Cos'è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza 9788885716520, 9788855290104

Le società contemporanee sono segnate dall'avvento dell'individualismo. Conoscono ormai solo realtà individual

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Cos'è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza
 9788885716520, 9788855290104

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Pierre Gisel

Che cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza

Passages

Collana diretta da: Umberto Curi e Carmelo Meazza

Passages | 10

Pierre Gisel Cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza Traduzione dal francese di Gabriele Pagano

Titolo originale Qu’est-ce qu’une tradition? Ce dont elle répond, son usage, sa pertinence © 2017, Hermann, Parigi.

© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 10 - gennaio 2019 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716520 ISBN – E-book: 9788855290104 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Buddhist stupa in the city Shangri-La in China. City called the gate to the Tibet often visited by tourists. © Rafal Cichawa – stock.adobe.com

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Introduzione Orizzonte sociale e questioni in gioco

Il presente saggio1 prende forma a partire dal sentimento di un’urgenza, anche se la problematica in questione si inscrive nella lunga durata. E tale urgenza è sociale. Intraprendiamo una riflessione su ciò che è una tradizione, su ciò di cui essa risponde, come e con quali effetti. Sulla sua pertinenza sociale e dunque sulle condizioni o limiti e gli usi di una tale pertinenza. Si trova qui convocato un doppio interrogativo: circa la distinzione e circa l’interazione. Un interrogativo che riguarda, innanzitutto, il religioso contemporaneo, in quanto il religioso, nella nostra storia, ha portato con sé una tradizione e lo ha fatto in modo centrale. L’interrogativo riguarda, inoltre, la società di oggi, una modernità cosiddetta tardiva, post-moderna o ultra-moderna. Le tradizioni si trovano in realtà sotto scacco, o in avaria. Le appartenenze non sono più pregnanti, i modelli sono saltati per aria, la trasmissione non si realizza più. Un tale fenomeno colpisce tutte le istituzioni – le Chiese, lo Stato, la scuola o l’università (di cui occorre ogni volta ridefinire lo statu1  I riferimenti saranno indicati in maniera completa alla loro prima occorrenza, in maniera abbreviata in seguito.

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to, la funzione o la missione, rispetto ad ogni ripiego sulla pura governance) – e, più in generale, lo spazio stesso della cultura e del civile, in cui si inscrivono le istituzioni intermediarie (tra lo Stato e l’individuo), come le diverse associazioni, i partiti o gli altri movimenti. È dunque in gioco proprio ciò che alcuni sociologi chiamano istituzione del senso. Il rimando a una tradizione non gode oggi di buona stampa. Si vede in questo una certa paura del cambiamento, una dipendenza eccessiva dal passato, un orizzonte limitato e, in fondo, l’arbitrio di una provenienza e di un radicamento, insomma: una limitazione, o una chiusura. Al richiamo a una tradizione, si preferisce oggi la valorizzazione di una singolarità inventiva a partire da uno sfondo felicemente plurale. Ci si focalizza su emergenze ogni volta nuove e si opta per rotture dell’eredità che aprono a una ridistribuzione delle carte. In fin dei conti prevale l’evento, foss’anche effimero, con tutta l’eccezione che esso può condensare rispetto al corso normale delle cose. A ciò si aggiunge che si respira un’aria di nomadismo. Convalidare le tradizioni può, d’altro canto, condurre a dei puri comunitarismi, giustapposti, e dare luogo a delle identità investite ideologicamente, se non addirittura «mortifere»2. Il richiamo a una tradizione era già contestato, se non addirittura ricusato, nel cuore della modernità più classica dell’Illuminismo europeo. L’evento della ragione, associato all’ideale di una costruzione pacifica della città – una costruzione armoniosa poiché ragionevole – aveva screditato tutte le tradizioni come caratterizzate dal preconcetto e come fonti di errore, essendo inoltre comunque rischiose o contingenti: «Verità al di sotto

2 «Meurtrières», secondo l’espressione del romanziere franco-libanese arabo cristiano A. Maalouf, L’identità [Les identités meurtrières, 1998], tr. it. di F. Ascari, Bompiani, Milano 2005; libro nel quale l’autore sostiene il concetto di un’identità complessa e attraversata da molteplici appartenenze.

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dei Pirenei, errore al di là», diceva già Pascal nel XVII secolo. Montaigne l’aveva anticipato un secolo prima: «Quale verità è mai quella che delimitano queste montagne, e che è menzogna per la gente che sta al di là di esse?». Senza contare poi le guerre di religione – al tempo tra cattolici e protestanti – che si sono svolte non senza conseguenze e stanno sullo sfondo dell’Illuminismo europeo e della sua ricerca di una religione «naturale». Il presente saggio3 non intende affatto proporsi come una difesa della tradizione per la tradizione, con un atteggiamento militante. Tanto più che, della tradizione, si possono fare, per l’appunto, diversi usi. Addirittura, per cominciare – ma ciò è collegato –, vi sono diversi modi di considerare i fatti e la realtà. Analogamente, il richiamo alla novità può essere utilizzato in modi diversi, come diverse sono le maniere di considerarla, di metterla in opera e anche di pensarla. Ciò che mi propongo è di istruire un’interrogazione articolata circa ciò che oggi costituisce e attraversa la società. Quello che accade alle tradizioni sarà visto come il sintomo di dati più vasti, sia quando si tratta di scacco o di avaria, sia quando si tratta dei tentativi di ricorrere ad esse in modo spesso reattivo. Per quanto il contemporaneo sia effettivamente segnato dalla rottura della tradizione, da una individualizzazione e da una varietà di emergenze di vita, così come da una concomitante riduzione del sociale a dei puri funzionamenti tecnicizzati a e al solo libero mercato neo-liberale – che accompagnano dei

3  Riprendo qui il proposito espresso in un intervento tenuto durante la fondazione della Società francofona di filosofia della religione, all’Università di Strasburgo nel settembre 2013, «Du recours à la tradition: selon quelle nécessité et pour quel usage?», pubblicato in Ph. Capelle-Dumont - Y. Courtel (a cura di), Religion et Liberté, Presses universitaires de Strasbourg, Strasburgo 2014, pp. 151-167. Dopo averlo ascoltato, Danielle Cohen-Levinas mi propose di farne l’oggetto di un libro, cosa della quale la ringrazio vivamente.

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semplici giochi di posizionamento –, esso è anche la vittima di riaffermazioni identitarie che si richiamano per l’appunto alla tradizione. E ciò secondo una posizione precisa, da circoscrivere e da interrogare, e secondo un uso specifico, da discernere. Occorre inoltre riflettere su una visione che è inedita sotto molti punti di vista, per quanto si pretenda il contrario. Al di là dei diversi motivi utilizzati in favore di un rifiuto della tradizione, che abbiamo indicato, e al di là delle (ri-)affermazioni che allo stesso tempo possiamo constatare, è opportuno ritornare su ciò che è una tradizione. Da dove nasce e perché? Di cosa risponde? Con quale realtà umana e sociale è alle prese? Il presente saggio si propone così di dire ciò che costituisce una tradizione, o di cosa essa è costituita, e ciò che una tradizione produce, o i suoi effetti. Esso si propone anche – questo è l’altro aspetto dell’indagine – di dire la possibile pertinenza delle tradizioni secolari, secondo delle condizioni e uno statuto da precisare, pur nella consapevolezza che le tradizioni sono luoghi di conflitti, nel migliore dei casi di controversie, nel loro stesso darsi e per il fatto che, essendo sempre singolari, esse sono allo stesso tempo plurali. Nell’orizzonte del lavoro intrapreso, delle problematiche proposte e delle prospettive aperte, troviamo dunque fondamentalmente la società pubblica, secolare, ad altezza d’uomo e come società di tutti. Una situazione sociale anch’essa attraversata da forze e processi differenti e da redistribuzioni che si propongono a partire da nuove circoscrizioni. Al contrario di un semplice processo istruito nei confronti delle tradizioni, o di una mera riaffermazione di identità, con le quali tale processo fa coppia, il presente saggio invita deliberatamente a un lavoro di «decostruzione», per mostrare ciò che lavora nel cuore di una tradizione (ciò che la «lavora»). Una «decostruzione» che certo si legherà con una propensione interna che consiste nell’investire ogni tradizione nelle proprie affer-

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mazioni e nei suoi dati autoriferiti, e in tal modo nel confiscarla. Una «decostruzione» che, improvvisamente, restituirà tutta la tradizione alla storia, al suo ambito di realtà e di ragione, così come al suo campo di possibilità – così come a un ordine di scrittura e di figure –, e che permetterà allo stesso tempo di mostrare e valutare ciò di cui una tradizione risponde, anche attraverso le sue cristallizzazioni. Una tradizione può essere religiosa. Ed è così che essa si dà o che soprattutto di fatto si è data nella modernità. Ed è per questo che essa fu contestata. Gli esempi e l’ambito di lavoro del presente saggio saranno così definiti. Certo, una tradizione può essere più vasta. Si parla di tradizioni regionali, culinarie, artigianali o di altri modi di fare, o di tradizioni cristallizzate nel legame a un gruppo specifico avente statuto variabile o stabile. Sarà necessario precisare ciò che deriva dal «costume» e ciò che si dà, si riconosce e si afferma più chiaramente come tradizione dotata di riferimenti monumentalizzati e di regolazione propria, anche se si possono avere alcuni elementi di analogia, parziali, tra le une e le altre. Una tradizione inoltre può o ha potuto essere nazionale, evidentemente, ma allora si ha a che fare con un fenomeno di secolarizzazione-trasferita a partire da una forma religiosa data, e integrante almeno una parte dei sogni e della funzione di quest’ultima. Infine, lo abbiamo intuito, nel cuore di ciò che costituisce una tradizione, delle sue rotture e delle sue ricomposizioni, sono in gioco delle identità, con tutti i processi che le attraversano, con un certo rapporto con il tempo e con lo spazio, e dunque con un’abitazione del mondo, un orientamento, e persino un radicamento. È in gioco anche ciò che, dell’umano, si scrive, si mette in scena e ha potuto cristallizzarsi nella memoria. Tutto ciò nell’articolazione con l’evento, sia in termini di momento inaugurale, addirittura fondativo – con i racconti e i riti che lo riprendono –, sia nei termini di un sorgere, che fa sempre di

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nuovo irruzione ravvivando o contestando una tradizione – almeno portando dissidenza – o ancora cristallizzandone la promessa, compiendola e realizzando ciò a cui mira; oppure, con uno scarto più netto, sostituendosi a una tradizione autorizzata o pregnante. Con la questione della tradizione è in gioco dunque un rapporto con il passato, compresa la ricerca di un’origine, e un’apertura all’avvenire, inclusa la pulsione verso l’utopia. Ma anche un investimento del presente, che la accoglie e le dà forma e corpo, e che la lega alla scena del mondo, alle prese con ciò che ne emerge in termini di sfide e di stimoli. Con questi diversi punti, i percorsi e le proposizioni che seguono sperano di spostare i termini usuali del dibattito e i riflessi spontanei tanto in materia di religione quanto di società4. A ciò si aggiunge che una tradizione sembra spesso sfuggire alle coordinate dello spazio di discussione e di regolazione, intellettuali e sociali, a vantaggio di un ripiego su dei fatti talvolta isolati, separati dalle strutture e dalle dinamiche che li comportano, o sulla descrizione di funzionamenti dei quali, in modo cosciente o meno, viene neutralizzato lo sfondo da cui emergono. Tutto questo sarà ugualmente oggetto del nostro lavoro.

4  Ci si propone di lavorare sul sociale e sul religioso a partire dalla loro interazione, ritenendo che una tale scommessa possa rivelarsi fruttuosa, e con la consapevolezza che ciò presuppone un ripensamento di entrambi i termini in causa.

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I Che cos’è una tradizione?

1. Una costruzione Diciamolo subito e in modo chiaro: una tradizione è una costruzione. Si elabora in una situazione «secondaria»: viene dopo degli avvenimenti, ai quali si riferisce e che mette in scena, può anche «inventarli» e così «inventarsi»1 insieme con essi. Può anche rinviare a un al di qua della storia, al mitologico, con le sue forme paradigmatiche o archetipe sovrastanti, nonostante queste forme siano di fatto sempre determinate e storicamente strutturate, e nonostante lo siano ogni volta in modo singolare. Anche in questo caso sarà necessario fare delle distinzioni, per quanto vi sia porosità, anzi proprio per questo. Una tradizione vive di una memoria fatta di momenti forti messi in evidenza, che valgono come momenti istituenti, riferimenti fondatori o affermazioni autorizzanti. Nel linguaggio nietzscheano si può parlare di «monumentale». Il gioco tra una memoria e le riprese storiche è in questo caso un dato inaggirabile, con un ventaglio più o meno grande di spostamenti e 1 Cfr. E.J. Hobsbawm, Introduzione: Come si inventa una tradizione, in E.J. Hobsbawm - T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1994, pp. 3-17.

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di riprese, così come lo è la regolazione, esplicita o meno, di diverse forme, istituzionali, narrative, rituali, e dunque, in particolare, commemorative. Ci si dà una narrazione, una «grande narrazione» direbbe Jean-François Lyotard, o delle più piccole narrazioni, nelle quali sono comprese, individualmente, delle «narrazioni di vita» o delle «narrazioni di sé» (Judith Butler), e dunque «identità narrative» (Paul Ricœur). In quanto costruzione e in quanto rinvio a una memoria che essa pone a distanza e che allo stesso tempo si cristallizza nel cuore del presente, una tradizione risponde al puro scorrere del tempo e alla molteplicità di ciò che accadde. Una tradizione seleziona e mette in prospettiva, e si tratta di una prospettiva singolare, della quale essa risponde, che assume e fa propria. Di fatto, ma anche esplicitamente e deliberatamente, e sempre più spesso, se non sempre, secondo gradi variabili e forme differenti. Concretamente, una tradizione si stabilisce come la costruzione di una continuità al di là delle discontinuità effettive. Una continuità instaurata, fittizia, ma operante. Che reagisce, giustamente, cristallizzandosi di fronte alle sfide del tempo e, allo stesso tempo, ma ci ritorneremo, di fronte all’alterità.

1.1. Una prima illustrazione, l’ebraismo A titolo di esempio, e per cominciare, prendiamo il caso dell’ebraismo, come prima spiegazione del processo che crea una tradizione e di ciò che ad essa è legato2. Sottolineiamo, innanzitutto, che la tradizione ebraica, come ciò che attraversa i secoli a partire dai primi tempi dell’era 2  I fatti storici sono ricchi e complessi. Ci assumiamo il rischio di tracciare un disegno articolato, al fine di ricavarne degli insegnamenti che riguardano ciò che costituisce una tradizione e ne attraversa le sfumature.

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presente, è testo-centrata: legata a un testo – il che non vale per tutte le tradizioni –; è legata a un testo che essa riceve e che legge secondo procedure proprie, specifiche, che fanno di tale tradizione proprio ciò che è. Si delinea in questo caso un dispositivo che è allo stesso tempo istruttivo in materia di tradizione e che si struttura in modo specifico. È assolutamente significativo che il primo insieme di testi che costituiscono la Bibbia ebraica – il testo di riferimento di ciò che poi diventerà l’ebraismo, e quindi ciò che sovrasta – siano prodotti a partire da un esilio, in Babilonia, e che essi riscrivono, in funzione di questa situazione, una storia anteriore: l’epopea della nazione di Davide (i libri «storici» dell’Antico Testamento, come li chiama la tradizione cristiana, o i libri dei «Profeti anteriori», come dirà l’ebraismo), un’epopea peraltro spostata rispetto all’origine, fuori dalla regalità e fuori dal suolo nazionale, rappresentati dal Sinai e dalla Torah mosaica3. In secondo luogo, nella misura in cui ne conosciamo lo sviluppo parallelo al cristianesimo – l’ebraismo rabbinico passa fondamentalmente per il Talmud –, sappiamo quanto l’ebraismo sia una costruzione propria che dà forma al lignaggio di una organizzazione tra le altre, più prossima a quella dei farisei, che dà maggiore importanza alla Torah e alla Sinagoga, che a quella dei Sadducei, per esempio, devota al sacrificio e al Tempio, o, ancora, a quella del Qumran o degli Esseni, più al margine e spesso messianica. Analogamente, vi si prolunga una forma cristallizzata tra le altre, che viene dalla Palestina, passando per la Babilonia, (il Talmud di riferimento vi è legato), piuttosto che

3  Rispetto ai fatti storici relativi alla costruzione del canone della Bibbia ebraica (il Tanak per la tradizione ebraica), che i cristiani chiamano l’Antico Testamento, cfr. A. de Pury, Il canone dell’Antico Testamento, in T. Römer J.-D. Macchi - C. Nihan (a cura di), Guida di lettura dell’Antico Testamento (2004), tr. it. di R. Fabbri e R. Pusceddu, EDB, Bologna 2007.

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per esempio da Alessandria, dove vivevano, al tempo di Gesù, è il caso di ricordarlo, più Ebrei che a Gerusalemme. È opportuno rilevare che Alessandria è il luogo in cui è in atto, con la cultura ellenistica, un processo avanzato di erudizione (si pensi ai metodi allegorici e alla figura di Filone) da cui, rispetto all’«origine» ebraica, deriverà il cristianesimo. Si tratta di una provenienza di fatto, in termini di realtà storica costituita, in contrapposizione a un’altra memoria cristiana che si riterrà invece – oggi è proprio questo il caso – erede di Gerusalemme, arrivando in certi casi persino a parlare di «canone tripartito» del suo Antico Testamento (Torah, Profeti, Scritti), mentre questa tripartizione è quella della Bibbia dell’ebraismo rabbinico e non quella del canone di Alessandria, anch’essa ebraica, almeno all’inizio, anche se sarà in seguito cristiana (la traduzione della Bibbia ebraica in greco, la versione dei Settanta, cominciò tre secoli prima dell’era in questione, e di fatto questa versione è ancora alla base del cristianesimo4). Ad Alessandria, l’organizzazione interna dell’insieme dei testi di riferimento è tutto sommato significativamente diversa da quella del canone tripartito (sottolineiamo che un canone testuale non condurrà solamente alla questione della frontiera circoscrivente i testi ritenuti e rinvianti allo statuto di apocrifi, ma anche a quella disposizione dei testi nel corpo finale): non si tratta di una successione di incastri differenti a partire da un’origine in cui si trova il profeta Mosè (Torah, Profeti, Scritti, a cui si aggiunge il Talmud, a sua volta composto da Mishnah e Ghemara oltre che, in seguito, da Rashi, e altri ancora), ma della disposizione di una storia, e di una storia dispiegata tra un a monte, in posizione sfalsata,

4  Va notato che la versione dei Settanta si costituisce come la riproduzione di un testo secondo un’assunzione in unità (tradizionalmente diciamo che i settanta traducono ciascuno isolatamente il tutto e arrivano al medesimo risultato), e presenta una disposizione diversa rispetto alle versioni dei targumim o al midrash.

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costituito da una Torah «originaria», il Pentateuco, o i cinque «Libri di Mosè», e un a valle, anch’esso in posizione sfalsata, costituito dai Profeti che aprono all’«escatologia» (nel cristianesimo Mosè non è un profeta5 ma è legato alla legge, una legge che è in tensione costitutiva e irriducibile con un momento specificatamente «profetico», uno spazio di storia propriamente umana che si dispone improvvisamente tra questi due poli)6. Rispetto al testo di riferimento, in questo caso la Bibbia ­ebraica, aggiungiamo che il suo canone – ciò che ne delimita il corpus, così come il riconoscimento della sua stessa autorità – è oggetto di decisioni diverse e dunque argomento di dibattito. Inoltre vi sono diverse questioni e diverse letture del testo, e le sue frontiere non sono in effetti le stesse ovunque. Il canone di Alessandria è più vasto rispetto a quello che sarà l’ebraismo rabbinico (esso contiene quelli che la tradizione cristiana che lo riprende chiamerà libri «deuterocanonici»), mentre il canone dei Samaritani è al contrario più ristretto, e riconosce soltanto la Torah e il Pentateuco (i Samaritani cristallizzano una tradizione più antica, di molti secoli), così come si avrà più tardi, nella Babilonia del VIII secolo, il canone del Caraismo, anch’esso ridotto, senza i Profeti e gli Scritti. Si comprende che la costituzione di un testo di riferimento e la costituzione di un gruppo sono due cose che vanno di pari passo, e che certamente, nel rinvio a tale riferimento costitutivo piuttosto che a tal altro, si lega e si afferma l’identità, sia per se stessa, nel suo interno, sia nella distinzione da altri, rispetto 5  Lo è nell’ebraismo e anche nell’islam (in questo caso accanto a Noè, ­Abramo, Gesù e Maometto). 6  Secondo un confronto distintivo, notiamo che la considerazione di una storia dispiegata, e spostata, tanto rispetto all’origine quanto rispetto all’esca­ tologia, non è quella di cui vive l’islam, che conosce piuttosto un aspetto sovrastante di una Parola sempre «ricordata», che sta all’origine della maniera richiesta di «guidare» la propria vita.

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all’esterno. Tutto ciò si dispone e si articola col mettere in primo piano dei riferimenti che saranno sanciti attraverso un’istituzione di tipo giuridico, sia che si tratti della cristallizzazione progressiva di una simbologia storica effettiva, sia che essa sia legata a una pratica rituale, o altro ancora. La tradizione che costituisce l’ebraismo è, in terzo luogo e infine, attraversata da discontinuità, alle quali essa ha dovuto storicamente far fronte, e da pluralità, a partire dal modo in cui essa si lega al tempo e dal modo in cui risponde di ciò che è, una risposta che si dà a partire dalle sfide e dai conflitti. L’esilio del VI secolo prima dell’era corrente segna una discontinuità (e l’epopea nazionale anteriore, di Davide, aveva di già posto una discontinuità di origine più antica), la distruzione del Tempio nel ’70 ad opera di Tito e la condizione di diaspora segnano una novità, mediante differenti figure, allo stesso modo quella che nasce con l’uscita dal ghetto in seguito all’Illuminismo europeo. Ogni volta, la tradizione – dunque ciò che l’ebraismo è – si ricostituisce o si ricompone, si ripensa e si inventa dei volti nuovi. Volti che saranno riconosciuti come ebraici e che tessono lo sfondo sul quale ci si ritrova, anche se sono il risultato di diverse strategie di adattamento spesso inconsapevoli o quanto meno non tematizzate in quanto tali, e che sono fatte di spostamenti e di riprese, di novità e di ri­affermazioni. Senza contare che questi volti si saranno allo ­stesso tempo legati a nuovi prestiti, ibridazioni, acculturamenti. A titolo di illustrazione di queste diversità, possiamo citare, nel cuore del Medioevo, Maimonide e la cabala. Due momenti di cristallizzazione vera e propria, l’uno ancorato alla filosofia e vicino all’islam dell’Andalusia, l’altro a un fondo mistico costituito da eredità diverse. Due momenti di riferimento – che restano in tensione, se non in opposizione – ai quali si articolano inoltre storie e ricezioni proprie, ed in particolare quella di un ristabilimento finale o escatologico della legge e quella del suo sovvertimento messianico, che possono arrivare fino

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al sabbatismo – un Messia che passa all’islam – ritenuto certo eretico e tuttavia significativo (non foss’altro per il modo in cui ci si spiega tale evento, tradimento o destino necessario e sancito come un «più»), come lo sono tutte le eresie per tutte le tradizioni rispetto alle quali escono dai margini. Possiamo evocare come altro esempio, questa volta nella modernità, il ventaglio che, a partire dal XIX secolo e successivo all’uscita dal ghetto, va da un’invenzione dell’ortodossia alla creazione di un ebraismo riformato, alla soluzione sionista, a una simbiosi ebraico-tedesca o al suo avatar critico segnato dai nomi di Rosenzweig, Scholem, Benjamin e altri, ognuno dei quali presenta carattere e inflessioni proprie, ma che sono tutti, a loro modo, prodotti e illustrazioni di una tradizione ebraica. A ciò possiamo aggiungere, secondo altre realtà sociali, il classicismo nato nel XVIII secolo nell’est dell’Europa, che costituisce una diversa forma di posizionamento nella nascente modernità, o il movimento contemporaneo di Loubavitch, che ne è peraltro derivato, ma che presenta oggi caratteristiche proprie.

1.2. Un secondo chiarimento, il cristianesimo Riguardo i tratti che costituiscono una tradizione – ciò con cui essa ha a che fare, ciò che la costituisce e che la attraversa – il cristianesimo conferma, secondo una disposizione certamente differente, ciò che noi abbiamo cominciato a rilevare a proposito dell’ebraismo. Notiamo innanzitutto che, come insieme organizzato, distinto dall’ebraismo e costituito da regolazioni proprie, il cristianesimo è storicamente il prodotto della tardo-antichità: esso vive di coordinate culturali e di problematiche dei primi secoli, non ­direttamente della Bibbia alla quale andrà in seguito giustamente a riferirsi, come memoria (il suo Nuovo Testamento si costituisce durante questi secoli, attraverso un rapporto decisivo con la scrittura ebraica, la cui lettura diverge da quella che

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in parallelo l’ebraismo sta cristallizzando), ed è contemporaneo della gnosi e del neoplatonismo, movimenti diversi rispetto ai quali sarà di volta in volta «concorrente e complice»7. In profondità, dobbiamo dire che il cristianesimo si costituisce come una risposta della tardo-antichità a fatti e a problemi della tardo-antichità, una delle risposte possibili, certo, ma data a partire da una disposizione comune, costituita da un orizzonte universale o cosmico e dall’individualizzazione spiritualizzante che portava al relegamento degli antichi culti, civici e familiari (quelli che regolarizzavano l’appartenenza). Il cristianesimo che si va costituendo si colloca inoltre in parallelo e in prossimità con lo stoicismo, altra risposta del tempo alla perdita di plausibilità da parte di culture ereditate, anch’esse focalizzate sull’individuo e sul suo orizzonte cosmologico (quello di un «destino»), ma in questo caso riferito più alla ricerca della saggezza che della salvezza, legato a ciò che supera l’umano e ad esso s’impone. Prodotto di questo momento, di cui cristallizza dei dati propri, il cristianesimo si costituisce allo stesso tempo come tradizione, che si vuole e che si pensa come ripresa di una eredità anteriore, non dunque come una pura novità che viene da un Dio esterno al mondo con una consistenza sua propria (il rifiuto della proposta di Marcione, all’incirca nel 135, è decisiva, senza che per questo risulti soppresso il gioco complesso, dialettico, tra l’antico e il nuovo8, un gioco interno al cristianesimo, ma 7  Devo l’espressione a uno storico del cristianesimo antico: Éric Junod. 8  Mi sono già espresso a proposito del marcionismo, nel legame con Adolf Harnack, in questo caso esemplare di un momento moderno del cristianesimo, di un profilo liberale esacerbato, nel capitolo VI di Du religieux, du théologique et du social. Traversées et déplacement, Cerf, Parigi 2012 e, in maniera più ampia, in Antijudaïsme dans le christianisme. Une récurrence inavouée de marcionisme: qu’en penser et qu’en faire?, in D. Cohen-Levinas - A. Guggenheim (a cura di), L’antijudaïsme à l’épreuve de la philosophie et de la théologie, Seuil, Parigi 2016, pp. 191-208.

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che lavora sotto diversi punti di vista tutta la tradizione), e neppure come un semplice approfondimento dei misteri eterni del cosmo. Ripresa di una eredità antica, dunque, per quanto dislocata e rielaborata. Ma anche costituzione di una memoria a distanza: una Scrittura, chiusa come ogni scrittura, per quanto essa debba sempre e di nuovo essere ricevuta, e per quanto il gesto che essa condensa deve ogni volta esser fondamentalmente ripreso, nella sua eco, ma certamente a distanza, o nel suo spostamento. Aggiungiamo che questa Scrittura, che la tradizione cristiana si dà come termine di un confronto, come esteriorità, è doppia: fatta di un Antico Testamento e di un Nuovo Testamento non unificati in un unico testo, ma proposti come scena di un intrigo che si delinea attraverso un gioco di spostamenti, di novità e di riprese. Inoltre, quanto è inscritto nel cuore del suo Nuovo ­Testamento, e che si trova ad essere riletto a partire dall’insieme delle Scritture, è fondamentalmente un gesto di instaurazione, singolare e fondato su una origine aperta e polemica, in questo caso nei confronti di una legge e del suo uso. Ciò è sottolineato dal fatto che la figura centrale intorno alla quale si annoda e si «rivela» l’enigma in questione è messa in atto secondo una modalità secondaria e plurale: questa figura non si impone affatto in prima persona, ma viene detta solo in seconda istanza e «secondo» altri, includendo dunque ricezioni e posizioni proprie, che sono infatti raccontate «secondo» Matteo, Marco, Luca o Giovanni, dove ogni costruzione e prospettiva è ben differente. Questo punto si troverà sancito nella dottrina: non vi è qui né l’immediatezza di una Parola profetica né la circoscrizione di un fondatore, bensì la messa in primo piano di una drammatica presente e nascosta, la cui figura principale, Gesù, non è chiamato «Messia» (o «Cristo», vale a dire il suo immediato equivalente greco, essendo christos il participio passato del verbo ungere) se non «nello Spirito», ossia sulla base di un incognito e di una sovversione della matrice simbolica messa

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in gioco (un Messia non trionfante in questo mondo, ma anzi sotto scacco sul piano politico e religioso). Costituito nel cuore e del cuore della tardo-antichità, e nello stesso tempo legato in quanto tradizione a distanza da una memoria spostata che cristallizza un gesto d’instaurazione da riprendere, il cristianesimo è attraversato, in secondo luogo, allo stesso modo dell’ebraismo, da una storia segnata da discontinuità, in cui non cessa di riemergere diverso e sempre rinnovato. Così come il cristianesimo antico non nasce in diretta continuità con ciò che lo precede e a cui risponde, neppure il cristianesimo del Medioevo si dà in continuità con il suo passato: esso, per esempio, nel XII e nel XIII secolo, integra Aristotele più di quanto avesse fatto in precedenza, sancisce una «autonomia delle cause seconde» e, in tutto questo, si articola secondo una idea di positività del mondo e secondo la metafisica che ad essa corrisponde, senza considerare l’avanzamento della Chiesa nel cuore del corpo istituzionale, e della teologia, che ha ormai forma e statuto di disciplina propria, nell’università. L’inizio dei tempi moderni è anch’esso istruttivo per il fatto che segna un cambiamento particolarmente netto, reperibile nella teologia cristiana, sul piano del suo statuto (la teologia si articola ormai secondo un «sistema di credenze» e non più secondo una mistagogia inscritta in simboli spirituali caratterizzanti un’abitazione del cosmo), come sul piano dei suoi enunciati dottrinali e della loro sistematicità. Inoltre la Chiesa, pensata come società (si inizia a chiamarla «società perfetta», motivo sconosciuto prima di allora), viene a situarsi in testa all’esposizione delle dottrine (o alla Bibbia, presso i protestanti), per occupare il luogo legittimante e fondativo di un dato spazio, allorché nel Medioevo essa poteva venire solo dopo il dispiegamento di una visione globale del mondo, dell’umano e di Dio, a titolo, specificato, di una «via» per la messa in opera dei processi indicati nella visione d’insieme proposta (così è

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in Tommaso D’Aquino, nella Summa theologiae9). Ciò che vi è qui di istruttivo in termini di modificazione dei dispositivi appare rinforzato mediante la dualità protestante e cattolica. Si tratta in effetti di risposte differenti, l’una e l’altra nuove nel complesso, ma che nascono ciascuna in risposta al fatto che ciò che prima funzionava socio-culturalmente non funziona più, ed esse dunque si cristallizzano rispondendo delle questioni del tempo e facendosene carico: ciascuna risponde a e di queste, ed entrambe rispondono in modo diverso. Storicamente il cristianesimo s’inscrive dunque all’interno di forti discontinuità effettive, il più delle volte non percepite o almeno sottostimate da parte dei credenti: si tratta certamente, in questo caso, dell’effetto della sua costituzione in tradizione. Si aggiungono, come nel caso dell’ebraismo, delle differenze interne, ogni volta contemporanee. Per esempio, al di là di ciò che si cristallizza secondo confessioni differenti che possono dar origine una tradizione (bizantina o ortodossa, cattolica romana, protestante o altre), si può evocare lo scarto tra la figura di San Francesco d’Assisi e dell’Inquisizione, tra la mistica del XVI-XVII secolo studiata da Michel de Certeau e il sapere-potere del Papato, tra il liberalismo o gli altri modernismi e le forme di contro-cultura dell’evangelismo contemporaneo o ancora degli integralismi e di altre tentazioni di ripiego, tra la teologia della liberazione latino-americana e le sanzioni date ai poteri e agli ordini ingiusti. Anche in questi casi, così come è vissuta dai credenti, la tradizione attenua, parlando in particolare di derive o di infedeltà, ciò che, implicitamente o esplicitamente, assume e preserva un’unità ideale o un’unità di principi, spesso imputata a un’«origine» anch’essa ricostruita, proprio come la tradizione che si porta avanti. La riflessione sulla diversità effettiva e su ciò che in essa si mostra si ritrova ridotta – la di9  Per un approfondimento, con riferimenti testuali, cfr. il mio La théologie, PUF, Parigi 2007, pp. 21 ss.

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versità sarà considerata come derivante dall’accidentale o dal tradimento –, così come si trova di colpo ridotta la riflessione riguardante ciascuno dei termini in gioco e opposti, sia i termini rifiutati (e ciò che concerne la loro pertinenza, almeno per gli aspetti istruttivi) così come i termini convalidati (e ciò che concerne i loro limiti, la loro forza, ma anche i loro rischi). Aggiungiamo che la tradizione religiosa qui considerata è stata attraversata da diversi movimenti di riforma, mostrando un ventaglio che può andare dai liberalismi adattivi ai ritorni all’origine – ritorni che possono essere oggi dei fondamentalismi, ma che sono o furono spesso altri – con le loro ambivalenze, tutte le riforme presentavano degli aspetti di novità e degli aspetti arcaici intrecciati al resto. Nel cristianesimo, lo possiamo mostrare a proposito della riforma protestante del XVI secolo, o di già a proposito degli ordini mendicanti medievali o di Gioacchino da Fiore nel XII e inizio del XIII secolo, o ancora a proposito del giansenismo nel cuore della prima modernità, o ancora dell’aggiornamento del Vaticano II negli anni ’60 del XX secolo. Ritroveremo comunque su questi punti dei paralleli, segnalati qui a titolo di semplici esempi possibili, nel marxismo e nella sua tradizione; analogamente, l’Illuminismo europeo presenta anch’esso un ventaglio di posizioni che si dispongono tra l’affermazione di un futuro sviluppo positivo e il sogno di un’epoca d’oro antica, spesso intrecciati fra di loro. Questo fenomeno delle riforme sempre rinnovato, in principio valido, mi sembra confermare ciò che ne è di una tradizione, ciò che la sostiene e ciò che la costituisce: un gioco innovativo e indissolubilmente intrecciato alla linea del tempo, o che la presuppone. Il fatto è che attraverso il dispiegamento del tempo sono date una necessità e una possibilità di superamento (la tradizione è allora risposta al tempo che passa, risposta per dire altro rispetto alla perdita, essendo interamente costituita dalla temporalità stessa come luogo in cui si consolida la risposta), e che, inoltre, è all’opera una costituzione, che si realizza

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attraverso un momento determinato, non scelto, ma tuttavia da prendere in carico e da attraversare (la tradizione è allora non solamente la ripetizione di un gesto, ma si realizza come la ripresa di un dato reale, ed è dunque, ogni volta, fondamentalmente incarnata). In rapporto alla nostra tematica, il cristianesimo è infine il luogo, nell’epoca moderna e nella sua vena latina – non b ­ izantina o ortodossa – di una vertenza confessionale significativa e complessivamente istruttiva. Si profilano così, in opposizione e tipologizzate, due posizioni, una detta cattolica e l’altra protestante. La figura cattolica sottolinea il valore e la realtà incontestabile di una tradizione, sancendola in modo abbastanza netto nella dottrina, ma correndo così il rischio di dissolvere il rapporto o l’esteriorità rappresentati da una memoria a distanza, cristallizzata in una Scrittura, chiusa10, una Scrittura che la tradizione riprende a suo modo, ma di cui essa non è né lo stretto e lineare prolungamento, né semplicemente la piena realizzazione, foss’anche progressiva. Da questo canto, si è in presenza di una sanzione data al fatto stesso della tradizione, ma si trova

10  Abbiamo dunque a che fare con un fenomeno che, nella sua disposizione specifica – aprendo la questione circa le «fonti» che possono avere statuto «documentario» –, è legato alla modernità: si accompagna a un gioco critico, secondo un determinato regime da interrogare, dato che un gioco critico è sempre presente (cfr. G. Lenclud, Qu’est-ce que ce la tradition?, in M. Detienne [a cura di], Transcrire les Mythologies. Tradition, écriture, historicité, A. Michel, Parigi 1994, pp. 25-44, e in particolare le pp. 42-44); allo stesso modo la presenza possibile (non sempre e non dappertutto) delle scritture è ntecedente, ma lo statuto e l’uso sono certamente da esplorare e da differenziare. Sulla novità chiamata in causa, che impone una interrogazione sull’origine come qualcosa di documentabile e destituente quanto è stato precedentemente inteso come tradizione, cfr. la tesi di E. Ortigues, Historie et parole de Dieu. Essai sur les rapports entre exégèse et théologie, 1948 (a tal proposito, cfr. Edmond Ortigues. Théologie, philosophie et science sociales. Un singulier parcours. Historie et Parole de Dieu. Le théologique et son au-­ dela, «Archives de sciences sociales des religion», n. 173, gen.-mar. 2016).

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smussato, se non addirittura mascherato o negato, quel gioco di discontinuità e riprese innovatrici che mi sono sforzato di sottolineare. Al contrario, la posizione protestante tende a rifiutare la tradizione e il suo dispiegamento storico proprio, a vantaggio di un’origine istituente – in questo caso la Scrittura – mentre di fatto, in tali materie vi è sempre umanamente tradizione, foss’anche quella di una ricezione, e non è vero – quali che siano la coscienza o la volontà impiegate – che si possa arrivare a una Scrittura antica in modo immediato e senza essere carichi di tradizioni diverse, la propria come quelle di altri, presenti nella lettura, sulla quale, almeno implicitamente, giocano un ruolo. Va aggiunto, questa volta di diritto, che la focalizzazione su un’origine si ritrova in preda ad una serie di fantasmi, come per esempio il fatto di investire questa origine del valore di verità in se stessa – o almeno come valida in se stessa, senza altro11 e senza, certo, che ci si spieghi circa ciò che può voler dire che un’origine addotta sia «vera», o perché semplicemente meriti di essere messa in primo piano e rivendicata quando ve ne sono diverse altre, in rapporto a diverse posizioni di esistenza e disposizioni sociali. Ho parlato di vertenze istruttive. Ciò è al di là del terreno confessionale e religioso in gioco. In materia umana e sociale, ogni rinvio a una tradizione è in effetti carico di un rischio di ideo­ logizzazione, unificante e massificante. Reciprocamente, tutte le posizioni pensanti possono costituire l’economia delle tradizioni sulle quali il dare spiegazione deve farsi carico di un fantasma costituito dalla novità o da un evento puro, sia che esso si trovi localizzato in un momento passato eccezionale o che si coaguli nel cuore del suo presente. L’uno come l’altro sono allora investiti in quanto tali e delineano delle trame all’in-

11  Senza il gesto – trasversale – che una tradizione comporta, quando non è ridotta a semplice positività da sancire in quanto tale.

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terno delle quali s’inscrivono e nelle quali esso può solamente essere operante.

2. Quale decostruzione? Tutta la tradizione è una costruzione, ma costruzione può anche significare decostruzione. O, in ogni caso, sfalsamento rispetto ad affermazioni di primo livello, così come sono vissute e messe in primo piano dagli attori, in questo caso dai portatori della tradizione, credenti o anche semplicemente prendenti parte. Studiando ciò che si presenta come tradizione, gli storici non confessionali hanno avuto gioco facile nel sottolineare le discontinuità che io ho evocato e nel mostrare che ciascuno dei momenti storici presenta una cristallizzazione di elementi del tempo, i quali danno ogni volta luogo a «sincretismi culturali» nutriti da apporti presi in prestito, provenienti da un luogo diverso da quello che la tradizione invocata poteva sostenere e portare. Ci siamo allora messi a parlare, accademicamente, non di cristianesimo, reputato come «essenzializzazione» destoricizzata, scollegata dai processi sociali o culturali all’opera, ma dei cristianesimi ogni volta situati, non dell’islam, ma degli islam, non del buddismo, ma dei buddismi, non dell’ebraismo ma degli ebraismi. Legato a una specializzazione crescente dei domini della ricerca, tale fenomeno fa sì che ciascuno sappia tutto su un periodo dato – sebbene in maniera molto decomposta o analitica e senza essere veramente in grado di cogliere ciò che ogni volta lo dispone e lo lavora – ma senza veduta d’insieme, senza una genealogia di lunga durata e senza comparazioni più ampie12. So12  Ci sono certamente delle eccezioni, in particolare nell’antropologia e in politologia. Tra gli storici e per quanto concerne la nostra tematica, ci rife-

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prattutto, vista la decomposizione delle traiettorie in momenti separati e ogni volta considerati per se stessi, siamo deboli per quanto riguarda la riflessione sulle oscillazioni e le risposte che essa suscita: perché gli attori non si dicono e non si pensano secondo interruzioni o, allorché si riconoscano differenti dagli attori che li hanno preceduti, perché si pensano almeno come ripresa di un momento anteriore, secondo un gioco di critiche e certo anche di spostamenti, ma comunque su uno stesso corpo, simbolico e anche più che simbolico? Detto in riferimento a un esempio citato precedentemente nel punto 1: perché i credenti si pretendono e si pensano sempre come «cristiani» all’inizio dei tempi moderni, allorché il loro cristianesimo, cattolico o protestante, non è più effettivamente quello del Medioevo? E se non si è più in grado di cogliere le oscillazioni che ci hanno preceduto, ci si ritrova ancora una volta deboli nel reperire e pensare ciò in cui siamo presi, nel presente. Ciò che conviene fare intellettualmente – e, certo, anche socialmente – di una tradizione è al cuore di un dibattito con le contemporanee scienze delle religioni o, più ­complessivamente, con le scienze sociali13. In queste materie vi è come un punto cieco. Esso concerne la questione dell’identità, l’ho segnalato all’inizio, e ho indicato che, come costruzione di una continuità

riremo con profitto a J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (1992), tr. it. di F. De Angelis, Einaudi, Torino 1997. La mia prospettiva non è molto lontana ed emerge dal saggio, ma senza lo sviluppo delle conoscenze precise e preziose di Assmann, e si fa carico del rischio di proposte in funzione del contemporaneo, il che non è propriamente l’intento di Assmann. 13  Non è un caso se tale questione è ricorrente nel volume collettivo a cura di J. Ehrenfreund e P. Gisel, Mises en scène de l’humain. Sciences des religions, philosophie, théologie, Beauchesne, Parigi 2014. Si veda in particolare il mio contributo Comment traiter d’une tradition à l’Université? Par-delà les différences et analogies entre judaïsme et christianisme. Réponse à Jacques Ehrenfreund, pp. 69-91.

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al di là delle discontinuità effettive, una tradizione è in grado di permetterla o di assicurarla. Questa è di fatto la sua funzione maggiore. Il punto cieco riguarda ugualmente la questione del simbolico che permette a un gruppo – o a un individuo – di porsi nel tempo e nello spazio, o anche al di là ma non senza legami, di richiamarsi a un passato e di immaginare un avvenire. Torneremo più avanti su tale doppia questione e su ciò che di umano vi è implicato. Per il momento, segnaliamo che accademicamente e socialmente, ciò che è una tradizione – ciò di cui essa vive e ciò che essa assicura, ciò che altresì la lavora, che è spesso misconosciuto – si trova oggi spontaneamente relegato, poiché le tradizioni furono o sono luoghi di ideologizzazioni. Da ciò deriva il loro smantellamento, innanzitutto sul piano del sapere. Dalla volontà di farle apparire come secondarie e arbitrarie, a partire da pluralità e biforcazioni – le tradizioni vivono di un momento o di momenti «canonici», o almeno di un riconoscimento condiviso, e di conseguenza non si danno, di fatto, senza elementi «apocrifi» e marginalità – e per mostrare che esse sono prese all’interno di giochi di potere, di forze e di effetti, tutte cose che, messa in primo piano, una tradizione tende giustamente a cancellare. Ma rifiutare le tradizioni conduce troppo spesso a dei semplici ripiegamenti positivisti sui «fatti storici», tanto sul piano di ciò che qui è visto esclusivamente come fatto, tanto quanto sul ­piano di ciò che intendiamo come storico. Ciò che è in tal modo messo in evidenza è certamente erudito e prezioso in termini di descrizione positiva, ma l’insieme della prospettiva proposta non è esente da rischi. Non trattare una parte di ciò che costituisce il sociale, non prenderla in considerazione, o anche negarla, rifiutarsi di farsene carico, limitandosi a separarsene, comporta che questa «si vendichi». In forma di «ritorno del rimosso». In questo caso ancorato al disorientamento, e dando luogo a pure compensazioni, senza alcuna portata in termini di

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cambiamento possibile, o a semplici riaffermazioni, talora inattese e senza pertinenza, che possono sfuggire alla regolazione. Nella sfera religiose, la critica dotta di una tradizione aveva inoltre classicamente condotto, nella modernità – e del resto, ancora oggi – all’evocazione di un’«origine» situata al di qua della tradizione, un’origine ritenuta innocente (non ne vediamo il perché…). Ciò è proprio il contrario del fatto che le costruzioni secondarie siano denunciate come contingenti e illegittime, e come troppo legate all’istituzionale. Questo è stato – ed è ancora oggi – ciò che possiamo per esempio osservare in occasione della ricerca del Gesù storico che si situa nel punto di partenza e dunque al di qua del cristianesimo successivo. O quando si evoca un islam delle origini, non confiscato al livello delle aggiunte che ne distorcerebbero o pervertirebbero l’autenticità nativa. In contropiede a questo riflesso spontaneo dei moderni, non si dovrebbe ritenere che è umanamente e socialmente significativo e istruttivo ciò che si è fatto, storicamente, di questi riferimenti? E che ciò vale più di una supposta e sedicente «origine» che, in quanto tale, non stabilisce niente? Questo è in ogni caso la posizione assunta da questo saggio: interrogarsi sulle effettività storiche, volute o meno, e sul piano di un quadro socioculturale ampiamente considerato. La «decostruzione» che sarà messa in atto non sarà dunque quella di una costruzione storica o di tale tradizione per risalire al di qua e invalidarla, ma quella di una spiegazione nel corpo a corpo con le costruzioni culturali e sociali date, per sorprendere ciò che la lavora dall’interno: le pulsioni diverse e ambivalenti che la attraversano, ciò che gli accade, come esse si dispongono e per dar forma a cosa. E dunque secondo quale «valore», direbbe Nietzsche, sostituendone la problematica a quella di una «verità», sia essa metafisica o scientifica.

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Del resto, una tradizione è di fatto ciò che ci è stato dato e ci dà il mondo così com’è, per noi, ed è spiegandoci criticamente con la genealogia da cui proviene e con ciò che arriva a noi – ma anche a lui – che potremo realmente operare dei cambiamenti e non restare presi nel fascino di ciò che, del presente, acceca. Potremo anche, così, spiegarci con ciò di cui ci vantiamo. Messi dunque a distanza, e letti in funzione di un divenire effettivamente diversificato, i riferimenti sociali e personali messi in evidenza potranno essere effettivamente lavorati, una volta separati dalla loro pura e semplice affermazione, troppo massiva.

3. Un gesto inscritto nella storia e storicizzante Una tradizione si instaura al presente, si dà un passato ed è aperta all’avvenire. Senza contare che essa si recupera sempre in modo rinnovato nel corso del tempo. Essa è dunque spostamento e sradicamento, pur assicurando orientamento e identità. La sua struttura, «connettiva» dice Assmann14, segnala un luogo di abitazione nel cuore del mondo, ponendo un legame con una singolarità, una temporalità e uno spazio, su un fondo collettivo o comunitario. Essa non cristallizza niente di meno che un uso del mondo, in cui si condensano il narrativo e il normativo, quest’ultimo anche in modo implicito. In particolare, una tradizione si instaura distinguendosi, o addirittura opponendosi. Una tradizione è dunque un gesto fondamentalmente storico: essa è costitutivamente situata, prende corpo e forma dalla condizione a partire dalla quale si cristallizza, sebbene come contro-posizione (nel contesto al quale si riferisce, Jan Assmann parla volentieri di «contro-religione»). Allo stesso tempo, una 14  J. Assmann, La memoria culturale, cit., Introduzione, pp. XII-XIV.

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tradizione è un gesto che inscrive nella storia, o che, propriamente, apre una storia. Mediante le sue realtà effettive, di cui risponde, e le simbologie offerte, nelle quali si situa.

3.1. Forza e destino di una posizione monoteista Il gesto che abbiamo evocato si lega indissolubilmente al cuore dei monoteismi. Vale a dire che questi si richiamano a un eterogeneo, tanto in rapporto alla legge e alle forze della natura, quanto in rapporto alle leggi e alle forze della città15. È la loro forza propria – il loro destino – che non è innanzitutto quella di una saggezza «cosmoteista» o di pratiche rituali che negoziano con l’ambiente, anche se i monoteismi possono, in maniera diversa e secondo gradi variabili, fare riferimento a quelle saggezze e a quelle pratiche. Ma questo è anche il loro rischio: l’eterogeneità può in effetti farsi sovrastante e rivendicare ogni cosa, o può sfociare, il che non è affatto meglio, nella protesta apocalittica, radicale. Se la loro forza è quella di rifarsi a un’eterogeneità, i monoteismi hanno potuto in effetti dar luogo, storicamente, a dei sistemi globali e saturanti, in tal senso integranti, bloccando dissidenze e nuove creazioni. Questo è ciò di cui può appropriarsi fraudolentemente l’eterogeneità. I monoteismi si fanno allora «onto-teologici» (senza problematizzare ciò che intendiamo per essere) dando corpo al «teologico-politico» (senza problematizzare nessuna delle due 15  Jan Assmann lo ha tematizzato in riferimento a ciò che chiama «distinzione mosaica»: cfr. Monothéisme en Israël et en Égypte. Relecture d’un héritage contrasté et controversé, in P. Gisel - J.-M. Tétaz (a cura di), Théories de la religion, Labor et Fides, Ginevra 2002, pp. 222-239; e in Distinzione mosaica ovvero Il prezzo del monoteismo (2003), tr. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2011. Cfr. inoltre, in un ambito teologico che valorizza la singolarità e non l’eccellenza né la supremazia, S. Breton, Unicité et monothéisme, Cerf, Parigi 1981; e G. Émery - P. Gisel (a cura di), Le christianisme est-il un monothéisme?, Labor et Fides, Ginevra 2001.

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istanze, potendo solo garantire un rapporto differenziato16). Il presente saggio è scritto anche per contrastare queste due forme significativamente all’opera, e che abbiamo ereditato. Queste non sono in effetti delle forme obbligate, e neppure quelle di un destino massivo e unilineare. Situato – inscritto nella storia, che la assume e vi si reclama, e inscrivendosi nella storia, rivendicandola – ed essendosi stabilito come «contro-distinzione», il gesto in causa riguarda l’avventura di un soggetto alle prese con il reale che, in tutti i sensi del termine, lo provoca17. Questo gesto si riferisce a una forza di affermazione che conduce più lontano dei soli fatti, più lontano del semplice ordine delle cose. Precisiamolo subito – ritornerò più avanti su ciò che è in gioco nella questione e sulle differenziazioni richieste – è qui che si stabilisce la pulsione umana che è sostanzialmente quella di «credere». Con le sue promesse e i suoi pericoli, così come, ad ogni modo, con la sua storia, significativa tanto sul piano di ciò che caratterizza i contorni di questo credere, tanto sul piano di ciò che si investe o è stato investito. È necessario tuttavia precisare che, per «credere» non si intende qui ciò che un enunciato proposizionale al quale aderire ordina o sostiene, e dunque qualcosa di parallelo al sapere18, 16  Per un lavoro critico, cfr. S. Mancini - R. Rousseleau (a cura di), Processus de légitimation entre politique et religion, Beauchesne, Parigi 2016; per un’altra posizione circa il legame con una posizione monoteista, cfr. B. Karsenti, Moïse et l’idée de peuple. La vérité historique selon Freud, Cerf, Parigi 2012; cfr. anche infra, le note n. 9 e 10 del cap. IV, e la Ripresa finale. 17  Si veda anche quanto richiamato da Slavoj Žižek e da Peter Sloterdijk con un approccio critico nei confronti delle aporie del nostro tempo (ne ho ripreso la tematica in Du religieux, du théologique et du social, cit., pp. 4969). Sul tema del soggetto, positivamente considerato, cfr. A. Touraine, Noi, soggetti umani. Diritti e nuovi movimenti nell’epoca postsociale (2015), tr. it. di M.M. Matteri, il Saggiatore, Milano 2017. 18 Cfr. P. Gisel, Les constellations du croire. Dispositifs hérités, problématisations, destin contemporain, Labor et Fides, Ginevra 2009; e P. Gisel -

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ossia un sapere non certo, non provato, che rimanda a un testimone storico o a un dato fenomeno che potrebbe o dovrebbe assicurarne la credibilità, o almeno, l’affidabilità. È proprio per questo che ho parlato di una pulsione, certo da decifrare sul piano pratico, delle singolarità che si stabiliscono e che si dispiegano. Si tratta di una pulsione umana, con un contenuto specifico da pensare (presente in tutte le forme religiose), con una realtà ed una portata individuale e sociale da esplicitare, con effetti costituenti la storia da descrivere e scrivere. Con processi propri che ogni volta si legano in un modo piuttosto che in un altro. Rifletto qui su una tradizione che si pone all’interno di una prospettiva monoteista che ha attraversato l’Occidente, con le sue basi ebraiche e cristiane, le quali si richiamano a un Dio che si situa al di fuori delle forze naturali o sociali, per quanto tale Dio sia sempre sotto minaccia, in particolare nell’orbita del cristianesimo19, di costituirsi come principio primo e ultimo di tutti gli enti e come sanzione di questi enti. Ma ci sono altre forme di rimandi alla tradizione. Una tradizione può infatti rinviare a una posizione all’interno del rapporto tra il cosmo e le sue leggi (così, in breve, il taoismo o il confucianesimo classico), o al prevalere di una saggezza attraversata dalla spiritualità (così nel caso dell’induismo), una saggezza che potremmo dire sia culturale che religiosa, se vista a partire dai fatti segnati dal cristianesimo e per di più dai moderni (la distinzione di un religioso senza alcun fondo culturale globale vi si trova in effetti senza pertinenza, così come – e le due questioni sono legate – si

S. Margel (a cura di), Le croire au cœur des sociétés et des cultures, Brepols, Turnhout 2011. 19  L’ebraismo si fissa in modo diverso e principalmente in funzione di una differenza, irriducibile e costitutiva, tra Israele e le «nazioni», a ciò si aggiunge una condizione di esilio e di diaspora.

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trova ignorata la posizione dei testi di riferimento «canonici», distinti da altri testi antichi20). Tornerò su queste costellazioni, che emergono da altre sfere della civilizzazione, anche se queste si trovano oggi, come ogni cosa, trascinate in un mescolamento di prestiti e di ricomposizioni in fin dei conti mondializzate. Mi accontento per ora di segnalare la presenza, nel cuore delle nostre società contemporanee, di un appello alla tradizione in forma di un contrappunto alle tradizioni storiche costituite che ci interessano qui in primo luogo, o anche a saggezze alternative che fanno fruttificare una vena di tipo esoterico. René Guénon rappresenta in tal senso una figura emblematica nella prima metà del XX secolo – in molti si riferiscono a lui o presentano posizioni analoghe – riguardo al tema della «tradizione». La prospettiva è qui volutamente universalista, non legata a una posizione singolare e fatta di storicità innata. Per tradizione non bisogna allora intendere meramente la forza di un gesto, ogni volta ripreso e sempre da riprendere – che vive di un presente che si ritrova come prendente parte a questo stesso gesto – quanto il rinvio a un patrimonio, destoricizzato, che vale come archetipo. E vi 20  Ricordiamo che in principio – tradizionalmente, ma in questo caso si tratta di un aspetto che andrà perduto e ciò è sintomatico – nell’ebraismo come nel cristianesimo, la Bibbia ebraica o Antico Testamento segna una prospettiva propria, dal momento che una storia delle rappresentazioni dell’Israele antico non aveva pertinenza alcuna, se non quella di far riflettere, lateralmente, o di presentare diverse ricchezze valide per se stesse; allo stesso modo, nel cristianesimo occorre distinguere profondamente le messe in scena evangeliche del Nuovo Testamento da ciò che storicamente può essere detto di Gesù, non avendo il secondo aspetto alcuna pertinenza diretta rispetto a ciò che è la tradizione cristiana in quanto tale, se non, anche in questo caso, lateralmente – quindi indirettamente e in virtù della differenza stessa delle due prospettive –, per il fatto che se ne possono ricavare diverse conoscenze generali in materia umana e sociale (per l’ebraismo cfr. Y.H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica [1982] , tr. it. di D. Fink, Giuntina, Firenze 2011).

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si sancisce una «metafisica» presentata in forma perenne e che si pretende al di là del tempo quali che siano i tempi. Il rinvio a un tale patrimonio di saggezza detto «tradizionale» va espressamente contro il mondo moderno, giustamente considerato, da Guénon, come una «civiltà propriamente antitradizionale». Esso si stabilisce dunque attraverso uno scarto critico e in alternativa parallela o prossima al ricorso a saperi arcaici di contro ai saperi autorizzati, così come si possono vedere all’opera in ambito paramedicale, come ad esempio nel modo di nutrirsi, nella promozione di equilibri e di igiene di vita, o anche l’impegno in un percorso di sviluppo personale in fase con energie di tipo cosmico. A tal riguardo, tale rinvio rappresenta anche, a suo modo e al di là di tutte le differenze di fondo, una situazione estranea al regime della ragione moderna e costituisce al contempo una sfida, tanto in termini di lavoro intellettuale che di sintomo e pertinenza sociale da decifrare. 3.2. Un fenomeno di pertinenza umana e sociale Non considerare ciò che storicamente e socialmente una tradizione è – ciò che in essa è in gioco e ciò che ad essa si lega – impedisce, innanzitutto, di istituire una critica adeguata a ciò che è in causa e di cui si dovrebbe rispondere, ed equivale inoltre a lasciare la questione ad altri. Si tratta, l’ho già detto, del processo di identità e della messa in opera del simbolico. Ora, questi sono dei momenti irriducibili. Possono certo essere considerati su un piano semplicemente religioso – e lo furono nella nostra storia – ma essi sono in prima battuta delle questioni semplicemente umane, sul piano individuale e sociale. Sarà utile mostrare che essi si inscrivono in un ordine di ragione proprio e, dunque, in un ordine di regolazione proprio. I diversi momenti storici esaminati in questo capitolo rinviano a delle cristallizzazioni sociali e a delle pratiche. Abbiamo potuto constatare che in una tradizione è sempre in gioco un rapporto

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con l’antico (costitutivo e da superare), l’abitazione (assumente e creatrice) di un presente e un’apertura sul futuro (differente dall’utopico). Una tradizione storica si inscrive inoltre in un ventaglio di dissidenze; anzi le favorisce. Questo perché essa è singolare, situata in una contingenza, e perché si stabilisce come un gesto proprio (un’operazione specifica, legata a una posizione del soggetto), il che presuppone la pluralità del mondo e l’esistenza di altre tradizioni, così come la comunità che ad essa si richiama e il suo ordine simbolico, con cui la tradizione non coincide, ma che porta con sé, lavora e perturba. Oltre a quest’ordine di pertinenza per così dire esterno alla vita propria di una tradizione, ma che dice lo spessore umano delle realtà in gioco e mostra alcuni dei suoi rischi, non considerare ciò che nello specifico è una tradizione espone al rischio, questa volta interno, di ideologizzare la tradizione in cui si vive: vederla come una continuità che può e che deve vivere direttamente di ciò che la autorizza – per giunta autonoma, circoscritta e valida in prima e ultima istanza –, una continuità che rimanda a un cominciamento o a un’origine da cui essa dipende o da cui parte. Si tratta di un’ideologizzazione, in quanto anziché guardare in faccia le discontinuità, le cancella. Anziché lasciarsi provocare dalle contingenze della storia e da quanto di irriducibilmente differenziato in esse è presente, si installa in uno spazio separato e protetto. In tal modo, si uccide anche il gesto stesso di cui una tradizione vive, il gesto che la porta e che essa porta con sé, quello di una instaurazione specifica che vive di eterogeneità, una instaurazione da pensare e da regolare. Come tutte le instaurazioni, una tradizione può in effetti legarsi al meglio e al peggio e si tratta senz’altro del peggio nel caso dell’ideologizzazione, rischio intrinseco allo stesso fenomeno in causa. I miei esempi sono tratti principalmente dall’ambito religioso, seppur nel tentativo di mostrare un più vasto fenomeno umano all’opera. Termino questa parte rinviando brevemente

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ad ­Alasdair MacIntyre, difensore di un ricorso alla tradizione in materia di vita e organizzazioni sociali globali. Lo si critica come conservatore, e persino come reazionario, in ogni caso come un comunitarista, una tematica sulla quale ritornerò. In realtà mi sembra che il suo pensiero sfugga alle semplici alternative tra posizioni conservatrici o progressiste e, per ciò che concerne la nostra problematica, tra il sogno di un regime antico e il liberalismo moderno. Nel capitolo quindici del suo Dopo la virtù21, MacIntyre mostra ciò che è in gioco nel fenomeno di una tradizione, in un modo simile a ciò che spesso sono stato portato a sottolineare (la mia lettura di MacIntyre è recente) e che sorregge questo capitolo. Noto innanzitutto che è centrale la questione dell’«unità» (tale motivo dà consistenza a uno dei suoi capitoli, L’unità di una vita umana e il concetto di tradizione), una questione congiunta a ciò che ho indicato parlando d’identità. Questa unità è inoltre complessa, ossia resistente a tutte le decomposizioni analitiche, ed è costruita, ossia non si tratta di puri dati bruti. Mostrare questa unità richiede di passare dal narrativo al racconto. Quest’ultimo è da intendere come ciò che si cristallizza a partire dall’enigma e dalla messa in prospettiva – senza la quale tale unità non si realizza – e presuppone, sullo sfondo, il desiderio e il ricordo, la ricerca ma anche la disperazione, così come un ideale e una proiezione22. MacIntyre richiama infine una imprevedibilità di fondo (io ho parlato di contingenza e di eterogeneità) e sottolinea che ciò che regge l’unità è una certa maniera di rispondere di sé23. 21  A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale (1981), a cura di M. D’Avenia, Armando Editore, pp. 249-272. 22  Cfr. ivi, p. 257; per quanto precede a proposito dell’«unità» si vedano le pp. 249 s. 23  Ivi, pp. 261-264, dove precisa che il «rispondere di» in questione sfugge tanto agli analitici o empiristi quanto agli esistenzialisti.

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II Da quale regime di ragione emerge una tradizione?

1. Una critica moderna della tradizione Siamo figli della modernità e di fatto situati nella modernità, anche se, nel nostro caso, secondo una disposizione cosiddetta di post-modernità, di ultra-modernità o di modernità tardiva. Riflettendo su ciò che è una tradizione e sulla sua pertinenza possibile oggi, assumo esplicitamente una tale condizione, le disposizioni di fondo che le sono proprie, così come i problemi e i compiti che in essa si inscrivono. Non vi è dunque alcuna nostalgia né tantomeno alcun sogno di un altro mondo o di un altro modello. Neppure dunque di modelli antichi (sacralizzati?) o modelli futuri (ideali?). Non ha neppure senso per me – e ciò sottende l’insieme del presente saggio – pensare in termini di modelli. Occorre piuttosto riflettere su situazioni date, ogni volta specifiche (occorre dunque ratificare certe discontinuità, senza che queste impediscano né una rilettura della questione «da dove veniamo» né genealogie che riguardano la questione «a che punto siamo»), situazioni che richiedono gesti intellettuali e pratici che si facciano carico delle promesse possibili pur scongiurandone i rischi, il che presuppone, certamente, la messa in opera di una certa lettura e la realizzazione di alcune diagnosi. Se occorre

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istruire una critica – e senz’altro occorre farlo, come in ogni tempo –, si tratterà di una critica interna, che si dispieghi a partire dal presente e dalla sua situazione propria. Il richiamarsi a una tradizione sarà dunque un «secondo» momento, anche se possiamo considerare tale svolta decisiva, e dunque al servizio della lettura che sarà proposta del presente, così come della critica che ad esso si potrà legare. Rispetto alla o alle tradizioni, la modernità nel suo momento classico – il periodo dell’Illuminismo europeo, ma già il XVII secolo –, non è solamente critica, ma è soprattutto la figura di un rifiuto, basti pensare che uno dei suoi motivi principali è non a caso quello della tabula rasa. Le tradizioni – allora emblematicamente religiose – sono considerate non credibili. Sono delle «favole». Non credibili: fantasiose e ridicole. Non sono più neppure morali (questo punto è importante). Non sono più all’altezza di ciò che era opportuno intendere con la parola Dio. Il ricorso alla tradizione non appariva più all’altezza di ciò che ci si può aspettare dall’uomo, di ciò che costituisce la sua dignità o il suo essere proprio: la decisione illuminata e libera e, in questo caso concretamente, emancipata. Tale modernità ha dunque opposto alle religioni ereditate – che sono la forma attraverso la quale si dava il tradizionale – una religione «naturale», attribuendo alle prime, per contrasto, l’appellativo di «positive» (un qualcosa di dato, di storico). Le religioni tramandate sono particolari, differenti secondo le regioni e contingenti: esse rinviano a un’autorità, da cui si dipende, alla quale ci si sottomette o ci si affida (l’autorità di una tradizione o di una istituzione, la Chiesa e i suoi sacerdoti). La seconda, seguendo un’opposizione parola per parola, è universale, una e necessaria; essa rinvia alla verità che l’uomo può riconoscere e ratificare. A tali caratteristiche possiamo aggiungere due punti. Non solo per il fatto che questi sovrastano la discussione classica e le

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sue polemiche, ma anche perché ci riportano oggi al cuore di un dibattito aperto e alimentato da certi rappresentanti della filosofia cosiddetta analitica (vedremo come e in che modo). Innanzitutto, vi è il rifiuto di una «rivelazione». Il tema è allora nuovo (è necessario precisarlo e non sbagliarsi), perlomeno nel suo statuto: l’avvento di verità positive che l’uomo non avrebbe potuto conoscere da se stesso, così come nella loro funzione di legittimazione. Nuovo, esso va ad occupare un luogo che sarà centrale, sia tra i critici delle religioni tramandate che tra i loro difensori1. Il secondo punto da aggiungere è il fatto che intorno al «dogma» si condensa per eccellenza il momento del rifiuto, per via della sua oscurità e in fondo per la sua assurdità2, e a ciò ancora si aggiunge, in sordina, che un dogma caratterizzerebbe proprio ciò che una religione è. Sullo sfondo di questa disposizione dell’Illuminismo vi è inoltre la vena di costruzione metafisica che aveva dato forma a ciò che potremmo chiamare «teologia filosofica»3, fondata e dispiegata nella ragione. Sono tipiche del XVII secolo le teodicee. In questa impresa, come nel rinvio a una religione naturale, ci si mantiene, notiamolo subito, al di fuori di una considerazione sociale e antropologica, al di fuori di una considerazione di ciò che costituirebbe le caratteristiche proprie del religioso o del mitologico (nel racconto in particolare si è innanzitutto legati al verosimile piuttosto che a ciò che realmente è potuto accadere), al di fuori altresì di una specifica riflessione sulla posizione e sul rapporto con l’oggetto (e non con il tipo di oggetto 1  Nel Medioevo, come tra i Padri, la teologia cristiana non si articola secondo una rivelazione né rinvia a un momento fondativo e istituente. 2  Dei riferimenti su questo punto si trovano nel mio Du religieux, du théologique et du social, cit., pp. 19-48. 3  Un’impresa oggi assunta nel campo della filosofia analitica: cfr. A. Feneuil G. Waterlot (a cura di), Les renouveaux analytiques de la philosophie de la religion en question, «ThéoRèmes. Enjeux des approches empiriques des religions» [versione on line: http://theoremes.revues.org/507], n. 2, 2012.

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in causa), che cristallizzerebbero, rispettivamente, il credere e il sapere, con i loro differenti regimi così come le varietà e le storie che li attraversano. Da ciò deriva una concentrazione tipica sul dottrinale inteso sul piano dei suoi enunciati. Si potrà per esempio dire, a proposito della Trinità: «se fosse stata così importante Gesù l’avrebbe insegnata». Esprimersi in questi termini significa chiaramente, secondo me, che si è passati accanto a ciò che sono il religioso e il credere, e allo stesso tempo accanto a ciò che possiamo intendere con il concetto di rivelazione, qui rapportato all’insegnamento, o al momento dottrinale, che dovrebbe essere in principio, a mio avviso, anch’esso lavorato e compreso sul piano dell’effettività storica, nella quale ha valore regolativo4.

2. Una trattazione contemporanea condotta dalla filosofia analitica Tra ciò che ho abbozzato nel primo capitolo (ciò che si gioca nella questione della tradizione) e ciò che ho appena richiamato sommariamente (il rifiuto della tradizione legato all’avvenimento della modernità), vi è contrasto. La sua messa in evidenza è guidata da una decisione di fondo che io perseguo e intendo sviluppare, ovvero quella di mettere il religioso e le tradizioni che lo attraversano in rapporto con un’effettività sociale, che muta secondo le culture e i dispiegamenti storici. Metterli, in questo senso, in rapporto con il pratico, poiché il teorico risulta dal riflessivo, come in «seconda battuta»: il teorico può certamente, e deve, essere regolativo e critico, ma non a-priori.

4  Ho sempre sottolineato e riflettuto su questi aspetti nei miei lavori di ambito teologico.

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Una deviazione sulla filosofia analitica contemporanea può qui rilevarsi illuminante5. Anche se rapida, questa deviazione non renderà giustizia alla pluralità dei dibattiti interni a tale filone, né a ciò che esso può integrare dei momenti storici (l’antichità classica, per esempio quella aristotelica, o il neoplatonismo), o persino dei momenti propriamente teologici (legati al Medioevo, ad Anselmo ed altri), che rendono probabilmente più complessa la sua posizione di base o un primo momento del suo dispiegamento. Roger Pouivet ha proposto una tavola di opposizione tra «filosofia analitica» e «filosofia continentale»6. Ne riprendo alcuni punti: il «carattere diretto delle problematiche» in riferimento a un «carattere obliquo delle problematiche»; una «mira aletica» in opposizione a una «mira interpretativa»; l’«argomentazione» e la «razionalità» opposte alla «prospettiva» e alla «genealogia»; un «primato dell’epistemologia» contro un «primato fenomenologico e pratico». Nonostante qualche inflessione circa il termine scelto (non potrei assumere «interpretazione» o «fenomenologia» senza l’assunzione di alcune precisazioni che modificano alcuni usi dei termini) e il fatto, soprattutto, che non rifiuto né tutte le questioni in termini di verità (ma spostate), né tutte le procedure d’argomentazione e di razionalità (ma sostenute mediante regimi differenti), io mi situo deliberatamente dalla parte del secondo termine dell’alternativa proposta. Vi è dunque innanzitutto, per me, il dispiegamento delle culture e delle società, con ciò che di volta in volta le attraversa, così come delle diverse poste in gioco che vi si intrecciano. 5  Rinvio qui a: C. Michon - R. Pouivet (a cura di), Philosophie de la religion. Approches contemporaines, Vrin, Parigi 2010; C. Michon, Le fiacre des propositions. Remarques sur la pertinence de la philosophie analytique de la religion, in «ThéoRèmes», n. 2, 2012; R. Pouivet, Méta-philosophie de la religion, in «ThéoRèmes», n. 2, 2012; e Id., Épistémologie des croyances religieuses, Cerf, Parigi 2013. 6  R. Pouivet, Méta-philosophie de la religion, cit., punti 4 e 5.

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Ciò che mi colpisce nella lettura dei filosofi analitici, dal momento che io vengo da un’altra maniera di affrontare i problemi, è: a) il primato assegnato all’epistemico (come se le ragioni che vi si decidono potessero giustificare o meno ogni realtà umana, tradizioni e credenze comprese, o anche semplicemente renderne conto7) e al proposizionale (come se una tradizione, religiosa o di altro tipo, si articolasse per il fatto che è almeno o innanzitutto fatta di posizionanti «negoziati»8 con il mondo, a cui si annodano delle simbologie e dei riti al fondo di un gioco differenziato di riferimenti addotti e di memorie che la lavorano); b) una priorità assegnata al concetto, in questo senso alla definizione o, tecnicamente, all’«essenza» rispetto all’«esistenza», al possibile, teorico o astratto, che prevale sull’effettivo, e spesso esplicitamente; c) in materia religiosa un privilegio accordato non solamente al monoteismo, ma a una posizione teista, quando vi sono molte tradizioni che non lo sono, al che si aggiunge, a mio avviso, che al termine teismo è legata una prospettiva moderna razionalizzante che non riassume neppure la tradizione cristiana anteriore, medievale o patristica. In Qu’est-ce qu’un Dieu?, Yann Schmitt mostra le caratteristiche di un tal modo di fare. Così, in apertura: «perché abbia luogo un dibattito circa l’esistenza di un Dio, è necessario che un 7 In Qu’est-ce qu’un Dieu? (Vrin, Parigi 2013), che mi pare illustrare la posizione analitica alla quale mi riferisco, Yann Schmitt confessa proprio i limiti dell’epistemico, quando, rifacendosi a Hume, segnala che la credenza in un Dio non ha la sua origine nell’«intelletto», ma nell’«immaginazione», ovvero nella paura, nella speranza e in altri aspetti antropologici (pp. 12 s). 8  Tale vocabolario è ricorrente tra gli antropologi, che arrivano a parlare, a proposito dell’addomesticamento del mondo e delle maniere di abitarlo, di «tecnologia dello spirito»; per esempio, cfr. S. Mancini, Histoire des religions et constructivisme: la religion comme technique, in Id. (a cura di), La fabrication du psychisme. Pratiques rituelles au carrefour des sciences humaines et des sciences de la vie, La Découverte, Parigi 2006, pp. 15-41.

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concetto di Dio sia presentato chiaramente per via di una esigenza relativamente banale che impone di sapere di ciò di cui si parla prima di interrogarsi sulla sua eventuale esistenza» (pp. 8 s). Esigenza banale o pseudo-evidenza? Una considerazione di ciò che costituisce l’ambito religioso tradizionale mostra effettivamente che si ha a che fare con una diversità di storie e di pratiche, di simbolizzazioni del mondo e di enunciati – di cui si dovrà ogni volta precisare lo statuto – e che sarebbe opportuno costituire a partire da ciò che solamente si può chiamare «Dio» e a cui una tale denominazione corrisponde. Anche nella teologia, in questo caso cristiana, non si è mai smesso di ricordare, soprattutto nel XX secolo, che la questione circa ciò che Dio è resta profondamente aperta, problematica e oggetto di malintesi, e, soprattutto, che essa non può essere messa in risalto se non in funzione della sua effettività, dunque della sua o delle sue messe in opera, nell’ambito di un esistere dato9. Il privilegio accordato al teismo, mediante una riduzione o una messa a distanza della diversità delle tradizioni umane – si tratta spesso di tradizioni diverse dalla propria – è deliberatamente assunta da Yann Schmitt, il quale parla della sua «scelta di non studiare altro che il concetto di Dio nel teismo»10. Ciò che è inteso come teismo è allora esplicitato come «la tesi filosofica secondo la quale esiste un Dio, ovvero un unico essere che soddisfa il concetto di Dio, concetto che si tratta di determinare fornendo una lista […] di attributi divini». L’autore prosegue:

9  Tra gli altri, Eberhard Jüngel lo ha spesso esplicitato, riprendendo Karl Barth, secondo l’adagio che inverte una riflessione che partirebbe da un concetto dato – un concetto possibile e da confermare – per affermare al contrario che «Wo Wirklichkeit ist, ist auch die entsprechende Möglichkeit». 10  P. 37, dopo aver affermato, a p. 17, che il teismo rappresenta «l’approccio filosofico apparentemente più sicuro per evitare l’antropomorfismo». La focalizzazione su una posizione «teista» si mantiene sullo sfondo dei citati «ThéoRèmes», n. 2., 2012, e Philosophie de la religion.

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«Il teismo è generalmente considerato come implicitamente presente all’interno dei tre grandi monoteismi che sono l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam11, dai quali eredita la loro critica e del politeismo e dell’antropomorfismo». Dunque, in conclusione, senza sorprese, ma esplicitamente e valido come conferma di ciò che tento di mostrare con questa discussione: «lascio da parte per delle ragioni di spazio e di disciplina uno studio sociologico e antropologico della diversità delle rappresentazioni del divino» (p. 18). Per ciò che mi riguarda, lo studio qui lasciato da parte è al contrario il fatto dal quale partire. Ma ciò proprio per il fatto che io non penso che l’esame della questione «che cos’è un Dio», né quello che riguarda una tradizione, i suoi enunciati e i suoi riferimenti, così come i suoi modi di dispiegamento, emergano da uno «studio concettuale» che apre «una regolazione del pensiero filosofico in funzione di un’idea» (p. 34). Un punto merita qui di essere indicato: il superamento di Kant. Perché Kant aveva segnato, nel cuore della modernità, una critica della ragione specificandone le condizioni di possibilità, ma anche ciò che dà ordine al suo dispiegamento, e quindi i suoi limiti, differenti secondo l’ambito di lavoro e di riflessione: ambito del sapere, della morale e della costituzione del soggetto, campo delle simbolizzazioni del mondo. Tale critica aveva condotto a uno spostamento dello sguardo, da quel momento in poi, in riferimento alla storia – questa fu la linea dominante dell’inizio del XIX secolo e per gran parte del XX –, sia che si trattasse di innestarvi una ermeneutica, per costruire delle genealogie, per scrutare il messianismo e l’anti-messianismo,

11  Preciso: non penso che l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam comprendano allo stesso modo ciò che bisogna intendere con il nome Dio in termini di principio, né i tipi di rapporti con il mondo e con la storia che un tale principio esige, e neppure ancora ciò che attiene ai modi e agli statuti delle simbolizzazioni o di altre mediazioni.

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sia per consegnarla all’esplorazione delle scienze umane e sociali, mediante il dibattito, le opposizioni e i conflitti, o anche le aporie, che si sono inscritte nel ventaglio di prospettive allora sviluppate. Ma tale terreno storico è di fatto divenuto luogo di modi di fare con i quali la filosofia analitica intende giustamente rompere (essi sarebbero troppo legati a pregiudizi, partiti presi, all’affettivo e al desiderio), in vista di un lavoro che essa pretende più risanato e d’arbitraggi nella ragione a partire da una modalità che essa stima più sicura, o la sola sicura. La volontà di un superamento di Kant è confermata in maniera ricorrente12. Cyrille Michon parla di un «discredito che la filosofia kantiana conosce da parte di un buon numero di filosofi contemporanei (analitici ma non solamente)»13. Richard Swinburne si propone di mostrare «che i limiti imposti [da Kant e Hume] sono completamente irragionevoli» aggiungendo che «è giusto che la teologia naturale riprenda il suo posto all’interno della teologia cristiana, come, più generalmente, all’interno della tradizione filosofica»14. Nicholas Wolterstorff, infine, autore che rivendica peraltro il suo confessionalismo cristiano (di stampo evangelico), scrive: «è senz’altro la potenza dell’influenza di Kant che ha reso la teologia filosofica così incerta agli occhi di molti, teologi e filosofi»15. Ora, precisa, «la maggior 12  Che si possa «superare» Kant, o che lo si possa almeno sottoporre a una critica, non è a mio parere il problema (così anche Q. Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza [2006], a cura di M. Sandri, Mimesis, Milano 2012; o C. Malabou, Avant demain. Épigenèse et rationalité, PUF, Parigi 2014), ciò che qui mi interessa è il tipo di critica e di superamento all’opera, e ciò che esso rivela. 13  C. Michon, Le fiacre des propositions, cit., punto 7. 14  R. Swinburne, Pourquoi Hume et Kant ont eu tort de rejeter la théologie naturelle, in «ThéoRèmes», n. 2., 2012, punto 1, e fine del suo testo. 15  N. Wolterstorff, Les origines de la philosophie analytique de la religion, in «ThéoRèmes», n. 2., 2012, punto 7; segnaliamo il suo rinvio al fatto di «una differenza culturale fondamentale tra gli Stati Uniti e alcuni avamposti

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parte dei filosofi analitici contemporanei accettano implicitamente l’idea secondo la quale, se si è obbligati a produrre una filosofia che soddisfi le esigenze della razionalità kantiana, non verrebbe fuori nulla di interessante»16. Per quanto mi riguarda, mi considero del tutto contrario: una moltitudine di cose interessanti in materia di realtà umane e sociali storicamente dispiegate possono al contrario essere dette ed elaborate – e allo stesso tempo regolate –, ma certamente non secondo il regime direttamente epistemico che Kant rifiuta per ciò che concerne le materie metafisiche, e neppure secondo le disposizioni che ne hanno dato le teodicee, la religione, la teologia naturale o la teologia filosofica17. Possiamo – e dobbiamo – riprendere il compito di pensare ciò che condensano le tradizioni, diverse e diversificate, come ciò che accade loro, e dobbiamo farlo in filosofia e con la ragione, ma non secondo il metodo di una logica formale, che è a mio avviso quello della filosofia analitica, il quale può quindi significativamente richiamarsi a una d’Europa» (gli Stati Uniti erano «molto più religiosi del resto del mondo occidentale – e in particolare molto più teisti») e la conclusione: «il fatto sociologico che un gran numero di filosofi americani fossero dei teisti, in particolare cristiani ed ebrei, ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo della filosofia della religione e della teologia filosofica» (punto 37). 16 Ivi, punto 32; cfr. anche P.S. Anderson, Kant et le renouveau de la pratique «analytique» dans la philosophie contemporaine, in «ThéoRèmes», n. 2., 2012 17  A proposito di questo vocabolario, cfr. C. Michon - R. Pouivet, Préface, in Id. (a cura di), Philosophie de la religion, cit., pp. 13 s. (e Roger Pouivet, Introduction alla parte intitolata Arguments théistes della stessa raccolta, pp. 121-129), che colgono l’occasione, alle pp. 14-25, per circoscrivere l’arrivo della «questione del God talk» nell’ambito di quello che era al tempo e strettamente il positivismo logico. Occorre notare che Roger Pouivet sottolinea come occorra trasformare «il progetto di teologia naturale […] in una teologia filosofica», nella quale «non si tratta più di giustificare delle credenze religiose a partire da credenze non religiose, ma di assumere la razionalità immediata delle credenze religiose» (Épistémologie des croyances religieuses, cit., p. 67).

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problematica «transtorica»18. Ciò sarà fatto soprattutto a partire da una netta presa di distanza e all’interno di un’orbita «post-­ metafisica», nel senso in cui la intendono Jürgen Habermas e altri, filone pragmatico incluso, come anche Richard Rorty e John Dewey. I filosofi analitici lavorano alla base questioni che riguardano il necessario e il possibile, le ipotesi formali, il non contraddittorio logico e il plausibile. All’interno di diversi dibattiti interni. Così Roger Pouivet difenderà il fatto che vi è il modo di assicurare un «buon diritto epistemologico» dei credenti o degli adepti della tradizione vissuta e difesa, senza arrivare, contrariamente a quanto sostengono altri, fino a domandare che sia «giustificato» o «fondato» ciò che esse pongono in evidenza19. Ritornerò più ampiamente su tale «buon diritto» e sull’«etica delle credenze»20 che vi si ricollega, per sancire i requisiti che li sottendono, ma spostandoli, in maniera netta, il che porterà a una irriducibilità delle tradizioni in quanto tali – e anche al loro apporto fruttuoso, con condizioni certo da precisare – e alla loro necessaria e possibile regolazione. Notiamo ancora che il medesimo tipo di registri, concernenti le questioni generali e «metafisiche»21, può essere mobilitato

18  «I filosofi analitici pensano che le questioni filosofiche siano transtoriche, e che sia nostra competenza sviluppare delle tecniche di spiegazione e, in alcuni casi, di risoluzione di tali questioni, comprese quelle che i filosofi continentali giudicherebbero come disperatamente metafisiche» (C. Michon - R. Pouivet [a cura di], Philosophie de la religion, cit., Préface, p. 27). 19 R. Pouivet, Épistémologie des croyances religieuses, cit., da p. 9; cfr. anche pp. 13, 44, 56 (sul «diritto» di credere, e niente più, senza «prove» e dunque senza «costrizione»), pp. 46, 50 (il modo di procedere rispetto a una posizione cosiddetta «evidenzialista»), pp. 30, 32 (su una «epistemologia modesta»). 20 Ivi, pp. 21, 25, 35. 21  Cfr. a tal proposito ivi, p. 43: «la metafisica come studio della realtà fondamentale non è affatto un’impresa disperata».

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quando si tratta di garantire delle scelte più contingenti, legate a una credenza particolare secondo una tradizione data22. Un esame analitico potrà altresì vertere sul più probabile o sulla spiegazione più semplice, comparandola alle altre23. Superiamo dunque la questione del teismo per considerare quella, esplicitamente positiva, delle tradizioni religiose (di fatto, in questo caso cristiane). Non esclusivamente quindi, per esempio, quella del creazionismo o del «disegno intelligente», che possiamo ricollegare alle discussioni sul teismo24, ma, più radicalmente, 22  Sul rapporto tra lavoro filosofico e convinzione, Nicolas Wolterstorff scrive in Les origines de la philosophie analytique de la religion, cit., che «la vera questione è sapere se è accettabile, per un filosofo, di servirsi, in quanto filosofo, delle sue convinzioni cristiane […] o di qualsiasi convinzione»: facendo ciò non si contravverrebbe alla «vocazione del filosofo […] che impone di fondare la filosofia sulla sola ragione?», precisando che Kant direbbe che si contravverrebbe, ma che «la maggior parte dei filosofi analitici contemporanei riterrebbero che non sia così» (punto 31). 23  È così per Swinburne: cfr. P. Clavier, Une approche résolument empirique du théisme. Richard Swinburne et «l’argument tiré de l’expérience religieuse», in A. Feneuil (a cura di), L’Expérience religieuse. Approches empiriques. Enjeux philosophiques, Beauchesne, Parigi 2012, p. 75 s. e 84 (a ciò occorre aggiungere una «presunzione di affidabilità», p. 80). Si veda anche la fine del testo citato di Richard Swinburne. 24  Precisiamo che il creazionismo e il «disegno intelligente» sono rifiutati da Paul Clavier (Qu’est-ce que le créationnisme?, Vrin, Parigi 2012). Per un’argomentazione tipica in un autore proveniente dall’«epistemologia riformata», con una buona ricezione tra i filosofi analitici, Alvin Plantinga, si veda il video Darwin. The Voyage that Shook the World, prodotto da creation. com, sito appartenente ai creazionisti «Young Earth»: la sua intervista, e in particolare le parti dell’emissione non integrate nel montaggio, ma aggiunte al video come «bonus». Pouivet ha discusso con Plantinga, prendendone le distanze, cfr. Épistémologie des croyances religieuses, cit. (già a partire dall’indice; mentre per ciò che riguarda il disaccordo con l’«epistemologia riformata», cfr. p. 22), e sottolinea come Plantinga concili teismo ed evoluzionismo: Évolution, naturalisme et théisme chez Alvin Plantinga, in Ph. Portier - M. Veuille - J.-P. Willaime (a cura di), Théorie de l’évolution et religions, Riveneuve éd., Parigi 2011, pp. 171-181. Si veda anche in particolare Ph. Gonzalez - J. Stavo-­Debauge, «Dominez la terre!». Le créationnisme,

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quella di una «rivelazione» come visione determinata del mondo e dell’umano, con i suoi insegnamenti rinvianti come tali a un fondamento estrinseco o eteronomo, come dicevano gli illuministi. Se partiamo dal «presupposto» che Dio esiste, e che di conseguenza tutto ha dei «presupposti»25, essa è senz’altro possibile! Se ci teniamo sul concettualmente possibile, molte cose in effetti lo sono, ma non comprendo bene in che modo ciò ci faccia avanzare rispetto al modo di rendere conto dell’umano, delle sue tradizioni e di ciò che è il sociale, e tantomeno rispetto al modo di valutarlo e di regolarlo. Rispetto a una «rivelazione» – ma anche rispetto al «dogma»26 –, occorre precisare un punto. Questo rimanda a ciò che ho già sottolineato a proposito dell’Illuminismo europeo, ma era riferito a un uso critico, mentre ora è ora legato a un uso apologetico. Con «rivelazione» si deve qui intendere un dato «proposizionale», che rinvia a delle verità da conoscere o di cui è necessario essere informati, verità che sono, allora e secondo questa modalità, da credere, e da credere secondo il «buon diritto epistemologico» a cui abbiamo fatto riferimento precedentemente. Roger Pouivet, che difende sostanzialmente una

du fondamentalisme à la désécularisation, in «Archives de sciences sociales des religions», n. 169, genn.-mar. 2015, pp. 351-576. 25  Potremmo allora trovarci vicino a un «presupposizionalismo» (proveniente dall’apologeta calvinista Cornelius Van Til, 1895-1987), alla citata «epistemologia riformata». 26 In Épistémologie des croyance religieuses, cit., Pouivet parla di un «credere in certe dottrine» («come il peccato originale, la Trinità, l’Incarnazione, la Redenzione», p. 93; cfr. anche p. 47), parla di Credo «chiaro e netto» (sulla base di un «reso chiaro», a proposito della «esistenza» di Dio, cfr. p. 37), peraltro «comune» e che «risale alle origini del cristianesimo», p. 23, o dice che si può risalire a una catena di testimonianze (che «Gesù, figlio di Dio, è resuscitato», lo «sappiamo grazie alla testimonianza della Chiesa, che accetta come vera la testimonianza degli evangelisti. Essi stessi accettano a loro volta la testimonianza dei testimoni diretti», p. 77).

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«epistemologia della rivelazione», anticipa che, nella materia di cui ci stiamo occupando, «mediante la rivelazione, noi riceviamo la conoscenza di verità alle quali non possiamo pervenire da noi stessi»27. Tale prospettiva determina l’insieme del secondo capitolo del suo libro, nel quale parla di una «conoscenza mediante la rivelazione» o di una «conoscenza rivelata», e dunque Cristo le aveva «insegnate» proprio come verità «trasmesse» da Dio e «rivelate» in un momento della storia. La concezione «proposizionale» è difesa dall’inizio alla fine: «se la rivelazione è vera, come potrebbe esserlo senza essere proposizionale?» (sottolineo i due aggettivi che qui si richiamano l’un l’altro). Roger Pouivet si rifà in modo ricorrente a un «anti-cognitivismo» – del quale precisa che è «divenuto dominante nella teologia contemporanea» –, difende «la tesi che fa della rivelazione una conoscenza» e parla di un «ruolo epistemico della rivelazione»28. Concludiamo sottolineando che, in tutto questo, i filosofi analitici evocati sostengono una regolazione delle credenze (in questo caso, si richiede che esse soddisfino delle «norme epi­ stemiche»29) e stimano che essa sarebbe minacciata se abbandoniamo il trattamento logico proposto. Il rischio denunciato è quello di un «fideismo» (una pura fiducia soggettiva) nei confronti di una tradizione, con tutto ciò che vi si intreccia di arbitrario e di sregolato, persino di fanatismo e di violenza potenziale30. Il termine è ricorrente in Roger Pouivet31, ma nume27  Ivi, p. 22 (egli precisa inoltre, p. 48, che «la fede ha un contenuto proposizionale, determinato e stabile»). 28 Ivi, pp. 93-96, e in part. 95 e 93. 29 Ivi, pp. 12 ss. 30  Sul «rischio che la teologia naturale intende ridurre» cfr. anche P. Clavier, Qu’est-ce que la théologie naturelle?, Vrin, Parigi 2004, p. 27. 31 Cfr. Épistémologie des croyances religieuses, cit. (pp. 44-46 e 91) e L’irrationalisation de la religion, in C. Tiercelin (a cura di), La reconstruction de la

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rosi sono coloro che lo hanno ripreso32. Con il termine fideismo (abbiamo parlato in modo equivalente di «tradizionalismo»33) occorre intendere un ripiegamento sull’opinione o sulla doxa, o ancora il rinvio all’esperienza, all’esistenziale o alla semplice storia34. Ognuno dei quali avrebbe validità in quanto tale, al di là di tutte le questioni di diritto, di legittimità e di normatività35. Un’attitudine che sarà fenomenologica ed ermeneutica verrebbe in sostegno di tale ripiego36. Tutte le problematiche in termini di verità sarebbero così abbandonate, a tutela del rispetto di convinzioni ed eredità (che le si voglia attualizzare o adattare non cambia la posizione di fondo). In questo slancio, Roger Pouivet precisa, insieme ad altri, che è necessario guardarsi dal «sostituire» una problematica sulle cause a una questione di diritto37. Farebbero ciò le scienze umane, psicologia, sociologia o antropologia, accontentandosi e potendo

raison. Dialogue avec Jacques Bouveresse, Collège de France (La philosophie de la connaissance), Parigi 2014 (ISBN elettronico: 9782722603318). 32  Per esempio, P. Engel, Le droit de ne pas croire. Le principe des raisons suffisantes, nella citata raccolta di «ThéoRèmes» (punti 9 s. e 29). 33  Tentazione moderna condannata dal cattolicesimo, nell’ambito di una convalida e di un passaggio necessario attraverso una «teologia naturale». 34  Cfr. R. Pouivet, Épistémologie des croyances religieuses, cit., pp. 12, 17, 39 s., 45, 73, 94. 35 Ivi, p. 74. 36  Roger Pouivet si erge contro la «tentazione […] di stabilire un ambito di influenza fenomenologico» o ancora segnala in modo critico che «una ermeneutica fenomenologica dell’esperienza religiosa non si libera dall’epistemologia delle credenze», ivi, p. 73; e si distanzia anche da una certa «esperienza» di «incontro con il Tutt’Altro» o da un certo modo di magnificare una «ineffabilità del divino» pp. 133 e 135. 37  Cfr. ivi, pp. 15, 219 (dove si aggiunge l’osservazione che le «cause» sono, in questo caso, sempre «disilludenti», e dunque non vi è ragione di abbandonarsi ad esse), 223.

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s­ olamente aprire una scena di «finzione», in tal caso una finzione «piena di senso»38. Per ciò che mi riguarda, il mio intento è anche quello di valorizzare un ricorso a una o a delle tradizioni che provengono da posizioni fideistiche o al di fuori della ragione39. Ma lo faccio secondo un’altra prospettiva rispetto a quella aperta dalla filosofia analitica, situandomi effettivamente sul terreno della storia, su ciò che vi si dispiega e accade, sulle genealogie che vi si inscrivono e su ciò che accade loro. Non ci resta che delineare una tale prospettiva.

3. Quale critica e secondo quale regime di ragione? Sul terreno del religioso, che nella sezione precedente restava sullo sfondo, si è mostrato ciò che si può fare quando si evoca una tradizione. La filosofia analitica è allora apparsa come l’esemplare di un metodo possibile: prendere gli enunciati e i riferimenti di una tradizione come se fossero di primo livello, considerarli secondo l’univocità possibile e desiderata, ed esaminarli come rinvianti direttamente a delle realtà di fatto, che valgono come origine e fondamento. Senza considerarle, dunque, né trattarle come delle costruzioni organizzate su un modello che gli è proprio, secondo un rapporto al mondo, al tempo, a sé e agli altri. L’orizzonte di questo modello di ragione è allora innanzitutto universale e non pluralista, e se ne conosce un solo regime.

38  Cfr. ivi, pp. 23 (dove un «antirealismo teologico» è denunciato come «eresia postmoderna»), 157-160, 164 ss. 39  Su questo punto, ratifico ciò che Roger Pouvait chiama «dovere di razionalità», ivi, p. 37.

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Significativamente, ai miei occhi, possiamo anche – all’interno di una variazione volta a confermare o inficiare la fondatezza di un’affermazione – proporre di sostituire «conoscenze matematiche» a «credenze religiose» o avanzare che «credere che Dio esiste sulla base di testimonianze non è una cattiva ragione» e assimilarlo a: «credere, sulla stessa base, che l’Australia esiste, anche se non ci siamo mai andati»40. Ogni volta, la postura specifica di un credere non è distinta da quella di un sapere, e prevale di fatto sulle coordinate del sapere, essendo il credere un sapere provvisorio, in attesa di conferma, o un sapere derivato, che dipende da altri saperi41. E, ogni volta, ciò che è in causa all’interno di una tradizione e vi si lega è a mio avviso mancato. Come sarà mancato allo stesso modo, persino pervertito, ciò che è necessario fare, intellettualmente e socialmente. Rispetto alla posizione dell’Illuminismo così come rispetto alla filosofia analitica, io intendo esplicitamente riferirmi a delle effettività, per problematizzarle dall’interno. La posizione sarà dunque riflessiva. Essa in particolare potrà appoggiarsi su una lettura genealogica, che parte dal presente e interroga il «da dove viene» e ciò che su questa traiettoria «accade» al di là di ciò che è stato preso in considerazione, anche se ciò che è stato preso in considerazione dovrà far parte dell’interrogazione da aprire. Riflessiva e non ripetitiva o semplicemente autoaffermativa, tale posizione farà certamente riferimento a un momento critico e a un esame circa la legittimità, assumendo su questo punto le rivendicazioni dell’Illuminismo o della filosofia analitica. Ma, in quanto riflessiva e non esercizio diretto della

40  Cfr. ivi, pp. 220 s. Plantinga può, in modo analogo, parlare di «credenza che vi sia uno schermo di computer davanti a me» o della «credenza che 7 + 5 = 12» (ivi, p. 67). 41  Si tratta di un punto distintivo decisivo che ho esplicitato in Diverses facettes de la thématique du croire, in Les constellations du croire, cit., pp. 2569, e in part. pp. 25-29.

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ragione a partire dalle sue sole possibilità, essa non si legherà né secondo la modalità della messa in primo piano di una religione naturale cara agli illuministi, né secondo la modalità delle regolazioni offerte dalle teologie filosofiche proposte da alcuni filosofi analitici42. Circoscrivere in tal modo l’interrogazione equivale a non considerare una tradizione secondo una visione di portata globale, né come modello dell’umano e del sociale. Allo stesso tempo, essa non risulterà sancita nelle sue affermazioni proprie, neppure per adattarla o per proporne una lettura ermeneutica. Non ci si riferirà a una situazione più indifferentemente tradizionale, non legata a una confessione particolare, ma a un modo d’essere e di porsi nel mondo che sarà da giustificare in quanto tale43 e dunque quasi-alternativo alla modernità. Ciò equivale, nel primo caso, a ripiegarsi sulla positività di una tradizione (fuori dal lavoro che l’attraversa e che la porta) e, nel secondo caso, a un richiamo a una disposizione antica «dimenticata» (e dunque da restituire). Come ho indicato già a partire dal primo capitolo del presente saggio, una tradizione non è, salvo ideolo­ gizzazioni, un modello positivo, ma neppure la traccia di una disposizione più originaria da ritrovare al di là di un «oblio»; essa è la costruzione instauratrice di un’identità, inscritta all’interno di discontinuità storiche e mondane, e si presenta come irriducibilmente situata e particolare. Ciò significa che anch’essa è il risultato di un processo, di forma complessa, irrigidito 42  Su questo argomento rinvio al mio Pourquoi et comment reposer la question de la vérité en matières religieuses, in J. Grondin - G. Green (a cura di), Religion et Vérité. La philosophie de la religion à l’âge séculier, Presses universitaires de Strasbourg, Strasburgo 2017. 43  Rispetto al celebre dibattito tra Gadamer e Habermas circa la validità rispettivamente di un appello alla tradizione e di una posizione di ragione ereditata dall’Illuminismo, si segue qui piuttosto la seconda linea, ma ciò non equivale a sancire tutte le maniere nella quali essa si è sviluppata né i suoi risultati effettivi.

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da differenze socioculturali successive e sempre rilanciate. In ultima istanza, possiamo affermare che una tradizione risponde di una inscrizione diretta nel mondo e di una situazione che di volta in volta le è propria, secondo un gesto trasversale, al quale partecipa o del quale è fatta, un gesto che si richiama allo stesso tempo a un’eterogeneità e mira al di là della semplice situazione. Concretamente, la prospettiva genealogica con cui leggere il nostro presente, che esigerà la messa in atto di una specifica impresa riflessiva, dovrà passare attraverso l’elaborazione di un certo numero di questioni, questioni che, in questo caso, si collocano tanto nel cuore dell’avvento della modernità – fino al punto da stabilirne la traiettoria – quanto al cuore delle difficoltà, delle avarie e delle aporie del nostro tempo cosiddetto postmoderno. In particolare dobbiamo chiederci: che ne è di ciò che supera l’umano o lo eccede, con tutto ciò che la questione comporta in termini di esteriorità e antecedenza? Che ne è del soggetto umano, della sua libertà e della sua singolarità inalienabile44? Che ne è dell’essere-insieme, con tutto ciò che «lega» – i consensi e le controversie – così come di ciò che chiamavamo, in altri tempi, il «bene comune»? Al centro di tutto questo: che ne è delle tradizioni, di ciò che esse condensano e mettono in atto? Tale analisi sarà condotta ridando valore alla differenza, e non senza tensione con quella propensione, tipica della modernità, di pensare secondo l’universalità – in ambito sociale e mondano – così come secondo i termini di un comune sovrastante. La genealogia qui richiamata non sarà l’equivalente di un semplice dispiegamento storico ma dovrà proporre una messa in

44  Per ulteriori riferimenti, si veda il mio De quoi le retour du motif religieux est-il le nom?, in J. Ehrenfreund - P. Gisel (a cura di), Religieux, société civile, politique, Antipodes, Losanna 2012, pp. 301-320, e in part. pp. 311-316.

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prospettiva, costituita a partire dai dati del presente e come luogo di problemi da individuare e da pensare, e che si riveleranno illuminanti. In questo senso, una messa in atto genealogica è un modo di onorare un tempo «post-metafisico», senza cadere tuttavia nella dispersione delle differenze, né nella semplice moltiplicazione all’infinito dei soli individui. È in funzione di una genealogia di questo tipo e dei problemi a partire dai quali essa si sviluppa che si esaminerà criticamente ogni tradizione: come storia instauratrice, con una propria forma – una storia fatta di reazioni e portatrice di novità delle quali si dovranno valutare gli effetti –, rinviante a un gesto inscritto nella storia e che fa storia, per valutare ciò che la sostiene, le sue forze di sovversione, di sublimazione, di creazione e di perversione (il che presuppone, come in Freud, una topologia delle pulsioni in atto), e non senza passare inoltre per una comparazione e una tipologizzazione sul piano di ciò che ne deriva. In quanto messa in atto e in opera di una continuità al di là delle discontinuità effettive, e in quanto reazione instauratrice, una tradizione vive di una vita fatta di credenze e dunque di un credere, esplicito o meno. Ciò che sto abbozzando deve permettere una valutazione dei suoi dispiegamenti, sempre diversi e sempre ambivalenti. Richiamarsi alla tradizione e alle credenze a essa legate per proporre una valutazione di ciò che le sostiene esaminandole sul piano delle pratiche e delle effettività storiche – e dunque non del logico secondo un ordine epistemico –, lungi dall’attribuire la condanna di «fideismo» o il «tradizionalismo», può permettere, a partire da un dibattito, un discernimento critico (secondo uno spostamento) ed un apprezzamento ragionato (al di là dell’appartenenza o dell’adesione), certo da assumere, ma al di fuori di un’idea di verità ultima e secondo un ordine diverso da quello, troppo cartesiano, della certezza. Si annuncia dunque un lavoro che prevede due momenti, in interazione fra di loro, ma non secondo una simmetria né una

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potenziale opposizione, in quanto tali momenti non hanno lo stesso statuto e non stanno sul medesimo piano. Il lavoro riguarderà da un lato le tradizioni, e si riferirà dunque a un’umanità comune o a un mondo di tutti, pubblico e secolare – foss’anche per segnare uno scarto con esso –, nel confronto con l’illusione delle tradizioni di ritenersi autosufficienti e di immaginarsi come contro-modelli; dall’altro lato, verterà sul sociale dato, e condurrà ad un confronto tra le tradizioni e la propensione del presente di autoaffermarsi senza spostamento. Si tratta di un lavoro di mutue correzioni, fatto di autoriflessione critica a partire dall’effettivo dispiegamento di una storia delle tradizioni, da un lato, e di una storia della ragione e del sociale, dall’altro. Un lavoro che dovrà altresì precisare ciò che ogni volta è in gioco, rispettivamente nelle sue particolarità e nei suoi limiti, tanto nel cuore del tradizionale o del religioso che in quello del sociale e dell’umano. Non si tratta dunque di confermare delle tradizioni prese esclusivamente nella loro positività, né di ratificare la ragione dell’umano e del sociale autoaffermato, rischiando di non lasciare spazio se non a dei «diritti soggettivi»45, che peraltro condurrebbero a un umano fondamentalmente «funzionalizzato» o inteso come semplice «prodotto»: ma non si tratta neppure di abbandonare l’intelligenza del sociale alla semplice descrizione e, in questo caso, la sorte riservata alle tradizioni è rivelatrice. Fondamentalmente, concordo con quanto evidenziato da B ­ runo 46 Karsenti in Structuralisme et religion . Rinviando a Edmond Ortigues (pp. 69 ss., 78 ss.), egli invita a prendere in carico la realtà delle tradizioni, proponendo di trattare tale motivo, ­spesso

45  Su questo punto, e in relazione alla presente discussione, cfr. P. Manent, Situation de la France, DDB, Parigi 2015. 46 In Faire des sciences sociales, vol. 2: O. Remaud - J.-F. Schaub - I. Thireau (a cura di), Comparer, ÉHESS, Parigi 2012, pp. 61-93.

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ignorato o trascurato, come un operatore nel campo delle scienze delle religioni. In una discussione con Lévi-Strauss, Karsenti scrive che «la credenza istituita» e la «tradizione» sono state l’«impensato» religioso dello strutturalismo (p. 76). Ciò significa, a mio avviso, che l’ordine mobilitato dalle tradizioni, e sul quale esse stesse operano, è un ordine spostato, terzo, troppo spesso utilizzato a profitto di interessi ideologici, ma rispetto al quale vi è un accecamento che non permette una corretta considerazione o un riflesso semplicemente reattivo che lo lascia a usi contestabili, o anche peggio. Si abbandonerebbe così ciò che è effettivamente in gioco, e che riguarda, in fin dei conti, niente meno che il processo di socializzazione e quello dell’avvenimento dell’umano singolare. Considerare i fatti riferiti alle credenze religiose e la tradizione porterebbe, prosegue Karsenti, a dare «alla storia delle religioni un’altra piega», non per il fatto che essa abbandonerebbe il terreno della storia, ma al contrario perché essa diventerebbe «altrimenti [e dunque ancor di più] storica di quanto non fosse». Si tratta certamente di «riprendere in filosofia il problema del religioso così come le scienze sociali lo hanno riconfigurato» (p. 78), al di là di tutti gli investimenti fenomenologici semplici e diretti o di tutti i ripiegamenti sulla coscienza degli attori, in questo caso quella dei credenti. Ma se è vero che ciò a cui conduce la riconfigurazione del problema del religioso da parte delle scienze sociali non è stato portato a termine (sul versante del modo ereditato di trattare il religioso, particolarmente in teologia), è vero anche, inversamente, che il dispiegamento delle scienze sociali nell’ambito del religioso può realizzarsi solo al prezzo di una perdita di ciò che il religioso portava con sé, e può così condurre a tenersi in ritiro, per prudenza o persino per timore, abbandonando il religioso alla sua «scatola nera», con il rischio di lasciarlo ai soli credenti e alla loro sfera privata, alle loro sopravvivenze soggettive, o persino a una scena folklo­ ristica, museale e consegnata allo spettacolo. «Riprendere in

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filosofia il problema del religioso» – riprenderlo sul piano del pensare – è qualcosa di poco sfruttato. Una riflessività anticamente interna al religioso dovrà senz’altro essere trasposta, per trovarsi deliberatamente dispiegata in un campo secolare, ma allo stesso tempo dovranno essere mantenuti o ripresi uno stile di interrogazione e l’esigenza di un pensare, da far fruttare nel cuore di un dominio oggi irrigidito da troppe riserve. Per tornare alle tradizioni, delle quali ho detto che sarebbe opportuno rielaborare la positività interna – così come la riflessività propria –, possiamo ancora una volta riferirci ad Alasdair MacIntyre. Rispetto agli «usi ideologici» delle tradizioni che convalidano la loro positività in quanto tale, egli ci invita in effetti a focalizzare l’attenzione su di esse prendendole come tradizioni di problemi e di conflitti47, aperti ma determinati e storicamente incarnati. Si delineano delle traiettorie irriducibilmente differenti, ognuna delle quali attraversata inoltre da una pluralità interna. Per esempio, ci sono traiettorie in cui la questione del rapporto con l’utopico è centrale, così come nell’Occidente contrassegnato dal cristianesimo, e altre no; circa la questione in causa, si tratta ogni volta della pluralità – in questo caso, per l’esempio fatto, tra la dialettica agostiniana di due città mescolate (la «città terrena» e la «città di Dio») e il motivo gioachimiano di un «vangelo eterno», fondamentalmente nuovo. Che tali traiettorie siano di fatto quelle di una presa in carico di un problema, che esse siano differenti, e che ciascuna sia attraversata da dispute delle quali risponde secondo un ventaglio definito di possibilità, tutto ciò non può che aiutare rispetto all’idea che un ricorso alla tradizione – in tal caso secondo una traduzione che passa attraverso uno spostamento e una trasposizione appropriata – possa rivelarsi fruttuoso per la società globale. Se una produttività delle tradizioni è possibile,

47  A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 268.

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lo sarà nella misura in cui esse saranno rilette e riprese a partire da questioni che non sono esplicitamente o coscientemente proprie. La lettura da condurre dovrà mostrare – ed è proprio il ventaglio delle possibilità a favorirlo – che esse ne rispondono a modo loro, di fatto e indirettamente. Lavorare su una tradizione equivale a mostrare che essa cristallizza nella sua positività dei motivi globalmente umani e a tentare di farli risuonare. Nella prospettiva proposta, il ricorso alla tradizione in materia di organizzazione umana e sociale dovrà dunque rompere con ogni fondazionalismo48. Inoltre, il ricorso a una o a diverse tradizioni non consisterà in una ripresa delle posizioni di integralismo che esse possono presentare, il che accade proprio quando esse si pensano come modelli, o meglio come contro-modelli o contro-culture. Si profila così una modalità di presa in carico delle particolarità tradizionali e religiose più vincolante rispetto a quella accordata da Jürgen Habermas49: essa impone infatti a ciascuno una condivisione su delle sfide fondamentalmente umane, da argomentare a questo livello, anche se sarà soltanto per individuare delle «controversie». Parallelamente, sul piano sociale, questa volta, un tale ricorso si imporrà per il fatto che avremo rifiutato ogni appello a un sogno di trasparenza completa, di egualitarismo massimale e di ragione arbitrante. In materia umana e sociale, la trasparenza non è né data né da prendere di mira, salvo esporsi a gravi ripercussioni; e la pluralità, senz’altro da regolare, non va però superata. Quanto alla ragione, assolutamente da difendere, essa

48  Nel senso corrente del termine, non nel senso del teologo Lindbeck (su quest’ultimo cfr. M. Boss - G. Emery - P. Gisel (a cura di), Postlibéralisme? La théologie de George Lindbeck et sa réception, Labor et Fides, Ginevra 2004). 49 Cfr. J. Stavo-Debauge, Le loup dans la bergerie. Le fondamentalisme chrétien à l’assaut de l’espace public, Labor et Fides, Ginevra 2012, pp. 114117, 135 s.

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non supporta che un unico regime50. Ma la complessità, la diversità, la positività e le particolarità, tutte irriducibili e istruttive, sono giustamente da elaborare come luoghi di ambivalenze o di perversità, i soli luoghi in cui può avvenire e avviene di fatto l’umano.

50  Da ciò deriva la mia decisione di non partire dalla trasparenza dei concetti, ma delle effettività sociali che lavorano la storia e le scienze umane, effettività che sono il luogo tanto delle tradizioni (Cfr. B. Latour, Enquête sur les modes d’existence. Une anthropologie des modernes, La Découverte, Parigi 2012, pp. 162 s., 165, 281 s., 301 s., 312) quanto del credere (si veda P. Gisel, Les constellations du croire, cit., e P. Gisel - S. Margel [a cura di], Le croire au cœur des sociétés et des cultures, cit.), detto in questo caso in contrapposizione a quanto afferma Pascal Engel in Le droit de ne pas croire, cit., punto 22.

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III Qual è la pertinenza delle tradizioni nell’ambito della razionalità pubblica? Secondo quale statuto e quali limiti?

L’ultima sezione del capitolo precedente evocava «un doppio lavoro da effettuare» – «secondo un’interazione ma non secondo una simmetria» –, da un lato sul sociale dato, e dall’altro sulle tradizioni. I due capitoli che seguiranno si impegneranno nel precisarne i termini. Comincio con le tradizioni, approfondendo i problemi fin qui aperti Il prossimo capitolo si occuperà invece di ciò che deve essere ripensato sul piano del sociale e del politico. Una tradizione vive di una forza di affermazione, secondo una forma «performativa». Con una tradizione è in gioco un aspetto di instaurazione e qualcosa di controfattuale, non di constativo, né di pura adattabilità, la quale può condurre alla dissoluzione in un collettivo anonimo e al giorno d’oggi funzionalizzato. In questo senso ne va del destino del soggetto e delle singolarità possibili. Ma una tradizione deve essere regolata, tanto più che ciò che ad essa è legato può essere esplosivo, o per lo meno arbitrario; e la regolazione suppone e richiama un ordine di razionalità condivisibile. Del resto, il richiamo alla tradizione conduce alla pluralità. Di fatto. Vi sono in realtà delle tradizioni ed esse si oppongono fra loro. Ma anche di diritto, una tradizione si regge fondamental-

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mente sulla singolarità e si offre come un dispiegamento – collettivo, certo, o almeno condiviso –, ma questo è il dispiegarsi di una posizione fra le altre. In quanto singolare, una tradizione implica dunque il plurale; per la stessa ragione, essa presuppone il mondo in cui è immersa. Il mondo che essa non è, ma attraversa e segna, un mondo che non intende assorbire in una totalità, ma nel quale deve inscrivere un gesto e del quale deve proporre una rappresentazione, una scrittura, delle messe in scena, tutte cose che vanno a condensarsi nella memoria. La secolarità – o il mondo stesso – è qui fondamentale. È primaria per il fatto che da essa si parte. Ed è anche ultima in quanto ad essa si fa ritorno. Non rimossa dunque, ma presente come sfida, che provoca, stimola e nutre; come materia o come corpo da lavorare, anche come promessa, poiché è solo esponendosi ad essa che si accede a sé o, semplicemente, si esiste. Il punto è decisivo. Impedirà di esaminare e comparare delle tradizioni considerate per se stesse, foss’anche a scopo di dialogo e di arricchimento. Il paragone tra diverse tradizioni sarà fruttuoso solo a partire da quel terzo costituito dal mondo, rispetto al quale esse sono sfalsate, e al quale a loro modo rispondono, foss’anche – talvolta – nel diniego. Questo dato di fondo invita a riflettere secondo due ordini di realtà, ciascuno dei quali ha una legittimità propria: da una parte l’ordine delle tradizioni, particolari, dall’altra l’ordine del mondo, secolare e pubblico, di tutti e per tutti. È opportuno sottolineare bene che i due ordini non devono essere pensati nel prolungamento l’uno dell’altro, e neppure secondo un’idea di integrazione dell’uno nell’altro (a profitto dell’uno o dell’altro), ma secondo differenze e compatibilità. A questi due ordini corrispondono due tipi di realtà istituzionali, anch’esse da sancire nelle loro differenze. Si potrà, e si dovrà anche, a mio avviso, pensare la loro compatibilità, e del resto non senza

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c­ onsiderarne le interazioni possibili, ma si tratterà di interazioni diversificate, secondo una modalità indiretta, non integrate in un insieme comune, omogeneizzato1. Le due sezioni che seguono si sforzeranno di esplicitare e di abbozzare, da ambo i lati, alcune incidenze.

1. Statuto e limiti di una tradizione particolare nella società secolarizzata Se, in materia di società comune e di tradizioni diverse, occorre pensare due ordini di realtà, e se occorre pensarle secondo la differenza, è perché da ciascuno dei lati – dal lato della società secolare e dal lato delle tradizioni particolari, religiose o provenienti da altre «comunità morali»2 – vi sono degli «interessi» differenti da garantire: differenti motivi intellettuali legati a differenti poste in gioco, motivi di fondo o semplicemente umani. Ciò che è «buono» per una società è ciò che chiamiamo, nella lunga durata della nostra storia occidentale, il «bene comune». Che non ha la forma di un ideale al quale tendere e che presiederebbe o dovrebbe presiedere all’organizzazione sociale, ma

1  Per un approfondimento di questa posizione, sviluppato rispetto a ciò che possono e devono essere le facoltà di teologia, cfr. il mio Une double vocation de la théologie, interne et externe. Ordres différents et compatibilité, in «Études théologiques et religieuses», vol. 88, n. 3, 2013, pp. 375-390. 2  «Comunità morale» è un concetto usato nell’ambito della teoria politica e distinto dallo spazio «civico» riferito propriamente alla società, che non coincide con una comunità, per utilizzare le parole di Ferdinand Tönnies nel suo classico del 1887 (per ciò che riguarda il rapporto con ciò di cui stiamo discutendo, si veda M. Boss, Thèses pour une théologie ecclésiale et scientifique, missionnaire et civique, in «Études théologiques et religieuses», vol. 88, n. 3, 2013, pp. 365-373, e in part. p. 372, studio al quale il mio articolo segnalato nella nota precedente rispondeva).

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che è, classicamente, ciò che permette a ciascuno e ad ogni organizzazione la propria perfezione3. Le differenze intrasociali sono qui considerate come irriducibili, ed è in funzione di esse che ci si «regola» – peraltro a giusto titolo: siamo nell’ambito del diritto, non della giustizia e ancor meno della fraternità o dell’amore – e si interviene secondo una normatività non estensiva, per quanto aperta e accogliente. Vale a dire che si trova contemporaneamente anche sancita una differenza, del tutto irriducibile, tra la società, quale che sia la sua forma, e ciò che la può fondare e giustificare4. Ricca della sua tradizione – una tradizione di problemi, ricordiamolo, compreso il problema del suo rapporto con il civile e il politico –, una «comunità morale» può apportare un contributo alla messa in opera, sempre da riprendere e adattare, del «bene comune». Ma essa non lo farà rispondendo di ciò che la istituisce come comunità propria (come Chiesa per esempio, o qualcosa di analogo). Il suo contributo sarà o dovrà essere specificamente pensato per e in funzione di ciò che è la società civile, in questo caso secolare. Una società non dev’essere considerata a partire d ­ all’orizzonte o secondo la mira di un’armonia integrativa, e se ci sarà da 3  Nel cattolicesimo, troviamo ancora la presenza di questo motivo nella «Costituzione pastorale» Gaudium et Spes (26), del 1965, del Concilio Vaticano II. Per una ripresa del tema nel rapporto – critico – con la società neoliberale contemporanea, si veda: F. Flahault, Où est passé le bien commun?, Mille et une nuits, Parigi 2011; e anche il precedente Le crépuscule de Prométhée, Mille et une nuits, Parigi 2008, cap. IV; o il più breve Pour une conception renouvelée du bien commun, in «Études», vol. 418, n. 6, giugno 2013, pp. 773-783. 4  Nella prospettiva ebraica né l’elezione in Abramo né la legge di Mosè sono per le «nazioni»; nella prospettiva cristiana la società non è il Regno di Dio (la «città terrena» non è la «città celeste»), e non «non ancora» né «non interamente», ma «non è affatto» e da principio, salvo perversioni certo che hanno potuto e sempre possono darsi.

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lavorare e da costruire uno o più «consensi», si tratterà di consensi ogni volta minimali, che permettano di far vivere fruttuosamente le differenze e le «controversie» che esse possono esprimere; non si tratterà dunque di consensi integrali. Per quanto sia possibile, e non senza dannose repressioni, e neppure senza qualche violenza derivante da un dato maggioritario, un’armonia integrativa non è desiderabile; non lo è rispetto alla posta in gioco di fondo, e neppure rispetto all’umano. È infatti la differenza che permette all’umano di avvenire, singolarmente (secondo un vocabolario tradizionale, si direbbe a venire come «persona» e «spiritualmente», ma lo «spirituale» era allora l’esistere stesso), salvo tentazione diabolica. Di tutto ciò le «comunità morali», nella loro diversità di fatto e in quella che esse rappresentano in quanto tali, dovrebbero oggi dar testimonianza. Per se stesse e per il bene indiretto, della società di tutti. Che vi sia una problematica da aprire, da riaprire o da alimentare a proposito del bene o del buono sul piano della società è a mio avviso innegabile, e anche, oggi, particolarmente richiesto. Rispetto a una visione che, con il pretesto della secolarizzazione, non sa parlar d’altro che di funzionamenti da ottimizzare, lasciando la questione del bene e del buono solo alle «comunità morali», visione dalla quale deriva peraltro, sul piano sociale e politico, la tentazione di un comunitarismo fatto di ripiegamenti di ciascuno sui suoi «beni propri», secondo una semplice giustapposizione che si spera pacifica e in fondo neutralizzante. Ritengo inoltre che la problematica riguardante il bene e il buono sul piano della società come tale passerà per un appello alla tradizione, attraverso la costruzione e la mediazione, sarà dunque secondo un ordine «istituzionale», non «naturale» (né «generico»). Ma ciò può dare origine a effetti perversi se lo statuto e le forme di ciascuna delle istanze in causa non sono ben precisate, sia dal lato delle tradizioni o delle «comunità morali», così come dal lato della società in quanto tale.

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Una tradizione di valori o di radicamento – una tradizione storica, religiosa, spirituale o anche legata a un’altra sorta di «comunità morale» – non deve innanzitutto farsi carico, almeno non in quanto tale e direttamente, del modello di un viver bene comune sul piano della società di tutti e nel presente. È d’altronde per questo che le società premoderne differenziavano le funzioni, quella di capo o di re, quella di prete o di sciamano, quella di saggio e quella di profeta, senza contare quella di guerriero. Su questo punto, la modernità europea costituisce un’eccezione, e in questo caso non per il meglio! Essa dimentica infatti questa differenziazione delle società premoderne, immaginando queste ultime come unitarie, al riparo sotto una sola istanza pensata come religiosa e dalla quale la modernità si sarebbe giustamente emancipata. Ora vi è qui uno sguardo legato a una storia di corta durata, che spiega certo una forma religiosa rivendicante l’insieme della società civile e politica, così come ha potuto svilupparsi (per quanto in modo estremo, ma significativo e cristallizzante una tendenza purtroppo allora all’opera da qualche secolo) nel Syllabus romano del 1864, scritto contro «i principali errori del nostro tempo». Oggi, un’impresa proveniente dagli ambienti dell’evangelismo gli dà un’altra forma, ma con una postura analoga quanto alla tematica che qui ci interessa, quella del «dominionismo» nato verso la fine degli anni ’80, sviluppato secondo un «mandato culturale»5 divino, e non senza uno sfondo creazionista e nutrito dalla «Ricostruzione cristiana» di Rousas John Rushdoony (1916-2001). Si potrebbe anche evocare la radicalità religiosa nell’islam, che ha preso il nome di islamismo. Tornerò su questi fenomeni, per dire in cosa sono tipici del mondo contemporaneo.

5  Cfr. Ph. Gonzalez - J. Stavo-Debauge, Politiser les évangéliques par le «mandat culturel». Sources, usages et effets de la théologie politique de la Droite chrétienne américaine, in J. Ehrenfreund - P. Gisel (a cura di), Religieux, société civile, politique, cit., pp. 241-276.

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È opportuno aggiungere che non ci si può oggi avvalere di un apporto al «bene comune», o di una visione presentata come mirante a un «bene comune» per la società nel suo insieme, ricorrendo a questo vocabolario ma trasformandone o pervertendone in profondità la nozione, nella misura in cui si tratta di una mira sociale interamente rapportata a una prospettiva particolare considerata peraltro come una visione d’insieme che possa valere per tutti. Così accade nella «Dichiarazione di Manhattan» (2009), la quale mostra emblematicamente l’incontro di una vena proveniente dall’evangelismo statunitense e di una corrente cattolica conservatrice (un incontro inaugurato con la «Moral Majority» di Jerry Falwell alla fine degli anni 1970 e attivo nella prima campagna in vista della presidenza Reagan)6, di fatto in rottura con le proprie tradizioni storiche, a fortiori, su questo punto, sul versante cattolico. Gli esempi ai quali ho appena fatto riferimento sono politicamente situati a destra, ma se ne possono trovare anche a sinistra, nutriti di una vena utopica che è anche una delle caratteristiche della modernità, peraltro fin dagli inizi (More e Campanella, «L’abbazia di Thélema» di Rabelais o La nuova Atlantide di Bacone), in una parte delle teologie della liberazione (l’America Latina degli anni ’70) o nelle teologie cosiddette della speranza (Jürgen Moltmann e le persone a lui vicine negli anni 1970-1980). Conosciamo i parallelismi e gli scambi che si sono potuti sviluppare tra il cristianesimo e il marxismo, in prospettiva di una società che fosse buona, sostanzialmente, e lo fosse allo stesso tempo per tutti.

6 Cfr. Ph. Gonzalez, La Déclaration de Manhattan, ou «l’œcuménisme des tranchées». Catholiques conservateurs et évangéliques dans la Droite chrétienne américaine, in J. Famerée - P. Gisel - H. Legrand (a cura di), Évangile, moralité et lois civiles/Gospel, Morality, and Civil Law, LIT, Vienna 2016, pp. 307-336.

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In linea di principio, una tradizione di valori e di radicamento, e in particolare una tradizione religiosa, non potrebbe essere riconosciuta come una realtà che si fa carico di un bene per tutti se non in modo indiretto e in seconda istanza, per via di una trasposizione e non semplicemente secondo una rilettura adattiva. In prima istanza, una tradizione risponde di dati particolari, storici e contingenti, ma essa allora deve svilupparsi secondo un asse che, nella disposizione sociale d’insieme, risponde di un «interesse» specifico oggi da riscoprire. Poiché se vi è oggi un’avaria a tal proposito – quasi una scomposizione – ciò dipende senz’altro da una società unidimensionale, per di più spesso affermata in nome di un egualitarismo e di una predominanza unilaterale dei diritti individuali, una società che è allo stesso tempo uniformante, ma dipende anche dal fatto che non si è più in grado di pensare questo interesse specifico, ciò a cui o di cui umanamente si risponde, né quale finalità si può prendere di mira (la definizione che ho ricordato del «bene comune» parlava di «perfezione propria», una perfezione singolarizzata e contemporaneamente determinata, dunque limitata). Precisiamo che la demarcazione qui esposta non vale se non rispetto alle tradizioni di tipo settario – o tentate da una posizione settaria –, tagliate fuori da una società in fondo ritenuta malvagia, secondo una eredità di matrice apocalittica, almeno per ciò che riguarda la nostra storia occidentale. Essa vale anche, lo si sarà compreso, rispetto alle comunità che, forti della loro buona volontà in favore dell’umano, si pretendono aperte e accoglienti (cosa non da poco, e i cui effetti possono essere assolutamente benefici), ma che non smettono di definire il bene per tutti o ciò che è buono per tutti a partire dalla loro tradizione e dai suoi fondamenti, foss’anche secondo una modalità ospitale e foss’anche integrando delle procedure ermeneutiche applicate a riferimenti propri. La questione qui dirimente, e sulla quale il presente saggio invita ogni tradizione a riflettere, è quella di sapere qual è l’asse trasversale al sociale e all’umano

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che ne legittima specificamente l’intervento, un’asse che essa assume e di cui si fa carico; o, altrimenti detto, qual è l’«interesse» umano in gioco, avendo consapevolezza che ve ne sono di diversi generi, al di là del politico e del civile (peraltro entrambi da precisare, e secondo la loro distinzione): il culturale e le sue espressioni, estetica e letteratura comprese, il morale con le sue conferme e le sue regolazioni (compreso il penale, che non è ad esso riducibile, ma rinvia ad altri criteri), l’ambito scientifico e i suoi saperi, quello religioso e le sue simbolizzazioni, così come i suoi tipi di negoziazione e di disposizione messi in opera nel rapporto dell’umano con ciò che lo supera.

2. Il contemporaneo, un tempo di tradizioni fuori dalla storia e fuori dalla cultura Ho fin qui abbozzato una questione di principio, o formale, e l’ho profilata in vista di dati contemporanei nel contrasto con una storia di più lunga durata. Ma quando le tradizioni dimenticano la loro condizione e il compito che ne deriva, o ciò a cui devono mirare – e lo dimenticano volentieri, oggi, partecipando con ciò stesso e senza saperlo di una tradizione moderna o postmoderna –, esse dimenticano la propria storia e ciò che hanno potuto mediare, tal volta in modo forzato, ma spesso assumendolo ed esplicitandone delle ragioni di fondo. Delle ragioni che non erano dunque solo compromessi necessari, o accomodamenti, ma qualcosa che le tradizioni avevano integrato secondo una richiesta ritenuta fruttuosa, anche o innanzitutto per se stesse, nel cuore del loro dispiegamento e di ciò che vi accadeva. Concretamente, le tradizioni sono inoltre tutte quante dei luoghi di meticciato o di acculturazioni inventive. E lo sono spesso a partire da una base di mondo «comune», riconosciuto nella

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sua differenza. Così ad esempio è nell’ebraismo per il quale, per cominciare, «la legge del regno [o del re] è la legge», così si ripete a partire dall’esilio in Babilonia e secondo quanto sancito dal Talmud (Gittin 10b, ma già Geremia 29). O ancora nel cristianesimo secondo il quale, per usare un vocabolario agostiniano, la «città terrena» nella quale inscriversi non è – e non può essere – la «città di Dio», motivo questo che ha segnato tutto il corso della sua storia e che rinvia alla posizione indicata nella sezione precedente. O ancora nell’islam, che ha sviluppato un diritto specifico, il fiqh, per mediare da una parte il Corano e la «via»7 che da esso si sviluppa, e dall’altra le realtà nuove del tempo e le situazioni alle quali far fronte. Le regolazioni della vita sociale storicamente proposte hanno inoltre integrato, anche se questo è accaduto a livelli diversi secondo le epoche o secondo le tradizioni in causa, un passaggio, assunto e spesso riflesso, attraverso il diritto consuetudinario o il diritto cosiddetto «naturale»8. Infine, il meticciato e l’acculturazione si rivelano esser stati all’opera anche sul piano delle espressioni nelle tradizioni in causa (nel cristianesimo: dottrina compresa).

7  La – troppo – nota Sharia, la quale non è affatto, tradizionalmente, ciò che è apparso con i tradizionalismi contemporanei, sia che la si voglia rivendicare, sia che ci si voglia opporre ad essa: non vi è un testo o un codice che si chiami Sharia, il termine rinvia invece, a titolo di orientamento di fondo, a una via, da concretizzare in modo giusto; cfr. N. Bernard-Maugiron - J.-P. Bras, La Charia, Dalloz, Parigi 2015, e i testi di Maurice Borrmans segnalati nella nota che segue. 8  Per il cattolicesimo, il punto è quasi parte integrante del suo genio. Per il protestantesimo, seppure non si presenta allo stesso modo, ci è offerto un equivalente dalla distinzione tra ciò che deriva dal «Vangelo» (lo spirituale, l’umano «davanti a Dio» o l’umano più profondo, ovvero l’umano «autentico») e ciò che deriva dalla «legge» (secolare o mondana). Per l’islam, cfr. M. Borrmans, Éthique, Loi divine et lois civiles en pays d’Islam e Sharī‘a et lois civiles en cohabitation: tensions et conflits?, in J. Famerée - P. Gisel H. Legrand (a cura di), Évangile, moralité et lois civiles, cit., pp. 147-165 e 287-306.

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Occorre sottolineare che le tradizioni costituite hanno – o avevano – coscienza delle variazioni storiche attraversate e di ciò che avevano mediato o regolato – proprio come tradizioni –, avendo interiorizzato una parte della loro profondità storica diversificata e della loro inscrizione nella socialità e nella cultura, seppure non sempre con la stessa acuità, e anche se in alcuni casi ciò è andato di pari passo con un certo diniego rispetto alle differenze effettivamente integrate e con una sovrastima della propria continuità e omogeneità. Ora, oggi, noi viviamo sintomaticamente un tempo della religione fuori o senza cultura, come ha ben segnalato Olivier Roy9, che vive della propria autoaffermazione in fondo e ogni volta mondializzata. Religione senza cultura, non solo in quanto ignora la cultura degli altri o la vilipende, o perché chiusa a ciò che può essere umanamente la cultura in quanto tale, ma senza cultura per ciò che riguarda la propria storia (fatta proprio di cultura) e senza cultura per il suo presente che essa pretende puro (puramente religioso). In fondo, d’altronde, si tende meno, all’interno, a favorire dei cammini personali e dell’integrazione (in questo caso integrazione di ciò che ci accade a partire da un gioco di differenze che possono rivelarsi produttive)10 che non a solidificare11, o a (ri-) convertire i propri aderenti. Nell’evangelismo – ma altre tradizioni offrono oggi delle analogie –, una buona parte del

9  O. Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura (2008), tr. it. di M. Guareschi, Feltrinelli, Milano 2017. 10  Parlare di integrazione rinvia a dei processi che hanno condizionato diverse scuole di psicologia, tra queste, nel XX secolo, classicamente quella di Carl Gustav Jung, ma anche di Carl R. Rogers (cfr. La personne totalement intégrée: image de la vie pleine aux yeux du thérapeute [1957, 1961], ripreso nella raccolta a cura di H. Kirschenbaum e V. Henderson, L’approche centrée sur la personne, Randin, Losanna 2001, pp. 437-447). 11  Tipico: per lo Stato islamico, ci sono innanzitutto i mussulmani (loro stessi), poi i cattivi mussulmani (gli altri sunniti) e gli eretici (gli sciiti), e poi ancora gli ebrei e i crociati (i cristiani).

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discorso contemporaneo cosiddetto di evangelizzazione mira anche, di fatto, alla conversine interna. Per ciò che concerne l’assenza di cultura che riguarda la propria tradizione – situazione che non può che accompagnare e rinforzare un atteggiamento di rottura con il proprio ambiente socioculturale e una focalizzazione su un fondamento isolabile e convalidato in quanto tale e per se stesso –, l’evangelismo è eloquente e anche, a bene guardare, stupefacente. Ci si pretende infatti tradizionali, non liberali-adattivi (al di fuori dell’«umanesimo secolare», si ripete negli Stati Uniti), ma ci si rivela di fatto moderni o contemporanei, anche se secondo un modo reazionario. Le rotture con la propria storia, per quanto incoscienti, e dunque né riflesse né assunte, sono flagranti. Enumeriamone alcuni tratti. Li prendiamo a partire da un tessuto interno e secondo formulazioni quasi dottrinali, ma sono più globalmente sintomatici di ciò che ogni volta è in gioco, e si potrebbero trovare facilmente delle analogie, mutatis mutandis, in altre tradizioni, con disposizioni e vocabolari diversi12. In tal senso si può osservare la dimenticanza radicale che il cristianesimo ha tradizionalmente vissuto non di un senso letterale della sua Scrittura, ma di una teoria dei quattro sensi irriducibili e individuanti un cammino diverso nella considerazione della verità o di Dio; la dimenticanza del ricorso tradizionale all’allegoria, ricorso nato, per cominciare, nella messa in rapporto dei due Testamenti, la cui differenza è conservata, anche se sono i due canonici e messi sullo stesso piano (alcuni evangelici statunitensi parlano oggi di una «legge di Dio» non solo per la 12  Come, nell’islam, la costruzione retroattiva di un mito politico (si vedano a tal proposito i lavori di Nabil Mouline, tra i quali Le califat. Histoire politique de l’islam, Flammarion, Parigi 2016) e il salafismo (il ritorno ai «pii predecessori», «antichi» o «antenati») con i suoi miti, fatti di nostalgie su una base immaginaria (si veda per esempio S. Amghar, Le salafisme d’aujourd’hui. Mouvements sectaires en Occident, Michalon, Parigi 2013).

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società di tutti ma ricavando questa legge, direttamente e senza altra dialettica, dall’Antico Testamento); la dimenticanza circa il fatto che Dio è stato tradizionalmente pensato, prima della modernità (o prima del nominalismo della fine del Medioevo), secondo una discontinuità o una disproportio con le realtà del mondo, dimenticanza a tutto vantaggio di una prospettiva inglobante di forma questa volta onto-teologica; la dimenticanza che qui non ha un riferimento determinante (una cristologia che rinvia a una storia passata) se non nel legame con una realizzazione presente (all’insegna di uno Spirito Santo che non ha funzione, tradizionalmente, e al contrario di ciò che accade in una parte dell’evangelismo, di prendere il posto di un riferimento passato e di supplire così a un’assenza, ma rinvia a ciò che lavora l’istanza determinante e sovraintende a ciò che vi si dispiega); la proclamazione di una «signoria di Gesù» che, oltre alla sua unilateralità nel rapporto con il mondo, elude, dall’interno, ogni distanza e ogni dialettica tra Gesù e il Cristo, per cominciare, tra la figura Gesù Cristo e ciò che in seguito possiamo chiamare Dio; uno spostamento che relega la meditazione di un «mistero pasquale», di cui la croce è un elemento costitutivo e intrinseco, a vantaggio del rinvio a una resurrezione vista come happy end e risposta gloriosa (la croce tende così a diventare un momento sospeso in una necessità estrinseca pensata in termini sacrificali di tenore quasi cosmico13); un’attenuazione delle regolazioni comunitarie differenziate – se pur presenti in una vena storica più antica dell’evangelismo, anche se vi cristallizzava una modalità cristiana meno i­ stituzionalizzata di altre – a vantaggio di un ricorso diretto alla sola Bibbia o di una piena fiducia accordata a un leader di tipo carismatico.

13  Questa dimensione cosmica funziona come destino esterno: l’umano non partecipa a ciò che vi si opera, ma ciò che vi si opera è a suo vantaggio.

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La rottura nei confronti di una inscrizione nella storia, da riprendere o da proseguire, a vantaggio di una radicalità fuori dalla storia e fuori dalla cultura, sfalda oggi l’islam. Nuovi raggruppamenti, venuti da altrove o fatti di conversioni recenti arrivano infatti a declassare le comunità tradizionali14, che sono inserite localmente e organizzano rapporti di vicinato, attività comuni, e mettono in atto un impegno civile che può anche mirare alla costituzione di un islam europeo. Per quanto riguarda la Svizzera, ciò che mostra su questo punto l’inchiesta La Svizzera delle Moschee15 è flagrante, nel contrasto tra le comunità o associazioni locali e un «consiglio centrale islamico svizzero» creato nel 2009 principalmente da recenti convertiti, fra i quali la figura mediatica di Nicolas Blancho. Più ampiamente, occorre evocare il movimento salafista, o anche, i Fratelli mussulmani. Al di là o al di qua, occorre precisare gli equivoci che si nascondono dietro l’espressione «rinnovamento»16 nella maggior parte delle tradizioni storiche, equivoci di cui il cristianesimo fornisce un ventaglio particolarmente illuminante17, sia sul versante cattolico che su quello protestante.

14  Sappiamo che i giovani Europei che hanno abbracciato lo jihadismo negli ultimi anni, per esempio in Siria, hanno vissuto poco la socializzazione nella tradizione e nelle moschee: cfr., fra gli altri, D. Thomson, Les Français jihadistes (2014), Les Arènes, Parigi 2016. 15  C. Monnot (a cura di), La Suisse des mosquées. Derrière le voile de l’unité musulmane, Labor et Fides, Ginevra 2013. 16  Nell’islam si può osservare ciò che attraversa la Nahda, nata nel XIX secolo, fatta di rinnovamento, di ritorno alle fonti e di adattamento a una parte della modernità, movimento riformista o conservatore secondo i momenti e gli attori, o secondo l’angolo di indagine che si proietterà su di esso; Tariq Ramadan ha dedicato la sua tesi al «rinnovamento»: Aux sources du renouveau musulman. D’al-Afghānī à Ḥassan al-Bannā un siècle de réformisme islamique, Bayard/Centurion, Parigi 1998. 17  Si pensi, nel cuore del XX secolo, al «Rinnovamento» cosiddetto biblico, liturgico o patristico, fecondo, rinnovante e fatto di riprese di un passato

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Per ciò che riguarda l’islam, sappiamo che un tipo di posizione fuori dalla cultura e fuori dalla storia può condurre, e ciò è accaduto anche di recente, non solo alla distruzione d’immagini o di luoghi appartenenti ad altre religioni (come la distruzione nel 2001 delle statue Buddha di Bamiyan in Afghanistan o, a Palmira in Siria, dei templi antichi di Baalshamin e Bel, peraltro tutti inscritti nel patrimonio mondiale dell’Unesco, da parte dello «Stato islamico» nel 2015), ma anche e in modo particolarmente netto, di luoghi, realtà e monumenti riferiti ad altri movimenti o ad altre posizioni mussulmane diverse da quella di cui si reclama la radicalità, queste ultime dipendenti da reti straniere al di fuori dell’inserimento locale e animate da uno zelo purificatore. Per esempio, si possono citare le distruzioni, nel 2012, a Timbuctù, nel Mali, di santuari plurisecolari, mausolei e altri monumenti mussulmani, manoscritti storici compresi, o ancora, in Iraq, il 29 giugno 2014, la distruzione dei siti di riferimento per altri tipi di islam o che potevano essere comuni ad altre fonti di monoteismo, come la tomba del profeta Giona, figura ebraica, cristiana e mussulmana, ad opera del califfato autoproclamato dello «Stato islamico», dunque al di fuori rispetto alle regolazioni tradizionali.

presentato e vissuto come portatore di verità (in quanto tale?), o a quei fenomeni chiamati «Risvegli»; ma tale fenomeno e il suo ambivalente si ritrovano al cuore di ogni «riforma» interna a una tradizione, e si possono rintracciare anche nella tradizione marxista, dove sono ricorrenti i richiami a ritornare ai testi, al di qua di una deviazione staliniana o sovietica, come nel caso di Robert C. Tucker (Economic and Philosophic Manuscripts of 1844, in The Marx-Engels Reader, W.W. Norton & Company, New York, 19611, 19782), o al contrario, come nel caso di Althusser (L. Althusser et alii, Leggere il Capitale [1965], a cura di M. Turchetto, tr. it. di D.A. Contadini, Mimesis, Milano 2006) o a riprendere con l’intenzione o la visione originaria al di là del «socialismo realmente esistente».

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3. Su un’abitazione e su un lavoro interno alle tradizioni Risulta oggi urgente che una tradizione di valori e di radicamento, e in particolare una tradizione di forma religiosa, intraprenda o riprenda un lavoro su se stessa, affinché se ne dispieghi una fecondità tanto all’interno quanto all’esterno, anche se questi due aspetti devono essere riflessi e abitati secondo ordini di razionalità differenti e non congruenti. Il primo requisito verterà sulla necessità di riaprire una riflessione sullo statuto, la funzione e l’asse di pertinenza rappresentato e assunto dalla tradizione che si abita, e dunque sui suoi limiti, ma anche sulla possibile forza propria, specifica. Ora, abbiamo visto che oggi è all’opera un potente trend sociale che si impegna a soffocare o a impedire ciò che qui vi sarebbe da pensare, un trend dal quale le tradizioni religiose stesse fanno spontaneamente fatica a liberarsi, quando non sposano la nuova situazione senza critica, anche a costo di ritrovarsi trasformate in profondità, investendo così la società e la cultura come se fossero davanti a un mercato libero sul quale sono invitati a posizionarsi dei gruppi di interessi giustapposti e autoreferenziali. Da ciò deriva una tendenza alla pubblicità e all’ideologia. Un secondo requisito riguarda la coscienza, sempre da ravvivare, dei diversi volti che la tradizione che si abita ha sposato lungo il corso della sua storia, e in particolare la coscienza circa le maniere che le furono proprie di articolarsi rispetto al «comune» delle culture e delle società in questione. Tali maniere furono tutto fuorché monolitiche. Se si considera questo aspetto unito alla coscienza della propria diversità, tale coscienza non può che emergere dal cuore di una riflessione su ciò che è e su ciò che vale la tradizione nella quale ci si inscrive, e che, per ipotesi, si intende prolungare o alla quale ci si vuole ispirare. Su questo doppio punto – da una parte, lo statuto o la funzione propria della tradizione in causa nel cuore del mondo e sul piano umano, e dall’altra la diversità dei suoi volti e delle sue

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articolazioni differenziate rispetto al «comune» –, la riflessione da riaprire all’interno è fondamentale. Non si tratta solo di una questione di adattamento, modernizzante, come ci si accontenta spesso di chiedere. Essa porterà per esempio l’attenzione su ciò che si intende con «rivelazione» e non solo sulle maniere di rapportarvisi. Ciò vale in particolare per il cristianesimo e per l’islam. Nel cristianesimo si darà così valore a una riflessione che, a partire dalla metà del XX secolo e specialmente nel cattolicesimo, si è scelto di chiamare «fondamentale»18, e non solo dunque a un lavoro volto a ripensare la dottrina e il dogma per dirne l’intelligenza interna (un intellectus fidei), lavoro peraltro anch’esso richiesto. Prendere in carico questo compito cosiddetto fondamentale, che passa per un chiarimento circa il tipo di verità in gioco, e che comprende dunque una valutazione della sua pertinenza nell’ordine socioculturale, porterà a focalizzare una origine, un inizio, una fondazione o un fondamento che, come tale e isolato da problematiche più ampie, deve darsi, in fin dei conti, in modo estrinseco e contemporaneamente arbitrario e al di fuori di una legittimità convalidabile in termini comuni. Non è impunemente che ho detto che una tradizione, lungi dall’essere paragonata con una verità isolabile che si potrebbe investire per se stessa o alla quale ci si potrebbe raccomandare, va interrogata in quanto effettività sociale, fatta di costruzioni storiche, per di più intrecciate e attraversate da un gesto continuamente ripreso. Ci si trova così in un regime di mediazione e di istituzionalizzazione, il che presuppone un

18  Tecnicamente, si parla di «teologia fondamentale», distinta dalla «dogmatica», per riprendere secondo registri differenti ciò che precedentemente era stato assunto dallo «speculativo», distinto dal «positivo» (nel senso in cui si parla di diritto positivo). Si può anche intendere ciò che Friedrich Schleiermacher chiamava «teologia filosofica», una teologia che emerge da un momento riflessivo trasversale, distinta dalla «dogmatica», che per lui si riferiva a una storia dispiegata e fatta di pratiche (cfr. Lo studio della teologia. Breve presentazione [1810 e 1830], Queriniana, Brescia 2005).

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processo mediatizzante l’eterogeneo, un processo che è opportuno chiarire, per cominciare, e rispetto al quale è opportuno, in seguito, non solo di definire il momento come positivo, ma anche di proporne un apprezzamento ogni volta circostanziato. Un terzo requisito consiste nel riportare in auge un lavoro interno alla tradizione che si abita e che mostri – e che pensi – in cosa e come ognuna delle realtà simboliche, rituali, dottrinali o di forma istituzionale, risponde delle questioni umane generali: esse costituiscono infatti una presa in carico e una cristallizzazione particolare19 di tali realtà. In tal senso occorre pensare il rapporto con il tempo che passa e ciò che con esso può o meno legarsi, il rapporto con lo spazio, il suo infinito e la sua esteriorità o il suo blocco, il rapporto con l’estraneo e con il prossimo, il rapporto con i limiti e il loro sovvertimento, con i divieti e con le loro trasgressioni regolate, rapporto con ciò che sfugge, deborda o eccede, tutte cose da segnalare, da simbolizzare e da ritualizzare, o di cui fare qualcosa20. Non far risuonare questo dato generale – dispiegandone di volta in volta le dimensioni proprie –, impedendosi così di pensare la particolarità della presa in carico all’opera nella tradizione che si abita, con tutto ciò che essa presenta in termini di forza propria e di rischi, decifrati a partire dal ventaglio di possibilità circa le diverse maniere di dar forma all’antropologico o al sociale comune, equivale a ideologizzare le proprie proposizioni o a ripiegarsi sui propri «beni di salvezza». La loro giustificazione e il loro essere o meno fondati, così come la loro possibile valutazione

19  Per una riflessione più ampia su queste realtà umane generali da far risuonare, cfr. il mio Du religieux, du théologique et du social, cit., pp. 106-108. 20  Ci si ricorderà che una tradizione porta in sé il fatto che vi sono conflitti su ciascuno di questi termini, per tale ragione essa può essere letta come tradizione di problemi e dunque essere attraversata da dibattiti aperti, che passano attraverso consensi e dissensi.

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non potranno che essere rinviate a un estrinsecismo o, meglio, a un tradizionalismo o a un fideismo. In tutto ciò, e sempre all’interno delle tradizioni – ma non senza incidenza nei rapporti con l’esterno, tanto più quando si saranno prese in considerazione in modo centrale i collegamenti con il mondo e con il sociale –, una tradizione va indagata storicamente, in modo critico e lasciandosi istruire da essa. Delle istituzioni intermediarie particolari, e non il politico in quanto tale (seppure può essere d’aiuto), favoriranno il compito istituendo dei luoghi a tal scopo. Per esempio, nel cristianesimo, le Facoltà di teologia21, o altre piattaforme di studio e di riflessione secondo le tradizioni e le loro disposizioni desiderate e possibili. Il lavoro da fare sarà di discernimento sul piano della storia anteriore e sul piano del presente, integrando certo anche una parte delle scienze umane con una inclinazione in direzione del religioso, o anche un’apertura alla pluralità religiosa e alla ricomposizione contemporanea di questo stesso religioso. Questo lavoro sarà allo stesso tempo condotto secondo la prospettiva di una ripresa, rinnovatrice e creatrice, al cuore di un ambito socioculturale dato22. Sarà dunque solamente descrittivo, seppure passerà per saperi storici e sociali spostati e oggettivi. Il gesto di un superamento, o di una invenzione, si terrà al centro del lavoro della riflessività impegnata, e nell’articolazione con delle poste in gioco di fondo, umane e sociali, esplicitate e valutate nel legame con motivi differenti e con la pulsione inscritta nel «sostanziale». I rappresentanti della Scuola di Francoforte, dei quali non si trascurerà il retroterra ebraico, condividevano

21  O, secondo modalità da specificare, dei filoni di teologia all’interno di Facoltà più genericamente dedicate al religioso o alle religioni. 22  Faccio mia, fondamentalmente, l’idea che la disciplina teologica sia orientata da un compito «pratico», sulla scia di F. Schleiermacher, Lo studio della teologia, cit., per quanto la maniera di definirlo possa variare.

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questa posizione, o questo atteggiamento, e sapevano che, su questa scena, sono le tradizioni storiche ad assumere e a dar corpo al «sostanziale», fatto di umano e di socialità presa in carico, ma con forme e portate dalla diversa operatività. Così messo in opera, il lavoro storico e riflessivo abbozzato è spesso assicurato, nel cristianesimo, in specifiche Facoltà teologiche. Si tratta di Facoltà di tipo universitario, senza fondamentalismi23, e con una prospettiva non solamente «biblica»24. Il lavoro che ho abbozzato vi è assunto a livelli diversi, e non sempre secondo l’estensione qui precisata né secondo tutti gli spostamenti indicati, ma per quanto interno possa essere a una tradizione, questo lavoro non è senza ragione critica. Almeno nella misura in cui non si limiti la ragione a un esercizio neutro e fatto di soli saperi cumulativi, staccato da qualsiasi pratica o radicamento, contrariamente a ciò a cui può condurre un trend sociale contemporaneo. Vi può essere infatti – a mio avviso, è corretto che sia abbia – una ragione del politico (fatta solo di utilità e di governo), una ragione del sociale (fatta solo di funzionamenti sociologici e di una giustapposizione di interessi particolari), una ragione del diritto (fatta di sistemazioni regolate da sé al di fuori dei principi generali derivanti da ciò che i giuristi chiamano dottrina, riconosciuta pertinente accanto alla legge positiva e alla giurisprudenza), anche una ragione 23  In Francia, al di là dell’Alsace-Moselle, esse non dipendono dal ministero dell’Educazione nazionale, ma integralmente dalle Chiese; si può notare che, in parallelo, la questione di una formazione francese (repubblicana?) degli imam ritorna regolarmente in occasione delle crisi o degli attentati. 24  O analogicamente altrove: strettamente coraniche o talmudiche (gli yeshivot); spetta certamente alle tradizioni stesse il compito di comprendere come possono allargare la riflessione secondo le proprie risorse e modalità, per quanto tale allargamento possa – e debba – venire da esigenze esterne, esigenze che a mio avviso una tradizione non dovrebbe ritenere per principio illegittime, ma tale posizione va pensata e assunta da ciascuna di esse, secondo le necessarie differenziazioni.

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della medicina (che consiste solamente nel biologico e della quale classicamente si diceva che era un’arte, nel rapporto con l’umano concreto e situato), una ragione di ciò che accade e che è impegnata con il religioso (fatta di riferimenti specifici e di convinzioni, tutti campi attraversati da finalità e da pratiche di fatto all’opera e da prendere in considerazione, campi che nel Medioevo rinviavano significativamente a un compito di «regolazione». Così, è a una ragione dell’umano nelle sue emergenze e nelle sue cristallizzazioni – ciò che vi si gioca, ciò che esse rivelano e ciò che accade loro – che è opportuno rispondere, al di là delle neutralizzazioni intellettuali e sociali contemporanee. Tutto sommato, si sarà compreso che nel rapporto con una tradizione di pratiche, con le sue istituzionalizzazioni e alle sue proposte di vita individuale e sociale, il lavoro abbozzato, e secondo i requisiti indicati, non è solamente un servizio reso, per quanto indiretto, alla società globale. È senz’altro positivo che nel cuore delle nostre società, la tradizione cristiana, la tradizione islamica e altre, abbiano ciascuna uno o più luoghi in cui poter lavorare e riflettere su se stesse, all’interno, nel legame con una storia passata e con le sfide contemporanee, entrambe determinate. È un bene per la società stessa innanzitutto in termini di interculturalità, e anche di pace sociale – privilegiando qui una respirazione civile che le differenze permettono, anziché dei valori pretesi comuni, o peggio, dell’assimilazione –, ma è anche un bene per la società rispetto a ciò che essa può ricevere in termini di stimoli e di fecondità. Per quanto queste ultime siano tradotte, rilavorate e trasposte (più che interpretate o solamente attualizzate) – una condizione sulla quale ritornerò nel momento in cui riprenderò lo stesso campo problematico a partire dalla società globale ed esaminando ciò che ne deriva per le diverse tradizioni, allorché ho affrontato qui il problema a partire da tradizioni particolari esaminandone le incidenze e i vantaggi possibili per la società in quanto tale.

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Vi è dunque un importante servizio a cui dar valore per la società globale25. Ma, nel loro lavoro a partire da se stesse, sarà necessario che le tradizioni e le istituzioni ad esse legate abbiano superato, ciascuna per sé, tanto le proprie prospettive che il ventaglio diversificato di possibilità che esse possono formare con le altre, e si ritrovino spostate a partire da quel terzo che è la società di tutti. Sarà necessario che esse siano profondamente articolate secondo una scena più globale, religiosa e altra, in cui hanno espressione, in modo differenziato, delle situazioni sociali e antropologiche. Vi è una condizione da adempiere affinché una tradizione lavorata nel suo dispiegamento positivo, così come nella sua riflessività interna, possa essere di «utilità pubblica», ma occorrerà adempiervi senza ridurre la forza della sua particolarità e dei suoi dati peculiari, senza aver, per esempio, tradotto la sua verità in un linguaggio più universale secondo la modalità che hanno o che possono illustrare i liberalismi. In tutto ciò, si sarà inoltre compreso che pensare il contributo delle tradizioni alla società di tutti è un’attività da realizzare secondo un doppio aspetto, formale e materiale: formale per quanto riguarda la messa in opera di ciò che costituisce una società e un «bene comune», con le loro istanze e le loro modalità di regolazione, materiale per quanto riguarda l’apporto possibile allo scambio, all’interazione e alla mutua fecondità delle vie proprie a ciascuna delle tradizioni e comunità che trovano spazio all’interno della società.

25  Si ritrova qui una finalità «pratica» che la teologia può assumere, nella misura in cui tale finalità sia compresa secondo quanto tratteggiato più su. Tuttavia – nell’articolazione alla società in quanto tale e non a una tradizione e alla sua comunità –, il compito, di statuto analogo (il lavoro si dispiega in ambito istituzionale, ed è un lavoro di regolazione), ha un dispiegamento diverso: ripetiamolo, il modello proposto non rinvia a una mira ricavata direttamente dalla tradizione (a partire da se stessa o dal suo «messaggio») e che avrebbe come obiettivo ideale, per estensione, il mondo in quanto tale.

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IV Fine del teologico-politico e pluralità dei gesti a confronto

1. Un sociale e un politico che sfuggono alle percezioni e ai discorsi convenzionali Ciascuno sa o ha presente che in materia di dispiegamento del sociale e del politico, siamo oggi entrati, in Occidente, in una nuova era. E ciò si rende evidente in particolare a proposito delle tematiche e dei motivi che ci tengono impegnati: la pertinenza, o meno, delle tradizioni e, in modo centrale, il posto del religioso o delle religioni. Per quanto riguarda il politico, ciò che prima costituiva un progetto di «sinistra» e ciò che ha cristallizzato i riferimenti di «destra» si trovano entrambi dislocati rispetto a ciò che accade realmente nel cuore del sociale e che tocca ciascuno. Il terreno reale sfugge a queste etichette fortemente ancorate in ciò che ha determinato le lotte del XIX secolo e ha attraversato i primi due terzi del XX secolo. I problemi si danno ormai in modo diverso, con rischi inediti, con, anche, delle possibilità nuove, spesso difficili da cogliere, da contornare, da pensare, e di cui favorire le concretizzazioni. Ciò che sosteneva la «sinistra» risultava soggetto a una perdita di adesione, in quanto in perdita di pertinenza, sfalsato dal

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rea­le così come si dà. Ciò perché il progetto era forte e la mira ambiziosa. Niente meno che una emancipazione o una liberazione che promuoveva il soggetto nella sua autonomia, a partire da una ragione disallineata e di tipo ritrovato, che prometteva pace e uguaglianza grazie a un superamento delle differenze ereditate, illegittime, innanzitutto statutarie e successivamente date in termini di pregnanza culturale. Questo progetto disponeva inoltre di una «grande narrazione», quella della modernità stessa, e mobilitava una memoria rinviante a diversi secoli di storia, essendo quest’ultima ricostruita a tal scopo, non senza unilateralità, o almeno non senza le sufficienti distinzioni che uno sguardo più affinato avrebbe richiesto. Ma la «destra» si trova anch’essa colpita. In molti dei riferimenti e dei valori ad essa legata. A vantaggio di un neo-liberismo che non conosce se non dei giochi di posizionamento – fuori dalle poste in gioco di fondo –, a partire da un orizzonte costituito dal mercato libero, dall’individualismo esacerbato, dalla perdita dell’istituzionale e delle mediazioni che vi si cristallizzavano. In materia di religione, la scena è sempre più eloquente, basti vedere ciò che accade concretamente e in quali aspetti si trova rimobilitata e come, un doppio segno sintomatico del sociale in quanto tale. Il paradigma dominante era quello di una secolarizzazione e prediceva la cancellazione progressiva del religioso, ed ecco che questo religioso è «di ritorno», secondo forme inedite, rispetto alle quali non si sa che fare, che non si riesce neppure a decifrare, e sulle quali si discute vigorosamente. Precisiamolo dall’inizio: ciò che il termine secolarizzazione poteva significare – almeno una certa «uscita dalla religione» come matrice determinante26 – non è tuttavia divenuto obsoleto. Ciò

26  L’espressione, di Marcel Gauchet, va intesa secondo la comprensione circoscritta della religione che qui è in causa.

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che è in causa è il paradigma che pensava questa secolarizzazione come unilineare, con un cursore semplicemente da attivare, per ogni situazione, tra un più di anarchismo, non ancora superato, e un meno di emancipazione modernizzante non ancora raggiunta. Quanto al «ritorno» del religioso, non si tratta affatto di un ritorno di un vecchio religioso – cosa che a suo modo segna la fine del paradigma dominante dei tempi recenti –, ma quello della questione del religioso, peraltro ormai in relazione non solo con delle nuove maniere di occupare gli ambiti tipici di un religioso, ma, più radicalmente, con una nuova disposizione, o una nuova delimitazione del terreno nel quale ciò che può essere ritenuto religioso appariva fluttuante e spostato rispetto alle definizioni usuali. Diciamolo in maniera più provocatoria: in una società «uscita dalla religione», o a seconda dei casi, dal religioso, trovano casa delle religioni costituite e tradizionali – pretese tali o almeno viste come tali – secondo modalità inedite e secondo nuove articolazioni con il mondo di tutti, arrivando ad aggrovigliarsi con esse, nella totale plausibilità a partire da un contesto sociale sregolato e senza cultura1. Si vedono così emergere, tra le altre cose, degli appelli alla tradizione, ma sollecitati secondo nuove modalità e investendo diversamente antichi assi che tornano ad essere attuali, come quelli dell’identità, o quelli dell’eredità e della pregnanza delle matrici culturali, assi dei quali si impadroniscono dei movimenti non solo conservatori, ma propriamente reazionari.

1  Su questo punto, i lavori e le riflessioni di Danièle Hervieu-Léger sono particolarmente eloquenti.

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2. Una fine del teologico-politico 2.1. Una crisi del politico Si parla sovente di una crisi del politico2. In essa è implicato il tipo di rapporto con la società civile – che resta irriducibilmente diverso, o almeno più di quanto non si sarebbe ammesso –, l’aumento dei soli diritti individuali a detrimento di interessi più ampi di cui farsi carico, la sovradeterminazione di una mondializzazione sempre più regolare, uno sviluppo distruttore disposto da una logica economica svincolata dal sociale, uno sfruttamento della natura che attenta alla biosfera (non è un caso che si organizzino socialmente, o anche politicamente, a seconda dei paesi, delle reti di «obiettori di crescita»3), un funzionamento del mondo del lavoro nell’impresa o nelle istituzioni fondamentalmente omogeneizzato con una presa in carico preveniente e securitaria, e peraltro sulla base di una bastonatura contro la «resistenza al cambiamento», senza che ci si interroghi sulle ragioni di una tale resistenza. Si trovano dunque respinte – non pensate, in quanto non pensabili – la questione del valore e la questione del dispiegamento delle singolarità, e vi si realizza una incapacità di fondo a farsi carico a e rendere fruttuose le differenze, essendo la tematica del

2  Quanto segue riprende, in parte, ciò che avevo scritto nel saggio dal titolo Mutations du théologico-politique. Quels déplacements, quels défis, quelles tâches?, pubblicato negli «Archives de sciences sociales des religions», n. 169, genn.-mar. 2015, pp. 63-83 (ma anche, in secondo piano, Croyance et modernité séculière, in «Revue de Théologie et de Philosophie», vol. 144, n. 3, 2012, pp. 251-268). 3  I discorsi politici usuali appaiono qui dislocati, organizzati sul breve termine e perseguono una corsa in avanti su qualcosa che resta sempre uguale – in alcuni casi, un sempre di più –, cosa sulla quale urge riflettere, anche se il significato di decrescita in termini di dispiegamento sociale e umano non emerge da un programma disponibile chiavi in mano; a tal proposito esiste una letteratura, peraltro sempre più consistente.

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«comune», lancinante o insistente, spesso investita dall’alto e secondo una visione indifferenziata e omogenea – di diritto universale –, che conduce a ridurre al medesimo l’umano e il sociale a cui questo comune presiede o dovrebbe presiedere. È a partire da questo orizzonte che si profila una crisi delle istituzioni, che è anche, a seconda dei casi, una crisi dell’istituzionale in quanto tale, indipendentemente dalle forme concrete e organizzative alle quali ha potuto dal luogo: l’istituzionale, nel senso di ciò che dispone, regola e distribuisce, ma anche simbolizza, dei rapporti differenziati tra sé e il mondo, sé e l’altro, sé e sé, sé e ciò che al sé sfugge; l’istituzionale come fatto, operazione e luogo di mediazione. La crisi del politico rinvia così a un’aporia del vivere insieme, a questo «legame sociale», che si stima perduto o che si vorrebbe ritrovare. Ma di che genere è, di cosa è fatto e secondo quale scopo? Non si può sfuggire a questa serie di interrogativi e, salvo accecarsi, essi esigeranno che sia rimessa in discussione una riflessione sul tipo di rapporto con il mondo e su ciò che è l’umano. Al di là di questa congiuntura di dati e di motivi, occorrerà rivolgersi alle istanze alle quali si fa appello in materia di organizzazione sociale, e rivedere cosa ne è stato della loro giustificazione e delle maniere di metterle in gioco. Occorrerà lasciarsi istruire anche dagli agganci effettivi ai quali queste istanze hanno potuto dar luogo nel passato, da ciò che esse sono divenute o da ciò ne è stato fatto: ciò che è loro accaduto e ciò che, a distanza e nel nostro luogo, accade a noi, il che comprende anche ciò che, ora, ci arriva di esse e come. La questione implica quella della giustificazione di queste istanze – e dunque la loro legittimità e fondamento – e rinvia così al motivo della sovranità, classico nella modernità europea, ma che si ritrova acuito a partire dalle avventure politiche che hanno attraversato il XX secolo, totalitarismi compresi.

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Ritroviamo qui il religioso. E/o il teologico. Due ambiti non equivalenti, che tuttavia possono congiungersi e, in tal caso, ciò può avvenire secondo diversi arrangiamenti. Il religioso è qui considerato in termini di legittimità, di fondamento e di sovranità (vi è anche l’eredità di uno schema di concorrenza, tra lo Stato e la Chiesa4), così come lo è in termini di limiti, esterni, e di differenze, interne. Un asse in cui il religioso è stato di volta in volta – e qualche volta allo stesso tempo – sanzione data all’essere insieme e appello all’utopia, e in tal senso portatore di critica e di protesta5. Detto in un linguaggio ebraico o cristiano: dei «tempi messianici» o un «Regno di Dio». Ma allora, in forma di mira? Nella forma di un compimento progressivo, fino alla realizzazione «piena» e anticipata attraverso e nella Chiesa o Partito, o al cuore di un progetto umanista perseguente il progetto degli Illuministi? O piuttosto in forma di rottura o di spostamento? O – altra disposizione ancora –, in forma di dialettica, di conio agostiniano, che mette in interazione e secondo differenziazioni irriducibili una «città terrena» e una «città di Dio»6? Tutto il ventaglio di queste posizioni ha avuto o può avere le sue trascrizioni secolari. Restringiamo un po’ la visuale. Quando si dice teologico-politico, si pensa spesso – ed è in tal senso che io lo uso qui – a un legame diretto, che assicura legittimazione e fondamento – e implica determinazione – tra il teologico e il politico. La religio4  Lo scontro di «due France», sotto la Repubblica, costituisce una illustrazione emblematica di ciò. 5  Se la religione è «espressione della miseria reale», dice Marx, essa è anche, aggiunge immediatamente dopo, «protesta contro la miseria reale». 6  A tal proposito, cfr. P. Manent, La metamorfosi della città. Saggio sulla dinamica dell’Occidente (2010), ed. it. a cura di G. De Ligio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014. Più ampiamente: M. de Gandillac, Genèses de la modernité. Les douze siècles où se fit notre Europe. De la «Cité de Dieu» à la «Nouvelle Atlantide», Cerf, Parigi 1992.

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ne è ciò che garantisce e sancisce un potere, fino a definirlo di «diritto divino». Una certa modernità ha fatto come se vi fosse in queste materie un modello normale o obbligato – allorché è portatore di una radicalizzazione del motivo del dominio, restando esclusivo, e in tal senso il frutto di un arretramento di regolazioni tradizionali diversificate7 – e che fosse semplicemente sufficiente cambiare il riferimento (dalla Chiesa alla Repubblica). Modello normale o imposto: una legge all’origine di un territorio e che lo organizza totalmente, una totalità che può essere più o meno differenziata al suo interno, ma ripiegata su se stessa e rinviante al suo principio. Questa legge ha potuto essere Dio stesso, oppure emanare da lui in modo diretto; questo fu il caso del cristianesimo – e l’immaginario ha ereditato da ciò –, emblematicamente nella forma di un cattolicesimo dei tempi moderni, postridentino, o in quella, più recente, di un evangelismo di ceppo statunitense. Tale legge potrà – e dovrà, potremmo ritenere – essere quella che l’umano pone e alla quale si sottomette, per il bene di tutti e di ciascuno. Con le sue varianti, da Hobbes a Locke o altri, fino al contratto sociale di Rousseau, più sbilanciato su una «volontà generale» tendente a una disseminazione che integri ciascuno ma secondo una modalità di condivisione integrale, e che ha potuto trovare dei prolungamenti nel motivo della «società senza classe» del marxismo ortodosso, in cui lo specifico del politico sparisce – in questo caso automaticamente e felicemente –, lasciando spazio all’espansione di un sociale non solamente libero, ma con le differenze superate, a vantaggio dell’umano in quanto tale, «riconciliato», poiché, di fatto, «generico». Come si sarà compreso, è da una tale matrice che noi proveniamo. Una matrice che ha determinato di nascosto buona parte

7  A tal proposito si potrà rileggere H. Arendt, Tra passato e futuro, tr. it. di T. Gargiulo, Garzanti, Milano 1991, pp. 283-284.

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del dibattito moderno sul legame tra teologico e politico8. Con il suo gioco di opposizioni prescrivente una serie di sostituzioni da operare, emancipatore, o un rifiuto da alimentare, difensivo, essendo, nel suo insieme, attraversato da diversi sogni o da diverse nostalgie. Insieme a ciò, dei dibattiti, ma anche un immaginario, anche se la modernità ha di fatto presentato dei volti più differenziati9, per cominciare, secondo le aree culturali ed in particolare quelle francofona, germanofona o anglosassone. A ciò si aggiunge – la cosa fu talvolta negata, ma ciò è decisivo – che tale modernità è attraversata da diverse traiettorie, da molteplici singolarità, da processi non lineari e intrecciati, da novità proprie10. In definitiva, questa stessa modernità, non è solamente «incompiuta», per riprendere le parole di Jürgen Habermas11 (che vi sia incompiutezza è incontestabile; cosa significherebbe dire che la modernità è compiuta? compiuta senza una realizzazione propria e unilineare? realizzante una «fine della modernità», nel senso in cui si parla di «fine della storia»? o si tratterebbe di una fine che ha integrato altre fi-

8  Classicamente, ci si riferirà al Trattato teologico-politico di Spinoza, del 1670, che prende in considerazione innanzitutto la libertà di pensiero e tende anche a liberare il teologico o la pietà così come il politico, ma lo fa accordando al solo sovrano che è lo Stato – uno Stato che certo media un bene collettivo da oggettivare e convalidare – il diritto di legiferare in entrambe le maniere. Per approfondimenti sui momenti e le posizioni implicate nella questione del teologico-politico e sulle sue possibili riprese, cfr. Ph. Capelle, Dieu et la cité. Le statut contemporain du théologico-politique, Cerf, Parigi 2008. 9  Sulla diversità che attraversa il processo moderno su queste materie, si leggerà con profitto J.-C. Monod, La querelle de la sécularisation. Théologie politique et philosophies de l’histoire de Hegel à Blumenberg, Vrin, Parigi 2002. 10  A tal proposito, cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna (1966), tr. it. di C. Marelli, Marietti, Torino 1992. 11  L’espressione è stata utilizzata in occasione della consegna del premio Adorno nel 1980, ed è stata ripresa all’inizio de Il discorso filosofico della modernità (1985), tr. it. di E. Agazzi, Laterza, Bari-Roma 2003.

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nalità, sfalsate e plurali, ma intrinsecamente prese in carico?), e non sta neppure «deragliando», sempre per usare le parole più recenti12 di Habermas (certo, è anche incontestabile che la modernità sia carica di diversi effetti negativi nei suoi esiti reali, e questi devono essere presi per il bavero). Questa modernità è innanzitutto una condizione – la nostra, e non ne abbiamo altre –, ed è una condizione aperta, con le sue ambivalenze, le sue aporie e le sue sorprese, di cui fare qualcosa. Siamo assegnati ad essa e ad essa si lega il nostro compito. Intellettuale così come sociale e politico.

2.2. Questioni in avaria e che fanno «ritorno» in modo differito Ripartiamo dal presente, così come si dà. Dopo diversi dispiegamenti della modernità, dopo un processo di costruzione umana nella forma dell’emancipazione, e dopo la secolarizzazione e la laicità, poiché, per quanto questa circoscriva un ambito di problemi da riprendere, da differenziare e da affinare, le cose sono legate. Salvo estremismi, nessuno vuole una teocrazia; ma si vedrà giustamente, nella sezione che segue, che ridurre a ciò ogni rapporto passato del religioso e del politico è una pura costruzione, o, a seconda dei casi, un puro fantasma. Non si deve ridurre il ripensamento critico da condurre sull’oggi e ciò che lo ha preceduto ai soli totalitarismi13, anche se essi hanno potuto 12  Cfr. J. Habermas, Che cosa tiene insieme il mondo. Fondamenti morali prepolitici di uno Stato liberale, in J. Habermas - J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo [dialogo del 2004], tr. it. di G. Bossetti, Marsilio, Venezia 2005, pp. 41-65. 13  A tal proposito, cfr. Le prisme du totalitarisme, «Éthique, politique, religions», n. 1, 2012, e J.-C. Monod, Historicisation de l’eschatologie et immanentisme moderne: une discussion de Voegelin, in Th. Gontier (a cura

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vedere la luce, e anche se non è sbagliato parlare di «religioni secolari» (lo si è fatto nell’ambito della teologia cristiana14, come nell’ambito del pensiero politico15 e anche filosofico16). Interrogare una certa pendenza totalitaria era e può sempre essere istruttivo, e può sempre aiutare a scorgere dei giochi di capovolgimenti in cui ci si ritrova troppo dipendenti da ciò che si combatte, e che possono dar luogo ad atteggiamenti «reattivi», o a costruzioni allo specchio. Ma, ­fondamentalmente, ­occorre spostare lo sguardo e non scegliere o contare dei punti in un’arena semplificata, o letteralmente ideologizzata. I fenomeni totalitari non sarebbero in grado di riassumere la modernità e la secolarizzazione17, anche se è necessario problematizzare un modo di pensare che, spontaneamente, riflette in termini di capovolgimento a partire da un’alternativa semplice e ­posta

di), Politique, religion et histoire chez Eric Voegelin, Cerf, Parigi 2011, pp. 111-125. 14  L’espressione fu importante per Paul Tillich, in quel caso, con una certa fondatezza. 15  Così E. Voegelin, Le religioni politiche (1938), in Id., La politica: dai simboli alle esperienze, a cura di S. Chignola, Giuffrè, Milano 1993, o E. Gentile, Le religioni della politica (2001), Laterza, Roma-Bari 2007 e Id., Les visages religieux de la politique séculière, in S. Mancini - R. Rousseleau (a cura di), Processus de légitimation entre politique et religion, cit., pp. 21-34, ma già Raymond Aron nel 1944 (cfr. L’âge des empires et l’avenir de la France, Éd. Défense de la France, Parigi 1946). 16  Così K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia (1949), tr. it. di F. Tedeschi Negri, il Saggiatore, Milano 2015. 17  Alcune reazioni teologiche contemporanee, sia di ambito cattolico che protestante – e in questo caso anche le tentazioni di difendere dei modelli proposti come tali –, non sempre sono esenti da una tale prospettiva, ad esempio quando si tratta di parlare di laicità (tornerò su questo punto: su ciò che ne è o su ciò che può essere del teologico, e non solamente del politico, deve esserci chiarimento, e ciò non può avvenire senza che ne siano ripensati i modi operativi e lo statuto).

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peraltro come sovrastante. E anche se la questione di una pendenza totalizzante e omogeneizzante è ben inscritta nel cuore della modernità e deve essere problematizzata come tale. Nessun «ritorno», dunque, a una prospettiva in cui il politico sarebbe in un modo o nell’altro subordinato al religioso, a una legge di Dio o al teologico. Il religioso e il politico hanno, a mio avviso, la loro pertinenza in materia di organizzazione sociale, ma non in questo modo. Piuttosto, al livello di una ridistribuzione completa delle istanze in causa. Nessun «ritorno»: non è per niente che invito a pensare a partire dal presente e dalle proprie rappresentazioni. Che tali rappresentazioni possano essere inscritte all’interno di genealogie, e che esse non siano indenni da un passato e da una storia che via ha condotto, non significa continuità di motivi, né linearità, come se esistessero delle questioni di validità umana e sociale in se stesse, per così dire destoricizzate. Non vi sono più, a fortiori, dei modelli, costituiti di per sé, che siano insieme e per principio ideali (che siano religiosi o laici), e dunque in un gioco di opposizioni tra i termini fra i quali scegliere. Se vi è genealogia, è nel senso nietzscheano, ripreso anche da Foucault, di una messa in scena seconda e da convalidare a questo livello, articolata secondo un presente che costituisce le sue circoscrizioni e che è genealogia di problemi, anch’essi da far apparire e da convalidare, e all’interno di uno stesso gesto d’interrogazione critica del presente. Se una messa in prospettiva genealogica opera un decentramento, questo si realizzerà nella misura in cui uno spostamento potrà sancire delle discontinuità, anche quando si tratterà di mostrare, nel cuore del presente, ciò che una focalizzazione sulla sola prossimità non permette di vedere. Serve, dunque, non un semplice «ritorno», ma una interrogazione critica sul presente e che parte da esso – che in una certa misura se ne fa carico –, una interrogazione riflessiva nella forma di una problematizzazione.

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Il punto di arrivo del processo di modernizzazione e di secolarizzazione è – come ogni presente e in ogni tempo – carico di ambivalenze, e queste possono darsi a vedere sull’asse che si trova nel cuore della modernità, come motore e come autoaffermazione, quella del soggetto, della sua autonomia, della sua libertà, del suo accesso a sé e delle sue possibili instaurazioni. Un processo stabilito dunque nel contrasto con o nel rifiuto del religioso e del teologico. Rispetto al quale era necessario emanciparsi. Rispetto al quale occorreva uscire dall’eteronomia e contestare l’aspetto arbitrario delle particolarità: delle favole e dell’amoralità, all’altezza né di ciò che costituisce l’uomo nella sua dignità né di quella che può essere una idea dignitosa di Dio. Senza contare le sue istituzioni, che mascherano degli interessi di potere. È in causa ciò che è accaduto del soggetto, nel suo legame con il mondo: con la differenza che questo mondo cristallizza (la sua irriducibilità all’umano o la sua resistenza all’appropriazione, ad esclusione di ciò che sprofonda nella divorazione o nell’autodivorazione) e con le differenze che attraversano questo stesso mondo, fatte di singolarità umane, di corpi individuali – affetti compresi, ciò che si prova, ciò che si lega ad essi, ciò che di essi si esprime – e di pregnanze socioculturali diverse, irriducibilmente particolari e luogo tanto di assegnazione quanto di sovversione o, almeno, di un superamento da operare. Rispetto a questo asse del soggetto e del rapporto con il mondo, si può rinviare alla Scuola di Francoforte, ad Adorno e Horkheimer e alla loro rilettura di un regime della ragione moderna annichilente, che può portare a un umano semplicemente «amministrato», ma anche a Marcuse e alla sua idea di un uomo ormai «unidimensionale» (al livello di un gesto del tutto diverso potremmo individuare una consonanza con il disvelamento dell’impresa della tecnica secondo Heidegger, nei termini di un dispiegamento del gesto «metafisico», rite-

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nuto quasi originario e rivelato nella modernità), o ancora alle ricerche e convalide di eterogeneità in Walter Benjamin. Oggi, si potrà essere particolarmente attenti a diverse eredità poco o tanto eterodosse di questa Scuola, come Slavoj Žižek, Peter Sloterdijk o Giorgio Agamben. Questi mi sembrano tipici. Potrò solo evocarli18. In Žižek, la questione circa ciò che il soggetto è divenuto è centrale: un soggetto in perdita di realtà all’esterno e in perdita di conoscenza propria all’interno, un soggetto che incarna gli «ultimi uomini» profetizzati da Nietzsche, disincantati, scettici, balzati fuori da ogni volere creatore. In Sloterdijk, ciò che ne è del soggetto oggi e del suo rapporto con il mondo, con le sue possibilità di resistenza e le provocazioni a venire che ne derivano, costituisce come il fil rouge della sua opera. Quanto ad Agamben, egli mette in evidenza un processo di de-differenziazione che apre su una «via nuda» ormai offerta ai suoi evanescenti «biopoteri» (conosciamo a tal proposito i paralleli con Foucault, almeno in termini di diagnosi sul contemporaneo). Sullo sfondo di questa tematica specificamente centrata sull’umano come soggetto e sul suo rapporto con il mondo, si può rinviare alla coppia dei motivi posti come centrali da Marcel Gauchet nel suo Il disincanto del mondo: una trascendenza nel fuori dal mondo e una cristallizzazione differita di responsabilità all’intimo del mondo e dei corpi, una coppia di motivi radicalizzati nella loro differenza e per così dire messi in tensione produttiva, al di là di ogni ordine che possa disegnare uno spazio di intermediari che permettono dei passaggi graduati.

18  Per approfondimenti rinvio al secondo capitolo del mio Du religieux, du théologique et du social, cit.: Quel effacement de transcendance en société contemporaine?

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2.3. Una storia più differenziata Partire dal presente nelle configurazioni che gli sono proprie, come qualcosa su cui riflettere e da problematizzare. Ma tale obiettivo non potrà essere raggiunto – e neppure colto – se lo sguardo rivolto all’oggi resta in funzione di una lettura dell’emancipazione moderna e secolarizzante intesa come un processo unilaterale e unidimensionale. Ci si condannerebbe infatti a registrare dei «ritorni» incomprensibili e delle resistenze spiacevoli19, di fronte alle quali si potrebbe solamente riaffermare il fondamento di una mira. Allo stesso tempo, è lo sguardo sul passato che dev’essere rivisitato. Da cima a fondo. A partire dallo scarto con un modello da rifiutare e dal quale emanciparsi. Tale passato è, innanzitutto, infinitamente più diversificato rispetto a quello teologico e politico direttamente fondato a partire da uno spazio sociale da organizzare come insieme idealmente omogeneo, quello di un uomo «generico», al di fuori della tradizione e dunque universalizzabile. Il modello di un Re sovrano in contatto diretto con il Dio – e così garantito nel suo potere, potere concepito come carico di raccoglimento e di coesione – non è il modello delle società cosiddette tradizionali. Questo è piuttosto il modello dell’Egitto, per come è inscritto nella nostra memoria collettiva. In tale memoria, vi sarebbero degli aspetti sui quali fare delle distinzioni, secondo la modalità di una singolarità irriducibile – così accade ad esempio nell’ebraismo e in ciò che da esso si eredita20 –, e degli aspetti da capovolgere, allo scopo di dar 19  Tale punto dirige in buona parte P. Gisel - I. Ullern, Le déni de l’excès. Homogénéisation sociale et oubli des personnes, Hermann, Parigi 2011. 20  Si tratta di quanto messo in evidenza da Jan Assmann quando parla di «distinzione mosaica» che sposta e contrasta, e si cristallizza come «religione secondaria», cfr. supra, la n. 15 del cap. I.

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forma a una ripresa differente, fondata sulla ragione e non più sul divino, ma secondo una stessa disposizione di fondo – così accade nella modernità e non senza ricorrere a un motivo utopico secondo il quale niente può essere esteriorità irriducibile e potenzialmente costitutiva, ma in cui tutto è al contrario sottomesso a una ragione organizzatrice. Occorre notare che l’Egitto appare qui come un tipo specifico, che non ricapitola quelli che furono gli antichi Imperi, come per esempio la Persia, e poi i momenti ellenistico e romano, che conoscono differenziazioni, assenza di immediatezza, e di rapporti diretti. Se vi era un rapporto di differenziazione tra il «Gran Re» e le differenti regalità e principati dell’Impero21, ciò accadeva secondo un modello di delegazione organizzata e non secondo un modello totalizzante, per quanto tal modo non escludeva la violenza, anche forte. Del resto, l’Egitto storico presenta esso stesso una disposizione complessa, una letteratura di saggezza che rinvia a una potenza regolatrice del cosmo, irriducibile al potere politico e istituzionale, non per designare un’altra religione, opposta, ma perché la religione è «doppia», fatta di una dualità correlata a partire da un orizzonte di differenziazione innata22. Le società premoderne conoscono di fatto – come ho ricordato nel capitolo III – una diversità di istituzioni e di funzioni, di capi, ma anche di preti, di saggi, di sciamani, di profeti o di sibille e di oracoli. E nelle società tradizionali che gli antropologi studiano, i capi detengono un potere limitato per estensione e qualità, ma anche limitato nel tempo, o sottoposto a diversi

21  Lo sottolineava E. Peterson, Il monoteismo: un problema politico (1935), in Id., Il monoteismo come problema politico, tr. it. di H. Ulianich e F. Della Salda Melloni, Queriniana, Brescia 1983, pp. 45-125. 22  Cfr. J. Assmann, Religio duplex. Misteri egizi e Illuminismo europeo (2010), tr. it. di E. Colagrossi, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 224 s.

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ritmi e alternanze. A partire dall’attenzione rivolta alla regolazione del potere nell’America latina precolombiana, Pierre Clastres23 ha potuto parlare non solo di società «senza Stato» (una tesi comune in quest’ambito), ma di società «contro lo Stato»: quello che noi chiamiamo Stato avrebbe preso uno spazio troppo grande e troppo omogeneizzante, fino a ridurre gli dèi, gli antenati o le altre forze cosmiche che scandiscono il rapporto con il mondo, con la natura o con ciò che va oltre l’umano. Alcuni potranno ricordare che la tradizione dalla quale proveniamo è segnata dal monoteismo e che ciò cambia la situazione. Ma anche in questo caso la storia è più complessa. In termini di autorità o di poteri, il monoteismo non esclude una diversità di istanze, al di fuori dell’omogeneizzazione e della stretta subordinazione. Per cominciare ricordiamo che nell’Antico Testamento, o Bibbia ebraica, che ha segnato il nostro immaginario e la nostra memoria, la regalità non è né originaria né costitutiva, ma spostata rispetto a un’antecedenza che si situa al di fuori del suolo nazionale: il deserto, il Sinai, la Torah. Essa inoltre non si dà se non in relazione con un polo profetico e, allo stesso tempo, senza la messa in scena di un gioco di contestazioni, per principio normali e necessarie. Senza contare il potere dei sacerdoti che hanno preso il posto dei «Saggi». Quanto al cristianesimo storico, esso ignora la figura di un califfato che coniughi i poteri religioso e politico: in principio vi è infatti dualità tra il Papa e l’Imperatore (senza contare i diversi poteri locali), anche se, nei fatti, si è data spesso concorrenza e contestazione su uno stesso terreno. E anche se si sarebbero dati dei casi di Stati pontifici e, nella modernità, anche una estensione delle

23  P. Clastres, La società contro lo stato. Ricerche di antropologia politica (1974), tr. it. di L. Derla, Ombre corte, Verona 2003. Su Clastres, ed in particolare sulla sua posizione politica e la sua vicinanza a Cornelius Castoriadis e a Claude Lefort, cfr. M. Abensour - A. Kupiec, Pierre Clastres, Sens et Tonka, Parigi 2011.

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prerogative rivendicate dalla Chiesa, la qual cosa a sua volta non si sarebbe data senza una profonda modificazione della concezione di sé e della comprensione del politico. Rivisitando il corso della storia delle teologie cristiane, Giorgio Agamben ha ben mostrato la riduzione della differenza tra una «Provvidenza generale», di portata quasi cosmica, e il rinvio diretto a un Dio come fondamento di un ordine specifico, che sia politico o religioso. Tale riduzione si realizza nei Tempi moderni24. Essa va dunque di pari passo con la visione di un Dio inteso come causa prima – prima, ultima e ricapitolativa –, in rottura con il regime plurale delle cause dell’Antichità e del Medioevo (causa materiale, esemplare, efficiente, finale), e si tratta di una posizione illustrata in particolare dalle teodicee del XVII, ma anche dalle teologie accreditate della stessa epoca (nel cattolicesimo, la seconda Scolastica). E anche la riduzione va di pari passo – si tratta di fenomeni collegati – con una visione dell’essere come omogeneo, in rottura, anche in questo caso, con il regime anteriore di una irriducibile equivocità (l’essere di dice in molti modi, secondo la lezione di Aristotele). Del resto, la teologia cristiana della tarda Antichità e del Medioevo non conosce alcun Dio al di fuori di una discontinuità innata (Dio non viene pensato come superlativo, in una gradazione comparativa in direzione del meglio). Per definizione, Dio è di un altro ordine rispetto all’ordine del mondo. È in tal senso che gioca lo schema allora determinante – anche se secondo strutturazioni diverse – dell’«Uno al di là dell’essere», ereditato dal neoplatonismo e affermato in modo centrale nel cuore del Medioevo, per cui vi sarebbe una disproportio tra tutto ciò che può essere detto di Dio e tutto ciò che può essere detto del mondo. D’altronde è propriamente in questo che è necessario un credere, che impegna un’altra posizione del soggetto

24  Cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

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rispetto a quella del sapere, perché il tipo di oggetto è altro. Ed è anche per tale ragione che tradizionalmente non vi era una teologia positiva (degli enunciati di fede o di dottrina) senza un lavoro della teologia cosiddetta negativa, che problematizzasse questi enunciati dall’interno – scandendoli e approfondendoli –, un lavoro richiesto proprio in vista di ciò che può essere detto «vero», così come di ciò che lo sottende. Aggiungo ancora un punto, tecnico ma per me significativo, e se esso emerge sempre dalla storia delle dottrine, si sarà compreso che si tratta di una storia sintomatica, e nella quale tutti sono coinvolti allo stesso modo. Definire la Chiesa come società (in questo caso come una «società perfetta»25) è qualcosa che accade per la prima volta nel XVI secolo, poiché la Chiesa era legata a una mistagogia e a una maniera di abitare le simbolizzazioni che esige il rapporto con il cosmo. Allo stesso modo è nel XVI secolo che la Chiesa o la religione si comprendono come un «sistema di credenze» con una legittimità e un fondamento specifico (la Bibbia per i protestanti, l’istituzione della Chiesa per i cattolici), mentre prima essa disegnava una «via» di messa in opera dell’umano sullo sfondo di una metafisica generale condivisa da tutti, costruita e argomentata a questo livello. Lo sottolineiamo, non vi era il rinvio a una «rivelazione», originaria, fondatrice e legittimante, e in tal senso eteronoma, la quale diventa un motivo centrale solo nei Tempi moderni – e con una certa portata! –, e tanto per gli avversari, razionalisti, quanto per i teologi, gli apologeti o semplicemente per i credenti26.

25  Rispetto al nostro proposito, non è l’aggettivo che dev’essere interrogato (tutti sanno che la Chiesa non è «perfetta», meno male!), ma il sostantivo: pensare la Chiesa come società attesta un modo specifico di pensare il religioso, e si tratta di un modo nuovo. 26  Se si può parlare già da prima di rivelazione, se ne può parlare in un senso che non ha niente a che vedere con una tale congiuntura, ma che rinvia a

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È lo statuto di un fondamento – in questo caso trascendente – secondo una tendenza moderna che darà luogo ai programmi politici che trovano espressione nel Syllabus romano del 1864, «Elenco contenente i principali errori del nostro tempo»27, o, in ambito evangelico, nella teologia contemporanea già segnalata del Dominion, proveniente dagli Stati Uniti28. Vi è in tal punto il compimento – certo estremo, ma che non può non rilanciare una interrogazione sulle questioni di fondo delle quali ci stiamo occupando – di una evoluzione in cui la religione diventa modello sociale, su uno sfondo totalizzante e conciliatore. Ho rinviato a due varianti che potremmo definire di «destra», ma ve ne possono essere anche di «sinistra», poiché la questione non riguarda qui il tipo di progetto, ma piuttosto lo statuto delle istanze in gioco e la loro articolazione. Ora, in tale materia, pensare una Chiesa o una religione come organizzazione del mondo richiamandosi a un modello ideale o mirando ad esso – quale che sia – equivale a rimanere in una prospettiva del tutto differente da quella della diversità di istanze e di funzioni che ho evocato, significa tenersi ben lontani anche da una definizione della religione come quella sintetizzata da Cicerone alla fine dell’Antichità classica, che perdura nel corso del Medioevo29 (una posizione o una «virtù» fatta di riserve e di attenzione davanti alla dismisura del cosmo, nei confronti della hybris e

un momento di illuminazione o di evidenza che dipende da un cammino di iniziazione, o da una maieutica, nel legame con ciò che ci accade nel mondo. 27  Per la posizione che sta sullo sfondo e che riguarda l’innata omologia tra istituzione politica e istituzione religiosa, cfr. J. de Maistre, Du pape (1819). 28  Cfr. l’interessante studio di Ph. Gonzalez, Que ton Règne vienne. Des évangéliques tentés par le pouvoir absolu, Labor et Fides, Ginevra 2014. 29  È quella di Tommaso d’Aquino nella sua Summa theologiae, relativa all’insieme delle Questioni 81-100 della IIa IIae (do un commento a tal proposito in Che cosa è una religione? (2007), tr. it. di P. Crespi, Queriniana, Brescia 2011, pp. 133-150).

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a partire da un fondo di saggezza), significa ancora tenersi a distanza dalle considerazioni alto-medievali sulla «fede», che non era considerata semplicemente come un’adesione a dei contenuti30 massimali e immediati31, ma come una «virtù» da regolare tra un «troppo» e un «non abbastanza»32, e che conduceva a ciò che oggi chiameremmo un’etica del credere. In ultima analisi, è perché ciò che è in causa e in gioco eccede ciò che ne è del mondo e dell’umano – o forse ciò che costituisce il mondo e l’umano è portatore di eccesso e retto dall’eccesso, che emerge dalla loro stessa immanenza – che l’organizzazione sociale non potrebbe essere totalizzata, senza perdita né danno, secondo un solo ordine di argomentazioni o di razionalità. Per la stessa ragione, è opportuno, al contrario, garantire una pluralità di approcci, ed è richiesta una certa simbolizzazione, la quale, per definizione, è separata o emerge da un ordine specifico – del terzo o dell’istituzionale, dunque non del divino né del naturale né della ragione sovrastante – una simbolizzazione che non sarà per di più essa stessa mai integralmente soddisfacente, per tutti e senza resto33. Ed è su questo punto e per la stessa ragione che si legano delle tradizioni, diverse, delle quali preciseremo lo statuto e ciò che le sostiene.

30  Nei quali i credenti hanno il dovere di credere come se si trattasse di un sapere (sono spinti a ciò all’interno e sono visti così all’esterno). 31  Slavoj Žižek ha colto il punto: «la fede diretta in una verità di cui ci si fa pienamente carico soggettivamente […] è un fenomeno moderno in contrasto con le credenze a distanza tradizionali» (Il cuore perverso del cristianesimo [Die Puppe Und der Zwerg, 2003], a cura di G. Illarietti e M. Senaldi, Mentelmi, Roma 2006, p. 11). 32  Per Tommaso d’Aquino, Summa teologiae, IIa IIae. 33  Cfr., quasi in questi termini, C. Lévi-Strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi [Sociologie et anthropologie, 1950], tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1972, p. XXII.

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Insomma, si può ritenere che il motivo di una trascendenza intendeva rispondere di e dar forma a ciò che eccede. Secondo una disposizione particolare, certo non universale, una disposizione tra le altre, come mette ben in evidenza la diversità delle culture e delle società. Ho inoltre indicato che sullo stesso asse di questo ricorso alla trascendenza si incontrava una diversità di disposizione circa il tipo di rapporto con il mondo, tra dissimmetria, spostamento, alterità, superamento o fondazione. Ora, tutto nella nostra storia, tutto ciò, si realizza come se il polo di trascendenza avesse, alla fine, dato forma all’eccesso scongiurandolo: facendone cioè un fondamento chiamato ad ordinare e giustificare tutto ciò che è. Si può parlare di disposizione «onto-teologica», integrativa; essa va in parallelo, storicamente, con un teologico-politico che vive di una sovranità unificante che mira a una estensione massimale. Si sarà compreso che in tale contesto la religione funge innanzitutto da legame, come riconoscerà Durkheim, un Durkheim che pensa anche che non vi è mai stata religione senza Chiesa34, la qual cosa è, almeno, sia etnocentrica che modernocentrica.

3. Quale nuova configurazione del sociale e del politico? 3.1. Una scena nuova che esige un nuovo sguardo Sono in causa una sovranità autoaffermata e non differenziata, una totalità inglobante e un universale estensivo. Il tutto sovradeterminato da una ragione sovrastante e che si dispiega secondo un solo regime e un solo ordine di finalità, quali che siano gli oggetti e quali che siano le poste in gioco.

34  Cfr. É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa (1912), tr. it. di C. Cividali, riv. da M. Rosati, Mentelmi, Roma 2005, p. 94 (si veda anche la definizione di p. 97).

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Come ho già segnalato si è sviluppato un «grande racconto». Dall’Illuminismo ai diversi progetti politici che hanno attraversato il XIX secolo e una buona parte del XX. Una vena messianica secolarizzata lo sottendeva. Ora, questo racconto e questo progetto mancano oggi di adesione. Non ci si crede più. Speranze deluse (è il premio dell’umanità)? Effetti perversi (ci sono sempre)? Tradimenti e tragedie (è la cosa più grave)? Di tutto ciò un po’ e, soprattutto, problemi imprevisti che spesso non si sa come gestire, neppure intellettualmente. Da ciò derivano, socialmente e politicamente, la rassegnazione e il ripiego, e nel peggiore dei casi il cinismo, o il reinvestire su altre sfere e valori più individuali e più immediati. Non vi è tuttavia alcun cambiamento di paradigma, almeno su un piano collettivo. Si profila sempre un solo profilo di ragione (mentre il resto è lasciato al sentimento, all’esperienza soggettiva o alla pura convinzione), salvo che la pretesa di costruire il mondo o la città si è vista smontata e che tale ragione si è ripiegata su un funzionamento tecnico e di tipo organizzativo. Vi è poi un’avaria latente circa il vivere insieme e anche, più radicalmente, sulla comprensione di ciò che è l’umano. Essa si fa urgente davanti a una pluralità sociale inedita e a una eterogeneità inattesa, o a proposito di ciò che non si integra in una normalità che si pensa e pretende come sempre uguale. La differenza, lungi dall’essere considerata come istruttiva, deve essere ridotta o, nel migliore dei casi, composta. Ciò perché essa, in fondo, è vista come un resto o una eredità fuori orbita e, al massimo, potrà essere resa come folklore35, e spesso non senza deviazioni36. E quando non ci si rassegna alla distruzione – bene che vada, 35  Cfr. la lucida diagnosi di M. de Certeau, La faiblesse de croire, a cura di L. Giard, Seuil, Parigi 1987, pp. 200, 249. 36  Per qualche esempio (Cristi in croce femmine, omosessuali, neri, culturalmente o religiosamente incrociati), cfr. N. Dietschy, Le Christ au miroir de la photographie contemporaine, Alphil, Neuchâtel 2016.

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alla giustapposizione comunitarista, al peggio alla coercizione, foss’anche accompagnata da diverse premure –, si continua a richiamarsi a un comune, al quale tendere, anche se esso non è più operante. In questa congiuntura – la nostra –, è urgente riprendere altrimenti il tutto. Occorre impegnarsi a pensare in modo diverso il sociale e, insieme, il politico e il religioso. Un pensare altro e non semplicemente un pensare altre cose né solamente correggere, piegare e aggiungere. Occorrerà dunque, fondamentalmente, operare uno spostamento37. E, nello specifico, occorrerà abbandonare qualsiasi visione d’insieme integrante. Certo sarà sempre necessario etichettare e differenziare, per proporre, a partire da ciò, delle maniere di regolare, di arbitrare. Tra queste vanno comprese – infine e nuovamente – delle poste in gioco di fondo, al di fuori delle neutralizzazioni che non permetterebbero di andare più lontano della pura descrizione e del rinvio alle sole scelte soggettive individuali. Scelte delle quali, a seconda dei domini – e in particolare ciò riguarda il politico e il religioso –, non si è più in grado di rendere conto, sulle quali non si è più in grado di alimentare una discussione, anche allo scopo di generare – non solo registrare, né mettere in scena – dei dissensi. Occorrerà abbandonare ogni visione d’insieme integrante – ogni volontà di cercarne o di costruirne una – e ripartire dalle pratiche effettive: diverse e singolari. Ogni volta alle prese con il reale, sempre carico di resistenze e di imprevisti, ma anche di novità. Tali pratiche sono sempre inscritte all’interno di particolari dati, dei quali vivono, anche quando si tratta di ­farsene

37  Si tratta di quella che, in ambito sociale e politico, i nuovi pensieri critici chiamano in modo ricorrente «interruzione». In meliorem partem, è per segnalare che è necessario uscire da una logica data: spostare, riprendere altrimenti a partire da altri luoghi.

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carico, sovvertirli o trasformarli, ma anche in questo caso senza abbandonarli in favore di un universale astratto38. Esse designano delle traiettorie, mettono in evidenza un aspetto di affermazione, anche dei rifiuti, delle emergenze o un avvento, parziali ma reali. Queste traiettorie sono eterogenee, ed esse hanno la loro logica propria in termini di attori, di poste in gioco, di modi di fare. Esse non si incontrano, se non poco, né si fondono. Esse talvolta si toccano, o si incrociano su tale o tal altro punto, ma per altri usi. Di queste traiettorie bisogna affermare ogni volta una intelligibilità propria, anche se ciò richiede comparazione, deviazione storica, variazione di prospettiva, se è vero che dire una intelligibilità non equivale semplicemente a ripetere un dato né un’azione o una volontà. Nella sua Indagine sui modi di esistenza39, Bruno Latour mostra in modo eccellente come tali traiettorie sottendono delle tecniche del corpo e dello spirito dando forma a degli usi del mondo. E mostra anche come esse si dispiegano nell’istituzionale – pur senza confondersi con esso –, all’interno di diverse mediazioni, anche al livello dell’immaginario, e che in esse si cristallizzano dei soggetti e delle collettività. Le partizioni ricevute si trovano ridistribuite, a cominciare dal politico e dalla religione. Ciò accade perché, al di là delle circoscrizioni abituali, il legame che si stabilisce nel cuore di questi campi si è profondamente modificato. 38  Le peculiarità vanno lavorate dall’interno affinché esprimano le questioni globalmente umane di cui rispondono, ma senza subordinarle all’universale o a una ragione sovrastante: questo lavoro si occupa di corpi e di pratiche ed essi sono sempre particolari. Per approfondimenti, si veda la mia «leçon d’adieu» all’Università di Losanna, Résistances des particularités et pièges de l’universel. Pour un usage subversif des corps, des traditions et des frontières, in J. Ehrenfreund - P. Gisel (a cura di), Mises en scène de l’humain, cit., pp. 227-247. 39  B. Latour, Enquête sur les modes d’existence, La Découverte, Parigi 2012, sottotitolo: Une anthropologie des modernes.

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In tal modo ci si separerà da una visione del sociale caratterizzata da una coerenza d’insieme, per di più troppo spesso pensata in termini di dominazione, quella di un principio o quella di potere. Ad essa sarà sostituita la visione di una società civile con una consistenza e dei diritti propri, società civile fatta di differenza, luogo proprio delle tradizioni e del religioso, che non dovranno essere né apparire come concorrenti del politico. Si arriva così all’orizzontalità del mondo che nessun principio verticale, e ancor meno unico, può riassorbire. Si potranno così privilegiare quelli che gli antropologi chiamano «terreni», i quali sono insieme circoscritti e fatti di elementi frammischiati. Si potrà praticare una indagine di tipo etnografico, il che non significa affatto abbandonare l’ambizione teorica, la problematizzazione, il momento riflessivo, anche se l’etnografico ha potuto accontentarsi, per prudenza o incapacità, di descrivere, di riflettere e di ripetere la voce, l’esperienza o la coscienza degli attori. Ma il teorico sarà articolato secondo le pratiche e partirà da esse, per pensare ciò che accade e metterle in prospettiva. Una breve deviazione sul lavoro di Jacques Rancière può essere illuminante40. Non per sancire un programma e neppure per rifiutarlo – non si tratta di questo –, ma perché esso mostra un tipo di spostamento, di fatto all’opera, che a mio avviso va assunto. L’illustrazione è tanto più chiara per il fatto che ci si trova su una scena marxista e questa scena è stata il teatro di quello che oggi si trova sotto scacco e in causa e che riguarda proprio ciò che tento di circoscrivere. 40  Cfr. J. Rancière, La méthode de l’égalité. Entretien avec Laurent Jeanpierre et Dork Zabunyan, Bayard, Parigi 2012, con il quale mi trovo abbastanza d’accordo; per approfondimenti si veda anche il mio contributo Quelle philosophie de l’histoire? Déplacements deux générations après Paul Tillich, in «International Yearbook for Tillich Research», vol. 8, n. 1, 2013, pp. 129-152.

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Rancière è animato da un pensiero sociopolitico critico che mira all’emancipazione e alla soggettivizzazione, ma la sua attenzione è rivolta agli attori stessi41 nella loro diversità e con le loro espressioni e rappresentazioni, che sfuggono ad ogni ricapitolazione da parte di un leader carismatico o di qualche «intellettuale organico». Ogni attore, ogni situazione e ogni lotta sono colti in ciò che ogni volta le determina. Siamo lontani dall’uomo «generico» della sinistra hegeliana – perché siamo passati per le tematiche del genere (gender), della tribù o della razza –, siamo anche lontani da ogni sogno di trasparenza e di compimento pieno. La prospettiva si pretende così al di fuori di qualsiasi centralizzazione e al di fuori di qualsiasi veduta unitaria collegata a un luogo di potere decisivo (un luogo da contestare e da combattere), e insieme al di fuori di un pensiero che procede per semplici capovolgimenti. Si conservano delle eterogeneità irriducibili a una concezione sociale o comunitaria globale e a un orizzonte ultimo. Si focalizza l’attenzione su dei luoghi di conflitti che convalidano i dissensi emergenti. Si accorda un’attenzione a ciò che accade – che fa vedere come funzionano operatori diversi –, come anche al gioco di diverse istituzioni e al simbolico che organizza il «sensibile» e distribuisce i posti, non senza uno sguardo particolare nei confronti degli esclusi (i «senza parte»), ai quali dar valore nella loro realtà e in ciò che la loro esclusione rivela di uno stato sociale, foss’anche indirettamente. Si è in tal modo abbandonata ogni discussione sul potere al di fuori delle

41  Il ritorno agli attori è oggi molto presente. Cfr. A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo [Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde d’aujourd’hui, 2005], tr. it. di T. D’Agostini e M. Fiorini, il Saggiatore, Milano 2015, che pone esplicitamente la questione del soggetto, e Id., Noi, soggetti umani, cit. La questione del soggetto può porsi anche nell’islam, a tal proposito cfr. F. Benslama, La guerre des subjectivités en islam, Lignes, Parigi 2014.

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disposizioni concrete, sullo sfondo di distribuzioni che ordinano i corpi (vi è a tal proposito una storia culturale), al di fuori, anche, della diversità delle razionalità all’opera a seconda degli attori e del campo. Ci si interessa così ai «micro avvenimenti», puntando l’attenzione su ciò che genera «interruzione» come l’«interstiziale» e i «margini». L’operazione di pensiero non potrà dunque che essere trasversale. Messa in opera secondo un’altra circoscrizione rispetto a quella della sola polarità del desiderio individuale e del sociale collettivo, essa si articolerà secondo una istituzionalità effettivamente disposta. Rancière ricorre allora significativamente al vocabolario di una scena42, nella quale si dà a vedere un umano che prende parte a dei giochi, a delle operazioni, a una performatività. E parlerà più di «alterazioni» che di rottura, la qual cosa indica che la novità si inscrive su un effettivo dato e che essa è meno radicale, valevole per se stessa, che segna uno scarto e una dissidenza. Con tutto ciò si è usciti dall’alternativa che concepisce solo il controllo e il rifiuto, a vantaggio di quanto emerge a partire da un fondo di intrecci in cui si dice e si lavora l’«eccedente» o l’«eccesso». Si sarà dunque compresa la diversità delle storie dispiegate (e ve ne sono molteplici non solo nel tempo e nelle culture, ma simultaneamente al cuore di un dato ambito socioculturale). Si sarà altresì compreso quanto esse sono sfalsate rispetto ad ogni universale che potrebbe fornirne un principio direttore e una mira, e in che misura, infine, esse sono fatte di costruzioni che passano per l’immaginario e la «finzione» già operata e operante. E affinché, in ultima analisi, l’intreccio regga, e per 42  Cfr. J. Rancière, La méthode de l’égalité, cit., pp. 61, 66, 98 s., 127, 150, 220, 233; Si presti attenzione a: «la nozione di scena è centrale» (p. 107); «[le] scene […] che sono la materia prima del vostro pensiero», p. 122; «la scena è l’incontro diretto del più particolare e del più universale» (p. 124); «“scena” […] designa una operazione essenziale del mio lavoro» (p. 151).

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di più un intrigo innestato su dei dissensi, è necessaria una «scrittura», e dunque il letterario – con tutto ciò che in esso si attesta, in modo sfalsato –, e non solamente l’analisi. È attraverso questa disposizione d’insieme che si trova ripresa – differita – la questione della storia e delle ambizioni ad essa legate – l’ultima parola non sarà infatti quella di una «fine delle utopie, della storia, della politica» – al livello di una «topografia dei possibili» che è, in fondo, una «riconfigurazione di un campo dei possibili». Tale visione si stabilisce al di fuori delle matrici che hanno mobilitato e incantato la modernità, e se un compito politico è richiesto, esso passerà per un «metapolitico». Allo stesso modo, a mio avviso – quasi secondo una simmetria, vista la loro storia parallela e congiunta nella modernità –, si deve rendere conto del religioso e delle tradizioni che in esso si inscrivono passando per un «metareligioso». Superando la semplice denuncia, troppo spesso rituale e dovuta, la posizione passerà attraverso una «critica della critica» per articolarsi secondo delle possibilità da mostrare nell’«immanenza» con le situazioni date e con le contraddizioni che le attraversano. Per caratterizzare le nostre società contemporanee, oggi si parla spesso di una fine del messianismo. Nel migliore dei casi a vantaggio di un orizzonte di salvezza che non è più attribuito all’eroismo (a un soggetto che debba costruire il mondo attraverso il sociale e il politico), ma a uno «sviluppo personale» e a un «compimento di sé» fatti di integrazione a partire da una base olistica che esalta degli equilibri quasi igienici; nel peggiore dei casi i ripiegamenti individualisti evocati più in alto, che possono accompagnarsi al cinismo o a ciò che Peter Sloterdijk43 e Slavoj Žižek44 chiamano il fast-food orientale che ha invaso la 43 In Eurotaoismus. Zur Kritik der politischen Kinetik, Suhrkamp Verlag, Francoforte sul Meno 1989. 44 In La fragilità dell’assoluto (ovvero perché vale la pena combattere per le nostre radici cristiane?) (2000), tr. it. di B. Amali, Transeuropa, Massa 2007.

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nostra società e la nostra cultura, e del resto non senza modificazioni addomesticanti (i cammini orientali erano più rudi). Siamo qui lontani dalle sfide che costituivano l’«avventura occidentale dell’uomo», un’avventura tra l’amore (eros) e la morte (thanatos), legate da una pro-vocazione a essere, in un urto profondo con il reale, con ciò che di esso deve essere scongiurato o combattuto pur correndo il rischio di perdersi, ma un reale comunque attraversato da un sovrappiù di essere, promesso o sperato, e segretamente già effettivo45. Quello che ho qui percorso indica qualcosa di diverso dalle vie alternative che si richiamano a patrimoni arcaici o provenienti da un certo altrove. E si tratta comunque del politico. Si può anche ritenere che una forza messianica lo sottenda o possa sottenderlo (è questo il caso in diversi tra autori evocati), ma si tratta di un messianismo del tutto diverso. Un «messianico senza messianismi», direbbe Derrida46. Un messianismo che si articola nel presente47, e non teso in direzione di un futuro sperato e preteso come riconciliatore. Messianismo fuori da qualsiasi ambito non solamente «onto-teologico», con le sue connessioni «teologico-politiche», ma anche, precisa Derrida, fuori da qualsiasi ambito «archeo-teleologico della storia». 45  Denis de Rougemont è punto di riferimento, autore di L’avventura occidentale dell’uomo (1957), tr. it. di S. Morigi, Centro Studi Campostrini, Verona 2018 e di L’amore e l’Occidente (1939), tr. it. di L. Santucci, Rizzoli, Milano 2018, e testimone, di una spiritualità, o di una teologia protestante assunta. 46  Cfr. J. Derrida, Gli spettri di Marx. Lo stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale (1993), tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1996, pp. 75-99, scritto in discussione con La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama, del 1992 (si veda anche S. Margel, Sauver les phénomènes. Levinas, Derrida et la question du messianisme, in Id., L’avenir de la métaphysique. Lectures de Derrida, Hermann, Parigi 2011, pp. 97-116). 47  In parallelo alle celebri tesi di Walter Benjamin, cfr. M. Löwy, Segnalatore di incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin (2001), tr. it di M. Pezzella, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

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3.2. Istanze da ridistribuire e da ripensare Siamo partiti dal teologico-politico, e abbiamo attraversato principalmente il politico. Terminiamo concentrandoci su ciò che può o deve essere dei rapporti tra il religioso e il politico48. Su una nuova base, che si separa radicalmente da ciò che si è inteso per diversi secoli e nella maggior parte dei casi con teologico-politico. Con la consapevolezza che non sono le risposte a dover essere modificate, ma la disposizione stessa delle problematiche e di ciò che si trova ad essere un gioco. Istruiti da una storia più lunga e diversificata di quanto spesso si ritiene, riterremo innanzitutto che il politico e il religioso non costituiscono due spazi separati – peraltro in concorrenza – dei quali bisogna difendere le frontiere. Occorre altresì dire che né l’uno né l’altro si fanno carico della totalità del sociale. Al contrario essi cristallizzano istanze differenti – entrambe legate a ciò che costituisce l’umano, un umano irrevocabilmente complesso –, istanze che si incontrano su uno stesso piano di realtà. A ciò bisogna aggiungere che il religioso non si dà mai al di fuori di tradizioni etniche, storiche o altro – tradizione spesso ricostruite –, né si dà fuori dal culturale. Fondamentalmente, il politico ha la vocazione ad articolarsi secondo il bene comune. Una prospettiva classica e di fatto antica, che rompe con la propensione moderna a pensare in termini di ideale, dovendo intendere il bene comune, come ho già segnalato, come ciò che permette la perfezione di ciascuno e di ogni organizzazione. Esso è dunque subordinato a dei fini che lo superano, e questi fini sono irriducibilmente plurali, ogni volta particolari. Da ciò deriva la necessità del politico 48  Si veda anche il mio testo Particularités religieuses et «bien commun». Mise en perspective historique et systématique, in M.Ch. Ferjani (a cura di), Religion et démocratisation en Méditerranée, Riveneuve éd., Parigi 2016, pp. 117-137.

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e la sua specifica vocazione, che non bisogna assolutamente ridurre. Ma questa vocazione è una regolazione. Né più né meno. Il che non equivale affatto a una neutralizzazione delle questioni di fondo riguardanti l’umano e la vita all’interno della società. Salvo che il politico non ha un programma tale in senso stretto, ma solo il compito di permettere e favorire – se non addirittura di alimentare, nei propri limiti – una discussione e un dibattito, foss’anche a proposito del dissenso. Dissenso che rinvia sempre a delle poste in gioco che è possibile chiarire e delle quali è possibile delimitare uno spazio di argomentazione che permette diverse valutazioni, il che è molto diverso da un abbandono dato in ultima istanza. Da parte sua, il religioso dice o cristallizza il fatto che vi è una differenza innata tra la verità ultima e i dispiegamenti dell’umano. Una differenza profonda circa ciò che costituisce l’umano socialmente e individualmente. Questa differenza non è né da riassorbire né da attenuare, ma da valorizzare. Esso non va riassorbito né attraverso né all’interno del politico49 – Ciò equivarrebbe a dar forma a una hybris propria, prometeica –, né tantomeno attraverso e all’interno del religioso: ciò equivarrebbe ad annichilire ciò di cui vive, a confiscare a suo vantaggio ciò che eccede l’umano, a trasformarlo in sapere e a ritenere che in definitiva la via che può proporre è la sola (la sola vera), mentre è proprio del religioso il fatto che tali vie siano plurali. 49  Si può ritenere che una posizione del problema come quella di Carl Schmitt gli dia corpo, certo in modo esacerbato, che tuttavia rivela una pulsione propria, e non è affatto accidentale che essa sia legata alla questione della sovranità, da affermare come unica e secondo la modalità moderna di una decisione (cfr. J.-P. Faye, L’État total selon Carl Schmitt. Ou comment la narration engendre les monstres, Germina, Parigi 2013). Si potrebbe avanzare l’ipotesi secondo la quale la focalizzazione di Alain Badiou sull’evento per l’evento e sulla novità per la novità è anch’essa emblematica nel suo genere, e anch’essa in modo esacerbato (strutturalmente, la posizione è di tipo marcionita).

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Occorrerà precisare e circoscrivere in modo più preciso l’istanza alla quale il religioso dà forma e corpo, ciò che gli accade oggi, ciò che di esso si può riproporre in termini di riflessione rilanciata, e secondo quale statuto, quale pertinenza e quali limiti. Diciamo senza indugiare che tale istanza è, in particolare e innanzitutto, quella di una simbolizzazione – una realtà che di fatto e di diritto non può essere riassorbita –, che segna una scansione del tempo, con tutto ciò che esso porta con sé in termini di storia instauratrice, di tracce e di memoria, ma anche in termini di differenziazione dello spazio, che propone anche una individuazione del rapporto con sé, con gli altri, con il differente, a cominciare dal mondo e dal corpo, con tutto ciò che non si lascia appropriare e che richiede, come dicono gli antropologi, una certa negoziazione. Tale simbolizzazione non può essere riassorbita, tanto è vero che nessun discorso o programma – né politico né religioso – può e neppure ha il compito di proporre una totalizzazione del sociale per articolarsi secondo essa. Ognuno, al contrario, deve far proprio il fatto che vi è una eterogeneità delle finalità e dei regimi di razionalità. L’istanza alla quale il religioso da corpo e forma è, inoltre, quella di una pulsione umana di superamento, di un rapporto con ciò che eccede, una pulsione che può svilupparsi sia in direzione del meglio che del peggio e che, dunque, va regolata. In profondità, questi due aspetti – l’operazione di simbolizzazione e il rapporto con ciò che eccede l’umano senza appropriazione – si richiamano l’un l’altro. Si sarà anche compreso che la diversità operante nelle società e nelle culture non riguarda solo la differenza delle costruzioni messe in opera e delle risposte date alle questioni comuni, ma concerne la disposizione stessa che le permette: vi è dunque una pluralità quasi infinita dei tipi di rapporto con l’eccesso, e tra questi ve ne sono alcuni che non passano attraverso quella forma di una trascendenza che l’Occidente ha conosciuto, foss’anche secondo intensità variabili. Le prime società lo mostrano in abbondanza, così come l’Antichità precristiana.

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Per articolare in modo fruttuoso le relazioni tra il politico e il religioso non è sufficiente un ritorno del politico ai suoi scopi originari (come il bene comune, nel senso in cui l’ho menzionato). Occorrerà anche che ciascuno abbia ben chiara la situazione attuale del religioso, che deve essere visto e pensato a partire dalla sua articolazione più profonda con i dati in gioco nell’ambito umano e sociale, dunque con delle questioni comuni per quanto ogni volta storicamente situate. Nel gioco sociale qui richiamato, il religioso sarà invitato a non presentarsi come incentrato sulle proprie affermazioni, anche per valorizzare i propri benefici all’esterno; in ogni caso esso non sarà letto sul piano dei suoi soli enunciati, presi isolatamente. Tutto ciò comporterà un rilancio della riflessione da condurre e delle problematizzazioni da sviluppare, anche quando si sviluppa a partire dalla propria tradizione. L’orizzonte che tale riflessione esige sarà in ultima istanza quella di un dibattito su questioni umane in quanto tali, e per questo trasversali al politico come al religioso. Tali questioni sono presenti anche in letteratura (la quale, come il religioso, costituisce una «messa in scena» dell’umano nel mondo) e più ampliamente nelle arti e nel mondo culturale. Considerato il lavoro da fare sia sul religioso che sul politico, incroceremo in modo specifico i seguenti motivi, selezionati tra gli altri: figure della sovranità e altre disposizioni dei poteri e delle gerarchie; istituzionalizzazione e trasgressione; procedure di normatività e irriducibilità dell’eterogeneo; forza delle eredità, e in particolare delle tradizioni; gestione, o meno, della trasmissione; l’utopico e le sue varianti, o altre forme di protesta e di dissidenza; irruzione della novità, negazione del passato e ripetizione; messa in opera, o meno, del simbolico e del rituale; marcatura e gestione dei corpi; produttività delle immagini; distribuzione dei discorsi eruditi e degli altri discorsi. Su ciascuno di questi punti, il religioso offre un campo di esperienza ampio,

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diverso e istruttivo. E molti di questi punti sono al centro delle difficoltà e dei malfunzionamenti del contemporaneo. A tali motivi si aggiunge, o forse li attraversa, una questione decisiva ai miei occhi anche per quanto riguarda le avarie, la questione delle mediazioni, che sono particolarmente legate al collettivo e relative al terzo50, e vanno al di là della natura oggettivata, e del solo soggetto decisionale. In ultima analisi, il religioso – come il politico – è fatto di costruzioni storiche e sociali, il che non lo squalifica: la costruzione è necessaria e ogni volta significativa, anche sintomatica, e, ad ogni modo, operante. Segnaliamo che quanto vale per il religioso, vale ugualmente, mutatis mutandis (non vi è equivalenza e neppure semplice intersezione) per la teologia. Al di là del fatto che la sua stessa storia è istruttiva, essa ha anche sviluppato, attraverso un’articolazione con la sua tradizione – e restando utile non solo per la sua tradizione, ma indirettamente per tutti –, un tipo di interrogazione che ha, nel suo ordine, una portata generale che va al di là dell’adesione o meno51. Ciò perché lavora ed è lavorata – come il religioso – da questioni umane appartenenti a ciascuno, questioni che bisogna saper ricostruire se si vuole poi apprezzare, criticare, valorizzare o riprendere altrimenti ciò che la costituisce. Il presente capitolo era focalizzato sul politico, considerato a partire dalla critica al motivo del teologico-politico, dal quale

50  Nel cristianesimo, la stessa cristologia ha questo statuto, negato o meno: cos’altro potrebbe infatti essere? A meno che non si voglia pensare la figura del Cristo come un sostituto di Dio, in forma di intermediario, il che però è quanto viene classicamente da sempre rifiutato. 51  In questo caso, la teologia è una disciplina che interroga l’umano nel suo rapporto con l’eterogeneo e lavora ciò che vi è legato, così come anche le produzioni che vi furono legate, che le si voglia ritenere buone o perniciose.

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bisogna liberarsi. Valutando i diversi spostamenti all’opera nel cuore del politico, abbiamo aperto in direzione del religioso. Il prossimo capitolo riprenderà l’interrogazione partendo dal religioso e dalla posizione da accordargli – perché, rispetto a che cosa e come –, sempre nel legame con il sociale e con il politico e nell’ambito di una disposizione di insieme da ripensare, che riguarda l’umano nel mondo e al cuore dell’essere-con.

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V Le tradizioni, luogo di una esposizione al differente L’umano direttamente nel mondo e nel cuore di un essere-con

Quanto accennato alla fine del capitolo precedente può risultare prossimo alla proposta di Jürgen Habermas. Ma prossimo non significa identico. In questo caso, si convaliderà più di quanto lui faccia ciò che il religioso condensa nel cuore delle sue tradizioni particolari – con i loro racconti e le loro costruzioni –, qualcosa di irriducibile a un socio-normativo uniforme che emerge a partire da uno sfondo universalizzato1. Reciprocamente, per così dire, esigeremo di più anche dalle tradizioni religiose, in termini di riflessività a proposito del loro rapporto con il mondo di tutti e con l’umano in quanto tale, e secondo una modalità che esclude una visione «integralista»2, sempre minacciata dal radicalismo. È anche opportuno sottolineare – per me è decisivo – che il dibattito da condurre sulle questioni umane di fondo, trasversali tanto al politico quanto al religioso, deve essere condotto al di là di tutte le convinzioni autoconvalidate, e al di là di tutte le affermazioni semplicemente esibite 1  Sono qui fondamentalmente d’accordo con J.-M. Ferry, Les Lumières de la religion. Entretien avec Élodie Maurot, Bayard, Parigi 2013. 2  Critico rispetto a quella che riteneva una eccessiva accoglienza da parte di Habermas, J. Stavo-Debauge, Le loup dans la bergerie, cit., pp. 114-117, 135 s.

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e in fin dei conti autoreferenziali. Le questioni in gioco sono inoltre delle questioni aperte e devono restare tali: non si dà risposta, ma ci si fa carico di esse. Saremo dunque certamente in un ambito di laicità, con le sue regolazioni3, ma si tratta di una laicità più liberale che repubblicana4. Rispetto alle realtà e alle tradizioni religiose che non intendessero situarsi nell’orizzonte del dibattito individuato in questi termini – quello delle questioni comuni che devono trovare un’argomentazione a tale livello –, si applicheranno le regole moderne della tolleranza – massimale, senza misure di polizia –, ma niente di più. Ciò non significa che non si possano considerare istruttivi i loro dati, ma ciò accadrà al livello di una ripresa secondo coordinate diverse – quelle dell’umano e del sociale – e al di fuori di una interazione diretta con gli attori considerati e con ciò che possono rivendicare. Non nascondo che l’insieme del gioco si trova oggi complicato dalla presenza di nuove forme religiose che si sviluppano nel cuore delle tradizioni storiche. Come l’evangelismo o l’islamismo, di fatto simili nella loro posizione e nel loro tipo di posizionamento rispetto al sociale, così come nel loro tipo di legame con il passato, da entrambi pensato come diretto anche se di fatto interamente ricostruito, e peraltro ricostruito secondo una coniatura moderna (una razionalizzazione interna che si sviluppa secondo una modalità dettata dal regime di ragione dominante): non basta avere delle posizioni reazionarie – reazionarie per iniziare – per non essere moderni! Anche se, come abbiamo visto nel capitolo III, dicono e pensano il contrario,

3  Cfr. il riassunto che ne dà J. Baubérot, Laïcité, laïcités. Une approche socio-historique, in M.Ch. Ferjani (a cura di), Religion et démocratisation en Méditerranée, cit., pp. 149-161. 4  La storia del o dei liberalismi deve essere oggi rivisitata; a tal riguardo si vedano i lavori di Philippe Raynaud.

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questi movimenti operano in realtà delle vere rotture con i modi in cui si sono dispiegate le loro tradizioni. In particolare, essi vivono in uno spazio proprio, posto al di fuori di un radicamento e di una cultura e in questo sono tipiche dei nostri tempi, incontrando una plausibilità sociale grazie alla profonda deculturazione che affligge il contemporaneo, che lascia nel faccia a faccia, ossia senza una mediazione realizzata o realizzabile, un religioso autoaffermato e pensato come specifico5 (sia che si tratti di investirlo che di ripudiarlo) e un sociale ridotto al puro funzionamento a partire da uno sfondo unidimensionale.

1. Abbandonare una matrice comunitaria del sociale Ho perorato la causa di una irriducibilità delle particolarità cristallizzate nella forma di tradizioni, anche in funzione del riconoscimento di un’eterogeneità riguardante ciò che si dà come eccesso nelle concatenazioni sociali e come eccesso dell’umano, facendolo agire, vivere, e ponendolo nel mondo e nel rapporto con gli altri. Questo conduce a rivedere criticamente ciò che oggi si dà come costituente il sociale: un legame che ha di mira idealmente una comunità. Tale motivo è in realtà

5  Radicalizzazioni religiose e costituzioni di uno spazio religioso proprio vanno insieme, e tale disposizione è moderna, frutto di una secolarizzazione; su questo punto sono d’accordo con Olivier Roy, cfr. per esempio Pour des sociétés ouvertes, in «Esprit», n. 422, feb. 2016, pp. 44-58: «il fondamentalismo è […] la forma religiosa più adattata alla secolarizzazione perché […] si sforza di ricostruire la religione come un puro religioso» (p. 51). In apporto allo stesso ordine di riflessione, ricordiamo che il primo Stato laico – la colonia di Rhode Island – fu fondata da un pastore battista, Roger Williams, nel bel mezzo del XVII secolo, in particolare affinché fosse garantita la libertà religiosa: cfr. Genèse religieuse de l’État laïque. Textes choisis de Roger Williams (curatela e introduzione di M. Boss), Labor et Fides, Ginevra 2014.

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da decostruire. Esso ha imposto e impone ancora spesso i discorsi e i progetti sociopolitici. Al di là delle differenze esso si stabilisce a partire da Rousseau e dal suo ricorso a una «volontà generale», da Marx e dalla sua umanità «generica», a partire da molte delle celebrazioni della Repubblica, e oggi a partire da diverse perorazioni che mirano a neutralizzare tutti quei fatti che apparivano come un fallimento del «legame sociale» e come la perdita o l’impossibilità di un «comune». Il motivo comunitario è investito da affetti religiosi; esso aveva anche dato origine a una matrice religiosa, la quale avrebbe preso forma di una Chiesa come corpo – la qual cosa ha preso piena consistenza con l’inizio della Modernità – o, in un ambito storicamente più protestante, cioè originato dalla Riforma, la forma di un ideale nelle sembianze di una comunità6. Decostruire significa innanzitutto ripetere il motivo in gioco e all’opera, situarlo in una storia più differenziata, per poter mostrare tanto la propria forza, quanto la diversità dei dispositivi nei quali ha potuto e può inserirsi ed essere preso in carico, in modo lineare o ripiegato, ossia distorto. E significa anche mostrare un’altra disposizione dell’insieme, poiché ci si situa su una linea critica dei modelli ai quali tale motivo ha dato luogo.

6  Una ripresa di Karl Barth sarebbe illuminante, l’ho fatta in La dialectique de l’Évangile et de l’Église chez Karl Barth. Une surdétermination christologique finalement homogénéisante?, in «Cristianesimo nella storia», vol. 36, n. 2, 2015, pp. 403-427. Rispetto a una ridisposizione cattolica recente che verte sul sacramentario, ma che resta nell’orbita del corpo proprio – anche se non si tratta più del contro-societario che eredita il motivo di una società perfetta sopra evocata (n. 26, cap. IV) –, organizzata secondo un fondamento specifico che lo determina (in questo caso il cristologico, poiché è ciò che il dispositivo cristiano può offrire), cfr. il mio Statut et place de l’Église, en compréhension interne et face à la société. Regard critique sur le motif de l’Église comme sacrement, in Ch. Theobald, Pourquoi l’Église? La dimension ecclésiale de la foi dans l’horizon du salut, Bayard, Montrouge 2014, pp. 197-217.

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Su questo punto incroceremo una serie di lavori e di riflessioni di Jean-Luc Nancy7. Anch’egli opera infatti una «decostruzione», quella del comune, un comune che non coincide con l’idea del «comun-ismo» e che lui riferisce a una matrice cristiana fatta di un sogno unitario, di sacrificio, di una fondazione singola e, in questo caso, eccezionale. Una matrice che apre una prospettiva altra, con la quale sono in consonanza8 sia per quanto riguarda la diagnosi, sia per ciò che occorre aprire e pensare: non un progetto «alternativo», precisa Nancy, ma un «altro regime di senso». Non dunque una forma di comunità più soddisfacente, realizzata meglio o in modo più pieno, ma un comune altrimenti inteso. Diretto dal plurale del mondo, e anche dalla sua esteriorità, «inappropriabile» sottolinea Nancy in modo ricorrente, come è inappropriabile ciò che gli accade, ciò che questa esteriorità permette e invoca. In questo senso, si tratta di un comune altrimenti diretto dal mondo stesso9. Per quanto riguarda la diagnosi, o la rilettura critica, Jean-Luc Nancy non rinvia solamente l’ideale di comunità a un «im-

7  La comunità inoperosa (1986), tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003. La communauté affrontée, Galilée, Parigi 2001. Maurice Blanchot. Passion politique, Galilée, Parigi 2011. Quelle(s) communautés(s) après l’effondrement du communisme et à l’heure du réveil des communautarismes?, in N. Truong (a cura di), Résistances intellectuelles. Les combats de la pensée critique, L’Aube, La Tour d’Aigues 2013, pp. 29-45. La comunità sconfessata (1986), ed. it. a cura di F. De Petra, Mimesis, Milano-Udine 2016. 8 Cfr. I. Ullern - P. Gisel (a cura di), Penser en commun? Un «rapport sans rapport». Jean-Luc Nancy et Sarah Kofman lecteurs de Blanchot, Beauchesne, Parigi 2015, all’interno del quale si trova il mio De la communauté au commun. Ce qui est à déconstruire d’une provenance chrétienne, pp. 109-138, in cui si potranno ritrovare dei riferimenti più dettagliati ai testi di Nancy qui richiamati. 9  Cfr. J.-L. Nancy, Il senso del mondo (1993), tr. it. di F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 1997; e Id., Essere singolare plurale (1996), tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2001.

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possibile» di fatto, ma alla proiezione di un «sogno» mortifero: che soffoca (nel quale si sacrifica troppo per l’«unitario») e impedisce la vita (nel quale si tende troppo alla «fusione» o all’«unanime»). In profondità, la mira in causa va di pari passo con il primato di una immanenza, per definizione estensiva e omogeneizzante: «Un’assoluta immanenza dell’uomo all’uomo […] e della comunità alla comunità»10. E, nella stessa orbita, o nello stesso regime, si tratta di una forma di sovranità che si propone e che domina, una sovranità diretta e un doppione dell’immanenza indicata, che la sancisce e la conforta dopo aver scongiurato tutti gli eccessi11, a cominciare da quell’eccesso che è il mondo stesso – Nancy lo esplicita chiaramente –, nella sua propria densità, nella sua pluralità irriducibile, nel suo infinito e insieme anche in tutto quello che ci rende limitati e, come vedremo, singolari ed esposti. Maurice Blanchot, con il quale Jean-Luc Nancy ha intrattenuto una discussione di lunga durata in materia di politica e di sociale, direbbe che vi è un al di «fuori» del comune12. Il quale scuote, per così dire, dall’esterno, insinuandosi nel cuore del comunitario o del collettivo, e anche del sé, anzi, in modo particolare del sé. Un «fuori» che segnala ciò che sfugge o ciò che non conta. Il quale può far risuonare il tragico13 che la Modernità ha voluto superare e che si risveglia grazie all’affetto, alla ferita e al desiderio. Il quale non può farsi sentire oggi, così

10  J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 21. 11  Nancy accoppia la sovranità con un «essere-insieme tale che non ci sia niente che lo preceda né lo ecceda» (Il senso del mondo, cit., p. 114). 12  Nancy riprende questo vocabolario del «fuori»: cfr., per esempio, La comunità inoperosa, cit., pp. 127 s. 13  Su tale punto cfr., in questo contesto, T. Tuppini, La tragédie qui reste, in I. Ullern - P. Gisel (a cura di), Penser en commun?, cit., pp. 77-96.

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come nell’Antichità, se non in modo differito, nel letterario o in ambito estetico, e in particolare nella messa in scena14. Il quale rinvia quindi a delle differenze fra sé (ciascuno, alle prese con l’enigma del mondo) e il comune (a proposito del quale si sperimenta in modo differente dal condivisibile, e quindi dal condiviso che quindi può essere ripreso), così come a delle controversie tanto a proposito del comune che della vita. Si arriva così a una condizione originaria. All’inizio non si dà infatti il soggetto, il suo atto puro, razionale e deciso, per così dire immacolato, ma una «in-coincidenza» con sé, nativa, o una «deiscenza» profonda, costitutiva. La quale può, allo stesso tempo, aprire una «inscrizione nell’intrigo», in una economia dei corpi. Ci si trova qui in una certa prossimità con Emmanuel Levinas, il quale non per caso è un cantore dell’esteriorità – e anche degli spostamenti e delle asimmetrie –, ossia prossimi o in consonanza con altre inflessioni stabilite su una base fenomenologica, in particolare nell’orbita francese, già da Merleau-Ponty. Nell’ambito della disposizione aperta, ciascuno è invitato a reperire delle «tracce» – tracce del passato e di ciò che è accaduto – per far risuonare delle voci, uccise, soffocate o banalizzate e ogni volta irriducibili al discorso razionale generalizzante. A dargli forza, insieme a ciò di cui ci danno testimonianza e che le sostiene: un sovrappiù, qualcosa di non assimilabile o non integrabile, ma che si trova alla radice di ogni singolarità o di ogni capacità di «iniziativa», direbbe Hannah Arendt, nel senso di una possibilità di «cominciare» – esponendosi – e, quindi, di «nascere». Un cominciare nella forma di un riprendere su di sé 14  Una messa in scena al di là di qualsiasi fissazione, anche su una figura, paradigmatica o altra, troppo «monumentale»: ci si tiene così al di là di un regime di figure, ma le figure sono sempre rimesse in gioco, né ci si trova al di là del mitologico, ma quest’ultimo funge da variazione immaginativa e mobilitante.

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e di un dare eco; un «ripetere», secondo quanto proposto dal Gilles Deleuze che legge Nietzsche, o un «continuare», ma più nel senso di un «concatenare» che di un addizionare, o ancora come se ci ritrovassimo «generati». Queste diverse sfaccettature sono quelle di una situazione – e sono delle possibilità da non sacrificare a vantaggio di un collettivo sovrastimato – da non dissolvere nella totalità e nell’unità (nel «comune»15). Una situazione nella quale vi è da condividere, a partire dalle differenze irriducibili e potenzialmente feconde, nella misura in cui si sappia farne uso per il meglio e per tutti. Ciò rinvia a un altro regime del vivere insieme, a un’altra maniera di metterlo in opera, di favorirlo e di regolarlo. E ciò richiede un altro registro di pensiero, diverso da quello di un universale sovrastante e di uno spazio omogeneo16; registro nel quale si darà valore a ciò che «resiste», o a ciò che resta «al di fuori», ciò che allo stesso tempo fa sì che io possa resistere, protestare, «interrompere», pormi in dissidenza, e possa farlo come singolarità.

15  Per Nancy, ma anche per me, il lavoro di rilettura in vista di un regime altro passa per una decostruzione operata su una eredità della sinistra hegeliana e, da qui, sulla cristallizzazione cristiana. La genealogia dalla quale proveniamo ci obbliga a ciò, ma il motivo di una «comunità» emerge come centrale anche nella tradizione mussulmana (è quello dell’Umma). Ripensarne la portata passa probabilmente attraverso un esame del suo rifiuto dei particolarismi – denunciati come portatori di idolatrie – e attraverso una ripresa critica dello sfondo unitario così considerato, spiritualmente e al di là delle differenze sociopolitiche, o deliberatamente sociopolitiche (tornerò più avanti sull’ebraismo, che mostra un diverso modello d’insieme, se non perché vive dell’affermazione di una differenza al cuore delle «nazioni»). 16  Un registro spostato rispetto ad ogni ontologia (e di fatto dall’onto-­ teologia) e da ogni dialettica; lo sottolinea Isabelle Ullern, nella Ouverture, a I. Ullern - P. Gisel (a cura di), Penser en commun?, cit., pp. 5-28.

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2. L’esposizione come trascendentale 2.1. Una nuova disposizione dell’umano e del suo rapporto con il mondo Il regime da pensare è quello di una «esposizione», esposizione al mondo stesso, ed esposizione agli altri, differenti, ma con i quali si apre o può aprirsi una condivisione di ciò che, nel mondo, si tesse come umanità. Con l’esposizione si dà, afferma Jean-Luc Nancy nel seguito del testo che ho già citato, niente meno che un trascendentale (una «costituzione trascendentale»17). Si stabilisce un rapporto con il mondo, una posizione del soggetto che dice della sua nascita, della sua nascita al mondo e a sé. Vi sarebbe così un momento originario in cui si investe il mondo in ciò che esso è – e anche un momento in cui ci si lascia investire –, mentre esistono molti modi di far corto-circuitare questo mondo, di eluderlo, anche inscrivendo in esso un progetto ideale che, in fin dei conti, vi ponga rimedio (lo «salvi»?), o che ponga rimedio ai suoi pensatori, un modo di eludere le sue ricchezze, anziché di esporsi ad esso, confrontarsi con esso, entrare in esso per sovvertirlo dall’interno. Tanti modi di girare intorno ad esso come se si sognasse un altro mondo che non esiste e che non si dà; tanti modi di sacrificarlo a un progetto che nasce al di fuori di ciò che i fatti ci offrono, a un progetto che può essere morale, religioso o razionale18. Nel cuore di questa esposizione – che si situa direttamente nel mondo e in ciò che in esso si è dispiegato o si dispiega – si stabilisce un rapporto con gli altri. Anch’essi esposti al mondo, strutturati nel mondo come singolarità, a livello di un corpo a

17  J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, cit., p. 137 (cfr. anche p. 59). 18  Ho più volte utilizzato criticamente il termine progetto; in Nancy, cfr., tra gli altri testi, ivi, p. 43.

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corpo. L’essere-esposti-al-mondo, infatti, è anche, immediatamente, un essere-esposti-agli-altri. Jean-Luc Nancy propone anche un «essere-esposto-degli-uni-agli-altri», precisando che esso non è altro che «il tessuto stesso del mondo»19. L’esposizione è allora «comparizione», altro termine al quale Nancy è affezionato in tale contesto, una comparizione innanzitutto per sé, ma che non si gioca a partire da uno sfondo vuoto e deserto, né a partire da un terreno vergine, sul quale costruire per la prima volta. Secondo uno spostamento rispetto a ogni ideale comunitario, che si trova oggi secolarizzato in una maniera moderna di comprendere il politico e il sociale – la Repubblica, ma anche quanto stabilito da Carl Schmitt –, è meglio partire dalle differenze delle culture e delle tradizioni, valorizzarle e farle fruttificare, il che esige, per cominciare, di non negarle, proprio quando si afferma un rifiuto di ciò che gli intellettuali della Repubblica tacciano di culturalismo. Prima della modernità si dispiegava un gioco di differenze innate legate al cosmo e alle forze che lo attraversavano. Tale gioco è stato ridotto dalla ragione moderna, ma con il rischio che questa ragione appiattisca il reale e l’umano, essendo essa interamente votata al proprio sogno e al proprio ideale. I processi iniziati storicamente si sono di colpo rivoltati contro ciò che tale ragione prometteva in termini di emancipazione, ma che alla fine si è realizzato come una omogeneizzazione rampante, con tutti i suoi effetti perversi e con il ritorno di quanto era stato represso, il quale non è altro che un reale negato. Una promessa intravista o possibile si trovava e si trova sempre nuovamente scongiurata. A partire da tale sfondo occorre oggi fare una scommessa, tanto più che ci troviamo a un incrocio: la scommessa che la me19  J.-L. Nancy, Il senso del mondo, cit., p. 93.

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scolanza interculturale contemporanea possa dal luogo non a una negazione delle differenze sotto forma di accusa – essa è in corso! –, ma che sia avvicinata e accolta come occasione di rimettere in cantiere ciò che ne è delle nostre società troppo indifferenziate, per rivivificarle a partire dalle differenze storiche e di identità che si sono date. Con tutto ciò che esse possono far emergere, anche nell’urto e attraverso forme che devono essere criticate e riprese altrimenti. La scommessa proposta presuppone che si siano convalidati i fatti delle differenze umane e storiche, così come le loro espressioni, secondo dei limiti e una regolazione da pensare e da mettere in atto.

2.2. Un avvenire direttamente nel mondo L’umano esiste solo a-venire. Sullo sfondo di un mondo con una consistenza propria e al quale un umano risponde avvenendo in un certo modo, al fianco di altri umani, nella differenziazione e in interazione. Un avvenire che è complesso, non semplice. Cristallizzato in una forma necessariamente particolare e allo stesso tempo attraversato da una singolarità presente in ciò che, attivamente e processualmente, si assume per sé, anche in modo implicito. Non vi è dunque nessuna identità data in partenza, né per sé né per un gruppo da raggiungere o da rettificare, ma piuttosto una generazione costantemente ripresa. Ci si sarà così separati dall’idea di una origine o di un cominciamento isolabile, legittimante e determinante, ma senza per questo dover rinviare a un fondo anonimo dell’essere. Si sarà così convocato il mondo come luogo di spaziature differenziate, nelle quali sono inscritte diverse nomine, con i loro racconti, le loro figure, con ciò che si è conservato in termini di tradizione e con ciò che si è cristallizzato nella memoria. Una memoria preceduta da tradizioni – che sono a monte – di cui condensa

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un gioco: essa se ne separa con la sua cristallizzazione particolare, mostrando così o mettendo in scena il gioco con cui se ne separa. E un’altra memoria con la quale si articola – questa volta a valle – una tradizione ripresa con un dispiegamento ogni volta plurale, che mostra ugualmente diversi modi di separarsi dall’intrigo umano collocato direttamente nel mondo. È necessario uscire da una visione che non conosce altro se non individui isolati e affermati in quanto tali, nei propri diritti, e da un collettivo in cui niente si stabilisce o accade realmente, non essendo altro se non una superficie neutra e indeterminata, per individui giustapposti. Vi sarebbe qui una visione in realtà impotente, risultante dalla volontà di liberarsi dagli aspetti limitanti e mortiferi delle tradizioni e delle altre eredità culturali, incapace di lavorare queste ultime dall’interno – e dunque, per iniziare, occorrerà restituire ciò che le lavora dall’interno –, che si impegna semplicemente in un superamento dei fatti, sperando che un tale superamento sia pacificatore. Si sarà compreso che a mio modo di vedere non si tratta tanto di ritrovare una visione antica alternativa a un’altra che sarebbe stata ad essa sostituita, si tratta invece di realizzare una diagnosi su una condizione dell’umano nel mondo a partire dal contemporaneo, e nello specifico ciò andrebbe fatto senza trascurare quanto si mostra, come direbbe Slajov Žižek, di «ciò che», nel «suo ordine esistente», «non va»20. Le differenze infraumane, che condizionano le culture e si ritrovano nella tradizione, esistono di fatto. Come esistono di fatto anche le difficoltà sociali del nostro stato di fatto sociale e politico. E non è un caso, e neppure qualcosa senza significato, che uno stato sociale desiderato al di là delle differenze e pensato al di fuori di queste

20  Žižek ritiene che questa sia una delle funzioni possibili e felici della religione oggi: cfr. Il cuore perverso del cristianesimo, cit., p. 10.

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tradizioni – particolari e diverse – sia la scena di «ritorni», che si reputano spontaneamente irrazionali, arcaici o non emancipati. Al di là di una relegazione delle differenze alla sfera privata degli individui o alla sfera della loro possibile aggregazione in gruppi di affinità pensati di per sé e giustificati solamente dai loro riferimenti (tendenza oggi flagrante nella scena religiosa, sia che la si osservi dall’interno che dall’esterno), ciò che caratterizza profondamente il nostro tempo è un deficit simbolico. Molti pensatori non hanno mai smesso e non smettono di dire e di argomentare a tal proposito, in particolare in un ambito segnato dalla psicanalisi (Julia Kristeva ci fornisce un bell’esempio di ciò21) o sul terreno dell’antropologia (Marcel Hénaff mi sembra particolarmente istruttivo, nella sua ripresa e demarcazione da Marcel Maus22). Il simbolico è ciò che permette e ciò a cui danno forma le culture e le tradizioni. Attraverso quanto da esse messo in opera, esso offre uno spazio di mediazione tra l’umano e il mondo, tra i diversi umani, tra sé e sé. Il simbolico è costitutivamente necessario, tanto è vero che il soggetto non stabilisce un rapporto di immediatezza né con il mondo né con se stesso né con ciò a cui potrebbe mirare, per sé o collettivamente. Al contrario, esso si dà in una differenza di piani, al livello di un gioco che si sviluppa a distanza e che dà luogo a spaziature. Il simbolico riguarda dunque il terzo, proprio ciò che manca gravemente nelle nostre società di tarda modernità, che conoscono solamente le entità semplici e la loro giustapposizione più o meno felice. Inoltre, è proprio il fatto di questo terzo, con tutto ciò che da esso può scaturire e svilupparsi, a permettere la riflessione, e 21  Tra diversi testi, cfr. J. Kristeva, Bisogno di credere. Un punto di vista laico, tr. it. di M. Guerra, Donzelli, Roma 2006. 22  Cfr. M. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia (2002), tr. it. di R. Cincotta e M. Baccianini, Città aperta, Troina 2006.

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innanzitutto l’autoriflessione, ma ciò potrà essere ripreso più avanti in modo più dettagliato23 e, comunque, nel solco della presente instaurazione, se essa si dimostrerà possibile, sulla base di un futuro aperto.

2.3. L’essere-con nella differenza, luogo di un confronto fecondo Non negare le differenze, né ricusarle, ma sancirle e farle fruttificare in ciò che ciascuna di esse cristallizza, significa aprire un regime umano dell’«essere-con», per utilizzare un vocabolario che rinvia ancora una volta a Jean-Luc Nancy, vocabolario in cui il «con» si dà come costitutivo, e in tal senso originario, e non come un momento aggiunto a piacimento o secondo una disposizione morale stabilita. Questo regime è costituito da una mutua fecondazione, che si realizza al livello dell’esposizione già indicata e di ciò che ad essa può legarsi o che ad essa si lega. Una condizione originaria di esposizione al mondo e di esserecon vive di spostamenti e di avventi plurali, si tratta di una condizione in cui le differenze non sono giustapposte nella propria identità e nelle affermazioni autocentrate, ma consegnate le une alle altre. Vi si stabilirà dunque un dibattito profondo e un confronto fecondo, non solo perché si prenderanno in considerazione le differenze e si darà loro valore, ma anche perché si sarà aperto un asse di riflessione sul loro tenore, su ciò che le impegna e sulle maniere in cui esse di volta in volta hanno risposto. In tal modo e allo stesso tempo, si potrà entrare in un lavoro circa ciò che instituisce ognuna di queste differenze e ne determina la forma, ciò che le limita, scoprendo così il 23  Ho abbozzato una riflessione su mediazione e ordine terzo in Ex opere operato. Réponse à Silvia Mancini, in J. Ehrenfreund - P. Gisel (a cura di), Mises en scène de l’humain, cit., pp. 111-133.

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luogo di una disputa che rinvia o presuppone una esteriorità non ridotta alla quale rispondere a modo proprio e secondo una modalità differita. Partire dalle differenze, intendendole come un’occasione di vivificare il nostro stato sociale, non è altro che una scommessa circa le potenzialità inerenti a diverse ricchezze culturali in forma di tradizioni, alle volte o spesso investite da affetti religiosi. La scommessa che le nostre società possano rinnovarsi al livello di un lavoro sui limiti, sui limiti propri e su ciò che, dall’interno, delimita le diverse situazioni. È centrale, in questo caso, il gioco di una esteriorità che proviene da un eterogeneo quando si permette che emerga qualcosa nel cuore del mondo e nei sui luoghi di scambi. Non si tratta dunque di una esteriorità alla quale si risponderebbe direttamente, in quanto ciò equivarrebbe a ricondurla sottilmente a sé. È altresì centrale il gioco di una finitudine mai riassorbibile, da assumere, da convalidare, e da far fruttare nei tratti particolari che gli sono propri e in ciò che essi indicano. La prospettiva messa in opera conosce, in fin dei conti, solo delle singolarità – quelle di ciascuno –, e ciascuna cristallizzata in forme particolari, tutte differenti e tutte finite. E se vi è condivisione – al di là degli scambi che in diverso modo tessono i nostri rapporti e ci incrociano, quali che siano le reazioni di difesa e le contrazioni sull’identità fissate, spesso ricostruite e immaginate –, si tratterà di una condivisione a proposito di questi stessi limiti, che fanno di noi ciò che noi siamo, che ci determinano e segnalano un fuori gioco che si stabilisce direttamente alla radice dei nostri avventi di esistenza e di ciò che su di essi possiamo scrivere, dandone una rappresentazione per offrire a noi – e agli altri – delle figure concrete degli intrighi. Si sarà compreso che innanzitutto occorre riconoscere una differenza innata tra tutti i riferimenti o le mire che si pretendono ideali e la loro realizzazione politica o altra. Vi è qui una

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differenza costitutiva, dunque una differenza di diritto e non solamente di fatto. Vi sono poi da convalidare delle differenze interne alla società, nei riferimenti concreti invocati e nelle legittimazioni evocate. Si dispiegano così, di fatto – per quanto si tratti di un fatto da convalidare e non da superare –, delle tradizioni con le loro diverse modalità di regolazione. Si apre qui quell’altro «regime di senso» evocato, quello di una condivisione delle differenze, nella differenza e a partire da ciò che esse possono esibire, e si apre a partire da uno sfondo costituito da dispute, contro tutte quelle visioni che portano all’omogeneizzazione. Si dovrà prestare attenzione a ciò che ne sarà del presente, comune, ma in continuo dibattito, un presente fatto di contingenze irriducibili, differente da un passato sacralizzato o sognato con nostalgia, e differente da un avvenire sospeso nell’utopia o in una riconciliazione inglobante e negatrice delle differenze, tutte cose che, del resto, possono soltanto uccidere il presente. Ecco dunque esposto lo spazio da circoscrivere e nel quale operare, e che, così delimitato, è in grado di aprire in direzione di un rinnovamento del nostro stato sociale. Si aggiungerà inoltre che le tradizioni sono di fatto portatrici di motivi riguardanti ciò che nel cuore delle nostre società contemporanee è rifiutato o in avaria: l’esteriorità, la differenza e l’alterità, tutte irriducibili, ma anche la singolarità, la dissidenza o, in ogni caso, tutto ciò che non può essere riassorbito, con una derapata del processo che costituiva le nostre società. Da questa emerge anche la resistenza, significativa in quanto tale, quale che sia il suo tenore, foss’anche esplosiva, e che potrà essere all’origine di riprese creatrici, certo a condizione di essere ben interpretata e valutata. Nello stesso gesto, si sarà portati a riconsiderare ciò che era stato rifiutato, in questo caso e in particolare in forma di tradizioni, tradizioni anch’esse da lavorare, e in modo speciale, tanto è vero che ciascuna di esse porta i motivi evocati con una certa ambivalenza e con effetti sia positivi che negativi, voluti

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o meno, e spesso mescolati tra di loro. Effetti che si dovranno far apparire e che dovranno essere interrogati a partire da «ciò che non va» nel cuore del sociale, e puntando su ciò che è stato lasciato da parte, in rada, o come «resto».

3. Ritorno sulle tradizioni e sul religioso 3.1. Attraverso le individualità, una inscrizione dell’umano nella tradizione, religiosa o altra Se non mutilato, l’umano non vive e non si costituisce solo. Pensare il contrario è una finzione delle nostre società postmoderne. Una finzione operante che, però, porta all’immobilità o meglio alla banalizzazione e a un puro spettacolo in cui niente si stabilisce né accade realmente e, nel peggiore dei casi, all’esplosione o a dei ritorni di quanto non integrato, che si manifestano, in questo caso, al di fuori della ragione. Rispetto a una visione dell’individuo considerato dall’inizio e interamente per se stesso, si prenderanno in considerazione i legami concreti della sua inscrizione nel mondo, fatti di storia, di generazioni e di genealogie, di tradizioni, di «comunità morali». È il primo aspetto da esaminare. Se ne aggiunge un secondo, quello di una forza di esistenza, che instaura e determina un avvento, o avventura, thumos avrebbero detto i Greci, forza che sottende questi legami e che si trova oggi spesso sfasciata o deviata a vantaggio di qualcosa di puramente compensatorio, salvo manifestarsi in forma esplosiva. Pierre Manent ha recentemente affrontato il primo di questi due aspetti24. Lo ha fatto a partire dal caso dell’islam – dell’urto o almeno della differenza che esso può rappresentare nel ­cuore 24 Cfr. P. Manent, Situation de la France, cit.

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delle nostre società che hanno una tradizione maggioritaria diversa – e, parallelamente e in una interrogazione incrociata, a partire dalla situazione sociopolitica, quella francese, nel suo caso. Si possono condividere le diagnosi, lucide e riflesse – è questo il mio caso –, anche se non si seguiranno necessariamente le proposte. A tal proposito nutro delle riserve, o comunque riprendo le cose secondo una prospettiva complessivamente un po’ differente, ma articolata sullo stesso asse di preoccupazioni e attenta agli stessi dati da prendere in considerazione. Ricche di una veduta storica di lunga durata, le diagnosi si inscrivono come in filigrana nella volgata del tempo. E innanzitutto nel fatto che quest’ultima vuole isolare gli individui di tutti i corpi sociali o tradizionali, e dunque di tutto l’ethos dato25. Ciò allo scopo di privilegiare solo i «diritti soggettivi» di ciascuno – Manent lo ricorda e lo esemplifica in molte pagine, sottolineando che questi diritti sono qui e per principio indeterminati e illimitati, non «sostanziali» ma unicamente «formali»26 –, ciascuno integrabile nella Repubblica di tutti, astratta e pensata come universale (in un senso deculturato e per di più laicizzato, e nella sua estensione sul piano civile, non in termini di dispositivo solamente e propriamente politico), senza che l’insieme riconosca delle realtà «intermediarie»27 come prendenti parte al gioco sociale, realtà istituzionalizzabili a diverso titolo e di cui prendersi cura. Manent ci propone – è il suo punto di partenza che si conserva come linea di fondo – di considerare l’islam come un insieme di vie, di costumi, di abitudini, di credenze e di storie, certo un insieme in movimento, che conosce le proprie diversità di diverso

25  Un insieme di «costumi», dei quali Manent sottolinea l’importanza di fatto, e che fondamentalmente convalida. 26  Ivi, in particolare le pp. 23, 40, 82 s., 101 s., 110, 119, 124, 128 s. 27  Ivi, p. 102 (cfr. anche p. 124).

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ordine. Ora, ciò è proprio quanto i riflessi spontanei rifiutano, non volendo (ri-)conoscere che degli individui e i loro raggruppamenti associativi contingenti o circostanziali, un riconoscimento dunque di mussulmani diversi, per restare sull’esempio scelto, cittadini o potenzialmente cittadini della Repubblica, ma come separati dall’islam (un islam che deve essere allora reso «invisibile», in modo da far diventare i mussulmani «degli “individui moderni” che spariscano come mussulmani»28), il che comporta accecamento e diniego. «Per l’opinione che ci governa», scrive Manent, «l’islam […] non è considerato come una realtà sociale», le rivendicazioni mussulmane sono ridotte a bisogni propri (come la costruzione delle moschee, aspetto peraltro importante, tanto è vero che per garantire il loro ruolo, in questo caso globalmente sociale, occorre che le tradizioni dispongano di mezzi, e senza una dipendenza diretta dall’estero) e le richieste considerate come «autoreferenziali»29, senza alcuna considerazione di un dato stile di vita né di un possibile apporto al bene di tutti. Entrare in una tale prospettiva presupporrebbe una discussione aperta a tal proposito, ma essa nelle nostre società postmoderne risulta sterilizzata. La mira è ambiziosa e raggiunge, in fondo, l’orizzonte del presente saggio: non solamente rendere giustizia a ciò che tal gruppo o tale tradizione rappresenta come forma di vita, da considerare in quanto tale e di cui farsi carico (il che sarebbe già qualcosa), ma anche trarre profitto dal suo portato, da quel che ci raggiunge, come fatto e in forme specifiche, per riprendere la questione di ciò che ne è delle nostre società e in vista di un loro rinnovamento. Concretamente, sarà opportuno che ciascuno, a partire da ciò che la propria tradizione ha fatto e rimettendolo il gioco nel e per il sociale, sia capace «di dare senso a una coesistenza tra forme di vita eterogenee». Dovrà 28  Ivi, rispettivamente pp. 75 e 122. 29  Ivi, rispettivamente pp. 102 e 118.

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essere mobilitata «la partecipazione attiva degli uni e degli altri a una forma politica comune», con la consapevolezza che ciò potrà rappresentare niente meno che una «prova di verità»30, e anche aspettandola. Sarà qui richiesto, ma forse semplicemente permesso o indirettamente reso possibile, che si ritrovi del «desiderio» quanto al bene comune, troppo spesso disertato a vantaggio dei soli interessi – foss’anche interessi legittimi e da difendere –, e, allo stesso tempo, sarà chiesto, in una certa maniera, di ritrovare il senso di una «azione desiderabile per se stessa», secondo le proprie finalità e nel legame con «un bene desiderabile per se stesso»31. Si giunge così a un motivo classico della tradizione occidentale, ma oggi assente, divenuto non veramente pensabile al di fuori dell’autoposizionamento e dell’arbitrio del solo giudizio di valore soggettivo, che sfugge ad ogni spazio di argomentazione secondo la ragione. Si sarà capito che siamo qui al di là di una tematica dell’«a­ dattamento» reciproco minimale, da una parte e dall’altra, più o meno forte nei nuovi arrivati e più o meno aperto e generoso negli altri. Ci collochiamo piuttosto in un «confronto», da organizzare in modo tale che sia fruttuoso per la nostra vita sociale, il che comporta che si acquisiscano dei mezzi, innanzitutto intellettuali. Ciò presuppone, per i mussulmani presi qui come esempio, e ciò va detto in modo totalmente differente da quanto normalmente esposto e spesso reclamato, che essi divengano «veramente cittadini, senza separarsi o astrarsi dalla loro religione, ma anzi considerandosi come mussulmani membri della comunità nazionale»32. E ciò presuppone, in parallelo – per

30  Ivi, p. 125 (cfr. anche pp. 110 s). 31  Ivi, pp. 109 s. 32  Ivi, rispettivamente pp. 140 s. e 146 (analogamente, p. 150). Manent dice «nazionale», con un forte riferimento francese, allorché io preferisco parlare

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«noi», direbbe Manent –, il «riprendere coscienza» di noi-stessi, della storia che ci ha costituiti e che potrebbe costituir­ci nuovamente, e il riproporre delle «questioni dimenticate», fra le quali quelle circa ciò che «fonda» (una questione oggi relegata al campo del privato), che legittima o che, semplicemente, dà delle ragioni. Ognuno è qui invitato a un regime nel quale si sarà membri di due comunità differenti di senso e di vita (una costituita da una tal tradizione assunta, e l’altra dalla società pubblica, di tutti), entrambe «esigenti», ma secondo modi differenti e al livello di un’articolazione da pensare bene33. Qualcuno riterrà che quanto proposto da Pierre Manent sia conservatore, o reazionario. Vi si può leggere in effetti una critica dei discorsi che oggi si richiamano alla Repubblica, volendo così superare le tradizioni e sostituire ad esse un essere insieme emancipato e da principio pensato per tutti. E vi si trova anche una convalida delle tradizioni antiche, in particolare religiose, e di tipo cattolico. Ma a mio avviso ciò è proposto in vista di un superamento delle posizioni, spesso in opposizione, che passa allo stesso tempo per un lavoro critico e di rielaborazione di ciascuno dei due poli, sia quello della semplice difesa delle tradizioni sia quello dell’appello all’universalismo astratto della Repubblica. Il programma consiste in nient’altro che nel poter sfuggire all’alternativa tra il «comunitarismo e la laicità intesa come neutralizzazione religiosa della società»34, e peraltro una di società di tutti o pubblica, considerandola fortemente differenziata al suo interno. Da ciò deriva l’accento su una certa «esposizione» e il dibattito sulle dispute, dispute che vertono sull’umano e sull’essere insieme come tali. Per dire, senza pregiudizio alcuno, che una tale società è assolutamente segnata da una storia e tale storia è fatta da istanze che devono e possono regolarne il gioco. 33  Ivi, rispettivamente, pp. 154 e 109. Nel cristianesimo, la tradizione agostiniana delle «due città» offre un esempio di questa doppia appartenenza, che vive di due piani differenti. 34  Ivi, p. 149.

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neutralizzazione in realtà non solo religiosa, almeno a mio avviso, ma anche secondo una corretta lettura di Manent. Prendiamo la laicità. La critica dei modi di evocarla rappresenta uno dei fils rouges del saggio35. Ma si tratta della critica di un modo di intenderla (un modo peraltro incantatorio, secondo il quale la laicità dovrebbe fornire come tale la soluzione alle questioni poste, mentre si rivela spesso impotente e non all’altezza delle poste in gioco di fondo), non di ciò che può essere o di ciò che all’inizio era la sua mira, anche in Francia: un dispositivo giuridico concernente propriamente il politico e che non ha vocazione ad essere esteso alla società civile, che può anche e che anzi deve permettere, sotto la garanzia e l’arbitraggio dello Stato, la pluralità delle espressioni che ne costituiscono il respiro e la vita. Se considerata in tal modo, Manent la difende, senza restrizioni36, e al contempo convalida, in modo netto – e ciò è al cuore della sua argomentazione di fondo –, una pluralità di tradizioni, in particolare religiose, una pluralità positiva e fruttuosa in quanto tale. Insomma, ciascuno deve muoversi, e Manent non manca di aggiungere che le tradizioni religiose devono guardarsi dal cadere in una «postura difensiva e reattiva» oggi in agguato ovunque, anche in ambito cattolico37. Per esempio, per ricordare che i cattolici hanno diritto ad essere difesi, mente la questione non è questa, bensì, come per le altre tradizioni, quella di sapere di quali motivi umani è portatrice, motivi che possono riguardare ciascuno, beninteso che per il resto si è nella semplice gestione della tolleranza e niente più. O ancora, per far appello «al “rispetto delle credenze”», allorché, anche in questo caso, e

35  Per questa linea critica, e anche decisamente acerba, si veda ivi, pp. 37, 48, 68 s., 58, 72, 104, 131, 139, 165. 36 Ivi, pp. 72, 75, 104, 131, 139, 150, 152, 162, 165. 37  Ivi, rispettivamente, pp. 159 e 155; e cfr. p. 162.

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Manent lo dice espressamente, «le credenze non sono rispettabili in quanto tali» (lo sottolineo e sono pienamente d’accordo). Bisogna al contrario entrare interamente in un gioco articolato, per dispiegarsi sull’arena della «critica»38. All’inizio della presente sezione, avevo annunciato due aspetti da esaminare. Innanzitutto, l’inscrizione dell’umano in un mondo fatto di storie, di generazioni e di tradizioni. È quello al quale ci siamo appena rivolti. Un secondo aspetto era quello di una forza di esistenza che coordina gli avventi dell’umano, il loro sorgere e ciò che se ne sviluppa. Diciamolo dall’inizio: questa forza che sottende il religioso è ciò che da esso prende forma, anche se in seguito questo può svilupparsi liberamente e altrimenti, e fermo restando che il religioso è sempre legato ad altri dati, politici, sociologici, psicologici o culturali: non vi è un religioso puro, così come non esiste un soggetto puro. Ecco il secondo aspetto da esaminare. A dire il vero, abbiamo già toccato questo aspetto in ciò che abbiamo visto a proposito delle tradizioni. Inoltre, il religioso in questione è oggetto dello stesso rifiuto rivolto alle tradizioni, della stessa squalifica di principio rispetto a un possibile interesse da parte della società pubblica – legato alla stessa difficoltà circa la maniera di prenderlo in considerazione e di rendere conto delle sue ragioni – e, così, della stessa riduzione alla sfera del privato, dell’individuo, del soggettivo, o a dei gruppi autoreferenziali che si ritrovano su questa base. Nel nostro contesto di discussione, Jean Birnbaum ha significativamente messo in luce un «silenzio» rivolto a tutte le dimensioni religiose, proprio quando la società ha avuto a che fare jihādismo, un silenzio sorprendente, che porta l’autore

38  Ivi, pp. 78 e 80 ss.

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a parlare di «divieto», di «negazione» e di «accecamento»39. Il motivo è che si preferisce lanciare condanne parlando di barbari o di psicopatici, o comunque di arretrati, e ritenere che tutto ciò non abbia niente a che vedere con l’islam o con la religione40, ma piuttosto con la marginalizzazione sociale e la miseria, e con un basso livello di educazione. Ora, tutte le inchieste e gli approcci circostanziati mostrano al contrario un livello di formazione superiore alla media tra le persone che raggiungono lo jihādismo, e peraltro un livello acquisito nelle scuole della Repubblica francese. Inoltre, le reazioni spontanee incriminano volentieri le moschee, mentre la maggior parte degli jihādisti hanno conosciuto l’islam su internet, tramite una relazione diretta personalizzata o sulle reti sociali e non attraverso la socializzazione tradizionale che le moschee garantivano secondo una dimensione situata e non mondializzata. Magari fossero passati per le moschee! Si sarebbero certamente poste delle mediazioni, come in ogni tradizione effettiva (certo vi sono anche oggi delle moschee nelle quali si sono imposti o hanno preso il potere dei gruppi radicali, come è accaduto, mutatis mutandis, all’interno di certe Chiese cristiane). Vi è una «potenza propria della religione»41, e i rivoluzionari lo hanno sempre saputo, a partire da Marx il quale, nel paragrafo stesso nel quale annuncia la celebre formula della religione come «oppio del popolo», scrive che la religione è «espressione della miseria reale» (un vocabolario feuerbachiano, come in tutta la pagina che precede), ma anche «protesta contro la miseria reale» (testo di fine 1843-gennaio 1844). Ernst Bloch e molti altri lo hanno ripreso, tra i quali la Scuola di Franco39  J. Birnbaum, Un silence religieux. La gauche face au djihadisme, Seuil, Parigi 2016, pp. 13, 23, 34, 229. 40  Cfr. ivi, pp. 20 e 41 ss., 47, 64. 41  Cfr. ivi, pp. 31 s.; cfr. anche ciò che si dice abbia impressionato Michel Foucault a tal proposito, cfr. pp. 100-102, 104, 108 s., 112 s., 115, 118, 209 s.

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forte, con i suoi rappresentanti storici e con le sue figure più eterodosse, anche Michael Löwy, soprattutto e in relazione con Walter Benjamin, così come tutti quelli che riprendono il motivo messianico, seppure reinterpretato42. Così come la focalizzazione sul solo individuo isolato da qualsiasi eredità condannava a non comprendere ciò che accade, e per di più lasciava da parte ciò che il culturale ha di fecondo e di operante, il misconoscimento del religioso conduce a un’analisi falsata di ciò che attraversa le nostre società (compreso ciò che costituisce i suoi tratti postmoderni) e non permette di comprendere ciò che si lega con questo religioso, tenuto fuori dal campo dell’intellettualità ufficiale e anche e allo stesso tempo fuori dal gioco propriamente sociale. In tutto ciò, la questione da riprendere è quella dell’articolazione fra religioso e politico, cosa che non sarà possibile se non si saranno specificati dall’inizio i differenti interessi in gioco da ambo le parti, interessi che ne sostengono anche la forza, il che presuppone che si sia riflettuto su ciascuna delle due istanze (la questione di tale articolazione rappresentava come il leitmotif nel saggio di Pierre Manent, e ritorna in quello di Birnbaum43). 42  Cfr. ivi, pp. 31 s. Per un’idea sui rapporti tra religione e contestazione sociale, si veda quanto presentato da E. Dianteill - M. Löwy, Sociologies et religion. Approches dissidentes, e Sociologie et religion. Approches insolites, PUF, Parigi, rispettivamente 2005 e 2009. Per un’idea rispetto all’ambito contemporaneo, cfr. T. Storm, La postérité de la théologie politique chez Giorgio Agamben et Daniel Bensaïd. Ou le retour du refoulé religieux dans les contestations théorico-politiques de la mondialisation libérale, in J. Ehrenfreund - P. Gisel (a cura di), Religion, société civile, politique, cit., pp. 277299. Sul versante teologico ricordiamo il motivo gioachimista e il suo percorso dal XII secolo fino ad oggi (ci si trova, in modo centrale, l’utopico, e dunque una maniera di gestire l’escatologico, qui in tensione con la vena agostiniana delle «due città»), nonché le teologie della liberazione, o ad esse prossime, della seconda metà del XX secolo. 43  Cfr. rispettivamente Situation de la France, cit., pp. 98 s. (e cfr. p. 96), 100 s., 147 s. (e cfr. p. 132), e Un silence religieux, cit., pp. 22, 43.

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Si ritrova allora quanto abbozzato nella fine del capitolo precedente: l’esigenza di aver tematizzato, come differenti, le due istanze in causa, il religioso e il politico, e di proporne un’articolazione a partire dal fatto che la loro differenza stessa li limita entrambi, non nella loro estensione, con una frontiera da spostare indietro o in avanti, ma rispetto al loro campo di pertinenza, incrociato e da far fruttare.

3.2. Quale spazio per le tradizioni e per il religioso nel e per il sociale, e a quali condizioni? Non posso ritornare sul sociale e sul politico in quanto tali, da ripensare in funzione sia delle tradizioni che del religioso, e questo innanzitutto per delle ragioni di fatto e che rinviano a dei motivi di fondo, i fatti non sorgono infatti per caso in quest’ambito e sono peraltro significativi proprio attraverso la loro portata e i loro sviluppi. Ho abbozzato, alla fine del capitolo precedente, l’essenziale circa ciò che il sociale e il politico devono essere, secondo un’articolazione differenziata. Ora bisogna invece riprendere ciò che ne deriva sul piano delle tradizioni e del religioso. Così come il sociale e il politico erano stati interpellati e messi a soqquadro a partire da ciò che si dà a vedere e a pensare sul versante delle tradizioni e del religioso, allo stesso modo le tradizioni e il religioso saranno qui collocati in una prospettiva critica e invitati, a partite dal gioco sociale pubblico, a una ripresa della riflessione e a integrare delle modificazioni. Nel dispositivo abbozzato44 – rinnovato e ripensato in funzione del contemporaneo –, il primo punto da garantire in termini di invito esplicito è che le tradizioni inizino a pensarsi come cristallizzazione di una realtà dell’umano e di ciò a cui sono 44  Ricordiamo che vi rientrano solo le tradizioni che vogliono entrare in un processo di riconoscimento pubblico, come precisato all’inizio del presente capitolo.

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chiamate nel mondo. Esse dunque devono pensarsi non a partire da sé – dal «proprio bene», dai loro «beni di salvezza», direbbe Max Weber, o dal loro «messaggio» –, ma a partire dal e in funzione del mondo. Anche se oggi lo si è un po’, o in larga misura, dimenticato, il cristianesimo è chiamato ad entrare in questa prospettiva, senza la quale diventa decisamente settario, lo possiamo vedere oggi in forme light, nel cuore delle sue realtà storiche, e non solo hard, legate ai radicalismi che si sviluppano nelle differenti forme della sua tradizione. Non è questo il luogo per esplicitare il come di questa ripresa riflessiva in materia di teologia e di ecclesiologia cristiana. L’ho già fatto altrove45. E non intendo nemmeno passare sistematicamente in rassegna le altre tradizioni religiose, che possono non solo presentare delle forme differenti, ma anche vivere di diverse disposizioni fondamentali. Diciamo semplicemente – ma si tratta di un esempio istruttivo, duramente represso dal cristianesimo fino a poco tempo fa e con il quale ci si scontra spesso oggi, delle volte a livello di una disposizione di fatto cristiana, per quanto incosciente o almeno non deliberata – che l’ebraismo può facilmente rispondere, e ha di fatto risposto, all’esigenza che ho appena esposto. Poiché essa vive fondamentalmente di una dualità, la via ebraica e la via delle «nazioni», la cui differenza è costitutiva46: da una parte la legge di Mosè

45  Cfr. in particolare, i recenti: Défis actuels: Quel profil et quel service pour l’Église dans la société contemporaine?, in «Positions luthériennes», vol. 64, n. 1, 2016, pp. 59-75, o Le christianisme à l’horizon de la société civile. Différences, tensions et type d’articulation entre Évangile, moralité et lois civiles e Introduction. Quelle articulation de l’instance religieuse aux lois communes du vivre en humanité?, in J. Famerée - P. Gisel - H. Legrand, (a cura di), Évangile, moralité et lois civiles, cit., pp. 185-196 e 203-214. 46  Invitato a Losanna all’inizio degli anni 2000 a un dibattito su ebraismo e cristianesimo, Shmuel Trigano aveva significativamente precisato questo punto, cfr. S. Trigano - P. Gisel - D. Banon, Judaïsme et christianisme, entre affrontement et reconnaissance, a cura di P. Gisel, Bayard, Parigi 2005.

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che rimanda all’elezione e a un popolo specifico, e che non ha la vocazione a diventare legge del mondo, e, dall’altra, le leggi di Noè che rimandano alla creazione di tutti, il che presuppone fondamentalmente, pur non esaurendola, la via ebraica. Quanto all’islam, altro esempio, in questo caso con una pretesa più inglobante, vi è una storia diversificata, che passa per la presa in carico dei costumi, ossia di un diritto che, seppure non possiamo chiamare «naturale» come nella tradizione cattolica, è comunque consuetudinario; si sono affermate poi, di fatto e anche di principio, delle differenze tra politica e religione (o a seconda dei luoghi e dei momenti, e almeno nell’Impero ottomano, la dualità tra il sultano e il califfo), senza contare, e non è cosa da poco, che si sono sviluppate delle vene propriamente spirituali (delle volte condannate, ma l’islam non è un caso isolato); infine, l’intenzione è quella di poter pensare che la proposta islamica realizzi ciò che l’umano è in profondità, e non che essa sia solo una via di obbedienza a una pura esteriorità e dunque, in tal senso, alienante. Si potrà aggiungere che il buddismo così come, seppur differenti – anche se non mancano le ricomposizioni che modificano i dati ereditati dando luogo a dei bricolages –, i diversi percorsi di tipo New Age e di sviluppo personale, o di spiritualità senza Dio, partono dall’umano e dall’orizzonte del mondo, pur considerando questo umano e questo mondo in funzione delle loro prospettive, e ciò può comprendere uno sguardo critico su un dato di fatto, sociale e culturale. Tuttavia, questo sguardo critico, con l’ingresso nella dialettica e con l’itinerario che vi si articola, deve essere convalidato; senza ciò non capisco quale potrebbe essere l’apporto delle tradizioni e delle proposte di ambito religioso, se non semplicemente quello di confortare ciò che già è, così com’è. Partire dal mondo e dall’umano in quanto tali e farvi ritorno – dopo che lo sguardo è passato attraverso la critica, la negatività,

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il lavoro nel cuore delle cose e degli esseri – è una proposta che può sembrare evidente. Oggi non lo è affatto. Entrare in un dialogo forte, a partire da uno sfondo di mutuo riconoscimento tra il politico ed una data tradizione, lo rende da subito evidente, salvo che non ci si limiti a delle dichiarazioni di buona volontà e alle buone intenzioni. Una seconda esigenza o un secondo invito verte non tanto sulla mira e sul modo di comprendersi proprio di una tradizione nella sua disposizione di fondo nei confronti del mondo, ma più direttamente su ciò che costituisce, al suo interno, il suo tenore: i suoi simboli, i suoi riti, i suoi modi di organizzarsi. Più su ho perorato la causa secondo la quale le tradizioni debbano essere prese in considerazione nei loro dispiegamenti positivi, come nella loro riflessività, entrambi indirettamente istruttivi per la società di tutti. Ma va espresso anche reciprocamente un invito affinché ogni tradizione possa tener conto in termini umani dell’importanza e del significato possibile di ciò di cui vive, anche se ciò è nato in una particolare disposizione e, a seconda dei casi, non poteva nascere che là47 (vi è qui anche una conseguenza dell’irriducibilità particolare delle integrazioni umane), e anche se ciò di cui essa vive non ha la vocazione ad essere vissuto da tutti. Ho tentato altrove una esplicitazione in tal senso a partire dal motivo ebraico della circoncisione48, che vale qui come esempio: tra una mira universalizzante umanista che può arrivare sino a vietarne la pratica e un ripiego su un marchiatore identitario in cui non vi sarebbe niente da pensare, converrebbe impegnarsi a decifrarne delle realtà antropo47  Catherine Chalier lo sottolinea in uno scambio di posta personale del 3.4.2016. 48  Le christianisme comme scène d’une spiritualisation de la circoncision. Examen d’enjeux humains et sociaux radicalisés par une modernité exacerbée, in D. Cohen-Levinas - J. Ehrenfreund (a cura di), Circoncision. Actualités d’une pratique immémoriale, Hermann, Parigi 2018.

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logiche (ciò che genera e ciò che è generato), anche se queste vengono prese in carico secondo una scena propria e in favore di una tradizione specifica. La terza esigenza deriva dalla pluralità di fatto assunta da ogni tradizione, la quale deve essere assunta anche di diritto. Ne risulterà così aperta una riflessione in materia di origine e di fondamento, che non potranno più essere pensati come unici e diretti. Ogni via, articolata secondo il mondo di tutti, sancita nella sua stessa differenza (nella sua secolarità), sarà portata a pensare la sua proposta e le sue pratiche a partire da un fondo letteralmente «an-archico», come direbbe Giorgio Agamben in questo contesto di discussione49. Essa si penserà così come spostata rispetto a ciò che reggerebbe il mondo nella sua totalità ed estensione, o si profilerà su un fondo di asimmetria, direbbe Emmanuel Levinas. Tale via dovrà inoltre richiamarsi a una verità, anch’essa di tipo sfalsato, una verità che sarà al contempo vista e pensata come trasversale al mondo e, in una certa maniera, trasversale al dispiegamento stesso della via in causa e alla quale ci si lega. Saremo qui fuori dall’«onto-teologico», così come prima eravamo fuori dal «teologico-politico». Con due prospettive separate che sono rispettivamente la creazione e la propria storia, l’ebraismo dà una illustrazione di questa non riduzione a una origine unica; il cristianesimo premoderno ne aveva ugualmente fissato una possibilità50 – e si tratta peraltro di una via convalidata da una forte positività –, al livello di una distinzione netta tra due ordini, da un lato uno chiamato «economico» (una «storia della salvezza», potremmo dire con un equivalente moderno, o una messa in opera e una narra49  Cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria, cit., pp. 73-75 (e cfr. pp. 79-71), 80, 155 s., 233 s.; Emmanuel Levinas parla anche di anarchico, un motivo che si impone nel momento in cui si abbandona la ricerca di un cominciamento e ci si articola secondo un dispiegamento positivo consistente e diversificato. 50  Il motivo perdura nella tradizione – bizantina – delle chiese ortodosse.

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zione del mondo e della vita, con le proprie simbolizzazioni), e dall’altro uno che poteva valere come «teo-logico», che si lega al primo secondo un rapporto propriamente trasversale e non secondo un rinvio a una origine o a un inizio legittimante51. Sullo sfondo si realizzerà una presa in carico forte del corpo e del sensibile. L’insieme del presente saggio ha già condotto a ciò e già ha sviluppato questo punto. Sia per sovvertire tale dato in vista del meglio, sia per imparare a lasciare la presa. L’accento sarà posto su un lavoro in opera (Jean-François Lyotard parlerebbe di «perlaboration») più che su delle positività da convalidare in quanto tali, quale che sia questo lavoro, restando di ambito diverso, quanto al suo fondo, e comportando realizzazioni ugualmente diverse, quanto alle modalità. Il corpo e l’ordine del sensibile reclamano infatti il simbolo e il mito, la scrittura e l’intrigo, la memoria e la tradizione, delle figure e delle rappresentazioni, strutturazione e ritualità, e anche dei maestri, foss’anche per contestarli. Per concludere, un’ultima osservazione, di tipo sociopolitico. Occorre che le tradizioni evocate prendano esse stesse corpo in un gioco sociale e istituzionalmente dato. Occorre anche che in esso si cristallizzi e si rimarchi – se ne rimarchi – della differenza. Socialmente le tradizioni emergerebbero così dalle «etero­ topie» (il termine è preso in prestito da Michel Foucault52). Un eterotopico, dunque, secondo alterità, ma del quale si sarà

51  Per andare più lontano, una considerazione più spinta sulla storia ebraica sarebbe feconda rispetto al dispositivo d’insieme che ho tentato di mettere in atto (feconda per tutti, foss’anche indirettamente); potrebbe condurre a ciò, in un modo che a mio avviso sarebbe particolarmente appropriato, la lettura di B. Karsenti, Moïse et l’idée de peuple, cit. 52  M. Foucault, Utopie. Eterotopie [Le corps utopique, 1966; Les hétérotopies, 2004], ed. it. a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2006 (Michel de Certeau potrebbe essere richiamato, in modo diverso, ma anche in vista di dispositivi analoghi).

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voluta e assunta l’inscrizione in un contesto sociale più ampio, del quale si saranno pensate le frontiere, ciò che in esse ogni volta si realizza o si gioca, così come anche ciò che si sviluppa da una parte e dall’altra di esse. In realtà occorre pensare un dispositivo che permetta la singolarità, e anche la dissidenza, ma che non sia settario, e non lo sarà proprio in vista del gioco nel quale si inscriverà deliberatamente e in modo attivo, altrimenti la differenza che essa può segnare non sarà più significativa, in questo caso significativa per tutti. Le «eterotopie» sono fatte di corpi, ogni volta particolari (corpo biologico, corpo sociale, corpo cosmico), esse sono circoscritte, attraversate da interazioni, da alterità e, allo stesso tempo, segnate da frontiere, in discussione, e di identità da costruire e così assunta. I terreni sui quali si dispiega l’umano non sono né vergini né universali. Tradizioni differenti – ovvero civiltà differenti – sono nate, tradizioni attraversate da diverse traiettorie storiche, e peraltro non lineari; e ogni momento o luogo è fatto di corpi attraversati da situazioni altre, che ogni tradizione e ognuno cristallizza singolarmente. Un regime di «eterotopie» si impone laddove prevalgono delle differenze di posizioni, che vanno insieme a delle discontinuità storiche e a dei rilanci sempre ripresi, con tutto ciò che vi si insinua in termini di non immediatezza nella relazione con sé e con il mondo – così come con ciò a cui ci si richiama –, a partire da un fondo di assenze alle quali si risponde, al di fuori di qualsiasi totalizzazione. Ma saranno delle «eterotopie» non separate dal dato sociale, a vantaggio di un altro mondo, e neppure ripiegate sui loro «beni propri» e sulle loro giustificazioni autoreferenziali, «eterotopie» che, al contrario, vivono, costitutivamente, del gioco sociale al quale esse prendono parte, foss’anche per separarsi dai trend maggioritari che vi si dispiegano.

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Ripresa Una tradizione: luogo in cui si dà più che una vita come ­sopravvivenza e più di un mondo come semplice stato di fatto

1. Una tradizione: luogo di scarto e di rilancio Ho trattato la questione della tradizione nell’orizzonte della società pubblica, in particolare contemporanea, e dell’umano in quanto tale, «generico» (come vuole la modernità) o universale. L’ho fatto sforzandomi di mostrare che converrebbe rielaborare entrambi i poli della questione: da una parte la tradizione, con il religioso ad essa spesso legato, che la modernità e la postmodernità relegano al privato, e i cui elementi si ritrovano autonomizzati e portati fuori dalla traiettoria della storia effettiva, formatrice di vita e di cultura; dall’altra parte il socio-politico, oggi luogo di una neutralizzazione di tutte le questioni di fondo e sordamente omogeneizzato. Il lavoro di critica e di spostamento condotto su questi due poli ha diverse volte registrato che una tradizione storica, che è altro rispetto al semplice costume, era il luogo, nel cuore delle discontinuità attraversate, di un rilancio specifico. Le sue coordinate non sono quelle del sociale dato, nel quale integrarsi, né quelle di un umano naturale e universale, da ritrovare e promuovere. A partire da differenze irriducibili e potenzialmente feconde – quelle di cui le tradizioni ci offrono diverse

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cristallizzazioni –, siamo stati rinviati all’eterogeneo. Di questo le tradizioni vivono e testimoniano, di fatto. Per questo le tradizioni non valgono innanzitutto per ciò che propongono – aspetto tuttavia da non trascurare: è infatti questo il luogo in cui prende corpo ciò che in esse avviene –, ma per ciò che in esse lavora. Esse infatti condensano un processo e sono instauratrici, sostenute da qualcosa che è più di una vita intesa come semplice sopravvivenza, e più di un mondo inteso come semplice stato di fatto. Esse segnano uno scarto e mobilitano della narrazione e della scrittura, e così sono in grado di mostrare un intrigo aperto a partire da diverse poste in gioco, un intrigo che è l’intrigo stesso dell’umano1, o ancora un intrigo nel quale questo umano si inscrive. Siamo così fuori da un riferimento unico, autonomizzabile, transtorico e transculturale, e ci ritroviamo piuttosto impegnati in un gioco di riprese sullo sfondo di testi e di figure. Il gioco di una «ripetizione», se vogliamo2, che tuttavia non è quella di un dato preso come tale e valevole per se stesso – sempre uguale –, ma quella di un gesto, un gesto di vita e di scrittura dell’umano e del mondo, che vive di differenze e che ogni volta rimarca la propria differenza. Siamo nell’ordine della simbolizzazione, rapportata a una scena specifica che opera come terzo sfalsando tutti i faccia a faccia di un umano visto come puro sog-

1  Su questo intrigo, cfr. M. Abensour, Emmanuel Levinas. L’intrigo dell’umano (2012), tr. it. di G. Pintus, Inschibboleth, Roma 2012, in part. le pp. 86 s., 100 ss., 124, e l’Introduzione, p. 11, per cominciare. 2  Ho utilizzato questo termine, o il verbo «ripetere», in particolare verso la fine della prima sezione del capitolo precedente, precisandone l’accezione, sulla quale è opportuno non sbagliare (Bruno Karsenti vi fa ricorso anche nel suo Moïse et l’idée de peuple, cit., pp. 110-112). Per una veduta d’insieme su tale motivo allora contemporaneo – ciò che è in gioco, la semplicità del suo gesto, e ciò che gli si distingue –, cfr. J.-F. Hamel, Revenances de l’histoire. Répétition, narrativité, modernité, Minuit, Parigi 2006.

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getto all’origine di progetti e di un mondo considerato come semplice dato offerto al controllo. Un terzo che avrà sfalsato, insieme, questo stesso soggetto e questo stesso mondo, e non solo il loro rapporto.

2. Una tradizione: rispondere di una sopravvenienza e costruire un proprio seguito All’inizio vi è dunque la non-coincidenza. Questa rinvia a uno sfalsamento che ha potuto provocare sorpresa o sopravvenienza, un «trauma» originario, forse legato alla morte e all’omicidio (morte data), ma forse, meno radicalmente, a uno choc o a uno sconvolgimento che lascia un segno, una traccia o una ferita che si inscrive subito in memoria e sottende un corpo a corpo con il mondo, con ciò che in esso si vive e con ciò che in esso si inscrive. Quanto alla prospettiva d’insieme, nel confronto con i luoghi e le poste in gioco presi in considerazione nel corso di questo saggio, vi è una grande consonanza con la riflessione condotta da Bruno Karsenti nel suo Mosè e, in particolare, con l’idea circa ciò che costituisce il «popolo» e che non si trova in correlazione diretta con uno Stato (secondo una «reversibilità assoluta», all’insegna della sovranità), una disposizione la cui idea relativamente moderna di nazione sancisce l’apoteosi. Il «popolo» nella sua identità propria stabilisce i propri legami, al contrario, secondo una esteriorità che fa irruzione e provoca un avvento, un avvento che fa del popolo il soggetto di una tradizione che risponde all’avvento e che il popolo riprende e prosegue. Un popolo non è allora un insieme di individui che fonda il sociale, ma si ritrova rapportato a una «configurazione» che presiede al suo agire, come anche al suo patire, all’interno di un mondo da sempre «determinato», e in tal senso «alterato», nel quale

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si inscriveranno delle nuove alterazioni – di vita! –, e non una pura novità, che rinvierebbe a un «fondamento secondo»3. Ci si trova così inscritti all’inizio di uno «scarto» segnato nei confronti del mondo, ma che probabilmente è il solo a poter permettere di ricevere e abitare questo mondo, senza fondersi con esso; potendo così essere se stessi attraversati da uno scarto. È per tale ragione che ci si dispiega nell’ambito di un mitologico o di un religioso, irriducibili, che possono rilanciare – o prolungare – una letteratura, non la trascrizione in un progetto razionalizzato e totalizzante4. Ho parlato di «trauma», di choc o di disturbo, di sopravvenienza e di affetto. Trauma che occupa il luogo dell’originario. Non dunque, all’inizio, la verginità o qualcosa di immacolato. Da ciò dunque deriva la tradizione, che risponde a ciò che è accaduto, foss’anche si trattasse di qualcosa di impresso nell’immemoriale, qualcosa che tuttavia agisce, facendo esistere, parlare e scrivere, e facendo entrare in un rapporto con il mondo e con gli altri. È possibile dire che siamo inscritti in un destino, non scelto, ma assunto. Ci troviamo nella piena contingenza – al di fuori di tutte le necessità ralative all’ordine delle cose, e ad ogni idea di una ragione sovrastante –, una contingenza della quale fare qualcosa (una storia), o che permette e rende possibile che qualcosa accada e di stabilisca. 3 B. Karsenti, Moïse et l’idée de peuple, cit., rispettivamente pp. 43, 23 s., 27, 34, 30 (corsivo dell’autore). Segnaliamo che Karsenti mette in evidenza che il fatto di una tradizione è il motivo che muove Freud in L’uomo Mosè e la religione monoteistica (cfr. p. 48; «Il popolo ebraico vive attraverso la tradizione», impossibile da comprendere senza un «rimaneggiamento concettuale del termine», p. 166; analogamente, p. 148; o, p. 180, la proposta che fa propria ha qui valore di «territorio e di tempio»). 4  Notiamo che in Karsenti è possibile ritrovare i motivi di uno scarto innato (ivi, p. 31), il ricorso alla letteratura e al religioso (p. 41), d’un rinvio a una contingenza che costringe (pp. 149 e 167 [siamo fuori da qualsiasi sogno dell’età dell’oro in una tradizione, p. 208]) e di destino (p. 98).

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«Trauma» – legato a una sopravvenienza nel cuore delle cose e che rompe con esse – e tradizione vanno di pari passo e si richiamano l’un l’altra. Rinviano alla memoria, non alla semplice conoscenza storica o alla restituzione di fatti passati5. Una memoria è fatta di ciò che ci ha attraversati e toccati per sempre, nascosta ma pronta a far ritorno, sia sotto forma di «ritorno del rimosso» – e in tal caso a rischio che ciò che era nascosto venga represso e non produca niente – sia al livello di una nuova creazione, accolta e trasformatrice6. In tal modo si sarà «testimoniato» di ciò che ci ha preceduto ed era condensato in memoria, ma secondo una modalità indiretta, differita, metabolizzata e metabolizzante, che con tale forma dà seguito a una interminabile sopravvenienza antecedente e per definizione non finita, in quanto porta più lontano7. A ciò si lega la ripresa di un passato, dal quale si è comunque separati, e che non solo resta a distanza, ma è altro, così come la ripresa che di esso viene fatto e alla quale esso dà luogo. Vi si gioca, inoltre, il rinvio a un riferimento, senza un rapporto diretto con esso,

5  Sulla specificità della memoria, contrastata dalla storia, cfr. naturalmente P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio (2000), tr. it. di D. Iannotta, Cortina, Milano 2003 (a tal proposito: O. Abel - E. Castelli-Gattinara - S. ­Loriga I. Ullern-Weité [a cura di], La juste mémoire. Lectures autour de Paul Ricœur, Labor et Fides, Ginevra 2006), ma anche J.-F. Hamel, Revenances de l’histoire, cit., e E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, Ombre corte, Verona 2006, entrambi non senza riferimento a Walter Benjamin. 6  Certo nel rispetto delle proporzioni e come situazione limite, lasceremo risuonare il fatto che per coloro che sono sopravvissuti direttamente o indirettamente ai campi nazisti, ci sarebbe voluto del tempo per raccontare e perché il raccontare prendesse forma letteraria (Sarah Kofman pubblicherà solo nel 1993 ciò che l’aveva segnata per sempre, e si suiciderà subito dopo). 7  Ho ripreso a mia volta il gesto in Du corps, de ce qui échappe, et du croire, in P. Gisel - S. Margel (a cura di), Le croire au cœur des sociétés et des cultures, cit., pp. 199-215, nella parte IV parlo di «reiterazione», in legame con Derrida.

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secondo l’idea di un «rapporto senza rapporto», così come c’è «rapporto senza rapporto» con ciò che è in gioco o in causa8.

3. Una scena di testi, di figure o altro, all’inizio di una poetica Ho detto che ci si muove su un fondo di testi e di figure. Questi si trovano al di fuori di un cominciamento inaugurale e fondatore. Ciò dipende dal fatto che siamo in un dispiegamento, un dispiegamento nella storia – che si stabilisce nel cuore delle differenze al livello delle diversificazioni assunte nel corso del tempo – e un dispiegamento raccontato, che mette in scena della memoria e una ripresa sempre rilanciata. Spazio di storie e spazio di testi che dicono, nella differenza, ciò che lavora la storia e provoca in essa una instaurazione. Bisogna dunque entrare nella lettura9. Il che è diverso dal decifrare un significato e isolarlo dalla materialità dei testi, dalla pluralità intrinseca al mondo al quale fanno eco, dalla plurivocità della quale vivono, come da un «supplemento» del quale non vengono a capo. Tutto ciò impegna in un gioco da testi a testi, un gioco di rinvii e di riprese, infinito, al di fuori dell’appropriazione e dell’identificazione, e sempre nel rapporto con ciò che attraversa i testi, li sottende e li sostiene, e del quale essi costituiscono una scena di lavoro (di tale disposizione, l’ebraismo dà una illustrazione esemplare e sempre significativa). Se ho concentrato l’attenzione su un gioco nel rapporto con dei testi, è perché ciò che vi accade è particolarmente eloquente (benché si possa anche ridurne lo spazio cercando un senso da

8  Si veda quanto tematizzato a tal proposito in I. Ullern - P. Gisel (a cura di), Penser en commun?, cit. 9  In coerenza con il cuore dell’opera, Isabelle Ullern ha sottolineato come questo ingresso nella lettura era necessario e perché (cfr. ibidem).

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esumare per proporlo in vista di un’appropriazione o come un valore in grado di dirigere un programma – è ciò che è accaduto in particolare nella storia del cristianesimo con una pendenza istruttiva). Ma ho anche detto che una tradizione poteva muoversi su una base di figure più che di testi. Possiamo aggiungere che si tratta di un fondo fatto di sequenze prelevate da una storia, raccontate in modo da erigere una scena originaria. O prelevate da altre forme rispetto a quella che gli Antichi chiamavano funzione «mitologica» del religioso (cfr. Varon). Il gioco del quale mi sono impegnato a disegnare i contorni può apparire con poca chiarezza, in quanto una figura è per definizione ricapitolativa e può di colpo prestarsi a divenire ipostasi (così accade per la figura del Cristo nel cristianesimo), mente una sequenza tipificata può funzionare secondo un immaginario in grado di mobilitare maggiormente e in quanto tale (così accade per la Rivoluzione nella tradizione repubblicana francese). Rispetto a tali derive, occorrerà precisare innanzitutto che una figura condensa un processo e ne porta il segno (per riprendere l’esempio cristiano, come figura, il Cristo giustamente differisce dal Gesù storico, attestando un certo «più» al livello di un gioco specifico, che sparisce nel momento in cui ci si ferma a una ipostasi, ideologizzata o idolatrata) e che una sequenza storica non è tipificata se non a partire da un fondo di conflitti – essa li condensa e se ne separa –, che occorre restituire, salvo fissare degli eroi «puri» o non «corrotti». Si dovrà inoltre precisare che nel corso del tempo ci si relaziona con le figure o con le sequenze tipificate secondo delle maniere diverse che compongono un ventaglio istruttivo (rispetto agli esempi evocati, la storia di ciò che è stato fatto della figura del Cristo è più che eloquente, così come il ventaglio di rinvii e quel luogo di memoria costituito dalla Rivoluzione, mobilitato in diversi modi durante tutto il corso del XIX secolo, e che conferisce corpo a quello spazio dispiegato tra le riprese che ne hanno fatto, in situazione di commemorazione, François Furet

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e Albert Soboul). In tal senso, una figura o una sequenza tipificata emergono bene – così come un corpus testuale, anche se secondo modalità divergenti – dalla tradizione, da quella che le ha instaurate e da quella che rinvia ad esse diversamente. Nel nostro tempo i momenti di esperienza del mondo risultano disconnessi da ciò che da essi possiamo attenderci in termini collettivi, nel legame con un orizzonte nel quale si potrebbero inscrivere le nostre vite10. Le visioni di uno svolgimento promettente della storia in direzione del progresso, così come i sogni di rivoluzioni felici, hanno perduto la loro credibilità. Non ci si ritiene più in grado – e, in fondo, neppure lo si desidera, ritenendo la cosa illegittima – di sospendere la totalità della storia, passata e presente, in un senso umanamente assunto. Il passato viene anzi percepito come definitivamente estraneo alla nostra esperienza presente, alle sue possibilità e ai suoi valori. Su un tale sfondo, si è mobilitata – si è sempre tentato di mobilitare – la tradizione. Così è stato per il Romanticismo che ha voluto rispondere all’esplosività che gli illuministi portavano in nuce e alla loro celebrazione della sola novità, in rottura con tutto ciò che aveva preceduto. Un tipo di risposta che è divenuta ricorrente, dando luogo a diversi tradizionalismi o rivestendo gli abiti di un esoterismo pensato come qualcosa di sempre, a meno che non si voglia celebrare o aprirsi a un’alba originaria collocata prima del controllo tecnico e delle posizioni singolari proprie del soggetto. Così ci si richiama alla tradizione – di essa si investono i dati o con essa si erige una situazione di insieme – come ciò che può assicurare uno sfondo omogeneo, raccogliente e totalizzante. Ora, non è affatto così che si sono costituite le tradizioni storiche, non sotto questa forma, e non è in vista di un tale portata che ne ho affermato la possibile validità.

10  Detto nei termini di Reinhardt Koselleck, che parla di campi d’esperienze e di orizzonti di attesa.

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A mio avviso, si può far ricorso a una tradizione secondo un altro tipo di pertinenza, così come si può aver interesse o trarre profitto nel considerarne il dato, ciò che in essa accade, come e con quali effetti. Al livello di un altro dispositivo d’insieme e secondo un’altra finalità. Rispetto al «continuum della storia»11, che è in fondo integrativo, dissolve le differenze e riduce qualsiasi forza di affermazione – il quale non può che essere singolare –, si sarà invitati a riconoscere deliberatamente l’assenza di origine e di continuità storica, così come l’irriducibile esteriorità del mondo e di ciò che in esso accade, a dirne il lutto necessario, ad affermarne l’incompiutezza e ad aprire in direzione di una topica di emergenze, di «iniziative» (Arendt), di «riprese» (Kierkegaard) e di «ripetizioni» (Nietzsche), intese come atti e come instaurazioni creatrici. L’assenza e la discontinuità provate si riveleranno come crogiuolo fecondo di alterità (tale è la posizione di Michel de Certeau), al contrario dell’investitura di un passato, nella quale diversi elementi (considerati fuori dalla loro orbita a meno che una forza ideologica non li reinserisca in una nuova sintesi) segretamente inscritti nel cuore del presente potrebbero essere esibiti e fatti propri (questi elementi hanno quasi lo statuto di un «resto» o, nel migliore dei casi, di riferimento culturale a una storia, senza alcun interesse per noi, per quanto potrebbero accontentare i credenti o i sostenitori di una tradizione che li ha conosciuti). Una tradizione storica, come abbiamo visto, nasce da uno spostamento originario vissuto come scuotimento e alterazione – anche le sopravvenienze che sono evocate mettono a soqqua­ dro – e si stabilisce insieme come controbattuta e come rispondente di questa rottura iniziale. Una tradizione storica vive di un’affermazione propria, pur senza essere riducibile ad essa. 11  Walter Benjamin è un esempio di questo rifiuto (intende far «esplodere» questo «continuum») e di un investimento fecondo dell’eterogeneo che vi oppone.

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Perché essa disegna una scena che convoca un lavoro su dei testi e delle figure, letti, ricevuti e differiti, un lavoro che si articola secondo un lavoro già all’opera all’interno dei testi, in alcuni casi dietro le figure, o dietro le sequenze eroiche, un lavoro che va restituito. Risulta così dispiegato un secondo piano fatto di positività, attraversato da un intrigo inscritto nella piena contingenza e irriducibilmente singolare, nella sua disposizione propria e in vista dei suoi elementi, un intrigo del quale si raccontano sempre di nuovo la storia e le storie. Da qui si genera il seguito sempre ripreso di un lignaggio, nel quale lo stesso intrigo si lega a forme nuove, essendo tale lignaggio allo stesso tempo provocato e arricchito dalle positività che vi si dispiegano. Al contrario tutto accade come se, dimenticando il gioco di uno spostamento originario che ha dato luogo ai corpi delle storie, la storia del mondo avesse proseguito un’odissea ideologizzante e sottesa da un universale, una storia che porta con sé una ideologizzazione interna fatta di ripiegamenti sui propri beni, perseguiti come tali. Se non ci si vuole increspare su un dato autonomizzato, all’origine di comunitarismi, o nel peggiore dei casi su un dato che si pensa come modello possibile di un tutto, è meglio non sognare una tradizione inglobante – ciò equivarrebbe a uccidere il fatto stesso di una tradizione negli aspetti che ho convalidato in termini di posizione propria e di fecondità –, ma riprendere, nel cuore del presente, una forza di affermazione e una narrazione, e insieme un passato che può essere assunto (forte di ciò che lo ha lavorato), un presente da abitare (spostato e resistente rispetto al tutto, quale che ne sia la forma, politica, sociale, funzionale) e un futuro aperto (in favore di un presente rinnovato nel cuore del mondo, non un altro mondo, ma un mondo altrimenti). Si darà così corpo a un possibile del tempo, un possibile da decifrare e da riprendere in un discernimento critico.

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Nessuna ripetizione dell’identico, in quanto non vi è nulla di cui ci si è appropriati, in quanto all’inizio vi è già alterità e in quanto si dà corpo a delle figure di alterità. Vi è piuttosto una generazione a partire da una narrazione che comprende un racconto di ciò che ci è accaduto e del perché siamo arrivati a questo punto, i compiti possibili e il destino del quale rispondere.

4. Un monoteismo singolare, su base plurale Nel seguito di Freud, Bruno Karsenti sottolinea che con la disposizione d’insieme che tento di riassumere in questa ripresa finale, si giunge a una posizione monoteista, in quanto in essa è instaurato un aspetto di separazione e di singolarità, non riassorbibile e in quanto tale unica12. Detta posizione monoteista va qui compresa in un senso differente – e del tutto diverso – da quello che i moderni hanno inteso o ancora intendono con il termine monoteismo per ricusarlo e prendere le distanze da esso, e a mio parere non senza ragione. Lungi dall’aver di mira o dal sancire una totalità, tale posizione è al principio di una emergenza specifica con coordinate diverse rispetto alla vita biologica, alla natura o alle sole leggi della città, emergenza che disegna un proprio tracciato sulla superficie del mondo. Una emergenza che presuppone peraltro interamente la realtà stessa del mondo, sospesa a un altro principio. Per variare il vocabolario, si può dire che è in causa l’uscita da un «arcaico» (di tipo fetale), una tematica che si situa nel cuore dell’ebraismo, come nelle preoccupazioni di Freud, certo per ciascuno a modo proprio. Nel corso del presente saggio, ho parlato abbastanza del politico. Esso è legato al mondo del quale una tradizione storica 12  In B. Karsenti, Moïse et l’idée de peuple, cit., pp. 95, 123, 146, 175 ss., 216.

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non deve impadronirsi. Ho ripreso la questione in modo contrario rispetto all’estensione all’opera nel cuore del moderno, per quanto essa prenda il posto di una disposizione più antica, radicalizzandola. Tutto ciò non portava né a una squalifica del politico né a un ritiro messo in opera su quello stesso terreno, peraltro più modesto, ma a una ridefinizione delle sue istanze, di ciò di cui risponde nel cuore di un insieme più differenziato. Gli si assegnava così uno spazio specifico, forte nel suo ordine e secondo ciò che peraltro gli è assegnato! La questione non è dunque quella di dati che potrebbero alimentare un’altra politica – un altro programma –, ma di una considerazione di fondo che apre su un politico altrimenti e su un altrimenti politico. Si può anche ritenere che la prospettiva d’insieme delineata dia al politico il suo spazio proprio. Lo stesso accade, mutatis mutandis, con il religioso, ovvero in modo più globale con l’ordine culturale. Ciò perché, in quanto emergenza singolare rapportata a una logica propria, una tradizione storica realmente formatrice di umanità – in questo caso secondo delle configurazioni con differenze irriducibili, assunte ovvero da esigere – dice che vi è qualcos’altro rispetto al «tutto sociale» – dunque anche altro rispetto al tutto politico – e altro rispetto al «tutto religioso» che può arrivare persino a raddoppiare il «tutto sociale», sia con una propria rivendicazione, indebita, sia con il diniego. Forse è proprio quando diminuiscono le tradizioni storiche, specifiche e operanti in ciò di cui si fanno carico, che questa invasione del puro sociale ha libero corso. Il XX secolo ha conosciuto delle forme totalizzanti di tale fenomeno, di tipo politico, ma il contemporaneo è probabilmente il luogo di una propagazione insidiosa, fatta di aggiustamenti in principio funzionali e di pura governance, che mira tacitamente, o inconsciamente, alla scomparsa di tutte le asperità e di ogni resistenza. In contrasto con ciò, una tradizione fa irruzione e pone un’affermazione dando luogo alla genealogia di un corpo storico fatto di positività e di lavoro interno, di per sé istruttivi, i

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quali, correttamente colti, non possono che rilanciare le nostre società contemporanee e ciascuno di noi.

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Indice

Introduzione Orizzonte sociale e questioni in gioco

p. 9

I Che cos’è una tradizione?

p. 15

1. Una costruzione

p. 15

1.1. Una prima illustrazione, l’ebraismo 1.2. Un secondo chiarimento, il cristianesimo

p. 16 p. 21

2. Una decostruzione

p. 29

3. Un gesto inscritto nella storia e storicizzante

p. 33

3.1. Forza e destino di una posizione monoteista 3.2. Un fenomeno di pertinenza umana e sociale

p. 34 p. 38

II Da quale regime di ragione emerge una tradizione?

p. 41

1. Una critica moderna della tradizione

p. 41

2. Una trattazione contemporanea condotta dalla filosofia analitica

p. 44

3. Quale critica e secondo quale regime di ragione?

p. 56

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III Qual è la pertinenza delle tradizioni nell’ambito della razionalità pubblica? Secondo quale statuto e quali limiti?

p. 67

1. Statuto e limiti di una tradizione particolare nella società secolarizzata

p. 69

2. Il contemporaneo, un tempo di tradizioni fuori dalla storia e fuori dalla cultura

p. 75

3. Su un’abitazione e su un lavoro interno alle tradizioni

p. 82

IV Fine del teologico-politico e pluralità dei gesti a confronto

p. 89

1. Un sociale e un politico che sfuggono alle percezioni e ai discorsi convenzionali

p. 89

2. Una fine del teologico-politico 2.1. Una crisi del politico 2.2. Questioni in avaria e che fanno «ritorno» in modo differito 2.3. Una storia più differenziata

p. 92 p. 97 p. 102

3. Quale nuova configurazione del sociale e del politico? 3.1. Una scena nuova che esige un nuovo sguardo 3.2. Istanze da ridistribuire e da ripensare

p. 109 p. 118

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V Le tradizioni, luogo di una esposizione al differente. L’umano direttamente nel mondo e nel cuore di un essere-con

p. 125

1. Abbandonare una matrice comunitaria del sociale

p. 127

2. L’esposizione come trascendentale 2.1. Una nuova disposizione dell’umano e del suo rapporto con il mondo 2.2. Un avvenire direttamente nel mondo 2.3. L’essere-con nella differenza, luogo di un confronto fecondo

p. 133 p. 135 p. 138

3. Ritorno sulle tradizioni e sul religioso 3.1. Attraverso le individualità, una inscrizione dell’umano nella tradizione, religiosa o altra 3.2. Quale spazio per le tradizioni e per il religioso nel e per il sociale, e a quali condizioni?

p. 141 p. 150

Ripresa Una tradizione: luogo in cui si dà più che una vita come s­ opravvivenza e più di un mondo come semplice stato di fatto

p. 157

1. Una tradizione: luogo di scarto e di rilancio

p. 157

2. Una tradizione: rispondere di una sopravvenienza e costruire un proprio seguito

p. 159

3. Una scena di testi, di figure o altro, all’inizio di una poetica

p. 162

4. Un monoteismo singolare, su base plurale

p. 167

Passages

Collana di Storia della Filosofia Diretta da: Umberto CURI e Carmelo MEAZZA

1. Lucrezia Ercoli, Filosofia dell’umorismo. 2. Marco Fortunato, Decisione – Indecisione. 3. Andrea Panzavolta, Caro Herr Mozart. Cari compositori. 4. Elio Matassi, Appunti sul presente. 5. Chiara Pasqualin, Il fondamento “patico” dell’ermeneutico. 6. Alexander Schnell, Husserl e i fondamenti della fenomenologia costruttiva. 7. Nicola Comerci, Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione. 8. Laura Sanò, Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arend e Kafka. 9. Enrique Dussel, Le metafore teologiche di Marx. 10. Pierre Gisel, Cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza.

Passages | 10 Le società contemporanee sono segnate dall'avvento dell'individualismo. Conoscono ormai solo realtà individuali e si rivelano dimentiche di ogni tradizione religiosa o culturale. A partire dal riconoscimento di tale pluralità, quest'opera intende indicare le nuove condizioni per un possibile confronto: risulta infatti importante riconoscere sia l'eterogeneità delle tradizioni che la fecondità delle dispute, pur evitando di cadere nel comunitarismo. Questa potrebbe forse essere la strada migliore per un rinnovamento delle società attuali. Ma quale modalità della razionalità pubblica occorre mettere in pratica per superare l'urto provocato delle diverse, e spesso divergenti, logiche in gioco? E così, come ripensare le nostre identità, il nostro rapporto con il passato e la nostra immaginazione dell'avvenire?

Pierre Gisel è professore onorario alla Facoltà teologica e di scienze delle religioni dell'Università di Losanna. Il suo lavoro di concentra sul rapporto tra le diverse scienze delle religioni, sulla tradizione teologica e sul confronto interreligioso.

ISBN EBOOK 9788855290104 € 9,00