Cristiani in armi. Da Sant’Agostino a Papa Wojtyla

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Economica Laterza 443

Della stessa autrice nella «Economica Laterza»:

Le bugie di Isotta. Immagini della mente medievale Federico II. Ragione e fortuna (con F. Bertini, F. Cardini, C. Leonardi)

Medioevo al femminile (con M. Parodi)

Storia della filosofia medievale. Da Boezio a Wyclif Della stessa autrice in altre nostre collane:

Genoveffa e il drago. L’avventura di una donna medievale «Il pentolino magico»

Introduzione a Abelardo «i Filosofi»

Il pensiero politico medievale «Manuali Laterza»

Profilo del pensiero medievale «Manuali di base»

(con E. Garin)

L’intellettuale tra Medioevo e Rinascimento «Universale Laterza»

Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri

Cristiani in armi Da sant’Agostino a papa Wojtyla

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2007 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2006 Progetto grafico di Silvia Placidi/ Graficapuntoprint

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8410-5 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

dedicato con molte speranze ai miei nipoti Antonio, Isotta e Paolo

Premessa

Distanti e arcaiche ci sembrano oggi le parole pronunciate dal cardinale belga Désiré Mercier nel tragico Natale dell’anno 1914 per incoraggiare i compatrioti oppressi dai tedeschi invasori. Mercier affermava che l’occupazione dei nemici era una profanazione sacrilega; pertanto, difendere il territorio nazionale fino al sacrificio estremo non era solo un dovere, ma rappresentava un atto meritorio del tutto analogo a quello dei primi martiri cristiani: «non c’è dubbio che Cristo donerà la corona della salvezza eterna a chi è morto per la patria e ... cancellerà i peccati di una intera vita per quell’atto d’amore supremo», scriveva il cardinale (cit. da Kantorowicz). Sono parole che oggi appaiono gravissime, e in verità tali sembrarono anche allora ad alcuni colleghi di Mercier, come il cardinale francese Louis Billot. Ma quelle parole VII

ne riecheggiavano altre, pronunciate più di un millennio prima, all’inizio del cristianesimo, e ripetute purtroppo molte volte nel corso dei secoli. L’imperatore Foca, nel VII secolo, aveva chiesto che i soldati caduti in battaglia fossero considerati martiri. Due secoli dopo (prima ancora delle crociate, dunque) papa Leone IV dichiarò che «ai soldati che morivano combattendo valorosamente per la Chiesa contro i saraceni sarà spalancato il regno dei Cieli». È vero che né Foca né Mercier raccolsero consensi ampi e decisivi. Ma quelle del cardinale belga all’inizio del XX secolo non sono le ultime parole che un cristiano – un cristiano investito di un’altissima carica – ha pronunciato a favore della santità della morte in guerra o semplicemente della guerra. Parole simili sono risuonate più vicine a noi nel tempo, anche se sempre meno frequenti. Qualche esempio. Il 21 maggio 1948 Pio XII dichiarava che «un popolo minacciato se vuol pensare e agire cristianamente non può rimanere in una indifferenza passiva e a maggior ragione la solidarietà della famiglia dei popoli impedisce agli altri di comportarsi da semplici spettatori chiusi in un atteggiamento di impassibile neutralità». Dieci anni dopo lo stesso pontefice ribadiva che «la Chiesa è lontana dall’ammettere che la guerra sia sempre condannabile». Sono certamente parole che vanno valutate nel contesto drammatico della Guerra fredda. Ma ancora: la guerra – dichiarata «assurda e inaccettabile» dal pontefice Paolo VI (e ripetutamente: nel ’67, nel ’70, nel ’77 e nell’82) – appare descritta, nel Catechismo per gli adulti composto nel 1991 dall’episcopato francese, coVIII

me «preferibile alla perdita dell’onore: ... la guerra è un dramma superiore». L’onore – l’onore del soldato di Cristo – è un concetto fondamentale nel linguaggio del martirio cristiano. Il passato, come vedremo in questo libro, è impressionante. Oggi l’invito alla pace appare condiviso dalla maggior parte dei cristiani: un invito autorevole, diffuso e spesso appassionato. È questa una conquista definitiva? «Mai più guerra», come dichiarava nel 1965 papa Paolo VI alle Nazioni Unite? Resta qualche dubbio. Sullo sfondo stava e sta in agguato, nel pensiero cristiano, una convinzione dolorosa, che induce molti credenti a una visione pessimistica della vita e del destino terreno, dovuta alla «miseria» fisica e intellettuale dell’uomo a seguito della Caduta. Anche don Luigi Sturzo, nel secolo scorso, ha segnalato e deprecato le conseguenze di questa visione pessimistica della natura umana. Nel pensiero dei Padri della Chiesa, il peccato originale ha depotenziato la natura umana, così vivida e capace in Adamo: non solo l’intelletto, ormai incapace di conoscere intuitivamente e costretto alla faticosa e incerta partenza dai dati sensibili, ma soprattutto la volontà, non più sicura davanti alla scelta del bene. Non ultimo per importanza in una prospettiva politica, anche il corpo umano è indebolito dopo la cacciata dal paradiso terrestre. Il corpo si ammala, si stanca, invecchia, e sempre più faticosamente deve affrontare il bisogno. Durante la vita su questa terra, i figli di Adamo sono esposti alla necessità e alla fatica di procurarsi il cibo e il riparo per il sonno, sono torIX

mentati dal desiderio di impadronirsi dei beni della terra per avere la meglio sui propri simili, sono spinti alla competizione e alla sopraffazione per assicurare a sé e alla prole i mezzi della sopravvivenza. Agostino la chiama libido dominandi. Dopo la Caduta l’uomo si vede e si sente costretto alla violenza. Si rassegna alla violenza. È possibile sfuggire a questo impulso aggressivo imposto dal bisogno? I cristiani hanno pensato che fosse possibile? Per ora la domanda non può che rimanere tale. Poco più di ottant’anni fa si poteva ancora autorevolmente scrivere che «la guerra è inevitabile, è senza dubbio una delle conseguenze più disastrose del peccato originale sia per le miserie che genera sia per la perdita delle anime che si presentano impreparate davanti al Giudice supremo ancora ebbre per la violenza che le ha travolte, piene di ira e odio ... La terra che prima del peccato di Adamo era un paradiso di delizie è divenuta un campo di battaglie». La guerra, dunque, con ogni evidenza sofferenza e trasgressione del comandamento divino, era tuttavia considerata inevitabile perché teologicamente iscritta digito Dei nella storia dell’uomo. Così si poteva leggere nel Dictionnaire de théologie catholique (edito nel 1914, l’articolo Guerre è stato ripubblicato nel 1947 senza variazioni). Non c’è dubbio che per moltissimi secoli la tristezza che colora il mito e la convinzione della Caduta abbia dominato le scelte imposte dalla convivenza umana e quindi condotto ad ammettere la «necessità della guerra»: per il cristiano la verità sta altrove, nell’altra vita, quella immortale, e ogni sforzo deve essere indirizzato alla meta ultraterrena. La X

preminenza di questo ideale ha permesso troppe volte che fosse considerato come inevitabile il conflitto fra gli uomini, accettando così la guerra come un male minore rispetto a una violenza generalizzata e senza regole, quasi dimenticando l’invito appassionato di Cristo alla pace fraterna. È vero però che, fin dai primi secoli, molti cristiani si interessarono con slancio anche ai modi di convivenza e alle speranze della vita su questa terra, mirando a una imperfetta ma positiva realizzazione della giustizia divina attraverso l’eguaglianza. Quei viandanti (viatores) nel mondo ascoltavano le forti esortazioni all’amore fraterno contenute nel Vangelo e guardavano al modello di comunità giusta, attenta ai bisogni di ciascuno e quindi pacifica, rappresentato negli Atti degli Apostoli. La natura incontaminata anteriore al peccato originale continuava a rappresentare per loro un modello e un antefatto da restaurare per quanto possibile: «Tutti quelli che avevano creduto stavano insieme e avevano tutto in comune. Vendevano le proprietà e i beni e distribuivano il guadagno fra tutti secondo il bisogno di ognuno ... Erano un cuor solo e un’anima sola né alcuno diceva che qualcosa gli apparteneva ma tutto era in comune ... Non c’erano bisognosi fra loro» (Atti degli Apostoli 4, 32). Mirando al modello delle prime comunità cristiane, sceglieranno questa via di pace e povertà i poveri di Enrico da Losanna, gli studenti di Arnaldo da Brescia, i seguaci di Dolcino da Novara, i «poveri preti» lollardi e molti altri che verranno considerati eretici dalla Chiesa istituzionale e come tali condannati. La Caduta aveva generato inXI

negabilmente la sequenza bisogno-competizione-guerra: da sempre nel pensiero dei cristiani la scelta della «povertà fraterna» poteva infrangere la catena del bisogno e si legava perciò all’aspirazione alla pace. Nella comunione dei beni e nella povertà, voluta e non subita, era iscritto il progetto di pace fra gli uomini. Come medievista, mi sono sempre occupata del pensiero filosofico latino: ciò spiega l’ampio spazio dato in questo libretto alle testimonianze dell’età medievale. C’è tuttavia anche una ragione oggettiva, oltre al fatto che quello medievale è il campo in cui sono più competente. Come è possibile constatare nelle pagine di questo volume dedicate al mondo moderno e contemporaneo, non sono infatti la sola a pensare che i testi medievali siano indispensabili per rintracciare la genesi delle prospettive e dei giudizi, filosofici e teologici, espressi dai cristiani sulla guerra, attraverso i secoli e fino ad oggi. Questo non è un libro sulla guerra, ma sulle idee che, in un senso o nell’altro, hanno promosso e giustificato la guerra o favorito la pace in campo cristiano. Le ragioni istituzionali, politiche ed economiche, certamente non sono state altrettanto presenti alla mia attenzione. Per quanto sappia molto bene che il più delle volte sono queste ragioni a decidere o a modificare il corso degli eventi, sono persuasa che nella lunga durata siano le idee a rivelarsi più attive e persistenti, sia nel bene che nel male. E delle idee mi occupo nei miei studi, e anche in questo saggio. Le fonti sono dunque costituite dalle parole dei cristiani: le parole dei papi, dei vescovi e dei predicatori, che inXII

citano ed esortano a favore della pace ma anche della guerra; le parole più fievoli dei dissidenti – le «tracce dei vinti», coloro che l’istituzione ha chiamato eretici – che condannano la violenza singola e collettiva; e infine le parole dei filosofi, schierati sull’uno o sull’altro fronte con le proprie analisi e critiche. La maggior parte delle opere medievali alle quali mi riferisco è edita, ma non molto conosciuta. Ancor meno noti sono i testi, spesso frammentari o riportati in modo distorto dagli avversari, dimenticati e talvolta quasi sepolti dalle condanne, di quegli uomini che con coraggio dissentivano dalla teologia politica della Chiesa romana, e più tardi anche da quella della Chiesa riformata: istituzioni che approvavano la guerra «giusta» e in occasioni terribili predicavano perfino la guerra «santa». È a questi autori che ho rivolto la mia attenzione negli ultimi trent’anni di studio: penso in particolare che le opere di John Wyclif, maestro di filosofia e teologia a Oxford, siano fra le più importanti del Trecento per originalità e forza, ma fra le meno conosciute anche dagli studiosi del pensiero medievale. Aggiungo – il lettore se ne accorgerà presto – che queste pagine non sono un esame sistematico del tema, ma un’analisi della presenza del problema-guerra quale si è presentato ai cristiani dai primi secoli dopo Cristo fino a oggi, con particolare attenzione ad alcuni momenti che a mio parere hanno segnato a lungo la storia: nodi teorici, idee, immagini, che ritornano nel linguaggio dei cristiani anche a distanza di secoli, da Paolo di Tarso a Karol Wojtyla, da Clemente di Alessandria a Giovanni XXIII. XIII

Cristiani

in armi

Pa r te pr i m a

1.

Le guerre nella Scrittura

Non c’è che l’imbarazzo della scelta nel citare pagine dell’Antico Testamento dove la guerra è presentata come «cosa buona e giusta» e combattuta da uomini ispirati da Dio. Gli esempi: Abramo, Mosè, Giosuè, Sansone, Gedeone, Davide sono condottieri non solo ispirati da Dio, ma da Lui guidati alla vittoria (il Dio degli eserciti: Isaia, 3, 1) o abbandonati alla sconfitta intesa come punizione per i loro peccati (Levitico, 26, 24). Basterà rileggere le pagine che raccomandano: «Se ti avvicinerai a una città per combattere contro di essa la inviterai alla pace ... Se non farà pace con te cingila d’assedio. Il Signore Dio tuo te la darà in mano: allora passa ogni maschio a fil di spada ma le donne, i bambini, le bestie e tutto ciò che ci sarà nella città prendilo per te e mangia la preda che il tuo Signore ti ha dato ... Nelle città che il Si5

gnore tuo Dio ti dà in eredità non lasciare nessuno in vita ma votali tutti allo sterminio ... Demolite i loro altari, spezzate le loro stele, bruciate le loro sculture ... Il Signore tuo Dio darà queste nazioni in tuo potere e le scompiglierà grandemente fino a distruggerle» (Deuteronomio, 7). Già san Gerolamo, tuttavia, faceva notare che, mentre nell’Antico Testamento Dio comanda la guerra, nel Vangelo esige la pace, «perché per conquistare il regno dei cieli non c’è bisogno di armi materiali». Ma ancora, nel Vangelo di Luca (3, 14), Giovanni Battista, il precursore di Cristo, non comanda ai soldati di lasciare il loro servizio, bensì soltanto di comportarsi bene senza abbandonarsi a vendette ingiuste. Nei Salmi la pace è prescritta come meta: «Ciò che il Signore vuole è la pace per il suo popolo e i suoi amici» (Salmi, 5, 9). E un punto esplicito e di grande forza a favore della pace e contro la violenza lo troviamo nel Vangelo di Matteo (5, 9), per secoli punto di riferimento per i movimenti per la pace: «Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati i figli di Dio». E ancora: «Avete sentito ‘occhio per occhio dente per dente’ ma io vi dico di non resistere al maligno. A chi ti schiaffeggia sulla guancia destra porgi anche l’altra e a chi vuol prendere la tua tunica lascia anche il mantello» (5, 9). Un altro brano che ha ispirato i fautori della pace è quello del Vangelo di Luca (7, 20), in cui Gesù dichiara che il suo regno «non viene in modo visibile né si potrà dire eccolo qui ... perché il regno di Dio è già in mezzo a voi». 6

Non tutti però hanno letto in questi passi un invito alla pace fra i popoli. Nel XVI secolo il cardinale Roberto Bellarmino interpretava le parole di Matteo come un comando diretto al singolo di astenersi dalla vendetta personale. E negava che quelle espressioni fossero una condanna a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra. Lo stesso concetto – semplice dissuasione dalla vendetta personale anziché esortazione alla non violenza – il Bellarmino ritrovava, confortato da Tommaso d’Aquino, in un altro passo famoso del Vangelo di Matteo (26, 52): «Ed ecco che uno di quelli che stavano con Gesù trasse fuori la spada e percuotendo il servo del pontefice gli tagliò un orecchio. Allora Gesù disse: ‘Rimetti la spada al suo posto perché tutti coloro che prendono la spada di spada periranno’». Sant’Ambrogio manifestava stupore e perplessità di fronte a uno dei pochi passi non pacifici del Vangelo di Luca (22, 36): «Chi non ha una spada venda la tunica e comperi una spada». Il vescovo milanese commentava così: «Perché o Signore mi ordini di comprare una spada e mi proibisci di ferire? Lo fai forse perchè io sia pronto alla difesa ma non mi lasci trasportare dalla vendetta personale?». Anche nei secoli successivi il passo di Luca sarebbe stato interpretato da molti commentatori come riguardante la violenza del singolo uomo contro un altro uomo: non la guerra, violenza collettiva che in sé non sarebbe proibita dal quinto comandamento. Come ogni testo di fondazione, anche il Vangelo, così lontano nel tempo, si è prestato a interpretazioni diverse. 7

Non c’è dubbio che l’ispirazione e lo scopo fondamentale delle parole di Cristo siano l’invito all’amore e alla fratellanza fra gli uomini e che Gesù fosse interessato soprattutto al risveglio e alla salvezza dell’uomo singolo, attraverso il quale deve necessariamente passare il rinnovamento della società umana nel suo complesso. Ma questa lettura, la più evidente ed emozionante, ha messo in ombra nei secoli l’altro imperativo, implicito, che non poteva non condannare la guerra, forma collettiva di violenza radicata tuttavia negli animi degli individui.

2.

Il linguaggio della guerra spirituale e del martirio

Un

«esercito che non versa sangue»: tali sono i cristiani, scrive Clemente di Alessandria nel III secolo, affermando che in questo modo incruento essi sono tuttavia in grado di vincere e guadagnare il regno dei cieli. Un esercito di anime, si direbbe. Ma non si può non notare che nello stesso testo il lessico militare è così frequente da essere certamente significativo: si parla del suono potente della tromba che annuncia la lotta e chiama alle armi i «soldati delle nazioni», di armi e corazze, di spade affilate, di assalti fiammeggianti. È un linguaggio che ha un senso preciso. Termini e modi analoghi sono presenti prima e altrove, in altre religioni e in culture più antiche; così come sono presenti nel pensiero stoico, che ha costituito forse il milieu più favorevole alla diffusione del cristianesimo presso le classi elevate. 9

Ma è soprattutto a san Paolo che dobbiamo guardare per scoprire che la mescolanza del linguaggio militare all’esortazione al perfezionamento religioso è tutt’altro che occasionale, anzi è essenziale nella descrizione e comprensione dell’impegno spirituale cristiano. «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere al diavolo: non si tratta di una lotta contro sangue e carne ma contro i principi e le autorità di questo mondo di tenebre ... Perciò prendete l’armatura di Dio per poter resistere e restare in piedi dopo aver superate le prove ... rivestendo la corazza della giustizia, calzando i piedi con la prontezza del Vangelo della pace, con l’elmo della salvezza e la spada dello spirito e tenendo alto lo scudo della fede potrete deviare gli strali del Maligno» (Lettera agli efesini, 6). Come in Clemente di Alessandria e in san Paolo, in numerosi testi cristiani dei primi secoli è frequente il paragone fra la guerra spirituale, il combattimento contro il male interiore, la tentazione da una parte, e la guerra contro un avversario fisico, un altro uomo o un popolo nemico dall’altra. L’analogia non è dunque occasionale, ma profonda. Essa si fonda su un tema religioso, il sacrificio, già presente in molte religioni ma essenziale anche nel nascente cristianesimo. Due elementi sottolineano l’importanza del sacrificio nella nuova religione: innanzitutto il modello proviene dal suo stesso fondatore, il Cristo, immolatosi per tutti gli uomini; in secondo luogo, la commemorazione del suo sacrificio, ripetuta quotidianamente dal sacerdote, costituisce il momento centrale della ritualità religiosa, diventando per i fedeli il precetto centrale. 10

Il contesto storico della prima fase del cristianesimo, quella in cui i credenti sono colpiti da persecuzioni, offre poi concretamente una motivazione in più: il sacrificio è un fatto evidente, cruento, è il martirio di quei fedeli che si rifiutano di rinnegare la propria religione bruciando incenso davanti all’imperatore pagano. L’analogia è chiara: l’arena dei martiri è intrisa di sangue come un campo di battaglia. La devozione a questi primi martiri diventerà nei secoli sempre più imponente e significativa, sottolineando nei racconti e nelle prediche sia la santità del sacrificio sia la fisionomia guerresca del martirio, culmine della battaglia spirituale. Esemplare il linguaggio di Tirso martire: Combruzio ordinò che fosse sospeso per i piedi e fosse torturato finché le ossa non si rompevano. Allora Tyrso gli disse: «Affrettati dunque a tormentarmi con supplizi anche maggiori per colpire la mia confessione di fede. Il nostro combattimento deve essere accanito e con questo io ti vincerò come soldato del Cristo». Gli rispose Combruzio: «Tu non sei cristiano e quindi i cristiani non ti riterranno un loro martire». Disse Tyrso: «Parli scioccamente perché Cristo mi rese martire dal momento in cui cominciai fra le torture a invocare e testimoniare la sua divinità. Se qualcuno è cristiano e non crede nel Cristo tutto è vano mentre se non è esplicitamente cristiano e diventa martire ossia testimone, anche se gli uomini non lo credono cristiano, lo è agli occhi di Dio in modo perfetto ... Egli mi ha riconosciuto come tale e non abbandonerà mai nessuno che gli è fedele, lo difenderà, lo aiuterà dandogli una invisibile forza contro i tormenti nella battaglia. Io vincerò Satana il principe del tuo esercito».

Con accenti simili parla nel III secolo il martire Cipriano il cartaginese: 11

Armiamoci, fratelli carissimi, con tutte le nostre forze e prepariamoci alla battaglia con animo puro, fede integra, coraggio pronto al sacrificio! L'esercito di Dio marci incontro alla battaglia che ci è stata indicata. Si armino gli animi integri: non perda il fedele il merito di aver resistito fino ad allora; si armino anche i caduti perché anche chi è caduto può riconquistare ciò che ha perduto. L'onore spinga alla battaglia gli animi forti e integri, il dolore i caduti.

Il martirio è dunque percepito come la battaglia contro il diavolo, una lotta estrema combattuta con le armi più virili anche quando a combatterla è una donna, come si legge nella commovente cronaca della giovane africana Perpetua, gettata in carcere e poi giustiziata perché cristiana. Esemplare anche il racconto della morte di san Vittore: una vera battaglia in cui scorre il sangue, iniziata – questo l’aspetto più singolare e interessante – con un vero atto di violenza da parte del futuro martire, che non solo rifiuta di sacrificare all’imperatore ma rovescia con un poderoso calcio l’altare di Giove. Negli Atti del martire si legge una sua arringa dal tono acceso e bellicoso: nella battaglia contro il nemico (il diavolo impersonato dall’imperatore che gli farà tagliare la testa) Vittore chiama «soldati» i suoi compagni di fede, incitandoli a combattere agli ordini del nuovo re, per il quale sono d’ora in poi «schierati come un esercito». Il clima del martirio/battaglia sarà sullo sfondo della prossima grande svolta del cristianesimo nel suo rapporto con il potere politico.

3.

I cristiani soldati dell’imperatore

Il 28 ottobre dell’anno 312, al ponte Milvio, Costantino vince la battaglia decisiva contro il rivale Massenzio. Eventi del genere, parte integrante della contesa per il potere, non erano infrequenti in quei secoli, ma nel racconto di un grande contemporaneo cristiano, Lattanzio, il fatto assume un carattere sovrannaturale. Costantino – racconta Lattanzio – aveva ricevuto in sogno durante la notte l’ordine divino di segnare gli scudi dei suoi soldati con il simbolo di Cristo e lo aveva interpretato come un segno del favore del Dio dei cristiani. Nell’antichità i re erano stati sognatori privilegiati, e tali rimasero anche nei tempi della nuova religione. Dopo Costantino, sogneranno eventi significativi Carlo Magno e molti re di Francia. Un sogno è un sogno, ma è difficile sottovalutare il peso della conversione dell’imperatore, iniziata forse 13

proprio da quel sogno. In ogni caso Costantino diffuse la notizia e l’anno dopo la vittoria emanò l’editto di Milano, con il quale concedeva libertà di culto ai fedeli della nuova religione. Il secondo Costantino sarà Teodosio: nell’editto del 391 il paganesimo viene vietato, i templi vengono chiusi e alcuni smantellati. Vent’anni dopo le chiese ottengono esenzioni fiscali e il «diritto d’asilo». Nel 435 si arriverà a emanare la pena di morte contro i pagani. «Gli imperatori cristiani avevano oramai messo a disposizione del cristianesimo i loro mezzi di coercizione e di persuasione» (Le Goff). I soldati cristiani, rari nei primi secoli nelle file dell’esercito imperiale, dopo l’editto di Costantino cominciano ad essere sempre più numerosi. Il loro favore (il consensus) diventa un fattore sempre più decisivo anche nella designazione del dux e nelle contese fra i pretendenti al trono imperiale. Dopo secoli di ostilità e di disprezzo, il potere politico sceglieva il Dio dei cristiani e abbandonava i vecchi dèi del Pantheon romano. All’inizio, nel II secolo, la situazione completamente differente vissuta dai seguaci della nuova religione era stata descritta nell’anonima Lettera a Diogneto con queste parole: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il paese che abitano né per lo stile delle loro vesti. Abitano in città greche o barbare secondo la loro sorte conformandosi agli usi del luogo riguardo agli abiti, il cibo e il modo di vivere. In questo modo danno testimonianza delle mirabili leggi concordi e paradossali della loro comunità». 14

Lo stesso san Paolo, nelle lettere agli efesini e agli ebrei, aveva dichiarato che come cittadino il fedele cristiano riconosce i doveri del paese in cui abita, ma rimane in sostanza uno straniero che «tutto sopporta». Per il cristiano in cammino verso la vera patria, quella celeste, ogni paese è insieme patria e terra straniera, che lo ospita solo provvisoriamente. Il senso del paradosso stava in un’accentuata interiorizzazione della fede, vissuta dai credenti in una dimensione puramente spirituale, al di là del rito, della cerimonia e della evidenza dei precetti. Va ricordato che allora i cristiani erano una minoranza, ma una minoranza differente da altri gruppi religiosi presenti all’interno della società romana, i quali generalmente manifestavano con ritualità visibili o addirittura vistose la loro identità religiosa. Anche i pagani percepivano la singolare qualità della scelta cristiana interpretandola come un’ambiguità e un disordine etico-politico. Ricordiamo le dure e lucide parole del pagano Celso, che incitava i cristiani a operare una scelta decisa: Delle due l’una come vuole la ragione. Se essi si rifiutano di rispettare in pieno le leggi dello stato in cui vivono, allora non raggiungano l’età virile, non prendano moglie, non allevino figli, non facciano nulla nella vita ... Se invece prenderanno moglie e metteranno su famiglia, mangeranno i frutti degli alberi e prenderanno parte agli eventi della vita civile sopportando i mali che ci sono imposti, allora dovranno tributare il loro rispetto alle autorità incaricate e prestare tutti i servizi dovuti alla società.

Ora, fra gli obblighi della convivenza, importante – anzi centrale in tempi bellicosi e percossi dalle invasioni – era 15

il servizio militare. È significativo perciò che appena due anni dopo la battaglia di ponte Milvio il Concilio di Arles decreti che «coloro che lasciano l’esercito saranno allontanati dalla comunione», e una legge di Costantino reintegri nel grado occupato nell’esercito quei cristiani che in passato erano stati allontanati e degradati per aver rifiutato di adorare l’imperatore. Fino ad allora i vescovi cristiani avevano incoraggiato le dimissioni dal servizio militare. Difficile immaginare un rovesciamento più radicale e più rapido: l’incompatibilità tra la fede cristiana e il servizio militare e la guerra scompare quasi di colpo. L’adozione del Dio cristiano sembrava ora indispensabile a conseguire la vittoria, tanto che qualche storico (François Heim) ha definito proprio «teologia della vittoria» la fase del pensiero cristiano che si afferma decisamente nel IV secolo e che attribuisce solo a Dio il merito del successo militare e politico. Nello stesso tempo, tuttavia, il mestiere di soldato viene riservato ai «non chierici», ossia ai laici, e proibito ai sacerdoti, che devono mantenersi incontaminati e «perfetti». Il vescovo Ambrogio riserva lodi ai coraggiosi che difendono la patria dai barbari, ma dichiara con orgoglio, lui ex militare e ora sacerdote, che lacrime e preghiere sono la sua sola arma di difesa. È un’idea che il pontefice Leone Magno ribadisce autorevolmente nel V secolo: coloro che entrano nell’esercito non possono ricevere gli ordini religiosi. La distinzione diventa legge pontificia: i papi ripeteranno che la difesa della patria con le armi è permessa solo ai fedeli laici, accentuando così la differenza di stato anche 16

sociale e la separazione fra i sacerdoti e i semplici fedeli, che diventerà una costante nei secoli medievali e oltre. Come il matrimonio, così la guerra è dunque un atto proibito a coloro che «servono l’altare». Ma l’analogia ha una motivazione più profonda di quanto possa apparire a un primo esame. Come abbiamo visto, il peccato originale ha depauperato l’uomo nella volontà e lo ha reso debole ai richiami della carne e ai bisogni materiali. La castità è additata come la scelta estrema di fronte al richiamo del sesso, anche se per i laici il matrimonio non solo è permesso ma persino incoraggiato, data la fragilità della carne che potrebbe indurre a comportamenti gravemente irregolari (meglio sposarsi che bruciare, secondo san Paolo). Allo stesso modo, una guerra «condotta con giustizia» è preferibile alla violenza indiscriminata e selvaggia, anche se nel portare le armi, come nel matrimonio, resta qualcosa che intacca la purezza del comandamento cristiano. Come tale – pur se con eccezioni significative, come vedremo – il combattimento sarà così proibito ai chierici e ai monaci. E il solco fra i due stati, quello ecclesiale e quello laicale, diventerà sempre più evidente in una Chiesa dalla struttura gerarchica quasi feudale. Graziano, nel Decretum, lo dichiarerà in modo deciso e definitivo: «Vi sono due generi di cristiani, il primo è dedito all’ufficio divino, alla contemplazione e alla preghiera lontano dai rumori del mondo. È il clero devoto a Dio, infatti cleros in greco significa sors perché si tratta di uomini eletti dalla sorte. L’altro genere di cristiani è formato dai laici ossia dal popolo che può possedere beni terreni, pren17

der moglie e lavorare la terra». Questo popolo di laici, aggiungiamo, può anche prendere le armi e combattere. Il processo di militarizzazione dei credenti cristiani arriva a compimento con il decreto del 416, con il quale l’imperatore Teodosio impone la religione di Cristo a tutti coloro che combattono sotto le sue insegne. Siamo solo all’inizio di un altro processo lungo, contraddittorio e terribile per l’istituzione cristiana.

4.

Lettera all’ufficiale Bonifacio

Bonifacio, un alto ufficiale romano che attraversa momenti di angoscia e solitudine per la morte della moglie e che vive con incertezza la legittimità del suo mestiere, scrive ad Agostino chiedendogli se «la guerra può essere giusta» e se portare le armi è peccato. Siamo nell’anno 416: Agostino, in questo momento vescovo di Ippona, gli risponde con una lunga lettera, che ci è giunta integralmente (P.L. 33). Le sue sono parole limpide nella forma, ma appaiono percorse da un’ambiguità e da un’angoscia di fondo: Non si può pensare – argomenta Agostino – che piaccia a Dio chi presta servizio militare e porta le armi. Ma anche Davide portava le armi e moltissimi altri uomini giusti di quel tempo ... La volontà deve tendere alla pace mentre la necessità spinge alla guerra proprio perché Dio liberi l’uomo dalla dura neces19

sità e conservi la pace. Alla pace non si mira per ingaggiare la guerra ma si fa la guerra per raggiungere la pace.

Due «necessità» si fronteggiano dunque per l’uomo che vive su questa terra: la dura necessità del bisogno, derivata dal peccato, e la necessità del conflitto. Nel Contra Faustum Agostino aveva scritto: «un soldato che uccide un uomo per obbedire alla legittima autorità non deve temere la punizione poiché non è colpevole di omicidio; anzi se non lo facesse sarebbe colpevole di aver disertato il suo dovere e trasgredito un comando». Parole che avranno gravi conseguenze. Agostino parla qui da vescovo, ossia da autorità con responsabilità civili e anche politiche, in un’età in cui la pressione dei barbari sui territori dell’impero romano si è fatta incombente e la minaccia di distruzione continua. La sua prospettiva non è solo quella del filosofo credente, che affronta il problema unicamente alla luce del quinto comandamento e del precetto dell’amore evangelico. Nella sua veste istituzionale, la guerra gli appare inevitabile e persino giustificabile. In ciò lo sorreggono le sue letture classiche: soprattutto il Cicerone teorico della «guerra giusta», a sua volta fonte del vescovo Ambrogio, così ammirato e seguito da Agostino negli anni del soggiorno milanese. Come altri cristiani del suo tempo, Ambrogio non solo operava politicamente e con successo, ma mostrava di pensare all’impero romano come a una forma storica voluta dalla provvidenza divina. La «pace di Augusto» diventava per lui la «pace di Cristo», l’imperatore il «figlio della Chiesa», l’impero una società in cui la dimensione cristia20

na era radicata in modo essenziale e caratterizzava ormai la vita collettiva. Anche per Ambrogio il peccato di Adamo era la chiave per comprendere l’attuale condizione umana, segnata dalla privazione e dal bisogno: qui nasceva «per necessità» l’istituzione della proprietà, primo anello di una catena di violenze, contese e sopraffazioni. La proprietà non era vista come una struttura naturale (nel senso cristiano di natura originaria o edenica), ma come una deviazione, una «usurpazione», così come – aggiungeva Ambrogio – anche la schiavitù. In questo quadro la guerra giusta sarà di volta in volta definita con qualche differenza dai vari pensatori cristiani, ma nella sostanza resterà tale nelle procedure umane e ispirate alla pietà cristiana. Nell’Europa carolingia rimarrà esemplare la battaglia di Fontenoy, vinta da Carlo il Calvo nell’841 e ricordata come un modello di guerra cristiana: i soldati in fuga non vennero inseguiti e trucidati, i feriti furono curati, i combattenti osservarono un digiuno di tre giorni per penitenza del sangue versato. Si sperava che in futuro i vinti «con l’aiuto di Dio ricercassero anche loro la giustizia». L’uguaglianza fra gli uomini e la loro fratellanza pacifica, proprie dello «stato di innocenza», verranno considerate in questo modo come anteriori al peccato, e non recuperabili quindi a livello storico, ma continueranno a segnare in modo permanente l’essenza vera e originaria dell’uomo svelata dal Cristo. Ed è a quella natura originaria, esemplificata dalla vita comunitaria e pacifica dei primi cristiani, che guarderanno molti dei cosiddetti eretici, che 21

dissentendo dalla Chiesa istituzionale s’impegneranno per costruire una società di pace. Lo vedremo nei secoli seguenti e anche molto più vicino a noi. Ma ora è opportuno fermarci sulle idee che Agostino sviluppa a proposito della guerra, partendo dalla prospettiva generale, cioè dall’idea di «ordine» come fondamento del suo sistema di pensiero, filosofico e teologico.

5.

Agostino e la guerra

L’idea di «ordine» può essere presa come centrale per spiegare la visione del mondo di Agostino e quindi anche la sua teologia della guerra. L’ordine cosmico, intellettuale e morale impresso da Dio alla sua creazione è stato sconvolto dal peccato di Adamo. Alla restaurazione dell’armonia divina si può arrivare, nella vita collettiva degli uomini, intrisa dopo la Caduta da una generale libido dominandi, anche attraverso la guerra giusta, cioè la guerra che ha di mira la pace. Onnipresente nell’opera di Agostino è così l’analogia fra il disordine interiore dell’uomo e i mali e le contese interne alla società: attraverso il superamento della battaglia interiore fra istinti e spirito, amore di sé e amore di Dio, l’uomo cerca la strada per ritrovare la pace dell’anima. «L’uomo porta con sé

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la guerra ovunque fugga ... Egli scopre nel suo animo quella guerra di cui parla l’apostolo Paolo.» Da un punto di vista teologico e metafisico, l’assioma agostiniano della bontà del tutto è fondamentale: la realtà delle cose sovrannaturali e del mondo inferiore è «buona» nel suo insieme in quanto progetto divino, come un bel quadro in cui i colori spenti danno risalto a quelli più luminosi contribuendo così alla bellezza dell’intero. Anche la guerra, con i suoi colori cupi, rientra nel disegno divino, e contribuisce come ogni altra miseria umana alla bontà dell’insieme. Allo stesso modo la pace è un fatto che appartiene al livello storico, al tempus. L’idea stessa di pace richiama soprattutto il concetto di pactum: nella vita terrena dell’uomo essa non è un bene assoluto né un dono, ma il risultato di uno sforzo personale o paradossalmente il frutto positivo di una lotta che tende al ritorno dell’ordine. Ma quando la guerra fra uomini o fra popoli può essere chiamata «giusta» e quindi giungere a generare la pace? Agostino riprende qui la riflessione antica e riafferma – anche alla luce degli eventi terribili che vede accadere intorno a sé – che giusta è innanzitutto quella guerra che è inevitabile perché dovuta a un’invasione del nemico, condotta sotto il comando di un’autorità legittima, esente da atti di vendetta personale, crudeltà e saccheggi. La guerra, che in quei tempi appariva inevitabile contro gli invasori dell’impero, doveva essere condotta con queste procedure. Giusta appariva così la guerra contro i Visigoti di Alarico: un conflitto terribilmente evidente e inevitabile per cristiani come Agostino o Gerolamo, rimasti sgomenti di 24

fronte al saccheggio di Roma del 410. Vent’anni dopo il re dei Vandali Genserico porterà il suo popolo in Africa, assediando proprio Ippona, sede del vecchio vescovo Agostino. «Giusto» era difendersi da queste invasioni. Nell’ultimo decennio della sua vita, tuttavia, la riflessione di Agostino sembra farsi ancora più radicale ed estrema. Il senso delle parole di pace e d’amore contenute nel Vangelo («porgere l’altra guancia a chi ti colpisce») sembra ormai valido per lui solo a livello spirituale. Oltre alla difesa della città, altre cause sembrano rendere giusta e persino augurabile una guerra: Cosa c’è da biasimare nella guerra? L’uccidere uomini che un giorno dovranno morire? Questo è un biasimo non degno di uomini religiosi ... No, male è piuttosto la volontà di fare del male, la crudeltà della vendetta, il furore e la brama di potere ... Talvolta è necessario che gli uomini buoni intraprendano la guerra contro gli uomini violenti per comando di Dio o del governo legittimo quasi costretti dalla situazione al fine di mantenere l’ordine (Contra Faustum).

«Il soldato che uccide obbedendo al comando del potere legittimo» – arriva a dichiarare Agostino – «non è colpevole di omicidio, ma anzi sarebbe colpevole di disobbedienza se trascurasse l’ordine ricevuto». La pace mette termine a ogni ribellione e resistenza ed è l’augurabile conclusione della guerra, vista come una realtà terribile che nessuno desidera in sé ma che appare a volte purtroppo imprescindibile. La Chiesa, conclude Agostino, «può perseguitare gli empi per amore ... costringendoli con la forza ad essere accolti nel suo seno». Non si può non vedere come la distinzione (o con25

trapposizione) fra la natura edenica e anteriore alla storia – che implica l’uguaglianza fra gli individui, la fratellanza e quindi la pace – e d’altra parte la natura ribelle alla volontà divina e ormai deviata che vive nel «secolo» abbia avuto enormi conseguenze. Essa conduce infine alla tragica consapevolezza del dovere di ricondurre gli increduli e i dissidenti (gli eretici) alla verità rivelata da Dio e custodita dalla Chiesa stessa. Ciò non può che avvenire attraverso un’altra violenza: la violenza della guerra. Anche il pontefice Gregorio Magno loderà la conquista dei territori perché in tal modo «il regno di Cristo allarga i suoi confini». Papa Gregorio inviterà i sovrani a «opporsi con l’acutezza della mente e la forza materiale ai nemici suoi e della chiesa». E san Gregorio di Tours inciterà i principi cristiani alla guerra per «ottenere la pace», proprio come aveva insegnato Agostino («Perciò devi essere pacifico in guerra e vincendo il nemico devi portarlo alla pace»). Più tardi il biografo di Carlo Magno, Eginardo, scriverà che le guerre del suo sovrano contro i Sassoni hanno avuto anche il merito di aver reso più ampio il regno cristiano: «I Sassoni avevano conservato le superstizioni diaboliche e i culti dei loro antenati. Vinti, dopo aver adottato i sacramenti della fede cristiana saranno uniti ai Franchi in un unico popolo». Vinti, ma anche massacrati se rifiutano il battesimo: l’imperatore stesso dichiara, scrivendo al pontefice, che è suo dovere proteggere la Chiesa all’interno e da ogni lato contro le incursioni pagane. «A voi padre spetta innalzando le mani al cielo come Mosè sostenere il mio braccio affinché il popolo cristiano possa trionfare sui suoi nemici.» 26

6.

«Oratores» e «bellatores», chierici e laici

Alla luce di questi sviluppi, due sono evidentemente i compiti principali affidati all’uomo cristiano nella società: pregare e combattere. Sullo sfondo, necessari come il cibo che coltivano, stanno i più umili, il cui compito è semplicemente lavorare. Adalberone, vescovo di Laon vissuto intorno all’anno Mille, lo metterà bene in chiaro. La società, egli sostiene, è formata da tre gruppi: gli oratores, coloro che pregano; i bellatores, i guerrieri; e infine i laboratores, che con la loro fatica mantengono gli uni e gli altri. Nella divisione viene sottolineata la concordanza ideale delle tre funzioni, di contro a una realtà che è invece lacerata, anche perché sono i guerrieri, i feudatari, a detenere in prevalenza il potere, concreto e terribile. Quella di Adalberone non era un’idea nuova. Si modellava anzi su archetipi antichi, non solo precristiani ma 27

addirittura anteriori a Platone, il quale nella sua Repubblica aveva posto i filosofi a capo di un corpo sociale composto anche dai guerrieri e dai contadini. Il vescovo di Laon metteva ordine nel corpo della cristianità riprendendo l’antica ripartizione in tre gruppi. Ma al posto di coloro che pensano e che ricercano la verità (i filosofi), nella cristianitas ci sono i sacerdoti, che la verità già la posseggono e pregano la fonte divina da cui deriva, con l’ulteriore privilegio di amministrare i sacramenti. In tema di guerra i Libri penitenziali – manuali ad uso dei confessori, che avevano il compito di fissare una penitenza adeguata per ogni peccato – stabiliscono che non è peccato grave commettere omicidio combattendo, anche se per purificarsi il colpevole dovrà star lontano dalla chiesa per un certo numero di giorni oppure praticare il digiuno. Se poi la guerra è motivata da una invasione che sostanzialmente costringe i fedeli alle armi, per loro la penitenza prevista sarà ancora minore. Secondo altri vescovi, nessuna pena sarà data a quei soldati che combattono a favore di una giusta causa agli ordini di principi legittimi (che tra l’altro spesso combattono fra loro una lotta fratricida!). È sancita così, in vari testi, l’irresponsabilità del soldato che si limita a eseguire gli ordini superiori. Diversa la linea della Chiesa bizantina, ispirata al modello di san Basilio, vissuto nel IV secolo. Questi si era richiamato al precetto dell’amore evangelico e aveva sempre mostrato un atteggiamento ostile alle armi: per lui il solo combattimento lecito per un cristiano era quello spirituale. I vescovi bizantini, più severi dei loro colleghi la28

tini, arrivavano ad escludere dalla Chiesa, per tre anni interi, i colpevoli di omicidio in guerra. Anche più tardi, nel XIII e nel XIV secolo, quando la Chiesa d’Europa avrà ormai accettato e adottato la morale delle armi, in terra bizantina avremo testimonianze di condanne inflitte a quei monaci che venivano incolpati di aver raccolto uomini per combattere i nemici, anche quando questi erano i Turchi. La questione non era del resto pacifica nemmeno nell’Occidente latino. I documenti ci dicono che sul tema si discuteva e si avevano pareri contrastanti. Nella legge cristiana fondata sull’amore evangelico, il quinto comandamento era troppo centrale per poter essere del tutto trascurato. Il praeceptor Germaniae Rabano Mauro, nel IX secolo, ricorda in una lettera che alcuni erano inclini a perdonare l’omicidio in guerra, dal momento che il soldato eseguiva l’ordine impartito dai principi e che la battaglia era sottoposta al giudizio di Dio. Egli obbietta però che l’omicidio perpetrato in battaglia rimane comunque un atto «abominevole» e deliberato: colui che lo commette non può essere considerato senza colpa. Rabano non apparteneva alla maggioranza, se è vero che intorno all’anno Mille si infittiscono le dichiarazioni dei vescovi – e persino di due papi, Leone IV e Giovanni VIII – a favore di chi combatte contro i non cristiani. Ma Rabano non era neppure il solo a pensarla diversamente, come ora vedremo.

7.

Voci dissidenti, voci di pace

Alcuni dei vescovi intorno al Mille parlano con sgomento di «uomini che si divorano come pesci nel mare» o «di lupi contro lupi». Anche se la guerra è cantata dai poeti come una gioia, un gioco violento e inebriante che colora di sangue i prati nel mese di maggio, nella realtà rimane un massacro temuto dal popolo al pari della peste che non rispetta nessun limite. Oltre agli eccidi sui campi di battaglia, ecco i villaggi incendiati, le violenze alle donne e ai bambini, le chiese profanate, i granai saccheggiati e le vigne tagliate... La carestia arriva subito dopo come la squallida sorella della guerra. Il rozzo miles che combatteva queste continue battaglie riceveva i mezzi per procurarsi il costoso armamento e il cavallo, ricambiando la protezione del signore con la sua fides di vassallo. Aveva modo di dimostrarla sovente: gli 30

scontri fra i signori gli fornivano l’habitat permanente per i massacri che paralizzavano le terre d’Europa. Sorto intorno all’anno Mille, il movimento per la «pace di Dio» cercò di opporsi a questa guerra senza fine promossa dai signori ed esercitata da milites ancora privi di un’etica di gruppo (appunto milites e non ancora cavalieri). La «pace di Dio» predicata dai vescovi faceva appello al popolo, ai simplices, ai pauperes, agli inermes, tramite associazioni nelle quali si entrava prestando giuramento. Ma al di là delle dichiarazioni il suo movente sembra essere stato non tanto il richiamo allo spirito dell’evangelica fratellanza, bensì lo sgomento di fronte a una situazione di anarchia e di ferocia ormai insostenibili. Era la risposta a un disordine senza freni, il cui danno appariva evidentemente generale. All’inizio il movimento è locale e nasce nella Francia sud-occidentale. Viene promosso dalle sedi episcopali, ma si salda ben presto con la grande riforma della Chiesa di Gregorio VII e con il movimento monastico che irraggia dal monastero di Cluny. Contro la violenza dei milites, alcuni vescovi si appellano al potere del re e mediante assemblee ispirate a princìpi di eguaglianza impongono un giuramento di pace e di perdono. Rodolfo il Glabro, grande testimone di quegli anni di mutamento, parla di «impegni consacrati presi nei confronti di Dio onnipotente fra i quali la promessa più importante era quella di osservare una pace inviolabile e rifiutare la vendetta». «In forza del giuramento uomini di ogni condizione» – aggiunge Rodolfo – «qual che fosse il crimine di cui si era31

no macchiati potevano poter camminare senza timore e senza armi». Era un auspicio, naturalmente, ma ottenne qualche risultato. A leggere ad esempio il giuramento di re Roberto il Pio, il quadro della situazione di quei tempi appare pervaso da una inimmaginabile abitudine alla ferocia, e non solo da parte di comuni guerrieri. Persino il re di Francia prometteva di non violare chiese, di non assalire chierici e monaci, di non bruciare villaggi, di non rapinare i contadini del loro bestiame e i mercanti delle loro mercanzie e del loro denaro: evidentemente era una eventualità che ci si poteva aspettare. Il movimento per la pace generò in molte regioni una milizia «popolare» che perseguitava i trasgressori dell’impegno preso, imponendo però l’arbitrio del vescovo promotore e talvolta un’altra violenza. Il risultato appare sconcertante ai nostri occhi ma anche a quelli di alcuni contemporanei. Il vescovo Adalberone di Laon si mostra sdegnato di fronte ai proclami di eguaglianza, «dal re al contadino», che non possono che portare a suo parere a un disordine «diabolico e eretico», che non rispetta le differenze sociali, segni tangibili dell’ordine voluto da Dio. Egli si adopera piuttosto per una «pace del re», ma questo è chiaramente un progetto prematuro, dal momento che il potere regio è ancora debole e condizionato da quello dei vassalli più importanti. Su un fronte analogo si muovono gli abati del monastero di Cluny, i quali tentano di ingentilire – o meglio «cristianizzare» – i guerrieri (i bellatores), imponendo loro comportamenti simili a quelli degli oratores: pregare, can32

tare i salmi e vivere in castità. Nell’azione dei cluniacensi si possono scorgere in nuce modi che avrebbero più tardi definito la morale che trasformava i milites in cavalieri. Odilone, abate di Cluny, promuove invece una finalità più limitata, ma più efficace: la tregua di Dio, ossia la proibizione di combattere in determinati tempi, dal mercoledì sera al lunedì mattina durante la Quaresima, l’Avvento e le vigilie delle feste religiose. Qualche decennio più tardi un monaco dell’abbazia di Fleury, scrivendo la vita di re Roberto il Pio, testimonia un’attitudine simile, rifiutandosi di raccontare le imprese militari del sovrano e affermando di aver preso questa decisione a nome dei monaci, dei chierici, delle vedove, degli orfani e di tutto il popolo di Cristo, ossia di tutti coloro che formavano le assemblee di pace. Sono segni senz’altro autentici, ma limitati. Più che di avversione alla guerra o di amore evangelico per la pace, sono segni di consapevolezza e sgomento per lo slittamento rapido della società cristiana verso una condizione in cui la guerra diventava una normalità ormai continua e soprattutto insostenibile. I movimenti per la pace cercavano di limitarne i danni per quanto possibile, ma la presenza e l’incrocio di più poteri spesso in conflitto fra loro – i vescovi, i cavalieri, i principi e sullo sfondo il papato – rese difficile raggiungere risultati ampi e di rilievo. Lo stesso paradosso di fondo del movimento, costretto a usare gli stessi strumenti della guerra per combattere la quale era sorto, è del resto rivelatore. Ma si deve comunque sottolineare che fu attraverso questo processo di conversio di valori che il rozzo miles si 33

trasformò in cavaliere. Nella nuova prospettiva etica la sua aventure doveva essere messa al servizio dei poveri, delle vedove, degli orfani e della fede. È questo, probabilmente, il frutto più vistoso e importante del movimento per la pace.

8.

Dio garantisce la vittoria

Sostenuto

dai monaci di Cluny, il papato si impegnò direttamente a indirizzare le energie e le armi dei cavalieri verso battaglie più adatte a un cristiano e più proficue alla religione cristiana: dapprima verso la Reconquista della Spagna dominata dai musulmani, quindi verso quella che sarà più tardi chiamata crociata, ossia la conquista o liberazione della Terrasanta. La Reconquista spagnola, non c’è dubbio, è guerra: una guerra incoraggiata dal papa Alessandro II e dai suoi successori, che rivendicavano le terre strappate ai cristiani dai musulmani e incitavano all’impresa cavalieri e principi con esplicite promesse di ricompense spirituali. Sappiamo che in passato questo era già avvenuto, quando ad esempio Leone IV e Giovanni VIII avevano chiesto l’aiuto dei Franchi contro i pirati saraceni che minacciavano Roma: 35

entrambi avevano promesso l’ingresso diretto in paradiso a coloro che cadevano sul campo combattendo. Pochi anni più tardi alla «pace di Dio» si affianca la «guerra di Dio», quando Gregorio VII invia i suoi milites Christi a Milano per combattere il clero scismatico. Il fatto era tanto più grave, come notava anche un contemporaneo di papa Gregorio, Sigeberto di Gembloux, perché non si trattava in questo caso di combattere invasori o infedeli, ma cristiani battezzati. È sempre Gregorio VII che decide di raccogliere un esercito per soccorrere i cristiani d’Oriente e riconquistare i territori perduti. E anche in questo caso, come dimostrano le lettere inviate dal pontefice ai principi d’Europa, viene dichiarata l’intenzione di ricompensare con la vita eterna chi morirà in battaglia. Questa volta la guerra non si sarebbe realizzata, soprattutto a causa dei rapporti pessimi fra papa e imperatore. I tempi erano però maturi perché combattere e sconfiggere il nemico potesse essere giudicato non solo giusto, ma addirittura santo. Gli storici hanno discusso con diversi risultati su quale sia il reale punto d’inizio della guerra santa cristiana per la liberazione del Santo Sepolcro. Tuttavia quell’inizio, come sappiamo, era stato preparato in modo sostanziale nel corso dei secoli precedenti da movimenti e dichiarazioni anche molto autorevoli. Nella Chanson de Roland ritorna ad esempio il legame tra combattimento e martirio che abbiamo già visto all’opera nei primi secoli del cristianesimo: Così disse Rolando: Qui subiremo il martirio / ... ma sarà fellone chi non si venderà caro / ... Colpite signori con le spade lucenti. 36

Il combattimento è esaltato talvolta in se stesso, al di sopra del fine religioso, come nel discorso dell’arcivescovo combattente Turpino, presente a Roncisvalle, che non risparmia parole di disprezzo verso coloro che si dimostrano imbelli: «Chi porta le armi in battaglia deve essere forte e fiero ... Altrimenti non vale quattro soldi e allora piuttosto si faccia monaco in qualche monastero e preghi per i nostri peccati». Per il vescovo Turpino, il monaco evidentemente non valeva tanto quanto un audace soldato. L’appello di Urbano II a Clermont-Ferrand e la Lettera ai templari di uno dei massimi esponenti della Chiesa e del pensiero medievale, il cistercense Bernardo di Clairvaux, sono fra i momenti più significativi per segnalare l’atteggiamento della Chiesa verso la guerra in quel tempo. Prima e intorno a questi documenti, tuttavia, sono molti gli indizi dell’emergere dell’idea di crociata fra i cristiani. Fra questi dobbiamo ricordare almeno i numerosi incitamenti ai pellegrinaggi in Terrasanta: analoghi a quelli diretti a Santiago di Compostela, a Mont-Saint-Michel e a Roma, essi si caricavano infatti di un più ampio significato di revanche contro le vere o presunte persecuzioni dei musulmani ai danni dei cristiani nei Luoghi sacri. Spedizioni spontanee e irregolari, come quella guidata da Pietro l’Eremita o il pellegrinaggio armato di Gualtieri senza Averi (nome senz’altro significativo, ma ambiguo: povero per scelta o per stato?), si risolsero in disastri, non prima di aver provocato strada facendo il massacro di un gran numero di ebrei. Secondo una delle versioni tradizionali, il pontefice Urbano II, discepolo e poi successore di Gregorio VII, 37

pronunciò nel novembre del 1095 a Clermont-Ferrand, in Alvernia, un discorso che venne interpretato dai contemporanei e da molti storici come un vero e proprio manifesto della peregrinatio poenitentialis, solo più tardi denominata crociata. Alcuni studiosi hanno sottolineato come in realtà lo scopo centrale dell’allocuzione papale fosse un incitamento alla pace diretto ai feudatari europei in continua lotta fra loro. Ma i due aspetti non sono divergenti e anzi si sorreggono a vicenda: Urbano indicava una meta più alta e degna, che spegnesse le tensioni fratricide (il che era congeniale anche al programma della pax Dei), ma che d’altra parte impegnasse i cavalieri in un’impresa santa e soprattutto lontana dalle terre d’Europa. Quest’impresa era però senza dubbio anch’essa una guerra. Cosa aveva detto il papa? È necessario che vi affrettiate a soccorrere i vostri fratelli orientali ... poiché i turchi, gente che viene dalla Persia e ha moltiplicato le guerre occupando le terre cristiane uccidendo, distruggendo le chiese e devastando il regno di Dio, sono arrivati fino al mare mediterraneo ... Io vi esorto dunque affinché tutti di qualunque ordine, cavalieri, fanti, ricchi e poveri, accorriate subito in aiuto ai cristiani per spazzare via dalle nostre terre quella stirpe malvagia ... Per tutti quelli che partiranno se incontreranno la morte in viaggio o in battaglia contro gli infedeli vi sarà l’immediata remissione dei peccati che io accordo per l’autorità che Dio mi concede ... Diventino cavalieri di Cristo coloro che fino a ieri sono stati briganti, combattano gli infedeli coloro che combattevano contro i fratelli ottenendo così il premio eterno.

A questo punto la guerra non è solo accettabile e giusta. Essa è anche dichiaratamente meritoria se l’avversario 38

è un pagano (così erano chiamati anche i musulmani) o, come vedremo più avanti, un cattivo cristiano, un eretico, o perfino un semplice avversario politico del papa come l’imperatore Federico II di Svevia. Talvolta Dio non aiuta i suoi combattenti, che si sentono colpevoli per i loro peccati, considerati causa della disfatta: «Noi confessavamo di essere peccatori e imploravamo il perdono divino ... imploravamo umilmente Dio di abbattere la potenza del nemico ... Piangevamo cantando e cantavamo piangendo correndo a confessarci», scriverà Fulcherio di Chartres. Ma nel 1099 i crucesignati, vincendo e conquistando Gerusalemme, compiono «il giudizio di Dio» e ottengono la lode del pontefice Pasquale II. È famosa la scena dell’eccidio al quale si abbandonarono i cavalieri crociati, piena di ebbro furore e di ferocia selvaggia: Il duca e quelli che erano entrati con lui nella città si riunirono e coperti con elmi e corazze percorsero strade e piazze della città uccidendo indistintamente tutti gli infedeli che capitavano senza riguardo a età o rango. Da ogni parte si vedevano nuove vittime, teste staccate dai corpi, non era possibile camminare senza attraversare mucchi di cadaveri. Altri dopo aver saputo che gran parte della popolazione si era rifugiata al di là dei bastioni del Tempio corsero sul posto in grande moltitudine colpendo con le spade chiunque incontrassero inondando di sangue le strade. Essi compivano così i giusti decreti del Signore ... Poi deposero le armi, si cambiarono le vesti, si lavarono le mani e camminando a piedi nudi con cuore umile gemendo piangevano con devozione.

Chi descrive questo folle omicidio rituale è Guglielmo, arcivescovo di Tiro, nella sua Cronaca. 39

Bernardo di Clairvaux interviene sulla scena alcuni decenni più tardi. Il suo Libro della nuova cavalleria è indirizzato ai templari: monaci e cavalieri che avevano promesso di osservare – insieme all’obbedienza, alla castità e alla povertà – l’impegno alla lotta contro gli infedeli. È un testo prezioso, anche perché proviene da un autore che fino a poco prima si era dimostrato fedele al principio della stabilitas loci del monaco e sfavorevole quindi ai pellegrinaggi, considerati, contrariamente a quanto sostenevano i cluniacensi, fonti di tentazione. Bernardo si era anche proclamato contrario all’esercizio delle armi, inconciliabile a suo parere con lo stato del chierico. Quale virtù nuova posseggono dunque i monaci guerrieri del Tempio per far mutare atteggiamento a questo importantissimo esponente del pensiero cristiano medievale? Combattere, uccidere ed esporsi alla morte: tutto questo nel templare viene trasfigurato dal martirio. L’omicidio diventa per Bernardo un «malicidio», ossia solo un mezzo per estirpare il male dal mondo, per trionfare sul peccato. Il ritratto del monaco guerriero è ideale, ma identificabile anche visivamente: il templare porta la barba lunga dei penitenti, è trascurato nell’aspetto, rifugge le belle vesti e le armi lucenti di cui vanno fieri i cavalieri mondani, non è mai in ozio, non è impetuoso bensì «pacifico in guerra». Tutto questo deve servire a mettere in evidenza nel templare il suo contemptus mundi, il disprezzo del mondo, e la sua tensione verso la realtà dello spirito. E tuttavia resta il compito principale: il templare deve uccidere, anche se si distingue dalla milizia «del secolo» perché il suo 40

combattimento è diretto contro il Nemico, il diavolo, del quale gli infedeli sono la rappresentazione visibile. I cavalieri di Cristo – scrive Bernardo – combattono con sicurezza le battaglie del Signore senza timore e senza peccato quando uccidono il nemico ... La morte data o ricevuta per il Cristo non comporta peccato alcuno e merita anzi grande gloria ... [Il templare] accetta con bontà la morte del nemico a titolo di riparazione e ben più volentieri dona se stesso quando cade in battaglia. Con serenità uccide con serenità muore e ... se uccide rende un servizio al Cristo ... Quando è ucciso si deve dire non che è morto ma che ha raggiunto il suo scopo ... Dalla morte del pagano il cristiano trae gloria perché il Cristo viene glorificato, ma quando è il cristiano a morire allora splende ancor più viva la generosità divina perché il Re chiama a sé il cavaliere per donargli la ricompensa.

Memore del precetto d’amore cristiano, Bernardo aggiunge: «Certo non si dovrebbero uccidere neppure i pagani se si trovasse un modo diverso per impedire loro di opprimere. Ma ucciderli resta la migliore soluzione per il momento ... anche per evitare che siano indotti a compiere altro male». Non sembra che qui Bernardo di Clairvaux, solitamente grande e acuto scrittore, brilli per originalità di argomentazioni: alcune pagine del Liber de laude riprendono motivi evidentemente agostiniani (la dura necessitas del momento, l’oppressione delle circostanze) e il pericoloso antico tema del martirio, che tutto trasfigura assolvendo. Del resto lo stesso Bernardo, a cui tutti riconoscono una grande sapienza retorica, ammetteva durante il duello teologico con Abelardo la sua netta inferiorità logica: «di fronte a lui in questo mi sento un bambino». Non condivido 41

perciò il parere di Franco Cardini, il quale pensa che nel Liber dedicato ai templari Bernardo «pensi e scriva per l’eternità». Al contrario, una lettura comparata con i testi più ispirati e meno occasionali dell’abate di Citeaux lascia l’impressione di qualcosa di scritto ad hoc e di abbastanza imbarazzante per lo stesso autore. Per lo storico è di grande ma amaro interesse constatare come anche uno spirito mistico della statura di Bernardo sia stato travolto dalle più selvagge circostanze del suo tempo, fino ad avallare con la sua autorità spirituale l’omicidio di massa commesso in guerra. La crociata, percepita come guerra santa, è pronta ormai a diventare come ogni altra guerra: un normale massacro, e non solo di infedeli. Nel 1207 il pontefice Innocenzo III chiede infatti al re di Francia di intervenire con le armi contro altri cristiani, gli albigesi, definiti come una «odiosa turba di criminali». Ecco le sue parole: La peste dell’eresia continua a crescere e la nave della Chiesa deve essere protetta dal pericolo del naufragio in questa regione: noi domandiamo al re incessantemente di intervenire e vi incoraggiamo con fervore ... Noi vi ingiungiamo confidando in Cristo di non tardare a combattere i malvagi sforzandovi di portare la pace nel nome di colui che è il Dio della pace e dell’amore.

I cronisti della crociata contro gli albigesi, fra i quali un monaco cistercense, annotano con freddezza lo scatenarsi della furia incontrollabile dei «buoni» che massacrano i «malvagi», comprese le donne e i vecchi e gli uomini disarmati, che bruciano i raccolti e spogliano i morti. La colpa della famosa strage di Béziers è addossata d’altronde ai 42

peccati degli eretici, e secondo il programma della crociata anche la città di Tolosa deve essere annientata: «Se la perfida città di Tolosa non viene sottratta all’eresia la fatica sarà stata inutile» – scrivono i vescovi al papa – «e per questo vi preghiamo di impugnare la spada affinché la città muoia con tutti i suoi abitanti». Gli oppositori del papa, cristiani e non cristiani, sono ormai tutti per definizione «malvagi». E i malvagi, in una prospettiva teologica che sembra corretto definire manichea, diventano il Male.

9.

Guerra giusta, guerra santa

È questa una linea che continuerà, con qualche intervallo, per secoli: per la Chiesa la guerra «giusta» per eccellenza diventa evidentemente la guerra «santa». Ma lo slancio spirituale che è innegabilmente presente nelle prime crociate scompare, lasciando il posto a una desolante mistura di ragioni politico-territoriali ed economiche, sprovvista di qualsiasi idealità. Uno degli esempi più clamorosi e terribili è la lunga guerra promossa dal pontefice Paolo IV a metà del secolo XVI. Egli scende in campo contro la Spagna, «feccia del mondo» e «banda di eretici», chiama in aiuto il re di Francia, arma e mobilita un proprio esercito nel quale numerosi sono i mercenari protestanti. A conferma dell’assenza di qualsiasi motivo religioso, le truppe spagnole avversarie del papa sono comandate dal duca d’Alba, cattolico fer44

vente. È tristemente noto il massacro operato nei domini napoletani dall’esercito del pontefice, un esercito del resto famigerato per la sua efficienza e ferocia. «Questi selvaggi sono perfetti per la guerra ... e si possono usare in ogni operazione militare, negli assedi e nelle battaglie aperte»: così scrive l’ambasciatore veneto, diviso fra l’ammirazione e l’orrore. Pochi decenni prima Erasmo da Rotterdam aveva già potuto constatare lo straordinario spirito bellicoso del papa a lui contemporaneo, Giulio II, contro il quale lanciò negli Adagia questa lucida invettiva: Cosa c’è in comune fra la mitra e l’elmo, la santa tunica e la corazza da guerra, le benedizioni e i cannoni, il mite pastore e i banditi armati, il sacerdozio e la guerra? Per quale ragione si parte per conquistare piazzeforti con macchine da guerra quando si detengono le chiavi del regno dei cieli? ... Con quale coraggio si insegna ciò che Cristo ha insegnato e gli apostoli hanno ripetuto molte volte: non bisogna resistere al male ma vincere con la bontà la malvagità e rispondere generosamente all’ingiustizia subita, quando poi si sconvolge il mondo nelle tempeste della guerra per ottenere il dominio di una piccola città?

In un’altra pagina Erasmo raffigura san Pietro che rimprovera papa Giulio II quando dopo la morte si presenta al suo cospetto: «Sembra che tu abbia distrutto la Chiesa inducendo il mondo intero alle guerre più terribili per poter impunemente mentire e portare ovunque rovina ... tu che hai condotto alle morte così tante legioni non hai guadagnato a Cristo una sola anima». Nella prima metà del Cinquecento una fiammata sinistra riporta del resto alla ribalta la guerra/crociata: le profezie sulla fine del mondo si moltiplicano e sembra ai nu45

merosi profeti che i mali siano imputabili massimamente agli eretici, che vanno quindi annientati, secondo le invettive di molti predicatori francescani e domenicani e dei vescovi soprattutto francesi. A leggere le fonti, i numerosi sermoni e gli opuscoli diffusi fra il popolo dei credenti, si può constatare come la società sia avvolta nella spirale di una tensione alla purificazione penitenziale. Gli uomini accusati di infedeltà dalle denunce dei predicatori profetici devono capire che la loro salvezza passa necessariamente attraverso la violenza, prova vitale della loro devozione a Dio. I riferimenti a una guerra santa contro gli eretici sono i consueti: le crociate, il martirio, i re biblici. Al martire, come da tradizione, viene promesso il paradiso: «se alcuni di noi moriranno il nostro sangue sarà per noi un secondo battesimo» (Crouzet). Parigi può essere vista come una nuova Gerusalemme: ritorna forte e battente la «pulsione della crociata». Può accadere anche che l’idea di guerra santa si innesti su una guerra «normale», come dopo la battaglia di Lepanto quando Pio V, rinfrancato dalla vittoria sui Turchi, riprende l’idea della crociata: questa volta in soccorso dei cattolici francesi contro gli ugonotti, raccomandando ai comandanti «di non prendere prigioniero nessun ugonotto e di uccidere sul posto tutti quelli che vi cadranno nelle mani». Cosa dire poi di fronte alla processione di ringraziamento a Dio promossa dal pontefice Gregorio XIII in occasione del massacro della notte di san Bartolomeo?

10.

Eretici e intellettuali contro la guerra

Dichiarare

che l’opposizione alla guerra è sostenuta, nei secoli fino al XIV, per lo più da voci ai margini della Chiesa istituzionale, o da eretici, è quasi una tautologia. Se infatti la teologia della guerra adottata dalla Chiesa medievale ha finito per divenire in quei secoli parte integrante della sua teologia globale, le voci a favore della pace sono per forza di cose poco numerose e destinate a rimanere fievoli. «La storia delle eresie» – ha scritto Monique Zerner – «segue il ritmo dell’evoluzione del potere»: da Costantino in poi essa si lega, per opposizione, alla storia dello Stato. Bisogna aver sempre presente che le posizioni del dissenso cristiano ci sono note soprattutto attraverso documenti avversari e testimonianze monche. Tuttavia qualcosa di interessante trapela anche nelle deboli «tracce dei 47

vinti». Rodolfo il Glabro racconta che nel 1028 l’arcivescovo di Milano, in visita nelle diocesi di Torino, scoprì nel castello di Monforte una comunità di uomini e donne che vivevano in pace come i primi cristiani, mettendo in comune i loro beni. Furono bruciati. Anche i valdesi, secondo la testimonianza di Alano di Lilla, e i catari si distinguevano per la loro avversione alla guerra: «chiunque uccida un cristiano in qualsiasi guerra è un peccatore», dichiaravano. Più chiara e argomentata la condanna della guerra e delle crociate in John Wyclif e nei testi dei suoi seguaci, i Lollardi. A più riprese Wyclif, maestro di logica e di teologia all’Università di Oxford, enfaticamente definito la «morning star of the Reformation», ripete che le crociate non possono essere legittimate dalla parola del Vangelo e anzi nascondono malamente interessi materiali e volontà di dominio. Esse sono «massacro di popoli e devastazione di terre». Il gruppo dei suoi seguaci era, se possibile, ancora più drastico nel denunciare l’ingiustizia di qualsiasi guerra. Val la pena di ricordare che in Inghilterra esprimere pensieri del genere non doveva essere un fatto popolare in quei tempi, proprio mentre il sovrano era impegnato nel conflitto dei cento anni con la Francia. L’accusa di fare il gioco del nemico era immediata. Gli esempi sono numerosi. John Aston, allievo di Wyclif a Oxford, attaccava dal pulpito quanti promuovevano la guerra, accusandoli di aver ingannato e derubato tanti «poveri cristiani». Il parroco John Corringham negava nelle sue prediche qualsiasi le48

gittimazione a imprese tendenti all’uccisione di altri uomini, sia pure a quelle intraprese per legittima difesa, dichiarando che chiunque desse aiuti in denaro o cavalli al sovrano in guerra risultava automaticamente scomunicato. William Brut, un laico «letterato», fu denunciato per aver chiamato «eretici» quanti avevano partecipato alla vendita delle indulgenze concesse dal pontefice, vendita che a suo parere calpestava la dottrina evangelica promuovendo guerre fra cristiani che si uccidevano l’un l’altro per il possesso di beni materiali. La dichiarazione più ufficiale delle idee dei Lollardi avvenne nel 1395, quando un gruppo di loro ribadì il rifiuto della guerra in una petizione affissa alle porte di Westminster Hall durante la sessione parlamentare. Il rifiuto era basato sulle tesi di Wyclif e sulla incompatibilità assoluta della guerra con le pagine del Vangelo. Ancora a metà del XV secolo, le posizioni dei seguaci di Wyclif verranno ribadite con forza: rifacendosi direttamente a una tesi del maestro, il sacerdote William White, poi arrestato e processato per eresia, sosterrà che nessun uomo è legittimato a combattere, neppure per difendere il suo paese o i suoi diritti sui beni personali. Infatti, aveva scritto Wyclif nel De dominio divino, «chi impugna le armi per uccidere un altro uomo perde il dono della carità per il suo prossimo e cade quindi in peccato mortale». La dottrina più radicale di Wyclif, esposta specialmente nel De dominio divino, rompe il nesso indissolubile fra grazia e diritto al dominio. A fondamento del «no» alla guerra c’è la convinzione, espressa più volte in modo espli49

cito, che «la pacificazione dell’Europa cristiana passa inevitabilmente attraverso la diffusione dell’idea che i veri cristiani debbano rinunciare alle proprietà personali e condividere il dominio delle cose» (Simonetta). Solo in una società costruita secondo il modello offerto da Cristo e dai suoi Apostoli, la contesa e la guerra non avrebbero più ragion d’essere. Povertà come scelta e pace appaiono intimamente connesse nel progetto contro la guerra. Forse però il più acuto e radicale strumento contro la teologia bellicosa della Chiesa del suo tempo è costituito dall’opera di Marsilio da Padova, il Defensor pacis. Intellettualmente robusta, fondata tanto sui riferimenti al Nuovo Testamento quanto sul diritto, l’opera è argomentata con la sapienza della filosofia aristotelica, ormai insegnata nelle università di tutta Europa. È un’opera politica assai complessa, il cui scopo principale è l’indagine sull’origine, le strutture e le leggi della società civile, considerata distinta dalla società religiosa sia nei suoi scopi che nella sua organizzazione. L’assioma iniziale, secondo cui l’uomo per natura socievole desidera ed è in grado di realizzare la felicità naturale (terrena) nell’ambito della società politica, regge una serie di conseguenze importantissime. Ne deriva tra l’altro che il potere politico è separato per fini e per mezzi da quello spirituale. Quest’ultimo, che ha il compito di condurre gli uomini verso la felicità sovrannaturale «seguendo le parole e l’esempio di Cristo», non può dunque avanzare pretese di intervento materiale in una sfera che è completamente distinta e retta da una diversa finalità. 50

Per Marsilio, uno dei massimi pericoli per la sopravvivenza della società politica è proprio la guerra. Il suo contrario, la pace, è «nella vita presente una situazione artificiale che gli uomini devono costruire applicando la giustizia e le regole della scienza politica». Guardando al suo tempo, Marsilio vede le possibilità della pace minacciate soprattutto da una causa «singolare e nuova», che si aggiunge a quelle consuete. Si tratta di un pericolo sconosciuto agli antichi pagani come Aristotele: il pericolo rappresentato dalla pretesa dei successori di Pietro di essere superiori a tutti i sovrani e di detenere il dominio supremo su tutte le comunità civili. La teoria della «pienezza del potere» papale, che intende estendersi ad temporalia, appare a Marsilio contraria alla ragione, oltre che fondata su una errata interpretazione di alcuni passi del Vangelo. L’attacco alla dottrina papale della plenitudo potestatis è dunque condotto sia cristianamente, in base a un’analisi delle Scritture, sia filosoficamente, con ragioni che attingono alla logica e al diritto. Le conclusioni sono nette: Io dico che nella vita terrena non spetta ad alcuno giudicare e punire gli infedeli e gli eretici attraverso una pena materiale che colpisca la persona e la proprietà ... In questo mondo un uomo che pecca può essere punito materialmente soltanto se si oppone al comando della legge civile.

Può dunque esistere per Marsilio una guerra giusta fra i popoli, ma l’ipotesi di una guerra santa promossa dall’autorità religiosa appare aberrante all’autore del Defensor pacis, perché contraria al Vangelo. Anche se non è una requisitoria diretta contro la guerra santa, la sua analisi getta 51

le basi per una critica più generale e più radicale di qualsiasi azione politica della Chiesa, attraverso princìpi che nella modernità saranno fatti propri dal pensiero laico. Marsilio fu scomunicato, e le ragioni sono evidenti: la società degli uomini è per lui qualcosa di non completamente identificabile con la società dei cristiani, intesa come istituzione ossia come Chiesa. Marsilio resta tuttavia, al di là di ogni dubbio, un pensatore cristiano. Per lui come per ogni altro fedele, la società cristiana intesa in senso spirituale – quella che Agostino chiamava la Chiesa invisibile – deve essere guidata dalle leggi evangeliche, che sono le leggi d’amore e di «servizio» che i successori di Pietro sono obbligati a seguire su questa terra. Il suo netto ed «eretico» rifiuto a riconoscere legittimità all’intervento della Chiesa nelle funzioni e nelle finalità della società civile e politica non gli fu però perdonato dall’istituzione ecclesiastica del suo tempo. Se Marsilio scriveva il suo Defensor pacis nel 1324, il cardinale Nicola Cusano compose il suo De pace fidei più di cent’anni dopo. Sono due opere che vanno ben al di là del tema della guerra in senso stretto, ma sono anche due fra i testi più straordinari, da punti di vista diversi, a favore della costruzione della pace. Anche per Nicola Cusano il punto di partenza è la religione, ma la sua analisi è condotta non come in Marsilio sull’esame della struttura istituzionale della Chiesa, bensì sull’ampio piano del confronto fra religioni che si combattono, cristianesimo e islam. Il clima in cui Cusano scrive è quello tragico della caduta di Costantinopoli in ma52

no ai Turchi, e l’eco della sconfitta cristiana si sente appieno nell’esordio dell’opera. La tesi centrale è che «esiste una sola religione nella varietà dei riti». Di conseguenza, occorre tolleranza per la diversità dei riti e delle opere, e approfondimento concorde sui princìpi della fede interiore. Questa non può che operare in direzione della pace, mentre la riduzione ai princìpi di una sola fede richiede un confronto laborioso, e si può raggiungere solo attraverso un lungo esame di articoli cristiani come quelli dell’incarnazione del Cristo o della Trinità. L’analisi delle differenze rituali e precettistiche, che sono quelle che più spesso portano allo scontro, deve giungere all’enunciazione di un principio di concordanza: la salvezza degli uomini non viene, secondo il detto paolino, dalle opere e dai riti, ma esclusivamente dalla fede, che è – sostiene Cusano – comune a tutti. «I riti sono stati istituiti come segni visibili della verità e possono mutare anche se non muta ciò che essi significano.» L’opera del Cusano ha un precedente, non citato dall’autore né dagli studiosi, nello scritto di un filosofo del XII secolo, Pietro Abelardo, condannato dal Concilio di Sens. Nel Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano Abelardo svolgeva infatti il tema del confronto fra le religioni del Libro: all’unica verità, ossia alla fede in un unico Dio, si arriva – dichiarava anche lui – attraverso «diversi sentieri». E anche per lui il termine «tollerare» si riferisce all’atteggiamento da tenere verso i differenti riti, che devono essere intesi come parole di linguaggi diversi ma significanti di un’unica verità. 53

Pochi decenni dopo anche la fede cristiana, non solo l’insieme dei riti e dei precetti, apparirà irrimediabilmente lacerata. E con essa il corpo della cristianità europea. La protesta luterana, partita dalla denuncia delle indulgenze e dallo sdegno per la corruzione degli ecclesiastici romani, ossia da una critica dei comportamenti, approderà a un dissenso più radicale, fondato su una visione religiosa rivolta alla valutazione dell’uomo «interiore» e all’atto di fede spontaneo e singolo. Solo la fede, dichiara Lutero, salva l’uomo dalla degradazione della natura macchiata dal peccato originale.

11.

Riformatori in armi

Se possibile, Lutero è ancora più drasticamente pessimista dei suoi avversari cattolici circa le possibilità dell’uomo, irrimediabilmente degradato dopo la Caduta. Discordia e violenza fra gli uomini sono fra i mali che egli considera inevitabili. Anzi, la guerra appare al monaco agostiniano come un elemento utile e benefico nel quadro generale della collera divina che si abbatte sull’uomo, «sempre peccatore secondo le opere». La natura dell’uomo, scrive Lutero, «si oppone a ogni tentativo di governare il mondo secondo i principi cristiani ... La guerra è uno strumento divino in sé e così indispensabile e utile al mondo come il mangiare e il bere ... Forse che una guerra giusta è diversa dalla punizione che si infligge ai criminali? Il nome della spada è collera di Dio». 55

In forza di questa cupa visione del mondo e del principio teologico paolino secondo cui «il potere viene da Dio», è chiaro che la guerra contro i principi – anche malvagi e ingiusti, anche tiranni – non può mai essere giusta: «nulla autorizza mai a ribellarsi ai governanti». Questo spiega l’opposizione di Lutero alla rivolta dei contadini contro i signori nella guerra che insanguinava la Germania del suo tempo. Dopo una prima fase di mediazione fra le parti, egli prese infatti decisamente partito per i principi, incitandoli a schiacciare la ribellione senza pietà. Quanto alla guerra santa contro gli infedeli, Lutero pensava che il papa che la promuoveva – da lui definito Turcissimus turcarum – era in quel momento interprete dell’ira divina, che lanciava così un nuovo castigo sul popolo cristiano. Una posizione che spingerà il cardinale Bellarmino a rilevare come Lutero, spinto dall’odio per il pontefice romano, «avrebbe desiderato che i turchi invadessero i regni cristiani per liberarli dal dominio papale considerato da lui molto più crudele di quello turco». Come si sa, la dottrina di Lutero diventò ben presto un’istituzione che si opponeva all’istituzione rappresentata dalla Chiesa di Roma. Le correnti più radicali del movimento riformatore, come i seguaci di Huldrych Zwingli e gli anabattisti, predicarono invece idee di pace e di riforma anche sociale, ispirandosi al modello della Chiesa primitiva «povera e pacifica» come già avevano fatto altri gruppi eretici o marginali dei secoli passati. A entrambi i progetti era comune il rifiuto del servizio militare, ma anche questi cristiani «doppiamente eretici» furono costretti, per difendersi, a battersi fino alla sconfitta. 56

Quanto all’altro grande protagonista della riforma protestante, Giovanni Calvino, va ricordato che per lui la guerra è legittimata dalla natura e dalla Bibbia: La natura stessa ci insegna che è dovere dei principi usare la spada non solo per punire le colpe dei singoli ma anche per la difesa dei paesi a loro sottomessi. Allo stesso modo lo Spirito Santo ci mostra nella Scrittura che le guerre sono legittime.

In uno dei suoi scritti – definito da Joseph Lecler come uno dei «più spaventosi che siano stati composti per giustificare le persecuzioni degli eretici» – Calvino arriva ad affermare che Dio ordina di sterminare gli eretici e di distruggere le loro città, cancellandone il ricordo, per evitare che «l’infezione si estenda». Roberto Bellarmino, il dotto e raffinato gesuita che si incaricò in più occasioni di difendere l’ortodossia cattolica contro le nuove tempeste di riforma, avversò anche il pensiero di Erasmo da Rotterdam, le cui posizioni erano antitetiche a quelle di Lutero su molte tesi teologiche, e principalmente sull’idea della «libertà del cristiano». E fu appunto la diversa prospettiva teologico-morale a suggerire a Erasmo un opposto giudizio sulla guerra, vista come un male del quale gli uomini – fra cui soprattutto i principi e i sacerdoti – portano interamente la responsabilità. Nelle sue ripetute riflessioni sulla guerra, soprattutto nell’opera Querela pacis, Erasmo denuncia l’ipocrisia di ogni «ragione di guerra» che tende a dettare una procedura di giustizia superiore in un fenomeno così selvaggio. «Nella realtà un principe si rifà a un principio di diritto antiquato, un altro prende spunto da un trattato non onora57

to, un terzo si scatena perché gli è stata rapita la fidanzata.» Ancora più odiosa, oltre che infondata, appare a Erasmo la ricerca di una giustificazione del conflitto attraverso i testi del Vangelo, distorti per supportare le tesi più violente. La prima a rivelarsi straordinariamente perversa è appunto la cosiddetta guerra santa: «Dico che la guerra non si addice agli uomini apostolici e che la religione cristiana non dispone solo di armi per diffondersi». La guerra è dunque tristemente un fenomeno tutto umano e insensato. Per «comperare la pace non si paga mai troppo». Ma purtroppo è vero che a volte il conflitto è inevitabile, e allora Erasmo ripete le argomentazioni classiche tanto largamente note quanto inascoltate: «la guerra deve essere condotta con moderazione, con procedure regolari, con spargimento di sangue il più possibile ridotto, con perdite le più leggere possibili». Deboli e non originali sono anche le osservazioni di Erasmo sulle condizioni che rendono «giusta» una guerra. Qui la prospettiva dell’umanista olandese si rifà alla tradizione sul tema tornata alla ribalta con l’edizione cinquecentina ad opera del cardinal Caietano, che diffuse nella cultura dell’epoca la teoria della «guerra giusta» di Tommaso d’Aquino, a sua volta debitore delle classiche definizioni ciceroniane e agostiniane. Non è strano, su questo punto, trovare d’accordo i due avversari Erasmo e Lutero. In forma diretta e meno aulica ed elegante, quest’ultimo osserva che se «il paese è in pericolo devi rischiare qualsiasi cosa ... Evitare che i tuoi muoiano è opera cristiana e opera d’amore è uccidere di 58

buon animo i nemici guardandosi però dal commettere peccato violentando donne e vergini». Sulla guerra difensiva, e sulla sua nobiltà, non c’erano dubbi: l’evangelico «porgi l’altra guancia» era stato ben presto dimenticato quasi da tutti. Appartiene alla Querela pacis il solenne appello di Erasmo ai principi, ai teologi e ai sacerdoti a favore della pace, nel quadro desolante di un’Europa lacerata dalle continue guerre fra sovrani cristiani. «Riconoscete la voce del nostro Signore e Maestro che vi esorta alla pace e pensate all’umanità che soffre da lungo tempo e vi chiede pace ... Mi appello a voi sacerdoti consacrati a Dio perché preghiate con tutta la forza del vostro animo ... mi appello a voi teologi perché predichiate il Vangelo di pace ... Mi appello a tutti coloro che si gloriano del nome di cristiani perché si impegnino concordemente e con tutta la loro forza contro la guerra ... Che ciascuno contribuisca con il suo pensiero alla costruzione della pace.» Ma quei sacerdoti consacrati ai quali si rivolgeva – Erasmo lo sapeva bene – erano sovente impegnati in prima persona nella propaganda della guerra: «Essi predicano ai francesi che Dio milita a fianco della Francia e si può essere sicuri della vittoria dal momento che Dio protegge la causa ... ma davanti agli inglesi e agli spagnoli sostengono che questa guerra è condotta direttamente da Dio e non dall’imperatore così che la vittoria è assicurata. Inoltre dichiarano che chiunque cadrà in battaglia s’involerà direttamente in cielo armato di tutto punto com’è». Il cristiano Erasmo riteneva che questo fosse un vero inganno. Ma 59

come si vede la connessione fra morte in battaglia, martirio e premio eterno è stata sempre ben presente nella prospettiva dei cristiani sostenitori della guerra, con conseguenze solitamente nefaste. Stranamente e penosamente simile all’argomentazione del pontefice Urbano II, che secoli prima aveva invitato i cavalieri alla crociata gerosolimitana anche per distoglierli da conflitti fratricidi, è invece la riflessione con cui Erasmo, sempre nella Querela pacis, sembra arrendersi alla realtà che gli uomini «non possono fare a meno della guerra». Allora – conclude Erasmo – si riversi questo male contro i turchi che tuttavia sarebbe meglio portare alla religione cristiana con la persuasione, con le opere buone e l’esempio di una condotta integerrima ... Dal momento che però questo non sembra attuabile, far loro guerra è un male minore di quello di vedere i cristiani che combattono fra loro e si distruggono reciprocamente. Poiché la solidarietà non li unisce almeno facciano fronte contro il nemico comune.

Svelando in questo modo l’inganno, Erasmo metteva in luce che la pretesa santità dell’operazione bellica contro gli infedeli avrebbe trascinato con sé altri mali come un inevitabile contagio. Dopo i Turchi, obbiettivi della violenza «santa» sarebbero stati gli ebrei, quindi ancora gli eretici, come del resto si era già disgraziatamente sperimentato.

12.

C’è guerra anche in Utopia

Nell’isola

felice di Utopia ci sarebbero tutti gli elementi per essere contrari alla guerra, eppure... Gli abitanti dell’isola descritta nel celebre L’Utopia, o la migliore forma di repubblica sono governati da un re saggio ed equilibrato, ben diverso quindi dal tirannico Enrico VIII, il sovrano di cui l’autore, Thomas More, era stato consigliere prima di essere da lui giustiziato. I sudditi di Utopia vivono in un regime di proprietà collettiva in cui il denaro è abolito, il servizio militare non esiste e l’educazione esalta le idee di bene comune e di non violenza: «ovunque esiste la proprietà privata» – scrive More – «e ovunque ogni cosa si misura in base al denaro non è possibile che abiti la giustizia». E la giustizia – ripete More – è garanzia di pace, poiché la comunione dei beni la assi61

cura e annulla le ragioni di competizione e i conflitti fra i cittadini. C’è dunque molto da sperare dalle parole dell’autore quando assicura che gli «abitanti di Utopia odiano la guerra che considerano un’attività puramente animale praticata tuttavia più frequentemente dall’uomo che dalle belve». E tuttavia, paradossalmente, è proprio questa concordia solidale dei cittadini all’interno di Utopia a rendere accettabile il concetto di guerra verso il nemico esterno: una guerra di difesa che talvolta si dimostra piuttosto disinvolta nella ricerca delle ragioni che la legittimano. Utopia è infatti un’isola felice circondata da un’umanità normalmente infelice e aggressiva. Se assalita o offesa, essa non esita a muovere contro i vicini una guerra di «difesa», che per definizione non può che apparire giusta agli occhi dei suoi cittadini. Come ormai ben sappiamo, la giustizia della guerra è una qualità singolare. Può essere basata su pochi princìpi e su molti pseudoprincìpi, come ha sottolineato l’ironia di Erasmo. Leggiamo nelle pagine di Thomas More che «se i coloni incontrano una nazione che respinge le loro leggi scacciano i nativi dal loro territorio con la forza delle armi. Secondo i loro princìpi la guerra è giusta e ragionevole quando è mossa contro un popolo che possiede immensi terreni non coltivati mantenendoli in condizioni di abbandono, soprattutto se questo popolo impedisce a coloro che giungono dall’esterno di lavorare la terra e trovarvi sostentamento secondo il diritto naturale». Ecco dunque pronta una delle basi teoriche più forti per le guerre coloniali nel Nuovo Mondo, e proprio in Utopia, cioè in quello che dovrebbe essere il disegno di uno 62

Stato pacifico ideale. Come nell’Europa dell’epoca insanguinata dalle battaglie, inoltre, anche nell’isola felice gli ecclesiastici partecipano alla guerra, pregando «con le mani rivolte al cielo». Pregano innanzitutto per la vittoria del loro popolo, ma poiché sono fautori della giustizia in guerra e «moderati», pregano perché la vittoria non sia cruenta. Quando essa si profila, «si gettano nella mischia per impedire il massacro dei vinti». Poiché il servizio militare è bandito, i militari dell’isola sono solo mercenari. In questo gli abitanti di Utopia si rivelano buoni affaristi, dal momento che ingaggiano truppe straniere che volentieri poi vedono perire in battaglia, fieri di «aver liberato il mondo da quella feccia», ma soprattutto contenti di non dover pagare il salario promesso, che i morti non possono ovviamente reclamare. Inoltre, «a scopo di pace e difesa», i non troppo pacifici cittadini di Utopia fomentano anche rivolte interne ai paesi nemici, vendono come schiavi i vinti e usano le più micidiali macchine da guerra. In tutto e per tutto, dunque, essi appaiono simili agli abitanti reali delle terre cristiane d’Europa, il che basta a spiegare perché il testo di Sir Thomas More fu accolto con grandi apprezzamenti dall’ala moderata degli umanisti cristiani: anche da Erasmo, che dedicò proprio a lui il suo Elogio della follia. L’utopia sbiadiva di fronte al realismo. L’opera più celebre del filosofo domenicano Tommaso Campanella, La città del sole, presenta numerosi punti in comune con l’Utopia di More. Ma al contrario di questa si dichiara fin dall’inizio a favore dell’educazione militare permanente di tutti i suoi cittadini, sia uomini che donne. 63

Nella sua finzione dell’isola felice, il frate calabrese immette un’altra finzione: quella di «quattro regni vicini», evidentemente non felici e non pacifici, che tentano sconfinamenti e assalti e che praticano l’esercizio della tirannia e l’empietà. Contro tali «sostenitori dell’ingiustizia» gli abitanti della «città del sole» invocano l’aiuto del biblico Dio degli eserciti pregando con i loro sacerdoti. Quando dichiarano guerra, concedono agli avversari «non più di tre ore per deliberare la risposta» di resa. Dopodiché «mettono in ordine ogni cosa»; e lo fanno con grande efficacia, perché possiedono ogni tipo di arma moderna e terribili macchine da guerra. Aspetto inquietante: in battaglia «portano seco una squadra di fanciulli per imparar la guerra e abituarsi come lupicini al sangue». L’arte militare – scrive il Campanella – è nella «città del sole» un’arte fra le più apprezzate, come l’agricoltura e l’arte delle costruzioni. La società dei Solari è pacifica all’interno, ma come i regni d’Europa straordinariamente bellicosa verso l’esterno. Quasi «come i Tartari», essa risparmia i nemici vinti ma uccide i capi, e mette a morte «in un palco di bestie feroci» i propri disertori. All’alba dell’età moderna, dunque, le due grandi utopie cristiane finiscono entrambe per ammettere la guerra con malcelato entusiasmo, rispecchiando il costume generale delle monarchie ad esse contemporanee. È un quadro tutto sommato desolante, in cui la pace viene avvertita come un bene irrinunciabile e come fattore coesivo solo all’interno dello Stato.

13.

Una nuova guerra in un nuovo mondo

Terra di nessuno, terra selvaggia, quindi terra di conquista: questo in breve il pensiero dei conquistatori del Nuovo Mondo a caccia di oro e argento per le loro tasche e per le casse dei regni europei esausti per le troppe guerre. Ma terre abitate – secondo le ultime stime degli studiosi – da quasi cento milioni di «indiani». Ciò poneva un problema ai cristiani d’Europa, ma era un problema che i potenti di allora pensavano si potesse risolvere con le armi della guerra e della dottrina utroque iure. Nella prima fase della scoperta i re cattolici affermarono, con il conforto dei giuristi di corte, che il possesso dei territori americani era legittimato semplicemente dalla scoperta geografica e in base agli accordi stipulati fra le potenze europee interessate. Ben presto però cominciò ad apparire necessaria, o almeno molto opportuna, la richie65

sta della concessione papale, fondata sulla teoria medievale della plenitudo potestatis. Nessuno naturalmente si dava pensiero delle idee e dei diritti degli indigeni americani, come del resto nessuno aveva ricercato mai in quei secoli il parere delle popolazioni europee, alle quali non si chiedeva quale governo preferissero e per le quali non era insolito cambiare improvvisamente sovrano in seguito a una guerra persa. Molte erano le domande che si affollavano. Come erano giunti così lontano «questi barbari del nuovo mondo» (ma lontano da dove? da Roma, da Gerusalemme, da Madrid, da Lisbona e Parigi?)? Erano forse sfuggiti al Diluvio? Erano primitivi e idolatri, questo era certo. Ma erano veri uomini oppure «omuncoli»? Entrambe le tesi offrivano qualche vantaggio dal punto di vista del conquistatore cristiano: gli «omuncoli» si possono annientare senza rimorsi, gli uomini vanno battezzati spesso anche con la forza. Cristoforo Colombo aveva assicurato che alcuni di loro nascevano con la coda. Anche così, anche se erano uomini strani, il cristiano Colombo invitava i re cattolici a convertirli con la violenza se si rifiutavano. Secondo il parere dei più, erano senz’altro ingenui e pigri. Quindi non potevano essere paragonati agli eretici, tenaci e sottili ragionatori, ma dovevano essere salvati loro malgrado e perciò andavano battezzati. Nel 1537, con la bolla Sublimis Deus, il pontefice Paolo III risolse il problema, stabilendo d’autorità che «gli Indiani sono uomini». In quelle terre lontane c’erano dunque migliaia di anime che andavano salvate dall’inferno. 66

I primi missionari dicevano appunto questo nelle loro prediche: che un milione di antenati di quei selvaggi soffriva fra le pene infernali, ed era quindi assolutamente necessario salvare almeno i viventi battezzandoli e facendo loro conoscere la Rivelazione. Nel frattempo, a mandarli all’altro mondo ci pensavano i conquistadores, che si paragonavano agli ebrei della Bibbia i quali si erano impadroniti della Palestina conducendo guerre «giuste». Era in realtà, quella nel Nuovo Mondo, un nuovo tipo di guerra. Non una guerra santa, né una guerra comandata da Dio (almeno non esplicitamente), bensì una guerra con quel tanto di casualità che dipendeva da una scoperta geografica per l’appunto casuale. La ragione venne allora trovata nella inferiorità degli abitanti, che – si scrisse da più parti – commettono atti contro natura, sono in gran parte cannibali, non conoscono le arti e le tecniche, e via argomentando. Insomma, quegli indios che vivono immersi nella natura, senza saperlo, di fronte ai civilissimi europei «violano la natura e il diritto naturale». Questo è il parere dei cristianissimi conquistatori. Ma alcuni teologi approfondiscono l’argomento e arrivano a conclusioni più complesse, anche se sostanzialmente, nella maggior parte dei casi, non lontane dall’atroce realtà degli esiti della conquista. Solo pochi, inorriditi dai massacri e dalle violenze, giungono a insinuare dubbi e rimorsi, forse persino fino a corte, fino al trono del re di Spagna. Esemplare di un uso cinico e strumentale della religione cristiana è il requerimiento: «dall’innesto del diritto e della presunzione di superiorità della propria fede su ogni al67

tra» – ha scritto Adriano Prosperi (1992) – «nacquero inevitabilmente frutti avvelenati». Un famigerato requerimiento fu scritto in nome del re e del papa per la spedizione di Pedrarias Davila nel 1514. Si ingiungeva al popolo degli indios di convertirsi al cristianesimo, altrimenti sarebbero stati considerati ribelli. E contro i ribelli la guerra, secondo il diritto classico, è sempre giusta. Una cronaca illustrata del tempo, forse scritta da un indigeno (Waman Puma) o forse da un gesuita, rappresenta con illustrazioni l’indio disperato che si rende conto di essere senza difesa contro chi, più forte e più armato di lui, gli ha preso tutto: «terra, casa, beni, donne e figlie, la salute e la vita». Nelle stesse pagine, denunciando la brutalità degli occupanti, l’autore pensa con nostalgia al tempo antecedente la conquista, «quando non c’era oro né argento perché non esistevano utensili ... È il motivo per cui i popoli delle Ande non sono avidi come gli spagnoli che vanno a farsi ammazzare anche per un pugno di monete e andranno all’inferno per ottenere argento e schiavi» (cit. da Melis). Nella sua Brevissima relazione della distruzione delle Indie, il domenicano spagnolo Bartoleomeo de Las Casas denuncia il destino del povero barbaro dopo la scoperta e la conquista degli europei: milioni di indios resi schiavi sono stati uccisi dal vaiolo e dalla fatica immane dei lavori forzati. È quello che noi moderni chiamiamo un genocidio, la cui colpa – scrive Las Casas – ricade su Cristoforo Colombo, colpito dalla punizione divina con molte meritate disgrazie. Sulla base dell’autorità di Tommaso d’Aquino, secondo il quale la sovranità dei re pagani è legittima e «natura68

le» (nel senso aristotelico) quanto quella dei re cristiani, il cardinale Caietano cercò di porre dei limiti precisi al potere papale nelle terre degli infedeli. Caietano era generale dei domenicani, che furono tra i primi missionari ad essere inviati nel Nuovo Mondo. Di contro, il teologo dell’Università di Parigi Giovanni Maior affermò che i re cristiani avevano il dovere di diffondere il più ampiamente possibile il culto del vero Dio, impresa resa possibile dalla conquista di nuovi territori e popoli. Era un argomento antico, che abbiamo visto sostenuto anche da Gregorio Magno. Il giurista Giovanni de Sepulveda condivideva opinioni di questo genere e sosteneva, richiamandosi all’etica di Aristotele, che gli uomini «rozzi e barbari» del Nuovo Mondo erano nati per essere servi dei popoli civili. Con il dominio dell’imperatore Carlo V, sembrava così tornare in auge il progetto dell’impero universale, che secoli prima aveva illuso anche Dante Alighieri. Era il progetto di un impero che avrebbe compreso i differenti regni del mondo in una comunità globale: chi si opponeva era un ribelle e come tale andava annientato. Ma si trattava di un sogno ormai fuori tempo, contrastato anche dalla dottrina politica della tarda scolastica spagnola, in maggioranza contraria ad azzerare la sovranità dei singoli Stati. Il domenicano Francisco de Vitoria, celebre professore dell’Università di Salamanca, dedicò un intero trattato al tema, il De indis. E concluse esponendo una decina di ragioni che legittimavano la guerra di conquista nel Nuovo Mondo. Sono «ragioni», o sarebbe forse meglio dire pre69

testi, che si riferiscono a motivazioni religiose, ma soprattutto al diritto naturale. Se – argomenta il maestro di Salamanca – le immense nuove terre sono «quasi disabitate» e i pochi abitanti si oppongono alla conquista, se i «barbari del nuovo mondo» si dedicano a massacri o alla pirateria o al cannibalismo e celebrano sacrifici umani, se gli indios rifiutano agli spagnoli il libero commercio e il libero soggiorno sui loro territori, o si oppongono alla predicazione del Vangelo, o ancora obbligano i convertiti a ritornare all’idolatria, allora la guerra contro di loro diventa legittima. La guerra è parimenti legittima, secondo il de Vitoria, se quei popoli non hanno un capo o dei capi validi, o se la popolazione è formata da adolescenti incapaci di guidare il popolo (i conquistatori non affermavano forse che quei popoli nuovi erano simili a bambini?). A fortiori, infine, de Vitoria ammette il diritto di predicazione del cristianesimo, perché fondato sul Vangelo: i popoli che si opporranno «commetteranno ingiustizia», e anche in quel caso la guerra diventa legittima. Quanto al rifiuto da parte degli indios del libero commercio con gli spagnoli come causa legittima di guerra, il Dictionnaire de théologie catholique (edito nel 1914) commenterà così: «Sarebbe stata da parte di questi barbari una ingiustizia proibire ai sudditi delle nazioni civili il libero commercio ... Il diritto naturale permette di commerciare con tutti i popoli e coloro che rifiutano mancano di carità oltre che di giustizia ... Se dunque queste popolazioni selvagge prendono le armi per impedire il commercio pacifico, non è forse vero che le nazioni civili hanno il diritto 70

di armarsi per assicurare la libertà dei loro sudditi e di respingere la violenza con la violenza e di impadronirsi del territorio?». Argomenti, evidentemente, che negli anni in cui venivano scritti potevano tornare estremamente utili. C’era poi la questione, davvero singolare, del diritto del conquistatore di impadronirsi del territorio degli indios se questi si arrendevano e si sottomettevano liberamente. Va sottolineata la parola «liberamente»: gli indios si trovavano di fronte a un esercito armato di tutto punto, che chiedeva loro di arrendersi qualche minuto prima di sparare una cannonata. È verosimile che la resa a queste condizioni sia stata frequente, e del tutto augurabile per i più pii fra i conquistatori. Quello che chiaramente il de Vitoria non prendeva in considerazione – seguito del resto da molti altri, e ancora nel Novecento dall’autore della voce Guerre del Dictionnaire de théologie catholique – era la schiacciante disparità delle due condizioni, quella dei conquistadores e quella dei «barbari» impreparati e praticamente inermi. Appare chiaro che le argomentazioni del de Vitoria, irreprensibili in base alla tradizione del diritto naturale, aprivano di fatto molte e concrete possibilità di intervento ai conquistatori, che erano oltre tutto testimoni principali se non esclusivi delle circostanze per loro «attenuanti». Francisco de Vitoria, una vera autorità nella scienza del diritto, fu comunque considerato una voce moderata, perfino troppo moderata, nel dibattito sulla guerra coloniale americana. Tanto che più tardi le sue opere saranno messe all’Indice, «perché egli ha insegnato che si può opporsi 71

a ciò che i papi insegnano per il bene della Chiesa». Non era infatti legittima, per lui, la guerra che ha per scopo diretto, primario ed esplicito la conversione delle popolazioni al cristianesimo. Il che costituiva già una presa di posizione importante e per nulla scontata. Non si può negare che il pensiero del maestro domenicano mostri ai nostri occhi delle ambiguità. Ma il de Vitoria fu anche autore di precise e coraggiose dichiarazioni. In un corso di lezioni tenute a Salamanca nel 1538 e dedicate al diritto di guerra, sostenne che non c’è contraddizione fra essere cristiani e fare la guerra, ma dichiarò anche che i sudditi avevano il diritto di non obbedire al sovrano se erano convinti in coscienza che la guerra da lui dichiarata fosse ingiusta. L’affermazione era ricca di conseguenze importantissime, e fu naturalmente considerata pericolosa. Nel corso di tutto il XVI secolo, l’Università di Salamanca fu teatro di analisi e discussioni vivaci e sottili. Noteremo soltanto che a metà del secolo un famoso giurista, Diego de Covarrubias, affermò che la Spagna non aveva alcun diritto di muovere guerra agli indios in nome di una civiltà superiore. Lo stesso del resto sostenne anche un allievo del de Vitoria, Melchiorre Cano, il quale sottolineò che un più alto grado di civiltà non conferisce a nessuno il diritto di assoggettare popoli considerati inferiori. I dibattiti degli universitari e dei domenicani del collegio di San Esteban suscitarono ampia eco nel paese, tanto che l’imperatore Carlo V, giudicando «scandalose e pericolose» le discussioni e soprattutto le critiche che si muo72

vevano alla legittimità della dominazione spagnola nelle colonie, ordinò al priore di San Esteban di proibire le dispute e di sequestrare gli scritti sul tema. Solo più tardi, dopo l’abdicazione di Carlo V e la morte del de Vitoria, le lezioni furono pubblicate, anche se al di fuori del regno spagnolo, a Lione. Una voce appassionata ed energica si distinse tuttavia fra tutte per l’esplicita posizione in favore degli indios, «annientati dalla terribile avidità spagnola»: fu quella di un altro domenicano spagnolo, Bartolomeo de Las Casas. Nato nel 1474, Las Casas si batté per i suoi ideali di pace e «uguaglianza fra gli uomini» per tutta la sua lunga, quasi centenaria, vita. Ancor giovane, fu inviato nella missione di Santo Domingo, dove rimase per più di dieci anni e dove si convertì in apostolo della libertà degli indigeni. Rimandato dal suo priore in Spagna per rappresentare la causa del popolo indigeno, con i suoi argomenti giunse a scuotere – si dice – perfino la coscienza del re. Di fronte all’altissimo numero di morti fra gli indios, causati secondo Las Casas dalla fatica schiacciante di un lavoro imposto con durezza e crudeltà, il domenicano proponeva la fondazione di colonie miste, invitando il governo a inviare nelle nuove terre famiglie contadine povere. Spagnoli e indios avrebbero così dovuto lavorare in comune e i guadagni, detratti i tributi da versare al re, sarebbero stati divisi a metà. Las Casas pensava che un’impresa di questo tipo sarebbe stata conveniente anche dal punto di vista economico, convinto com’era che i matrimoni misti potessero aiutare la pace e la prosperità. Il progetto fallì per 73

l’opposizione dei latifondisti spagnoli e degli encomenderos d’oltreoceano, i quali avevano tutto l’interesse a mantenere lo status quo continuando a sfruttare il lavoro degli indios nelle miniere e nei campi. «Le leggi e i principi del diritto naturale e del diritto delle genti valgono per i popoli cristiani e pagani, per ogni setta e regime, per ogni regno, ceto e colore di pelle senza discriminazione alcuna», affermava Las Casas (1994), che vedeva tale principio naturale confermato anche dal precetto dell’amore fraterno predicato dal Vangelo. L’esperimento da lui voluto nella regione del Guatemala – abitata da tribù selvagge ed evitata dagli spagnoli, che la chiamavano Tierra de guerra – fu portato avanti sulla base di queste idee una volta che Bartolomeo fu nominato vescovo di Chiapas. Cinque anni dopo l’istituzione del progetto economico ed educativo che doveva portare gli indios alla pacifica evangelizzazione e all’autosufficienza economica, la visita del principe Filippo fu accolta trionfalmente, tanto che la terra venne ribattezzata Verapaz. Ma la «terra della vera pace» non rimase tale per molto tempo. Vittima dell’avidità spagnola, fu in seguito invasa dai coloni che abitavano le terre confinanti. E non mancarono violenze e massacri non solo di indios, ma anche di missionari. Tuttavia il fallimento del progetto di Las Casas non si può definire completo, perché l’idea di evangelizzare pacificamente gli indigeni rimase viva per tutta l’epoca coloniale e nei secoli seguenti. Verapaz fu vissuta da molti religiosi domenicani come una «nuova Gerusalemme» e i missionari che lasciavano l’Europa speravano, partendo 74

per le nuove missioni, di poter compiere proprio nel Nuovo Mondo quella rinascita cristiana, quel ritorno alla povertà e umiltà di vita e alla pace apostolica, che era ormai predicato invano nel vecchio e corrotto mondo d’Europa. Molti dei missionari nutrivano la speranza che gli indios divenissero i nuovi «veri cristiani», convinzione che si rafforzerà in seguito con il mito del «buon selvaggio». Il vescovo del Messico, il francescano Juan de Zumárraga, con altri confratelli sognava di istituire un’«isola felice», ossia una comunità simile a quella di Utopia, e considerava gli indiani che camminavano scalzi e si comportavano modestamente molto simili ai semplici cristiani delle origini. Essi dovevano essere separati e protetti dalla violenza e dalla corruzione degli spagnoli, «vera rovina degli indiani». (È da ricordare che fra i francescani era ancor vivo il senso delle profezie di Gioachino da Fiore sull’avvento di un’età dello Spirito Santo.) Queste prospettive, che in modi diversi prevedevano la realizzazione della redenzione fra gli indiani d’America, portarono a una parziale revisione della politica coloniale. Secondo il francescano Jerónimo de Mendieta, la presenza spagnola nel Nuovo Mondo era giustificata soltanto se intesa a garantire la sicurezza delle regioni dalle incursioni dei pirati, a coltivare le terre disabitate e a liberare la Spagna dalla piaga dei vagabondi. Simili idee non venivano viste di buon occhio dai coloni e spesso neppure dalla corona, che accusavano i francescani di mirare al potere assoluto instaurando un dominio ecclesiastico, una vera e propria teocrazia, nelle regioni oltreoceano. 75

Il sospetto diventò avversione e poi persecuzione nel caso dei gesuiti, che estendevano la loro attività di evangelizzazione, ma anche di educazione sociale ed economica, in varie regioni dal Perù alle terre del Rio de la Plata. All’inizio del XVII secolo fu istituita la Provincia gesuitica del Paraguay, dove all’inizio gli spagnoli difesero gli indiani dai cacciatori di schiavi portoghesi: gli indios già convertiti, educati e addestrati al lavoro, erano infatti un bene assai richiesto. Ma il potere europeo avversò ogni progetto di questo tipo. Alla metà del Settecento, con la cacciata dei gesuiti, finirono anche quei sogni che in parte erano stati realizzati nelle reducciones, le pacifiche comunità degli indios dove la proprietà privata era abolita sulla scorta delle utopie di Thomas More e di Campanella (e forse anche sulla tradizione di quello che è stato chiamato lo Stato «socialista» degli Incas). La guerra era arrivata dall’esterno, distruggendole.

14.

«Tacete teologi»

Nell’ultimo

decennio del Cinquecento i teorici gesuiti Luis de Molina, Francisco Suárez e Roberto Bellarmino si distaccarono gradualmente dalla dottrina tomista della guerra giusta, adattando la loro analisi all’evoluzione del diritto monarchico assoluto. Mentre per Tommaso d’Aquino la «giustizia della guerra» si realizzava nella vindicatio di una colpa morale, per questi gesuiti il nuovo punto di partenza era la violazione di un diritto. Luis de Molina spiega che «perché una guerra sia giusta basta talvolta una ingiustizia materiale anche priva di peccato ... In questo genere di guerra giusta, poiché non vi è alcuna colpa da parte dei nemici, è permesso di fare nei loro confronti soltanto ciò che è necessario per recuperare ciò che detengono ingiustamente anche se questo comporta morte e massa77

cri». Era un’ottima giustificazione delle guerre di conquista. Ogni sovrano – nella nuova prospettiva aperta dai teologi gesuiti – è libero di scatenare qualsiasi guerra, anche se prima è suo dovere accertarsi che non esistano altre vie per raggiungere pacificamente lo stesso scopo. «Ciascuna delle parti» – scrive sempre de Molina – «è giudice supremo della materia dinanzi all’altra e non è tenuta a mettere da parte i suoi diritti». La Chiesa, in sostanza, si dichiara non solo impotente a giudicare la contesa, ma anche estranea. Alcuni studiosi hanno visto nella posizione di Francisco Suárez un passo indietro rispetto a quella di Francisco de Vitoria: la guerra rimane lo strumento per punire le violazioni del diritto, ma è il sovrano dello Stato che si ritiene offeso a decidere di applicare la punizione. È innegabile che uno stesso soggetto è insieme giudice e parte in causa, come accade a Dio, modello del potere politico ... La giustizia vendicativa è necessaria al genere umano e non vi è altro mezzo migliore per realizzarla ... Ogni principe sovrano che non abbia sopra di sé un altro potere temporale può intraprendere la guerra.

Il primato della ragion di Stato è ormai operante e senza discussioni. «Il potere assoluto e perpetuo è proprio solo dello Stato», scrive Jean Bodin. Mentre all’interno dello Stato la ragione si realizza in una sovranità assoluta e centrale, all’esterno si definisce come il solo principio legittimo che regola le azioni dei singoli Stati nelle relazioni internazionali. Anche in rapporto al potere della Chiesa, in quei secoli impegnata nella Controriforma, la ragion di Stato fa valere il suo primato, contribuendo al generale 78

movimento di secolarizzazione che esclude le «finalità politiche» dal controllo del potere ecclesiastico. Restano naturalmente anche in Suárez, e anzi vengono sottolineate, alcune strategie di accertamento della «giustizia» della guerra. Prima di dichiararla, il re deve ricorrere a un consiglio che accerti la proporzionalità dell’offesa e i mezzi di punizione. Ma le ragioni per muovere guerra «giustamente» rimangono, come aveva già ben visto Erasmo, fin troppo numerose: fra esse anche il rifiuto degli avversari di permettere a «esterni» di valorizzare al meglio le risorse agricole o minerarie del proprio territorio o di farvi passare l’esercito straniero. Di tutto questo si ricorderanno le potenze europee dell’Ottocento e del Novecento nelle loro selvagge imprese coloniali. La guerra diviene così esplicitamente «guerra del re», che non ha bisogno di pretestuose ragioni morali per dichiararla. Senza più ipocrisia, emergono nei governanti e nei condottieri i lati più brutali. «Wallenstein» – scrive Giorgio Spini parlando del generale imperiale – «non conosce amore né amicizia né fede ... è insolente verso preti e monaci e dice che per pacificare la Germania bisogna iniziare a impiccare i teologi». Analogamente, i cappellani militari istituiti in Francia per ordine di Enrico II vengono espressamente scelti fra gli elementi peggiori del clero, perché gli uomini migliori non si guastino a contatto con la realtà della guerra. La realtà del confronto fra ragion di Stato e «giustizia della guerra» diventa particolarmente evidente quando la cattolica Francia entra nella Guerra dei trent’anni contro 79

le potenze protestanti. Il gesuita Christoph Keller condanna la politica del cardinale Richelieu, al quale sta chiaramente più a cuore il prestigio della Francia che la sorte dei contadini annientati da nuove tasse per finanziare le immani spese belliche. La ragion di Stato impone al cardinale di curare la sicurezza e il benessere del regno francese, ed egli con singolare franchezza scrive: «Chi dispone della forza ha sovente ragione in campo politico ed il debole difficilmente può evitare di aver torto a giudizio della maggior parte del mondo». Di un altro giudizio più alto Richelieu evidentemente non si cura. Per lui la guerra può essere anche un male che «procura bene». La sua è una conclusione infausta, fondata su una concezione organica dello Stato che ritornerà in tempi vicini a noi: «Talvolta gli Stati hanno bisogno della guerra per liberarsi dai cattivi umori». A metà del Seicento, sembra ormai che anche la Chiesa di Roma e i suoi maestri, e non solo i ministri cardinali dei vari Stati nazionali, si siano arresi dinanzi alla forza dell’assolutismo regio, rinunciando a ispirare con i princìpi della teologia morale cristiana le relazioni e i conflitti fra gli Stati. Dopo Suárez, i teorici cattolici abbandonano ogni velleità di controllo, finendo per ammettere non solo le guerre difensive, ma anche le guerre per vendetta e persino quelle offensive. Come sostiene Gregorio di Valencia, ogni Stato sovrano è signore del diritto di guerra. La resa alla realtà di fatto non potrebbe essere più totale: non resta ai cristiani che prendere atto di ciò che accade nel mondo. 80

Anche il protestante italiano Alberico Gentili e il gesuita spagnolo Juan de Mariana condividono il giudizio sulla inevitabilità della guerra. Il de Mariana arriva anzi a consigliare al re di cercare pretesti per scatenare la guerra: quel re che ha in «tempo di pace saggiamente mantenuto schiere di fanti e cavalieri e potenti flotte utili a aumentare la sua gloria». Insomma, «un re non deve smettere di pensare alla guerra durante la pace ... e il soldato non deve indebolirsi nell’ozio dal momento che le cause giuste per far guerra non mancano mai». Contro gli infedeli è poi permesso, anzi incoraggiato, il saccheggio, così come sui mari la pirateria. La massima espressione della nuova teologia di guerra si registra nel contesto del regno spagnolo, che si era formato attraverso la Reconquista armata della terra iberica prima, e poi con la vittoria sugli indios americani. Ma è in tutta Europa che si assiste a un impressionante elogio della guerra, e perfino a una ripresa dei temi politici di Niccolò Machiavelli da parte tanto dei cattolici quanto dei protestanti. «Tacete teologi su un argomento che non vi riguarda più»: così scrive Alberico Gentili, grande ammiratore appunto di Machiavelli, ma anche di Francesco Guicciardini e di Lorenzo de’ Medici. Riflessioni più moderate troviamo nel De jure belli et pacis di Ugo Grozio, un cristiano riformato che si opponeva all’ala più intransigente del calvinismo. L’autorità dello Stato, nella prospettiva del fondatore del giusnaturalismo moderno, si richiama ai princìpi razionali operanti nello «stato di natura ancor prima che nel sorgere degli stati po81

litici nazionali». La guerra giusta è una guerra basata su ragioni «secolari», ossia politiche, dichiarata da un sovrano legittimo. L’opera di Grozio segna la nascita del diritto internazionale, che riempie uno spazio vuoto dopo la Riforma quando gran parte dei cristiani cessa di riconoscere l’arbitrato del papa di Roma. Grozio indica perciò la necessità di un accordo fra le potenze cristiane sovrane impegnate in una guerra permanente fra loro. Lo scopo è stabilire «una sorta di organismo nelle assemblee del quale le questioni poste da ciascuno si concludano con il giudizio di altre potenze non interessate e si cerchino i mezzi per costringere le parti a giungere a un accordo a condizioni ragionevoli». La guerra rimane così una estrema ratio, e del resto i princìpi di diritto naturale che sono alla base della convivenza civile non vengono sospesi durante i conflitti, ma anzi regolano i rapporti fra gli Stati in guerra. Più interessante, tuttavia, è l’affermazione di Grozio secondo cui se i sudditi sono persuasi che la guerra è ingiusta devono rifiutarsi di combatterla, per non essere costretti a uccidere contravvenendo al precetto cristiano: «non sembra giusto costringere un cristiano a portare le armi perché astenersi dalla guerra è un atto di santità straordinario». È un’affermazione che rappresenta l’origine dell’obiezione di coscienza: un principio, come vedremo, che sarà accettato dallo Stato italiano soltanto nel 1972, ma guardato favorevolmente dal pontefice Paolo VI già dieci anni prima.

15.

Tempi bui

C’è qualcosa di peggio del quadro desolante offerto in questo periodo dai vescovi e dagli intellettuali cristiani, i quali abbandonano nelle mani dei principi un tema così rilevante come la «giustizia» della guerra, limitandosi a prendere atto di quel che è stato deciso nelle corti e di ciò che accade sui campi di battaglia? Sembra proprio di sì, ed è per esempio il coro di elogi e l’approvazione estatica di confessori e predicatori davanti alle vittorie del re di Francia Luigi XIV, seguito da un esercito «avido di gloria ... e impegnato in battaglie in cui gli orrori dei massacri sono previsti con cura, meditati a mente fredda e con tranquillità». Così si legge nella Orazione funebre per Luigi XIV, pronunciata dall’abate André Guillaume Gery. Per questi confessori e predicatori cattolici l’avversario è per definizione un infedele, soprattutto quando si tratta 83

di un altro cristiano, per esempio del popolo inglese guidato da Guglielmo d’Orange. In questo caso il Grande Re diventa il promotore di una guerra non solo giusta, ma santa. Le sue vittorie – celebrate, scriverà Voltaire, «mentre al suono del Te Deum si muore di fame» – sono viste come il «segno della devozione religiosa per quel Dio che sosteneva il regale braccio armato», mentre il confessore del sovrano ammira gli «esercizi di pietà e di carità che non vengono sospesi dal re nonostante il rumore della guerra». Come dire: virtù private e virtù pubbliche. Altri entusiasti mostrano il sovrano «stanco di aver offerto tante volte la pace all’Europa esausta», lui sicuramente non responsabile delle guerre, che ha scatenato non per suo vantaggio ma solo nell’interesse del suo popolo. L’entusiasmo purtroppo non è proprio soltanto dei prelati cattolici. Madame de Sévigné, Pierre Corneille e JeanBaptiste Racine condividono le lodi per le battaglie del loro re e si appassionano alla guerra di ingiurie contro il sovrano inglese. Ai loro occhi, Luigi XIV diventa il nuovo Costantino, o il nuovo Davide, mentre Guglielmo d’Inghilterra è l’Anticristo e i suoi sudditi sono uomini empi. È naturale che sull’altro fronte, in Inghilterra, gli ecclesiastici presentino anch’essi la guerra come un evento religioso. Il sovrano inglese viene così descritto come l’uomo «costretto a servirsi della potenza affidatagli da Dio», mentre il popolo inglese appare come il «popolo eletto al pari degli ebrei». In quest’ottica rovesciata, i predicatori inglesi giudicano Luigi di Francia un tiranno asservito al papa di Roma, fonte di ogni corruzione, così che la causa 84

della guerra combattuta dal popolo inglese diventa «la causa di Dio, la battaglia della luce e della verità contro l’errore e le tenebre». Come tutto ciò somiglia alle dichiarazioni dei sovrani durante la Guerra dei cento anni, o anche alle grottesche situazioni descritte da Erasmo! Ma come spiegavano i francesi, nella loro prospettiva, le sconfitte di Luigi XIV, il nuovo Davide? Come al solito, come sempre, con i peccati del popolo. Anche l’intelligentissima Madame de Maintenon affermerà che la sconfitta «l’abbiamo meritata» e che bisogna pregare perché Dio deponga la sua collera contro la Francia. Sono parole così antiche, così consumate, che leggendole lo storico non può non sentirsi demoralizzato: purtroppo saranno ancora ripetute in tempi a noi molto più vicini. Nell’epoca dell’assolutismo regio le voci di ecclesiastici fuori dal coro sono poche, ma va ricordata almeno quella del vescovo di Clermont, Jean-Baptiste Massillon, che critica severamente le guerre nelle quali per decenni il re ha trascinato il suo popolo: guerre mosse solo dall’ambizione e sprovviste di qualsiasi giustizia. I sermoni di Massillon, d’altronde, non sono critici solo verso le guerre promosse dal suo sovrano, ma anche verso la guerra in generale, che contraddice il precetto evangelico e porta all’uomo solo miseria e morte. «I trofei della vittoria sono innalzati su campi di battaglia coperti dai cadaveri di tante migliaia di cristiani»: opporsi con queste parole al dilagante elogio del monarca assoluto richiedeva un certo coraggio. Pur non amando la guerra, e anzi descrivendone vividamente gli orrori e le assurdità, Jacques-Bénigne Bossuet 85

è persuaso che Dio abbia ordinato alcune guerre nell’Antico Testamento. L’autore delle Pensées chrétiennes et morales, arcivescovo, educatore dei figli del re, sostiene quindi che chi combatte agli ordini del proprio re può essere sicuro della sua innocenza anche se uccide. Il che è senza dubbio un bel passo indietro rispetto alla dichiarazione di Grozio, e ancor prima dei maestri dell’Università di Salamanca, a favore della centralità della libertà di coscienza del singolo. Del resto, è difficile trovare una linea coerente nelle opere del grande predicatore e moralista francese, sempre diviso fra l’indignazione («La guerra è il mostro più orribile che l’inferno abbia vomitato per la rovina del genere umano») e gli altrettanto roboanti panegirici del potere monarchico assoluto, del quale era entusiastico sostenitore. Verso la fine del XVII secolo e nel corso del XVIII si infittiscono comunque i discorsi sulla pace scritti da uomini religiosi, tra gli altri dai domenicani Barutel e Bel. I disastri morali ed economici della guerra sono ormai sotto gli occhi di tutti, e non si possono non trarne conseguenze allarmanti. Lo fa ad esempio Charles Castel, abate di Saint-Pierre, legato ai gruppi di opposizione a Luigi XIV, di cui Saint-Simon dice che «aveva spirito, cultura e sogni». Il suo Progetto per rendere la pace perpetua in Europa si richiama a Francesco Bacone e a Thomas Hobbes. Il riferimento prevalente non è infatti al Vangelo, ma alla pace come valore secolare vantaggioso per i governi. SaintPierre rileva che i regimi repubblicani sono più pacifici delle monarchie, perché i prudenti borghesi che li guida86

no vedono i loro concreti interessi tangibilmente messi in pericolo dai conflitti. Del resto la vera grandezza dei popoli, spirituale ma anche economica, sta nella pace. L’Unione è l’organismo internazionale che, raggruppando tutti i rappresentanti dei paesi europei, deve assicurare uno stato di non belligeranza. Ambasciatori presso ogni governo, un console per «provincia» ed eserciti nazionali ridotti al minimo sono fra gli strumenti per raggiungere la pace indicati dall’abate francese, che raccomanda però innanzitutto l’educazione a una cultura di pace impartita nelle scuole dell’Unione. Uno scetticismo unito alla lode per le «buone intenzioni», anche da parte di un altro sostenitore della pace, il grande Gottfried W. Leibniz, accolse le proposte dell’abate. Un altro abate, Jean Maury, nella sua opera I vantaggi della pace presenta toni più vicini a quelli dei philosophes a lui contemporanei e dello stesso Voltaire nel Dictionnaire philosophique. La guerra per lui è un crimine che ci avvicina agli uomini preistorici, i conquistatori sono dei delinquenti, i generali sono normalmente uomini «senza ingegno», che altro non sanno fare se non combattere. Nella guerra tutti i vizi sono legittimati e l’ordine morale è rovesciato. La guerra è sempre e soltanto il mezzo per far trionfare il diritto del più forte, ed è grottesco che la Chiesa «si compiaccia di ringraziare il Cielo (cantando il Te Deum) per il fatto che dieci, venti o trentamila uomini siano stati uccisi». Che fare contro questa follia collettiva? La risposta dell’abate Maury – due secoli prima della Guerra fredda! – 87

è singolare: paradossalmente bisogna augurarsi l’invenzione di mezzi di distruzione di massa molto più potenti di quelli che si conoscono, un deterrente che sarebbe utile per le generazioni future. «Gli uomini imparano solo dalle avversità», scrive Maury: oggi noi sappiamo che non imparano neppure da quelle.

Pa r te seconda

16.

Europa uguale cristianità

Europa uguale cristianità: questa l’idea centrale del saggio di Novalis – pseudonimo del poeta tedesco Federico von Hardenberg – scritto alla fine del Settecento ma pubblicato più di vent’anni dopo. Il saggio, intitolato appunto La cristianità o Europa, polemizza energicamente con le idee degli illuministi. Vi domina la nostalgia per una mitica unità dei popoli del Vecchio Continente, guidati da un papato erede di quello medievale e capace di annullare e armonizzare le forze centrifughe: un’unità purtroppo spezzata dalla «rivolta» di Lutero, e in seguito dalla critica «distruttiva» dell’illuminismo e dalla violenza dissacrante della rivoluzione francese. Parole suggestive quelle di Novalis, ma certamente non sorrette da un’argomentazione forte e lucida. Il poeta mirava a sottolineare come l’idea di pace, a suo parere realiz91

zatasi in Europa nei lontani secoli medievali, era fondata sulla sottomissione dei sovrani e dei principi alla guida spirituale suprema, quella appunto del pontefice romano. Era un mito, come sappiamo, una fantasia romantica. Se guardiamo indietro agli eventi e agli scritti dei secoli intorno al Mille, dunque in piena Christianitas, la guerra ci appare un reale, frequente e spaventoso male del mondo, nel quale il papa giocava come altri un ruolo più politico che spirituale. Così la guerra appariva del resto anche agli uomini dell’epoca, che avevano sotto gli occhi conflitti spesso fratricidi, che certo non suggerivano un’armonica unità dei popoli d’Europa. È tuttavia interessante ricordare qui Novalis, anche perché vent’anni dopo la pubblicazione del suo libro le idee centrali ritorneranno in sostanza nella tesi di un altro testo, ben altrimenti argomentato, scritto dal gesuita italiano Luigi Taparelli d’Azeglio: il Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto. Il contesto in cui Taparelli scriveva era quello del nascente nazionalismo, che apriva nuovamente la strada alla guerra fra le patrie d’Europa, ma che al tempo stesso cominciava a far emergere, in mezzo ai tanti conflitti latenti o palesi, anche l’esigenza di un progetto di accordo e di pace internazionale (ancora, come si vedrà, prematuro e inconcludente). La pace – vedeva acutamente il Taparelli – era diventata ormai un problema che doveva essere affrontato in una prospettiva mondiale. La divisione e la nascita degli Stati sovrani era la causa principale dei continui conflitti. Istituendo per prima il servizio di leva popolare, la repubbli92

ca francese, riferimento negativo d’obbligo per un cattolico, aveva innescato un mutamento immenso e inarrestabile, «perché tutte le altre nazioni hanno dovuto fare altrettanto per ristabilire l’equilibrio minacciato». Era dunque necessario affrontare il problema nel quadro della società naturale degli uomini, chiamata dal Taparelli etnarchia: «nella etnarchia ben costituita» – si legge nel saggio – «la guerra si potrà solo concepire fra una nazione che viola l’ordine e va contro l’autorità etnarchica suprema». La catena degli errori «moderni», dalla riforma di Lutero alla rivoluzione francese, ha portato secondo il gesuita a una situazione in cui il ruolo della Chiesa, vera e unica forma di cristianesimo e tribunale supremo, diventa con evidenza indispensabile per la pace e per l’accordo fra le nazioni. Solo l’autorità del papa, di conseguenza, potrà fungere da arbitro imparziale per le controversie fra le nazioni. Da questo scenario tuttavia la guerra non sparisce. I cattolici, che vivono al di fuori della società etnarchica, possono e devono imbracciare le armi se oppressi nei loro diritti religiosi e morali. Il Taparelli prendeva così le distanze rispetto agli sforzi compiuti dalle società filantropiche internazionali, che operavano per la pace nel clima dei conflitti contemporanei. La guerra non è, come queste dichiaravano, il più grave dei mali del mondo. Al contrario, «la religione dell’universo e l’entusiasmo della natura gridano ad alta voce che la guerra è un bene». Così, certo poco evangelicamente, scriveva il gesuita. Senza dubbio, concedeva il Taparelli, la pace sarebbe un bene maggiore, nell’ipotesi irreale che nessun popolo 93

o principe commetta prepotenze. Ma posta la presente condizione, la guerra continua ad essere, come appariva molti secoli prima, il miglior rimedio alla violenza e alla competizione selvaggia su questa terra. Ferire e uccidere un altro uomo era dunque legittimo per restaurare l’ordine morale spezzato. Ma chi decideva dell’esistenza e dell’entità del danno, e quindi della legittimità dell’intervento? Il pontefice romano, rispondeva il gesuita. La teoria del Taparelli non conobbe allora grande fortuna. Ma un’eco delle sue parole si avverte nel 1848, quando Pio IX rivendica esplicitamente la sua funzione di supremo moderatore dei cristiani nelle situazioni che possono suscitare una guerra, o ancora vent’anni dopo quando sempre lo stesso papa risponde alla politica oppressiva degli zar nei confronti dei cattolici polacchi legittimando la loro insurrezione e più tardi proponendo la sua opera di mediazione per scongiurare la guerra franco-prussiana. Negli stessi anni, di fronte ai successi dei Savoia nelle regioni dell’Italia centrale, il papa condanna il principio liberale del «non intervento» negli affari interni di un paese. In quel momento, il problema per il pontefice romano era soprattutto la difesa dello Stato di cui egli era sovrano, minacciato dall’impresa piemontese. Come sovrano del piccolo regno pontificio, Pio IX riprende più di una volta nelle sue lettere l’antica idea di Leone IV e di altri pontefici, secondo la quale c’è una promessa di salvezza eterna per coloro che muoiono come martiri per la causa della Chiesa. Ma non della grandiosa difesa della fede si tratta in quegli anni, quanto piuttosto di quella tutta materia94

le di un territorio, lo Stato pontificio appunto, piccolo regno fra i potenti regni d’Europa. Nel 1859 ha inizio la guerra franco-piemontese. Lo scopo degli italiani è cacciare i cattolicissimi austriaci dal Lombardo-Veneto e realizzare l’unità italiana. Il quadro, dalla prospettiva papale, non può che presentarsi in modo confuso: secondo la tradizionale dottrina della guerra giusta il diritto sta dalla parte del liberale Cavour contro l’imperatore cattolico d’Austria, che ha dichiarato la guerra. Ma l’interesse della Chiesa sta in campo opposto. Nell’enciclica Cum Sancta mater, dell’aprile del 1859, Pio IX si dichiara affranto di aver udito il «sinistro grido della guerra» e si appella in termini generici alla pace del Cristo, che «colma i cuori degli uomini di amore della pace cristiana». La difficoltà del momento, per i cattolici, è ben esemplificata dal turbamento dell’episcopato di Francia, una delle potenze in guerra. Da un lato sta l’amore per la patria e la speranza di una vittoria francese, per la quale i vescovi non possono che invitare i fedeli a pregare. Dall’altro lato sta la considerazione che l’imperatore austriaco rappresenta la tradizione cattolica, al contrario dell’alleato italiano «ambizioso e rivoluzionario che ha messo le mani sulle proprietà e sulle libertà della Chiesa e non cessa di minacciare il papato». Un anno dopo la stessa Santa Sede è in pericolo. E l’arcivescovo Etienne Pie scrive: Sarebbe ambizioso e prematuro forse pronunciare la parola «crociata». Diciamo tuttavia che questa grande parola ... non avrebbe nei tempi moderni un’applicazione più adatta. Le antiche spedizioni della cristianità si proposero forse un fine più 95

direttamente religioso di questo? Non è forse vero che la supremazia spirituale e l’indipendenza del pontefice romano appartengono all’essenza stessa del cristianesimo?

Ritornano così i toni tipici della guerra santa: «battersi e morire per la causa di Dio, della Chiesa e della Sede apostolica». E sorge persino l’idea di un ampliamento della crociata «per muovere all’abbattimento dell’islamismo toccato da un nuovo accesso di rabbia nella sua decrepitezza». Il pontefice scomunica gli invasori piemontesi, elogia commosso i suoi difensori che «sono morti sul campo di battaglia per la Chiesa», promette la salvezza agli «atleti di Cristo». La breccia di Porta Pia e l’unione degli Stati pontifici al regno d’Italia, votata a stragrande maggioranza nel 1870, chiuderanno il conflitto e di fatto annulleranno il potere temporale del papa. Ma non la speranza, come dopo ogni sconfitta, di una rivincita con nuovi strumenti. Nel 1890 il pontefice Leone XIII, nell’enciclica Sapientiae christianae, sosterrà che «un buon cittadino non può dubitare di dovere dare la vita per la patria». Dall’affermazione di questo dovere, che da civile diventa religioso, avranno origine ancora molte conseguenze. Il ruolo più notevole rivendicato in questi anni dal pontefice rimane quello di capo politico di uno Stato. Sbiadisce invece temporaneamente, anche se non del tutto, l’idea del papa come figura di guida universale e arbitro dei conflitti della cristianità. Quest’ideale, di matrice medievale, ritorna ad esempio nei più intransigenti ambienti sia cattolici che protestanti. Un caso singolare e tuttavia sintomatico è il documento stilato nel 1869 dall’anglicano 96

David Urquhart, alla ricerca delle modalità per un accordo generale sul tema della guerra. L’inglese invita il pontefice romano ad ammettere la presenza di laici e di religiosi di altre confessioni nel Concilio dei cattolici, per favorire l’elaborazione di un codice di diritto delle genti accettabile e condiviso da tutti. La risposta dei cattolici è tiepida e complessa. Vengono rilevate le difficoltà procedurali, per esempio in un intervento del gesuita Francesco Berardinelli su «La Civiltà Cattolica». E soprattutto si sottolinea che l’Urquhart ha mancato di segnalare l’ostacolo più grande alla realizzazione del progetto, vale a dire la qualità «moderna» della civiltà, che relativizzando i valori e gli interessi è la prima responsabile dello scontro fra i popoli. La Chiesa non può avere successo nella sua opera contro la guerra, e neppure far diminuire il numero delle guerre ingiuste, se non le viene riconosciuto il potere di «rettificare tutti i principi sociali e politici che regolano al presente la moderna società». Il progetto dell’Urquhart viene comunque trattato con rispetto di altri autori più «laici», i quali però, senza essere espressamente nominati, vengono definiti da «La Civiltà Cattolica» «pazzi e cianciatori», poiché propongono il superamento e l’abbandono dell’amor di patria, «naturale e ingenito persino nei più feroci selvaggi». Quel che viene preso di mira con sarcasmo è proprio lo spirito dell’«umanesimo», che tende a una «chimerica federazione mondiale sostenuta da un parlamento internazionale». È invece chiaro, conclude la rivista dei gesuiti, che «l’Europa non può aver pace insino a che non la cerca nella Chiesa e ... 97

riconosce nel Papa la somma autorità morale e religiosa sopra i popoli». Così, nel generico riferimento a un Medioevo ideale, come ha scritto Daniele Menozzi (2005), «guerra giusta e ierocrazia si saldavano strettamente». Fu anzi quest’idea che finì per diventare la proposta portante che guidò la linea politica e diplomatica del papato durante l’importante pontificato di Leone XIII.

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Il papa contro la barbarie e la superstizione

Nell’orizzonte culturale e politico dell’Europa di metà Ottocento, dunque, era ritornata con forza la rivendicazione da parte del pontefice del suo primato fra le nazioni, addirittura con accenti che ricordano in alcuni casi l’idea medievale di martirio e di guerra santa. La convivenza europea appare alla Chiesa di Roma possibile esclusivamente in una prospettiva cristiana, e il papa di conseguenza è il capo naturale di una civiltà che si difende, anche con le armi, «dalla barbarie e dalla superstizione». Un evento sembra dare segnali favorevoli a conferma di questa prospettiva: il re di Spagna e l’imperatore di Germania si rivolgono a Leone XIII chiedendogli di mediare nella contesa sulle Isole Caroline, nell’Oceano Pacifico, che secondo l’imperatore non erano più dominio del re di Spagna perché di fatto disabitate e diventate quindi res nullius. L’in99

tervento del papa a favore della Spagna, nel 1885, risolve la questione, assumendo un valore più esemplare che reale. Leone XIII non perde occasione per sottolineare quanto sia importante per la comunità dei regni dell’Europa cristiana garantire al papato non solo una piena indipendenza fondata sulla sovranità territoriale, ma soprattutto riconoscere l’alto primato della sua autorità, in grado di proclamare i princìpi della giustizia fra gli Stati e indicare con chiarezza la potestà «costituita da Dio» sulle nazioni. Molti interventi, specialmente su «La Civiltà Cattolica», ribadiscono l’idea che la matrice dei mali della modernità – la fragilità della pace armata, la corsa agli armamenti, l’assenza di un diritto soprannazionale – sia da ricercarsi nel mancato riconoscimento della Chiesa come custode delle regole della giustizia e come autorità riconosciuta per dirimere le controversie fra le nazioni. «Eccetto la civiltà che germoglia dalla Chiesa cattolica avente il romano pontefice per capo non ve n’è un’altra davvero», scriveva ad esempio sulla rivista dei gesuiti Raffaele Ballerini. Sempre secondo il gesuita Ballerini, la data da cui ha avuto inizio il perverso e distruttivo processo della modernità è il 1789: «Alle leggi universali e immutabili di giustizia e di equità che prima regolavano le relazioni internazionali ... si sono venute sostituendo la volontà delle moltitudini, criterio e cagione del diritto e la pubblica opinione norma e regola del giusto e dell’onesto». Questi ed altri «principi ugualmente sovversivi predicati dai razionalisti del diritto internazionale» sarebbero stati l’origine della rovina degli Stati e dei popoli. 100

Un altro temibile spettro si profilava intanto all’orizzonte della vita dei popoli: il socialismo, verga ferrea che Dio adopera a sterminio delle genti che apostatano da lui. E l’unica salvezza da questa vendetta divina, ancora una volta, veniva riconosciuta nel potere del pontefice romano di legittimare le guerre. Il pontefice, si legge ancora su «La Civiltà Cattolica» nell’anno 1898, in uno scritto a firma di Gaetano Zocchi, «ha una specie di alta investitura come mediatore della pace sul mondo intero». D’altra parte se si vuole stabilire un «arbitrato permanente non si saprebbe immaginare un tribunale migliore di questo tribunale sui generis che sta in Vaticano, esistente da secoli e già stupendamente organizzato e fornito della sapienza prudenza e rispettabilità necessarie». Legittimare la guerra, dunque, più che promuovere attivamente la pace: sembra questo lo scopo invocato dal pontefice nei decenni finali del XIX secolo. Anche se il papa assicura che la Chiesa con la sua preghiera mira soprattutto ad allontanare la violenza delle armi, il primo compito – individuare i criteri che rendono «giusta» una guerra – sembra essere il più importante, anzi indispensabile. Anche perché al fondo rimane la convinzione antica: l’uomo, moderno o antico che sia, dopo il peccato originale è indebolito e incapace, portato alla competizione e al conflitto, rassegnato alla violenza da subire e da infliggere. La guerra è «essenzialmente» inevitabile. Di più: «la guerra è necessaria». Compito del pontefice è non solo decidere la legittimità della guerra di difesa, ma anche della guerra di «pu101

nizione» per chi viola il diritto. Il papa è il più sicuro custode del diritto di ricorrere alle armi nei casi legittimi, «essendo maestro supremo della morale le cui sentenze in terra sono approvate in cielo», scrive sempre su «La Civiltà Cattolica» Eugenio Polidori nel 1900. Sono concetti che verranno ribaditi più volte e con forza sotto il pontificato di Pio X. Per esempio nel 1909, nel documento per la beatificazione di Giovanna d’Arco, la santa di un’Europa cristiana e bellicosa; o ancora nel 1912, in occasione di un congresso pacifista della Società internazionale per la pace. Accusando di contraddittorietà e inutilità gli obbiettivi e i metodi del movimento per la pace, negli ambienti gesuiti si poteva così sottolineare per l’ennesima volta come il criterio per la definizione di una guerra «giusta» si potesse trovare soltanto nel diritto naturale, patrimonio della Chiesa e base di ogni ordine sociale. Quanto ai vescovi delle varie Chiese nazionali, essi si distinguevano dalla linea romana per le opposte coloriture nazionaliste della loro posizione sulla guerra incombente. Abbiamo già visto come il cardinale Mercier riproponesse con forza anacronistica il concetto del soldato-martire, il quale guadagna il regno dei Cieli sacrificando la vita alla patria. Ma vanno ricordate anche altre posizioni più moderate, che si accaniscono nel ricercare la «giustizia» della guerra in cui è coinvolta la singola patria o nazione. Diffusa appare comunque la speranza che i combattenti cattolici della prima guerra mondiale, dimostrandosi buoni cittadini, diventino testimoni efficaci per confermare il ruolo politico della cristianità, e quindi per indicare ancora una volta la centralità della Chiesa nelle relazioni fra gli Stati. 102

È desolante vedere come i vescovi delle diverse nazioni non risparmino argomenti per definire «giusta» una lotta fratricida, combattuta dai fedeli cattolici sotto opposte bandiere, attraverso la dottrina della lotta cristiana contro la «modernità» del male. Il clero francese sottolinea che sconfiggere il nemico tedesco equivale a sbaragliare gli eredi di Lutero. Il clero tedesco indica invece nel nemico francese il «figlio della rivoluzione dell’Ottantanove». Come ha scritto lo storico Daniele Menozzi (1993), era proprio il quadro interpretativo proposto dal papato a permettere a ciascuna Chiesa nazionale di declinare a favore della sua parte l’argomento secondo cui la tragedia della guerra era diventata inevitabile, in un tempo che aveva «voltato le spalle alla grande idea di una civiltà fondata sulla qualità cristiana della fede». I vescovi delle nazioni si limitavano in fondo a tradurre l’assioma del Vaticano nelle lingue e secondo le prospettive delle diverse patrie. C’era un indubbio legame fra il progetto di Roma, «permeato dalla cultura cattolica ottocentesca più intransigente», che chiedeva il ritorno della società cristiana, e quello degli episcopati nazionali, che affidavano il progetto al successo dei propri soldati impegnati in guerra. La contraddizione era clamorosamente tragica. Quasi tutta la pubblicistica dell’epoca – in primo luogo «La Civiltà Cattolica» e la consorella francese «Études» – riprendeva con ampiezza il motivo. Le responsabilità della Grande Guerra non venivano individuate nelle azioni di questo o di quel personaggio politico, o in specifiche situazioni internazionali, ma risalivano al «giusto giudizio di Dio dovuto alla apostasia della moderna società dalla società religiosa». 103

18.

La grande prova

La

Grande Guerra scoppia quando sul trono pontificio siede – ancora per poco – papa Giuseppe Melchiorre Sarto, Pio X. All’imperatore cattolico d’Austria Francesco Giuseppe, che gli chiede la benedizione del suo esercito, il pontefice risponde con le ben note e limpide parole: «Io benedico la pace». E appena prima di morire, nell’estate del 1914, primo anno di guerra, egli rivolgerà ai cattolici di tutto il mondo un accorato appello per la pace. È però Benedetto XV, l’aristocratico Giacomo della Chiesa, il papa su cui grava il compito di gestire il progetto della esortazione alla pace, allo scopo di limitare e controllare la violenza della guerra nei terribili anni dal 1914 al 1918. Compito destinato, come sappiamo, al fallimento. La prima enciclica del nuovo papa, Ad beatissimi apostolo104

rum principis alla fine del 1914, è dedicata naturalmente alla guerra: «Nessun limite alle rovine e alle carneficine: ogni giorno la terra inondata da nuovi torrenti di sangue si copre di morti e feriti. Nel vedere questi popoli armati gli uni contro gli altri si dubiterebbe che essi discendano da uno stesso Padre, che abbiano la stessa natura e facciano parte della stessa società umana». Per Benedetto XV la guerra è quindi sicuramente un male, e sembra di essere ben lontani dagli accenti di un Taparelli. La prospettiva è quella tradizionale: la guerra, e in special modo questa guerra che oppone fra loro i popoli cristiani, viene denunciata come una punizione divina per tutti i mali «moderni» che la società ha introdotto nella vita collettiva e individuale, allontanandosi dal magistero della Chiesa. Come se non bastasse, alla spaventosa serie degli «errori della civiltà moderna» si è aggiunta anche la lotta di classe, che ha portato «i proletari e gli operai a sollevarsi e bruciare di odio e d’invidia perché pur partecipando alla stessa natura (di pochi altri privilegiati) non godono degli stessi vantaggi». Il pontefice, che deplora scioperi e sollevazioni popolari, osserva infatti che non tutti gli uomini debbono avere le stesse condizioni di vita, ma «ciascuno salvo circostanze favorevoli occupa il posto che ha guadagnato con la sua condotta». Alcuni storici hanno sottolineato l’incomprensione di Benedetto XV per i socialisti, i «sobillatori», che erano stati invece fra i pochi a cercare di impedire la guerra, naturalmente senza successo. Sembra però ancor più grave che nella sua prima enciclica questo papa si mostri assai lonta105

no e del tutto immemore dell’antica idea apostolica della pace, fondata essenzialmente sulla giustizia sociale e sulla parità dei membri nella comunità, e si arrenda a una situazione di fatto. Chi è povero, è realmente e giustamente povero: questo sembrano significare le parole citate. Un’affermazione che appare molto più grave di ogni altra. È noto il crollo dell’ideale internazionale dei socialisti, che nella maggior parte dei casi finiscono per approvare e sostenere la guerra. Un fenomeno analogo accade durante il primo anno del conflitto nei ranghi dei cattolici, che nei maggiori Stati nazionali – nell’Inghilterra antipapista, nella Francia repubblicana, nella Germania protestante – si sentono cittadini di seconda categoria, colpiti dall’accusa di essere imbelli e disfattisti (un’accusa analoga a quella indirizzata verso i primi cristiani nell’impero romano). L’amore per la patria e l’interesse contribuisce di conseguenza a condurre la maggioranza dei cattolici all’approvazione della guerra. Del resto la forte pressione ideologica e la propaganda bellica ebbero la meglio su ogni altra convinzione in tutti i paesi belligeranti. Solo una minoranza rimase fedele ai princìpi cristiani della pace. Molti – per esempio i gesuiti con la loro rivista «La Civiltà Cattolica» – giunsero a vedere nella guerra una valanga di purificazione generale che avrebbe travolto il clima libertino e superficiale prevalente negli ultimi decenni. L’aspetto più impressionante fu la dilagante e fortissima sacralizzazione della guerra e il primato della fede nella patria sulla fede religiosa. Del cardinale belga Mercier abbiamo già detto all’inizio di questo libro: il prelato belga pro106

vocava i tedeschi continuamente con lo scopo di essere fatto prigioniero per divenire il martire del conflitto e per creare un caso internazionale. Con fine diplomazia, nei suoi numerosi incontri con il cardinale Benedetto XV ebbe qualche successo nel moderare la sua foga patriottica. Da molti indizi – oltre che dall’enciclica Pacem, Dei Munus Pulcherrimum, pubblicata nel maggio 1920 – si può dedurre che il pontefice fosse ben consapevole dei danni delle idee nazionaliste e quindi avverso all’ideologia allora imperante. La sincera neutralità e imparzialità del papa è provata anche dal fatto che egli divenne ben presto l’obbiettivo della propaganda di guerra di entrambe le parti in lotta: di quella francese, che lo accusava di «regarder la bataille sans rien faire»; di chi in Germania lo paragonava a Ponzio Pilato; del cattolico Paul Claudel, che denunciava la sua «disperante piccola politica e la sua diplomazia di secondo ordine». Da tutte le parti gli si rimproverava insomma di non schierarsi e di non intervenire. Ma intervenire con quali mezzi? Lo stesso pontefice ricorda più volte che egli può operare per il raggiungimento della pace solo attraverso le raccomandazioni alla carità e alla preghiera. Gli è precluso infatti l’esercizio della «funzione giudiziaria che gli sarebbe riservato in una società cristianamente ordinata», a causa dello stato «anormale» in cui si trova il papato, a cui manca persino l’indipendenza territoriale. Egli si sente dunque costretto a limitarsi a svolgere un ruolo paterno attraverso la preghiera e l’assistenza caritatevole, mirate ad attenuare le tragiche sofferenze della guerra. 107

Nell’atteggiamento e nel pensiero sulla guerra di Benedetto XV sembra di poter leggere un’oscillazione fra l’adesione al principio evangelico dell’amore fraterno e della pace, al quale dedica commosse invocazioni, e il pessimismo di fondo, per cui «la guerra esisterà sempre fin quando esisterà l’umana cupidigia» (ossia l’agostiniana libido dominandi). E tuttavia non si può dimenticare la presenza chiara e ripetuta, nei suoi scritti, di un programma di restaurazione della Christianitas come via maestra per ripristinare la «tranquillità dell’ordine»: programma che includeva, paradossalmente, anche la rivendicazione alla legittimazione della guerra. La tesi, presente anche altrove, è esplicitamente dichiarata nel discorso ai cardinali per il Natale del 1919, quando Benedetto XV sostiene che tutta la sua azione è ispirata all’idea di «Cristo come legislatore sovrano della civile convivenza». Se per alcuni, forse molti, il regno di Cristo era legato soprattutto al trionfo sociale della Chiesa e del papato, non va dimenticato però che per Benedetto XV il raggiungimento di questo fine sembra esigere in primo luogo la trasformazione personale, la conversio, di ciascun credente. Allo spirito dei messaggi di pace di Benedetto XV si avvicinò don Luigi Sturzo – che in un primo tempo era stato favorevole alla partecipazione alla guerra – dichiarando che alla forza materiale delle armi doveva essere sostituita quella morale del diritto. Don Sturzo non elaborò una vera e propria teoria contro la guerra, né si occupò della «guerra giusta», questione che considerava astratta. Ma di108

scusse il preteso diritto alla guerra partendo da basi di esperienza storica e giuridica, fino a trovarsi talvolta in sintonia con il pacifismo dell’americano Norman Angell. La guerra, in questa prospettiva, doveva essere bandita dal consorzio umano come lo erano state in tempi passati la schiavitù e la poligamia, e rifiutata come un relitto selvaggio e un diritto anacronistico. Don Sturzo vedeva bene la profonda differenza fra le guerre antiche e il nuovo conflitto: La teologia – scrisse – non deve attenersi alla casistica di un tempo stabilita quando gli eserciti di fortuna mercanteggiavano la vittoria per limitare il numero dei morti e i sovrani privi di denaro si limitavano a piccoli scontri ai quali davano il nome di battaglie ... Le guerre di allora non si possono paragonare alle guerre di oggi.

La guerra e il «diritto alla guerra», dunque, andavano considerati al pari di atti criminali. E con slancio don Sturzo promosse un’idea di cristianesimo come forza di progresso storico, dichiarandosi avverso, fra i pochi, al pessimismo tipico di «coloro che pensano che la guerra sia una fatale ineliminabile eredità della umanità decaduta dopo il peccato originale». Egli non guardava all’indietro verso un Medioevo mitico e irrealmente pacifico sotto la benedizione del pontefice, ossia a quell’epoca vagheggiata dai gesuiti della «Civiltà Cattolica». Guardava avanti, verso un’ipotesi di pace mondiale fondata ex novo. La Grande Guerra aveva provocato comunque fra i cattolici profonde e traumatiche riflessioni, e messo alla prova convinzioni che furono abbandonate dopo quella terribile esperienza. Fra le altre, il conflitto aveva radicalizzato posi109

zioni di nazionalismo esasperato che oggi appaiono addirittura incredibili. Basta prendere, ad esempio, il Dictionnaire de théologie catholique, e leggere la voce Guerre firmata da Théophile Ortolan, tutta intrisa di spirito nazionalistico e di esplicito rancore verso il nemico tedesco. Fa certo impressione leggere, in un contributo teologico e in un monumento di alta cultura, espressioni di questo tenore: Non accusiamo tutti i tedeschi in blocco di aver violato in tutte le circostanze le leggi fondamentali dell’onore ma quale biblioteca riuscirebbe a contenere le testimonianze, le inchieste, i rapporti e i libri nei quali non solo gli alleati (dei francesi) ma persino i neutrali raccontano gli incredibili eccessi commessi dall’esercito tedesco? ... I tedeschi a ogni livello gerarchico sociale e militare mostrano tutta la loro ferocia ... Senza necessità strategiche hanno distrutto le città, le chiese, le scuole, gli ospedali, i conventi ... Milioni di innocenti, donne, vecchi e bambini, religiosi e prigionieri sono stati massacrati ... con una crudeltà e perfidia ignota agli stessi barbari ... La Germania sembra considerarsi dispensata dalle leggi morali vigenti anche in guerra ritenendosi incontestabilmente superiore e arrogandosi il diritto di dominare il mondo intero ... Una guerra iniziata con la violazione flagrante del diritto delle genti non poteva evidentemente proseguire che con violazioni sempre più mostruose.

Dimenticando lo stile dell’analisi storico-teologica tipico dell’opera, Ortolan dedica una tirata di ben dodici colonne a questo genere di invettive: è ben evidente che qui la fede nazionalista sovrasta, anzi sommerge e annulla, quella religiosa. Non sorprende che uno degli autori di riferimento di Ortolan sia Joseph de Maistre, il pensatore controrivoluzionario che definiva la guerra flagello divino ed espiazione provvidenziale dei peccati, secondo il quale il conflitto 110

esaltava «le più nobili passioni umane e sollevava una ondata di eroismo». De Maistre era del resto l’autorità condivisa anche dal gesuita francese Yves de La Brière, che nel contesto tragico del grande conflitto, nel 1914, poteva scrivere che «è nel profondo delle anime che in tempo di guerra e con il favore della guerra la grazia divina compie la sua opera potente di misericordia e di salvezza. Alle preoccupazioni frivole e malsane ... seguono i pensieri gravi, le ansie dolorose, l’ardore di nobili sacrifici ... Il seme divino cade allora su una buona terra ... Questi sono giorni di grazia ... è il grande giubileo della guerra». Anche per de La Brière, come per Ortolan, la guerra giusta era per definizione quella combattuta dai francesi. Ma il punto davvero essenziale è che la guerra era vista come un bene non solo per il vincitore ma anche per il vinto, che soffrendo riceve sulla sua pelle una «prova provvidenziale». Non c’è da meravigliarsi se in questa prospettiva qualcuno sentisse persino il dovere di difendere la Chiesa dall’accusa di essere «pacifista». La Chiesa – scrisse Lucien Roure sulla rivista «Études» il 5 marzo 1915 – ha pregato per la pace, non per il pacifismo, perché «essa conosce troppo bene la storia e la natura umana per fantasticare su un tempo mitico in cui i popoli vivono in pace». Il pacifismo è ben più che una pericolosa utopia, al contrario è «l’errore più pernicioso ... perché una nazione deve seguire il progresso e i movimenti dei vicini e non rimanere estranea a nulla che riguardi le attività di guerra». Rigurgiti di vecchie filosofie della storia e la persistente peste del nazionalismo concorrevano, come si vede, a formare una mistura esiziale. 111

In Italia, don Primo Mazzolari sostiene in questi anni che la guerra è il «solo argomento capace di raddrizzare le idee in capo a questa saputa società moderna». Il conflitto sarebbe servito secondo lui alla rivincita della Chiesa sul mondo. Il suo pensiero è tuttavia assai complesso e va sempre contestualizzato. Alla vigilia della seconda guerra mondiale egli noterà amaramente, anche se «era duro riconoscerlo, che dobbiamo osservare la assenza delle forze cristiane ... Molti di noi si sono sbandati cedendo con la scusa di compiere il proprio dovere e di salvare il patrimonio spirituale ... Per essere più agili e adatti alle nuove contingenze abbiamo lasciato incrinare l’integrità della nostra condotta non giovando a nessuno, non alla nostra dignità di cristiani e neppure al nostro ufficio di uomini di pace». La rivista sulla quale don Mazzolari scriveva, la cattolica «Segni dei Tempi», simpatetica con il fascismo, fa sì che queste parole risultino ambivalenti e in se stesse incerte, anche se amaramente sincere.

19.

La coscienza del pericolo

Nei

decenni compresi fra i due conflitti mondiali, il panorama del pensiero cristiano sulla guerra appare frammentario e difficile da leggere nel suo insieme, sia per la complessità delle linee di idee che si intrecciano rifacendosi al passato e a una tradizione del resto non univoca, sia per la pressione del contesto concreto delle forze politiche e ideologiche emergenti in Europa. L’impressione prevalente è comunque che la maggior parte dei cristiani europei sia consapevole della enormità dei pericoli e delle terribili prospettive che si aprono con i nuovi armamenti. Negli anni Venti nascono varie associazioni ispirate a quello che si indica con il nome di «pacifismo cattolico». Le più moderate si dedicano a una revisione del concetto di «guerra giusta», sottolineando che nel mondo moderno la 113

capacità distruttiva delle armi è tale da rendere ormai vana la teoria secondo la quale una guerra può essere condotta anche in base alle norme dell’etica cristiana. Un esempio è quello del Comité international d’action démocratique pour la paix, fondato per iniziativa di Marc Sangnier, attaccato violentemente dai cattolici francesi più intransigenti, e tuttavia difeso da altri prelati come monsignor Julien vescovo di Arras, il quale ricorda a tutti le radici pacifiche del Vangelo: «la pace è un’idea cristiana prima ancora che un ideale umano». Ancora più importante è la dichiarazione del 1923 dell’episcopato tedesco, che denuncia il nazionalismo che porta alla guerra descrivendolo come «tanto privo di pietà quanto radicalmente falso». Sono parole della parte che è stata sconfitta. In Italia il fascismo giudica la pace uno «stato di viltà» e la guerra, ancor prima che uno strumento politico, un’attività umana naturale e desiderabile. Il clima è dunque tale da emarginare sempre più duramente le posizioni contrarie. È però soprattutto all’interno dell’ordine domenicano che possiamo cogliere le voci che sostengono la pace come unica opzione legittima per un cattolico, non solo in Francia e Germania ma anche in Italia. «La grande missione della Chiesa nel secolo ventesimo è predicare il regno della giustizia e della carità e formare la coscienza universale in contrasto al dilettantismo selvaggio dei politici»: così scrive il domenicano Mariano Cordovani, il quale si augura che «il Pontefice nel nome del Vangelo e della rinascita del diritto naturale delle genti prenda in ma114

no la questione politica e tracci la Magna Charta dei nuovi ordinamenti civili». Sembra che le parole dei cristiani istituzionali siano declinate ormai sempre più frequentemente nella direzione della pace, e tuttavia la garanzia di questa non sta – come si vede – nel consenso organizzato delle genti o nell’appello alle parole fondanti del Vangelo, ma ancora una volta nella rivendicata funzione della Chiesa come «monarchia spirituale». Non molto lontano, in fondo, è il richiamo tradizionale del gesuita Giulio Monetti, il quale dichiarava che «non si avrà vera pace finché le società moderne non ritornino a Dio pentite della loro volterrana protervia». Più nuovo il tono di posizioni come quella di don Ernesto Vercesi sulla rivista «Vita e pensiero», o anche di alcuni contributi della rivista «La scuola cattolica» nei quali vengono sottolineate le analogie fra il pensiero del pontefice e quello del presidente americano. Woodrow Wilson è considerato «capo del popolo libero e nato con la libertà» che mira al «disegno della società delle genti, grande come è grande l’animo umano». Così scrive don Vercesi sulle pagine dell’«Unità cattolica» nel 1919. Da notare il timbro ottimistico, così raro fra i cristiani a proposito delle possibilità di pace. Don Vercesi scrive nel 1924 che per merito del presidente Wilson la guerra e la pace hanno assunto un aspetto nuovo. Wilson ha scombussolato la vecchia diplomazia e impresso alla guerra e alla pace una elevazione di principio ... Wilson non è soltanto Wilson: è anche un po’ il programma di Benedetto XV sulla pace giusta e duratura. 115

Il Vercesi ribadisce anche la sua fiducia che la Società delle Nazioni risponda a «un concetto organicamente cattolico», affermando che i problemi contingenti sono connessi al suo stato ancora embrionale. Parole che vanno nella stessa direzione le scriverà un anno dopo, quando sottolineerà che «al di là delle Alpi le correnti per la pace fra i popoli tengono ormai il posto che avevano trent’anni prima le correnti riguardanti il capitale e il lavoro». È necessario dunque che anche i cattolici italiani si muovano in questo senso. Lo stesso invito, seppur con accenti diversi, si può leggere nel saggio di Gonzague de Reynold, professore all’Università di Berna, ospitato ancora su «Vita e pensiero» nel 1927. «Si può amare o non amare la Società delle Nazioni» – scrive Reynold – «ma essa è un fatto troppo importante per ignorarlo. I cattolici come cattolici non possono ignorarla ... Non si tratta di inginocchiarsi di fronte a lei né di lanciarle contro degli esorcismi ma occorre sostenerla in tutto ciò che farà di bene e combatterla in ciò che farà di male». Anche più tardi, nel numero monografico di «Vita e pensiero» dedicato al tema nel 1931, possiamo leggere, insieme ad alcune critiche rivolte all’indirizzo della Società, anche l’apprezzamento per «il grande e nobile tentativo di conferire forma giuridica alla naturale società delle genti». Un’aperta difesa della Società delle Nazioni, sull’esempio dei cattolici belgi e francesi, era anche nelle intenzioni del gesuita Angelo Brucculeri, che sulla «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» si dichia116

rò perplesso di fronte allo «spauracchio del pericolo massone» agitato dai nemici della Società. «Supposto anche che nella Società delle Nazioni vi siano delle influenze sospette, ciò non prova che essa sia senz’altro massonica. È certo invece che è una Società aperta che non rifiuta ma domanda e accetta il concorso di tutti i volonterosi.» Un contributo importante fu senz’altro quello del giurista cattolico Louis Le Fur, che esprimeva un altro modo critico di vedere il rapporto dei cattolici con la Società delle Nazioni. La Chiesa, sosteneva Le Fur, non era in competizione con la Società delle Nazioni perché, come del resto nel passato medievale, essa non poteva né doveva valersi del potere politico o temporale. Sembra incredibile, ma a distanza di secoli qualcuno sentiva ancora la necessità di ripetere che la Chiesa può agire solo con il potere spirituale che costituisce la sua singolare autorità. In questo potere spirituale – secondo Le Fur – stava la capacità del cristianesimo di rivolgersi a tutti i popoli del mondo, anche ai non cristiani, diffondendo lo spirito evangelico di giustizia. Toni ancora più ottimistici si leggevano sul «Corriere del Ticino» per la firma di Angelo Crespi, in un rendiconto del consiglio indetto dai membri delle Chiese cristiane e tenuto in Inghilterra nel 1925 per discutere il tema della guerra: Non fu difficile trovare un minimum sul quale accordarsi: tutte le chiese cristiane erano d’accordo nel condannare come illegittima qualsiasi guerra e peccaminoso il parteciparvi ... Fui stupito nel vedere quante persone non cattoliche approvassero ora alla luce dei fatti l’atteggiamento di neutralità assunto dal papa che aveva irritato allora l’una e l’altra parte ... Il papato che 117

con le encicliche di Leone XIII e Benedetto XV ha risolutamente staccata la Chiesa dalla tradizionale alleanza con l’assolutismo e ha riconosciuto la legittimità della democrazia come forma di governo potrebbe camminare nella stessa direzione ponendo la obbedienza alla giustizia e a Dio al di sopra di quella reclamata dai governi.

Favorevole al progetto di Wilson era anche la rivista «Civitas», vicina alla Lega delle nazioni con l’intenzione di «infonderle nuove energie e aprirle il cammino». La rivista arrivò a salutare la riunione preliminare della World Conference delle Confessioni cristiane come un evento di grande importanza storica, che poteva preludere a una futura Società delle religioni. Ma non erano certamente idee condivise dalla maggioranza dei cattolici italiani. I più trovavano difficile resistere allo scetticismo e al pessimismo tradizionali e impegnarsi nella speranza che i grandi ideali di pace potessero diventare concreti e operanti. Monsignor Francesco Oliati, nel 1922, attaccò la Società delle Nazioni con gli argomenti tradizionali: «Benedetto XV invocava una nuova epoca di collaborazione fra i popoli. Non fu ascoltato, anzi fu deriso e vituperato da tutti ... E oggi ecco che il nazionalismo ci ha regalato il mostriciattolo di Versailles e la cosiddetta Società della nazioni e il socialismo minaccia di regalarci non una ma una cinquantina di internazionali ... Guardiamo a Roma, impareremo ad amare la patria e nell’amore cristiano all’Italia porteremo il nostro contributo all’avvenire del mondo». Due anni dopo, nel 1924, il cattolico svizzero Joseph Muller evidenziò come «nessuna potenza terrena fosse in 118

grado meglio della Chiesa di lottare contro la guerra ... agendo con la sua superiore opera di ‘mediazione’». La Lega delle nazioni, che usava invece lo strumento dell’arbitrato, appariva incapace di intraprendere una vera azione di pacificazione. Gli anni successivi al primo conflitto mondiale portarono dunque fra i cattolici smarrimento e inquietudine, in particolare davanti ai risultati «ingiusti» del conflitto e allo spirito di revanche che nasceva fra i vinti spingendo verso nuove contrapposizioni. L’inquietudine della Chiesa cresceva soprattutto con il sospetto di essere stata messa in una situazione marginale, in contrasto al ricordo di un passato ben altrimenti «glorioso» e vantaggioso. È quanto accadde in occasione del progetto di uno Stato ebraico in Palestina, che – ammonì il papa nel discorso al Concistoro del 13 giugno 1921 – «potrebbe scalzare il Cristianesimo dalla posizione finora occupata». Si trattava di un fine che «molte persone perseguono con l’obbiettivo di spogliare i Luoghi Santi del loro carattere sacro trasformandoli in luoghi di piacere apportandovi le attrazioni delle feste mondane e tutte le attrattive della sensualità». Un anno dopo esce la prima enciclica di Pio XI, il papa che reggerà le sorti della Chiesa fino al 1939, cioè fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Nel testo, intitolato Ubi arcano Dei, troviamo una lucida analisi della situazione carica di pericoli venutasi a creare in Europa per il rancore dei vinti, le tensioni e le rivalità fra i vincitori e le enormi spese militari che dissanguano le nazioni. Il pontefice entra nel merito delle questioni aperte: «sarebbe op119

portuno rendere più facile ai vincitori l’adempimento dei loro impegni», scrive. E rileva che «la miglior garanzia della tranquillità non è una foresta di baionette ma la fiducia reciproca e l’amicizia». Aggiunge inoltre che «troppo a lungo ha trionfato il diritto della forza ... Presso la maggioranza l’odio nutrito durante i lunghi anni di guerra ha creato una seconda natura, il regno della legge cieca». Pio XI ritornerà insistentemente sul tema del pericolo nazionalista, sentito come un amore per la patria regolato dalla legge cristiana che può portare molte ingiustizie se diventa un «nazionalismo esagerato». Ancora nel 1926, proseguendo la linea del suo predecessore e distinguendo fra un «sano e giusto nazionalismo che è amor di patria dal nazionalismo esagerato», colpevole del conflitto, giungerà alla denuncia della politica dell’Action Française, che utilizzava il cattolicesimo per costruire una ideologia nazionalista estrema. Alla base di tutte le violenze e i conflitti sta, anche per Pio XI, l’abbandono della morale e dei princìpi cristiani, i cui segni sono per lui chiari: matrimonio civile, divorzio, insegnamento laico, lotta di classe, mancato rispetto del precetto domenicale. Una misura per riportare la pace potrebbe essere la Società delle Nazioni, già approvata anche da Benedetto XV. Inizialmente favorevole, Pio XI indica però molto presto la sua ostilità al progetto, giudicato pericoloso per la mancanza di spirito cristiano e per la presenza di liberali e massoni. Ritornava così ancora una volta l’idea della «Chiesa che detiene la verità e unica fra tutti ha la missione di dare agli spiriti la formazione dovuta». 120

La vera Società delle Nazioni – affermerà Pio XI – è la cristianità medievale, «l’istituzione capace di imporre a tutte le nazioni una sorta di codice internazionale»: in sostanza il progetto che stava a cuore seicento anni prima a Innocenzo II. Nell’aprile del 1935 Pio XI parlerà di «impossibilità morale di qualsiasi nuova guerra», ma ben presto le sue parole in difesa del conflitto fascista in Etiopia faranno cadere le speranze di quanti credevano di essere davanti a una decisiva svolta a favore della pace. Quella in Etiopia apparirà al pontefice «una guerra di difesa ... divenuta necessaria per l’espansione di un popolo (quello italiano) che aumenta di giorno in giorno». Insomma, una guerra necessaria perché «intrapresa per difendere e assicurare la sicurezza materiale del paese»: parole che provocarono perplessità fra non pochi credenti. Fra i cristiani sconfortati da questo tipo di atteggiamento vi era Ernesto Buonaiuti, che visse il periodo fra le due guerre mondiali con attenzione e angoscia. Diventato nel 1915 professore di Storia del cristianesimo all’Università di Roma, Buonaiuti dichiarò di assumere «l’incarico nella duplice veste di studioso e prete». Durante gli anni della Grande Guerra, su sollecitazione dell’amico Mario Missiroli, collaborò a giornali come «il Resto del Carlino» e «Il Tempo», e poi al «Mondo» di Giovanni Amendola. La posizione del pontefice Benedetto XV sul tema della guerra lo indusse a speranze: Mentre l’Europa – scrisse sulla «Nuova Antologia» – versa in una delle sue più travagliate crisi, crisi intellettuale, etica e politica, potrebbe suggerire il senso della maestosa tradizione cat121

tolica fuso con lucida intuizione delle nuove esigenze dello spirito umano suggerire al pontefice qualcuna di quelle luminose parole che sembrano destinate a segnare i sentieri dell’avvenire ... Mentre assistiamo con amarezza nel cuore all’inatteso rinnovarsi dei conflitti medievali fra latinità e germanesimo il papato espressione storica la più alta e poderosa dello spirito latino può assurgere, se sappia e se voglia, a una sublime funzione di moderatore e disciplinatore delle energie spirituali del mondo.

Più tardi Buonaiuti commentò così l’isolamento internazionale del papa, accusato da più parti di neutralità colpevole: «Per tutta la durata della guerra una sola voce non si è stancata, in mezzo al parossistico clamore degli odi internazionali, di definire la guerra per quello che essa fatalmente era, ‘una inutile carneficina’, e di pronunciare senza esitazione e preferenze la parola della equanimità, della carità e del perdono». Alla fine del primo conflitto mondiale, la Santa Sede non viene invitata al trattato di Versailles e viene esclusa dalla Società delle Nazioni. È l’occasione, per Buonaiuti, per sottolineare l’emarginazione della Chiesa nel contesto politico di quegli anni, ma anche il segno del suo colpevole ritardo nel cogliere la novità della situazione internazionale. Buonaiuti indica con lucidità il pericolo del risorgere di quello «spirito collettivo tedesco che chiamato con il suo vero nome è ... il cesarismo pagano contro cui si levò a rivendicare i diritti della coscienza il cristianesimo», avvertendo l’incipiente e tragica esaltazione dello Stato germanico. Nella sua Storia del cristianesimo – nella quale rintraccia ed esalta la singolarità del movimento cristiano nella Chiesa dei primi secoli e la pacifica convivenza delle comunità 122

descritte negli Atti degli Apostoli – egli rimprovera alla Chiesa del suo tempo la condiscendenza e il patteggiamento, che hanno sostituito l’annuncio puro e semplice dei princìpi evangelici di pace. Ancora una volta il modello della Chiesa degli Apostoli assume nei tempi difficili un ruolo notevole nelle scelte politiche e civili dei cristiani. L’analisi di Buonaiuti diventa ancora più critica e decisa negli anni Venti: «solo il cristianesimo dell’età eroica riuscì con il suo ideale di milizia inerme e del Regno ultraterreno a fiaccare la più poderosa organizzazione militare dell’antichità ... Dopo la conversione di Costantino un sinodo sanciva la scomunica contro i cristiani sottrattisi al servizio militare e l’apologetica del quarto secolo escogitava la teoria delle giuste guerre e di quelle ingiuste per legittimare il flagello che la vita strettamente e materialmente politica degli uomini porta inesorabilmente in sé». Uno dei modelli principali dell’antimilitarismo cristiano diventa per Buonaiuti Clemente di Alessandria, che mira alla «pace universale e perenne e si leva nettamente al di sopra degli interessi terreni la cui radice è l’egoismo ... Un pacifismo puramente politico che accetta i valori della vita pubblica corrente ... è un controsenso, un assurdo». La prospettiva teorica del Buonaiuti, scomunicato nel 1926, rimane sempre profondamente cristiana. Per lui il paganesimo non è scomparso, e anzi costituisce un ostacolo alla progettazione di un futuro di pace. Va da sé che il termine «paganesimo» ha qui un significato etico particolare: «Anche oggi in piena civiltà cristiana» – scrive Buonaiuti – «di pagani ne vediamo tanti intorno a noi. Sicché 123

anche oggi facendoci forti della parola di San Paolo noi possiamo ripetere che i cristiani si riconoscono nella speranza che si portano nel cuore. Chi non nutre speranza è pagano». L’essere cristiani è dunque una categoria non confessionale, ma pragmaticamente aperta agli uomini di buona volontà e, soprattutto, reca con sé l’impegno per una presenza nel mondo civile. Sono idee che confermano le premesse dei primi anni e che hanno il pregio di fornire una linea d’interpretazione, cristiana e aperta, per comprendere alcune delle ragioni profonde dei due conflitti mondiali vissuti dalla generazione del Buonaiuti: le due guerre, a distanza di più di vent’anni, non sono per lui che un solo lungo e terribile confronto militare. Nel 1926 Giuseppe Donati, direttore del «Popolo», prima di partire per Parigi in un esilio che lo salvò dagli attacchi fascisti, aveva scritto che non c’era assioma più pericoloso e anche più falso di quello predicato dal nazionalismo sulla «naturalità» della guerra, istinto che predominerebbe nella storia umana: «La verità è che la pace è un principio naturale e che la guerra invece è un atto volontario. La guerra si fa perché si vuol fare e la si prepara» (cit. da Bedeschi).

20.

Smarrimento

A cominciare dagli anni Trenta, nel pensiero cattolico italiano emerge sempre più frequentemente l’elogio del carattere provvidenziale della patria e si sottolinea che il vincolo della solidarietà internazionale e la volontà del disarmo non implicano necessariamente una rinuncia alle «doverose misure militari richieste dal problema attuale della difesa» (Cereti). Sul «Bollettino ufficiale dell’Azione cattolica italiana», anno 1931, si legge: «I cattolici italiani non si meravigliano quando i loro confratelli venendo a Roma fanno vibrare la nota del loro patriottismo e per gli stessi motivi quando varcano i confini d’Italia portano all’estero in alto la fiamma della loro nazionalità ... La Patria non si annienta nel concetto di universalità ... e ogni patria compie per i destini ultimi della civiltà umana una sua missione provvidenziale». 125

Ritornava così in primo piano l’idea (mai in realtà scomparsa) della Provvidenza come guida della storia umana, idea la cui più chiara e antica formulazione risale fino ad Agostino: un personaggio o un evento sono sempre significativi nel disegno generale divino. Sulla rivista «Vita e pensiero» si leggeva che «questa Italia era ricca di uomini e energie perché unita e guidata da un grande capo», un capo che era in grado di assicurare agli Italiani «il diritto a un posto al sole pari a quello di qualsiasi altro popolo»: Benito Mussolini. Dopo il Concordato del ’29, sulla stampa cattolica italiana prende a circolare una terminologia consonante a quella della stampa di regime, anche se la consonanza non significa totale coincidenza di intenti. Monsignor Bernardino Caselli, dell’agenzia di stampa cattolica «Fides», osserva con rammarico che il governo fascista «non aveva mai nutrito eccessivo entusiasmo per la Lega di Ginevra alla quale aveva rivolto solo amare ironie e malcelato disprezzo». Altri notano che la civiltà italiana è cristiana più di nome che di fatto, e questo anche se Mussolini parla di ringiovanimento dell’Europa: «perché l’Europa ritorni giovane occorre che ritorni veramente cristiana» (cit. da R. Moro). Che il clima fosse influenzato, e pesantemente, dal programma politico del regime fascista è però indubbio. I due conflitti del decennio, la guerra di Etiopia (1936) e quella di Spagna (1936-1939), ebbero nella percezione della maggioranza dei cattolici italiani una coloritura religiosa. La prima fu presentata e accettata come una «missione di civiltà cristiana» in una terra selvaggia: tanto che nel 1936, 126

per fare un solo esempio, i soldati inviati al fronte furono consacrati al Sacro Cuore. La seconda coincise con la «scoperta del comunismo le cui mire di conquista del mondo» non potevano essere tenute a bada solo dall’impegno cristiano. Come spiegava padre Agostino Gemelli (1917): «È vano negare l’efficacia di alcuni mezzi, alcuni legittimi e altri buoni che si mettono in opera per combattere il comunismo, la guerra economica, la guerra con le armi, la propaganda di idee». La cristianità era di nuovo minacciata come ai tempi di Lepanto? Per molti cattolici le cose stavano proprio così, e altri volevano far credere che stessero così. Gli europei erano chiamati di nuovo ad accettare la guerra, ma questa volta non più in nome della nazione bensì in nome della fede. La Società delle Nazioni era giudicata «oramai manifestatamene impotente»: l’aiuto concreto al cristianesimo poteva venire per molti soltanto da Roma fascista. Il giudizio sulla Società delle Nazioni si faceva di conseguenza in molti cattolici italiani sempre più duro e cinico. Ancora padre Gemelli scrisse su «Vita e pensiero» nel 1931 che «Ginevra non fu voluta come Società garante della giustizia e della collaborazione ma come garante del bottino fatto da due soli Stati (Francia e Inghilterra) ... che hanno scatenato nel 1914 la guerra che ha condotto al macello milioni di uomini ... Esse lo godranno indisturbate per anni e forse lo accresceranno ... Ma nessuno riflette che Benito Mussolini uomo di volontà ferrea ha comunicato alla nazione una inflessibile volontà di lottare come un sol uomo fino all’estremo». 127

Nel giro di pochi anni si assiste così a un completo rovesciamento di prospettiva. Con il senso di accerchiamento e il complesso della congiura, torna il pessimismo politico alla de Maistre, confortato anche dall’autorità di certe pagine del vecchio Agostino. «Pacifismo» ridiventa una parola ingiuriosa. Nel Vangelo, secondo questi cattolici, era scritto che la miseria umana, il conflitto e la competizione sarebbero stati vivi fino alla fine del mondo perché «Cristo non ha promesso ai suoi la pace in questo mondo» (cit. R. Moro). «Liberalismo ed ebraismo, bolscevismo e massoneria» – si legge nella rivista «Segni dei Tempi» nel 1938 – «hanno reso la Società delle nazioni una pessima cosa, una pestifera realtà ... e riempito Ginevra di iniquità e vergogna». Naturalmente in Europa molti cattolici e gli altri cristiani non condividevano queste idee. Si avvertiva anzi un disagio sempre più forte per la frattura evidente all’interno dello stesso cattolicesimo, e uno smarrimento sui fini da perseguire. Si proclamava la necessità di una riforma della Società internazionale, ma la direzione di questa riforma non era chiara. Ancora una volta, il cattolicesimo appariva condizionato dalla forza delle circostanze materiali, economiche e politiche, dagli interessi che dominavano la scena internazionale, dalla avvertita marginalità di alcuni popoli. La dimensione temporale, in una parola, aveva nuovamente preso il sopravvento, senza che la Chiesa fosse in grado di decidersi per una scelta coraggiosa e netta riconquistando il vero primato spirituale. Quando già la nuova guerra era vicina, nel 1938, nei mesi che precedettero la visita di Adolf Hitler in Italia, il 128

giovane Guido Gonella iniziò una polemica contro «coloro che hanno fatto dell’istinto bellico un motivo di retorica e di eccitazione del bellicismo vero». Gonella – che sarà in seguito uomo politico democristiano di primo piano e ministro dell’Istruzione in vari governi – faceva risalire questa ondata di «elogio della guerra» all’influenza della filosofia dei primi decenni del secolo, agli «antipacifisti tipo Nietzsche», denunciando l’assurdità logica ed etica di una posizione che a priori era per la guerra in sé e promuoveva quindi il primato della forza sul diritto. La polemica ebbe un lungo seguito, in un clima certamente non favorevole ai fautori della pace. A Gonella rispose Adriano Tilgher affermando che il pacifismo implicava la rinuncia ai «beni della terra» e l’uscita dei cristiani dal mondo politico e civile. Parole che ricordano le accuse lontane di Celso contro i primi cristiani. A favore della scelta di pace scrisse invece Rodolfo Bettazzi dell’Azione cattolica, il quale riportò il tema sul terreno decisamente religioso, lasciando però trasparire un pessimismo di fondo nella sua critica al bellicismo fascista allora in voga: «Quell’amore che si chiama carità attraversa oggi una grande crisi ... L’odio non dà vera forza». Comunque le prese di posizione per la pace e il rassegnato pessimismo sulle sue possibilità furono sommerse dal modello morale imperante, al quale avevano collaborato il regime fascista e la maggioranza dei cattolici italiani. «La fede in Cristo non è la fede degli imbelli ma in pace e in guerra la fede degli invitti», proclama la rivista cattolica «Gioventù italica». Mentre altri con linguaggio conformista e rozzo scrive: «Chi serve la patria? Il fanciullo che con la sua cartella va volonte129

roso a scuola, il contadino che guida il suo aratro, il professionista che compie con scrupolo il suo dovere, il soldato che porta con fierezza la sua divisa e affronta ogni sacrificio come i nostri fratelli in Africa». Il testo continua paragonando santi come Francesco d’Assisi (!) ai sacerdoti che «affiancavano le truppe fasciste contribuendo alla vittoria» (cit. da Testolini). Il pacifismo divenne l’obbiettivo da colpire anche in altre riviste cattoliche. Un altro esempio: «Non è vero, è eresia, affermare che il cristianesimo fallisce se non raggiunge la pacificazione politica del mondo. Dal Vangelo risulta invece che la miseria morale e materiale ci saranno fino alla fine del mondo ... la guerra stessa può divenire occasione di bene promuovendo atti virtuosi» (ivi). Alcuni, come il direttore dell’«Avvenire d’Italia» Raimondo Manzini, posero la domanda in questi termini: «Pensare a una pace perpetua degli uomini e all’avvento di un regime superiore è utopia? La pace è un mito?». La risposta mostrava di comprendere la guerra: «Di essa Dio si servirà come si serve del dolore e come dal male sa trarre il bene ... La guerra è un lavacro e una prova, pianto ma anche gloria». Manzini aggiungeva però che non bisognava abbandonarsi «all’ozio beato e vile di coloro che accettano la guerra senza discuterla in nome del peccato originale ... L’uomo è decaduto ma anche perfettibile»: una dichiarazione importante, perché tra le poche a contrastare il pessimismo cristiano tradizionale. La guerra, per Manzini come per don Sturzo, potrebbe essere abolita così come è stata abolita la schiavitù.

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Benedire i cannoni: le guerre di Etiopia e di Spagna

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incidente alla frontiera con l’Eritrea, nel 1935, è il pretesto di Mussolini per scatenare una guerra contro l’Etiopia difficilmente giustificabile con la dottrina della guerra di difesa. La Società delle Nazioni condanna l’Italia e impone sanzioni economiche. Cosa pensano i cattolici italiani di fronte all’evento? Cominciamo dal vertice, dal pontefice, che in un discorso dell’agosto dello stesso anno inizia con una generale condanna della guerra, ma passa poi alla sconcertante dichiarazione che darà luogo a opposte interpretazioni: «Noi non vogliamo credere a una guerra ingiusta ... non possiamo credere a questa possibilità e la scartiamo deliberatamente». Dopo questo wishful thinking Pio XI prosegue affermando che «il bisogno di espansione [degli italiani] è un fatto di cui bisogna tener conto». Come nella guerra per la 131

conquista dei territori indios nel Nuovo Mondo, il punto di vista che ha la preminenza è quello dell’invasore armato. La maggior parte della stampa cattolica agiva purtroppo in tal senso, e anche in modo peggiore. Un periodico dei missionari («Missioni Consolata», 1936) definiva il clero copto eretico e la religione copta un cristianesimo fiacco e superficiale, venale, fanatico e corrotto: accusa che doveva bastare a rendere legittima la guerra ritornando a quelle dottrine che confondono il potere spirituale con quello politico. «La Civiltà Cattolica», in una rassegna dedicata all’Etiopia religiosa, dichiarava che l’Etiopia rappresentava «l’esempio dell’imputridimento morale e intellettuale di un popolo staccato da Roma per lo scisma e l’eresia ... farisaico e ridotto a un mostruoso miscuglio». Gaetano Salvemini commentò amaramente testi del genere domandandosi se non erano forse la premessa necessaria ai bombardamenti degli aerei di Mussolini, che portavano la civiltà cattolica in quel misero paese. Come sintomo del clima generale si possono aggiungere le parole dell’omelia tenuta dal cardinale di Milano Ildefonso Schuster, che parlò in Duomo del «vessillo d’Italia che reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi e spiana così la strada ai missionari di Cristo». Insomma l’Italia stava compiendo, secondo molti vescovi e alti prelati, un’«operazione generosa», che avrebbe annullato la schiavitù e l’ignoranza e soprattutto «aperto le porte alla vera fede». A ben vedere, l’impresa fascista in Etiopia non era percepita, in questa prospettiva entusiasta, come una vera e 132

propria guerra. Guerra era piuttosto quella delle Società delle Nazioni, cioè dei paesi protestanti che con le sanzioni avevano condannato l’Italia. Quella mossa dal fascismo era la «conquista delle terre d’Africa al Vangelo», e in questo contesto non c’era nemmeno posto per una discussione e valutazione della sua legittimità. L’appiattimento dei cattolici italiani sulle tesi del fascismo, in quegli anni e in quell’occasione, fu impressionante. La ragione di fondo stava – come per Gregorio Magno più di tredici secoli prima – nell’adesione alla dottrina della dilatatio imperii Christi. La parola «crociata» torna negli stessi anni anche a proposito di un altro conflitto, la guerra civile spagnola. Fra le non molte voci cattoliche contrarie all’interpretazione religiosa del conflitto ci fu quella di don Luigi Sturzo, che lo giudicò una guerra sociale, cercando dal suo esilio londinese di «disimpegnare» la Chiesa di Roma: «lo spagnolo» – scrisse – «è cattolico a suo modo anche quando brucia le chiese». Nella sollevazione guidata dal generale Francisco Franco contro il legittimo governo repubblicano non sono rintracciabili, all’inizio della guerra, forti motivi religiosi. E neppure è subito chiaro l’appoggio della Chiesa spagnola, che risponderà solo più tardi con un deciso e militante schieramento alla violenta persecuzione anticlericale dei repubblicani. Basti ricordare che fino al 1938 la Santa Sede mantenne rapporti diplomatici con la repubblica spagnola e che anche più tardi nella curia romana rimarrà vivo un certo pluralismo di posizioni circa la valutazione 133

della rivolta: le une inclini a prevedere che il movimento franchista avrebbe avvantaggiato le posizioni della Chiesa perdute con la repubblica; le altre, minoritarie, che a cominciare dal 1937 temevano una evoluzione in senso fascista e nazista del costituendo governo spagnolo. Con la cautela tradizionale, è certo però che la curia di Roma appoggiò l’episcopato spagnolo schierato in grandissima maggioranza a fianco dei franchisti, e assecondò quella che sembrava un’ottima occasione per ricristianizzare la società e contrastare il «movimento comunista» almeno in Spagna. Il vescovo di Salamanca arrivò persino, piuttosto rozzamente, a identificare le due parti in lotta con le due città di sant’Agostino, dove la civitas diaboli era naturalmente quella dei comunisti. In un rapporto alla Santa Sede il cardinale primate Isidro Goma scrisse che «la guerra ha avuto assai più efficacia che un sistema di missioni per quanto riguarda la fede e la pietà cristiana», suggerendo così un parallelismo tra la vittoria della Spagna franchista e l’idea di Quaresima di purificazione e resurrezione di Cristo. Il termine cruzada non fu impiegato in modo esplicito da Roma, ma solo da alcuni vescovi spagnoli. Ma questo uso era di per sé già molto significativo perché, come ha scritto lo storico Alfonso Botti (Franzinelli, Bottoni 2005), «le guerre civili possono trovare una soluzione di compromesso, una crociata no». Nel caso della crociata il nemico deve alla fine sparire, cioè essere annientato o essere convertito. Era questo il destino riservato a los rojos. Anche se evidentemente la guerra di Spagna non fu nella 134

realtà dei fatti una crociata, è sicuramente grave che essa sia stata interpretata come tale da una larga parte dei cattolici spagnoli e italiani. Parte del clero spagnolo, com’è noto, partecipò anche direttamente alle operazioni belliche e aderì alla pratica diffusa degli avalos, i certificati di buona condotta (anticomunista) rilasciati dai parroci e necessari ai disoccupati per trovare lavoro. Vescovi zelanti invitavano i parroci ad essere più severi nel rilasciare questi certificati, «senza attenersi a considerazioni umane», spingendoli così al collaborazionismo e anche alla delazione. Non va dimenticato che non pochi sacerdoti e cattolici di primo piano, per lo più baschi, furono fucilati dai franchisti durante la cruenta repressione. La lista dei caduti è lunga e documentata, ma su di essa scese il silenzio anche da parte della Chiesa. La vittoria dei franchisti fu invece salutata con innegabile esultanza da Pio XII nell’aprile del 1939: I disegni della Provvidenza si sono manifestati ancora una volta sull’eroica Spagna. La nazione scelta da Dio come principale strumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica ha dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la prova più alta che sopra di tutto si pongono i valori eterni della religione e dello spirito.

Difficile non scorgere in queste parole l’eco sinistra dell’idea di guerra santa.

22.

La tragedia

Lo scenario che si apre nel settembre del 1939 con l’aggressione della Germania nazista alla Polonia appare subito immane e «diverso». Mai sessantuno Stati erano scesi in guerra sui due fronti. Mai tante nazioni cristiane si fronteggiavano nel mondo in lotta. La lacerazione era vasta e profonda. Più tardi, nel 1946, il pontefice Pio XII rivendicherà la sua prudenza: «Noi ci siamo guardati bene dal lasciarci sfuggire un solo segno di approvazione o incoraggiamento in favore della guerra intrapresa contro la Russia». E in effetti numerose furono durante il conflitto le sue dichiarazioni di carattere umanitario. Ma presto i suoi silenzi furono percepiti come altrettanto importanti delle parole. Per esempio: il silenzio a proposito della Polonia invasa e oppressa e le parole che denunciavano l’attacco russo alla Finlandia. No136

nostante l’avversione di papa Pacelli al comunismo tuttavia apparve subito evidente che la Chiesa non poteva identificarsi con nessuna delle due parti in lotta. Non così avvenne negli Stati belligeranti. In Francia, Henri-Philippe Pétain venne presentato da molti vescovi come il campione della cristianità. E Hinsley, il cardinale di Westminster, che come Winston Churchill considerava l’attacco di Hitler rivolto a tutta la cristianità, nel 1940 si mise a capo di un movimento per l’impegno cattolico più intenso e unitario in favore della guerra nella quale il paese era stato costretto ad entrare: suscitò le proteste dell’ambasciatore tedesco al Vaticano. Il teologo Karl Barth, che all’inizio del nazismo si dimostrava così sfiduciato sulla natura umana e si abbandonava a un pessimismo tanto tradizionale quanto esiziale, cambiò opinione con il drammatico progredire degli eventi. A un certo punto, la lotta al regime totalitario gli apparve indispensabile per preservare la libertà umana. Scrisse nel 1938 dopo gli accordi di Monaco: «nel mezzo del peccato e della vergogna in cui i popoli vivono permane per grazia di Dio un fondo di diritto e di libera umanità e un residuo di libertà fondata sulla parola del Vangelo. Dove governa Hitler rimane soltanto un barlume: dobbiamo dinnanzi a Dio e agli uomini assumerci la responsabilità di opporci alla minaccia hitleriana. La guerra è lo strumento per riuscire in questa opera». Il mondo dei cristiani protestanti era indubbiamente più orientato al pacifismo, ma non mancarono prese di posizione più tradizionaliste. Alla fine del conflitto, una de137

legazione protestante tedesca farà una forte autocritica per «non avere reso una testimonianza più coraggiosa e per non aver pregato con più fede». Ma torniamo a colui al quale si guardava come all’attore principale fra i cristiani, a Pio XII, «la cui l’autorità è tale non solo per i fedeli cattolici ma per tutti gli uomini», come scriveva «L’Osservatore Romano». La retorica del suo linguaggio – notava tra l’altro giustamente il giornale vaticano – appariva profondamente distante rispetto «alla vivacità e talvolta alla violenza del linguaggio in voga», qualità che facevano nel confronto apparire contorto, incerto e debole lo stile delle dichiarazioni papali. Nella sua prima enciclica, Summi pontificatus, Pio XII riprese subito un tema tradizionale e fondante della riflessione cattolica sulla guerra: «Le angustie del presente sono un’apologia del cristianesimo che non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna la cui efficacia supera ogni confutazione retorica». Il senso del pericolo che premeva, le violenze alle quali i cattolici erano stati sottoposti in Spagna e in Russia e la consueta diffidenza verso le «libertà moderne» sono tutti elementi che aiutano a capire il retroterra degli accordi concordatari stipulati dalla Chiesa con i totalitarismi di destra, fascismo e nazionalsocialismo. Fra le diffidenze nutrite dalla Chiesa vi era inoltre quella verso la rivendicazione dell’obbiezione di coscienza da parte di alcuni cristiani anche appartenenti al clero. Essa contrastava con il principio paolino «omnis potestas est a Deo» e poteva scardina138

re l’autorità di Cesare. La Chiesa ribadiva invece che ogni cristiano aveva il dovere di prestare servizio con le armi quando una guerra intrapresa dal suo Stato era dichiarata giusta. Aspetto rilevantissimo, il giudizio sulla giustizia della guerra non poteva essere lasciato al pensiero del singolo. «L’Église ne saurait approuver les objections de conscience qui tendent à provoquer la désobéissance aux lois ... Un individu ne saurait être un juge compétant [sic]»: così si esprimeva il comitato episcopale dell’Action catholique. Sempre più, tuttavia, il ruolo del pontefice tendeva a farsi «magistrale» e paterno, con espressioni che davano il segno di una crescente lontananza dai fatti concreti e terribili che accadevano: «Nell’adempimento del Nostro dovere non Ci lasceremo influenzare da terrene considerazioni né ce ne tratterremo per diffidenze e contrasti né per timore di misconoscimenti e false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da quella paterna carità che mentre soffre per i mali che travagliano i figli indica loro il rimedio sforzandoci di imitare il divino modello dei Pastori» (cit. da Giordani). Sono parole che non si discostano molto da quelle pronunciate in tempi passati da altri papi o vescovi, ma non si possono considerare equivalenti, perché l’enorme e inedito scenario della guerra e la novità terribile delle armi offensive e delle persecuzioni di massa rendevano il contesto in cui venivano pronunciate assai diverso, e avrebbero richiesto una impostazione più forte e chiara. Erano parole giudicate da molti cattolici inadeguate. «Le espressioni di compatimento e di deplorazione» – ha scritto lo storico Giovanni Miccoli (Franzi139

nelli, Bottoni 2005) – «suggerivano piuttosto una colpa collettiva che trovava nella guerra il suo castigo e nell’abbandono degli insegnamenti della Chiesa ... la sua ragione di fondo». Il riserbo e le reticenze del papa sollevarono perplessità e rimostranze anche nelle alte sfere del clero. Vanno ricordate le parole di monsignor Pietro Respighi, che nel 1943 chiedeva una parola più forte in difesa dell’umanità perseguitata, o quelle dell’arcivescovo di Ferrara monsignor Ruggero Bovelli, che si pronunciò per un intervento in difesa dei «non ariani». Come del resto fece Konrad von Preysing, vescovo a Berlino. Pio XII stesso era consapevole del rischio che il suo atteggiamento e le sue parole correvano. Nel 1941 chiese a monsignor Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, allora Nunzio Apostolico in Turchia, se «il suo silenzio circa il contegno del nazismo è giudicato male». Il silenzio di papa Pacelli costituisce un dramma e un enigma all’interno della tragedia della seconda guerra mondiale. Allo stato attuale delle conoscenze documentarie, l’analisi migliore e più equilibrata di questo silenzio è senza dubbio quella fornita da Giovanni Miccoli, che ne individua e ne mette in rilievo le diverse motivazioni, e in primo luogo l’esplicita volontà di evitare mali maggiori, volontà sempre presente ed espressa dallo stesso pontefice (come nella circostanza delle «orribili cose che accadono in Polonia»). Questo timore era fondato anche sul desiderio di tutelare i cattolici tedeschi: «Siamo ben consapevoli» – scrisse infatti Pio XII nel 1940 al cardinale tedesco 140

Adolf Bertram – «delle angustie della situazione in cui vivete tanto che nel nostro procedere rispetto alle contrapposizioni belliche di nessuno abbiamo tenuto conto quanto del popolo tedesco». D’altra parte il silenzio voleva essere anche un chiaro segno dell’imparzialità della Chiesa nel conflitto, imparzialità che a sua volta diventava messaggio di unità di fronte alle lacerazioni del cattolicesimo nel passato recente e nelle vicende contemporanee. In questo caso tacere avrebbe salvaguardato, si sperava, il ruolo di mediazione della Chiesa alla fine della guerra. Altra ragione indubitabile del silenzio fu la paura che il comunismo sovietico potesse prevalere ed espandersi con la vittoria sulla Germania. Questo è uno dei motivi per così dire meno «nobili» che spinsero il papa a tacere, paralizzandolo di fronte alle non poche richieste di parlare con voce chiara e di denunciare i crimini e i genocidi commessi dal nazismo. Ma, come ha scritto ancora Miccoli, «la condizione degli ebrei europei non figurava, impossibile negarlo, tra le preoccupazioni primarie della Chiesa». Prevalente sulle altre motivazioni del silenzio vi era, forse, un senso realistico di desolante impotenza. Come altri pontefici dell’Ottocento e del Novecento, Pio XII riteneva di non avere opportunità concrete per interventi internazionali. Egli non era e non si sentiva più a capo di una cristianità «giuridica» e temporale. In questo paradossalmente era d’accordo con il suo avversario Stalin, che chiedeva con miope sarcasmo di quante divisioni disponesse il papa di Roma. Oggi si può affermare che entram141

bi, nelle loro dichiarazioni, non sono stati lungimiranti (ma forse per il papa questo – è mia opinione – è cosa più grave che per Stalin). A un livello inferiore le parole del pontefice dicevano cose meno rilevanti e più tradizionali, e probabilmente anche più dannose. Pio XII giudicava doverosa l’obbedienza alle autorità civili costituite e apprezzava il «fortissimo amor di patria» e la disponibilità al sacrificio estremo dei combattenti. Alcuni vescovi si spingevano più in là: riprendendo le posizioni ottocentesche, si dicevano sicuri che i fedeli che combattevano per la patria non solo compivano il loro dovere civile, ma anche quello prescritto da Dio, con effetti meritori. La bomba sganciata dagli americani a Hiroshima non sollevò, almeno in un primo tempo, una reazione di rilievo nella Chiesa. Ricordo con commozione un incontro con padre Pedro Arrupe, che era presente nel ’45 in Giappone e che più tardi sarebbe diventato generale dei gesuiti. A distanza di quindici anni, Arrupe testimoniava l’orrore incredulo di quel giorno e si meravigliava che molti nel mondo non si fossero resi allora pienamente conto della novità irreparabile di quel dramma sconvolgente. La sproporzione fra gli strumenti offensivi e lo scopo di una guerra che si pretendeva «giusta» solo lentamente provocò fra i cristiani un ripensamento della tradizionale teologia della guerra. Una guerra così – una guerra ABC (atomica, batteriologica e chimica) – poteva ancora essere considerata uno strumento di giustizia? Anche se i più rimanevano inerti, molti fra i cattolici se lo domandarono e 142

si interrogarono se i principi classici avessero ancora validità in quelle condizioni. I mezzi sono ancora proporzionati al fine a cui si tende? Il risultato dato per scontato non era forse superiore al costo economico, politico e soprattutto umano? Nel giorno di Natale del 1955 Pio XII dichiarò che solo in casi estremamente gravi e «con limiti chiari e rigidi al suo impiego e in conseguenza di un delitto straordinario» si poteva ricorrere all’arma atomica. Fra i cristiani le proteste per questa dichiarazione furono molte. Il cardinale polacco Choromanski scrisse che «le armi di distruzione di massa devono essere assolutamente interdette dal diritto internazionale così come sono state condannate dalla legge morale» (cit. da Minois). Il cardinale di Colonia Frings propose di mettere fuorilegge la guerra atomica. Nel Concilio Vaticano II la costituzione Gaudium et spes – «facendo proprie le condanne della guerra totale degli ultimi pontefici» – dichiarerà che «ogni azione che tende indistintamente alla distruzione di città intere e di ampie regioni con i loro abitanti è un crimine contro Dio e deve essere condannata fermamente e senza esitazione». Solo molto più tardi, nel 1991, si potrà leggere nel Catechismo per gli adulti che «L’incapacità pratica di limitare gli effetti di un conflitto nucleare o chimico rende la moralità dello scatenamento di una guerra molto problematica (!) da un punto di vista etico». Tornando a Pio XII, colpito e preoccupato nel dopoguerra soprattutto dall’ampliamento del regime comunista nell’Europa dell’est, egli non operò una svolta sostanziale 143

nel suo giudizio sulle condizioni di «necessità della guerra». Ancora nel 1956, dopo i fatti di Ungheria, dichiarò ad esempio di aver «evitato di chiamare la cristianità a una crociata», ma che di fronte a una guerra ingiustamente mossa contro di loro gli uomini potessero sentirsi chiamati a mobilitarsi contro gli «odiatori di Dio», dal momento che «la religione è un vivo retaggio degli antenati». «Odiatori di Dio» si trovavano, a suo parere, soprattutto tra le «pur così brave masse operaie», le quali cooperando con i nemici della religione «peggioravano il caos del mondo moderno». Dopo l’arrivo dei carri armati a Budapest, criticando il pacifismo dei giovani tedeschi, Pio XII dichiarò che se una rappresentanza popolare e un governo eletto con libero suffragio in estremo bisogno con i legittimi mezzi della politica stabiliscono provvedimenti di difesa ... essi si comportano in maniera non immorale di guisa che un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare i servizi e adempiere ai doveri fissati per legge.

La guerra giusta, idea che era sembrata entrare in crisi molte volte nel pensiero cristiano a cominciare dalle prime guerre fra i sovrani cristiani d’Europa, rimase dunque al centro della dottrina papale, indicata come legittima «quando i beni supremi della umana convivenza erano minacciati da una ingiusta aggressione». Solo la guerra ingiusta doveva essere bandita: rifiutare lo strumento della guerra in base agli orrori, alle crudeltà e alle distruzioni che esso genera, era – per Pio XII – «un sentimento d’impronta eudemonistica e utilitaria di origine materialista» (Natale del 1948). Queste ultime dichiarazioni ci danno la misura della distanza dall’atteggiamento verso la guerra oggi lar144

gamente condiviso e prevalente fra i cattolici come fra i non credenti. Anche i vescovi non uscivano dallo schema tradizionale. Il 14 ottobre 1960, in occasione della guerra in Algeria, l’episcopato francese si oppose ufficialmente alla rivendicazione della libertà di coscienza o obbiezione, vista come una azione sovversiva contro la solidarietà nazionale e l’amore di patria, e giudicata un atto anarchico contrario alle decisioni della legittima autorità. L’unico modo di eliminare la guerra dall’orizzonte della storia umana restava così, secondo il pontefice, l’invocato ricorso al «supremo e perfetto ordine cristiano». Solo in questo modo «l’umanità ... vedrà ben presto dileguarsi anche le possibilità della stessa guerra giusta che non avrà più ragion d’essere». È necessario ricordare che l’invocato ordine cristiano era già stato presente per secoli nella storia europea e non aveva garantito la pace fra i popoli, neppure fra i popoli cristiani? Inoltre, il riconoscimento della democrazia – estranea in sé al contesto e all’idea dell’«ordine cristiano» – rimaneva in questa prospettiva del tutto secondario. Quanto poi alla pace con i popoli non cristiani (gli «infedeli» della tradizione) è significativo che proprio nel 1956, l’anno di Budapest invasa dai comunisti, Pio XII abbia beatificato Innocenzo XI, promotore nel XVII secolo della lega contro i Turchi. Non era certo assente dall’attenzione del pontefice il momento presente, che gli appariva segnato come allora «da un urgente bisogno di spirituale rinascita e da immani e comuni pericoli». 145

«Non ci lasceremo influenzare da terrene circostanze», aveva dichiarato Pio XII: ma paradossalmente era proprio la considerazione dell’orizzonte temporale e delle circostanze concrete a chiudere le parole e l’agire del pontefice in un cerchio paralizzante e in una impotenza consapevole, a volte esplicitamente dichiarata.

23.

I cristiani per la pace

Nello stesso periodo in cui i pontefici e i vertici della Chiesa romana mostravano nei confronti della guerra atteggiamenti ambigui e perfino accondiscendenti, crescevano in Europa il peso e l’influenza dei movimenti cristiani per la pace. Questi presentavano varie sfumature, dall’esame più rigoroso delle cause della guerra giusta fino a posizioni che si esprimevano con forza contro ogni servizio militare e quindi a favore anche dell’obbiezione di coscienza. La loro influenza non fu diretta e immediata, e tuttavia essi crearono un contesto più ampio e più favorevole, anzi indispensabile, a un cambiamento anche nell’atteggiamento dell’alta gerarchia della Chiesa, estendendosi in modo trasversale. Da medievista, chi scrive ricorda l’incontro avuto con il grande benedettino e studioso del pensiero medievale 147

M. Dominique Chenu, il quale riteneva «ripugnante» il tentativo di integrare la guerra nel disegno divino secondo il modello di de Maistre. Nel 1958 Chenu aveva scritto: «L’impegno stesso di proporre una teologia della guerra ossia di iscrivere la guerra nella parola di Dio sul mondo, all’interno della legge evangelica dell’amore, è un paradosso non attenuato dalla esistenza del peccato originale e della colpa collettiva. Il discepolo di Cristo può davvero ritenere di avere in determinate circostanze il dovere di fare la guerra? Questa violenza collettiva nutrita dall’odio e dall’avidità può essere capovolta in atto meritorio?». Nel mondo protestante, pochi anni dopo, Jacques Ellul affermò che «non esisteva nessuna guerra santa: l’accostamento di queste due parole è mostruoso ... E quando si considera la follia delle crociate per ‘liberare i Luoghi Santi’ e ancora l’orrore di alcuni ordini religiosi e militari, per esempio le devastazioni compiute dai cavalieri teutonici, come si può immaginare che tutto ciò riveli al mondo che il dio da loro invocato sia il Dio di Gesù Cristo e il padre di tutti noi? ... Quando si crede in Dio si esclude ogni violenza, costrizione, dominio e conquista ... Quando faccio affermazioni così nette mi riferisco alla rivelazione di Dio Padre e Amore». In entrambi i testi, e in altri simili, ciò che guida il rifiuto della guerra è una argomentazione religiosa: il riferimento è non solo al comandamento biblico di non uccidere, ma alla legge evangelica, che l’istituzione ecclesiastica nei secoli aveva dimenticato, annullato o contraddetto nei fatti. Più complessa la posizione del cardinale Giacomo Lercaro, che fu arcivescovo di Bologna dal 1952 al 1968. Le 148

motivazioni della sua azione per la pace rientrano infatti nel suo ruolo, che egli aveva sempre avvertito soprattutto come pastorale e sociale. Le sue dichiarazioni più chiare e più forti furono pronunciate in occasione della giornata mondiale della pace indetta da papa Montini per il primo gennaio 1968. Fra le posizioni del pontefice e quelle del cardinale bolognese correva, come è già stato notato, una sensibile differenza. Si tratta della presenza, rivendicata da Lercaro, della dimensione «profetica» della Chiesa nella storia, un aspetto dell’analisi teologica che egli condivideva con Giuseppe Dossetti, a lui vicinissimo in quegli anni. Al contrario, Paolo VI proponeva una linea di neutralità e di mediazione fra i contendenti nella guerra del Vietnam, invitando «i due belligeranti a dare un segno di seria volontà di pace»: una linea quindi, da parte di Montini, ancora politica, diplomatica e «temporale». Per Lercaro, invece, «la Chiesa non può essere neutrale di fronte al male da qualunque parte venga perché la sua via non è quella della neutralità ma della profezia ... È meglio rischiare la critica immediata di alcuni che valutano imprudente ogni atto conforme al Vangelo piuttosto che essere alla fine rimproverati da tutti per non aver saputo contribuire, quando c’era il tempo di farlo, ad evitare le decisioni più tragiche e almeno a illuminare le coscienze con la luce della Parola di Dio» (Lercaro 1991). Era chiaro il riferimento alle critiche rivolte nel passato dai cristiani – appartenenti a nazioni nemiche fra loro – ai pontefici Benedetto XV e Pio XII, per la loro dichiarata neutralità o il loro silenzio. Ma nel mondo cattolico la voce più chiara e appassionata a favore della pace fu senza dubbio quella di don Lo149

renzo Milani, il parroco di Barbiana autore della celebre Lettera a una professoressa. Nel 1965, dopo aver letto agli allievi della sua piccola scuola una lettera su «La Nazione» scritta da venti cappellani militari, i quali definivano l’obbiezione di coscienza «un insulto alla patria e ai caduti», don Milani rispose con una lettera dettata «dal dovere di dire cose che altri non dicono» (Milani 1965). I cappellani sostenevano di fondare le loro affermazioni sulle parole del Vangelo: l’obbiezione era secondo loro un atto vile e contrario all’amore. La risposta di don Milani si articolava sulla base di vari princìpi. La guerra, come aveva sostenuto già nel 1962, nelle presenti condizioni non poteva più essere «giusta» (giudizio che del resto don Milani condivideva con il cardinale Alfredo Ottaviani). Il biblico «non uccidere», proclamato anche da Giorgio La Pira, rimaneva il principio evangelico di assoluto valore per i cristiani, al contrario di quel che pensavano Manzini dell’«Osservatore Romano» e il cardinale di Firenze Ermenegildo Florit. Quindi, nel caso di una guerra totale i cattolici non avevano solo il diritto ma il dovere di rifiutare di prestare il servizio militare. Erano princìpi, quelli evocati da don Milani, sostenuti anche da altri credenti fiorentini, come padre Ernesto Balducci e come Giuseppe Gozzini, membro dell’Azione cattolica e obbiettore di coscienza, condannati entrambi dal tribunale di Stato. A Firenze i dibattiti sul tema della guerra e del disarmo, pieni di polemica e di contrasti, dividevano il mondo cattolico. Ma cos’era la patria per don Milani? L’analisi delle guerre combattute dall’Italia negli ultimi cento anni portava il maestro di Barbiana a giudicare che «molte volte il 150

nome patria è stato usato malamente». Il Vangelo insegna la non violenza, e la Costituzione italiana conferma il principio cristiano ripudiando la guerra come «strumento di offesa agli altri popoli». I cappellani militari che avevano educato i soldati all’obbedienza cieca e acritica erano così venuti meno al loro dovere di sacerdoti, sosteneva don Milani. Per lui «non c’è nessuna distinzione tra coloro che portano la armi di distruzione e coloro che prestano servizio nella Croce Rossa»: entrambi partecipano alla guerra, «entrambi sono colpevoli del crimine di guerra». Nel mondo etico-religioso, rimaneva centrale per don Milani la coscienza individuale, alla quale veniva rivendicata la piena capacità e libertà del giudizio morale, in modo opposto al punto di vista delle gerarchie episcopali (il cardinale Florit, per esempio). Queste negavano al singolo cittadino «la competenza sui molteplici aspetti relativi alla moralità e alla giustizia degli ordini ricevuti». Il no alla guerra si univa così a un forte impegno sociale e alla lotta a favore dei poveri e degli emarginati. Condannando la guerra contro «l’infelice popolo spagnolo» – appoggiata da cappellani militari che «hanno condotto la Patria allo sfacelo e ... disonorato la Chiesa» – Milani approfondiva l’analisi dell’idea di «patria dei ricchi», che mirava «al blocco dei salari e non dei prezzi, all’abolizione dello sciopero, del sindacato e di ogni libertà religiosa e civile». La legge italiana avrebbe riconosciuto l’obbiezione di coscienza nel 1972, sei anni dopo la condanna di don Milani e pochi mesi dopo la sua morte.

24.

Per gli uomini di buona volontà

Non fu dunque un fulmine a ciel sereno, nel 1963, l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, né peraltro una svolta da cui non fosse più possibile tornare indietro. Ma senza dubbio rappresentò un momento importante nella storia del pensiero cristiano e una grande speranza per i credenti e per gli «uomini di buona volontà». Il contenuto dell’enciclica non rappresentava una novità totale, anche se non si può essere d’accordo con il cardinale Feltin, secondo il quale essa «non solo non aggiungeva nulla ma diceva persino molto meno di quanto aveva detto Pio XII». Ricordiamo che Maurice Feltin era il presidente del movimento Pax Christi: un movimento fondato a Londra alla fine della seconda guerra mondiale, ben presto sospetto agli occhi della gerarchia ecclesiastica, 152

che mise in guardia i credenti dal pericolo di un suo possibile rapporto con altri movimenti per la pace ispirati da Mosca. Non si doveva lasciare – pensavano gli ecclesiastici istituzionali – a un movimento non istituzionale e ai laici «senza competenza dottrinale» un impegno, quello per la pace, così importante. La distinzione tra chierici e laici, così antica, rimaneva infatti tenace e produceva ancora esiti negativi. Le dichiarazioni contenute nella Pacem in terris, che commossero ed entusiasmarono anche molti non credenti, furono un punto d’arrivo al quale papa Roncalli giunse dopo un lungo cammino. Egli non fu solo, infatti, il «papa buono», ma anche un grande intellettuale cristiano che mise a frutto una vasta esperienza diplomatica. Fin dal 1925, per esempio, Roncalli, Nunzio in Bulgaria, aveva costruito un rapporto fraterno con il mondo ortodosso; e più tardi, dal 1934 al 1944, a Istanbul, ancora in missione diplomatica, aveva approfondito il colloquio non solo con i cristiani d’Oriente ma anche con il mondo islamico e con quello ebraico. In quegli anni, è vero, il futuro Giovanni XXIII aveva espresso la sua adesione, pur se moderata, ad alcuni aspetti della cultura politica egemone, ad esempio dichiarando provvidenziale il Concordato della Chiesa con lo Stato fascista, considerando Mussolini ammirevole in talune sue iniziative e giudicando comprensibili le ragioni della guerra italiana in Etiopia. Ma lasciando la Bulgaria per la sede di Parigi egli si dichiarò senza mezzi termini «al di fuori delle competenze di carattere politico, al di sopra degli in153

teressi terreni», e al contrario preoccupato e teso a contribuire alla «costruzione della pace scopo primario della cristianità», che avvertiva di nuovo in pericolo. Nunzio a Parigi nel secondo dopoguerra, Roncalli conferma la sua avversione al comunismo ma anche il rifiuto di una linea intransigente ispirata all’idea di crociata. Nei suoi primi messaggi ai fedeli da pontefice, egli propone in primo piano, a proposito di guerra e pace, idee come «verità», «giustizia», «carità». Soprattutto il primo termine diventa via via metodologicamente centrale, ad esempio quando presenta il Concilio Vaticano II come «produttore di pace» e come «incontro che esalterà nelle forme più sacre e solenni le applicazioni più profonde della fraternità». In tal modo, secondo Giovanni XXIII, «la città terrestre si comporrà a somiglianza di quella celeste». Quest’ultimo punto segnava un importante distacco concettuale dal passato, se ricordiamo che l’opposizione delle due città di Agostino e la connotazione storica e negativa della città terrena non solo erano state sovente alla base del pessimismo politico cristiano, ma avevano costituito lo spunto per «identificare» e condannare il profilo del nemico. Nel 1962, un anno prima della Pacem in terris, in un clima internazionale allarmante, Roncalli si rivolge ai «Capi di Stato perché facciano tutto quanto è in loro potere per salvare la pace ... Continuino a trattare. Questa disposizione leale e aperta ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno e in faccia alla storia». Come si vede, l’orizzonte si apre molto presto a un’etica laica, aliena da ogni impronta confessionale. E quell’esortazione, ascoltata da Kennedy e Kruscev, «certo incise sulla risolu154

zione della crisi anche se non è facile dire in che misura» (Martini). La reciproca fiducia fra le parti e la «buona volontà» nel cercare una soluzione sono idee presenti, anzi predominanti, nella Pacem in terris. Fiducia e buona volontà sono strumenti della ragione umana per arrivare alla pace, impresa dell’uomo e meta alla sua portata più che dono del cielo in risposta alla preghiera. È in questo senso che l’enciclica di Giovanni XXIII, rivolta oltre il confine dei credenti, intendeva raggiungere con intenti propositivi tutti gli «uomini di buona volontà ... anche quelli non illuminati dalla fede in Gesù Cristo nei quali però è presente la luce della ragione ed è pure presente ed operante l’onestà naturale». Era questa la base individuata «per edificare la pace ... che interessa tutti gli uomini indistintamente». L’idea centrale era data da una prospettiva per così dire quasi laica: quella «lettura dei segni dei tempi» che portava con sé il riconoscimento del valore della storia del mondo, abbandonando o meglio correggendo i giudizi negativi sulla modernità che erano stati propri dei pontefici degli ultimi cento anni, a favore di una visione più positiva. Difficile non essere d’accordo con chi ha affermato la presenza di un tono «messianico» condensato nell’annuncio dell’arrivo del «Principe della pace», il cui vicario è il pontefice. Tuttavia il disegno provvidenziale, più che dettare dall’alto e dall’esterno l’ordine e la sequenza degli avvenimenti della storia degli uomini, veniva letto come trama e senso all’interno dell’operare umano nel tempo. Indicativa fu la reazione di molti intellettuali laici, come Guido Calogero, per il quale la Pacem in terris era «un di155

scorso fatto da un uomo ad altri uomini anzi alla totalità degli uomini per esortarli a riconoscere e seguire certi principi nella loro attività etica e politica in seno alla convivenza». Calogero osservava che al Dio cristiano «non è dato alcun nome che lo distingua dagli altri dei: qualsiasi religione potrebbe dargli quello del suo dio a condizione che esso rinunciasse a presentarsi come diverso da quello delle altre religioni secondo una rinuncia che non è mai esplicita ma che di fatto è sempre osservata da un capo all’altro». Insomma l’enciclica proponeva, agli occhi di laici come Calogero, una dottrina universale di pace fondata sulla dichiarazione dei diritti e sull’aspirazione dell’uomo a convivere senza conflitti superando le differenze ideologiche e religiose. Erano probabilmente, quelle di Calogero, parole che andavano al di là dei significati propri dell’enciclica, che restava un testo profondamente religioso e cattolico. Più che una lettura rigorosa del testo di Giovanni XXIII, esse rappresentavano piuttosto un intelligente e generoso wishful thinking. Eppure ne mostravano un aspetto rilevantissimo: la capacità straordinaria di Roncalli di comunicare con il mondo non cattolico da un punto di vista non solo umano ma anche culturale. Anche padre Ernesto Balducci, d’accordo con Giorgio La Pira, sottolineò l’importanza «della caratteristica formale dell’enciclica», fondata sulla universalità del suo linguaggio, che pur non rinunciando alle premesse sovrannaturali da cui parte la ragione cristiana «si apriva al contesto della ragione naturale e alla esperienza della storia». Balducci aggiungeva che l’enciclica giustificava se stessa attraverso la 156

dottrina dei «segni dei tempi e ... la propria sconcertante novità perché tutte le cose dette hanno il loro proprio tempo». Anche la Chiesa cattolica apparteneva dunque al movimento della storia: essa doveva quindi abbandonare la sua chiusura nei confronti di posizioni sociali e filosofiche esterne, per aprirsi a un confronto e a un dialogo che non poteva che essere giudicato utile e positivo. La novità forse più grande della Pacem in terris, in breve, stava nella «ricerca di un contatto il più possibile diretto con gli uomini di buona volontà» (Martini): una ricerca tipica di un temperamento singolarmente felice e di una condotta pastorale generosa e coerente. Un nuovo linguaggio e una nuova retorica davano vita a una forma di comunicazione inedita nell’ambito ecclesiastico, che sarebbe stata ripresa più tardi solo da papa Giovanni Paolo II. Alcuni hanno infine sottolineato, giustamente, la distanza che separa l’enciclica di Giovanni XXIII dalla Pascendi di Pio X, contro il modernismo (1907), e dalla Humani generis, con cui Pio XII aveva condannato la Nouvelle Théologie (1950). Solamente tredici anni separano quest’ultima dalla Pacem in terris. Gli appartenenti al movimento della nuova teologia non avevano quindi torto ad affermare che «coloro che erano stati messi fuori dalla finestra con la condanna della nuova teologia erano trionfalmente rientrati dalla porta del Vaticano II» (cit. da Barbaini). La distanza dalle encicliche di Pio XII, in realtà, appare palese fin dalle prime battute dell’Introduzione, dove si afferma che «i progressi delle scienze e le invenzioni della tecnica attestano come negli esseri e nel157

le forze che compongono l’universo regni un ordine stupendo». Ma quali sono, dopo cinquant’anni, le parole dell’enciclica più vive e più congeniali al nostro momento storico, quelle che indicano i temi sui quali ancora si discute? Risponderei: la dichiarazione del diritto al lavoro e a «condizioni di lavoro» degne della natura umana; l’affermazione del diritto di emigrazione («per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica nulla perde di contenuto l’appartenenza in qualità di membri alla stessa famiglia umana e ... alla comunità mondiale»); infine l’idea dei «segni» della modernità. Questa nostra età, secondo Roncalli, è infatti segnata da tre fenomeni, tutti sottolineati nella loro straordinaria positività: «innanzitutto l’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici ... in secondo luogo l’ingresso della donna nella vita pubblica ... Infine la famiglia umana presenta una configurazione sociale-politica profondamente trasformata. Non più popoli dominatori e popoli dominati». Quanto ai rapporti dei cattolici con i non cattolici, Giovanni XXIII scriveva: «Può verificarsi che un avvicinamento o un incontro ieri ritenuto non opportuno o non fecondo oggi invece lo sia o lo possa divenire domani». Il compito «di attuare la vera pace è immenso», concludeva il pontefice, ma spetta indistintamente a tutti gli uomini che vivono sulla terra.

25.

La guerra è contraria alla ragione

Si vorrebbe che non fosse mai più negata l’affermazione presente nel paragrafo 667 della Pacem in terris, circa l’irrazionalità della guerra nell’età atomica (bellum alienum a ratione): nelle presenti temibili condizioni non si può più discutere di guerra giusta, ossia di guerra che ripari con giustizia offese e torti. L’alienum a ratione del testo latino, come è noto, si indebolisce quando è tradotto nell’espressione italiana «riesce quasi impossibile pensare...». Altri paragrafi (il 652 e il 654) ammoniscono che «giustizia, saggezza e umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti e si riducano simultaneamente e reciprocamente quelli già esistenti ... Riteniamo che si tratti di un obbiettivo che può essere conseguito giacché esso è reclamato dalla retta ragione». Ricordiamo tuttavia che «La Civiltà Cattolica», commentando 159

nell’aprile 1965 le discussioni del Concilio, condannò «l’edonismo rinunciatario» delle dottrine pacifiste e si disse sicura che queste non erano state approvate dall’insegnamento pontificio. Paolo VI diventa papa nel giugno del 1963 e porta a conclusione il Concilio Vaticano II. Quattro anni dopo, nell’enciclica Populorum progressio dichiara: «Sviluppo è il nuovo nome della pace». Tra le principali cause della guerra, papa Montini indicava con decisione la situazione di miseria delle masse del Terzo Mondo: fu lui a promuovere una commissione dedicata proprio allo sviluppo dei paesi più poveri. Nella stessa enciclica il pontefice si pronuncia a favore della posizione di «alcune nazioni dove il servizio militare può essere scambiato in parte con un servizio civile puro e semplice». È quasi certamente la prima volta che un pontefice si pronuncia in modo positivo, o almeno non negativo, a proposito della obbiezione di coscienza. Toni drammatici e autentici, certamente non retorici nel senso tradizionale del termine, caratterizzano molti discorsi sulla pace tenuti da Paolo VI nei suoi numerosi viaggi. Famoso il grido alzato all’Onu nel 1965: «mai più guerre». Le guerre, avrebbe ribadito nel 1973 a proposito della guerra del Vietnam, rappresentano «la fine di ogni civiltà». Nella terza giornata mondiale della pace, da lui promossa nel ’68, Montini riprese anche una tesi cara a don Sturzo, quando affermò che «come la civiltà è riuscita a bandire in linea di principio la schiavitù, l’analfabetismo, le caste sociali, così bisogna riuscire a bandire la guerra». 160

Il conflitto del Vietnam fu tuttavia per Paolo VI una grande prova: non si può negare che la Chiesa di Roma fosse allora condizionata dall’atteggiamento filoamericano della Chiesa del Vietnam del sud e da quello anticomunista dei vescovi degli Stati Uniti, fra i quali il più bellicista era il cardinale Francis Spellman. A tutto questo bisogna aggiungere il timore che il comunismo del nord prevalesse sulla minoranza cattolica del Vietnam del sud. Furono questo timore e alcune esitazioni a contribuire nel 1965 al fallimento della missione La Pira-Fanfani, progetto non sostenuto efficacemente dalla Santa Sede. Tre anni dopo il cardinal Lercaro, che aderiva ai gruppi cattolici della lotta per la pace, fu spinto alle dimissioni. In varie occasioni le parole del pontefice sul tema del Vietnam suonarono, secondo i movimenti cattolici più impegnati nel lavoro di pace, troppo deboli e ambigue. Nella prospettiva di Paolo VI, infatti, il «pacifismo» rimaneva ben distinto dall’aspirazione alla pace. Nella nona giornata per la pace il papa si augurò che la «esaltazione dell’ideale di pace non favorisse l’ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio del proprio paese e dei propri fratelli impegnati nella difesa della giustizia e della libertà ... Essi cercano solamente la fuga dalle responsabilità e dai rischi ... Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita, la verità, la giustizia, la libertà e l’amore». Si tratta di dichiarazioni che sarebbero state confermate anche più tardi. La pace – avrebbe infatti ribadito Pao161

lo VI – è connessa all’«affermazione virile e magnanima delle energie dello spirito». Soprattutto, «vuol essere la vittoria del bene sul male»: un’espressione che inquietò gli animi dei cattolici più impegnati a favore della pace. In altri discorsi la guerra ritorna ad essere vista, come da altri pontefici del passato, come conseguenza della «moderna licenza» della vita e del degrado morale. Negli ultimi anni del suo pontificato papa Montini rivela sempre più il suo personale e crescente pessimismo sulla natura umana, accentuando il giudizio negativo sulla modernità. L’eutanasia, il controllo delle nascite, l’aborto, la droga, la delinquenza organizzata e il terrorismo delle Brigate Rosse sono tutti insieme denunciati come fenomeni simili e negativi al pari della guerra: tutti frutti di quella modernità che solo pochi anni prima aveva trovato ben altro spazio e considerazione nella Pacem in terris di Giovanni XXIII. Ma è durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II che vengono soprattutto in luce molti dei nodi e delle contraddizioni che la Chiesa ha affrontato negli ultimi cento anni. Si riprendono allora alcune delle risposte che erano state date alle sfide dei tempi, come le nuove armi di distruzione e soprattutto il problema dei paesi poveri, ancora ben lontani dall’incamminarsi sulla via dello sviluppo. Sono tutti temi che riguardano direttamente e drammaticamente la guerra fra i popoli del mondo, quel mondo dove sono cresciute tuttavia forze nuove a favore della pace, solo in parte connesse con il mondo cristiano. Certamente viene in luce la crescente presenza di un composto «popolo cristiano ... di cristiani nella Chiesa, ai mar162

gini della Chiesa e senza Chiesa» (Verucci 2005). Se negli anni Settanta questo popolo, in alcune sue componenti, ha predicato e talvolta praticato la violenza e la ribellione in difesa dei poveri e degli oppressi, in anni più vicini esso ha accompagnato il pontefice – andando anche oltre – nella sua lotta alla guerra, con una sempre più appassionata attenzione allo spirito d’amore del sermone evangelico. Il giudizio e l’atteggiamento verso la guerra del pontefice polacco attraversano diverse fasi. Non si può non notare nei primi anni il forte peso della lotta contro il comunismo, che porta Wojtyla a una stretta adesione alla linea politica del presidente americano Ronald Reagan, fondata sul riarmo e sulla sfida sempre più incalzante al nemico sovietico. Nel 1982, nel messaggio per l’anno nuovo, il papa metteva in primo piano ancora una volta l’idea di guerra giusta connessa al diritto/dovere dei popoli di proteggere la loro esistenza e la loro libertà «con l’uso di mezzi appropriati». Pochi mesi dopo sottolineava la necessità di una «deterrenza fondata sull’equilibrio non certo come fine a se stesso ma come tappa al disarmo progressivo». Dopo il crollo del comunismo, nell’enciclica Centesimus annus del 1991, Giovanni Paolo II iniziava un’analisi ampia e approfondita degli ultimi settant’anni di storia, settant’anni di guerre e di tensioni, e individuava nell’odio accumulato per le tante ingiustizie commesse dai paesi ricchi e subite da quelli poveri uno dei moventi principali dei continui conflitti. Ma l’analisi si faceva più precisa e politica andando oltre la riflessione morale. Sul banco d’accusa si trovava, accanto alle dittature, il persistere dei nazio163

nalismi opposti, una delle cause principali delle guerre combattute negli ultimi due secoli. Tuttavia la prospettiva rimaneva religiosa e il papa poneva alla base di tutti i conflitti, seguendo la tradizione cristiana, una visione del mondo dominata dal «disprezzo di Dio», dall’egoismo e dalla negazione della libertà. Quest’ultimo punto era proprio dell’«errore comunista», anche se non meno pericolosa per la pace e l’equilibrio fra i popoli appariva a Wojtyla la risposta della società capitalista, la società dei consumi immersa in un gretto materialismo che esclude dalla vita collettiva i valori spirituali. Drammatico, ambivalente e sofferto fu a mio parere l’atteggiamento del papa verso la teologia della liberazione, quel grande movimento teologico che «ha deciso di affrontare una delle più gravi questioni poste attualmente alla fede: la questione sociale e più precisamente la liberazione delle masse dalle maggiori oppressioni sociali. È una questione che ha lanciato con tutta la sua forza una sfida alla teologia ... vedendo Dio nel povero e nel povero Dio. Il suo impegno è spingere le comunità cristiane a realizzare il compito della giustizia nel popolo» (Boff). A proposito di questo tema drammatico Wojtyla scriveva nel 1986 ai vescovi brasiliani una lettera che non può essere interpretata solo come un «atto di diplomazia». In essa il papa polacco si dichiarava convinto che «la teologia della liberazione non è solo opportuna ma anche utile e necessaria e deve costituire una nuova fase ... di quella riflessione teologica iniziatasi con la tradizione apostolica e continuata con i grandi padri e dottori e ... in tempi più 164

recenti con il ricco patrimonio della dottrina sociale della chiesa espressa in documenti come la ‘Rerum novarum’ e la ‘Laborem exercens’». Wojtyla proseguiva sottolineando l’importanza per la pace di una prassi efficace in favore della giustizia sociale e della salvaguardia dei diritti umani. D’altro lato l’aspetto condannato dal pontefice con durezza (nell’Istruzione della Congregazione della fede, 1984) era la ribellione al potere costituito (anche se nel caso specifico si trattava di dittature), sulla linea di una tradizione della Chiesa che si rifaceva all’assioma paolino «omnis potestas est a Deo». Ma forse prevalente su ogni altra considerazione era il timore del pontefice per il dilagare incontrollato della violenza, che avrebbe aperto un fronte nuovo e ampio ad altri conflitti. Lo scenario infatti era già tragico. Nel 1990, con la disgregazione della Jugoslavia, era nato un nuovo tipo di guerra: la «guerra umanitaria» sancita dall’Onu e riconosciuta dal pontefice come «emergenza». Nel conflitto fra due princìpi – il diritto di sovranità e integrità territoriale da un lato, e la difesa delle etnie minacciate di sterminio dall’altro – la Chiesa si trovava a fronteggiare un contesto difficile. Ed è naturale pensare che le preoccupazioni del papa fossero rivolte più ai croati e ai bosniaci cattolici che ai serbi ortodossi. Nel 1991 la Santa Sede fu infatti il primo Stato a riconoscere la repubblica di Croazia, riconoscimento esteso poi alla Slovenia e alla Bosnia-Erzegovina. Ma dal 1990 si era aperto un altro teatro di guerra più ampio, che vide Wojtyla, seguito e insieme sospinto dalla maggioranza dei cattolici, anche fra i protagonisti di pace 165

come portavoce della causa dei diritti umani e del disarmo. La guerra del Golfo, come è noto, divise l’opinione pubblica mondiale, ma rafforzò la decisione del pontefice, che nel gennaio del 1991 si schierò per la «totale proscrizione della guerra», contro i bombardamenti americani sulle popolazioni civili e in opposizione sia alla guerra «contro gli infedeli» proclamata da Saddam Hussein che alla guerra «con l’aiuto di Dio» lanciata da George Bush senior. La Conferenza episcopale italiana (diversamente dai vescovi di altri paesi europei) appoggiò la posizione del papa. In due editoriali della rivista «La Civiltà Cattolica» lo sostenne, abbandonando la consueta cautela sul tema e arrivando ad affermare che «la guerra oggi è moralmente inaccettabile». Vivace e decisa fu anche la posizione dell’associazionismo cattolico non solo contro la guerra, ma anche contro l’immagine di un’America percepita come simbolo dei paesi ricchi e consumisti, ricettacolo di quei mali «contro la vita» già denunciati nel 1984: controllo delle nascite, omosessualità, edonismo, aborto, esperimenti genetici ... Fra le altre preoccupazioni, l’inquietudine del papa aveva anche un motivo in più, e cioè il timore di compromettere i rapporti con il mondo islamico. Negli ultimi anni del pontificato di Wojtyla la tensione tra la Chiesa e gli Stati Uniti si è mantenuta molto viva. Nel 1999, incontrando il presidente democratico Bill Clinton, il papa sottolineò la scelta epocale fra una «cultura della morte» e una «cultura della vita»: un tragico dilemma davanti al quale a suo giudizio si trovava l’America. 166

Un punto alto nella posizione di Wojtyla contro la guerra fu quello rappresentato dalla seconda giornata di preghiera ad Assisi con i rappresentanti delle dodici maggiori religioni del mondo (dodici come gli apostoli di Cristo), nel gennaio del 2002: «Mai più guerra! Mai più terrorismo! Ogni religione in nome di Dio porti sulla terra giustizia e pace». L’attribuzione ad altre religioni di una parte del compito di liberare l’umanità dalla guerra è stato giudicato da alcuni contrastante con l’innegabile ritorno della Chiesa di Roma a un ruolo morale e religioso nella soluzione dei problemi internazionali. Di fatto è difficile mettere d’accordo l’affermazione del «ritorno alla vera religione» con il riconoscimento di altre forze che devono lavorare per la pace: la ragione umana innanzitutto, già chiamata in causa con forza dalla Pacem in terris, istituzioni politiche come l’Onu, l’opera di un nuovo soggetto – «il popolo cattolico» – che il pontefice Giovanni Paolo II ha saputo risvegliare e condurre con forza. Ma la mobilitazione, lo si avvertiva in molte parole del papa, doveva essere globale. Da anni Wojtyla aveva iniziato anche un’impressionante revisione o purificazione dagli errori e dalle colpe passate della Chiesa: a Vienna nel 1983 per la responsabilità avuta nello scatenarsi dei molti conflitti appoggiati dai pontefici del XVI e XVII secolo, a Parigi nel 1996 per la rivolta della Vandea del 1793, a Gerusalemme per le colpe e le accuse ai «fratelli maggiori» nell’anno 2000, e la lista potrebbe continuare. Le dichiarazioni papali si riferivano alle responsabilità per così dire storiche e contingenti dell’istitu167

zione ecclesiastica, senza intaccare il nucleo delle verità che per la Chiesa appartengono a un livello sovrannaturale e perenne. Nel 1995, nell’enciclica Evangelium vitae, dedicata alla sacralità della vita umana, il papa considerava attentati contro la vita, oltre alla guerra, l’aborto, l’eutanasia, le tecniche di riproduzione artificiale, la sperimentazione sugli embrioni, la contraccezione e la sterilizzazione, riprendendo in pieno i motivi dominanti del papato di Montini nel suo ultimo periodo. Presenti alla solenne cerimonia funebre per la morte di Giovanni Paolo II erano tre presidenti americani, George Bush padre e figlio e Bill Clinton: i tre capi di Stato ai quali il papa aveva indirizzato i suoi più duri avvertimenti contro la guerra e la «cultura di morte».

Rileggendo

A un certo punto della storia, nei primi secoli, la rapida scelta dei cristiani a favore della guerra e l’adozione dello ius pagano per la sua giustificazione segnalano un forte e stridente contrasto con l’assioma dell’amore fraterno e universale predicato dal Vangelo: è una spinta di violenza che si adegua alla situazione di fatto e arriva fino a tempi molto vicini ai nostri. Questo mi pare evidente rileggendo il mio testo. C’è una ragione unica? Qualcosa di mai completamente scomparso, un motivo permanente? Non lo credo. Forse il non crederlo è da parte mia un classico wishful thinking: un’unica ragione immutabile nel tempo non solo sarebbe in deciso contrasto con la scelta dell’amore evangelico che fonda la religione cristiana, ma diventerebbe qualcosa di duramente sostanziale e insopprimibile, una forza opposta 169

e pari all’amore e a quel progetto di convivenza solidale che noi «uomini di buona volontà», credenti e non credenti, condividiamo. Che una polarità di forze contrarie sia tuttavia largamente percepita non solo dal pensiero cristiano, ma si estenda ad altre aree culturali, è comunque innegabile: una diffusa convinzione «manichea» sembra latente in alcuni campi del pensiero moderno. Ed è una sfiducia radicale che già in se stessa nutre pericolose conseguenze. È dell’anno 1932 uno scambio di due lettere fra Albert Einstein e Sigmund Freud sul tema «perché la guerra». Oltre a proporre affermazioni simili a quelle dell’analisi di sant’Agostino (sulla «fame di potenza» o libido dominandi come base di partenza del conflitto fra gli uomini), Einstein, rivolgendosi al «grande conoscitore degli istinti umani», segnala l’aggressività latente, il male oscuro e profondo che abita nell’uomo singolo e che tende alla aggressione e distruzione. Da parte di Einstein è solo un accenno, che Freud naturalmente raccoglie e sviluppa nella sua risposta disegnando una storia ideale dello sviluppo storico dalla violenza al diritto. All’inizio la contesa fra gli uomini è brutalmente materiale e simile a ciò che accade nel mondo animale. In un secondo tempo «la superiorità intellettuale che inventa le armi prende il sopravvento», ma le cose nella sostanza non mutano. Il più delle volte la violenza non mira all’annientamento del nemico ma a dominarlo: è questa violenza, «violenza fisica o intellettuale» – afferma Freud – «lo stato originario dell’uomo», nel quale interviene in seguito il diritto come forza della comunità. Ma 170

anch’esso è «esecuzione di atti violenti seppur conformi a regole stabilite». Diritto, dunque, come forza collettiva istituzionale non geneticamente differente dalla violenza originaria, come pensavano del resto anche alcuni Padri della Chiesa. Dal cerchio della violenza non si esce quindi mai completamente, perché l’aggressività o l’istinto di morte è iscritto nell’uomo al pari dell’eros, forza complementare: «la coesione di una comunità è assicurata da due fattori, la spinta alla violenza e le relazioni del sentimento, o identificazioni come si chiamano in linguaggio tecnico, fra i membri dello stesso gruppo». Non è difficile eccitare gli uomini alla guerra, fa notare Freud a Einstein, proprio perché una pulsione di odio e distruzione abita nella natura umana insieme all’istinto di conservazione di natura erotica. Non si può eliminare la guerra se non con un lungo e lento processo culturale, non privo tuttavia nel suo sviluppo di ignote e forse pericolose incertezze, nota inoltre Freud. Ma è evidente che «tutto ciò che lavora allo sviluppo culturale lavora contro la guerra». Si avverte nelle ultime battute della lettera una certa debolezza propositiva: non si può sopprimere alla radice la tendenza umana all’aggressione, ma si tratta di «canalizzarla in modo che non trovi la sua espressione nella guerra ... Noi pacifisti non abbiamo verso la guerra solo una intolleranza intellettuale e affettiva ma oramai una idiosincrasia estrema. E tuttavia quanto tempo ci vorrà perché anche gli altri uomini divengano pacifisti?». Penso che la riflessione di Freud sia la versione «laica» dello scenario che nel pensiero cristiano si apre come ef171

fetto della Caduta e del peccato originale, dopo il Prologo in cielo. Cos’altro è infatti il mito della Caduta, nella Bibbia o anche in Platone, se non un’offerta consolatoria che immagina che prima dell’insorgere di questo folle, ossia non razionale, desiderio di distruzione, ci sia stato un luogo ideale in cui si amava la concordia e non si desiderava la guerra, un tempo in cui Caino non aveva ancora colpito? Secondo il mito edenico, l’uomo nella sua essenza originaria è privo di desiderio di morte e capace di amare «naturalmente». Il modello è in sé positivo, anche se le cose quasi sempre non vanno nello stesso senso. C’è però in questo qualcosa di deprimente: se guardiamo indietro verso il passato, dobbiamo infatti concludere che il più delle volte la fede nel mito della natura pacifica originaria non ha mobilitato nell’uomo energie positive, fondate sul pensiero che quelle possibilità lontane, quel sublime antefatto, possano servire da modello da restaurare e indicare una meta ancora raggiungibile. Al contrario – non sempre, ma il più delle volte – quel mito ha generato e genera sfiducia nelle possibilità dell’uomo, che si sente ormai irrimediabilmente lontano dalla pace felice e innocente dell’origine. Deriva da tutto questo il prevalente pessimismo cristiano sulle possibilità della scomparsa della guerra dalla storia dell’uomo. Pessimismo prevalente, ma non totale: qualche intellettuale cristiano ha lasciato infatti aperta la porta alla speranza di un recupero intellettuale e morale dell’uomo. Come esempio propongo il pensiero di una donna, grande intellettuale del XII secolo, Ildegarda di Bingen. Du172

plice è per lei la natura dell’uomo: quella integra, vivida e capace propria di Adamo prima della Caduta, e quella indebolita, fragile e corrotta da un male sottile e melanconico dopo la cacciata dall’Eden. Le stesse doti fisiche sono contaminate da una debolezza delle membra, dalla fatica e dal dolore prima sconosciuto. La voce di Adamo, che si spiegava nel canto «più potente e dolce di quello di un angelo», quando egli viene abbandonato da Dio nel mondo diventa fioca e incerta. Ma qui interviene, dice Ildegarda, l’opera restauratrice della cultura, della scienza e dell’arte: la musica, arte aritmetica per eccellenza, è nell’attuale condizione umana uno dei più potenti strumenti di recupero in grado di ricostituire in parte lo stato splendente e perduto di Adamo. L’anima umana, che – scrive Ildegarda – è in sé «sinfonica», tiene vivo il ricordo di uno stato originario felice. Torniamo allora alla versione moderna e laica dei «risultati» della Caduta. «Un terribile amore per la guerra»: così James Hillman chiama la passione, forza subita e non scelta e quindi invincibile, che sta alla base del fenomeno da tutti temuto ed esecrato nei millenni ma mai ripudiato. La guerra sarebbe dunque «normale» o naturale? «Lo stato di pace tra gli uomini non è uno stato naturale il quale è piuttosto uno stato di guerra»: lo scriveva anche Kant nel suo Per la pace perpetua, riprendendo Hobbes. Dobbiamo a questo punto notare che così come esistono due significati antitetici di «natura», due sono anche i sensi del termine «normale»: normale come statisticamente frequente, ossia usuale, e «normale» come paradigmatico e ideale. Mentre 173

nel primo caso normale è ciò che è, nel secondo normale è ciò che dovrebbe essere. L’idea della guerra come fenomeno normale, nel primo senso, non la giustifica moralmente, ma ci mette di fronte al suo essere ovunque e sempre nella storia. La normalità della guerra, ci fa osservare Hillman, si spiega attraverso le strutture mitiche dell’immaginazione, quegli «universi archetipi fantastici» già riconosciuti dalla mente greca nella tragedia. «Dal principio fino all’ultimo scontro un opprimente senso di fatale necessità circonda la guerra: non c’è scampo. È l’effetto del mito ... La guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipa del cosmo». Il mito non è mai accaduto ma «è sempre», scriveva Sallustio. Ho indugiato su quelle che chiamo le versioni laiche del «dopo Caduta» perché penso che il mito religioso della perdita della pace edenica e la cultura psicoanalitica (in senso generale) della «normalità della guerra» abbiano orribilmente collaborato e siano responsabili di quella diffusa e persistente visione pessimistica che presenta la guerra come un fatto spaventoso ma inevitabile. Entrambe le prospettive sono punti di vista ricchi della fascinazione propria degli enunciati universali. C’è di più: nella visione cristiana, come in quella psicoanalitica, molto spesso la guerra e il dominio del tiranno sono stati associati a una colpa generale non definita, a un peccato del popolo, soggetto collettivo e per definizione irresponsabile, che avrebbe «meritato» il flagello. Il senso di una colpa collettiva è qual174

cosa di più gravoso e indelebile di quello di una colpa individuale, come sanno molte religioni. Abbandonando questo immane e opprimente scenario – risultato di una teoria generale non falsificabile – e procedendo verso regioni «più grigie e sicure», lo storico può fare ancora, credo, un utile lavoro di ricerca per la causa della pace. Come? Lo storico delle idee può ad esempio rintracciare l’emergere di quei concetti e di quelle immagini che, riportate alla luce da vicende storiche contingenti e radicate poi nel tempo hanno lavorato all’interno del mondo cristiano a favore della guerra. Ma rimangono appunto idee, non mitici e archetipi universi inesplorati e inesplorabili: idee nate nella esperienza storica, analizzabili e verificabili nel loro senso e nella loro funzionalità. C’è dunque speranza che si possano contrastare, confutare e abbandonare, come è già avvenuto del resto per qualcuna di esse. Una delle più antiche di queste è la figura del soldato/martire all’interno del linguaggio religioso e militare cristiano, su cui ci siamo soffermati nel capitolo 2. Il contesto storico delle persecuzioni ai cristiani e la percezione vivissima di una lotta interiore contro il male, personificato dal diavolo e dai pagani, come abbiamo visto, rendevano in parte ragione dell’identificazione del martire con il soldato: identificazione che ebbe come conseguenza quella inversa, certamente più funesta, del soldato con il martire cristiano. Riguardo a questo tema è importante l’indagine di Paolo Prodi sullo slittamento di significato del termine sacramentum, usato per la prima volta nel vocabo175

lario cristiano da Tertulliano: la fede è milizia e il sacramentum è il segno del pactum fidei (mediante «un transfert per cui la legge di Cristo si sostituisce alla legge romana e identifica la situazione del cristiano»). Dopo Costantino, la fides diventa dunque duplice: verso l’impero e verso la religione. In questo contesto il sacramento della cresima «confermava» in coloro che avevano raggiunto l’età virile un nuovo impegno: mentre la battaglia spirituale contro i nemici invisibili e contro il male era dovere di tutti i fedeli cristiani, quella contro i nemici visibili, cioè contro avversari in carne e ossa come ad esempio gli eretici o i nemici dell’impero, diviene – secondo Tommaso d’Aquino e altri – propria dei confermati o cresimati. È un’idea forte e persistente: durante i secoli troviamo numerose conferme del paradigma militare nel mondo cristiano, ancora nel catechismo di Pio X e nel Catechismus catholicus del cardinal Pietro Gasparri (1930), che esaltava la figura del «perfectus miles Christi». E va notato che l’idea, fortemente caratteristica del pontificato di Pio XII, non poteva che irritare il regime fascista (Mussolini fra i primi) «per il suo implicito e concorrenziale antagonismo totalitario» (De Giorgi). Nel 1940 papa Pacelli, parlando ai giovani dell’Azione cattolica a proposito della cresima, dichiarava che «con i doni mirabili dello Spirito Santo [la Chiesa] vi rivestì quali soldati di Cristo, crociati, cavalieri della fede e della virtù, di quella divina armatura di cui così altamente parlava l’apostolo Paolo quando spronava i primi cristiani alla lotta contro le potestà delle tenebre». 176

Solo con il pontificato di Giovanni XXIII la terminologia bellicosa del «perfetto cristiano», del crociato e del cavaliere della fede viene felicemente abbandonata, spazzata via dal linguaggio sereno e pacificante della Pacem in terris: «ogni credente deve essere in questo nostro mondo una scintilla di luce, un centro d’amore ... E sarà in lui la pace: vera sicura e ordinatissima». Un’altra antica idea portatrice di guerra è la dilatatio imperii Christi ai danni dei pagani: un’idea legata al sorgere della dimensione temporale della Chiesa. Ricordiamo che Gregorio Magno incoraggiava i sovrani «ad ampliare il regno di Cristo» con la conquista di nuovi territori abitati dai pagani (capitolo 5). I vinti sarebbero stati battezzati, diventando sudditi del Cristo e del pontefice. Il regno di Cristo diveniva così «un regno di questo mondo», mentre l’ideale di una Chiesa «invisibile» e spirituale impallidiva e la dimensione «temporale o civile» scivolava all’interno della Chiesa spirituale corrompendola. Corruzione che – lo sappiamo – fu combattuta dalla stessa Chiesa medievale con il movimento di riforma gregoriana (Gregorio VII) e cluniacense. Non c’è dubbio che la dilatatio imperii, auspicata da altri pontefici anche secoli dopo Gregorio Magno, sia stata un incitamento diretto alla guerra, così come non c’è dubbio che la fine del «potere temporale» del papa abbia segnato anche la fine di questa idea durata molti secoli. In questi ultimi anni la Chiesa di Roma ha conosciuto un periodo di grande influenza pubblica e anche politica nel mondo, ma va riconosciuto che tutto ciò, avvenuto so177

prattutto con il pontificato di Giovanni Paolo II, si è fondato sulla sua dimensione «spirituale» oltre che sul carisma personale del papa. Più dura a morire, e ancora latente in alcuni settori del pensiero cristiano, è invece la convinzione della superiorità del tutto sulle parti, della Chiesa universale sui singoli fedeli: un’idea che sembra risalire al concetto di Chiesa come convocatio fidelium (l’unità indivisibile «chiamata» da Dio teorizzata dai teologi «realisti» del Trecento), in opposizione alla Chiesa come congregatio fidelium («comunità di individui liberi e pari non dominati da una legge coercitiva», per usare le parole di un nominalista come Guglielmo d’Ockham). Mentre la prima è vista come una realtà unitaria, sovrastante e universale, che ingloba le volontà dei singoli, per il francescano Gugliemo d’Ockham la Chiesa consiste invece in un insieme di uomini pari fra loro, semplici uomini che «credono in Cristo». Il pontefice non è che uno di questi credenti, il «padre di carità» dei fedeli, e la forza della Chiesa sta in ciascun credente capace di libero giudizio. Rafforzando la distinzione gerarchica all’interno dell’istituzione, il solco sempre più ampio fra semplici fedeli laici e clero – lo abbiamo visto nel capitolo 6 – collabora a insidiare la «libertà del cristiano». Al vertice «coloro che sanno» (i dotti, i letterati, i competenti ossia i sacerdoti) sentono l’obbligo e rivendicano il diritto di guidare in senso assoluto gli altri, che secondo questa prospettiva non avrebbero la capacità di esaminare adeguatamente i problemi e di assumersi in proprio le decisioni e le iniziative, 178

come la lettura «libera» del Vangelo o il giudizio sulla «giustizia» della guerra da combattere. Una prospettiva di questo genere, che riproduce divisioni tipiche delle società antiche e che è in contrasto con i princìpi del Vangelo, contribuisce a mantenere in una situazione di minorità quelli che «non hanno studiato», escludendoli dal potere decisionale su alcuni punti cruciali, paralizzando la libertà di coscienza dei credenti e opponendosi al riconoscimento della obbiezione di coscienza (capitolo 23). Ancor oggi, anzi recentemente, la gerarchia ecclesiastica, mantenendo implicitamente una prospettiva autoritaria nei confronti dei laici, ha tentato operazioni analoghe in materia di esame e decisioni etiche. Nel 1907 l’enciclica Pascendi dominici gregis di Pio X condannava come suprema fonte di eresia il «modernismo», movimento di idee per la verità non così uniforme e compatto come era visto dal documento papale. Quel movimento proponeva la necessità di un rinnovamento che adeguasse ai nuovi tempi le modalità del messaggio cristiano nei confronti della scienza e dei cambiamenti della società. Non era la prima volta che il termine «moderno» entrava con una connotazione fortemente negativa in un atteggiamento di censura o condanna da parte della Chiesa di Roma. Basta ricordare l’offensiva di un papa del Trecento, Giovanni XXII, l’antagonista di Guglielmo d’Ockham e di Marsilio da Padova, che identificava con il termine «moderno» molti aspetti culturali e religiosi che erano «origine dei mali morali» presenti ai suoi tempi. Fra questi c’erano la rivendicazione alla povertà e il rifiuto del179

la proprietà da parte dei francescani radicali, la negazione del potere pieno e assoluto della Chiesa «nelle cose temporali» da parte di Ockham e Marsilio, e persino il paradigma della musica «nova», che a parere del papa «spezzava la melodia a colpi di note brevi ... interrompendole con il discanto e disprezzando la tradizione». Il papato e la Chiesa romana, naturali custodi della Tradizione, sovente nei secoli si sono assunti la difesa del passato e il compito di una battaglia anche aspra contro le innovazioni scientifiche e i mutamenti sociali e culturali. Per questo non si può disconoscere l’eccezionalità delle dichiarazioni della Pacem in terris con le quali Giovanni XXIII ha indicato la positività dei «segni» dei tempi moderni, come abbiamo visto nel capitolo 24. Egli rovesciava con poche semplici parole una prospettiva molto radicata: «i progressi delle scienze e le invenzioni della tecnica attestano come negli esseri e nelle forze che compongono l’universo regni un ordine stupendo».

Bibliografia a cura di Claudio Fiocchi

Quella che segue non vuole essere una bibliografia sulla guerra, argomento di studi innumerevoli, ma si riferisce soprattutto alle letture dell’autrice. L’ampio studio Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in terris» (a cura di M. Franzinelli e R. Bottoni) contiene nelle sue numerose note molti e utilissimi riferimenti a documenti e testi. Premessa-Parte prima PIETRO ABELARDO, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, in-

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INDICI

Indice dei nomi

Abelardo, Pietro, 41, 53. Abramo, 5. Adalberone, vescovo di Laon, 27, 32. Agostino, vescovo d’Ippona, X, 19-20, 22-26, 52, 126, 128, 134, 154, 170. Alano di Lilla, 48. Alarico, re dei Visigoti, 24. Alba, Fernando Alvarez de Toledo, duca di, 44. Alessandro II (Anselmo da Baggio), papa, 35. Ambrogio, vescovo di Milano, 7, 16, 20-21. Amendola, Giovanni, 121. Angell, Norman, 109. Aristotele, 51, 69. Arnaldo da Brescia, XI.

Arrupe, Pedro, 142. Aston, John, 48. Bacone, Francesco (Francis Bacon), 86. Balducci, Ernesto, 150, 156. Ballerini, Raffaele, 100. Barbaini, Piero, 157. Barth, Karl, 137. Barutel, padre domenicano, 86. Basilio il Grande, 28. Bedeschi, Lorenzo, 124. Bel, padre domenicano, 86. Bellarmino, Roberto, 7, 56-57, 77. Benedetto XV (Giacomo della Chiesa), papa, 104-105, 107108, 115, 118, 120-21, 149. Berardinelli, Francesco, 97.

203

Bernardo di Clairvaux, 37, 40-42. Bertram, Adolf, 141. Bettazzi, Rodolfo, 129. Billot, Louis, VII. Bodin, Jean, 78. Boff, Clodovis, 164. Bonifacio, ufficiale romano, 19. Bossuet, Jacques-Bénigne, 85. Botti, Alfonso, 134. Bottoni, Riccardo, 134, 140. Bovelli, Ruggero, 140. Brucculeri, Angelo, 116. Brut, William, 49. Buonaiuti, Ernesto, 121-24. Bush, George, 166, 168. Bush, George W., 168. Caietano, vedi De Vio, Tommaso. Calogero, Guido, 155-56. Calvino, Giovanni (Jean Cauvin), 57. Campanella, Tommaso, 63-64, 76. Cano, Melchiorre, 72. Cardini, Franco, 42. Carlo II il Calvo, re di Francia e imperatore del Sacro Romano Impero, 21. Carlo Magno, re dei Franchi e dei Longobardi, imperatore del Sacro Romano Impero, 13, 26. Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, 69, 72-73. Caselli, Bernardino, 126. Castel, Charles, abate di SaintPierre, 86.

Cavour, Camillo Benso, conte di, 95. Celso, 15, 129. Cereti, E., 125. Chenu, M. Dominique, 148. Choromanski, segretario della conferenza episcopale polacca, 143. Churchill, Winston, 137. Cicerone, Marco Tullio, 20. Cipriano, Tascio Cecilio, il cartaginese, 11. Claudel, Paul, 107. Clemente di Alessandria, XIII, 910, 123. Clinton, Bill, 166, 168. Colombo, Cristoforo, 66, 68. Combruzio, 11. Cordovani, Mariano, 114. Corneille, Pierre, 84. Corringham, John, 48. Costantino I il Grande, imperatore, 13-14, 16, 47, 84, 123, 176. Covarrubias, Diego de, 72. Crespi, Angelo, 117. Crouzet, Denis, 46. Cusano, Nicola (Nikolaus Krebs), 52-53. Dante Alighieri, 69. Davide, re d’Israele, 5, 19, 84-85. Davila, Pedrarias, 68. De Giorgi, Fulvio, 176. De Vio, Tommaso, detto il cardinal Caietano, 58, 69. Dolcino da Novara, XI. Donati, Giuseppe, 124. Dossetti, Giuseppe, 149.

204

Eginardo, 26. Einstein, Albert, 170-71. Ellul, Jacques, 148. Enrico da Losanna, XI. Enrico II di Valois-Angoulême, re di Francia, 79. Enrico VIII Tudor, re d’Inghilterra e d’Irlanda, 61. Erasmo da Rotterdam, 45, 57-60, 62-63, 79, 85. Fanfani, Amintore, 161. Federico II di Svevia, imperatore, 39. Feltin, Maurice, 152. Filippo, principe spagnolo, 74. Florit, Ermenegildo, 150-51. Foca, imperatore, VIII. Francesco d’Assisi, 130. Francesco Giuseppe, imperatore, 104. Franco, Francisco, 133. Franzinelli, Mimmo, 134, 139-40. Freud, Sigmund, 170-71. Frings, Josef, 143. Fulcherio di Chartres, 39. Gasparri, Pietro, 176. Gedeone, 5. Gemelli, Agostino, 127. Genserico, re dei Vandali, 25. Gentili, Alberico, 81. Gerolamo, 6, 24. Gery, André Guillaume, 83. Gesù di Nazareth, 6-8. Gioachino da Fiore, 75. Giordani, Igino, 139.

Giosuè, 5. Giovanna d’Arco, 102. Giovanni Battista, 6. Giovanni VIII, papa, 29, 35. Giovanni XXII (Jacques Duèze), papa, 179. Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), papa, XIII, 140, 152-58, 162, 177, 180. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla), papa, XIII, 157, 162-68, 178. Giulio II (Giuliano della Rovere), papa, 45. Goma, Isidro, 134. Gonella, Guido, 129. Gozzini, Giuseppe, 150. Graziano, 17. Gregorio di Tours, 26. Gregorio di Valencia, 80. Gregorio Magno, papa, 26, 69, 133, 177. Gregorio VII (Ildebrando di Sovana), papa, 31, 36-37, 177. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), papa, 46. Grozio, Ugo (Hugo Grotius), 8182, 86. Gualtieri senza Averi, 37. Guglielmo III d’Orange, re d’Inghilterra, 84. Guglielmo di Tiro, 39. Guicciardini, Francesco, 81. Heim, François, 16. Hillman, James, 173-74. Hinsley, Arthur, 137. Hitler, Adolf, 128, 137.

205

Hobbes, Thomas, 86, 173. Hussein, Saddam, 166. Ildegarda di Bingen, 172-73. Innocenzo II (Gregorio Papareschi), papa, 121. Innocenzo III (Lotario Conti), papa, 42. Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi), papa, 145. Isaia, 5. Kantorowicz, E.H., VII. La Brière, Yves de, 111. La Pira, Giorgio, 150, 156, 161. Las Casas, Bartolomeo de, 68, 7374. Lattanzio, Lucio Celio Firmiano, 13. Lecler, Joseph, 57. Le Fur, Louis, 117. Le Goff, Jacques, 14. Leibniz, Gottfried W., 87. Leone Magno, papa, 16. Leone IV, papa, VIII, 29, 35, 94. Leone XIII (Gioacchino Pecci), papa, 96, 98-100, 118. Lercaro, Giacomo, 148-49, 161. Lorenzo de’ Medici, 81. Luca, 6-7. Luigi XIV il Re Sole, re di Francia, 83-86. Lutero, Martin, 54-58, 91, 93, 103. Machiavelli, Niccolò, 81. Maior, Giovanni, 69.

Maistre, Joseph de, 110-11, 128, 148. Manzini, Raimondo, 130, 150. Mariana, Juan de, 81. Marsilio da Padova, 50-52, 179180. Martini, Luciano, 155, 157. Massenzio, Marco Aurelio Valerio, imperatore, 13. Massillon, Jean-Baptiste, 85. Matteo, 6-7. Maury, Jean, 87-88. Mazzolari, Primo, 112. Melis, Antonio, 68. Mendieta, Jerónimo de, 75. Menozzi, Daniele, 98, 103. Mercier, Désiré, VII-VIII, 102, 106. Miccoli, Giovanni, 139-41. Milani, Lorenzo, 150-51. Minois, Georges, 143. Missiroli, Mario, 121. Molina, Luis de, 77-78. Monetti, Giulio, 115. More, Thomas, 61-63, 76. Moro, Renato, 126, 128. Mosè, 5, 26. Muller, Joseph, 118. Mussolini, Benito, 126-27, 131132, 153, 176. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 129. Novalis (Friedrich Leopold von Hardenberg), 91-92. Ockham, Guglielmo di, 178-79. Odilone, abate di Cluny, 33. Oliati, Francesco, 118.

206

Ortolan, Théophile, 110-11. Ottaviani, Alfredo, 150. Paolo di Tarso, XIII, 10, 15, 17, 24, 124, 176. Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 66. Paolo IV (Giovanni Pietro Carafa), papa, 44. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, VIII-IX, 82, 149, 160-62, 168. Pasquale II (Raniero Ranieri), papa, 39. Perpetua, 12. Pétain, Henri-Philippe, 137. Pie, Etienne, 95. Pietro, apostolo, 45. Pietro l’Eremita, 37. Pilato, Ponzio, 107. Pio V (Antonio Michele Ghislieri), papa, 46. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 94-95. Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto), papa, 102, 104, 157, 176, 179. Pio XI (Achille Ratti), papa, 119121, 131. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, VIII, 135-38, 140-46, 149, 152, 157, 176. Platone, 28, 172. Polidori, Eugenio, 102. Preysing, Konrad von, 140. Prodi, Paolo, 175. Prosperi, Adriano, 68.

Rabano Mauro, 29. Racine, Jean-Baptiste, 84. Reagan, Ronald, 163. Respighi, Pietro, 140. Reynold, Gonzague de, 116. Richelieu, Armand-Jean du Plessis, 80. Roberto II il Pio, re di Francia, 32-33. Rodolfo il Glabro, 31, 48. Roure, Lucien, 111. Saint-Simon, Claude-Henry de Rouvroy de, 86. Sallustio, Caio, 174. Salvemini, Gaetano, 132. Sangnier, Marc, 114. Sansone, 5. Schuster, Ildefonso, 132. Sepulveda, Giovanni de, 69. Sévigné, Madame de, 84. Sigeberto di Gembloux, 36. Simonetta, Stefano, 50. Spellman, Francis, 161. Spini, Giorgio, 79. Stalin (Josif V. Dzˇugasˇvili), 141142. Sturzo, Luigi, IX, 108-109, 130, 133, 160. Suárez, Francisco, 77-80. Taparelli d’Azeglio, Luigi, 92-94, 105. Teodosio I il Grande, imperatore, 14, 18. Tertulliano, 176. Testolini, Attilio, 130. Tilgher, Adriano, 129.

207

Tirso, 11. Tommaso d’Aquino, 7, 58, 68, 77, 176. Turpino, 37.

Voltaire (François-Marie Arouet), 84, 87.

Urbano II (Ottone di Lagery), papa, 37-38, 60. Urquhart, David, 97.

Wallenstein, Albrecht Wenzel von, 79. Waman Puma, 68. White, William, 49. Wilson, Woodrow, 115, 118. Wyclif, John, XIII, 48-49.

Vercesi, Ernesto, 115-16. Verucci, Guido, 163. Vitoria, Francisco de, 69-73, 78. Vittore, 12.

Zerner, Monique, 47. Zocchi, Gaetano, 101. Zumárraga, Juan de, 75. Zwingli, Huldrych, 56.

Indice del volume

Premessa VII

PARTE PRIMA

1. Le guerre nella Scrittura 5

2. Il linguaggio della guerra spirituale e del martirio 9

3. I cristiani soldati dell’imperatore 13

4. Lettera all’ufficiale Bonifacio 19

5. Agostino e la guerra 23 209

6. «Oratores» e «bellatores», chierici e laici 27

7. Voci dissidenti, voci di pace 30

8. Dio garantisce la vittoria 35

9. Guerra giusta, guerra santa 44

10. Eretici e intellettuali contro la guerra 47

11. Riformatori in armi 55

12. C’è guerra anche in Utopia 61

13. Una nuova guerra in un nuovo mondo 65

14. «Tacete teologi» 77

15. Tempi bui 83

PARTE SECONDA

16. Europa uguale cristianità 91

17. Il papa contro la barbarie e la superstizione 99

18. La grande prova 104

19. La coscienza del pericolo 113 210

20. Smarrimento 125

21. Benedire i cannoni: le guerre di Etiopia e di Spagna 131

22. La tragedia 136

23. I cristiani per la pace 147

24. Per gli uomini di buona volontà 152

25. La guerra è contraria alla ragione 159

Rileggendo 169

BIBLIOGRAFIA

a cura di Claudio Fiocchi 181

Indice dei nomi 203