Costruire la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti 888750718X, 9788887507188

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Costruire la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti
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Pat Patfoort COSTRUIRE LA N O N V IO L E N Z A P e r u n a p e d a g o g ia d e i c o n f l it t i

la meridiana partenze

Fuoco e acqua, rosso e blu, caldo e freddo, rabbia e tenerezza, spruzzo e flusso, ■un vulcano e una cascata, una scintilla e una goccia di pioggia. Un faro. Fuoco e acqua, caldo e freddo, aspro e dolce, fo rte e rinfrescante una m ontagna e una valle, una stufa e un cubetto di ghiaccio, fu o ch i d'artificio e tempesta. Un m are di fuoco. Fuoco e acqua, bruciare ed estinguere. Pericolo! Pericolo! M a il fuoco può anche sopirsi... E l'acqua può turbinare! Cercano il loro equilibrio, p u r continuam ente s'intrecciano. Un gorgo di fuoco. Fuoco e acqua, rosso e blu, passione e ragione, facile e difficile, tu e io, un focolare e una fontana, un p e zzo di carbone e una goccia di rugiada. Un arcobaleno.

Indice

Prefazione

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Introduzione

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Che cos’è la violenza?

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Che cos’è la nonviolenza?

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L’educazione nonviolenta ovvero anche i bambini sono persone

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Epilogo

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Stessi concetti aventi contenuti differenti

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Prefazione La vicenda storica che sta alle origini dell’idea e della prassi nella nonviolenza è complicata e ancora da descrivere accuratamente. Certamente alle origini v ’è un pensiero religioso: un fa tto decisivo fu la riscoperta dell’antica ahimsa indiana (la nonviolenza) da parte di Gandhi, attraverso il cristianesimo di Tolstoj, che a sua volta era cen­ trato sul fo n d a m en ta le passo di M atteo 5, 39: “N o n resistere al m ale”. Alle spalle di entrambi, appunto, una larga storia di cui resta ancora m olto da scoprire, come ho già detto. C aratteristica di G andhi e di Tolstoj era però la convinzione che la nonviolenza aves­ se una profonda, superiore razionalità e che quindi la sua adozione non supponesse una scelta religiosa in senso dogmatico: la nonviolen­ za già in questi suoi inizi aveva potenzialità essenzialmente laiche e secolari (del resto la stessa caratteristica aveva la religiosità di questi “padri fondatori ”). N on stupisce, perciò, che questo segno, laico e secolare, sia divenuto ancora più spiccato nella storia successiva della ricerca (e della prassi nonviolenta, occorre sempre aggiungere quando si parla di queste cose): si pensi in Italia allo sviluppo che va dal cristianesimo radicale di G iovanni Pioli, alla “nonviolenza come aggiunta alla democra­ z ia ” di Aldo Capitini, all’approccio razionale, analitico, utilitaristico di Giuliano Pontara. Anche chi personalmente preferisce, per gusto, formazione, studio, ricollegarsi alle radici più antiche della nonviolenza, accetta con pia­ cere e apprezza grandemente questi ultim i sviluppi, poiché sa che fa parte della sua “tradizione” la convinzione che la non-resistenza al male può avere, sempre e dappertutto, spontaneo accesso al cuore e all’esperienza di ogni uomo. D i questi sviluppi fa parte il contributo costituito da Pat Patfoort, Costruire la nonviolenza. E interessante vedere come le “verità antiche come le m ontagne” si riaffaccino e trovino nuova form ulazione attraverso la riflessione sull’esperienza di questa studiosa. Si veda l ’efficace illustrazione della catena della violenza (che già Tolstoj aveva potentemente proposto con La cedola falsa), o la ripresa d ell’antico apologo dell’elefante a ll’inizio del libro (nessuno conosce veram ente tu tto l ’elefante, v. pag. 20). E tutto questo, appunto, a partire dalla concretezza della “com une” esperienza e pratica quotidiana, familiare, attraverso un approccio non retorico, pienamente laico e razionale. N aturalm ente non c’è da illudersi. Spezzare la catena della violen­ za esige ad esempio una nozione più affinata di giustizia, che rifiuta la più facile simmetria del taglione (nelle mille form e in cui questo C o s t r u ir e

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appare, in tutte le culture), e assume fin o in fondo il principio del “non uccidere”. Stabilire una relazione di eguaglianza, invece che una relazione squilibrata, non significa, come bene spiega l’autrice, riproporre una relazione squilibrata in senso opposto, ma una nuova relazione, in cui l ’opposizione giusto/sbagliato venga dissociata dal­ l’idea di diversità. Ma questo comporta una più raffinata percezione dell’idea di verità, implica ad esempio la capacità di accettare con rigore, e non con cinismo relativistico, la frase di Simone Weil (nei Q uaderni): “O gni religione è l ’unica v e r a ”. D unque il compito è immenso e difficile. Ma ciò che dà fiducia è appunto l ’assunto base dell’opera di Pat Patfoort, l ’assunto antropologico positivo, e cioè che il comportamento nonviolento ha una sua naturalezza, ha un suo radicamento profon­ do. Si tratta allora di divenire consapevoli degli aspetti nonviolenti del nostro comportamento, di confermare questi aspetti, di rafforzarli, di svilupparli. N on si tratta di sovrapporre la nonviolenza come u n ’altra natura alla nostra natura, di per sé violenta (certo esiste uno sforzo della paideia, della cultura nonviolenta, ma si tratta qui dello sforzo della cultura che vuole fa r posto alla fin e a una superiore “naturalez­ z a è un bel tema della tradizione confuciana), altrimenti la nonvio­ lenza si potrebbe instaurare solo facendo violenza. Partire con fiducia dall’esperienza, argomentare pienamente dal concreto, valorizzare i convincim enti acquisiti attraverso la prassi: sono le indicazioni di m etodo che emergono da questo libro, per affrontare coraggiosamente e serenamente tem i e compiti altrimenti sproporzionati a gente comune che opera tra la gente comune, come vuol essere chi oggi propone la via della nonviolenza. Pier Cesare Bori

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Pat Pa tfo o r t

Introduzione In questo libro sono posti a confronto due sistemi. Il primo è il sistema comune, quello più diffuso e impiegato. Il secondo è quello alternativo: il sistema nonviolento. Ciò non implica che finora tutti noi abbiamo fatto parte del primo sistema e con que­ sto libro possiamo compiere il primo passo verso la realizzazione del sistema nonviolento! Al contrario, ritengo che ciascuno di noi agisca regolarmente all’interno del secondo sistema, quello non­ violento, anche se si trova collocato nel primo. Il modo comune di pensare questioni quali il comportamento, le reazioni, i sistemi educativi è tipico del primo sistema. Con questo libro mi propongo di fare luce sulla distinzione tra i due sistemi, e chiarire il punto dove noi e il nostro comporta­ mento siamo inseriti. H o rappresentato questa distinzione in modo schematico: anche se i diagrammi non hanno la pretesa di essere completi, hanno il vantaggio di semplificare e chiarire la realtà. Nella prima parte si descriverà la natura del primo sistema: dalle più radicate origini alle num erose conseguenze. Nella seconda parte, invece, si verificherà l’esistenza di un secondo sistema opposto al primo: sia attraverso una descrizione delle opposte caratteristiche dei due sistemi, sia soprattutto attraverso una serie di esemplificazioni del modo in cui il secondo sistema può essere messo in pratica eventualmente dimostrandone l’esi­ stenza autonoma. N on è mia intenzione distinguere ciò che è valido da ciò che è cattivo: il mio intento è di fare luce sul modo in cui le cose si rap­ portino o si oppongano tra loro, su come siano intimamente lega­ te le diverse forme del comportamento umano e su quali siano le loro conseguenze. Nella società moderna ci sono molte situazioni che generalmente sono considerate negative e che vorremmo vedere cambiate: parecchie di queste hanno ricevuto l’etichetta di “violente”. In questo libro i lettori saranno messi nella condizio­ ne di capire che gli aspetti negativi della nostra società sono diret­ tamente legati ad alcuni loro comportamenti che appaiono inno­ centi. Molto spesso questi comportamenti causano direttamente riflessi negativi. Sulla base di questo, dimostrerò che: se vogliamo liberarci di questi aspetti, generalmente situati “al di fuori di noi”, tutti dobbiamo cambiare alcuni nostri comportamenti lavorando su noi stessi. Due passaggi si rendono necessari se vogliamo giungere ad un sistema nonviolento: C o s t r u ir e

la n o n v io l e n z a

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- acquisire una consapevolezza; attraverso la conoscenza giun­ gere alla com prensione; - cambiare; attingere a una serie di tecniche, metodi e programmi. Poiché ciascuno di noi p u ò trovarsi parzialm ente in entram bi i sistemi, occorre lavorare su due livelli differenti: a) divenendo consapevoli della violenza insita nei nostri com ­ p o rtam en ti, in altre parole divenendo consapevoli di tu tti quei m om enti in cui n o n agiam o in m odo nonviolento e di quelli in cui usiam o o incoraggiam o la violenza per poi cambiarli, adattar­ li, sostituirli; b) divenendo consapevoli degli aspetti nonviolenti del nostro co m p o rtam en to , al fine di conferm arli, rin fo rzarli, svilupparli. Q u esto libro p u ò fornire un su p p o rto illum inante a tu tti coloro che, consapevoli o no, hanno già intrapreso la strada della n on­ violenza. A ltri sentono di essere ancora bloccati nel prim o siste­ ma, quello com une, e vo rreb b ero uscirne: p er loro questo libro può essere una guida p er sostituire il m odo abituale di com porta­ m ento con u n o nonviolento. La nonviolenza è u n ideale da perseguire: la nonviolenza p er­ fetta non esiste. L’uso che possiam o fare di essa n o n implica che sarem o in grado di agire e reagire sem pre in m odo nonviolento, che n o n ric a d re m o p iù nel vecch io sistem a. C o m p o r ta r s i in m o d o n o n v io le n to significa cercare c o n tin u a m e n te di perse­ g u ire la n o n v io le n z a in o g n i ista n te della n o s tra v ita, anche se non è d etto che conseguirem o sem pre questo fine. Per questo le re la z io n i e l’e d u ca z io n e n o n v io le n te im p lican o u n a c o n tin u a attenzione al sistema nonviolento, a quello che troverem o nella colonna destra delle nostre tabelle. A lcuni passi di questo libro faranno esclamare: “Q u i c’è qual­ cosa che no n va!” o “Q u esto è inverosim ile!”... E vero che alcuni m odi di pensare e com portarsi qui pro p o sti sem breranno m olto distanti da quelli cui siamo abituati, il che p u ò lasciare perplessi. Possiam o avere l’im pressione che finora ci siamo posti di fronte ai problem i in m odo errato, o non gradire l’idea di dover cam bia­ re le nostre abitudini, q infine pensare di essere incapaci di agire in m odo nonviolento. E infatti im possibile cam biare im provvisa­ m ente le a b itu d in i di u n a vita. T u tti h a n n o b iso g n o di m o lto tem po per p o ter effettuare u n tale cam biam ento. È norm ale che occorrano diversi anni, infatti. In un certo senso bisogna riedu­ carsi perché in generale siam o stati educati secondo i criteri del sistema “co m u n e”. U n ’u ltim a c o n s id e ra z io n e p e r c o n c lu d e re : n o n d o b b ia m o atten d erci un successo p ien o dalla strategia della nonviolenza. N essun m etodo è efficace al 100%, e anche il m etodo della vio­ lenza è lungi dall’esserlo, com e dim ostrano alcuni dati del libro.

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Pat Patfo o rt

L’efficacia della nonviolenza aum enterà significativam ente quanto più sarà collaudata, elaborata, quanto più num erosi saranno colo­ ro che la im piegheranno, q u an to più su di essa si continuerà a costruire. A ttualm ente la nonviolenza si trova ancora nella sua infanzia. In ogni m odo, sebbene l’efficacia di u n m etodo m eriti la nostra speciale attenzione, non ritengo che sia la sola ragione per la quale scegliamo la nonviolenza: la vera ragione sta nei propositi e nei valori fondanti.

Co str u ir e

la n o n v io l e n z a

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Che cos’è la violenza?

Il punto di partenza: le esperienze della gente Il concetto della nonviolenza deriva dal concetto di violenza h Considerando il significato letterale, per nonviolenza si intende qualcosa che non contiene violenza. È Palternativa alla violenza. Ecco perché abbiamo bisogno di una definizione dettagliata di violenza se vogliamo giungere alla esatta compren­ sione del significato di nonviolenza. Le due frasi di definizione contenute nei dizionari non sembrano essere adeguate a tale proposito, se si considerano le numerose discussioni circa l’interpretazione pra­ tica del concetto. Esempio - una persona indignata dice: “Guardi, ritengo questo un vero atto di violenza!”. La reazio­ ne di un’altra persona p otrebbe invece essere: “Penso che lei esageri quando dice che quest’atto è un esempio di violenza. Alla lunga, ogni cosa finisce per essere un atto di violenza!”. Dunque, lo stesso fatto è giudicato in modo diffe­ rente da due persone. La prima ritiene che si tratti di un atto di violenza, la seconda non è d’accordo.

Ci siamo spesso fatti una certa idea del concetto di violenza: cerchiamo di scoprire se la si può applicare o meno a una determ inata esperienza. Allora scopriamo che le opinioni divergono. Un paio di anni fa ho avuto l’impressione che mancava una chiara, ben delineata definizione del concetto di violenza, che potesse essere accettata da Costruire la nonviolenza

chiunque e nella quale ciascuno di noi avrebbe potuto collocare le proprie personali esperienze. Tenendo in mente questo fine, ho operato al contrario: non sono partita da una definizione da verificare nell’esperienza pratica, sulla base della quale correggerla o adattarla. È questo un metodo che si è più volte rivelato inefficace. In realtà, inco­ minciamo la verifica apprezzando a tal punto le nostre definizioni che diventa difficile cambiarle e quasi im possibile dim ostrarne com pletam ente l’infondatezza. Perciò, ho prim a ascoltato le espe­ rienze di u n gran num ero di persone, e poi ho cercato u n denom inatore com une. Certamente era possibile che, ascoltando storie così differenti e diverse, corressi il rischio di non essere più in grado di trovarlo. Tuttavia, ho scelto di correre questo rischio perché mi sembrava che il metodo fosse in qualche modo l’unico corretto. Di conseguenza ho ascoltato migliaia di persone, uomini e donne di diversa provenienza culturale, diverse età, ecc., che mi hanno raccontato le loro esperienze alle prese con la violenza. H o conosciuto i loro racconti e ho assimilato le loro esperienze nella seguente maniera: - fissando degli incontri con gruppi dalle 10 alle 50 persone - suggerendo loro il seguente esercizio.

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La prima fase era individuale: ciascuno doveva icordare un’esperienza di violenza in cui aveva jersonalm ente sofferto presentandola eventualnente con un disegno. Cercavo sempre di chiarire :he se avevano l’impressione che un evento fosse ;tato violento non si sbagliavano. Se ritenevano che m certo evento avesse contenuto un comportanento violento, avevano ragione. Aggiungevo che :ra possibile che la persona che aveva esercitato nei

- far cadere - sparlare di qualcuno - sottomettere - opprimere - far pressioni su qualcuno

loro confronti una violenza non avesse avuto inten­ zioni violente. Perciò, dovevano semplicemente ricordare la violenza subita senza preoccuparsi di cosa gli altri, inclusi coloro che avevano esercitato la violenza, pensassero. La prima fase ha riguardato il livello educativo (bambini, adolescenti o adulti che ricordavano una situazione vissuta nell’infanzia), il livello delle rela-

- sminuire - umiliare - zittire a forza di grida - denotare - minimizzare

m - mettere le mani su qualcuno - dominare su qualcuno - dominare - sbilanciare - sopraffare - prevalere

- inferiorità - essere secondo - sottomissione - sentirsi piccolo - servile - derelitto - soggiacere

/ persuadere C-- convincere giusto / buono

- sbagliato / cattivo (capro espiatorio)

C

- maggioranza - normale

C

di potere C-- eccesso abuso di potere NOI

- minoranza - anormale / speciale - deviante / marginale - impotenza / impotente

L'ALTRO

Fig. I - La relazione squilibrata tra il Maggiore (M) e il minore (m) nel linguaggio

zioni tra adulti e il livello sociale più alto (attraver­ so giornali e reportage giornalistici). La seconda fase era basata sullo scambio (tra due o più persone a seconda del gruppo): dovevano rac­ contarsi a vicenda le esperienze emerse nel corso della prima fase. La terza era una fase di gruppo: alle persone interessate veniva chiesto di fare un elenco di wele­ mentiMdi violenza emersi durante le due fasi prece­ denti. Non ho fornito alcun esempio che spiegasse esattamente il significato di “elem ento”, perché non volevo spingerli in nessuna direzione specifica. Le sole cose che ho richiesto sono stati concetti e brevi formulazioni per costruire un elenco degli elementi.

Lo scopo di questo esercizio può essere parago­ nato a ciò che accade in una biblioteca: l’enorme massa dei libri è condensata in un elenco di titoli facilmente consultabile. A nalogam ente, questo esercizio ci aiuta a ridurre l’enorme massa di espe­ rienze e di fatti concernenti la sfera della violenza a un più concentrato elenco di concetti e brevi for­ mulazioni. H o gradualmente accumulato molti elenchi di elementi della violenza, notando come la maggior parte di questi ricorreva con una certa frequenza, mentre altri (pochi) si ripetevano solo sporadica­ mente. Ma la cosa più sorprendente emersa dal confronto delle centinaia di elenchi raccolti, era l’ordine simile, per cui gli elementi potevano esse­ re classificati in un num ero lim itato di categorie.

Le radici della violenza: il sistema M-m La prim a categoria di elem enti della violenza mostra che le situazioni violente sono caratterizza­ te da una relazione squilibrata tra due posizioni di potere: una di minore (m), l’altra di Maggiore (M). Il Maggiore può trovarsi in questa situazione inten­ zionalmente o non intenzionalmente e può esserne o meno consapevole. Gli elementi che mettono in rilievo questa assenza d’equilibrio — di tipo supe­ riore-inferiore, grande-piccolo o alto-basso — sono molteplici. Alcuni sono indicati nella fig. 1. Il minore ritiene che questo squilibrio rappre­ senti una forma di ingiustizia e sente di essere discriminato perché differisce dal Maggiore per una qualche caratteristica (o per una serie di carat­ teristiche). Ecco dove ha origine il sistema M-m: semplicemente in differenze che non si compongo­ no Tuna accanto all’altra, ma nelle quali si colle­ gano giudizi di valore che determinano il prevale­ re di una sull’altra (fig. 2). Queste differenze si trovano a diversi livelli: a) in esperienze e pensieri non detti: differenze tra caratteristiche; b) in discussioni rivolte a un’elaborazione teori­ ca (dove nessuna decisione deve essere presa): diffe­ renze tra opinioni; Costruire la nonviolenza

c) in conflitti aperti e rivolti alla pratica (dove occorre prendere una decisione): differenze tra punti di vista.

Fig. 2 - Origine del sistema Maggiore/minore

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Le caratteristiche presentano tutti i tipi di diffe­ renze: a) colore della pelle, razza, cultura, lingua, reli­ gione; b) denaro, abitazione, mezzi di trasporto, abbi­ gliamento, materiali di lavoro; c) lavoro, qualifiche, scuola, sezioni scolastiche, classi, club, associazioni, capacità intellettuali, forza fisica; d) sesso, età, inclinazioni sessuali, discendenza, nome; e) abilità: intellettuali, manuali, linguistiche, umoristiche; f) caratteristiche fisiche: bellezza, lunghezza, lar­ ghezza, dimensione, colore dei capelli, forma del corpo; g) segni particolari: vivacità, tranquillità, capacità o meno di esprimere i propri sentimenti, estrover­ sione, introversione, loquacità o silenziosità, capa­ cità o meno di trattare con i bambini, ecc. Avere qualcosa in più non significa necessaria­ mente essere la parte Maggiore: le due cose non sono parallele. A d esempio la pelle nera è generalmente discrimi­ nata in una posizione minore rispetto alla pelle bianca, nonostante la pelle nera abbia una maggio­ re pigmentazione della bianca. Le differenze che riguardano alcune caratteristi­ che non sempre occupano una posizione di Mag­ giore o di minore ben definita. Quale delle due dissimiglianze diventerà la M aggiore o la m inore dipende da regole e modi che prevalgono in un tempo e uno spazio particolari (la situazione). Esem pio di differenza di genere - Una donna è discriminata ed è come un’entità minore quando, ad esempio, si trova in situazioni che implicano l’uso della tecnica: quando, per esempio, guida o parcheg­ gia un’auto. Un uomo è discriminato ed è considera­ to un’entità minore quando, per esempio, allatta un bambino o ricama. La stessa cosa può dirsi per il colore della pelle: nel corso dei primi decenni della colonizzazione la pelle bianca era considerata in modo differente nelle varie parti del mondo. A volte l’uomo bianco era adorato come un dio, giungendo così ad occupare una posizione di Maggiore. Altre volte era mangiato e di conseguenza occupava una posizione di minore.

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Giungere a occupare una posizione di Maggiore o di minore per il manifestarsi di una determinata caratteristica significa acquistare, sulla base di una differenza, rispettivamente un maggiore o minore prestigio ed essere ascoltati a priori. Persone, opi­ nioni, modi di pensare, valori, aspettative, bisogni, sentimenti, parole o azioni hanno rispettivamente più o meno valore. Si ha rispettivam ente più o meno diritto a essere e ad avere. Si ha rispettiva­ mente più o meno diritto a compiti allettanti: atti­ vità produttive o “positive” 2 o che consentono di ottenere risultati a breve termine. Si è più o meno obbligati a svolgere compiti spiacevoli, quali lavori di mantenimento o attività “negative” 3, compiti che producono risultati a lungo termine. E questo solo perché si ha la pelle di un certo colore, si parla una certa lingua, si è di un certo sesso, si ha una particolare origine, ci si veste in modo particolare, si svolge una certa professione o si possiede una laurea particolare, ci si comporta in un certo modo, ecc. In tempi rem oti essere o pensare in modo diverso in Occidente poteva risultare fatale come ancora oggi in molti paesi. Questa posizione mino­ re era spesso la strada più corta per perseguitare o perfino uccidere (basti pensare alle streghe). Le differenze di opinione e di punti di vista sca­ turiscono dalle differenze tra le caratteristiche ma anche dal modo diverso con cui ciascuno di noi fa esperienza della stessa realtà. Anche le esperienze, come le caratteristiche, non producono aspetti paritari ma, attraverso le opinioni, vengono ordina­ te allo interno del sistema M-m. La parabola indiana dei sette ciechi - Un giorno sette ciechi ebbero la fortuna di toccare un elefante che passava dalle loro parti. Erano soddisfatti e orgogliosi. Sfortunatamente ciascuno di loro aveva toccato solo una parte dell’elefante, e tuttavia erano convinti di averlo toccato tutto. Così iniziò una discussione. Il primo era convinto che l’elefante fosse una lancia perché aveva toccato una zanna. Il secondo era convinto che l’elefante fosse una colon­ na perché aveva toccato un piede. Il terzo era sicuro che l’elefante fosse un muro perché aveva toccato la pancia. Il quarto insisteva che l’elefante fosse un ventaglio perché aveva toccato un orecchio. La discussione proseguì fino al settimo cieco.

Pat Pa tfo o r t

Nessuno possiede la Verità. Ognuno ne possiede un pezzo diverso, ma in una discussione siamo portati a pensare che la nostra opinione è quella giusta, la buona, la sola che conti. Pertanto, Popimone dell’altro deve essere sbagliata, cattiva, non dovrebbe esistere. Inoltre, esigiamo che anche gli altri pensino che la nostra opinione sia quella giu­ sta: vogliamo essere considerati nel giusto, convin­ cere gli altri che siamo nel giusto. A ncora una volta, questo atteggiamento è determ inato dalla logica del sistema M -m, che si manifesta nella forma del pensiero o del ragionamento bipolare quando vi è una diversità d’opinione. Il pensiero bipolare o a due poli è semplicistico, di tipo bianco-nero, riduce tu tto in term ini di buono e cattivo, di pro e contro, “o questo o quel­ lo, non entrambi”. Qualcosa è normale o anormale, logica o illogica, autoritaria o an tia u to rita ria . Quando non sei d’accordo, si dà per scontato che sei contro. Tutto il nostro mondo e il nostro lin­ guaggio ruotano intorno ai due poli. Questo modo schematico di pensare può essere un punto di par­ tenza utile per ulteriori ragionamenti, ma sfortuna­ tamente poiché non si approfondisce normalmente non si va oltre. Questo pensiero bipolare è stato chiaramente espresso nell’autunno del 1988: quando gli Stati Uniti si stavano aprendo ai palestinesi gli israeliani protestarono energicam ente di fronte a questo atteggiamento. Sentivano che avrebbero perso la posizione vantaggiosa verso gli Stati Uniti. Teme­ vano, infatti, di perdere la posizione privilegiata nei confronti dei palestinesi: diventare una forza mino­ re invece che Maggiore. Gli Stati U niti erano in grado di intrattenere relazioni buone con entrambi. Invece, si tende a pensare che una buona relazione con un gruppo implichi necessariamente una rela­ zione cattiva con quello antagonista. Molte dichia­

Costruire la nonviolenza

razioni e osservazioni riassumono questo pensiero bipolare: basti pensare, per esempio, a quanto ha dichiarato ad un settimanale una nota popstar: “So che molti pensano che sono un pezzo di merda vanitoso, ma perché devo fingere di essere stupido quando non lo sono?”. Il pensiero bipolare ci induce ad associare ciò che è normale con ciò che è buono o giusto, e ciò che è anormale con ciò che è cattivo o sbagliato (v. fig. 1). In questo modo non si fa altro che rendere perma­ nenti norme che diventa poi difficile cambiare. Il pensiero bipolare ci induce a perseguire una posi­ zione di Maggiore (buona/normale) per noi stessi e una di minore (sbagliata/anormale) per l’altro, per paura di divenire minori. Q uesto atteggiamento viene spontaneo ogni volta che cerchiamo di prova­ re la colpa dell’altro per discolparci. Ormai siamo così abituati al fatto che in ogni conflitto debba sempre esserci un “colpevole”, che qualcuno debba essere inferiore o minore. Basta ascoltare quello che dicono i bambini tutte le volte che litigano: "Lui ha iniziato per primo!”, “È stato lui”. Tracce di questo modo di comportarsi sono riscontrabili anche negli adulti. È rilevante il fatto che nei casi di divorzio una delle due parti deve essere colpevole, preferibilm ente non il proprio figlio o la propria figlia, ma “l’altro”, il genero o la nuora. Anche per ciò che riguarda i fatti sociali, ci piace pensare in termini di “parti colp evoli”. Quando avviene un incidente o si com mette un crimine, siamo soliti puntare il dito sul colpevole, punirlo, fargliela pagare. Per esempio, ci siamo mai chiesti chi sia da biasimare per la tragedia allo stadio Heizel? Il Sindaco di Bruxelles, il Ministro deirinterno, il Pre­ sidente della Lega Calcio Belga? O gli hooligans inglesi? Oppure il clima econom ico dei distretti poveri di Liverpool? E chi è il responsabile di questa situazione?

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La fonte di potere della violenza: l’istinto di autoconservazione In che modo cerchiamo vigorosamente di evitare di essere la parte minore? Da dove traiamo l’energia? Dal nostro istinto d’autoconservazione: si tratta di una proprietà biologica della vita degli animali e degli uomini. La conservazione delle specie è fon­ data sull’istinto d ’autoconservazione. È perciò una proprietà salutare, positiva e indispensabile. Q ue­ sto istinto fornisce a uomini e animali l’energia necessaria per conservarsi, proteggersi e difendersi. Tale istinto opera a due livelli. 1) Il livello di sopravvivenza (livello fisico) — Vale per tutto il regno animale e di conseguenza anche per l’uomo. Significa che animali ed esseri umani p ro d u co n o una q u a n tità d ’energia p er garantirsi le essenziali necessità di vita: assunzione di cibo e di liquidi, creazione di uno spazio per vivere, protezione contro il caldo e il freddo, ecc. Gli animali integrano questo livello con la difesa territoriale. E ntro certi lim iti, possiam o anche riscontrare l’immagine della "difesa territoriale” nel comportamento umano espresso in affermazioni tipo: "N on gli permetterò più di venire qui. Questa è casa mia!”. È difficile distinguere nelle società cosiddette sviluppate la generazione d ’energia a livello di sopravvivenza. Denaro e tecnologia si collocano generalmente tra il soddisfacimento di una neces­ sità di vita e la produzione dell’energia richiesta per provvedere a tale soddisfacimento. Il legame tra la produzione di energia richiesta per una certa neces­ sità di vita e la necessità stessa può ancora essere evidenziato nei paesi del Terzo Mondo, nelle situa­ zioni più primitive della nostra società (nomadi­ smo) o nelle situazioni di crisi (i campi di concen­ tramento). 2) Il livello dei valori (livello psicologico) — La persona 4 è un animale altamente sviluppato: non ha bisogno solo di sopravvivere, ha bisogno anche di valori. Ciò significa che l’istinto di autoconser­ vazione potrà anche manifestarsi per la difesa di valori, affinché questi abbiano "spazio” 5 negli eventi sociali. Tali valori possono avere un retroter­ ra culturale (funzioni di etichetta) o religioso 22

(andare in chiesa) oppure possono essere puramen­ te personali (mantenere la parola data). Il conflitto tra generazioni è un tipico esempio di situazione in cui ogni parte lotta perché i propri valori ottengano uno spazio maggiore. Esempi - Padre e figlio discutono sul valore di un diplo­ ma. - Una madre pensa che non si può vivere da mari­ to e moglie a meno che non si sia sposati, mentre la figlia vuole convivere con il proprio compagno per un paio d’anni prima di sposarsi. - I genitori tendono a mettere in risalto l’attitudi­ ne al risparmio, mentre i figli preferiscono spendere i soldi subito. - In ognuno di questi casi entrambe le parti lotta­ no per ottenere uno spazio maggiore per i propri valori.

L’istinto d ’autoconservazione ci fornisce una quantità d ’energia per lottare e ottenere un posto nella società; da un lato, a livello fisico per essere più sani e forti; dall’altro, a livello psicologico per accertarsi che i propri valori (incluso il rispetto della propria persona6), le proprie idee e opinioni godano di considerazione. Al livello di sopravvivenza, dei bisogni fisici, spesso si dispone di spazio a sufficienza per soprav­ vivere come entità minore. Tuttavia i valori psicolo­ gici, il rispetto della propria persona, sono in stretta relazione con queste posizioni M-m. Il rispetto della propria persona o altri valori sono pratica­ m ente annullati dal m odo di pensare bipolare quando la posizione occupata è di minore. Ecco perché non vogliamo essere minori neanche a livel­ lo fisico: si tende ad essere l’entità Maggiore pro­ prio perché si pensa secondo il sistema M-m. Se paragoniamo il sistema M-m all’immagine della difesa territoriale, potrem m o dire che il minore deve cedere parte del suo territorio mentre il Mag­ giore deve espanderlo (fig. 3). Dunque nel sistema M-m l’autodifesa si compie a spese di un altro: si ha bisogno di un perdente perché ci sia un vincente, di un oppresso perché ci P at P a t f o o r t

C o s t r u ir e

la n o n v io l e n z a

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ia un dominatore e di un cattivo perché ci sia un uono. Sulla base di questo modello, l’energia spriionata dall’istinto d’autoconservazione si trasfor-

ma in aggressione 7 e questa è usata contro l’altra persona con scopi offensivi (fig. 4).

DIFFERENZE (di caratteristiche, opinioni, punti di vista)

Non uso di potere (con m)

Abuso di potere (con M)

AGGRESSIONE - contro l’altro - alle spese dell'altro - attacco

t

ENERGIA

t ISTINTO DI CONSERVAZIONE

ig. 4 - L ’origine del sistema M-m

Gli strumenti della violenza Le caratteristiche sono strumenti di potere. Esse consentono di fare qualcosa, di eseguire, di essere qualcuno, di esercitare influenza. In questo senso il concetto di potere non ha nessuna implicazione negativa. È, cioè, un concetto neutro. Ma nel sistema M-m questi strumenti di potere sono impiegati per raggiungere la posizione di Maggiore opposto al minore. Il Maggiore abusa delle differenze di caratteristiche (intenzionalmente o non intenzionalmente, consciamente o inconscia­ mente). Dall’altro lato, gli strumenti di potere del minore non sono impiegati: non si usano a suffi­ cienza o non si sa come farlo. In realtà, gli elementi della violenza (quelli facenti ancora parte della

prima categoria) cui regolarmente si fa ricorso sono riferiti a questo fatto: i termini potere, abuso di potere, eccesso di potere, superpotere ed esercizio perverso del potere sono opposti a mancanza di potere, impotenza, mancanza di difesa, dolore e paura. Una seconda, ampia categoria di elementi della violenza si riferisce a uno specifico strumento di potere che spesso evidenzia e rafforza lo status di Maggiore o di minore: la comunicazione, Strumento di potere di cui spesso si abusa. Ciò avviene intenzionalmente o non intenzionalmente, conscia­ mente o inconsciamente. In realtà il più delle volte avviene non intenzionalmente.

La comunicazione come strumento di violenza La categoria degli elem enti della violenza che riguardano la comunicazione si riferisce a: 1) Q uantità della comunicazione: a) eccesso di comunicazione: cioè paura di una intimità eccessiva, di troppe domande; b) mancanza di comunicazione: cioè nessun ten­ tativo di comunicazione o approccio inefficace; - cause: stress, fretta, fatica, impulsività; - forme di com portam ento: im personalità di un’istituzione, noncuranza, indifferenza, pregiudi­ zi, mancanza di attenzione, d’ascolto, d’immedesimazione, di comprensione, d’espressione; - conseguenze: rifiuto, espulsione, isolamento, solitudine. 2) Form e della com unicazione: umiliazione, scherno, derisione, ironia, presunzione, espressione del viso, sguardo, minaccia, urla, percosse, stupro, omicidio. 3) In d e te rm in a te z z a della com u n icazio n e: malinteso, ignoranza. Ma cos’è esattam ente la comunicazione? Essa consiste nello scambio di un messaggio da una Costruire la nonviolenza

parte all’altra. Ciò significa comunicare un messag­ gio dalla sfera interiore di una parte alla sfera inte­ riore dell’altra. Le idee hanno origine nel cervello, i sentimenti nelle viscere. Il messaggio deve raggiun­ gere il cervello o le yiscere dell’altra parte. Perciò la com unicazione implica che la seconda parte (il destinatario) comprenda ciò che la prima (l’emit­ tente) cerca di trasmettere. Dunque risulta ovvio che la comunicazione non si esaurisce esclusiva­ mente nella parola! N on inizia al livello del discor­ so (m ovim ento delle labbra), non coincide con quello che viene detto! Al fine di comunicare in modo efficace, per trasmettere effettivamente un messaggio dalla sfera interiore di una parte a quella dell’altra, occorre essere consapevoli delle p ro ­ prietà della comunicazione (fig. 5): 1) “am piezza” della com unicazione: le varie form e di com unicazione contem poraneam ente impiegate nella trasmissione del messaggio; 2) “lunghezza” della comunicazione: la distan­ za da coprire. La fig. 5 rappresenta un quadro della comunica­ zione verbale in un dato momento.

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IV■

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PENSIERI ! chiarezza ! (il razionale) 1 dei propri | j pensieri j ■



1

nucleo parole -

1

i i elementi extraverbali accompagnamento sonoro: i 1 intensità (silenzio in alcuni casi), intonazione, riso... j ! comprensione linguaggio del corpo: 1 1 delle idee 1Scolto ! espressione del viso, gesti, i atteggiamenti, sguardo, pianto, riso, sorriso... li i situazione, ambiente: i luogo, persone presenti, fi" momento, illuminazione, ecc. j ! contatto fisico: osservazione j1 immersione distanza, contatto o asenza di contatto, tipo di contatto, ecc. 1 nei sentimenti ■

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SENTIMENTI coscienza 1 dei propri 1 (l'emotivo) j sentimenti j •



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i corrispondenza j tra parole ed esperienza del ricevente, cioè tra parole e azioni i

ift ! i

Fig. 5 - Le forme di comunicazione verbale ("ampiezza”) e la distanza da coprire ("lunghezza”)

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Pat P a t f o o r t

Un dialogo è una catena di tali momenti che si susseguono in direzioni alternate tra loro; dunque non è una pura e semplice loro accumulazione (il parlare). L’espressione del messaggio successivo nella direzione opposta deve essere basato sulla ricezione del messaggio che lo ha preceduto. In parole pove­ re, si dovrebbe realmente dare ascolto all’altro, osservare l’altro, cercare di capirne veramente il messaggio e assimilarlo prima di replicare. Un vero ascolto implica l’attesa della sostanza del messaggio senza interruzione; non si dovrebbe neanche reagi­ re immediatamente al termine della frase enunciata perché potrebbero forse esserci altre frasi deputate alla trasmissione del messaggio. In un vero proces­ so comunicativo anche il silenzio può svolgere un ruolo importante e necessario 8. Nella comunicazione verbale sono le parole che costituiscono il nucleo del messaggio. La conversa­ zione telefonica è una variante in cui vengono a mancare un certo numero di elementi come l’e­ spressione del viso, i gesti, ecc. Ma vi sono molti altri tipi di com unicazione come la scrittura, il disegno, la musica, gli sguardi, le manifestazioni, i mass media, ecc. La comunica­ zione verbale è di gran lunga la forma più usata nella nostra società specie nell’educazione, ambito che riceverà un’attenzione speciale in questo libro. Quindi ci lim iterem o principalm ente a questa forma di comunicazione.

indeterminata nello spiegarci ciò che dovevamo fare! Come si può capire non esitiamo a porre l’altro nella posizione di minore.

b) Per comunicare chiaramente dobbiamo perse­ guire Vomogeneità delle diverse forme di comunica­ zione. D obbiam o cercare di far corrispondere il più possibile le forme extraverbali alle parole (fig. 6). Se diciamo “sì” avvalendoci di elementi comuni­ cativi extraverbali (intonazione, espressione del viso, sguardo, gesti, ecc.) tipici di un “no” allora non è chiaro se il significato è “sì” o “no”. Esempio - Una donna chiede a suo marito se lui Lama. L’uomo risponde: "Ma certo che ti amo!” ma non la guarda e continua ad essere assorto in ciò che sta facendo. L’intonazione della sua frase sembra dire: "Smettila di brontolare!”. La donna non ha ricevuto nessuna risposta, così probabilmente la porrà nuovamente poco dopo; si può comprendere questa sua insistenza perché la risposta non è chiara a causa dell’eterogeneità delle varie forme di comu­ nicazione che la strutturano. U n ’altra situazione: un gruppo di persone adulte sta lavorando in una stanza mentre in un’altra qual­ cuno si occupa dei figli. I genitori hanno chiesto ai figli di non disturbarli. Tuttavia un bambino entra nella stanza dove gli adulti lavorano e gli si consente di sedere sulle ginocchia del padre. Le azioni non corrispondono alle parole e il messaggio non è più chiaro.

c) Le parole non sono necessariamente l'elemento Se vogliamo che la comunicazione sia efficace più importante del messaggio. occorre prendere in considerazione una serie di ele­ Sebbene le parole costituiscano il nucleo del menti di vitale importanza (fig. 5). messaggio, non sono i soli portatori di significato. a) Una buona comunicazione dipende dalle due Spesso perdono il loro ruolo determinante; in altri parti coinvolte. termini, gli elementi extraverbali possono assumere Tuttavia, quando un messaggio non è recepito un’importanza superiore a quella delle parole. siamo inclini a pensare che la responsabilità sia del­ l’altro. E sem pio - Si può mormorare la parola "no” in Esempio - Se abbiamo dato un compito a qualcuno che non l’ha eseguito in m odo soddisfacente, la nostra reazione più comune consiste nel dire che l’altra persona non ha sentito bene. Ma se qualcuno ci chiede di fare qualcosa e noi non la facciamo o non la facciamo in modo adeguato, allora tendiamo a pensare che l’altra persona è stata troppo vaga e

COSTRUIRE LA NONVIOLENZA

modo pensieroso, la si può urlare con rabbia o sog­ ghignare. In ognuno dei tre casi la parola "no” acquista un diverso significato. Spesso le domande cessano di essere tali quando sono poste con un tono di minaccia. Notate in questa domanda la differenza di significato causata da un cambiamento dell’into­ nazione: “Che cosa stai facendo qui?” (come in tutte le domande l’intonazione è ascendente). Consideria-

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Ha un buon sapore!

g. 6 - Corrispondenza tra parole ed espressioni del viso

mo quest’altra domanda: “Che cosa stai facendo qui?!!” (ciascuna parola è articolata distintamente, l’accento cade su “facendo” e “qui”, Pintonazione sale seguendo una curva verso Paltò). N el secondo caso, la domanda somiglia ad una minaccia, a un attacco. Ciò si manifesta chiaramente quando cer­ chiamo di difenderci da questo tipo di domanda con una reazione come: “N on sono stato io!”, mentre la vera risposta alla prima domanda sarebbe di caratte­ re esplicativo come in questa frase: “Stiamo rimet­ tendo la sabbia al suo posto”.

d) Comunichiamo perfino quando non parliamo (spesso inconsciamente e non intenzionalmente). Per esprimere pensieri e sentimenti che corri­ spondano il più strettamente possibile alla realtà, dobbiamo essere pienam ente consapevoli della natura di questi pensieri e sentimenti. Tuttavia, prima che si possa giungere alla chiarezza e alla piena consapevolezza, Pespressione si attua in un modo o nelPaltro principalmente attraverso il lin­ guaggio del corpo. Come si può commettere un atto di violenza con gli strumenti della comunicazione? È possibile che la comunicazione crei una rela­ zione Maggiore-minore o rinforzi una relazione Maggiore-minore già esistente. 1) Mancanza di comunicazione Le persone sono esseri sociali e quindi hanno bisogno di comunicare in qualche modo (non sem­ pre necessariamente tramite la comunicazione ver­ bale). Ogni persona deve essere in grado di comu­ nicare, almeno al livello minimo, attraverso forme proprie. Ma moltissime persone non possono farlo: non sanno come esprimere certi sentimenti, non hanno nessuno che li ascolti o che sia in grado di ascoltar­ li. Non possono esprimere la propria opinione: invece di essere ascoltati sono sollecitati o rimpro­ verati. Non sono accettati per i loro pensieri e sen­ timenti. Conseguentemente, sentono di non essere completamente accettati o di essere accettati meno di altri in grado di comunicare. N on si sentono rispettati e soffrono per questa condizione. Spunti di riflessione - Quante volte accade che non prestiamo attenzione, interrompiamo, non ascoltia­ mo, critichiamo, ridiamo di fronte alle idee, ai senti­ Costruire

la n o n v io l e n z a

menti o modi di comportarsi degli altri, oppure non ci sforziamo di comprenderli? E ciò non significa approvare il comportamento degli altri! Spesso con­ nettiamo le due cose perché abbiamo un modo di pensare bipolare!

2) Comunicazione ambigua Quando qualcuno riceve un messaggio ambiguo (spesso perché il messaggio non è omogeneo nelle sue varie forme di comunicazione), prova un senso di insicurezza, di dubbio e spesso finisce per cadere in una posizione di minore. Esempio - “N o, non sono 'geloso’” (con tono infu­ riato).

La comunicazione può fallire anche per l’ambiguità del messaggio, e far nascere un malinteso. A causa di questo, una delle parti può avere l’impres­ sione di trovarsi in posizione di minore rispetto all’altra parte. Esempio a pag. 64. 3) Quantità e natura di certe forme di comunica­ zione impiegate consciamente o inconsciamente capaci di porre qualcuno in una posizione di minore o di Maggiore: riguardano l’eccedenza o la scarsità di comunicazione. Esempio - Si può provare un senso di inferiorità alla presenza di una persona silenziosa come a quella di un chiacchierone.

Inoltre, alcune forme di comunicazione possono porre qualcuno nella posizione di Maggiore o di minore. Per comprendere - Una graduazione dell’aggressi­ vità verbale ed extraverbale (principalmente intona­ zione, di intensità di suono, dell’espressione del viso con particolare rilievo al sorriso sarcastico), in modo che ogni passaggio meglio approssimi alla posizione di Maggiore: a) “P rob ab ilm en te lo sai m eglio di me, dal momento che hai vissuto in una fattoria”. b) “Ovviamente lo sai, vero, visto che eri solito vivere in una fattoria!”. c) “Tu che hai vissuto in una fattoria, devi cono­ scere tutto di questo problem a! N o n puoi non saperlo!”.

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d) “Ma dico, tu che eri solito vivere in una fatto­ ria mi vieni a dire che non sai come vanno queste cose?”. e) “Come? N on ne sai niente? E tu hai vissuto in una fattoria!!!”. Ci si può collocare in una posizione di minore, per esempio, guardando per terra, non alzandosi per parlare, dicendo qualcosa che non è coerente con le proprie azioni, ecc.

4) Certe forme di comunicazione (usate intenzio­ nalmente o non intenzionalmente) mettono in risal­ to le dissomiglianze già esistenti nel sistema M-m e rinforzano le posizioni di Maggiore e di minore Esempi - Correre velocemente o lentamente: queste due caratteristiche sono in genere classificate rispettiva­ mente come Maggiore e minore. Ma il corridore veloce può aggiungere alla sua posizione di superio­ rità una risata sarcastica e dire in presenza d’una donna: “Pensi di correre veramente, non è vero? La prossima volta farai meglio a rimanere a casa!”. - Differenze d’occupazione/di sesso: il manager di una società e la segretaria hanno un figlio che deve rimanere a casa per una settimana. Il manager è seduto in una poltrona e legge il giornale. La moglie è di fronte a lui in grembiule. Lui guarda sotto gli

occhiali, alza gli occhi dal giornale e dice con tono com piaciuto e sicuro di sé: “N on posso proprio rimanere a casa neanche per mezza giornata. N on se ne parla nemmeno e tu lo sai benissimo che è impos­ sibile. Il mio lavoro è completamente diverso dal tuo, che potrebbe svolgere chiunque! Basta telefona­ re ad un’agenzia di collocamento per sostituirti una settimana! E poi, rimanere a casa con un bambino malato: no, non è un lavoro che si addice ad un uomo!...”. E ritorna a leggere il giornale senza nean­ che aver finito la frase. La p osizion e di M aggiore e quella di minore ampiamente mantenute rispettivamente dall’uomo e dalla donna nel lavoro, di quelli come i manager e i segretari, sono ancora una volta evidenziati dal loro modo di comunicazione. - Età/livello d’istruzione: una domestica sta par­ lando con un dottore anziano, uno psicologo e un’infermiera. Verso la fine dell’incontro la domesti­ ca si alza e parla per la prima volta, lo fa timidamen­ te e con voce bassa. Dal tono di voce, dallo sguardo, dalle prime parole, sembra che la donna stia chie­ d en d o il p erm esso del d ottore: “N o n saprei, ma...pensavo che forse...certo è solo un’idea...ma.... E forse non sono sufficientemente istruita, ma...”. Questo modo di esprimersi mette in evidenza anco­ ra una volta la posizione minore assegnata al suo livello d’istruzione.

Il sistema M-m in un conflitto Un conflitto è una situazione in cui due punti di v ista a p p a re n te m e n te in c o m p a tib ili esisto n o l’uno accanto all’altro. Si ha l’impressione che non si possa congiungerli in un punto o in una decisio­ ne comune. E sem pio - U n uom o vu ole trascorrere con sua moglie le vacanze in un paese del Nord (Scandina­ via); sua moglie, invece, vuole andare a Sud (paesi mediterranei).

È ovvio che dove esiste un solo punto di vista non c’è conflitto.

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Esempio - Sia il marito sia la moglie vogliono andare in un paese mediterraneo.

È possibile che una parte o entrambe attribuisca­ no scarsa importanza alla posta in palio nel conflit­ to. Almeno una parte non ritiene importante che la sua opinione sia sostituita da quella dell’altra. Ecco ciò che io chiamo un conflitto non reale. Un vero conflitto implica che almeno una delle parti dia importanza a ciò che è in questione, che almeno una delle parti senta di finire in posizione di minore se cede, se il proprio punto di vista fosse sostituito, magari per l’ennesima volta.

Pat Patfoort

Abbiamo avuto già modo di osservare come le differenze di caratteristiche (a livello di esperienza e di pensiero) e di opinione (a livello di discussio­ ne) finiscono nel sistema M-m attraverso lo stru­ mento dei giudizi di valore (v. pag. 19). Ora, che cosa accade, a livello del conflitto, per le differenze tra punti di vista? Come per le differenze di carat­ teristiche e d ’opinione, le differenze tra punti di vista non si conservano l’una accanto all’altra, ma si muovono per fronteggiarsi: esattamente come nelle discussioni, ogni parte cerca di dimostrare di essere

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C o st r u ir e

2

la (n o n v i o l e n z a

nel giusto, di essere la parte Maggiore. Q uesto pro­ cesso avviene in tre fasi. - Prima fase: si mettono in evidenza gli aspetti positivi del proprio punto di vista (argomentando­ lo); - Seconda fase: si menzionano gli aspetti negativi del punto di vista dell’altro (minandone la fonda­ tezza); - Terza fase: si evidenzia tutta la negatività possi­ bile dell’altro punto di vista (disgregandone la fon­ datezza).

Esempio - L’uomo vuole andare a Nord (Scandinavia) e la donna a Sud (paesi mediterranei). Una sera l’uomo torna a casa dal lavoro e dice alla moglie: “Oggi, uno dei miei colleghi mi ha mostrato le fotografie delle vacanze. Sono stati in Norvegia l’anno scorso. È un posto veramente bello, fantastico! Che pae­ saggio naturale! E che aria pura! Guarda, è semplicemente meraviglioso! Che ne dici di andare lì la prossima estate?” (prima fase del primo punto di vista). La donna non ha ancora parlato al marito delle loro vacanze per man­ canza di tempo. Ha sempre altre cose da fare o da discutere. È sempre più tardi di quanto non si possa immaginare... Ma in realtà, lei ha già iniziato a pensare alla prossima estate. L’estate precedente sono stati in Germania dov’è piovuto a catinelle. Ha pensato che è ormai tempo di andare a Sud per prendere un po’ di sole e ha già consultato alcuni dépliant per sapere qualcosa di più sulle vacanze nei paesi mediterranei. Ora che ha ascoltato le parole del marito, sente che il suo punto di vista è stato relegato in secondo piano e di essere apprezzata meno. Così, procede risolutamente alla prima fase evidenziando il suo punto di vista: “Vuoi sapere una cosa? Stavo pensando che potremmo fare un salto al Sud e visitare qualche paese del Mediterraneo. Lì sicuramente ci sarà un bel tempo, non come l’anno scorso. I bambini potranno giocare e nuotare nel Mediterraneo, mentre noi potremo riposarci”. Ora è il marito che ha l’impressione che il suo punto di vista sia relegato in secondo piano. Così passa alla seconda fase: “Cosa?! Il Mediterraneo? Ma scherzi, vuoi andare lì? Sai benissimo che in estate è sovraffollato! E poi fa un caldo terribile! Proprio ora ti ho parlato della natura e dell’aria pura della Norvegia: tutto questo non esiste nei paesi del Mediterraneo! E poi lì c’è un inquinamento insopportabile! Il Mediterraneo è un’immensa fogna a cielo aperto! N on vorrai mica che i bambini vi nuotino dentro”. “Ma non è così brutto come pensi. Si esagera sempre quando si parla d’inquinamento. Moltissima gente trascorre le vacanze nei paesi del Mediterraneo e non stanno peggio di te o di me. Invece se andiamo in Scandina­ via avremo molto probabilmente tre settimane di pioggia. E i bambini dovrebbero passare tre settimane in una tenda?! Sarebbe proprio una bella vacanza! Ritorneremo certamente tutti raffreddati. E ammesso che ci sia il sole, mi hanno detto che quei posti sono infestati di zanzare. Prova a immaginare un picnic: mangeremo sandwich e zanzare” (seconda fase del secondo punto di vista).

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“È sempre la stessa cosa quando parlo con te: vuoi sempre aver ragione, e non tolleri che si faccia qualcosa di diverso, di nuovo. Solo tu sai cosa è meglio per i bambini..." (terza fase del primo punto di vista). “Che cosa intendi quando dici che voglio sempre aver ragione?", inter­ rompe la donna. “Senti chi parla! Chi ha deciso dove trascorrere le vacan­ ze nei quattro anni passati? Sempre tu che vuoi dimostrare ai colleghi di poter andare dove vanno loro. Cerchi sempre di fare quello che fanno loro! N on sei capace di avere un’idea tutta tua, non hai un minimo di ori­ ginalità”. Conflitti di questo genere possono notevolmente degenerare. Tornere­ mo a parlarne.

Può accadere che si salti qualche fase e si passi direttamente alla terza rimproverando aspramente l’interlocutore. Esempio - D opo la prima fase del punto di vista del marito (quando que­ sto torna a casa pieno d’entusiasmo), la moglie potrebbe reagire immedia­ tamente in questo modo: “Sei sempre lo stesso! Vuoi fare sempre come gli altri! Vuoi dimostrare ai colleghi che sei capace di andare dove vanno loro. Cerchi sempre di fare quello che fanno gli altri! N on sei capace di avere un’idea tutta tua, non hai un minimo di originalità!”.

Si possono compiere diversi passi (dal più misu­ rato al più duro) quando si rim provera u n ’altra persona: a) nel contenuto - dell’altro si criticano le azioni Esempio - “Sei stupido quando cerchi di imitare gli altri!"

- dell’altro si critica la persona Esempio - “Sei stupido!"

b) nella forma - si emette un io-messaggio

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Esempio - “H o l’impressione che tu voglia imita­ re gli altri. N e ho veramente abbastanza”

- si emette un tu-messaggio Esempio - “Vuoi imitare sempre gli altri: non sei capace di avere un’idea tutta tua!" - si inseriscono parole come “sempre” e “mai”...

In realtà, ogni punto di vista ha aspetti sia posi­ tivi sia negativi proprio come ogni caratteristica e ogni opinione ha aspetti forti e deboli a seconda della situazione (fig. 7).

Pat Patfoort

Fig. 7 - La duplice natura di ciascuna caratteristica, opinione, punto di vista Per chiarire - Un esempio concreto e semplice di due caratteristiche differenti: ci sono dita grosse e dita sottili. In certe situazioni avere le dita grosse costituisce un vantaggio, per esempio per aprire una bottiglia. Le dita sottili sono necessarie in altre situa­ zioni, per esempio quando bisogna estrarre qualcosa da una piccola fessura. Questo non significa che una caratteristica sia migliore o più valida dell’altra. Tut­ tavia una serie di valori sono in genere attribuiti alle dita grosse e a quelle sottili. In genere, si pensa sia meglio per un uomo avere dita grosse più virili, più robuste (posizione di Mag­ giore), mentre le dita sottili sono considerate più “effeminate”. Per una donna, invece, è meglio avere dita sottili: sono più femminili, più affascinanti (posizione di Maggiore), mentre le dita grosse sono considerate “grasse”. Ma in alcuni casi occorre fare un ragionamento diverso; per esempio le dita sottili costituiscono un vantaggio (posizione di Maggiore) per un musicista maschio (chitarrista, violinista o altri strumentisti). Allo stesso modo, in alcune situazioni essere bian­ chi, donne, intellettuali, loquaci può costituire un vantaggio. In altre situazioni è più vantaggioso esse­ re neri, maschi, lavoratori o silenziosi. Il punto è che essere bianchi, maschi, loquaci o intellettuali non dovrebbe essere considerato più o meno importante (o Maggiore o minore) in sé per sé.

Il contesto e le convenzioni determinano la categorizzazione di una caratteristica, la sua considera­ Costruire

la n o n v io l e n z a

zione di Maggiore-minore, la sua positività o nega­ tività. Tuttavia la stessa caratteristica ha una varietà d’aspetti positivi, o negativi che emergono a secon­ da della situazione.

La caratteristica in sé non è positiva o negativa. In ogni conflitto i vari punti di vista dovrebbero essere messi a confronto. Ogni punto di vista ha aspetti positivi e negativi, ma chi si trova in una posizione di Maggiore prende in considerazione gli aspetti positivi, mentre chi si trova in una posizione di minore indica solo quelli negativi. Esempio - La donna che desidera convincere il mari­ to ad andare a Sud può dire che il clima mediterraneo è “piacevole e caldo” e collocarsi in una posizione di Maggiore. Il marito dicendo che quel clima è “terri­ bilmente caldo” e dunque parlandone negativamente cerca di metterla in una posizione di minore.

Discussioni e conflitti associati a temi sociali generalmente giungono direttamente alla terza fase: - non si resta a lungo nella prima fase, vale a dire quella positiva del proprio punto di vista; - inoltre, non ci si sofferma sul punto di vista in sé (la seconda fase), ma ben presto si cade in un più generale, "pro o contro” (la terza fase). Ciò perché i temi sociali sono legati a problemi controversi quali l’immigrazione, l’aborto, il fem­ minismo.

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Esempio - Punto di vista A: gli immigrati devono essere espulsi; - Punto di vista B: gli immigrati devono restare. A - “Ritengo sia meglio che gli immigrati siano rimandati al loro paese: si renderebbero subito disponibili molti posti di lavoro e il problema della disoccupazione sarebbe immediatamente risolto !”. B - “Si, certo!...In questo caso il problema della disoccupazione sarebbe spostato in quei paesi e risolto qui! N on è certamente una soluzione al problema della disoccupazione! Ma il punto principale è che non si può semplicemente mandar via la gente! Molti immigrati sono nati qui. Il loro paese non è più laggiù. Molti di loro non hanno mai visto la cosiddetta 'terra’ dei padri!”. A - “Si, ma...nel frattempo questa gente ci sta uccidendo nel nostro stes­ so paese. Guardi, non sono razzista, ma su tre furti e omicidi di cui parla­ no i giornali, uno è commesso da arabi! N on ci si può fidare! Basta guar­ dare i loro occhi!”.

Nelle discussioni e nei conflitti ad un più alto livello sociale, il linguaggio diplomatico sostituisce generalmente il linguaggio spontaneo. Sebbene in maniera più complessa ed elaborata, le tre fasi sono

individuabili. Si cerca di evitare, infatti, di rimanere incastrati all’interno di quei meccanismi che saran­ no descritti nel paragrafo seguente.

I meccanismi della violenza La terza e ultima categoria degli elementi violenti si riferisce alle conseguenze del sistema M-m: - frustrazioni (I); - internalizzazione della violenza (II); - meccanismi non controllati (III); - sentimenti di rivolta (IV); - competizione (V); - contrattacco (VI); - mancanza di fiducia (VII); - timore di perdere autorità/prestigio, di espri­ mere i propri sentimenti, di apparire debole (Vili); - sfogare le proprie emozioni (IX); - tenere sotto controllo (X); - punizioni (XI); - sensazione di possedere qualcuno (XII); - sottrarsi alle proprie responsabilità (XIII). Il Maggiore è spesso inconsapevole di esserlo e di sottoporre il minore alla violenza. Forse reprime questa consapevolezza o non vuole prenderne conoscenza. Perciò, per capire meglio che cosa sia

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la violenza, iniziamo dal punto di vista del minore, vale a dire dalla persona che soffre a causa della violenza. Il minore non è a suo agio nella posizione in cui si trova e subisce delle frustrazioni (I) che derivano dall’istinto di autoconservazione. A nes­ suno piace essere il minore. L’energia che deriva dall’istinto di autoconservazione può assumere forme diverse (v. fig.13).

1) L’energia si rivolge contro il soggetto che la genera N on siamo in grado di dirigere l’energia prodotta all’esterno per evitare di subire un atto di violenza. N on vogliamo impiegare l’energia a spese degli altri, come generalmente avviene e che ci sembra costituisca la sola possibilità. Comprimiamo l’ener­ gia dentro di noi, la internalizziamo (II), la impri­ gioniamo all’interno di noi stessi. Se l’energia è prodotta in uno spazio chiuso senza valvola di sfogo, lo spazio scoppierà o esploderà. La Pa t P a t f o o r t

stessa cosa può dirsi di chi imprigioni Penergia deri­ vante dalPistinto di autoconservazione: Porganismo scoppia, le cellule anche, la persona si ammala. Ini­ zialmente ci sentiamo male o depressi, poi compaio­ no tutte le possibili malattie psicosomatiche quali emicranie, mal di stomaco, ulcera e cancro. Noi stessi ci sottoponiam o alla violenza. È molto più salutare lasciar uscire Penergia. Questo processo di esternazione può avvenire secondo uno dei due meccanismi descritti successi­ vamente, generalmente in modo incontrollato (III). Definiamo ciò “diventare duri”, occuparsi direttamente di qualcosa perché “è affar nostro”, “diven­ tare uomini” (cosa che è pretesa dal servizio milita­ re), “avere il senso delPumorismo”. Cosi, spesso si ride di chi è sfortunato, come chi cade, chi fa cadere una scatola di aghi appena rac­ colti, chi è punito. E se colui di cui si ride non si sente a suo agio, non esitiamo a dirgli che non ha 0nessun senso deWumorismo ”. 2) L’energia si ritorce contro la persona da cui proviene la violenza I termini che vanno dal punto IV al punto V ili fanno riferimento a questo meccanismo che defi­ niamo con l’espressione “occhio per occhio, dente

Co str u ir e

la n o n v io l e n z a

per dente”. Il non voler essere o restare i minori ci induce a voler diventare i Maggiori e a mettere l’al­ tro in uno stato di minore. Ciò significa che tendia­ mo a vendicarci (IV) con l’altro, a entrare in com­ petizione (V) con l’altro, a contrattaccare (VI) ai bisogni dell’altro. N on alteriamo il sistema passan­ do da una posizione di minore a una di Maggiore: si rimane sempre nel sistema M-m. Abbiamo solo invertito i ruoli. L’altro è il minore e non vuole restare in questa posizione ma vorrebbe ritornare a essere il Maggiore. È ciò che diciamo “la violenza genera altra violenza”. Proteggendoci attraverso una strategia d’attacco (cambiando la posizione da minore a Maggiore), generiamo nell’altro la sensa­ zione di minaccia (cade in uno stato di minore). A sua volta questi sentirà il bisogno di difendersi attaccando — spesso questo è il solo modo di bat­ tersi nel proprio interesse. Se ci si trova in una posizione di Maggiore, si diffida dell’altro (VII) e si teme di perdere la propria posizione (Vili). Come già visto per i conflitti (v. le tre fasi, pagg. 36-38), il rovesciamento dei ruoli del Maggiore e del minore si verifica generalmente con una ten­ denza rivolta sempre più verso l’alto. Si verifica, cioè, u n ’escalation della violenza (il zig-zag verti­ cale). Una dimostrazione di questa escalation si ha spesso nel comportamento dei bambini (fig. 8).

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Esempi

a) Tra due bambini Marco (8 anni) gioca con la costruzione Lego. Suo fratello Enrico (9 anni) va verso la costruzione di Marco e fa cadere un pezzo. Marco si arrabbia e dice a Enrico: “Guarda dove vai, stupido! Guarda che cosa hai fatto! Hai rovinato il bel castello che ho fa tto !” (1). “S tu p id o, non d o v ev i m etterti in m ezzo!”. Enrico reagisce immediatamente (2): “N on sono io che mi sono messo in mezzo, ma tu ti sei messo in m ezzo con il tuo treno! E poi, non era neanche b ello !” (3). “Perché ti sei preso i p ezzi migliori! Questo è mio!”. E mentre sta dicendo que­ sta frase, Enrico prende un pezzo delle costruzioni di Marco (4). Subito Marco afferra un vagone del treno di Enrico e grida: “Questo è m io!” (5). Poi, cominciano a rompersi i giocattoli e a lanciarsi i pezzi addosso. M olto presto cominceranno a pic­ chiarsi e a prendersi a calci...

b) Tra un adulto e un bambino. Una sera, dopo la scuola e il lavoro. Sono stanca. Ieri sono rimasta in piedi fino a tardi. H o fretta di cenare per avere il tempo di riposarmi. Per questo motivo dimentico di chiedere a mio figlio (12 anni) che cosa gradirebbe esattamente mangiare. Trascuro ogni cosa perché ritengo che, almeno per me non ci siamo problemi. Q uando vede il piatto pieno, si arrabbia molto. Lo allontana bruscamente, alza la voce e dice che non vuole mangiare perché è tutto mischiato e non gli piace (1). Anch’io m’arrabbio e gli dico che sta diventando troppo difficile nel man­ giare e che è ora di comportarsi più ragionevolmente (2). Lui grida ancora di più e dice che sono io non ragionevole: gli altri genitori sanno soddisfare meglio le richieste dei loro figli! (3). Con voce più alta, gli dico che deve smetterla con tutte queste stu­ pidaggini. Ora deve mangiare, altrimenti non potrà guardare la televisione! (4). Si alza, facendo cadere la sedia, e corre verso la porta (5). Lo afferro per la camicia e... La situazione può subire un’escalation notevole.

Per escalation completa s’intende una situazione in cui si attraversano le due fasi principali: la fase verbale o psicologica (attraverso mezzi verbali si perpetra una violenza psicologica) e la fase fisica (attraverso mezzi fisici si perpetra una violenza fisi­ ca). C ’è un proverbio che cristallizza questo: "Chi non vuole ascoltare dovrà provare”. In realtà, que­

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ste fasi principali possono essere ulteriorm ente suddivise, come mostra la fig. 9. La soglia che divide la fase visibile da quella invi­ sibile è estremamente importante. Per secoli si è definita la violenza p arten d o da questa soglia. Tutto ciò al di sopra di questa era considerato vio­ lenza, al contrario di ciò che si trovava al di sotto. N on si sapeva altrimenti stabilire il punto d’inizio della violenza. Si trattava d’una soluzione semplice perché è facile razionalizzare e quantificare tutto ciò che si trova al di sopra della soglia. Inoltre, mentre le conseguenze della violenza visibile sono studiate (da medici) da tempo immemorabile, solo molto recentemente psicoterapisti, psichiatri e psi­ cologi hanno cominciato ad interessarsi delle con­ seguenze della violenza invisibile, sebbene molti continuano a non ammettere l’esistenza di queste ultime. È un atteggiamento da struzzi: l’unica forma di violenza che riconosciamo è quella che vediamo. Nessuna attenzione è rivolta alla violenza invisibile. N aturalm ente è necessario definire la violenza per poterla controllare. Tuttavia, la convinzione che solo ciò che si trova al di sopra della soglia sia vio­ lenza implica che ogni cosa che si trova sotto la soglia è un comportamento accettabile. Dunque, pur di non essere il minore tutto è lecito per sotto­ mettere l’altro, purché invisibile e non fisico. E ciò che definiamo "com portarsi in m aniera civile” non è meno doloroso e violento di qualsiasi metodo che si collochi al di sopra della soglia. Esse­ re continuamente sottomessi e umiliati, per esem­ pio, è peggio che subire una violenza fisica. Molti modi di dire sottolineano l’analogia tra violenza verbale e violenza fisica quali, per esempio, "pren­ dere colpi in faccia” e "tornarsene a casa con una sconfitta”. Le conseguenze più importanti di questo modo di definire la violenza sono tre. 1) Molti hanno il problema di pensare che la vio­ lenza psicologica subita non è tale (violenta). Que­ sto talvolta li porta volontariamente a oltrepassare la soglia pur di essere notati Esempi — Le donne che subiscono “solo” una violenza psicologica (per esempio perché continuamente criPat Patfo o rt

ticate o umiliate) mostrano lividi o ferite per attrarre l'attenzione e farlo notare. — Molti giovani che soffrono di solitudine e che sentono di essere trattati ingiustamente tentano di suicidarsi. E il suicidio è, molto più degli incidenti automobilistici, la principale causa di morte dei gio­ vani!

2) Quando qualcuno compie il primo passo oltre la soglia verso un livello superiore, non si parla di autodifesa, anche se questi è stato sottoposto a vio­ lenza psicologica per anni. 3) Nel corso del loro itinerario educativo, si inse­ gna ai bambini a comportarsi "civilmente”, ossia a risolvere i conflitti senza oltrepassare il livello di soglia. Esempio - Esclamazioni quali “Fai tutto quello che vuoi ma non colpire gli altri!” e “Sei troppo grande per litigare su queste stupidaggini!”.

Si assiste ad una notevole evoluzione quando si passa dalla scuola elementare alla media perché i Co st r u ir e

la n o n v i o l e n z a

conflitti si risolvono facendo sempre meno ricorso alla forza fisica. D ’altro canto cerchiamo di mettere l’altro in stato d ’inferiorità ricorrendo sempre più sottilmente a mezzi verbali. Di tanto in tanto anche nell’età adulta l’energia si riversa oltre la soglia. N on siamo in grado di con­ trollarci e comportarci in maniera “civile”, perché le emozioni si fanno intense o perché il tasso alcoli­ co del sangue è troppo alto. Dal punto di vista sociale, è possibile riscontra­ re lo stesso fenomeno che abbiamo considerato a livello interpersonale: la escalation della violenza e l’idea che la violenza inizi sulla soglia compresa tra la fase invisibile e quella visibile. a) La storia ha fornito una moltitudine d’esempi di escalation della violenza. I libri di storia ne sono pieni! Esempi — U n esempio del nostro tempo: il conflitto tra Belgio e Zaire. Per molti anni è stato un alternarsi di

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alti e bassi. Tutte le volte che si è avuta un’escalation, si è cercato febbrilmente di gettare acqua sul fuoco in modo da evitare in un modo o nelPaltro di oltre­ passare il livello soglia. — Ma ci sono altri esempi: le guerre civili in Liba­ no e in Irlanda del Nord, le rivolte nelle repubbliche sovietiche della Georgia, nella provincia del Rossovo, in Jugoslavia, a Cipro, lo sterminio degli ebrei e degli indiani d’America...Anche la violenza negli stadi di calcio è un ulteriore esempio. — Altri esempi frequenti e ben noti di escalation sono l’espulsione dei diplomatici e il trattenimento di ostaggi.

Spesso non aspettiamo un attacco per rispondere ma iniziamo ad attaccare — attacco preventivo — prima che accada qualcosa, per il timore stesso di essere definitivamente attaccati. Esempio - Alla fine del diciannovesimo secolo gli inglesi attaccarono la popolazione zulù del Sud Afri­ ca perché temevano un attacco ai loro insediamenti. L’attacco preventivo è considerato generalmente meno rischioso di un possibile attacco (“l’attacco è la migliore forma di difesa”) da parte dell’altro. L’e­ sempio proposto — in cui gli inglesi furono sconfitti dopo m olto spargim ento di sangue, nonostante avessero preso la iniziativa e le loro attrezzature militari fossero m olto più moderne — illustra in

O ccidente

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modo adeguato che tale assunto non corrisponde necessariamente alla realtà. Statisticamente sembra che le probabilità che un attacco ha di fallire, sono le stesse che ha di riuscire. Se per esempio, consideria­ mo i più importanti conflitti armati degli ultimi due secoli, si rileva che solo nel 55% dei casi un attacco è riuscito.

Spesso le affermazioni dei politici sono molto simili a quelle degli individui: ricorrono alle minac­ ce, esercitano pressioni su chi si trova in una posi­ zione di minore quando si sentono minacciati o non sono giustamente considerati o immaginano di essere minori. Esempio - All’inizio del maggio 1989 gli Stati Uniti volevano ammodernare i missili a corto raggio. La Repubblica Federale Tedesca e alcuni stati dell’Eu­ ropa occidentale si opposero a questo programma. Gli Stati U niti fecero sapere che “erano pronti a richiamare le loro truppe dall’Europa se i missili a corto raggio non fossero stati ammodernati”. È una frase che potremmo assimilare alla più familiare “Se non fai questo per me, non chiedermi di...”.

Un atteggiamento di questo tipo provoca delle controminacce perché siamo posti in una posizione minore.

Esempio - All’inizio del maggio 1989 il presidente del parlamento iraniano Rafsanjani chiese al suo popolo di uccidere cittadini americani, inglesi e francesi. Era una sorta di rappresaglia per vendicare la morte dei palestine­ si nei territori occupati. Era evidentemente una manifestazione che si materializzava da un vuoto di potere. Le reazioni furono le seguenti. Gli Stati Uniti dissero: “L’Iran rimarrà sempre più isolato e il popolo iraniano dovrà soffrire ancora di più”. Gli inglesi: “Rafsanjani farebbe meglio ad occuparsi dei problemi interni. Le cose non vanno molto bene nel suo paese”. Anche queste frasi ci sembrano familiari perché riecheggiano afferma­ zioni come “Prima di parlare di qualcuno pensa ai tuoi difetti!” e “Prima metti ordine in casa tua!”.

P at P a t f o o r t

Il fatto che la "minoranza” è chiamata "opposi>ne” dà un’idea chiara di come non appena senmo di essere la parte minore iniziamo automatimente a controattaccare. b) Allo stesso modo molti continuano a credere e c’è pace se non c’è guerra (in altri term ini, andò l’interazione non supera la soglia). Tuttavia è chiaro che tutte le situazioni al di tto della soglia non possono essere definite come cifiche (fig. 10). Ecco perché si impiegano espres)ni come pace "negativa” e pace "positiva”. Pace egativa” significa assenza di guerra, pace "positi” significa assenza di qualsiasi forma di violenza. Le conseguenze di questo modo di considerare la erra, la pace e il significato di violenza dal punto vista sociale sono simili alle conseguenze che ;uardano la sfera dei rapporti interpersonali.

c) Quello che accade sotto la soglia è considerato m olto meno seriamente di ciò che accade al di sopra della soglia. Esempio - Nella primavera del 1989, ci furono molti morti nel corso degli scontri scoppiati in Venezuela a causa degli annunciati tagli delle spese per ridurre il debito estero. Il fatto che molte persone fossero morte in questi scontri risvegliò improvvisamente i paesi più ricchi che divennero più compiacenti e disponibili ad annullare i debiti dei paesi del Terzo Mondo. L’Europa occidentale condivise il boicottaggio contro il Nicaragua, ma probabilm ente avrebbe disapprovato un’invasione da parte delle truppe americane. Va aggiunto per inciso che questa fu una ragione ulteriore per gli Stati Uniti per limitarsi ad un appoggio militare ai Contras.

d) N on consideriam o il prim o passo oltre la soglia come un atto di autodifesa: se molucchi, palestinesi, cattolici irlandesi e altri ritengono di

10 - L'escalation della violenza nelle relazioni personali e in quelle sociali

essere stati vittime di tanta violenza (fase invisibile) passeranno ad atti terroristici (fase visibile), e si farà riferimento esclusivamente a que st'ultima violenza. Certo che si tratta di violenza! Ma è una reazione all’accumulazione di violenza cui sono stati sotto­ posti. Naturalmente, questo non significa che la violenza del terrorism o debba essere accettata o perfino giustificata. Se pensassimo questo, cadrem­ mo nell’errore del pensiero bipolare. Ma dobbiamo considerare la violenza del terrorismo in una pro­ spettiva di autodifesa contro l’altra forma invisibile di violenza. 3) L’energia è rivolta contro una terza parte a) Il metodo non istituzionalizzato Ci sono varie ragioni per cui chi si trova in una posizione di minore può scegliere di non avviare un’escalation per opporsi a chi si trova in una posi­ zione di Maggiore. Quest’ultimo può sembrare più forte, più grosso, più loquace, più appoggiato dal gruppo o gerarchicamente superiore. Può accadere che il prim o sia fisicamente o psicologicamente troppo dipendente dal Maggiore. Perciò egli è in grado di sapere in anticipo che il Maggiore riuscirà a farcerla alla fine, che si riconfermerà il Maggiore, anche se egli gli si opporà in vari modi. L’istinto di autoconservazione emerge nel mino­ re sotto forma di irritazione, rabbia, indignazione e

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resistenza. N on può giungere ad occupare una posizione di Maggiore attraverso un’escalation di violenza. L’energia generata dall’istinto cerca di fuoriuscire per un’altra via, invece di ritorcersi con­ tro la persona in questione. Adottare un atteggia­ mento da Maggiore contro un terzo o sfogare le proprie em ozioni (IX) su di un terzo possono costituire valvole di sfogo. È un anello della catena della violenza (il zig-zag orizzontale). Esempio - Questo esempio illustra la catena della violenza (fig. 11). Un giorno, il direttore ammini­ strativo di una società vede che un caporeparto arri­ va in ritardo. Gli grida: “Sei di nuovo in ritardo ?” (1). Il capo reparto è su tutte le furie: lui è sempre puntuale, non è mai in ritardo. Come si permette il direttore di parlargli in quel modo?! Raggiunge il suo reparto dove si rivolge ad un impiegato e gli chiede bruscamente: “Come andiamo. È pronto il tuo resoconto?” (2). L’impiegato lo guarda sconcer­ tato. Il giorno prima il caporeparto gli aveva detto che poteva continuare a lavorare alla stesura del resoconto con tranquillità fino alla settimana succes­ siva. Ma prima che possa ricordarglielo, il capore­ parto usa lo stesso tono con un’altro impiegato. Il primo impiegato è nervoso per tutta la giornata. Quando finisce di lavorare, salta subito nella sua BMW e sfreccia via dal parcheggio. Qualche minuto più tardi è sull’autostrada dove supera tutti ad una velocità di 140 km all’ora, fino a quando non deve rallentare improvvisamente per la presenza di una

Pat Pa t f o o r t

Mini sulla corsia di destra. Suona, lampeggia, ma non riesce ad accelerare nella manovra di sorpasso della Mini. La conseguenza è che alla fine la BMW supera la Mini mentre il conducente della BMW grida ferocemente qualcosa a quello della Mini (3). “Dannazione” grida quest’ultimo mentre cerca di frenare. “Idiota! Dovrebbero togliere la patente a tutti quelli come te!”. Intanto, la BMW è scomparsa all’orizzonte, e il conducente della Mini con i nervi a fior di pelle conclude: “È per colpa di questi idioti che accadono gli incidenti”. Il conducente della Mini arriva a casa. Va in cucina. Guarda con occhio furio­ so la moglie senza quasi averla salutata e senza essere capace di controllarsi dice: “N on è ancora pronta la cena? Lo sai che devo uscire stasera!...” (4). “E meglio non rispondergli se si trova in questo stato”, pensa la m oglie, “ma dovrebbe sapere che sono appena tornata! Sto preparando la cena in fretta e furia e lui lo vede! Dovrebbe darmi una mano invece di lamentarsi sempre!...”. La donna non dice niente. Più tardi padre e figli sono a tavola mentre la donna si appresta a servire l’ultima portata. Improvvisa­ mente la saliera cade. La madre si arrabbia con la figlia Anna: “Guarda cosa hai fatto Anna! Sei sem­ pre così distratta!” (5). Anna la guarda sorpresa per­ ché lei non ha neanche toccato la saliera! N on par­ lerà più per tutto il resto della cena. Quando ha fini­ to si allontana furtivamente. Mentre sta andando nella sua stanza, vede un giornale a fumetti aperto su un armadio. Lo prende (6) e chiude a chiave la stan­ za. Cinque minuti più tardi suo fratello Piero inizia a bussare alla porta. “Restituiscimi il giornale, è mio e tu lo hai preso!”. Anna si limita a sogghignare e a malapena leva gli occhi dal giornale. Da un’altra stanza la madre grida a Piero che finirà per rompere la porta e che deve iniziare immediatamente a fare i compiti. “È sempre la stessa cosa”, pensa Piero, “mamma è sempre dalla sua parte...”. Ma a scuola può sfogare le sue emozioni sul paffuto Bobo per esempio. In mensa gli amici buttano qualsiasi cosa nel piatto di Bobo. Oppure può prendere in giro Patrizia che porta gli stessi vestiti di dieci anni fa (7)! “La maestra dice che Bobo e Patrizia sono due bam­ bini cattivi, interrompono sempre, vogliono sempre essere al centro dell’attenzione!” (8). La donna, dal canto suo, pensa che certi giorni ne ha proprio abba­ stanza e che le può capitare di tornare a casa esausta ed estremamente irritata. E se suo marito fosse stato il direttore ammini­ strativo da cui siamo partiti? In tal caso, la catena della violenza si sarebbe completata.

C o st r u ir e

la n o n v i o l e n z a

Le catene della violenza sono estremamente dif­ fuse. Spesso abbiamo l’impressione che la rabbia venga repressa e che, di conseguenza, l’energia sia rivolta contro la stessa persona che l’ha prodotta. In realtà si tratta di una repressione temporanea. Più tardi l’energia si trasferisce su un’altra persona e, attraverso una catena di violenza, viene diretta all’esterno. Frequentemente abbiamo l’impressione che l’ag­ gressione prorompa senza ragione, quando invece ha sempre una qualche origine. Q uesto significa che l’adozione da parte di qualcuno nei nostri con­ fronti di un atteggiamento di Maggiore altro non è se non la sua reazione al fatto di essersi trovato pre­ cedentemente in una posizione di minore rispetto ad un altro (in una catena di violenza) o a noi stessi (il che implica che abbiamo contribuito all’escala­ tion di violenza). Tutto questo può accadere senza consapevolezza, o senza perfino essere in grado di evitarlo. Uno degli anelli più diffusi della catena della vio­ lenza a livello sociale è scaricare i problemi (per esempio di natura economica) sulle minoranze. È il caso degli immigrati nordafricani in Belgio, della minoranza turca in Bulgaria, ecc. b) Il metodo istituzionalizzato: la catena della obbedienza o della gerarchia U n’altro modo per sfogare la propria energia è rappresentato dalle catene istituzionalizzate, gerar­ chiche. In qualche modo sfoghiamo l’energia su un altra persona affermando la nostra posizione di Maggiore in una di queste catene. Le catene dell’obbedienza o della gerarchia si basano su posizioni Maggiore-minore istituziona­ lizzate relativamente a una serie di caratteristiche (fig- 12). Da un lato, in ogni anello il Maggiore ha il dirit­ to di esercitare un controllo sul minore (X) per proibire, costringere, ordinare e decidere (incluse punizioni (XI) e repressioni). Di conseguenza il Maggiore si assorbe la responsabilità del minore, e questi si rimette visibilmente nelle mani del Mag­ giore (XII). Dall’altro lato, in ogni anello il minore è costret­ to a obbedire al Maggiore. Perciò il minore non è

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responsabile delle sue azioni, ma deve risponderne al Maggiore. Si verifica, dunque, uno spostamento di respon­ sabilità (XIII), in ogni anello, da chi si trova in una posizione di minore al corrispondente Maggiore il quale a sua volta si trova in una posizione di mino­ re rispetto al suo/sua Maggiore e così via lungo una linea ascendente. Esempio - La seguente, frequente affermazione illu­ stra chiaramente quanto detto: “N on ho fatto io le regole. Sto semplicemente facendo il mio lavoro”.

Ci sono tre tipi di obbedienza 1) Obbedienza ad azioni ragionevoli: chi le com­ pie sa che si tratta di azioni ragionevoli; questo implica che il minore ha ricevuto sufficienti infor­ mazioni relative alla loro utilità che è peraltro in grado di percepire. 2) Obbedienza ad azioni insensate: chi le compie sa che si tratta di azioni insensate; il minore non ha ricevuto sufficienti informazioni per rendersi conto della loro utilità. In questo contesto il concetto di “utilità” va inteso non solo dal punto di vista razio­ nale ma anche emotivo. 3) O bbedienza ad azioni ingiuriose: le azioni compiute sono ritenute ingiuriose dal minore o da un terzo. In questo senso, il Maggiore e il minore possono esserne consapevoli o meno. Generalmen­

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te, il sistema della catena dell’obbedienza predispo­ ne alla inconsapevolezza. Come la catena dell’obbedienza genera violenza? 1) In base al legame tra il Maggiore e il minore. Ciò dipende: - dalle forme di comunicazione tra il Maggiore e il minore: se il modo in cui il Maggiore adotta u n ’atteggiam ento verso il m inore ristabilisce o rinforza le loro rispettive posizioni. In altri termini, se un pezzo della catena dell’ob­ bedienza è la base di un pezzo della catena della violenza e se si sovrappongono parzialmente come abbiamo visto all’inizio dell’esempio della fig. 11; - dal tipo richiesto d’obbedienza: se ovviamente riguarda azioni insensate o ingiuriose nei confronti del minore. Esem pio - Sono da vedere, a tale proposito, gli esempi forniti dal classico film inglese “The H ill” (1965, diretto da Sidney Lumet con Sean Connery protagonista).

Per liberarci della nostra energia in questo modo, naturalmente, non dobbiamo trovarci in coda alla catena gerarchica.... 2) Verso l’esterno. Quando la catena dell’obbe­ dienza comporta azioni ingiuriose verso persone che si trovano all’esterno di questa. I test di Mil-

Pat P a tfo o r t

gram sono estremamente illuminanti al riguardo. Essi mostrano che molti di coloro che compiono azioni ingiuriose verso altri esseri umani lo fanno per obbedire a un ordine. La catena dell’obbedien­ za è dunque un sistema che attribuisce più impor­ tanza all’obbedienza che alla coscienza. In tal modo si commettono azioni ingiuriose senza pensare che lo siano, delle quali non ci si sente responsabili. Al contrario, chi le commette sente di adempiere ad un dovere, di essere nel giusto, di ben operare. Il messaggio positivo dell’obbedienza supera quello negativo della coscienza. Tutti i sistemi fondati sul terrore, quali il nazismo per esempio, ricorrono abbondantemente a questo meccanismo, e tutte le guerre sono combattute in base a questo sistema. L’affermazione di una posizione di Maggiore che è all’origine di questo processo può talvolta riguar­ dare una sola persona. Così accade che certi politici o comandanti militari desiderino essere accreditati di una vittoria o di una battaglia per esempio, anche se molte persone hanno perso la vita. Esempio - .Gli esempi più noti sono rappresentati dalle battaglie campali di Cesare, N ap oleo n e e Hitler.

Il fatto che i Maggiori non consentano ai minori di esercitare una qualsiasi forma di controllo — e dall’esterno il controllo di una istituzione è ovvia­ mente sempre più difficile — produce talvolta una negligenza su larga scala che può avere conseguen­ ze disastrose. Esempio - Un tipico esempio è stato Joseph Joffre, ufficiale dell’esercito francese durante la prima guer­ ra mondiale. Nel 1916, a Verdun (Francia) commise molti errori che causarono la morte di migliaia di persone. Alcuni membri del parlamento cercarono di esercitare un controllo sul suo operato, ma Joffre lo impedì e rifiutò qualsiasi critica.

Che cosa accade quando il messaggio positivo dell’obbedienza non supera quello negativo della coscienza? a) Sul momento Il fatto che queste catene siano istituzionalizzate, rende praticamente impossibile rovesciare la situa­ C o s t r u ir e

la n o n v io l e n z a

zione, vale a dire subordinare l’obbedienza alla coscienza. Nella nostra società un comportamento di questo tipo presenta molti rischi ed è severamen­ te punito. Esempi — Così, per esempio, un insegnante d’asilo che rimproveri il direttore perché nel corridoio accanto alla classe si stanno segando le piastre d’amianto e la polvere che ne deriva può essere pericolosa per i bambini, è licenziata. — Un agente della narcotici che provi l’esistenza di un collegamento tra un suo superiore e i traffican­ ti di droga, è trasferito in una sede più disagiata. — Un soldato che si rifiuta di sparare è processa­ to perché colpevole di diserzione.

b) Successivamente Tutto questo può provocare una tragedia. È il caso, per esempio, di coloro che hanno commesso atti di guerra le cui atrocità successivamente non sono più considerate atti eroici o di liberazione. Il messaggio della loro coscienza non è più represso ed emerge in tutta la sua evidenza. Esempio - È stato il caso dei reduci americani del Vietnam e forse sarà lo stesso per i reduci sovietici dell’Afghanistan. Sono tormentati dalla coscienza, non più repressa e ingannata dalla considerazione che quegli atti siano stati commessi nell’adempimen­ to del dovere. Di contro, i soldati americani quando tornarono in patria dopo la fine della seconda guerra m ondiale, furono accolti con entusiasm o, com e "liberatori”.

La catena dell’obbedienza o la gerarchia non sono necessariamente accompagnate dalla vio­ lenza (per esempio se riguardano azioni ragionevo­ li espresse sotto forma di comunicazione e che non riflettono nessun rapporto tra posizione di Mag­ giore e di minore), ma ne costituiscono sicura­ mente un terreno fertile. N on è neanche necessa­ riam ente vero che ci sentiam o inferiori perché occupiam o una posizione di m inor peso nella gerarchia, sebbene spesso esista una relazione tra senso d’inferiorità e posizione gerarchica bassa.

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La violenza nella nostra società: una fusione di diversi meccanismi Spesso ci imbattiamo in sequenze di meccanismi vari i cui elementi più corti o più lunghi forniscono diverse opzioni.

D opo, Tommy scoccerà suo fratello perché non era giusto che proprio lui andasse a comprare la fari­ na...

Esempio - Passaggio da un’escalation di violenza a una catena di violenza. Marito e moglie sono seduti a tavola e litigano. Improvvisamente, l’uomo si alza e si dirige verso la porta. Mentre apre la porta, urla a squarciagola: “N e ho davvero abbastanza! Sono stufo! H o cose ben più importanti da fare che perdere tempo in queste stu­ pidaggini!”. D opo questa frase, la porta si chiude violentemente dietro di lui. La donna rimane seduta con i nervi tesi (fine dell’escalation). Con rabbia si alza e si dirige altrove. Intanto la porta che ha di fronte si apre e i suoi due figli entrano correndo e ridendo a voce alta. “Come devo fare con voi”, dice aspramente, “fate sempre rumore! Sempre la stessa cosa! Ma non avete nient’altro da fare? Tommy vai a comprare un pacco di farina! Di corsa, mi hai sentito?! N on perdere tempo come al solito!...”.

Le escalation di violenza generano un rigurgito di violenza, un increm ento della violenza; le cate­ ne di violenza sono responsabili della propagazio­ ne della violenza da un ambiente alPaltro. Questi due meccanismi s’incrosciano in ogni anello della catena (fig. 13). Nelle catene di obbedienza la violenza è prodot­ ta solo in alcuni anelli che costituiscono il telaio relativo ad alcune parti delle catene di violenza. Dunque le catene di obbiedienza sussidiano la pro­ pagazione della violenza, che nasce come prodotto dell’intero sistema ed è rivolta verso l’esterno. Le catene di obbedienza producono nel contempo un incremento e una propagazione della violenza. Tale incremento può assumere proporzioni gigantesche.

Il rapporto quotidiano con la violenza Generalmente cerchiamo di combattere la violenza in tu tti i modi — oserei dire in ogni disperato modo possibile — assicurandoci che essa non rag­ giunga livelli elevati. Per far questo — non c’è biso­ gno di dirlo — interrompiamo e riduciamo le esca­ lation di violenza come meglio possiamo: dividia­ mo le parti, rimuoviamo l’oggetto del conflitto, oppure penalizziamo una delle parti per evitare che reagisca. Ma non affrontiam o i conflitti, non li risolviamo. Esempio - Quando due bambini litigano o gridano così tanto che temiamo finiscano per litigare, li rim­ proveriamo dicendo: “Smettetela tutti e due! Piero vai nella tua stanza! Beppe, tu devi ancora fare i compiti! Andate!”. Così li dividiamo.

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A llo stesso modo, se un conflitto si intensifica eccessivamente, le coppie si separano e le fazioni si disgregano. La politica dell’apartheid in Sud Africa con la quale il governo cerca di sistemare le tribù nella terra d’origine e di separarle, è un tentativo inefficace di risolvere il conflitto. Talvolta rimuoviamo l’oggetto della controversia: “Su, datemi le forbici, così non litigherete più”.

In questo caso, teniamo d’occhio particolarmen­ te la soglia che separa la violenza invisibile da quel­ la visibile (v. fig. 9). La nostra cultura tende a vede­ re in questa soglia il limite al di sopra del quale la “vera violenza” può essere individuata. Così rite­ niamo che ciò che si trova al di sotto di essa rientra Pat Pa tfo o r t

OSTRUIRE LA NONVIOLENZA

nella categoria dei “bisticci” nei quali ci comportia­ mo in modo “civile” (v. pag. 34-37). Dunque, il modo normale di affrontare la violen­ za è quello di “coprirla”, “di metterci una pietra sopra”, di mantenerla invisibile. Ma, nel frattempo, la violenza rimane, sebbene sia per così dire invisi­ bile.

Eppure spesso non riusciamo ad evitare che Pescalation della violenza conduca alle forme di vio­ lenza a noi sfortunatamente ben note. Per ciò che concerne gli altri meccanismi della violenza, non li si considera tali. Tutti vi partecipa­ no volentieri, senza che ci si renda conto che in questo modo si sta contribuendo a costruire una rete di violenza.

N ote (1) Sarà considerata la violenza delle persone, non degli ele­ menti. (2) Le attività positive sono quelle che coinvolgono Pattenzione quando sono eseguite. (3) Le attività negative, invece, sono quelle che coinvolgono Pattenzione quando non sono eseguite. (4) Ho intenzionalmente impiegato il termine “persona”, invece di quello più comune di “uomo”, perché “uomo” significa “maschio”. In olandese e in tedesco ci sono termi­ ni diversi che significano, rispettivamente, “u om o” e “donna”. Esiste un terzo termine largamente usato che significa “uomo” e “donna”. Credo che Puso di un terzo termine sia importante per ridurre la violenza tra i sessi (j-d-t.)(5) È da notare lo stretto legame tra la parola “spazio” e il concetto di “territorio”!

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(6) In tedesco il termine per indicare il “rispetto di sé” significa letteralmente “valore di se stesso”. (7) Questa forma di aggressività è spesso chiamata “aggres­ sività negativa”; essa si oppone alP"aggressività positiva” chiamata “combattività” o “assertività”. Vedi fig. 4: offensi­ va contro Paltro. (8) Generalmente non riusciamo ad apprezzare Pascolto e perciò questo aspetto della comunicazione risulta piuttosto inadeguato nella nostra società. La maggior parte delle per­ sone usa il termine “ascoltare” senza conoscerne il vero significato. Le opere di Thomas Gordon (di facile lettura) sono estremamente illuminanti a proposito; vedi Genitori efficaci. Educare figli responsabili, La Meridiana, Molfetta 1994.

Pat Patfo o rt

Che cos’è la nonviolenza?

Il grande equivoco che circonda la nonviolenza Il concetto di nonviolenza è derivato da quello di violenza. Perciò per nonviolenza s’intende ate alla nonviolenza. Quando si parla di lotta, pensiamo solo a questi due poli: o si reagisce picchiando oppure non si rea­

giscey si ha paura, si è “vigliacchi”. Questo opposto, tuttavia, non può essere consi­ derato la nonviolenza. È Yatteggiamento di chi si trova in una posizione di minore che, unitamente a chi si trova in una posizione di Maggiore (il primo

Fig. 14 - Il secondo atteggiamento verso la nonviolenza C o s t r u ir e

la n o n v i o l e n z a

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polo), costituisce la violenza. I due poli insieme formano le basi della violenza: - uno, il Maggiore, sottopone a violenza l’altro, cosa che richiede azione, forza e possibilm ente coraggio; - l’altro, il minore, è sottoposto a violenza, per­ mette che ciò avvenga; la sua situazione può essere associata a passività, debolezza, paura, codardia. La nonviolenza non può essere identificata con il secondo polo, si trova al di fuori di questo. Occu­ pa, invece, un terzo polo che si oppone all’interez­ za dei primi due. Considerare la nonviolenza come l’opposto della violenza, è un prim o atteggiam ento che è possibi­ le rilevare in molte persone. Spesso queste disap­ provano o disprezzano la nonviolenza, oppure non ne provano interesse. Le loro obiezioni alla non­ violenza sono di questo tipo: “N on voglio essere un debole”, oppure: “N on voglio essere disappro­ vato”, o ancora “Ma bisogna reagire! N on bisogna farsi mettere i piedi in faccia!”. L’equivoco che caratterizza questo prim o atteggiamento sta nel pensare che la nonviolenza sia una forma di passi­ vità e debolezza, mentre, in realtà, essa è attitudine attiva il cui esercizio necessita forza e coraggio, spesso perfino superiori a quelli richiesti dalla vio­ lenza. Come la violenza, anche la nonviolenza non deve essere controllata dalla paura che anzi deve essere dominata. Un secondo diffuso atteggiam ento che si oppo-

ne alla nonviolenza consiste nel pensare — non si sa per quale ragione — di essere nonviolenti e che la violenza viene dagli altri. Questo modo di pensa­ re deriva principalmente dal fatto che siamo portati a giustificare la nostra violenza. Ma deriva anche dal fatto che la sola idea di violenza che abbiamo è quella della violenza visibile, fisica (al di sopra della soglia), ignorando così la violenza verbale. E anche la paura di mettersi in discussione, di ciò che non si conosce e dei cambiamenti contribuisce a questo modo di pensare. Entram bi gli atteggiamenti nei confronti della nonviolenza sono prodotti dall’equivoco e dall’i­ gnoranza che circondano significato e contenuto del concetto di nonviolenza. È davvero un peccato che coloro che assumono uno di questi atteggia­ menti non mostrino nessun interesse verso la non­ violenza e che, di conseguenza, non ne scoprano il vero significato. In tal modo contribuiscono all’e­ spansione della violenza, o perché pensano che non ci sia alternativa ad essa (primo atteggiamento), oppure perché pensando di essere nonviolenti cre­ dono di non aver bisogno di mettersi in discussione o di cambiare qualcosa (secondo atteggiamento). La scarsa chiarezza su cosa sia la nonviolenza ha spesso a che fare con l’incertezza e l’indetermina­ tezza che circondano il concetto basilare di violen­ za. Ecco perché, nel primo capitolo, è stato neces­ sario spiegare diffusamente le implicazioni del con­ cetto di violenza.

Sradicare la violenza Il sistema M-m è la radice della violenza, la base dei molteplici suoi meccanismi. Se esistesse un’alterna­ tiva ad esso, tali meccanismi potrebbero essere sra­ dicati e la violenza non esisterebbe. Generalmente si pensa che non esista nessuna alternativa, perché la radice è così affondata dentro di noi (al livello più profondo si ha esperienza delle diverse caratteristiche, dunque nell’inconscio), che sembra sia sempre esistita. Abbiamo l’impressione che non possa essere rimossa, quasi fosse intrinseca

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all’essere umano. Proprio per questo ci siamo soffermati nella defi­ nizione di violenza a partire dalla soglia tra violen­ za visibile e invisibile. Da un lato non potevamo non esaminare attentamente la radice e dall’altro era difficile determinare il punto, tra la radice della violenza e la soglia, in cui la violenza iniziava. C om ’è possibile che la radice della violenza, il sistema M-m, sia così ancorata dentro di noi? È Pat Pa t fo o r t

dunque vero che si tratta di qualcosa di intrinseco all’essere umano, che “Paggressività è dentro di noi” come spesso proclamiamo? Quello che è intrinseco all’essere umano è l’istin­ to di autoconservazione e l’energia che da esso deriva. Quello che è intrinseco agli uomini è prova­ re un senso di disagio quando si trovano nella posi­ zione di minore, è non voler essere il minore. Q ue­ sto, in sé, non è violenza. Ma se vogliamo occupare la posizione di Maggiore — per non essere il mino­ re — allora l’energia si traduce in aggressione: ci difendiamo attaccando. Agiamo contro e alle spese dell’altro. E questa è sicuramente violenza. La non­ violenza richiede che se non vogliamo essere il minore, non dobbiamo necessariamente tentare di occupare la posizione di Maggiore. Ci difenderemo in modo non aggressivo, assieme all’altro oppure cooperando con l’altro, a beneficio di entrambi (v. fig-21).

Dunque, com’è stata possibile una così vasta dif­ fusione di comportamenti interni al sistema M-m? Il modello del sistema M-m è quello primitivo, quello più facile da concepire, il meno elaborato. È anche il modello che l’educazione ricevuta ci ha fornito, dalla nascita in poi. È insomma il modello a cui tutti siamo legati sin dall’inizio (v. pag. 73). Dunque la radice della violenza è così ancorata dentro di noi a causa: - del nostro istinto di autoconservazione (che però può anche produrre la radice della nonviolenza) - della nostra educazione, basata su un modello' primitivo di relazioni. Come si p re sen ta il m odello a lte rn a tiv o al sistema M-m? Sulla carta l’alternativa deriva semplicemente e con tutta evidenza dallo schema del sistema M-m: nessuno dovrebbe sottoporre a violenza un’altra persona (= essere nella posizione di Maggiore), nes­ suno dovrebbe essere sottoposto a violenza (= esse­ re nella posizione di minore). Conseguentemente, tutti devono trovarsi allo stesso livello, ognuno deve trovarsi in una posizione equivalente 1 all’al­ tro. È un’equivalenza che deve''c^tên“ëre“anche le differenze (non a caso il nostro punto di partenza Costruire la nonviolenza

sono le differenze). C aratteristiche differenti, opi­ nioni differenti e p u n ti di vista differenti non devono condurre a giudizi di valore che le situa­ no in posizioni opposte di Maggiore o di minore (v. fig. 21). Tutti coloro (individui o organizzazioni) che si adoperano per la costruzione della pace, lavorano, in un modo o nell’altro, per cambiare il sistema Mm in un sistema fondato sull’Equivalenza, il sistema E. Questo significa che ognuno vi contribuisce per certe caratteristiche, operando in determinati setto­ ri, ma non in aree ad esse esterne. In queste aree c’è il rischio di restare impantanati nel sistema M-m e agire ancora in base ai principi e criteri ad esso con­ seguenti. Esempio - Avviene che chi si batte contro le discri­ minazioni razziali si renda responsabile di discrimi­ nazione sessuale nei confronti del sesso contrario; chi si batte contro la discriminazione sessuale, si senta superiore per la laurea posseduta o la profes­ sione esercitata.

In altre parole, per quanto si possa operare per la causa della pace e dell’uguaglianza, è ancora facile commettere delle discrim inazioni in certe aree. Generalmente, le aree della discriminazione non sono poche e questo implica che solo per poche caratteristiche e per pochi aspetti non compiamo nessuna discriminazione. Come possiamo lavorare sistematicamente alla conversione del sistema M-m nel sistema E? Le differenze tra il sistema M-m e il sistema E esistono a diversi livelli. Dalla profondità alla superficie: 1) neiresperienza delle differenti caratteristiche (differenze non espresse e inconscie); 2) nella riflessione sulle differenti caratteristi­ che (differenze non espresse, ma conscie); 3) nella discussione sulle differenti opinioni (differenze espresse, ma orientate teoricamente, non verso una decisione); 4) nel co n flitto con differenti p u n ti di vista (differenze espresse, ma orientate praticamente, verso una decisione).

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Esempio - Primo livello: camminando tra gente che indossa vestiti di diversi colori, senza notarli veramente; - Secondo livello: notando un particolare colore in un determinato momento e trovandolo disdicevole o di cattivo gusto; - Terzo livello: parlando di colori con qualcuno; l’altro pensa che l’arancione non è bello, è troppo appariscente e di cattivo gusto, mentre a me piace perché è un colore allegro e vivace; - Quarto livello: in un negozio, due genitori non sono d’accordo sul colore del pullover da comprare per il figlio; la donna pensa che il figlio starebbe bene con un pullover arancione, il marito pensa che quel colore non si addica ad un ragazzo.

Al livello più profondo e inconscio, cambiare significa non continuare ad associare il concetto di “differenza” a quello di “superiorità o inferiorità”, a ciò che è “buono o cattivo”, “giusto o sbagliato”. Œ più difficile raggiungere i livelli più profondi, influenzarli o solo sapere come poter apportare dei cambiamenti nella loro sfera. Il livello più facile da

Sei nato prima che Dio creasse Iintelligenza! Sei un ignorante! Pescivendolo! / Animale!

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x

raggiungere è, naturalm ente, quello che sta in superficie, vale a dire quello dei conflitti. È il livello la cui attività è più facilmente analizzabile ed emen­ dabile. Se operiamo su questo livello, se vi appor­ tiamo dei cambiamenti, si potranno conseguire effetti graduali sui livelli più profondi, dal quarto al primo, andando sempre più in profondità. In tal modo, si possono apportare dei cambiamenti in una certa direzione sui livelli più profondi (fino airinconscio), attraverso una modificazione dei livelli superficiali, principalmente nella conduzione dei conflitti. Abbiamo già visto (v. pag. 30-31) come, nell’affrontare i conflitti, si entra nel sistema M-m. L’af­ fermazione di un punto di vista passa per tre fasi: - prim a fase: aspetti positivi del proprio punto di vista (la fase morbida); - seconda fase: aspetti negativi del punto di vista dell’altro (la fase meno dura); - terza fase: aspetti negativi dell’altro, cioè della sua persona (la fase più dura). In genere, passiamo alla terza fase molto veloce-

oh,

pensi di essere sempre il migliore!

\

Presuntuoso!

\ Lurido porco!

\

Pazzo!

Fig. 15 - Alimentare superficialmente i conflitti

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P at Pa t f o o r t

mente e vi restiamo piantati. Allora ascoltiamo espressioni quali “È sempre la stessa cosa con te!”, "N on riesci ad essere amico di nessuno, neanche mioV\ "Pensi sempre di essere il migliore!” o insulti quali "Pazzo!”, "Bastardo!”, “Sporca canaglia!”, ecc. In realtà non badiamo a ciò che diciamo quando entriamo in conflitto con qualcuno, basta che il punto di vista dell’altro sia umiliato e il nostro esal­ tato. È come se ognuno di noi accendesse un fuoco e vi buttasse qualsiasi genere di oggetti (tavoli, sedie, libri, mobili) in modo che il proprio fuoco sia più grande di quello dell’altro (v. fig. 15). È veramente un modo superficiale di sostenere il pro­ prio punto di vista. Al contrario, il modello del sistema E è sostenu­ to dall’altro lato, partendo dai livelli più profondi. Se ci troviamo di fronte a due punti di vista diffe­ renti, nonTlovremmo alimentarli a qualsiasi costo, facendòTrcdrso a qualsiasi forma di àrgòmentazìonepmà dovrëmmb vedere còsa c’è sotto, qual è la base, quali sono i fondamenti. 'E ciò riguarda (v. fig. 16): - tutti i fondamenti di entram be le parti; j - i fondamenti senza alcuna coloritura (né posi- ; tiva né negativa); ! - solo i fondamenti, nient’altro. \ I fondamenti sono la ragion d’essere dei punti di | vista. Essi sono i "perché”: i bisogni (inclusi gli I istinti), gli interessi, i fini, i valori, i sentimenti alla f base dei punti di vista. ' Argomentazioni e fondamenti non sono la stessa cosa. Una argomentazione può essere un fonda­ mento, ma generalmente subisce qualche distorsio­ ne e non resta un vero e proprio fondamento.

terribile! Dopo le dieci di mattina non puoi nemme­ no mettere fuori il naso”. 2) Il punto di vista: “N on voglio più andare da queste persone con te”; - un fondamento può essere: “non sopporto che lui mi prenda sempre in giro”; - un’argomentazione positiva che derivi da questo fondamento può essere: “N on mi fa piacere quando lui ride di me in quel modo. Mi rende nervoso e spesso mi fa venire il mal di testa. Tutto questo non fa bene alla mia salute e anzi potrebbe farmi amma­ lare”; - un’argomentazione negativa può essere: “N on essere ridicolo! N on dirmi che non ce la fai a sop­ portarlo! N on è una ragione per non andare a tro­ varli!” oppure “Ma non c’è paragone con i vantaggi che potrai avere!” o ancora “Faresti meglio ad impa­ rare a sopportarlo! Ti farà bene imparare a stare con tutti!”. 3) Il punto di vista: “Ora, vorrei giocare un po’”: - un fondam ento può essere: “O gni tanto ho bisogno di un po’ di movimento”; - un’argomentazione positiva che derivi da questa affermazione può essere: “D opo sarò più rilassato e potrò studiare meglio”; - un’argomentazione negativa può essere: “D opo ^^arai troppo stanco per studiare!”.

La soluzione sta nel portare ad un punto d’in­ contro tu tti i fondam enti delle due parti a ttra ­ verso gli strum enti della comunicazione. Non ci sono formule che'valgano per tutti nell’approccio nonviolento ai conflitti. Nelle normali relazioni umane, ci capita di ascol­ tare formule come queste: “Non devi proprio fare questo!”, “Non fu n zio n erà !”, “Questi fa tti sono inaccettabili! Bisogna contrastarli duram ente e p u n irli”, “A tti come questi meritano la pena di morte/ ”. Esempi della differenza tra fondamenti e argo­ Per ogni conflitto e in ogni tipo di rapporto, la mentazioni. soluzione più adatta deve essere definita dalle parti 1) Il punto di vista: “Mi piacerebbe trascorrere interessate. una vacanza nei paesi del Mediterraneo”; Q ui di seguito m ostriam o come si possono - un fondamento può essere: “il tempo è quasi affrontare i conflitti in modo nonviolento. sempre buono”; - un’argomentazione positiva che derivi da questo fondamento può essere: “il tempo è così bello che potresti stare in acqua per ore e ore senza interru­ zione”; - un’argomentazione negativa, invece, può essere la seguente: “Davvero?! Vorrai dire che fa un caldo

Costruire la no nviolenza

1) Livello intimo: storia del litigio a letto Punti di vista: lei vuole chiarire un malinteso, lui, invece, non vuole farlo. Linda è già a letto, sotto le lenzuola. Walter è seduto a margine del letto, pronto a mettersi accanto. Lui spegne la luce che si trova sul

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L'ALTRO

IO punti di vista diversi

L’A L T R O

1C) ---------------- # IO

1

L .

1

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L 'A L T R O

A P P R O C C I O N O R MA L E

A P P R O C C I O NO NVI OL E NT O

Argomentazioni: 1) aspetti positivi del proprio punto di vista

Fondamenti: 1) ogni aspetto del proprio punto di vista (senza alcuna coloritura positiva o negativa)

2) aspetti negativi del punto di vista dell'altro

2) ogni aspetto del punto di vista dell'altro (senza alcuna coloritura positiva o negativa)

3) aspetti negativi dell'altro

3) non emergono IO

L'ALTRO

IO

Fig. 16 - Confronto tra approccio normale e approccio nonviolento nell’affrontare i conflitti

comodino, si avvicina a lei per darle il bacio della buonanotte e mormora dolcemente “Dormi bene”. Poi si gira dall’altra parte. Ora Linda giace supina, con gli occhi aperti nel buio, e sa che la schiena di Walter è rivolta verso di lei. “Senti Walter... vorrei parlare di quello che hai detto prima...”. “Sshhh! Dormi adesso. N on è il momento di par­ larne. U n ’altra volta...” risponde Walter con tono calmo. “N o, ma... penso che sia molto importante. Vor­ rei sapere se...”. “N on pensarci proprio ora, dormi”, lui la inter­ rompe con un tono un po’ più deciso. “Sì, va bene...ma dimmi almeno...” “Dai... non lamentarti a quest’ora, sei proprio testarda. È ora di dormire! E poi non è così impor­ tante! L’ho detto senza pensarci!” dice con voce più alta e si stringe nelle lenzuola. Lei non risponde. Le lacrime le imperlano gli occhi. Lui le è accanto, ma lei si sente completamente sola. I più disparati pen­ sieri le pacano per la mente. Ma non dice niente. È molto triste. Qualche istante dopo lo sente russare leggermente accanto a lei: dorme... lei resta sola, preoccupata.

Ecco alcuni dei fondamenti importanti: 1) Per lui: - è molto stanco e non è in grado di affrontare alcuna discussione; - non vede l’importanza della discussione; 2) Per lei: - è preoccupata per quanto lui ha detto nel corso della serata; è importante per lei parlarne; - anche lei è stanca, ma la preoccupazione è mag­ giore. Una soluzione possibile (che considera i fonda­ menti di entrambe le parti) può essere: 1) Lui dice: - che capisce che lei è preoccupata e non riesce ad addormentarsi per questo (non dovrebbe solo dirlo ma anche sentirlo, altrimenti i mezzi di comu­ nicazione non verbale lo scoprirebbero...); - che devono parlarne, se lei pensa che sia così importante (e non dirlo sospirando!); - che ora per lui è difficile (e possibilmente scu­ sarsi di questo), perché è troppo stanco, e che sarebbe meglio trovare un momento il giorno dopo per parlarne. Allora lui potrà certamente farlo. Costruire la nonviolenza

2) Lei dice: - che capisce che lui è troppo stanco per parlarne ora; - che anche lei, infatti, è stanca e che forse sareb­ be m eglio anche p e r lei p a rla rn e in un altro momento; - che è contenta che lui, nonostante la stanchez­ za, abbia accennato al problema; - che aveva bisogno che lui sapesse della sua preoccupazione e la comprendesse (comprendere è diverso da essere d ’accordo! Comprendere equivale ad accettare, ad acquisire la consapevolezza del punto di vista dell’altro); - che aveva bisogno di essere rassicurata che il problema sarebbe stato discusso. 3) Decidono insieme di parlarne il giorno dopo, oppure concordano il momento per farlo. 4) Si abbracciano e si accarezzano prim a di addormentarsi (questo momento può essere molto breve, ma, in realtà, spesso è reso più lungo dal senso di solidarietà, di intimità prodotto da questo modo di risolvere il conflitto). 5) M olto importante! M antengono l’impegno senza alcuna allusione o rinfacciamento ma con comprensione e fiducia reciproca. Se non l’avessero fatto, la volta successiva una simile promessa non avrebbe chiaramente offerto alcuna soluzione. A prima vista può sembrare che una soluzione di questo tipo richieda m olto tempo. Tuttavia, se paragoniamo questo tempo al tempo che si sarebbe speso se il conflitto si fosse trascinato, risulta subi­ to chiaro che a lungo andare questo tipo di approc­ cio richiede un tempo nettamente inferiore. La dif­ ferenza di tempo tra approccio normale e nonvio­ lento consiste nel fatto che mentre per l’approccio nonviolento decidiamo consciamente in anticipo di impiegare del tempo per la risoluzione del proble­ ma, per l’approccio normale cerchiamo in tutti i modi di non perdere tempo. In genere, il risultato è che dopo si scopre che abbiamo speso più tempo (ed energia, non dimentichiamolo!) per risolvere proprio il conflitto per il quale non volevamo per­ derne o volevamo perderne il meno possibile. 2) Livello familiare: storia dei bambini e delle anatre Punti di vista: la nonna pensa che bisognerebbe dare più spazio nel prato alle anatre; la madre pensa

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che le anatre non dovrebbero stare nel prato perché spesso i bambini giocano lì e non lo possono fare se le anatre vi lasciano i loro escrementi...

Verso una soluzione nonviolenta: invece di pensare che il prato debba servire o alle anatre o ai bambini, si possono considerare i fonda­ menti di entrambe le parti. I fondamenti della nonna: - non c’è abbastanza prato per le anatre; - le anatre mangiano erba e amano stare accovac­ ciate sull’erba; accorrerebbe meno cibo per le anatre se queste potessero disporre di più erba; - non posso fare di più: le anatre sono molto importanti nella mia vita perché prendermi cura di loro è uno dei miei pochi passatempi. I fondamenti della madre: - i bambini devono potersi muovere agevolmen­ te: adorano giocare sul prato; - non hanno nessun altro posto in cui possano divertirsi come sul prato; - sarebbe una cattiva idea quella di recintare il prato (soluzione necessaria per tenere lontane le anatre), sembrerebbe come una prigione. È possibile trovare una soluzione basata sui fon­ damenti di entrambe le parti: i bambini non vanno praticamente mai fino all’estremità del prato dove ci sono gli alberi, e se lo fanno è solo quando il pal­ lone va da quelle parti. La recinzione potrebbe essere messa alcuni metri dopo il confine dell’area dove si trovano gli alberi, dietro cui le anatre potrebbero stare (cioè sotto gli alberi). Lì la recin­ zione sarebbe praticamente invisibile. In questo modo i bambini potrebbero continuare ad avere uno spazio nel prato per giocare, mentre le anatre avrebbero un po’ di spazio in più. Con questa solu­ zione i bambini avrebbero un altro vantaggio: la recinzione eviterebbe che la palla vada a finire lon­ tano e che loro siano costretti ad andarla a recupe­ rare. Ci troviamo ancora una volta di fronte ad una soluzione basata su accettazione, comprensione, rispetto e amore verso l’altro.

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3) Livello professionale: storia della cucitrice e della

sorvegliante Riportiamo il racconto di un’azione nonviolenta di una cucitrice verso persone gerarchicamente supe­ riori. Una cucitrice di circa 35 anni è stata appena tra­ sferita da un’officina ad un altra. È seduta alla mac­ china da cucire. Si è lamentata del trasferimento per circa m ezz’ora: nel frattempo l’ago si è rotto più volte. Alla fine chiama una sorvegliante giovane (la nipote del manager, a quanto pare). “Questi aghi si rompono sempre, potrei chiedere a chi ha lavorato su questa macchina di mostrarmi come devo fare?” “N o, non è necessario”, risponde la sorvegliante, “è solo una questione di pratica. Prova di nuovo. Imparerai in poco tempo”. La cucitrice prova di nuovo, ma dopo dieci minu­ ti la situazione non è cambiata: gli aghi continuano a rompersi. Irritata, la cucitrice chiama ancora una volta la sorvegliante: “Guardi, qui non funziona! È meglio chiamare qualcuno che ha lavorato su questa macchina e chiedere di dirmi come si fa!” “N o , è una questione di pratica. Devi ancora imparare ad usarla. Prova di nuovo”. La cucitrice torna alla macchina, piena di risenti­ mento. Ma dopo cinque minuti scatta in piedi e grida alla sorvegliante: “Idiota! Ma non ti accorgi che non funziona? Vieni tu a lavorare se sai come si fa!”. Segue una discussione rovente tra la cucitrice e la sorvegliante che attrae l’attenzione di un’altra cuci­ trice che sta lavorando lì accanto. “Posso dare un’occhiata?”, chiede con tono ami­ chevole. Controlla la macchina ed esclama sorpresa: “Ma è naturale che non funzioni! Stai usando gli aghi sba­ gliati! Adesso ti faccio vedere...” e spiega alla collega come deve fare. Ora la prima cucitrice può lavorare normalmente. Nelle ore seguenti, non si fa nessun riferimento all’incidente, ma alcuni giorni dopo la cucitrice rice­ ve una lettera. La lettera le ricorda che deve mostrare “rispetto e obbedienza” ai superiori, e che se questo non accadesse, si dovrà ricorrere all’adozione di misure opportune. D opo aver letto la lettera, la cucitrice è furiosa! Sente di essere stata insultata e trattata ingiustamen­ te. N on sente di essere considerata come un essere umano. Vuole fare qualcosa, vuole difendersi per giustifi­ care il proprio com portamento, ma non sa come P a t Pa t f o o r t

fare. I suoi amici le consigliano di starsene al suo posto perché potrebbe trovarsi in difficoltà ed essere licenziata. Ma questa soluzione non la convince. “Va bene” pensa “c’è stata un’escalation di violenza, e certamente ho dato il mio contributo. Ma è giusto che io accetti di essere nel torto (posizione di mino­ re) solo perché mi trovo ad un livello gerarchico inferiore, quando in realtà è stato un superiore che ha sbagliato?”. La cucitrice non è certo il tipo di persona che non reagisce. Decide di risolvere il problema in modo nonviolento. Andrà in direzione a spiegare tutta la situazione in modo nonviolento. Si accerta di poterlo fare con calma ed educazione — cose non facili nella sua situazione — evitando di mettere qualcuno, la sorvegliante inclusa, in una posizione di minore. Per questo si sforza di immagi­ nare il più possibile le ragioni della sorvegliante e del Palestinesi

direttore generale, evitando di pensare solo alle pro­ prie ragioni ed emozioni. Perciò passa un po’ di tempo a capire sentimenti, situazioni, ecc. degli interlocutori, non solo dal punto di vista intellettuale, ma anche dal punto di vista emotivo, rispettandoli per quello che sono. Poi mette in atto le proprie intenzioni. La dire­ zione la ascolta e chiede alla sorvegliante perfino di scusarsi con la cucitrice. Tuttavia le scuse non erano il fine prefissato del comportamento nonviolento. Dire: “Se non è colpa mia, allora è colpa dell’altro” significa adottare l’ap­ proccio normale — quello violento — per la risolu­ zione dei conflitti. N el nostro caso, però, la direzio­ ne ha in tal modo mostrato di voler riabilitare la posizione della lavoratrice, cosa che la cucitrice ha immediatamente apprezzato.

4) Livello internazionale Accade frequentemente che nella determinazione della cosiddetta “solu­ zione” di un conflitto tra due popoli, si prendano in considerazione solo o principalmente i fondamenti di una delle parti, quella che per un motivo o per l’altro si trova in una posizione di Maggiore o che in tal modo vi si tro­ verà. Un esempio tipico è la guerra in Medio Oriente tra israeliani e palesti­ nesi. N el 1947 gli ebrei si trovavano chiaramente nella posizione di minore per cui si decise la fondazione dello stato d’Israele. L’attenzione fu focaliz­ zata più sulle ragioni degli israeliani che su quelle dei palestinesi. Di conse­ guenza i palestinesi si sono sentiti oppressi e dunque relegati in una posi­ zione di minore. Per questo si sono rifiutati di riconoscere Israele. N el 1988, dopo molti anni di lotte e contrasti, i palestinesi proclamava­ no la costituzione dello stato palestinese. Ora erano gli israeliani a sentirsi oppressi e a non riconoscere lo stato palestinese. Temevano di cominciare ad occupare una posizione di minore. La loro reazione verso l’apertura diplomatica degli Stati Uniti nei confron­ ti dei palestinesi esprimeva inequivocabilmente questo timore.

Più volte chi si trova in una posizione di Mag­ giore non prende in considerazione le rivendicazio­ ni di chi si trova in una posizione di minore. È stato così prima per i palestinesi, poi per gli israe­ liani. Questo perché incombe ogni volta la minac­ cia di un rovesciamento del rapporto tra posizione di Maggiore e posizione di minore. Si sarebbe trovata una vera soluzione conside­ rando le rivendicazioni di entrambe le parti sin dal­ l’inizio sulla base di una logica di equivalenza. La stessa cosa è accaduta per la guerra fredda che Costruire la nonviolenza

ha contrapposto PEst all’Ovest: non siamo stati in grado di (o non abbiamo voluto) considerare le ragioni di entrambe le parti. Per esempio spesso POccidente ha trascurato la paura mortale che PUnione Sovietica provava di fronte alla rinascita della Germania delPOvest. Il progetto SDÌ (le “Guerre Stellari”) era visto dalPÒvest solo in funzione di una strategia di difesa e pro tezio n e degli Stati Uniti, mai in senso offensivo. Tuttavia, per PUnione Sovietica lo scudo spaziale rappresentava una minaccia perché Pequilibrio basato sulle reciproche 55

forme di deterrenza era saltato. Un buon esem pio di soluzione nonviolenta avrebbe potuto essere la struttura globale della Federazione belga, se non fosse stata costituita in uno spirito di competizione, dal momento che ogni parte tentava di ottenere maggiori vantaggi dell’altra. Da un lato i fiamminghi volevano una divisione del Belgio in due parti: la loro rivendicazione era fondata su ragioni culturali e linguistiche. Dall’al­ tro lato, i Belgi francesi volevano dividere il paese

in tre parti, pricipalm ente sulla base di considera­ zion i econom iche. Invece di una divisione del Bel­ gio in due o tre parti, si giunse alla creazione di due com unità (definite sulla base di m otivi culturali) e di tre distretti (definiti sulla base di m otivi territo­ riali). La s o lu z io n e d erivò dalla co n sid e ra zio n e delle ragioni di entrambe le parti in causa. Q uesto accord o assicurò che entram be le parti, n on solo una o l’altra, ottenessero una vittoria.

Soluzioni nonviolente La maggior parte di noi crede che solo una soluzio­ ne nonviolenta al 100% — in altri term ini, una soluzione di nonviolenza assoluta — sia una solu­ zione nonviolenta. È verissimo che se all’inizio di un conflitto intrawedessimo casualmente una simi­ le soluzione, saremmo praticamente sempre pronti a condurre questo conflitto “in modo nonviolen­ to ”. Ma anche se si tratta certamente di una solu­ zione nonviolenta, non stiamo ancora conducendo il conflitto in modo nonviolento, perché non stia­ mo ancora “conducendo” il conflitto. Condurre un conflitto implica passare per un processo che porta ad una soluzione, e non imbattersi casualmente o non intenzionalmente in una soluzione senza esser passati per un processo. Spesso una buona idea di soluzione nonviolenta può risultare violenta, se l’i­ dea non è nata dalla logica di equivalenza oppure se si è manifestata troppo velocemente senza passare per un processo. Una soluzione di nonviolenza assoluta soddisfa al 100% entrambe le parti, cioè soddisfa tu tti i fon­ damenti di entram be le parti. Normalmente accade che riusciamo a trovare una soluzione che soddisfi parzialmente e non totalmente entrambe le parti. Anche in questo caso si tratta di soluzioni nonvio­ lente (v. fig. 17) Una soluzione nonviolenta è il risultato di un processo di gestione nonviolenta del conflitto, basato su equivalenza e comunicazione. Di conse­ guenza, all’inizio del processo non siamo in grado di sapere quale soluzione troveremo e neppure se ne troveremo una. Generalmente pensiamo che i

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punti di vista siano le sole soluzioni possibili e abbiamo l’impressione che non esista nessuna solu­ zione nonviolenta. Accade perfino che la soluzione consista semplicemente nel passaggio attraverso le fasi del processo. La fig. 17 mostra le differenze di risultato tra il modo normale e quello nonviolento di affrontare i conflitti. 1) In genere, si tira la corda lungo la linea A-B. O gnuno cerca di dimostrare di avere ragione al 100%, di vincere il più possibile. In questo caso, il compromesso (ognuno ottiene il 50% della posta in palio) è il risultato migliore per entrambe le parti. Ma ci siamo scontrati senza esclusione di colpi per cercare di ottenere più del 50% e per que­ sto la partita è terminata in parità. A questo punto siamo nel triangolo in basso a sinistra perché ci siamo ostacolati l’un l’altro, non fidandoci recipro­ camente, curando solo i propri interessi (cfr. fig. 18). 2) A ttuando una strategia di nonviolenza, ci muoviamo insieme da A a B in direzione di D. Muoversi da e verso un atteggiamento di fiducia è centrale. N on si tratta solo di fiducia cieca (che può facilmente portare in una posizione di minore), ma di fiducia e com prensione; insomma, potremmo meglio dire, si tratta di una fiducia che si fonde con la cautela. N on fidarsi significa che “della gente non ci si può fidare”. Fidarsi ciecamente significa che “tutti sono buoni”. Avere fiducia e compren­ sione insieme significa che “c’è qualcosa di buono in ognuno, perfino nel peggior criminale. Se cerchi, P at P a t f o o r t

A

B

D = NONVIOLENZA ASSOLUTA

3 - punto A = punto di vista di A (100% per la parte A, 0% per la parte B) - punto B = punto di vista di B (100% per la parte B, 0% per la parte A) - punto D = la soluzione della nonviolenza assoluta (100% per la parte A, 100% per la parte B) - punti E, F, G = soluzioni nonviolente - punto H = il compromesso ;riangoli della violenza e della nonviolenza :RE LA NONVIOLENZA

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'ig. 18 - Prima io, poi gli altri

roverai qualcosa di buono e col tuo aiuto puoi erfino sviluppare questa dose di bontà”. Il conflitto è qui considerato nelPottica della omunità, in tutte le sue parti (di cui ogni individuo elemento costitutivo) e non soltanto dal punto di ista di un solo individuo. Se la so lu zio n e si colloca sulla linea H -D , ntram be le parti ottengono vantaggi in egual nisura, come avviene, per esempio, nel punto E. sfella pratica, nella maggior parte dei casi non ci ollochiamo su questa linea: una delle parti ottiene >iù dell’altra (come avviene nel punto F o G) e la •arte antagonista guadagnerà maggiori vantaggi in lualche altra occasione. Ma entrambe guadagna­ to ogni volta. In questo contesto, cedere significa olo accettare che l’altro guadagni più di quanto uadagnamo noi. Lungo la linea A-B si colloca nvece il cedimento normalmente inteso: una parte ►erde ciò che l’altra guadagna. Il nostro stato d ’anino, nei due casi, sarà completamente diverso.

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Esempi 1) Immaginiamo che la coppia che doveva decide­ re la destinazione della vacanza (a Nord o a Sud, v. pag. 31) opti alla fine per il Sud e mentre sta raggiun­ gendo il luogo di vacanza resti ingorgata nel traffico. - Se la decisione è stata presa perché l’uomo ha ceduto, allora una sua probabile reazione potrà esse­ re del genere: “Lo vedi?! Te l’avevo detto che sarem­ mo rimasti bloccati dal traffico! Sai un’altra cosa? N on sarà nemmeno l’ultima! Lo sapevo che sarebbe finita così!” ecc. È in momenti come questo che lui cercherà di occupare la posizione di Maggiore. - Se la decisione è stata presa consensualmente, dopo un processo di gestione nonviolenta del con­ flitto, anche lui si assumerà la responsabilità. Proba­ bilmente sorriderà dolcem ente alla compagna, le accarezzerà la guancia e dirà: “Anche restare bloccati nel traffico è un’esperienza, non trovi?”. 2) Nella storia del litigio a letto (v. pag. 51), men­ tre nel primo caso, quando l’uomo si addormenta la donna si sente infelice e sola, nel secondo caso, dopo

Pat Patfo o rt

che l’uomo si è addormentato la donna è rassicurata e si sente più vicina al marito.

In genere pensiamo che quella della nonviolenza a^pduta sia la sola forma di soluzione nonviolenta. Proprio per questo abbiamo l’impressione che la nonviolenza sia una meta irraggiungibile, un’utopia. In realtà perseguire una soluzione nonviolenta non significa ricercare quell’unica soluzione ma

semplicemente attivare un processo di gestione nonviolenta del conflitto che conduca verso qualsi­ voglia soluzione nonviolenta da noi raggiungibile (collocata in qualsiasi punto del triangolo in alto a destra). L’esperienza ci insegnerà che più diventia­ mo abili in tale pratica di gestione dei conflitti, più frequentemente ci avvicineremo alla soluzione di nonviolenza assoluta e addirittura più spesso la raggiungeremo.

Dare spazio alla nonviolenza Possiamo lottare per la causa della nonviolenza operando sulle basi di tutto il sistema della violenza, minandolo, sradicandolo; con l’obbiettivo di sostituire la radice della violenza, il sistema Mag­ giore-minore, con la radice della nonviolenza, il sistema di Equivalenza. Il nostro fine è quello di un impiego sempre maggiore in conflitti e discussioni del sistema di Equivalenza. Ci accorgeremo che questo modo di operare avrà delle ripercussioni sui livelli più profondi del pensiero e dell’esperienza a tal punto che gradualmente saremo capaci di considerare l’equivalenza tra un numero sempre maggiore di caratteristiche diverse. Ma ci troveremo regolarmente anche al centro di uno dei tanti meccanismi della violenza e ne diver­ remo un ingranaggio. Viene spontaneo chiedersi: in che modo dovremmo comportarci per il persegui­ mento della nonviolenza?

{, agendo in un certo modo, spesso senza saperlo, ci | siamo messi in una posizione di Maggiore rispetto all’altra parte che si è sentita provocata e ha cercato di assumere una posizione di Maggiore nei nostri confronti. Siamo così coinvolti in un’escalation di violenza. » N on dobbiamo quindi mai considerare un fatto | in sé, ma situarlo all’interno di un contesto. Tutto ì questo ci porta ad essere aperti e a comprendere i J fopjamenti degli altri. li { (2);C ontrollarsi per non compiere nessun passo t successivo dalla posizione di minore a quella di Maggiore. Controllare le emozioni non significa sopprimerle. Significa piuttosto che non reagiamo solo spinti dalle emozioni, dai sentimenti viscerali — sono solo una parte della nostra natura — ma spinti da tutte le componenti della natura umana: emozioni, intelletto, cuore, coscienza. Spesso questi aspetti del nostro essere non pren­ dono parte alle nostre reazioni, e solo le emozioni J^e tappe più importanti sono le seguenti: pi); A c q u isire il più rap id am en te possib ile sono coinvolte. In seguito, quando le altre compo­ a rd e n z a del fatto che ci troviamo in un meccani­ nenti tornano a rivendicare il loro ruolo, ci scusiamo smo di violenza. Per far questo è importante ren­ perché esse hanno determinato la nostra reazione. Talvolta chiamiamo “spontaneo” questo modo dersi conto che la violenza proviene sempre da emotivo di comportarci e reagire. Si tratta di un qualche parte, che non appare dal nulla. Qualcuno ci sottopone a violenza, si colloca in term ine che ha una connotazione positiva. La una posizione di Maggiore rispetto a noi, come rea­ spontaneità può essere positiva per comunicare zione al sentirsi precedentemente in una posizione chiaramente, specie se si vogliono esprimere i pro­ pri sentimenti e non mascherarli. Ma qui per spon­ di minore - o di fronte a un terzo: in questo caso noi siamo taneità s’intende la fusione tra l’espressione imme­ diata di sentimenti e l’imitazione cieca di un modo parte di una catena di violenza; - oppure di fronte a noi stessi: è possibile che primitivo di reagire. C ostruire la nonviolenza

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In concreto, per controllarsi ognuno deve esco­ gitare i propri stratagemmi: respirare profonda­ mente, rilassarsi, contare da uno a dieci, pregare, sedersi, mordersi le labbra, ecc. Trasformare la situazione creatasi in una di Equivalenza o, se questo non è possibile immediata­ mente, lavorare in questa direzione m ettendo a punto una strategia per farlo. In merito alla catena di obbedienza, una strategia di questo genere può con­ sistere, in larga misura, nel distinguere tra la funzio­ ne, il ruolo, la responsabilità che le persone portano e Ja loro posizione di Maggiore o di minore. 4) Se necessario, sviando le emozioni in eccesso,

n o n sfogandole su qualcuno ma discutendo del fatto con qualcuno (è un modo veramente semplice che può fare miracoli, ma richiede il reale ascolto da parte dell’altro che non deve interrompere o dare consigli, opinioni o giudizi 2), attraverso una mediazione, “uscendo a prendere una boccata d’a­ ria fresca”, attraverso un lavoro fisico o facendo sport, ecc. Più ci avviciniamo alla situazione di Equivalenza, maggiore sarà la quantità d’energia impiegata nella risoluzione dei conflitti e minore sarà quella da sviare.

Le abilità basilari Nel processo di gestione nonviolenta dei conflitti si possono distinguere tre parti o capisaldi. N on si tratta di tre fasi perché non sono in ordine successi­ vo ; anzi, spesso sono intrecciate. Alla base di queste tre parti o capisaldi ci sono tre corrispondenti abilità (v. fig. 16, in basso a destra): 1) l’affermazione positiva, che porta alla forma­ zione dell’Equivalenza (dei punti di vista e dei fon­ damenti); 2) la com unicazione, che porta all’unione di tutti i fondamenti; 3) la creatività,che porta all’origine delle solu­ zioni.

1) A ffe r m a z io n e p o s itiv a La nostra società è organizzata in modo negativistico. Ciò significa che si dà più im portanza agli aspetti negativi che a quelli positivi. Così, tendiamo a giudicare gli altri più spesso in modo negativo (direttamente o indirettamente) che in modo positi­ vo. Dedichiam o più tem po a rivolgere critiche

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negative agli altri e meno ad esprimere segni di apprezzamento. In genere troviamo che le storie tragiche siano più interessanti di quelle che si concludono felice­ mente o pacificamente. Conversando, siamo così abituati ad ascoltare cose negative sul nostro conto che spesso proviamo un senso di disagio se all’improw iso ci dicono qualcosa di positivo: ci sembra irreale, adulatorio, tanto che nella maggior parte dei casi non sappiamo proprio come reagire. La critica negativa è uno dei modi in cui si può porre qualcuno in una posizione di minore, in cui si può umiliarlo. La reazione logica — in base al siste­ ma Maggiore-minore — è che successivamente que­ sta persona critichi gli altri a sua volta. In questa maniera la critica negativa non può che diffondersi. L’effetto generale di questo modo complessiva­ mente negativo di interagire è una totale mancanza di fiducia in se stessi. Ciò comporta che perdiamo fede e fiducia nel talento e nelle capacità di cui siamo dotati, nel fatto che operiamo bene o che siamo bravi. La conseguenza è che ci sentiamo umiliati in misura maggiore e più rapidamente di quanto fosse nelle intenzioni dello altro, ci sentia­ mo minacciati prima di esserlo, abbiamo paura di fare qualcosa prima ancora di essere considerati incapaci, temiamo di essere “ancora una volta” la Pat Pa tfo o r t

parte minore. D ’ora in poi, non ci sarà facile ascol­ tare le critiche che ci saranno rivolte, specie se sono ^ sp re sse in modo negativo come di solito avviene. Per ovvie ragioni, la mancanza di fiducia in se stessi, unitamente al nostro modo di pensare bipo­ lare, implica che siamo incapaci di accettare facil­ mente le differenze: sentiamo che esse rappresenta­ no una minaccia per noi. Anche se si tratta di un opinione o valutazione neutra, la sentiamo come critica. Allo stesso modo è difficile accettare nuove idee e consuetudini, perché si teme che possano essere criticate. Proprio per questo motivo ci si oppone strenuamente. Esempi - Se un paziente, che ricorre ad una forma alterna­ tiva di medicina, morisse, non esiteremmo a puntare l’indice accusatore: “Quella forma di medicina non vale niente! Lo ha fatto morire!”. Questo nonostan­ te ogni giorno muoiano centinaia di persone che ricorrono alle forme tradizionali di medicina... - Se un bambino a cui si impartisce un tipo di educazione diversa, non studia, ci si precipita a com­ mentare: “Sono convinto che dipenda dal tipo di educazione: non è adatta!”. Q uesto nonostante ci siano molti bambini che, pur educati in modo tradi­ zionale, non studiano... - E se chi ricorre a un’altra forma di medicina conserva una buona salute, oppure se i bambini edu­ cati diversamente studiano, allora si fa a meno di spendere qualche parola o forse diciamo che quella persona è fortunata ad avere la salute che si ritrova, che i genitori di quei bambini sono fortunati ad avere dei figli così educati...

Per reagire a questa mancanza di fiducia in noi stessi non soltanto attacchiamo gli altri direttamen­ te (umiliandoli), ma cerchiamo di occupare una posizione di maggiore per sottometterli, per esem­ pio facendo sentire il nostro peso, mettendoci in evidenza, prendendo costantemente la parola, non permettendo agli altri di parlare, interrompendoli, parlando con un tono di voce superiore a quello degli altri, esigendo di essere sempre nel giusto e, per fare questo, criticando pesantemente gli altri o ridendo di loro per attrarre l’attenzione su di noi. A causa della mancanza di fiducia, dentro di noi sentiamo il bisogno continuo di uno spazio mag­ giore rispetto a quello cui abbiamo diritto: riuscia­ COSTRUIRE LA NONVIOLENZA

mo ad ottenerlo sottraendolo agli altri. Tutto questo è alla base del modo normale di affrontare i conflitti (v. fig. 16): - mettere in risalto gli aspetti negativi dell’altro; - affermare gli aspetti positivi delle nostre ragioni. Così si introduce il sistema Maggiore-minore nella risoluzione dei conflitti. Occorre sviluppare l’affermazione positiva se si vuole passare all’Equivalenza. L’affermazione posi­ tiva consiste nel sottolineare e apprezzare caratteri­ stiche, capacità, talento e validità dell’altro. Questo è necessario quando si affrontano i conflitti per i seguenti motivi: 1) per considerare tu tti i fondamenti, particolar­ mente quelli di cui normalmente non si parla; 2) per considerare i fondamenti in modo im par­ ziale, senza coloritura e condizionamenti. L’affermazione positiva (da parte nostra e/o da parte degli altri) avrà degli effetti nei modi seguenti: - neutralizzando la mancanza di fiducia in noi stessi, ci sentiremo meno spesso attaccati e messi in una posizione di minore; - aiutando la costruzione di una forza interiore: questa è opposta alla forza esterna con la quale normalmente cerchiamo di nascondere la debolez­ za interiore; - riducendo il bisogno di farci vedere sotto una luce positiva; - consentendoci di conoscere meglio i nostri fon­ damenti e di accettarli; sia quelli che consideriamo come aspetti positivi (talenti, capacità, qualità) sia i lati deboli, i difetti (su questo la nostra opinione può differenziarsi da quella degli altri!). Potremo conoscere meglio le nostre qualità sia nei loro aspetti positivi che in quelli negativi e di conse­ guenza potremo conoscere meglio noi stessi. Q ue­ sto significa acquisire consapevolezza; - permettendoci di conoscere le forme di potere di cui siamo dotati e di svilupparle (per non finire in una posizione di minore); imparando ad usarle e non ad impiegarle male (per evitare di finire in una posizione di Maggiore); - diventando capaci di accettare tranquillamente le critiche; saremo in grado, cioè, di dire — e pen­ sare — che abbiamo sbagliato, senza per questo sentirci male o avere la sensazione di essere attacca-

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ti o di essere colpevoli. Inoltre, in questa accetta­ zione non vedremo una sconfitta, una resa; - ascoltando i fondamenti degli altri e accettan­ doli per quello che sono, senza valutarle negativa­ mente. Questo significa essere capaci di ascoltare senza giudicare; - vedendo gli aspetti positivi degli altri li apprez­ zeremo ed esprimeremo questo apprezzamento; - perm ettendo che gli altri si autocritichino, senza approffitarne. In questo modo potremo interrompere i circoli viziosi3 deU’escalation della violenza. S itu azion i - L ’accum ulazione di rimproveri nel corso della nostra vita ha aumentato la quantità dei sensi di colpa che ci ritroviamo. Se si aggiunge un altro rimprovero, cercheremo di rifiutarlo o di criti­ carlo pesantemente, oppure passeremo al contrattac­ co, anche se il rimprovero è giusto. Poiché, non essendo aperti alle critiche, non ascoltiamo il mes­ saggio contenuto nel rimprovero, l’altra parte insi­ sterà ancora di più nel biasimarci, m olto più di quanto sia necessario. A causa di questo, ci sentiamo m aggiorm ente attaccati, accusati e siamo ancor meno disposti a fare delle concessioni. Di contro, se facessimo delle concessioni e ascol­ tassimo il punto di vista degli altri — questo non vuol dire che siamo d’accordo, che il nostro punto di vista coincide perfettamente con quello degli altri — allora gli altri ci biasimerebbero meno, e noi ci senti­ remmo meno accusati. Proveremmo meno il biso­ gno di passare al contrattacco. La conseguenza sarebbe “de-escalation” della violenza. Situazioni di questo tipo sono rilevabili a livello familiare: basti pensare ai rapporti tra genitori e figli o a quelli tra partner.

L'affermazione positiva delle ragioni delPaltro può aver luogo in tre aree differenti: a) l'area delle caratteristiche considerate positive in base a determ inate convenzioni; per esempio, avere una figura elegante, essere in grado di ottene­ re un buon profitto scolastico; b) l'area delle caratteristiche considerate positive in base alla persona che pronuncia l'affermazione positiva: è il caso, per esempio, di chi adora la musica e ama il brano che qualcuno ha eseguito; c) l'area delle caratteristiche la cui positività con­ siste nell'essere semplicemente presenti in qualcu­

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no. Questo si verifica quando, per esempio, incon­ triamo qualcuno dotato di spirito d ’osservazione e glielo facciamo notare, senza aver precedentemente pensato che l’essere dotati di spirito d’osservazione costituisca per noi una qualità positiva. L’affermazione positiva delle caratteristiche in queste tre aree avrà un ruolo importante nella for­ mazione della personalità di chi è preso in conside­ razione. Essa creerà lo spazio in cui questa persona potrà scoprirsi ed essere il più possibile se stessa. Il terzo livello è solitamente il più difficile. Ma noi cresciamo in questa direzione nella misura in cui m ettiam o in p ratica l'ap p ro ccio nonviolento. Quanto più impariamo a scoprire le caratteristiche degli altri, tanto più impariamo a sviluppare la tol­ leranza e il rispetto per esse. Per imparare ad impiegare meglio e più frequen­ temente l'affermazione positiva, dobbiamo prestare attenzione ai seguenti punti: - verso noi stessi imparando ad ascoltare l'affermazione positiva, a reagire ad essa, se necessario, e possibilm ente nell’ambiente familiare, ad appellarci ad essa, - verso gli altri, cercando forme di comunicazione che ci rendano più agevole o possibile l'affermazione positiva, per esempio, ricorrendo al telefono, alla lettera, al lin­ guaggio del corpo (una pacca sulla spalla, uno sguardo, una carezza, ecc.), ai programmi radiofo­ nici a richiesta. Infine, esaminiamo brevemente l'utilizzo delle forme di potere. L’affermazione positiva aiuterà a scoprire e a svi­ luppare le forme di potere di cui siamo dotati per evitare di finire in una posizione di minore. Ma dobbiamo fare attenzione a non usare in modo sbagliato queste forme di potere. Dobbiamo sem­ plicemente usarle, evitando di finire in una posi­ zione di Maggiore. Per un uso corretto, dobbiamo ricorrere alla nostra coscienza. Se si tratta di lotta fisica, spesso ricorriamo ad un “uso sbagliato del potere" come la “codardia", per esempio quando colpiamo una persona più debole o attacchiamo qualcuno prendendolo alle spalle. Ma vi sono tante altre situazioni in cui avviene qualcosa di simile. P at Pa t f o o r t

Forma di potere

Abuso (per il proprio interesse opportunistico)

Uso (nell’interesse della comunità: gli altri + se stessi)

• hai una voce forte

• interrompi gli altri, superi la conversazione degli altri con la tua voce

• guidi una m acchina

• svolti velocemente sulla sinistra, tagliando la strada al ciclista che sta venendo diritto • approfitti per chiedere a queste persone molto di più di quanto hai realmente bisogno; sai che faranno qualsiasi cosa comunque!

• sei sicuro di esprimere la tua opinione nella discussione; dai a coloro che non emergono la possibilità di parlare • se vuoi girare a sinistra, fermati e aspetta prima che passi il ciclista

• qualcuno ha bisogno di te

Esempi

2) L a c o m u n ic a z io n e

Ci sono moltissimi altri casi di abuso, come nei seguenti esempi: - chi ha il monopolio della vendita di un certo prodotto aumenta in misura sproporzionata i prezzi, mentre la qualità e le condizioni di vendita peggiora­ no (basti pensare al Terzo M ondo in periodo di guerra); - il giornalista di una conferenza che omette il resoconto di alcuni fatti e presenta altri eventi dan­ dogli più importanza di quanto effettivamente ne abbiano; - chi ha un diploma o una laurea e costringe gli altri al silenzio usando citazioni o una terminologia tecnica; - chi è di turno a parlare, sapendo di essere ascol­ tato, e continua a tenere la parola pur senza aver niente di nuovo da aggiungere; - chi sa di avere la fiducia di qualcuno, e fa qual­ cosa di diverso da quanto ci si aspetta danneggiando chi ha avuto fiducia in lui; - chi ha un beH’aspetto, in base ai canoni di bel­ lezza convenzionali, e giudica negativamente (anche non verbalmente) coloro che lo sono di meno; - chi è in una posizione sociale gerarchicamente elevata o ha conoscenze, e non paga una multa, peraltro giustamente meritata; - chi appartiene alla categoria dei privilegiati (chi gode di buona salute fisica e mentale e di un benes­ sere socio-economico) e si disinteressa dei meno pri­ vilegiati, evitando di fare qualcosa per loro. C o s t r u ir e

• chiedi tu qualcosa se ne hai bisogno

la n o n v io l e n z a

La comunicazione è necessaria per accomunare i principi fondam entali di entrambe le parti che, basandosi sulTaffermazione positiva, vengono a trovarsi le une accanto alle altre sullo stesso livello. È attraverso la comunicazione che si scambiano e si trasferiscono reciprocamente i fondamenti. Questo significa che la comunicazione (v. fig. 5) deve avve­ nire in entram be le direzioni. Tuttavia, dobbiamo fare attenzione a evitare che la com unicazione ci faccia cadere nel sistem a M aggiore-minore. Questo può certamente verifi­ carsi nei modi seguenti. 1) A ttraverso l’uso di forme di comunicazione offensive e ingiuriose. Si tratta di forme di comu­ nicazione che mettono qualcuno in una posizione di minore: per esempio, l’umiliazione, la derisione, l’urlo, l’eccesso (delle forme) di comunicazione. Bisogna fare attenzione specialmente al modo in cui consideriamo una difficoltà in un rapporto, per evitare di cadere nella trappola della critica negativa. È, dunque, della massima importanza sostituire ai messaggi incentrati sul destinatario (del tipo "non è bello da parte tua”) i messaggi incen­ trati sull’emittente (del tipo "non è piacevole per me”).

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Esempio - “A me piace l’ordine, mi piace che ogni cosa sia al suo posto: giacche all’attaccapanni, cartel­ le scolastiche contro il muro, arnesi nella cassetta, indumenti piegati o messi da parte per il bucato, giornali raccolti con cura, ecc. Ma mio marito lascia regolarmente la giacca sul divano, il pullover sulla sedia, martello e chiodi sul tavolo, giornali sul poggiapiedi. Se ci penso un atti­ mo capisco perché: spesso torna a casa tardi e pur essendo molto stanco si occupa dei bambini giocan­ do con loro, mettendoli a letto, aiutandoli a fare i compiti. Fa anche dei lavori in casa e si occupa del giardino. In ogni modo, non ritiene che l’ordine sia così importante. Dice che aver qualcosa in giro per la casa è un segno di vita. Credo che davvero non riesca a rendersi conto del disordine. Ma se il padre è così disordinato, penso che per i bambini questo rappresenti un problema. Voglio dire: come posso insegnar loro l’ordine? Quando ho problemi con la sua disorganizzazio­ ne dovrei, infatti, dirglielo, cioè dovrei opporre i suoi principi fondamentali ai miei e, inoltre, dovrei aggiungere quanto mi faccia piacere che lui si occupi di tutte quelle cose e di come lo faccia bene. Ma in realtà gli dico qualcosa di completamente diverso. Quando, per l’ennesima volta, gli porto la giacca dalla sedia all’attaccapanni, esplodo: E possi­ bile che tu mi abbia lasciato ancora una volta la giac­ ca sulla sedia? Credi che sia una schiava che racco­ glie tutto quello che lasci in giro? N on puoi appen­ dere la giacca all’attaccapanni? Perché non fai mai quello che ti dico? Ti sembra questo il modo di comportarti?”.

Il modo comune di com unicare è negativo e aspro nei confronti dell’altro (= critica negativa), e anche la maggior parte delle volte dispotico, chiara­ mente da parte di chi si trova nella posizione di Maggiore. Per assorbire l’eco di un precedente eccesso di critica negativa sarebbe sufficiente anche solo accennare alle difficoltà insite nel rapporto (a parti­ re dal confronto dei fondamenti di entrambi) o, possibilmente, dare un’approvazione ai fondamenti dell’altro.

2) Attraverso un uso poco chiaro della comu­ nicazione, che porta ad un’interpretazione del messaggio in senso negativo e offensivo.

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Esempi - “N on ha detto niente. Certamente non avrebbe approvato”. - “Dal modo in cui lei mi stava guardando era chiaro che era arrabbiata con me”.

Dobbiamo essere consapevoli che comunichia­ mo in qualsiasi momento, anche quando non par­ liamo; dobbiamo anche fare attenzione affinché le diverse forme di comunicazione vengano utilizzate nel modo più omogeneo possibile. Esempio - La domanda “Perché lo fai?” può essere formulata con una intonazione diversa: a) in modo normale;

b) in tono di rimprovero (con enfasi sulla seconda sillaba).

N el secondo caso non abbiamo semplicemente una domanda più lunga; si tratta, in realtà, di un messaggio multiplo.

I messaggi multipli sono quei messaggi che con­ tengono più di un argomento. Esempi Consideriamo due messaggi verbali. Un uomo chiede a sua moglie che cosa mangeranno a pranzo. “Soufflé di formaggio”, risponde lei. Poi, lui dice: “Mi piacerebbe che non lo facessi così spesso”. Lui intende dire: a) “A me piace il soufflé” b) “Ma non voglio mangiarlo tutti i giorni”. Il messaggio verbale può suonare aspro perché il primo messaggio non era stato chiaramente espresso.

Consideriamo, ora, un messaggio verbale e uno non verbale. L’impiegato di un ufficio si rivolge al capo repar­ to: “Mi scusi se non ho potuto fare il lavoro che mi aveva assegnato, ma il direttore generale mi ha chie­ sto di fare un’altra cosa”. Questo messaggio è accom­ pagnato da un sorriso che non significa “mi dispiace” ma “sono stato molto contento di aver potuto evitare il lavoro che lei mi aveva chiesto! Ah! Ah!...”. Pat Patfo o r t

Il messaggio consciamente emesso scompare sotto il peso dal messaggio non verbale, inconscio, non intenzionale che si associa a quello verbale, conscio, intenzionale.

I messaggi separati non vengono espressi in modo chiaro (e di conseguenza il messaggio com­ pleto può apparire offensivo), ovvero il messaggio principale è dominato da un ulteriore messaggio di tipo offensivo. Perciò per intraprendere la strada della nonvio­ lenza occorre che noi cerchiamo di essere quanto più consapevoli delle varie forme di comunicazio­ ne. Per essere certi che un messaggio sia chiaro e inoffensivo dobbiamo cercare di controllare la rea­ zione che esso produce. In questo modo l’espres­ sione e la ricezione formano un unicum. Più cre­ sceremo nella nonviolenza, nelle nostre relazioni, meno avremo bisogno di tale controllo. Per concludere, ancora alcuni punti sulla comu­ nicazione nonviolenta. a) Ascoltare qualcuno, comprendere e accettare le ragioni dell’altro è cosa diversa dall’essere d’ac­ cordo con questi, dal pensare o sentire nello stesso modo. b) Imparare ed essere capaci di accettare i fon­ damenti degli altri, ciò può risultare utile a noi stessi qualora dovessimo trovarci in una situazione in cui esponiamo ragioni simili. c) La comunicazione non è necessariamente verbale: la comunicazione non verbale non è peg­ giore di quella verbale. Essa non causa automatica­ mente più problemi, e le persone che ricorrono alla comunicazione non verbale non sono peggiori, né più brutali, né meno evolute di quelle che ricorro­ no alla comunicazione verbale: sono semplicemente diverse. Una relazione tra le due diverse categorie di per­ sone non implica che le prime debbano divenire più loquaci (o viceversa). Dovranno insieme sviluppare e sintonizzarsi su una frequenza reciproca di comunicazione. A questo proposito, è im portante arricchire il nostro modo di comunicare sviluppando, oltre alla comunicazione verbale, tutte quelle forme che ci siano congeniali. L’arte, per esempio, è un mezzo importante per esprimere i sentimenti (non neces­ sariamente rivolti ad u n ’altra persona). Suonare C ostruire la nonviolenza

uno strumento, cantare o disegnare (v. fig. 19) ser­ vono proprio a questo. d) Scherzare è diverso da litigare: nella comuni­ cazione lo scherzo è un’importante forma di contat­ to, che può essere molto amichevole, allegra, tenera o anche passionale. Basti pensare a due bambini sul prato, a due amici sulla spiaggia, a due innamorati che scherzano. Dallo scherzo si può passare al liti­ gio a causa di un malinteso. Per evitare questa dege­ nerazione è sufficiente imparare a gestire meglio lo scherzo. Sarebbe un peccato escludere lo scherzo solo per questo motivo, perché le forme di contatto sono importanti forme di comunicazione. e) Comunicare da una posizione di minore: sebbene noi abbiamo l’impressione di trovarci in una posizione di minore, è possibile che anche l’al­ tro abbia la stessa impressione nei nostri confronti. Quando comunichiamo non dobbiamo mai trascu­ rare questo aspetto. Per uscire dalla posizione di minore occorre che la comunicazione sia chiara e non minacciosa e che manifesti l’ingiustizia che abbiamo l’impres­ sione di subire, per toccare la coscienza dell’altro (prima fase). Se questo non accade, possiamo cercare di coin­ volgere una terza parte per favorire il progresso della comunicazione (seconda fase). Se chi si trova in una posizione di Maggiore non vuole rinunciare ai propri privilegi, cioè, non pren­ de sufficientemente in considerazione i nostri fon­ damenti, può essere necessario passare all’azione (terza fase). L’azione serve a dare maggior peso ai nostri fondamenti, ad esercitare una pressione su chi si trova in una posizione di Maggiore in modo che questi ascolti. Anche in questa fase è possibile coin­ volgere una terza parte. Tuttavia, dobbiamo aver cura di non passare troppo rapidamente alla terza fase. Spesso, è possibile non che la terza parte sia riluttante ad ascoltare o a cambiare ma che sia inca­ pace, non sappia come fare, non capisca, abbia biso­ gno di più tempo per abituarsi o adeguarsi, sia spa­ ventata, ecc. Tutte queste situazioni possono richie­ dere comprensione, forza, controllo e pazienza 4 da parte di chi si trova nella posizione di minore. Ancora una volta, dobbiamo essere molti cauti nell’atto comunicativo quando passiamo alla terza fase, per evitare di attuarla in modo minaccioso o

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'ig. 19 - Un ragazzo di 12 anni ha bisogno di sfogare la sua rabbia all’esterno, ma a causa delle circostanze non può

arlo. L’unico modo di farlo è attraverso il disegno %

Pat P a tfo o r t

offensivo. Si potrebbe rischiare di rafforzare il senso di paura o di insicurezza dell’altro. Esempio - La storia della panchina. È una giornata di sole. Due persone (A e B) sono vicine ad una panchina. Entrambe vogliono sedersi sulla panchina. A vi si distende, cosicché non rimane alcuno spazio per B. B può semplicemente chiedere di fargli un po’ di spazio: forse A non ha visto B, oppure A non ha capito che anche B vuole sedersi sulla panchina, ecc. Se B fa capire chiaramente, senza alcun attacco o minaccia, che c’è una ragione per la quale anch’essa vuole sedersi su quella panchina (perché, per esem­ pio, non ci sono altre panchine al sole, oppure per­ ché il prato è bagnato), ma A gli dice chiaramente che non vuole rinunciare al suo privilegio, allora B può passare all’azione cercando di ricordare ad A la sua presenza. Per esempio, B può frapporsi tra il sole e la pan­ china in modo che ad A non giunga nessun raggio di sole. Questo può essere fatto in modo grave e vendi­ cativo, ma anche attraverso una esposizione cortese e amichevole delle proprie ragioni dicendo: "Non voglio farlo. N on voglio mettermi tra te e il sole. Ma non credo di dover accettare qualsiasi cosa. Anch’io sono stanco e vorrei sedermi su un posto asciutto per riscaldarmi al sole come te...”. In un modo simile B può toccare la coscienza di A, perché la sua posi­ zione è dalla parte della ragione e perché nessun attacco o minaccia offusca questa ragione.

3) C rea tiv ità Quando tutti i fondamenti sono posti sullo stesso livello (v. fig. 16, in basso a destra), accade molto spesso che le soluzioni — o la soluzione — emer­ gano in modo semplice.

Spesso per raggiungere questo obiettivo è necessa­ rio del tempo, e conseguentemente pazienza: tempo per riflettere o per esaminare delle possibilità. Talvolta è necessaria anche la creatività, a partire dai fondam enti dati, per creare o inventare una soluzione che possa essere accettata da entrambe le parti in causa. Così la soluzione — a meno che ciò non sia necessario per le parti — non ha bisogno della benedizione degli altri, di essere “come al solito”, “come le altre”, di essere rispettabile, nor­ male, convenzionale. N on ha bisogno che si prenda in considerazione “ciò che gli altri pensano o dico­ no di essa”, almeno fintanto che l’opinione esterna non sia un fattore determinante per uno dei fonda­ menti in gioco. La soluzione deve essere accettata solo e soltanto dalle due parti in causa. Perciò ogni soluzione — in ogni rapporto e in ogni situazione — è unica. La creatività è importante non solo per trovare soluzioni ma anche per scoprire e sviluppare le varie forme di comunicazione, incluse le azioni. Essa può essere incoraggiata passivamente e atti­ vamente. Il modo passivo più importante consiste probabilm ente nell’assumere un atteggiamento meno negativo di fronte alle novità e a coloro che le introducono. Esempio - Pensiamo alle pesanti critiche e umilia­ zioni ricevute dalle prime donne che portarono i pantaloni. Guardiamo invece adesso quante altre le hanno imitate...

Un modo elementare di incoraggiare attivamente la creatività è quello di aumentare la nostra forza nel fare le cose che sentiamo che è bene fare, anche se sono “diverse”. Una affermazione positiva della creatività degli altri può essere una forma di sostegno a questi.

Uintervento di una terza parte Accade normalmente che le due parti interessate non riescano a risolvere il conflitto tra loro, perché non sono capaci di far fronte ad uno o più dei tre C ostruire la nonviolenza

principi di base per una gestione nonviolenta dei conflitti (v. pag. 60). A questo punto può interveni­ re una terza parte.

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L’intervento può assumere le due seguenti forme. 1) La mediazione: la terza parte resta tale, cioè non entra nel conflitto (non si schiera), ma si situa accanto alle due parti. Anche se all’origine c’è stata la proposta di una delle due parti, la sua presenza deve essere voluta da entrambe. Le funzioni del mediatore saranno le seguenti: a) sviluppare il più possibile l’Equivalenza nel rapporto. Per far questo il mediatore deve essere sufficientemente abile nell’ascoltare le ragioni di entrambe le parti evitando qualsiasi giudizio. Sin dall’inizio il mediatore dovrà dar prova di essere degno di fiducia. b) Rendere possibile e/o semplificare la comuni­ cazione. Per questo le due parti, ciascuna separata­ mente, farebbero meglio prima ad esprimere le loro ragioni emotive alla terza parte. Quando lo fanno direttamente tra loro, lo fanno spesso in maniera aggressiva, perché ciascuna cerca di assumere una posizione di Maggiore. c) Stimolare la creatività, suggerendo soluzioni, mai cercando di raggiungerne di specifiche. Le soluzioni devono essere scelte dalle stesse parti interessate. Q uando non abbiam o affrontato conflitti in modo nonviolento per molto tempo, può accadere che abbiamo regolarmente bisogno di mediazione, perché non disponiamo di una sufficiente padro­ nanza delle abilità fondamentali. Quando imparere­ mo a controllare meglio le abilità fondamentali, acquisiremo gradualmente la capacità di risolvere più facilmente i conflitti senza aver bisogno di mediazione alcuna. Una maggiore efficacia nella risoluzione nonviolenta di conflitti semplici, ci con­ sentirà di credere di più in questo metodo. Ciò ci farà sentire più forti quando affronteremo e risolve­ remo conflitti più complessi. È possibile che si con­ tinui ad aver bisogno della mediazione solo in situa­ zioni e per conflitti di estrema difficoltà, in cui le emozioni coinvolte sono così numerose da rendere complicato il controllo delle abilità fondamentali. Nel lavoro di mediazione in un escalation di vio­ lenza il raggruppam ento delle ragioni produrrà esclusivamente, almeno all’inizio, una progressiva de-escalation. In altri termini: passo dopo passo in

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discesa, per tentativi, le due parti si informano reci­ procamente delle fasi attraverso cui passa l’escala­ tion di violenza (v. l’esempio a pag. 78). Il fine della de-escalation della violenza — e questo è molto importante — non è quello di cercare e trovare un colpevole da punire. Se questo avvenisse, ricadrem­ mo nella logica del rapporto tra Maggiore e mino­ re. Il fine è quello di capire che cosa è accaduto, come gli eventi si sono concatenati, e imparare per il futuro. Il mediatore deve essere chiaro in questo sin dall’inizio e deve accertarsi che le parti interes­ sate abbiano fiducia nel suo metodo. Per la realiz­ zazione di questo fine la comunicazione non verba­ le può probabilmente essere utile in modo partico­ lare (perché essa è più sincera e quindi affidabile). 2) L ’intervento: ci sono, tuttavia, situazioni in cui la parte minore è sottoposta a una tale violenza da non essere più in grado di opporsi alla parte Mag­ giore. È il caso di una parte della popolazione che non dispone di armi e che viene torturata e uccisa da un gruppo armato, oppure di chi, fisicamente più debole (un bambino per esempio), è maltrattato da uno più forte. Se noi, in qualità di testimoni, non cerchiamo di intervenire in qualche modo (possibilmente a lungo termine), per aiutare la parte minore, questa vedrà in noi una parte Maggiore, o almeno un complice di questa, perché non ne met­ tiamo in discussione la sua posizione: permettiamo che la violenza sia perpetrata. La nostra passività, negligenza, paura, codardia, sem bra favorire i soprusi della parte Maggiore e la parte minore sente tutto questo come un atto di violenza. La maggior parte delle volte in simili situazioni la terza parte teme di intervenire e di diventare simile a quella minore. Assumere un atteggiamento nonviolento non significa restar fuori dal conflitto (ed essere simile alla parte Maggiore) né entrarci in modo tale da diventare la parte minore, ma stare accanto ad entrambe le parti, come una terza parte. Questa è la solidarietà. Capiamo perfettam ente quanto detto quando cerchiamo di metterci in una posizione di minore. Un tipico esempio è la “resistenza” nel corso della seconda guerra mondiale. Infatti molte nazioni europee si aspettavano che l’aiuto giungesse da oltreoceano, proprio come Pat Patfo o rt

oggi chi fa la resistenza nei paesi del Terzo Mondo si attende il nostro aiuto. Se siamo assaliti per la strada ci aspettiamo aiuto dai passanti, altrimenti pensiamo che sono complici — anche se passivi — degli assalitori.

Ma siamo anche consapevoli del fatto che gli altri si aspettano la stessa cosa da noi? Altrimenti non esiteranno a considerarci dei collaboratori o degli esecutori “passivi” di violenza.

L’educazione maschile e femminile Qualche volta si dice che un sesso è meno violento dell’altro. Considerando la questione in generale, si può affermare che non c’è un sesso che sia meno violento dell’altro, solo che l’uom o e la donna guardano la nonviolenza da punti di vista diversi, assumono una posizione diversa in merito al con­ cetto di nonviolenza. Se dovessimo cercare la causa di queste differenziazioni nella natura dell’uomo o della donna, nella loro specificità o nelle rispettive educazioni, sarebbe difficile rendersi conto fino a quale misura queste sono così strettamente intrec­ ciate. Generalmente parlando — cioè non pretendendo di applicare il nostro ragionamento a tutti i singoli individui — nell’educazione femminile e in quella maschile si mettono in evidenza aspetti compietamente diversi.

- NelPeducazione maschile si enfatizza l’abilità fondamentale dell’affermazione positiva di sé. L’immagine che un ragazzo riceve di sé è di persona forte, coraggiosa, sicura, di proteggere la famiglia o sua moglie o perfino sua madre. Accettiamo l’egoi­ smo più in un ragazzo che in una ragazza. A causa di questo, spesso gli uomini hanno difficoltà quan­ do devono fare cose che sembrano a prima vista essere tipiche dei deboli come esprimere i propri sentimenti (piangere, ad esempio) o mettersi in discussione. Inoltre, l’educazione maschile è carat­ terizzata da un maggior numero di modelli con­ cernenti la violenza visibile, fisica e diretta. Uno dei modelli per la risoluzione del conflitto è il liti­ gio piuttosto che il dialogo.

- Nell’educazione femminile si mette in risalto l’abilità fondamentale della comunicazione: una “vera” ragazza deve saper ascoltare, deve essere dolce e conciliante. Va aggiunto che si dà impor­ C ostruire la no nviolenza

tanza alla non affermazione di sé: ciò significa evitare di farsi notare, comportarsi come vogliono gli altri, essere belle, disponibili, altruiste. Da una ragazza ci si aspetta che sappia ascoltare, eseguire e consolare piuttosto che pensare, elaborare le pro­ prie idee e assumere un ruolo protagonistico. Inoltre l’educazione femminile è caratterizzata

da un maggior numero di modelli concernenti la violenza invisibile, che è violenza indiretta. Sulla base di questo concetto, dare un pugno, prendere a calci e spingere sono azioni indegne di una donna. Certo, molto è cambiato rispetto al passato, ma continuiam o a trovare queste sottolineature in entrambi i modelli educativi. Di conseguenza si può dire in termini generali che la crescita verso la nonviolenza si presenterà in modo diverso a seconda che riguardi un uomo o una donna. - Per l’uomo il passaggio alla nonviolenza com­ porterà lo sviluppo di una maggiore comunica­

zione, - Per la donna questo obiettivo potrà essere rag­ giunto attraverso lo sviluppo di una maggiore affermazione positiva di sé. A causa del primo malinteso sulla nonviolenza (vedi pag. 47) — quello per cui essere nonviolenti significa essere dolci e gentili, non perpetrare nes­ suna violenza contro gli altri — gli uomini che intraprendono una crescita verso la nonviolenza (dando più spazio agli altri, non facendo ricorso o facendone meno alla violenza fisica, comunicando in modo più verbale) sono più facilmente conside­ rati nonviolenti delle donne che a modo loro si avviano verso una crescita nonviolenta (per esem­ pio, le donne emancipate).

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ripiche dissomiglianze ► e facciamo un elenco di tutte le caratteristiche ;ià m enzionate alla base della violenza e della

atteggiamento normale o primitivo VIOLENZA reazione viscerale, impulsiva, inconscia, spesso più diretta

superficiale importanza ai valori esteriori sfiducia (- fiducia cieca), immagini del nemico diretto all’interesse individuale interesse personale norme ricette centralizzazione il conflitto è un processo negativo: - crea tensioni, stress - distruttivo per il rapporto (gli altri e indirettamente - per esempio attraverso un’escalation di violenza — per me e per le mie relazioni) - il risultato è la cosa principale - si cerca la parte colpevole - si rimane impantanati nel passato__________ tempo necessario: - prima sembra insufficiente, dopo sembra eccessivo - si è inconsapevolmente controllati dal tempo abuso di potere (conoscenza, tecnologia, ecc); forme negative di potere forme esteriori di forza, mancanza di fiducia in se stessi mancanza di comunicazione o comunicazione poco chiara critica negativa, distruttiva migliore / peggiore Fig. 20 - Tavola riassuntiva: atteggiamenti assunti nei confl,

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occupata, il comportamento. In questo modo pos­ siamo giungere a capire che gli altri non sono "col­ pevoli” o "cattivi”, ma che sono, come noi, vittime dello stesso sistema. 5. Interesse individuale e interesse comune: per esempio solo multe pesanti (quelle che ognuno paga di tasca propria) sembrano indurci ad inqui­ nare meno, a provocare meno danni allo strato di ozono, ecc. Anche questo contrasto tra l’interesse individua­ le e quello comune è preso in considerazione dalle teorie della Difesa Popolare Nonviolenta che mira, se non proprio ad azzerare, almeno a diminuire il numero di morti e feriti rispetto a quello previsto dalle tradizionali forme di difesa. Inoltre, nella pro­ spettiva delle teorie di difesa popolare nonviolenta, esterno a) delPavere (consumo) la sofferenza di un avversario è sentita quanto quel­ a la di un m em bro del proprio gruppo. Tuttavia, b) del fare (produzione) nonostante questo, la difesa popolare nonviolenta ▼ non garantisce al 100% la vita di una persona. interno c) delPessere (esistenza) 6. Interesse personale/coscienza: continuiamo, per esempio, ad importare carbone dal Sud Africa, Le prime due forme mirano a provare l'esistenza e così facendo appoggiamo il regime fondato sull'a­ di valori. La terza forma non vuole provare alcuna partheid, per avere riscaldamento ed energia a buon esistenza ma si limita semplicemente ad esistere. È mercato. la forma più profonda, più semplice, ma probabil­ 7. Risultato/processo di un conflitto: un tipico mente anche la più difficile. Queste caratteristiche esempio si ha quando nelle relazioni sociali faccia­ sono riscontrabili nelle teorie della Difesa Popolare mo una distinzione tra le questioni che possiamo Nonviolenta 5 perché questa mira alla difesa dei negoziare e quelle che non possiamo negoziare. valori culturali piuttosto che a quella del territorio. Tale distinzione non è così rigida quando le rela­ 4. Perdono: nella nonviolenza è im po rtan te zioni sociali sono improntate alla nonviolenza per­ distinguere da un lato la persona e dall'altro il siste­ ché il processo del conflitto può apportare dei cam­ ma in cui questa persona si trova, la posizione biamenti.

Alcune caratteristiche della tabella non sono ancora state sfiorate o lo sono state brevemente. Di queste si parla più diffusamente nell'ultimo capito­ lo o sono quelle qui di seguito delineate. 1. A lungo termine: una vittoria ottenuta con spargimento di sangue spesso può a lungo termine minare Pautorità (in tal caso si tratterebbe di una vittoria di Pirro). 2. Superficiale/profondo: la violenza non ci con­ sente di giungere alle cause che hanno generato il conflitto, ma solo di liberarci il più velocemente possibile dai sintomi, per esempio sopprimendoli (repressione). 3. Valori esterni/interni: ci sono tre forme di valori:

Note (1) Il termine “equivalente” è più appropriato del comune­ mente usato “uguale”, che facilmente genera confusione per il doppio significato (“identico” ed “equivalente”). Per esem­ pio quando si dice gli uomini e le donne dovrebbero essere “uguali”, non s’intende affermare che dovrebbero essere “identici”: essi sono e saranno sempre diversi, anche se pos­ sono ovviamente essere equivalenti nonostante le differenze.

C o s t r u ir e

la n o n v io l e n z a

(2) Vedi nota a pag. 34. (3) Queste, infatti, sono catene chiuse di violenza. (4) Si veda l’elenco dei concetti simili con contenuti diffe renti.

(5) L’alternativa nonviolenta alla difesa.

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DIFFERENZE (di caratteristiche, di opinioni, di punti di vista)

COMPORTAMENTO PRIMITIVO

COMPORTAMENTO DEGNO DELL'UOMO

VIOLENZA

NONVIOLENZA

AGGRESSIONE

MILITANZA, CAPACITÀ DI DIFENDERSI

- attacco, offensiva - opponendosi all'altro - alle spese dell'altro (e spesso alle stesse spese nostre in un secondo momento) - forme esterne di violenza

AMBIENTE:

X

- non attaccando, ma solo difendendosi (senza minacce, né provocazioni) - collaborando con l'altro (*) - a beneficio di entrambi ^ - forza interna


one problemi di rovesciamento di posizioni, e lunque di ciò che chiamiamo resistenza. Questo copriamo nei bambini educati in modo nonvioleno: infatti questi individui sono stati capaci di sviuppare gradualmente la loro personalità prima del’età puberale, anche se queste personalità non corispondono a quelle degli adulti che li circondano.

"OSTRUIRE LA NONVIOLENZA

3) O b b e d ie n z a R e sp o n s a b ilità , c o s c ie n z a L’obbedienza è il principio guida dell’educazione normale. Generalmente non mettiamo in discussione questo principio perché crediamo che non esista un’alternativa ad esso, perché pensiamo che non possiamo fare a meno di adottarlo. Tuttavia, l’obbedienza è causa di moltissimi pro­ blemi, per esempio: - in merito al problema dell’incesto, della violen­ za sessuale sui bambini, una delle domande che ci si

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pone è: “A che età dovremmo insegnare ai bambini a dire di 'n o ’ agli adulti?”; - la remissività, la mancanza di coscienza e di senso di responsabilità implicano che, per compiere delle azioni positive, normalmente aspettiamo che un ordine venga dall’alto o che ci vengano inflitte delle sanzioni; u n ’azione positiva sarebbe, per esempio, l’interruzione spontanea dell’uso di aero­ sol che danneggia lo strato di ozono invece di attendere il divieto governativo; - i testi di Milgram1 e altri analoghi hanno prova­ to che l’obbedienza è alla base della violenza su larga scala, perpetrata attraverso le catene di gerar­ chia o di obbedienza (come, ad esempio, è avvenu­ to nei campi di concentrament nazisti). L’obbedienza è uno strumento efficace che con­ sente la realizzazione di compiti insensati o dannosi. Tuttavia, raramente l’obbedienza è messa in dub­ bio. Nel corso del processo di Norimberga, dopo la seconda guerra mondiale, gli imputati furono biasi­ mati per non aver consentito alla loro coscienza di rivoltarsi contro l’obbedienza: furono condannati perché avevano obbedito e non avevano ascoltato la voce della loro coscienza. Ma questo si verifica molto raramente.

Sulla base dell’obbedienza non si può costruire e sviluppare l’educazione nonviolenta. Questa evita l’obbedienza e i problemi che essa comporta. Ciò non significa che coloro che sono educati in modo nonviolento siano disobbedienti (il nostro pensiero bipolare alza la cresta di nuovo!). Essi obbediscono in situazioni che richiedono la realizzazione di com piti ragionevoli e innocui, derivanti dalla coscienza e dal senso di responsabilità. Il fine dell’educazione nonviolenta è duplice: da un lato si propone di basare l’educazione su rela­ zioni sociali nonviolente, dall’altro si propone di creare individui che si comportino in modo non­ violento, che risolvano i conflitti in modo nonvio­ lento sia a livello personale sia a livello sociale. Dunque gli individui educati in modo nonviolento sviluppano un atteggiamento che corrisponde a ciò che appare nella colonna destra della fig. 20. Di conseguenza l’educazione nonviolenta può essere il motore di un cambio di mentalità verso la nonvio­ lenza, una pietra angolare per la costruzione di una società nonviolenta.

Il fai da te delPeducazione nonviolenta Se vogliamo educare da noi i bambini in modo nonviolento dovremo probabilmente passare attra­ verso le seguenti tre fasi di pensiero.

1) È u n a sc e lta o b b lig a ta ! Sappiamo che c’è moltissima violenza nel mondo. Sappiamo che c’è un innegabile legame tra la vio­ lenza e i nostri norm ali modelli educativi. Poi diciamo: “N on può andare avanti così! Bisogna cambiare!”. Perché dovrebbero essere prima o solo

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gli altri a cambiare? Il cambiamento deve venire da tutti noi. Dobbiamo costruirlo insieme. La fase che abbiamo descritto è quella della fede nella nonviolenza. In pratica ciò significa continua­ re a restare nella colonna destra e non, come avvie­ ne quando non riusciamo a fare qualcosa, a ritorna­ re nella colonna sinistra. Se ricorriamo all’educa­ zione normale, tenendoci nella colonna sinistra, e se non riusciamo in qualcosa che ci siamo proposti di fare, allora non possiamo far altro che rimanere alPinterno della colonna sinistra, poiché non abbia­ mo u n ’altra colonna, verso sinistra ad esempio, verso cui dirigerci. Se ricorriam o all’educazione nonviolenta, dobbiamo agire come se non ci fosse Pat Patfoort

nessuna colonna sinistra; non perché non esiste, ma perché scegliamo consapevolmente di non usarla, perché è questo che vogliamo.

la violenza. Dunque, non sarebbe logico che la pra­ tica dell’educazione nonviolenta sia parte del servi­ zio militare e del servizio civile?

2) È v e r a m e n te p o s s ib ile ?

3) G li in d iv id u i e d u c a ti in m o d o n o n v io le n t o sa r a n n o p o i in g ra d o d i v iv e r e n e lla so c ietà ?

Questa è la domanda di prammatica che rimanda airefficacia delPeducazione nonviolenta. Dobbiamo cercare di scoprirlo, altrimenti non lo sapremo mai. Molti — consciamente o inconsciamente — stan­ no già cercando di farlo: possiamo fare riferimento alle loro esperienze. Naturalmente, ognuno dovrà scoprirlo attraverso le proprie esperienze. Innanzi­ tutto dobbiamo credere fortemente che l’educazio­ ne nonviolenta è possibile, dobbiamo tentare la strada dell’educazione nonviolenta, dobbiam o veramente realizzarla per poi poterla sviluppare. Inizialmente il passaggio alla nonviolenza non è evidente. Esso implica che noi rieduchiamo noi stessi. Più sono le persone che si rieducano, più agevole e più costruttivo sarà per la società in cui viviamo. L’educazione nonviolenta aum enta la sicurezza (interiore) perché a lungo andare riduce

Disapproviamo molti aspetti della società. Se siamo certi che i nostri figli vi si adattano, come possiamo pretendere di cambiarli o di liberarcene? E in che modo aiutiamo i nostri figli: - insegnando loro ad adattarsi agli aspetti negati­ vi della società, indirizzandoli, o cercando di indi­ rizzarli, in questa direzione? - oppure offrendo loro accanto agli aspetti nega­ tivi, quelli positivi, e tuttavia nello stesso tempo preparandoli alla presenza di questi aspetti negati­ vi? Cosa dire dei rischi? I rischi ci sono sempre e d ap p ertu tto . N essun m etodo di per sé dà una garanzia del 100%. Ma se optiamo per l’educazione nonviolenta è perchè vogliamo evitare i rischi di u n ’educazione e un rapporto sociale normali. Si tratta di rischi che conosciamo bene.

N ote (1) S. Milgram, Obbedienza alPautorità, Bompiani, Milano 1975.

C o s t r u ir e

la n o n v io l e n z a

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Epilogo Mentre ci avviciniamo alla fine del ventesimo secolo, ci rendiamo conto che le relazioni nonviolente tra gli uomini sono più che mai possibili. Tramite lo sviluppo della scienza e della tecnologia abbia­ mo acquisito, infatti, la possibilità di dipendere meno dai nostri bisogni primari. In questo modo abbiamo la possibilità di entrare meno in contrasto con gli altri. Sfortunatamente, la scienza e la tec­ nologia spesso non sono applicate in questa direzione... Un compor­ tamento primitivo era più appropriato nei tempi preistorici quando, per esempio, il bisogno di cibo faceva scontrare gli uomini. In quei tempi era questione di vita o di morte. Ma da allora è stata possibile una evoluzione verso V um anita. Un comportamento evoluto o degno dell’uomo è quello più adatto oggi: il comportamento non­ violento consente di conservarci senza agire contro l’altro. Se voglia­ mo essere considerati esseri più sviluppati degli animali o delle civiltà primitive, allora dobbiamo comportarci come tali, non solo tecnologicamente ma anche socialmente.

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Pat Patfo o rt

Stessi concetti aventi contenuti differenti Relazioni umane norm ali

Relazioni umane nonviolente

A U TO C O N TR O LLO (vedipag. 59)

soppressione delle emozioni

espressione razionale delle emozioni in modo diverso

AUTORITÀ (vedipag. 74)

ricevere

prendere, domandare

COM PRENSIONE (vedipag. 53)

accordo

accettazione, consapevolezza CONCESSIONE (vedipag. 58)

ci si avverte come perdenti, la parte incolpata

accettazione PAZIENZA (vedipag. 67)

passività, di attesa

attiva, costruttiva POTERE (vedipag. 62)

dall’esterno

dall’interno SPONTANEITÀ (vedipag. 59)

immediata e fruttto di reazione emozionale

comunicazione aperta VERITÀ (vedipag. 58)

fede cieca

fede consapevole, cosciente ____________ :___~ - •____: t.; y__________

C o s t r u ir e

la n o n v io l e n z a

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Ia m erid ia n a Della stessa collana Mario Bolognese, Il mito e l'archetipo nella fiaba, pp. 104 Jerome K. Liss, La comunicazione ecologica. Manuale per la gestione dei gruppi di cambiamento sociale, pp. 135 Pat Patfoort, Costruire la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti, pp. 120 Daniele Novara (a cura di), Ricominciare da un libro. Percorsi bibliografici per l'e­

ducazione alla pace, pp. 35 Augusto Boal, Il poliziotto e la maschera. Giochi, esercizi e tecniche del teatro del­ l'oppresso, pp. 203 Paolo Visonà, Azzurro terra. Per una catechesi della pace, pp. 163 Pia Blandano - G. Casarrubea, Nella testa del serpente. Insegnanti e mafia, pp. 140 Arnaldo Cecchini - Pinuccia Montanari, I mondi del nuovo millennio. Gioco di simulazione per educare alla pace, pp. 66 + kit didattico Rete di Educazione alla Pace (a cura di Daniele Novara), L'ascolto e il conflitto, p p .123

Thomas Gordon, Genitori Efficaci, pp. 187 Jean Liedloff, Il concetto del continuum. Ritrovare il ben-essere perduto, pp. 120 Augusto Boal, L'arcobaleno del desiderio, pp. 150

La meridiana, a partire dai vissuti, dalle inquietudini, dalle marginalità un itinerario di ricerca e di condivisione possibile per tutti: dairidentità alla relazione dal potere alla nonviolenza radicale.

Cosa sia veramente la violenza e quali i processi che la rendano possibile non è chiaro a molti. Per questo è spesso difficile ridurre i suoi effetti e costruire la nonviolenza. In questo libro l'autrice prende in considerazione due sistemi. Il primo è il sistema comune, più diffuso e impiegato: quello violento. Il secondo è quello alternativo: il sistema nonviolento. Pat Patfoort sostiene che ciascuno di noi, pur facendo parte del primo sistema, agisce quotidianamente nel secondo. Il lettore è aiutato a capire che gli aspetti negativi della società sono direttamente legati ad alcuni suoi comportamenti, modificando i quali è possibile avviare profondi processi di cambiamento. Il passaggio da un sistema all'altro richiede tempo. Essenziale è porre alla base del processo di cambiamento chiarezza di propositi e di valori. Pat Patfoort è antropoioga e dottore in biologia umana. Il suo primo libro.

Introduzione alla nonviolenza, è stato ben accolto non solo in patria ma anche all'estero. I numerosi cçntatti con le associazioni gandhiane fondate da Lanza Del Vasto, le diverse relazioni con i Quaccheri, la sua esperienza di madre e la lunga permanenza nell'Africa Occidentale l'hanno aiutata nello sviluppo della sua ricerca sulla nonviolenza.

In copertina disegno di Silvio Boselli.