Cristianesimo e lotta di classe

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Nikolaj Berdjaev Cr-istianesimo e lotta di classe Cooperativa editoriale «La Casa d1 Matriona»

Propilei russi 3

Traduzione dal russo di Luc10 Dal Santo Titolo originale Christianstvo i klassovaja bor'ba Copyright © 1931 Yrnca-Press, Parigi Copyright © 1977 « La Casa di Matriona » Coop. ed. a r.l., Milano per la versione italiana e la Nota introduttiva

Nikolaj Berdjaev Cristianesimo e lotta di dasse con una nota di E. Vagin

Cooperativa editoriale «La Casa di Matriona»

Nota introduttiva

Ogniqualvolta appuntano i loro strali contro i propri avversari ideologici, i comunisti si fanno un dovere di accusarli di scarsa competenza, li tacciano cioè di ignoranza dei fondamenti stessi della dottrina marxista. Non sembra tuttavia possibile rivolgere un'accusa del genere contro Nikolaj Berdjaev, che in fatto di marxismo era uno specialista consumato (« non solo per la conoscenza che ne avevo, ma anche per averne intimamente penetrato l'essenza », se si deve prestar fede alle sue stesse parole). Nei suoi giovani anni egli era difatti stato attratto dal marxismo, e aveva poi conservato sino alla fine dei suoi giorni (sono ancora parole sue) « una colorazione marxisteggiante » e, insomma, « una sensibilità particolare per il marxismo ». Il giovane Berdjaev ci appare come uno dei più autorevoli rappresentanti del « marxismo legalitario » in Russia, come uno anzi degli affiliati al movimento socialdemocratico (tant'è vero che verrà menzionato come tale nel Dizionario dei socialdemocratici russi dallo storico bolscevico A. Nevskij ). Dando ragione della sua giovanile infatuazione per il marxismo, Berdjaev porrà l'accento sulla superiorità « culturale » di questo rispetto alle altre tendenze del pensiero rivoluzionario della Russia ciella fine del secolo scorso. Per lui, che, quanto a simpatie ed inclinazioni, era senza dubbio un occidentalista, il marxismo russo delle origini si presentava come un fenomeno europeo, un frutto, vale a dire, della cultura europea. Marx rimase ai suoi occhi un genio anche dopo che la sua dottrina divenne ostile e incompatibile con le idee di Berdjaev. Svincolandosi dal vecchio e « provinciale » socialismo ed orientandosi in senso sempre più accentuatamente « antinazionali-

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stico l>, Berdjaev non seppe mai sottrarsi compiutamente al fascino del marxismo o, per usare la sua espressione, « al suo slancio istoriosofico, all'ampiezza delle soluzioni globali » (un'ammissione abbastanza singolare, a dir vero, da parte d'un conoscitore e d'un ammiratore dell'opera di Vladimir Solov'ev e di Nikolaj Fedorov). Più di tutto lo aveva colpito la critica marxiana del capitalismo, e l'impressione avutane non lo avrebbe più lasciato per tutta la vita. Berdjaev era, per sua natura, un pensatore straordinariamente sensibile all'ingiustizia sociale, e in ciò egli era vicino, oltre che a Marx, a Carlyle, accusatore appassionato dei mali del mondo capitalistico. Egli peraltro non volle essere un pensatore astratto (cosl come non aveva voluto esserlo Fedorov, a suo tempo), e la sua interiore ed insopprimibile esigenza d'incarnare nella vita le proprie idee lo trasse a rendersi partecipe dell'attività dei circoli socialdemocratici. Ciò costò a Berdjaev l'arresto e l'esilio nel settentrione del paese per la durata di tre anni. Il periodo di confino coincise con le aperte dispute con A. Lunacarskij, il quale non volle mai piegarsi a riconoscere l'indipendenza della verità dal dogma della lotta rivoluzionaria di classe. Già nel suo primo libro Soggettivismo e individualismo nella filosofia sociale, che è del 1900, - in esso l'autore faceva proprie le istanze del marxismo « critico » e avviava un tentativo di sintesi del marxismo con la filosofia idealistica di Kant e, in parte, di Fichte - Berdjaev espresse la sua ferma convinzione che la verità viene definita non già dall'ambiente sociale, ma dalla coscienza che lo trascende. In tale brusco distacco dall'affermazione, così cara agli esponenti della « sinistra» russa, circa i « guasti irreparabili dell'ambiente », è dato scorgere distintamente le tracce d'un influsso non pur kantiano, ma dostoevskiano. L'assurdità insita nella stessa locuzione « verità di classe » fu avvertita acutamente da Berdjaev, il quale s'indusse infine a compiere il passo decisivo dal marxismo all'idealismo d'impronta spiritualistica. « Io fui marxista, ma non fui mai un materialista », disse di sé il pensatore russo; e ciò disvela l'interiore e legittimo processo del suo allontanamento dai dogmi marxisti, e giova altresì a spiegare il pathos della sua « lotta per l'idealismo ». In codesto suo volgersi all'idealismo Berdjaev andò oltre, e pervenne infine alla metafisica, ai problemi dello spirito, al cristianesimo. Si formò per questa via la sua contezione personalistica del mondo, ove s'intenda che per Berdjaev i termi-

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ni di « personalismo » e di « cristianesimo » hanno valore sinonimico. All'inizio di questo secolo Berdjaev affermò definitivamente il suo personalismo, sostenendo un'aspra polemica coi rappresentanti di quel radicalismo politico, fondato su presupposti materialistici o positivistici, ch'era predominante in seno all'intelligencija coeva. Berdjaev fu d'altronde tra coloro che presero parte alla stesura di quell'antologia Vechi, apparsa poco dopo la rivoluzione russa del 1905, che avrebbe suscitato l'ira di Lenin e dei suoi seguaci e la cui eco non si è spenta ancor oggi. Per la prima volta, in quell'anno fatidico, le parole d'ordine della lotta di classe furono tradotte in realtà sul suolo russo, e si poté assistere allo scatenamento cruento delle forze radicaleggianti dell'ala sinistra; e in tal senso, certo, il 1905 può dirsi un preludio del 1917. Quegli avvenimenti avevano in certo modo resa necessaria una rivalutazione del retaggio dell'intelligencija democratica e rivoluzionaria, e in questa luce è appunto da considerare la miscellanea Vechi: un monito lanciato contro l'estremismo dei radicali di sinistra. Nell'articolo da lui affidato alle pagine di Vechi, Berdjaev proclamava la necessità d'una sintesi di fede e conoscenza, come la sola in grado di soddisfare « le istanze valide e positive dell'intelligencija protesa verso una fusione organica di teoria e pratica». All'affermazione di tale sintesi Berdjaev avrebbe dedicato altri suoi libri del periodo antecedente la rivoluzione: La filosofia della libertà e Il senso della creazione. È perfettamente comprensibile che Berdjaev fosse ostile al rivolgimento bolscevico del 1917; di quello stesso anno, del resto, è l'opuscolo Il popolo e le classi nella rivoluzione russa, in cui, pur riconoscendo la realtà della lotta di classe, Berdjaev insorge contro la pratica inumana del bolscevismo e condanna apertis verbis il massacro fratricida commesso sul suolo patrio. Nei successivi pamphlets Gli spettri della rivoluzione russa, La filosofia dell'ineguaglianza e Un nuovo 1.'Y.edioevo (il primo apparve nel 1918 nell'antologia Iz glubiny), così vibranti di sdegno e di pathos accusatorio, Berdjaev compa1e quale un avversario risoluto dei nuovi nemici dello spirito, degl'intolleranti e fanatici sostenitori d'una dottrina rivelatasi nell'attuazione soffocatrice d'ogni libertà. Il rigetto del comunismo da parte di Berdjaev è d'ordine prima spirituale che politico. Pertanto le conclusioni cui egli perviene serbano un carattere non già esclusivamente negativo, ma anche positivo e costruttivo. La rivoluzione comunista è de-

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stinata fatalmente ad esaurirsi ed ha ormai fatto il suo tempo. È indispensabile affermare il primato dell'attività dello spirito su quella meramente politica. Consumatasi ormai la rivoluzione, sopravvenne in Russia un processo di approfondimento religioso ed è anzi maturo il tempo dell'inveramento nella vita della realtà evangelica: « Il futuro della Russia dipende dalle credenze religiose del popolo russo ». Nel 1922, insieme con una pleiade di pensatori e di studiosi suoi connazionali, Berdjaev fu cacciato dalla Russia sovietica. Tale misura punitiva fu adottata non tanto per la sua attività politica, quanto, come s'è detto, per la sua incessante « attività » spirituale, in grado per sé sola di minare le basi dell'ideologia marxista nella versione bolscevica. Ebbero inizio da allora gli anni difficili dell'emigrazione forzata, che peraltro non ebbero il potere di isterilire la vena creativa del filosofo. Al contrario, proprio all'estero, durante l'esilio, videro la luce le sue opere più mature e significative: La filosofia dello spirito libero, La destinazione dell'uomo e Schiavitù e libertà dell'uomo. Non sono però, codesti, anni di tranquillo isolamento in cui la speculazione e la produzione filosofica prevalgono su tutto. Spesso e volentieri Berdjaev tiene relazioni in varie città europee, è lui l'organizzatore dell'Accademia di studi filosofici e religiosi di Parigi, lui che dirige la gloriosa rivista « Put' », « organo del pensiero religioso russo ». La problematica che investe i suoi libri e i suoi articoli, sempre più numerosi, è vasta e varia. Berdjaev torna non di rado ai temi fondamentali del marxismo, e di ciò egli stesso darà più tardi spiegazione nella propria autobiografia spirituale dal titolo Autoconoscenza: « Dopo essere stato sbalzato nell'Occidente europeo, nel subcosciente emotivo io sono tornato alle opinioni sociali dei miei giovani anni, poggiando tuttavia su nuove basi spirituali». Volendo parafrasare l'espressione d'uno degli eroi creati da Dostoevskij, si potrebbe dire che Marx tormentò Berdjaev per tutta la vita. Uno dei più significativi scritti berdjaeviani dell'esilio è quello, di scarsa mole, avente per titolo Cristianesimo e lotta di classe. L'autore stesso ci tiene a nominarlo (in un articolo redatto per un'enciclopedia filosofica) tra le opere sue fondamentali e caratteristiche della propria posizione filosofica e sociale. Uscito a Parigi in lingua russa nel 1931, il libro fu presto tradotto nelle principali lingue europee. L'opera consta di sei capitoli, ciascuno dei quali, grazie al8

ì'unitarietà del tema, conserva un interesse del tutto indipendente. In ciò è da vedere una delle peculiarità della maniera letteraria di Berdjaev, caratterizzata non tanto da un'evoluzione logica e conseguente del pensiero, quanto piuttosto da una sorta di « discorsività » ben definita, da una certa dispersione e « sconnessione» da non altro disciplinata che dal pathos ond'è ravvivato il contenuto. Di qui il carattere iterativo della prosa berdjaeviana, quel rifarsi al già detto in un nuovo contesto emotivo che affina l'impressione e approfondisce il pensiero: un'iterazione che non è pertanto uniformità né tedios:.1 monotonia. Il lettore si trova così trasportato d'acchito nel laboratorio medesimo, per così dire, dello scrittore, là dove freme e ribolle il pensiero in fieri di lui: un pensiero che ha il potere di catturare e di soggiogare l'attenzione. Tale particolarità della prosa berdjaeviana difficilmente sfuggirà al lettore italiano della presente opera intorno al cristianesimo e al marxismo, qui nuovamente tradotta. Berdjaev, passato attraverso la scuola dell'universalismo solovioviano e immutabilmente ostil1.. ad ogni tentativo di scissione d'una visione integrale del rr~ondo, principia la sua trattazione con l'additare l'angustia estrema delle proposizioni marxiane circa la lotta di classe. La coscienza cristiana non può non riconoscere il fatto stesso che nel mondo sociale la lotta di classe esiste; ma, diversamente che per il marxista, per chi si dice cristiano questa non è che una delle tante manifestazioni della lotta di forze polarmente opposte nel nc dal che appare ch'egli riteneva economica la propria teoria. In realtà questa racchiude in sé un elemento etico, dal quale è anzi determinata. Lo sfruttamento suscita indignazione e biasimo; ma quale ne è il motivo? Perché lo sfruttamento è riprovevole e dev'essere condannato? Marx muoveva con ogni evidenza da una premessa etica, ossia dalla constatazione che lo sfruttamento è un male, un peccato, anzi il peggiore dei mali e il maggiore dei peccati. Eglì non poteva ricavare codesta premessa etica per via scientifica, né poteva dedurla da una teoria economica. Il problema della lotta tra le classi è inevitabilmente non solo sociale ed economico, ma anche squisitamente etico. Occorre soltan-

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to badare a non confondere i termini della questione, in modo da sceverare criticamente il punto di vista etico da quello economico. Marx invece confonde tra loro i due aspetti allorché vara le sue teorie del plusvalore e della lotta di classe; egli infatti intrude l'etica nell'economia e l'economia nell'etica. Ma il moralismo stesso di Marx reca un'impronta demoniaca, se è vero eh' egli considera il male come l'unica via che conduce al bene, e l'infittirsi delle tenebre come la sola via verso la luce. La fraternità, l'uguaglianza, l'umana solidarietà nasceranno, a suo parere, dall'invidia, dall'animosità, dall'odio, dalla vendetta, così come dalla violenza e dalla costrizione nascerà la liberazione. Il male dunque nel pensiero marxiano trapassa dialetticamente nel bene, e dalle tenebre emana la luce. Il male insito nella società del capitale deve accrescersi affinché possa instaurarsi il bene della società socialista. Alla mitologia della « libertà, uguaglianza, fraternità » Marx sostituì quella del proletariato-messia. Gli fu perciò impossibile vedere il proletariato quale esso è realmente, in tutta la sua complessità in cui sono abbinati il male e il bene, la debolezza e la forza. Egli s'incaponì a creare il « proletariato » e a svelare con ciò la possanza dell'idea-mito, così contrastante con il materialismo; e in larga misura riuscì nel suo intento. In questo sta l'importanza di Marx nella storia del pensiero socialista e dei moti socialisti. Marx non vide e non comprese che l'operaio può benissimo diventar borghese, e che il suo subcosciente è anzi saturo di istinti borghesi. La storia del movimento operaio socialista in Europa l'ha dimostrato a sufficienza. L'opposizione della classe operaia e del socialismo alla borghesia e allo spirito borghese è assai relativa. Il ceto operaio e il movimento socialista albergarono in sé sentimenti manifestamente ostili alla borghesia soltanto nel periodo in cui le aspirazioni e i sogni rivoluzionari rivelavano una scoperta immaturità. Invano cercheresti ora tracce di questo spirito riv:oluzionario antiborghese nei socialisti europei; meno che al-

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trove esso è presente nei socialdemocratici tedeschi, quantunque essi si ostinino a farsi passare per marxisti. Soltanto nei comunisti esso sopravvive (e anche in loro, presumibilmente, per poco tempo ancora). Il comunismo è un risorgere dello spirito rivoluzionario sbocciato sul terreno della guerra. Ma anche questo spirito rivoluzionario è ispirato dalla libidine di potere e di benessere, che sono - nel senso più profondo - eminentemente borghesi. L'operaio, alla fin fine, vuole diventare anch'egli un borghese, e non si può non riconoscergliene il diritto, non fosse che dal punto di vista sociale. Un'autentica avversione alla borghesia e allo spirito borghese la si può bensì notare in certi inteilettuali e in singoli rappresentanti del ceto colto (e magari raffinato), i quali sono immersi nel sogno e nell'attesa d'un'era completamente nuova e in tutto dissimile dall'esistenza borghese; non certo negli operai. Ce lo ha acutamente illustrato il De Man, buon conoscitore dell'ambiente operaio.5 La condizione degli operai non è necessariamente peggiore nelle società capitaliste, e Marx ha torto nel sostenere il contrario (Verelendungstheorie ). Il movimento operaio, che è un'empirica lotta di classe, migliora anzi la condizione dei lavoratori e con ciò, fatalmente, li imborghesisce. Non a caso i socialisti francesi dell'ala sinistra si contristano perché gli operai francesi sono soddisfatti e non desiderano la rivoluzione. Con ciò si spiega il decadimento del sindacalismo rivoluzionario in Francia. Lo stesso va detto del movimento operaio in Inghilterra. Le associazioni professionali operaie accrescono il peso sociale e la forza degli operai nella società contemporanea, e con ciò stesso indeboliscono il loro spirito rivoluzionario e antiborghese. Il socialismo diventa perciò irreversibilmente borghese e si trasforma alla fin fine in un vero partito d'ordine. Ecco allora che nelle socialdemocrazie hanno il sopravvento gli elementi pratico-rifor5

Cfr. H. De Man, Au delà du marxis1:1e. Nda

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mistici, mentre vien meno il pathos messianico e rivoluzionano. Contro questo stato di cose insorgono e lanciano anatemi i comunisti sdegnati. Ma loro stessi non sono che i borghesi di domani o di dopodomani. Sulle peste di Marx, allo spirito borghese essi possono contrapporre solo la foga rivoluzionaria, la quale non rappresenta che una situazione instabile e transitoria, non più che un breve momento della lotta. Quest'attimo passa presto, e poi tutto ristagna e si placa: ricomincia l'edificazione della vita e ricompare un nuovo spirito borghese. Possiamo già constatare questo fenomeno nella Russia sovietica, dove dalle viscere stesse della rivoluzione comunista sta innegabilmente sorgendo una nuova borghesia, più spietata e più avida di vita di quella che l'ha preceduta. Gl'ideali positivi, socialisti o comunisti che siano, sono prettamente borghesi: sono gl'ideali d'un grigio paradiso terrestre dove imperano le officine, gl'ideali d'una forza e d'un'agiatezza esclusivamente terrena. Con ciò non si vuol negare l'esistenza d'una verità sociale positiva nel socialismo e nel comunismo. Ma è vano contrapporre allo spirito borghese un sistema economico qualsisia. Si potrà bensì opporre un sistema economico al sistema capitalista, non mai allo spirito borghese. Quest'ultimo non lo si può combattere se non con un altro spirito; contro lo spirito borghese si erge non la forza economica di classe, ma una forza spirituale. Si potrebbe affermare, in un certo senso, che ogni psicologia di classe è, nell'intimo, borghese ed è pervasa da un istinto di sfruttamento, il che vale anche per la mentalità proletaria. I padroni di domani non sono meno borghesi dei padroni di oggi o di ieri. Lo spirito borghese della società europea del xix e xx secolo non è altro che l'affievolimento della spiritualità nel mondo, è un volgersi esclusivamente al mondo delle cose visibili, nell'atto stesso in cui si negano le cose invisibili per l'incapacità di vivere di esse; tutto ciò non è altro che

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il prevalere del principio economico che Marx ha così bene assimilato conferendogli veste di assoluto. Il comunismo appare non già borghese, ma antiborghese, nella misura in cui esso figura ancora tra i valori invisibili, ed esige di conseguenza fede, sacrificio ed entusiasmo. Come realtà visibile, tradotta in atto, esso sarà altrettanto borghese quanto il capitalismo. Non è stato il capitalismo a foggiare lo spirito borghese, poiché questo è un principio eterno. Vero è, invece, che il capitalismo rampolla dallo spirito borghese; quel capitalismo che rispecchia la condizione spirituale delle società contemporanee.

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Capitolo terzo La valutazione cristiana della lotta di classe L'atteggiamento cristiano verso la persona umana

Il cristianesimo non può negare la lotta di classe con il pretesto che l'ammetterla equivarrebbe a guardare alla storia con occhio meschino e scarsamente idealistico. Il cristianesimo può solo darne una propria valutazione. L'atteggiamento realistico nei confronti della realtà sociale, la visione di realtà nient'affatto camuffate, l'obiettività che contraddistingue la conoscenza del reale hanno, dal punto di vista cristiano, un significato morale altamente positivo. La lotta di classe esiste ed è di non poco momento nella storia: esistono le classi sfruttatrici e le classi sfruttate, e la psicologia di classe deforma la verità e snatura le idee. La coscienza cristiana condanna l'attuale stato del mondo e lo reputa riprovevole e tale da dover essere superato. Ma tale condanna non deve punto indurre a chiudere benignamente gli occhi di fronte alla realtà, né a trarsi in disparte, in preda al corruccio, dalla lotta che si combatte nella vita. I cristiani vivono in questo mondo di peccato e debbono portarne il peso; essi non possono esimersi dal prender parte alla lotta tra opposte forze che dilacera il mondo. Né la religione cristiana può varare un proprio sistema economico che sia valido per tutti in ogni tempo. La Chiesa non professa verità politiche ed economiche, ma prospetta alla libertà dell'uomo la creazione della società. Le relazioni tra uomo e uomo soggiaciono però al giudizio cristiano ed esi-

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gono un'attiva manifestazione della coscienza cr1st1ana. Al~ la coscienza cristiana deve riuscire intollerabile la trasformazione dell'uomo in cosa e del lavoro in merce, e non può non ripugnarle l'egoismo spietato della concorrenza. iAa proprio su questo poggia la società capitalista delle classi. La coscienza cristiana deve condannare, sia dal punto di vista religioso sia da quello morale, lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo e d'una classe da parte d'un'altra classe; essa deve perciò ergersi a difesa dei lavoratori e degli sfruttati. Un prezzo immenso e incomparabilmente superiore a ogni altra cosa ha per la fede cristiana l'uomo, cioè la sua personalità e la sua anima. Essa non può dunque fare a meno di condannare un regime di vita in cui l'anima e la personalità umana siano convertite nel mero strumento d'un processo economico disumano e inanime. Ciò sia detto sia contro il capitalismo sia contro il comurnsmo. È l'economia al servizio dell'uomo, non l'uomo al servizio dell'economia. Nulla v'è di più contrario al cristianesimo di quell'ideologia forzatamente ottimistica secondo la quale il più forte nel campo economico, colui insomma che risulta vincente nella competizione economica, sarebbe anche il migliore; secondo la quale la ricchezza sarebbe un beneficio accordato all'uomo in guiderdone delle sue virtù. La coscienza cristiana, meglio d'ogni altra, può facilmente e coerentemente riconoscere che le categorie storiche ed economiche non sono eterne, bensl transeunti, e che le più effimere tra tutte sono le categorie dell'economia del capitale. Eterni sono soltanto i fondamenti spirituali della società, mentre tutte le forme sociali, politiche ed economiche sono passeggere. Vero è che nel principio della proprietà privata sussiste un certo nucleo ontologico, ma ciò non toglie che le forme della proprietà siano storiche, mutevoli e perciò transitorie. La loro erezione in assoluto costituisce per i cristiani una colpa, tanto più che codesto nucleo ontologico meno che altrove lo si può rinvenire nel

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carattere che la proprietà privata ha assunto nel regime capitalista. In sostanza, il capitalismo distrugge la proprietà personale e la svuota di ogni significato e di ogni giustificazione, rendendola fittizia. La personalità umana è travolta e relegata nel mondo fittizio e fantasmagorico delle cifre bancarie dei libri contabili. Scompare cosl il rapporto con il mondo reale degli oggetti. Ma il cristianesimo può tener da conto solamente le realtà, rifuggendo per contro dalle apparenze. Ora, il capitale finanziario è collettivo, non personale, e in esso non sono nettamente definiti né il soggetto né l'oggetto della proprietà. Invece, nella vita economica e amministrativa, alla coscienza cristiana deve stare principalmente a cuore il suo fondamento reale, che è il lavoro. Il cristianesimo considera sacro il lavoro e perciò deve prenderlo sotto la sua tutela; con ciò esso protegge di conseguenza anche la proprietà conseguita con il lavoro. L'operaio ha diritto al suo sostentamento. 1 Se alcuno non vuole lavorare, nemmeno mangi.2 L'antico mondo greco-romano spregiava il lavoro, considerandolo prerogativa degli schiavi. Il cristianesimo instaurò invece il rispetto per il lavoro e per chi lavora. Gesù Cristo, il Figlio di Dio, in quanto uomo fu falegname; apparteneva quindi alla classe sociale dei lavoratori, degli operai. E da ciò fu santificata la condizione sociale dei lavoratori. Anche gli apostoli erano tra questi. Per l'economia cristiana il problema principale è quello del lavoro, e dal rapporto con il lavoro viene determinato anche l'atteggiamento verso le classi sociali e verso il problema della lotta di classe. In realtà, una forma di lavoro realmente libero non si è mai data sino a oggi. Relativamente libero fu soltanto il lavoro degli artigiani. Ma in passato, nelle sue forme prevalenti, il lavoro fu schiavesco o servile. Nella società capitalista il lavoro è detto « libero ». Ma ciò dimostra soltanto fino a 1

Mt. 10, 10. Ndt

2

2 Tess. 3, 10. Ndt

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qual segno possa essere equivoco l'uso della parola « libertà ». In detta società, infatti, il lavoro è, ancora e sempre, servile: in modo coperto però, non già in modo palese. L'operaio - ossia colui che è privo dei mezzi di produzione ed è costretto a vendere il proprio lavoro per scampare alla fame - è formalmente libero, per il fatto che nessuno lo coarta, ed egli gode anzi degli stessi diritti politici dei capitalisti e partecipa all'elezione del parlamento; ma di fatto la sua libertà si restringe alla incontestata facoltà di morire di fame, nel caso che questa sorte gli paia preferibile alle pesanti e degradanti fatiche dell'officina. La libertà di lavoro viene intesa insomma come la libertà di vendere il proprio lavoro come fosse merce: libertà che si realizza sotto la tremenda minaccia dell'impossibilità di vivere altrimenti. Ne consegue che le condizioni sono dettate da coloro che comperano il lavoro come merce, e sono privilegiate dalla situazione senza via d'uscita dei venditori del lavoro. Chi compera può infatti disporsi ad aspettare e a scegliere, ma codesta stessa possibilità è negata a chi vende. I socialisti hanno sempre mirato all'emancipazione del lavoro e dei lavoratori; ma fa specie che le ideologie onde sono mossi non abbiano mai impostato il problema del lavoro nei suoi veri ed essenziali termini (pari in ciò alle ideologie borghesi). I socialisti aspirano bensì al miglioramento delle condizioni di lavoro e all'emancipazione dei lavoratori da un lavoro troppo logorante e prolungato; essi però non venerano il lavoro in sé, non ne sublimano la sostanza. Più che mai lontano ne è il marxismo, il quale adotta senz'altro le forme di lavoro consacrate dalla società capitalista industriale. E invece la questione sociale consiste soprattutto nell'organizzazione d'un lavoro effettivamente libero. A tutt'oggi il comunismo ha risolto tale questione mediante l'organizzazione coercitiva d'un lavoro servile di Stato. In pratica esso sfociò in una forma di capitalismo di Stato, nel senso che riconobbe come scopo e valore supremo il bene e la potenza economica dello Sta-

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to comunista, anziché il bene e la prosperità degli stessi lavoratori e operai. La verità è che nessun sistema sociale salvaguarda per davvero i diritti e gl'interessi economici dei lavoratori, cioè di ciascuna persona umana; e che tutti i sistemi sociali riconoscono il primato della società sulla personalità ( e lo stesso fa il sistema del capitale, che afferma formalmente l'iniziativa individuale e la proprietà privata). Ma il problema del lavoro è problema interiore, religioso e spirituale, senza la cui soluzione diviene impossibile la sopravvivenza della società umana. Esso si para dinnanzi a ogni persona umana come il problema del rapporto religioso con il lavoro: con il lavoro proprio e con quello altrui. Le antiche discipline del lavoro, sempre servili in questa o quella forma, vanno crollando, ed è dubbio che possano mai essere ristabilite. Il peso sociale e la forza sociale delle classi operaie crescono via via, e ancor più cresceranno in futuro. E tali classi respingeranno la schiavitù sotto qualsiasi forma fallace, palese o velata. A questo punto sorgono in tutta la loro gravità i problemi dell'atteggiamento interiore che ogni persona umana dovrà assumere nei confronti del lavoro, vale a dire i problemi dell'etica del lavoro, che è indissolubilmente legata all'atteggiamento religioso verso la vita. La questione sociale è anche un problema religioso e squisitamente cristiano, innanzitutto per ciò che riguarda l'atteggiamento da tenere verso il lavoro. Sul lavoro infatti è fondata non soltanto l'economia, ma anche la vita intera della società. E perciò la questione dei fondamenti spirituali del lavoro è tutt'uno con quella dei fondamenti spirituali della società. Il lavoro è, in questo mondo della natura, una prerogativa dell'uomo, è anzi il suo ineluttabile destino. L'uomo è un operaio, un lavoratore; egli deve sapere perché è condannato a essere tale, deve sapere in che consiste il significato del suo lavoro. Una cosa è il problema del miglioramento delle condizioni di lavoro, della riduzione della giornata lavorativa, dell'affran-

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camento dagli aspetti intollerabilmente penosi che il lavoro a volte comporta. Tutt'altra cosa è il problema del lavoro in sé, ossia dell'atteggiamento interiore verso il lavoro. Se il primo problema può essere risolto mediante riforme ovvero con la trasformazione della struttura sociale, il secondo problema invece è insolubile dall'esterno, socialmente, perché inevitabilmente, nella sua intima essenza, assurge a problema spirituale e religioso. Al di fuori del cristianesimo, tale problema resta insolubile, oppure sarà risolto con metodi schiaveschi, ossia mediante l'asservimento dello spirito al mondo materiale. La vita economica dipende dal lavoro; il lavoro a sua volta dipende dallo spirito, è anzi un atto dello spirito, un'attività spirituale nell'ambiente naturale. Insomma, il cosiddetto lavoro fisico è un atto dello spirito. In tal modo viene rovesciata la tesi di Marx. È affatto assurdo guardare al lavoro come a un fenomeno materiale. Se Marx persiste nel suo materialismo economico, ciò avviene solo perché egli non ha mai ponderato l'essenza del lavoro, dato che solo gli aspetti sociali di questo parevano destare il suo interesse. Lo spirito è attività e creazione non meno che libertà, ma nel mondo della materia l'attività e la creatività dello spirito decadono fatalmente, mentre la libertà dello spirito incontra la resistenza della necessità che inerisce alla natura. Non ogni lavoro è creativo, e la gravità della questione operaia è legata per l'appunto al lavoro privo di creatività, pesante e non di rado spoglio di significato per la persona. Il duro travaglio economico - che è una manifesta espressione dell'affanno e delle sollecitudini umane scaturite dal peccato - ci rievoca di continuo l'esilio dell'uomo dal paradiso terrestre, la perdita irrimediabile della pristina « economia » dell'Eden, la povertà e la limitatezza dei beni materiali accessibili all'uomo. Si può e si deve tendere a mitigare socialmente il peso del lavoro; mentre il volerlo conservare in un piano sociale che rinvia al1' ascesi cristiana è mera ipocrisia di coloro che non sono

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gravati da questo peso, e corrisponde in realtà al punto di vista borghese. Ma oltre al lato sociale c'è anche quello personale, individuale, che non può assolutamente essere misurato con il metro del piano sociale. Il fardello del lavoro è anche il destino personale dell'uomo; e, in quanto tale, il lavoro non può essere vissuto se non religiosamente. Nel lavoro, purché lo si consideri nella sua interiorità anziché nel suo aspetto esteriore, è insito un elemento ascetico eterno. L'uomo è assegnato al lavoro dal mondo materiale e dalle necessità materiali, ma egli è anche libero spirito, e può dunque liberamente accettare il lavoro come il suo cammino spirituale, come un'ascesi, come un ministero subordinato a finalità che vanno oltre la sua persona. Il pi;oblema della disciplina del lavoro nella società socialista è quanto mai complesso e, a tutt'oggi, ben lungi dall'essere risolto. Proprio per la collettività socialista dovrà porsi in guisa particolarmente acuta il problema spirituale del lavoro e della sua libera accettazione. Nella società socialista, infatti, non ogni genere di lavoro risulterà creativo e soddisfacente, per cui dovrà pur esserci, per cosl dire, una giustificazione interna del lavoro stesso. Se verrà a mancare tale motivazione interna, sarà giocoforza costringere gli operai al lavoro facendo ricorso a una disciplina di tipo militare e trasformando la vita in un andamento da caserma. Il socialismo materialista ripone le sue speranze, per qualche misteriosa ragione, in una rinascita della natura umana che dovrebbe scaturire automaticamente dalla nuova organizzazione della società. Ma a questa stregua noi finiamo in un circolo vizioso, ché non è stata ancora scoperta la leva che dovrebbe agire sullo spirito. Essa può essere trovata soltanto nel risveglio cristiano degli spiriti delle creature. La questione operaia è soltanto un aspetto della più vasta questione sociale. Per la coscienza cristiana essa rientra anzitutto nel problema dell'atteggiamento verso il lavoro m senso spirituale, consiste anzi nell'atteggiamento verso 62

il lavoro altrui e verso il proprio lavoro, verso il lavoro considerato quale diritto e quale dovere. Esiste però un altro aspetto della questione, di fronte al quale il cristiano è pure chiamato a definire il proprio atteggiamento. È questo il problema della teleologia obiettiva della vita economica, il problema di un piano economico, d'un'organizzazione che prevalga sull'anarchia dell~ordine capitalistico, fondato com'esso è sul giuoco degl'interessi individuali, sull'urto e sulla concorrenza di forze contrastanti. Quell'ordine che, in conseguenza della razionalizzazione dell'industria e dell'incremento dei beni e delle ricchezze economiche, dà luogo alla disoccupazione, getta sul lastrico le masse operaie e le riduce alla miseria e alla fame (e ciò si verifica nell'àmbito del lavoro intellettuale non meno che in quello del lavoro materiale), quell'ordine è fatalmente destinato al fallimento e condannato a sparire. L'ordine capitalistico, che accanto a un aumento generale della ricchezza ammette una povertà rivoltante; che si vede costretto, in nome del profitto economico, a distruggere l'eccedenza di merci nonostante l'esistenza del bisogno; che è causa di guerre terribili; che è mosso dalla cupidigia di lucro trasformata in passione disinteressata; che rende vuota di senso la vita delle stesse classi dominanti, mortificandola a semplice arma e strumento del giuoco economico; quello è un ordine insensato, e la coscienza e la ragione giustamente lo condannano. In linea di principio tale ordine è ben più insensato del regime comunista medesimo. Esso crea una « ricchezza stregata », giusta la caustica espressione di Carlyle. E proprio il regime industriale capitalistico, come già s'è detto, è quello che più d'ogni altro -si discosta dalla realtà e quello che più inclina al regno della finzione. È questo un regime fantasmagorico, il più innaturale della storia umana, è il regime che maggiormente asservisce la creatura vivente alle costruzioni impersonali. Il mondo finanziario, il mondo del danaro, delle banche e delle borse costituisce nel suo genere un mondo assai misterioso, sta63

rei per dire m1st1co. Esiste per davvero una m1st1ca del denaro, che non è di certo né divina né naturale, bensì diabolica; essa governa segretamente il mondo. Léon Bloy l'aveva magistralmente capita. 3 Di questo mondo fantasmagorico soffrono non solamente le classi operaie, ma tutte le classi senza distinzione, tutti gli uomini, i quali si trovano in balìa d'una forza sovrumana: l'essere umano soccombe, l'immagine umana scompare. I capitalisti d'oggi, posseduti dalla brama d'un'espansione sfrenata, divengono vittime di quelle stesse forze irrazionali e inumane al cui servizio si pongono. Essi sono perciò incapaci di rientrare in sé, di fermarsi, non hanno un minuto di sosta, non possono contemplare la divinità del creato, cosicché l'anima loro soccombe. E per il cristianesimo ogni anima umana è preziosa. Non corrisponde affatto a verità che il borghese contemporaneo, questo eroe del capitalismo e sovrano del mondo, non faccia nulla e viva nell'inerzia; al contrario, egli è perennemente preso dalle sue faccende e non ha un istante libero. Tutto sta nel vedere di che qualità siano le sue occupazioni, quale spirito le animi, che cosa insomma esse fruttino all'anima sua. Nessuna classe, certo, può essere esclusivamente scroccatrice e parassitica, il che già equivarrebbe di per sé a un processo di dissoluzione e di putrefazione da cui la classe sarebbe colpita. Ma il lavoro stesso delle classi dominanti nel mondo capitalista, con tutte le cure che esso comporta e che le assillano da mane a sera, è contrario alla concezione cristiana del lavoro e all'atteggiamento cristiano verso la vita. L'ordine capitalistico è il più fragile e il più instabile di tutti, e ingenera facilmente gravi crisi e catastrofi. Nessuno può sapere che cosa porterà seco il domani. Sta di fatto che dietro un tale regime si nasconde una cupidigia insaziabile, la quale genera una perpetua inquietudine. Il mondo capitalista non arreca la 3

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Léon Bloy, Le salut par les iuifs. Nda

felicità a nessuno, poiché non offre sicurezza né garanzia per l'avvenire non solo al proletariato, ma nemmeno alla borghesia. Il milionario, il proprietario di enormi aziende, il banchiere possono da un giorno all'altro cadere in miseria, e perciò sono martiri del proprio lavoro. L'ordine capitalistico è un orqine avventuriero, nel senso che è molto dinamico, suscita immense energie, sviluppa le forze produttive materiali, ma annichila al tempo stesso l'uomo e ne mutila l'anima, non risparmiando né i capitalisti né gli operai. È questo il regno di Mamrrfona. Il cristianesimo deve condannare questo regno non solo partendo dagl'interessi umani della classe operaia, ma anche nell'interesse della stessa borghesia, che a sua volta non è libera, bensl è asservita spiritualmente ed è preda di un dio che esige sacrifici _umani. La coscienza cristiana invoca l'abbandono del mondo delle finzioni e il ritorno alle autentiche realtà. Ciò non significa che essa condanni lo sviluppo economico o biasimi ogni attività industriale, né che pretenda il ritorno alle attività artigianali e all'economia rurale, e a esse sole. Essa esige bensì che si stabilisca una gerarchia di valori; esige la sottomissione della vita economica a un principio spirituale, la soppressione insomma della sua autonomia immorale. Soltanto a questa condizione l'uomo sarà libero dai fantasmi e potrà volgersi alle genuine realtà. Il cristianesimo esige che la creatura umana, ogni creatura, non sia trattata alla stregua di un oggetto o d'una merce, e si oppone a che essa sia convertita in uno strumento del processo economico e del conseguimento della potenza economica. L'economia esiste per l'uomo, non l'uomo per l'economia. Quando noi, pronunciando l'espressione « regime capitalista », mostriamo di averlo in spregio e ne mettiamo a nudo le tare, certo non intendiamo con ciò esaurire il contenuto della vita contemporanea, come piace ai marxisti e ai comunisti. La vita è complessa. Nell'Europa dominata dal capitale e nell'America ci sono anche molte cose che non derivano dal capitalismo e non gli sono

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sottomesse. La borghesia stessa si compone di uomm1 m cui non ci sono solo tratti negativi, ma anche doti positive. E questi uomini hanno da essere considerati secondo un metro di giudizio umano; ma è pur vero che lo spirito del capitalismo, lo « spirito borghese » imprime nella vita della nostra epoca un suggello fatale; ed è vero che esso influenza anche il movimento socialista, il quale tenta vanamente di rinnegarlo. Esistono dei valori assoluti che per il cristianesimo sono imprescindibili. Tali valori non sono di origine sociale; essi si manifestano però nella vita sociale. Tale è soprattutto il valore preminente della persona umana in quanto centro spirituale della vita. Tale è il valore della libertà dello spirito, della libertà di coscienza, della libertà di pensiero e di creazione. I sistemi sociali che trasformano la persona umana in cosa e in strumento del processo economico, che disconoscono la libertà dello spirito e violentano la coscienza umana, debbono dunque essere riprovati dalla coscienza cristiana. L'anima umana è per il cristianesimo la cosa più preziosa, e dunque un ordine sociale che la contamini è inaccettabile per chi è cristiano. Ciò non implica che, empiricamente e di fatto, la cristianità nella storia abbia sempre indirizzato in questo senso i suoi giudizi: vi furono dei sistemi sociali teocratici, papacesaristi e cesaropapisti, che soffocarono la personalità, negarono la libertà di coscienza e pervertirono le anime. Ma si trattava di sistemi sociali pseudocristiani, condannati a rovina certa. Da un punto di vista storico, l'ortodossia russa è stata strettamente legata al ceto mercantile e alla minuta borghesia, il cattolicesimo francese all'aristocrazia e il protestantesimo tedesco alle classi borghesi e al nazionalismo. Ma la persona umana è, dal punto di vista assiologico, più in alto della classe, così come è superiore allo Stato e all'economia. La persona umana appartiene alla classe, e può a buon diritto essere definita come appartenente alla classe ( dell'alta ovvero della 66

piccola borghesia, del ceto nobile o contadino o proletario) soltanto nel suo involucro esteriore, soltanto parzialmente e per taluni suoi aspetti; ma nell'intima sua sostanza essa appartiene al mondo spirituale, dunque all'eterno ben più che al tempo. Dal punto di vista dei valori cristiani assoluti, tanto il capitalismo quanto il comunismo materialistico sono passibili di condanna; si può anzi ravvisare in ambedue il medesimo principio meritevole di condanna. Il socialismo d'impronta marxista pone la classe più in alto della persona e considera l'uomo nient'altro che una funzione sociale. Ma anche l'ideologia capitalistico-borghese considera l'uomo alla stessa stregua. Il capitalismo è, allo stesso modo del comunismo, per la supremazia del collettivo impersonale. Un collettivo impersonale ne propone e ne prepara un altro, anch'esso impersonale. È questa la lezione che si deve trarre da Marx. Il cristianesimo deve accostarsi alla soluzione della questione sociale con valutazioni sue proprie. Esso riconosce la condotta cristiana che oltrepassa l'isolamento della singola personalità, riconosce la comunità cristiana o ecumenica, la fraterna comunione delle persone, ma ricusa il collettivo sociale impersonale e tutto ciò che non sia a misura d'uomo. Esso non deve negare la realtà della lotta di classe e il significato che questa ha ai fini della soluzione del problema operaio; ma si erge risolutamente contro ogni tentativo di opprimere e di soffocare l'uomo mediante la lotta di classe, da qualunque parte esso provenga. Nella questione sociale l'uomo sovrasta tutto. La questione sociale va risolta in vista dell'uomo. Ogni classe è temporanea e transitoria, così come sono effimeri e fugaci tutti i beni economici. Ma l'uomo è eterno, e la sua anima è immortale: essa sola sussiste al cospetto di Dio. Non si può negare completamente l'importanza della lotta di classe nella soluzione del problema sociale che travaglia il nostro tempo. Ma la questione sociale non potrà mai essere risolta mediante la sola lotta di classe, come pretende il

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marxismo; né la soluzione potrà mai essere trovata in senso esclusivamente economico e materiale, giacché non si tratta solo d'un problema di tal fatta. La questione sociale è in pari tempo una questione spirituale, religiosa, morale; è una questione altresì culturale, pedagogica e tecnica; è una questione che investe il rinnovamento spirituale e l'educazione delle masse. Senza questo approfondimento della questione sociale, ogni riforma e ogni rivoluzione in campo sociale rischiano di finire in una carnevalata e in un vuoto camuffamento: sarebbe come fabbricare otri belli e nuovi, mentre il vino è sempre quello di prima e si è inacidito. La questione sociale include anche il problema della nascita di nuove anime umane, che non v'è modo di forgiare meccanicamente. È vano cercare di creare un regno del lavoro, se non si è provveduto a mutare l'atteggiamento spirituale e morale verso il lavoro. La questione sociale della nostra epoca presenta, sì, un aspetto tecnico, economico e giuridico, ma essa è essenzialmente un problema istorioso:fico con una sua componente escatologica; essa è una sorta di giudizio universale compiuto sulla civiltà e sul vecchio mondo. Anche per Marx la questione sociale è innanzitutto un problema storiosofìco, il problema cioè dell'avvento d'un'era nuova; solo ch'egli, a causa del suo ingenuo materialismo, non poté esprimere ciò adeguatamente. Colui che meglio di tutti seppe discernere il carattere storiosofìco del socialismo, ricollegandolo all'escatologia, è stato l'ideologo del socialismo religioso in Germania, voglio dire Tillich. 4 Egli ricorre a questo proposito alla parola Kair6s, con cui esprime la consumazione dei tempi e l'irruzione dell'eternità nel tempo.

4 Vedi l'antologia Kair6s. Zur Geisteslage und Geisteswerdung. Herausgegeben von Paul Tillich. Nda

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Capitolo quarto Libertà reale e libertà formale L'uomo, il cittadino, il produttore Libertà e violenza

La dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino si è mostrata, a dir vero, assai poco sollecita dell'uomo. L'immagine del cittadino ha oscurato in essa quella dell'uomo; senza dire che il cittadino vi fu inteso puramente come creatura politica, e che i suoi diritti furono riguardati semplicemente quali diritti formali. Perciò la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino poté agevolmente segnare il trapasso a una sorta di protezione degl'interessi delle classi borghesi e dell'ordine capitalistico. Inoltre, nella concezione liberal-borghese del mondo, i diritti vennero scissi dai doveri e figurarono come l'espressione degli interessi e delle rivendicazioni; invece il diritto non può essere avulso dal dovere ma, al contrario, presuppone sempre il dovere ed è anzi, in certo senso, esso stesso un dovere. Una concezione del diritto che non presupponga il dovere è per sua natura borghese, e dietro di essa si cela la bramosia di classe. Per la coscienza cristiana la dichiarazione dei diritti acquista un senso sostanzialmente altro da quello ch'essa riveste per l'ideologia liberal-borghese e democratico-borghese. Dal punto di vista cristiano, gode di diritti assoluti non il cittadino, ma l'uomo in quanto essere spirituale e libero spirito, che non può essere abbassato a strumento. Al tempo stesso i diritti dell'uomo sono indissolubilmente connessi

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con i doveri dell'uomo. La stessa libertà dell'uomo non è una rivendicazione, ma un· dovere, il quale implica che da lui si possa esigere più di quanto egli esige per sé. L'uomo deve essere libero: questo Iddio esige e attende da lui. L'uomo deve prendere su di sé il peso della libertà, come colui che è uscito di minorità. Il centro di gravità si sposta qui dal cittadino all'uomo. La nozione di cittadino è secondaria e subordinata, e appartiene alla società politica, dietro la quale non è così facile scoprire la realtà che essa dissimula. La nozione di uomo appartiene invece al piano spirituale. L'uomo è in primo luogo un essere spirituale, non già politico, e dunque i suoi diritti assoluti e imprescindibili sono radicati nel mondo dello spirito, non in quello civile e politico, che è per contro mutevole, instabile e transitorio. Tuttavia la dichiarazione dei diritti non può limitarsi a enunciare i diritti dell'uomo come essere spirituale, ma deve calarsi anche nelle sfere inferiori e subordinate dell'essere. Ecco allora che alla realtà della vita spirituale sottentra la realtà della vita economica. In questa sfera, la dichiarazione dei diritti diventa quella dei diritti del produttore e del lavoratore, la cui nozione appartiene alla società economica anziché alla società politica. È questa l'incontestabile sfera delle realtà gravi e austere da cui dipende la vita stessa dell'uomo sul piano delle cose terrestri. Ai diritti spirituali dell'uomo tengon dietro i diritti economici del produttore. Dapprima Saint-Simon, poi, in altra guisa, Proudhon proposero di sostituire ai diritti dell'uomo quelli del produttore. Ciò è frutto di un modo di concepire la società innanzitutto come una società laboriosa. In effetti, il produttore è un essere più reale che non sia il cittadino. Ed ecco che noi penetriamo nella sfera reale del lavoro: del lavoro, beninteso, considerato in tutti i suoi gradi gerarchici (la qual cosa i socialisti non sempre ammettono). Ma la proclamazione dei diritti economici del produttore, 70

ove la si scinda da quella dei diritti spirituali dell'uomo, conduce l'essere umano alla schiavitù, al suo asservimento al mondo materiale, nonché a un abbassamento qualitativo del livello culturale. Dal punto di vista assiologico, occorre stabilire la seguente gerarchia di gradi e di valori: il primato spetta alla sfera spirituale, in secondo luogo viene il fattore economico, in terzo luogo la politica quale strumento riferito a quest'ultimo. Solo la sottomissione cosciente della politica all'economia, una volta riconosciuta la preminenza del principio spirituale, impedirà alla politica di degenerare in una mera finzione atta a velare e a mascherare il gioco degl'interessi economici. La società dev'essere assiologicamente concepita come un'entità economico-spirituale capace d'un lavoro creativo, e con un minimum indispensabile di politica. Il vampirismo d'una politica fine a se stessa estenua le società umane, ed è cosl che si crea il regno fittizio d'una politica che non è al servizio della vita e degl'interessi vitali, ma al contrario assoggetta la vita a sé. A riguardo della politica è dunque necessaria una vera e propria ascesi, così che si rendano evidenti le reali sfere della vita spirituale ed economica. Da ciò vuol essere definito anche il nostro atteggiamento verso le classi. Non è lecito prestar fede agli effetti sociali scaturiti dall'uguaglianza civile e politica, cosl com'essa è stata instaurata nelle democrazie borghesi in seguito alla soppressione delle caste. C'è qui un divario gigantesco tra ciò che è formale e ciò che è reale. Le differenze economiche di classe, le quali permeano l'esistenza quotidiana nel suo complesso, sono enormi malgrado l'eguaglianza democratica del nostro tempo. Questo dimostra soltanto sino a qual segno l'economia sia più reale e fondamentale della politica. La dichiarazione dei diritti nelle società democratiche non è stata approfondita al punto da poter proclamare dei reali diritti economici. Il diritto di proprietà è bensì riconosciuto e garantito; ma si tratta del diritto di proprietà degli abbienti, non già del diritto di proprietà - o del di71

ritto alla proprietà - degl'indigenti o dei semplici lavoratori. La società non riconosce per contro il più reale dei diritti: il diritto alla vita; giacché non può ragionevolmente parlarsi di diritto alla vita se non v'è diritto al lavoro, e se nelle società ricche è possibile constatare un fenomeno così aberrante com'è quello della disoccupazione. È riconosciuta un'identica libertà formale per tutti i cittadini, ma tale libertà si risolve, nella vita economica, nel fatto che vi sono uomini i quali trepidano per il domani. La libertà formale nella vita economica non può evitare che vi siano degli uomini condannati a patir la fame e la miseria, quantunque esistano immense ricchezze. La sproporzione tra libertà reale e libertà formale dipende dal fatto che, nel mondo economico, la libertà non è definita formalmente, bensì materialmente, attraverso i mezzi e gli strumenti della produzione. La patetica e retorica difesa della libertà, che le ideologie borghesi sovente invocano per stigmatizzare il socialismo, dimostra soltanto come sia facile abusare di quell'alata parola che è « libertà », e quanto varie siano le interpretazioni che se ne possono dare. Ricordo il celebre aneddoto del vetturino libero (esso va attribuito, se non vado errato, a Louis Blanc). Un riccone si trova a passare accanto a una carrozza e domanda al cocchiere: « Sei libero, vetturino? ». ·« Libero, sì », risponde pronto il cocchiere. « Evviva la libertà », esclama il passante; e tira di lungo. È possibile anche quest'interpretazione della parola « libertà »; ed è anzi essa che prevale nella società capitalista. E appunto a tale interpretazione bisogna contrapporre il reale concetto di libertà nella vita sociale. La libertà nella vita sociale deve dare a ciascuno la possibilità reale non solo di sopperire ai bisogni della propria esistenza, ma anche di manifestare la propria energia creatrice, di realizzare insomma la propria vocazione. La libertà, rettamente intesa, richiede un'organizzazione della società tale da assicurare a ogni uoino la possibilità materiale del 72

lavoro e della creazione. Ciò presuppone non soltanto la soppressione degli strati sociali, ma anche la sparizione delle classi, che dovranno essere sostituite dalle professioni. Una società fondata sull'organizzazione del lavoro e della creazione nei suoi diversi gradi gerarchici, fondata cioè sulla vita reale, presuppone inevitabilmente dei settori e delle corporazioni di nuovo tipo, quali cellule fondamentali del la società. Ma il lavoro stesso va inteso ben altrimenti da come lo intendono il marxismo e il socialismo materialistico, per i quali esiste soltanto la quantità del lavoro a detrimento della sua qualità. L'egualitarismo meccanico è affatto estraneo al cristianesimo, è antitetico all'intima struttura dell'essere e volto anzi a distruggerlo. La soppressione dei ceti e delle classi non significa punto l'instaurazione d'un'artificiale uniformità siffattamente ottenuta, d'un livellamento al grado infimo, ossia la negazione di ogni gerarchia della qualità. All'opposto, essa implica l'affermazione d'un'autentica gerarchia delle qualità, d'una reale gerarchia umana contrapposta a quella gerarchica, convenzionale e simbolica che appare legata alla situazione sociale - fatta di ceti e di classi degli uomini. Soltanto allora· si renderà possibile una valutazione dell'uomo in base a ciò che egli è, e non in base a ciò ch'egli ha: una valutazione, vale a dire, autenticamente ontologica. Per apprezzare la bellezza delle forme corporee dell'uomo è necessario spogliarlo. Soltanto una società di professioni laboriose e di vocazioni creative che abbia superato le classi e gli ordini sociali perverrà a essere una società reale, libera dunque da finzioni e da imposture. La coscienza cristiana esige tale manifestazione della realtà e l'emancipazione dalle finzioni, dagl'inganni e dagli orpelli. Al tempo stesso essa dovrà essere una società in cui la peccaminosa brama del potere, da cui germinano il vampirismo, le fantasmagorie e le soperchierie della politica, sia ridotta al minimo. Ciò non vuol dire che presso codesta nuova società,

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angosciosamente invocata dall'uomo contemporaneo, abbia a scomparire qualunque forma d'aristocrazia, qualunque gerarchia delle qualità. Ma l'aristocrazia della schiatta, del censo e della ricchezza dovrà essere sostituita dall'aristocrazia delle qualità del lavoro e della creatività, dall'aristocrazia del talento e della vocazione, cioè da un'aristocrazia effettivamente umana. In una società di tal genere la libertà sarà congiunta all'amore. L'antagonismo classista e la lotta di classe hanno attossicato le anime umane con i terribili veleni dell'invidia, dell'odio e dell'inimicizia. Ne sono state avvelenate e ne soccombono le anime così del proletariato come della borghesia. Già questo sol fatto, psicologico ed etico, stimola la coscienza cristiana a pronunziare un giudizio di condanna sulla società delle classi e sull'esistenza stessa di queste. Si può invero obiettare che l'odio, l'animosità e l'invidia sono inestirpabili finché non sarà stata vinta l'eredità del peccato, e che così sarà sempre in qualunque società. Ciò è vero senza dubbio, e noi non possiamo concepire nel nostro mondo di peccato l'esistenza d'una società del tutto esente da queste passioni dell'umanità peccatrice. Ma questa verità non esclude affatto la possibilità, e vorrei dire l'obbligo, di chiedersi in quale ordine sociale si creino le condizioni più favorevoli e meno deleterie all'anima umana. L'antagonismo e l'odio di classe hanno assunto nelle società contemporanee proporzioni tali che a volte sembra perduta ogni speranza circa la possibilità d'una trasformazione pacifica della società. Diresti che ormai è troppo tardi, che i termini sono scaduti senza rimedio. L'idea d'una collaborazione pacifica e d'una durevole solidarietà tra le classi ha tutta l'aria d'un'utopia bella e buona. Nella società contemporanea si è accumulata troppa dinamite, ogni integralità si è perduta, l'unità viene meno. Non tutto si avvera secondo i pronostici di Marx, ed egli è ben lungi dall'aver previsto tutto; ma l'irreconciliabile ostilità di classe sembra confermare le sue aspettative.

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Se noi che ci diciamo cristiani ci scostiamo da Marx nelle valutazioni, non è certo perché siamo pronti a schierarci dalla parte delle classi borghesi e del capitalismo per ciò che concerne la lotta tra le classi; niente affatto: ogni psicologia di classe - aristocratica, borghese o proletaria che sia, - sol che soffochi nell'uomo l'intima spiritualità e paralizzi la coscienza cristiana, risulta inammissibile per i cristiani e dev'essere condannata da costoro dal .punto di vista eticq. Come già è stato detto, la psicologia di classe e la coscienza classista sono frutto del peccato ed espressione di esso. Nella sua lotta contro la borghesia il proletariato ha, dal punto di vista sociale, ragione; ma la mentalità proletaria, fondata com'è sul risentimento e sull'odio contro la borghesia, oltreché sull'invidia nei confronti dello strato sociale colto, non è punto una psicologia messianica volta a liberare l'umanità, ma è piuttosto la classica psicologia dell'infelicità e dell'umiliazione che anela alla compensazione. Spencer ebbe una volta a dire che è impossibile ricavare una condotta aurea da istinti plumbei. È questa una verità elementare e irrefutabile. « Proletario », nel senso marxiano del termine, è immancabilmente colui che è divorato dall'astio, dall'invidia e dallo spirito di vendetta, ed è sempre pronto a ricorrere alla violenza. Tale appunto lo vogliono vedere i comunisti, i quali non si stancano di predicare una struttura spirituale siffatta e la forgiano valendosi della demagogia. Ma come ci si può attendere la nascita di una società nuova e migliore e l'instaurazione di nuovi, migliori e più umani rapporti tra gli uomini da istinti di piombo di tal genere, da una struttura psichica tanto ignobile? Se inteso in codesto senso, il « proletario » non può essere identificato con l'operaio; questi infatti può esser dotato di tutt'altra struttura spirituale e di ben altri istinti, può esser cristiano e aspirare a un ordine sociale più giusto e più umano. L'odio dell'uomo contro l'uomo e contro un'intera classe, che è pur sempre composta di esseri umani, è

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peccaminoso e perciò passibile di condanna; ma non si deve dimenticare che tale odio, sul piano psicologico, è naturalmente sgorgato dall'alterigia e dal disprezzo che le classi dominanti, nobiltà e borghesia, sempre manifestarono nei confronti dell'umile popolo lavoratore. È venuta l'ora della resa dei conti per il servaggio feudale e per la schiavitù. L'antico peccato ne genera uno nuovo, ed è più colpevole colui che per primo adottò nei confronti di altri uomini tale atteggiamento riprovevole. L'invidia satura d'odio è divenuta nella nostra epoca una piaga sociale; essa si manifesta non soltanto verso la ricchezza, ma anche verso la cultura, l'istruzione e il sapere. E non è forse questo uno stato di peccato? Ma quella società in cui l'invidia si sia fatta strada sino a divenire una piaga sociale è inevitabilmente condannata alla disfatta. Non solo la coscienza proletaria e socialista, ma in genere anche una coscienza morale più elevata non tollera più, al giorno d'oggi, forme d'ineguaglianza economica e sociale quali la coscienza morale seppe sopportare un tempo. Oggi gli stessi privilegiati, i possessori di ricchezze sin troppo cospicue (soprattutto se raffrontate con l'indigenza e la povertà ch'essi si vedono d'attorno) provano un acuto senso di disagio e non credono alla stabilità e alla legittimità d'un sistema di vita che li ha dotati di beni e di privilegi. Il sentimento e l'autocoscienza delle stesse classi privilegiate vanno modificandosi più secondo il modello tolstoiano che secondo il disegno marxiano. Esse attendono, benché in modo innegabilmente assai confuso, la soluzione della questione sociale. Ma esiste parallelamente anche una spasmodica autoaffermazione borghese, la quale prevale pur sempre nella politica mondiale. Tuttavia, il mutamento che si è prodotto nel sentimento e nella coscienza serba un significato sintomatico e attesta la crisi della società contemporanea. L'ideologia e la morale borghesi non possono ormai più esser vissute con il pathos d'un tempo, ed entrano in un periodo di de-

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cadenza. Esse hanno smesso ormai di ispirare la gioventù. Gli adulti, dal canto loro, difendono i loro interessi con un certo imbarazzo o con aperto cinismo, affidandosi ai propri istinti, ma hanno smarrito ogni fede nella propria verità. Ciò significa che un dato tipo di società e un dato tipo di civiltà stanno morendo, e che è spuntata un'epoca rivoluzionaria la quale è forse destinata a durare per lungo tempo. La questione sociale, che esige il superamento del capitalismo, non si esaurisce certo nella sola questione del miglioramento della condizione economica delle masse popolari, ma consiste innanzitutto in un problema psicologico e morale. Il socialismo potrà anche peggiorare la situazione economica ma, se non sarà materialistico, varrà forse a migliorare l'atmosfera morale e a rendere più umane e più fraterne le relazioni tra gli uomini, allorché essi versino nel bisogno. La psicologia e la coscienza borghese, al pari della psicologia e della coscienza proletaria, sono sbocciate su un terreno purtroppo fertile: quello cioè dell'allontanamento dal cristianesimo e del decadimento della spiritualità cristiana. Una psicologia e una coscienza di tal genere non possono essere accettate dal cristianesimo, checché ne pensino tutti quei cristiani {leggi: quegli pseudocristiani) che si sono adattati di buon grado all'epoca borghese. Il periodo dell'accumulazione primitiva del capitale in Inghilterra non può non destare raccapriccio in chiunque non abbia smarrito la coscienza cristiana. Ma il proletario che aspiri a divenire egli stesso borghese e padrone della terra è a sua volta borghese in ispirito, ancorché sotto nuove spoglie. Occorre osservarne bene le forme e spogliarlo dei suoi paramenti, e si vedrà allora ch'egli non è punto il vaticinato uomo nuovo, sibbene il vetusto Adamo divenuto schiavo di se stesso. La bellezza spirituale, al pari di quella corporale, non è se non di pochi. Quanto poi all'ateismo comunista deJ « proletariato », esso è a sua volta un'ideologia puramente borghese, quale retaggio dell'illuminismo borghese. Il cristianesimo non ammette né la grettezza né l'odio

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né l'animosità di classe; tanto meno esso ammette la negazione dell'uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, nei rappresentanti delle classi avverse: del proletariato da parte della borghesia o della borghesia da parte del proletariato. Si può rifiutare categoricamente lo spirito borghese, e con esso l'ideologia borghese, si può lottare contro l'ordine sociale borghese; ma non è lecito odiare il borghese, che è pur sempre un essere umano dotato di varie qualità, e non soltanto un borghese tout court. Esiste una legge psicologica, in virtù della quale colui che odia resta contagiato dalle tare dell'oggetto del suo odio. Sarebbe peraltro ipocrisia, dal punto di vista cristiano, ripudiare senz'altro ogni forma di lotta di classe, distogliendone con ribrezzo lo sguardo come da cosa impura. Gli operai, umiliati e sfruttati nella società capitalistica, privati della libertà reale nell'atto stesso che viene loro accordata un'illusoria libertà formale, debbono lottare per il miglioramento della loro posizione sociale; e ciò costituisce non soltanto il loro interesse soggettivo, ma una verità oggettiva altresì. L'operaio lotta non solo per se stesso ma per tutta la classe operaia, in vista d'un ideale di giustizia umana universale. È questa una lotta di classe contro l'imperio del capitale. Il liberalismo borghese vorrebbe isolare l'operaio, dotandolo dei diritti formali propri dell'atomo, che è identico a ogni altro atomo. Ma l'operaio isolato è inerme, e non può migliorare né la sua condizione né la situazione della sua classe. Solo l'unione organizzata degli operai costituisce una forza; solo se riuniti nelle associazioni professionali e nei sindacati operai, essi possono influire sulla vita della società e accrescere il proprio peso sociale. Le tradeunion inglesi rappresentano già una grande forza, capace di determinare anche la vita politica del paese. Il diritto di associazione degli operai in unioni e in sindacati è ormai, in linea di massima, generalmente riconosciuto, e comporta inoltre, fino a un certo punto, una limitazione dell'indivi78

dualismo e dell'atomismo che alligna nelle società capitaliste. Ma la più innocente di queste unioni professionali operaie costituisce già, a quanto pare, una forma di lotta di classe diretta contro i capitalisti. Il Vaticano riconosce ufficialmente le unioni professionali operaie ed esorta alla formazione di associazioni cattoliche operaie, ma nega la lotta di classe e la condanna. 1 Questa mi sembra una contraddizione evidente, giacché la lotta di classe non comporta di necessità violenze e rivoluzioni cruente, ma ha anche manifestazioni più pacifiche. Negare agli operai il diritto di sciopero rifacendosi ai principi assoluti della morale cristiana sa di menzogna e d'ingiustizia, ed equivale al rifiuto e all'incapacità di vedere gli abusi reali, coperti dal diritto e dalla legalità, spesso incomparabilmente più gravi che non le violenze degli scioperi. Una normale vita socio-economica della società non può formarsi altrimenti che sul principio della cooperazione, ed è invece inconcepibile come collisione e interazione di atomi isolati. Lo stesso capitalismo ha cessato da lunga pezza di essere individualismo per diventare una forma di collettivismo. Gli enormi trust non hanno nulla in comune con l'economia individualistica. Ma l'ideologia borghese e capitalistica vorrebbe che gli operai fossero atomi isolati e dunque ridotti all'impotenza, che fossero cioè privati delia possibilità di affrontare la lotta di classe; in ciò essa scorge la realizzazione della libertà personale, e perciò si rassegna assai a malincuore a fare qualche concessione al movimento sociale, il quale garantisce gli interessi degli operai. La forza reale capace di limitare il potere del capitale e di rigenerare il tessuto della società borghese non va dunque ricercata, certamente, nella lotta parlamentare ingaggia1 Si veda in proposito l'ultima enciclica papale: Quaàagesimo anno, che verte appunto sulla questione sociale. Nda (Tale enciclica, resa pubblica da Pio XI il 15 maggio 1931, ha per te~a la santificazione del lavoro. Ndt)

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ta dai partiti socialisti, bensì nei sindacati operai. Soltanto un socialismo di tipo sindacale è reale per davvero. E la società è avviata verso l'elaborazione d'un nuovo tipo di regime sindacale. Ma Marx, che visse in un'epoca affatto diversa e non poteva perciò conoscere lo stadio di sviluppo che il capitalismo da un lato e il movimento operaio dall'altro avrebbero attinto nel nostro tempo, non ripose alcuna speranza nel sindacalismo. Il De Man, dal canto suo, contrappone giustamente il marxismo al sindacalismo. Il comunismo russo non ha nulla in comune con il sindacalismo, e nel regime sovietico non v'è traccia alcuna della lotta di classe operaia: gli operai sono del tutto impotenti di fronte allo Stato. Il comunismo è una forma di capitalismo di Stato. Esso ammette solamente le associazioni professionali che sono una diretta emanazione dello Stato. La società, tutta quanta, è assorbita da cima a fondo dallo Stato. E perciò lo Stato può farsi oppressore e sfruttatore, può dar luogo a forme nuove di lavoro servile e trasformare gli operai in schiavi. La società inghiotte per intero la personalità ed è a sua volta inghiottita per intero dallo Stato. Ciò si risolve di conseguenza in un sistema di tirannide. Nel corso della storia la personalità fu oppressa di volta in volta ora dalla società ora dallo Stato. Lorenz von Stein, che fu uno dei primi a stabilire tra società e Stato una netta distinzione e a scoprire nella società la lotta di classe, ritiene che la società tenda naturalmente a instaurare l'ineguaglianza, che l'ordinamento castale rappresenti la vittoria della società sullo Stato, e che negli antichi insediamenti umani fosse precisamente la società, non lo Stato, a opprimere la personalità singola.2 Perciò egli volle vedere nello Stato la difesa del lavoro e dei lavoratori: lo Stato, a suo giudizio, sta al di sopra delle classi. Ma egli non si

2

Cfr. Lorenz von Stein, Geschichte der sozialen Bewegung zn

Frankreich (voli. 3 ). Nda

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spinge tanto in là da identificare la società con lo Stato, la qual cosa avviene invece nel comunismo. Per la coscienza comunista il centro supremo, detentore della coscienza e della ragione, è il collettivo sociale, il quale sovrasta non solo l'individuo, ma anche la società tutta. Quindi ciò che più le preme non sono certo gl'interessi e le esigenze dei lavoratori, bensi la potenza e lo sviluppo del collettivo a mo' di glorificazione dello Stato comunista. Ciò è insito nel pathos della forza, di cui è permeato il marxismo. A questo fenomeno si deve contrapporre la lotta in nome del diritto a un'esistenza dignitosa, del diritto al lavoro e alla proprietà acquisita con il lavoro da parte di ogni creatura umana operosa, del diritto, infine, non del produttore soltanto, ma anche del consumatore. Le conseguenze della razionalizzazione dell'industria, che si sono manifestate con particolare forza in America, dimostrano che la questione sociale consiste oggi principalmente nel problema della ripartizione e del consumo, e che il problema della produzione è, a questo proposito, meno urgente. La questione sociale è in pari tempo, senza dubbio, un problema di tecnica; e proprio i vertiginosi progressi tecnologici (che Marx non seppe antivedere) fanno apparire irrimediabilmente sorpassata la teoria marxista della lotta di classe. Ma la tecnica, che suole condurre alla razionalizzazione, è incapace di per se stessa di risolvere, quando che sia, la questione sociale. Ne rimane al di fuori il problema più importante di tutti: quello delle relazioni tra uomo e uomo. I successi della tecnica non fanno che esacerbare in grado estremo il lato spirituale ed etico della questione sociale. Sarebbe odiosa ipocrisia e falsità affermare che i miglioramenti sociali possono sopravvenire solo in seguito al perfezionamento morale degli uomini, e inveire contro la violenza e la violazione della libertà a proposito di ogni mutamento dell'ordine sociale. Esiste una realtà sociale, che è d'un ordine suo peculiare, e che esige da noi un'adesione

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attiva accompagnata da azioni di portata sociale. Bisogna ormai prender partito in un senso o nell'altro; non è più possibile rimanere inerti e neutrali. C'incombe il dovere di nutrire l'affamato, non solo individualmente, ma anche socialmente. E insorgendo contro la violenza connessa alle trasformazioni sociali, ci si pone dalla parte della violenza connessa al mantenimento dell'ordine esistente. Il problema della libertà e della violenza è assai complesso. Dietro una libertà apparente può nascondersi la violenza, e inversamente quella che pare violenza può essere liberazione. Il regime capitalista costituisce anch'esso una forma di coercizione dissimulata e mascherata, ed è perciò un errore, cosciente o incosciente, il credere che i suoi fautori, difendendo lo statu quo, non commettano violenza, e che incorrano in essa soltanto coloro che lottano contro tale regime. Nella società capitalista, che si fa ognor più artefatta e avulsa dalla realtà, la proprietà è violenza e diseredamento degli uomini; ed è quindi inammissibile l'affermazione secondo cui la limitazione della proprietà a opera della società o dello Stato e la difesa della proprietà, che è frutto del lavoro, costituiscano un abuso, mentre non sarebbe violenza la sua conservazione. È indispensabile lottare per la riforma della società (ma ogni qual volta ci si accingeva a lottare per la protezione sociale del lavoro delle donne e dei fanciulli, o per la riduzione della giornata lavorativa, o per un sistema tributario gravante sul capitale e ispirato a una maggiore equità, ecco che i rappresentanti delle classi dominanti alzavano la testa e lamentavano una pretesa menomazione della libertà ottenuta con la violenza). La principale accusa che si muove oggi al socialismo è quella di violare la libertà della persona e di esercitare la violenza. È dunque indispensabile cercare d'approfondire il problema delle correlazioni tra libertà e violenza, tanto più ch'esso si presta a giudizi sovente confusi ed erronei. La difesa della libertà, che di tutti i valori è indiscutibilmente il più alto, può agevolmente tramutarsi in un prin-

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cipio conservatore volto a sorreggere la violenza preesistente a cui si è fatto il callo. Si può anche intendere e difendere la libertà in guisa tale da rendere impossibile quindi innanzi qualsiasi evoluzione e qualsiasi mutamento. Qualunque moto o cambiamento verrebbe anzi interpretato come violenza. L'uomo che gode d'una situazione materialmente privilegiata è incline a considerare come violazione della libertà e come arbitrio qualsiasi atto inteso a modificare e a migliorare l'ordine sociale; la riduzione delle sue rendite può essere da lui interpretata come violenza. In tempo di rivoluzione sembra violenza non soltanto il fatto che vi rinchiudano in prigione, vi tolgano la libertà di parola o vi passino per le armi, ma anche il fatto che vi spoglino di questo o quel privilegio giuridico ed economico. L'uomo invece ch'era materialmente diseredato e umiliato saluterà con gioia e considererà come libertà ogni moto e ogni cambiamento volti a riorganizzare la società; e gli parrà violenza, per contro, il mantenimento di quel regime che lo rendeva infelice e lo lasciava privo dei mezzi materiali di sussistenza. In ciò sta la differenza di valutazione del regime sovietico da parte di chi dianzi apparteneva alle classi dominanti, e da parte di chi invece apparteneva alle classi oppresse. Va detto infine che vien fatto facilmente d'interpretare come violenza un cambiamento, laddove il conservare immutata una situazione è spesso riguardato come libertà. Ogni spostamento costituisce già, in un certo senso, una violenza esercitata sul mondo materiale. Allorché io mi alzo e passo in un'altra stanza per parlare con qualcuno, io effettuo per ciò stesso una serie di trasformazioni coercitive nel mondo circostante: rimuovo una seggiola, spalanco violentemente la porta, costringo chi si trova nella stanza attigua a voltarsi verso di me e ad ascoltare ciò che sto per dire. Finché restavo seduto al mio posto, il mondo circostante si trovava, per così dire, in stato di libertà e non pativa violenza di sorta. La libertà viene talora intesa come l'equi83

valente del classico « lasciatemi in pace! ». Dall'elementare esempio surriferito si può giudicare quanto sia complesso il problema della libertà e della costrizione nella realtà sociale, e più ancora in quella contraddistinta da aspetti materiali. Perfino una schiavitù prolungata a cui ci si sia assuefatti come a una condizione necessaria e nient'affatto straordinaria può essere considerata come una forma di libertà. E ci vuole una trasformazione della coscienza per subire la schiavitù come un'intollerabile privazione della libertà. Tutto, nella società capitalista, appare in forma molto più velata, e perciò la percezione della libertà e della violenza può essere del tutto distorta. Gli uomini danno spesso il nome di violenza a ciò che infrange le loro consuetudini. Soltanto in casi flagranti ( allorché ad esempio qualcuno viene fucilato, o imprigionato a causa delle sue convinzioni, o privato della libertà di movimento) essi qualificano come violenza ciò che in effetti e senz'ombra di dubbio è tale. Ma ai loro occhi è violenza anche l'adozione da parte della società e dello Stato d'un'equa misura che sottragga loro una parte dei loro beni materiali eccedenti. Violenza è per loro se, per effetto d'un mutamento di circostanze, si trovino costretti a lavorare. Eppure violenze di tal genere possono essere pienamente giuste e contribuire alla liberazione di coloro che portavano nella vita un peso superiore alle loro forze. Quando l'uomo è privato degli elementari diritti economici e, non disponendo dei mezzi di produzione, è forzato a vendere il suo lavoro come merce a qualunque condizione, già questo costituisce violenza, e quel regime che permette questo stato di cose è un regime fondato sulla violenza. Se l'operaio è assoggettato a un trattamento degradante, se si esige da lui una fatica superiore alle sue forze, sotto pena di essere altrimenti privato del lavoro ( e di essere dunque ridotto alla fame), e se, ciò malgrado, codesto suo lavoro viene qualificato come libero, nel senso ch'egli è libero di abbandonarlo in qualsiasi momento, ecco che 84

questo fatto costituisce una terribile violenza fatta all'uomo, la cui pretesa libertà è puramente fantomatica. Se all'uomo si riconosce la piena libertà di professare le sue convinzioni e le sue credenze, qualunque esse siano, ma se d'altro canto la sua vita materiale dipende da persone che pretendono e impongono determinate opinioni e credenze, ciò è violenza e privazione della libertà da parte di chi agita lo spettro della fame. L'opinione pubblica prevalente esercita a volte una terribile violenza sulla coscienza individuale, e può trasformarsi in una forma di genuina persecuzione di questa o quella credenza. A tale persecuzione son fatti segno i cristiani da parte dei « liberi pensatori » nella società odierna. Allorché si esamina dal punto di vista cristiano il problema della libertà e della violenza nel contesto dei mutamenti sociali e dell'opera riformatrice della società, fa d'uopo una profonda riflessione: la situazione è infatti cosl complessa da richiedere una non comune capacità di discernimento. La coscienza cristiana non può in alcun modo approvare e sanzionare quelle forme di violenza e di costrizione che amano praticare i comunisti russi, i quali ricorrono volentieri all'omicidio, al terrore indiscriminato, alla privazione delle elementari libertà dell'uomo, alla soppressione della libertà di coscienza e di pensiero come a mezzi atti a edificare una società nuova. Certe forme tuttavia di costrizione sociale, senza le quali non sarebbero possibili né una libertà reale né il sostegno materiale dei diseredati, possono e debbono essere approvate dalla coscienza cristiana, cui compete di tener ciò in conto di un servizio reso al prossimo. La libertà reale nella vita materiale presuppone la sicurezza economica della vita di ognuno, e implica inoltre un ordine sociale in cui non sia consentito esigere da chiunque s'affatica per sopperire ai suoi bisogni un lavoro schiacciante o altro che lo avvilisca e ripugni alla sua coscienza. Ecco perché non si può negare in modo assoluto la lotta 85

di classe. Il problema, semmai, sta tutto nella sua sp1ntualizzazione, nel subordinare la lotta a un principio spirituale supremo, nel superamento infine della sua inesorabile veemenza e della sua peccaminosa animosità.

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Capitolo quinto L'aristocratico, il borghese, l'operaio

Poiché le classi sociali sono determinabili, secondo Marx, esclusivamente in rapporto all'economia e alla produzione, non fa specie che i diversi tipi di psicologia di classe non siano, presso il medesimo autore, quasi affatto assunti in esame né definiti. Più che a specificare, Marx bada infatti a trinciar giudizi perentori. La psicologia marxista è, di norma, la più grossolana che si possa immaginare. E invece le caratteristiche psichiche dei vari tipi dell'aristocratico, del borghese e dell'operaio presentano un interesse indubbio, se è vero che costoro non incarnano soltanto dei tipi diversi di psicologia sociale, ma compongono addirittura razze spirituali differenti. Se non fosse stato così ossessionato dall'idea che l'economia è la causa determinante di tutto, Marx si sarebbe accorto che tra l'aristocratico e il borghese corre una differenza incomparabilmente maggiore che non tra il borghese e l'operaio. L'aristocratico e il borghese, appunto, appartengono a razze diverse, mentre il borghese e l'operaio discendono dalla stessa schiatta, talché il loro dissidio altro non è che una baruffa in famiglia. I tipi dell'aristocratico e dell'operaio rappresentano valori indipendenti, mentre lo stesso non può dirsi, come vedremo, del tipo borghese, il quale è - contrariamente a un'opinione comunemente diffusa - un tipo derivato. Il tipo dell'aristocratico non è punto determinato dal momento economico; 87

il fattore economico appare anzi, in questo caso, affatto secondario. L'aristocrazia può essere in sommo grado facoltosa (e tale fu effettivamente in passato). Ma la genesi stessa della sua ricchezza non è legata all'intraprendenza e all'iniziativa economica, trattandosi d'un patrimonio conquistato con la spada e divenuto in seguito ereditario. L'aristocrazia è sprovvista di tutte le virtù specificamente economiche, le quali sono in essenza borghesi. L'aristocrazia consiste in primo luogo nella nobiltà di stirpe, nell'elaborazione, per così dire, d'una razza e nella trasmissione del « sangue blu ». La condizione dell'aristocratico non dipende dall'economia, ma è legata soprattutto alla nascita, agli antenati e ai loro meriti, all'ereditarietà. Com'è già stato detto, il principio biologico e antropologico ha in questo una funzione di primaria importanza. L'aristocratico può andare completamente in rovina e, nell'avvicendarsi di alcune generazioni, la sua schiatta può tralignare e perdere il suo rango nella società, come è avvenuto in Russia a talune famiglie d'alto lignaggio appartenenti alla stirpe di Riurik. 1 Questo fenomeno riveste nondimeno un'importanza secondaria, poiché la nobiltà di stirpe persiste malgrado l'eventuale perdita di tutti i mezzi materiali. Ma il borghese che perda tutti i suoi beni materiali e si trovi costretto a guadagnarsi in tutta umiltà il pane quotidiano perde irrimediabilmente tutto, e non gli rimane più alcun indizio che possa definire la sua posizione di classe in seno alla società. L'aristocratico che abbia perduto tutti i suoi beni materiali serba invece pur sempre quakosa: la nobiltà della stirpe gli è congenita per sempre. Anche se indossa il camiciotto dell'operaio, l'aristocratico resta sempre aristocratico: le sue mani, il suo volto, le sue maniere, l'inNome del semileggendario prmc1pe considerato quale capostipite della dinastia dei Rjurikidi. Russa ma d'origine normanna, tale dinastia regnò nella Russia di Kiev e poi nella Moscovia fino a tutto il secolo XVI. Ndt 1

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tonazione della voce tradiscono la sua origine. Tutto in lui fu plasmato nel corso di secoli e trasmesso di generazione . . 111 generaz10ne. I privilegi economici dell'aristocratico non furono punto conquistati in virtù di sforzi personali; sì quelli del borghese. Nel remoto passato i suoi antenati si abbandonarono con ogni probabilità ai saccheggi succeduti a fatti di guerra, ché tutto provenne in passato da sopraffazioni sanguinose. Ma in prosieguo di tempo l'aristocratico fu men che mai un predatore, essendo egli pressoché incapace di accaparrare e accumulare ricchezze; verrebbe fatto semmai di caratterizzarlo come un dissipatore. 2 L'aristocratico è incline a ricordare di preferenza le virtù degli antenati, e poco egli si sovviene delle loro prevaricazioni e delle loro crudeltà. Tutto nell'aristocratico è frutto d'eredità, tutto gli è stato trasmesso dagli antenati: le qualità fisiche e spirituali non meno che le ricche sostanze. Tutto è stato elaborato attraverso un lungo e lento processo, tutto ha avuto agio di depositare, come nel vino vecchio. E tanto più autentico è il carattere aristocratico, quanto più lungo è il corso dei secoli che ha trasmesso all'aristocratico le sue qualità. L'aristocrazia fu la prima a trarre vantaggio dalla possibilità di disporre di tempo libero, senza di che non avrebbe potuto imporsi quel tipo superiore di cultura, quella raffinatezza di modi che poi le altre classi si studieranno di 1m1tare. La compitezza dell'aristocrazia rappresenta un valore di civiltà di portata universale. L'aristocrazia poté dunque riversare in piacevoli otia la pienezza di energie rese libere dalle occupazioni. L'aristocrazia è avita per sua natura, e in ciò risiedono la sua forza e la sua debolezza. In ogni cosa l'aristocratico è agli antipodi rispetto al borghese: egli ricorda bene il passato e vive delle tradizioni maturate dalle generazioni che si sono susseguite. Il borghese inVedi, di Sombart, Der Burgeois. Nda (Il libro citato di Werner Sombart è del 1913. Ndt) 2

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vece mal se ne ricorda, o tutt'al più rammenta soltanto il passato recente, poiché vive del presente e non si dà pensiero del passato. Anche le famiglie borghesi dei notabili possono d'altronde vantare nel passato una serie di generazioni da cui esse discendono e andarne fiere, ma in tal caso siamo di fronte al formarsi d'un'aristocrazia particolare in seno alla borghesia. Il borghese rimane nondimeno, in primo luogo, un parvenu; e in ciò sta la sua forza. Il fatto che tutto ciò che l'aristocratico possiede siagli stato dato a titolo gratuito, il fatto che i suoi beni siano cioè ereditari anziché il frutto del lavoro e dei suoi sforzi personali, dà luogo a una serie di tratti spirituali e psichici assolutamente originali. All'aristocratico autentico sono estranei il ressentiment, l'offesa, l'invidia, le mani callose. Egli può avere la veste dell'offensore, e non è anzi raro il caso che così avvenga, ma non può far la parte dell'offeso. I sentimenti dell'offesa e dell'invidia non sono sentimenti aristocratici. Perciò l'aristocratico considera ogni affronto come un oltraggio al suo onore e a quello degli avi, ed è subito pronto a difendere l'onore offeso armi alla mano, a lavare l'ingiuria nel sangue, e non è invece disposto neppure un istante a tenersi l'offesa. Il valore del tipo aristocratico è gratuito, non già acquisito con la fatica, e perciò è simile alla bellezza, che viene accordata graziosamente senza merito alcuno. Colui che è bello per legge d'eredità e per i suoi natali non nutre per ciò appunto invidia per nessuno. Che il tipo dell'aristocratico sia determinato soprattutto da fattori biologici e psicologici anziché sociologici è confermato dalla circostanza che i bolscevichi perseguitano non solo chi gode d'una condizione economica privilegiata, ma anche chi è di progenie nobile, chi vanta antenati illustri ed è di « sangue blu ». La nobiltà delle origini suscita il ressentiment, quand'anche i suoi esponenti, quanto a situazione economica, fossero divenuti dei proletari. L'aristocra-

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tico non è un homo oeconomicus, in passato egli fu soprattutto un uomo d'armi. Il tipo aristocratico è un prodotto dell'opulenza, non della penuria. È proprio del tipo aristocratico per definizione il donare ad altri del suo superfluo, e l'essere magnanimo e munifico. Egli non tende ad acquistare e ad accaparrare, ché l'acquisto delle ricchezze e il guadagno mediante il lavoro non si confanno all'aristocrazia, non sono insomma una virtù ereditaria né gratuita. Se l'aristocratico è portato al lucro e si lascia guidare da criteri economici, ciò mostra ch'egli s'è imborghesito. L'« aristoctaticismo » presuppone che si possegga già tutto sin da principio, e non che si abbia ancora bisogno di qualcosa: è un a p1'iori, non un a posteriori. Il tipo dell'aristocratico racchiude in sé i tratti nobili che furono elaborati dalla cavalleria nelle società europee; da codesti tratti cavallereschi traspare un elemento eterno della personalità umana, elemento che sopravvive anche dopo la scomparsa della cavalleria in quanto momento storico. L'aristocrazia, a differenza della borghesia, è una razza a sé stante, un tipo antropologico a parte. In linea di principio essa afferma l'ineguaglianza, in ciò diversificandosi dalla borghesia. Borghesi si può diventare; ma aristocratici non si diventa, si nasce. Il neo-arricchito è un tipo pienamente conforme allo spirito borghese, mentre l'aristocratico di fresca data che fa il suo ingresso nell'aristocrazia resta pur sempre un tipo sospetto e falso, che si sforza di far sparire le tracce del suo passato. L'aristocrazia richiede tempo, non la si può formare lì per lì, essa abbisogna d'una lunga serie di secoli. e di generazioni. Invece la borghesia la- si può conseguire in fretta, essa può formarsi nel corso d'una sola generazione. L'aristocrazia è una razza di conquistatori e di signori che si stacca da tutto il resto della società e afferma un'origine che è solo sua, e dunque diversa da quella di tutti gli altri uomini; è una razza che ama circondarsi di barriere e di baluardi capaci di difenderla dalla promiscui-

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tà con la massa. L'aristocrazia teme più di tutto una simile fusione; il pathos della distanza è radicato in essa. Per tale ragione essa crea una fitta rete di convenzioni che ne avviluppano la vita. Da ciò risulta un allontanarsi dalla natura; da ciò ha luogo una prima selezione qualitativa della forma. L'aristocrazia vive nell'isolamento, calata in un mondo suo proprio. Ha detto assai bene Alfred de Vigny che l'aristocrazia è fondata sull'orgoglio e la democrazia sull'invidia. L'orgoglio è infatti il peccato originale dell'aristocrazia: peccato non personale, ma avito ed ereditario. Vincere l'orgoglio significa vincere il peccato dell'aristocrazia: di quell'aristocrazia che è cosl difficile convertire per davvero alla fede cristiana. L'orgoglio genera il disprezzo per le altre classi, verso i plebei e coloro che non discendono da un'antica prosapia. L'isolamento dell'aristocrazia, il suo esclusivo legame con il passato, il suo orrore della promiscuità, la sua insufficiente apertura ai processi vitali che si svolgono nel mondo, il suo attaccamento a forme puramente convenzionali conducono fatalmente all'esaurimento e alla degenerazione. È questa la sorte d'ogni aristocrazia nel senso sociale della parola. Essa facilmente infrollisce, si dà alla ricerca dei piaceri, e nella sua compagine resta poco di spirituale: è dunque votata al naufragio. Essa è in grado di signoreggiare e di salvaguardare il suo prestigio solo per breve spazio di tempo; ma non può difendersi indefinitamente dalla pressione delle forze vitali ed elementari né sottrarsi a lungo alla fusione con le altre classi. Solo un'esigua sua parte dimostra di possedere una certa duttilità e appare capace di adattarsi ai nuovi processi sociali. La maggioranza se ne rivela incapace, si esacerba della sua impotenza e decade senza rimedio. Le parti dell'aristocrazia moralmente meglio conservate recano l'impronta incancellabile del tedio e dell'inerzia. Pure, il fattore aristocratico entra in ogni nuovo ordinamento della società, anche se questo non sia aristocratico,

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e serba un suo valore psicologico ed estetico pur avendo perduto il suo significato sociale. Ben sappiamo in quanto pregio, nelle repubbliche democratiche (in Francia e in America, per esempio), siano tenuti i casati aristocratici e i titoli nobiliari: assai più, forse, che nella vecchia Russia imperiale e nobilesca. Come fenomeno sociale, l'aristocrazia è destinata a perire e non si può rigenerare; ma psicologicamente essa sopravvive e alberga in sé un elemento eterno. L'aristocrazia dev'essere spogliata dei suoi privilegi sociali e delle sue ricchezze materiali, e solo allor~ si vedrà se sopravvivono le sue caratteristiche spirituali: non l'orgoglio o lo sprezzo aristocratici, ma la nobiltà d'animo aristocratica e la magnanimità, l'abbandono del ressentiment e la raffinatezza. Il peccato storico dell'aristocrazia fu di aver fatto concessioni non all'operaio ma al borghese, e di essersi uniformata alla forza crescente della borghesia sino a confondersi con questa, astenendosi dal prendere le parti delle classi operaie. Certo non è questo un fenomeno generale; le eccezioni non mancano. In Inghilterra il partito conservatore, legato all'aristocrazia, fu più incline a solidarizzare con il partito operaio che con quello liberale, il quale emanava dalla borghesia. E proprio per questa ragione fu possibile varare tutta una serie di riforme sociali. Un fenomeno analogo si è verificato in Germania. È dunque possibile un tipo di socialismo aristocratico che si oppone al liberalismo borghese e al radicalismo; ma questo non basta a salvare l'aristocrazia sul piano sociale. La missione sociale dell'aristocratico è esaurita; esso non può reggere al processo dell'industrializzazione e ai vertiginosi successi della tecnica.· Il futuro appartiene soltanto all'aristocrazia spirituale e intellettuale, che rappresenta un fenomeno affatto particolare. L'aristocrazia spirituale e intellettuale forma un gruppo sociale e psicologico sui generis, che sarebbe decisamente impossibile definire in base ai dettami fissati dal marxismo. Essa si tiene al di fuori della lotta sociale tra le clas93

si, e solo in parte vi si accosta e s'incrocia con essa. I suoi esponenti possono certo, talvolta, aderire alle ideologie borghesi, ma i suoi interessi fondamentali esulano dall'economia: essa vive delle gioie della creazione e del pensiero, di valori non materiali ma spirituali. Quanto alla sua composizione, l'aristocrazia spirituale può trarre origine da classi disparate: dall'aristocrazia propriamente detta e dal ceto nobile, dalla grande e dalla piccola borghesia, e così pure può reclutarsi fra gli operai e i contadini. Nell'età di mezzo l'aristocrazia spirituale aveva il suo centro soprattutto nei monasteri; l'intelligencija era monacale, e monaci furono infatti i primi filosofi, scienziati, pittori e scrittori. Soltanto il monastero sapeva proteggere dalla brutalità della vita feudale guerriera. Ma nell'epoca moderna tutto cambiò, e l'importanza culturale del clero decadde: indebolitosi notevolmente, esso si cristallizzò e si cangiò in una classe torpida. L'aristocrazia spirituale e intellettuale non è ereditaria, non vanta natali illustri, ma è personale. Il suo valore è sempre legato alle qualità personali, al talento e alla creatività personali. Tale valore è reale, non simbolico. Le qualità di questa classe non possono definirsi né esclusivamente gratuite né esclusivamente guadagnate a prezzo del lavoro, ma partecipano dell'una e dell'altra cosa a un tempo. Se l'aristocrazia sociale riceve i suoi valori in eredità dagli antenati, a titolo gratuito, l'aristocrazia spirituale, invece, li riceve direttamente da Dio. I doni creativi sono da Dio, sono gratuiti e non propriamente meritati, al pari di ogni altra attitudine naturale e del genio; ma essi sono stati dati non già per essere sprecati e sotterrati, ma affinché i talenti si moltiplichino e diano una ricca messe. Questo vuol dire che a ciò ch'era gratuito viene ad aggiungersi il frutto del lavoro. I profeti, i dottori della Chiesa, i riformatori religiosi e sociali, i filosofi, gli scienziati, gl'inventori, i poeti, gli artisti, i musicisti appartengono tutti all'aristocrazia spirituale,

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e risulta impossibile inserirli in uno schema di classe qualechessia; ché le classi, come vuole la dottrina che ne proclama la ripartizione, sono fondate su indici economici. La vita di questi esseri è tutta consacrata alla creazione, ma la loro opera non può dirsi produttiva in senso economico, giacché non produce valori materiali utilizzabili. Spesso soltanto pochissimi sono in grado di apprezzare i prodotti delle loro facoltà creatrici. La condizione materiale dell'aristocrazia spirituale è, nella più parte dei casi, tutt'altro che invidiabile, come si arguisce dal suo disinteresse per le questioni economiche, e se è vero ch'essa versò non di rado nella più squallida inopia. L'operaio della fabbrica può valersi di mezzi di difesa assai più efficaci. Gli aristocratici dello spirito e del pensiero furono perseguitati e oppressi prima dall'aristocrazia sociale, poi dalla borghesia; e tutto lascia credere che lo saranno anche da parte della classe operaia. È impossibile porre l'aristocrazia spirituale nel novero di coloro che compongono la borghesia: lo vietano sia le sue caratteristiche psicologiche, sia i suoi connotati sociali. Che se poi i comunisti russi annoverano tra i « borghesi » tutti coloro che sogliono essere accomunati con il vago appellativo di « intelligencija » ( tutti gli scienziati, tutti gli scrittori, e via dicendo), ciò essi compiono per considerazioni squisitamente demagogiche, per assecondare i bassi istinti degli operai e in parte anche per ignoranza. Eppoi, quella che io chiamo aristocrazia spirituale e intellettuale non corrisponde a ciò cui si dà il nome di « intelligencija » (nel senso russo del termine, intendo). È assurdo esaltare la borghesia per il fatto che dal suo seno sono usciti in grande numero uomini superiori, geni, scienziati, :6.loso:6., poeti, inventori e riformatori; e non è certo meno assurdo sminuire i meriti di questi sommi solo perché essi provengono dalle classi borghesi. L'origine sociale di un grand'uomo, d'un genio, non riveste importanza alcuna. Gli stessi marxisti son costretti a riconoscerlo, per lo meno allorché il di-

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scorso cade su Marx o su Lenin, l'uno e l'altro di ongme tutt'altro che proletaria. Non ha alcun interesse per noi il sapere che Kant o Hegel, Goethe o Schiller provengono da classi borghesi, e che Puskin o Tolstoj sono di nobile casato. Bisogna diventare marxisti e sostenitori del materialismo economico per tessere l'apologia della borghesia in ragione della quantità di geni creatori ch'essa avrebbe germinato. Il genio non è creato da nessuna classe; il genio è creato da Dio. E l'ingegno a Marx lo ha dato Iddio, anche s'egli poi se ne è servito per combattere Iddio. Men che mai c'interessa il fatto che Marx fosse figlio delle classi borghesi. Ma la cosa più importante è questa: in tutti i tempi, nel corso dell'intera storia dell'umanità, soltanto un numero assai ristretto d'individui ha saputo vivere d'interessi spirituali e intellettuali, si è consacrato alla contemplazione e alla creazione come a valori autonomi e preziosi per se stessi, soltanto una minoranza infima ha ricercato il senso della vita e la sua trasfigurazione, creando valori nuovi. Gli uomini si dividono anzitutto in due classi, delle quali l'una è capace di creazione mentre l'altra non lo è. In forza della sua natura, che è creata da Dio, ogni uomo è capace di questa o quella forma di creazione, non f oss 'altro sotto specie d'un rapporto creativo con un altro uomo. Ma la maggioranza ha soffocato in sé ogni forza creatrice. Infatti l'enorme maggioranza dell'umanità, di qualsiasi classe, vive unicamente di interessi banalmente quotidiani, usuali, risaputi, economici, commerciali, e non si dà mai alla ricerca d'un mondo diverso, d'un'altra vita. Provatevi a prestare orecchio ai discorsi che va facendo dappertutto la grande massa dell'umanità, in tutti i luoghi pubblici o nella cerchia familiare, per strada o a bordo dei mezzi di locomozione; e resterete impressionati dalla meschinità degl'interessi umani e dall'apparente incapacità di sollevarsi al di sopra della più gretta prosaicità. Tutte le classi sono come impaniate nella banalità delle consuetudini sociali e sono soggette alle sue leggi.

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La massa può innalzarsi spiritualmente al di sopra della meschinità quotidiana solo attraverso la vita religiosa. La religione costituisce l'unico interesse e l'unico nutrimento spirituale delle masse, benché essa venga di solito adattata al livello di queste. Soltanto pòchissimi sono capaci di vivere di puro pensiero e di pura creazione; soltanto pochissimi mostrano un interesse genuino per le cose dello spirito. Ed è proprio qui che avviene la scissione fondamentale dell'umanità, ben più profonda della divisione in classi. L'aristocratico, il borghese, l'operaio sono allo stesso modo immersi nella « quotidianità » sociale, e sono simili l'uno all'altro nel loro orientarsi esclusivamente verso questo nostro mondo sensoriale; essi si distinguono gli uni dagli altri solo per le maniere esteriori, per i gesti, per il linguaggio, per lo stile e per gli oggetti che posseggono. Il « volgo » ( nel senso che Puskin annette a questa parola) è uno strato anche aristocratico, gentilizio e cortigiano, ma non è il popolo. Ed ecco che a un piccolo gruppo di uomini capaci di vivere di ideali superiori, d'interessi spirituali e intellettuali, a un piccolo gruppo di uomini chiamati alla creazione non si può e non si vuole perdonare codesta sua caratteristica peculiare; ecco che si tende a vedere in costoro una razza straniera e aliena. Tutte le classi, nel loro complesso, l'aristocrazia al pari della borghesia, il proletariato non meno della borghesia, non amano punto l'aristocrazia spirituale e intellettuale; anzi esigono da essa che serva i loro interessi e non esitano a perseguitarla se a ciò essa non si piega. Ma qui il problema si fa complesso e contraddittorio: l'aristocrazia dello spirito e dell'intelletto .ha anch'essa la tendenza a isterilirsi e a degenerare, poiché diviene egocentrica ed è infine colpita dal decadimento. I doni esclusivamente creativi, i doni spirituali e intellettuali, sono dati all'uomo perché egli se ne giovi ai fini della creazione, per97

ché adempia la m1ss10ne affidatagli e risponda alla vocazione che gli viene dall'alto. Il « creatore » che ha ricevuto i suoi doni dal cielo deve porgere ascolto alla voce interiore che lo esorta a servire non la società in ciò che ha di mediocre, né gl'interessi di classe, ma la verità, la giustizia, la bellezza; che lo sprona a servire Iddio e l'immagine di Dio nell'uomo. Ora, l'aristocrazia spirituale può cessare di ascoltare la voce dall'alto, può cominciare a servire soltanto se stessa, può rinchiudersi nel suo mondo, soddisfatta di sé, proprio come l'aristocrazia sociale. E allora essa tradisce la propria vocazione e perde fatalmente il suo significato. Essa può giungere a staccarsi completamente dal consorzio civile e formare un'élite chiusa che disprezza il mondo circostante; può trarre soverchio diletto dalla propria raffinatezza e inorgoglirsene al punto da cedere al disfacimento e da avviarsi a sicura morte. Più triste ancora è che questo stato letale di disfacimento possa essere vissuto come segno d'una condizione superiore avvertita con l'orgoglio degli esseri solitari e superflui. L'aristocrazia spirituale ha una missione profetica da compiere, nel senso lato dell'espressione: quella cioè di favorire l'avvento d'un futuro migliore, di suscitare lo spirito d'una nuova vita, di creare dei valori nuovi. Quando codesto spirito profetico, che anima non soltanto i profeti nel senso alto e religioso della parola, ma anche i fìlosofì, i poeti, gli artisti, i riformatori, gl'inventori, quando tale spirito comincia a declinare, mentre si va spegnendo la coscienza della vocazione superiore e del servizio, allora l'aristocrazia dello spirito si trova alla soglia del decadimento, degenera senza rimedio e perde la sua ragione d'essere. Quando Carlyle parla d'una nuova aristocrazia del lavoro e della creazione, egli si riferisce certo all'aristocrazia del ministero profetico e della trasfigurazione della vita, non a un'élite soddisfatta di sé, non a quegli esteti isolati che so-

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no destinati per sempre a far la parte dei consumatori e che produttori non saranno mai.3 Quest'alito di morte che percorre l'élite europea contemporanea attesta la crisi sociale che la cultura sta attraversando nella società odierna. Ma l'aristocrazia spirituale e intellettuale è un elemento eterno del consorzio umano, senza del quale la società non può degnamente sussistere: è un principio gerarchico perenne che sovrasta la lotta delle classi. In ogni autentica gerarchia il grado inferiore dipende sempre da quello superiore e gli è connesso. Così l'attività svolta dal tecnico-pratico dipende dalle forme superiori della scienza e della filosofia, anche se di ciò egli può non rendersi conto. In che dunque consistono le peculiarità del tipo borghese e del tipo operaio? La nozione di « borghesia », come quella d '« aristocrazia », può essere intesa in due sensi: sociale l'uno, spirituale l'altro. Ma mentre l'aristocrazia spirituale rappresenta una designazione positiva, la « borghesia » spirituale è da qualificare negativamente. Ciò getta luce anche sulla figura del « borghese » nel senso sociale del termine. La borghesia è la classe che meglio delle altre è determinabile in rapporto all'economia, giacché il « borghese » è, per antonomasia, l'homo oeconomicus; in altri termini, l'economicismo è la peculiarità essenziale del borghese. Il borghese è colui che ha creato l'economia, è lui il vero economista-materialista, e il fatto ch'egli ignori Marx è irrilevante. Il suo atteggiamento verso l'economia è tutt'altro da quello dell'aristocratico, il quale è per sua natura un dilapidatore, uno che non crede affatto nella possibilità dell'arricchimento personale. Per lui, possessore d'un patrimonio ereditario, non esistono le categorie dello sviluppo economico. Il borghese è invece uno che si arricchisce grazie agli sforzi personali, grazie all'iniziativa e all'energia 3 Si veda Past and Present di Carlyle. Nda (Quest'opera di Thomas Carlyle uscl nel 1843. Ndt)

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individuale. Egli, economicamente parlando, ascende la china del monte e aspira alla vetta, uscendo dalle tenebre. Lui ha scoperto l'evoluzione; l'espansione illimitata gli è congeniale. Per l'aristocratico ha importanza il « donde », per il borghese è importante il « dove », cioè il punto d'arrivo. L'aristocratico non può ascendere, può solo scivolare in basso, poiché si limita a conservare la posizione iniziale che è in alto. Il borghese, lui sl s'innalza, progredisce e s'impone. Mentre le qualità dell'aristocratico sono gratuite ed ereditarie, quelle del borghese sono frutto di fatica e di sudore, poiché egli mira ad affermarsi e a distinguersi con i propri sforzi. Sia l'aristocratico sia il borghese sono i conquistatori del mondo; ma il primo lo ha conquistato in passato con la spada e con il mestiere delle armi, mentre il secondo lo sta conquistando al presente mediante i processi economici, industriali e :finanziari. Non corrisponde affatto a verità che il borghese sia un parassita e uno scansafatiche; e chi lo afferma sa di dir ciò a uso esclusivamente demagogico. Il borghese è anzi un faticatore instancabile, un operaio che non dispone quasi di tempo libero, a differenza dunque dell'aristocratico che sempre n'ebbe a dovizia per i suoi trastulli e per abbellire la propria esistenza; il borghese vive non per sé, ma per le « faccende ». Anche se le sue sostanze ammontano a parecchi milioni, il borghese è eternamente indaffarato e preoccupato, e non conosce certo la spensieratezza propria dell'aristocratico (la sola, d'altronde, che la storia registri). Il borghese non conosce un istante di tregua ed è sovente un martire del suo lavoro. E se per caso vive nel lusso, lo fa perché gli interessi del suo operato lo richiedono. L'aristocratico non ha mai pensato che la sua prosperità materiale possa dipendere dalla sua abilità, dalla sua presenza di spirito, dalla sua intraprendenza, dalla sua inventiva; il borghese invece lo ha ben fisso nel pensiero. Il borghese che conduca un'esistenza parassitica e badi solo a godersi la vita è un degenere che ha tralignato dalla borghesia; tale parte parassitaria della borghe-

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sia si stacca inevitabilmente dal resto della borghesia. Ma nel borghese classico, autentico, si riscontra sempre un elemento ascetico che gli è tipico: egli vive non per godersi la vita, ma per accrescere e moltiplicare i valori e i beni economici.4 Proprio nel borghese si rivelò per la prima volta l'iniziativa di sviluppare indefinitamente la potenzialità economica dell'individuo. In ciò consisteva la sua missione. Il borghese è alacre e ricco d'inventiva; è posseduto dalla passione divorante di scoprire nuovi mondi, dal desiderio di un'espansione illimitata e d'uno sviluppo senza fine. Egli non vive più nell'ordine cosmico, che è stabile e statico; egli è dinamico e non conosce sosta. Nella vita economica, che è la sfera del borghese per eccellenza, egli esige metamorfosi incessanti e non tollera alcun ristagno. Robinson Crusoe è il prototipo del borghese nella sua giovane e più nobile epoca. Nella classe borghese ci sono diversi strati, i quali presentano lineamenti psicologici differenti. C'è la vecchia e nobile borghesia, che ha care le tradizioni; essa, riguardo alla sua origine, risale all'inizio dell'epoca moderna, a modo suo è assai virtuosa e rinsalda i tratti d'un aristocraticismo borghese sui generis: è insomma una borghesia laboriosa nel senso originario dell'espressione e si contenta di modeste ricchezze. E c'è poi la nuova borghesia avventuriera, che vive una vita febbrile, tesa a inseguire insaziabilmente ricchezze e profitti, ormai incapace di fermarsi nel suo slancio sfrenato verso lo sviluppo economico; è essa che crea il mondo fittizio e fantasmagorico del capitalismo dei tempi nostri, tanto più che non apprezza alcuna tradizione. Da un punto di vista psicologico e morale queste sono 4 Max Weber discetta della innerweltliche Askese propria dei fondatori del capitalismo, e la spiega con il tipo di reli&:osità che suole definirsi, ed è, calvinistico. Vedi in proposito la sua opera Gesammelte Aufsatze zur Religionssoziologie. Nda (L'opera citata usd in tre volumi tra il 1920 e il 1922. Ndt)

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stratificazioni diverse. La nuova borghesia estrae dal suo seno un elemento di decomposizione e di decadenza che è impotente a creare alcunché e si abbandona ai piaceri della vita e al lusso più smodato. Vero è che il nucleo centrale di detta borghesia è d'altra tempra; voglio dire che essa, nel suo intimo, è ancora pervasa da sete di azione, da spirito di iniziativa e da volontà di potenza. La borghesia è ideologicamente votata al decadimento, ha ormai perduto la passione delle idee, e perciò diresti che la sua missione sia ormai esaurita. Quale è dunque l'atteggiamento del borghese verso l'operaio? È questa per noi una questione fondamentale. Il valore dell'operaio corrisponde al valore del lavoro; e il lavoro è sacro. Proprio per questa sacralità del lavoro, l'operaio è più vicino d'ogni altro alla Bibbia e alle origini del nostro mondo di peccato. Egli si guadagna il pane con il sudore della fronte. La difesa dell'operaio è la difesa stessa del lavoro. L'operaio è colui che assume su di sé il peso del nostro mondo, in lui si concentra quell' « affanno » del mondo che Heidegger considera come l'essenza stessa dell'essere. Egli è privato della possibilità di godere della « fioritura » della vita, di cui conosce soltanto i fondamenti elementari. Proprio la vita dell'operaio sta a testimoniare che all'uomo tocca vivere in un mondo decaduto e peccaminoso, sottomesso alla dura necessità. Solo a una quantità relativamente scarsa di uomini è dato evadere verso più libere zone dell'essere e disporre di quel tempo libero ch'è indispensabile a una creazione copiosa. Ma la maggio" ranza resta soggetta alla dura necessità e all'« affanno». A noi non è dato capire perché ad alcuni uomini è riservata una sorte più libera, che accorda loro il superfluo, mentre ad altri tocca una sorte ben diversa, di soggezione a penose apprensioni e a un lavoro senza tregua. Questo ci sarà reso manifesto solamente oltre il termine della nostra vita terrena. Ma noi sappiamo che non tutta la massa dell'umanità poté uniformemente elevarsi sino a una vita più libera

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e doviziosa; ciò poté avvenire soltanto attraverso la selezione qualitativa e l'ineguaglianza. Non il borghese, ma l'aristocratico fu colui che per primo stabilì l'ineguaglianza mediante il ricorso alla violenza, liberando così se stesso dal peso del lavoro e dalle cure della vita e del sostentamento. Ciò avvenne nella notte dei tempi. Il borghese invece fu in origine a sua volta un uomo laborioso e afflitto da molte preoccupazioni, quantunque il suo lavoro fosse d'altro genere. Il borghese non ha - com'è per l'aristocratico - altro modo di farsi valere se non facendo assegnamento sulla qualità del suo lavoro e sulle sue industriose fatiche, accompagnate da continui assilli. Il capitale per se stesso non dà all'uomo nessuna giustificazione. Il borghese e l'operaio appartengono alla stessa razza, al « terzo stato », poiché essi hanno la medesima origine. Il borghese è uscito dal popolo lavoratore, da coloro che nella cerchia cittadina esercitavano le arti e i mestieri. La maniera con cui il borghese seppe originariamente distinguersi ed elevarsi non dà tanto l'impressione dell'emergere d'una classe speciale, quanto del risaltare di singoli individui afferma tisi in virtù delle loro doti personali. E non v'è dubbio che debbano sempre far spicco gli uomini più dotati e più ricchi d'energie; come a- dire che avviene una selezione qualitativa. La qualità del borghese (ossia di ciò ch'egli vale per se stesso, non già di ciò ch'egli possiede) è interamente determinata dal suo lavoro più qualificato e creativo, dalla sua iniziativa, dalla sua energia e dalla sua inventiva. Perciò è come se egli continuasse in certo modo ad appartenere alla popolazione operaia, e in ciò appunto egli si distingue dall'aristocratico. Il borghese è un consanguineo dell'operaio. Ogni operaio, a quanto pare, può diventare borghese; e del resto il borghese è un operaio a cui arrise la buona sorte. E proprio così vediamo che avviene in America, dove la borghesia è la meno tradizionale che si possa immaginare. Ma allora perché questa lotta senza esclusione di colpi tra la classe borghese e la classe operaia? Perché il contrasto fondamentale in seno

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alla società capitalista ha come antagonisti il borghese da un lato, l'operaio dall'altro? Il borghese è un traditore della massa operaia. Egli è uscito dalle viscere del popolo operaio. È stato dotato d'una maggiore iniziativa, d'una maggiore energia, d'una maggiore inventiva; in lui per la prima volta s'è manifestata una ferma volontà di espansione illimitata e di sviluppo senza fine. E così doveva essere, un tal uomo doveva pur nascere. L'uomo medievale non poteva vivere in eterno. S'aprl un'era nuova e si ridestò una ferma volontà di dominio universale. Comparve sulla scena Faust; e nel borghese si rivelò un elemento faustiano. Ma il borghese non volle rimanere organicamente legato al popolo operaio, non volle contentarsi di diventarne il vertice e l'avanguardia. Cominciò anzi a vergognarsi della sua origine, indossò la marsina e si calcò in capo il cilindro, costruì alberghi e ristoranti sontuosi, arrivando in tal modo a formare una nuova classe, ostile alla massa operaia e incline all'oppressione e allo sfruttamento del lavoro. Vi fu in questo una fatalità d'ordine morale, che determinò tutto l'orrore e l'accanimento della lotta di classe nella società capitalista del nostro tempo. Falsa e cinica è la teoria borghese secondo la quale la borghesia altro non sarebbe che la selezione qualitativa dei meglio dotati, mentre la classe operaia consterebbe di coloro che sono rimasti addietro in conseguenza della loro inettitudine e della loro povertà di doti naturali. In realtà c'è tra i borghesi una pletora di nullità che appartengono al tipo umano inferiore e occupano tuttavia i posti più ambiti, così come vi sono, tra gli operai, delle persone singolarmente dotate che appartengono al tipo umano superiore. Solo il genio creatore, che è dono divino, solo il talento eccezionale riesce ad aprirsi un varco a dispetto di tutte le difficoltà, per penose che siano, insite nella sua condizione; ma il genio così inteso non è mai del borghese. Il borghese, rifiutandosi di considerare l'opera propria alla stregua d'un servizio sociale, favorl l'atomizzazione 104

della società umana. Fu lui a introdurre lo spirito della concorrenza spietata e della lotta economica senza quartiere, puntando invariabilmente sul più forte. Egli pose ben al di sopra dell'uomo e dell'anima umana lo sviluppo delle forze economiche materiali. È interessante constatare che Marx, pur detestando la borghesia, non mancò di esaltarla e di idealizzarla. Proprio la borghesia, secondo lui, sarebbe stata investita della grande missione di sviluppare le forze produttive materiali, senza di che il socialismo sarebbe stato impossibile. Egli approvò in sostanza il tradimento perpetrato dalla borghesia nei confronti del popolo lavoratore; e proprio tale tradimento rese possibile la formazione di quel proletariato che Marx giudica l'unico vero popolo lavoratore. Il cammino storico che il borghese ha imboccato fece sl che si accumulassero odì e rancori insanabili: le condizioni di lavoro che ne risultarono furono peggiori che al tempo della servitù feudale. E perciò tale via non può essere giustificata dalla coscienza cristiana. La preoccupazione e l'incertezza del domani hanno raggiunto, nella società del capitale creata dalla borghesia, l'estremo limite. Un tale disorientamento generale inasprisce gli animi e li costringe a un'esistenza infernale. L'uomo ora non si trova più in balia delle necessità naturali, ma è soggiogato dal potere fittizio del denaro, che è il regno di Mammona; in tale condizione diventa impossibile discernere alcunché e scoprire le realtà autentiche. Ma la lotta di classe tra il borghese e l'operaio - lotta che non ha precedenti nella storia quanto ad acredine - solleva il problema dello spirito borghese in senso, appunto, spirituale. È questo un fenomeno del tutto particolare, distinto dal , (1948).

01 Be.-c!jae,, «La Casn d1 Matnona" ha pubblicato anche