismo degli ultimi fosse più eroico, e quello dei primi di carattere più insipido e più tenero; e si può, senza ipocrisia, con tutta verità ripetere della dottrina morale del Vangelo, che essa, anzitutto mediante la purezza del principio morale, ma nello stesso tempo mediante la proporzione di esso ai limiti degli esser finiti, ha assoggettato ogni buona condotta dell’uomo alla disciplina di un dovere posto davanti ai suoi occhi, che non lascia vaneggiare in perfezioni morali immaginarie, e ha posto i confini dell’umiltà (cioè della conoscenza di sé) alla presunzione, e così pure all’amor proprio, entrambi i quali ignorano volentieri i loro limiti. D o v e r e ! nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole che implichi lusinga, ma chiedi la sommissione; che, tuttavia, non minacci niente donde nasca nell’animo naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà, ma esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell’animo, e anche contro la volontà si acquista venerazione (se non sempre osservanza); innanzi alla quale tutte le inclinazioni ammutoliscono, benché di nascosto reagiscano ad essa; – qual è l’origine degna di te, e dove si trova la radice del tuo nobile lignaggio, che ricusa fieramente ogni parentela con le inclinazioni? radice da cui deve di necessità derivare quel valore, che è il solo che gli uomini si possono dare da se stessi. Non può essere niente di meno di quel che innalza l’uomo sopra se stesso (come parte del mondo sensibile), ciò che lo lega a un ordine delle cose che soltanto l’intelletto può pensare, e che contemporaneamente ha sotto di sé tutto il mondo sensibile e, con esso, l’esistenza empiricamente determinabile dell’uomo nel tempo e l’insieme di tutti i fini (il quale solo è conforme a leggi pratiche incondizionate, come la legge morale). Non è altro che la p e r s o n a l i t à , cioè la libertà e l’indipendenza dal meccanismo di tutta la natura, considerata però nello stesso tempo come facoltà di un essere soggetto a leggi speciali, e cioè a leggi pure pratiche, date dalla sua propria ragione; e quindi la persona, come appartenente al mondo sensibile, è soggetta alla sua propria personalità, in quanto appartiene nello stesso tem-

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len Welt gehört; da es denn nicht zu verwundern ist, wenn der Mensch, als zu beiden Welten gehörig, sein eigenes Wesen in Beziehung auf seine zweite und höchste Bestimmung nicht anders als mit Verehrung und die Gesetze derselben mit der höchsten Achtung betrachten muß. Auf diesen Ursprung gründen sich nun manche Ausdrücke, welche den Wert der Gegenstände nach moralischen Ideen bezeichnen. Das moralische Gesetz ist heilig (unverletzlich). Der Mensch ist zwar unheilig genug, aber die M e n s c h h e i t in seiner Person muß ihm heilig sein. In der ganzen Schöpfung kann alles, was man will, und worüber man etwas vermag, auch b l o ß a l s M i t t e l gebraucht werden; nur der Mensch, und mit ihm jedes vernünftige Geschöpf, ist | Z w e c k a n s i c h s e l b s t . Er ist nämlich das Subjekt des moralischen Gesetzes, welches heilig ist, vermöge der Autonomie seiner Freiheit. Eben um dieser willen ist jeder Wille, selbst jeder Person ihr eigener, auf sie selbst gerichteter Wille auf die Bedingung der Einstimmung mit der A u t o n o m i e des vernünftigen Wesens eingeschränkt, es nämlich keiner Absicht zu unterwerfen, die nicht nach einem Gesetze, welches aus dem Willen des leidenden Subjekts selbst entspringen könnte, möglich ist; also dieses niemals bloß als Mittel, sondern zugleich selbst als Zweck zu gebrauchen. Diese Bedingung legen wir mit Recht sogar dem göttlichen Willen in Ansehung der vernünftigen Wesen in der Welt als seiner Geschöpfe bei, indem sie auf der P e r s ö n l i c h k e i t derselben beruht, dadurch allein sie Zwecke an sich selbst sind. Diese Achtung erweckende Idee der Persönlichkeit, welche uns die Erhabenheit unserer Natur (ihrer Bestimmung nach) vor Augen stellt, indem sie uns zugleich den Mangel der Angemessenheit unseres Verhaltens in Ansehung derselben bemerken läßt und dadurch den Eigendünkel niederschlägt, ist selbst der gemeinsten Menschenvernunft natürlich und leicht bemerklich. Hat nicht jeder auch nur mittelmäßig ehrliche Mann bisweilen gefunden, daß er eine sonst unschädliche Lüge, dadurch er sich entweder selbst aus einem verdrießlichen Handel ziehen oder wohl gar einem geliebten und verdienst|vollen Freunde Nutzen schaffen konnte, bloß darum unterließ, um sich insgeheim in seinen eigenen

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po al mondo intelligibile. Non è dunque da meravigliarsi se l’uomo, come appartenente a due mondi, non debba considerare la sua propria essenza, in relazione alla sua seconda e suprema determinazione, altrimenti che con venerazione, e le leggi di questa determinazione col più grande rispetto. Su queste origini si fondano parecchie espressioni che denotano il valore degli oggetti secondo le idee morali. La legge morale è santa (inviolabile). L’uomo è bensì abbastanza profano, ma l ’ u m a n i t à , nella sua persona, per lui, dev’essere santa. In tutta la creazione tutto ciò che si vuole, e cui si ha qualche potere, può esser adoperato anche s e m p l i c e m e n t e c o m e m e z z o ; soltanto l’uomo, e con esso ogni creatura razionale, è f i n e a s e s t e s s o . Vale a dire esso è il soggetto della legge morale, la quale è santa in virtù dell’autonomia della sua libertà. Appunto per quest’autonomia ogni volontà, anche la volontà propria di ciascuna persona, rivolta verso la persona stessa, è condizionata dall’accordo con l’ a u t o n o m i a dell’essere razionale: è limitata cioè dalla condizione di non assoggettare quest’essere a nessun proposito, che non sia possibile secondo una legge la quale possa derivare dalla volontà dello stesso soggetto passivo; perciò di non adoperar mai questo semplicemente come mezzo, ma, nello stesso tempo, anche come fine. Questa condizione noi la attribuiamo giustamente persino alla volontà divina rispetto agli esseri razionali nel mondo come sue creature, perché essa si fonda sulla loro p e r s o n a l i t à , per la quale soltanto essi sono fini in se stessi. Quest’idea della personalità, la quale fa nascere il rispetto, e che ci pone davanti agli occhi la sublimità della nostra natura (secondo la sua determinazione), mentre nello stesso tempo ci fa scorgere la mancanza di conformità del nostro modo di agire riguardo ad essa, e così abbatte la nostra presunzione, è naturale e facilmente percepibile anche alla ragione umana più ordinaria. Ogni uomo, anche solo mediocremente onesto, non ha osservato talvolta di essersi astenuto da una bugia, d’altronde inoffensiva, con la quale egli poteva o trarre se stesso da una situazione spiacevole, o persino recar giovamento a un amico caro e pieno di merito, soltanto per non doversi disprezzare in se-

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Augen nicht verachten zu dürfen? Hält nicht einen rechtschaffenen Mann im größten Unglücke des Lebens, das er vermeiden konte, wenn er sich nur hätte über die Pflicht wegsetzen können, noch das Bewußtsein aufrecht, daß er die Menschheit in seiner Person doch in ihrer Würde erhalten und geehrt habe, daß er sich nicht vor sich selbst zu schämen und den inneren Anblick der Selbstprüfung zu scheuen Ursache habe? Dieser Trost ist nicht Glückseligkeit, auch nicht der mindeste Teil derselben. Denn niemand wird sich die Gelegenheit dazu, auch vielleicht nicht einmal ein Leben in solchen Umständen wünschen. Aber er lebt und kann es nicht erdulden, in seinen eigenen Augen des Lebens unwürdig zu sein. Diese innere Beruhigung ist also bloß negativ in Ansehung alles dessen, was das Leben angenehm machen mag; nämlich sie ist die Abhaltung der Gefahr, im persönlichen Werte zu sinken, nachdem der seines Zustandes von ihm schon gänzlich aufgegeben worden. Sie ist die Wirkung von einer Achtung für etwas ganz anderes als das Leben, womit in Vergleichung und Entgegensetzung das Leben vielmehr mit aller seiner Annehmlichkeit gar keinen Wert hat. Er lebt nur noch aus Pflicht, nicht, weil er am Leben den mindesten Geschmack findet. | So ist die echte Triebfeder der reinen praktischen Vernunft beschaffen; sie ist keine andere als das reine moralische Gesetz selber, sofern es uns die Erhabenheit unserer eigenen übersinnlichen Existenz spüren läßt und subjektiv in Menschen, die sich zugleich ihres sinnlichen Daseins und der damit verbundenen Abhängigkeit von ihrer sofern sehr pathologisch affizierten Natur bewußt sind, Achtung für ihre höhere Bestimmung wirkt. Nun lassen sich mit dieser Triebfeder gar wohl so viele Reize und Annehmlichkeiten des Lebens verbinden, daß auch um dieser willen allein schon die klügste Wahl eines vernünftigen und über das größte Wohl des Lebens nachdenkenden E p i k u r e e r s sich für das sittliche Wohlverhalten erklären würde, und es kann auch ratsam sein, diese Aussicht auf einen fröhlichen Genuß des Lebens mit jener obersten und schon für sich allein hinlänglich bestimmenden Bewegursache zu verbinden; aber nur um den Anlockungen, die das Laster auf der Gegenseite vorzuspiegeln nicht ermangelt, das Gegengewicht zu halten, nicht um hierin die eigentliche bewegende Kraft, auch nicht dem mindesten Teile nach, zu setzen, wenn von Pflicht die Rede ist. Denn das würde soviel sein, als die moralische Gesinnung in ihrer Quelle verunreinigen wollen. Die Ehrwürdigkeit der

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greto ai suoi propri occhi? Un uomo giusto nella più gran disgrazia della vita, che poteva evitare purché non si fosse curato del dovere, non è ancora sostenuto dalla coscienza che egli ha mantenuto nella sua dignità e onorato l’umanità nella sua persona, e che non ha motivo di vergognarsi davanti a se stesso, e di temere lo sguardo interno dell’esame di coscienza? Questo conforto non è felicità; non è neanche la minima parte di essa. Nessun uomo desidererà l’occasione di provarlo, e forse neanche desidererà una vita in tali circostanze. Ma egli vive, e non può sopportare di essere indegno della vita ai propri occhi. Questa pace interna è dunque semplicemente negativa riguardo a ciò che rende piacevole la vita; essa cioè tiene lontano il pericolo di diminuire nel valore personale, dopo che si è già rinunziato affatto al valore del proprio stato. Essa è l’effetto di un rispetto per qualcosa d’interamente diverso dalla vita, in paragone e in opposizione al quale, piuttosto, la vita, con tutta la sua piacevolezza, non ha proprio nessun valore. L’uomo vive ancora soltanto per dovere, non perché provi il minimo gusto alla vita. Di tal natura è il vero movente della ragion pura pratica: esso non è altro che la stessa legge morale pura, in quanto ci fa sentire la sublimità della nostra esistenza soprasensibile, e produce soggettivamente negli uomini, che sono consci insieme della loro esistenza sensibile e della congiunta dipendenza dalla loro natura, in quanto affetta patologicamente, il rispetto per la loro determinazione superiore. Ora con questo movente si possono benissimo legare tante attrattive e piacevolezze della vita, che anche solo per questo la scelta più prudente di un e p i c u r e o ragionevole, e che rifletta sul vantaggio più grande della vita, si dichiarerebbe per la buona condotta morale: e può anche esser conveniente legare questa prospettiva di un sentimento giocondo della vita con quel movente supremo, e che determina già sufficientemente per sé solo; ma soltanto per far da contrappeso alle lusinghe che il vizio non manca mai di fare dalla parte opposta, non per riporre in ciò, neanche per la minima parte, la forza che propriamente muove quando si tratta del dovere. Poiché sarebbe come se volessimo corrompere l’intenzione morale nella sua fonte. La dignità del dovere non ha che fare col godi-

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Pflicht hat nichts mit Lebensgenuß zu schaffen; sie hat ihr eigentümliches Gesetz, auch ihr eigentümliches Gericht, und wenn man auch beide noch so sehr zusammenschütteln wollte, um | sie vermischt gleichsam als Arzneimittel der kranken Seele zuzureichen, so scheiden sie sich doch alsbald von selbst, und tun sie es nicht, so wirkt das erste gar nicht; wenn aber auch das physische Leben hierbei einige Kraft gewönne, so würde doch das moralische ohne Rettung dahinschwinden. KRITISCHE BELEUCHTUNG DER ANALYTIK DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT.

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Ich verstehe unter der kritischen Beleuchtung einer Wissenschaft oder eines Abschnitts derselben, der für sich ein System ausmacht, die Untersuchung und Rechtfertigung, warum sie gerade diese und keine andere systematische Form haben müsse, wenn man sie mit einem anderen System vergleicht, das ein ähnliches Erkenntnisvermögen zum Grunde hat. Nun hat praktische Vernunft mit der spekulativen sofern einerlei Erkenntnisvermögen zum Grunde, als beide r e i n e Ve r n u n f t sind. Also wird der Unterschied der systematischen Form der einen von der anderen durch Vergleichung beider bestimmt und Grund davon angegeben werden müssen. Die Analytik der reinen theoretischen Vernunft hat es mit der Erkenntnis der Gegenstände, die dem | Verstande gegeben werden mögen, zu tun und mußte also von der A n s c h a u u n g , mithin (weil diese jederzeit sinnlich ist) von der Sinnlichkeit anfangen, von da aber allererst zu Begriffen (der Gegenstände dieser Anschauung) fortschreiten und durfte nur nach beider Voranschickung mit G r u n d s ä t z e n endigen. Dagegen, weil praktische Vernunft es nicht mit Gegenständen, sie zu erkennen, sondern mit ihrem eigenen Vermögen jene (der Erkenntnis derselben gemäß) w i r k l i c h z u m a c h e n , d. i. es mit einem W i l l e n zu tun hat, welcher eine Kausalität ist, sofern Vernunft den Bestimmungsgrund derselben enthält, da sie folglich kein Objekt der Anschauung, sondern (weil der Begriff der Kausalität jederzeit die Beziehung auf ein Gesetz enthält, welches die Existenz des Mannigfaltigen im Verhältnisse zueinander bestimmt) als praktische Vernunft, n u r e i n G e s e t z derselben anzugeben hat: so muß eine Kritik der Ana-

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mento della vita; il dovere ha la sua legge speciale, ed anche il suo speciale tribunale; e se anche si volessero confondere l’una con l’altro per porgerli mescolati come una medicina all’anima ammalata, essi tuttavia si separerebbero subito da sé; e se non facessero ciò, la prima non agirebbe punto, ma, se anche la vita fisica ne guadagnasse qualche forza, la vita morale scomparirebbe senza rimedio.

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DILUCIDAZIONE CRITICA DELL’ANALITICA DELLA RAGION PURA PRATICA.

Per dilucidazione critica di una scienza, o di una sezione di essa che costituisca per sé un sistema, intendo la ricerca e la giustificazione dei motivi per cui essa deve avere proprio questa forma sistematica e nessun’altra, quando essa venga confrontata con un altro sistema che ha per base una simile facoltà conoscitiva. Ora la ragion pratica ha per base la stessa facoltà conoscitiva che la ragione speculativa, in quanto l’una e l’altra sono r a g i o n p u r a . Dunque la differenza fra la forma sistematica dell’una e quella dell’altra dovrà esser determinata mediante il loro confronto, e dovrà esser data la ragione di tale differenza. L’analitica della ragion pura teoretica trattava della conoscenza degli oggetti che possono esser dati all’intelletto, e quindi doveva cominciare dall’ i n t u i z i o n e , e perciò (essendo questa sempre sensibile) dalla sensibilità; ma di là [doveva] passare ai concetti (degli oggetti di questa intuizione) e, soltanto dopo queste due premesse, poteva terminare coi p r i n c ì p i . Invece la ragion pratica, siccome non tratta degli oggetti per c o n o s c e r l i , ma della propria facoltà di p r o d u r l i (secondo la conoscenza di essi), cioè di una volontà, la quale è una causalità in quanto la ragione contiene il motivo determinante di essa; siccome, per conseguenza, non ha da dare nessun oggetto dell’intuizione, ma (perché il concetto della causalità contiene sempre la relazione a una legge che determina l’esistenza di elementi diversi in relazione gli uni con gli altri) come ragion pratica deve s o l t a n t o fornire u n a l e g g e della volontà; così una critica

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lytik derselben, sofern sie eine praktische Vernunft sein soll (welches die eigentliche Aufgabe ist), von der M ö g l i c h k e i t p r a k t i s c h e r Grundsätze a priori anfangen. Von da konnte sie allein zu B e g r i f f e n der Gegenstände einer praktischen Vernunft, nämlich denen des schlechthin Guten und Bösen, fortgehen, um sie jenen Grundsätzen gemäß allererst zu geben (denn diese sind vor jenen Prinzipien als Gutes und Böses durch gar kein Erkenntnisvermögen zu geben möglich), und nur alsdann konnte allererst das letzte Hauptstück, nämlich | das von dem Verhältnisse der reinen praktischen Vernunft zur Sinnlichkeit und von ihrem notwendigen, a priori zu erkennenden Einflusse auf dieselbe, d. i. vom m o r a l i s c h e n G e f ü h l e , den Teil beschließen. So teilte denn die Analytik der praktischen reinen Vernunft ganz analogisch mit der theoretischen den ganzen Umfang aller Bedingungen ihres Gebrauchs, aber in umgekehrter Ordnung. Die Analytik der theoretischen reinen Vernunft wurde in transzendentale Ästhetik und transzendentale Logik eingeteilt, die der praktischen umgekehrt in Logik und Ästhetik der reinen praktischen Vernunft (wenn es mir erlaubt ist, diese sonst gar nicht angemessenen Benennungen bloß der Analogie wegen hier zu gebrauchen), die Logik wiederum dort in die Analytik der Begriffe und die der Grundsätze, hier in die der Grundsätze und Begriffe. Die Ästhetik hatte dort noch zwei Teile, wegen der doppelten Art einer sinnlichen Anschauung; hier wird die Sinnlichkeit gar nicht als Anschauungsfähigkeit, sondern bloß als Gefühl (das ein subjektiver Grund des Begehrens sein kann) betrachtet, und in Ansehung dessen verstattet die reine praktischeVernunft keine weitere Einteilung. Auch daß diese Einteilung in zwei Teile mit deren Unterabteilung nicht wirklich (sowie man wohl im Anfange durch das Beispiel der ersteren verleitet werden konnte zu versuchen) hier vorgenommen wurde, davon läßt sich auch der Grund gar wohl einsehen. | Denn weil es r e i n e Ve r n u n f t ist, die hier in ihrem praktischen Gebrauche, mithin von Grundsätzen a priori und nicht von empirischen Bestimmungsgründen ausgehend, betrachtet wird: so wird die Einteilung der Analytik der reinen praktischen Vernunft der eines Vernunftschlusses ähnlich ausfallen müssen, nämlich vom Allgemeinen im O b e r s a t z e (dem moralischen Prinzip) durch eine im U n t e r s a t z e vorgenommene Subsumtion möglicher Handlungen (als guter und böser) unter jenen zu dem

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dell’analitica di essa, in quanto questa dev’essere una ragion pratica (e questo è propriamente il problema), deve cominciar dalla p o s s i b i l i t à d i p r i n c ì p i p r a t i c i a p r i o r i . Solo di qua poteva passare ai c o n c e t t i degli oggetti di una ragion pratica, cioè a quelli del semplicemente buono o cattivo, per darli anzitutto conformi a quei princìpi (poiché questi concetti, come bene e male, prima di quei princìpi non si possono dare mediante nessuna facoltà conoscitiva); e soltanto allora l’ultimo capitolo, ossia quello della relazione della ragion pura pratica con la sensibilità, e dell’influsso necessario e da conoscere a p r i o r i di quella su questa, cioè del s e n t i m e n t o m o r a l e , poteva chiudere la sezione. Così l’analitica della ragion pura pratica divideva in modo affatto analogo all’analitica della teoretica l’intero campo delle condizioni del suo uso, ma in ordine inverso. L’analitica della ragion pura teoretica veniva divisa in estetica trascendentale e logica trascendentale; quella della ragion pura pratica, invece, in logica ed estetica della ragion pura pratica (se mi è lecito qui usar semplicemente per analogia queste denominazioni, che d’altronde non sono del tutto convenienti): la logica, a sua volta, si divideva là in analitica dei concetti e analitica dei princìpi, qui in analitica dei princìpi e analitica dei concetti. L’estetica là aveva ancora due parti, a cagione del duplice modo di un’intuizione sensibile; qui la sensibilità non viene affatto considerata come capacità d’intuizione, ma semplicemente come sentimento (che può essere un principio soggettivo del desiderio), e relativamente ad esso la ragion pura pratica non permette nessuna divisione ulteriore. Si può anche vedere benissimo il motivo per cui questa divisione in due parti, con la loro suddivisione, qui non sia stata realmente seguita (come in principio, per l’esempio della prima, si poteva esser indotti a tentare). Siccome, infatti, è la r a g i o n p u r a che qui viene considerata nel suo uso pratico, e quindi movendo da princìpi a p r i o r i e non da motivi determinanti empirici; così la divisione dell’analitica della ragion pura pratica dovrà riuscir simile a quella di un sillogismo, procedendo cioè dall’universale nella m a g g i o r e (dal principio morale), mediante una sussunzione a esso di azioni possibili (come buone o

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S c h l u ß s a t z e , nämlich der subjektiven Willensbestimmung (einem Interesse an dem praktisch möglichen Guten und der darauf gegründeten Maxime) fortgehend. Demjenigen, der sich von den in der Analytik vorkommenden Sätzen hat überzeugen können, werden solche Vergleichungen Vergnügen machen; denn sie veranlassen mit Recht die Erwartung, es vielleicht dereinst bis zur Einsicht der Einheit des ganzen reinen Vernunftvermögens (des theoretischen sowohl als praktischen) bringen und alles aus einem Prinzip ableiten zu können; welches das unvermeidliche Bedürfnis der menschlichen Vernunft ist, die nur in einer vollständig systematischen Einheit ihrer Erkenntnisse völlige Zufriedenheit findet. Betrachten wir nun aber auch den Inhalt der Erkenntnis, die wir von einer reinen praktischen Vernunft und durch dieselbe haben können, wie ihn die Analytik derselben darlegt, so finden sich, bei einer merkwürdigen Analogie zwischen ihr und der theoretischen, nicht | weniger merkwürdige Unterschiede. In Ansehung der theoretischen konnte d a s Ve r m ö g e n e i n e r r e i n e n Ve r n u n f t e r k e n n t n i s a priori durch Beispiele aus Wissenschaften (bei denen man, da sie ihre Prinzipien auf so mancherlei Art durch methodischen Gebrauch auf die Probe stellen, nicht so leicht wie in der gemeinen Erkenntnis geheime Beimischung empirischer Erkenntnisgründe zu besorgen hat) ganz leicht und evident bewiesen werden. Aber daß reine Vernunft, ohne Beimischung irgend eines empirischen Bestimmungsgrundes, für sich allein auch praktisch sei: das mußte man aus dem g e m e i n s t e n p r a k t i s c h e n Ve r n u n f t g e b r a u c h e dartun können, indem man den obersten praktischen Grundsatz als einen solchen, den jede natürliche Menschenvernunft als völlig a priori, von keinen sinnlichen Datis abhängend, für das oberste Gesetz seines Willens erkennt, beglaubigte. Man mußte ihn zuerst, der Reinigkeit seines Ursprungs nach, selbst im U r t e i l e d i e s e r g e m e i n e n Ve r n u n f t bewähren und rechtfertigen, ehe ihn noch die Wissenschaft in die Hände nehmen konnte, um Gebrauch von ihm zu machen, gleichsam als ein Faktum, das vor allem Vernünfteln über seine Möglichkeit und allen Folgerungen, die daraus zu ziehen sein möchten, vorhergeht. Aber dieser Umstand, läßt sich auch aus dem kurz vorher Angeführten gar wohl erklären; weil praktische reine Vernunft notwendig von Grundsätzen anfangen muß, die also aller

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cattive) fatta nella m i n o r e , alla c o n c l u s i o n e , cioè alla determinazione soggettiva della volontà (ad un interesse per il bene praticamente possibile e alla massima fondata su quell’interesse). Questi confronti faranno piacere a chi si è potuto convincere delle proposizioni presentate nell’analitica; poiché essi suscitano giustamente la speranza che forse si possa arrivare sino alla cognizione dell’unità dell’intera facoltà della ragion pura (tanto della teoretica come della pratica), e che si possa derivar tutto da un solo principio; che è il bisogno irresistibile della ragione umana, la quale trova piena soddisfazione soltanto in una unità completamente sistematica delle sue conoscenze. Ma se consideriamo anche il contenuto della conoscenza che noi possiamo avere da una ragion pura pratica e mediante essa, come la espone l’analitica di questa ragione, si trovano, insieme ad una notevole analogia tra essa e la ragion teoretica, differenze non meno notevoli. Relativamente alla ragion teoretica, la facoltà di una conoscenza razionale pura a p r i o r i poteva esser dimostrata in modo del tutto facile ed evidente mediante esempî tratti dalle scienze (nelle quali, siccome mediante l’uso metodico esse mettono alla prova in così vario modo i loro princìpi, non v’è da temere cosi facilmente come nella conoscenza ordinaria una segreta mescolanza di princìpi empirici della conoscenza). Ma che la ragion pura sia per sé sola anche pratica, senza mescolanza di un motivo determinante empirico, si doveva poter dimostrare dall’uso r a z i o n a l e p r a t i c o p i ù o r d i n a r i o , mentre si confermava il principio pratico supremo qual principio che ogni ragione umana naturale conosce come affatto a p r i o r i , indipendentemente da ogni dato sensibile, come la legge suprema della sua volontà. Questo principio doveva prima esser osservato e giustificato, secondo la purezza della sua origine, anche nel g i u d i z i o d i q u e s t a r a g i o n e o r d i n a r i a , prima ancora che la scienza lo potesse prendere nelle mani per farne uso come di un fatto che precede ogni sofisticare sulla sua possibilità e su tutte le conseguenze che ne possono esser tratte. Ma questa circostanza si può anche benissimo spiegare con ciò che s’è detto poco prima; perché la ragion pura pratica deve necessariamente cominciare da princìpi,

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Wissenschaft als erste | Data zum Grunde gelegt werden müssen und nicht allererst aus ihr entspringen können. Diese Rechtfertigung der moralischen Prinzipien als Grundsätze einer reinen Vernunft konnte aber auch darum gar wohl und mit genugsamer Sicherheit durch bloße Berufung auf das Urteil des gemeinen Menschenverstandes geführt werden, weil sich alles Empirische, was sich als Bestimmungsgrund des Willens in unsere Maximen einschleichen möchte, durch das Gefühl des Vergnügens oder Schmerzens, das ihm, sofern als es Begierde erregt, notwendig anhängt, sofort k e n n t l i c h m a c h t , diesem aber jene reine praktische Vernunft geradezu w i d e r s t e h t , es in ihr Prinzip als Bedingung aufzunehmen. Die Ungleichartigkeit der Bestimmungsgründe (der empirischen und rationalen) wird durch diese Widerstrebung einer praktisch gesetzgebenden Vernunft wider alle sich einmengende Neigung durch eine eigentümliche Art von E m p f i n d u n g , welche aber nicht vor der Gesetzgebung der praktischen Vernunft vorhergeht, sondern vielmehr durch dieselbe allein und zwar als ein Zwang gewirkt wird, nämlich durch das Gefühl einer Achtung, dergleichen kein Mensch für Neigungen hat, sie mögen sein welcher Art sie wollen, wohl aber für das Gesetz, so kenntlich gemacht und so gehoben und hervorstechend, daß keiner, auch der gemeinste Menschenverstand, in einem vorgelegten Beispiele nicht den Augenblick inne werden sollte, daß durch empirische Grün|de des Wollens ihm zwar ihren Anreizen zu folgen geraten, niemals aber einem anderen als lediglich dem reinen praktischen Vernunftgesetze zu gehorchen zugemutet werden könne. Die Unterscheidung der G l ü c k s e l i g k e i t s l e h r e von der S i t t e n l e h r e , in deren ersterer empirische Prinzipien das ganze Fundament, von der zweiten aber auch nicht den mindesten Beisatz derselben ausmachen, ist nun in der Analytik der reinen praktischen Vernunft die erste und wichtigste ihr obliegende Beschäftigung, in der sie so p ü n k t l i c h , ja wenn es auch hieße, p e i n l i c h verfahren muß, als je der Geometer in seinem Geschäfte. Es kommt aber dem Philosophen, der hier (wie jederzeit in der Vernunfterkenntnis durch bloße Begriffe, ohne Konstruktion derselben) mit größerer Schwierigkeit zu kämpfen hat, weil er keine An-

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i quali perciò devono esser posti, come primi dati, a base di ogni scienza, e non possono prima di tutto derivare da essa. Ma questa giustificazione dei princìpi morali come princìpi di una ragion pura, poteva esser addotta benissimo e con certezza sufficiente anche solo mediante il semplice riferimento al giudizio dell’intelletto umano ordinario; perché ogni elemento empirico che si potesse introdurre nelle nostre massime come motivo determinante della volontà, si dà a c o n o s c e r e subito pel sentimento di piacere o di dolore che si unisce necessariamente ad esso, in quanto tale elemento muove il desiderio; ma ogni ragion pura pratica si o p p o n e direttamente ad ammettere nel suo principio questo sentimento come condizione. La diversità dei motivi determinanti (degli empirici e dei razionali) vien fatta conoscere mediante quest’opposizione di una ragione praticamente legislativa ad ogni inclinazione che vi s’immischi, mediante un modo particolare di s e n s a z i o n e , il quale però non precede la legislazione della ragion pratica, ma piuttosto vien prodotto solo mediante questa legislazione, e invero come una coazione: cioè mediante il sentimento di un rispetto tale che nessun uomo ha verso le inclinazioni, qualunque esse siano, ma solo verso la legge. [E tale diversità si manifesta] in modo così distinto e spiccato che nessun intelletto umano, anche il più ordinario, in un esempio che gli sia presentato, non può non scorgere subito che dei motivi empirici del volere può bensi accadergli di seguire le sollecitazioni, ma che non può mai pretendere di u b b i d i r e a un’altra legge che non sia quella pura pratica della ragione. La distinzione della d o t t r i n a d e l l a f e l i c i t à dalla d o t t r i n a d e i c o s t u m i , della prima delle quali i princìpi empirici costituiscono l’intero fondamento, mentre della seconda non costituiscono neanche il minimo complemento, è dell’analitica della ragion pura pratica il primo e più importante compito, in cui essa deve procedere con tanta p r e c i s i o n e , anzi, per così dire, con tanto scrupolo, come il geometra nel suo lavoro. Ma se il filosofo, che qui (come sempre nella conoscenza razionale per semplici concetti, senza costruzione di essi) ha da lottare con una difficoltà più grave, perché non può porre nes-

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schauung (reinem Noumen) zum Grunde legen kann, doch auch zustatten, daß er, beinahe wie der Chemist, zu aller Zeit ein Experiment mit jedes Menschen praktischer Vernunft anstellen kann, um den moralischen (reinen) Bestimmungsgrund vom empirischen zu unterscheiden; wenn er nämlich zu dem empirisch affizierten Willen (z. B. desjenigen, der gerne lügen möchte, weil er sich dadurch was erwerben kann) das moralische Gesetz (als Bestimmungsgrund) zusetzt. Es ist, als ob der Scheidekünstler der Solution der Kalkerde in Salzgeist Alkali zusetzt; der Salzgeist verläßt sofort den Kalk, vereinigt | sich mit dem Alkali, jener wird zu Boden gestürzt. Ebenso haltet dem, der sonst ein ehrlicher Mann ist (oder sich doch diesmal nur in Gedanken in die Stelle eines ehrlichen Mannes versetzt), das moralische Gesetz vor, an dem er die Nichtswürdigkeit eines Lügners erkennt, – sofort verläßt seine praktische Vernunft (im Urteil über das, was von ihm geschehen sollte) den Vorteil, vereinigt sich mit dem, was ihm die Achtung für seine eigene Person erhält (der Wahrhaftigkeit), und der Vorteil wird nun von jedermann, nachdem er von allem Anhängsel der Vernunft (welche nur gänzlich auf der Seite der Pflicht ist) abgesondert und gewaschen worden, gewogen, um mit der Vernunft noch wohl in anderen Fällen in Verbindung zu treten, nur nicht, wo er dem moralischen Gesetze, welches die Vernunft niemals verläßt, sondern sich innigst damit vereinigt, zuwider sein könnte. Aber diese Unterscheidung des Glückseligkeitsprinzips von dem der Sittlichkeit ist darum nicht sofort E n t g e g e n s e t z u n g beider, und die reine praktische Vernunft will nicht, man solle die Ansprüche auf Glückseligkeit a u f g e b e n , sondern nur, sobald von Pflicht die Rede ist, darauf gar n i c h t R ü c k s i c h t nehmen. Es kann sogar in gewissem Betracht Pflicht sein, für seine Glückseligkeit zu sorgen; teils weil sie (wozu Geschicklichkeit, Gesundheit, Reichtum gehört) Mittel zur Erfüllung seiner Pflicht enthält, teils weil der Mangel derselben | (z. B. Armut) Versuchungen enthält, seine Pflicht zu übertreten. Nur seine Glückseligkeit zu befördern, kann unmittelbar niemals Pflicht, noch weniger ein Prinzip aller Pflicht sein. Da nun alle Bestimmungsgründe des Willens, außer dem einigen reinen praktischen Vernunftgesetze (dem moralischen), insgesamt empirisch sind, als solche also zum Glückseligkeitsprinzip gehören, so müssen sie ins-

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suna intuizione a base (del puro noumeno), ha però anche l’opportunità di potere in ogni tempo fare un esperimento con la ragion pratica di ogni uomo per distinguere il motivo determinante morale (puro) dall’empirico: basta cioè che alla volontà affetta empiricamente (per es. di colui che volentieri mentirebbe, perché cosi potrebbe acquistarsi qualcosa) egli aggiunga la legge morale (come motivo determinante). È come se il chimico unisce un alcale alla soluzione di terra calcarea nello spirito di sale; lo spirito di sale si separa subito dalla calce, si unisce con l’alcale, e la calce precipita al fondo. Così, presentate a colui, che del resto è un galantuomo (o che tuttavia questa volta soltanto con la mente si pone al posto di un galantuomo), la legge morale, per la quale egli conosce l’indegnità di un mentitore, e subito la sua ragion pratica (nel giudizio su ciò che doveva esser fatto da lui) abbandona il vantaggio, si unisce con ciò che gli mantiene il rispetto per la propria persona (la veracità); e il vantaggio, dopo essere stato separato e ripulito da quanto si collega alla ragione (la quale è solo affatto dalla parte del dovere), viene pesato da ognuno per esser messo ancora in relazione con la ragione in altri casi, ma non dove potrebbe esser contrario alla legge morale, che la ragione non abbandona mai, ma con cui si unisce intimamente. Ma questa d i f f e r e n z a del principio della felicità da quello della moralità non è perciò addirittura un’ o p p o s i z i o n e , e la ragion pura pratica non vuole che si r i n u n z i alle pretese alla felicità ma soltanto che, appena si tratta del dovere, n o n s i a b b i a in nulla r i g u a r d o alla felicità. Sotto un certo rispetto può persino essere un dovere aver cura della propria felicità: sia perché essa (e questo è il caso dell’abilità, della salute, della ricchezza) contiene i mezzi per l’adempimento del proprio dovere, sia perché la mancanza di essa (per es. la povertà) implica tentazione a trasgredire il proprio dovere. Solo che promuovere la propria felicità non può mai essere immediatamente un dovere, e ancor meno un principio di tutti i doveri. Ora, siccome i motivi determinanti della volontà, eccetto l’unica legge razionale pura pratica (la legge morale), sono tutti quanti empirici, e quindi come tali appartengono al principio della felicità; così essi de-

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gesamt vom obersten sittlichen Grundsatz abgesondert und ihm nie als Bedingung einverleibt werden, weil dieses ebensosehr allen sittlichen Wert, als empirische Beimischung zu geometrischen Grundsätzen alle mathematische Evidenz, das Vortrefflichste, was (nach P l a t o s Urteile) die Mathematik an sich hat, und das selbst allem Nutzen derselben vorgeht, aufheben würde. Statt der Deduktion des obersten Prinzips der reinen praktischen Vernunft, d. i. der Erklärung der Möglichkeit einer dergleichen Erkenntnis a priori, konnte aber nichts weiter angeführt werden, als daß, wenn man die Möglichkeit der Freiheit einer wirkenden Ursache einsähe, man auch nicht etwa bloß die Möglichkeit, sondern gar die Notwendigkeit des moralischen Gesetzes als obersten praktischen Gesetzes vernünftiger Wesen, denen man Freiheit der Kausalität ihres Willens beilegt, einsehen würde; weil beide Begriffe so unzertrennlich verbunden sind, daß man praktische Freiheit auch durch Unabhängigkeit des Willens von jedem ande|ren außer allein dem moralischen Gesetze definieren könnte. Allein die Freiheit einer wirkenden Ursache, vornehmlich in der Sinnenwelt, kann ihrer Möglichkeit nach keineswegs eingesehen werden; glücklich! wenn wir nur, daß kein Beweis ihrer Unmöglichkeit statifindet, hinreichend versichert werden können, und nun, durchs moralische Gesetz, welches dieselbe postuliert, genötigt, ebendadurch auch berechtigt werden, sie anzunehmen. Weil es indessen noch viele gibt, welche diese Freiheit noch immer glauben nach empirischen Prinzipien wie jedes andere Naturvermögen erklären zu können, und sie als p s y c h o l o g i s c h e Eigenschaft, deren Erklärung lediglich auf einer genaueren Untersuchung der N a t u r d e r S e e l e und der Triebfeder des Willens ankäme, nicht als t r a n s z e n d e n t a l e s Prädikat der Kausalität eines Wesens, das zur Sinnenwelt gehört (wie es doch hierauf allein wirklich ankommt), betrachten und so die herrliche Eröffnung, die uns durch reine praktische Vernunft vermittelst des moralischen Gesetzes widerfährt, nämlich die Eröffnung einer intelligibelen Welt durch Realisierung des sonst transzendenten Begriffs der Freiheit und hiermit das moralische Gesetz selbst, welches durchaus keinen empirischen Bestimmungsgrund annimmt, aufheben: so wird es nötig

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vono esser separati tutti quanti dal principio morale supremo e non devono mai esser incorporati in esso come condizione, perché ciò annullerebbe ogni valore morale, allo stesso modo appunto che la mescolanza di elementi empirici con i princìpi geometrici toglierebbe ogni evidenza matematica: la cosa più eccellente che (secondo il giudizio di Platone) la matematica abbia in sé, e che anzi supera ogni utilità di essa. In cambio della deduzione del principio supremo della ragion pura pratica, cioè della spiegazione della possibilità di una simile conoscenza a p r i o r i , potrebbe addursi nient’altro che questo, che, se si vedesse la possibilità della libertà di una causa efficiente, si vedrebbe anche, non semplicemente la possibilità, ma la necessità della legge morale come legge pratica suprema di esser razionali, a cui si attribuisce la libertà della causalità della loro volontà; perché i due concetti sono legati così inseparabilmente che la libertà pratica si potrebbe anche definire mediante l’indipendenza della volontà da ogni altra legge, fuorché dalla legge morale. Ma la libertà di una causa efficiente, specialmente nel mondo sensibile, non può esser conosciuta quanto alla sua possibilità; ben fortunati, se possiamo essere sufficientemente assicurati soltanto che non vi è nessuna dimostrazione della sua impossibilità, e se ora, mediante la legge morale che postula questa possibilità, siamo costretti, ed anche, mediante essa, giustificati nell’ammetterla. Tuttavia, siccome vi sono ancora molti che credono ancor sempre di poter spiegare questa libertà secondo princìpi empirici, come ogni altra facoltà naturale, e la considerano come proprietà p s i c o l o g i c a , la cui spiegazione dipenda soltanto da una più diligente ricerca della n a t u r a d e l l ’ a n i m a e dei moventi della volontà, non come predicato t r a s c e n d e n t a l e della causalità di un essere che appartiene al mondo sensibile (il che è nondimeno la sola cosa di cui si tratta), e così sopprimono la magnifica prospettiva che ci spetta per la ragion pura pratica mediante la legge morale, cioè la prospettiva di un mondo intelligibile, mediante la realizzazione del concetto d’altronde trascendente della libertà – e quindi sopprimono la stessa legge morale, la quale non ammette nessun motivo determinante empirico; così sarà necessario

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sein, hier noch etwas zur Verwahrung wider dieses Blendwerk und der Darstellung des E m p i r i s m u s in der ganzen Blöße seiner Seichtigkeit anzuführen. | Der Begriff der Kausalität als N a t u r n o t w e n d i g k e i t zum Unterschiede derselben als F r e i h e i t betrifft nur die Existenz der Dinge, sofern sie i n d e r Z e i t b e s t i m m b a r ist, folglich als Erscheinungen im Gegensatze ihrer Kausalität als Dinge an sich selbst. Nimmt man nun die Bestimmungen der Existenz der Dinge in der Zeit für Bestimmungen der Dinge an sich selbst (welches die gewöhnlichste Vorstellungsart ist), so läßt sich die Notwendigkeit im Kausalverhältnisse mit der Freiheit auf keinerlei Weise vereinigen; sondern sie sind einander kontradiktorisch entgegengesetzt. Denn aus der ersteren folgt, daß eine jede Begebenheit, folglich auch jede Handlung, die in einem Zeitpunkte vorgeht, unter der Bedingung dessen, was in der vorhergehenden Zeit war, notwendig sei. Da nun die vergangene Zeit nicht mehr in meiner Gewalt ist, so muß jede Handlung, die ich ausübe, durch bestimmende Gründe, d i e n i c h t i n m e i n e r G e w a l t s i n d , notwendig sein, d. i. ich bin in dem Zeitpunkte, darin ich handle, niemals frei. Ja, wenn ich gleich mein ganzes Dasein als unabhängig von irgend einer fremden Ursache (etwa von Gott) annähme, sodaß die Bestimmungsgründe meiner Kausalität, sogar meiner ganzen Existenz gar nicht außer mir wären, so würde dieses jene Naturnotwendigkeit doch nicht im mindesten in Freiheit verwandeln. Denn in jedem Zeitpunkte stehe ich doch immer unter der Notwendigkeit, durch das zum | Handeln bestimmt zu sein, w a s n i c h t i n m e i n e r G e w a l t ist, und die a parte priori unendliche Reihe der Begebenheiten, die ich immer nur nach einer schon vorherbestimmten Ordnung fortsetzen, nirgend von selbst anfangen würde, wäre eine stetige Naturkette, meine Kausalität also niemals Freiheit. Will man also einem Wesen, dessen Dasein in der Zeit bestimmt ist, Freiheit beilegen, so kann man es sofern wenigstens vom Gesetze der Naturnotwendigkeit aller Begebenheiten in seiner Existenz, mithin auch seiner Handlungen nicht ausnehmen; denn das wäre soviel, als es dem blinden Ungefähr übergeben. Da dieses Gesetz aber unvermeidlich alle Kausalität der Dinge, sofern ihr D a s e i n i n d e r Z e i t bestimmbar ist, betrifft, so würde, wenn die-

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addurre ancora qualcosa per premunirci contro questa illusione e presentare l’e m p i r i s m o in tutta la nudità della sua superficialità. Il concetto della causalità come n e c e s s i t à n a t u r a l e , a differenza della casualità come l i b e r t à , riguarda soltanto l’esistenza delle cose, in quanto è d e t e r m i n a b i l e n e l t e m p o , e quindi [delle cose] come fenomeni, in opposizione alla causalità di esse come cose in sé. Ora, se si prendono le determinazioni dell’esistenza delle cose nel tempo per determinazioni delle cose in se stesse (che è il modo di vedere più comune), la necessità nella relazione causale non si può in tal caso unire in nessun modo con la libertà; ma esse sono opposte l’una all’altra in modo contraddittorio. Poiché dalla prima risulta che ogni evento, e quindi anche ogni azione che avviene in un dato momento, è necessariamente condizionato da ciò che fu nel tempo precedente. Ora, siccome il tempo passato non è più in mio potere, così ogni azione che io faccio, deve essere necessitata da motivi determinanti c h e n o n s o n o i n m i o p o t e r e : cioè, nel momento che io agisco, non sono mai libero. Anzi, se anche ammettessi la mia intera esistenza come dipendente da qualunque causa estranea (per es. da Dio), sicché i motivi determinanti della mia causalità, anzi della mia intera esistenza, non fossero affatto fuori di me; pure questo non muterebbe minimamente quella necessità naturale in libertà. In ogni momento infatti io sono sempre sotto la necessità di esser determinato ad agire mediante ciò c h e n o n è i n m i o p o t e r e , e la serie infinita a parte priori degli eventi, che io continuerei sempre soltanto secondo un ordine già prestabilito, non comincerebbe mai da sé, e sarebbe una catena naturale continua; e quindi la mia causalità non [sarebbe] mai libertà. Se, dunque, si vuol attribuire la libertà a un essere, la cui esistenza è determinata nel tempo, essa non si può ricavare, almeno sotto questo rispetto, dalla legge della necessità naturale di tutti gli eventi della sua esistenza, e quindi anche delle sue azioni; poiché ciò sarebbe come rimetterla al cieco caso. Ma siccome questa legge riguarda inevitabilmente ogni causalità delle cose, in quanto la loro esistenza è determinabile n e l t e m p o , co-

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ses die Art wäre, wonach man sich auch das D a s e i n d i e s e r D i n g e a n s i c h s e l b s t vorzustellen hätte, die Freiheit als ein nichtiger und unmöglicher Begriff verworfen werden müssen. Folglich, wenn man sie noch retten will, so bleibt kein Weg übrig, als das Dasein eines Dinges, sofern es in der Zeit bestimmbar ist, folglich auch die Kausalität nach dem Gesetze der N a t u r n o t wendigkeit bloß der Erscheinung, die Freiheit aber e b e n d e m s e l b e n We s e n a l s D i n g e a n s i c h s e l b s t beizulegen. So ist es allerdings unvermeidlich, wenn man beide einander widerwärtigen Begriffe zugleich erhalten will; allein in der Anwendung, wenn man sie als in einer und derselben Handlung ver|einigt und also diese Vereinigung selbst erklären will, tun sich doch große Schwierigkeiten hervor, die eine solche Vereinigung untunlich zu machen scheinen. Wenn ich von einem Menschen, der einen Diebstahl verübt, sage: diese Tat sei nach dem Naturgesetze der Kausalität aus den Bestimmungsgründen der vorhergehenden Zeit ein notwendiger Erfolg, so war es unmöglich, daß sie hat unterbleiben können; wie kann dann die Beurteilung nach dem moralischen Gesetze hierin eine Änderung machen und voraussetzen, daß sie doch habe unterlassen werden können, weil das Gesetz sagt, sie hätte unterlassen werden sollen, d. i. wie kann derjenige in demselben Zeitpunkte in Absicht auf dieselbe Handlung ganz frei heißen, in welchem und in derselben Absicht er doch unter einer unvermeidlichen Naturnotwendigkeit steht? Eine Ausflucht darin suchen, daß man bloß die A r t der Bestimmungsgründe seiner Kausalität nach dem Naturgesetze einem k o m p a r a t i v e n Begriffe von Freiheit anpaßt (nach welchem das bisweilen freie Wirkung heißt, davon der bestimmende Naturgrund i n n e r l i c h im wirkenden Wesen liegt, z. B. das, was ein geworfener Körper verrichtet, wenn er in freier Bewegung ist, da man das Wort Freiheit braucht, weil er, während daß er im Fluge ist, nicht von außen wodurch getrieben wird, oder wie wir die Bewegung einer Uhr auch eine freie Bewegung nennen, weil sie ihren Zeiger selbst treibt, der also | nicht äußerlich geschoben werden darf, ebenso die Handlungen des Menschen, ob sie gleich durch ihre Bestimmungsgründe, die in der Zeit vorhergehen, notwendig sind, dennoch frei nennen, weil es doch innere, durch unsere eigenen Kräfte hervorgebrachte

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sì, se questo fosse il modo in cui si dovesse immaginare anche l’ e s i s t e n z a d i q u e s t e c o s e i n s e s t e s s e , la libertà dovrebbe essere rigettata come un concetto nullo ed impossibile. Quindi, se si vuol ancora salvare la libertà, non rimane altra via che attribuire l’esistenza di una cosa in quanto è determinabile nel tempo, e quindi anche la causalità secondo la legge della n e cessità naturale, semplicemente al fenomeno, e la libertà invece allo stesso essere come cosa in s é . Ciò è senza dubbio inevitabile, se si vogliono mantenere nello stesso tempo i due concetti contrari l’uno all’altro; ma nell’applicazione, quando si uniscono i due concetti come in una sola e medesima azione, e perciò si vuole spiegare quest’unione stessa, appaiono tuttavia grandi difficoltà, le quali sembra che rendano impossibile tale unione. Se di un uomo che commette un furto dico che questa azione, secondo la legge naturale della causalità per i motivi determinanti del tempo precedente, è un evento necessario, ciò significa che era impossibile che essa potesse non aver luogo; come può allora il giudizio secondo la legge morale introdurre qui un mutamento, e supporre che l’azione potesse esser tralasciata; perché la legge dice che essa doveva esser tralasciata? cioè, come può quell’uomo chiamarsi interamente libero, nello stesso momento e rispetto alla stessa azione in cui nondimeno è sottoposto ad una necessità naturale inevitabile? Cercare una scappatoia nel fatto che si adatta semplicemente la s p e c i e dei motivi determinanti della propria causalità secondo la legge naturale ad un concetto c o m p a r a t i v o della libertà (secondo il quale talvolta si chiama azione libera quella il cui motivo naturale determinante è i n t e r n o all’essere agente, per es., quella di un corpo lanciato, se esso è in movimento libero, e nel qual caso si usa la parola libertà, perché il corpo, mentre è in moto, non è spinto da qualcosa d’esterno; oppure, come chiamiamo movimento libero anche il movimento di un orologio, perché esso stesso spinge la sua sfera, la quale perciò non può essere mossa dall’esterno, così le azioni dell’uomo, benché siano necessarie per i loro motivi determinanti, che precedono nel tempo, tuttavia le chiamiamo libere perché questi motivi sono rappresenta-

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Vorstellungen, dadurch nach veranlassenden Umständen erzeugte Begierden und mithin nach unserem eigenen Belieben bewirkte Handlungen sind), ist ein elender Behelf, womit sich noch immer einige hinhalten lassen und so jenes schwere Problem mit einer kleinen Wortklauberei aufgelöst zu haben meinen, an dessen Auflösung Jahrtausende vergeblich gearbeitet haben, die daher wohl schwerlich so ganz auf der Oberfläche gefunden werden dürfte. Es kommt nämlich bei der Frage nach derienigen Freiheit, die allen moralischen Gesetzen und der ihnen gemäßen Zurechnung zum Grunde gelegt werden muß, darauf gar nicht an, ob die nach einem Naturgesetze bestimmte Kausalität durch Bestimmungsgründe, die im Subjekte oder a u ß e r ihm liegen, und im ersteren Fall, ob sie durch Instinkt oder mit Vernunft gedachte Bestimmungsgründe notwendig sei; wenn diese bestimmenden Vorstellungen nach dem Geständnisse eben dieser Männer selbst den Grund ihrer Existenz doch in der Zeit und zwar dem v o r i g e n Z u s t a n d e haben, dieser aber wieder in einem vorhergehenden usw., so mögen sie, diese Bestimmungen, immer innerlich sein, sie mögen psychologische und nicht mechanische Kausalität haben, | d. i. durch Vorstellungen und nicht durch körperliche Bewegung Handlung hervorbringen: so sind es immer B e s t i m m u n g s g r ü n d e der Kausalität eines Wesens, sofern sein Dasein in der Zeit bestimmbar ist, mithin unter notwendig machenden Bedingungen der vergangenen Zeit, die also, wenn das Subjekt handeln soll, n i c h t m e h r i n s e i n e r G e w a l t s i n d , die also zwar psychologische Freiheit (wenn man ja dieses Wort von einer bloß inneren Verkettung der Vorstellungen der Seele brauchen will), aber doch Naturnotwendigkeit bei sich führen, mithin keine t r a n s z e n d e n t a l e F r e i h e i t übrig lassen, welche als Unabhängigkeit von allem Empirischen und also von der Natur überhaupt gedacht werden muß, sie mag nun als Gegenstand des inneren Sinnes bloß in der Zeit, oder auch der äußeren Sinne im Raume und der Zeit zugleich betrachtet werden, ohne welche Freiheit (in der letzteren eigentlichen Bedeutung), die allein a priori praktisch ist, kein moralisch Gesetz, keine Zurechnung nach demselben möglich ist. Eben um deswillen kann man auch alle Notwendigkeit der Begebenheiten in der Zeit nach dem Naturgesetze der Kausalität den M e c h a n i s m u s der

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zioni interne prodotte mediante le nostre proprie forze, per le quali secondo circostanze causanti sono prodotti desideri, e quindi sono fatte azioni a nostro piacimento), è un meschino ripiego da cui alcuni si lasciano ancor sempre lusingare; e credono d’aver risolto con un piccolo giuoco di parole quel problema così difficile, alla cui soluzione migliaia di anni lavorarono invano, soluzione che perciò ben difficilmente potrebbe esser trovata così alla superficie. Cioè, nella questione di quella libertà che dev’esser posta a base di tutte le leggi morali, e dell’imputazione conforme ad esse, non si tratta punto di sapere se la causalità determinata secondo una legge naturale sia necessaria mediante motivi determinanti che si trovano n e l soggetto o f u o r i di esso; e, nel primo caso, se [sia necessaria] mediante l’istinto o per mezzo di motivi determinanti pensati con la ragione. Se queste rappresentazioni determinanti, a confessione di questi stessi uomini, hanno tuttavia il principio della loro esistenza nel tempo, e invero n e l l a c o n d i z i o n e p r e c e d e n t e , ma questa condizione di nuovo in una precedente, e via dicendo, siano pure queste rappresentazioni sempre interne, abbiano la causalità psicologica e non meccanica, e cioè producano azioni mediante rappresentazione e non mediante il movimento corporale, sono sempre m o t i v i d e t e r m i n a n t i della causalità di un essere, in quanto la sua esistenza è determinabile nel tempo, e quindi sotto le condizioni necessitanti del tempo passato; le quali dunque, quando il soggetto deve agire, n o n s o n o p i ù i n s u o p o t e r e , ed implicano bensì la libertà psicologica (se pure si vuol usare questa parola per una concatenazione semplicemente interna delle rappresentazioni dell’anima), ma implicano anche la necessità naturale, e quindi non lasciano una l i b e r t à t r a s c e n d e n t a l e , la quale deve essere concepita come indipendenza da ogni elemento empirico, e quindi dalla natura in genere, considerata come oggetto del senso interno semplicemente nel tempo, o anche dei sensi esterni, nello spazio e nel tempo contemporaneamente; e senza questa libertà (nell’ultimo e proprio significato) che sola è pratica a p r i o r i , non è possibile una legge morale, né un’imputazione secondo questa legge. Appunto perciò ogni necessità degli eventi nel tempo secondo

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Natur nennen, ob man gleich darunter nicht versteht, daß Dinge, die ihm unterworfen sind, wirklich materielle M a s c h i n e n sein müßten. Hier wird nur auf die Notwendigkeit der Verknüpfung der Begebenheiten in einer Zeitreihe, sowie sie sich nach dem Naturgesetze entwic|kelt, gesehen, man mag nun das Subjekt, in welchem dieser Ablauf geschieht, Automaton materiale, da das Maschinenwesen durch Materie, oder mit L e i b n i z spirituale, da es durch Vorstellungen betrieben wird, nennen, und wenn die Freiheit unseres Willens keine andere als die letztere (etwa die psychologische und komparative, nicht transzendentale, d. i. absolute, zugleich) wäre, so würde sie im Grunde nichts besser als die Freiheit eines Bratenwenders sein, der auch, wenn er einmal aufgezogen worden, von selbst seine Bewegungen verrichtet. Um nun den scheinbaren Widerspruch zwischen Naturmechanismus und Freiheit in einundderselben Handlung an dem vorgelegten Falle aufzuheben, muß man sich an das erinnern, was in der Kritik der reinen Vernunft gesagt war oder daraus folgt: daß die Naturnotwendigkeit, welche mit der Freiheit des Subjekts nicht zusammen bestehen kann, bloß den Bestimmungen desjenigen Dinges anhängt, das unter Zeitbedingungen steht, folglich nur denen des handelnden Subjekts als Erscheinung, daß also sofern die Bestimmungsgründe einer jeden Handlung desselben in demjenigen liegen, was zur vergangenen Zeit gehört und n i c h t m e h r i n s e i n e r G e w a l t i s t (wozu auch seine schon begangenen Taten und der ihm dadurch bestimmbare Charakter in seinen eigenen Augen, als Phänomens, gezählt werden müssen). Aber ebendas|selbe Subjekt, das sich anderseits auch seiner als Dinges an sich selbst bewußt ist, betrachtet auch sein Dasein, s o f e r n e s n i c h t u n t e r Z e i t b e d i n g u n g e n s t e h t , sich selbst aber nur als bestimmbar durch Gesetze, die es sich durch Vernunft selbst gibt, und in diesem seinem Dasein ist ihm nichts vorhergehend vor seiner Willensbestimmung, sondern jede Handlung und überhaupt jede dem inneren Sinne gemäß wechselunde Bestimmung seines Daseins, selbst die ganze Reihenfolge seiner Existenz als Sinnenwesen, ist im Bewußtsein seiner intelligibelen Existenz nichts als Folge, niemals aber als Bestimmungsgrund seiner Kausalität als

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la legge naturale della causalità si può anche chiamare il m e c c a n i s m o della natura, benché con ciò non si intenda che le cose che gli sono soggette debbano essere vere m a c c h i n e materiali. Qui si guarda soltanto alla necessità della connessione degli eventi in una serie temporale, come questa si svolge secondo la legge naturale: ed il soggetto in cui avviene questo flusso si può chiamare automaton materiale, quando l’essere meccanico è mosso mediante la materia, o, con Leibniz, spirituale 21, quando è mosso mediante rappresentazioni; e se la libertà della nostra volontà non fosse altro che l’ultima (per es., la psicologica e comparativa, non la trascendentale, cioè assoluta), essa in sostanza non sarebbe niente di meglio che la libertà di un girarrosto, che, anch’esso, una volta caricato, fa da sé i suoi movimenti. Ora, per togliere nel caso proposto l’apparente contraddizione fra meccanismo naturale e libertà in una sola e medesima azione, bisogna ricordare ciò che nella Critica della ragion pura fu detto, o ciò che ne risulta: che la necessità naturale, la quale non può coesistere con la libertà del soggetto, è inerente semplicemente alle determinazioni di quella cosa che è sotto le condizioni del tempo, e quindi soltanto alle determinazioni del soggetto agente come fenomeno; che quindi sotto questo rispetto i motivi determinanti di ogni sua azione si trovano in ciò che appartiene al tempo passato, e n o n è p i ù i n s u o p o t e r e (fra i quali motivi determinanti si devono anche annoverare le sue azioni già fatte ed il carattere di lui come fenomeno, che ai suoi propri occhi può essere determinato mediante queste azioni). Ma lo stesso soggetto, che d’altronde è anche conscio di sé come di cosa in sé, considera anche la sua esistenza, in q u a n t o e s s a n o n s t a s o t t o l e c o n d i z i o n i d i t e m p o , e considera se stesso soltanto come determinabile secondo le leggi che si dà mediante la ragione stessa; e in questa sua esistenza niente è per lui anteriore alla determinazione della sua volontà, ma ogni azione, e in genere ogni determinazione della sua esistenza, la quale cambia secondo il senso interno, e anche l’intera successione della sua esistenza come essere sensibile, non è da riguardare nella coscienza della sua esistenza intelligibile se non come conseguenza, e non mai come motivo determinante della

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N o u m e n s , anzusehen. In diesem Betracht nun kann das vernünftige Wesen von einer jeden gesetzwidrigen Handlung, die es verübt, ob sie gleich als Erscheinung in dem Vergangenen hinreichend bestimmt und sofern unausbleiblich notwendig ist, mit Recht sagen, daß er sie hätte unterlassen können; denn sie mit allem Vergangenen, das sie bestimmt, gehört zu einem einzigen Phänomen seines Charakters, den er sich selbst verschafft, und nach welchem er sich, als einer von aller Sinnlichkeit unabhängigen Ursache, die Kausalität jener Erscheinungen selbst zurechnet. Hiermit stimmen auch die Richteraussprüche desjenigen wundersamen Vermögens in uns, welches wir Gewissen nennen, vollkommen überein. Ein Mensch mag künsteln, soviel als er will, um ein gesetzwidri|ges Betragen, dessen er sich erinnert, sich als unvorsätzliches Versehen, als bloße Unbehutsamkeit, die man niemals gänzlich vermeiden kann, folglich als etwas, worin er vom Strom der Naturnotwendigkeit fortgerissen wäre, vorzumalen und sich darüber für schuldfrei zu erklären: so findet er doch, daß der Advokat, der zu seinem Vorteil spricht, den Ankläger in ihm keineswegs zum Verstummen bringen könne, wenn er sich bewußt ist, daß er zu der Zeit, als er das Unrecht verübte, nur bei Sinnen, d. i. im Gebrauche seiner Freiheit war, und gleichwohl e r k l ä r t er sich sein Vergehen aus gewisser übler, durch allmähliche Vernachlässigung der Achtsamkeit auf sich selbst zugezogener Gewohnheit bis auf den Grad, daß er es als eine natürliche Folge derselben ansehen kann, ohne daß dieses ihn gleichwohl wider den Selbsttadel und den Verweis sichern kann, den er sich selbst macht. Darauf gründet sich denn auch die Reue über eine längst begangene Tat bei jeder Erinnerung derselben; eine schmerzhafte, durch moralische Gesinnung gewirkte Empfindung, die sofern praktisch leer ist, als sie nicht dazu dienen kann, das Geschehene ungeschehen zu machen und sogar ungereimt sein würde (w i e P r i e s t l e y als ein echter, konsequent verfahrender F a t a l i s t sie auch dafür erklärt, und in Ansehung welcher Offenherzigkeit er mehr Beifall verdient als diejenigen, welche, indem sie den Mechanismus des Willens in der Tat, die | Freiheit desselben aber mit Worten behaupten, noch immer dafür gehalten sein wollen, daß sie jene, ohne doch die Möglichkeit einer solchen Zurechnung begreiflich zu machen, in ihrem synkretistischen System mit einschließen), aber

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sua causalità in quanto n o u m e n o . Ora, sotto questo rispetto, l’essere razionale può dire giustamente di ogni sua azione compiuta contro la legge (benché quest’azione, come fenomeno, sia determinata sufficientemente nel passato, e, come tale inevitabilmente necessaria) che avrebbe potuto non farla; perché quell’azione, con tutto il passato che la determina, appartiene a un unico fenomeno del carattere, che [l’essere razionale] procura a se stesso e secondo il quale attribuisce a sé, come ad una causa indipendente da ogni sensibilità, la causalità di quegli stessi fenomeni. Con ciò s’accordano perfettamente anche le sentenze di quella meravigliosa facoltà che è in noi, e che chiamiamo coscienza. Un uomo può studiar fin che vuole per fingersi un modo di procedere contrario alla legge, e del quale egli ha ricordo, come un errore non deliberato, come una semplice inavvertenza che non può mai evitarsi del tutto, e quindi come qualcosa in cui sarebbe stato travolto dalla corrente della necessità naturale, e di dichiararsi innocente a questo riguardo; tuttavia egli sente che l’avvocato che parla in suo vantaggio non può far tacere in lui l’accusatore, se egli è conscio che, nel tempo che commise l’azione cattiva, egli era in sé, cioè aveva l’uso della sua libertà; e quantunque egli si s p i e g h i la propria mancanza con una certa abitudine cattiva contratta per aver a poco a poco trascurato l’attenzione su se stesso, sino al punto che egli può riguardare la mancanza stessa come una conseguenza naturale di tale abitudine, ciò, tuttavia, non lo può salvare dalla disapprovazione e dal rimprovero che egli fa a se stesso. Su questo si fonda anche il pentimento per un’azione compiuta da molto tempo, ogni volta che essa vien ricordata: sentimento di dolore, prodotto dalla disposizione morale, il quale è cosi praticamente vuoto da non poter servire a fare che ciò che è avvenuto non sia avvenuto, e sarebbe perfino assurdo (come anche Priestley22 da f a t a l i s t a vero e coerente, dichiara – e riguardo a questa schiettezza egli merita più approvazione di coloro i quali, mentre nel fatto sostengono il meccanismo della volontà, e soltanto a parole la libertà di essa, vogliono ancor sempre che si ritenga che includono la libertà nel loro sistema sincretistico, senza tuttavia rendere concepibile la possibilità di una tale attribuzione); ma, tutta-

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als Schmerz doch ganz rechtmäßig ist, weil die Vernunft, wenn es auf das Gesetz unserer intelligibelen Existenz (das moralische) ankommt, keinen Zeitunterschied anerkennt und nur fragt, ob die Begebenheit mir als Tat angehöre, alsdann aber immer dieselbe Empfindung damit moralisch verknüpft, sie mag jetzt geschehen oder vorlängst geschehen sein. Denn das S i n n e n l e b e n hat in Ansehung des i n t e l l i g i b e l e n Bewußtseins seines Daseins (der Freiheit) absolute Einheit eines Phänomens, welches, sofern es bloß Erscheinungen von der Gesinnung, die das moralische Gesetz angeht, (von dem Charakter) enthält, nicht nach der Naturnotwendigkeit, die ihm als Erscheinung zukommt, sondern nach der absoluten Spontaneität der Freiheit beurteilt werden muß. Man kann also einräumen, daß, wenn es für uns möglich wäre, in eines Menschen Denkungsart, sowie sie sich durch innere sowohl als äußere Handlungen zeigt, so tiefe Einsicht zu haben, daß jede, auch die mindeste Triebfeder dazu uns bekannt würde, imgleichen alle auf diese wirkenden äußeren Veranlassungen, man eines Menschen Verhalten auf die Zukunft mit Gewißheit sowie eine Mondoder Sonnenfinsternis, ausrechnen könnte, und dennoch | dabei behaupten, daß der Mensch frei sei. Wenn wir nämlich noch eines anderen Blicks (der uns aber freilich gar nicht verliehen ist, sondern an dessen Statt wir nur den Vernunftbegriff haben), nämlich einer intellektuellen Anschauung desselben Subjekts fähig wären, so würden wir doch inne werden, daß diese ganze Kette von Erscheinungen in Ansehung dessen, was nur immer das moralische Gesetz angehen kann, von der Spontaneität des Subjekts als Dinges an sich selbst abhängt, von deren Bestimmung sich gar keine physische Erklärung geben läßt. In Ermangelung dieser Anschanung versichert uns das moralische Gesetz diesen Unterschied der Beziehung unserer Handlungen als Erscheinungen auf das Sinnenwesen unseres Subjekts, von derjenigen, dadurch dieses Sinnenwesen selbst auf das intelligibele Substrat in uns bezogen wird. – In dieser Rücksicht, die unserer Vernunft natürlich, obgleich unerklärlich ist, lassen sich auch Beurteilungen rechtfertigen, die, mit aller Gewissenhaftigkeit gefällt, dennoch dem ersten Anscheine nach aller Billigkeit ganz zu widerstreiten scheinen. Es gibt Fälle, wo Menschen von Kindheit auf, selbst unter einer Erziehung, die mit der ihrigen zugleich anderen ersprießlich war, dennoch so

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via, come dolore, il pentimento è affatto legittimo, perché la ragione, quando si tratta della legge della nostra esistenza intelligibile (della legge morale), non riconosce nessuna differenza di tempo, e domanda soltanto se l’evento mi appartiene come fatto: allora è sempre connessa moralmente con ciò la medesima sensazione, o che l’evento accada adesso, o che sia accaduto da molto tempo. Infatti la v i t a s e n s i b i l e relativamente alla coscienza i n t e l l i g i b i l e della sua esistenza (della libertà) ha l’unità assoluta di un fenomeno che, in quanto contiene semplicemente manifestazioni dell’intenzione che riguarda la legge morale (del carattere), non dev’essere giudicato secondo la necessità naturale, che conviene ad esso come fenomeno, ma secondo la spontaneità assoluta della libertà. Quindi si può ammettere che se a noi fosse possibile avere, del modo di pensare di un uomo, secondo che quel modo si manifesta tanto per le azioni interne quanto per quelle esterne, una cognizione così profonda che ogni movente di queste azioni, anche il minimo, ci fosse noto, e nello stesso tempo tutte le occasioni esterne operanti su questi moventi, si potrebbe calcolare, con la medesima certezza di un’eclisse lunare o solare, il modo di procedere di un uomo in avvenire, e tuttavia affermare, nello stesso tempo, che l’uomo è libero. Cioè, se noi fossimo ancora capaci di un altro sguardo (il quale però non ci è davvero concesso, mentre invece abbiamo soltanto il concetto razionale), cioè di un’intuizione intellettuale del soggetto stesso, scorgeremmo che questa intera catena di fenomeni, relativamente a ciò che può riguardare sempre soltanto la legge morale, dipende dalla spontaneità del soggetto come cosa in sé, della cui determinazione non si può dare alcuna spiegazione fisica. In mancanza di quest’intuizione la legge morale ci assicura della differenza della relazione delle nostre azioni, come fenomeni, rispetto all’essere sensibile del nostro soggetto, dalla relazione mediante la quale questo stesso essere sensibile è riferito al sostrato intelligibile in noi. In questa considerazione, che alla nostra ragione è naturale benché inesplicabile, si possono anche giustificare i giudizi che, dati con ogni scrupolosità, tuttavia, a prima vista, sembrano contrari a ogni equità. Si danno casi in cui certi uomini, dalla fanciullezza, an-

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frühe Bosheit zeigen und so bis in ihre Mannesjahre zu steigern fortfahren, daß man sie für geborene Bösewichter und gänzlich, was die, Denkungsart betrifft, für unbesserlich hält, gleichwohl aber sie wegen | ihres Tuns und Lassens ebenso richtet, ihnen ihre Verbrechen ebenso als Schuld verweist, ja sie (die Kinder) selbst diese Verweise so ganz gegründet finden, als ob sie, ungeachtet der ihnen beigemessenen hoffnungslosen Naturbeschaffenheit ihres Gemüts, ebenso verantwortlich blieben als jeder andere Mensch. Dieses würde nicht geschehen können, wenn wir nicht voraussetzten, daß alles, was aus seiner Willkür entspringt (wie ohne Zweifel jede vorsätzlich verübte Handlung), eine freie Kausalität zum Grunde habe, welche von der frühen Jugend an ihren Charakter in ihren Erscheinungen (den Handlungen) ausdrückt, die wegen der Gleichförmigkeit des Verhaltens einen Naturzusammenhang kenntlich machen, der aber nicht die arge Beschaffenheit des Willens notwendig macht, sondern vielmehr die Folge der freiwillig angenommenen bösen und unwandelbaren Grundsätze ist, welche ihn nur noch um desto verwerflicher und strafwürdiger machen. Aber noch steht eine Schwierigkeit der Freiheit bevor, sofern sie mit dem Naturmechanismus in einem Wesen, das zur Sinnenwelt gehört, vereinigt werden soll: eine Schwierigkeit, die, selbst nachdem alles bisherige eingewilligt worden, der Freiheit dennoch mit ihrem gänzlichen Untergange droht. Aber bei dieser Gefahr gibt ein Umstand doch zugleich Hoffnung zu einem für die Behauptung der Freiheit noch glück|lichen Ausgange, nämlich daß dieselbe Schwierigkeit viel stärker (in der Tat, wie wir bald sehen werden, allein) das System drückt, in welchem die in Zeit und Raum bestimmbare Existenz für die Existenz der Dinge an sich selbst gehalten wird, sie uns also nicht nötigt, unsere vornehmste Voraussetzung von der Idealität der Zeit als bloßer Form sinnlicher Anschauung, folglich als bloßer Vorstellungsart, die dem Subjekte als zur Sinnenwelt gehörig eigen ist, aufzugeben und also nur erfordert, sie mit dieser Idee zu vereinigen. Wenn man uns nämlich auch einräumt, daß das intelligibele Subjekt in Ansehung einer gegebenen Handlung noch frei sein kann, obgleich es als Subjekt, das auch zur Sinnenwelt gehörig, in

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che con un’educazione che nello stesso tempo riusciva giovevole ad altri, dimostrano tuttavia una perversità così precoce, e continuano a crescere tanto in essa sino agli anni della virilità, che son ritenuti malvagi nati, e, per quel che riguarda il loro modo di pensare, affatto incorreggibili; e tuttavia vengono giudicati per ciò che fanno e non fanno, si rimprovera ad essi il loro delitto come colpa; anzi essi (i fanciulli) trovano così fondato questo rimprovero, come se, nonostante la natura disperata del carattere attribuito loro, rimanessero responsabili come ogni altro uomo. Ciò non potrebbe avvenire, se noi non supponessimo che tutto ciò che deriva dal loro libero arbitrio (come, senza dubbio, ogni azione fatta deliberatamente) abbia per fondamento una causalità libera, che sin dalla prima giovinezza manifesta il suo carattere nei suoi fenomeni (le azioni); i quali, per l’uniformità del modo di procedere, fanno conoscere una connessione naturale, che però non rende necessaria la natura cattiva della volontà, ma è piuttosto la conseguenza dei princìpi cattivi ammessi liberamente ed immutabili, che rendono soltanto ancor più riprovevole e degno di castigo un uomo. Ma ancora una difficoltà sovrasta alla libertà, in quanto essa dev’esser unita col meccanismo della natura in un essere che appartiene al mondo sensibile: una difficoltà che, anche dopo tutto quello che è stato approvato fin qui, tuttavia minaccia alla libertà la completa rovina. Ma in questo periodo una circostanza fa pur sperare nello stesso tempo un esito ancora felice per il mantenimento della libertà, cioè, che la stessa difficoltà colpisce molto più vigorosamente (e nel fatto, come tosto vedremo, solo esso abbatte) il sistema in cui l’esistenza determinabile nel tempo e nello spazio è presa per l’esistenza delle cose in sé; essa quindi non ci obbliga ad abbandonare la nostra ipotesi capitale dell’idealità del tempo come semplice forma dell’intuizione sensibile, e perciò come semplice modo di rappresentazione proprio del soggetto in quanto appartenente al mondo sensibile, e quindi richiede soltanto di essere unita con quest’idea della libertà. Cioè, se anche ci si concede che il soggetto intelligibile rispetto a una data azione può ancora esser libero, benché, come soggetto che appartiene anche al mondo sensibile, rispetto alla

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Ansehung derselben mechanisch bedingt ist, so scheint es doch, man müsse, sobald man annimmt, G o t t als allgemeines Urwesen sei d i e U r s a c h e auch d e r E x i s t e n z d e r S u b s t a n z (ein Satz, der niemals aufgegeben werden darf, ohne den Begriff von Gott als Wesen aller Wesen und hiermit seine Allgenugsamkeit, auf die alles in der Theologie ankommt, zugleich mit aufzugeben), auch einräumen: die Handlungen des Menschen haben in demjenigen ihren bestimmen den Grund, w a s g ä n z l i c h a u ß e r i h r e r G e w a l t i s t , nämlich in der Kausalität eines von ihm unterschiedenen höchsten Wesens, von welchem das Dasein des ersteren und die ganze Bestimmung seiner Kausalität ganz und gar abhängt. In | der Tat: wären die Handlungen des Menschen, sowie sie zu seinen Bestimmungen in der Zeit gehören, nicht bloße Bestimmungen desselben als Erscheinung, sondern als Dinges an sich selbst, so würde die Freiheit nicht zu retten sein. Der Mensch wäre Marionette oder ein Vaucansonsches Automat, gezimmert und aufgezogen von dem obersten Meister aller Kunstwerke, und das Selbstbewußtsein würde es zwar zu einem denkenden Automate machen, in welchem aber das Bewußtsein seiner Spontaneität, wenn sie für Freiheit gehalten wird, bloße Täuschung wäre, indem sie nur komparativ so genannt zu werden verdient, weil die nächsten bestimmenden Ursachen seiner Bewegung und eine lange Reihe derselben zu ihren bestimmenden Ursachen hinauf zwar innerlich sind, die letzte und höchste aber doch gänzlich in einer fremden Hand angetroffen wird. Daher sehe ich nicht ab, wie diejenigen, welche noch immer dabei beharren, Zeit und Raum für zum Dasein der Dinge an sich selbst gehörige Bestimmungen anzusehen, hier die Fatalität der Handlungen vermeiden wollen; oder, wenn sie so geradezu (wie der sonst scharfsinnige M e n d e l s s o h n tat) beide nur als zur Existenz endlicher und abgeleiteter Wesen, aber nicht zu der des unendlichen Urwesens notwendig gehörende Bedingungen einräumen, sich rechtfertigen wollen, woher sie diese Befugnis nehmen, einen solchen Unterschied zu machen; sogar wie sie auch nur dem Wi|derspruche ausweichen wollen, den sie begehen, wenn sie das Dasein in der Zeit als den endlichen Dingen an sich notwendig anhängende Bestimmung ansehen, da Gott die Ursache dieses Daseins ist, er aber doch nicht die Ursache der Zeit (oder des Raums) selbst sein kann (weil diese

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stessa azione sia condizionato meccanicamente, tuttavia, tosto che si ammette che Dio, come essenza prima universale, è anche la c a u s a d e l l ’ e s i s t e n z a d e l l a s o s t a n z a (una proposizione, che non può mai esser rigettata, senza rigettare nello stesso tempo il concetto di Dio come essenza di tutte le essenze, e quindi la sua sufficienza a tutto, dalla quale in teologia tutto dipende), pare che si debba ancora ammettere che le azioni dell’uomo hanno il loro principio determinante in ciò che è d e l t u t t o f u o r i d e l s u o p o t e r e , cioè nella causalità di un essere supremo distinto da lui, dalla quale dipende assolutamente l’esistenza dell’uomo, e l’intera determinazione della sua causalità. Infatti, se le azioni dell’uomo, come appartengono alle sue determinazioni nel tempo, non fossero semplici determinazioni dell’uomo come fenomeno ma come cosa in sé, la libertà non potrebbe esser salvata. L’uomo sarebbe una marionetta, un automa di Vaucanson23, fabbricato e caricato dal maestro supremo di tutte le opere d’arte, e la coscienza di sé lo renderebbe invero un automa pensante, nel quale però la coscienza della spontaneità, se venisse ritenuta per libertà, sarebbe semplice illusione, poiché solo comparativamente essa merita di esser chiamata così, perché le cause determinanti prossime del suo movimento, e una lunga serie di queste cause sino alle loro cause determinanti, sono bensì interne, ma la causa ultima e suprema si trova interamente in una mano estranea. Perciò io non capisco come coloro i quali persistono ancor sempre nel considerare il tempo e lo spazio per determinazioni appartenenti all’esistenza delle cose in sé, qui vogliano evitare la fatalità delle azioni; o se li ammettono addirittura (come fece Mendelssohn24, mente del resto acuta) tutti e due soltanto come condizioni appartenenti necessariamente all’esistenza degli esseri finiti e derivati, ma non a quella dell’essere primitivo ed infinito, come vogliano giustificare donde prendono il diritto di far una tale distinzione, anzi come vogliano anche solo evitare la contraddizione in cui incorrono quando considerano l’esistenza nel tempo come una determinazione necessariamente inerente alle cose finite in sé, poiché Dio è la causa di quest’esistenza, ma non può anche esser la causa del tempo (o dello spazio) stesso (perché questo dev’esse-

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als notwendige Bedingung a priori dem Dasein der Dinge vorausgesetst sein muß), seine Kausalität folglich in Ansehung der Existenz dieser Dinge selbst der Zeit nach bedingt sein muß, wobei nun alle die Widersprüche gegen die Begriffe seiner Unendlichkeit und Unabhängigkeit unvermeidlich eintreten müssen. Hingegen ist es uns ganz leicht, die Bestimmung der göttlichen Existenz als unabhängig von allen Zeitbedingungen, zum Unterschiede von der eines Wesens der Sinnenwelt, als die E x i s t e n z e i n e s We s e n s a n s i c h s e l b s t von der eines D i n g e s i n d e r E r s c h e i n u n g zu unterscheiden. Daher, wenn man jene Idealität der Zeit und des Raums nicht annimmt, nur allein der S p i n o z i s m u s übrig bleibt, in welchem Raum und Zeit wesentliche Bestimmungen des Urwesens selbst sind, die von ihm abhängigen Dinge aber (also auch wir selbst) nicht Substanzen, sondern bloß ihm in härierende Akzidenzen sind; weil, wenn diese Dinge bloß als seine Wirkungen i n d e r Z e i t existieren, welche die Bedingung ihrer Existenz an sich wäre, auch die Handlungen dieser Wesen bloß seine Handlungen sein müßten, die er irgendwo und irgendwann ausübte. Daher schließt | der Spinozismus, unerachtet der Ungereimtheit seiner Grundidee, doch weit bündiger, als es nach der Schöpfungstheorie geschehen kann, wenn die für Substanzen angenommenen und an sich i n d e r Z e i t e x i s t i e r e n d e n We s e n als Wirkungen einer obersten Ursache und doch nicht zugleich zu ihm und seiner Handlung gehörig, sondern für sich als Substanzen angesehen werden. Die Auflösung obgedachter Schwierigkeit geschieht kurz und einleuchtend auf folgende Art. Wenn die Existenz i n d e r Z e i t eine bloß sinnliche Vorstellungsart der denkenden Wesen in der Welt ist, folglich sie als Dinge an sich selbst nicht angeht: so ist die Schöpfung dieser Wesen eine Schöpfung der Dinge an sich selbst, weil der Begriff einer Schöpfung nicht zu der sinnlichen Vorstellungsart der Existenz und zur Kausalität gehört, sondern nur auf Noumenen bezogen werden kann. Folglich, wenn ich von Wesen in der Sinnenwelt sage: sie sind erschaffen, so betrachte ich sie sofern als Noumenen. Sowie es also ein Widerspruch wäre, zu sagen, Gott sei ein Schöpfer von Erscheinungen, so ist es auch ein Wi-

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re supposto come condizione necessaria a p r i o r i dell’esistenza delle cose); e quindi la sua causalità rispetto all’esistenza di queste cose, anche quanto al tempo, dev’essere condizionata, e così devono inevitabilmente aver luogo tutte le contraddizioni proprie dei concetti della sua infinità e indipendenza. Invece a noi è affatto facile distinguere la determinazione dell’esistenza divina, come indipendente da tutte le condizioni di tempo, da quella di un essere del mondo sensibile, prendendo la prima come l’ e s i s t e n z a d i u n e s s e r e i n s é , la seconda come l’esistenza di una c o s a n e l f e n o m e n o . Perciò, se non si ammette quell’idealità del tempo e dello spazio, rimane soltanto lo s p i n o z i s m o , in cui lo spazio e il tempo sono determinazioni essenziali dell’essere primitivo stesso; ma le cose dipendenti da esso (quindi anche noi stessi) non sono sostanze, ma semplicemente accidenti inerenti ad esso, perché, se queste cose esistono semplicemente come suoi effetti, nel t e m p o , il quale sarebbe la condizione della loro esistenza in sé, anche le azioni di questi esseri dovrebbero essere semplicemente sue azioni, che quell’essere farebbe in qualunque luogo e in qualunque tempo. Perciò lo spinozismo, nonostante l’assurdità della sua idea fondamentale, pure conclude più logicamente di quel che possa avvenire secondo la teoria della creazione, se quelli che si ammettono come sostanze e come esseri e s i s t e n t i i n s é n e l t e m p o sono riguardati come effetti di una causa suprema e, tuttavia, non come appartenenti nello stesso tempo a questa causa e alla sua azione, ma come sostanze per sé. La soluzione dell’accennata difficoltà avviene, brevemente e chiaramente, nel modo seguente. Se l’esistenza n e l t e m p o è un semplice modo di rappresentazione sensibile degli esseri pensanti nel mondo, e quindi non appartiene a questi esseri come cose in sé, la creazione di questi esseri è una creazione delle cose in sé; perché il concetto di una creazione non appartiene al modo di rappresentazioni sensibili dell’esistenza e della causalità, ma può esser riferito soltanto a noumeni. Quindi, se degli esseri nel mondo sensibile dico che sono creati, li considero in quanto noumeni. Dunque, come sarebbe una contraddizione dire che Dio è un creatore di fenomeni, così è anche una con-

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derspruch, zu sagen, er sei als Schöpfer Ursache der Handlungen in der Sinnenwelt, mithin als Erscheinungen, wenn er gleich Ursache des Daseins der handelnden Wesen (als Noumenen) ist. Ist es nun möglich (wenn wir nur das Dasein in der Zeit für etwas, was bloß von Erscheinungen, nicht von Dingen an sich selbst gilt, annehmen), die Freiheit unbeschadet | dem Naturmechanismus der Handlungen als Erscheinungen zu behaupten, so kann, daß die handelnden Wesen Geschöpfe sind, nicht die mindeste Änderung hierin machen, weil die Schöpfung ihre intelligibele, aber nicht sensibele Existenz betrifft, und also nicht als Bestimmungsgrund der Erscheinungen angesehen werden kann; welches aber ganz anders ausfallen würde, wenn die Weltwesen als Dinge an sich selbst i n d e r Z e i t existierten, da der Schöpfer der Substanz zugleich der Urheber des ganzen Maschinenwesens an dieser Substanz sein würde. Von so großer Wichtigkeit ist die in der Kritik der reinen spekulativen Vernunft verrichtete Absonderung der Zeit (sowie des Raums) von der Existenz der Dinge an sich selbst. Die hier vorgetragene Auflösung der Schwierigkeit hat aber, wird man sagen, doch viel Schweres in sich und ist einer hellen Darstellung kaum empfänglich. Allein ist denn jede andere, die man versucht hat oder versuchen mag, leichter und faßlicher? Eher möchte man sagen, die dogmatischen Lehrer der Metaphysik hätten mehr ihre Verschmitztheit als Aufrichtigkeit darin bewiesen, daß sie diesen schwierigen Punkt soweit wie möglich aus den Augen brachten, in der Hoffnung, daß, wenn sie davon gar nicht sprächen, auch wohl niemand leichtlich an ihn denken würde. Wenn einer Wissenschaft geholfen werden soll, so müssen alle Schwierigkeiten a u f g e d e c k t und sogar diejenigen a u f g e s u c h t wer|den, die ihr noch so ingeheim im Wege liegen; denn jede derselben ruft ein Hilfsmittel auf, welches, ohne der Wissenschaft einen Zuwachs, es sei an Umfang oder an Bestimmtheit, zu verschaften, nicht gefunden werden kann, wodurch also selbst die Hindernisse Beförderungsmittel der Gründlichkeit der Wissenschaft werden. Dagegen, werden die Schwierigkeiten absichtlich verdeckt oder bloß durch Palliativmittel gehoben, so brechen sie über kurz oder lang in unheilbare Übel aus, welche die Wissenschaft in einem gänzlichen Skeptizismus zugrunde richten.

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traddizione dire che, come creatore, egli è causa delle azioni nel mondo sensibile, e quindi delle azioni considerate come fenomeni, benché egli sia causa dell’esistenza degli esseri agenti (come noumeni). Ora, se è possibile (purché ammettiamo l’esistenza nel tempo come qualcosa che vale semplicemente per i fenomeni, non per le cose in sé) sostenere la libertà nonostante il meccanismo naturale delle azioni come fenomeni, in tal caso il fatto che gli esseri agenti sono creature non può produrre qui il minimo cambiamento, perché la creazione riguarda la loro esistenza intelligibile e non quella sensibile, e quindi non può esser considerata come principio determinante dei fenomeni; il che invece sarebbe affatto diverso, se gli esseri del mondo esistessero nel t e m p o come cose in sé, poiché il creatore della sostanza sarebbe nello stesso tempo l’autore dell’intero meccanismo in questa sostanza. Così grande è l’importanza della separazione, fatta nella Critica della ragion pura speculativa, del tempo (come pure dello spazio) dall’esistenza delle cose in sé. La soluzione qui rappresentata della difficoltà contiene ancora, si dirà, molte difficoltà, e può appena esser esposta chiaramente. Ma ogni altra soluzione, che si sia tentata o che si possa tentare, è più facile e più comprensibile? Si dovrebbe dire piuttosto che i maestri dommatici della metafisica hanno dimostrato in essa la loro astuzia meglio che la loro sincerità, e che essi allontanavano dagli occhi, per quanto era possibile, questo punto difficile, nella speranza che, se non ne parlassero affatto, forse nessuno vi avrebbe pensato. Se si deve prestar aiuto a una scienza, si devono s c o p r i r e tutte le difficoltà, ed anche r i c e r c a r e quelle che le sono d’ostacolo ancora di nascosto; poiché ciascuna di esse invoca un rimedio che non può esser trovato senza procurare alla scienza un aumento, sia questo in estensione o in precisione; per il quale rimedio gli stessi ostacoli diventano mezzi che contribuiscono alla profondità della scienza. Invece, se le difficoltà vengono nascoste deliberatamente, oppure semplicemente tolte mediante palliativi, esse sfociano, presto o tardi, in mali insanabili, che precipitano la scienza in un completo scetticismo.

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Da es eigentlich der Begriff der Freiheit ist, der unter allen Ideen der reinen spekulativen Vernunft allein so große Erweiterung im Felde des Übersinnlichen, wenngleich nur in Ansehung der praktischen Erkenntnis, verschafft, so frage ich mich: woher denn ihm ausschließungsweise eine so große Fruchtbarkeit zuteil geworden sei, indessen die übrigen zwar die leere Stelle für reine mögliche Verstandeswesen bezeichnen, den Begriff von ihnen aber durch nichts bestimmen können. Ich begreife bald, daß, da ich nichts ohne Kategorie denken kann, diese auch in der Idee der Vernunft von der Freiheit, mit der ich mich beschäftige, zuerst müsse aufgesucht werden, welche hier die Kategorie der K a u s a l i t ä t ist, und daß, wenngleich dem Ve r n u n f t b e g r i f f e der Freiheit | als überschwenglichem Begriffe keine korrespondierende Anschauung untergelegt werden kann, dennoch dem Ve r s t a n d e s b e g r i f f e (der Kausalität), für dessen Synthesis j e n e r das Unbedingte fordert, zuvor eine sinnliche Anschauung gegeben werden müsse, dadurch ihm zuerst die objektive Realität gesichert wird. Nun sind alle Kategorien in zwei Klassen, die m a t h e m a t i s c h e n , welche bloß auf die Einheit der Synthesis in der Vorstellung der Objekte, und die d y n a m i s c h e n , welche auf die in der Vorstellung der Existenz der Objekte gehen, eingeteilt. Die ersteren (die der Größe und der Qualität) enthalten jederzeit eine Synthesis des G l e i c h a r t i g e n , in welcher das Unbedingte zu dem in der sinnlichen Anschauung gegebenen Bedingten in Raum und Zeit, da es selbst wiederum zum Raume und der Zeit gehören und also immer wiederum bedingt sein müßte, gar nicht kann gefundenwerden; daher auch in der Dialektik der reinen theoretischen Vernunft die einander entgegengesetzten Arten, das Unbedingte und die Totalität der Bedingungen für sie zu finden, beide falsch waren. Die Kategorien der zweiten Klasse (die der Kausalität und der Notwendigkeit eines Dinges) erforderten diese Gleichartigkeit (des Bedingten und der Bedingung in der Synthesis) gar nicht, weil hier nicht die Anschauung, wie sie aus einem Mannigfaltigen in ihr zusammengesetzt, sondern nur wie die Existenz des ihr korrespondierenden bedingten Gegenstandes zu der Existenz der Bedingung | (im Verstande als damit verknüpft) hinzukomme, vorgestellt werden sollte; und da war es erlaubt, zu dem durchgängig Bedingten in der

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Siccome propriamente il concetto della libertà è il solo, fra tutte le idee della ragion pura speculativa, che procuri sì grande estensione nel campo del soprasensibile, quantunque soltanto relativamente alla conoscenza pratica, così io mi domando donde sia dunque toccata esclusivamente ad e s s o u n a s ì g r a n d e f e c o n d i t à , laddove gli altri designano bensì il posto vuoto per i puri enti possibili dell’intelletto, ma non possono determinare in niente il concetto di essi. Io comprendo subito, che siccome non posso pensar niente senza categoria, anche nell’idea razionale della libertà, di cui mi occupo, dev’essere anzitutto ricercata la categoria, la quale qui è la categoria della c a u s a l i t à ; e che, quantunque al c o n c e t t o r a z i o n a l e della libertà, come concetto trascendentale, non possa esser sottoposta nessuna intuizione corrispondente, pure al c o n c e t t o i n t e l l e t t u a l e (della causalità), per la cui sintesi quel concetto razionale richiede l’incondizionato, dev’essere data anzitutto un’intuizione sensibile, per la quale solamente gli viene assicurata la realtà oggettiva. Ora, tutte le categorie sono divise in due classi, le m a t e m a t i c h e , che riguardano semplicemente l’unità della sintesi nella rappresentazione degli oggetti, e le d i n a m i c h e , che riguardano l’unità della sintesi nella rappresentazione dell’esistenza degli oggetti. Le prime (quelle della grandezza e della qualità) contengono sempre una sintesi dell’ o m o g e n e o , nella quale l’incondizionato non si può trovare nel condizionato nello spazio e nel tempo dato nell’intuizione sensibile, perché allora esso stesso, a sua volta, dovrebbe appartenere allo spazio e al tempo, e perciò esser sempre nuovamente condizionato; perciò, anche nella Dialettica della ragion pura teoretica, i modi vicendevolmente opposti di trovare per essi l’incondizionato e la totalità delle condizioni erano falsi ambedue. Le categorie della seconda classe (quelle della causalità e della necessità di una cosa) non richiedevano affatto questa omogeneità (del condizionato e della condizione nella sintesi), perché qui doveva esser rappresentata non l’intuizione come è composta del molteplice che è in essa, ma soltanto come l’esistenza dell’oggetto condizionato corrispondente ad essa si aggiunge all’esistenza della condizione (nell’intelletto, come connesso coll’esistenza dell’oggetto); e allora era lecito porre per ciò

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Sinnenwelt (sowohl in Ansehung der Kausalität als des zufälligen Daseins der Dinge selbst) das Unbedingte, obzwar übrigens unbestimmt, in der intelligibelen Welt zu setzen und die Synthesis transzendent zu machen; daher denn auch in der Dialektik der reinen spekulativen Vernunft sich fand, daß beide dem Scheine nach einander entgegengesetzte Arten, das Unbedingte zum Bedingten zu finden, z. B. in der Synthesis der Kausalität zum Bedingten in der Reihe der Ursachen und Wirkungen der Sinnenwelt die Kausalität, die weiter nicht sinnlich bedingt ist, zu denken, sich in der Tat nicht widerspreche, und daß dieselbe Handlung, die als zur Sinnenwelt gehörig jederzeit sinnlich bedingt, d. i. mechanisch notwendig ist, doch zugleich auch, als zur Kausalität des handelnden Wesens, sofern es zur intelligibelen Welt gehörig ist, eine sinnlich unbedingte Kausalität zum Grunde haben, mithin als frei gedacht werden könne. Nun kam es bloß darauf an, daß dieses K ö n n e n in ein S e i n verwandelt würde, d. i. daß man in einem wirklichen Falle gleichsam durch ein Faktum beweisen könne, daß gewisse Handlungen eine solche Kausalität (die intellektuelle, sinnlich unbedingte) voraussetzen, sie mögen nun wirklich oder auch nur geboten, d. i. objektiv praktisch notwendig sein. An wirklich in der Erfahrung gegebenen Hand|lungen, als Begebenheiten der Sinnenwelt, konnten wir diese Verknüpfung nicht anzutreffen hoffen, weil die Kausalität durch Freiheit immer außer der Sinnenwelt im Intelligibelen gesucht werden muß. Andere Dinge außer den Sinnenwesen sind uns aber zur Wahrnehmung und Beobachtung nicht gegeben. Also blieb nichts übrig, als daß etwa ein unwidersprechlicher und zwar objektiver Grundsatz der Kausalität, welcher alle sinnliche Bedingung von ihrer Bestimmung ausschließt, d. i. ein Grundsatz, in welchem die Vernunft sich nicht weiter auf etwas a n d e r e s als Bestimmungsgrund in Ansehung der Kausalität beruft, sondern den sie durch jenen Grundsatz schon selbst enthält, und wo sie also als r e i n e Ve r n u n f t selbst praktisch ist, gefunden werde. Dieser Grundsatz aber bedarf keines Suchens und keiner Erfindung; er ist längst in aller Menschen Vernunft gewesen und ihrem Wesen einverleibt und ist der Grundsatz der S i t t l i c h k e i t . Also ist jene unbedingte Kausalität und das Vermögen derselben, die Freiheit, mit dieser aber ein Wesen (ich selber), welches zur Sinnenwelt

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che era universalmente condizionato nel mondo sensibile (tanto relativamente alla causalità come all’esistenza accidentale delle cose stesse) l’incondizionato, benché d’altronde indeterminato, nel modo intelligibile, e far trascendente la sintesi. Perciò anche nella Dialettica della ragion pura speculativa si trovò che, nel fatto, non si contraddicono i due modi, apparentemente opposti l’uno all’altro, di trovare l’incondizionato mediante il condizionato: per es., pensare, nella sintesi della causalità, pel condizionato, nella serie delle cause e degli effetti del mondo sensibile, la causalità, che non è più sensibilmente condizionata; e la stessa azione, la quale, come appartenente al mondo sensibile, è sempre sensibilmente condizionata, cioè meccanicamente necessaria, tuttavia nello stesso tempo, per la causalità dell’essere agente, in quanto appartiene al mondo intelligibile, può anche avere per fondamento una causalità sensibilmente incondizionata, e quindi esser pensata come libera. Ora si trattava semplicemente di ciò, che questo p o t e r e fosse mutato in un e s s e r e , e cioè si potesse dimostrare, in un caso reale mediante un fatto, che certe azioni suppongono una tale causalità (l’intellettuale, sensibilmente incondizionata), siano esse reali oppure soltanto prescritte, cioè oggettivamente e praticamente necessarie. Certamente, nell’esperienza di date azioni come eventi del mondo sensibile, noi non potevamo sperare di trovare questa connessione, perché la causalità mediante la libertà deve sempre esser cercata fuori del mondo sensibile, nell’intelligibile. Ma altre cose, fuori degli esseri sensibili, non sono date alla nostra percezione e alla nostra osservazione. Dunque, non rimaneva altro che trovare un principio non contraddittorio, e invero oggettivo della casualità, che escludesse dalla sua determinazione ogni condizione sensibile, cioè un principio in cui la ragione non si fondasse su n i e n t ’ a l t r o , come principio determinante relativamente alla causalità, ma lo contenesse già essa stessa mediante quel principio, ed in cui, quindi, come r a g i o n p u r a , fosse anche pratica. Ma questo principio non abbisogna di alcuna ricerca né di alcuna scoperta; esso è stato da molto tempo nella ragione di tutti gli uomini, ed è incorporato alla loro essenza, ed è il principio della m o r a l i t à . Dunque, quella causalità incondizionata e il potere di essa, la libertà, e con questa

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gehört, doch zugleich als zur intelligebelen gehörig nicht bloß unbestimmt und problematisch g e d a c h t (welches schon die spekulative Vernunft als tunlich ausmitteln konnte), sondern sogar i n A n s e h u n g d e s G e s e t z e s ihrer Kausalität b e s t i m m t und assertorisch e r k a n n t , und so uns die Wirklichkeit der intelligibelen Welt und zwar in praktischer Rücksicht b e s t i m m t gegeben wor|den, und diese Bestimmung, die in theoretischer Absicht t r a n s z e n d e n t (überschwenglich) sein würde, ist in praktischer i m m a n e n t . Dergleichen Schritt aber konnten wir in Ansehung der zweiten dynamischen Idee, nämlich der eines n o t w e n d i g e n We s e n s , nicht tun. Wir konnten zu ihm aus der Sinnenwelt ohne Vermittelung der ersteren dynamischen Idee nicht hinaufkommen. Denn wollten wir es versuchen, so müßten wir den Sprung gewagt haben, alles das, was uns gegeben ist, zu verlassen und uns zu dem hinzuschwingen, wovon uns auch nichts gegeben ist, wodurch wir die Verknüpfung eines solchen intelligibelen Wesens mit der Sinnenwelt vermitteln könnten (weil das notwendige Wesen als a u ß e r u n s gegeben erkannt werden sollte); welches dagegen in Ansehung u n s e r e s e i g e n e n Subjekts, sofern es sich durch das moralische Gesetz e i n e r s e i t s als intelligibeles Wesen (vermöge der Freiheit) bestimmt, a n d e r e r s e i t s als nach dieser Bestimmung in der Sinnenwelt tätig selbst erkennt, wie jetzt der Augenschein dartut, ganz wohl möglich ist. Der einzige Begriff der Freiheit verstattet es, daß wir nicht außer uns hinausgehen dürfen, um das Unbedingte und Intelligibele zu dem Bedingten und Sinnlichen zu finden. Denn es ist unsere Vernunft selber, die sich durchs höchste und unbedingte praktische Gesetz und das Wesen, das sich dieses Gesetzes bewußt ist (unsere eigene Person), als zur reinen Verstandeswelt gehörig und zwar sogar mit Bestim|mung der Art, wie es als ein solches tätig sein könne, erkennt. So läßt sich begreifen, warum in dem ganzen Vernunftvermögen n u r das P r a k t i s c h e dasjenige sein könne, welches uns über die Sinnenwelt hinaushilft und Erkenntnisse von einer übersinnlichen Ordnung und Verknüpfung verschaffe, die aber ebendarum freilich nur so weit, als es gerade für die reine praktische Absicht nötig ist, ausgedehnt werden können. Nur auf eines sei es mir erlaubt bei dieser Gelegenheit noch aufmerksam zu machen, nämlich daß jeder Schritt, den man mit

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un essere (io stesso) che appartenga al mondo sensibile, come tale che appartenga insieme al mondo intelligibile, non sono semplicemente concepiti in modo indeterminato e problematico (il che già la ragione speculativa poteva scoprire come possibile), ma sono affatto d e t e r m i n a t i r e l a t i v a m e n t e a l l a l e g g e della loro causalità, e c o n o s c i u t i assertoriamente; e così ci è data la realtà del mondo intelligibile, e invero d e t e r m i n a t a sotto il rispetto pratico, e questa determinazione, che sotto il rispetto teoretico sarebbe t r a s c e n d e n t e ( e s a l t a t a ) , sotto il rispetto pratico è i m m a n e n t e . Ma simile passo noi non potevamo fare relativamente alla seconda idea dinamica, cioè a quella di un e s s e r e n e c e s s a r i o . Noi non potevamo salire ad essa dal mondo sensibile, senza la mediazione della prima idea dinamica. Poiché se volevamo tentar ciò, dovevamo osare di far il salto, abbandonare tutto ciò che ci è dato, e gettarci a ciò di cui non ci è dato niente, onde poter procurare la connessione di una simile essenza intelligibile col mondo sensibile (perché l’essere necessario doveva esser conosciuto come dato f u o r i d i n o i ) ; il che invero è affatto possibile, come adesso l’evidenza manifesta, relativamente al n o s t r o p r o p r i o soggetto, in quanto questo si conosce, d a u n a p a r t e , come essere intelligibile determinato (in virtù della libertà) mediante la legge morale; d ’ a l t r a p a r t e come attivo secondo questa determinazione nel mondo sensibile. Il solo concetto della libertà ci permette di non uscire fuori di noi per trovar l’incondizionato e l’intelligibile per il condizionato e il sensibile. Poiché è la nostra stessa ragione, che si riconosce mediante la legge pratica suprema e incondizionata, e l’essere, che è conscio di questa legge (la nostra propria persona), si riconosce come appartenente al puro mondo dell’intelletto, ed invero anche colla determinazione del modo in cui esso come tale può essere attivo. Così si può comprendere perché in tutta la facoltà della ragione s o l t a n t o la facoltà p r a t i c a possa esser quella che ci aiuta a uscire dal mondo sensibile e ci procura le cognizioni di un ordine e di una connessione soprasensibile; le quali, tuttavia, appunto perciò possono essere estese solo quanto è affatto necessario per il punto di vista puro pratico. Mi sia concesso in quest’occasione di richiamare ancora l’at-

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der reinen Vernunft tut, sogar im praktischen Felde, wo man auf subtile Spekulation gar nicht Rücksicht nimmt, dennoch sich so genau und zwar von selbst an alle Momente der Kritik der theoretischen Vernunft anschließe, als ob jeder mit überlegter Vorsicht, bloß um dieser Bestätigung zu verschaffen, ausgedacht wäre. Eine solche auf keinerlei Weise gesuchte, sondern (wie man sich selbst davon überzeugen kann, wenn man nur die moralischen Nachforschungen bis zu ihren Prinzipien fortsetzen will) sich von selbst findende genaue Eintreffung der wichtigsten Sätze der praktischen Vernunft mit den oft zu subtil und unnötig scheinenden Bemerkungen der Kritik der spekulativen überrascht und setzt in Verwunderung, und bestärkt die schon von anderen erkannte und gepriesene Maxime, in jeder wissenschaftlichen Untersuchung mit aller möglichen Genauigkeit und Offenheit seinen Gang ungestört fortzuset|zen, ohne sich an das zu kehren, wowider sie außer ihrem Felde etwa verstoßen möchte, sondern sie für sich allein, soviel man kann, wahr und vollständig zu vollführen. Öftere Beobachtung hat mich überzeugt, daß, wenn man dieses Geschäfte zu Ende gebracht hat, das, was in der Hälfte desselben in Betracht anderer Lehren außerhalb mir bisweilen sehr bedenklich schien, wenn ich diese Bedenklichkeit nur so lange aus den Augen ließ und bloß auf mein Geschäft acht hatte, bis es vollendet sei, endlich auf unerwartete Weise mit demjenigen vollkommen zusammenstimmte, was sich ohne die mindeste Rücksicht auf jene Lehren, ohne Parteilichkeit und Vorliebe für dieselben von selbst gefunden hatte. Schriftsteller würden sich manche Irrtümer, manche verlorene Mühe (weil sie auf Blendwerk gestellt war) ersparen, wenn sie sich nur entschließen könnten, mit etwas mehr Offenheit zu Werke zu gehen.

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tenzione su una cosa, e cioè che ogni passo che si fa con la ragion pura, anche nel campo pratico, dove non si ha affatto riguardo a una speculazione sottile, si lega tuttavia così esattamente e spontaneamente con tutti i momenti della Critica della ragion teoretica, come se fosse accortamente immaginato sol per procurar questa conferma. Una tale esatta corrispondenza, in nessun modo cercata, ma (come possiamo convincercene noi stessi, solo che vogliamo continuare le ricerche morali sino ai loro princìpi) spontanea, dei princìpi più importanti della ragion pratica con quelle osservazioni della Critica della ragione speculativa che spesso sembrano troppo sottili e non necessarie, sorprende e reca meraviglia, e conferma la massima già conosciuta ed esaltata da altri, che in ogni ricerca scientifica bisogna continuare tranquillamente il proprio cammino con tutta l’esattezza e la sincerità possibili, senza curarci di ciò con cui tal ricerca potrebbe contrastare fuori del suo dominio, ed eseguirla per sé sola, per quanto si può, secondo verità e in modo completo. L’osservazione frequente mi ha convinto che, quando si sono condotte a termine queste ricerche, ciò che a metà di esse, e rispetto ad altre dottrine, mi pareva talvolta assai incerto, solo che io perdessi di vista tale incertezza e attendessi semplicemente alla mia indagine, questa, terminata, si accordava infine, in modo inaspettato, perfettamente, con ciò che s’era trovato da sé senza la minima considerazione di quelle dottrine, senza parzialità né preferenza per esse. Gli scrittori eviterebbero molti errori e molta fatica sprecata (perché impiegata per un’illusione), solo che si potessero risolvere a lavorare con un po’ più di sincerità.

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| Zweites Buch DIALEKTIK DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT Erstes Hauptstück VON EINER DIALEKTIK DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT ÜBERHAUPT

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Die reine Vernunft hat jederzeit ihre Dialektik, man mag sie in ihrem spekulativen oder praktischen Gebrauche betrachten; denn sie verlangt die absolute Totalität der Bedingungen zu einem gegebenen Bedingten, und diese kann schlechterdings nur in Dingen an sich selbst angetroffen werden. Da aber alle Begriffe der Dinge auf Anschauungen bezogen werden müssen, welche bei uns Menschen niemals anders als sinnlich sein können, mithin die Gegenstände nicht als Dinge an sich selbst, sondern bloß als Erscheinungen erkennen lassen, in deren Reihe des Bedingten und der Bedingungen das Unbedingte niemals angetroffen werden kann: so entspringt ein unvermeidlicher Schein aus der | Anwendung dieser Vernunftidee der Totalität der Bedingungen (mithin des Unbedingten) auf Erscheinungen, als wären sie Sachen an sich selbst (denn dafür werden sie in Ermangelung einer warnenden Kritik jederzeit gehalten), der aber niemals als trüglich bemerkt werden würde, wenn er sich nicht durch einen W i d e r s t r e i t der Vernunft mit sich selbst in der Anwendung ihres Grundsatzes, das Unbedingte zu allem Bedingten vorauszusetzen, auf Erscheinungen selbst verriete. Hierdurch wird aber die Vernunft genötigt, diesem Scheine nachzuspüren, woraus er entspringe und wie er gehoben werden könne, welches nicht anders als durch eine vollständige Kritik des ganzen reinen Vernunftvermögens geschehen kann, sodaß die An-

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DIALETTICA DELLA RAGION PURA PRATICA Capitolo primo DI UNA DIALETTICA DELLA RAGION PURA PRATICA IN GENERALE La ragion pura ha sempre la sua dialettica, venga essa considerata nel suo uso speculativo o in quello pratico; perché essa aspira all’assoluta totalità delle condizioni per un dato condizionato, e questa non si può assolutamente trovare che nelle cose in sé. Ma siccome tutti i concetti delle cose devono esser riferiti a intuizioni, le quali in noi uomini non possono mai essere altrimenti che sensibili, e quindi fanno conoscere gli oggetti non come cose in sé, ma semplicemente come fenomeni, nella cui serie del condizionato e delle condizioni non si può mai trovare l’incondizionato; così dall’applicazione di quest’idea razionale della totalità delle condizioni (quindi dell’incondizionato) ai fenomeni, come se essi fossero cose in sé (poiché vengono sempre ritenuti tali quando manchi una critica che ci avverta), deriva una illusione inevitabile, la quale tuttavia non verrebbe mai notata come ingannevole, se non si scoprisse da sé mediante un c o n t r a s t o della ragione con se stessa nell’applicazione ai fenomeni del suo principio di supporre l’incondizionato per tutto il condizionato. Ma per ciò la ragione vien costretta a indagare da che cosa derivi quest’illusione, e come possa esser tolta; il che non può avvenire altrimenti che mediante una critica completa di tutta la facoltà razionale pura; sicché l’antinomia della

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tinomie der reinen Vernunft, die in ihrer Dialektik offenbar wird, in der Tat die wohltätigste Verirrung ist, in die die menschliche Vernunft je hat geraten können, indem sie uns zuletzt antreibt, den Schlüssel zu suchen, aus diesem Labyrinthe herauszukommen, der, wenn er gefunden worden, noch das entdeckt, was man nicht suchte und doch bedarf, nämlich eine Aussicht in eine höhere, unveränderliche Ordnung der Dinge, in der wir schon jetzt sind, und in der unser Dasein der höchsten Vernunftbestimmung gemäß fortzusetzen wir durch bestimmte Vorschriften nunmehr angewiesen werden können. | Wie im spekulativen Gebrauche der reinen Vernunft jene natürliche Dialektik aufzulösen und der Irrtum aus einem übrigens natürlichen Scheine zu verhüten sei, kann man in der Kritik jenes Vermögens ausführlich antreffen. Aber der Vernunft in ihrem praktischen Gebrauche geht es um nichts besser. Sie sucht als reine praktische Vernunft zu dem Praktisch-Bedingten (was auf Neigungen und Naturbedürfnis beruht) ebenfalls das Unbedingte, und zwar nicht als Bestimmungsgrund des Willens, sondern, wenn dieser auch (im moralischen Gesetze) gegeben worden, die unbedingte Totalität des G e g e n s t a n d e s der reinen praktischen Vernunft, unter dem Namen des HÖCHSTEN GUTS. Diese Idee praktisch, d. i. für die Maxime unseres vernünftigen Verhaltens hinreichend zu bestimmen, ist die We i s h e i t s l e h r e , und diese wiederum als W i s s e n s c h a f t ist P h i l o s o p h i e in der Bedeutung, wie die Alten das Wort verstanden, bei denen sie eine Anweisung zu dem Begriffe war, worin das höchste Gut zu setzen, und zum Verhalten, durch welches es zu erwerben sei. Es wäre gut, wenn wir dieses Wort bei seiner alten Bedeutung ließen, als eine L e h r e v o m h ö c h s t e n G u t , sofern die Vernunft bestrebt ist, es darin zur W i s s e n s c h a f t zu bringen. Denn einesteils würde die angehängte einschränkende Bedingung dem griechischen Ausdrucke (welcher Liebe zur We i s h e i t bedeutet) angemessen und doch zugleich hinreichend sein, | die Liebe zur W i s s e n s c h a f t , mithin aller spekulativen Erkenntnis der Vernunft, sofern sie ihr sowohl zu jenem Begriffe als auch dem praktischen Bestimmungsgrunde dienlich ist, unter dem Namen der Philosophie mitzubefassen, und doch den Hauptswack, um dessen willen sie allein Weisheitslehre genannt werden kann, nicht aus den Augen verlieren lassen. Andererseits würde es auch nicht übel sein,

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ragione pura, che è manifesta nella sua dialettica, è in sostanza l’errore più benefico in cui la ragione umana abbia potuto incorrere, poiché esso infine ci ha indotto a cercar la chiave per uscir da questo labirinto; chiave che, se vien trovata, scopre ancora ciò che non si cercava eppure occorreva: cioè la prospettiva di un ordine superiore e immutabile delle cose, nel quale noi siamo già ora, nel quale, mediante precetti determinati, possiamo ormai procedere per continuare la nostra esistenza secondo la determinazione suprema della ragione. Come nell’uso speculativo della ragion pura si debba risolvere quella dialettica naturale, e impedire l’errore che proviene da un’illusione d’altronde naturale, si può trovare esposto ampiamente nella critica di quella facoltà. Ma per la ragione nel suo uso pratico la cosa non va meglio. Come ragion pura pratica, essa cerca per il praticamente condizionato (che è ciò che si fonda sulle inclinazioni e sul bisogno naturale) anche l’incondizionato, e invero non come principio determinante della volontà, ma, quando anche questo venga dato (nella legge morale), quale totalità incondizionata dell’o g g e t t o della ragion pura pratica, col nome di SOMMO BENE. Determinare quest’idea praticamente, cioè in modo che basti per la massima della nostra condotta razionale, è la d o t t r i n a d e l l a s a g g e z z a ; e questa a sua volta come s c i e n z a è f i l o s o f i a nel senso in cui intesero questa parola gli antichi, pei quali essa consisteva nell’insegnare il concetto in cui è da riporre il sommo bene, e il modo di procedere mediante cui questo bene si può acquistare. Converrebbe lasciare a quella parola il suo significato antico, come d o t t r i n a d e l s o m m o b e n e , in quanto la ragione si sforza di farne una s c i e n z a . Poiché da una parte la condizione restrittiva ad essa inerente sarebbe conforme all’espressione greca (la quale significa amore della s a g g e z z a ) , e tuttavia sufficiente nello stesso tempo a comprendere sotto il nome di filosofia l’amore della s c i e n z a , e quindi di ogni conoscenza speculativa della ragione, in quanto serve alla ragione così per quel concetto, come pel motivo determinante pratico, ma senza lasciar perdere di vista lo scopo principale, a cagione del quale soltanto si può chiamare dottri-

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den Eigendünkel desjenigen, der es wagte, sich des Titels eines Philosophen selbst anzumaßen, abzuschrecken, wenn man ihm schon durch die Definition den Maßstab der Selbstschätzung vorhielte, der seine Ansprüche sehr herabstimmen wird; denn ein We i s h e i t s l e h r e r zu sein, möchte wohl etwas mehr als einen Schüler bedeuten, der noch immer nicht weit genug gekommen ist, um sich selbst, viel weniger um andere mit sicherer Erwartung eines so hohen Zwecks zu leiten; es würde einen M e i s t e r i n K e n n t n i s d e r We i s h e i t bedeuten, welches mehr sagen will, als ein bescheidener Mann sich selber anmaßen wird, und Philosophie würde, sowie die Weisheit selbst noch immer ein Ideal bleiben, welches objektiv in der Vernunft allein vollständig vorgestellt wird, subjektiv aber, für die Person, nur das Ziel seiner unaufhörlichen Bestrebung ist, und in dessen Besitz unter dem angemaßten Namen eines Philosophen zu sein, nur der vorzugeben berechtigt ist, der auch die unfehlbare Wirkung derselben (in Beherrschung seiner selbst | und dem ungezweifelten Interesse, das er vorzüglich am allgemeinen Guten nimmt) an seiner Person als Beispiele aufstellen kann, welches die Alten auch forderten, um jenen Ehrennamen verdienen zu können. In Ansehung der Dialektik der reinen praktischen Vernunft im Punkte der Bestimmung des Begriffs v o m h ö c h s t e n G u t e (welche, wenn ihre Auflösung gelingt, ebensowohl als die der theoretischen die wohltätigste Wirkung erwarten läßt, dadurch daß die aufrichtig angestellten und nicht verhehlten Widersprüche der reinen praktischen Vernunft mit ihr selbst zur vollständigen Kritik ihres eigenen Vermögens nötigen) haben wir nur noch eine Erinnerung voranzuschicken. Das moralische Gesetz ist der alleinige Bestimmungsgrund des reinen Willens. Da dieses aber bloß formal ist (nämlich allein die Form der Maxime als allgemein gesetzgebend fordert), so abstrahiert es als Bestimmungsgrund von aller Materie, mithin von allem Objekte des Wollens. Mithin mag das höchste Gut immer der ganze G e g e n s t a n d einer reinen praktischen Vernunft, d. i. eines reinen Willens sein, so ist es darum doch nicht für den B e s t i m m u n g s g r u n d desselben zu halten, und das moralische Gesetz muß allein als der Grund angesehen werden, jenes und des-

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na della saggezza. D’altra parte, non sarebbe neanche male intimidire la presunzione di colui che osò attribuire a se stesso il titolo di filosofo mettendogli dinanzi, già mediante la definizione, la misura con cui giudicarsi, la quale abbasserà assai le sue pretese; poiché essere un i n s e g n a n t e d i s a g g e z z a dovrebbe ben significare qualcosa di più che essere uno scolaro, il quale non è ancora arrivato al punto di governare se stesso, e molto meno gli altri, con la ferma speranza di giungere a un fine così alto; significherebbe essere un m a e s t r o d e l l a c o n o s c e n z a d e l l a s a g g e z z a , il che vuol dire più di quello che un uomo modesto attribuirà a se stesso; e la filosofia rimarrebbe ancor sempre, come la saggezza, un ideale che obiettivamente vien rappresentato completamente solo nella ragione, ma soggettivamente, per la persona, è soltanto lo scopo dei suoi sforzi incessanti. Ha il diritto di pretendere di essere in possesso di questo ideale col nome appropriato di filosofo solo colui il quale può anche mostrarne l’effetto immancabile (nel dominare se stesso, e nell’interesse indubitabile che egli prende principalmente al bene universale) nella sua persona, come esempio; il che anche gli antichi richiedevano perché si potesse meritare quel nome onorevole. Riguardo alla dialettica della ragion pura pratica, sul punto della determinazione del concetto del s o m m o b e n e (la quale dialettica, se la sua soluzione riesce così bene come quella della dialettica teoretica, lascia sperare il più benefico effetto per il fatto che le contraddizioni della ragion pura pratica con se stessa, esposte sinceramente e non nascoste obbligano alla critica completa della sua propria facoltà), dobbiamo ancora premettere solo una osservazione. La legge morale è l’unico motivo determinante della volontà pura. Ma, siccome questa legge è semplicemente formale (cioè richiede soltanto la forma della massima come universalmente legislativa), così essa, come motivo determinante, astrae da ogni materia, e perciò da ogni oggetto del volere. Quindi il sommo bene può sempre essere l’intero o g g e t t o di una ragion pura pratica, cioè di una volontà pura; tuttavia non perciò esso è da ritenersi il m o t i v o d e t e r m i n a n t e di questa volontà, e soltanto la legge morale dev’essere considerata come il motivo [che

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la spinge] a farsi un oggetto di quel bene, e della sua effettuazione o promuovimento. Quest’osservazione è importante in un caso così difficile come la determinazione dei princìpi morali, in cui anche il più piccolo malinteso altera le intenzioni. Poiché si sarà visto dall’analitica, che, se prima della legge morale si ammettesse qualche oggetto col nome di bene, quale motivo determinante della volontà, e da esso si derivasse poi il principio pratico supremo, questo allora implicherebbe sempre un’eteronomia, e sottentrerebbe al principio morale. Ma va da sé che, se nel concetto del sommo bene è già inclusa la legge morale come condizione suprema, allora il sommo bene non è semplicemente o g g e t t o , ma il suo concetto, e la rappresentazione dell’esistenza possibile di esso mediante la nostra ragion pratica sono anche nello stesso tempo il m o t i v o d e t e r m i n a n t e della volontà pura; perché allora in sostanza la legge morale già inclusa in questo concetto e concepita con esso, e nessun altro oggetto, è ciò che determina la volontà secondo il principio dell’autonomia. Quest’ordine dei concetti della determinazione della volontà non può esser perduto di vista; perché altrimenti si fraintende se stessi e si crede di contraddirsi, mentre tutto è nell’armonia reciproca più perfetta.

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sen Bewirkung oder Beförderung sich zum Objekte zu machen. Diese Erinnerung ist in einem so delikaten | Falle, als die Bestimmung sittlicher Prinzipien ist, wo auch die kleinste Mißdeutung Gesinnungen verfälscht, von Erheblichkeit. Denn man wird aus der Analytik ersehen haben, daß, wenn man vor dem moralischen Gesetze irgend ein Objekt unter dem Namen eines Guten als Bestimmungsgrund des Willens annimmt und von ihm dann das oberste praktische Prinzip ableitet, dieses alsdann jederzeit Heteronomie herbeibringen und das moralische Prinzip verdrängen würde. Es versteht sich aber von selbst, daß, wenn im Begriffe des höchsten Guts das moralische Gesetz als oberste Bedingung schon mit eingeschlossen ist, alsdann das höchste Gut nicht bloß Objekt, sondern auch sein Begriff und die Vorstellung der durch unsere praktische Vernunft möglichen Existenz desselben zugleich der B e s t i m m u n g s g r u n d des reinen Willens sei; weil alsdann in der Tat das in diesem Begriffe schon eingeschlossene und mitgedachte moralische Gesetz und kein anderer Gegenstand nach dem Prinzip der Autonomie den Willen bestimmt. Diese Ordnung der Begriffe von der Willensbestimmung darf nicht aus den Augen gelassen werden; weil man sonst sich selbst mißversteht und sich zu widersprechen glaubt, wo doch alles in der vollkommensten Harmonie nebeneinander steht.

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| Zweites Hauptstück VON DER DIALEKTIK DER REINEN VERNUNFT IN BESTIMMUNG DES BEGRIFFS VOM HOCHSTEN GUT

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Der Begriff des H ö c h s t e n enthält schon eine Zweideutigkeit, die, wenn man darauf nicht acht hat, unnötige Streitigkeiten veranlassen kann. Das Höchste kann das Oberste (supremum) oder auch das Vollendete (consummatum) bedeuten. Das erstere ist diejenige Bedingung, die selbst unbedingt, d. i. keiner anderen untergeordnet ist (originarium); das zweite dasjenige Ganze, das kein Teil eines noch größeren Ganzen von derselben Art ist (perfectissimum). Daß Tu g e n d (als die Würdigkeit, glücklich zu sein) die o b e r s t e B e d i n g u n g alles dessen, was uns nur wünschenswert scheinen mag, mithin auch aller unserer Bewerbung um Glückseligkeit, mithin das o b e r s t e Gut sei, ist in der Analytik bewiesen worden. Darum ist sie aber noch nicht das ganze und vollendete Gut, als Gegenstand des Begehrungsvermögens vernünftiger endlicher Wesen; denn um das zu sein, wird auch G l ü c k s e l i g k e i t dazu erfordert, und zwar nicht bloß in den | parteiischen Augen der Person, die sich selbst zum Zwecke macht, sondern selbst im Urteile einer unparteiischen Vernunft, die jene überhaupt in der Welt als Zweck an sich betrachtet. Denn der Glückseligkeit bedürftig, ihrer auch würdig, dennoch aber derselben nicht teilhaftig zu sein, kann mit dem vollkommenen Wollen eines vernünftigen Wesens, welches zugleich alle Gewalt hätte, wenn wir uns auch nur ein solches zum Versuche denken, gar nicht zusammen bestehen. Sofern nun Tugend und Glückseligkeit zusammen den Besitz des höchsten Guts in einer Person, hierbei aber auch Glückseligkeit, ganz genau in Proportion der Sittlichkeit (als Wert der Person und de-

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DELLA DIALETTICA DELLA RAGION PURA NELLA DETERMINAZIONE DEL CONCETTO DEL SOMMO BENE Il concetto di s o m m o contiene già un equivoco, che, se non si fa attenzione, può cagionare dispute inutili. Sommo può significare supremo (supremum) o anche perfetto (consummatum). Il primo è quella condizione che è essa stessa incondizionata, e cioè non è subordinata a nessun’altra condizione (originarium); il secondo è quel tutto che non è parte alcuna di un tutto più grande e della stessa specie (perfectissimum). Nell’Analitica si è dimostrato che la v i r t ù (come merito di esser felice) è la c o n d i z i o n e s u p r e m a di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile, quindi anche di ogni nostra ricerca della felicità; e quindi è il bene s u p r e m o . Ma non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà di desiderare degli esseri razionali finiti: poiché per questo bene si richiede anche la f e l i c i t à , e invero non semplicemente agli occhi interessati della persona che fa di se stessa lo scopo, ma anche al giudizio di una ragione disinteressata che considera la virtù in genere nel mondo come fine in sé. Poiché aver bisogno di felicità, ed esserne anche degno ma tuttavia non esserne partecipe, non affatto compatibile col volere perfetto di un essere razionale, il quale nello stesso tempo avesse l’onnipotenza, solo che tentiamo di rappresentarci un tale essere. Ora, in quanto virtù e felicità costituiscono insieme in una persona il possesso del sommo bene, per questo anche la felicità, distribuita esattamente in proporzione della moralità (come valore della persona e suo merito

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ren Würdigkeit, glücklich zu sein) ausgeteilt, das h ö c h s t e Gut einer möglichen Welt ausmachen: so bedeutet dieses das Ganze, das vollendete Gute, worin doch Tugend immer als Bedingung das oberste Gut ist, weil es weiter keine Bedingung über sich hat, Glückseligkeit immer etwas, was dem, der sie besitzt, zwar angenehm, aber nicht für sich allein schlechterdings und in aller Rücksicht gut ist, sondern jederzeit das moralische gesetzmäßige Verhalten als Bedingung voraussetzt. Zwei in einem Begriffe n o t w e n d i g verbundene Bestimmungen müssen als Grund und Folge verknüpft sein, und zwar entweder so, daß diese E i n h e i t a l s a n a l y t i s c h (logische Verknüpfung) oder als s y n t h e t i s c h (reale Verbindung), jene nach dem Gesetze der | Identität, diese der Kausalität betrachtet wird. Die Verknüpfung der Tugend mit der Glückseligkeit kann also entweder so verstanden werden, daß die Bestrebung, tugendhaft zu sein, und die vernünftige Bewerbung um Glückseligkeit nicht zwei verschiedene, sondern ganz identische Handlungen wären, da dann der ersteren keine andere Maxime als zu der letzteren zum Grunde gelegt zu werden brauchte; oder jene Verknüpfung wird darauf ausgesetzt, daß Tugend die Glückseligkeit als etwas von dem Bewußtsein der ersteren Unterschiedenes, wie die Ursache eine Wirkung, hervorbringe. Von den alten griechischen Schulen waren eigentlich nur zwei, die in Bestimmung des Begriffs vom höchsten Gute sofern zwar einerlei Methode befolgten, daß sie Tugend und Glückseligkeit nicht als zwei verschiedene Elemente des höchsten Guts gelten ließen, mithin die Einheit des Prinzips nach der Regel der Identität suchten; aber darin schieden sie sich wiederum, daß sie unter beiden den Grundbegriff verschiedentlich wählten. Der E p i k u r e e r sagte: sich seiner auf Glückseligkeit führenden Maxime bewußt sein, das ist Tugend; der S t o i k e r : sich seiner Tugend bewußt sein, ist Glückseligkeit. Dem ersteren war Kugheit soviel als Sittlichkeit; dem zweiten, der eine höhere Benennung für die Tugend wählte, war S i t t l i c h k e i t allein wahre Weisheit. | Man muß bedauern, daß die Scharfsinnigkeit dieser Männer (die man doch zugleich darüber bewundern muß, daß sie in so frühen Zeiten schon alle erdenklichen Wege philosophischer Eroberungen versuchten) unglücklich angewandt war, zwischen

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di esser felice), costituisce il s o m m o b e n e di un mondo possibile; questo bene significa il tutto, il bene perfetto, in cui però la virtù è sempre, come condizione, il bene supremo, perché essa non ha nessuna condizione al disopra di sé, e la felicità è sempre qualcosa che per colui che la possiede è bensì piacevole, ma non è buona per sé sola assolutamente e sotto ogni rispetto, e suppone sempre come condizione la condotta morale conforme alla legge. Due determinazioni n e c e s s a r i a m e n t e legate in un concetto, devono esser connesse come principio e conseguenza; e invero in modo che questa u n i t à venga considerata o come a n a l i t i c a (connessione logica), o come s i n t e t i c a (legame reale): quella secondo la legge dell’identità, questa secondo la legge della causalità. La connessione della virtù con la felicità può dunque esser intesa o in modo che lo sforzo di esser virtuoso e la ricerca razionale della felicità siano due azioni non già differenti ma affatto identiche, perché allora per la prima non occorrerebbe nessuna massima che quella posta a base della seconda; oppure quella connessione è posta per il fatto che la virtù produce la felicità come qualcosa di diverso dalla coscienza della prima, a quella guisa che la causa produce un effetto. Delle antiche scuole greche ve n’erano propriamente solo due che nella determinazione del concetto del sommo bene seguivano bensì uno stesso metodo, in quanto non ammettevano la virtù e la felicità come due elementi differenti del sommo bene, e quindi cercavano l’unità del principio secondo la regola dell’identità; ma si separavano di nuovo nello scegliere differentemente il concetto fondamentale. L’ e p i c u r e o diceva che l’esser conscio della propria massima, che conduce alla felicità, è la virtù; lo s t o i c o , che l’esser conscio della propria virtù è la felicità. Pel primo la p r u d e n z a equivaleva alla moralità; pel secondo il quale sceglieva una denominazione più alta per la virtù, la m o r a l i t à soltanto era la vera saggezza. Si deve rimpiangere che l’acutezza di questi uomini (che però nello stesso tempo sono da ammirare per il fatto che in tempi così antichi tentarono già tutte le vie possibili delle conquiste filosofiche) fosse infelicemente impiegata a ricercare l’identità

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äußerst ungleichartigen Begriffen, dem der Glückseligkeit und dem der Tugend, Identität zu ergrübeln. Allein es war dem dialektischen Geiste ihrer Zeiten angemessen, was auch jetzt bisweilen subtile Köpfe verleitet, wesentliche und nie zu vereinigende Unterschiede in Prinzipien dadurch aufzuheben, daß man sie in Wortstreit zu verwandeln sucht und so dem Scheine nach Einheit des Begriffs bloß unter verschiedenen Benennungen erkünstelt; und dieses trifft gemeiniglich solche Fälle, wo die Vereinigung ungleichartiger Gründe so tief oder hoch liegt, oder eine so gänzliche Umänderung der sonst im philosophischen System angenommenen Lehren erfordern würde, daß man Scheu trägt, sich in den realen Unterschied tief einzulassen, und ihn lieber als Uneinigkeit in bloßen Formalien behandelt. Indem beide Schulen Einerleiheit der praktischen Prinzipien der Tugend und Glückseligkeit zu ergrübeln suchten, so waren sie darum nicht unter sich einhellig, wie sie diese Identität herauszwingen wollten, sondern schieden sich in unendliche Weiten von einander, indem die eine ihr Prinzip auf der ästhetischen, die andere auf der logischen Seite, jene im Bewußtsein des sinn|lichen Bedürfnisses, die andere in der Unabhängigkeit der praktischen Vernunft von allen sinnlichen Bestimmungsgründen setzte. Der Begriff der Tugend lag nach dem E p i k u r e e r schon in der Maxime, seine eigene Glückseligkeit zu befördern; das Gefühl der Glückseligkeit war dagegen nach dem S t o i k e r schon im Bewußtsein seiner Tugend enthalten. Was aber in einem anderen Begriffe enthalten istr, ist zwar mit einem Teile des Enthaltenden, aber nicht mit dem Ganzen einerlei, und zwei Ganze können überdem spezifisch voneinander unterschieden sein, ob sie zwar aus eben demselben Stoffe bestehen, wenn nämlich die Teile in beiden auf ganz verschiedene Art zu einem Ganzen verbunden werden. Der Stoiker behauptete, Tugend sei das g a n z e h ö c h s t e G u t , und Glückseligkeit nur das Bewußtsein des Besitzes derselben als zum Zustand des Subjekts gehörig. Der Epikureer behauptete, Glückseligkeit sei das g a n z e h ö c h s t e G u t , und Tugend nur die Form der Maxime, sich um sie zu bewerben, nämlich im vernünftigen Gebrauche der Mittel zu derselben. Nun ist aber aus der Analytik klar, daß die Maximen der Tugend und die der eigenen Glückseligkeit in Ansehung ihres obersten praktischen Prinzips ganz ungleichartig sind, und weit gefehlt, einhellig zu sein, ob sie gleich zu einem höchsten Guten gehören,

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fra due concetti estremamente diversi, quello della felicità e quello della virtù. Ma ciò era conforme allo spirito dialettico dei loro tempi; che anche ora talvolta induce alcune menti sottili a cogliere nei princìpi differenze essenziali, e che non si possono mai conciliare, cercando di mutarle in questioni di parole: e così, in apparenza, si produce artificialmente l’unità del concetto semplicemente fra denominazioni differenti; e ciò riguarda comunemente casi in cui la conciliazione di princìpi eterogenei è così profonda o così alta, oppure si richiederebbe una trasformazione così completa delle dottrine d’altronde ammesse nel sistema filosofico, che si teme di andar troppo innanzi nella differenza reale, e la si tratta piuttosto come disunione di semplici formalità. Mentre tutt’e due le scuole cercavano con sottigliezza di scoprire l’identità dei princìpi pratici della virtù e della felicità, non perciò erano concordi fra di loro nel modo di produrre quest’identità, ma si separavano infinitamente l’una dall’altra, poiché l’una riponeva il suo principio nel lato sensibile, l’altra nel lato logico; quella nella coscienza del bisogno sensibile, questa nell’indipendenza della ragion pratica da tutti i motivi determinanti sensibili. Il concetto della virtù si trovava già, secondo l’e p i c u r e o , nella massima di promuovere la propria felicità; il sentimento della felicità era invece, secondo lo s t o i c o , già contenuto nella coscienza della propria virtù. Ma ciò che è contenuto in altro concetto è bensì identico con una parte del contenente, non con l’intero; e due interi possono, inoltre, essere specialmente differenti l’uno dall’altro, benché siano composti della stessa materia, se cioè in essi le parti sono in modo affatto diverso unite nell’intero. Lo stoico affermava che la v i r t ù è t u t t o i l s o m m o b e n e , e la felicità è soltanto la coscienza del possessore di essa, e quindi appartiene allo stato del soggetto. L’epicureo affermava che la felicità è t u t t o i l s o m m o b e n e , e la virtù è solo la forma della massima per procurarsela, cioè essa consiste nell’uso razionale dei mezzi per ottenerla. Ma dall’analitica risulta chiaramente, che le massime della virtù e quelle della propria felicità sono affatto differenti rispetto al loro principio pratico supremo, e ben lungi dall’esser concordi, benché appartengano a un sommo bene e lo rendano pos-

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um das letztere möglich zu machen, einander in demselben Subjekte gar sehr einschränken und Abbruchtun. Also | bleibt die Frage: w i e i s t d a s h ö c h s t e G u t p r a k t i s c h m ö g l i c h ? noch immer unerachtet aller bisherigen K o a l i t i o n s v e r s u c h e eine unaufgelöste Aufgabe. Das aber, was sie zu einer schwer zu lösenden Aufgabe macht, ist in der Analytik gegeben, nämlich daß Glückseligkeit und Sittlichkeit zwei spezifisch ganz v e r s c h i e d e n e E l e m e n t e des höchsten Guts sind und ihre Verbindung also n i c h t a n a l y t i s c h erkannt werden könne (daß etwa der, so seine Glückseligkeit sucht, in diesem seinem Verhalten sich durch bloße Auflösung seiner Begriffe tugendhaft oder der, so der Tugend folgt, sich im Bewußtsein eines solchen Verhaltens schon ipso facto glücklich finden werde), sondern eine S y n t h e s i s der Begriffe sei. Weil aber diese Verbindung als a priori, mithin praktisch notwendig, folglich nicht als aus der Erfahrung abgeleitet erkannt wird, und die Möglichkeit des höchsten Guts also auf keinen empirischen Prinzipien beruht so wird die D e d u k t i o n dieses Begriffs t r a n s z e n d e n t a l sein müssen. Es ist a priori (moralisch) notwendig, das h ö c h s t e G u t d u r c h F r e i h e i t d e s W i l l e n s h e r v o r z u b r i n g e n ; es muß also auch die Bedingung der Möglichkeit desselben lediglich auf Erkenntnisgründen a priori beruhen. I.| Die Antinomie der praktischen Vernunft. In dem höchsten für uns praktischen, d. i. durch unseren Willen wirklich zu machenden Gute werden Tugend und Glückseligkeit als notwendig verbunden gedacht, sodaß das eine durch eine praktische Vernunft nicht angenommen werden kann, ohne daß das andere auch zu ihm gehöre. Nun ist diese Verbindung (wie eine jede überhaupt) entweder a n a l y t i s c h oder s y n t h e t i s c h . Da diese gegebene aber nicht analytisch sein kann, wie nur eben vorher gezeigt worden, so muß sie synthetisch und zwar als Verknüpfung der Ursache mit der Wirkung gedacht werden; weil sie ein praktisches Gut, d. i. was durch Handlung möglich ist, betrifft. Es muß also entweder die Begierde nach Glückseligkeit die Bewegursache zu Maximen der Tugend, oder die Maxime der Tugend muß die wirkende Ursache der Glückseligkeit sein. Das erste ist

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sibile, nello stesso soggetto si limitano assai e si recano pregiudizio. Dunque, la questione: c o m ’ è p r a t i c a m e n t e p o s s i b i l e i l s o m m o b e n e , rimane ancor sempre un problema insoluto, nonostante tutti i t e n t a t i v i d i c o m p o s i z i o n e 25 sin qui fatti. Ma ciò che lo rende un problema difficile da risolvere, è dato nell’Analitica, e cioè che la felicità e la moralità sono due e l e m e n t i del sommo bene affatto d i v e r s i specificamente, ed il loro legame non può quindi esser conosciuto a n a l i t i c a m e n t e (quasi colui il quale cerca la sua felicità, in questo suo procedere si trovasse virtuoso mediante la semplice soluzione dei suoi concetti, o colui che segue la virtù, nella coscienza di un tale procedere si trovasse già felice ipso facto), ma è una s i n t e s i di concetti. Poiché per altro questo legame è conosciuto come a p r i o r i , quindi praticamente necessario, e perciò non come derivato dall’esperienza, onde la possibilità del sommo bene non si fonda su nessun principio empirico, la d e d u z i o n e di questo concetto dovrà essere t r a s c e n d e n t a l e . È necessario a p r i o r i (moralmente) p r o d u r r e i l s o m m o b e n e m e d i a n t e l a l i b e r t à d e l l a v o l o n t à ; dunque anche la condizione della possibilità di esso deve fondarsi soltanto su princìpi della conoscenza a p r i o r i . I. L’antinomia della ragion pratica. Nel sommo bene pratico per noi, cioè da realizzare mediante la nostra volontà, la virtù e la felicità sono concepite come necessariamente legate, sicché l’una non può esser ammessa da una ragion pura pratica senza che anche l’altra gli appartenga. Ora questo legame (come ogni altro in genere) è o a n a l i t i c o o s i n t e t i c o . Ma siccome questo legame dato non può esser analitico, come poco prima fu mostrato, esso dev’esser concepito come sintetico, e cioè come connessione della causa con l’effetto, perché riguarda un bene pratico, ossia ciò che è possibile mediante azione. Dunque, o il desiderio della felicità dev’esser la causa movente per la massima della virtù, o la massima della virtù dev’esser la causa efficiente della felicità. Il primo caso è

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s c h l e c h t e r d i n g s unmöglich: weil (wie in der Analytik bewiesen worden) Maximen, die den Bestimmungsgrund des Willens in dem Verlangen nach seiner Glückseligkeit setzen, gar nicht moralisch sind und keine Tugend gründen können. Das zweite ist aber auch u n m ö g l i c h , weil alle praktische Verknüpfung der Ursachen und der Wirkungen in der Welt, als Erfolg der Wil|lensbestimmung, sich nicht nach moralischen Gesinnungen des Willens, sondern der Kenntnis der Naturgesetze und dem physischen Vermögen, sie zu seinen Absichten zu gebrauchen, richtet, folglich keine notwendige und zum höchsten Gut zureichende Verknüpfung der Glückseligkeit mit der Tugend in der Welt durch die pünktlichste Beobachtung der moralischen Gesetze erwartet werden kann. Da nun die Beförderung des höchsten Guts, welches diese Verknüpfung in seinem Begriffe enthält, ein a priori notwendiges Objekt unseres Willens ist und mit dem moralischen Gesetze unzertrennlich zusammenhängt, so muß die Unmöglichkeit des ersteren auch die Falschheit des zweiten beweisen. Ist also das höchste Gut nach praktischen Regeln unmöglich, so muß auch das moralische Gesetz, welches gebietet, dasselbe zu befördern, phantastisch und auf leere eingebildete Zwecke gestellt, mithin an sich falsch sein.

II. Kritische Aufhebung der Antinomie der praktischen Vernunft.

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In der Antinomie der reinen spekulativen Vernunft findet sich ein ähnlicher Widerstreit zwischen Naturnotwendigkeit und Freiheit in der Kausalität der Begebenheiten in der Welt. Er wurde dadurch gehoben, daß bewiesen wurde, es sei kein wahrer Widerstreit, | wenn man die Begebenheiten und selbst die Welt, darin sie sich ereignen, (wie man auch soll) nur als Erscheinungen betrachtet; da einunddasselbe handelnde Wesen a l s E r s c h e i n u n g (selbst vor seinem eigenen inneren Sinne) eine Kausalität in der Sinnenwelt hat, die jederzeit dem Naturmechanismus gemäß ist, in Ansehung derselben Begebenheit aber, sofern sich die handelnde Person zugleich als N o u m e n o n betrachtet (als reine Intelligenz in seinem nicht der Zeit nach bestimmbaren Dasein), einen Bestimmungsgrund jener Kausalität nach Naturgesetzen, der selbst von allem Naturgesetze frei ist, enthalten könne.

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a s s o l u t a m e n t e impossibile; perché (come si è dimostrato nell’Analitica) le massime che pongono il motivo determinante della volontà del desiderio della propria felicità non sono affatto morali, e non possono fondare nessuna virtù. Ma il secondo caso è anche i m p o s s i b i l e , perché nel mondo ogni connessione pratica delle cause e degli effetti, come conseguenza della determinazione della volontà, non si conforma alle intenzioni morali della volontà, ma alla cognizione delle leggi naturali e al potere fisico di usarle per i propri fini, e quindi nel mondo non si può attendere nessuna connessione necessaria e sufficiente pel sommo bene, della felicità con la virtù, mediante l’osservanza esattissima della legge morale. Ora, siccome il promuovimento del sommo bene, che contiene questa connessione nel suo concetto, è un oggetto necessario a p r i o r i della nostra volontà ed è connesso inseparabilmente con la legge morale, così l’impossibilità di questo promuovimento deve anche dimostrare la falsità della legge. Dunque, se il sommo bene è impossibile secondo regole pratiche, anche la legge morale, che prescrive di promuoverlo, dev’essere fantastica e ordinata a fini vani e immaginari e, quindi, in sé falsa.

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II. Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica. Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto simile fra necessità naturale, e libertà nella causalità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e medesimo essere, agente come f e n o m e n o (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come n o u m e n o (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge naturale.

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Mit der vorliegenden Antinomie der reinen praktischen Vernunft ist es nun ebenso bewandt. Der erste von den zwei Sätzen, daß das Bestreben nach Glückseligkeit einen Grund tugendhafter Gesinnung hervorbringe, ist s c h l e c h t e r d i n g s f a l s c h ; der zweite aber, daß Tugendgesinnung notwendig Glückseligkeit hervorbringe, ist n i c h t s c h l e c h t e r d i n g s , sondern nur, sofern sie als die Form der Kausalität in der Sinnenwelt betrachtet wird, und mithin, wenn ich das Dasein in derselben für die einzige Art der Existenz des vernünftigen Wesens annehme, also nur b e d i n g t e r w e i s e falsch. Da ich aber nicht allein befugt bin, mein Dasein auch als Noumenon in einer Verstandeswelt zu denken, sondern sogar am moralischen Gesetze einen rein intellektuellen Bestimmungsgrund meiner Kausalität (in der Sinnen|welt) habe, so ist es nicht unmöglich, daß die Sittlichkeit der Gesinnung einen wo nicht unmittelbaren, so doch mittelbaren (vermittelst eines intelligibelen Urhebers der Natur) und zwar notwendigen Zusammenhang als Ursache mit der Glückseligkeit als Wirkung in der Sinnenwelt habe, welche Verbindung in einer Natur, die bloß Objekt der Sinne ist, niemals anders als zufällig stattfinden und zum höchsten Gute nicht zulangen kann. Also ist, unerachtet dieses scheinbaren Widerstreits einer praktischen Vernunft mit sich selbst, das höchste Gut, der notwendige höchste Zweck eines moralisch bestimmten Willens, ein wahres Objekt derselben; denn es ist praktisch möglich, und die Maximen des letzteren, die sich darauf ihrer Materie nach beziehen, haben objektive Realität, welche anfänglich durch jene Antinomie in Verbindung der Sittlichkeit mit Glückseligkeit nach einem allgemeinen Gesetze getroffen wurde, aber aus bloßem Mißverstande, weil man das Verhältnis zwischen Erscheinungen für ein Verhältnis der Dinge an sich selbst zu diesen Erscheinungen hielt. Wenn wir uns genötigt sehen, die Möglichkeit des höchsten Guts, dieses durch die Vernunft allen vernünftigen Wesen ausgesteckten Ziels aller ihrer moralischen Wünsche, in solcher Weite, nämlich in der Verknüpfung mit einer intelligibelen Welt zu suchen, so | muß es befremden, daß gleichwohl die Philosophen alter sowohl als neuer Zeiten die Glückseligkeit mit der Tugend in ganz geziemender Proportion schon i n d i e s e m L e b e n (in der Sinnenwelt) haben finden oder sich ihrer bewußt zu sein haben überreden können. Denn E p i k u r sowohl als die S t o i k e r er-

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Con la presente antinomia della ragion pura pratica avviene appunto lo stesso. La prima delle due proposizioni, e cioè che la ricerca della felicità produca un motivo d’intenzione virtuosa, è f a l s a a s s o l u t a m e n t e ; ma la seconda, e cioè che l’intenzione virtuosa produca necessariamente la felicità, n o n è f a l s a a s s o l u t a m e n t e , ma solo in quanto vien considerata come la forma della causalità nel mondo sensibile, e, quindi, se io ammetto l’esistenza in esso come l’unico modo di esistenza dell’essere razionale; dunque, è falsa solo in modo c o n d i z i o n a t o . Siccome, per altro, non solo ho il diritto di concepire la mia esistenza anche come noumeno in un mondo intelligibile, ma nella legge morale ho anche un motivo puro intellettuale determinante della mia causalità (nel mondo sensibile), così non è impossibile che la moralità dell’intenzione abbia una connessione, se non immediata, almeno mediata (mediante un autore intelligibile della natura), e invero necessaria come causa, con la felicità come effetto nel mondo sensibile; il quale legame, in una natura che è semplicemente oggetto dei sensi, non può mai aver luogo in altro modo che accidentalmente, e non può bastare pel sommo bene. Dunque, nonostante questo contrasto apparente di una ragion pratica con se stessa, il sommo bene è il fine necessario e supremo di una volontà moralmente determinata, un vero oggetto di essa; poiché esso è praticamente possibile, e le massime della volontà, le quali quanto alla loro materia si riferiscono a questo oggetto, hanno realtà oggettiva, che fu còlta in principio mediante quell’antinomia nel legame della moralità con la felicità secondo una legge universale, ma per semplice equivoco, perché si considerò la relazione tra fenomeni come una relazione delle cose in sé con questi fenomeni. Se noi ci vediamo obbligati a cercare la possibilità del sommo bene, di questo scopo assegnato mediante la ragione a tutti gli esseri razionali per tutti i loro desideri morali, così lontano, e cioè nella connessione con il mondo intelligibile, ci deve meravigliare che nondimeno i filosofi, così dei tempi antichi come dei moderni, abbiano potuto trovare già i n q u e s t a v i t a (nel mondo sensibile) la felicità in proporzione affatto conveniente con la virtù, o abbiano potuto credere di averne coscienza. In-

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hoben die Glückseligkeit, die aus dem Bewußtsein der Tugend im Leben entspringe, über alles, und der erstere war in seinen praktischen Vorschriften nicht so niedrig gesinnt, als man aus den Prinzipien seiner Theorie, die er zum Erklären, nicht zum Handeln brauchte, schließen möchte, oder wie sie viele, durch den Ausdruck Wollust für Zufriedenheit verleitet, ausdeuteten; sondern rechnete die uneigennützigste Ausübung des Guten mit zu den Genußarten der innigsten Freude, und die Genügsamkeit und Bändigung der Neigungen, sowie sie immer der strengste Moralphilosoph fordern mag, gehörte mit zu seinem Plane eines Vergnügens (er verstand darunter das stets fröhliche Herz); wobei er von den Stoikern vornehmlich nur darin abwich, daß er in diesem Vergnügen den Bewegungsgrund setzte, welches die letzteren und zwar mit Recht verweigerten. Denn einesteils fiel der tugendhafte Epikur, sowie noch jetzt viele moralisch wohlgesinnte, obgleich über ihre Prinzipien nicht tief genug nachdenkende Männer, in den Fehler, die tugendhafte G e s i n n u n g in den Personen schon vorauszusetzen, für die er die Triebfeder zur Tugend zuerst an|geben wollte (und in der Tat kann der Rechtschaffene sich nicht glücklich finden, wenn er sich nicht zuvor seiner Rechtschaffenheit bewußt ist; weil bei jener Gesinnung die Verweise, die er bei Übertretungen sich selbst zu machen durch seine eigene Denkungsart genötigt sein würde, und die moralische Selbstverdammung ihn alles Genusses der Annehmlichkeit, die sonst sein Zustand enthalten mag, berauben würden). Allein die Frage ist: wodurch wird eine solche Gesinnung und Denkungsart, den Wert seines Daseins zu schätzen, zuerst möglich? da vor derselben noch gar kein Gefühl für einen moralischen Wert überhaupt im Subjekte angetroffen werden würde. Der Mensch wird, wenn er tugendhaft ist, freilich, ohne sich in jeder Handlung seiner Rechtschaffenheit bewußt zu sein, des Lebens nicht froh werden, so günstig ihm auch das Glück im physischen Zustande desselben sein mag; aber um ihn allererst tugendhaft zu machen, mithin ehe er noch den moralischen Wert seiner Existenz so hoch anschlägt, kann man ihm da wohl die Seelenruhe anpreisen, die aus dem Bewußtsein einer Rechtschaffenheit entspringen werde, für die er doch keinen Sinn hat? Andererseits aber liegt hier immer der Grund zu einem Fehler des Erschleichens (vitium subreptionis) und gleichsam einer opti-

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fatti, così Epicuro come gli stoici innalzarono sopra ogni cosa la felicità che nella vita deriva dalla coscienza della virtù; né il primo nei suoi precetti pratici aveva intenzioni così basse, come si potrebbe arguire dai princìpi della sua teoria, che egli adoperava per la spiegazione ma non per l’azione, o dall’interpretazione di molti, sviati dall’espressione «voluttà» sostituita a «contentezza»; ché anzi comprese la pratica più disinteressata del bene fra i modi di godere la gioia più intima, e la moderazione e la repressione delle inclinazioni, quale può sempre richiederla il più rigido filosofo moralista, apparteneva al suo concetto del piacere (egli intendeva con ciò la continua letizia del cuore); nel che si separò dagli stoici, soprattutto in ciò che egli ripose in questo piacere il motivo determinante, che gli stoici, e invero con ragione, rifiutarono. Poiché da una parte il virtuoso Epicuro, come ancora adesso uomini moralmente ben intenzionati ma che non riflettono abbastanza profondamente sui loro princìpi, cadde nell’errore di presupporre già l’ i n t e n z i o n e virtuosa nelle persone per le quali egli voleva prima dare il movente alla virtù (e infatti l’uomo onesto non può sentirsi felice, se prima non è conscio della sua onestà; perché in quell’intenzione i rimproveri, che egli per suo proprio modo di pensare sarebbe obbligato a far a se stesso per le trasgressioni, e la condanna morale di se stesso, gli toglierebbe ogni godimento della soddisfazione che altrimenti il suo stato potrebbe contenere). Ma la questione è qui: come diventa anzitutto possibile una tale intenzione e un tale modo di pensare per stimare il valore della propria esistenza, giacché prima di quella intenzione non si troverebbe ancora nel soggetto nessun sentimento per un valore morale in genere? Certamente l’uomo, se è virtuoso, non diventerà contento della vita senza esser conscio della sua onestà in ogni azione, per quanto favorevole gli sia anche la fortuna nello stato fisico della vita; ma per farlo anzitutto virtuoso, e quindi prima ancora che egli stimi così altamente il valore della sua esistenza, gli si può raccomandare la pace dell’anima, che nascerà dalla coscienza di un’onestà per cui egli tuttavia non ha ancora alcun senso? Ma, d’altra parte, qui vi è ancor sempre motivo a un errore subreptionis (vitium subreptionis), e come a un’illusione ottica,

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schen Illusion in dem Selbstbewußtsein dessen, was man t u t , zum Unterschiede dessen, was man e m p f i n d e t , die auch der Versuchteste nicht völ|lig vermeiden kann. Die moralische Gesinnung ist mit einem Bewußtsein der Bestimmung des Willens u n m i t t e l b a r d u r c h s G e s e t z notwendig verbunden. Nun ist das Bewußtsein einer Bestimmung des Begehrungsvermögens immer der Grund eines Wohlgefallens an der Handlung, die dadurch hervorgebracht wird; aber diese Lust, dieses Wohlgefallen an sich selbst, ist nicht der Bestimmungsgrund der Handlung, sondern die Bestimmung des Willens unmittelbar bloß durch die Vernunft ist der Grund des Gefühls der Lust, und jene bleibt eine reine praktische, nicht ästhetische Bestimmung des Begehrungsvermögens. Da diese Bestimmung nun innerlich gerade dieselbe Wirkung eines Antriebes zur Tätigkeit tut, als ein Gefühl der Annehmlichkeit, die aus der begehrten Handlung erwartet wird, würde getan haben, so sehen wir das, was wir selbst tun, leichtlich für etwas an, was wir bloß leidentlich fühlen, und nehmen die moralische Triebfeder für sinnlichen Antrieb, wie das allemal in der sogenannten Täuschung der Sinne (hier des inneren) zu geschehen pflegt. Es ist etwas sehr Erhabenes in der menschlichen Natur, unmittelbar durch ein reines Vernunftgesetz zu Handlungen bestimmt zu werden, und sogar die Täuschung, das Subjektive dieser intellektuellen Bestimmbarkeit des Willens für etwas Ästhetisches und Wirkung eines besonderen sinnlichen Gefühls (denn ein intellektuelles wäre ein Widerspruch) zu halten. Es ist auch von großer Wichtigkeit, auf | diese Eigenschaft unserer Persönlichkeit aufmerksam zu machen und die Wirkung der Vernunft auf dieses Gefühl bestmöglichst zu kultivieren. Aber man muß sich auch in acht nehmen, durch unechte Hochpreisungen dieses moralischen Bestimmungsgrundes als Triebfeder, indem man ihm Gefühle besonderer Freuden als Gründe (die doch nur Folgen sind) unterlegt, die eigentliche echte Triebfeder, das Gesetz selbst, gleichsam wie durch eine falsche Folie herabzusetzen und zu verunstalten. Achtung und nicht Vergnügen oder Genuß der Glückseligkeit ist also etwas, wofür kein der Vernunft zum Grunde gelegtes v o r h e r g e h e n d e s Gefühl (weil dieses jederzeit ästhetisch und pathologisch sein würde) möglich ist, als Bewußtsein der unmittelbaren Nötigung des Willens durchs

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nella coscienza che ciò che si fa, differentemente da ciò che si s e n t e , la quale illusione anche l’uomo più sperimentato non può completamente evitare. L’intenzione morale è necessariamente legata con una coscienza della determinazione della volontà immediatamente mercé la legge. Ora la coscienza di una determinazione della facoltà di desiderare è sempre motivo di compiacimento per un’azione che fu prodotta mediante quella determinazione; ma questo piacere, questa compiacenza di se stessi, non è il motivo determinante dell’azione: la determinazione della volontà immediatamente, solo mediante la ragione, è il motivo del sentimento di piacere; e quella rimane una determinazione pura pratica, non sensibile, della facoltà di desiderare. Ora, siccome questa determinazione produce interiormente proprio lo stesso effetto di un impulso all’attività, come un sentimento della soddisfazione che si attende dall’a zione desiderata, così consideriamo facilmente ciò che noi stessi facciamo come qualcosa che sentiamo solo passivamente, e prendiamo il movente morale per l’impulso sensibile, come suole avvenire nella così detta illusione dei sensi (qui, del senso interno). È qualcosa di assai sublime nella natura umana esser determinati immediatamente ad azioni mercé una legge razionale pura, ed anche l’illusione di ritenere il soggettivo di questa determinabilità intellettuale della volontà come qualcosa di sensibile ed effetto di un particolare sentimento sensibile (poiché un sentimento intellettuale sarebbe una contraddizione). È anche di grande importanza richiamar l’attenzione su questa proprietà della nostra personalità, e coltivare il più che sia possibile l’effetto della ragione su questo sentimento. Ma bisogna pur guardarsi dal degradare e dallo svisare, come per un falso rilievo, il movente proprio e genuino, la legge stessa, con l’esaltare in modo spurio quale movente questo motivo determinante morale, introducendovi come princìpi sentimenti di piacere particolare che in verità sono soltanto conseguenze. Il rispetto, e non il piacere ossia il godimento della felicità, è dunque qualcosa per cui non è possibile nessun sentimento a n t e r i o r e , posto a base della ragione (perché questo sarebbe sempre sensibile e patologico); e la coscienza del costringimento imme-

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Gesetz ist kaum ein Analogon des Gefühls der Lust, indem es im Verhältnisse zum Begehrungsvermögen gerade ebendasselbe, aber aus anderen Quellen tut; durch diese Vorstellungsart aber kann man allein erreichen, was man sucht, nämlich daß Handlungen nicht bloß pflichtmäßig (angenehmen Gefühlen zufolge), sondern aus Pflicht geschehen, welches der wahre Zweck aller moralischen Bildung sein muß. Hat man aber nicht ein Wort, welches nicht einen Genuß, wie das der Glückseligkeit, bezeichnete, aber doch ein Wohlgefallen an seiner Existenz, ein Analogon der Glückseligkeit, welche das Bewußtsein der Tugend | notwendig begleiten muß, anzeigte? Ja! dieses Wort ist S e l b s t z u f r i e d e n h e i t , welches in seiner eigentlichen Bedeutung jederzeit nur ein negatives Wohlgefallen an seiner Existenz andeutet, in welchem man nichts zu bedürfen sich bewußt ist. Freiheit und das Bewußtsein derselben als eines Vermögens, mit überwiegender Gesinnung das moralische Gesetz zu befolgen, ist Unabhängigkeit von Neigungen, wenigstens als bestimmenden (wenngleich nicht als a f f i z i e r e n d e n ) Bewegursachen unseres Begehrens und, sofern als ich mir derselben in der Befolgung meiner moralischen Maximen bewußt bin, der einzige Quell einer notwendig damit verbundenen, auf keinem besonderen Gefühle beruhenden, unveränderlichen Zufriedenheit, und diese kann intellektuell heißen. Die ästhetische (die uneigentlich so genannt wird), welche auf der Befriedigung der Neigungen, so fein sie auch immer ausgeklügelt werden mögen, beruht, kann niemals dem, was man sich darüber denkt, adäquat sein. Denn die Neigungen wechseln, wachsen mit der Begünstigung, die man ihnen widerfahren läßt, und lassen immer ein noch größeres Leeres übrig, als man auszufüllen gedacht hat. Daher sind sie einem vernünftigen Wesen jederzeit l ä s t i g , und wenn es sie gleich nicht abzulegen vermag, so nötigen sie ihm doch den Wunsch ab, ihrer entledigt zu sein. Selbst eine Neigung zum Pflichtmäßigen (z. B. zur Wohltätigkeit) kann zwar die Wirksamkeit der m o r a l i s c h e n Ma|ximen sehr erleichtern, aber keine hervorbringen. Denn alles muß in dieser auf die Vorstellung des Gesetzes als Bestimmungsgrund angelegt sein, wenn die Handlung nicht bloß L e g a l i t ä t , sondern auch M o r a l i t ä t enthalten soll. Neigung ist blind und

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diato della volontà mediante la legge è appena un analogo del sentimento del piacere, poiché essa in relazione alla facoltà di desiderare produce esattamente lo stesso effetto, ma da altre origini. Solo mediante questo modo di vedere si può ottenere quello che si cerca, e cioè che le azioni avvengano, non semplicemente conformi al dovere (in conseguenza di sentimenti piacevoli), ma per il dovere; il che dev’esser il vero scopo di ogni educazione morale. Ma non v’è una parola, capace di designare, non un godimento come quello della felicità, ma una compiacenza della propria esistenza, un analogo della felicità, che deve necessariamente accompagnare la coscienza della virtù? Sì! questa parola è c o n t e n t e z z a di sé, che nel suo significato particolare indica sempre soltanto una compiacenza negativa della propria esistenza, in cui si è consci di non aver bisogno di niente. La libertà, e la coscienza di essa come di una facoltà di seguire con intenzione predominante la legge morale, è i n d i p e n d e n z a d a l l e i n c l i n a z i o n i , almeno come cause determinanti (se non come cause affettive) del nostro desiderio; e, in quanto io sono conscio di questa indipendenza nell’osservanza delle mie massime morali, essa è l’unica sorgente di una contentezza immutabile necessariamente legata con essa, che non si fonda su nessun sentimento particolare; e questa contentezza si può chiamare intellettuale. La contentezza sensibile (che impropriamente vien chiamata così), la quale si fonda sulla soddisfazione delle inclinazioni, per quanto raffinate queste si immaginino, non può mai esser adeguata a ciò che ci si rappresenta. Poiché le inclinazioni cambiano, crescono col favore che loro si concede, e lasciano sempre un vuoto ancor maggiore di quello che si era pensato di riempire. Perciò esse sono sempre di peso per un essere razionale; e, benché questi non se le possa levare, tuttavia lo obbligano a desiderare di esserne libero. Anche un’inclinazione a ciò che è conforme al dovere (per es., alla beneficienza) può bensì facilitare assai l’efficacia delle massime m o r a l i , ma non ne può produrre nessuna. Poiché, in queste, tutto deve esser fondato sulla rappresentazione della legge come motivo determinante, se l’azione non deve contenere semplicemente la l e g a -

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knechtisch, sie mag nun gutartig sein oder nicht, und die Vernunft, wo es auf Sittlichkeit ankommt, muß nicht bloß den Vormund derselben vorstellen, sondern, ohne auf sie Rücksicht zu nehmen, als reine praktische Vernunft ihr eigenes Interesse ganz allein besorgen. Selbst dies Gefühl des Mitleids und der weichherzigen Teilnehmung, wenn es vor der Überlegung, was Pflicht sei, vorhergeht und Bestimmungsgrund wird, ist wohldenkenden Personen selbst lästig, bringt ihre überlegten Maximen in Verwirrung und bewirkt den Wunsch, ihrer entledigt und allein der gesetzgebenden Vernunft unterworfen zu sein. Hieraus läßt sich verstehen: wie das Bewußtsein dieses Vermögens einer reinen praktischen Vernunft durch Tat (die Tugend) ein Bewußtsein der Obermacht über seine Neigungen, hiermit also der Unabhängigkeit von denselben, folglich auch der Unzufriedenheit, die diese immer begleitet, und also ein negatives Wohlgefallen mit seinem Zustande, d. i. Z u f r i e d e n h e i t hervorbringen könne, welche in ihrer Quelle Zufriedenheit mit seiner Person ist. Die Freiheit selbst wird auf solche Weise (nämlich indirekt) eines Genusses fähig, | welcher nicht Glückseligkeit heißen kann, weil er nicht vom positiven Beitritt eines Gefühls abhängt, auch genau zu reden nicht S e l i g k e i t , weil er nicht gänzliche Unabhängigkeit von Neigungen und Bedürfnissen enthält, der aber doch der letzteren ähnlich ist, sofern nämlich wenigstens seine Willensbestimmung sich von ihrem Einflusse frei halten kann, und also wenigstens seinem Ursprunge nach der Selbstgenugsamkeit analogisch ist, die man nur dem höchsten Wesen beilegen kann. Aus dieser Auflösung der Antinomie der praktischen reinen Vernunft folgt, daß sich in praktischen Grundsätzen eine natürliche und notwendige Verbindung zwischen dem Bewußtsein der Sittlichkeit und der Erwartung einer ihr proportionierten Glückseligkeit als Folge derselben wenigstens als möglich denken (darum aber freilich noch eben nicht erkennen und einsehen) lasse; dagegen, daß Grundsätze der Bewerbung um Glückseligkeit unmöglich Sittlichkeit hervorbringen können: daß also das o b e r s t e Gut (als die erste Bedingung des höchsten Guts) Sittlichkeit, Glückseligkeit dagegen zwar das zweite Element desselben ausma-

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l i t à , ma anche la m o r a l i t à . L’inclinazione è cieca e servile, sia essa benigna o no, e la ragione, quando si tratta della moralità, non deve semplicemente farle da tutrice, ma, senza alcun riguardo, deve solo curare, come ragion pura pratica, il proprio interesse. Anche quel sentimento della compassione e della simpatia tenera, se precede la riflessione su che cosa sia il dovere e diventa motivo determinante, è gravoso alle stesse persone che pensano bene, confonde le massime su cui hanno riflettuto, e produce il desiderio di esserne liberi e di essere soggetti soltanto alla ragione legislatrice. Di qui si può capire come la coscienza di questo potere di una ragion pura pratica possa produrre mediante il fatto (la virtù) una coscienza della superiorità sulle proprie inclinazioni, e quindi dell’indipendenza da esse, e perciò anche della scontentezza che le accompagna sempre, e quindi una compiacenza negativa del proprio stato, e cioè una c o n t e n t e z z a che nella sua origine è contentezza della propria persona. Anche la libertà diviene in tal modo (cioè indirettamente) capace di un godimento, che non si può chiamare felicità perché non dipende dall’intervento positivo di un sentimento, e neanche, a parlare esattamente, si può chiamare b e a t i t u d i n e , perché non contiene l’indipendenza completa dalle inclinazioni e dai bisogni; ma che però è simile a quest’ultima, in quanto cioè la determinazione della propria volontà può almeno conservarsi libera dal loro influsso, e quindi, almeno quanto alla sua origine, è analogo alla proprietà di bastare a se stesso, che si può attribuire solo all’essere supremo. Da questa soluzione dell’antinomia della ragion pura pratica segue: che nei princìpi pratici si può concepire, almeno come possibile, un legame naturale e necessario fra la coscienza della moralità e l’aspettazione di una felicità ad essa proporzionata, come conseguenza di essa (ma certamente non ancora perciò questo legame si può conoscere e percepire); che, al contrario, i princìpi della ricerca della felicità non possono produrre la moralità; che, dunque, la moralità costituisce il bene s u p r e m o (come la prima condizione del sommo bene), mentre la felicità costituisce bensì il secondo elemento di esso, però in modo da

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che, doch so, daß diese nur die moralisch bedingte, aber doch notwendige Folge der ersteren sei. In dieser Unterordnung allein ist das h ö c h s t e G u t das ganze Objekt der reinen praktischen Vernunft, die es sich notwendig als möglich vorstellen muß, weil es ein Gebot derselben ist, zu dessen Hervorbringung alles mögliche | beizutragen. Weil aber die Möglichkeit einer solchen Verbindung des Bedingten mit seiner Bedingung gänzlich zum übersinnlichen Verhältnisse der Dinge gehört und nach Gesetzen der Sinnenwelt gar nicht gegeben werden kann, obzwar die praktische Folge dieser Idee, nämlich die Handlungen, die darauf abzielen, das höchste Gut wirklich zu machen, zur Sinnenwelt gehören: so werden wir die Gründe jener Möglichkeit erstlich in Ansehung dessen, was unmittelbar in unserer Gewalt ist, und dann zweitens in dem, was uns Vernunft als Ergänzung unseres Unvermögens zur Möglichkeit des höchsten Guts (nach praktischen Prinzipien notwendig) darbietet und nicht in unserer Gewalt ist, darzustellen suchen. III. Von dem Primat der reinen praktischen Vernunft in ihrer Verbindung mit der spekulativen.

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Unter dem Primate zwischen zweien oder mehreren durch Vernunft verbundenen Dingen verstehe ich den Vorzug des einen, der erste Bestimmungsgrund der Verbindung mit allen übrigen zu sein. In engerer praktischer Bedeutung bedeutet es den Vorzug des Interesses des einen, sofern ihm (welches keinem anderen nachgesetzt werden kann) das Interesse der anderen un|tergeordnet ist. Einem jeden Vermögen des Gemüts kann man ein I n t e r e s s e beilegen, d. i. ein Prinzip, welches die Bedingung enthält, unter welcher allein die Ausübung desselben befördert wird. Die Vernunft, als das Vermögen der Prinzipien, bestimmt das Interesse aller Gemütskräfte, das ihrige aber sich selbst. Das Interesse ihres spekulativen Gebrauchs besteht in der E r k e n n t n i s des Objekts bis zu den höchsten Prinzipien a priori, das des praktischen Gebrauchs in der Bestimmung des W i l l e n s in Ansehung des letzten und vollständigen Zwecks. Das, was zur Möglichkeit eines Vernunftgebrauchs überhaupt erforderlich ist, nämlich daß die Prin-

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essere soltanto la conseguenza moralmente condizionata, ma necessaria, della prima. In questa subordinazione soltanto il s o m m o b e n e è l’intero oggetto della ragion pura pratica, la quale se lo deve necessariamente rappresentare come possibile, perché è un suo precetto di contribuire, per quanto è possibile, alla produzione di questo bene. Ma siccome la possibilità di un tale legame del condizionato con la sua condizione appartiene interamente alla relazione soprasensibile delle cose, e non può punto essere data secondo leggi del mondo sensibile, benché le conseguenze pratiche di quest’idea, cioè le azioni che mirano ad attuare il sommo bene, appartengano al mondo sensibile; così noi cercheremo di esporre i princìpi di quella possibilità, in primo luogo relativamente a ciò che è immediatamente in nostro potere, e poi in secondo luogo relativamente a ciò che la ragione ci presenta per supplire alla nostra impotenza di fronte alla possibilità del sommo bene (necessaria secondo princìpi pratici) e che non è in nostro potere.

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III. Del primato della ragion pura pratica nella sua unione con la speculativa. Per primato fra due o più cose legate mediante la ragione, intendo la superiorità che l’una ha di essere il primo motivo determinante del legame con tutte le altre. In un senso più stretto e pratico significa la superiorità dell’interesse dell’una, in quanto ad essa (che non può esser posposta a nessun’altra) è subordinato l’interesse dell’altra. A ogni facoltà dello spirito si può attribuire un i n t e r e s s e , cioè un principio che contiene la condizione alla quale soltanto vien promosso l’esercizio di questa facoltà. La ragione, come facoltà dei princìpi, determina l’interesse di tutte le facoltà dello spirito, ma il proprio interesse se lo determina essa stessa. L’interesse del suo uso speculativo consiste nella c o n o s c e n z a dell’oggetto sino ai princìpi a p r i o r i più alti; quello dell’uso pratico, nella determinazione della v o l o n t à relativamente al fine ultimo e completo. Ciò che si richiede per la possibilità di un uso della ragione in genere, cioè

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zipien und Behauptungen derselben einander nicht widersprechen müssen, macht keinen Teil ihres Interesses aus, sondern ist die Bedingung, überhaupt Vernunft zu haben; nur die Erweiterung, nicht die bloße Zusammenstimmung mit sich selbst wird zum Interesse derselben gezählt. Wenn praktische Vernunft nichts weiter annehmen und als gegeben denken darf, als was s p e k u l a t i v e Vernunft für sich ihr aus ihrer Einsicht darreichen konnte, so führt diese das Primat. Gesetzt aber, sie hätte für sich ursprungliche Prinzipien a priori, mit denen gewisse theoretische Positionen unzertrennlich verbunden wären, die sich gleichwohl aller möglichen Einsicht der spekulativen Vernunft entzögen (ob sie zwar derselben auch nicht widersprechen müßten), so ist die Frage, welches | Interesse das oberste sei (nicht, welches weichen müßte, denn eines widerstreitet dem anderen nicht notwendig): ob spekulative Vernunft, die nichts von allem dem weiß, was praktische ihr anzunehmen darbietet, diese Sätze aufnehmen und sie, ob sie gleich für sie überschwenglich sind, mit ihren Begriffen als einen fremden, auf sie übertragenen Besitz zu vereinigen suchen müsse; oder ob sie berechtigt sei, ihrem eigenen abgesonderten Interesse hartnäckig zu folgen und nach der Kanonik des Epikur alles als leere Vernünftelei auszuschlagen, was seine objektive Realität nicht durch augenscheinliche, in der Erfahrung aufzustellende Beispiele beglaubigen kann, wenn es gleich noch so sehr mit dem Interesse des praktischen (reinen) Gebrauchs verwebt, an sich auch der theoretischen nicht widersprechend wäre, bloß weil es wirklich sofern dem Interesse der spekulativen Vernunft Abbruch tut, daß es die Grenzen, die diese sich selbst gesetzt, aufhebt und sie allem Unsinn oder Wahnsinn der Einbildungskraft preisgibt. In der Tat, sofern praktische Vernunft als pathologisch bedingt, d. i. das Interesse der Neigungen unter dem sinnlichen Prinzip der Glückseligkeit bloß verwaltend, zum Grunde gelegt würde, so ließe sich diese Zumutung an die spekulative Vernunft gar nicht tun. M a h o m e t s Paradies oder der T h e o s o p h e n und M y s t i k e r schmelzende Vereinigung mit der Gottheit, sowie jedem sein Sinn steht, würden der Vernunft ihre | Ungeheuer aufdringen, und es wäre ebensogut, gar keine zu haben, als sie auf solche Weise allen Träumereien preiszugeben. Allein wenn reine Vernunft für sich praktisch sein kann und es wirklich ist, wie das Bewußtsein des

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che i princìpi e le affermazioni di essa non devono contraddirsi, non costituisce nessuna parte del suo interesse, ma è la condizione per avere una ragione in generale; solo l’estensione, e non già il semplice accordo con se stessa, viene ascritta al suo interesse. Se la ragion pratica non potesse ammettere e pensare come dato nient’altro che ciò che la ragione s p e c u l a t i v a per sé le potesse presentare per propria cognizione, la ragione speculativa terrebbe il primato. Ma posto che essa avesse per sé princìpi originari a p r i o r i , con cui fossero inseparabilmente legate certe posizioni teoretiche, le quali però si sottraessero a tutta la cognizione possibile della ragione speculativa (benché non dovessero contraddire ad essa), allora la questione sarebbe di stabilire quale interesse sia il più alto (non quale dovrebbe cedere, perché l’uno non si oppone necessariamente all’altro); di stabilire cioè se la ragione speculativa, la quale non sa niente di tutto ciò che la ragion pratica le propone di ammettere, debba accettare queste proposizioni e, quantunque per essa siano trascendenti, cercare di conciliarle coi suoi concetti, come una proprietà estranea che le viene affidata, o se essa sia giustificata a seguire ostinatamente il suo interesse particolare, e, secondo la canonica di Epicuro, a rigettare come vuota sofisticheria tutto ciò che non può confermare la sua realtà oggettiva mediante esempi evidenti che devono essere stabiliti nell’esperienza, per quanto ciò sia legato con l’interesse dell’uso (puro) pratico, e in sé non sia neanche contraddittorio con l’uso teoretico, semplicemente perché reca veramente pregiudizio all’interesse della ragione speculativa, in quanto sopprime i limiti che questa si è posti, e l’abbandona a tutte le assurdità e a tutte le illusioni dell’immaginazione. Infatti, se venisse presa per fondamento la ragion pratica come patologicamente condizionata, cioè come limitantesi a reggere l’interesse delle inclinazioni sotto il principio sensibile della felicità, in tal caso questa pretesa verso la ragione speculativa non si potrebbe punto menar per buona. Il paradiso di Maometto, o il dissolversi dei t e o s o f i e dei m i s t i c i nel loro unirsi con la divinità secondo il gusto di ciascuno, imporrebbero alla ragione le loro mostruosità, e varrebbe tanto non aver nessuna ragione, quanto abbandonarla in tal modo a tutti i sogni. Ma se la ragion pura può essere pratica per sé, e tale è real-

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moralischen Gesetzes es ausweist, so ist es doch immer nur einunddieselbe Vernunft, die, es sei in theoretischer oder praktischer Absicht, nach Prinzipien a priori urteilt, und da ist es klar, daß, wenn ihr Vermögen in der ersteren gleich nicht zulangt, gewisse Sätze behauptend festzusetzen, indessen daß sie ihr auch eben nicht widersprechen, sie eben diese Sätze, sobald sie u n a b t r e n n l i c h z u m p r a k t i s c h e n I n t e r e s s e der reinen Vernunft gehören, zwar als ein ihr fremdes Angebot, das nicht auf ihrem Boden erwachsen, aber doch hinreichend beglaubigt ist, annehmen und sie mit allem, was sie als spekulative Vernunft in ihrer Macht hat, zu vergleichen und zu verknüpfen suchen müsse; doch sich bescheidend, daß dieses nicht ihre Einsichten, aber doch Erweiterungen ihres Gebrauchs in irgend einer anderen, nämlich praktischen Absicht sind, welches ihrem Interesse, das in der Einschränkung des spekulativen Frevels besteht, ganz und gar nicht zuwider ist. In der Verbindung also der reinen spekulativen mit der reinen praktischen Vernunft zu einer Erkenntnis führt die letztere das P r i m a t , vorausgesetzt nämlich, daß diese Verbindung nicht etwa z u f ä l l i g und be|liebig, sondern a priori auf der Vernunft selbst gegründet, mithin n o t w e n d i g sei. Denn es würde ohne diese Unterordnung ein Widerstreit der Vernunft mit ihr selbst entstehen; weil, wenn sie einander bloß beigeordnet (koordiniert) wären, die erstere für sich ihre Grenze enge verschließen und nichts von der letzteren in ihr Gebiet aufnehmen, diese aber ihre Grenzen dennoch über alles ausdehnen und, wo es ihr Bedürfnis erheischt, jene innerhalb der ihrigen mitzubefassen suchen würde. Der spekulativen Vernunft aber untergeordnet zu sein und also die Ordnung umzukehren, kann man der reinen praktischen gar nicht zumuten, weil alles Interesse zuletzt praktisch ist und selbst das der spekulativen Vernunft nur bedingt und im praktischen Gebrauche allein vollständig ist. IV. Die Unsterblichkelt der Seele als ein Postulat der reinen praktischen Vernunft. Die Bewirkung des höchsten Guts in der Welt ist das notwendige Objekt eines durchs moralische Gesetz bestimmbaren Willens. In diesem aber ist die v ö l l i g e A n g e m e s s e n h e i t der

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mente, come la coscienza della legge morale dimostra, essa è sempre soltanto una sola medesima ragione che, sia sotto il rispetto teoretico sia sotto quello pratico, giudica secondo princìpi a p r i o r i ; e allora è chiaro che, se anche la sua facoltà sotto il primo rispetto non giunge a stabilire affermativamente certe proposizioni, che tuttavia non le sono contrarie, essa deve, appena queste proposizioni appartengono i n s e p a r a b i l m e n t e a l l ’ i n t e r e s s e p r a t i c o della ragion pura, ammetterle bensì come qualcosa di estraneo, che non è cresciuto nel suo terreno, ma che però è sufficientemente attestato; e deve cercare di confrontarle e di connetterle con tutto ciò che ha in suo potere come ragione speculativa, pur convenendo che non sono sue cognizioni, ma estensioni del suo uso sotto un altro rispetto, cioè sotto quello pratico, il che non è punto contrario al suo interesse, che consiste nella limitazione della temerità speculativa. Dunque, nell’unione della ragion pura speculativa con la ragion pura pratica in una conoscenza, l’ultima tiene il p r i m a t o , supposto cioè che tale unione non sia c o n t i n g e n t e e arbitraria, ma fondata a p r i o r i sulla ragione stessa e quindi n e c e s s a r i a . Poiché, senza questa subordinazione, avverrebbe un contrasto della ragione con se stessa, perché, se fossero semplicemente associate l’una all’altra (coordinate), la prima per sé chiuderebbe strettamente i suoi limiti e non ammetterebbe nel suo dominio niente dell’altra; e questa invece estenderebbe i suoi limiti su ogni cosa, e, dove il suo bisogno lo richiede, cercherebbe di comprendere nei suoi limiti la prima. Ma non si può pretendere dalla ragion pratica che essa sia subordinata alla ragione speculativa, e così inverta l’ordine; perché ogni interesse, infine, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è soltanto condizionato e completo unicamente nell’uso pratico. IV. L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica. L’attuazione del sommo bene nel mondo è l’oggetto necessario di una volontà determinabile mediante la legge morale. Ma in questa volontà la c o n f o r m i t à c o m p l e t a delle intenzio-

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Gesinnungen zum moralischen Gesetze die oberste Bedingung des höchsten Guts. Sie muß also ebensowohl möglich sein als ihr Objekt, weil | sie in demselben Gebote dieses zu befördern enthalten ist. Die völlige Angemessenheit des Willens aber zum moralischen Gesetze ist H e i l i g k e i t , eine Vollkommenheit, deren kein vernünftiges Wesen der Sinnenwelt in keinem Zeitpunkte seines Daseins fähig ist. Da sie indessen gleichwohl als praktisch notwendig gefordert wird, so kann sie nur in einem ins U n e n d l i c h e gehenden P r o g r e s s u s zu jener völligen Angemessenheit angetroffen werden, und es ist nach Prinzipien der reinen praktischen Vernunft notwendig, eine solche praktische Fortschreitung als das reale Objekt unseres Willens anzunehmen. Dieser unendliche Progressus ist aber nur unter Voraussetzung einer ins U n e n d l i c h e fortdauernden E x i s t e n z und Persönlichkeit desselben vernünftigen Wesens (welche man die Unsterblichkeit der Seele nennt) möglich. Also ist das höchste Gut praktisch nur unter der Voraussetzung der Unsterblichkeit der Seele möglich; mithin diese, als unzertrennlich mit dem moralischen Gesetz verbunden, ein POSTULAT der reinen praktischen Vernunft (worunter ich einen t h e o r e t i s c h e n , als solchen aber nicht erweislichen Satz verstehe, sofern er einem a priori unbedingt geltenden p r a k t i s c h e n Gesetze unzertrennlich anhängt). Der Satz von der moralischen Bestimmung unserer Natur, nur allein in einem ins Unendliche gehenden Fortschritte zur völligen Angemessenheit mit dem | Sittengesetze gelangen zu können, ist von dem größten Nutzen, nicht bloß in Rücksicht auf die gegenwärtige Ergänzung des Unvermögens der spekulativen Vernunft, sondern auch in Ansehung der Religion. In Ermangelung desselben wird entweder das moralische Gesetz von seiner Heiligkeit gänzlich abgewürdigt, indem man es sich als n a c h s i c h t i g (indulgent) und so unserer Behaglichkeit angemessen verkünstelt, oder auch seinen Beruf und zugleich Erwartung zu einer unerreichbaren Bestimmung, nämlich einem verhofften völligen Erwerb der Heiligkeit des Willens, spannt und sich in schwärmende, der Selbsterkenntnis ganz widersprechende t h e o s o p h i s c h e Träume verliert, durch welches beides das unaufhörliche S t r e b e n zur pünktlichen und durchgängigen Befolgung eines stren-

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ni con la legge morale è la condizione suprema del sommo bene. Dunque questa condizione dev’esser tanto possibile come il suo oggetto, perché è contenuta nello stesso precetto di promuover questo. Ma la conformità completa della volontà con la legge morale è la s a n t i t à , una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo sensibile, in nessun momento della sua esistenza. Poiché essa, mentre nondimeno viene richiesta come praticamente necessaria, può esser trovata soltanto in un p r o g r e s s o che va all’ i n f i n i t o verso quella conformità completa, e, secondo i princìpi della ragion pura pratica, è necessario ammettere un tale progresso pratico come l’oggetto reale della nostra volontà. Ma questo progresso infinito è possibile solo supponendo un’ e s i s t e n z a che continui all’ i n f i n i t o , e una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama l’immortalità dell’anima). Dunque il sommo bene, praticamente, è soltanto possibile con la supposizione dell’immortalità dell’anima; quindi, questa, come legata inseparabilmente con la legge morale, è un POSTULATO della ragion pura pratica (col che io intendo una proposizione t e o r e t i c a , ma come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente ad una legge p r a t i c a che ha un valore incondizionato a p r i o r i ) . La proposizione della destinazione morale della nostra natura, di poter giungere alla conformità completa con la legge morale soltanto in un progresso che va all’infinito, è della più grande utilità, non semplicemente per supplire presentemente all’impotenza della ragione speculativa, ma anche rispetto alla religione. In mancanza di questa proposizione, o la legge morale viene completamente degradata dalla sua s a n t i t à , poiché essa è rappresentata come t o l l e r a n t e (indulgente) e così conforme alla nostra comodità; oppure si estende la sua vocazione, e nello stesso tempo l’aspettazione, a una determinazione irraggiungibile, cioè alla speranza di un acquisto completo della santità della volontà, e si erra in sogni t e o s o f i c i stravaganti, che contraddicono affatto alla conoscenza di sé. In ambedue i casi viene soltanto impedito lo s f o r z o incessante dell’osservanza esatta e continua di una legge razionale stretta e inflessi-

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gen, unnachsichtlichen, dennoch aber nicht idealischen, sondern wahren Vernunftgebots nur verhindert wird. Einem vernünftigen, aber endlichen Wesen ist nur der Progressus ins Unendliche, von niederen zu den höheren Stufen der moralischen Vollkommenheit möglich. Der U n e n d l i c h e , dem die Zeitbedingungnichts ist, sieht in dieser für uns endlosen Reihe das Ganze der Angemessenheit mit dem moralischen Gesetze, und die Heiligkeit, die sein Gebot unnachlaßlich fordert, um seiner Gerechtigkeit in dem Anteil, den er jedem am höchsten Gute bestimmt, gemäß zu sein, ist in einer einzigen intellektuellen Anschauung des Daseins vernünftiger Wesen | ganz anzutreffen. Was dem Geschöpfe allein in Ansehung der Hoffnung dieses Anteils zukommen kann, wäre das Bewußtsein seiner erprüften Gesinnung, um aus seinem bisherigen Fortschritte vom Schlechteren zum Moralisch-Besseren und dem dadurch ihm bekannt gewordenen unwandelbaren Vorsatze eine fernere ununterbrochene Fortsetzung desselben, wieweit seine Existenz auch immer reichen mag, selbst über dieses Leben hinaus zu hoffen*, und so zwar niemals hier oder | in irgend einem absehlichen künftigen Zeitpunkte seines Daseins, sondern nur in der (Gott allein übersehbaren) Unendlichkeit seiner Fortdauer dem Willen desselben (ohne Nachsicht oder Erlassung, welche sich mit der Gerechtigkeit nicht zusammnenreimt) völlig adäquat zu sein.

* Die Ü b e r z e u g u n g von der Unwandelbarkeit seiner Gesinnung im Fortschritte zum Guten scheint gleichwohl auch einem Geschöpfe für sich unmöglich zu sein. Um deswillen läßt die christliche Religionslehre sie auch von demselben Geiste, der die Heiligung, d. i. diesen festen Vorsatz und mit ihm das Bewußtsein der Beharrlichkeit im moralischen Progressus wirkt, allein abstammen. Aber auch natürlicherweise darf derjenige, der sich bewußt ist, einen langen Teil seines Lebens bis zu Ende desselben im Fortschritte zum Besseren, und zwar aus echten moralischen Bewegungsgründen angehalten zu haben, sich wohl die tröstende Hoffnung, wenngleich nicht Gewißheit machen, daß er auch in einer über dieses Leben hinaus fortgesetzten Existenz bei diesen Grundsätzen beharren werde und, wiewohl er in seinen eigenen Augen hier nie gerechtfertigt ist, noch bei dem verhofften künftigen Anwachs seiner Naturvollkommenheit, mit ihr aber auch seiner Pflichten es jemals hoffen darf, dennoch in diesem Fortschritte, der, ob er zwar ein ins Unendliche hinausgerücktes Ziel betrifft, dennoch für Gott als Besitz gilt, eine Aussicht in eine s e l i g e Zukunft haben; denn dieses ist der Ausdruck, dessen sich die Vernunft bedient, um ein von allen zufälligen Ursachen der Welt unabhängiges vollständi223 ges Wo h l zu bezeichnen, welches eben|so wie H e i l i g k e i t eine Idee ist, welche nur in einem unendlichen Progressus und dessen Totalität enthalten sein kann, mithin vom Geschöpfe niemals völlig erreicht wird.

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bile, e tuttavia non ideale, ma reale. A un essere razionale, ma finito, è possibile soltanto il progresso all’infinito dai gradi inferiori ai superiori della perfezione morale. L’ i n f i n i t o , per cui la condizione di tempo è niente, vede in questa serie, per noi senza fine, l’intera conformità alla legge morale, e la santità, che il suo comandamento esige inflessibilmente per essere conforme alla sua giustizia, nella parte che assegna a ciascuno nel sommo bene, è da trovare completamente in un’unica intuizione intellettuale dell’esistenza degli esseri razionali. Ciò che, soltanto, può toccare alla creatura relativamente alla speranza di questa partecipazione, sarà la sicura coscienza della propria intenzione, onde sperare dal progresso avvenuto finora dal peggiore al moralmente migliore, e dal proposito immutabile che essa ha perciò conosciuto, un’ulteriore continuazione ininterrotta di tale progresso finché la sua esistenza può durare, e anche oltre questa vita*; e così una piena adeguazione alla volontà di Dio (senza indulgenze o remissioni, che non si accordino con la giustizia), e non mai, a dir vero, qui, o in un momento avvenire immaginabile dell’esistenza, ma soltanto nell’infinità (comprensibile solo a Dio) della propria durata.

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* La c o n v i n z i o n e dell’immutabilità delle proprie intenzioni nel progresso al bene, sembra tuttavia che sia impossibile per sé ad una creatura. Perciò la dottrina cristiana la fa derivare soltanto dallo spirito stesso che opera la santificazione, cioè questo fermo proponimento e con esso la coscienza della costanza nel progresso mo rale. Ma anche naturalmente colui che è conscio di aver persistito per gran parte della sua vita, sino alla fine di essa, nel progresso verso il meglio, e invero per moventi schiettamente morali, può aver la consolante speranza, se non la certezza, che anche in un’esistenza che duri oltre questa vita egli rimarrà in questi princìpi: e quantunque ai suoi propri occhi qui non si trovi giustificato, né possa mai sperare di essere giustificato, malgrado l’aumento che spera in avvenire della sua perfezione naturale, ma con essa anche dei suoi doveri, tuttavia in questo progresso, il quale, benché riguardi un fine rimandato all’infinito, nondimeno per Dio vale come possesso, egli può avere la prospettiva di un avvenire b e a t o ; poiché questa è l’espressione di cui la ragione si serve a designare un b e n e s s e r e completo, indipendente da tutte le cause contingenti del mondo, il qual bene, come la s a n t i t à , è un’idea che può esser contenu- 223 ta soltanto in un progresso infinito e nella totalità di esso, e quindi non è mai raggiunta da una creatura.

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V. Das Dasein Gottes als ein Postulat der reinen praktischen Vernunft.

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Das moralische Gesetz führte in der vorhergehenden Zergliederung zur praktischen Aufgabe, welche ohne allen Beitritt sinnlicher Triebfedern bloß durch reine Vernunft vorgeschrieben wird, nämlich der notwendigen Vollständigkeit des ersten und vornehmsten Teils des höchsten Guts, der SITTLICHKEIT, und, da diese nur in einer Ewigkeit völlig aufgelöst werden kann, zum Postulat der U n s t e r b l i c h k e i t . Ebendieses Gesetz muß auch zur Möglichkeit des zweiten Elements des höchsten Guts, nämlich der jener Sittlichkeit angemessenen GLÜCKSELIGKEIT, ebenso uneigennützig | wie vorher aus bloßer unparteiischer Vernunft, nämlich auf die Voraussetzung des Daseins einer dieser Wirkung adäquaten Ursache führen, d. i. die E x i s t e n z G o t t e s als zur Möglichkeit des höchsten Guts (welches Objekt unseres Willens mit der moralischen Gesetzgebung der reinen Vernunft notwendig verbunden ist) notwendig gehörig postulieren. Wir wollen diesen Zusammenhang überzeugend darstellen. G l ü c k s e l i g k e i t ist der Zustand eines vernünftigen Wesens in der Welt, dem es im Ganzen seiner Existenz a l l e s n a c h Wu n s c h u n d W i l l e n g e h t , und beruht also auf der Übereinstimmung der Natur zu seinem ganzen Zwecke, imgleichen zum wesentlichen Bestimmungsgründe seines Willens. Nun gebietet das moralische Gesetz als ein Gesetz der Freiheit durch Bestimmungsgründe, die von der Natur und der Übereinstimmung derselben zu unserem Begehrungsvermögen (als Triebfedern) ganz unabhängig sein sollen; das handelnde vernünftige Wesen in der Welt aber ist doch nicht zugleich Ursache der Welt und der Natur selbst. Also ist in dem moralischen Gesetze nicht der mindeste Grund zu einem notwendigen Zusammenhang zwischen Sittlichkeit und der ihr proportionierten Glückseligkeit eines zur Welt als Teil gehörigen und daher von ihr abhängigen Wesens, welches ebendarum durch seinen Willen nicht Ursache dieser Natur sein und sie, was seine Glückseligkeit betrifft, mit seinen praktischen Grund|sätzen aus eigenen Kräften nicht durchgängig einstimmig machen kann. Gleichwohl wird in der praktischen Aufgabe der reinen Vernunft, d. i. der notwendigen Bearbeitung zum höchsten

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V. L’esistenza di Dio, come postulato della ragion pura pratica. La legge morale ha condotto nell’analisi precedente al problema pratico che, senz’alcun intervento di moventi morali, viene prescritto semplicemente mediante la ragion pura, cioè alla completezza necessaria della parte prima e principale del sommo bene, la MORALITÀ; e, poiché questo problema non può essere risolto completamente se non in un’eternità, al postulato dell’IMMORTALITÀ. Questa stessa legge deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, cioè alla FELICITÀ proporzionata a quella moralità, con tanto disinteresse come prima, per semplice e imparziale ragione, vale a dire alla supposizione dell’esistenza di una causa adeguata a questo effetto; cioè deve postulare l ’ e s i s t e n z a d i D i o , come appartenente necessariamente alla possibilità del sommo bene (il quale oggetto della nostra volontà è legato necessariamente con la legislazione morale della ragion pura). Vogliamo esporre in modo convincente questa connessione. La f e l i c i t à è la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui, in tutto il corso della vita, t u t t o a v v i e n e s e c o n d o i l s u o d e s i d e r i o e l a s u a v o l o n t à , e si fonda quindi sull’accordo della natura col fine totale di esso, e così pure col motivo determinante essenziale della sua volontà. Ora la legge morale, come legge della libertà, comanda mediante motivi determinanti, che devono essere affatto indipendenti dalla natura e dall’accordo di essi con la nostra facoltà di desiderare (come moventi); ma l’essere razionale agente nel mondo non è tuttavia nello stesso tempo causa del mondo e della natura stessa. Dunque, nella legge morale non vi è il minimo principio di una connessione necessaria fra la moralità e la felicità, ad essa proporzionata, di un essere che appartenga al mondo come parte, e perciò dipenda da esso, il quale essere appunto perciò non può essere causa di questa natura mediante la sua volontà, e, per quel che riguarda la sua felicità, non può con le proprie forze produrre continuamente l’accordo di questa natura coi suoi princìpi pratici. Tuttavia, nel problema pratico della ragion pura, cioè nel lavoro necessario pel sommo bene, una tale connessione vien

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Gute, ein solcher Zusammenhang als notwendig postuliert: wir s o l l e n das höchste Gut (welches also doch möglich sein muß) zu befördern suchen. Also wird auch das Dasein einer von der Natur unterschiedenen Ursache der gesamten Natur, welche den Grund dieses Zusammenhanges, nämlich der genauen Übereinstimmung der Glückseligkeit mit der Sittlichkeit enthalte, p o s t u l i e r t . Diese oberste Ursache aber soll den Grund der Übereinstimmung der Natur nicht bloß mit einem Gesetze des Willens der vernünftigen Wesen, sondern mit der Vorstellung dieses G e s e t z e s , sofern diese es sich zum o b e r s t e n B e s t i m m u n g s g r u n d e d e s W i l l e n s setzen, also nicht bloß mit den Sitten der Form nach, sondern auch ihrer Sittlichkeit als dem Bewegungsgrunde derselben, d. i. mit ihrer moralischen Gesinnung enthalten. Also ist das höchste Gut in der Welt nur möglich, sofern eine oberste Ursache der Natur angenommen wird, die eine der moralischen Gesinnung gemäße Kausalität hat. Nun ist ein Wesen, das der Handlungen nach der Vorstellung von Gesetzen fähig ist, eine I n t e l l i g e n z (vernünftig Wesen), und die Kausalität eines solchen Wesens nach dieser Vorstellung der Gesetze ein W i l l e desselben. Also ist die oberste Ursache der Natur, sofern sie zum höchsten Gute voraus|gesetzt werden muß, ein Wesen, das durch Ve r s t a n d und W i l l e n die Ursache (folglich der Urheber) der Natur ist, d. i. GOTT. Folglich ist das Postulat der Möglichkeit des h ö c h s t e n a b g e l e i t e t e n G u t s (der besten Welt) zugleich das Postulat der Wirklichkeit eines h ö c h s t e n u r s p r ü n g l i c h e n G u t s , nämlich der Existenz Gottes. Nun war es Pflicht für uns, das höchste Gut zu befördern, mithin nicht allein Befugnis, sondern auch mit der Pflicht als Bedürfnis verbundene Notwendigkeit, die Möglichkeit dieses höchsten Guts vorauszusetzen; welches, da es nur unter der Bedingung des Daseins Gottes stattfindet, die Voraussetzung desselben mit der Pflicht unzertrennlich verbindet, d. i. es ist moralisch notwendig, das Dasein Gottes anzunehmen. Hier ist nun wohl zu merken, daß diese moralische Notwendigkeit s u b j e k t i v, d. i. Bedürfnis, und nicht o b j e k t i v, d. i. selbst Pflicht sei; denn es kann gar keine Pflicht geben, die Existenz eines Dinges anzunehmen (weil dieses bloß den theoretischen Gebrauch der Vernunft angeht). Auch wird hierunter nicht verstanden, daß die Annehmung des Daseins Gottes a l s e i n e s

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postulata come necessaria: noi d o b b i a m o cercare di promuovere il sommo bene (che quindi deve tuttavia essere possibile). Dunque viene anche postulata l’esistenza di una causa di tutta la natura, differente dalla natura, la quale contenga il principio di questa connessione, cioè dell’accordo esatto della felicità con la moralità. Ma questa causa suprema deve contenere il principio dell’accordo della natura, non solamente con una legge della volontà degli esseri razionali, ma con la rappresentazione di questa l e g g e in quanto questi esseri la pongono a m o t i v o d e t e r m i n a n t e s u p r e m o d e l l a v o l o n t à , e quindi non semplicemente coi costumi quanto alla forma, ma anche quanto alla loro moralità, come motivo determinante di essi, cioè con la loro intenzione morale. Dunque, il sommo bene nel mondo è possibile soltanto in quanto viene ammessa una causa suprema della natura26 che ha una causalità conforme all’intenzione morale. Ora un essere, il quale è capace di azioni secondo la rappresentazione di leggi, è un’ i n t e l l i g e n z a (essere razionale), e la causalità di un tale essere secondo questa rappresentazione delle leggi è la sua v o l o n t à . Dunque, la causa suprema della natura, in quanto dev’esser presupposta pel sommo bene, è un essere che mediante l’ i n t e l l e t t o e la v o l o n t à è la causa (perciò l’autore) della natura, cioè Dio. Per conseguenza, il postulato della possibilità del s o m m o b e n e d e r i v a t o del mondo ottimo, e nello stesso tempo il postulato della realtà di un s o m m o b e n e o r i g i n a r i o , cioè dell’esistenza di Dio. Ma era dovere per noi promuovere il sommo bene; e quindi è non solo un diritto, ma anche una necessità legata come bisogno col dovere, supporre la possibilità di questo sommo bene; il quale, avendo luogo soltanto con la condizione dell’esistenza di Dio, lega inseparabilmente la supposizione di quest’esistenza col dovere; ossia è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio. Qui si deve ben notare, che questa necessità morale è s o g g e t t i v a , cioè un bisogno, e non o g g e t t i v a , cioè anche un dovere; poiché non vi può essere punto un dovere di ammettere l’esistenza di una cosa (perché ciò riguarda semplicemente l’uso teoretico della ragione). Nemmeno s’intende con questo, che sia necessario ammettere l’esistenza d i D i o c o m e p r i n -

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G r u n d e s a l l e r Ve r b i n d l i c h k e i t ü b e r h a u p t notwendig sei (denn dieser beruht, wie hinreichend bewiesen worden, lediglich auf der Autonomie der Vernunft selbst). Zur Pflicht gehört hier nur die Bearbeitung zu Hervorbringung und Beförderung des höchsten Guts in der Welt, dessen Möglichkeit also postuliert werden kann, | die aber unsere Vernunft nicht anders denkbar findet als unter Voraussetzung einer höchsten Intelligenz, deren Dasein anzenehmen also mit dem Bewußtsein unserer Pflicht verbunden ist, obzwar diese Annehmung selbst für die theoretische Vernunft gehört, in Ansehung deren allein sie als Erklärungsgrund betrachtet H y p o t h e s e , in Beziehung aber auf die Verständlichkeit eines uns doch durchs moralische Gesetz aufgegebenen Objekts (des höchsten Guts), mithin eines Bedürfnisses in praktischer Absicht G l a u b e und zwar reiner Ve r n u n f t g l a u b e heißen kann, weil bloß reine Vernunft (sowohl ihrem theoretischen als praktischen Gebrauche nach) die Quelle ist, daraus er entspringt. Aus dieser D e d u k t i o n wird es nunmehr begreiflich, warum die g r i e c h i s c h e n Schulen zur Auflösung ihres Problems von der praktischen Möglichkeit des höchsten Guts niemals gelangen konnten: weil sie nur immer die Regel des Gebrauchs, den der Wille des Menschen von seiner Freiheit macht, zum einzigen und für sich allein zureichenden Grunde derselben machten, ohne ihrem Bedünken nach das Dasein Gottes dazu zu bedürfen. Zwar taten sie daran recht, daß sie das Prinzip der Sitten unabhängig von diesem Postulat für sich selbst aus dem Verhältnis der Vernunft allein zum Willen festsetzten, und es mithin zur o b e r s t e n praktischen Bedingung des höchsten Guts machten; es war darum aber nicht die g a n z e Bedingung der Möglichkeit | desselben. Die E p i k u r e e r hatten nun zwar ein ganz falsches Prinzip der Sitten zum obersten angenommen, nämlich das der Glückseligkeit, und eine Maxime der beliebigen Wahl nach jedes seiner Neigung für ein Gesetz untergeschoben; aber darin verfuhren sie doch k o n s e q u e n t genug, daß sie ihr höchstes Gut ebenso, nämlich der Niedrigkeit ihres Grundsatzes proportionierlich, abwürdigten und keine größere Glückseligkeit erwarteten, als die sich durch menschliche Klugheit (wozu auch Enthaltsamkeit und Mäßigung der Neigun-

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c i p i o d i o g n i o b b l i g o i n g e n e r e (poiché questo principio, come si è dimostrato abbastanza, si fonda soltanto sull’autonomia della ragione stessa). Al dovere qui appartiene soltanto di lavorare alla produzione e al promuovimento del sommo bene nel mondo, di cui quindi la possibilità può esser postulata, ma che la nostra ragione non trova concepibile se non col supporre un’intelligenza suprema. Quindi l’ammetter l’esistenza di questa intelligenza è così legata con la coscienza del nostro dovere, benché questo fatto stesso dell’ammetterla appartenga alla ragion teoretica, rispetto alla quale soltanto essa, considerata come principio di spiegazione, può esser chiamata i p o t e s i ; ma in relazione all’intelligibilità di un oggetto (il sommo bene) dato a noi tuttavia mediante la legge morale, e quindi di un bisogno nel rispetto pratico, può chiamarsi f e d e , e invero f e d e r a z i o n a l e pura, perché semplicemente la ragion pura (tanto secondo il suo uso teoretico, come secondo quello pratico) è la sorgente da cui deriva. Con questa d e d u z i o n e si può ormai comprendere perché le scuole greche non siano mai potute giungere alla soluzione del loro problema della possibilità pratica del sommo bene: della regola dell’uso che la volontà dell’uomo fa della sua libertà, esse infatti facevano sempre il principio unico, e sufficiente per sé solo, di questa possibilità, senza che ci fosse bisogno, a loro parere, dell’esistenza di Dio. Esse invero facevano bene a stabilire il principio della morale indipendentemente da questo postulato per se stesso, soltanto per la relazione della ragione alla volontà, e quindi a farne la condizione pratica s u p r e m a del sommo bene; ma non perciò esso era la condizione t o t a l e della possibilità di questo bene. Ora gli epicurei avevano bensì ammesso un principio affatto falso dei costumi, cioè quello della felicità come principio supremo, e sostituito a una legge una massima dell’elezione arbitraria, secondo l’inclinazione di ciascuno; ma essi procedevano in modo abbastanza c o e r e n t e nell’abbassare il loro sommo bene ugualmente, cioè proporzionatamente alla bassezza del loro principio, e non aspettavano felicità maggiore che quella che si può ottenere mediante la prudenza umana (a cui appartiene anche la temperanza e la moderazione delle in-

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gen gehört) erwerben läßt, die, wie man weiß, kümmerlich genug und nach Umständen sehr verschiedentlich ausfallen muß; die Ausnahmen, welche ihre Maximen unaufhörlich einräumen mußten und die sie zu Gesetzen untauglich machen, nicht einmal gerechnet. Die S t o i k e r hatten dagegen ihr oberstes praktisches Prinzip, nämlich die Tugend, als Bedingung des höchsten Guts ganz richtig gewählt, aber, indem sie den Grad derselben, der für das reine Gesetz derselben erforderlich ist, als in diesem Leben völlig erreichbar vorstellten, nicht allein das moralische Vermögen des M e n s c h e n unter dem Namen eines We i s e n über alle Schranken seiner Natur hoch gespannt und etwas, das aller Menschenkenntnis widerspricht, angenommen, sondern auch vornehmlich das zweite zum höchsten Gute gehörige B e s t a n d s t ü c k , nämlich die Glükseligkeit, gar nicht für einen besonderen Gegenstand des menschlichen Begehrungsvermögens | wollen gelten lassen, sondern ihren We i s e n gleich einer Gottheit im Bewußtsein der Vortrefflichkeit seiner Person von der Natur (in Absicht auf seine Zufriedenheit) ganz unabhängig gemacht, indem sie ihn zwar Übeln des Lebens aussetzten, aber nicht unterwarfen (zugleich auch als frei vom Bösen darstellten), und so wirklich das zweite Element des höchsten Guts, eigene Glückseligkeit, wegließen, indem sie es bloß im Handeln und der Zufriedenheit mit seinem persönlichen Werte setzten und also im Bewußtsein der sittlichen Denkungsart mit einschlossen, worin sie aber durch die Stimme ihrer eigenen Natur hinreichend hätten widerlegt werden können. Die Lehre des Christentums*, wenn man sie auch noch nicht als Religionslehre betrachtet, gibt | in diesem Stücke einen Begriff

* Man hält gemeiniglich dafür, die christliche Vorschrift der Sitten habe in Ansehung ihrer Reinigkeit vor dem moralischen Begriffe der Stoiker nichts voraus; allein der Unterschied beider ist doch sehr sichtbar. Das stoische System machte das Bewußtsein der Seelenstärke zum Angel, um den sich alle sittliche Gesinnungen wenden sollten, und ob die Anhänger desselben zwar von Pflichten redeten, auch sie ganz wohl bestimmten, so setzten sie doch die Triebfeder und den eigentlichen Bestimmungsgrund des Willens in einer Erhebung der Denkungsart über die niedrigen und nur durch Seelenschwäche machthabenden Triebfedern der Sinne. Tugend war also bei ihnen ein gewisser Heroismus des über die tierische Natur des Menschen sich erhebenden We i s e n , der ihm

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clinazioni): la quale felicità, come si sa, deve riuscire abbastanza meschina e assai differente secondo le circostanze; senza contare le eccezioni che le loro massime dovevano incessantemente ammettere, e che le rendono incapaci d’esser leggi. Gli stoici, invece, avevano scelto affatto giustamente il loro principio pratico supremo, cioè la virtù, come condizione del sommo bene; ma, poiché rappresentavano il grado di virtù che è necessario per la legge pura di essa come pienamente raggiungibile in questa vita, non solo avevano elevato il potere morale dell’ u o m o , che chiamavano s a g g i o , sopra tutti i limiti della sua natura, e ammesso qualcosa che contraddice a ogni conoscenza umana, ma anche, soprattutto, non ammettevano affatto il secondo e l e m e n t o appartenente al sommo bene, cioè la felicità, come un oggetto particolare della facoltà di desiderare dell’uomo, e avevano fatto del loro s a g g i o come una divinità, con la coscienza dell’eccellenza della sua persona, affatto indipendente dalla natura (relativamente alla sua contentezza), poiché essi lo esponevano bensì ai mali della vita, ma non ve lo assoggettavano (nello stesso tempo lo rappresentavano anche come libero dal male. Così, in realtà, tralasciavano il secondo elemento del sommo bene, la propria felicità, poiché essi lo riponevano semplicemente nell’azione e nella contentezza del proprio valore personale, e quindi lo includevano nella coscienza del modo di pensare morale; nel che essi però avrebbero potuto esser confutati abbastanza dalla voce della loro propria natura. La dottrina del cristianesimo* quando anche non venisse ancora considerata come dottrina religiosa, dà in questo punto un * Si ritiene comunemente, che il precetto cristiano dei costumi non abbia nessuna precedenza per ciò che riguarda la sua purezza sul concetto morale degli stoici ma la loro differenza è però assai visibile. Il sistema stoico faceva della coscienza della fortezza d’animo il perno su cui dovevano volgersi tutte le intenzioni morali; e, benché i seguaci di questo sistema parlassero di doveri, e li determinassero anche benissimo, tuttavia riponevano il movente, e il motivo determinante propriamente detto della volontà, in un’elevazione del modo di pensare al di sopra dei moventi inferiori dei sensi, che non hanno potere se non per la debolezza dell’animo. La virtù era dunque per loro un certo eroismo del s a g g i o ; che si eleva sopra la natura animale dell’uomo, il quale saggio basta a se

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des höchsten Guts (des Reichs Gottes), der allein der strengsten Forderung der | praktischen Vernunft ein Genüge tut. Das moralische Gesetz ist heilig (unnachsichtlich) und fordert Heiligkeit der Sitten, obgleich alle moralische Vollkommenheit, zu welcher der Mensch gelangen kann, immer nur Tugend ist, d. i. gesetzmäßige Gesinnung aus A c h t u n g fürs Gesetz, folglich Bewußtsein eines kontinuierlichen Hanges zur Übertretung, wenigstens Unlauterkeit, d. i. Beimischung vieler unechter (nicht moralischer) Bewegungsgründe zur Befolgung des Gesetzes, folglich eine mit Demut verbundene Selbstschätzung, und also in der Ansehung der Heiligkeit, welche das christliche Gesetz fordert, nichts als Fortschritt ins Unendliche dem Geschöpfe übrig läßt, ebendaher aber auch dasselbe zur Hoffnung seiner ins Unendliche gehenden Fortdauer berechtigt. Der We r t einer dem moralischen Gesetze v ö l l i g angemessenen Gesinnung ist unendlich: weil alle mögliche Glückseligkeit im Urteile eines weisen und alles vermögenden Austeilers derselben keine andere Einschränkung hat als den Mangel der Anselbst genug ist, anderen zwar Pfichten vorträgt, selbst aber über sie erhaben und

230 keiner Versuchung zu | Übertretung des sittlichen Gesetzes unterworfen ist. Die-

ses alles aber konnten sie nicht tun, wenn sie sich dieses Gesetz in der Reinigkeit und Strenge, als es die Vorschrift des Evangelii tut, vorgestellt hätten. Wenn ich unter einer I d e e eine Vollkommenheit verstehe, der nichts in der Erfahrung adäquat gegeben werden kann, so sind die moralischen Ideen darum nichts Überschwengliches, d. i. dergleichen, wovon wir auch nicht einmal den Begriff hinreichend bestimmen könnten, oder von dem es ungewiß ist, ob ihm überall ein Gegenstand korrespondiere, wie die Ideen der spekulativen Vernunft, sondern dienen, als Urbilder der praktischen Vollkommenheit, zur unentbehrlichen Richtschnur des sittlichenVerhaltens und zugleich zum M a ß s t a b e d e r Ve r g l e i c h u n g . Wenn ich nun die c h r i s t l i c h e M o r a l von ihrer philosophischen Seite betrachte, so würde sie, mit den Ideen der griechischen Schulen verglichen, so erscheinen: die Ideen der C y n i k e r, der E p i k u r e e r, der S t o i k e r und der c h r i s t e n sind: die N a t u r e i n f a l t , die K l u g h e i t , die We i s h e i t und die H e i l i g k e i t . In Ansehung des Weges, dazu zu gelangen, unterschieden sich die griechischen Philosophen so voneinander, daß die Cyniker dazu den gemeinen M e n s c h e n v e r s t a n d , die anderen nur den We g d e r W i s s e n s c h a f t , beide also doch bloßen G e b r a u c h d e r n a t ü r l i c h e n K r ä f t e dazu hinreichend fanden. Die christliche Moral, weil sie ihre Vorschrift (wie es auch sein muß) so rein und unnachsichtlich einrichtet, benimmt dem Menschen das Zutrauen, wenigstens hier im Leben ihr völlig adäquat zu sein, richtet es aber doch auch dadurch wiederum auf, daß, wenn wir so gut handeln, als in unserem Ve r m ö g e n ist, wir hoffen können, daß, was nicht in unserem Vermögen ist, uns anderweitig werde zu Statten kommen, wir mögen nun wissen, auf welche Art, oder nicht. A r i s t o t e l e s und P l a t o unterschieden sich nur in Ansehung des U r s p r u n g s unserer sittlichen Begriffe.

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concetto del sommo bene (del regno di Dio), il quale solo soddisfa alla più stretta esigenza della ragion pratica. La legge morale è santa (inviolabile) ed esige la santità dei costumi, benché ogni perfezione morale alla quale l’uomo può giungere sia sempre soltanto virtù, e cioè un’intenzione conforme alla legge per r i s p e t t o alla legge; quindi la coscienza di una continua tendenza alla trasgressione, o almeno all’impurità, cioè mescolare all’osservanza della legge molti motivi determinanti falsi (non morali), e quindi una stima di sé legata con l’umiltà; e perciò, relativamente alla santità che la legge cristiana esige, essa non lascia alla creatura che il progresso all’infinito, ma appunto perciò le dà anche il diritto a sperare una durata all’infinito. Il v a l o r e di un’intenzione p i e n a m e n t e conforme alla legge morale è infinito; perché ogni felicità possibile, nel giudizio di un dispensatore saggio e onnipotente di essa, non ha altra limitazio-

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stesso; agli altri presenta bensì dei doveri, ma egli è elevato sopra di essi, e non è soggetto a nessuna tentazione di trasgressione della legge morale. Ma tutto ciò 230 essi non avrebbero potuto fare, se si fossero rappresentata questa legge nella purezza e nel rigore che presenta il precetto del Vangelo. Se per un’idea intendo una perfezione a cui niente nell’esperienza può esser dato come adeguato, le idee morali non sono perciò niente di trascendente, cioè tali che noi non ne possiamo neanche determinare il concetto in modo sufficiente, o di cui è incerto se corrisponda loro dappertutto un oggetto, come le idee della ragione speculativa; ma, come prototipi della perfezione morale, servono da modello indispensabile del procedere morale, e nello stesso tempo da m i s u r a d i p a r a g o n e . Ora, se io considerassi la m o r a l e c r i s t i a n a dal suo lato filosofico, confrontandola con le idee delle scuole greche, essa apparirebbe così. Le idee dei c i n i c i , degli e p i c u r e i , degli s t o i c i e dei c r i s t i a n i sono: la s e m p l i c i t à n a t u r a l e , la p r u d e n z a , la s a g g e z z a e la s a n t i t à . Riguardo alla via per giungervi, i filosofi greci si distinguono talmente gli uni dagli altri che i cinici trovarono sufficiente a ciò l’ i n t e l l e t t o u m a n o o r d i n a r i o , gli altri soltanto la via della s c i e n z a ; e, perciò, gli uni e gli altri il semplice u s o d e l l e f o r z e n a t u r a l i . La morale cristiana, siccome stabilisce il suo precetto (come anche dev’essere) con tanta purezza e severità, toglie all’uomo la confidenza, almeno in questa vita, di esserle pienamente adeguato: ma tuttavia di nuovo lo rianima mediante il fatto che, se noi facciamo bene per quanto è in nostro p o t e r e , possiamo sperare che ciò che non è in nostro potere ci verrà da un’altra parte, sappiamo o no in qual modo. Aristotile e Platone si distinguono soltanto rispetto all’ o r i g i n e dei nostri concetti morali.

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gemessenheit vernünftiger Wesen an ihrer Pflicht. Aber das moralische Gesetz für sich v e r h e i ß t doch keine Glückseligkeit; denn diese ist, nach Begriffen von einer Naturordnung überhaupt, mit der Befolgung desselben nicht notwendig verbunden. Die christliche Sittenlehre ergänzt nun diesen Mangel (des zweiten unentbehrlichen Bestandstücks des höchsten Guts) durch die Darstellung der Welt, darin vernünftige Wesen sich dem sittlichen Gesetze von ganzer Seele | weihen, als eines R e i c h s G o t t e s , in welchem Natur und Sitten in eine jeder von beiden für sich selbst fremde Harmonie durch einen heiligen Urheber kommen, der das abgeleitete höchste Gut möglich macht. Die H e i l i g k e i t der Sitten wird ihnen in diesem Leben schon zur Richtschnur angewiesen, das dieser proportionierte Wohl aber, die S e l i g k e i t , nur als in einer Ewigkeit erreichbar vorgestellt; weil j e n e immer das Urbild ihres Verhaltens in jedem Stande sein muß, und das Fortschreiten zu ihr schon in diesem Leben möglich und notwendig ist, d i e s e aber in dieser Welt, unter dem Namen der Glückseligkeit, gar nicht erreicht werden kann (soviel auf unser Vermögen ankommt) und daher lediglich zum Gegenstande der Hoffnung gemacht wird. Diesem ungeachtet ist das christliche Prinzip der M o r a l selbst doch nicht theologisch (mithin Heteronomie), sondern Autonomie der reinen praktischen Vernunft für sich selbst, weil sie die Erkenntnis Gottes und seines Willens nicht zum Grunde dieser Gesetze, sondern nur der Gelangung zum höchsten Gute unter der Bedingung der Befolgung derselben macht und selbst die eigentliche Triebfeder zu Befolgung der ersteren nicht in den gewünschten Folgen derselben, sondern in der Vorstellung der Pflicht allein setzt, als in deren treuer Beobachtung die Würdigkeit des Erwerbs der letzteren allein besteht. | Auf solche Weise führt das moralische Gesetz durch den Begriff des höchsten Guts, als das Objekt und den Endzweck der reinen praktischen Vernunft, zur Religion, d. i. zur Erkenntnis aller Pflichten als göttlicher Gebote, nicht als Sanktionen, d.i. willkürlicher, für sich selbst zufälliger Verordnungen eines fremden Willens, sondern als wesentlicher G e s e t z e eines jeden freien Willens für sich selbst, die aber dennoch als Gebote des höchsten Wesens angesehen werden

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ne che la mancanza di conformità di esseri razionali al loro dovere. Ma la legge morale per sé n o n p r o m e t t e nessuna felicità; questa infatti, secondo i concetti di un ordine naturale in genere, non è legata necessariamente con l’osservanza della legge morale. Ora, la dottrina morale cristiana supplisce a questa mancanza (del secondo elemento indispensabile del sommo bene) mediante la rappresentazione del mondo in cui gli esseri razionali si consacrano con tutta l’anima alla legge morale come di un r e g n o d i D i o , in cui la natura e i costumi, mediante un autore santo che rende possibile il sommo bene derivato, pervengono a un’armonia estranea a ciascuno degli elementi preso per se stesso. La s a n t i t à dei costumi vien già mostrata in questa vita come modello; ma il benessere proporzionato ad essa, la b e a t i t u d i n e è rappresentata come raggiungibile solo in un’eternità; q u e l l a infatti deve sempre essere il prototipo del modo di procedere in ogni stato, e il progredire verso di essa è già possibile e necessario in questa vita, q u e s t a invece in questo mondo, col nome di felicità, non può affatto esser raggiunta (per quanto dipende dal nostro potere), e perciò può essere oggetto solo di speranza. Ciò nondimeno il principio cristiano della m o r a l e stessa non è teologico (quindi eteronomia), ma autonomia della ragion pura pratica per sé stessa, perché essa, della cognizione di Dio e della sua volontà, non fa il principio di queste leggi, ma soltanto il principio del pervenire al sommo bene, con la condizione dell’osservanza di queste leggi; ed anche il m o v e n t e proprio dell’osservanza delle leggi, non lo pone nelle conseguenze desiderate di essa, ma soltanto nella rappresentazione del dovere, come solo nel fedele adempimento di questo consiste il merito onde ottenere la felicità. In questo modo la legge morale, mediante il concetto del sommo bene come oggetto e scopo finale della ragion pura pratica, conduce alla r e l i g i o n e , cioè alla c o n o s c e n z a d i tutti i doveri come comandamenti divini, non come sanzioni, cioè decreti arbitrarî e per se s t e s s i a c c i d e n t a l i d i u n a v o l o n t à e s t r a n e a , ma come leggi essenziali di ogni volontà libera per sé stessa, che però devono essere considerate come comandamenti dell’essere su-

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müssen, weil wir nur von einem moralisch vollkommenen (heiligen und gütigen), zugleich auch allgewaltigen Willen das höchste Gut, welches zum Gegenstande unserer Bestrebung zu setzen uns das moralische Gesetz zur Pflicht macht, und also durch Übereinstimmung mit diesem Willen dazu zu gelangen hoffen können. Auch hier bleibt daher alles uneigennützig und bloß auf Pflicht gegründet; ohne daß Furcht oder Hoffnung als Triebfedern zum Grunde gelegt werden dürften, die, wenn sie zu Prinzipien werden, den ganzen moralischen Wert der Handlungen vernichten. Das moralische Gesetz gebietet, das höchste mögliche Gut in einer Welt mir zum letzten Gegenstande alles Verhaltens zu machen. Dieses aber kann ich nicht zu bewirken hoffen, als nur durch die Übereinstimmung meines Willens mit dem eines heiligen und gütigen Welturhebers; und obgleich in dem Begriffe des höchsten Guts als dem eines Ganzen, worin die größte Glückseligkeit mit dem größten | Maße sittlicher (in Geschöpfen möglicher) Vollkommenheit als in der genauesten Proportion verbunden vorgestellt wird, m e i n e e i g e n e G l ü c k s e l i g k e i t mitenthalten ist: so ist doch nicht sie, sondern das moralische Gesetz (welches vielmehr mein unbegrenztes Verlangen danach auf Bedingungen strenge einschränkt) der Bestimmungsgrund des Willens, der zur Beförderung des höchsten Guts angewiesen wird. Daher ist auch die Moral nicht eigentlich die Lehre, wie wir uns glücklich m a c h e n , sondern wie wir der Glückseligkeit w ü r d i g werden sollen. Nur dann, wenn Religion dazu kommt, tritt auch die Hoffnung ein, der Glückseligkeit dereinst in dem Maße teilhaftig zu werden, als wir darauf bedacht gewesen, ihrer nicht unwürdig zu sein. W ü r d i g ist jemand des Besitzes einer Sache oder eines Zustandes, wenn, daß er in diesem Besitze sei, mit dem höchsten Gute zusammenstimmt. Man kann jetzt leicht einsehen, daß alle Würdigkeit auf das sittliche Verhalten ankomme, weil dieses im Begriffe des höchsten Guts die Bedingung des übrigen (was zum Zustande gehört), nämlich des Anteils an Glückseligkeit, ausmacht. Nun folgt hieraus: daß man die Moral an sich niemals als G l ü c k s e l i g k e i t s l e h r e behandeln müsse, d. i. als eine Anweisung, der Glückseligkeit teilhaftig zu werden; denn sie hat es lediglich mit der | Vernunftbedingung (conditio sine qua non) der letzteren, nicht mit einem Erwerbmittel derselben zu tun. Wenn sie aber (die bloß Pflichten auferlegt, nicht eigennützigen Wünschen Maßregeln an

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premo, perché soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona), e nello stesso tempo anche onnipotente, possiamo sperare il sommo bene, che la legge morale ci fa un dovere di porre come oggetto dei nostri sforzi, e quindi possiamo sperare di giungervi mediante l’accordo con questa volontà. Anche qui perciò tutto rimane disinteressato e fondato semplicemente sul dovere; senza che il timore o la speranza possano esser posti a base come moventi, che, se diventassero princìpi, distruggerebbero tutto il valore morale delle azioni. La legge morale mi comanda di fare del sommo bene possibile in un mondo l’oggetto ultimo di tutta la mia condotta. Ma io non posso sperare di attuarlo, se non mediante l’accordo della mia volontà con quella di un autore santo e buono del mondo; e benché la mia felicità sia compresa nel concetto del sommo bene come di un tutto in cui la maggior felicità vien rappresentata legata nella proporzione più esatta con la maggiore quantità di perfezione morale (possibile nelle creature), pure non è essa, ma la legge morale (la quale piuttosto limita poi con condizioni rigorose il mio desiderio illimitato) il motivo determinante della volontà, che viene indicato pel promuovimento del sommo bene. Perciò la morale non è propriamente la dottrina che ci insegna come dobbiamo f a r c i felici, ma come dobbiamo diventar d e g n i della felicità. Solo quando la religione sopraggiunge, viene anche la speranza di partecipare un giorno alla felicità nella misura che avremo procurato di non esserne indegni. Uno è d e g n o del possesso di una cosa, o di uno stato, quando il fatto che egli abbia questo possesso va d’accordo col sommo bene. Ora si può facilmente vedere che ogni merito dipende dalla condotta morale, perché nel concetto del sommo bene essa costituisce la condizione del rimanente (ciò che appartiene allo stato), cioè della parte di felicità. Onde segue che non si deve mai trattare la m o r a l e in sé come d o t t r i n a d e l l a f e l i c i t à , cioè come una dottrina che ci insegni a diventar partecipi della felicità; poiché essa si occupa soltanto della condizione razionale (conditio sine qua non) della felicità, non di un mezzo per acquistarla. Ma se essa (che impone semplicemente doveri, non porge regole ai desideri disinteressati) viene

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die Hand gibt) vollständig vorgetragen worden: alsdann allererst kann, nachdem der sich auf ein Gesetz gründende moralische Wunsch, das höchste Gut zu befördern (das Reich Gottes zu uns zu bringen), der vorher keiner eigennützigen Seele aufsteigen konnte, erweckt und ihm zu Behuf der Schritt zur Religion geschehen ist, diese Sittenlehre auch Glückseligkeitslehre genannt werden, weil die H o f f n u n g dazu nur mit der Religion allererst anhebt. Auch kann man hieraus ersehen: daß, wenn man nach dem l e t z t e n Z w e c k e G o t t e s in Schöpfung der Welt fragt, man nicht die G l ü c k s e l i g k e i t der vernünftigen Wesen in ihr, sondern das h ö c h s t e G u t nennen müsse, welches jenem Wunsche dieser Wesen noch eine Bedingung, nämlich die, der Glückseligkeit würdig zu sein, d. i. die S i t t l i c h k e i t ebenderselben vernünftigen Wesen hinzufügt, die allein den Maßstab enthält, nach welchem sie allein der ersteren durch die Hand eines w e i s e n Urhebers teilhaftig zu werden hoffen können. Denn da We i s h e i t , theoretisch betrachtet, die E r k e n n t n i s d e s h ö c h s t e n G u t s und praktisch d i e A n g e m e s s e n h e i t d e s W i l l e n s z u m h ö c h s t e n G u t e bedeutet, so kann man einer höchsten selbständigen Weisheit nicht einen Zweek beilegen, der bloß | auf G ü t i g k e i t gegründet wäre. Denn dieser ihre Wirkung (in Ansehung der Glückseligkeit der vernünftigen Wesen) kann man nur unter den einschränkenden Bedingungen der Übereinstimmung mit der H e i l i g k e i t * seines Willens als dem höchsten ursprünglichen Gute angemessen denken. Daher diejenigen, welche den * Bierbei und um das Eigentümliche dieser Begriffe kenntlich zu machen, merke ich nur noch an: daß, da man Gott verschiedene Eigenschaften beilegt, deren Qualität man auch den Geschöpfen angemessen findet, nur daß sie dort, zum höchsten Grade erhoben werden, z. B. Macht, Wissenschaft, Gegenwart, Güte usw. unter den Benennungen der Allmacht, der Allwissenheit, der Allgegenwart, der Allgütigkeit usw., es doch drei gibt, die ausschließungsweise und doch ohne Beisatz von Größe Gott beigelegt werden, und die insgesamt moralisch sind: er ist der a l l e i n H e i l i g e , der a l l e i n S e l i g e , der a l l e i n We i s e . , weil diese Begriffe schon die Uneingeschränktheit bei sich führen. Nach der Ordnung derselben ist er denn also auch der h e i l i g e G e s e t z g e b e r (und Schöpfer), der g ü t i g e R e g i e r e r (und Erhalter) und der g e r e c h t e R i c h t e r : drei Eigensshaften, die alles in sich enthalten, wodurch Gott der Gegenstand der Religion wird, und denen angemessen die metaphysischen Vollkommenheiten sich von selbst in der Vernunft hinzufügen.

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esposta completamente; dopo che è stato eccitato il desiderio morale che si fonda su una legge di promuovere il sommo bene (di procurarci il regno di Dio), il quale desiderio prima non poteva venire a nessun’anima disinteressata; dopo che, in aiuto a questo desiderio, è stato fatto il [primo] passo verso la religione; allora soltanto questa dottrina dei costumi può essere chiamata dottrina della felicità, perché la s p e r a n z a comincia soltanto con la religione. Da questo si può anche vedere che, se si ricerca il f i n e u l t i m o d i D i o nella creazione del mondo, non si deve nominare la f e l i c i t à degli esseri irrazionali in questo mondo, ma il s o m m o b e n e , che a quel desiderio di questi esseri aggiunge ancora una condizione, ossia quella di esser degni della felicità, cioè la m o r a l i t à degli stessi esseri razionali, la quale soltanto contiene la norma secondo cui essi possono sperare di diventar partecipi della felicità per mano di un autore s a g g i o . Poiché, siccome la s a g g e z z a , considerata teoreticamente, significa la c o n o s c e n z a d e l s o m m o b e n e , e, praticamente la c o n f o r m i t à d e l l a v o l o n t à a l s o m m o b e n e , così non si può attribuire a una saggezza suprema e indipendente un fine che sarebbe fondato semplicemente sulla b o n t à . Poiché non si può concepire questo effetto della bontà (relativamente alla felicità degli esseri razionali) se non con le condizioni restrittive dell’accordo con la s a n t i t à * della propria volontà, come conforme al sommo bene originario. Perciò coloro che ripro* A questo proposito, e per far conoscere il carattere proprio di questi concetti, osservo ancora soltanto che, laddove si attribuiscono a Dio diverse proprietà, la cui qualità si trova anche conveniente alle creature, solo che in Dio sono elevate al grado più alto, per es. la potenza, la scienza, la presenza, la bontà, ecc., con le denominazioni di onnipotenza, onniscienza, onnipresenza, bontà, infinità, ecc., ve ne sono tre, che vengono attribuite a Dio esclusivamente, eppure senza aggiunta di grandezza, e che sono tutte e tre morali. Egli solo è il s a n t o , il b e a t o , il s a g g i o , perché questi concetti implicano già l’illimitatezza. Quindi, secondo l’ordine di essi, egli è poi anche il l e g i s l a t o r e (e creatore) s a n t o , il r e g g i t o r e b u o n o (e conservatore) e il g i u d i c e g i u s t o . Tre proprietà, che contengono in sé tutto ciò per cui Dio diventa l’oggetto della religione, e alle quali le perfezioni metafisiche, che sono conformi ad esse, s’aggiungono da sé nella ragione.

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Zweck der Schöpfung in die Ehre Gottes (vorausgesetzt daß man diese nicht anthropomorphistisch als Neigung, gepriesen zu werden, denkt) setzten, wohl den besten Ausdruck getroffen haben. Denn nichts ehrt Gott mehr als das, was das Schätzbarste in der Welt ist, die Achtung für sein Gebot, die Beobachtung der heiligen Pflicht, die uns sein Gesetz auferlegt, wenn | seine herrliche Anstalt dazu kommt, eine solche schöne Ordnung mit angemessener Glückseligkeit zu krönen. Wenn ihn das letztere (auf menschliche Art zu reden) liebenswürdig macht, so ist er durch das erstere ein Gegenstand der Anbetung (Adoration). Selbst Menschen können sich durch Wohltun zwar Liebe, aber dadurch allein niemals Achtung erwerben, sodaß die größte Wohltätigkeit ihnen nur dadurch Ehre macht, daß sie nach Würdigkeit ausgeübt wird. Daß in der Ordnung der Zwecke der Mensch (mit ihm jedes vernünftige Wesen) Z w e c k a n s i c h s e l b s t sei, d. i. niemals bloß als Mittel von iemanden (selbst nicht von Gott), ohne zugleich hierbei selbst Zweck zu sein, könne gebraucht werden, daß also die M e n s c h h e i t in unserer Person uns selbst h e i l i g sein müsse, folgt nunmehr von selbst, weil er das S u b j e k t d e s m o r a l i s c h e n G e s e t z e s , mithin dessen ist, was an sich heilig ist, um dessen willen und in Einstimmung mit welchem auch überhaupt nur etwas heilig genannt werden kann. Denn dieses moralische Gesetz gründet sich auf der Autonomie seines Willens als eines freien Willens, der nach seinen allgemeinen Gesetzen notwendig zu demjenigen zugleich muß e i n s t i m m e n können, welchem er sich u n t e r w e r f e n soll. VI. | Über die Postulate der reinen praktischen Vernunft überhaupt. Sie gehen alle vom Grundsatze der Moralität aus, der kein Postulat, sondern ein Gesetz ist, durch welches Vernunft unmittelbar den Willen bestimmt, welcher Wille, ebendadurch daß er so bestimmt ist, als reiner Wille, diese notwendigen Bedingungen der Befolgung seiner Vorschrift fordert. Diese Postulate sind nicht theoretische Dogmata, sondern Vo r a u s s e t z u n g e n in notwendig praktischer Rücksicht, erweitern also zwar nicht die spekulative Erkenntnis, geben aber den Ideen der spekulativen Vernunft im

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pongono il fine della creazione della gloria di Dio (supposto che non si concepisca questa gloria in senso antropomorfico, come desiderio di essere stimato) hanno ben trovato l’espressione migliore. Poiché niente onora Dio quanto ciò che si deve più stimare nel mondo, ossia il rispetto al suo comandamento, l’osservanza del santo dovere che la sua legge ci impone, se si aggiunge la sua mirabile disposizione di coronare un ordine così bello con una felicità proporzionata. Se quest’ultimo punto lo rende amabile (per usare il linguaggio umano), mediante il primo egli è oggetto di adorazione. Anche gli uomini facendo del bene possono bensì acquistarsi l’amore, ma solo con ciò non possono mai acquistarsi il rispetto; sicché la più grande beneficenza fa loro solo onore solo perché fatta secondo il merito. Che nell’ordine dei fini l’uomo (e con esso ogni essere razionale) sia un f i n e i n s e s t e s s o , cioè non possa mai essere adoperato semplicemente come mezzo da alcuno (neanche da Dio), senza che nello stesso tempo sia anche un fine; che dunque l’ u m a n i t à debba esser s a n t a per noi stessi nella nostra persona; questo ormai va da sé, perché l’uomo è il s o g g e t t o della l e g g e m o r a l e , e quindi di ciò che è santo in sé, per cui e in accordo con cui, soltanto, qualcosa può anche esser chiamata santa in genere. Poiché questa legge morale si fonda sull’autonomia della propria volontà, come di una volontà libera che, secondo le sue leggi universali, deve necessariamente potersi a c c o r d a r e con quello a cui si deve s o t t o m e t t e r e . VI. Sui postulati della ragion pura pratica in generale. Essi partono dal principio della moralità, il quale non è un postulato, ma una legge per mezzo di cui la ragione determina immediatamente la volontà. La volontà, per ciò stesso che vien determinata così, come volontà pura richiede queste condizioni necessarie all’osservanza dei suoi precetti. Questi postulati non sono dommi teoretici, ma s u p p o s i z i o n i da un punto di vista necessariamente pratico, e quindi non estendono la conoscenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in g e -

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a l l g e m e i n e n (vermittelst ihrer Beziehung auf das Praktische) objektive Realität und berechtigen sie zu Begriffen, deren Möglichkeit auch nur zu behaupten sie sich sonst nicht anmaßen könnte. Diese Postulate sind die der U n s t e r b l i c h k e i t , der F r e i h e i t , positiv betrachtet (als der Kausalität eines Wesens, sofern es zur intelligibelen Welt gehört), und des D a s e i n s G o t t e s . Das e r s t e fließt aus der praktisch notwendigen Bedingung der Angemessenheit der Dauer zur Vollständigkeit der Erfüllung des moralischen Gesetzes; das z w e i t e aus der notwendigen Voraussetzung der Unabhängigkeit von der Sinnenwelt und des Vermögens der Bestimmung seines Willens nach dem | Gesetze einer intelligibelen Welt, d. i. der Freiheit; das d r i t t e aus der Notwendigkeit der Bedingung zu einer solchen intelligibelen Welt, um das höchste Gut zu sein, durch die Voraussetzung des höchsten selbständigen Guts, d. i. des Daseins Gottes. Die durch die Achtung fürs moralische Gesetz notwendige Absicht auf das höchste Gut und daraus fließende Voraussetzung der objektiven Realität desselben führt also durch Postulate der praktischen Vernunft zu Begriffen, welche die spekulative Vernunft zwar als Aufgaben vortragen, sie aber nicht auflösen konnte. Also 1) zu derjenigen, in deren Auflösung die letztere nichts als P a r a l o g i s m e n begehen konnte (nämlich der Unsterblichkeit), weil es hier am Merkmale der Beharrlichkeit fehlte, um den psychologischen Begriff eines letzten Subjekts, welcher der Seele im Selbstbewußtsein notwendig beigelegt wird, zur realen Vorstellung einer Substanz zu ergänzen, welches die praktische Vernunft durch das Postulat einer zur Angemessenheit mit dem moralischen Gesetze im höchsten Gute als dem ganzen Zwecke der praktischen Vernunft erforderlichen Dauer ausrichtet. 2) Führt sie zu dem, wovon die spekulative Vernunft nichts als A n t i n o m i e enthielt, deren Auflösung sie nur auf einem problematisch zwar denkbaren, aber seiner objektiven Realität nach für sie nicht erweislichen und bestimmbaren Begriffe gründen konnte, nämlich die k o s m o l o g i s c h e Idee | einer intelligibelen Welt und das Bewußtsein unseres Daseins in derselben, vermittelst des Postulats der Freiheit (deren Realität sie durch das moralische Gesetz darlegt und mit ihm zugleich das Gesetz einer intelligibelen Welt, worauf die spekulative

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n e r e (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano come concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltanto presumere di affermare. Questi postulati sono quelli dell’ i m m o r t a l i t à , della l i b e r t à positivamente considerata (come causalità di un essere in quanto questo appartiene al mondo intelligibile), e dell’ e s i s t e n z a d i D i o . Il p r i m o deriva dalla condizione praticamente necessaria di una durata corrispondente all’adempimento completo della legge morale; il s e c o n d o dalla supposizione necessaria dell’indipendenza dal mondo sensibile e del potere della determinazione della propria volontà, secondo la legge di un mondo intelligibile, cioè della libertà; il t e r z o dalla necessità della condizione di un mondo intelligibile per l’esistenza del sommo bene, mediante la supposizione del sommo bene indipendente, cioè dell’esistenza di Dio. L’aspirazione necessaria al sommo bene mediante il rispetto alla legge morale, e la supposizione che ne deriva della realtà oggettiva di questo bene, conduce dunque, mercé i postulati della ragion pratica, a concetti che la ragione speculativa poteva bensì esporre come problemi, ma non poteva risolvere. Dunque 1) essa conduce a un concetto (cioè a quello dell’immortalità) per la cui soluzione la ragione speculativa non poteva far altro che p a r a l o g i s m i , perché ad essa mancava la caratteristica della persistenza per completare, per la rappresentazione reale di una sostanza, il concetto psicologico di un soggetto ultimo che viene attribuito necessariamente all’anima nella coscienza di sé; il che la ragion pratica fa mediante il postulato di una durata necessaria alla conformità con la legge morale nel sommo bene, come fine totale della ragion pratica; 2) essa conduce a un concetto, di cui la ragione speculativa non contiene se non un’ a n t i n o m i a , l a cui soluzione poteva fondare soltanto su un concetto che poteva bensì pensare problematicamente, ma non dimostrare o determinare quanto alla sua realtà oggettiva, cioè l’idea c o s m o l o g i c a di un mondo intelligibile e la coscienza della nostra esistenza in esso, mediante il postulato della libertà (la realtà della quale essa dimostra mediante la legge morale, e con essa nello stesso tempo dimostra la legge di un mondo in-

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nur hinweisen, ihren Begriff aber nicht bestimmen konnte). 3) Verschafft sie dem, was spekulative Vernunft zwar denken, aber als bloßes transzendentales I d e a l unbestimmt lassen mußte, dem t h e o l o g i s c h e n Begriffe des Urwesens, Bedeutung (in praktischer Absicht, d. i. als einer Bedingung der Möglichkeit des Objektes eines durch jenes Gesetz bestimmten Willens), als dem obersten Prinzip des höchsten Guts in einer intelligibelen Welt durch gewalthabende moralische Gesetzgebung in derselben. Wird nun aber unsere Erkenntnis auf solche Art durch reine praktische Vernunft wirklich erweitert, und ist das, was für die spekulative t r a n s z e n d e n t war, in der praktischen i m m a n e n t ? Allerdings, aber n u r i n p r a k t i s c h e r A b s i c h t . Denn wir erkennen zwar dadurch weder unserer Seele Natur noch die intelligibele Welt noch das höchste Wesen nach dem, was sie an sich selbst sind, sondern haben nur die Begriffe von ihnen im p r a k t i s c h e n Begriffe des h ö c h s t e n G u t s vereinigt, als dem Objekte unseres Willens, und völlig a priori durch reine Vernunft, aber nur vermittelst des moralischen Gesetzes und auch bloß in Beziehung auf dasselbe in Ansehung des Objekts, das es gebietet. | Wie aber auch nur die Freiheit möglich sei, und wie man sich diese Art von Kausalität theoretisch und positiv vorzustellen habe, wird dadurch nicht eingesehen, sondern nur, daß eine solche sei, durch das moralische Gesetz und zu dessen Behuf postuliert. So ist es auch mit den übrigen Ideen bewandt, die nach ihrer Möglichkeit kein menschlicher Verstand jemals ergründen, aber auch, daß sie nicht wahre Begriffe sind, keine Sophisterei der Überzeugung selbst des gemeinsten Menschen jemals entreißen wird.

VII. Wie eine Erweitterung der reinen Vernunft in praktischer Absicht, ohne damit ihre Erkenntnis als spekulativ zugleich zu erweitern, zu denken möglich sei? Wir wollen diese Frage, um nicht zu abstrakt zu werden, sofort in Anwendung auf den vorliegenden Fall beantworten. – Um eine

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telligibile, che la ragione speculativa poteva soltanto indicare, senza poterne determinare il concetto); 3) essa dà a ciò che la ragione speculativa poteva bensì pensare, ma doveva lasciar indeterminato come semplice i d e a l e trascendentale, al concetto t e o l o g i c o dell’essere primordiale, un senso (nel rispetto pratico, cioè come una condizione della possibilità dell’oggetto di una volontà determinata mediante quella legge), come principio supremo del sommo bene in un mondo intelligibile, mediante una legislazione morale onnipotente in quel mondo. Ma in tal modo, mediante la ragion pura pratica, viene estesa realmente la nostra conoscenza, e ciò che era t r a s c e n d e n t e per la ragione speculativa, è i m m a n e n t e nella pratica? Senza dubbio, ma s o l t a n t o n e l r i s p e t t o p r a t i c o . Poiché, invero, noi non conosciamo mediante questi concetti né la natura della nostra anima, né il mondo intelligibile, né l’essere supremo, rispetto a ciò che queste cose sono in se stesse; ma abbiamo soltanto riunito i concetti di esse nel concetto p r a t i c o d e l s o m m o b e n e come oggetto della nostra volontà ed affatto a p r i o r i , mediante la ragion pura, benché solo mediante la legge morale, ed anche semplicemente rispetto a questa, in vista dell’oggetto che essa comanda. Ma anche, soltanto, come sia possibile la libertà, e come si debba rappresentare teoricamente e positivamente questo modo di causalità: ciò non si vede mediante questi concetti; e vien soltanto postulato, mediante la legge morale e allo scopo di questa, che vi sia una tale causalità. Così è anche delle altre idee, che quanto alla loro possibilità nessun intelletto umano stabilirà mai, ma che con nessun sofisma si farà mai credere, neanche all’uomo più volgare, che non siano veri concetti. VII. Come sia concepibile un’estensione della ragion pura, nel rispetto pratico, senza che perciò nello stesso tempo sia estesa la sua conoscenza come ragione speculativa. Per non divenir troppo astratti, vogliamo rispondere a questa questione, applicandola immediatamente al caso presente.

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reine Erkenntnis p r a k t i s c h zu erweitern, muß eine A b s i c h t a priori gegeben sein, d. i. ein Zweck als Objekt (des Willens), welches unabhängig von allen theoretischen Grundsätzen, durch einen den Willen unmittelbar bestimmenden (kategorischen) Imperativ, als praktisch notwendig vorgestellt wird; und das ist hier das h ö c h s t e G u t . Dieses ist aber nicht möglich, ohne drei theoretische Begriffe (für die sich, weil sie bloße reine Vernunftbegriffe sind, | keine korrespondierende Anschauung, mithin auf dem theoretischen Wege keine objektive Realität finden läßt) vorauszusetzen: nämlich Freiheit, Unsterblichkeit und Gott. Also wird durchs praktische Gesetz, welches die Existenz des höchsten in einer Welt möglichen Guts gebietet, die Möglichkeit jener Objekte der reinen spekulativen Vernunft, die objektive Realität, welche diese ihnen nicht sichern konnte, postuliert; wodurch denn die theoretische Erkenntnis der reinen Vernunft allerdings einen Zuwachs bekommt, der aber bloß darin besteht, daß jene für sie sonst problematischen (bloß denkbaren) Begriffe jetzt assertorisch für solche erklärt werden, denen wirklich Objekte zukommen, weil praktische Vernunft die Existenz derselben zur Möglichkeit ihres und zwar praktisch schlechthin notwendigen Objekts des höchsten Guts, unvermeidlich bedarf, und die theoretische dadurch berechtigt wird, sie vorauszusetzen. Diese Erweiterung der theoretischen Vernunft ist aber keine Erweiterung der Spekulation, d. i. um in t h e o r e t i s c h e r A b s i c h t nunmehr einen positiven Gebrauch davon zu machen. Denn da nichts weiter durch praktische Vernunft hierbei geleistet worden, als daß jene Begriffe real sind und wirklich ihre (möglichen) Objekte haben, dabei aber uns nichts von Anschauungen derselben gegeben wird (welches auch nicht gefordert werden kann), so ist kein synthetischer Satz durch diese eingeräumte Realität derselben möglich. Folglich hilft | uns diese Eröffnung nicht im mindesten in spekulativer Absicht, wohl aber in Ansehung des praktischen Gebrauchs der reinen Vernunft zur Erweiterung dieser unserer Erkenntnis. Die obigen drei Ideen der spekulativen Vernunft sind an sich noch keine Erkenntnisse; doch sind es (transzendente) G e d a n k e n , in denen nichts Unmögliches ist. Nun bekommen sie durch ein apodiktisches praktisches

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Per estendere p r a t i c a m e n t e una conoscenza pura dev’esser dato a p r i o r i un f i n e , cioè uno scopo, come oggetto (della volontà), che, indipendentemente da tutti i princìpi teoretici27, mediante un imperativo (categorico), che determini immediatamente la volontà, vien rappresentato come praticamente necessario; il che in questo caso è il s o m m o b e n e . Ma ciò non è possibile senza presupporre tre concetti teoretici (per i quali, giacché sono soltanto concetti razionali puri, non si può trovare nessuna intuizione corrispondente, e quindi, per la via teoretica, nessuna realtà oggettiva), e cioè: la libertà, l’immortalità e Dio. Dunque, mediante la legge pratica, la quale comanda l’esistenza del sommo bene possibile in un mondo, vien postulata la possibilità di quegli oggetti della ragion pura speculativa, la realtà oggettiva che questa non poteva loro assicurare. Perciò la conoscenza teoretica della ragion pura riceve senza dubbio un incremento, il quale però consiste semplicemente in ciò, che quei concetti, per essa d’altronde problematici (semplicemente pensabili), adesso sono conosciuti in modo assertorio come tali a cui realmente convengono oggetti, perché la ragion pratica abbisogna inevitabilmente dell’esistenza di essi per la possibilità del suo oggetto, il sommo bene, che praticamente è assolutamente necessario; e quella teoretica perciò è giustificata a supporli. Ma questa estensione della ragione teoretica non è un’estensione della speculazione, per farne ormai un uso positivo nel r i s p e t t o t e o r e t i c o . Poiché, siccome mediante la ragion pratica non può esser fatto nient’altro, a questo proposito, se non dimostrare che quei concetti sono reali ed hanno realmente i loro oggetti (possibili), con questo non ci può esser dato niente che spetti all’intuizione di essi (il che non si può neanche esigere); così non è possibile alcuna proposizione sintetica mediante la realtà che si concede ad essi. Quindi questa scoperta non ci aiuta minimamente nel rispetto speculativo, all’estensione di questa nostra conoscenza, bensì relativamente all’uso pratico della ragion pura. Le tre idee menzionate della ragione speculativa non sono ancora in sé conoscenze; tuttavia sono p e n s i e r i (trascendenti), in cui non è contenuto niente d’impossibile. Ora, mediante una legge pratica apodittica, esse ricevono, come

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Gesetz als notwendige Bedingungen der Möglichkeit dessen, was dieses sich z u m O b j e k t e z u m a c h e n gebietet, objektive Realität, d. i. wir werden durch jenes angewiesen, d a ß s i e O b j e k t e h a b e n , ohne doch, wie sich ihr Begriff auf ein Objekt bezieht, anzeigen zu können, und das ist auch noch nicht Erkenntnis d i e s e r O b j e k t e ; denn man kann dadurch gar nichts über sie synthetisch urteilen noch die Anwendung derselben theoretisch bestimmen, mithin von ihnen gar keinen theoretischen Gebrauch der Vernunft machen, als worin eigentlich alle spekulative Erkenntnis derselben besteht. Aber dennoch ward die theoretische Erkenntnis z w a r n i c h t d i e s e r O b j e k t e , aber der Vernunft überhaupt dadurch sofern erweitert, daß durch die praktischen Postulate jenen Ideen doch O b j e k t e g e g e b e n wurden, indem ein bloß problematischer Gedanke dadurch allererst objektive Realität bekam. Also war es keine Erweiterung der Erkenntnis v o n g e g e b e n e n ü b e r s i n n l i c h e n G e g e n s t ä n d e n , aber doch eine Erweiterung der theoretischen Vernunft und | der Erkenntnis derselben in Ansehung des Übersinnlichen überhaupt, sofern als sie genötigt wurde, d a ß e s s o l c h e G e g e n s t ä n d e g e b e , einzuräumen, ohne sie doch näher bestimmen, mithin diese Erkenntnis von den Objekten (die ihr nunmehr aus praktischem Grunde und auch nur zum praktischen Gebrauche gegeben worden) selbst erweitern zu können, welchen Zuwachs also die reine theoretische Vernunft, für die alle jene Ideen transzendent und ohne Objekt sind, lediglich ihrem reinen praktischen Vermögen zu verdanken hat. Hier werden sie i m m a n e n t und k o n s t i t u t i v, indem sie Grunde der Möglichkeit sind, das n o t w e n d i g e O b j e k t der reinen praktischen Vernunft (das höchste Gut) w i r k l i c h z u m a c h e n , da sie ohne dies t r a n s z e n d e n t und bloß r e g u l a t i v e Prinzipien der spekulativen Vernunft sind, die ihr nicht ein neues Objekt über die Erfahrung hinaus anzunehmen, sondern nur ihren Gebrauch in der Erfahrung der Vollständigkeit zu nähern auferlegen. Ist aber die Vernunft einmal im Besitze dieses Zuwachses, so wird sie als spekulative Vernunft (eigentlich nur zur Sicherung ihres praktischen Gebrauchs) negativ, d. i. nicht erweiternd, sondern läuternd mit jenen Ideen zu Werke gehen, um einerseits den A n t h r o p o m o r p h i s m u s als den Quell der S u p e r s t i t i o n oder scheinbare Erweiterung jener Begriffe durch

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condizione necessaria della possibilità che questa legge comanda di p r e n d e r e p e r o g g e t t o , la realtà oggettiva: cioè mediante quella legge noi apprendiamo che e s s e h a n n o o g g e t t i , senza però poter dimostrare come il loro concetto si riferisca a un oggetto; e ciò non è ancora la conoscenza di q u e s t i o g g e t t i , poiché con ciò non si può punto giudicare di essi sinteticamente, né determinare teoreticamente la loro applicazione, e quindi non se ne può fare alcun uso teoretico con la ragione, nel che consiste propriamente ogni conoscenza speculativa di essi. Ma tuttavia la conoscenza teoretica, non c e r t a m e n t e d i q u e s t i o g g e t t i , ma della ragione in genere, fu estesa, in questo senso che, mediante i postulati pratici, furono tuttavia d a t i o g g e t t i a quelle idee, in quanto un pensiero semplicemente problematico ricevette soltanto da ciò realtà oggettiva. Quindi con ciò non vi è alcuna estensione della conoscenza di d a t i o g g e t t i s o p r a s e n s i b i l i , ma tuttavia un’estensione della ragion teoretica e della conoscenza di essa rispetto al soprasensibile in generale, in quanto essa è obbligata ad ammettere che v i s o n o t a l i o g g e t t i , senza però poterli determinare di più, e quindi senza poter estendere questa conoscenza degli oggetti (che ora le sono dati soltanto per un principio pratico, ed anche soltanto per l’uso pratico). Il quale incremento, dunque, la ragion pura teoretica, per cui tutte quelle idee sono trascendenti e senza oggetto, lo deve soltanto alla sua facoltà pura pratica. Qui esse diventano i m m a n e n t i e c o s t i t u t i v e , perché sono princìpi della possibilità di realizzare l’ o g g e t t o n e c e s s a r i o della ragion pura pratica (il sommo bene), giacché, senza ciò, sono princìpi t r a s c e n d e n t i e semplicemente r e g o l a t i v i della ragione speculativa, i quali le impongono, non di ammettere un nuovo oggetto oltre l’esperienza, ma soltanto di avvicinare alla perfezione il suo uso nell’esperienza. Ma una volta che la ragione è in possesso di questo incremento, essa, come ragione speculativa, tratterà (propriamente solo per assicurare il suo uso pratico) quelle idee negativamente, cioè non estendendole, ma chiarendole, per impedire da una parte l’ a n t r o p o m o r f i s m o come origine della s u p e r s t i z i o n e , ossia l’estensione apparente di quei concetti mediante una prete-

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vermeinte Erfahrung, andererseits den F a n a t i z i s m u s , der sie durch übersinnliche Anschauung oder der|gleichen Gefühle verspricht, abzuhalten; welches alles Hindernisse des praktischen Gebrauchs der reinen Vernunft sind, deren Abwehrung also zu der Erweiterung unserer Erkenntnis in praktischer Absicht allerdings gehört, ohne daß es dieser widerspricht, zugleich zu gestehen, daß die Vernunft in spekulativer Absicht dadurch im mindesten nichts gewonnen habe. Zu jedem Gebrauch der Vernunft in Ansehung eines Gegenstandes werden reine Verstandesbegriffe (K a t e g o r i e n ) erfordert, ohne die kein Gegenstand gedacht werden kann. Diese können zum theoretischen Gebrauche der Vernunft, d. i. zu dergleichen Erkenntnis nur angewandt werden, sofern ihnen zugleich Anschauung (die jederzeit sinnlich ist) untergelegt wird, und also bloß, um durch sie ein Objekt möglicher Erfahrung vorzustellen. Nun sind hier aber I d e e n der Vernunft, die in gar keiner Erfahrung gegeben werden können, das, was ich durch Kategorien denken müßte, um es zu erkennen. Allein es ist hier auch nicht um die theoretische Erkenntnis der Objekte dieser Ideen, sondern nur darum, daß sie überhaupt Objekte haben, zu tun. Diese Realität verschafft reine praktische Vernunft, und hierbei hat die theoretische Vernunft nichts weiter zu tun, als jene Objekte durch Kategorien bloß zu d e n k e n , welches, wie wir sonst deutlich gewiesen haben, ganz wohl, ohne Anschauung (weder sinnliche noch übersinnliche) zu bedürfen, angeht, weil die Ka|tegorien im reinen Verstande unabhängig und vor aller Anschauung, lediglich als dem Vermögen zu denken, ihren Sitz und Ursprung haben, und sie immer nur ein Objekt überhaupt bedeuten, a u f w e l c h e A r t e s u n s a u c h i m m e r g e g e b e n w e r d e n m a g . Nun ist den Kategorien, sofern sie auf jene Ideen angewandt werden sollen, zwar kein Objekt in der Anschauung zu geben möglich; es ist ihnen aber doch, d a ß e i n s o l c h e s w i r k l i c h s e i , mithin die Kategorie als eine bloße Gedankenform hier nicht leer sei, sondern Bedeutung habe, durch ein Objekt, welches die praktische Vernunft im Begriff des höchsten Guts ungezweifelt darbietet, die R e a l i t ä t d e r B e g r i f f e , die zum Behuf der Möglichkeit des höchsten Guts gehören, hinreichend gesichert, ohne gleichwohl durch diesen Zuwachs die mindeste Erweiterung der Erkenntnis nach theoretischen Grundsätzen zu bewirken.

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sa esperienza, d’altra parte il f a n a t i s m o , che promette questa estensione mediante un’intuizione soprasensibile o con sentimenti della stessa fatta. Questi sono tutti ostacoli all’uso pratico della ragion pura; e rimuoverli si richiede senza dubbio per la estensione della nostra conoscenza nel rispetto pratico, senza che contraddica a questo il riconoscere, nello stesso tempo, che la ragione nel rispetto speculativo non ne ha guadagnato minimamente. Per ogni uso della ragione relativamente a un oggetto si richiedono concetti puri dell’intelletto ( c a t e g o r i e ) , senza i quali non si può pensare nessun oggetto. Questi possono essere applicati soltanto all’uso teoretico della ragione, cioè a tale conoscenza, in quanto nello stesso tempo viene sottoposta ad essi un’intuizione (che è sempre sensibile), e quindi semplicemente per rappresentare mediante essi un oggetto di un’esperienza possibile. Ora, le i d e e della ragione, che non possono essere date in nessuna esperienza, sono ciò che, per conoscere, io dovrei pensare mediante le categorie. Ma qui non si tratta neanche della conoscenza teoretica degli oggetti di queste idee, sibbene soltanto del fatto che esse hanno degli oggetti in genere. Questa realtà la procura la ragion pura pratica, e perciò la ragion teoretica non ha nient’altro da fare che p e n s a r e quegli oggetti mediante le categorie; il che avviene benissimo, come del resto abbiamo già dimostrato chiaramente, senza bisogno d’intuizione (né sensibile, né soprasensibile); perché le categorie hanno la loro sede ed origine nell’intelletto puro, indipendentemente e prima di ogni intuizione, soltanto nella facoltà di pensare, e significano sempre soltanto un oggetto in genere, i n q u a l u n q u e m o d o q u e s t o c i p o s s a e s s e r d a t o . Ora alle categorie, in quanto devono esser applicate a quelle idee, non è certamente possibile dare un oggetto nell’intuizione; m a c h e u n t a l e o g g e t t o s i a r e a l m e n t e , e quindi che la categoria qui non sia vuota, come una semplice forma di pensiero, ma abbia significato, è assicurato abbastanza mediante un oggetto che la ragion pratica presenta in modo indubitabile: l a r e a l t à d e i c o n c e t t i , i quali appartengono alla possibilità del sommo bene; senza produrre tuttavia mediante questo incremento la minima estensione della conoscenza quanto ai princìpi teoretici.

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Wenn nächstdem diese Ideen von Gott, einer intelligibelen Welt (dem Reiche Gottes) und der Unsterblichkeit durch Prädikate bestimmt werden, die von unserer eigenen Natur hergenommen sind, so darf man diese Bestimmung weder als Ve r s i n n l i c h u n g jener reinen Vernunftideen (Anthropomorphismen), noch als überschwengliche Erkenntnis ü b e r s i n n l i c h e r Gegenstände ansehen; denn diese Prädikate sind keine anderen als | Verstand und Wille, und zwar so im Verhältnisse gegeneinander betrachtet, als sie im moralischen Gesetze gedacht werden müssen, also nur, soweit von ihnen ein reiner praktischer Gebrauch gemacht wird. Von allem übrigen, was diesen Begriffen psychologisch anhängt, d. i. sofern wir diese unsere Vermögen i n i h r e r A u s ü b u n g empirisch beobachten (z. B. daß der Verstand des Menschen diskursiv ist, seine Vorstellungen also Gedanken, nicht Anschauungen sind, daß diese in der Zeit aufeinander folgen, daß sein Wille immer mit einer Abhängigkeit der Zufriedenheit von der Existenz seines Gegenstandes behaftet ist usw., welches im höchsten Wesen so nicht sein kann), wird alsdann abstrahiert; und so bleibt von den Begriffen, durch die wir uns ein reines Verstandeswesen denken, nichts mehr übrig, als gerade zur Möglichkeit erforderlich ist, sich ein moralisch Gesetz zu denken, mithin zwar eine Erkenntnis Gottes, aber nur in praktischer Beziehung; wodurch, wenn wir den Versuch machen, sie zu einer theoretischen zu erweitern, wir einen Verstand desselben bekommen, der nicht denkt, sondern a n s c h a u t , einen Willen, der auf Gegenstände gerichtet ist, von deren Existenz seine Zufriedenheit nicht im mindesten abhängt (ich will nicht einmal der transzendentalen Prädikate erwähnen, als z. B. eine Größe der Existenz, d. i. Dauer, die aber nicht in der Zeit, als dem einzigen uns möglichen Mittel, uns Dasein als Größe vorzustel|len, stattfindet): lauter Eigenschaften, von denen wir uns gar keinen Begriff, zur E r k e n n t n i s des Gegenstandes tauglich, machen können, und dadurch belehrt werden, daß sie niemals zu einer T h e o r i e von übersinnlichen Wesen gebraucht werden können und also auf dieser Seite eine spekulative Erkenntnis zu gründen gar nicht vermögen, sondern ihren Gebrauch lediglich auf die Ausübung des moralischen Gesetzes einschränken. Dieses letztere ist so augenscheinlich und kann so klar durch die Tat bewiesen werden, daß man getrost alle vermeinten n a t ü r -

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Se, oltre a ciò, queste idee di Dio, di un mondo intelligibile (il regno di Dio) e dell’immortalità, vengono determinate mediante predicati tratti dalla nostra natura, non si può considerare questa determinazione né come r a p p r e s e n t a z i o n e s e n s i b i l e di quelle idee razionali pure (antropomorfismo), né come conoscenza trascendente di oggetti s o p r a s e n s i b i l i ; questi predicati, infatti, non sono altro che intelletto e volontà, e considerati in relazione l’uno all’altra così come devono esser concepiti nella legge morale, e dunque solo in quanto si fa di essi un uso puro pratico. Si astrae allora da tutto il resto che dipende psicologicamente da questi concetti, cioè in quanto noi osserviamo empiricamente queste nostre facoltà nel l o r o e s e r c i z i o (per es., che l’intelletto dell’uomo è discorsivo, che le sue rappresentazioni sono pensieri e non intuizioni, che queste rappresentazioni si succedono nel tempo, che la sua volontà ha sempre la sua soddisfazione dipendente dall’esistenza del suo oggetto, ecc.; il che non può accadere nell’essere supremo), e così dei concetti, mediante i quali noi ci rappresentiamo un essere puro dell’intelletto, non rimane altro se non ciò che si richiede per la possibilità di concepire una legge morale, e quindi bensì una conoscenza di Dio, ma soltanto nel rispetto pratico. Perciò, se noi tentiamo di estendere questa conoscenza a un punto di vista teoretico, noi abbiamo sotto questo riguardo un intelletto il quale non pensa ma i n t u i s c e , una volontà che è diretta ad oggetti, dalla cui esistenza non dipende minimamente la sua soddisfazione (non voglio nemmeno menzionare i predicati trascendentali, come per es. una grandezza dell’esistenza, cioè la durata, che però non ha luogo nel tempo, come nell’unico mezzo possibile a noi di rappresentarci l’esistenza come grandezza); semplici proprietà, delle quali noi non ci possiamo assolutamente fare un concetto che sia adatto alla c o n o s c e n z a dell’oggetto; e così siamo istruiti che esse non possono mai essere usate per una t e o r i a degli esseri soprasensibili, e quindi, da questo lato, non rendono mai possibile stabilire una conoscenza speculativa, ma limitano il loro uso soltanto alla pratica della legge morale. Quest’ultimo punto è così evidente, e può esser dimostrato così chiaramente mediante il fatto, che si possano invitare fran-

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l i c h e n G o t t e s g e l e h r t e n (ein wunderlicher Name)* auffordern kann, auch nur eine diesen ihren Gegenstand (über die bloß ontologischen Prädikate hinaus) bestimmende Eigenschaft, etwa des Verstandes oder des Willens zu nennen, an der man nicht unwidersprechlich dartun könnte, daß, wenn man | alles Anthropomorphistische davon absondert, uns nur das bloße Wort übrig bleibe, ohne damit den mindesten Begriff verbinden zu können, dadurch eine Erweiterung der theoretischen Erkenntnis gehofft werden dürfte. In Ansehung des Praktischen aber bleibt uns von den Eigenschaften eines Verstandes und Willens doch noch der Begriff eines Verhältnisses übrig, welchem das praktische Gesetz (das gerade dieses Verhältnis des Verstandes zum Willen a priori bestimmt) objektive Realität verschafft. Ist dieses nun einmal geschehen, so wird dem Begriffe des Objekts eines moralisch bestimmten Willens (dem des höchsten Guts) und mit ihm den Bedingungen seiner Möglichkeit, den Ideen von Gott, Freiheit und Unsterblichkeit, auch Realität, aber immer nur in Beziehung auf die Ausübung des moralischen Gesetzes (zu keinem spekulativen Behuf) gegeben. Nach diesen Erinnerungen ist nun auch die Beantwortung der wichtigen Frage leicht zu finden: o b d e r B e g r i f f v o n G o t t e i n z u r P h y s i k (mithin auch zur Metaphysik, als die nur die reinen Prinzipien a priori der ersteren in allgemeiner Bedeutung enthält), o d e r e i n z u r M o r a l g e h ö r i g e r B e g r i f f s e i ? Natureinrichtungen oder deren Veränderung zu e r k l ä r e n , wenn man da zu Gott als dem Urheber aller Dinge seine Zuflucht nimmt, ist wenigstens keine physische Erklärung und überall ein Geständnis, man sei mit seiner Philosophie zu Ende: weil man genötigt ist, etwas, wovon | man sonst für sich keinen Begriff hat, anzunehmen, um sich von der Möglichkeit dessen, was man vor Augen sieht, ei* G e l e h r s a m k e i t ist eigentlich nur ein Inbegriff h i s t o r i s c h e r Wissenschaften. Folglich kann nur der Lehrer der geoffenbarten Theologie ein G o t t e s g e l e h r t e r heißen. Wollte man aber auch den, der im Besitze von Vernunftwissenschaften (Mathematik und Philosophie) ist, einen Gelehrten nennen, obgleich dieses schon der Wortbedeutung (als die jederzeit nur dasjenige, welches durchaus g e l e h r t werden muß, und was man also nicht von selbst durch Vernunft erfinden kann, zur Gelehrsamkeit zählt) widerstreiten würde: so möchte wohl der Philosoph mit seiner Erkenntnis Gottes als positiver Wissenschaft eine zu schlechte Figur machen, um sich deshalb einen G e l e h r t e n nennen zu lassen.

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camente tutti i pretesi d o t t i i n t e o l o g i a n a t u r a l e (nome stravagante*) a indicare anche solo una proprietà, o dell’intelletto o della volontà, che determini questo loro oggetto (oltre ai predicati semplicemente ontologici), nella quale non si possa dimostrare in modo incontestabile che, se ne vien separato ogni antropomorfismo, ci rimane soltanto la semplice parola, senza potervi congiungere il minimo concetto per cui si possa sperare un’estensione della conoscenza teoretica. Ma, relativamente all’uso pratico, ci rimane ancora della proprietà di un intelletto e di una volontà il concetto di una relazione a cui la legge pratica (che appunto determina a p r i o r i questa relazione dell’intelletto alla volontà) procura la realtà oggettiva. Una volta che ciò è avvenuto, viene anche data la realtà al concetto dell’oggetto di una volontà determinata moralmente (al concetto del sommo bene), e, con esso, alle condizioni della sua possibilità, alle idee di Dio, della libertà e dell’immoralità, ma sempre soltanto in relazione alla pratica della legge morale (per nessuno scopo speculativo). Ora, dopo queste osservazioni, è facile trovare anche la risposta all’importante questione: s e i l c o n c e t t o d i D i o s i a u n c o n c e t t o a p p a r t e n e n t e a l l a f i s i c a (quindi anche alla metafisica, come quella che contiene soltanto i princìpi puri a p r i o r i della prima in senso universale), o p p u r e a l l a m o r a l e . S p i e g a r e le disposizioni naturali o le loro mutazioni col ricorrere a Dio come all’autore di tutte le cose, non è certo un spiegazione fisica, ed è sempre un confessare che è finita per la propria filosofia; poiché si è costretti ad ammettere qualcosa di cui non si ha del resto nessun concetto per sé, per potersi fare un concetto della possibilità di ciò che si ha davan* «Gelehrsamkeit» non è propriamente che l’insieme di tutte le scienze s t o r i c h e . Per conseguenza soltanto il professore di teologia rivelata si può chiamare «Gottesgelehrte». Ma se si volesse chiamare «Gelehrte» anche colui che ha il possesso di scienze razionali (matematica e filosofia), benché ciò contraddica già al senso della parola (come quella che ascrive a «Gelehrsamkeit» sempre solo quello, in cui si deve affatto venir i s t r u i t o , e che quindi non si può trovare da sé, mediante la ragione); allora il filosofo con la sua conoscenza di Dio, come scienza positiva, farebbe una figura troppo cattiva per farsi chiamare perciò un «Gelehrte».

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nen Begriff machen zu können. Durch Metaphysik aber von der Erkenntnis d i e s e r Welt zum Begriffe von Gott und dem Beweise seiner Existenz d u r c h s i c h e r e S c h l ü s s e zu gelangen, ist darum unmöglich, weil wir diese Welt als das vollkommenste mögliche Ganze, mithin zu diesem Behuf alle mögliche Welten (um sie mit dieser vergleichen zu können) erkennen, mithin allwissend sein müßten, um zu sagen, daß sie nur durch einen G o t t (wie wir uns diesen Begriff denken müssen) möglich war. Vollends aber die Existenz dieses Wesens aus bloßen Begriffen zu erkennen, ist schlechterdings unmöglich, weil ein jeder Existentialsatz, d. i. der, so von einem Wesen, von dem ich mir einen Begriff mache, sagt, daß es existiere, ein synthetischer Satz ist, d. i. ein solcher, dadurch ich über jenen Begriff hinausgehe und mehr von ihm sage, als im Begriffe gedacht war: nämlich daß diesem Begriffe im Ve r s t a n d e noch ein Gegenstand a u ß e r d e m Ve r s t a n d e korrespondierend gesetzt sei, welches offenbar unmöglich ist durch irgend einen Schluß herauszubringen. Also bleibt nur ein einziges Verfahren für die Vernunft übrig, zu dieser Erkenntnis zu gelangen, da sie nämlich als reine Vernunft von dem obersten Prinzip ihres reinen praktischen Gebrauchs ausgehend (indem dieser ohnedem bloß auf die E x i s t e n z von Etwas als Folge der Vernunft gerichtet ist) ihr | Objekt bestimmt. Und da zeigt sich nicht allein in ihrer unvermeidlichen Aufgabe, nämlich der notwendigen Richtung des Willens auf das höchste Gut, die Notwendigkeit, ein solches Urwesen in Beziehung auf die Möglichkeit dieses Guten in der Welt anzunehmen, sondern, was das Merkwürdigste ist, etwas, was dem Fortgange der Vernunft auf dem Naturwege ganz mangelte, nämlich e i n g e n a u b e s t i m m t e r B e g r i f f d i e s e s U r w e s e n s . Dawir diese Welt nur zu einem kleinen Teile kennen, noch weniger sie mit allen möglichen Welten vergleichen können, so können wir von ihrer Ordnung, Zweckmäßigkeit und Größe wohl auf einen w e i s e n , g ü t i g e n , m ä c h t i g e n usw. Urheber derselben schließen, aber nicht auf seine A l l w i s s e n h e i t , A l l g ü t i g k e i t , A l l m a c h t usw. Man kann auch gar wohl einräumen, daß man diesen unvermeidlichen Mangel durch eine erlaubte, ganz vernünftige

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ti agli occhi. Ma giungere mediante la metafisica dalla conoscenza di q u e s t o mondo al concetto di Dio e alla prova della sua esistenza mediante r a g i o n a m e n t i s i c u r i , ciò è impossibile per il fatto che noi dovremmo conoscere questo mondo come il tutto più perfetto possibile; quindi, a quest’effetto, dovremmo conoscere tutti i mondi possibili (per poterli confrontare con questo), e quindi essere onniscienti, per dire che esso fu possibile solo mediante un Dio (come dobbiamo pensare questo concetto). Ma, oltre a ciò, è assolutamente impossibile conoscere l’esistenza di quest’essere per semplici concetti, perché una proposizione esistenziale, che cioè afferma l’esistenza di un essere di cui mi faccio un concetto, è una proposizione sintetica, cioè una proposizione per la quale io vado oltre quel concetto, e dico più di quel che fu pensato nel concetto, e cioè che a questo concetto n e l l ’ i n t e l l e t t o corrisponde anche un oggetto f u o r i d e l l ’ i n t e l l e t t o , che manifestamente è impossibile produrre mediante alcun ragionamento. Alla ragione, dunque, rimane soltanto un unico procedimento per giungere a questa conoscenza, e cioè quando essa, come ragione pura, determina il suo oggetto partendo dal principio supremo del suo uso puro pratico (poiché quest’uso è diretto, del resto, semplicemente a l l ’ e s i s t e n z a di qualcosa come conseguenza della ragione). E allora appare, non solo nel suo còmpito inevitabile, cioè nella tendenza necessaria della volontà al sommo bene, la necessità di ammettere un tale essere primordiale in relazione alla possibilità di questo bene nel mondo; ma, quel che è più mirabile, qualcosa che mancava affatto al progresso della ragione nella via naturale, e cioè u n c o n c e t t o e s a t t a m e n t e d e t e r m i n a t o d i q u e s t ’ e s s e r e o r i g i n a r i o . Siccome noi conosciamo questo mondo soltanto in una piccola parte, e ancora meno lo possiamo confrontare con tutti i mondi possibili, così possiamo bensì arguire dall’ordine, dalla finalità e dalla grandezza di esso, u n a u t o r e di esso, s a g g i o , b u o n o , p o t e n t e , ecc., ma non la o n n i s c i e n z a , b o n t à i n f i n i t a , o n n i p o t e n z a , ecc. di questo autore. Si può anche benissimo ammettere che si è in diritto di supplire a questa mancanza inevitabile mediante l’ipotesi permessa e affatto raziona-

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Hypothese zu ergänzen wohl befugt sei: daß nämlich, wenn in soviel Stücken, als sich unserer näheren Kenntnis darbieten, Weisheit, Gütigkeit usw. hervorleuchtet, in allen übrigen es ebenso sein werde und es also vernünftig sei, dem Welturheber alle mögliche Vollkommenheit beizulegen; aber das sind keine S c h l ü s s e , wodurch wir uns auf unsere Einsicht etwas dünken: sondern nur Befugnisse, die man uns nachsehen kann, und doch noch einer anderweitigen Empfehlung bedürfen, um davon Gebrauch zu machen. Der Begriff von Gott bleibt also auf dem empirischen | Wege (der Physik) immer e i n n i c h t g e n a u b e s t i m m t e r B e g r i f f von der Vollkommenheit des ersten Wesens, um ihn dem Begriffe einer Gottheit für angemessen zu halten (mit der Metaphysik aber in ihrem transzendentalen Teile ist gar nichts auszurichten). Ich versuche nun diesen Begriff an das Objekt der praktischen Vernunft zu halten, und da finde ich, daß der moralische Grundsatz ihn nur als möglich unter Voraussetzung eines Welturhebers von h ö c h s t e r Vo l l k o m m e n h e i t zulasse. Er muß a l l w i s s e n d sein, um mein Verhalten bis zum Innersten meiner Gesinnung in allen möglichen Fällen und in alle Zukunft zu erkennen; a l l m ä c h t i g , um ihm die angemessenen Folgen zu erteilen; ebenso a l l g e g e n w ä r t i g , e w i g usw. Mithin bestimmt das moralische Gesetz durch den Begriff des höchsten Guts, als Gegenstandes einer reinen praktischen Vernunft, den Begriff des Urwesens a l s h ö c h s t e n We s e n s , welches der physische (und höher fortgesetzt der metaphysische), mithin der ganze spekulative Gang der Vernunft nicht bewirken konnte. Also ist der Begriff von Gott ein ursprünglich nicht zur Physik, d. i. für die spekulative Vernunft, sondern zur Moral gehöriger Begriff, und ebendas kann man auch von den übrigen Vernunftbegriffen sagen, von denen wir als Postulaten derselben in ihrem praktischen Gebrauche oben gehandelt haben. | Wenn man in der Geschichte der griechischen Philosophie über den A n a x a g o r a s hinaus keine deutlichen Spuren einer reinen Vernunfttheologie antrifft, so ist der Grund nicht darin gelegen, daß es den älteren Philosophen an Verstand und Einsicht fehlte, um durch den Weg der Spekulation, wenigstens mit Beihilfe einer ganz vernünftigen Hypothese, sich dahin zu erheben; was konnte leichter, was natürlicher sein, als der sich von selbst jeder-

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le: che cioè, se in tante parti, quante si offrono più da vicino alla nostra cognizione, si manifesta la saggezza, la bontà, ecc., sarà così in tutte le altre, e quindi è ragionevole attribuire ogni perfezione possibile all’autore del mondo; ma questi non sono r a g i o n a m e n t i , per cui ci possiamo vantare della nostra perspicacia, ma soltanto diritti che ci si può concedere, e che tuttavia abbisognano ancora di una raccomandazione da qualche altra parte perché se ne possa far uso. Dunque, nella via empirica (della fisica) il concetto di Dio rimane sempre u n c o n c e t t o n o n e s a t t a m e n t e d e t e r m i n a t o della perfezione dell’essere primo per poterlo ritenere adeguato al concetto di una divinità (ma non vi è proprio niente da ottenere dalla metafisica nella sua parte trascendentale). Ora, io tento di connettere questo concetto all’oggetto della ragion pratica; e qui trovo che il principio morale lo permette solo come possibile, con la supposizione di un autore del mondo che abbia la p e r f e z i o n e s u p r e m a . Egli deve essere o n n i s c i e n t e per conoscere la mia condotta fino all’ultimo della mia intenzione in tutti i casi possibili e per tutto l’avvenire; o n n i p o t e n t e , per dare alla mia condotta le conseguenze conformi; e così pure o n n i p r e s e n t e , e t e r n o , ecc. Quindi la legge morale, mediante il concetto del sommo bene come oggetto di una ragion pura pratica, determina il concetto dell’essere primordiale come essere supremo; il che il processo fisico (e andando più in alto il processo metafisico), e quindi l’intero processo speculativo della ragione, non poté effettuare. Dunque, il concetto di Dio è un concetto originale, che non appartiene alla fisica, e cioè non alla ragione speculativa, ma alla morale; e ciò appunto si può anche dire degli altri concetti razionali dei quali, come postulati della ragione nel suo uso pratico, abbiamo trattato di sopra. Se nella storia della filosofia greca, oltre ad A n a s s a g o r a , non s’incontrano tracce manifeste di una teologia razionale pura, il motivo non è nel fatto che gli antichi filosofi mancassero d’intelletto e di perspicacia per elevarsi a quella teologia per la via della speculazione, almeno con l’aiuto di un’ipotesi affatto razionale; che cosa poteva esser più facile, che cosa più natura-

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mann darbietende Gedanke, statt unbestimmter Grade der Vollkommenheit verschiedener Weltursachen eine einzige vernünftige anzunehmen, die a l l e Vo l l k o m m e n h e i t hat? Aber die Übel in der Welt schienen ihnen viel zu wichtige Einwürfe zu sein, um zu einer solchen Hypothese sich für berechtigt zu halten. Mithin zeigten sie darin eben Verstand und Einsicht, daß sie sich jene nicht erlaubten und vielmehr in den Naturursachen herumsuchten, ob sie unter ihnen nicht die zu Urwesen erforderliche Beschaffenheit und Vermögen antreffen möchten. Aber nachdem dieses scharfsinnige Volk soweit in Nachforschungen fortgerückt war, selbst sittliche Gegenstände, darüber andere Völker niemals mehr als geschwatzt haben, philosophisch zu behandeln: da fanden sie allererst ein neues Bedürfnis, nämlich ein praktisches, welches nicht ermangelte, ihnen den Begriff des Urwesens bestimmt anzugeben, wobei die spekulative Vernunft das Zusehen hatte, höchstens noch das Verdienst, einen Begriff, der nicht auf ihrem Boden er|wachsen war, auszuschmücken und mit einem Gefolge von Bestätigungen aus der Naturbetrachtung, die nun allererst hervortraten, wohl nicht das Ansehen desselben (welches schon gegründet war), sondern vielmehr nur das Gepränge mit vermeinter theoretischer Vernunfteinsicht zu befördern. Aus diesen Erinnerungen wird der Leser der Kritik der reinen spekulativen Vernunft sich vollkommen überzeugen, wie höchst nötig, wie ersprießlich für Theologie und Moral jene mühsame D e d u k t i o n der Kategorien war. Denn dadurch allein kann verhütet werden, sie, wenn man sie im reinen Verstande setzt, mit P l a t o für angeboren zu halten und darauf überschwengliche Anmaßungen mit Theorien des Übersinnlichen, wovon man kein Ende absieht, zu gründen, dadurch aber die Theologie zur Zauberlaterne von Hirngespenstern zu machen; wenn man sie aber für erworben hält, zu verhüten, daß man nicht mit E p i k u r allen und jeden Gebrauch derselben, selbst den in praktischer Absicht, bloß auf Gegenstände und Bestimmungsgründe der Sinne einschränke. Nun aber, nachdem die Kritik in jener Deduktion e r s t l i c h bewies, daß sie nicht empirischen Ursprungs sind, sondern a priori im reinen Verstande ihren Sitz und Quelle haben; z w e i t e n s auch, daß, da sie a u f G e g e n s t ä n d e ü b e r h a u p t unabhängig von ihrer Anschauung bezogen wer|den, sie zwar nur in Anwendung auf e m p i r i s c h e Gegenstände theoretische E r k e n n t n i s zu-

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le del pensiero, che si presenta da se stesso a ognuno, di ammettere, invece di gradi indeterminati di perfezione nelle cause diverse del mondo, una causa unica razionale che ha o g n i p e r f e z i o n e ? Ma i mali nel mondo sembrava loro che fossero obbiezioni troppo importanti per ritenersi in diritto di fare una tale ipotesi. Quindi essi dimostravano intelligenza e perspicacia appunto in ciò, che non si permettevano quell’ipotesi, e piuttosto ricercavano nelle cause naturali, se tra di esse potessero trovare la qualità e il potere necessari all’essere primordiale. Ma dopo che questo popolo acuto progredì nelle sue ricerche tanto da trattare filosoficamente anche gli oggetti morali, su cui gli altri popoli non avevano mai fatto altro che chiacchierare, allora soltanto sentì un nuovo bisogno, cioè un bisogno pratico, che non mancò di indicargli in modo determinato il concetto dell’essere primordiale. In ciò la ragione speculativa stava a vedere, e tutt’al più aveva ancora il merito di abbellire un concetto che non era nato sul suo terreno, e di giovare, con una serie di conferme tratte soltanto allora dall’osservazione della natura, non certamente all’autorità di esso (che era già stata stabilita), ma, per contrario, unicamente al lusso di una presunta perspicacia della ragion teoretica. Da queste osservazioni il lettore della Critica della ragion pura speculativa si convincerà perfettamente di quanto fosse necessaria, quanto giovevole per la teologia e la morale, quella laboriosa d e d u z i o n e delle categorie. Poiché solo per ciò si potrà impedire, se si pongono nell’intelletto puro, di ritenerle con Platone innate, e di stabilire su di ciò le pretese trascendenti a teorie del soprasensibile di cui non si vede nessun fine, facendo così della teologia una lanterna magica di fantasmi; mentre se si considerino come acquistate, s’impedisce di limitare con Epicuro ogni uso di esse, anche nel rispetto pratico, semplicemente agli oggetti e ai motivi determinanti dei sensi. Ora, tuttavia, dopo che la critica in quella deduzione ha dimostrato, in p r i m o l u o g o , che esse non sono di origine empirica, ma hanno la loro sede ed origine a priori nell’intelletto puro; e, in s e c o n d o l u o g o che, essendo riferite a g l i o g g e t t i i n g e n e r e , indipendentemente dalla loro intuizione, esse producono, ancor-

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stande bringen, aber doch auch, auf einen durch reine praktische Vernunft gegebenen Gegenstand angewandt, zum b e s t i m m t e n D e n k e n des Ü b e r s i n n l i c h e n dienen, jedoch nur, sofern dieses bloß durch solche Prädikate bestimmt wird, die notwendig zur reinen, a priori gegebenen p r a k t i s c h e n A b s i c h t und deren Möglichkeit gehören. Spekulative Einschränkung der reinen Vernunft und praktische Erweiterung derselben bringen dieselbe allererst in dasjenige Ve r h ä l t n i s d e r G l e i c h h e i t , worin Vernunft überhaupt zweckmäßig gebraucht werden kann, und dieses Beispiel beweist besser als sonst eines, daß der Weg zur We i s h e i t , wenn er gesichert und nicht ungangbar oder irreleitend werden soll, bei uns Menschen unvermeidlich durch die Wissenschaft durchgehen müsse, wovon man aber, daß diese zu jenem Ziele führe, nur nach Vollendung derselben überzeugt werden kann. VIII. Vom Fürwahrhalten aus einem Bedürfnisse der reinen Vernunft. 256

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Ein B e d ü r f n i s der reinen Vernunft in ihrem spekulativen Gebrauche führt nur auf H y p o t h e s e n , das der | reinen praktischen Vernunft aber zu P o s t u l a t e n ; denn im ersteren Falle steige ich vom Abgeleiteten so hoch hinauf in der Reihe der Gründe, w i e i c h w i l l , und bedarf eines Urgrundes, nicht um jenem Abgeleiteten (z. B. der Kausalverbindung der Dinge und Veränderungen in der Welt) objektive Realität zu geben, sondern nur um meine forschende Vernunft in Ansehung desselben vollständig zu befriedigen. So sehe ich Ordnung und Zweckmäßigkeit in der Natur vor mir und bedarf nicht, um mich von deren W i r k l i c h k e i t zu versichern, zur Spekulation zu schreiten, sondern nur, um sie zu e r k l ä r e n , e i n e G o t t h e i t als deren Ursache v o r a u s z u s e t z e n , da denn, weil von einer Wirkung der Schluß auf eine bestimmte, vornehmlich so genau und so vollständig bestimmte Ursache, als wir an Gott zu denken haben, immer unsicher und mißlich ist, eine solche Voraussetzung nicht weiter gebracht werden kann, als zu dem Grade der für uns Menschen allervernünftigsten Meinung.* Da|gegen ist ein Bedürfnis der reinen praktischen Ver* Aber selbst auch hier würden wir nicht ein Bedürfnis d e r Ve r n u n f t vorschützen können, läge nicht ein problematischer, aber doch unvermeidlicher

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ché solamente in applicazione ad oggetti e m p i r i c i , una c o n o s c e n z a t e o r e t i c a , tuttavia, applicate a un oggetto dato mediante la ragion pura pratica, servono anche a una c o n c e z i o n e d e t e r m i n a t a del s o p r a s e n s i b i l e in quanto vien determinato mediante predicati che appartengono necessariamente al f i n e p u r o p r a t i c o d a t o a p r i o r i , e alla possibilità di questo. La limitazione speculativa della ragion pura e l’estensione pratica di essa, la conducono a quella r e l a z i o n e d ’ u g u a g l i a n z a in cui la ragione in generale può essere usata in conformità a uno scopo; e quest’esempio dimostra meglio di qualunque altro che la via alla s a g g e z z a , se dev’essere assicurata, e non impraticabile, né tale che ci faccia smarrire, per noi uomini deve inevitabilmente passare attraverso la scienza; ma soltanto dopo il suo compimento, si può esser convinti che essa conduce a quello scopo. VIII. Dell’adesione che deriva da un bisogno della ragion pura. Un bisogno della ragion pura nel suo uso speculativo conduce soltanto a i p o t e s i ; quello invece della ragion pura pratica a p o s t u l a t i ; nel primo caso, infatti, io salgo dal derivato tanto in alto, q u a n t o v o g l i o , nella serie dei princìpi, e abbisogno di un primo principio, non per dare a quel derivato (per es., al legame causale delle cose e delle mutazioni del mondo) la realtà oggettiva, ma soltanto per appagare completamente, rispetto a quel derivato, la mia ragione investigatrice. Così io vedo innanzi a me ordine e finalità nella natura, e per accertarmi della r e a l t à di essi non ho bisogno di passare alla speculazione, ma per s p i e g a r l i , ho bisogno soltanto di s u p p o r r e u n a d i v i n i t à come causa di essi; e poiché la conclusione da un effetto a una causa determinata, come lo dobbiamo pensare in Dio, è sempre incerta e dubbiosa, una tale supposizione non può essere portata a un grado più alto di quello che, per noi uomini, è l’opinione più razionale*. Invece un bisogno della r a * Ma anche qui noi non potremmo addurre per iscusa un bisogno della r a g i o n e , se non ci stesse davanti agli occhi un concetto problematico, e tuttavia

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nunft auf einer Pflicht gegründet, etwas (das höchste Gut) zum Gegenstande meines Willens zu machen, um es nach allen meinen Kräften zu befördern; wobei ich aber die Möglichkeit desselben, mithin auch die Bedingungen dazu, nämlich Gott, Freiheit und Unsterblichkeit, voraussetzen muß, weil ich diese durch meine spekulative Vernunft nicht beweisen, obgleich auch nicht widerlegen kann. Diese Pflicht gründet sich auf einem freilich von diesen letzteren Voraussetzungen ganz unabhängigen, für sich selbst apodiktisch gewissen, nämlich dem moralischen Gesetze und ist sofern keiner anderweitigen Ünterstützung durch theoretische Meinung von der inneren Beschaffenheit der Dinge, der geheimen Abzweckung der Weltordnung oder eines ihr vorstehenden Regierers bedürftig, um uns auf das Vollkommenste zu unbedingt gesetzmäßigen Handlungen zu verbinden. Aber der subjektive Effekt dieses Gesetzes, nämlich die ihm angemessene und durch dasselbe auch notwendige G e s i n n u n g , das praktisch mögliche höchste Gut zu befördern, setzt doch wenigstens voraus, daß das letztere m ö g l i c h sei, widrigenfalls es praktisch unmöglich wäre, dem Objekte eines Begriffes nachzustreben, welcher im Grunde leer und ohne Objekt wäre. Nun betreffen obige | Postulate nur die physischen oder metaphysischen, mit einem Worte in der Natur der Dinge liegenden Bedingungen der M ö g l i c h k e i t des höchsten Guts, aber nicht zum Behuf einer beliebigen spekulativen Absicht, sondern eines praktisch notwendigen Zwecks des reinen Vernunftwillens, der hier nicht w ä h l t , sondern einem unnachlaßlichen Vernunftgebote g e h o r c h t , welches seinen Grund o b j e k t i v in der Beschaffenheit der Dinge hat, sowie sie durch reine Vernunft allgemein beurteilt werden müssen, und gründet sich nicht etwa auf N e i g u n g , die zum Behuf dessen, was wir aus b l o ß s u b j e k t i v e n Gründen w ü n s c h e n , sofort die Mittel dazu als möglich oder den Gegenstand wohl gar als wirklich anzunehmen keineswegs berechtigt ist. Also ist dieses ein B e d ü r f n i s

Begriff der Vernunft vor Augen, nämlich der eines schlechterdings notwendigen Wesens. Dieser Begriff will nun bestimmt sein, und das ist, wenn der Trieb zur Erweiterung dazu kommt, der objektive Grund eines Bedürfnisses der spekulativen Vernunft, nämlich den Begriff eines notwendigen Wesens, welches anderen zum Urgrunde dienen soll, näher zu bestimmen, und dieses letzte also wo257 durch kenntlich zu machen. Ohne solche vorausgehende notwendige Pro|bleme gibt es keine B e d ü r f n i s s e , wenigstens nicht der r e i n e n Ve r n u n f t ; die übrigen sind Bedürfnisse der N e i g u n g .

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g i o n p u r a p r a t i c a è fondato su un d o v e r e di fare di qualcosa (del sommo bene) l’oggetto della mia volontà, per promuoverlo con tutte le mie forze; ma, in questo caso, io devo supporne la possibilità, e quindi anche le condizioni, e cioè Dio, la libertà e l’immortalità, perché non le posso dimostrare mediante la mia ragione speculativa, quantunque non le possa neanche confutare. Questo dovere si fonda su una legge, invero affatto indipendente da queste ultime supposizioni, e apoditticamente certa per se stessa, cioè sulla legge morale; e in questo senso non ha bisogno di un ulteriore appoggio dell’opinione teoretica sulla natura interna delle cose, sul fine recondito dell’ordine del mondo, oppure su un reggitore che lo governi per obbligarci nel modo più completo ad azioni incondizionatamente conformi alla legge. Ma l’effetto soggettivo di questa legge, cioè l ’ i n t e n z i o n e conforme ad essa, e anche necessaria mediante essa, di promuovere il sommo bene praticamente possibile, suppone almeno che questo bene sia p o s s i b i l e ; altrimenti sarebbe praticamente impossibile aspirare all’oggetto di un concetto che in fondo fosse vuoto e senza oggetto. Ora i postulati menzionati riguardano soltanto le condizioni fisiche o metafisiche della p o s s i b i l i t à del sommo bene; in una parola, quelle che sono nella natura delle cose, non per un fine speculativo arbitrario, ma per un fine praticamente necessario della volontà razionale pura, che qui non s c e g l i e , ma o b b e d i s c e a un precetto inflessibile della ragione, che ha il suo fondamento, o g g e t t i v a m e n t e , nella natura delle cose come devono essere giudicate universalmente mediante la ragion pura, e non si fonda già su u n ’ i n c l i n a z i o n e , la quale, allo scopo di ciò che d e s i d e r i a m o per motivi semplicemente s o g g e t t i v i , non ha assolutamente il diritto di ammettere senz’altro come possibili i mezzi, oppure come affatto reale l’oggetto. Questo è, dunque, un

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inevitabile della ragione, cioè quello di un essere assolutamente necessario. Ora questo concetto vuol essere determinato; e questo è, se si aggiunge la tendenza all’estensione, il motivo oggettivo di un bisogno della ragione speculativa, cioè di un bisogno di determinar meglio il concetto di un essere necessario, che deve servire di primo principio agli altri, e così di far conoscere quest’essere. Senza questi problemi precedenti e necessari non vi è nessun b i s o g n o , almeno 257 della r a g i o n p u r a ; gli altri sono bisogni d e l l ’ i n c l i n a z i o n e .

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in s c h l e c h t e r d i n g s n o t w e n d i g e r A b s i c h t und rechtfertigt seine Voraussetzung nicht bloß als erlaubte Hypothese, sondern als Postulat in praktischer Absicht; und zugestanden, daß das reine moralische Gesetz jedermann als Gebot (nicht als Klugheitsregel) unnachlaßlich verbinde, darf der Rechtschaffene wohl sagen: ich w i l l , daß ein Gott, daß mein Dasein in dieser Welt auch außer der Naturverknüpfung noch ein Dasein in einer reinen Verstandeswelt, endlich auch, daß meine Dauer endlos sei, ich beharre darauf und lasse mir diesen Glauben nicht nehmen; denn dieses ist das einzige, wo mein Interesse, weil ich von demselben nichts nachlassen d a r f , mein Urteil unvermeidlich be|stimmt, ohne auf Vernünfteleien zu achten, so wenig ich auch darauf zu antworten oder ihnen scheinbarere entgegenzustellen imstande sein möchte.* Um bei dem Gebrauche eines noch so ungewohnten Begriffs, als der eines reinen praktischen Vernunft|glaubens ist, Mißdeutungen zu verhüten, sei mir erlaubt, noch eine Anmerkung hinzuzufügen. – Es sollte fast scheinen, als ob dieser Vernunftglaube hier selbst als G e b o t angekündigt werde, nämlich das höchste Gut

* Im deutschen Museum, Februar 1787, findet sich eine Abhandlung von einem sehr feinen und hellen Kopfe, dem sel. W i z e n m a n n , dessen früher Tod zu bedauern ist, darin er die Befugnis, aus einem Bedürfnisse auf die objektive Realität des Gegenstandes desselben zu schließen, bestreitet und seinen Gegenstand durch das Beispiel eines Ve r l i e b t e n erläutert, der, indem er sich in eine Idee von Schönheit, welche bloß sein Hirngespinst ist, vernarrt hätte, schließen wollte, daß ein solches Objekt wirklich wo existiere. Ich gebe ihm hierin vollkommen recht in allen Fällen, wo das Bedürfnis auf N e i g u n g gegründet ist, die nicht einmal notwendig für den, der damit angefochten ist, die Existenz ihres Objekts postulieren kann, viel weniger eine für jedermann gültige Forderung enthält und daher ein bloß s u b j e k t i v e r Grund der Wünsche ist. Hier ist aber ein Ve r n u n f t b e d ü r f n i s aus einem o b j e k t i v e n Bestimmungsgrunde des Willens, nämlich dem moralischen Gesetze entspringend, welches jedes vernünftige Wesen notwendig verbindet also zur Voraussetzung der ihm angemessenen Bedingungen in der Natur a priori berechtigt und die letzteren von dem vollständigen praktischen Gebrauche der Vernunft unzertrennlich macht. Es ist Pflicht, das höchste Gut nach unserem größten Vermögen wirklich zu machen; daher muß es doch auch möglich sein: mithin ist es für jedes vernünftige Wesen in der Welt auch unvermeidlich, dasjenige vorauszusetzen, was zu dessen objektiver Möglichkeit notwendig ist. Die Voraussetzung ist so notwendig als das moralische Gesetz, in Beziehung auf welches sie auch nur gültig ist.

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bisogno in un senso assolutamente necessario, e giustifica la sua supposizione non semplicemente come ipotesi lecita, ma come postulato nel rispetto pratico; e, ammesso che la legge pura morale obblighi inflessibilmente ciascuno come comandamento (non come regola di prudenza), l’uomo onesto può ben dire: i o v o g l i o che vi sia un Dio; che la mia esistenza in questo mondo, anche fuori della connessione naturale, sia ancora un’esistenza in un mondo puro dell’intelletto; e finalmente, anche che la mia durata sia senza fine; io persisto in ciò e non mi lascio togliere questa fede; essendo questo l’unico caso in cui il mio interesse, che io non p o s s o trascurare in niente, determina inevitabilmente il mio giudizio, senza badare alle sofisticherie, per quanto poco io sia capace di rispondervi o di contrapporne delle più speciose*. Per evitare le cattive interpretazioni nell’uso di un concetto ancora così insolito, come quello di una fede razionale pura pratica, mi sia concesso di aggiungere ancora un’osservazione. – Potrebbe quasi sembrare che questa fede razionale sia qui annunciata come un c o m a n d a m e n t o , quello cioè di ammet* Nel «Deutsches Museum», febbraio 1787, si trova una trattazione fatta da una mente assai fine e chiara, dal defunto Wizenmann28, del quale è da compiangere la morte precoce. In essa egli contesta il diritto di concludere da un bisogno alla realtà oggettiva dell’oggetto di esso, e spiega il suo argomento con l’esempio di un i n n a m o r a t o , il quale, perché ama follemente un’idea di bellezza, che è semplicemente una sua chimera, vorrebbe trarne la conseguenza che un tale oggetto esiste realmente in qualche luogo. Qui io gli do perfettamente ragione in tutti i casi in cui il bisogno è fondato sull’ i n c l i n a z i o n e , la quale non può mai postulare necessariamente, per colui che è affetto da essa, l’esistenza del suo oggetto, e molto meno contiene un’esigenza valida per ciascuno, e quindi è un motivo semplicemente s o g g e t t i v o del desiderio. Ma qui vi è un b i s o g n o r a z i o n a l e , che deriva da un motivo determinante o g g e t t i v o della volontà, cioè dalla legge morale la quale obbliga necessariamente ogni essere razionale, dunque dà d i r i t t o alla supposizione a p r i o r i delle condizioni conformi a questa legge nella natura, e rende inseparabili queste condizioni dal completo uso pratico della ragione. È dovere realizzare il sommo bene il più che possiamo, quindi ciò deve anche esser possibile, quindi per ogni essere razionale nel mondo è anche inevitabile supporre ciò che è necessario alla possibilità oggettiva di esso. La supposizione è così necessaria come la legge morale, in relazione alla quale soltanto essa è valida.

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für möglich anzunehmen. Ein Glaube aber, der geboten wird ist ein Unding. Man erinnere sich aber der obigen Auseinandersetzung dessen, was im Begrifte des höchsten Guts anzunehmen verlangt wird, und man wird inne werden, daß diese Möglichkeit anzunehmen gar nicht geboten werden dürfe und keine praktischen Gesinnungen fordere, sie e i n z u r ä u m e n , sondern daß spekulative Vernunft sie ohne Gesuch zugeben müsse; denn daß eine dem moralischen Gesetze angemessene Würdigkeit der vernünftigen Wesen in der Welt, glücklich zu sein, mit einem dieser proportionierten Besitze dieser Glückseligkeit in Verbindung an sich u n m ö g l i c h sei, kann doch niemand behaupten wollen. Nun gibt uns in Ansehung des ersten Stüks des höchsten Guts, nämlich was die Sittlichkeit betrifft, das moralische Gesetz bloß ein Gebot, und die Möglichkeit jenes Bestandstücks zu bezweifeln, wäre ebensoviel, als das moralische Gesetz selbst in Zweifel zu ziehen. Was aber das zweite Stück jenes Objekts, nämlich die jener Würdigkeit durchgängig angemessene Glückseligkeit betrifft, so ist zwar die Möglichkeit derselben überhaupt einzuräumen gar nicht eines Gebots bedürftig, denn die theoretische Vernunft hat selbst nichts dawider; nur | d i e A r t , w i e wir uns eine solche Harmonie der Naturgesetze mit denen der Freiheit denken sollen, hat etwas an sich, in Ansehung dessen uns eine Wa h l zukommt, weil theoretische Vernunft hierüber nichts mit apodiktischer Gewißheit entscheidet, und in Ansehung dieser kann es ein moralisches Interesse geben, das den Ausschlag gibt. Oben hatte ich gesagt, daß nach einem bloßen Naturgange in der Welt die genau dem sittlichen Werte angemessene Glückseligkeit nicht zu erwarten und für unmöglich zu halten sei, und daß also die Möglichkeit des höchsten Guts von dieser Seite nur unter Voraussetzung eines moralischen Welturhebers könne eingeräumt werden. Ich hielt mit Vorbedacht mit der Einschränkung dieses Urteils auf die s u b j e k t i v e n Bedingungen unserer Vernunft zurück, um nur dann allererst, wenn die Art ihres Fürwahrhaltens näher bestimmt werden sollte, davon Gebrauch zu machen. In der Tat ist die genannte Unmöglichkeit b l o ß s u b j e k t i v, d. i. unsere Vernunft findet es i h r u n m ö g l i c h , sich einen so genau angemessenen und durchgängig zweckmäßigen Zusammenhang zwi-

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tere il sommo bene come possibile. Ma una fede comandata è un non senso. Senonché, si rammenti l’esposizione precedente di ciò che nel concetto del sommo bene si richiede, e si vedrà come non possa punto esser comandato l’ammettere questa possibilità, e non si esiga nessuna intenzione pratica di a m m e t t e r l a , ma come la ragione speculativa la debba ammettere senza esserne richiesta; nessuno infatti può voler affermare che sia i m p o s s i b i l e in sé per gli esseri razionali nel mondo meritare di esser felici in conformità alla legge morale, in relazione a un possesso di questa felicità proporzionata a questo merito. Ora, relativamente al primo elemento del sommo bene, cioè per quel che riguarda la moralità, la legge morale ci dà semplicemente un comandamento; e la possibilità di dubitare di quell’elemento sarebbe lo stesso che mettere in dubbio la legge morale. Ma, per quel che riguarda il secondo elemento di quell’oggetto, cioè la felicità continuamente proporzionata a quel merito, la possibilità di ammettere questa felicità in genere non ha invero alcun bisogno di un comandamento, poiché anche la ragion teoretica non ha niente in contrario: solo il modo in cui noi dobbiamo concepire una tale armonia delle leggi naturali con quelle delle libertà, ha in sé qualcosa riguardo a cui ci spetta una s c e l t a , perché la ragion teoretica non decide su ciò con certezza apodittica, e può esservi un interesse morale che dà il tracollo. Più sopra avevo detto che, secondo un corso semplicemente naturale nel mondo, non è da aspettare, né si deve ritenere come impossibile, una felicità esattamente proporzionata al valore morale, e che quindi, da questo lato, la possibilità del sommo bene non poteva essere ammessa se non con la supposizione di un autore morale del mondo. Io mi trattenni, deliberatamente, dal limitare questo giudizio alle condizioni s o g g e t t i v e della nostra ragione, per far uso di questa restrizione solo quando dovesse esser meglio determinato il modo del suo assenso. Infatti, l’impossibilità menzionata è s e m p l i c e m e n t e s o g g e t t i v a : cioè la nostra ragione trova i m p o s s i b i l e p e r e s s a concepire, secondo il semplice corso della natura, una connessione così esattamente determinata, e così continuamente conforme a fini, tra due eventi del mondo che succedono secondo leg-

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schen zwei nach so verschiedenen Gesetzen sich ereignenden Weltbegebenheiten nach einem bloßen Naturlaufe begreiflich zu machen; ob sie zwar, wie bei allem, was sonst in der Natur Zweckmäßiges ist, die Unmöglichkeit desselben nach al|lgemeinen Naturgesetzen doch auch nicht beweisen, d. i. aus objektiven Gründen hinreichend dartun kann. Allein jetzt kommt ein Entscheidungsgrund von anderer Art ins Spiel, um im Schwanken der spekulativen Vernunft den Ausschlag zu geben. Das Gebot, das höchste Gut zu befördern, ist objektiv (in der praktischen Vernunft), die Möglichkeit desselben überhaupt gleichfalls objektiv (in der theoretischen Vernunft, die nichts dawider hat) gegründet. Allein die Art, wie wir uns diese Möglichkeit vorstellen sollen, ob nach allgemeinen Naturgesetzen ohne einen der Natur vorstehenden weisen Urheber, oder nur unter dessen Voraussetzung, das kann die Vernunft objektiv nicht entscheiden. Hier tritt nun eine s u b j e k t i v e Bedingung der Vernunft ein: die einzige ihr theoretisch mögliche, zugleich der Moralität (die unter einem o b j e k t i v e n Gesetze der Vernunft steht) allein zuträgliche Art, sich die genaue Zusammenstimmung des Reichs der Natur mit dem Reiche der Sitten als Bedingung der Möglichkeit des höchsten Guts zu denken. Da nun die Beförderung desselben und also die Voraussetzung seiner Möglichkeit o b j e k t i v (aber nur der praktischen Vernunft zufolge) notwendig ist, zugleich aber die Art, auf welche Weise wir es uns als möglich denken wollen, in unserer Wahl steht, in welcher aber ein freies Interesse der reinen praktischen Vernunft für die Annehmung eines weisen Welturhebers entscheidet: so ist das Prinzip, was unser | Urteil hierin bestimmt, zwar s u b j e k t i v als Bedürfnis, aber auch zugleich als Beförderungsmittel dessen, was o b j e k t i v (praktisch) notwendig ist, der Grund einer M a x i m e des Fürwahrhaltens in moralischer Absicht, d. i. ein reiner praktischer Vernunftglaube. Dieser ist also nicht geboten, sondern als freiwillig zur moralischen (gebotenen) Absicht zuträgliche, überdem noch mit dem theoretischen Bedürfnisse der Vernunft einstimmige Bestimmung unseres Urteils, jene Existenz anzunehmen und dem Vernunftgebrauch ferner zum Grunde zu legen, selbst aus der moralischen Gesinnung entsprungen; kann also öfters selbst bei Wohlgesinnten bisweilen in Schwanken, niemals aber in Unglauben geraten.

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gi così diverse; benché, come ogni altra cosa che nella natura è conforme a fini, essa non possa neanche dimostrare l’impossibilità di questa connessione secondo leggi universali della natura, cioè provarla sufficientemente con princìpi oggettivi. Ma ora entra in giuoco un motivo di decisione di altro genere, a dare il tracollo all’incertezza della ragione speculativa. Il comandamento di promuovere il sommo bene è fondato oggettivamente (nella ragion pratica); la possibilità di questo bene in genere è pure fondata oggettivamente (nella ragion teoretica, che non ha niente in contrario). Ma la ragione non può decidere oggettivamente in che modo noi ci dobbiamo rappresentare questa possibilità, se secondo leggi universali della natura, senza un saggio reggitore che governi la natura, o soltanto col supporre questo reggitore. Ora qui sopravviene una condizione s o g g e t t i v a della ragione: l’unico modo, che le sia teoreticamente possibile, di concepire l’accordo esatto del regno della natura col regno dei costumi come condizione della possibilità del sommo bene, e nello stesso tempo il solo modo vantaggioso alla moralità (la quale sottostà a una legge o g g e t t i v a della ragione). Siccome il promuovimento del sommo bene, e quindi la supposizione della sua possibilità, è o g g e t t i v a m e n t e (ma solo in virtù della ragion pratica) necessario, ma nello stesso tempo il modo, in cui noi vogliamo concepire come possibile questo bene, sta alla nostra scelta, nella quale però un libero interesse della ragion pura pratica ci decide ad ammettere un saggio autore del mondo; così, il principio che determina in ciò il nostro giudizio, è bensì s o g g e t t i v o come bisogno, ma nello stesso tempo, come mezzo di promuovere ciò che è o g g e t t i v a m e n t e (praticamente) necessario, è anche il principio di una m a s s i m a dell’adesione dal punto di vista morale, cioè u n a f e d e d e l l a r a g i o n p u r a p r a t i c a . Questa fede non è dunque comandata, ma è derivata dalla stessa intenzione morale come una determinazione libera del nostro giudizio, vantaggiosa al fine morale (comandato), concorde inoltre col bisogno teoretico della ragione di ammettere l’esistenza di questo saggio autore, e porla a base dell’uso della ragione; quindi, in quelli che sono ben intenzionati, può bensì spesso vacillare, ma non mai finire nell’incredulità.

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IX. Von der der praktischen Bestimmung des Menschen weislich angemessenen Proportion seiner Erkenntnisvermögen.

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Wenn die menschliche Natur zum höchsten Gute zu streben bestimmt ist, so muß auch das Maß ihrer Erkenntnisvermögen, vornehmlich ihr Verhältnis untereinander, als zu diesem Zwecke schicklich angenommen werden. Nun beweist aber die Kritik der reinen s p e k u l a t i v e n Vernunft die größte Unzulänglichkeit dersel|ben, um die wichtigsten Aufgaben, die ihr vorgelegt werden, dem Zwecke angemessen aufzulösen, ob sie zwar die natürlichen und nicht zu übersehenden Winke ebenderselben Vernunft, ingleichen die großen Schritte, die sie tun kann, nicht verkennt, um sich diesem großen Ziele, das ihr ausgesteckt ist, zu nähern, aber doch ohne es jemals für sich selbst sogar mit Beihilfe der größten Naturkenntnis zu erreichen. Also scheint die Natur uns hier nur s t i e f m ü t t e r l i c h mit einem zu unserem Zwecke benötigten Vermögen versorgt zu haben. Gesetzt nun, sie wäre hierin unserem Wunsche willfährig gewesen und hätte uns diejenige Einsichtsfähigkeit oder Erleuchtung erteilt, die wir gern besitzen möchten oder in deren Besitz einige wohl gar w ä h n e n sich wirklich zu befinden, was würde allem Ansehen nach wohl die Folge hiervon sein? Wofern nicht zugleich unsere ganze Natur umgeändert wäre, so würden die N e i g u n g e n , die doch allemal das erste Wort haben, zuerst ihre Befriedigung und, mit vernünftiger Überlegung verbunden, ihre größtmögliche und dauernde Befriedigung unter dem Namen der G l ü c k s e l i g h e i t verlangen; das moralische Gesetz würde nachher sprechen, um jene in ihren geziemenden Schranken zu halten und sogar sie alle insgesamt einem höheren, auf keine Neigung Rücksicht nehmenden Zwecke zu unterwerfen. Aber statt des Streits, den jetzt die moralische Gesinnung mit den Neigungen zu führen hat, in | welchem nach einigen Niederlagen doch allmählich moralische Stärke der Seele zu erwerben ist, würden G o t t und E w i g k e i t mit ihrer f u r c h t b a r e n M a j e s t ä t uns unablässig v o r A u g e n liegen (denn was wir vollkommen beweisen können, gilt in Ansehung der Gewißheit uns soviel, als wovon wir uns durch den Augenschein versichern). Die Übertretung des Gesetzes würde freilich vermieden, das Gebotene getan werden; weil aber die

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IX. Della proporzione saggiamente conveniente delle facoltà di conoscere dell’uomo rispetto alla sua destinazione pratica. Se la natura umana è determinata ad aspirare al sommo bene, si deve ammettere che anche la misura delle sue facoltà di conoscere, e specialmente la relazione di queste facoltà le une colle altre, sia conveniente a questo scopo. Ma la critica della ragion pura s p e c u l a t i v a dimostra la più grande insufficienza di questa facoltà a risolvere in conformità con lo scopo i problemi più importanti che le sono proposti, benché essa non disconosca le indicazioni naturali e non trascurabili di questa ragione, e similmente i grandi passi che può fare per avvicinarsi a questo grande scopo che le è proposto, senza per altro raggiungerlo mai per se stessa, neanche con l’aiuto della più grande conoscenza della natura. Quindi sembra che in questo caso la natura, nel provvederci di una facoltà necessaria al nostro scopo ci abbia trattati soltanto da matrigna. Ora, posto che essa qui fosse stata condiscendente al nostro desiderio e ci avesse dato quella perspicacia o quei lumi che vorremmo ben possedere, o nel cui possesso alcuni c r e d o n o di trovarsi realmente, quale sarebbe secondo ogni apparenza la conseguenza di ciò? A meno che nello stesso tempo fosse mutata l’intera nostra natura, le i n c l i n a z i o n i , che hanno sempre la prima parola, domanderebbero la loro soddisfazione, e, legate con la riflessione razionale, la soddisfazione più grande possibile e continua col nome di f e l i c i t à ; poi parlerebbe la legge morale per contenere quelle inclinazioni nei limiti che loro convengono, e anzi per assoggettarle tutte insieme a un fine più alto, e che non abbia riguardo a nessuna inclinazione. Ma in luogo della lotta che ora l’intenzione morale deve sostenere con le inclinazioni, nella quale, dopo alcune sconfitte, l’anima acquista a poco a poco la fortezza morale, D i o e l ’ e t e r n i t à , nella loro t r e m e n d a m a e s t à , ci starebbero continuamente d a v a n t i a g l i o c c h i (poiché quello che possiamo dimostrare perfettamente, rispetto alla certezza vale altrettanto per noi che se ce ne accertassimo mediante la vista). La trasgressione della legge sarebbe certamente impedita, quello che è comandato sa-

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G e s i n n u n g , aus welcher Handlungen geschehen sollen, durch kein Gebot mit eingeflößt werden kann, der Stachel der Tätigkeit hier aber sogleich bei Hand und ä u ß e r l i c h ist, die Vernunft also sich nicht allererst emporarbeiten darf, um Kraft zum Widerstande gagen Neigungen durch lebendige Vorstellung der Würde des Gesetzes zu sammeln, so würden die mehrsten gesetzmäßigen Handlungen aus Furcht, nur wenige aus Hoffnung und gar keine aus Pflicht geschehen, ein moralischer Wert der Handlungen aber, worauf doch allein der Wert der Person und selbst der der Welt in den Augen der höchsten Weisheit ankommt, würde gar nicht existieren. Das Verhalten der Menschen, solange ihre Natur, wie sie jetzt ist, bliebe, würde also in einen bloßen Mechanismus verwandelt werden, wo wie im Marionettenspiel alles gut g e s t i k u l i e r e n , aber in den Figuren doch k e i n L e b e n anzutreffen sein würde. Nun, da es mit uns ganz anders beschaffen ist, da wir mit aller Anstrengung unserer Vernunft | nur eine sehr dunkle und zweideutige Aussicht in die Zukunft haben, der Weltregierer uns sein Dasein und seine Herrlichkeit nur mutmaßen, nicht erblicken oder klar beweisen läßt, dagegen das moralische Gesetz in uns, ohne uns etwas mit Sicherheit zu verheißen oder zu drohen, von uns uneigennützige Achtung fordert, übrigens aber, wenn diese Achtung tätig und herrschend geworden, allererst alsdann und nur dadurch Aussichten ins Reich des Übersinnlichen, aber auch nur mit schwachen Blicken erlaubt: so kann wahrhafte sittliche, dem Gesetze unmittelbar geweihte Gesinnung stattfinden und das vernünftige Geschöpf des Anteils am höchsten Gute würdig werden, das dem moralischen Werte seiner Person und nicht bloß seinen Handlungen angemessen ist. Also möchte es auch hier wohl damit seine Richtigkeit haben, was uns das Studium der Natur und des Menschen sonst hinreichend lehrt, daß die unerforschliche Weisheit, durch die wir existieren, nicht minder verehrungswürdig ist in dem, was sie uns versagte, als in dem, was sie uns zuteil werden ließ.

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rebbe eseguito; ma siccome l ’ i n t e n z i o n e , per cui le azioni devono accadere, non può essere introdotta in noi mediante nessun comandamento, e il pungolo dell’attività qui sarebbe sempre alla mano ed e s t e r n o , e quindi la ragione non avrebbe bisogno di sforzarsi a raccoglier le forze per resistere alle inclinazioni mediante la rappresentazione della dignità della legge; così la maggior parte delle azioni conformi alla legge avverrebbe per il timore, soltanto poche per la speranza, e nessuna affatto per il dovere; un valore morale delle azioni, dal quale solo dipende agli occhi della saggezza suprema il valore della persona, e anche quello del mondo, non esisterebbe punto. La condotta dell’uomo rimanendo la sua natura qual’è adesso, sarebbe dunque mutata in un semplice meccanismo, in cui, come nel teatro delle marionette, il tutto g e s t i c o l e r e b b e bene, ma nelle figure non si troverebbe v i t a a l c u n a . Ora, siccome per noi la cosa è ben diversa; siccome noi, con tutto lo sforzo della nostra ragione, abbiamo dell’avvenire soltanto una veduta assai oscura ed ambigua, e il reggitore del mondo ci lascia soltanto congetturare e non scorgere o dimostrar chiaramente la sua esistenza e la sua maestà; e, invece, la legge morale in noi, senza prometterci qualcosa con certezza, senza minacciarci, esige da noi il rispetto disinteressato; e del resto questo rispetto, quando diventa attivo e predominante solo allora e solo per ciò permette di vedere, ma anche solo debolmente, nel regno del soprasensibile: così può ben aver luogo un’intenzione veramente morale, e consacrata immediatamente alla legge, e la creatura razionale può diventar degna di partecipare al sommo bene che è conforme al valore morale della sua persona, e non semplicemente alle sue azioni. Potrebbe dunque aver anche qui la sua verità quello che del resto lo studio della natura e dell’uomo c’insegna sufficientemente: che la saggezza impenetrabile, per la quale noi esistiamo, non è men degna di venerazione per quello che ci ha negato che per quello che ci ha concesso.

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| Zweiter Teil DER KRITIK DER PRAKTISCHEN VERNUNFT

METHODENLEHRE DER REINEN PRAKTISCHEN VERNUNFT

Parte seconda DELLA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

DOTTRINA DEL METODO DELLA RAGION PURA PRATICA

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| Unter der M e t h o d e n l e h r e der reinen p r a k t i s c h e n Vernunft kann man nicht die Art (sowohl im Nachdenken als im Vortrage), mit reinen praktischen Grundsätzen in Absicht auf eine w i s s e n s c h a f t l i c h e Erkenntnis derselben zu verfahren, verstehen, welches man sonst in der t h e o r e t i s c h e n eigentlich allein Methode nennt (denn populäre Erkenntnis bedarf einer M a n i e r, Wissenschaft aber einer M e t h o d e , d. i. eines Verfahrens n a c h P r i n z i p i e n der Vernunft, wodurch das Mannigfaltige einer Erkenntnis allein ein S y s t e m werden kann). Vielmehr wird unter dieser Methodenlehre die Art verstanden, wie man den Gesetzen der reinen praktischen Vernunft E i n g a n g in das menschliche Gemüt, E i n f l u ß auf die Maximen desselben verschaffen, d. i. die objektiv praktische Vernunft auch subjektiv praktisch machen könne. Nun ist zwar klar, daß diejenigen Bestimmungsgründe des Willens, welche allein die Maximen eigentlich moralisch machen und ihnen einen sittlichen Wert geben, die unmittelbare Vorstellung des Gesetzes und die objektiv notwendige Befolgung desselben als Pflicht, als die eigentlichen Triebfedern der Handlungen vorgestellt werden müssen; weil sonst zwar L e g a l i t ä t der | Handlungen, aber nicht M o r a l i t ä t der Gesinnungen bewirkt werden würde. Allein nicht so klar, vielmehr beim ersten Anblicke ganz unwahrscheinlich muß es jedermann vorkommen, daß auch subjektiv jene Darstellung der reinen Tugend m e h r M a c h t über das menschliche Gemüt haben und eine weit stärkere Triebfeder abgeben könne, selbst jene Legalität der Handlungen zu bewirken und kräftigere Entschließungen hervorzubringen, das Gesetz aus reiner Achtung für dasselbe jeder anderen Rücksicht vorzuziehen, als alle Anlockungen, die aus Vorspiegelungen von Vergnügen und überhaupt allem dem, was man zur Glückseligkeit zählen mag,

Per d o t t r i n a d e l m e t o d o della ragion pura p r a t i c a non si può intendere il modo (tanto nella riflessione, come nell’esposizione) di procedere coi princìpi puri pratici in vista di una conoscenza s c i e n t i f i c a di essa; il che del resto si chiama propriamente metodo soltanto nella filosofia t e o r e t i c a (poiché la conoscenza popolare ha bisogno di una m a n i e r a , ma la scienza di un m e t o d o , cioè di un procedimento s e c o n d o i p r i n c ì p i della ragione, mediante i quali soltanto il molteplice di una conoscenza può diventare un s i s t e m a ). Al contrario, per questa dottrina del metodo s’intende il modo in cui si può procurare alle leggi della ragion pura pratica un a d i t o nello spirito umano, un i n f l u s s o sulle massime di esso, cioè il modo di far anche s o g g e t t i v a m e n t e pratica la ragione oggettivamente pratica. Ora, è bensì chiaro che quei motivi determinanti della volontà, i quali solo fanno propriamente morali le massime e dànno loro un valore morale, e cioè la rappresentazione immediata della legge e l’osservanza oggettivamente necessaria di essa come dovere, devono essere rappresentati come i veri moventi delle azioni; perché altrimenti si produrrebbe bensì la l e g a l i t à delle azioni, ma non la m o r a l i t à delle intenzioni. Ma non deve sembrar così chiaro a ciascuno, anzi a prima vista deve sembrar affatto inverosimile che anche soggettivamente quella rappresentazione della virtù pura possa aver p i ù f o r z a sullo spirito umano, e fornirgli un movente molto più potente anche ad effettuare quella legalità delle azioni, a produrre risoluzioni più energiche, a preferire ad ogni altro riguardo la legge per puro rispetto ad essa, che tutti gli allettamenti ingannevoli del piacere e in genere di tutto ciò che appartiene alla felicità, oppure che

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oder auch alle Androhungen von Schmerz und Übeln jemals wirken können. Gleichwohl ist es wirklich so bewandt, und wäre es nicht so mit der menschlichen Natur beschaffen, so würde auch keine Vorstellungsart des Gesetzes durch Umschweife und empfehlende Mittel jemals Moralität der Gesinnung hervorbringen. Alles wäre lauter Gleisnerei, das Gesetz würde gehaßt oder wohl gar verachtet, indessen doch um eigenen Vorteils willen befolgt werden. Der Buchstabe des Gesetzes (Legalität) würde in unseren Handlungen anzutreffen sein, der Geist desselben aber in unseren Gesinnungen (Moralität) gar nicht, und da wir mit aller unserer Bemühung uns doch in unserem Urteile nicht ganz von der Vernunft losmachen können, so würden wir unvermeidlich in unseren eigenen Augen als nichtswür|dige, verworfene Menschen erscheinen müssen, wenn wir uns gleich für diese Kränkung vor dem inneren Richterstuhl dadurch schadlos zu halten versuchten, daß wir uns an den Vergnügen ergötzten, die ein von uns angenommenes natürliches oder göttliches Gesetz unserem Wahne nach mit dem Maschinenwesen ihrer Polizei, die sich bloß nach dem richtete, was man tut, ohne sich um die Bewegungsgründe, warum man es tut, zu bekümmern, verbunden hätte. Zwar kann man nicht in Abrede sein, daß, um ein entweder noch ungebildetes oder auch verwildertes Gemüt zuerst ins Geleis des Moralisch-Guten zu bringen, es einiger vorbereitenden Anleitungen bedürfe, es durch seinen eigenen Vorteil zu locken oder durch den Schaden zu schrecken; allein sobald dieses Maschinenwerk, dieses Gängelband nur einige Wirkung getan hat, so muß durchaus der reine moralische Bewegungsgrund an die Seele gebracht werden, der nicht allein, dadurch daß er der einzige ist, welcher einen Charakter (praktische konsequente Denkungsart nach unveränderlichen Maximen) gründet, sondern auch darum, weil er den Menschen seine eigene Würde fühlen lehrt, dem Gemüte eine ihm selbst unerwartete Kraft gibt, sich von aller sinnlichen Anhänglichkeit, sofern sie herrschend werden will, loszureißen und in der Unabhängigkeit seiner intelligibelen Natur und der Seelengröße, dazu | er sich bestimmt sieht, für die Opfer, die er darbringt, reichliche Entschädigung zu finden. Wir wollen also diese Eigenschaft unseres Gemüts, diese Empfänglichkeit eines reinen moralischen Interesses und mithin die bewegende Kraft der reinen Vorstellung der Tugend, wenn sie gehörig ans menschliche Herz

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tutte le minacce di dolore e di male. Tuttavia è così, e, se la natura umana non fosse costituita in tal modo, nemmeno alcun modo di rappresentazione della legge, mediante ambagi e mezzi di raccomandazione, produrrebbe mai la moralità dell’intenzione. Tutto sarebbe mera funzione, la legge sarebbe odiata o affatto disprezzata, mentre tuttavia sarebbe osservata per amore del proprio vantaggio. Si troverebbe la lettera della legge (la legalità) nelle nostre azioni, ma non già lo spirito di essa nelle nostre intenzioni (la moralità); e poiché con tutti i nostri sforzi non però ci possiamo liberare interamente della ragione, nel nostro giudizio appariremmo inevitabilmente ai nostri propri occhi come uomini indegni, abbietti, pur tentando, avanti al tribunale interno, di rifarci di questa mortificazione mediante il fatto che ci diletteremmo nei piaceri che, secondo la nostra erronea opinione, una legge naturale o divina da noi ammessa avrebbe unito col meccanismo della sua polizia, la quale si regolerebbe solo secondo ciò che si fa, senza curarsi dei motivi determinanti, per cui ciò si fa. Senza dubbio, non si può negare che per far entrare uno spirito ancora rozzo, oppure inselvatichito, nella carreggiata del moralmente buono, occorrono alcune istruzioni preparatorie per attirare questo spirito mediante il suo vantaggio, o spaventarlo mediante il suo danno; ma non appena questo meccanismo, queste dande, abbiano ottenuto un qualche effetto, allora deve essere assolutamente presentato all’anima il motivo determinante morale, il quale, non solo per il fatto di esser l’unico che fondi un carattere (un modo pratico e coerente di pensare secondo massime immutabili), ma anche perché insegna all’uomo a sentire la sua propria dignità, dà allo spirito una forza che esso medesimo non s’aspettava, per distaccarsi da ogni affezione sensibile in quanto questa vuol diventare predominante, e per trovare nell’indipendenza della sua natura intelligibile, e nella grandezza d’animo a cui l’uomo si vede determinato, un largo compenso ai sacrifici che fa. Noi vogliamo dunque dimostrare, mediante osservazioni che ciascuno può fare, questa proprietà del nostro spirito, questa capacità di un interesse puro morale, e quindi la forza motrice della rappresentazione pura della virtù, quando essa vien presentata convenientemente al cuore umano,

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gebracht wird, als die mächtigste und, wenn es auf die Dauer und Pünktlichkeit in Befolgung moralischer Maximen ankommt, einzige Triebfeder zum Guten durch Beobachtungen, die ein jeder anstellen kann, beweisen; wobei doch zugleich erinnert werden muß, daß, wenn diese Beobachtungen nur die Wirklichkeit eines solchen Gefühls, nicht aber dadurch zustande gebrachte sittliche Besserung beweisen, dieses der einzigen Methode, die objektiv praktischen Gesetze der reinen Vernunft durch bloße reine Vorstellung der Pflicht subjektiv praktisch zu machen, keinen Abbruch tue, gleich als ob sie eine leere Phantasterei wäre. Denn da diese Methode noch niemals in Gang gebracht worden, so kann auch die Erfahrung noch nichts von ihrem Erfolg aufzeigen, sondern man kann nur Beweistümer der Empfänglichkeit solcher Triebfedern fordern, die ich jetzt kürzlich vorlegen und danach die Methode der Gründung und Kultur echter moralischer Gesinnungen mit wenigem entwerfen will. Wenn man auf den Gang der Gespräche in gemischten Gesellschaften, die nicht bloß aus Gelehrten | und Vernünft lern, sondern auch aus Leuten von Geschäften oder Frauenzimmern bestehen, acht hat, so bemerkt man, daß außer dem Erzählen und Scherzen noch eine Unterhaltung, nämlich das Räsonieren, darin Platz findet: weil das erstere, wenn es Neuigkeit und mit ihr Interesse bei sich führen soll, bald erschöpft, das zweite aber leicht schal wird. Unter allem Räsonieren ist aber keines, was mehr den Beitritt der Personen, die sonst bei allem Vernünfteln bald Langeweile haben, erregt und eine gewisse Lebhaftigkeit in die Gesellschaft bringt, als das über den s i t t l i c h e n We r t dieser oder jener Handlung, dadurch der Charakter irgend einer Person ausgemacht werden soll. Diejenigen, welchen sonst alles Subtile und Grüblerische in theoretischen Fragen trocken und verdrießlich ist, treten bald bei, wenn es darauf ankommt, den moralischen Gehalt einer erzählten guten oder bösen Handlung auszumachen, und sind so genau, so grüblerisch, so subtil, alles, was die Reinigkeit der Absicht und mithin den Grad der Tugend in derselben vermindern oder auch nur verdächtig machen könnte, auszusinnen, als man bei keinem Objekte der Spekulation sonst von ihnen erwartet. Man kann in diesen Beurteilungen oft den Charakter der über andere urteilenden Personen selbst hervorschimmern sehen, deren einige vorzüglich geneigt scheinen, indem sie ihr Richteramt vornehmlich über Ver-

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come il movente più efficace, e, se si tratta della durata e dell’esattezza nell’osservanza delle massime morali, come l’unico movente al bene. Tuttavia, a questo proposito, si deve in pari tempo ricordare che, se queste osservazioni dimostrano soltanto la realtà di un tale sentimento, ma non il miglioramento morale operato mediante esso, ciò non reca nessun danno all’unico metodo di rendere, mediante la semplice rappresentazione pura del dovere, soggettivamente pratiche le leggi oggettivamente pratiche della ragion pura, quasi questo metodo fosse una vuota fantasticheria. Poiché, siccome esso non fu ancora mai in uso, così anche l’esperienza non può ancor dir niente della sua riuscita, ma si possono solo pretendere prove della suscettibilità di tali moventi. Le quali prove io voglio ora esporre brevemente; e poi abbozzerò in pochi tratti il metodo che serve a fondare e coltivare le vere intenzioni morali. Se si pon mente al filo della conversazione in compagnie miste, le quali si compongono non solo di dotti e di sottili ragionatori, ma anche di uomini d’affari o di signore, si vede che, oltre il raccontare e lo scherzare, vi trova luogo ancora un altro trattenimento, cioè il ragionare; perché il primo trattenimento, se reca novità e quindi interesse, presto si esaurisce, e il secondo diventa facilmente insulso. Ma fra tutte le sorte di ragionamento nessuna ve n’è che muova di più l’assenso di persone, le quali d’altronde si annoiano presto di ogni ragionare sottile, e produca una certa vita nella compagnia, di quella sul v a l o r e m o r a l e di questa o quell’azione in base a cui dev’essere stabilito il carattere di una persona qualunque. Quelli per cui del resto è arida e spiacevole ogni sottigliezza e sofisticheria nelle questioni teoretiche, acconsentono subito, se si tratta di decidere del valore morale di un’azione buona o cattiva che si racconta; e nell’immaginare tutto ciò che può diminuire, o anche soltanto render sospetta la purezza dell’intenzione, e quindi in essa il grado della virtù, sono così precisi, così sofistici, così sottili, come non ci si aspetta che siano in alcun oggetto della speculazione. In questi giudizi si può spesso vedere spuntare il carattere delle persone stesse che giudicano altri: delle quali alcune sembrano maggiormente inclinate, mentre esercitano il loro ufficio di giu-

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storbene ausüben, das Gute, was | von dieser oder jener Tat derselben erzählt wird, wider alle kränkenden Einwürfe der Unlauterkeit und zuletzt den ganzen sittlichen Wert der Person wider den Vorwurf der Verstellung und geheimen Bösartigkeit zu verteidigen, andere dagegen mehr auf Anklagen und Beschuldigungen sinnen, diesen Wert anzufechten. Doch kann man den letzteren nicht immer die Absicht beimessen, Tugend aus allen Beispielen der Menschen gänzlich wegvernünfteln zu wollen, um sie dadurch zum leeren Namen zu machen, sondern es ist oft nur wohlgemeinte Strenge in Bestimmung des echten sittlichen Gehalts nach einem unnachsichtlichen Gesetze, mit welchem und nicht mit Beispielen verglichen der Eigendünkel im Moralischen sehr sinkt, und Demut nicht etwa bloß gelehrt, sondern bei scharfer Selbstprüfung von jedem gefühlt wird. Dennoch kann man den Verteidigern der Reinigkeit der Absicht in gegebenen Beispielen es mehrenteils ansehen, daß sie ihr da, wo sie die Vermutung der Rechtschaffenheit für sich hat, auch den mindesten Fleck gerne abwischen möchten, aus dem Bewegungsgrunde, damit nicht, wenn allen Beispielen ihre Wahrhaftigkeit bestritten und aller menschlichen Tugend die Lauterkeit weggeleugnet würde, diese nicht endlich gar für ein bloßes Hirngespinst gehalten und so alle Bestrebung zu derselben als eitles Geziere und trüglicher Eigendünkel geringschätzig gemacht werde. | Ich weiß nicht, warum die Erzieher der Jugend von diesem Hange der Vernunft, in aufgeworfenen praktischen Fragen selbst die subtilste Prüfung mit Vergnügen einzuschlagen, nicht schon längst Gebrauch gemacht haben und, nachdem sie einen bloß moralischen Katechismus zum Grunde legten, sie nicht die Biographien alter und neuer Zeit in der Absicht durchsuchten, um Belege zu den vorgelegten Pflichten bei der Hand zu haben, an denen sie vornehmlich durch die Vergleichung ähnlicher Handlungen unter verschiedenen Umständen die Beurteilung ihrer Zöglinge in Tätigkeit setzten, um den minderen oder größeren moralischen Gehalt derselben zu bemerken, als worin sie selbst die frühe Jugend, die zu aller Spekulation sonst noch unreif ist, bald sehr scharfsichtig und dabei, weil sie den Fortschritt ihrer Urteilskraft fühlt, nicht wenig interessiert finden werden, was aber das Vornehmste ist, mit Sicherheit hoffen können, daß die öftere Übung, das Wohlverhalten in seiner ganzen Reinigkeit zu kennen und ihm

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dici, specialmente riguardo ai morti, a difendere il bene che si racconta di questa o di quell’azione contro ogni obiezione che attenti alla purezza, e nello stesso tempo a difendere l’intero valore morale della persona contro il rimprovero di simulazione e di malvagità nascosta; altri invece pensano piuttosto alle accuse e alle imputazioni per impugnare questo valore. Ma a questi ultimi non si può sempre attribuire l’intento di voler togliere affatto, mediante i loro sofismi, la virtù da tutti gli esempi degli uomini, per far così di essa un nome vuoto; spesso il loro è soltanto un rigore ben intenzionato nella determinazione del vero contenuto morale secondo una legge inflessibile, e, se vien paragonata con questa e non con gli esempi, la presunzione diminuisce, e l’umiltà non viene semplicemente insegnata ma da ciascuno sentita anche con un esame più acuto su se stesso. Tuttavia, per lo più, si può vedere che coloro i quali difendono la purezza dell’intenzione in dati esempi, toglierebbero a questa fin la minima macchia quando essa ha in suo favore l’apparenza della rettitudine, per timore che, contestando a tutti gli esempi la loro verità e negando a ogni virtù umana la sincerità, la virtù non venga alfine considerata come una semplice chimera, e si disprezzi così ogni sforzo per attuarla come una vana affettazione e un’ingannevole presunzione. Io non so perché gli educatori della gioventù non abbiano già fatto uso da lungo tempo di questa tendenza della ragione a entrare con piacere anche nell’esame più sottile nelle questioni pratiche proposte, e perché, dopo aver posto a fondamento un catechismo semplicemente morale, non abbiano ricercato le biografie dei tempi antichi e moderni per aver in mano esempi dei doveri proposti, con i quali, specialmente pel confronto di azioni simili in circostanze differenti, eserciterebbero il giudizio dei loro allievi a discernere il valore morale maggiore o minore. Nel che troverebbero che anche la gioventù più tenera, che del resto non è ancora matura ad ogni speculazione, presto diventa assai perspicace e inoltre non poco interessata, perché sente il progresso della propria facoltà di giudicare. Ma, ciò che è il più importante, possono aver fiducia che l’esercizio frequente di conoscere la buona condotta in tutta la sua purezza e di approvar-

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Beifall zu geben, dagegen selbst die kleinste Abweichung von ihr mit Bedauern oder Verachtung zu bemerken, ob es zwar bis dahin nur als ein Spiel der Urteilskraft, in welchem Kinder miteinander wetteifern können, getrieben wird, dennoch einen dauerhaften Eindruck der Hochschätzung auf der einen und des Abscheues auf der anderen Seite zurücklassen werde, welche durch bloße Gewohnheit, solche Handlungen als bei|falls- oder tadelswürdig öfter anzusehen, zur Rechtschaffenheit im künftigen Lebenswandel eine gute Grundlage ausmachen würden. Nur wünsche ich sie mit Beispielen sogenannter e d l e r (überverdienstlicher) Handlungen, mit welchen unsere empfindsamen Schriften soviel um sich werfen, zu verschonen und alles bloß auf Pflicht und den Wert, den ein Mensch sich in seinen eigenen Augen durch das Bewußtsein, sie nicht übertreten zu haben, geben kann und muß, auszusetzen, weil, was auf leere Wünsche und Sehnsuchten nach unersteiglicher Vollkommenheit hinausläuft, lauter Romanhelden hervorbringt, die, indem sie sich auf ihr Gefühl für das überschwenglich Große viel zugute tun, sich dafür von der Beobachtung der gemeinen und gangbaren Schuldigkeit, die alsdann ihnen nur unbedeutend klein scheint, freisprechen.* | Wenn man aber fragt: was denn eigentlich die r e i n e Sittlichkeit ist, an der als dem Probemetall man jeder Handlung moralischen Gehalt prüfen müsse, so muß ich gestehen, daß nur Philosophen die Entscheidung dieser Frage zweifelhaft machen können; denn in der gemeinen Menschenvernunft ist sie zwar nicht durch abgezogene allgemeine Formeln, aber doch durch den gewöhnlichen Gebrauch, gleichsam als der Unterschied zwischen der * Handlungen, aus denen große, uneigennützige, teilnehmende Gesinnung und Menschlichkeit hervorleuchtet, zu preisen, ist ganz ratsam. Aber man muß hier nicht sowohl auf die S e e l e n e r h e b u n g , die sehr flüchtig und vorübergehend ist, als vielmehr die H e r z e n s u n t e r w e r f u n g unter P f l i c h t , w o v o n ein längerer Eindruck erwartet werden kann, weil sie Grundsätze (jene aber nur Aufwallungen) mit sich führt, aufmerksam machen. Man darf nur ein wenig nachsinnen, man wird immer eine Schuld finden, die er sich irgendwodurch in Ansehung des Menschengeschlechts aufgeladen hat (sollte es auch nur die sein, daß man durch die Ungleichheit der Menschen in der bürgerlichen Verfassung Vorteile genießt, um deren willen andere desto mehr entbehren müssen), um durch die eigenliebige Einbildung des Ve r d i e n s t l i c h e n den Gedanken an P f l i c h t nicht zu verdrängen.

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la, e al contrario di osservare con compassione e disprezzo anche la più piccola trasgressione, benché fatto allora soltanto come un giuoco della facoltà di giudicare nel quale i ragazzi possono gareggiare gli uni con gli altri, lascia tuttavia un’impressione duratura della stima per un lato e dell’avversione per l’altro, la quale, mediante la semplice abitudine di considerare sovente tali azioni come degne o di approvazione o più spesso di biasimo, costituirebbe un buon fondamento alla rettitudine nella maniera di vivere in avvenire. Vorrei soltanto risparmiare alla gioventù gli esempi delle azioni cosiddette n o b i l i (supererogatorie), di cui i nostri scritti sentimentali sono tanto prodighi, e riferire tutto semplicemente al dovere e al valore che un uomo si può e si deve dare ai suoi propri occhi mediante la coscienza di non averlo trasgredito, perché ciò che riesce a vuoti desideri e brame di perfezione irraggiungibile, produce solo eroi da romanzo; i quali, vantandosi molto del loro sentimento per la grandezza trascendente, si dispensano dall’osservanza dell’obbligazione comune e d’uso, che a loro sembra poi solo meschinamente piccola*. Ma, se si domanda che cosa propriamente sia la moralità p u r a , con la quale, come con pietra di paragone, si deve provare il valore morale di ogni azione, io devo confessare che soltanto i filosofi possono rendere dubbiosa la soluzione di questa questione; poiché nella comune ragione umana essa è, non certo mediante la deduzione di formole universali, ma mediante l’uso abituale, risolta da lungo tempo, come la differenza tra la * È cosa affatto conveniente lodare le azioni in cui risplende un’intenzione e un’umanità grande, disinteressata e simpatica. Ma qui si deve far notare non tanto l’e l e v a z i o n e d e l l ’ a n i m a , la quale è assai incostante e transitoria, quanto piuttosto la s o m m i s s i o n e d e l c u o r e a l d o v e r e , da cui si può sperare un’impressione più lunga, perché essa implica dei princìpi (laddove l’elevazione dell’anima importa soltanto emozioni). Occorre soltanto riflettere un poco, e si troverà sempre una colpa di cui ci si è resi responsabili rispetto al genere umano (dovesse anche solo essere quella che, mediante l’inuguaglianza degli uomini nell’organizzazione civile, si godono vantaggi per i quali altri sono soggetti a privazioni maggiori), per impedire che la rappresentazione egoistica del m e r i t o r i o scacci il pensiero del d o v e r e .

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rechten und linken Hand, längst entschieden. Wir wollen also vorerst das Prüfungsmerkmal der reinen Tugend an einem Beispiele zeigen und, indem wir uns vorstellen, daß es etwa einem zehnjährigen Knaben zur Beurteilung vorgelegt worden, sehen, ob er auch von selber, ohne durch den Lehrer dazu angewiesen zu sein, notwendig so urteilen müßte. Man erzähle die Geschichte eines redlichen Mannes, den man bewegen will, den Verleumdern einer unschuldigen, übrigens nicht vermögenden Person (wie etwa Anna von Boleyn auf Anklage Heinrichs VIII. von England) beizutreten. Man bietet Gewinne, d. i. große Geschenke oder hohen Rang an, er schlägt sie aus. Dieses wird bloßen Beifall und Billigung in der Seele des Zuhörers wirken, weil es Gewinn ist. Nun fängt man es mit Androhung des Verlustes an. Es sind unter diesen | Verleumdern seine besten Freunde, die ihm jetzt ihre Freundschaft aufsagen, nahe Verwandte, die ihn (der ohne Vermögen ist) zu enterben drohen, Mächtige, die ihm in jedem Orte und Zustande verfolgen und kränken können, ein Landesfürst, der ihn mit dem Verlust der Freiheit, ja des Lebens selbst bedroht. Um ihn aber, damit das Maß des Leidens voll sei, auch den Schmerz fühlen zu lassen, den nur das sittlich gute Herz recht inniglich ffühlen kann, mag man seine mit äußerster Not und Dürftigkeit bedrohte Familie ihn um N a c h g i e b i g k e i t a n f l e h e n d , ihn selbst, obzwar rechtschaffen, doch eben nicht von festen, unempfindlichen Organen des Gefühls für Mitleid sowohl als eigene Not in einem Augenblick, darin er wünscht, den Tag nie erlebt zu haben, der ihn einem so unaussprechlichen Schmerz aussetzte, dennoch seinem Vorsatze der Redlichkeit, ohne zu wanken oder nur zu zweifeln, treu bleibend vorstellen: so wird mein jugendlicher Zuhörer stufenweise von der bloßen Billigung zur Bewunderung, von da zum Erstaunen, endlich bis zur größten Verehrung und einem lebhaften Wunsche, selbst ein solcher Mann sein zu können (obzwar freilich nicht in seinem Zustande), erhoben werden; und gleichwohl ist hier die Tugend nur darum soviel wert, weil sie soviel kostet, nicht weil sie etwas einbringt. Die ganze Bewunderung und selbst Bestrebung zur Ähnlichkeit mit diesem Charakter beruht hier | gänzlich auf der Reinigkeit des sittlichen Grundsatzes, welche nur dadurch recht in die Augen fallend vorgestellt werden kann, daß man alles, was Menschen nur zur Glückseligkeit zählen mögen, von den Triebfedern der Handlung wegnimmt. Also muß die Sittlichkeit auf das

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mano destra e la sinistra. Noi vogliamo dunque anzitutto mostrare il carattere distintivo della virtù pura in un esempio; e, mentre immaginiamo che questo esempio sia proposto al giudizio di un ragazzo di dieci anni, vediamo se egli dovrebbe necessariamente giudicare così anche da sé, senza le indicazioni del maestro. Si racconti la storia di un uomo onesto, che si vuol indurre ad associarsi ai calunniatori di una persona innocente, e d’altronde affatto impotente (come per esempio Anna Bolena, accusata da Enrico VIII d’Inghilterra). Gli si offrono guadagni, cioè grandi regali o un alto grado; egli li rifiuta. Questo produrrà semplicemente consenso e approvazione nell’animo dell’ascoltatore, perché si tratta di guadagno. Si comincia poi con la minaccia del danno. Vi sono tra i calunniatori i suoi migliori amici, che adesso gli rifiutano la loro amicizia; parenti prossimi, che minacciano di diseredarlo (lui che è privo di sostanze); potenti, che lo possono perseguitare ed offendere in ogni luogo e condizione; un sovrano, che lo minaccia della perdita della libertà, anzi della vita stessa. Ma perché il suo male sia al colmo, per fargli anche sentire il dolore che solo un cuore moralmente buono può sentire intimamente, si può immaginare la sua famiglia, minacciata dall’estrema miseria e indigenza, s c o n g i u r a r l o a c e d e r e ; si può immaginare lui stesso, benché onesto, pure con capacità di sentimento non resistenti e insensibili così alla compassione come alla propria miseria, in un momento in cui desidera di non aver mai visto il giorno che lo espose a un dolore così indicibile, e tuttavia fedele al proposito di lealtà, senza incertezze e senza nemmeno dubitare. Allora il mio giovane ascoltatore verrà elevato gradatamente dalla semplice approvazione alla meraviglia, da questa allo stupore, finalmente alla più grande venerazione, e a un vivo desiderio di poter anche lui esser un uomo simile (senza desiderare invero di essere nella stessa condizione). Eppure qui la virtù ha tanto valore, perché costa tanto, non perché è utile a qualche cosa. Tutta la meraviglia, e anche lo sforzo per rassomigliare a questo carattere, si fonda qui interamente sulla purezza del principio morale, il quale può esser rappresentato in modo spiccato solo togliendo dai moventi dell’azione tutto ciò che gli uomini possono ascrivere soltanto

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menschliche Herz desto mehr Kraft haben, je reiner sie dargestellt wird. Woraus denn folgt, daß, wenn das Gesetz der Sitten und das Bild der Heiligkeit und Tugend auf unsere Seele überall einigen Einfluß ausüben soll, sie diesen nur insofern ausüben könne, als sie rein, unvermengt von Absichten auf sein Wohlbefinden als Triebfeder ans Herz gelegt wird, darum weil sie sich im Leiden am herrlichsten zeigt. Dasjenige aber, dessen Wegräumung die Wirkung einer bewegenden Kraft verstärkt, muß ein Hindernis gewesen sein. Folglich ist alle Beimischung der Triebfedern, die von eigener Glückseligkeit hergenommen werden, ein Hindernis, dem moralischen Gesetze Einfluß aufs menschliche Herz zu verschaffen. – Ich behaupte ferner, daß selbst in jener bewunderten Handlung, wenn der Bewegungsgrund, daraus sie geschah, die Hochschätzung seiner Pflicht war, alsdann ebendiese Achtung fürs Gesetz, nicht etwa ein Anspruch auf die innere Meinung von Großmut und edler verdienstlicher Denkungsart, gerade auf das Gemüt des Zuschauers die größte Kraft habe, folglich Pflicht, nicht Verdienst den nicht allein bestimmtesten, sondern, wenn sie im rechten Lichte | ihrer Unverletzlichkeit vorgestellt wird, auch den eindringendsten Einfluß aufs Gemüt haben müsse. In unseren Zeiten, wo man mehr mit schmelzenden, weichherzigen Gefühlen oder hochfliegenden, aufblähenden und das Herz eher welk als stark machenden Anmaßungen über das Gemüt mehr auszurichten hofft, als durch die der menschlichen Unvollkommenheit und dem Fortschritte im Guten angemessenere trockene und ernsthafte Vorstellung der Pflicht, ist die Hinweisung auf diese Methode nötiger als jemals. Kindern Handlungen als edle, großmütige, verdienstliche zum Muster aufzustellen in der Meinung, sie durch Einflößung eines Enthusiasmus für dieselben einzunehmen, ist vollends zweckwidrig. Denn da sie noch in der Beobachtung der gemeinsten Pflicht und selbst in der richtigen Beurteilung derselben soweit zurück sind, so heißt das soviel, als sie beizeiten zu Phantaster, zu machen. Aber auch bei dem belehrteren und erfahreneren Teil der Menschen ist diese vermeinte Triebfeder, wo nicht von nachteiliger, wenigstens von keiner echten moralischen Wirkung aufs Herz, die man dadurch doch hat zuwege bringen wollen. Alle G e f ü h l e , vornehmlich die, so ungewohnte Anstrengung bewirken sollen, müssen in dem Augenblicke, da sie in ihrer Hef-

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alla felicità. Dunque, la moralità deve aver tanta più forza sul cuore umano, quanto più pura essa vien rappresentata. Donde segue che, se la legge dei costumi e l’immagine della santità e della virtù devono esercitare generalmente qualche influsso sulla nostra anima, lo possono esercitare solo in quanto, come moventi del cuore, vengon poste pure, non mescolate con riguardi al proprio benessere, perché è nella sofferenza che la nostra anima si mostra più eccellente. Ma quello il cui allontanamento rafforza l’effetto di una forza movente, dev’essere stato un ostacolo. Quindi ogni mescolanza di moventi che vengono tratti dalla propria felicità, è un ostacolo a procurare alla legge morale un influsso sul cuore umano. Io sostengo, inoltre, che anche in quell’azione che si ammira, se il motivo determinante, per cui essa avvenne, fu la stima del proprio dovere, allora è questo rispetto alla legge, e non la pretesa a un’opinione interna di grandezza d’animo, e di modo nobile e meritorio di pensare, che ha la maggiore efficacia sull’animo dello spettatore; quindi è il dovere, e non il merito, che deve avere sull’animo, non solo l’influsso più determinato, ma, se viene rappresentato nella giusta luce della sua inviolabilità, anche l’influsso più penetrante. Ai nostri tempi, in cui si spera di far più effetto sul cuore con sentimenti teneri e compassionevoli, o con pretese alte che lo gonfiano e l’inaridiscono invece di fortificarlo, anziché mediante la rappresentazione secca e severa del dovere più conforme all’imperfezione umana e al progresso del bene, l’accenno a questo metodo è più necessario che mai. Proporre ad esempio ai ragazzi azioni nobili, magnanime, meritorie, credendo di interessarli ad esse con l’ispirar loro l’entusiasmo, ciò è affatto contrario allo scopo. Infatti, siccome essi sono ancora tanto indietro nell’osservanza del dovere più comune, e anche nel giudicarlo esattamente, ciò equivale a farne per tempo dei sognatori. Ma anche nella parte più istruita ed esperta degli uomini questo cosiddetto movente, se non è dannoso, non ha almeno sul cuore quel vero effetto morale che pure si è voluto produrre mediante esso. Tutti i s e n t i m e n t i , specialmente quelli che devono operare uno sforzo così insolito, devono produrre il loro effetto nel momento in cui sono nella loro veemenza, e prima che si calmi-

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tigkeit sind und, ehe sie verbrausen, ihre Wirkung tun, sonst tun sie nichts: indem | das Herz natürlicherweise zu seiner natürlichen, gemäßigten Lebensbewegung zurückkehrt und sonach in die Mattigkeit verfällt, die ihm vorher eigen war; weil zwar etwas, was es reizte, nichts aber, das es stärkte, an dasselbe gebracht war. G r u n d s ä t z e müssen auf Begriffe errichtet werden, auf alle andere Grundlage können nur Anwandlungen zustande kommen, die der Person keinen moralischen Wert, ja nicht einmal eine Zuversicht auf sich selbst verschaffen können, ohne die das Bewußtsein seiner moralischen Gesinnung und eines solchen Charakters, das höchste Gut im Menschen, gar nicht stattfinden kann. Diese Begriffe nun, wie sie subjektiv praktisch werden sollen, müssen nicht bei den objektiven Gesetzen der Sittlichkeit stehen bleiben, um sie zu bewundern und in Beziehung auf die Menschheit hochzuschätzen, sondern ihre Vorstellung in Relation auf den Menschen und auf sein Individuum betrachten; da denn jenes Gesetz in einer zwar höchst achtungswürdigen, aber nicht so gefälligen Gestalt erscheint, als ob es zu dem Elemente gehöre, daran er natürlicherweise gewöhnt ist, sondern wie es ihn nötigt, dieses oft nicht ohne Selbstverleugnung zu verlassen und sich in ein höheres zu begeben, darin er sich mit unaufhörlicher Besorgnis des Rückfalls nur mit Mühe erhalten kann. Mit einem Worte, das moralische Gesetz verlangt Befolgung aus Pflicht, nicht aus Vorliebe, die man gar nicht voraussetzen kann und soll. | Laßt uns nun im Beispiele sehen, ob in der Vorstellung einer Handlung als edler und großmütiger Handlung mehr subjektiv bewegende Kraft einer Triebfeder liege, als wenn diese bloß als Pflicht in Verhältnis auf das ernste moralische Gesetz vorgestellt wird. Die Handlung, da jemand mit der größten Gefahr des Lebens Leute aus dem Schiffbruche zu retten sucht, wenn er zuletzt dabei selbst sein Leben einbüßt, wird zwar einerseits zur Pflicht, andererseits aber und größtenteils auch für verdienstliche Handlung angerechnet, aber unsere Hochschätzung derselben wird gar sehr durch den Begriff von P f l i c h t g e g e n s i c h s e l b s t , welche hier etwas Abbruch zu leiden scheint, geschwächt. Entscheidender ist die großmütige Aufopferung seines Lebens zur Erhaltung des Vaterlandes, und doch, ob es auch so vollkommen Pflicht sei sich von selbst und unbefohlen dieser Absicht zu weihen, dar-

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no, altrimenti non fanno niente; poiché il cuore ritorna indietro naturalmente al suo movimento vitale naturale e moderato, e perciò cade nella fiacchezza che prima gli era propria; perché fu arrecato ad esso qualcosa che lo eccitava, ma niente che lo fortificasse. I p r i n c ì p i devono essere stabiliti su concetti; su tutti gli altri fondamenti possono soltanto effettuarsi velleità, che non possono procurare alla persona nessun valore morale, anzi nemmeno alcuna fiducia in se stessa, senza la quale non può affatto aver luogo la coscienza della moralità della propria intenzione e del proprio carattere, che è il sommo bene nell’uomo. Ora questi concetti, se devono diventare soggettivamente pratici, non devono, nelle leggi oggettive della moralità, limitarsi a farle ammirare e stimare altamente in relazione all’umanità, ma si deve considerare la loro rappresentazione in relazione all’uomo e alla sua individualità; quella legge, infatti, appare in una forma invero sommamente rispettabile, ma non così piacevole come se appartenesse all’elemento a cui l’uomo è abituato naturalmente, poiché essa lo obbliga spesso a lasciare, non senza abnegazione, tale elemento, e ad elevarsi a un elemento più alto, in cui egli si può mantenere con timore incessante di ricadere e solo con fatica. In una parola, la legge morale richiede l’osservanza per dovere, e non per una predilezione che non si può e non si deve affatto supporre. Ora ci sia permesso vedere in un esempio se, nella rappresentazione di un’azione come nobile e magnanima, vi sia maggior forza la quale muova oggettivamente, che non se il movente venga semplicemente rappresentato come dovere in relazione alla severa legge morale. L’azione con cui qualcuno, con il più gran pericolo della vita, cerca di salvar gente dal naufragio, se alla fine costui vi rimette anche la propria vita, da una parte viene bensì ascritta al dovere, ma l’altra parte e per lo più vien anche considerata come azione meritoria: ma la nostra alta stima per essa viene assai diminuita a causa del concetto del d o v e r e v e r s o s e s t e s s i , il quale qui sembra patire qualche danno. Più decisivo pare il sacrificio magnanimo della propria vita per la salvezza della patria; eppure, benché sia un dovere così perfetto consacrarsi a questo fine spontaneamente e senza essere

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uber bleibt einiger Skrupel übrig, und die Handlung hat nicht die ganze Kraft eines Musters und Antriebs zur Nachahmung in sich. Ist es aber unerläßliche Pflicht, deren Übertretung das moralische Gesetz an sich und ohne Rücksicht auf Menschenwohl verletzt und dessen Heiligkeit gleichsam mit Füßen tritt (dergleichen Pflichten man Pflichten gegen Gott zu nennen pflegt, weil wir uns in ihm das Ideal der Heiligkeit in Substanz denken), so widmen wir der Befolgung desselben mit Aufopferung alles dessen, was für die innigste aller unserer Neigungen nur immer ei|nen Wert haben mag, die allervollkommenste Hochachtung, und wir finden unsere Seele durch ein solches Beispiel gestärkt und erhoben, wenn wir an demselben uns überzeugen können, daß die menschliche Natur zu einer so großen Erhebung über alles, was Natur nur immer an Triebfedern zum Gegenteil aufbringen mag, fähig sei. J u v e n a l stellt ein solches Beispiel in einer Steigerung vor, die den Leser die Kraft der Triebfeder, die im reinen Gesetze der Pflicht als Pflicht steckt, lebhaft empfinden läßt: Esto bonus miles, tutor bonus, arbiter idem Integer; ambiguae si quando citabere testis Incertaeque rei, Phalaris licet imperet, ut sis Falsus, et admoto dictet periuria tauro: Summum crede nefas animam praeferre pudori, Et propter vitam vivendi perdere causas.

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Wenn wir irgend etwas Schmeichelhaftes vom Verdienstlichen in unsere Handlungen bringen können, dann ist die Triebfeder schon mit Eigenliebe etwas vermischt, hat also einige Beihilfe von der Seite der Sinnlichkeit. Aber der Heiligkeit der Pflicht allein alles nachsetzen und sich bewußt werden, daß man es k ö n n e , weil unsere eigene Vernunft dieses als ihr Gebot anerkennt und sagt, daß man es tun s o l l e , das heißt sich gleichsam über die Sinnenwelt selbst gänzlich erheben und ist in demselben Bewußtsein des Gesetzes auch als Triebfeder eines d i e S i n n l i c h k e i t b e h e r r s c h e n d e n Vermögens | unzertrennlich, wenngleich nicht immer mit Effekt verbunden, der aber doch auch durch die öftere Beschäftigung mit derselben und die anfangs kleineren Versuche ihres Gebrauchs Hoffnung zu seiner Bewirkung gibt, um in uns nach und nach das größte, aber reine moralische Interesse daran hervorzubringen.

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comandati, rimane qualche scrupolo a questo riguardo, e l’azione non ha in sé tutta la forza di un esempio e di uno stimolo all’imitazione. Ma se vi è un dovere imprescindibile, la cui trasgressione offende la legge morale in sé, senza riguardo al benesser dell’uomo, e ne calpesta per così dire la santità (simili doveri si usa chiamarli doveri verso Dio, perché noi ci rappresentiamo in lui l’ideale della santità fatta sostanza), allora noi consacriamo all’ubbidienza ad esso, col sacrificio di tutto ciò che può sempre soltanto aver un valore per le nostre inclinazioni più intime, tutto il rispetto possibile, e sentiamo la nostra anima fortificata ed elevata mediante un tale esempio, se per esso ci possiamo persuadere che la natura umana è capace di un’elevazione così grande su tutto ciò che la natura può sempre soltanto opporre ai moventi. Giovenale presenta un simile esempio in una gradazione, che fa sentire vivamente al lettore la forza del movente che si trova nella legge pura del dovere come dovere:

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Esto bonus miles, tutor bonus, arbiter idem Integer; ambiguoe si quando citabere testis Incertoeque rei, Phalaris licet imperet, ut sis Falsus, et admoto dictet periuria tauro, Summum crede nefas animam proeferre pudori, Et propter vitam vivendi perdere causas 29.

Se noi possiamo recare nelle nostre azioni qualcosa di ciò che il meritorio ha di lusinghiero, allora il movente è già un po’ mescolato con l’amor proprio, e perciò ha qualche aiuto dal lato della sensibilità. Ma tutto posporre soltanto alla santità del dovere, e diventar consci che si può far ciò perché la nostra propria ragione lo riconosce come suo comandamento, e dice che si d e v e fare, vuol dire elevarsi interamente al di sopra della sensibilità; e ciò è inseparabile, nella stessa coscienza della legge, anche come movente di una facoltà c h e d o m i n a l a s e n s i b i l i t à , se anche non sempre legato con l’effetto, il quale però, mediante una pratica frequente con questo movente, e mediante i tentativi, più piccoli dapprima, di farne uso, lascia sperare nella sua realizzazione, in modo da produrre in noi a poco a poco l’interesse più grande, ma puramente morale.

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Die Methode nimmt also folgenden Gang. Z u e r s t ist es nur darum zu tun, die Beurteilung nach moralischen Gesetzen zu einer natürlichen, alle unsere eigenen sowohl als die Beobachtung fremder freier Handlungen begleitenden Beschäftigung und gleichsam zur Gewohnheit zu machen und sie zu schärfen, indem man vorerst fragt: ob die Handlung objektiv d e m m o r a l i s c h e n G e s e t z e , und welchem gemäß sei; wobei man denn die Aufmerksamkeit auf dasjenige Gesetz, welches bloß einen G r u n d zur Verbindlichkeit an die Hand gibt, von dem unterscheidet, welches in der Tat v e r b i n d e n d ist (leges obligandi a legibus obligantibus) (wie z. B. das Gesetz desjenigen, was das B e d ü r f n i s der Menschen, im Gegensatze dessen, was das Recht derselben von mir fordert, wovon das letztere wesentliche, das erstere aber nur außerwesentliche Pflichten vorschreibt) und so verschiedene Pflichten, die in einer Handlung zusammenkommen, unterscheiden lehrt. Der andere Punkt, worauf die Aufmerksamkeit gerichtet werden muß, ist die Frage: ob die Handlung auch (subjektiv) u m d e s m o | r a l i s c h e n G e s e t z e s w i l l e n geschehen, und also sie nicht allein sittliche Richtigkeit als Tat, sondern auch sittlichen Wert als Gesinnung ihrer Maxime nach habe? Nun ist kein Zweifel, daß diese Übung und das Bewußtsein einer daraus entspringenden Kultur unserer bloß über das Praktische urteilenden Vernunft ein gewisses Interesse, selbst am Gesetze derselben, mithin an sittlich guten Handlungen nach und nach hervorbringen müsse. Denn wir gewinnen endlich das lieb, dessen Betrafhtung uns den erweiterten Gebrauch unserer Erkenntniskräfte empfinden läßt, welchen vornehmlich dasjenige befördert, worin wir moralische Richtigkeit antreffen; weil sich die Vernunft in einer solchen Ordnung der Dinge mit ihrem Vermögen, a priori nach Prinzipien zu bestimmen, was geschehen soll, allein gut finden kann. Gewinnt doch ein Naturbeobachter Gegenstände, die seinen Sinnen anfangs anstößig sind, endlich lieb, wenn er die große Zweckmäßigkeit ihrer Organisation daran entdeckt und so seine Vernunft an ihrer Betrachtung weidet, und L e i b n i z brachte ein Insekt, welches er durch das Mikroskop sorgfältig betrachtet hatte, schonend wiederum auf sein Blatt zurück, weil er sich durch seinen Anblick belehrt gefunden und von ihm gleichsam eine Wohltat genossen hatte. Aber diese Beschäftigung der Urteilskraft, welche uns unsere eigenen Erkenntniskräfte fühlen läßt, ist | noch nicht das Interesse

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Il metodo prende dunque quest’andamento. D a p p r i m a si tratta soltanto di fare, del giudizio secondo le leggi morali, un’occupazione naturale, che accompagni tutte le nostre azioni libere, e cosi pure l’osservazione di quelle degli altri e, nello stesso tempo, di farne un’abitudine e di acuirlo, mentre si domanda anzitutto se l’azione è c o n f o r m e oggettivamente a l l a l e g g e m o r a l e , e a quale; e in ciò si distingue l’attenzione a quella legge che fornisce semplicemente un p r i n c i p i o all’obbligazione, dalla legge che è realmente o b b l i g a t o r i a (leges obligandi a legibus obligantibus) (come per es. la legge di ciò che il bisogno degli uomini richiede da me, in opposizione a quello che il d i r i t t o di essi richiede, ove la seconda legge prescrive doveri essenziali, e la prima soltanto doveri accidentali); e così insegna a distinguere doveri differenti i quali s’incontrano in un’azione. L’altro punto, sul quale dev’essere diretta l’attenzione, è la questione se l’azione sia avvenuta anche (soggettivamente) p e r l a l e g g e m o r a l e , e quindi, secondo la sua massima, abbia non solo la rettitudine morale come fatto, ma anche il valore morale come intenzione. Ora non vi è alcun dubbio che quest’esercizio, e la coscienza di una cultura che ne risulta alla nostra ragione giudicante semplicemente di cose pratiche, debba produrre a poco a poco un certo interesse anche per la sua legge, e quindi per le azioni moralmente buone. Noi, infatti, finiamo per amare le cose, la cui considerazione ci fa sentire più esteso l’uso delle nostre facoltà di conoscere; la quale estensione è promossa specialmente da quello in cui troviamo la rettitudine morale; perché solo in un simile ordine di cose si può trovar bene la ragione col suo potere di determinare a p r i o r i secondo princìpi quel che deve accadere. Un osservatore della natura finisce per amare oggetti che in principio offendono i suoi sensi, se egli vi scorge la grande finalità della loro organizzazione, e così pasce la sua ragione nella loro considerazione; e Leibniz ripose delicatamente sulla foglia un insetto che aveva considerato accuratamente col microscopio, perché si era trovato istruito vedendolo, e aveva goduto da lui, per così dire un beneficio. Ma questa occupazione della facoltà di giudicare che ci fa sentire le nostre proprie facoltà di conoscere, non è ancora l’in-

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an den Handlungen und ihrer Moralität selbst. Sie macht bloß, daß man sich gerne mit einer solchen Beurteilung unterhält und gibt der Tugend oder der Denkungsart nach moralischen Gesetzen eine Form der Schönheit, die bewundert, darum aber noch nicht gesucht wird (laudatur et alget); wie alles, dessen Betrachtung subjektiv ein Bewußtsein der Harmonie unserer Vorstellungskräfte bewirkt, und wobei wir unser ganzes Erkenntnisvermögen (Verstand und Einbildungskraft) gestärkt fühlen, ein Wohlgefallen hervorbringt, das sich auch anderen mitteilen läßt, wobei gleichwohl die Existenz des Objekts uns gleichgültig bleibt, indem es nur als die Veranlassung angesehen wird, der über die Tierheit erhabenen Anlage der Talente in uns inne zu werden. Nun tritt aber die z w e i t e übung ihr Geschäft an, nämlich in der lebendigen Darstellung der moralischen Gesinnung an Beispielen die Reinigkeit des Willens bemerklich zu machen, vorerst nur als negativer Vollkommenheit desselben, sofern in einer Handlung als Pflicht gar keine Triebfedern der Neigungen als Bestimmungsgründe auf ihn einfließen; wodurch der Lehrling doch auf das Bewußtsein seiner F r e i h e i t aufmerksam erhalten wird und, obgleich diese Entsagung eine anfängliche Empfindung von Schmerz erregt, dennoch dadurch, daß sie jenen Lehrling dem Zwange selbst wahrer Bedürfnisse entzieht, ihm zugleich eine Befreiung von der mannigfaltigen Unzufriedenheit, | darin ihn alle diese Bedürfnisse verflechten, angekündigt und das Gemüt für die Empfindung der Zufriedenheit aus anderen Quellen empfänglich gemacht wird. Das Herz wird doch von einer Last, die es jederzeit insgeheim drückt, befreit und erleichtert, wenn an reinen moralischen Entschließungen, davon Beispiele vorgelegt werden, dem Menschen ein inneres, ihm selbst sonst nicht einmal recht bekanntes Vermögen, d i e i n n e r e F r e i h e i t , aufgedeckt wird, sich von der ungestümen Zudringlichkeit der Neigungen dermaßen loszumachen, daß gar keine, selbst die beliebteste nicht, auf eine Entschließung, zu der wir uns jetzt unserer Vernunft bedienen sollen, Einfluß habe. In einem Falle, wo i c h n u r a l l e i n w e i ß , daß das Unrecht auf meiner Seite sei und, obgleich das freie Geständnis desselben und die Anerbietung zur Genugtuung an der Eitelkeit, dem Eigennutze, selbst dem sonst nicht unrechtmäßigen Widerwillen gegen den, dessen Recht von mir geschmälert ist, so großen Widerspruch findet, dennoch mich über alle diese Bedenklichkeiten wegsetzen kann, ist

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teresse alle azioni e alla loro stessa moralità. Essa fa semplicemente che ci si trattenga volentieri in tale giudizio, e dà alla virtù, o al modo di pensare secondo leggi morali, una forma della bellezza, la quale viene ammirata, ma non perciò ancora cercata (laudatur et alget); come tutto ciò la cui considerazione produce soggettivamente una coscienza dell’armonia delle nostre facoltà rappresentative, e in cui noi sentiamo fortificata l’intiera nostra facoltà di conoscere (intelletto e immaginazione), produce un piacere che si può anche comunicare agli altri, benché l’esistenza dell’oggetto ci lasci indifferenti, perché esso vien considerato soltanto come l’occasione per scoprire in noi l’indizio di talenti superiori all’animalità. Ma ora comincia il suo ufficio, il s e c o n d o esercizio, quello cioè di attrarre, con la viva rappresentazione dell’intenzione morale mediante esempi, l’attenzione sulla purezza della volontà: e prima soltanto come perfezione negativa della volontà, in quanto in una azione fatta per dovere non entrano moventi delle inclinazioni come motivi determinanti di essa. Così il discepolo è reso attento alla coscienza della sua l i b e r t à ; e, benché questa rinunzia produca dapprima una sensazione di dolore, pure, pel fatto che essa sottrae quel discepolo alla violenza di veri bisogni, nello stesso tempo gli annunzia una liberazione dalla molteplice scontentezza in cui tutti questi bisogni lo involgono, e l’anima vien fatta capace di ricevere una sensazione di contentezza da altre origini. Il cuore vien liberato e sollevato da un peso che l’opprime sempre nascostamente quando nelle pure risoluzioni morali, di cui sono presentati esempi, viene manifestato all’uomo un potere interno che egli altrimenti non conosce mai bene: la l i b e r t à i n t e r n a di sbarazzarsi dall’importunità violenta delle inclinazioni, in modo che nessuna affatto, neanche quella che ci è più cara, abbia influsso su una risoluzione, per cui ci dobbiamo ora servire della nostra ragione. Si dia un caso in cui i o s o l t a n t o sappia che il torto è dalla mia parte, e benché la libera confessione di esso e la profferta di riparazione trovi sì grande opposizione nella vanità, nell’egoismo, e anche nell’antipatia, del resto non ingiusta, verso colui il cui diritto fu da me leso, io possa superare tutte queste esitazioni: qui è contenuta la coscienza di un’indi-

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doch ein Bewußtsein einer Unabhängigkeit von Neigungen und von Glücksumständen und der Möglichkeit, sich selbst genug zu sein, enthalten, welche mir überall auch in anderer Absicht heilsam ist. Und nun findet das Gesetz der Pflicht durch den positiven Wert, den uns die Befolgung desselben empfinden läßt, leichteren Eingang durch die A c h t u n g f ü r u n s s e l b s t im Bewußtsein unserer Freiheit. Auf diese, wenn sie wohl | gegründet ist, wenn der Mensch nichts stärker scheuet, als sich in der inneren Selbstprüfung in seinen eigenen Augen geringschätzig und verwerflich zu finden, kann nun jede gute sittliche Gesinnung gepfropft werden; weil dieses der beste, ja der einzige Wächter ist, das Eindringen unedler und verderbender Antriebe vom Gemüte abzuhalten. Ich habe hiermit nur auf die allgemeinsten Maximen der Methodenlehre einer moralischen Bildung und Übung hinweisen wollen. Da die Mannigfaltigkeit der Pflichten für jede Art derselben noch besondere Bestimmungen erforderte und so ein weitläufiges Geschäfte ausmachen würde, so wird man mich für entschuldigt halten, wenn ich in einer Schrift wie diese, die nur Vorübung ist, es bei diesen Grundzügen bewenden lasse.

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pendenza da inclinazioni e da circostanze felici, e della possibilità di bastare a me stesso, la quale possibilità mi è vantaggiosa dappertutto anche da un altro punto di vista. E così la legge del dovere, mediante il valore positivo che l’osservanza di essa ci fa sentire, trova un accesso più facile mediante i l r i s p e t t o p e r n o i s t e s s i alla coscienza della nostra libertà. Su questo rispetto, se è ben fondato, se l’uomo non teme niente più del trovarsi spregevole e riprovevole ai propri occhi nell’esame di coscienza, può essere innestata ogni buona intenzione morale, perché questo è il custode migliore, anzi l’unico, per impedire agl’istinti ignobili e corruttori di penetrare nell’anima. Con ciò ho voluto soltanto indicare le massime più universali della dottrina del metodo di una educazione e di una pratica morale. Siccome la molteplicità dei doveri richiederebbe ancora determinazioni particolari per ogni specie di essi, e ciò importerebbe un lavoro esteso, così mi si terrà per scusato se in un’opera come questa, la quale è soltanto preliminare, mi contento di questi tratti fondamentali.

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Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und zunehmender Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender sich das Nachdenken damit beschäftigt: d e r b e s t i r n t e H i m m e l ü b e r m i r u n d d a s m o r a l i s c h e G e s e t z i n m i r. Beide darf ich nicht als in Dunkelheiten verhüllt oder im Überschwenglichen, außer meinem Gesichtskreise suchen und bloß vermuten; ich se|he sie vor mir und verknüpfe sie unmittelbar mit dem Bewußtsein meiner Existenz. Das erste fängt von dem Platze an, den ich in der äußeren Sinnenwelt einnehme, und erweitert die Verknüpfung, darin ich stehe, ins unabsehlich Große mit Welten über Welten und Systemen von Systemen, überdem noch in grenzenlose Zeiten ihrer periodischen Bewegung, deren Anfang und Fortdauer. Das zweite fängt von meinem unsichtbaren Selbst, meiner Persönlichkeit an und stellt mich in einer Welt dar, die wahre Unendlichkeit hat, aber nur dem Verstande spürbar ist, und mit welcher (dadurch aber auch zugleich mit allen jenen sichtbaren Welten) ich mich nicht wie dort in bloß zufälliger, sondern allgemeiner und notwendiger Verknüpfung erkenne. Der erstere Anblick einer zahllosen Weltenmenge vernichtet gleichsam meine Wichtigkeit als eines t i e r i s c h e n G e s c h ö p f s , das die Materie, daraus es ward, dem Planeten (einem bloßen Punkt im Weltall) wieder zurückgeben muß, nachdem es eine kurze Zeit (man weiß nicht wie) mit Lebenskraft versehen gewesen. Der zweite erhebt dagegen meinen Wert als einer Intelligenz unendlich durch meine Persönlichkeit, in welcher das moralische Gesetz mir ein von der Tierheit und selbst von der ganzen Sinnenwelt unabhängiges Leben offenbart, wenigstens soviel sich aus der zweckmäßigen Bestimmung meines Daseins durch dieses Gesetz, welche nicht auf Bedingungen und Grenzen dieses Lebens | eingeschränkt ist, sondern ins Unendliche geht, abnehmen läßt.

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: i l c i e l o s t e l l a t o s o p r a d i m e , e l a l e g g e m o r a l e i n m e . Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo d a v a n t i a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di c r e a t u r a a n i m a l e che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell’universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una i n t e l l i g e n z a , mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.

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Allein Bewunderung und Achtung können zwar zur Nachforschung reizen, aber den Mangel derselben nicht ersetzen. Was ist nun zu tun, um diese auf nutzbare und der Erhabenheit des Gegenstandes angemessene Art anzustellen? Beispiele mögen hierbei zur Warnung, aber auch zur Nachahmung dienen. Die Weltbetrachtung fing von dem herrlichsten Anblicke an, den menschliche Sinne nur immer vorlegen und unser Verstand in ihrem weiten Umfange zu verfolgen nur immer vertragen kann, und endigte-mit der Sterndeutung. Die Moral fing mit der edelsten Eigenschaft in der moralischen Natur an, deren Entwicklung und Kultur auf unendlichen Nutzen hinaussieht, und endigte – mit der Schwärmerei oder dem Aberglauben. So geht es allen noch rohen Versuchen, in denen der vornehmste Teil des Geschäftes auf den Gebrauch der Vernunft ankommt, der nicht, sowie der Gebrauch der Füße, sich von selbst vermittelst der öfteren Ausübung findet, vornehmlich wenn er Eigenschaften betrifft, die sich nicht so unmittelbar in der gemeinen Erfahrung darstellen lassen. Nachdem aber, wiewohl spät, die Maxime in Schwang gekommen war, alle Schritte vorher wohl zu überlegen, die die Vernunft zu tun vorhat, und sie nicht anders als im Geleise einer vorher wohl überdachten Methode ihren Gang machen zu lassen, so be|kam die Beurteilung des Weltgebäudes eine ganz andere Richtung und mit dieser zugleich einen ohne Vergleichung glücklicheren Ausgang. Der Fall eines Steins, die Bewegung einer Schleuder, in ihre Elemente und dabei sich äußernde Kräfte aufgelöst und mathematisch bearbeitet, brachte zuletzt diejenige klare und für alle Zukunft unveränderliche Einsicht in den Weltbau hervor, die bei fortgehender Beobachtung hoffen kann, sich immer nur zu erweitern, niemals aber zurückgehen zu müssen fürchten darf. Diesen Weg nun in Behandlung der moralischen Anlagen unserer Natur gleichfalls einzuschlagen, kann uns jenes Beispiel anrätig sein und Hoffnung zu ähnlichem guten Erfolg geben. Wir haben doch die Beispiele der moralisch urteilenden Vernunft bei Hand. Diese nun in ihre Elementarbegriffe zu zergliedern, in Ermangelung der M a t h e m a t i k aber ein der C h e m i e ähnliches Verfahren, der S c h e i d u n g des Empirischen vom Rationalen, das sich in ihnen vorfinden möchte, in wiederholten Versuchen am gemeinen Menschenverstande vorzunehmen, kann uns beides

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Ma l’ammirazione e il rispetto possono bensì eccitare alla ricerca, ma non compensano la sua mancanza. Ora, che c’è da fare per intraprendere questa ricerca in un modo utile e conveniente alla sublimità dell’oggetto? Gli esempi a questo proposito possono servire all’esortazione, ma anche all’imitazione. La considerazione del mondo cominciò dallo spettacolo più bello che i sensi umani possano mai presentare, e che il nostro intelletto possa mai sostenere di perseguire nella sua grande estensione, e finì – con l’astrologia. La morale cominciò con la proprietà più nobile della natura umana, il cui sviluppo e la cui cultura mirano ad una utilità infinita, e finì – col fanatismo e con la superstizione. Così avviene di tutti i tentativi ancora rozzi, in cui la parte principale dell’impresa dipende dall’uso della ragione, che non si trova spontaneamente come l’uso dei piedi mediante l’esercizio frequente, specialmente se riguarda proprietà che non si possono manifestare così immediatamente nell’esperienza comune. Ma, dopo che, quantunque tardi, venne in uso la massima di riflettere bene, prima, a tutti i passi che la ragione intende fare, e di non lasciarla procedere altrimenti che per il sentiero di un metodo prima ben esaminato, allora il giudizio sull’universo ricevette tutt’altro indirizzo, e, insieme con questo, un esito, senza paragone, più felice. La caduta di una pietra, il movimento di una pianta, risolti nei loro elementi e nelle forze che vi si manifestano, e trattati matematicamente, produssero, infine, quella cognizione del sistema del mondo chiara e immutabile per tutto l’avvenire, la quale, col progresso dell’osservazione, può sperare sempre soltanto di estendersi, ma non può mai temere di dover ritornare indietro. Ora, questo esempio ci può consigliare a seguir la stessa via nella trattazione delle disposizioni morali della nostra natura, e ci può dare la speranza di un simile buon risultato. Noi abbiamo sotto mano gli esempi del giudizio morale della ragione. Ora, analizzare questi esempi nei loro concetti elementari, e in mancanza della m a t e m a t i c a adottare un procedimento simile a quello della c h i m i c a , della s e p a r a z i o n e dell’empirico dal razionale che si potrebbe trovare in essi, con ripetuti tentativi sull’intelletto umano ordinario, ci può far conoscere con certez-

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r e i n und, was iedes für sich allein leisten könne, mit Gewißheit kenubar machen, und so teils der Verirrung einer noch r o h e n , ungeübten Beurteilung, teils (welches weit nötiger ist) den G e n i e s c h w ü n g e n vorbeugen, durch welche, wie es von Adepten des Steins der Weisen zu geschehen pflegt, ohne alle methodische Nachforschung | und Kenntnis der Natur geträumte Schätze versprochen und wahre verschleudert werden. Mit einem Worte: Wissenschaft (kritisch gesucht und methodisch eingeleitet) ist die enge Pforte, die zur We i s h e i t s l e h r e führt, wenn unter dieser nicht bloß verstanden wird, was man t u n , sondern was L e h r e r n zur Richtschnur dienen soll, um den Weg zur Weisheit, den jedermann gehen soll, gut und kenntlich zu bahnen und andere vor Irrwegen zu sichern: eine Wissenschaft, deren Aufbewahrerin jederzeit die Philosophie bleiben muß, an deren subtiler Untersuchung das Publikum keinen Anteil, wohl aber an den L e h r e n zu nehmen hat, die ihm nach einer solchen Bearbeitung allererst recht hell einleuchten können.

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za entrambi gli elementi p u r i , e ciò che ognuno per sé solo può fare; e così si può impedire in parte l’errore di un giudizio ancora r o z z o e non esercitato, e in parte (cosa molto più necessaria) le s t r a v a g a n z e g e n i a l i , mediante le quali, come suole avvenire negli adepti della pietra filosofale, si promettono, senza alcuna ricerca metodica e cognizione della natura, tesori immaginari mentre si sprecano quelli veri. In una parola, la scienza (criticamente cercata e metodicamente avviata) è la porta stretta che conduce alla d o t t r i n a d e l l a s a g g e z z a , se per questa non s’intende semplicemente ciò che si deve fare, ma ciò che deve servire di regola ai m a e s t r i per spianar bene e far conoscere la via della saggezza, che ciascuno deve seguire, e assicurare gli altri dagli errori; una scienza, custode della quale deve sempre restare la filosofia, alla cui sottile ricerca il pubblico non ha da prendere nessuna parte, dovendo bensì partecipare delle d o t t r i n e che soltanto dopo una tale elaborazione gli possono riuscire affatto chiare.

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NOTE 1 [Le incoerenze – Inconsequenz – a cui qui Kant allude, gli erano state rimproverate in una recensione «di Tubinga», uscita nel febbraio del 1786, sulla Grundlegung («Tüb. gel. Anz.», 1786, 14. Stück, 16. Febr., pp. 105 sgg.), attribuita da Hamann, in una lettera a Jacobi del 13 maggio 1786, a Gottlob August Tittel, ma in realtà opera del professore di Tubinga J. Fr. Flatt (1759-1821). Dall’accusa di circolo vizioso Kant tornerà a difendersi in una lettera a Kieseweter del 20 aprile 1790 (Brief wechsel, II, p. 152), osservando che (cfr. V. Delbos, La philosophie pratique de Kant, Paris 1905, p. 139, n. 1) «la libertà concepita come causalità della volontà degli esseri ragionevoli, e la legge morale incondizionata, sono due determinazioni semplicemente reciproche dell’idea trascendentale, posta antecedentemente, di una libertà cosmologica».] 2 Hor. Sat., I, I, 19. [T] 3 [Il ‘critico’ a cui Kant allude è, qui, G. A. Tittel nato il 16 novembre 1739 a Pirna, morto il 16 settembre 1816 in Karlsruhe, nel cui Gymnasium insegnò dal 1764. Filosofo eclettico, scrisse sulla Grundlegung: Ueber Herrn Kants Moralreform, Frankfurt und Leipzig, 1786 (cfr. anche: Kantische Denkformen oder Kategorien, 1788), ove, appunto, p. 35, si chiedeva fra l’altro: «Soll denn die ganze Kantische Moralreform etwa nur auf ein neue Formel sich beschränken?».] 4 [È il recensore della Grundlegung nella «Allgemeinen deutschen Bibliothek», Bd. 66, pp. 447 e sgg., il Pastore Hermann Andreas Pistorius (17301798), commentatore delle Observations di Hartley tradotte da v. Spieren.] 5 [Plaut. Pers., I, 1, 42: aquam a pumice postulare.] 6 [Cfr. oltre, p. 141. Kant si riferisce, a proposito del carattere analitico e apodittico della matematica a Inquiry concerning Human Understanding, sect. IV. Ma cfr., oltre al Treatise, Inquiry, sect. XII, 2.] 7 Il chirurgo inglese, Guglielmo Cheselden (1688-1752), operò nel 1728 un cieco nato, rendendogli la vista col mezzo della pupilla artificiale. [T] 8 L’italiano non può riprodurre l’analogia, soltanto letterale, di Gesicht (vista) e Gefühl (tatto) con eingesehenen e gefühlten, che qui non hanno il senso

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Note

proprio di v e d u t o e t o c c a t o , ma quello traslato di c o n o s c i u t o e s e n t i t o . [T] 9 [C’è qui un’allusione alla ben nota recensione alla Critica della ragion pura, fatta da Cristiano Garve (1742-98) e abbreviata da G. G. Enrico Feder (17401821) a cui Kant rispose nell’appendice ai Prolegomeni. La recensione era comparsa nel numero del 19 gennaio 1782 delle «Geleherte Anzeigen» di Gottinga, ma nell’agosto del 1783 il Garve pubblicò nella propria stesura originale il testo (che il Feder aveva abbreviato) nell’«Allgem. deutsche Bibliothek» del Nicolai. «Commentator des Feders» chiamava Hamann l’altro critico di Kant ricordato sopra, il Tittel. Nella sua autobiografia (Leben, Natur und Grundsätze, 1825) il Feder farà la «storia delle sue controversie circa la filosofia kantiana».] 10 [Coalitions-system, Koalitionsversuche: con questi termini Kant indica, con disprezzo, le varie posizioni eclettiche care alla filosofia ufficiale.] 11 [Nei Prolegomeni, ed. dell’Accademia, IV, p. 274, sono indicate come fatto incontestato le proposizioni scientifiche (della matematica pura e della fisica pura). Nella Critica del Giudizio, V, pp. 467-8, si precisa una teoria della res facti, scibile, Thatsache («...ma ciò che è molto notevole è che tra le cose di fatto si trovi anche un’idea della ragione... ed è l’idea della libertà»).] 12 Böses, cattivo in senso morale. [T] 13 Uebel, male in genere. [T] 14 [Gli scritti di Francis Hutcheson (1694-1747) si diffusero anche in traduzioni tedesche (A system of moral philosophy = Sittenlehre der Vernunft, tr. Lessing, 1756; Inquiry into the origin of our ideas of beauty and virtue, tr. J. H. Merck, 1762; Essay on the nature and conduct of the passions and affections, tr. ted. 1765). Della sua influenza su Kant si trovano tracce cospicue negli scritti anteriori al ’70 (cfr. per es., Scritti precritici, Bari, 1953, p. 253; V. Delbos, op. cit., p. 105) e lo stesso Borowski nella Vita ricorda la cura con cui Kant aveva studiato la morale di H. (ed. Schwarz, Halle a. S., 1907, p. 77: «In den Jahren, da ich zu seinen Schülern gehörte, waren ihm Hutcheson und Hume, jener im Fache der Moral, dieser in seinen tiefen, philosophischen Untersuchungen ausnehmend wert»). Di Bernardo di Mandeville (1670-1733) The fable of the bees non era tradotta in tedesco, ma circolò in tutta Europa tradotta in francese, in tedesco erano usciti nel 1726 i Free thoughts on religion, the church and national happiness. Di Cristian August Crusius (1715-1775) cfr. per es. Entwurf der notwendigen Vernunftwahrheiten..., Leipzig, 1745 (per la sua influenza su Kant, cfr. A. Marquardt, Kant und Crusius, Kiel, 1885).] 15 [Il testo ha praktischen Gebrauche in tutte le edizioni, e il Born usa practico. Ma il Barni, l’Abbot, il Picavet e il Capra considerano questo termine come errore, e sostituiscono il termine teoretico.] 16 [etwas Böses, cfr. Cic. Tusc. disp., II, 25, 61: «Nihil agis, dolor! quamvis sis molestus, numquam te esse confitebor malum».] 17 [La prima ed. ha Gesetze.] 18 Triebfedern, molle, impulsi, moventi. [T] 19 Beförderung, promuovimento. [T]

Note

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20 Bernardo Fontenelle (1657-1757), volgarizzatore delle dottrine astronomiche di Copernico e di Cartesio, e autore di arguti aforismi ed epigrammi. [T] 21 [Leibniz, Theodicée, 52, 403, ed. Gerhardt, VI, 131, 356.] 22 [J. Priestley, The Doctrine of Philosophical Necessity, London, 1777, pp. 86 sgg.] 23 Giacomo Vaucanson (1709-82), celebre meccanico. [T] [Cfr., di La Mettrie, L’homme machine, Leyde, 1748, pp. 92 sgg.: «s’il a fallu plus d’art a Vaucanson pour faire son fluteur...».] 24 Mosè Mendelssohn (1729-86), filosofo dell’Aufklärung. [T] [Morgenstunden, 11 sgg.; Sämmtliche Werke, Wien, 1838, pp. 160 sgg.] 25 [Coalitionversuche, termine corrispondente a Coalitionssystem del § 3, scolio I dell’Analitica] 26 [Il testo dell’ed. dell’Accademia Prussiana ha: «oberste Ursache der Natur», come Hartenstein ecc.; si corregge così l’evidente errore di stampa delle edd. prima e quarta che hanno «oberste der Natur», mentre la seconda ha «oberste Natur», secondo cui tradusse il Capra.] 27 Le edd. originali hanno: «theologischen Grundsätzen». 28 Tommaso Wizenmann, amico e seguace dello Jacobi. [T] [Di lui era uscito anonimo nel 1786 a Lipsia lo scritto Die Resultate der Jacobi’schen und Mendelssohn’schen Philosophie, kritisch untersucht von einem Freywilligen. Nell’ottobre di quell’anno Kant aveva pubblicato nella «Berliner Monatschrift» il suo saggio Was heisst: sich im Denken orientiren? ove si alludeva a Th. Wizenmann («questo è avvenuto nel dibattito fra Mendelssohn e Jacobi, soprattutto per mezzo delle non insignificanti conclusioni dell’acuto autore dei Resultati»). Wizenmann rispose appunto nel «Deutsches Museum» (1787, I, pp. 116-56) con lo scritto An den Herrn Professor Kant von der Verfasser der Resultate Jacobi’scher und Mendelssohn’scher Philosophie, a cui qui Kant si riferisce. Th. Wizenmann morì il 22 febbraio 1787 a Mühlheim.] 29 Sat. VIII, vv. 79-84. [T] [Era un testo caro a Kant che lo cita nella Religione, Opp., VI, p. 49, e nella Dottrina del diritto, Opp., VI, p. 334. Alla sua predilezione per il detto di Giovenale accenna anche il Wasianski.]

GLOSSARIO I numeri arabi, in carattere tondo, non preceduti da alcuna sigla, rimandano alle pagine dell’edizione della Critica della ragion pratica pubblicata nella «Biblioteca Universale Laterza» nel 1995. Quando le citazioni sono tratte da altre opere di Kant, sono sempre distinte da sigle, di cui si dà l’elenco più sotto. Per le opere kantiane di cui è facilmente accessibile una traduzione italiana, si è pensato di valersene, al fine di rendere più agevole al lettore il reperimento dei luoghi citati. Pertanto dopo la sigla seguirà direttamente, in cifre arabe, l’indicazione del numero della pagina della traduzione italiana da cui è stato desunto il passo citato. Solo nel caso della Critica della ragion pura figurano a volte, dopo il numero arabo in tondo, anche numeri arabi in corsivo e preceduti da A o B, che rimandano alle pagine della prima (A) o seconda (B) edizione della Critica (ed. dell’Accademia di Berlino), e indicano che i passi relativi appaiono soltanto nella prima o nella seconda edizione. Naturalmente nell’utilizzare queste traduzioni si è sempre tenuto conto del termine tedesco originario, anche là dove si verificano eventuali disparità nella sua traduzione. Per tutte le altre opere di Kant, alla sigla segue l’indicazione del volume (in cifre romane) e della pagina (in cifre arabe) dell’ed. dell’Accademia di Berlino in cui si trova il passo citato. Nelle singole voci si è cercato di dare rilievo ai termini particolarmente importanti, adottando o riservando per essi il carattere corsivo. I brani autentici di Kant, a volte abbreviati, sono tra virgolette «...»; per altri scopi si usano gli apici semplici ‘...’. I rinvii a questo stesso glossario sono indicati con v.; quelli alle opere di Kant con cfr.

Abbreviazioni concl. ed.

= conclusione = edizione

intr. n.

= introduzione = nota

364 oss. pref. r. p. trad. sez. ANTR ARG CONFL COST DM FOND GIUD

Glossario = osservazione = prefazione = ragion pura = traduzione = sezione = Antropologia pragmatica (trad. it., Laterza, Bari 1969) = L’unico argomento ecc. = Il conflitto delle falcoltà = Metafisica dei costumi = De mundi sensibilis, etc. = Fondazione della metafisica dei costumi = Critica del Giudizio (trad.

(Gewohnheit) 52: «una necessità soggettiva». PURA, 108: «Subiettiva necessità derivante dalla frequente associazione dell’esperienza, che viene falsamente tenuta per oggettiva». Nel senso di ‘assuefazione’ (Angewohnheit). ANTR § 12 (32): «una necessità fisica interna di comportarsi ancora nello stesso modo in cui ci si è comportati». AFFETTO (Affect) ANTR § 73 (141): «sentimento di un piacere o di un dolore attuale che non lascia sorgere nel soggetto la riflessione». AMMIRAZIONE (Bewunderung) GIUD § 29 oss. (110): «meraviglia che non cessa col venir meno della volontà». AMORE (Liebe) in quanto inclinazione è «patologico» (v.) anche se sia (83): «a. di Dio»; in quanto comandato dalla legge morale è «pratico» (ivi). AMOR PROPRIO (Selbstliebe) 73: «benevolenza verso se stessi»; 74: «tendenza a fare di sé il motivo determinante della volontà»; 26: fornisce precetti, ma non leggi pratiche. ANALITICA (Analytik) della r. pratica 16: «regola della verità morale». ANALITICO (analytisch) 112: nesso logico, in contrapposto al legame reale, ABITUDINE

LOG OP PROL PURA

REL

it. con Glossario, Laterza, Roma-Bari 1991, nella collana «Biblioteca Universale Laterza») = Logica = Opus postumum = Prolegomeni ad ogni futura metafisica = Critica della ragion pura (trad. it. con Glossario, Laterza, Roma-Bari 1991, nella collana «Biblioteca Universale Laterza») = La religione nei limiti della semplice ragione

che è sintetico. Giudizio a., PURA 39, quello in cui il predicato «appartiene al soggetto come qualcosa che vi è contenuto». ANALOGIA (Analogie) PURA 161: in matematica, «l’eguaglianza di due rapporti quantitativi»; in filosofia, l’eguaglianza di due rapporti qualitativi, in cui, dati tre membri, può essere conosciuto e dato a priori solo il rapporto a un quarto, ma non questo quarto membro medesimo. 11: comporta una «universalità o necessità oggettiva almeno presunta». ANTINOMIA (Antinomie): contraddizione inevitabile. 114: A. della r. pratica è l’alternativa per cui, o la felicità dev’essere il movente della virtù, o la virtù deve essere la causa della felicità. ANTROPOMORFISMO (Anthropomorphismus): tendenza a concepire la divinità in forme umane; 134: «origine della superstizione». REL 2, 1, b (VI, 65, n.): quando non sia semplicemente simbolico, bensì dommatico, «ha le conseguenze più funeste per la religione». APODITTICO (apodiktisch): dimostrativamente necessario. PURA 93: Giu-

Glossario dizio a. è quello in cui «l’affermare e il negare si considera come necessario». A PRIORI: nella Scolastica significava: ‘a partire da ciò che precede’; in Kant (PROL § 36: IV 139) significa «indipendente da ogni esperienza». ARCHETIPO (Archetypon), v. NATURA. ARCHITETTONICA (Architektonik) PURA 509: «Per a. intendo l’arte del sistema». ASSERTORIO (assertorisch) PURA 93: a. è il giudizio in cui lo «affermare il negare si considera come reale (vero)». AUTONOMIA (Autonomie): proprietà di un principio di fornire la legge a se stesso. 34-5: Carattere della legge morale per cui l’obbedienza ad essa non è condizionata da alcuna inclinazione sensibile; sola condizione a cui le massime (v.) possono accordarsi con la legge morale. 87: l’a. dell’essere razionale condiziona la volontà di ciascuno, e perciò l’uomo non può essere usato come un puro mezzo. FOND, sez. 2 (IV, 440): «principio dell’a. è: scegliere in modo che le massime della propria scelta siano insieme comprese nel volere medesimo come legge universale». BEATITUDINE (Seligkeit) 123 n.: «benessere completo, indipendente da tutte le cause contingenti del mondo»; 26: «presuppone una coscienza d’autosufficienza»; 119: implica l’indipendenza completa dalle inclinazioni (v. FELICITÀ). BENE (das Gute) 58: «oggetto della r. pratica», distinto dal piacevole; 63: «non va determinato prima della legge morale, ma solo mediante essa». Il bene razionale (Gut) va distinto dal bene sensibile (Wohl). ‘Sommo b.’ (das höchste Gut) 108: è l’oggetto della r. p. pratica nella

365 sua totalità incondizionata»; 114: è possibile pensarlo solo se si risolve l’antinomia (v.) della r. pratica. 128: sommo b. originario è Dio: PURA 498: «Io dico ideale del sommo b. l’idea di un’intelligenza in cui il volere moralmente più perfetto, unito alla più alta beatitudine, è causa di ogni felicità nel mondo, in quanto essa sta in esatto rapporto con la moralità». ‘B. supremo’ è la virtù, in quanto condizione suprema del sommo b. (dove, alla virtù, deve corrispondere inoltre una pari felicità). BISOGNO (Bedürfnis) della r. pratica: 141: «è fondato su un dovere diperseguire il sommo bene»; 141: «b. in un senso assolutamente necessario»; 141 n.: «gli altri sono b. dell’inclinazione». BUONO (gut): GIUD § 4 (39): «b. è ciò che, mediante la ragione, piace esclusivamente per il suo concetto». CARATTERE (Charakter) intelligibile: fondamento noumenico dell’agire; PURA 350: «non sottostà a nessuna condizione del senso, e non è per se stesso fenomeno». CATEGORICO (kategorisch): ciò che è affermato (o dato) indipendentemente da ogni condizione; quindi, ‘incondizionato’. Giudizio c. è quello in cui la affermazione o negazione non è fatta dipendere da un’ipotesi; imperativo c., è un comando che vale indipendentemente da qualsiasi condizione. CATEGORIA (Kategorie) in senso etimologico vale «predicato»; in Kant è una funzione dell’intelletto, secondo cui esso unifica il materiale in un giudizio. GIUD § 36 (114): «concetto a priori che permette di pensare il molteplice come determinazione dell’oggetto». C. della libertà

366 (66) sono «concetti pratici (v.) a priori» che qualificano il modo in cui si determina la volontà, e «non han bisogno d’intuizione per avere un significato». CAUSA NOUMENON 56: «concetto di un essere che ha la volontà libera»; 50: causa intelligibile (v.), non condizionata dallo schema intuitivo della causalità (successione temporale): ‘pensabile’. GIUD IX (29): «usata a proposito del soprasensibile, la parola c. indica solo il motivo che determina la causalità delle cose naturali a produrre un effetto secondo le proprie leggi, ma anche in accordo col principio formale delle leggi della r.». CAUSALITÀ (Causalität): categoria di relazione, che connette l’antecedente col conseguente. PURA 353: «noi abbiamo bisogno del principio di c. per assegnare le condizioni naturali dei fatti». 127: «come necessità naturale, riguarda solo l’esistenza delle cose in quanto è determinabile nel tempo». ‘C. mediante la libertà’ (Causalität durch Freiheit) 48: potere di agire per attuare la legge morale, dedotto (v. DEDUZIONE) in forza della legge medesima. CONCLUDERE (schliessen): derivare una conoscenza da un principio (cfr. PURA 239). Forma classica del concludere è il sillogismo (Schluss). 9: il c. implica necessità oggettiva. CONOSCERE (erkennen) A Beck 20.I.1792 (XI, 315): «rappresentarsi un oggetto dato come tale mediante concetti». PURA 118 (B146): «comprende due punti: un concetto per cui un oggetto è pensato e l’intuizione onde l’oggetto è dato». Il concetto basta da solo a ‘pensare’ l’oggetto, ma non a ‘conoscerlo’: PURA 22 (B XXVI n.): «per cono-

Glossario scere un oggetto, si richiede che io possa provare la sua possibilità, ma io posso pensare ciò che voglio alla sola condizione di non contraddirmi». CONTENTEZZA (Zufriedenheit) per il dovere compiuto: (41) presuppone il rendersi conto dell’obbligo; (115) presuppone altresì un’inclinazione virtuosa, ma (40) non è legata necessariamente con la coscienza della virtù. CRITICA (Kritik) PURA 48: «una scienza che si limiti a giudicare la r. p., le sue fonti e i suoi limiti». Come c. della r. p. speculativa (PURA 6, A XIXII) «garantisce la r. nelle sue pretese legittime e condanna quelle che non hanno fondamento» (e cioè: la pretesa che la r. ha di conoscere da sola, anche fuori del campo dell’esperienza possibile). Come c. della r. p. pratica (3 sgg.) non vieta alla r. di determinare da sola la volontà: al contrario, mostra solo che da tale determinazione risulta l’azione morale. DEDUZIONE (Deduction) PURA 142: giustificazione di un diritto. ‘D. dei princìpi della r. p. pratica’ (43): giustificazione del valore oggettivo e universale del principio morale. 49: la legge morale non richiede d. (v. FATTO), ma fornisce il principio per una d. della libertà. La ‘d. trascendentale del sommo bene’ (114) deve fondarsi su un principio a priori. DIALETTICA (Dialektik) PURA 84: «critica delle apparenze»; seconda parte della Logica, in cui si smascherano gli errori. ‘D. della r. p. pratica’ (15-6): «esposizione e soluzione delle apparenze nei giudizi della r. pratica». DIGNITÀ (Würde) FOND, sez. 2 (IV, 435): «ciò che costituisce la condi-

Glossario zione a cui soltanto qualcosa può essere un fine in se stesso ha, non solo un valore relativo, cioè un prezzo, ma un valore intrinseco, cioè una d.». 129-30: degni del possesso di una cosa o di uno stato si è quando «questo possesso va d’accordo col sommo bene». DIO (Gott) PURA 371-2: «Essere originario, supremo, essere degli esseri». 124: Causa adeguata a proporzionare la felicità alla virtù, e, pertanto, postulato (v.) della r. p. pratica; (137): il suo concetto non appartiene né alla fisica né alla metafisica, bensì alla morale, che ne offre (138) «un concetto esattamente determinato». DISPOSIZIONE (Anlage) REL c. 1,1 (VI, 28): «per d. di un essere intendiamo, tanto i costituenti che esso richiede, quanto le forme che deve avere il loro collegamento per costituire un tal essere». DOTTRINA DELLA SAGGEZZA (Weisheitslehre) 108: sapere, non solo «ciò che si deve fare», ma anche «ciò che deve servire di regola ai maestri» (v. SAGGEZZA). DOTTRINA DEL METODO (Methodenlehre) della r. p. pratica: 149: «modo in cui si può procurare alle leggi della r. p. pratica un influsso sulle massime» del nostro volere. DOVERE (Pflicht) 82: «costringimento morale»; 33: azione a cui si è obbligati «mediante la semplice ragione e legge oggettiva di questa»; (FOND sez. 2: IV, 400) «necessità di un’azione per rispetto verso la legge»; tuttavia è impossibile riconoscere con certezza anche un solo caso in cui la massima di una azione «riposi esclusivamente su fondamenti morali e sulla rappresentazione del proprio dovere». ‘D. perfetto’ (vollkommen) è quello determinato dal-

367 la legge in tutte le sue modalità; imperfetto (unvollkommen) quello a cui la legge morale obbliga, senza poter tuttavia determinare le modalità della sua esecuzione e la sua coordinazione con altri doveri imperfetti (ad es.: beneficare il prossimo, e coltivare le proprie doti). In forma di verbo (sollen) ‘d.’ è l’espressione di una necessità morale, in quanto distinta dalla necessità fisica (müssen). (v. OBBLIGO). ECTIPO (Ektypon) PURA 371: «L’ideale [Dio] è il modello (prototypon) di tutte le cose, che ne sono come copie difettose (ectypon)». EGOISMO (Egoismus) ANTR § 2 (12) «Egoista morale è colui che restringe tutti i fini a se medesimo, e non vede alcun utile se non in ciò che gli giova». 73: l’e. dell’amor di sé è philautia, quello della compiacenza di sé è presunzione (arrogantia). EMPIRICO (empirisch) PURA 34: ciò che «ha origine a posteriori, cioè nell’esperienza». 11: le proposizioni e. non hanno necessità. EMPIRISMO (Empirismus): indirizzo che riconduce ogni conoscenza all’esperienza (cfr. PURA 220). E. dei princìpi (12), caratteristico di Hume. L’e. della r. pratica (71) «estirpa sino alla radice la moralità delle intenzioni», facendola dipendere solo da un interesse. ESPERIENZA (Erfahrung) PURA 33 (A 1, n. 1): «il primo prodotto che dà il nostro intelletto, quando elabora la materia greggia delle sensazioni». PROL § 26 (IV, 310); «non un puro aggregato di percezioni», bensì «determinazione dell’esistenza nel tempo secondo leggi necessarie». ETERONOMIA (Eteronomie): dipendenza da una legge esterna; 34-5: «ogni e. del libero arbitrio non solo non fonda alcun obbligo, ma è contra-

368 ria al principio di questo e alla moralità» (perché può farsi valere solo agendo sulle inclinazioni). FACOLTÀ (Vermögen) capacità dell’animo: a) di conoscere, b) di desiderare. F. di desiderare (Begehrungsvermögen) cfr. 8-9, n. 2 e GIUD § III, 13 n.: «F. di essere, mediante le proprie rappresentazioni, causa della realtà degli oggetti di tali rappresentazioni». La f. di desiderare inferiore (22) è determinata da stimoli sensibili; la superiore (24) è determinata dal rispetto per la legge morale, ed è la stessa ragione. FANATISMO (Schwärmerei) GIUD § 29 (103): «illusione di vedere qualcosa al di là dei limiti della nostra sensibilità»: 134: promette un’estensione della r. pura «mediante un’intuizione soprasensibile». F. morale (84) è una presunzione di poter far coincidere la propria volontà con la legge morale. FATTO (Factum) della r. (32) è la legge morale. FEDE (Glaube) PURA 504: «Credenza sufficiente solo soggettivamente, e ritenuta insufficiente oggettivamente». GIUD § 91 (286): «Fiducia nel raggiungimento di uno scopo, tendere al quale è un dovere, ma di cui non possiamo scorgere la possibilità». ‘F. razionale pura’ (126) è quella di cui «solo la r. pura è la sorgente»; fede nell’esistenza di Dio come condizione del sommo bene richiesto dalla legge morale (cfr. PURA 24, B XXX: altrimenti sarebbero rovesciati i princìpi morali). ‘F. della r. p. pratica’: 144: «determinazione libera del nostro giudizio, favorevole al fine morale (comandato)». FELICITÀ (Glückseligkeit) PURA 496: «appagamento di tutte le nostre tendenze»; 22: «coscienza del dilet-

Glossario to della vita, che accompagna l’intera esistenza»; 151: «condizione di un essere razionale nel mondo, a cui tutto avviene secondo il suo desiderio». GIUD § 87 (266): «condizione soggettiva per cui, sotto la legge morale, l’uomo può porsi uno scopo finale. Per conseguenza, il sommo bene fisico possibile nel mondo, per quanto è in noi: sotto la condizione oggettiva che l’uomo si accordi con la legge della moralità, come quella che lo rende degno di essere felice». FENOMENO (Erscheinung) PURA 53: «oggetto indeterminato di una intuizione empirica». PURA 73 n. 1 (B 69): «I predicati del fenomeno possono essere attribuiti all’oggetto stesso in rapporto al nostro senso». FINE (Zweck) GIUD § IV (15): «concetto di un oggetto in quanto contiene anche il principio della realtà di questo oggetto». 87: un essere razionale non può mai essere considerato «semplicemente come mezzo, e non anche al tempo stesso come un f.». FOND, sez. 2 (IV, 433) «soggetto di tutti i f. è ogni essere razionale come f. in se stesso». «Scopo finale» (Enzweck) GIUD § 84 (251): è «quello che non ne richiede alcun altro come condizione della sua possibilità». Scopo finale della creazione (130) non è la felicità, ma il ‘sommo bene’, cioè una felicità condizionata dall’esserne degni. FORMA (Form) è ciò che determina il contenuto, o ‘materia’. PURA 218: «determinazione del determinabile». In campo pratico, è il principio in base al quale determina la volontà. F. della legge (29) è l’universalità, il volere come principio di una legislazione universale, indipendente dalle preferenze di ciascuno.

Glossario (formal), indipendente dalla forma. Motivo determinante pratico f. è la legge morale. FORMULA (Formel) LOG § IX (IX, 77) «regola, la cui espressione serve di modello all’imitazione». 8 n. 1: «determina esattamente ciò che è da fare per eseguire un problema». GIUDIZIO (Urtheilskraft, facoltà del giudicare) PURA 133: «Facoltà di distinguere se qualcosa stia o no sotto una regola data». GIUD § IV (14): «Facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale». GIUD, pref. (4): «termine medio tra intelletto e ragione». G. pratico (72) è la «sussunzione di un’azione possibile sotto una legge pratica». IDEA (Idee) PURA 247: «concetto derivante da nozioni, che sorpassa la possibilità dell’esperienza». GIUD § 49 (138): «concetto a cui nessuna intuizione è adeguata», mentre le «idee estetiche» sono, al contrario, «rappresentazioni della immaginazione che danno occasione a pensare molto, senza però che un qualsiasi pensiero o concetto possa essere loro adeguato». IDEALE (Ideal) trascendentale; Dio. Riceve una realtà oggettiva (131) e un senso (132) come postulato (v.) della r. pratica, ma solo «come principio supremo del sommo bene in un mondo intelligibile mediante una legislazione morale». PURA 366: «per i. intendo l’idea in individuo, come una cosa particolare determinabile o addirittura determinata solo mediante l’idea». IDEALISTA (Idealist): colui che nega l’esistenza degli oggetti indipendente dalle menti (Berkeley), o nega che essa sia direttamente evidente (Cartesio). «I. trascendentale» (PURA 555: A 369) è chi «considera i fenomeni come semplici rappresentazioni». FORMALE

369 (unerlaubt) 10 n. 1: «ciò che è impossibile in modo praticamente obiettivo». COST (VI, 222): «un’azione contraria all’obbligazione». IMMORTALITÀ (Unsterblichkeit) dell’anima: 122: «esistenza che continui all’infinito», e con un «carattere di personalità» (v.), dell’essere razionale. È un postulato (v.) della r. pratica, in quanto il progresso morale infinito è imposto dal dovere, e (122) «è possibile solo supponendo un’esistenza che continui all’infinito e una personalità dello stesso essere razionale». IMPERATIVO (Imperativ) 20: «regola caratterizzata mediante un dovere (Sollen) esprimente la necessità oggettiva dell’azione»; 34: è la forma che la legge morale ha nell’uomo, perché l’uomo non ha una volontà ‘santa’. FOND, sez. 2 (IV, 413): «La rappresentazione di un principio oggettivo come necessario per una volontà si dice ‘comando’ (della r.), e la formula del comando si dice ‘i.’». PURA 354: «che la ragione abbia una causalità, è chiaro dagli i.». I. categorico, equivale (422-3) a «legge pratica», mentre l’i. ipotetico «contiene semplici precetti dell’abilità». IMPULSO (Trieb, Instinkt) ANTR § 80 (156): «interna necessitazione della facoltà di desiderare» (v.). INCLINAZIONE (Neigung) ANTR § 73 (141): «desiderio sensibile abituale». FOND, sez. 2 (IV, 413, n.): «indipendenza della facoltà di desiderare da sensazioni». 118: «non produce moralità, anche se conforme al dovere». INCONDIZIONATO (unbedingt): ciò che vale in assoluto, indipendentemente da condizioni. PURA 19 (B XIX): «quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienILLECITO

370 za e di tutti i fenomeni». In campo pratico, è il comando della r. pura, indipendente dalla sensibilità (v. CATEGORICO). INTELLETTO (Verstand): una delle due facoltà del conoscere (l’altra è la sensibilità). PURA 77: «Facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero spontaneità della conoscenza». PURA 90-1: «Facoltà di giudicare». PURA 147: «Facoltà delle regole e, altresì, fonte dei princìpi»: L’i. puro (55) «è pratico ossia: determina la facoltà di desiderare mediante la semplice rappresentazione di una legge». INTELLIGIBILE (intelligibel) DM § 3 (II, 392): «ciò che non è afferrabile se non dal pensiero» (v. MONDO, CARATTERE). INTENZIONE (Gesinnung) morale: 141: «effetto soggettivo della legge» sulla volontà. REL, c. 1 (VI, 25): «primo fondamento soggettivo della assunzione delle massime». INTERESSE (Interesse) GIUD § 2 (36): «il piacere che congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto». I. morale (79) è quello che «si prende all’osservanza della legge morale»; (79): «movente della volontà in quanto rappresentato mediante la r.». INTERNO (inner) PURA 55: senso i. è «quello mediante il quale l’animo intuisce se stesso o un suo stato». INTUIZIONE (Anschauung) PURA 53: «conoscenza che si riferisce immediatamente agli oggetti», PURA 118 (B 146): «ogni nostra possibile i. è sensibile». IPOTETICO (hypothetisch): ciò che vale, o è vero, subordinatamente alla validità di qualche altra proposizione (v. IMPERATIVO). LECITO (erlaubt) 10 n. 1: «ciò che è possibile in modo praticamente

Glossario obiettivo». COST VI, 222: «un’azione che non è contraria all’obbligazione», né comandata né vietata. FOND IV, 439: «l’azione compatibile con l’autonomia della volontà». LEGALITÀ (Legalität, Gesetzmässigkeit): conformità alla legge, osservata per un movente diverso dal puro rispetto della sua forma universale. COST VI, 219 «il puro accordo di un’azione con la legge, senza alcun riguardo al movente dell’azione stessa». LEGGE (Gesetz): espressione di una connessione necessaria, o tra un fenomeno e l’altro (l. naturale), o tra un’azione e la volontà (l. pratica). L. naturale (26): «regola di fenomeni concordanti, conosciuta a priori». Peraltro Kant parla anche di «l. empiriche» (cfr. GIUD, § IV: 16) PROL § 36 (IV, 320): «l’intelletto non trae le sue leggi dalla natura, ma le prescrive ad essa». ‘L. patologica’ (v.) (45) equivale a ‘fisica’. ‘L. pratica’ (20): «principio pratico oggettivo»; (22): «si riferisce alla volontà senza considerare ciò che mediante la causalità di essa viene effettuato»; 157: può fornire «semplicemente un principio all’obbligazione», o essere «realmente obbligante». 30: «è impossibile trovare una l. universale delle inclinazioni». LIBERO ARBITRIO (freie Willkühr) 65: non è dato nell’intuizione, ma ha a fondamento la legge morale. REL, c. 1, oss. (VI, 23-4): «La libertà dell’arbitrio non può essere determinata alla azione da alcun motivo, se non in quanto l’uomo lo abbia assunto nella propria massima». COST (VI, 213): «Facoltà di desiderare, in quanto legata alla coscienza della capacità che può avere la sua azione di produrre l’oggetto». LIBERTÀ (Freiheit): in senso negativo (30): «indipendenza dalla legge na-

Glossario turale dei fenomeni»; 118: «indipendenza dalle inclinazioni». In senso positivo (35): «legislazione della r. p. pratica che determina la volontà». ‘L. trascendentale’ (95): «indipendenza dalla natura in genere»; 94: spontaneità attribuibile solo a un essere come cosa in sé. ‘L. interna’ (158) è «la libertà di sbarazzarsi dall’importunità violenta delle inclinazioni». GIUD § I (7): «La l. non contiene nel suo stesso concetto che un principio negativo rispetto alla conoscenza teoretica, mentre stabilisce per la determinazione della volontà princìpi estensivi, che perciò si chiamano pratici». COST VI, 226: «La l., siccome si manifesta a noi solo per mezzo della legge morale, la conosciamo solo come proprietà negativa: vale a dire, non ci sentiamo costretti ad agire da alcun motivo determinante sensibile». La l. dello «automaton spirituale» leibniziano (96) è «simile a quella di un girarrosto». MALE FISICO (Übel) 60: «significa sempre solo una relazione al nostro stato di piacere o dispiacere». MALE MORALE (das Böse) 60: «significa sempre una relazione alla volontà, in quanto questa è determinata mediante la legge razionale a far di qualcosa il suo oggetto». ‘Male radicale’ (REL, 1, 3: VI, 32) «è un male innato nella natura umana, e cionondimeno assunto da noi», dovuto al fatto che la facoltà umana di desiderare è inevitabilmente soggetta alle inclinazioni sensibili. MASSIMA (Maxime) PURA 420: «chiamo m. della r. tutti i princìpi soggettivi, ricavati, non dalla costituzione dell’oggetto, bensì dall’interesse della ragione per una data perfezione possibile della conoscenza di questo oggetto». In cam-

371 po pratico (20) «principio pratico soggettivo», distinto dall’imperativo oggettivo; 19: «i princìpi pratici sono soggettivi, ossia m., se la condizione viene considerata come valida dal soggetto soltanto per la sua volontà». MATERIA (Materie) PURA 217: «il determinabile in generale». 20: m. della facoltà di desiderare è l’oggetto desiderato. MATERIALE (material): principio pratico m. (22) è quello desunto dall’oggetto desiderato. 41-2: vi sono «motivi determinanti pratici m.» soggettivi e oggettivi, divisi, a loro volta, in interni (rispettivamente, del «sentimento» e della «perfezione») e esterni (dell’educazione, della società, della volontà di Dio). MERITO (Verdienst): ciò che qualifica ad ottenere una felicità commisurata alla virtù. COST VI, 39: «sebbene la conformità delle azioni al diritto non sia nulla di meritorio, è tuttavia meritoria la conformità della massima (v.) di tali azioni come doveri, cioè il rispetto (v.) per il diritto». Il meritare una punizione (Strafwürdigkeit) (39) «accompagna, nell’idea della nostra r. pratica, la trasgressione della legge morale». METAFISICA (Metaphysik) PURA 514: «è la filosofia derivante dalla r. p., nella sua connessione sistematica», e si divide in ‘metafisica della natura’ e ‘metafisica dei costumi’. Respinta da Kant nella sua forma tradizionale, è accettata come scienza dei princìpi a priori (rispettivamente, del conoscere e dell’agire). COST VI, 216: «se un sistema di cognizioni a priori, derivato da puri concetti, si chiama metafisica, una filosofia pratica che ha per oggetto, non la natura, ma la libertà della volontà, presuppone ed esige una m. dei costumi».

372 (Methode): PURA 521: «procedimento secondo princìpi». MISTICISMO (Mystizismus) della r. pratica (71): suppone che ai concetti morali corrisponda una intuizione non sensibile e «fa, di ciò che serve solo come simbolo, uno schema». È evitato dalla ‘tipica’ (v.). MONDO (Welt) PURA 286: in senso trascendentale è «la totalità assoluta delle cose esistenti». ‘M. intelligibile’ è un m. non dato nell’esperienza, ma pensato quale dev’essere secondo i dettami della legge morale; 46: a base delle leggi pratiche sta «il concetto della loro esistenza in un m. intelligibile, cioè della libertà». ‘M. sensibile’ è quello che cade sotto i sensi, e quindi sottostà alle condizioni del tempo e dello spazio. MORALITÀ (Moralität, Sittlichkeit): conformità alla legge morale, che abbia per movente il puro rispetto (v.) della sua forma universale; si ha (COST VI, 219) «quando l’idea del dovere, derivata dalla legge è, nel contempo, impulso all’azione» (v. LEGALITÀ). La m. (109) è «condizione suprema del sommo bene». GIUD § 29, oss. (103): «La m. è una seconda natura, soprasensibile, di cui conosciamo solo le leggi, senza poter raggiungere con l’intuizione quella facoltà soprasensibile che, in noi stessi, contiene il principio di tale legislazione». MOTIVO DETERMINANTE (Bestimmungsgrund): il fondamento in base al quale si determina l’intenzione (v.); si distingue in ‘materiale’ e ‘formale’ (v. MOVENTE). MOVENTE (Triebfeder) 72: «motivo determinante soggettivo della volontà». Il m. della r. p. pratica è il termine attraverso cui essa determina la facoltà di desiderare, ed è (734, 78) il «rispetto per la legge moraMETODO

Glossario le»; (88): è la stessa legge morale, in quanto ci fa sentire la sublimità della nostra esistenza soprasensibile. NATURA (Natur) PURA 182: «connessione dei fenomeni, per la loro esistenza, secondo regole necessarie o leggi». GIUD, pref. (3): «Complesso di fenomeni, la cui forma è data a priori». ‘N. archetipa’ (44-45): originaria, quale sarebbe voluta dalla ragione se questa potesse determinarla interamente; ‘n. ectipa’ (4445): l’effetto possibile dell’idea della n. archetipa nelle cose esistenti. NECESSITÀ (Notwendigkeit) in senso logico: ARG I, I, 2 (II,70): «impossibilità del contrario». In senso empirico: PURA 185: è attribuibile solo all’esistenza dell’effetto, supposta la causa. La n. oggettiva (11) ha luogo solo nei giudizi a priori. La n. soggettiva (11) è l’abitudine; 128: n. morale soggettiva equivale a ‘bisogno’, n. morale oggettiva a ‘dovere’. La n. pratica (20) «dev’essere indipendente da condizioni patologiche (v.), quindi da condizioni che aderiscano accidentalmente alla volontà». NOUMENO (Noumenon): oggetto del puro pensiero (noûs), a prescindere dalle condizioni che ne rendono possibile la ricezione da parte della nostra sensibilità. PURA 229 230: «il n. designa il concetto problematico di un oggetto per una intuizione e un intelletto affatto diversi dai nostri». OBBLIGO (Verbindlichkeit) 38: «Costringimento a un’azione». COST VI, 222: «l’obbligazione è la necessità propria di un’azione libera sotto un imperativo categorico della ragione»; (ivi): la materia dell’o. è il ‘dovere’. FOND IV, 439: «dipendenza di una volontà non assolutamente buona dai princìpi dell’autonomia».

Glossario OGGETTIVO (objektiv): ciò che vale per

tutti, in forza di una necessità. PROL § 18 (IV, 298): «se abbiamo ragione di ritenere un giudizio valido di necessità universalmente, dobbiamo anche considerarlo o.». In senso pratico (20): «valido per la volontà di ogni essere razionale». OGGETTO (Gegenstand, Objekt): ciò a cui si riferisce la nostra conoscenza o la nostra azione. O. della r. pratica: (58): «il bene e il male», nella sua totalità incondizionata, (111): il sommo bene (v.). PATOLOGICO (pathologisch): attinente all’affezione della sensibilità (non ha quindi, in generale, il senso di ‘morboso’); 20: «volontà affetta patologicamente» è la volontà determinata dalla sensibilità. Tutti i sentimenti sono ‘p.’ (75), salvo il ‘rispetto’. PENA (v. PUNIZIONE, MERITO). PENSABILE (denkbar): l’oggetto in quanto sottostà alle condizioni del pensiero, o categorie, a prescindere dal suo effettivo esser dato nell’esperienza. PENSARE (denken) PURA 90: «conoscere per concetti»; rappresentarsi un oggetto per mezzo delle categorie dell’intelletto. Differisce dal ‘conoscere’ perché questo richiede, in più l’intuizione. PURA 22, n. 1: «io posso p. ciò che voglio alla sola condizione di non contraddirmi». PERCEPIRE (wahrnehmen) PURA 118 (B 147): avere, di un oggetto, «una rappresentazione accompagnata da sensazione». PERFEZIONE (Vollkommenheit) in senso teoretico (42): «integrità di ogni cosa nel suo genere». P. qualitativa (GIUD § 15: 57) «accordo del molteplice di una cosa con un concetto, che dà la regola dell’unione di tale molteplice». In senso pratico

373 (42): «sufficienza di una cosa a vari fini». PERSONALITÀ (Persönlichkeit) PURA 264 (B 403): «identità dell’anima in quanto sostanza intellettuale»; 87: per essa soltanto «ogni essere razionale è fine in se stesso». Equivale (161) a «io indivisibile»; 161: ha «una vita indipendente dall’animalità e dall’intero mondo sensibile». REL I (VI, 28): «idea dell’umanità considerata del tutto intellettualmente». PHILAUTIA (v. AMOR PROPRIO). PIACERE (Lust) 21: ciò che determina all’azione la facoltà di desiderare. GIUD § VI (21): «accompagna il conseguimento di qualsiasi scopo». COST (VI, 212): «il p. che è necessariamente collegato col desiderio (di quell’oggetto la cui rappresentazione determina così il sentimento) si chiama piacere pratico» (v. SODDISFAZIONE). POSSIBILITÀ (Möglichkeit) PURA 381: «Il concetto è possibile tutte le volte che non si contraddice (...) cionondimeno può essere un concetto vuoto». Empiricamente (PURA 184): «possibile è ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza, per l’intuizione e per i concetti». ‘P. fisica’ (GIUD § I: 8) è quella di «un effetto la cui causa non è determinata secondo concetti, bensì, nella materia inanimata, dal meccanismo, o, negli animali, dall’istinto». ‘P. pratica’ (ivi) è quella di «ciò che viene rappresentato come possibile da una volontà». POSTULATO (Postulat) LOG § 38 (IX, 112): «proposizione pratica immediatamente certa, o principio che determina un’azione possibile, in cui si suppone che il modo di eseguirla sia immediatamente certo». I p. matematici (10, n.) implicano cer-

374 tezza apodittica; in geometria (32) il p. «contiene la supposizione che si possa far qualcosa». ‘P. della r. p. pratica’ (122): proposizione teoretica non dimostrabile, che inerisce alla legge morale come condizione della sua pensabilità (immortalità, esistenza di Dio, libertà); 131: «non domma teoretico, ma supposizione» (secondo cui ho il dovere di determinare la mia volontà). PRATICO (praktisch): attinente alla determinazione della volontà. PURA 493: «p. è tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà. Ma se le condizioni dell’esercizio della libertà sono empiriche, la ragione non può avervi se non un uso regolativo (...); invece le leggi p. sono prodotti della pura r.». Nel primo caso (GIUD § I: 8) l’uso della ragione è ‘tecnico-pratico’, nel secondo ‘etico-pratico’, e la r. pura (33) «è per sé sola p.». La conoscenza p. (20) è «quella che si occupa dei motivi determinanti della volontà» e (PURA 14: B X) «si riferisce all’oggetto per determinarlo». PRECETTO (Vorschrift) 20: è un «imperativo condizionato» dal fatto di desiderare già una data cosa. GIUD § I (9): «regola tecnico-pratica dell’arte e dell’abilità in generale, e anche della prudenza, in quanto i suoi princìpi riposano su concetti» (ivi): «corollario della filosofia teoretica». PRESUNZIONE (Eigendünkel) 74: tendenza a fare dell’amor proprio un principio legislativo incondizionato (v. EGOISMO). PREZZO (Preis) FOND sez. 2 (IV, 434): «ciò che si riferisce alle comuni inclinazioni e necessità umane ha un p. di mercato; ciò che, anche senza che si presupponga un bisogno, soddisfa a un certo gusto (...) un p.

Glossario d’affezione». COST I, § 31 (VI, 286): «pubblico giudizio circa il valore di una cosa». PRIMATO (Primat) 120: «superiorità che una cosa ha su un’altra», per il fatto di essere «il primo motivo determinante del legame con tutte le altre». Il p. della r. p. pratica rispetto alla speculativa (121-2) deriva dalla superiorità del suo interesse (v.). PRINCIPIO (Grundsatz, Prinzip, talora Anfangsgrund): LOG § 23 (IX, 110): «giudizio a priori immediatamente certo, da cui se ne ricavano altri, mentre esso stesso non è subordinato a nessun altro». PURA 199: «Tutti i p. dell’intelletto puro non sono altro che p. a priori della possibilità dell’esperienza». GIUD § V (16): «è un p. trascendentale quello con cui è rappresentata la condizione universale a priori sotto la quale le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza; invece un p. si chiama metafisico quando rappresenta la condizione a priori sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto dev’esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori». ‘P. pratico’, o morale (20): «proposizione che contiene una determinazione universale della volontà, che ha sotto di sé parecchie regole pratiche»; esso è tecnico-pratico (GIUD § I: 8) «se il concetto che determina la causalità è un concetto della natura»; etico-pratico «se il concetto che determina la causalità è un concetto della libertà». Nella Critica della r. pratica (16) il p. della r. pratica «dev’essere il cominciamento della trattazione». ‘P. materiale’ (41) è quello desunto dall’oggetto voluto; formale, quello desunto dalla forma della legge

Glossario (universalità). Il principio della felicità (v.) (26) «fornisce massime, ma non leggi pratiche». PROBLEMATICO (problematisch): ciò che coinvolge un problema. ‘Giudizio p.’ (PURA 93-4) è quello che enuncia una possibilità; ‘concetto p.’, quello a cui non si può assegnare un oggetto corrispondente nell’esperienza. PROTOTIPO (Prototypon) 34: è un esemplare o modello, come l’idea della santità (v.) per il nostro volere. PRUDENZA (Klugheit) FOND, sez. 2 (IV, 416): «abilità nella scelta dei mezzi, in vista del proprio massimo benessere» (ivi, n.): si distingue in «mondana» e «privata». 38: consiglia, ma non comanda, fornendo massime dell’amor proprio. PUNIZIONE (Strafe) 39: male fisico legato al male morale, come sua conseguenza doverosa, anche se non sempre naturale (v. MERITO). PURO (rein) PURA 54: «chiamo p. tutte le rappresentazioni in cui non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione» (v. RAGIONE). RAGIONE (Vernunft): facoltà conoscitiva superiore (in contrapposto all’inferiore, o sensibilità) e, in questo senso, comprensiva dell’intelletto (v.). Propria della r., però, è l’esigenza dell’incondizionato (v.): GIUD § 76 (221): «La r. è una facoltà dei princìpi, e la sua ultima esigenza è l’incondizionato (...). Ma in quanto teoretica non contiene per se stessa alcun principio costitutivo, bensì princìpi regolativi soltanto». Per contro come r. pratica (15) basta da sola a determinare il volere, indipendentemente dalla sensibilità: la r. p. (33) è «per sé sola pratica»; (16) «è pratica in modo incondizionato». La r. p. pratica (33) «è immediatamente legislativa». R.

375 pratica «patologicamente condizionata» (121) è, per contro, quella che si limita a servire l’interesse delle inclinazioni. In generale la r. (PURA 47) «è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa assolutamente a priori»: GIUD, pref. (3): «si può chiamare r. p. la facoltà della conoscenza mediante princìpi a priori, e ‘critica della r. p.’ l’esame della sua possibilità». La r. pratica non va tuttavia criticata quando è ‘pura’ (3), bensì quando è ‘patologicamente determinata’ (v. CRITICA). RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung): termine generico, per indicare tutto ciò che è presente alla mente (compresa la legge morale). PURA 250: «La r. è il genere» (di cui le varie conoscenze sono le specie). RAZIONALE (rational; in senso generale, vernünftig): fondato sulla (pura) ragione, senza ricorrere all’esperienza. Un principio r. non può essere costitutivo (ma solo regolativo) di una conoscenza, mentre può bastare a determinare la volontà, secondo il dovere. REALTÀ (Realität): categoria della qualità, corrispondente al giudizio affermativo, distinta dalla ‘esistenza’ (Dasein, Wirklichkeit), che è una categoria della modalità. La r. oggettiva (sebbene solo ‘pratica’) della ragione (16) è desunta dalla legge morale. REGOLA (Regel) pratica: 20: «prescrive l’azione come mezzo per raggiungere un fine». La r. del giudizio pratico (69) consiste nel chiedersi se la massima della propria azione potrebbe valere come una legge di natura (v. PRINCIPIO). RELIGIONE (Religion) 129: «conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini, non in quanto decreti

376 arbitrari, bensì in quanto leggi essenziali di ogni volontà libera per se stessa». Quindi (GIUD § 91: 286) «è la morale in rapporto con Dio in quanto legislatore». PURA 259 n. 1: «congiunzione di teologia e di morale». RISPETTO (Achtung) per la legge morale: 73-4: «sentimento positivo, di origine non empirica»; è il movente (v.) attraverso cui la r. p. pratica determina la volontà: (78) «unico indubitato movente morale». Il r. per noi stessi (158) «facilita l’accesso alla coscienza della nostra libertà». SAGGEZZA (Weisheit) 108: «dottrina del sommo bene»; PURA 255: «idea della necessaria unità di tutti i fini possibili». Nel tedesco del Settecento si diceva ‘s. mondana’ (Weltweisheit) la filosofia, ma Kant osserva (108) che «converrebbe lasciare a quella parola il suo significato antico, come ‘dottrina del sommo bene’ in quanto la ragione si sforza di farne una scienza». Cfr. OP (XXI, 120): «Weltweisheit è conoscenza dei fini supremi della ragione umana: ma poiché solo Dio è saggio, la ‘saggezza mondana’ costituisce un analogo della s. commisurato all’uomo, e quindi null’altro che ‘amore per la s.’». SANTITÀ (Heiligkeit) 122: «conformità completa di una volontà con la legge morale»; 34: proprietà di una «volontà che non fosse capace di alcuna massima contraria alla legge morale». SCETTICISMO (Skeptizismus): atteggiamento di completa diffidenza per la ragione, dovuto (PURA 46) a un suo «uso dogmatico». GIUD § 21 (68): convinzione che le conoscenze siano «un puro gioco delle facoltà rappresentative». Lo s. di Hume (13) «non è illimitato».

Glossario (v. FINE). (sinnlich): ciò che può cadere sotto i sensi, o, in genere, riguarda la sensibilità. Mondo s. è il mondo dell’esperienza. SENSIBILITÀ (Sinnlichkeit) 22: capacità di sentire del soggetto. PURA 53: «capacità di ricevere rappresentazioni, per il modo in cui siamo modificati dagli oggetti». SENTIMENTO (Gefühl) GIUD § 3 (38): si distingue dalla sensazione (Empfindung) come ciò che «deve restare sempre puramente soggettivo e non può sostituire la rappresentazione di un oggetto». Il ‘s. morale’ se è sensibile, o ‘patologico’ (v.), (42) è un principio pratico ‘materiale’ (v.), inadatto a fondare la moralità; se invece (80) è «capacità di prendere interesse alla legge morale», esso «è un prodotto soltanto della ragione», che coincide col rispetto (v.) per la legge morale ed è (89) «un influsso necessario della r. p. pratica sulla sensibilità». SINCRETISMO (Synkretismus) 25: tendenza a formare «sistemi di coalizione», accogliendo insieme princìpi diversi, anche se si contraddicono. SINTETICO (synthetisch): ‘ottenuto per sintesi’, ma anche spesso, nel linguaggio di K., ‘producente una sintesi». Nel giudizio s. (PURA 39) «il predicato si trova interamente fuori del soggetto, sebbene sia connesso con esso». Legame s. (112) è il «legame reale». SOLIPSISMO (Selbstsucht), (Solipsismus): in senso etico equivale a ‘egoismo’ (v.). SOPRASENSIBILE (übersinnlich): ciò che oltrepassa per sua natura la sensibilità, come oggetto di pensiero, o idea, che non trova riscontro nell’esperienza. GIUD § 57 (167): «ci si SCOPO

SENSIBILE

Glossario fanno incontro tre idee: l’idea del s. in generale come sostrato della natura; l’idea del s. come principio della finalità soggettiva della natura per la nostra facoltà di conoscere; l’idea del s. come principio dei fini della libertà e come principio dell’accordo di quei fini con la libertà nella moralità». (46) «la possibilità di una tale natura s., il concetto della quale possa essere nello stesso tempo, mediante la nostra volontà libera, fondamento della realtà di essa, non ha bisogno di alcuna intuizione a priori (di un mondo intelligibile) che, come s., dovrebbe anche essere impossibile, per motivo determinante del volere». SPIRITO (Geist) della legge: l’intenzione morale (72), contrapposta a ‘lettera’ (Buchstabe). SPONTANEITÀ (Spontaneität): componente attiva di una nostra facoltà (‘in contrapposto a recettività’). PURA 77: «s. della conoscenza è l’intelletto». La possibilità (48) dell’«idea della libertà come di una facoltà di assoluta s.» è un «principio analitico della r. p. speculativa», ma la sua realtà oggettiva sussiste solo in senso pratico, in forza della legge morale. SUPEREROGATORIA (überverdienstlich) è un’azione che (152, n.) va al di là del dovere, e in cui «risplende un’intenzione e una umanità grande e disinteressata». SUPERSTIZIONE (Aberglaube, Superstition) 134: estensione apparente dei concetti della r. p. mediante una pretesa esperienza. Consiste (GIUD § 40: 121) «nel rappresentarsi la natura come non sottoposta alle regole dell’intelletto». CONFL VII, 65: «la s. è l’inclinazione a riporre maggiore fiducia in ciò che si crede non avvenga in modo naturale

377 piuttosto che in ciò che si può spiegare naturalmente». TALENTO (Talent) 42: «perfezione in senso pratico» in quanto sia «qualità dell’uomo». ANTR § 54 (108): «s’intende per t. (dono di natura) quella superiorità che non dipende dall’insegnamento, ma dalla disposizione naturale del soggetto». TECNICO (technisch): sono proposizioni t. (26, n.) quelle che «indicano il molteplice della azione possibile» per esempio, il mezzo per una costruzione matematica; esse non vanno chiamate ‘pratiche’ (v. PRINCIPIO). TEORETICO (theoretisch): relativo alla conoscenza. LOG § 32 (IX, 110): «proposizioni t. sono quelle che si riferiscono all’oggetto e determinano che cosa gli convenga e che cosa no». L’uso t. della ragione (15) «si applica agli oggetti della sola facoltà di conoscere». TIPICA (Typik) del giudizio pratico: coglie, nella conformità a leggi propria della natura sensibile, il ‘tipo’, o l’immagine, della natura intelligibile (conforme alla legge morale); 69: corrisponde a quello che è lo ‘schematismo’ per il giudizio teoretico, nella funzione di mediare il passaggio tra il concetto intellettuale e l’intuizione sensibile. UMANITÀ (Menschheit) REL c. 2, sez. 1 a (VI, 60): «è ciò che soltanto può fare del mondo un oggetto di deliberazione divina e uno scopo della creazione». In quanto portatrice della legge morale (86) «dev’essere santa» (pur essendo l’uomo «abbastanza profano») (v. AUTONOMIA). Nel senso di ‘sentimento di u.’ (Humanität) è «da un lato il sentimento universale della simpatia, dall’altro la facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente».

378 (Allgemeinheit): validità per tutti. GIUD § 8 (45-54): l’u. logica si fonda su concetti, l’u. estetica si fonda sul rapporto delle rappresentazioni con sentimento di piacere e dispiacere in ogni soggetto (v. LEGGE). USO (Gebrauch) pratico: quello in cui la ragione (15) «si applica a motivi che determinano la volontà» (v. TEORETICO). VALORE (Wert) FOND, sez. 2 (IV, 435): costituisce la condizione a cui qualcosa «può essere uno scopo in se stesso», avendo «non solo un v. relativo, cioè un prezzo, ma un valore intrinseco, una dignità». UNIVERSALITÀ

Glossario (Tugend) 34: «progresso all’infinito delle proprie massime», verso una sempre maggiore conformità alla legge morare; 84: implica un contrasto con le inclinazioni, altrimenti si cangerebbe soggettivamente in santità (v.); 111: «bene supremo», come condizione morale di tutto ciò che si può desiderare. VOLONTÀ (Wille) 15: «Facoltà di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni»; GIUD § 10 (51): è la «facoltà di desiderare in quanto può essere determinata ad agire mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo». VIRTÙ

INDICE DEI NOMI* 337: «accusata da Enrico VIII d’Inghilterra»; «... innocente, e d’altronde affatto impotente». CARLO V 59: v. FRANCESCO I. CHESELDEN W. 25: «... si deve domandare, come il cieco di C.: che cosa m’inganna, la vista o il tatto?». CRUSIUS CH. A. 87: Il motivo determinante «della volontà di Dio, secondo C. e gli altri moralisti teologi» è materiale. ENRICO VIII 337: v. ANNA BOLENA. EPICUREI 245: «L’epicureo diceva che l’esser conscio della propria massima, che conduce alla felicità, è la virtù». EPICURO 87: Il motivo determinante «del sentimento fisico, secondo E.», è materiale. 255: «Il virtuoso E. cadde nell’errore di presupporre già l’intenzione virtuosa nelle persone per le quali egli voleva prima dare il movente alla virtù». FONTENELLE B. 167: «F. dice: a un gran signore io m’inchino, ma il mio spirito non s’inchina». FRANCESCO I 59: «... è simile a ciò che si racconta dell’impegno preso da ANNA BOLENA

* Le citazioni sono sempre testuali.

re Francesco I verso l’imperatore Carlo V: ciò che mio fratello Carlo vuole (Milano) lo voglio anch’io». GIOVENALE 343: «presenta un simile esempio in una degradazione che fa sentire vivamente al lettore la forza del movente che si trova nella legge del dovere come dovere». HUME D. 23: «non desiderava nient’altro se non che nel concetto di causa, invece di ogni significato oggettivo della necessità, ne fosse ammesso uno semplicemente soggettivo, cioè l’abitudine». 25: «... il vero scetticismo che a torto si attribuì a H. in senso così illimitato». 109: «D. H., dal quale, si può dire, incominciò propriamente ogni contestazione dei diritti di una ragion pura...». 113: «La matematica se l’era cavata, perché H. riteneva che le sue proposizioni fossero tutte analitiche». 113: «L’empirismo di H. nei princìpi conduce inevitabilmente allo scetticismo anche rispetto alla matematica». 115: «Se H. riteneva gli oggetti dell’esperienza cose in se stesse, e dichiara-

382 va il concetto della causa una menzogna e un’illusione, faceva benissimo». 117: «... se, come vuole H., questo concetto della causalità contenesse qualcosa di assolutamente impossibile a pensare». 121: «Se io avessi tolto, con H., al concetto della causalità la realtà oggettiva nell’uso pratico, non solo rispetto alle cose in se stesse (al soprasensibile) ma anche rispetto agli oggetti dei sensi, esso avrebbe perduto ogni significato». HUTCHESON F. 87: Il motivo determinante «del sentimento morale, secondo H.», è materiale. LEIBNIZ G.W. 213: Quando l’essere meccanico è mosso da rappresentazioni può dirsi, con L., automaton spirituale. MANDEVILLE B. 87: Il motivo determinante «del governo civile, secondo M.», è materiale. MAOMETTO 265: «Il paradiso di M., o il dissolversi dei teosofi e dei mistici..., imporrebbero alla ragione le loro mostruosità, e tanto varrebbe non aver nessuna ragione...». MENDELSSOHN M. 221: «mente del resto acuta», ammise lo spazio e il tempo «soltanto come condizioni appartenenti necessariamente all’esistenza degli esseri finiti e derivati, ma non a quella dell’essere primitivo e infinito...». MONTAIGNE M. 87: Il motivo determinan-

Indice dei nomi te «dell’educazione, secondo M.», è materiale. PLATONE 205: «La cosa più eccellenteche la matematica abbia in sé secondo il giudizio di P.», è l’assenza, in essa, di elementi empirici. PRIESTLEY J. 215: «... da fatalista vero e coerente, dichiara» che il pentimento, «così praticamente vuoto da non poter servire a fare che ciò che è avvenuto non sia avvenuto», è assurdo. STOICI 87: Il motivo determinante «della perfezione, secondo Wolff e gli Stoici», è materiale. 245: dicevano che «l’esser conscio della propria virtù è la felicità». 279: «Avevano scelto affatto giustamente il loro principio pratico supremo, cioè la virtù, come condizione del sommo bene». VAUCANSON J. 221: «L’uomo sarebbe una marionetta, un automa di V., fabbricato e caricato dal maestro supremo...». VOLTAIRE 171: «Il volgo dei dilettanti, se crede di essere stato informato del lato cattivo del carattere di un tal uomo, perde ogni rispetto verso di lui; ma il vero dotto sente ancor sempre il rispetto almeno dal punto di vista del suo talento». WIZENMANN T. 315 n.: «contesta ildiritto di concludere da un bisogno alla realtà oggettiva del suo oggetto». WOLFF CH. 87: v. STOICI.

INDICI

INDICE DELLA «CRITICA DELLA RAGION PRATICA»

Prefazione

3

Introduzione Dell’idea di una critica della ragion pratica

27

I. DOTTRINA DEGLI ELEMENTI DELLA RAGION PURA PRATICA

33

LIBRO PRIMO Analitica della ragion pura pratica

35

Capitolo primo Dei princìpi della ragion pura pratica

35

§ 1. Definizione, p. 35 (Scolio, p. 35) - § 2. Teorema I, p. 39 - § 3. Teorema II, p. 41 (Corollario, p. 43. Scolio I, p. 43. Scolio II, p. 51) - § 4. Teorema III, p. 55 (Scolio, p. 57) - § 5. Problema I, p. 59 - § 6. Problema II, p. 61 (Scolio, p. 61) - § 7. Legge fondamentale della ragion pura pratica, p. 65 (Scolio, p. 65. Corollario, p. 67. Scolio, p. 67) - § 8. Teorema IV, p. 71 (Scolio I, p. 73. Scolio II, p. 75 - I. Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica, p. 91 - II. Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a una estensione che non le è possibile nell’uso speculativo per sé, p. 109

Capitolo secondo Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica 125 Tavole delle categorie della libertà, in relazione ai concetti del bene e del male, p. 145 - Della tipica del giudizio puro pratico, p. 147 -

384

Indice della «Critica della ragion pratica»

Capitolo terzo Dei moventi della ragion pura pratica

157

Dilucidazione critica dell’analitica della ragion pura pratica, p. 195

LIBRO SECONDO Dialettica della ragion pura pratica

235

Capitolo primo Di una dialettica della ragion pura pratica in generale 235 Capitolo secondo Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto del sommo bene 243 I. L’antinomia della ragion pratica, p. 249 - II. Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica, p. 251 - III. Del primato della ragion pura pratica nella sua unione con la speculativa, p. 263 - IV. L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica, p. 267 - V. L’esistenza di Dio, come postulato della ragion pura pratica, p. 273 - VI. Sui postulati della ragion pura pratica in generale, p. 289 - VII. Come sia concepibile un’estensione della ragion pura, nel rispetto pratico, senza che perciò nello stesso tempo sia estesa la sua conoscenza come ragione speculativa, p. 293 - VIII. Dell’adesione che deriva da un bisogno della ragion pura, p. 311 - IX. Della proporzione saggiamente conveniente delle facoltà di conoscere dell’uomo rispetto alla sua destinazione pratica, p. 321 II. DOTTRINA DEL METODO DELLA RAGION PURA PRATICA

325

CONCLUSIONE

351

INDICE DEL VOLUME

Introduzione di Sergio Landucci Cronologia della vita e delle opere di Kant

V XXIX

Nota del traduttore

XXXIII

Nota del revisore

XXXVI

Critica della ragion pratica

1

Note

359

Glossario

363

Indice dei nomi

381

Indice della «Critica della ragion pratica»

383

Altre opere di Kant nelle nostre collane Con testo a fronte nella «Economica Laterza»

Critica del Giudizio Fondazione della metafisica dei costumi Primi principi metafisici della dottrina del diritto Prolegomeni ad ogni futura metafisica Senza testo a fronte nella «Economica Laterza»

Critica della ragion pura La religione entro i limiti della sola ragione Senza testo a fronte nella «Biblioteca Universale Laterza»

Antropologia pragmatica Critica del Giudizio Critica della ragion pratica Fondazione della metafisica dei costumi Lezioni di etica Lezioni di psicologia Logica La metafisica dei costumi Opus Postumum Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza La religione entro i limiti della sola ragione Scritti di storia, politica e diritto Scritti precritici Scritti sul criticismo

Senza testo a fronte in altre collane

Prima introduzione alla Critica del Giudizio «Universale Laterza»

Economica Laterza

ultimi volumi pubblicati

320. 321. 322. 323. 324. 325. 326. 327. 328. 329. 330. 331. 332. 333. 334. 335. 336. 337. 338. 339. 340. 341. 342. 343. 344. 345.

Segre, C., La letteratura italiana del Novecento Agnoletto, V., Prima persone. Le nostre ragioni contro questa globalizzazione Kant, I., La religione entro i limiti della sola ragione Schopenhauer, A., La libertà del volere umano Lingua, P., Breve storia dei Genovesi Cazzullo, A., I torinesi da Cavour a oggi Carocci, G., Destra e sinistra nella storia d’Italia Conte, T. - Luzzati, E., Facciamo insieme teatro Del Toma, E., Mangiare per correre. Una dieta per lo sport Violante, L., Il ciclo mafioso Evans, D., Emozioni. La scienza del sentimento Fagiolo dell’Arco, M., L’immagine al potere. Vita di Giovan Lorenzo Bernini Lewontin, R., Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza Schmitt, J.-C., Medioevo «superstizioso» Brunetta, G.P., Cent’anni di cinema italiano, 2. Dal 1945 ai giorni nostri Fodor, J.A., La mente non funziona così. La portata e i limiti della psicologia computazionale Fuhrmann, H., Guida al Medioevo Turner, A., Just Capital. Critica del capitalismo globale Salvadori, M.L., Il Novecento. Un’introduzione Settia, A.A., Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo Hack, M., Vi racconto l’astronomia Romeo, R., Vita di Cavour Brunt, P.A., La caduta della Repubblica romana Savater, F., Brevissime teorie Serventi, S. - Sabban, F., La pasta. Storia e cultura di un cibo universale Cardini, F., Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo

346. 347. 348. 349. 350. 351. 352. 353. 354. 355. 356. 357. 358. 359. 360. 361. 362. 363. 364. 365. 366. 367. 368. 369. 370. 371. 372. 373. 374. 375. 376. 377. 378. 379. 380. 381. 382. 383.

Gentile, E., Fascismo. Storia e interpretazione Dahrendorf, R., Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile Bernardini, C. - De Mauro, T., Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture Sissa, G. - Detienne, M., La vita quotidiana degli dei greci Cavallo, G. (a cura di), L’uomo bizantino Kant, I., Critica della ragion pura Schopenhauer, A., Il fondamento della morale Tonucci, F., La città dei bambini. Un modo nuovo di pensare la città Le Goff, J., Alla ricerca del Medioevo Bauman, Z., La società sotto assedio Moretti, D., Il lavoro editoriale Savater, F., Borges Ciliberto, M., Giordano Bruno Habermas, J., Storia e critica dell’opinione pubblica Husserl, E., La filosofia come scienza rigorosa Canfora, L., Critica della retorica democratica Cassano, F., Il pensiero meridiano Garin, E., Medioevo e Rinascimento Hobsbawm, E.J., L’Età degli imperi. 1875-1914 Mossé, C., Alessandro Magno. La realtà e il mito Crouch, C., Postdemocrazia Veneziani, M., La sconfitta delle idee Sarti, Ro., Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile Capatti, A. -Montanari, M., La cucina italiana. Storia di una cultura Böll, H., La memoria, la rabbia, la speranza. Intervista a cura di René Wintzen Barbero, A., La battaglia. Storia di Waterloo Lewis, B., Il linguaggio politico dell’Islam Simon, M. - Benoit, A., Storia del cristianesimo antico. Dalle origini a Costantino il Grande Bruner, J., La mente a più dimensioni Kant, I., Primi principi metafisici della dottrina del diritto Canfora, L., Libro e libertà Havelock, E.A., La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi Trevor-Roper, H.R., Il Rinascimento Deaglio, M., Postglobal Collotti, E., Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia Kershaw, I., Hitler e l’enigma del consenso Marrone, T., Meglio non sapere Melograni, P., Wam. La vita e il tempo di Wolfgang Amadeus Mozart