Conversando con Togliatti. Note biografiche a cura di Marcella e Maurizio Ferrara con una lettera di Palmiro Togliatti

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Conversando con Togliatti. Note biografiche a cura di Marcella e Maurizio Ferrara con una lettera di Palmiro Togliatti

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CONVERSANDO CON

TOGLIATTI i N O T E B IO G R A F IC H E A C U R A D I M A R C E L L A E M A U R IZ IO F E R R A R A con una lettera di Paimiro Togliatti

E D I Z I O N I D I C U L T U R A S O C IA L E R O M A 1954

I Va ristampa, Marzo 1954

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

A Marcella e Maurizio Ferrara

Cari compagni, voi sapete che io non ero entusiasta della proposta che venisse scritta e pubblicata ima mia biografia, o qualcosa che a una biografia rassomigliasse. Pensavo che queste cose si debbano fare solo quando uno non è più tra i viventi, e non quando gli si fa l ’augurio di rimanervi ancora per un po’ di tempo. Ho ceduto, però, e per varie ragioni. Prima di tutto perchè ha insistito e deciso così la dire­ zione del partito. Poi perchè è giusto, in sostanza, che circa la vita di un compagno di cui motti, amici e nemici, si interessano e raccontano un mucchio di cose non sem­ pre vere, si faccia conoscere la verità. Infine, perchè da un racconto della mia vita e del mio lavoro risultano cer­ tamente utili elementi di giudizio esatto sulla storia del nostro partito, che da più di trent’anni è tanta parte della storia del nostro Paese. Ho quindi accettato questa forma di narrazione biografica, eh’è opera vostra e risulta dalle conversazioni da voi avute con me, dalla ricerca accurata che avete fatto di scritti e documenti del passato e dalla correzione alla quale in seguito io stesso, d’accordo con voi, ho sottoposto il risultato del vostro difficile e lungo lavoro. Vi sono riconoscente per ciò che avete fatto e vi

P R E F A Z IO N E

chiedo scusa se, nel rivedere, io abbia rielaborato in alcuni punti il testo preparato da voi. L ’importante è che voi date al pubblico una esposizione in cui ogni cosa è vera e certa, fondata non tanto su ricordi di altri o miei, ma su dati oggettivi e su documenti. Io non posso dire di essere come Renzo Tramaglino, che attraverso tante vicende aveva imparato « a non met­ tersi nei tumulti » e « a non predicare in piazza ». A l con­ trario! Ho però imparato ad apprezzare sopra di tutto l’amicizia e l ’affetto dei compagni. Per quella amicizia e quell’affetto che nello scrivere questo libro voi avete mani­ festato per me, io vi ringrazio di cuore. P a l m ir o T o g l ia t t i

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«Erano due persone intelligenti e capaci, ma alla fine schiacciate dal peso della esistenza e dalle sue difficoltà ». Così Togliatti parla dei suoi genitori, due di quegli umili che trascorrono la vita fra le strettezze, tutta dedicata a far vivere e « studiare », con un magro stipendio di Stato, i figli numerosi. Un uomo e una donna ricchi di qualità non comuni, ma a poco a poco oppressi da questo compito, dal peso diventato con lo scorrer degli anni via via sempre più grave della vita materiale : il mangiare, il vestire, la scuola, i « tra­ slochi » governativi, e conciliare la dignità e le appa­ renze con una povertà non riconosciuta e decorosa. Una madre e un padre come ve ne sono in Italia centinaia di migliaia: la famiglia di un modestissimo impiegato dello Stato, economo nei Convitti nazionali, quella in cui nacque Paimiro Togliatti, il 26 marzo 1893, va Genova, in via Albergo dei Poveri, al numero 9. Ma perchè dovevano far « studiare » i figliuoli? Non era solo per quella ricerca di una posizione sociale migliore che assilla tutti i piccoli borghesi italiani, nè era tanto la fiducia nelle capacità di quei bam­ bini. Qualche altra cosa, proveniente dalla loro esi­ stenza stessa, doveva spingere quei genitori a vedere solo nello studio, e nelle possibilità che esso apre, una via di uscita per i figli. Antonio, l’economo del Convitto nazionale di Geno-

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va, era figlio di contadini, proprietari di pochissima terra a Coassolo torinese. Ivi, dove la carrozzabile che viene da Lanzo incomincia a salire tra i castagneti, vi è una cappella dedicata a Sant’Anna, fatta costruire, nel passato, da un sacerdote della famiglia. La cap­ pella è quasi in rovina, ma sembra che il parroco, che per lascito vi deve dir messa una volta l’anno, non la voglia far riparare, forse perchè il nome di quel vecchio fondatore gli dà noia. A due passi è un gruppo di vec­ chie case, che ancora oggi chiamano Borgata Togliatti. Nei pressi, molte famiglie ancora portano questo nome. Sono luoghi di mezza montagna, dove la terra non ren­ de molto, e quando [le famiglie crescono e bisogna dividerla non basta più per nessuno. Allora i giovani emigrano, scendono in pianura a fare i giornalieri o in città i manovali, oppure cercano qualche altra via di uscita. Uno zio [sacerdote, [il canonico Cibrario, volendo assicurare l’avvenire a iqualcuno dei nipoti, ave­ va istituito un lascito per quello dei Togliatti ,che avesse desiderato darsi alla vita ecclesiastica. Avrebbe potuto gratuitamente far tutti igli studi, prima dai Salesiani, poi nel Seminario di Giaveno. Il giovane Antonio era stato avviato, a sollievo della famiglia, per questa strada. Ma non'sentiva la vocazione, non gli andava di fare il prete e non volle mentire. Compiuto il ginnasio, il giorno che do­ veva partire pel seminario gli fecero nella borgata una grande festa. Finita la festa, nella notte, si tolse il vestito da seminarista, lo dispose in ordine sul letto e fuggì in città, a Torino. Trovò qualche lavoro, studiò, si licenziò maestro elementare, insegnò in qualche scuola privata e poi entrò a far l’impiegato contabile dei Convitti nazionali.

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In una scuola professionale privata, dove essa pure insegnava, Antonio conobbe Teresa Viale, che poi di­ venne sua moglie. Di Teresa Viale non conosciamo bene la provenienza sociale. Forse di origine molto povera, venne accolta, bambina, in una famiglia torinese benestante che le fece fare gli studi da maestra. Un suo fratello, operaio fornaio, sembra sia morto assai giovane di malattia polmonare, all’Ospedale San Luigi di Torino. Teresa, nel parlarne, lo diceva di lineamenti simili al figlio Paimiro. Togliatti ricorda la famiglia dove la madre era cresciuta e verso la quale questa non poteva avere che riconoscenza e affetto; ma ricorda pure lo strano senso di disagio e distacco che circondava le relazioni con alcuni tra i membri più fortunati di questa fami­ glia. Quando seppe come stavano le cose, comprese; ma ciò fu molto tardi, negli anni dell’Università, quando altri problemi già urgevano. Solo da allora gli si è presentata nella luce vera la madre. «Era la figura centrale, — dice — , della, famiglia. La rottura che vi era stata nella sua vita era stata pro­ fonda, più dolorosa di quella che era stata nella vita di mio padre. Ne era però scaturita una singolare forza di volontà. Avevano finito per essere entrambi, e così era di fatto tutta la famiglia, senza radici. Non vi era nulla su cui poggiarsi, se non il lavoro, e tanto per l’una quanto per l’altro il lavoro, che aveva permesso di farsi una vita dignitosa, era stato studio. Da questo bisognava dunque partire. Questo doveva essere lo scopo unico e della vita dei ragazzi e di tutta la atti­ vità familiare ».

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Studiando, la madre aveva imparato, fuori dalla scuola, la letteratura italiana e una lingua straniera, a fare ogni sorta di ricami e persino a dipingere con, gusto. Per i quattro figli faceva tutto da sè, ad ecce­ zione forse delle scarpe. Religiosa, volle che i ragazzi praticassero il culto sino a tardi assai negli anni, ma Togliatti alle cose religiose fu sempre del tutto indiffe­ rente,, estraneo. La vera severità e disciplina riguar­ dava però sempre ed esclusivamente la scuola, nè vi era bisogno di punizioni. L ’argomento più convincente sorgeva dalle cose, dalle strettezze in cui si viveva e che induriva un poco tutti. Le tasse scolastiche, che pur non erano gran che per le scuole medie di quel tem­ po, la famiglia non le poteva pagare. Bisognava essere, ad ogni costo, « senza tasse », cioè avere otto di media, il che non era facile, nelle scuole di allora. Altrimenti, non dicevano al ragazzo che sarebbe andato al lavoro manuale, cui non sembrava adatto, per la precarietà, durata a lungo, della salute, ma che lo avrebbero mandato a Giaveno, al Seminario, dove anche per lui gli studi sarebbero stati gratuiti. Risorgeva l’ombra della fuga paterna! I fratelli furono quattro, due maggiori di Paimiro: Eugenio Giuseppe, matematico, oggi preside della Fa­ coltà di scienze all’Università di Genova; Maria Cri­ stina, professoressa di materie letterarie nelle scuole medie superiori a Torino, e uno minore di sette anni, Enrico, ingegnere, morto a Napoli dove era direttore di una officina elettrica, nel periodo in cui Togliatti era in esilio. Tutta la famiglia peregrinò, per anni e anni, in varie città, a seconda dei traslochi del padre. Da

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Genova passò a Novara e Torino, e in queste città Togliatti cominciò ad andare a scuola, poi a Sondrio, dove fece il ginnasio, infine a Sassari, dove fece i tre anni di liceo. Erano gli anni giolittiani, ma anche della avanzata del movimento socialista sulla scena, nazionale. Ne pe­ netrò una eco nella famiglia, dove così si cresceva fra le strettezze e lo studio? Il padre aveva, all’inizio, mantenuto relazioni con i Salesiani, i quali non abban­ donano mai del tutto i loro allievi, li invitano con i famigliari a trattenimenti, feste, merende. Così To­ gliatti ricorda di essere stato ammesso a baciare la mano a Don Rua, il primo successore di Don Bosco, un’alta figura nera. In seguito il padre stesso si era forse orientato verso altre direzioni, se il figlio ricorda pure di essere stato, una volta, portato a un comizio di protesta per la fucilazione di Francisco Ferrer. Fa propaganda socialista certamente non gli era scono­ sciuta. Il figlio racconta, infatti, di un piccolo fascio di opuscoli socialisti, da uno o due soldi, trovati da lui, che allora era nelle prime classi del ginnasio, rovi­ stando dietro un armadio, dove forse il padre stesso li aveva nascosti. Li lesse con avidità, attratto da tutte quelle cose nuove, dalla protesta contro tante ingiu­ stizie di cui nelle condizioni della famiglia stessa, nella vita del padre e della madre vedeva l’esempio. Del resto in casa v ’eran molti libri, ma di quelli che oggi si direbbero « conformisti », cioè reazionari e noiosi, e bisognava anche leggerli con una certa cautela, dopo che fosse stato ben chiaro che il lavoro di scuola era finito. Le prime citazioni di Voltaire vennero trovate,

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e fecero al ragazzo un’impressione profondissima, in alcuni trattatelli sanfedisti dell’abate Paride Zaiotti. I giornali, e tutti i giornali possibili, venivano sottratti e divorati dalla prima all’ultima parola. Altri libri, e molti libri, non direttamente richiesti dalla scuola, venivano letti di nascosto, e senza scelta, pur di averli. Persino un saggio del Finzi sul Petrarca, come fosse chi lo sa che tesoro ! Il primo che segnò un punto fermo e una conquista sicura fu il De Sanctis. Due vecchi volumi dei Saggi critici vennero trovati dal ragazzo in un polveroso ufficio del Convitto nazionale, dove il padre lo aveva messo a copiare certi registri di inventario. Fu una rivelazione, e forse non tanto per la parte delle analisi estetiche, quanto per la profonda nuova visione della storia e soprattutto dei rivolgi­ menti culturali del secolo X VIII e del X IX . Fu la prima spinta efficace alla ricerca di una concezione rivolu­ zionaria del mondo. Il saggio sull’Ebreo di Verona, sul teatro dello Schiller, il dialogo Schopenhauer e Leopardi vennero quasi imparati a memoria. Nel gusto letterario di Togliatti è rimasta, come conseguenza di quella prima in­ fatuazione, la venerazione per Dante e per il Leopardi. Per quanto riguarda il pensiero, incominciavano a far capolino le aguzze orecchie demoniache dello hegelismo. Il ragazzo, però, — insiste Togliatti — , era « come tutti gli altri », con quelle note che la povertà e lo zelo nello studio dànno a tutti. Quasi nessuna relazione fuori della famiglia, pochi amici, non ostante il fra­ terno contatto con i compagni di scuola. Lo svago pre­ ferito era il camminare fuori della città e fuori delle strade segnate, per i campi, per le montagne. L’abi-

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tudine, che gli è rimasta, gli viene dai genitori. Il padre così passava i contati giorni di riposo annuale. Col figlio per mano andò a piedi da Sondrio al colle dello Stelvio ritornando per Ponte di Legno e l’Aprica. La madre portava i ragazzi, per due mesi dell’estate, a duemila metri, ove vivevano in un fienile affittato per poche lire e si nutrivano del cibo dei pastori. Da matti­ na a sera si camminava, soli, tra i pascoli, il letto dei torrenti, le rocce, le cime. Così Togliatti ha il ricordo lontano del Moncenisio quand’era italiano ancora, del Corno Stella e del lago dove nelle Prealpi bergamasche si specchia il Pizzo del Diavolo, dei ghiacciai del Di­ sgrazia e dello Scalino. Nell'estate del 1908 avvenne l’ultimo trasloco della famiglia da Sondrio in Sardegna, a Sassari, con un lungo viaggio di mare, in terza classe, da Genova a Porto Torres per Livorno, Bastia e le Bocche di Bonifacio. Il liceo non fu difficile, eccetto per la lingua italiana, chè il professor Alfredo Schiaffimi non era contento delle composizioni scritte. « Solo quando pensavo alle cose che avevo letto in De Sanctis riuscivo a scrivere bene; imparai a scrivere quando ero già all’Università, facendo, per guadagno, i compiti di qualche studente liceale ». Allora era ammessa, nel secondo anno, la scelta tra il greco e la matematica e Togliatti scelse il greco per cui aveva, anche più che per il latino, una passione. Leggeva per conto suo i canti dell’Iliade, e per i dia­ loghi di Luciano andava pazzo. Ma nel terzo anno sopravvenne la tragedia. Il padre fu colpito da gravissima infermità. Trasportato a To­ rino per tentare un intervento, vi morì il 21 gennaio

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1911. Che fare? La madre, affranta, non disperò. Oltre a tutto ora si era anche fatta la convinzione che i figli valessero qualcosa. Prima tentò di trasferirli a un liceo di Torino, dove avevano accompagnato il padre mo­ rente; ma nella nuova scuola sarebbe stato un disastro e poi, come vivere nella grande città? Paimiro, Cri­ stina, Enrico tornarono dunque con la madre a Sassari e i due primi presero la licenza. Si visse, quei primi mesi senza il padre, di espedienti. Togliatti, che già aveva incominciato a dare lezioni per potersi acqui­ stare libri, le diede per ore e ore ogni giorno, per con­ tribuire a mantenere la famiglia, nell’attesa che venisse « liquidata » la misera pensione. A luglio tutti ritorna­ rono nella capitale piemontese. La licenza liceale, anche se ottenuta con i voti migliori, non apre grandi strade, però ; e la madre insi­ steva: bisognava proseguire,’ andare all’Università. Il fratello maggiore già vi studiava da due anni e poteva farlo per aver vinto, con concorso, una borsa di studio del « Collegio Carlo Alberto delle province sarde ». Si ricevevano settanta lire al mese per nove mesi all’anno e per tutti gli anni d’Università, avendo il solo obbligo di frequentare le lezioni, non dare esami « fuori corso » e avere una certa media nelle votazioni. Erano ammes­ si al concorso i giovani disagiati nati nelle vecchie province del Regno di Sardegna; ma l’esame, fatto da professori universitari, era difficile, assai più che la licenza. I due fratelli, Maria Cristina e Paimiro, ten­ tarono entrambi ed entrambi riuscirono, dopo aver passato l’estate intiera allo studio, tra il disagio terri­ bile di quel momento, in cui non si poteva che ricor-

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rere all’ aiuto dei parenti materni, e la coscienza, ancora una volta, che tutto dipendesse per tutti da quell’esame. Togliatti non solo riuscì, ma fu classificato il se­ condo, essendo toccato il primo posto a Lionello Vin­ centi, il germanista, che concorreva dopo aver già fatto un anno di Università. Al settimo posto venne clas­ sificato un giovane bruno, piccolo, egli pure poveris­ simo, in apparenza, dal corpo tormentato e sofferente e dagli occhi grandi, luminosi, proveniente anch’egli dalla Sardegna, ma dal liceo di Cagliari. Era Antonio Gramsci e il primo incontro di Togliatti con lui avven­ ne proprio nel grande cortile dell’Università torinese, sotto il porticato, dove entrambi, superate le quattro prove scritte di italiano, latino, storia e filosofia, at­ tendevano di essere chiamati alle prove orali. Con lui incominciarono presto altri discorsi.

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Torino 1911. Togliatti diciottenne ritorna nella città dove il padre aveva creato la famiglia. L ’anno è cele­ bre: da cinquant’anni c’è l’unità d’Italia, ma il 1911 è uno degli anni del trapasso dal vecchio al nuovo. Ci sono stati alcuni decenni di grande travaglio e con­ fusione; poi, dopo il 1900, un po’ di benessere; ora le contraddizioni sono maturate e stanno per scoppiare, la belle epoque italiana s’avvia alla fine e Torino, la città regia decaduta al rango provinciale, s’incammina a diventare la capitale del movimento operaio. Scrive Gobetti: «A Torino l’accentramento industriale venne creando l’accentramento operaio... Il capitalismo, se­ guendo la sua estrema logica ideale, con un processo che sembrava dar ragione a Marx, costringeva il movi­ mento operaio a riprendere le sue premesse ideali, a organizzarsi attorno al suo centro di vita quotidiano e lo aiutava direttamente a esprimere la sua logica ribelle »1. E lo stesso concetto che Gramsci, marxista, svilupperà ampiamente in un rapporto all’Interna­ zionale comunista, nel 1920. Ci vorranno ancora molti anni, dopo il 1911, perchè la logica delle posizioni og­ gettive si traduca in fatti reali. I nodi del primo cin­ quantennio di vita dello Stato unitario stanno però venendo al pettine. 1P ie r o G o b e t t i , La Rivoluzione liberale, p ag . 112 , Tori­

no, Einaudi, 1948.

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Rimeditando quell’epoca, così Togliatti la ricorderà circa quarantanni dopo: «... Si andava verso quella terribile lacerazione del 1914, in cui i principali popoli di Europa dovevano perdere la loro pace ed è ancora dubbio se siano riusciti, oggi, a riconquistarla in modo permanente. Non vi era però coscienza, se non in pochi spiriti eletti, della tragedia che incombeva. La pre­ sentivano i più fedeli tra i cultori di quelle dottrine economiche di avanguardia che sole ci dànno la possi­ bilità di scrutare nel futuro; ma le folle umane non erano ancora, in Europa, come sono oggi, in così gran numero attente alle voci ammonitrici di costoro »L A Torino e a Roma il 1911 fu l’anno delle Esposi­ zioni universali, manifestazioni culminanti dell’otti­ mismo ufficiale e generale. Torino, capitale dell’indu­ stria migliore, e Roma, capitale della burocrazia pie­ montese e napoletana, celebravano l’unità dello Stato portando sugli altari, tra i castelli di cartone, i «prodotti nazionali » di una giovane industria in ascesa, che già cercava mercati, per farsi le ossa, nei Balcani, nel Medio Oriente, sulla « quarta sponda » libica. 216 mila persone sfilarono a Torino nei padiglioni dell’Esposizione. Il Settentrione aveva la parola decisiva, sembrava essere una guida sicura. Affioravano invece con sempre mag­ giore evidenza e stavano per esplodere le contraddi­ zioni tra il Nord e il Sud, male ricoperte dal fragile mantello dell’accordo tra le due borghesie. È di quel­ l’anno la pubblicazione dei risultati della Commissione 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Gramsci, pagg. 99-100, Milano, Mila­

no Sera editrice, 1949.

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d’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno e la Sicilia. Le conclusioni, che consigliavano l’emigrazione come via d’uscita, lasciavano la bocca amara, erano quasi disperate. Nella migliore pubblicistica democratica, pro­ prio in quegli anni, la rivendicazione dell’abbattimento delle strutture feudali del Sud, anche se non aperta­ mente proclamata, incominciava a sgorgare dallo stu­ dio dei problemi concreti della economia e della poli­ tica. Il vero fatto nuovo, però, è il movimento socia­ lista, che è uscito dalla fase della predicazione evange­ lica, sente la necessità di liberarsi dell’opportunismo parlamentare e non soltanto trascina ma organizza oramai strati ingenti della popolazione nel Nord e nel Sud. Dal 24 al 28 maggio, a Padova, la Confederazione del lavoro tiene il suo III Congresso. Gli iscritti sono saliti dai 190.422 del 1907 a 383.770. Accanto al movi­ mento confederale si affermano impetuosamente, qua e là, le leghe dei sindacalisti, che si gettano alla cieca in movimenti violenti, quasi sempre sfortunati, ma in cui si esprime la diffusa insofferenza dei lavoratori, la impossibilità ch’essi sentono di andare avanti per la vecchia strada. La scena politica è dominata da Giovanni Giolitti. « Una figura non semplice e unilineare, come ce la vorrebbe presentare la tradizione storiografica pre­ valente — dirà poi Togliatti nel suo discorso sullo statista di Dronero — ma contraddittoria quanto altra mai non sia stata nella storia politica degli ultimi decen­ ni, d’una contraddizione profonda, che non deriva da incertezze o esitazioni, almeno nel periodo precedente la prima guerra mondiale, ma sgorga dalle cose, da

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conflitti reali già maturi, oppure in corso di matura­ zione nel tessuto della società. Impossibile era apparso al cauto uomo di Stato continuare, in questa società che rapidamente evolveva, a battere la vecchia strada; ma la strada nuova portava a nuove difficoltà, più gravi delle antiche; le forze cui non si erano più potuti tenere sbarrati gli argini venivano avanti con impeto tale che la costruzione pacifica ne era ogni giorno più impedita, e il pericolo che tutto venisse travolto non poteva non essere considerato reale. La campana d’al­ larme doveva essere suonata a distesa dalla guerra di Libia e dalla Settimana rossa del 1914. Dall’una parte e dall’altra è il crollo che si annuncia »1. Giolitti non poteva non sentire che i tempi erano mutati e bisognava cambiare qualcosa. Il 18 marzo di quell’anno si era levato alla Camera dal suo banco di deputato e, inserendosi nel dibattito sulla proposta di una nuova legge elettorale, aveva rovesciato il suo luogotenente Luzzatti, con una breve dichiarazione in cui sosteneva la necessità di rendere il suffragio univer­ sale. Praticamente, proponeva di portare il corpo elet­ torale da 3 milioni e 300 mila a 8 milioni e 800 mila elettori. Perchè lo fece? Pensava alla mobilitazione delle masse cattoliche arretrate, guidate dai preti, per fare da contrappeso ai voti socialisti, oppure contava, con la concessione del suffragio e con la legge « socialista » per il monopolio di Stato delle assicurazioni, fli scorag­ giare la opposizione dei socialisti alla imminente guerra 1 P a l m ir o T o g l ia t t i ,

Roma, Rinascita, 1950.

Discorso su Giolitti, pagg. 69-70,

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coloniale in Libia? Pensava a entrambe le cose, pro­ babilmente, ma certo è che da allora la vita politica esce dagli schemi tradizionali, non è più giuoco di ver­ tici, diventa urto di masse sempre più larghe. Pochi mesi dopo, il 20 settembre, il ministro degli esteri conte di San Giuliano consegna un ultimatum italiano all’ambasciatore turco: è la guerra per la con­ quista della Tripolitania e della Cirenaica, la guerra che dà il primo colpo alla precaria pace d’Europa e apre la serie dei conflitti armati che sboccheranno alfine nel grande macello. « Con la guerra di Libia, —- dirà Togliatti di quel periodo, — e mentre si celebra il cinquantenario del­ l’unità nazionale, il sistema giolittiano è, in apparenza, all’apogeo: in realtà è arrivato al punto in cui le con­ traddizioni di cui è tessuto stanno per esplodere in conflitti aperti. La guerra ha spinto le masse operaie d’avanguardia sul terreno della critica radicale a tutto il regime ; ha ridotto a un « ramo secco » il gruppo degli amici di Giolitti in seno al partito socialista, ha dato forza e baldanza ai gruppi di nuova plutocrazia, senza che d’altra parte le correnti politiche democratiche siano riuscite a darsi un’organizzazione efficace e a estendere la loro influenza »1. La guerra fu salutata a colpi di banchetti politici, di versi sciolti e di orazioni dai poeti e dagli uomini d’affari, da Gabriele D ’Annunzio e persino da Giovanni Pascoli. Il mito dei nazionalisti si gonfia, diventa 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Discorso su Giolitti, pag. 73, Roma,

Rinascita, 1950.

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realtà. Nuovi gruppi dirigenti borghesi lo trovano oramai, più del giolittismo e delle vecchie consorterie liberali, consono al loro spirito di avventura e di aggressione. Si inizia così la marcia dolorosa che porterà al fascismo. Gli industriali del Nord fanno la pace, sotto l’egida delle commesse di guerra, persino con l’uomo che pro­ mette il voto a 5 milioni di lavoratori. Il Corriere della Sera e la Stampa si battono per la guerra in Libia con lo stesso impeto àell’Idea nazionale, dove falsi letterati che hanno rinnegato il socialismo predicano torbide follie. Il partito socialista entra in crisi. Davanti alla stazione di Torino gli operai in sciopero rovesciano i tram per sbarrare le strade; ma De Felice e Podrecca applaudono i bersaglieri che partono per Tripoli, Bis­ solati e Bonomi tentennano e dopo un anno tradiranno, mentre Turati e Treves appaiono indecisi. Lenin, da lontano, e purtroppo non letto ancora da nessuno allora in Italia, bolla le stravaganze pseudodottrinarie sul1’ « imperialismo della povera gente » e sulla « lotta di classe tra le nazioni » con le quali i traditori del movi­ mento socialista si sforzano di giustificare il tradimento e definisce « imperialismo da straccioni » quello della borghesia italiana. Nè è senza significato che proprio in questi stessi anni si preparino altre riserve reazio­ narie della borghesia: le organizzazioni di massa cat­ toliche che tra un anno voteranno compatte, secondo il patto Gentiioni, per i candidati «liberali ». Nel 1911 le unioni professionali cattoliche si dànno un nuovo statuto e contano le loro forze: sono 3.018 associazioni, con 346.864 affiliati : il futuro partito popolare, travestimento imposto ai clericali dalla situazione, è già pronto.

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La bufera non si addensa solo sull’Italia. Tutti i contrasti tra gli imperialisti si fanno più acuti. Il i° luglio una nave da guerra tedesca, gettando l’ancora nel Marocco, ad Agadir, porta all’estremo la tensione tra la Francia e la Germania. Ci si metterà d’accordo, provvisoriamente, con qualche baratto di territori colo­ niali; ma la sconfìtta inflitta alla Turchia dallTtalia accenderà il fuoco della prima e della seconda guerra balcanica. L ’Austria ne sarà spinta a tentare la strada dell’Albania, della Serbia. La Triplice Alleanza scric­ chiola. L ’attentato di Serajevo è alle porte. Ricorda Togliatti nel discorso già citato: « Un gran­ de, Romain Rolland, aveva chiuso l’ultimo atto del ciclo epico e romantico del suo Jean Christophe, la Nouvelle Journée, con la visione di un’Europa in veglia sulle armi. Ma qui da noi lo spirito che sembrava pre­ valere era ottimistico, superficiale, banale persino, con­ veniente forse a un decennio che aveva visto un promet­ tente prosperare delle industrie e feconde, trasforma­ zioni della vita dei campi, ma al di sotto di esso non aveva scorto il maturare di nuove più profonde con­ traddizioni »x. Togliatti, vinto il concorso per la borsa di studio, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. Fu una decisione improvvisa, strana, contraria a tutti i precedenti pro­ positi, che erano di darsi alla filologia classica. Insistet­ tero per questo mutamento i parenti materni, che par­ lavano della molteplicità di « carriere » cui una laurea1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Gramsci, pag. ioo, Milano, Milano

Sera editrice, 1949.

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in legge apre le porte, e il giovane cedette. Oggi dice che quella fu un’ « astuzia della Provvidenza », perchè forse, se si fosse dedicato alla filologia classica, per cui sentiva passione, questi studi l’avrebbero assorbito trop­ po e vi era il pericolo che lo distaccassero dalla vita attiva. Lo studio di legge non lo vincolò, gli dette anzi una spinta verso la lotta sociale e politica. Il primo contatto con le dottrine giuridiche fu col diritto romano. Moderno nei metodi di insegnamento, il professor Pacchioni, che lo insegnava, sostituiva alle sue lezioni, talora, un dibattito fra gli studenti, cui aveva proposto temi di ricerca. Togliatti scelse il tema dell’autenticità o meno della legge romana delle X II Tavole e sostenne la tesi della autenticità, criti­ cando gli argomenti del Pais, del Lambert. Fu il primo suo intervento documentato e polemico in pubblico e ad ascoltarlo v ’era Gramsci, col quale all’uscita venne rinnovata la conoscenza e ripresa la discussione. « Fu l’inizio, — ricorderà Togliatti, — di quel dibattito che con Gramsci dovevamo riprendere tante volte, in altre forme, con ben altra esperienza e in altre circostanze, sul tema eterno della storia degli uomini, matrice di tutto ciò che gli uomini sanno e possono sapere »1. Il professore di diritto romano cercò di attirarlo alle ricerche puramente giuridiche che Togliatti per un poco seguì, ma da cui a poco a poco si venne staccan­ do. L ’ultima indagine, ricorda, fu di giurisprudenza, circa il valore giuridico delle obbligazioni naturali e venne 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Gramsci, pag. 94, Milano,

Sera editrice, 1949. Z.

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Milano

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condotta attraverso lo spoglio sistematico di decine e decine di sentenze di appello e cassazione a partire dal 1861. Fu un lavoro noioso e arido, che ora viene rievocato con un sorriso. Gli studi giuridici vennero fatti tutti con impegno, però, anche perchè, come sem­ pre, bisognava farli e farli bene per poter continuare a vivere. Le settanta lire della borsa di studio avevano infatti come condizione la frequenza e una media molto alta. A queste Togliatti aggiungeva altre somme che metteva insieme con certi premi universitari, cui po­ tevano concorrere quegli studenti disagiati che dimo­ strassero, a mezzo di esame, di essere anche a metà dell’anno al corrente delle cose insegnate. Infine vi erano le lezioni private a studenti di scuole medie, quasi tutte di composizione italiana. Una egli ne ricorda, tra le molte: riceveva una piccola somma e un vermut, e scriveva di getto, in un'vra, il compito per uno studente di liceo. Libri ne poteva comprare pochi, perchè anche allora erano cari; ma gli erano aperte le porte della biblioteca universitaria, il prestito a casa, le sale riser­ vate dei gabinetti scientifici. Tra gli insegnanti della facoltà di giurisprudenza torinese molti erano, in quegli anni, quelli famosi, da Achille Loria a Luigi Einaudi e Francesco Ruffini, da Giovanni duroni a Vincenzo Manzini e Gioele Solari. Achille Loria era forse quello che spiccava di più: alto, con una grande barba biblica, era capace di parlare un’ora di seguito, dalla cattedra, senza fare il minimo gesto, senza che nemmeno gli trasalisse il volto, ripe­ tendo parola per parola quel che c’era nel testo stam­ pato. Con la stessa impassibilità teatrale presiedeva le

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riunioni del Gabinetto di studi economici Cognetti-De Martiis, che Togliatti frequentava e dove aveva già letto, nella prefazione al III volume del Capitale, come Federico Engels avesse trattato il Loria, e meritatamente, da ciarlatano. Il marxismo era stato dal Loria ridotto a volgarità grossolana. Tutto ciò che egli pro­ clamava come verità rivelata, con il tono del pro­ feta, era frutto di tale improntitudine mentale che Antonio Gramsci, allora, insieme con Togliatti, ne rideva. Più tardi Gramsci fece di lui, negli studi dei Quaderni del carcere, il modello della confusione, della disonestà e del disordine che distinguono tanti pretesi intellet­ tuali italiani. Gli altri insegnanti della Facoltà giuri­ dica torinese stavano più in alto assai, senza che nes­ suno, però, avesse animo e respiro tali da spingere a. una visione nuova, moderna del sapere e del mondo. Era invece questo che Togliatti, legato oramai a, Gramsci da amicizia e fraternità, andava cercando. Anche la cultura italiana attraversava un periodo di profonda crisi, riflesso delle contraddizioni che ma­ turavano nelle cose, nella economia e nella politica.. Era in pieno sviluppo la reazione alla cultura posi­ tivistica degli ultimi decenni del secolo precedente, ma il nuovo o non c’era ancora o non poteva soddisfarò. « La nuova interpretazione idealistica della dialettica hegeliana — ricorderà Togliatti più tardi — aveva soddisfatto, sì, molte esigenze, allargato e arricchito l’orizzonte intellettuale, liberato il campo da molti pro­ vincialismi e banalità. Essa aveva però sollevato, senza risolverli, gravissimi problemi. Molte strade nuove sembravano essersi aperte alle ricerche e alla specula-

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zione ; ma la guida, a chi volesse seguirle con coerenza, veniva meno, come se, sciolto l’ormeggio della super­ ficialità e dei dilettantismi positivistici, si fosse per­ duta ogni sorta di controllo sopra gli sviluppi possibili... Pullulavano intanto le più varie e aberranti correnti intellettuali, ciascuna delle quali, pretendendo di muo­ vere dall’unica fonte idealistica, derivava da quella fonte un differente contenuto, ma infine arrivava a conseguenze non accettabili a cervelli sani. Si giungeva per questa via allo esasperato individualismo anarchico ed estetizzante; al nazionalismo, al culto della persona superiore non soltanto all’essere sociale ma persino al comune essere umano; alla esaltazione della volontà per la volontà; alla predicazione della violenza per la violenza, il tutto ricoperto di brillante vernice estetica e filosofica »1. Quali erano i riflessi di questa situazione nella Uni­ versità di Torino? È ancora Togliatti che risponde: «Di questa situazione singolare del mondo della cultura non poteva non aversi un riflesso anche qui, nell’Università di Torino. Le tradizioni delle scuole po­ sitivistiche si spegnevano. I positivisti, cui mancava ancora l’animo di aderire apertamente alle nuove cor­ renti, si dichiaravano però almeno kantiani o neokan­ tiani. Era un primo passo, non so se fatto in avanti o all’indietro. Annibaie Pastore, con il suo sistema pan­ logistico, amava collocarsi, in un suo modo originale, sulla linea dei nuovi sviluppi, e più in là. 1 P a l m ir o T o g l ia t t i ,

Gramsci,

Milano Sera editrice, 1949.

pagg.

105-106,

Milano,

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« Con tutto ciò, l’Università di Torino era allora, ben me ne ricordo, una grande scuola. Grande era l’opera di orientamento e educazione dei giovani che qui si faceva in quegli anni e io con commozione rievoco i maestri ai quali Gramsci venne, ch’egli seguì, che orientarono il suo pensiero, spronarono la sua volontà. « S’era appena spenta la voce, per i giovani piena di fascino forse per gli stessi accenti di dolore che la penetravano, di un grande letterato e poeta: Arturo Graf. « Stava per chiudersi la carriera di quel colosso della ricerca filologica che fu Rodolfo Renier, educatore di generazioni di giovani allo scrupolo, all’esattezza, alla precisione dell’indagine e della esposizione, e quindi alla sincerità e alla serietà morale. Ettore Stampini diffondeva la luce d’un classicismo un po’ chiuso in sè, quasi scontroso, geloso di sè stesso. « Ma nelle lezioni dantesche di Umberto Cosmo, che proprio in quegli anni ricevette e tenne per incarico la cattedra di lettere italiane, attraverso il De Sanctis già faceva ritorno, nella sua forma idealistica, la dialettica di Hegel. « Soprattutto ricordo un’aula a pianterreno, a sini­ stra del cortile, entrando, dove ci trovavamo sempre tutti, giovani di Facoltà diverse e di diverso animo, uniti dalla comune inquietudine nella ricerca del nostro cammino. Ivi un grande spirito, Arturo Farinelli, leg­ geva e commentava i classici del romanticismo tedesco. Vi era qualcosa di vulcanico nelle sue lezioni, per quel suo indugiare con voce quasi spenta nell’indagine let­ teraria, da cui però esplodeva a tratti, come una fiamma,

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il suo spirito animatore. Volgeva egli allora il capo verso la finestra, alla sinistra, e alla luce che ne scendeva, e il riso, e le ciocche ricciute che circondavano la fronte davano a quella testa un aspetto strano, come di crea­ tura non so se angelica o diabolica che ci mostrasse la strada. « Era una morale nuova, quella che egli ci inculcava, di cui era legge suprema la sincerità sino all’ultimo con noi stessi, il rifiuto delle convenzioni, l’abnegazione alla causa cui si è consacrata la propria esistenza. Spettava a Gramsci, all’allievo, tener fede a questa morale. «Ma io incontravo Gramsci anche in altre lezioni : lo incontravo dappertutto, si può dire, dove vi era un professore il quale ci illuminasse su una serie di pro­ blemi essenziali... Ricordo che nel corso, oramai cele­ bre, nel quale Francesco Ruffini elaborò quella nuova concezione dei rapporti tra Chiesa e Stato, che poi (scusate la mancanza di modestia di questo richiamo) è stata concentrata da me stesso in una espressione ch’è entrata nella nuova Costituzione repubblicana, Antonio Gramsci era presente, attento, nell’aula »x. Un desiderio di ricerca impetuosa li spingeva, e non con animo da dilettante, ma per un bisogno di unità di sapere, verso tutti i campi dello studio. To­ gliatti frequentò per due anni dei corsi di clinica psi­ chiatrica e ancora nel 1950 stupì il professor Cerletti sapendogli dire come si chiamano i riflessi nervosi del piede dell’uomo sano. Tra la massa degli studenti, 1 P a l m ir o T o g l ia t t i ,

Gramsci,

pagg.

108-111,

Milano,

Milano Sera editrice, 1949.

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occupati solo del loro trantran, di divertirsi e degli esami a fin d’anno, erano ligure strane, diverse dal comune. Era continuo, tra di loro, il dibattito, in colloqui inter­ minabili, in casa e per le strade, perchè anche Gramsci era un camminatore che non si stancava mai. Ma i temi della discussione erano di un tipo particolare. Nulla di problemi religiosi, dubbi o angosce di questa natura. Se qualcuno cercava di portarli su questo terreno, lo guardavano come un perdigiorno. Nulla, egualmente, di quel fantasticare attorno alle forme possibili di orga­ nizzazione di una società futura e giusta, nel quale spesso si perdono i neofiti del socialismo. Continua, assillante, invece, la ricerca attorno alla vita economica e sociale italiana, nelle sue manifestazioni concrete del momento e in quelle del passato, di cui bisognava ren­ dersi ragione in modo nuovo, perchè tanto la scienza tradizionale quanto le nuove correnti del pensiero idea­ listico o eludevano le questioni oppure davano risposte false, da respingersi. La scienza e la storia ufficiali erano così sottoposte a un fuoco continuo e alla fine risultava ben chiaro che esse nascondevano o travisavano la veri­ tà, perchè avevano interessi o posizioni sociali egemo­ niche da difendere. Gramsci era in questa ricerca, già allora, un maestro. Aveva una visione diretta, precisa, della vita del popolo e delle sue manifestazioni più diverse. Nella massa dei fatti sapeva cogliere di colpo quelli tipici, dove più era evidente la deformazione provocata dai fattori di classe, dalla prepotenza dei' gruppi dominanti, dalle forme di organizzazione ed esercizio del potere da un lato, del lavoro degli uomini dall’altro. La vita sociale

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e nazionale, il costume, le leggi, l’animo stesso degli uomini diventavano così, nella sua conversazione e ana­ lisi, cose vive e concrete, in movimento continuo, e molla del movimento erano forze reali, che si potevano e dovevano studiare e controllare, erano le condizioni di vita e di lavoro del popolo, e i processi di coscienza e di volontà che ne derivavano e spingevano le masse popolari alla ricerca di una vita migliore. Gramsci « era molto più avanzato di me, — dice Togliatti, —- per la cultura, l’esperienza intellettuale, l’esperienza politica e fu la sua guida che allora mi orientò. A Cagliari, negli anni del liceo, era già stato in contatto con la Camera del lavoro e la Sezione so­ cialista locali. Ne aveva conosciuto i dirigenti, seguito l'attività. Erano i tempi giolittiani e la Sardegna era una tipica regione “ meridionale” . Delle libertà che oggi ci siamo conquistate e in parte già allora esistevano nel Settentrione, si aveva laggiù una nozione assai sbiadita. L ’arbitrio dei funzionari della polizia contro il movimento operaio e socialista non aveva limiti e Gramsci ne era stato colpito profondamente, avendo assistito tanto a lotte economiche quanto a competi­ zioni elettorali nel corso delle quali, di fatto, veniva meno qualsiasi garanzia della libertà dei cittadini, qualsiasi rispetto della legge da parte dei rappresen­ tanti di essa. Gramsci -— ce ne dànno la prova alcuni suoi compiti di scuola che siamo riusciti a ricuperare — aveva assimilato sin dai primi anni gli elementi pro­ gressivi dell’ideologia democratica, quel poco di rivo­ luzionario che vi era nella tradizione nazionale del Risorgimento e ne era stato spinto a una critica prò-

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fonda, radicale, dei rapporti sociali e politici che vedeva attorno a sè. Quando io lo conobbi, questa critica era già uscita dallo stato della ribellione sentimentale, aveva già assunto quella sua concretezza caratteristica, che in seguito doveva manifestarsi in modo così ori­ ginale. La conversazione con lui era, senza dubbio, elaborazione di un pensiero socialista, ma al centro di questo pensiero non stava tanto la discussione delle relazioni che in generale si stabiliscono tra capitale e la­ voro e delle leggi che le reggono, quanto un’indagine concreta che partiva proprio dalla Sardegna per appro­ dare alle analisi della costruzione economica della so­ cietà italiana e dello Stato italiano, dei precisi rapporti di dominio, di oppressione e di collaborazione che esi­ stevano, in questo quadro nazionale, tra i diversi gruppi economici, sociali, regionali »1. La prima ricerca che Togliatti condusse, secondo questa guida, fu su una questione tipicamente italiana, sul perchè di alcune condizioni di arretratezza della Sardegna. D’accordo con Gramsci, ricercò le statistiche della criminalità nell’isola, tracciando un diagramma per i diversi reati, fissando poi le date principali che stabilivano le jtappe dell’affermazione del capitalismo importato dal qontinente e dell’assoggettamento di tutta l’economia sarda alle necessità del capitalismo italiano, con le nuove tajriffe doganali, con la conseguente rovina dell’azienda agricola locale. «Il risultato fu impressio­ nante, — ricorda Togliatti. — Proprio quei reati che 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Gramsci sardo, nel Ponte, p a g g . 1085-

1086, n. 9-10, settem b re-o tto b re 1951.

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l’opinione corrente considerava manifestazioni di una fatale arretratezza del costume, erano in pauroso aumen­ to con lo sviluppo dello sfruttamento capitalistico della Sardegna. Responsabile era dunque la forma eco­ nomica “ più avanzata ! ” Responsabile era il modo come era organizzata, non a profitto della Sardegna ma di altri, l’economia sarda nel quadro nazionale. La data dell’introduzione delle nuove tariffe doganali segnava un punto decisivo »1. Era evidente, in questo orientamento di lavoro, la influenza della critica alla quale alcuni liberali e demo­ cratici radicali, e alcuni socialisti indipendenti, stavano allora sottoponendo i tradizionali indirizzi politici del socialismo italiano e degli altri movimenti di sinistra. Si respingevano le vecchie declamazioni retoriche, le invocazioni vuote della libertà e della giustizia, si ten­ deva a mettere a nudo che la pratica politica del socia­ lismo era diventata opportunismo, collaborazione lar­ vata e anche aperta con quei governi della borghesia che si reggevano sopra' stridenti contrasti sociali e mantenevano più di metà dell’Italia in condizioni di arretratezza e miseria spaventose. Il collaborazioni­ smo dei parlamentari socialisti diventava correspdnsabile di, questa situazione. È certo che: in questa cri­ tica era implicita una spinta rivoluzionaria; ma demo­ cratici radicali e socialisti indipendenti ben si guar­ davano dal renderla esplicita. Si accontentavano del frammento, non andavano più in là del tono dottorale. 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Gramsci sardo, nel Ponte, p ag. 1087, n. 9-10, settem b re-o tto b re 1951.

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Non era facile salire da quella critica concreta a una visione generale di un grande movimento rinnovatore, perchè la stessa cultura socialista, che era sempre stata in Italia di un livello assai basso, era allora in crisi. La prima conclusione cui si arrivava era che la società italiana era minata da contraddizioni oggettive tali che dovevano inesorabilmente condurre a scoppi rivolu­ zionari che travolgessero il vecchio e aprissero la strada al nuovo. Era anche chiaro che nelle fabbriche del Nord si era accumulata una forza rivoluzionaria attiva, quella degli operai, e che questa doveva essere alla testa del rivolgimento. Così si giungeva al socialismo, è vero; e Gramsci e Togliatti socialisti si ritenevano sin dai primissimi tempi del loro incontro. Ma poi sorgeva una folla di questioni, cui bisognava dare risposta, e le guide, nel movimento socialista stesso, mancavano. « Scienza e filosofìa del socialismo e dei socialisti italiani era stato... il positivismo, e in quel piatto letto di Procuste ci si era sforzati di adagiare e contenere, loro malgrado, la robusta personalità di Carlo Marx e la sua dialettica di stampo hegeliano. Dov’esse recal­ citravano e ribellavansi, correva ai ripari la superfi­ cialità degli interpreti pseudoscientifici. Veniva in soc­ corso il sociologismo più banale, uno spencerismo senza sale; quando pure non si faceva ricorso alle varie psi­ cologie sperimentali e criminologie più 0 meno scien­ tifiche applicate alla comprensione dei fatti politici e sociali e delle cosiddette loro cause. « Il crollo della filosofia positivistica, avvenuto nel momento in cui i gruppi dirigenti della società italiana, sentendosi economicamente più forti, acquistavano

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anche più chiara coscienza della loro funzione egemonica, e con maggiore accortezza e audacia esercitavano questa funzione in tutti i campi, aprì un vuoto nel movimento socialista, segnò un innegabile distacco da esso delle prevalenti correnti del pensiero. « Vi fu chi volle intendere questo fatto come la fine del marxismo e persino dello stesso socialismo tra di noi, e ancora oggi non sembra essersi convinto di aver commesso, in quella valutazione, un grave errore storico. L'errore derivava dal non aver saputo cogliere assieme tutto il processo delle cose. In quel momento stesso, infatti, l’organizzazione e il movimento dei lavoratori, lungi dall’arrestarsi o deviare dalla coscien­ za dei loro obiettivi, progredivano, anche se privi di guide ideali sicure »x. Tanto per Gramsci quanto per Togliatti l’abbandono del positivismo fu presto cosa definitiva. Mentre si sentivano ed erano socialisti, provavano però anche un senso di disagio verso la maggior parte dei più noti dirigenti socialisti d’allora, che per lo più erano avvocati penalisti famosi, grandi oratori di piazza, ma anche quando si atteggiavano a rivoluzionari rivela­ vano un vuoto spaventoso del pensiero e incapacità di azione pratica organizzata e continua. Anche il gruppo che stava attorno alla Critica sociale di Turati e Treves, sebbene comprendesse qualche persona più seria, era oramai alla fine del suo latino. Aveva avuto una parte importante, decisiva, nel dirigere la lotta dei lavoratori1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i ,

Gramsci,

Milano Sera editrice, 1949.

pagg.

103-105, Milano*

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socialisti per la difesa e la estensione delle libertà democratiche, ma non aveva nemmeno cercato di ca­ pire che cosa potesse essere, in Italia, una lotta con-, creta per il socialismo. Una nuova corrente, che si diceva rivoluzionaria, si era formata nella lotta contro questo gruppo e aveva conquistato l’adesione delle masse avanzate e giovani; ma che cosa poteva essa dare di profondo e di coerente, se il suo esponente principale era proprio Benito Mussolini? Solo punto di riferimento sicuro rimaneva Antonio Labriola, e i suoi testi di spiegazione e approfondi­ mento del marxismo, lo scritto In memoria del Manifesto dei comunisti, i Saggi intorno alla concezione materia­ listica della storia e Discorrendo di socialismo e di filo­ sofia erano letti, riletti, studiati, commentati. Questo ritorno continuo al pensiero così vivace di Antonio Labriola serve anche a intendere meglio come si mani­ festasse, in Togliatti come anche in Gramsci, negli anni universitari soprattutto, la influenza del movimento di rinascita filosofica che, in lotta contro il positivismo, era stato promosso da Benedetto Croce, prendendo le mosse da una interpretazione idealistica della dialettica hegeliana. Questa influenza fu grande per la parte negativa, cioè per la critica distruttiva dei vecchiumi della cultura tradizionale borghese, e grande anche per la spinta allo studio diretto di Hegel. Togliatti ricorda i sunti della Grande Enciclopedia e la traduzione, che egli fece di centocinquanta pagine della Fenomenologia come uno dei lavori più profìcui, anche se duri. Il tede­ sco lo aveva imparato da sè, come l’inglese e lo spagnuolo, tra il liceo e i primi anni di Università, per leg-

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gere i classici. Nel Capitale di Carlo Marx la dialettica hegeliana assumeva [ben altro aspetto che nelle vacue esercitazioni verbali dei neoidealisti. Letto alla luce di Hegel, Marx dava un insegnamento ben diverso da quello che avevano preteso trarne i ciarlatani alla Achille Loria, i riformisti della Critica sociale, i pasticcioni del sinda­ calismo. Infine, è da osservare che già verso il 1910 il movimento idealistico era arrivato a un punto di crisi. Da un lato si era aperta tra i suoi iniziatori una pole­ mica che non poteva non gettare una luce viva sulla incertezza stessa delle sue basi e sulla legittimità dei suoi sviluppi conseguenti. Dall’altro lato si presen­ tavano come filiazione idealistica, e si venivano molti­ plicando, le più strane correnti ideali e pratiche, tutte unite in una cosa sola, nel non volerne più sapere del­ l’esame concreto della realtà sociale per andare a finire tra le nebbie fumose della predica moralisti­ ca, della vana contemplazione estetica, del sogget­ tivismo. Per chi aveva la testa a posto, quello era l’antidoto che ci voleva, per rimanere saldamente legati alla robusta dottrina marxista e ad Antonio Labriola. La dottrina marxista, però, non soltanto doveva es­ sere ancora una volta compresa, assimilata, approfon­ dita, facendo tutto un lavoro che in Italia non era stato fatto, ma si doveva seriamente applicarla alla spiega­ zione dei fatti attuali e della vita nazionale e si doveva farne scaturire una linea di azione coerente per il movi­ mento socialista. Il compito appariva immane e sarebbe certo stato superiore alle forze e capacità di quei due gio­ vani, se questi non avessero trovato a Torino un’altra

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scuola, più efficace e valida di quella universitaria, la scuo­ la del movimento operaio concreto, come allora si svi­ luppava nella città. « Nel 1912, nel 1913, a certe ore del mattino, quando abbandonavamo l’aula e dal cortile uscivamo nei portici avviandoci verso il Po, ^incontravamo frotte di uomini diversi da noi, che pure seguivano quella strada. Tutta una folla si dirigeva verso il fiume e i parchi sulle sue rive, dove in quei tempi venivano confinati i comizi dei lavoratori in sciopero o in festa. E lì andavamo anche noi, accompagnandoci a questi uomini; sentivamo i loro discorsi; parlavamo con loro, ci interessavamo della loro lotta. Sembravano, a prima vista, diversi da noi studenti; sembrava un’altra umanità. Ma noti era un’altra umanità. Era, anzi, la umanità vera, fatta di esseri che vivono del proprio lavoro e che, lottando per modificare le condizioni di questo lavoro, modificano in pari tempo sè stessi e creano nuove condizioni per la loro esistenza e per tutta la società »1*. I grandi scioperi metallurgici furono due; il primo diretto dai sindacalisti e finito con la sconfitta, il se­ condo ripreso, un anno dopo, dai sindacalisti confedérali dopo attenta preparazione e culminato in una grande vittoria. Negli stessi mesi degli scioperi, tutta la città4 parlava di un processo per illecite speculazioni di borsa dove erano coinvolti alcuni dirigenti della Fiat. Era il Capitale di Carlo Marx insegnato attraverso la concreta lezione dei fatti : il grande imprenditore capi1 P a l m ir o T o g l ia t t i ,

Gramsci,

Milano Sera editrice, 1949.

pagg.

117-118,

Milano,

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talistico negava il salario agli operai e in pari tempo rastrellava e sperperava i risparmi dei piccoli borghesi. Fatto sta che quei grandi scioperi metallurgici con­ dussero a termine la svolta che da anni maturava nel movimento operaio torinese. Mentre, nel decennio pre­ cedente, questo era stato piuttosto orientato in senso ri­ formista, per la prevalenza dei lavoratori raccolti in pic­ cole e medie aziende, tipografìe, ecc., ora ne presero la direzione gli operai della grande industria concen­ trata : l’orientamento divenne rivoluzionario, ostile a qualsiasi compromesso con i borghesi che avevano portato il paese all’avventura coloniale e lo prepara­ vano alla guerra. Togliatti, con Gramsci, incominciò a frequentare le riunioni dei circoli, dei «fasci giovanili», come allora si chiamavano, e a partire dal 1914, che fu l’anno della sua iscrizione al Partito socialista, l’assemblea della sezione cittadina. Scoprì che tra i militanti socia­ listi, tra gli operai, tra i giovani lavoratori, si discuteva e si ragionava più e meglio che tra gli studenti d’Università. Le menti erano aperte, vivaci, tutti i temi della vita del Paese erano affrontati con spregiudica­ tezza. Quando le dimostrazioni ricavate dall’esame delle condizioni economiche e sociali venivano riconosciute vere, non si indietreggiava davanti alle conclusioni politiche. Si doveva combattere per migliorare le con­ dizioni di vita degli operai, per dimostrare che il popolo non voleva la guerra, per strappare il potere ai gruppi privilegiati? Ebbene, si sarebbe combattuto, si sarebbe fatto tutto il possibile per ordinare sempre meglio il lavoro, la lotta, gli scioperi, le manifestazioni di strada,

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la partecipazione alle elezioni. Quella era la coscienza nuova, il « carattere » di cui l’Italia aveva bisogno per rinnovarsi. Nei dibattiti all’Università, con la massa grigia degli studenti di origine borghese, a un certo punto, lo si sentiva, non era più la ricerca del vero e del giusto che prevaleva ma erano altre cose, di ordine inferiore : bisognava badare al « proprio » avvenire, alla carriera di Stato, che è preclusa a chi non pensa come la pensano le’autorità, al « posto » che attendeva. Solo in pochi, e tutti di condizione povera e in lotta con le difficoltà, si ritrovava lo slancio morale e la sincerità che erano negli operai. In Togliatti venne operandosi allora il distacco defi­ nitivo da quegli ambienti di piccola e media borghesia dove si era mossa, pure tra gli stenti, la sua famiglia. Egli entrava così in un’altra classe sociale. Alla fami­ glia stessa, che non poteva più comprendere il nuovo animo suo, divenne quasi estraneo, pur continuando a contribuire con tutto ciò che poteva a superare le difficoltà materiali. Nel movimento socialista, cui incominciavano a partecipare, Gramsci, Togliatti e alcuni altri giovani come Ottavio Pastore, Mario Montagnana, Angelo Tasca, Renato Martorelli e il giovanissimo Umberto Terracini, portarono però subito elementi nuovi che venivano dalla loro più elevata preparazione e dai loro studi. Fu dovuta ad essi la proposta che nel IV Collegio di Torino, in occasione delle elezioni suppletive, venisse posta la candidatura di Gaetano Salvemini per signi­ ficare che gli operai di Torino volevano con il loro voto dare ai lavoratori del Mezzogiorno quel rappresentante

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in Parlamento di cui erano stati privati dai brogli elet­ torali giolittiani. Maturava in questo modo il tema dell’alleanza tra operai del Nord e masse meridionali. Il Salvemini rifiutò, ma venne a Torino e tenne un comi­ zio in Piazza Statuto, dove Togliatti per la prima volta rischiò l’arresto e prese le botte dalla polizia. La lotta elettorale fu combattuta tra Bevione, araldo stipen­ diato dell’impresa libica e l’operaio Bonetto, che fu scon­ fìtto. Fu una lotta accanita, che lasciò tracce profonde, infiammò gli operai torinesi, dette loro una nuova coscienza della forza politica e della funzione nazionale della classe operaia. Si faceva la propaganda esponen­ do le condizioni di vita dei braccianti pugliesi e dei pastori sardi; si investiva così per la prima volta, in modo nuovo, tutta la questione delle strutture sociali italiane. Il nemico principale non poteva non essere il nazionalismo, che veniva denunciato non solo come la maschera dei « trivellatori della nazione », ma come fautore di una guerra più sanguinosa di quella libica. La lotta contro il nazionalismo venne portata anche nell’Università, dove Gramsci e Togliatti, pur essendo oramai noti a tutti come i «sovversivi », conservavano tuttavia un grande prestigio, perchè si conoscevano le loro qualità intellettuali. Ebbe luogo, in quel periodo, un contraddittorio tra studenti che terminò in modo tempestoso e di cui parlò tutta la città. All’Università stessa venne preparato un foglio satirico, che avrebbe dovuto chiamarsi « L ’Idiota Nazionale ». È interessante ricordare come su questo foglio la spietata polemica contro la ideologia nazionalistica si accompagnasse alla presa in giro delle correnti positivistiche persino nel

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campo della filologia. Gramsci aveva preparato uno scritto curiosissimo, dove si dimostrava, con una lunga e pedantesca esposizione condotta attraverso i secoli, secondo il modello della erudizione più inutile e stantia, che un chiodo arrugginito ch’egli portava in tasca era uno dei chiodi famosi che uscendo per forza loro dalle travi ove erano infissi avevano fatto colare a picco la nave Argo e causato la rovina degli Argonauti. Il foglio però non uscì, perchè sopravvennero i fatti della Settimana rossa e l’aria si caricò di fuoco. Togliatti vide cadere accanto a sè, all’angolo di via Roma e piazza Castello, un giovane anarchico in testa alla folla che manifestava e contro cui era stato dato l’or­ dine di sparare. L ’attività dei giovani socialisti si orien­ tava, tra difficoltà e persecuzioni, ma con commovente slancio, al lavoro fra i soldati e per questo Umberto Terracini subì la sua prima condanna. La catastrofe oramai incombeva. Gli studi universitari vennero condotti a termine nel 1915, quando già anche l’Italia era entrata in guerra. La tesi di laurea fu di economia politica, sul regime doganale delle colonie e fu approvata col mas­ simo dei voti. Tra le « tesine », che allora si dovevano presentare e discutere a voce, una sosteneva la incom­ patibilità tra la carica di deputato e quella di ammi­ nistratore e grande azionista di società anonime e aziende industriali i cui prodotti godessero di una pro­ tezione doganale. La tesi, allo stato della legislazione d’allora, era ardita e il contraddittorio venne soste­ nuto da Luigi Einaudi.

III.

La guerra non fu una parentesi, ma una esperienza. Prima dell’ intervento dell’ Italia vi fu anche nel movimento socialista torinese una discussione animata sul settimanale della sezione, che era il Grido del popolo, e in alcune assemblee. Gramsci scrisse un articolo, da lui fatto conoscere prima della pubblicazione a To­ gliatti, che lo condivideva, sostenendo che non biso­ gnava trascurare, nel giudizio sulla posizione dell'Italia, l’elemento nazionale. Si era però ancora nell’estate del 1914. Il tradimento di Mussolini contribuì a mettere in chiaro molte cose, e poco dopo l’ingresso dell’Italia in guerra a Gramsci venne affidata, con un voto della sezione, che era all’avanguardia nella lotta contro la guerra, la direzione del Grido del popolo. L’elemento nazionale, che certamente vi era stato e vi era, per l ’Italia, era diventato una piccola goccia di colore, che non poteva che scomparire del tutto nell’oceano del sanguinoso conflitto tra imperialisti, in cui i popoli venivano travolti contro la loro volontà. Togliatti, giudicato inabile alle prime visite, servì volontario in organizzazioni militari sanitarie, in ospe­ dali territoriali e in un ospedale da campo nella valle dell’Isonzo. Riconosciuto abile nel 1916, fu soldato nel 540 Reggimento di Fanteria e poi, dietro sua richiesta, nel 2° Reggimento Alpini. Da questo fu inviato, nel 1917, alla scuola allievi ufficiali di Caserta, dove compì il corso in cinque mesi ed ebbe tra gli insegnanti Luigi

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Russo, allora capitano e reduce dal fronte. Non crede però che il Russo se l’avrà a male se ora lascia dire che più che le sue lezioni, molto eloquenti e poi pub­ blicate in volume, lo interessò a Caserta il comando dell’esercitazione in ordine chiuso, che non serve asso­ lutamente a niente, dove aveva acquistato una grande abilità. Lo appassionò anche la visita, fatta da solo e con attenzione, nelle mezze giornate libere, ai luoghi della battaglia del Volturno, da Castel Morrone ai Ponti della Valle e alle falde del Tifata, con l’aiuto di libri di storia e memorie garibaldine. Nominato ufficiale, la nomina non ebbe effetto, però, perchè in questo ultimo periodo fu travagliato da fastidiose malattie polmonari, e passò dall’ uno all’altro ospedale militare, prima di essere lasciato libero con una lunga licenza, alla quale seguì il congedo. Nell’esercito non vi era, allora, nemmeno un embrio­ ne di organizzazione socialista o anche solo di collega­ mento fra gli iscritti, che nella massa dei soldati erano soli. Più che vero disfattismo, vi era tra i soldati un malcontento generale, insofferenza per la tragica du­ rezza del conflitto e una confusa ma profonda aspira­ zione a una giustizia e a una resa dei conti che dovevano venire. Gramsci ebbe durante tutti questi anni, per gli amici e compagni che si erano legati a |lui negli anni precedenti, una funzione preziosa. Rimasto a Torino come direttore del settimanale e, dopo l’insurrezione tori­ nese del 1917, segretario della sezione socialista, era un punto di riferimento sicuro. Non gli si scriveva, ma nelle licenze, nei periodi di convalescenza, lo si ritrovava a Torino, al suo tavolo di lavoro e fonte di informa-



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zio ne nuova sulle grandi cose che stavano maturando. Giunsero così a conoscenza di Togliatti gli appelli della sinistra di Zimmerwald e di Kienthal e insieme con Gramsci i ncominciò a conoscere il pensiero e l’azio­ ne dei bolscevichi russi. Le prime informazioni sulla personalità di Lenin vennero da lui tradotte da riviste di sinistra inglesi e svizzere e da una rivista ameri­ cana, il Liberator, che pubblicava, oltre a una ricca informazione sul movimento operaio di tutto il mondo, alcuni tra i più bei disegni di propaganda politica del tempo, dovuti alla matita di Robert Minor, il comu­ nista americano morto di recente. Romain Rolland, che era stato particolarmente per Togliatti (lettore assiduo dei Cahiers de la Quinzaine) uno dei maestri degli anni universitari, levava una voce nuova al di sopra della mischia. Il nome di Carlo Liebknecht diventava popolare. Furono quindi due, tre anni di più estesa conoscenza degli uomini, di riflessione e approfondimento, nella incertezza del futuro. Presa la laurea in legge, Togliatti volle iscriversi alla facoltà di filosofia e nelle brevi permanenze a Torino e dopo il congedo dette anche una serie di esami, quasi tutti quelli richiesti. Nelle peregrinazioni da una parte all’altra d’Italia aveva nello zaino, col terzo volume del Capitale, ’Ethica di Spinoza e i Dialoghi di Giordano Bruno. Finiti gli impegni militari, trovò da guadagnare qualcosa insegnando scienze economiche e giuridiche in un liceo privato, ma lo fece senza passione, perchè si era oramai nel 1918 e impellente era il bisogno di passare a un’attività concreta, coerente con l’orientamento del pensiero. I

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colleghi d’Università, ritrovati dopo le varie vicende della guerra, erano tutti presi dalla ricerca della loro via d’uscita personale, verso l’impiego stabile, verso la carriera sicura. Togliatti sentì ancora una volta e con più forza il distacco da quel mondo. Per lui la via era oramai tracciata, e in un’altra'direzione.

IV.

Da quel momento è finito per sempre lo studio acca­ demico. La visione del mondo che la vita ha suggerito e che è stata approfondita nello studio, esige che l’azione e la lotta abbiano il sopravvento. Togliatti non se ne dorrà mai, perchè questo corrisponde alla nozione stes­ sa che egli ha della ricerca intellettuale e della cultura. Queste cose non hanno pieno valore se manca il lega­ me con la pratica rivoluzionaria. Solo per scherzo, e per indispettire i compagni, dirà talora che qualche mese di carcere non gli andrebbe male, anche adesso, per rinnovare la conoscenza della lingua greca. La si­ tuazione stessa esigeva, nel 1918, un impegno di azione. Questo si ebbe, e nelle prime file della vita nazionale, con la fondazione del settimanale Ordine Nuovo. 'L’ Ordine Nuovo uscì a Torino il Primo maggio del 1919. Quindici giorni prima, a Milano, la sede delYAvanti ! era stata devastata e incendiata da una squa­ dra di fascisti: l’assalto aveva seguito di pochi giorni la conclusione a Genova di un accordo tra le organiz­ zazioni industriali e l’organizzazione agraria, per for­ mare una alleanza contro la « marea rossa ». Il movi­ mento operaio e socialista era entrato in un periodo di ascesa impetuosa, nonostante continuasse a esistere una pesante bardatura reazionaria, funzionàsse ancora la censura preventiva sulla stampa e il regime nel quale ci si muoveva fosse ancora, prevalentemente e in par­ ticolare per le organizzazioni socialiste che erano state

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contrarie alla guerra, un regime di arbitrio e di polizia. Nel mese di marzo, la resistenza del padronato indu­ striale era stata piegata: mezzo milione di operai metallurgici aveva ottenuto il riconoscimento della giornata di otto ore. La vittoria coronava una lotta durata trent'anni! Si succedevano ed estendevano, quasi di giorno in giorno, le agitazioni e gli scioperi, fabbrica per fabbrica, categoria per categoria. I pro­ blemi che si ponevano erano però infinitamente supe­ riori, per il loro peso, alle rivendicazioni di qualsiasi categoria. Tutti avevano qualcosa da rivendicare, ma tutti sentivano, allo stesso tempo, che era l’ordinamento complessivo della società italiana, che doveva essere radicalmente cambiato. Se ne era parlato, durante la guerra, e le critiche e le promesse più radicali erano state fatte proprio dagli « interventisti » e guerrafon­ dai più sfacciati, del tipo di Mussolini. .Si era promessa ai contadini la terra e a tutti gli altri la fine delle pre­ potenze e delle ingiustizie, l’avvento del mondo del lavoro. I liberali moderati, come Giolitti, se lapren de­ vano anche con la monarchia. Da tutte le parti, quindi, si diffondeva in tutta la società e in particolare tra i lavoratori e in quel ceto medio di cui la guerra aveva distrutto le radici economiche tradizionali, l’attesa quasi messianica di un rivolgimento rinnovatore. Per gli operai, le cose erano chiare: l’esempio era stato dato dalla classe operaia e dai contadini russi, che ave­ vano preso il potere e gettato le fondamenta di un nuovo Stato. Si doveva seguire quell’esempio, si doveva battere quella strada, sulla quale si stavano mettendo gli operai tedeschi, ungheresi, austriaci, di tutta l’Eu­ ;

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ropa. Accettando senza riserve questo indirizzo, il Par­ tito socialista italiano aveva aderito, nel marzo 1919, alla i l i Internazionale comunista, fondata a Mosca, nello stesso mese, per iniziativa di Lenin. Il nome di Lenin era diventato in tutto il paese il più popolare, il più amato. Nella propaganda e nella pratica, però, l’attività dei socialisti era tale che lasciava molto perplessi circa le possibilità future. La terminologia era diventata radi­ cale; violentissimi, di tono quasi apocalittico, erano gli scritti e i discorsi di tutti i dirigenti, anche della estrema destra, di Claudio Treves, di Matteotti. Le masse già conquistate al socialismo ne erano contente, esaltate. Ma verso che cosa il partito socialista pensava di diri­ gerle, di portarle, e in qual modo? I sindacati e le Camere del lavoro continuavano a essere per lo più in mano dei riformisti, abituati al tacito o palese ac­ cordo con le autorità, col governo. Costoro erano con­ tenti che si facesse sciopero, che si gridasse forte. Questo rendeva più facile strappare qualche conquista. Se si fosse trattato, però, di un’azione davvero rivo­ luzionaria per prendere il potere, sarebbero certamen­ te stati dall’ altra parte. Ma comprendeva la dire­ zione socialista che il compito vero stava nel riuscire a dare una direzione nuova a masse sterminate di po­ polo, compreso il ceto medio? stava nel mettersi alla testa di un moto che fosse davvero nazionale, che avesse in sè la capacità di riordinare tutta la società italiana sopra nuove basi? Purtroppo, la direzione socialista non lo comprendeva, mentre era proprio questo che l ’Italia, allora, attendeva da essa.

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Questo fu il tema vero dell’Ordine Nuovo. Punti di partenza, erano, da un lato, l’esperienza rivoluziona­ ria della classe operaia torinese, dall’altro lato le lotte sempre più aspre del momento, il caos della vita nazionale, la necessità di far uscire da esso un nuovo ordinamento della società. Sola guida sicura era l’esperienza rivoluzionaria russa, era l’insegnamento di Lenin e dei bolscevichi. Già durante la guerra Gramsci aveva lavorato seria­ mente in questa direzione e si deve in parte al suo lavoro se nel 1917, in un grande comizio davanti alla Camera del lavoro, due messi del governo provvisorio di Kerenski erano stati accolti dal grido travolgente di « Viva Lenin ». Togliatti aveva poi preparato la traduzione e pubblicazione di tutto ciò che di serio si poteva avere per conoscere il pensiero e l’opera di Lenin. Su questa documentazione si organizzavano conferenze, riunioni di studio, conversazioni nei circoli rionali e nelle fabbriche. Anche le informazioni in apparenza più aride sulla vita economica dopo la rivoluzione, le cifre della produzione industriale, ecc. erano cercate con avidità. Si diffondeva così la certezza che la classe operaia era finalmente arrivata a quel momento in cui le spettava prendere nelle mani, concretamente, la direzione della società. Il socialismo diventava non soltanto cosa possibile e giustamente preveduta, ma cosa reale, già esistente nel mondo. Naturalmente, le cose non erano allora, all’inizio, nè semplici nè chiare. Chiarezza e precisione si con­ quistarono a poco a poco, sul campo della discussione, della polemica, della lotta, commettendo e correggendo

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degli errori, sopra una strada giusta. L ’idea motrice stessa dell’Ordine Nuovo, i Consigli di fabbrica, come organi embrionali di un potere operaio, tardò a farsi strada, fu ostacolata. In Gramsci era maturata già durante la guerra. In una delle soste di Togliatti a Torino gliene aveva parlato a lungo, incitandolo a raccogliere una documentazione sul movimento degli shop stewards in Inghilterra, a trovare qualche scritto dell’ americano De Leon. Nella situazione rivoluzio­ naria aperta dalla fine della guerra e dalla Rivolu­ zione russa, quella idea doveva però assumere tutto un nuovo contenuto, profondamente politico, che era però difficile far comprendere e accettare da chi non fosse stato capace di capire le cose nuove che- erano allora giunte a maturazione nel mondo intiero e nel nostro paese. Mentre prima la ricerca voleva mettere in luce come nella fabbrica tendessero a sorgere orga­ nismi rappresentat vi di tutta la maestranza di fronte al padrone, ora si trattava di scoprire le cellule origi­ narie di un nuovo ordinamento sociale e di un nuovo Stato, analoghe al Soviet russo. Gli inizi del settimanale furono incerti e dettero subito luogo a un dissidio con Angelo Tasca. Questi, racconta Felice Platone, era di fronte agli altri fonda­ tori dell’Ordine Nuovo (Gramsci, Togliatti, Terracini) il più introdotto nel partito, dove si sentiva e muoveva a maggior agio, senza grandi problemi da risolvere entro di sè, con un fondamentale seppure ancora velato opportunismo. « La sua presunzione di essere, grazie alla maggiore anzianità di partito e alle amicizie con i dirigenti delle organizzazioni operaie, non sol­

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tanto il mentore e l’iniziatore ma anche la guida poli­ tica degli altri tre, doveva però avere breve durata »h Tuttavia questa sua posizione influì in modo negativo, in un primo tempo, sull’indirizzo e contenuto del giornale. Una storia di questo inizio venne fatta dallo stesso Gramsci, nel corso della polemica con Tasca dell anno successivo. « Chi eravamo? Che rappresentavamo? Di quale parola nuova eravamo i portatori? Ahimè ! L ’uni­ co sentimento che ci unisse in quelle nostre riunioni era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci. senti­ vamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nella ardente vita di quei mesi dopo l’armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana. Ahimè! L ’unica parola nuova che fu pronunciata in quelle riunioni fu soffocata. Fu detto, da uno che era un tecnico: — Bisogna studiare l’organizzazione del­ la fabbrica come strumento di produzione... Fu detto, da un altro che si preoccupava dell’organizzazione degli uomini, della storia degli uomini, della psicologia della classe operaia: — Bisogna studiare ciò che avviene in mezzo alle masse operaie. Esiste in Italia, come isti­ tuzione della massa operaia, qualcosa che possa essere paragonato ai Soviet, che partecipi della sua natura? Qualcosa che ci autorizzi ad affermare: il Soviet è una forma universale, non è un istituto russo, solamente russo: il Soviet è la forma in cui, dappertutto ove1 1 F e l i c e P l a t o n e , «L ’Ordine Nuovo », in Trenta anni di vita

« lotte del P . C.

II Quaderno di Rinascita, 1952, pagg. 35-36.

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esistono proletari in lotta ,per conquistare l’autonomia industriale, la classe operaia manifesta questa volontà di emanciparsi; il Soviet è la forma di autogoverno delle masse operaie? Esiste un germe, una velleità, una timidezza di governo dei Soviet in Italia, a Torino? Quell’altro — che era stato impressionato da questa domanda rivoltagli a bruciapelo da un compagno po­ lacco : — Perchè non si è mai tenuto in Italia un con­ gresso delle Commissioni interne? — rispondeva, in quelle riunioni, alle sue stesse domande: Sì, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet: è la Commissione interna. Studiamo questa istituzione operaia, facciamo un’inchiesta, studiamo pure la fabbrica capitalistica, ma non come organizza­ zione della produzione materiale, chè dovremmo avere una cultura specializzata che non abbiamo; studiamo la fabbrica capitalistica come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come " terri­ torio nazionale ” dell’ autogoverno operaio. Quella pa­ rola era nuova. Essa fu respinta proprio dal compagno Tasca »1. Questi, dice ancora Gramsci, « voleva che non si iniziasse nessuna propaganda direttamente tra le masse operaie, egli voleva un accordo con i segretari delle federazioni e dei sindacati »12. La sua intenzione era insomma di mettere assieme una qualsiasi pubbli­ cazione di sedicente « cultura » socialista, che col crisma della direzione del partito e dei sindacati si diffondesse 1 A n t o n io G r a m s c i , II programma dell'Ordine Nuovo, Ordine Nuovo, A. II, n. 12, agosto 1920. 2 Idem.

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senza offendere nessuno e desse ai suoi redattori una esistenza tranquilla e un trampolino per la carriera politica. Dall’altra parte, vi era invece una nuova, po­ tente intuizione rivoluzionaria, che non si poteva però sviluppare senza l’urto coi quadri tradizionali del mo­ vimento. Nei primi numeri Tasca, che aveva trovato le sei­ mila lire per la stampa, aveva fatto il contratto con la tipografia e pubblicato il soffietto su\VAvanti !, dette al settimanale la sua impronta. Quale fu dunque il programma dell’Ordine Nuovo nei primi numeri? do­ manda ancora Gramsci. « Il programma fu l’assenza di un programma concreto... Ecco che cosa intendeva il compagno Tasca per “ cultura” : intendeva “ ricor­ dare” cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pen­ siero operaio; intendeva far conoscere alla classe ope­ raia italiana, che è così arretrata, che è così rozza e incolta, ricordare che Louis Blanc ha fatto dei pensa­ menti sull’organizzazione del lavoro, e che tali pensa­ menti hanno dato luogo a esperienze reali; ... “ ricor­ dare ” , con lo spirito di Michelet (o del buon Molinari) la Comune di Parigi, senza neppure 'subodorare che i ri­ lievi di Marx sul carattere “ industriale” della Comune era­ no serviti ai comunisti russi per comprendere il Soviet, per elaborare l’ idea del Soviet, per tracciare la linea d’azione del loro partito divenuto partito di governo »L C’è in questa critica aspra il disgusto da lungo tempo maturo in Gramsci e in Togliatti per la retorica e per il 1A

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r a m s c i,

I l Program m a d ell’ O rd in e N u o v o ,

O rdine N uovo, A. II, n. 12, agosto 1920.

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sentimentalismo superficiale; lo sdegno per i prodotti della produzione libresca; c’è in pari tempo, evidente, lo sforzo per adeguarsi all’insegnamento leninista. Tasca procedeva acchiappando farfalle. Disserta con frasi fatte sul « partito del ventre », che sarebbe quello socialista; raccoglie novelline lacrimose ornate da xilo­ grafìe « piene di buone intenzioni »; tratta il problema della casa con il tono di un compito riformista. Anche Piero'Gobetti ricorda questi «primi,mesi durante i quali l’Ordine Nuovo visse una vita esteriore e sterile», mentre «le sole cose vive erano alcune brillanti cronache'culturali in cui si rivelò il caustico ingegno di Paimiro Togliatti»1. Il riconoscimento del Gobetti, in questo caso, appare tanto più attendibile in quanto in una di queste cro­ nache era duramente criticato e attaccato proprio il settimanale Energie nove, che Gobetti, ancora studente universitario, allora dirigeva. L ’attacco investe tutto l’orientamento idealistico del settimanale e denuncia la superficialità di giudizi che ne derivava. Gobetti replicò, e questa volta, altrettanto duramente, lo rim­ beccò Gramsci. Fu questo l’inizio piuttosto burrascoso di un avvicinamento e di un dibattito che dovevano poi avere lunghi sviluppi. Profondamente onesto e aperto, pronto a riconoscere l’esistenza di valori intel­ lettuali e storici là dove essi veramente esistevano, Gobetti si strinse d’amicizia coi redattori dell’Ordine Nuovo. Quando questo divenne quotidiano, ne fu il critico teatrale, e raccolse poi le sue critiche in un volu­ 1 P ie r o G o b e t t i , La Rivoluzione liberal,

rino, Einaudi, 1948.

p ag .

119 , To­

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me di Frusta teatrale. La visione di Gramsci della fun­ zione della classe operaia nella storia d’Italia ebbe su di lui una influenza profonda. Le « cronache culturali » di Togliatti venivano pub­ blicate come Battaglia delle idee e danno la prova di un vastissimo orizzonte di cultura e grande sicurezza di giudizio, anche se il linguaggio non è sempre quello marxista. Nel primo numero è notevole una breve recensione di un libro di Agostino Lanzillo. Era questi un sindacalista « vociano », che sosteneva la tesi della « guerra come rivoluzione », come « superamento etico del socialismo » ecc. La recensione è uno dei primi scritti politici di Togliatti. Il problema della premi­ nenza dell’uomo, come fattore primario nella storia e nella rivoluzione, ne emerge netto: il tentativo di analizzare il fenomeno della guerra in un quadro non idealistico, ma già dichiaratamente sociale, appare feli­ cemente compiuto. « È proprio sicuro il Lanzillo — scrive Togliatti — che la guerra abbia provocato un “ gene­ rale risorgimento di virtù eroiche, capace di rinnovare il mondo?,, O non fu la guerra semplicemente il rove­ scio di quelle che erano le società democratiche preesi­ stenti: élites non troppo consapevoli del proprio com­ pito e dei propri scopi, gruppi affaristici, oh, questi sì ! molto consapevoli dei loro interessi immediati, e un popolo che andò al sacrifìcio con la stessa rassegnazione con cui il giorno prima affrontava le fatiche del lavoro quotidiano?... La guerra è finita, sui giornali dove non si registrano più notizie di fatti d’armi. Ma la guerra non fu solo un fatto d’armi: fu la passione esacerbata di milioni di uomini, l’amarezza, il risentimento degli



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individui ripresi dal turbine delle istintive passioni be­ stiali dormienti sotto la vernice di civiltà, fu la libertà compressa, la personalità negata; e fu pure lo sfrenarsi delle brame di ogni egoismo, nella speranza del bottino, nella visione del regno del benessere dischiuso dalla rapina e dalla distruzione. Tutte cose a cui non porrà fine neppure la firma di un trattato... Oh, la smania profetica di questi intellettuali che credono di poter segnare il corso della storia perchè hanno elaborato quattro non grandi idee! Sì, hanno letto molti libri; ma il contatto diretto con gli animi di chi vuole con­ cretamente qualcosa e qualcosa spera lo hanno perduto. Hanno perduto il senso della più semplice verità, quella per la quale v ’è ancora qualcuno che vive. Ma in cambio quanti schemi, quante parole! L ’eroismo, la violenza, il germanesimo, la latinità, la “ rivoluzione” , anche... Curioso, poi, che davanti a uomini in carne e ossa che stanno facendola, una rivoluzione, non sanno che rima­ sticare dei luoghi comuni. Gli è che quegli uomini lavorano e fanno qualcosa sul serio e delle formule non sanno che cosa fare. Nemmeno di quelle del sin­ dacalismo... »1. In altri numeri sono presi in esame gli scritti di guerra di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile e già è pre­ sente la critica sostanziale al concetto di storia come «storia della libertà». Se libertà vuol direjprogresso di umanità e di coscienza, oggi è classe liberatrice soltanto la classe operaia. 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , L a disfatta di A . Lanzillo, in Ordine Nuovo, A. I, n. i, I maggio 1919.

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Ma in questo modo non si poteva andare avanti, non ostante che Gramsci, nelle note sulla situazione interna e internazionale e nelle polemiche sul valore mondiale della Rivoluzione d'Ottobre, Togliatti in una « Vita operaia » in cui veniva allargata la cerchia dei collabo­ ratori, facessero continui sforzi per entrare nel vivo delle iniziative politiche. Allora, e qui è ancora Gramsci che riferisce, « ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale ; il problema delle Commissioni inter­ ne fu impostato esplicitamente nel numero 7 della rivista: qualche sera prima di scrivere l'articolo avevo sviluppato al compagno Terracini la linea dell’articolo e Terracini aveva espresso il suo pieno consenso come teoria e come pratica: l’articolo, per il consenso di Ter­ racini, con la collaborazione di Togliatti, fu pubblicato e successe quanto era stato da noi previsto. Fummo, io Togliatti e Terracini invitati a tenere conversazioni nei circoli educativi, nelle assemblee di fabbrica; fummo invitati dalle Commissioni interne a discutere in ristrette riunioni di fiduciari e collettori. Continuammo; il pro­ blema dello sviluppo della Commissione interna divenne problema centrale, divenne l ’idea dell’Ordine Nuovo. Esso era posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della “ libertà proletaria,,. \J Ordi­ ne Nuovo divenne... il giornale dei Consigli di fabbrica».1 Se si cerca di comprendere, ora, le ragioni di questo successo, per cui il movimento diretto da Gramsci, Togliatti, Terracini conquistò il posto più avanzato 1A ntonio G ramsci, I l P rog ra m m a d e ll’ O rd in e N u o v o , in O rdine N u o v o, A. II, n. 12, agosto 1920.

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sulla scena politica nazionale, una è quella che risulta dal settimanale stesso ed è il contatto diretto con gli operai torinesi, che erano il nucleo rivoluzionario più progredito di tutto il Paese. L ’altra — e su questa insiste oggi Togliatti, perchè contiene una preziosa indicazione politica permanente — è che la formula dei Consigli di fabbrica decifrava l’appello generale alla rivoluzione, lo rendeva accessibile a tutti i lavoratori, lo traduceva in un programma concreto di politica e di organizzazione immediata. A questo programma potevano collaborare ed erano chiamati a collaborare, partendo dal luogo stesso del loro lavoro, tutti i lavo­ ratori. Questo spiega anche perchè soltanto l’Ordine Nuovo riuscì a far comprendere a tutta la massa degli operai torinesi in che cosa consisteva la originalità e la importanza della Rivoluzione russa. Questa aveva aperto un nuovo periodo della storia del mondo perchè aveva gettato le basi di un nuovo Stato; la cosa più impor­ tante, però, era di far comprendere e sentire che la via battuta da Lenin e dai bolscevichi si apriva anche agli operai e al popolo italiano. Nel numero io, nella rubrica di apertura, Cronache dell’Ordine Nuovo, che di solito era redatta da Gramsci per fare il punto sulla vita del giornale, Togliatti trac­ cia un consuntivo dei primi due mesi del nuovo indi­ rizzo di lavoro. Siamo ai primordi dell’azione politica, i Consigli di fabbrica non nascono ancora, ma le fabbri­ che sono già in fermento per la nuova parola d’ordine. « Operai, coscienze portate al socialismo dal contatto diretto con la vita dell’officina, dove il bisogno del cambiamento completo, della rivoluzione, è sentito in

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forma vivente, ma dove è sentita pure, con la imperiosità di una legge, la necessità di una reale preparazione rivoluzionaria, compagni più di noi esperti delle lotte sociali e politiche del proletariato, sono nello stesso nostro ordine di idee, lavorano con noi. In a’cune offi­ cine le discussioni sulle funzioni e sulla costituzione delle Commissioni interne, prendono sempre maggiore impor­ tanza: si vuole entrare, si entra nel campo dell’azione, dell’applicazione pratica dei principi; il programma teorico diventa cosa vissuta, lo studioso di fatti sociali e l’operaio si trovano concordi nel giudizio, nelle aspi­ razioni, nei progetti : si lavora insieme ; insieme si impara e ci si corregge »1. Nello stesso numero, in un editoriale di Togliatti dal titolo Lo Stato del lavoro, è tracciato uno schema di ciò che dovrà essere il movimento dei lavoratori orga­ nizzati nelle officine. Già si vedeva, ed era inevitabile, la necessità che il movimento si spiegasse su scala na­ zionale. Dal rinnovamento delle strutture nell’ interno della fabbrica si doveva passare al rinnovamento delle strutture economiche dello Stato. La lotta non poteva essere, dunque, che lotta politica, e qui il giudizio di Gramsci era limpido, spietato. « La fase attuale della lotta di classe in Italia — scriveva — è la fase che precede : o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività ; o una tremenda reazione da Hnu.

1 P a l m ir o T

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C ron ache d e ll’ O rd in e N u o v o , in O r ­

d in e N u o v o , A. I, n. io. 19 luglio 1919.

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parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il pro­ letariato agricolo e industriale a un lavoro servile»1. Queste parole furono scritte all’inizio del 1920. Nessuno dei luminari della storia come “ storia della libertà,, ebbe mente capace di elevarsi a questa profondità e precisione di analisi storica. E non stanno ancora oggi battagliando nel buio, i professori idealisti, quando parlano del fascismo, perchè non vogliono o non sanno comprendere questa verità elementare? Putroppo non la compresero allora neanche tutti i dirigenti socialisti. La posizione dell’Ordine Nuovo appariva ancora inusitata e inaccettabile. « Pochi dei vecchi capi socialisti, — scrive Togliatti — compresero il movimento dei Consigli di fabbrica. Si accusò Gramsci, poiché egli si sforzava di concentrare l’attenzione degli operai non più sugli intrighi parlamentari, ma sui pro­ blemi della produzione e della fabbrica, di essere un sindacalista. Tutta la polemica di Gramsci invece era diretta contro il sindacalismo e tendeva a dimostrare che i sindacati di mestiere non sono gli organi di cui la classe operaia si possa servire per organizzare la lotta per il potere e costruire il proprio Stato. Lo si accusò di eludere, facendo dei Consigli di fabbrica l’asse della lotta per il potere, il problema del partito e della sua funzione dirigente. In realtà — aggiunge Togliatti — Gramsci comprendeva molto bene, sin dal 1917, che il Partito socialista italiano, nel quale spadroneggiavano 1 A n t o n io G r a m s c i , Per un rinnovamento del partito socialista, in Ordine Nuovo, A. II, n. 1, 8 maggio 1920.

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i riformisti, i centristi e i demagoghi impotenti, non era in grado di dirigere la lotta del proletariato italiano per il potere »L Si 'deve riconoscere, e tanto Gramsci quanto To­ gliatti lo riconobbero, che alcune loro formulazioni del 1919 erano difettose, perchè, superficialmente intese, potevano suscitare la impressione che si pensasse a un automatico sorgere di un nuovo Stato dalla nuova organizzazione di fabbrica. Nella sostanza, sin dal primo momento la creazione e lo sviluppo dei Consigli [di fabbrica vennero collegati con la creazione e lo sviluppo di una rete di organizzazioni politiche, i « gruppi comu­ nisti ». La sfera di azione di questi era, per la loro natura stessa, il partito socialista. Questo doveva essere rinno­ vato, diretto in modo nuovo, ma doveva restare l’organo propulsore di tutto il movimento. La lotta si trasportò quindi subito dalle fabbriche alle assemblee sindacali, dove dominavano ancora i riformisti e all’assemblea della sezione socialista cittadina, che doveva essere conquistata. Difetto più grave, tale che ebbe conseguenze molto dannose per tutti gli avvenimenti successivi, fu la po­ vertà dei collegamenti fuori Torino, con le masse ope­ raie e contadine del resto d’Italia, e con gli elementi della sinistra del partito socialista. Gli è che anche la conquista del movimento torinese non fu facile, richiese un’azione lunga e complicata, e per il legame concreto col resto d’Italia le forze non bastavano ancora. • [G P a l m ir o T o g l ia t t i , Gramsci, pagg. 43-44, Milano, Milano

Sera editrice, 1949.

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In una cronaca sul numero dell’ Ordine Nuovo del 20 settembre 1919, Gramsci stesso, chiedendo scusa per il ritardo dell’uscita del giornale, spiega l’ampiezza del compito che si stava assolvendo. « I ritardi, le man­ chevolezze, sono inerenti a questo sviluppo. Il lavoro da svolgere aumenta senza che ancora si sia riusciti a creare l’organizzazione di lavoro che sopperisca a tutte le necessità. Dalla carta stampata, dalla semplice esposizione scritta nel raccoglimento del tavolino le nostre tesi sull’organizzazione per officina passano nel mondo [reale obiettivo: le masse operaie vogliono di­ scuterle nelle loro assemblee, vogliono sentirle esposte a viva voce... Questa traduzione pratica dell’opera edu­ cativa che la rassegna svolge ci ha obbligati a un lavoro che ha turbato il corso normale della operosità reda­ zionale. Gli abbonati e i lettori non possono dolersene... ». Non se ne dolevano, perchè sapevano, vedevano co­ me si lavorava e partecipavano essi stessi al lavoro. Gramsci era redattore della edizione torinese dell 'Avanti ! che aveva cominciato a uscire, coi mezzi forniti da una sottoscrizione popolare, alla fine del 1918. Il re­ dattore capo era Ottavio Pastore e direttore, da Milano, Giacinto Menotti Serrati. Togliatti incominciò egli pure a lavorare per VAvanti] torinese, nei primi mesi del 1919. Faceva la cronaca, i tribunali, le assemblee sin­ dacali, e qualche volta, in sostituzione di Gramsci, i teatri. Verso la metà dell’anno fu assunto stabilmente

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come redattore, con un certo sollievo della famiglia nella quale continuava a vivere, pur essendo fuori di casa il mattino, il pomeriggio e la notte. La madre ne era inquieta, e stupì quando nello spaccio dell’Alleanza cooperativa, che frequentava per fare un poco di eco­ nomia, le parlarono del figlio come di uno che tutti gli operai conoscevano, a cui guardavano con interesse e affetto, come a uno dei loro. La sede dell ’Avanti \ e dell 'Ordine Nuovo era siste­ mata in uno strano edifìcio, all’interno di un grande cortile all’angolo tra Via X X Settembre e via Arcive­ scovado, nei pressi di un convento semideserto. Per giungere al giornale bisognava penetrare nel cortile, cui si giungeva da due porte, una su via Arcivescovado, .un’altra, la porta carraia, su via X X Settembre, dove ora è stata murata, a ricordo, una lapide. Nel centro del cortile, di fronte ad alcune rovine, sorgeva l'edifìcio dove avevano sede i giornali. La redazione era al primo piano, a destra: sulla sinistra l’amministrazione. La redazione era composta da due grandi cameroni, in cui lavoravano tutti i redattori e i cronisti, uno stanzino per la stenografa e uno dove stava Gramsci. Una stanza assurda era questa, piccolissima, con una scri­ vania messa di traverso e dappertutto, libri e giornali. La testa di Gramsci si vedeva appena, entrando, dietro ai cumuli di giornali e di carte. Per tre anni e mezzo, dal 1919 alla metà del 1922, in quella stanza visse il cervello del movimento operaio torinese. Lì Gramsci scrisse i suoi articoli, lì Togliatti passava ore della giornata a discutere. Alla sera venivano dalle fabbriche gli operai, davano informazioni, facevano rapporti,



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portavano i loro scritti, ponevano questioni e riceve­ vano consigli. Di lì e dalle due stanzette, all’ultimo piano della sede della Camera del Lavoro, in cui era la sede della segreteria della sezione socialista, Gramsci e Togliatti diressero le lotte operaie di Torino dell’apri­ le e del settembre 1920. Il lavoro fatto dal maggio in poi ebbe il primo frutto con la costituzione del primo Consiglio di fab­ brica alla Brevetti Fiat, nel. mese di settembre, con la partecipazione di tutti gli operai della fabbrica. Un mese dopo, in ottobre, a una riunione dei comitati esecutivi dei Consigli di fabbrica, erano presenti i dele­ gati di 15 fabbriche torinesi, rappresentanti 30 mila operai. Il movimento prendeva così l’avvio proprio nel periodo delle elezioni politiche, dove i socialisti ebbero una grande vittoria, raggiungendo, con un milione e 840 mila voti, il 32 per cento dei"votanti. Incomincia­ vano anche i contrasti e le lotte. Il primo novembre ebbe luogo l’assemblea generale dei metallurgici e fu approvato, a grande maggioranza, il principio della costituzione dei Consigli di fabbrica. Non mancarono però le riserve, espresse da operai e da organizzatorif sindacali, i quali avrebbero voluto che non partecipassero alla formazione del Consiglio” di fabbrica i lavoratori non organizzati. In questo modo ci si rinchiudeva nell’ambito del sindacato e il nuovo organo della lotta di classe perdeva la sua funzione politica. L ’accordo*venne trovato perchè nell’assemblea stessa Togliatti riuscì a rompere queste riserve e otte­ nere un’intesa anche con una parte di coloro che le avanzavano e che erano dei buoni operai rivoluzionari

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(Mario Montagnana, Carretto). Sull’Avanti \ però, pochi giorni dopo, Serrati prendeva posizione perchè i non organizzati fossero esclusi dalla elezione e formazione dei Consigli di fabbrica. La sua posizione era pericolosa, perchè derivava da tutto il complesso di soggezione ai dirigenti sindacali riformisti che in lui era così forte. Lo sviluppo del movimento dei Consigli, egli lo com­ prendeva, sarebbe stato la fine del predominio di que­ sti dirigenti. La questione venne discussa, il 6 novembre, in una grande assemblea di operai, tecnici e impiegati convocata nella sede dell’Associazione generale degli operai, e dopo una relazione di Gramsci e un dibattito vivacissimo, trionfò la tesi dell’Ordine Nuovo. Nel mese di dicembre, mentre a Roma i deputati socialisti non riuscivano ad altro che a cantare Bandiera rossa in faccia al re, e poi riprendere i soliti tornei di discorsi violenti, a Torino il problema dei Consigli era diventato fondamentale non solo per il partito, ma per tutti. Se ne discuteva nella sezione socialista, in un congresso straordinario delle Leghe, nei sindacati della provincia. Se ne occupavano anche gli industriali ed era da preve­ dere che lo scontro ci sarebbe stato, presto e decisivo. Ai primi di gennaio tutte le sezioni socialiste, per norma statutaria, dovevano rieleggere i loro organi diri­ genti. Anche a Torino si prepararono le elezioni, con la nomina di una commissione elettorale. Quando questa riferì e propose la solita lista di notabili di tutte le correnti, l’ Ordine [Nuovo dette battaglia. Ci voleva una direzione nuova, che fosse strettamente collegata agli operai delle fabbriche, che garantisse una guida rivoluzionaria. L ’attacco fu portato da Gramsci e da

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Togliatti, preventivamente accordatisi con il gruppo di estrema sinistra che già aveva nelle sue mani la direzione dei circoli rionali. Erano questi uno degli organi più vitali del movimento, perchè vi faceva capo la massa lavoratrice dei sobborghi, che viveva attorno alle fabbriche. La vittoria fu completa. Gramsci e Togliatti entrarono entrambi nel nuovo Comitato diret­ tivo e tutto il lavoro della sezione venne riveduto e riorganizzato con criteri nuovi e in legame strettissimo con il movimento delle fabbriche. Nazionalmente, un’analoga vittoria era ancora impossibile. Gramsci non era compreso. In una riunione tenuta durante la guerra, si era urtato con il capo della frazione estremista degli « astensionisti », Bordiga, per aver detto che la classe operaia, preso il potere, avrebbe dovuto organizzare anche una forza armata nazionale, per respingere gli attacchi della reazione e difendere il Paese. Lo avevano trattato da « militarista »! La stessa idea della nuova forma sovietica dello Stato veniva considerata in modo che rasentava il ridi­ colo. La direzione socialista, in una riunione nazionale e forse colpita dallo slancio del movimento torinese, aveva incaricato Nicola Bombacci di elaborare la questione. Questi, che oggi tutti sanno di quale sprege­ vole creta morale fosse, anche come intelligenza era poco al di sopra dello zero. Mise assieme un polpettone giuridico amministrativo, dove la sedicente struttura di un movimento sovietico era compressa negli assurdi paragrafi di una serie di articoli di legge. Vi erano i gradi supremi, quelli intermedi e quelli più bassi. Tutto era definito in termini curialeschi, in modo

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analogo a ciò che, per soffocare il movimento dei Consigli di fabbrica, era stato fatto dai socialdemo­ cratici tedeschi. L ’Ordine Nuovo prese subito posizione contro questo pasticcio. « Se per creare lo Stato dei lavoratori — scriveva — fosse sufficiente approvare il progetto letto a Firenze, davvero l’impresa sarebbe troppo a buon mercato ! »1. La critica fu poi sviluppata da Togliatti in modo radicale. « Prima di cambiare la forma dello Stato — scrive Togliatti — i borghesi ne avevano modi­ ficato la sostanza, avevano modificato la costituzione della comunità civile : poi pensarono alle “ Costituzioni” . Noi, secondo Bombacci, dovremmo fare la strada inversa, partire dal risultato prima di aver posto le premesse e le condizioni di esso ». E proseguiva : « Il Soviet, per noi, è, com’è stato il Parlamento per i regimi borghesi, un punto di arrivo, è la estrema impalcatura politica della società. Perchè essa si regga in piedi, per­ chè non precipiti miseramente al primo soffio, occorre che si appoggi sopra una costruzione solida... Le nostre critiche al progetto Bombacci si impernieranno quindi tutte intorno a un sol punto, intorno alla dimostra­ zione che, nonostante l’uso a ripetizione della parola " rivoluzione” e nonostante le frasi, le quali paiono accennare a una concezione marxistica del divenire sociale, il progetto non è né rivoluzionario nè marxista, è una esercitazione che non può avere altro valore che quello di una costruzione giuridica anticipata. Marx 1 U m b e r t o T e r r a c i n i , II Consiglio nazionale di Firenze, in Ordine Nuovo, A. I, n. 35, 24-31 febbraio 1920.

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ci aveva insegnato che il diritto non è che una soprastruttura, Bombacci si accontenta della soprastruttu­ ra;... la rivoluzione... diventa per lui una parola, un'om­ bra: gli organi rivoluzionari ch’egli vorrebbe creare sono l’ombra di un'ombra »1. La polemica, come si vede, era oramai senza scrupoli. Nel settimanale, nella edizione torinese dell’Avanti !, nel­ le discussioni della sezione e nelle riunioni dei circoli periferici, si precisava sul terreno politico, investiva la responsabilità di tutti i dirigenti del partito, anche di quelli di sinistra. Il partito, ammonisce Gramsci, « deve rinnovarsi se non vuole essere travolto e stritolato dagli avvenimenti incalzanti... deve essere sul serio una sezione della III Internazionale... Le masse organizzate devono diventare padrone dei loro organismi di lotta; devono " organizzarsi in classe dirigente „ , prima di tutto nei nostri propri istituti. Gli operai comunisti, i rivoluzionari consapevoli delle tremende responsa­ bilità del periodo attuale, devonc 'ssi rinnovare 1 partito, dargli una figura precisa e una direzione pre­ cisa: devono impedire che gli opportunisti piccolo bor­ ghesi lo riducano al livello dei tanti partiti del Paese di Pulcinella »2. Parole dure, ma che avevano tra gli operai un consenso assai più ampio di quanto non sem­ brasse. I fatti ne dovevano fornire la prova. Il movimento per le rivendicazioni economiche dei 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , L a costituzione dei Soviet in Italia, in Ordine Nuovo, A. I, n. 37, 14 febbraio 1920. 2 A n t o n io G r a m s c i , Rinnovare il partito, in Ordine Nuovo, A. I, n. 35, 24-31 gennaio 1920.

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lavoratori continuava, tumultuoso ma disordinato, senza che venisse alla luce nessun piano o proposito politico concreto di chi lo dirigeva. Nel mese di marzo si pro­ dusse un fatto nuovo. A Sestri Ponente alcune fabbriche metallurgiche entrarono in sciopero e i padroni dichia­ rarono la serrata. Allora le maestranze occuparono la stabilimento e vi rimasero, seguendo l’esempio dato, poco prima, dai tessili di Pont e di Torre Pellice. I dirigenti sindacali, che facevano capo alla Camera del lavoro sindacalista, favorirono l’occupazione per impe­ dire che la serrata avesse effetto, ma poi non fecero più nulla. Gli operai, lasciati soli, si mossero bene: scelsero un loro capo per ogni reparto e la riunione di questi capi dette origine a un vero e vivente Consiglio di fabbrica. Nelle fabbriche occupate (come già in quelle' tessili del Piemonte) si lavorò, ma mancando qualsiasi addestramento e inquadramento efficiente, non) si potè durare a lungo. I capi sindacalisti intanto trattavano in prefettura. Non riuscirono a ottenere che pochissimo e alla fine la polizia intervenne a sgombrare gli stabilimenti. L ’episodio sollevava questioni vitali per tutto il movimento \e soprattutto per il gruppo dell’Ordine Nuovo. Togliatti andò a Sestri, fece un’inchiesta, la pubbli­ cò e commentò ampiamente. Dirigeva l’attacco contro i capi sindacalisti, che avevano fatto questione di bottega; indi sottolineava la portata rivoluzionaria dell’atto compiuto dalle maestranze. In pari tempo metteva in guardia contro l’abuso della occupazione come pres­ sione sindacale. L ’occupazione è un fatto rivoluzionario, sostiene : la fabbrica ancora una volta si rivela come la

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posizione più forte per la conquista del potere. Ma la conquista del potere non può essere un fatto isolato, di una o più fabbriche. Deve assumere una forma poli­ tica, generale: per questo è necessaria l’azione del sin­ dacato e l’azione del partito. Ma « decenni di opportu­ nismo parlamentare e sindacale costituiscono un assai cattivo tirocinio, una pessima preparazione, un osta­ colo a intendere il nuovo problema della classe operaia nei suoi termini veri ». Bisogna quindi lottare per «la preparazione sistematica degli strumenti di con­ quista, che ha maggior valore dei tentativi apparen­ temente rivoluzionari »l. La critica è già quella che l’ Ordine Nuovo farà immediatamente prima e dopo l’ occupazione delle] fabbriche del settembre] 1920. Bisognava però, mentre si criticava, cercare di aprirsi in modo giusto la strada, e due settimane dopo, il 27 marzo, Togliatti scrisse per l’Ordine Nuovo un mani­ festo, rivolto agli operai e ai contadini di tutta Italia, per la preparazione del Congresso dei Consigli di fabbrica torinesi. Il problema della rottura della situazione con «il passaggio dalla fase di difesa alla fase di conquista » è veduto nei termini giusti: si tratta di promuovere un movimento nazionale, « una organizzazione nuova, antagonista diretta degli organi di governo dei padro­ ni ». Venti giorni prima, si noti, a Milano era stata fondata con gran pompa e con grandi rumori la Confe­ derazione degli industriali, supremo organismo « poli­ tico » degli industriali italiani. Il manifesto ne fa cenno : 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Rapporto sui fatti di Sestri, in Or­ dine Nuovo, A. I, n. 40, 13 marzo 1920.

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« I vostri padroni — dice — sono sull’avviso ; essi si stanno accordando per coordinare l’azione loro in modo da darvi battaglia regolare quando lo crederanno op­ portuno. Anche voi dovete ordinarvi allo stesso scopo, allo scopo di essere al momento supremo i più forti. L ’unità proletaria, invano cercata negli accordi tra i diversi organismi direttivi, tra i capi separati da contese personali, è pur necessaria alla vostra vittoria »J. Come si vede, partendo dalla esperienza dei Consi­ gli di fabbrica, si era giunti a una visione organica e completa della situazione e dei nuovi compiti. Ma non si poteva indugiare, logorarsi nell’attesa. « Bisognava fare, in fretta, — scriverà Togliatti in seguito. — Il problema del “ tempo ” diventava essenziale. E per fare in fretta occorreva non “ rinviare ” la lotta per il potere a una fase ulteriore e, intanto, provvedere al­ l’organizzazione di un nuovo partito rivoluzionario; ma occorreva risolvere nello stesso tempo il problema del partito, cioè della direzione politica di tutto il movimento »2. 1 I dirigenti socialisti, presi in una sterile controversia coi deputati e con gli organizzatori sindacali riformisti, non riuscivano a vedere le cose in questo modo. « I massimalisti di sinistra — scrive Togliatti — che a un certo punto ebbero nelle mani la direzione del partito socialista, fallirono invece nel loro compito. Accanto 1 P a l m i r o T o g l i a t t i , A gli operai e contadini di tutta Italia, in Ordine Nuovo, A. I, n. 42, 27 marzo 1920. 2 P a l m i r o T o g l i a t t i , Gramsci, pagg. 44-45, Milano, Milano Sera editrice, 1949.

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a uomini onestissimi e sinceri, ma non energici, come Egidio Gennari e molti altri; vi erano tra di loro anche dei volgari buffoni, come Nicola Bombacci, per esempio. A tutto questo gruppo mancò il coraggio politico, probabilmente per la deleteria influenza del sacro rispetto che Giacinto Menotti Serrati nutriva per le cosiddette “ capacità ” dei riformisti »1. Gramsci sottopose il piano di allargamento dei Consigli di fabbrica con intenti rivoluzionari ad Amadeo Bordiga, il capo degli astensionisti, « che si chiamavano così perchè credevano fosse molto rivoluzionario non partecipare alle elezioni ». Costoro « erano i soli che, al di fuori dell’apparato ufficiale del partito, disponessero di una rete nazionale di collegamenti di frazione. Essi capivano poco, però, di politica e, non ostante le frasi, rifuggivano dalla direzione di un vero movimento di massa. Quando Antonio Gramsci, nella primavera del 1920, a un loro convegno a Firenze propose loro un accordo preciso per scatenare e dirigere questo movi­ mento, lo considerarono quasi come un avventuriero. Prima bisognava aver fatto ed educato il partito, — poi — , si sarebbe visto. Il tempo non contava più ! La pedanteria estremista finiva, come sempre, nell’oppor­ tunismo »2. Il movimento sopravvenne egualmente, inevitabile, irresistibile e scosse tutta l’Italia. L ’inizio sembrò 1 P a l m i r o T o g l i a t t i , L a costituzione del partito comunista, in Trenta anni di vita e lotte del P . C, T I l Quaderno di Rina­ scita, 1952, pag. 28. 2 Idem, pag. 28.

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insignificante. In una fabbrica di Torino, gli operai erano contrari al passaggio dall’ora solare all’ora legale, sia per le ripercussioni che questo aveva sull’orario di lavoro, sia per le polemiche che vi erano state sull’argomento. Il passaggio era stato denunciato come misura atta ad accrescere il profitto degli industriali elettrici. Il Consiglio di fabbrica spostò le lancette dell’orologio della fabbrica, riportandole all’ora solare e ih padrone reagì con rappresaglie contro i membri del Consiglio di fabbrica e fu immediatamente appoggiato dalla orga­ nizzazione industriale metallurgica della città e naziona­ le. Si venne allo sciopero, questo si estese a tutta la categoria e in pochi giorni divenne sciopero generale di tutta la città e infine della provincia e della regione piemontese, con la estensione ai lavoratori agricoli del novarese e del vercellese e ai compartimenti ferroviari. Si scioperò per undici giorni, con una compattezza e una disciplina tali da destare ammirazione, tanto più che mancavano le rivendicazioni immediate economiche. Ci sì batteva per un principio, per la affermazione e la difesa del potere degli operai nella fabbrica, con la chiara coscienza che la battaglia era politica e di fondo. Alla testa, quindi, non vi furono soltanto i dirigenti della Camera del lavoro, ma quelli della Sezione socia­ lista, di cui Togliatti era il vice segretario. La cura principale fu quella di mantenere da un lato la unità delle masse torinesi, e in questo si riuscì senza sforzi eccessivi; dall’altro lato di estendere l’azione il più che fosse possibile. Se l’Ordine Nuovo fosse già riuscito a crearsi una rete di collegamenti nazionali, quello sareb­ be stato, forse, il momento di un’azione decisiva.

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Spontaneamente, infatti, il moto si estese in modo tale che una sola parola di un organismo dirigente nazionale sarebbe stata sufficiente a renderlo travolgente nella maggior parte del Paese. Ebbene, non solo questa parola non fu detta, ma le direzioni nazionali, sindacale e politica, o non capirono o finsero di non capire come stavano le cose e furono concordi nell’ impedire qual­ siasi sviluppo rivoluzionario del movimento. Era riunito a Milano il Consiglio nazionale del par­ tito e quando Togliatti, che veniva dalla battaglia, vi giunse, credette di essere arrivato a Bisanzio. Chi aveva autorizzato la Sezione socialista di Torino, or­ gano politico, a scatenare un movimento di natura sindacale? E quali erano le rivendicazioni? Erano esse state presentate tempestivamente ai superiori organi di direzione? E perchè si sarebbe dovuto estendere il movimento? Questi Consigli di fabbrica, per cui si faceva sciopero, erano poi qualcosa di ortodosso, che ci fosse negli Statuti, o non erano una invenzione di intellettuali? Volete fare i Soviet? Ebbene, prendete il progetto di Bombacci, studiatevelo e statevene in pace! Ma voi non scrivete ogni giorno sull'Avanti], replicavano i torinesi, che ci vuole un movimento rivo­ luzionario, che bisogna battersi per cacciare i borghesi dal potere? A questo punto i « rivoluzionari » si inte­ nerivano e acconsentivano. Bisognava però dircelo prima, — aggiungevano, — avvertirci in tempo, darci un po’ di preavviso: adesso, che volete che possiamo fare? Direzione del partito e direzione confederale furono d’accordo nel chiedere che il movimento finisse, nel­

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l’impedire ogni estensione di esso ad altre città. To­ gliatti dovette, in rappresentanza della sezione tori­ nese, trattare con il prefetto Taddei per le condizioni della ripresa del lavoro, insieme coi dirigenti sindacali. Ne uscì, malgrado tutto, un accordo favorevole, che dimostra quanto grande fosse la pressione dei lavoratori. Non vi fu rappresaglia e furono riconosciuti i diritti delle Commissioni interne, in modo che ne faceva dei veri Consigli di fabbrica, col loro ufficio nell’offi­ cina e un’ampia attività riconosciuta. Rimase dell’ama­ rezza, però, nelle masse, e nel partito si approfondì la divisione. Serrati, venuto a Torino per discutere della situazione, fu messo in stato di accusa, prima in una riunione ristretta, poi in assemblea. Nella classe operaia le ripercussioni di ciò che era accaduto furono profonde, ma favorevoli all’Ordine Nuovo e alla sua linea politica. Una di queste ripercussioni riguardò direttamente il lavoro di Togliatti. Il segretario della sezione era stato, dal gennaio, un operaio del gruppo astensionista. Chiuso il movimento, questo gruppo non volle più, in segno di protesta, partecipare agli organi direttivi. Togliatti fu quindi investito della carica di segretario, che tenne sino alla fondazione del Partito comunista, in una situazione di difficoltà e di pericoli. In queste condizioni si aprì il più serio dissenso con Tasca. Questi, d’accordo senza dubbio con i dirigenti sindacali riformisti, presentò al congresso della Camera del lavoro un rapporto sul movimento dei Consigli di fabbrica, dove le posizioni di principio e politiche dell’Ordine Nuovo erano di fatto abbandonate. Gli organismi di fabbrica venivano ridotti a una semplice

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diramazione dell’organizzazione sindacale. La reazione di Gramsci sul settimanale di Togliatti, al Congresso della Camera del lavoro e in nome della Sezione socia­ lista, fu vivace. Le posizioni di principio furono difese e mantenute. Dalla direzione della Camera del lavoro non poterono però essere esclusi i riformisti, come erano stati esclusi dalla direzione del sindacato metallurgico e da altri di eguale importanza.

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In tutti questi mesi, malgrado la concreta attività cui lo costringeva il lavoro politico e giornalistico, Togliatti aveva continuato a dedicare tempo e lavoro anche all’ opera culturale. La Battàglia delle idee sul settimanale era quasi sempre scritta da lui e alcune delle polemiche che in essa sono sviluppate indicano la personalità che chiaramente si afferma, liberandosi dai residui della educazione filosofica non marxista. Notevole una postilla a uno scritto inviato al setti­ manale da Mario Missiroli e pubblicata col titolo II socialismo contro la scienza. Il Missiroli sosteneva, con la imbellettata faciloneria di giudizi che gli è propria, che il socialismo per sussistere deve distruggere la scienza. Nella replica Togliatti precisa che cosa debba intendersi per cultura : « Noi critichiamo e combattiamo, dice, il concetto di cultura come di un complesso di nozioni, di informazioni. Si crede di elevare il popolo aumentando il numero delle cose che egli sa, comuni­ candogli come verità assolute i risultati delle ricerche scientifiche. In questo modo le verità della scienza, nella mente dell’operaio e del contadino, prendono lo stesso posto che prima occupavano altre verità assolute, quelle della fede ad esempio. Come una volta si credeva alla storiella del padre Adamo, ora si crede alla discen­ denza dell’uomo dalla scimmia, e nello stesso modo: a una superstizione se ne è sostituita un’altra, a un dogma un altro dogma. Nel cambio nè si perde nè

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si guadagna. Ma dunque qual’è il valore delle scoperte scientifiche?... Lo scienziato che formula una legge, una ipotesi, e sia quella dell’evoluzione, avverte questo valore, che sta nel lavoro mentale di uomini e di genera­ zioni, che hanno messo lui in grado di arrivare a quel punto, e la ricerca, la formulazione del risultato perciò è un vero elevamento della coscienza individuale... Prendete questo risultato e datelo in pillole a un estra­ neo, tutto il valore di esso va perduto... E questo si dice non solo delle ricerche teoriche ma anche delle applicazioni pratiche della scienza. Le nostre scuole professionali vogliono fare unicamente dei buoni operai che conoscano bene alcune macchine, alcuni processi tecnici e basta. Ma il perfezionamento meccanico e tecnico attuale deve essere inteso come il risultato di un’evoluzione lenta, lunga, faticosa, di una lotta contro difficoltà di ogni genere e che non è punto finita ancora. E la lotta dell’umanità per domare la natura, per soggio­ gare le forze cieche e brutali che si oppongono al suo dominio. Presentate le cognizioni tecniche in questo modo, fate sì che l’umile apprendista senta di essere parte viva di una sola comunità operante attraverso i secoli e voi farete un insegnamento formativo, sol­ leverete il singolo a sentire che l’opera sua, limitata nelle apparenze, ha un valore infinito; contribuirete a fare di lui veramente un uomo, darete alla sua volon­ tà un valore che supera quello della sua individualità»1. Le annotazioni della Battaglia delle idee si moltipli­ 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Postilla, in Ordine Nuovo, A. I, n. io, 19 luglio 1919.

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cano. La recensione di uno scritto di Daniel Halévy offre lo spunto a indicare le ragioni del fallimento della menzognera utopia wilsoniana. L ’esame di un giornale per contadini, pubblicato a Firenze, dà occasione a una vivace denuncia del dolciastro ma interessato senti­ mentalismo col quale si guarda dai letterati alla vita delle campagne. È una fioritura di spunti, di note, di polemiche, che pongono problemi, li chiariscono, acce­ lerano la comprensione di fondamentali questioni ideo­ logiche e politiche. Quasi in ogni numero, per parecchi mesi, vi è una poesia tradotta da Togliatti, prima di Walt Whitman, poi di Marcel Martinet. All’inizio di novembre un editoriale di Togliatti lancia la proposta di una scuola di propaganda. Tema centrale: lo Stato dei consigli. Insegnanti, oltre ai re­ dattori del settimanale, i professori Zino Zini e Bal­ samo-Crivelli. Togliatti tenne quattro lezioni su « Eco­ nomia e socialismo », sull’« Origine e lo sviluppo del capitalismo », sullo « Stato dei consigli », sulla « Scuola ». Nel mese di febbraio sempre di Togliatti è un appello agli studenti, cui tenne dietro una riunione nel salone della Camera del lavoro. Tra gli intervenuti era Luigi Longo, non ancora iscritto al partito, cui allora si veniva accostando. Del movimento studentesco che uscì da quella riunione fecero parte, oltre a Longo, Felice Platone, Piero Sraffa, Coggiola, Repaci. Luigi Longo ricorda di aver ascoltato parecchie volte conferenze di Togliatti nei circoli giovanili socia­ listi. Gramsci e lui erano popolari fra i giovani perchè, mentre ai comizi pubblici non erano ancora addestrati, erano però i soli dirigenti con i quali ci fosse possibilità

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di spiegarsi e di parlare, sicuri di essere ascoltati. Non avveniva così con i pezzi grossi del partito, per i quali i giovani non contavano, perchè « tanto non votavano ». Con Togliatti e Gramsci era diverso. A qualunque ora e in qualunque luogo ci si trovasse, se c’era un qualsiasi problema da risolvere, anche in apparenza il più lon­ tano dalla pratica, ascoltavano e discutevano. Il loro modo di esporre era anch’esso un fatto nuovo. Non aveva nulla in comune con l’oratoria socialista del momento. Puntava sull’argomento e sul ragionamento, non sulla frase. Era oggetto di riso cordiale, tra di loro, il piccolo Romita, che preparava i discorsi ricopian­ dosi dall’Avanti \ in un quadernetto le belle frasi finali degli articoli più roboanti, con le immagini a effetto, e poi le ripeteva per avere l’applauso. Gramsci parlava senza interrompersi: un flusso continuo di incisi, di racconti, di notizie, di aneddoti gli infioravano le con­ versazioni e il discorso. Togliatti era oratore calmo, misurato; parlava dipanando a poco a poco il filo del ragionamento. Il suo primo comizio in piazza hr a Savigliano, e prima di parlare dovette anche bere, perchè i compagni non se l’avessero a male, la solita « mezza bottiglia » dei piemontesi. Il modo di essere dei due giovani piaceva agli operai, che si erano abi­ tuati a vederli assieme, entrambi assai trascurati nle vestire, da un capo all’altro della città, nei circoli rio­ nali, davanti alle fabbriche, nella redazione, in tipo­ grafia. Nel complesso i rapporti politici erano nella città molto tesi, assai più che in altre parti d’Italia. Non vi era però ancora ombra di squadrismo fascista. La pres­

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sione contro il movimento operaio era fatta dalla poli­ zia e da reparti dell’esercito impiegati in servizio di ordine pubblico. I conflitti, in occasione di comizi e dimostrazioni di strada, erano frequenti e sanguinosi. Il I Maggio del 1920 venne sparato contro la folla, in Piazza Statuto, dove il corteo tradizionale stava per sciogliersi. Come giustificazione, fu poi data la versione che nelle prime file c’era un uomo che durante tutta la dimostrazione era sempre stato con una mano in tasca e i poliziotti avevano pensato che ci tenesse una bom­ ba. Non c’era e non ci fu nessuna bomba, ma vi furono tra i dimostranti alcuni morti. Poche settimane prima, persino un concerto di musiche wagneriane, dato al Teatro Regio per iniziativa dell’Ordine Nuovo, per poco non era finito in un conflitto. Il questore si era offeso per gli applausi strepitosi con cui era stata salutata dal pubblico, tutto di operai, la Cavalcata delle Walkirie, che egli aveva confuso con Bandiera rossa ! Aveva ordinato di far sgomberare il teatro, ri­ mangiandosi poi l’ordine, per fortuna, quando vide che non lo poteva fare eseguire. Quando si giunse all’occupazione delle fabbriche, alla fine dell’estate, Torino intiera fu ripresa dalla feb­ bre rivoluzionaria. Sulla impostazione del movimento vi erano serie riserve da fare e queste furono espresse apertamente in una nota di Gramsci sull’ Ordine Nuovo. L ’esperienza dell’aprile non poteva infatti essere di­ menticata. Come sarebbero andate le cose questa volta? Un movimento generale degli operai metallurgici, anche se aveva come punto di partenza soltanto le rivendica­ zioni economiche lanciate dal congresso tenuto a Ge­

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nova dalla categoria, non poteva non assumere sin dal primo momento il carattere di un movimento poli­ tico. Era in giuoco, infatti, la volontà e il prestigio della pià forte organizzazione dei padroni, i quali avevano l’intenzione precisa di spezzare lo slancio del movimento operaio. E poi c’era la situazione generale del paese, ancora immerso nel caos, e vi era la forza numerica e la coscienza degli operai metallurgici, so­ cialisti e rivoluzionari, nella grande maggioranza. La direzione socialista si rendeva conto di questa situazione? Che cosa prevedeva, che cosa preparava, che cosa avrebbe fatto quando si fosse giunti, come era inevitabile, a uno sciopero nazionale nel quale potevano essere impegnate per solidarietà tutte le altre categorie, tutti i lavoratori italiani senza ecce­ zione? Il corso degli avvenimenti dimostrò quanto fosse giusto porre questa domanda. Quando il movi­ mento scoppiò, ci si buttò nella lotta però con tutte le forze e con tutto lo slancio, particolarmente a Torino. La Federazione metallurgica dichiarò l’ostruzionismo ; poi, avendo i padroni risposto con la serrata, replicò ordinando che tutte le fabbriche venissero occupate dai lavoratori. Nel corso di pochi giorni, per solida­ rietà, la stessa cosa fecero gli operai di parecchie altre importanti categorie. L ’apparato della produzione indu­ striale fu quindi nelle mani degli operai. Il governo, diretto allora da Giolitti, non tentò nemmeno di risol­ vere la questione con la forza, con un intervento armato. Se lo avesse fatto non solo non avrebbe ottenuto lo scopo ma si sarebbe trovato subito di fronte a un’insur­ rezione di carattere nazionale e a problemi quindi

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forse insolubili. Attese, confidando nelle debolezze e contraddizioni del movimento, che conosceva, e che il tempo doveva inesorabilmente mettere in luce. Le cose, però, non si decisero semplicemente, e il gruppo torinese e in primo luogo Togliatti, vi ebbero una parte di primo piano. Prima di tutto ci si pose il compito, non chiaramente definito dai sindacati, non solo di occupare le fabbriche, ma di farle funzionare, cioè di non interrompere la produzione. Poi il compito di essere pronti alla lotta insurrezionale, se ad essa si fosse arrivati. Per far funzionare le fabbriche entra­ rono in scena i Consigli di fabbrica, che oramai erano diretti dai migliori degli operai, da Giovanni Parodi, capo riconosciuto e degno di tutte le maestranze della Fiat, nobile figura di capace organizzatore e combat­ tente proletario, a Tornielli, Santhià, Montagnana, Oberti, l’anarchico Carino, Matta, Bendini, Bonino, Giambone, Mortara, Apra e tanti altri. La sezione metallurgica era diretta da Pietro Ferrerò, un anarchico intelligente e bravo, che aveva fin dall’inizio seguito VOrdine Nuovo : attorno a lui lavorava un attivo gruppo di organizzatori. La direzione di tutto spettava però alla Sezione socialista, il cui segretario era Togliatti. Furono settimane di lavoro febbrile, perchè in ogni fabbrica, e non soltanto in quelle metallurgiche, si presentavano questioni serie. Per assicurare la produ­ zione non bastava ricorrere alle materie prime delle scorte. Era necessario prima di tutto l’ordine, la di­ sciplina, la precisione. In qualche fabbrica si dovettero, sostituire tecnici e impiegati ; in altre i tecnici rimasero, conquistati sia dalla grandiosità del movimento che dal

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lavoro precedentemente svolto verso di loro d'ali'Ordine Nuovo. La occupazione durò circa un mese. Gli operai non uscivano dalle fabbriche e solo la terza domenica fu autorizzata la visita dei famigliari alle officine occu­ pate. Bisognava, infine, mentre si organizzavano le guardie armate e si dedicavano intieri reparti alla fab­ bricazione di armi, stare attenti alla provocazione che qua e là cercava di infiltrarsi e creare incidenti. Parti­ colare notevole : tutte le ìfabbriche di automobili erano in mano agli operai, eppure i dirigenti operai e socialisti non circolavano in automobile, ma in tram e anche a piedi. Teresa Noce ricorda di avere un mattino trovato Togliatti che, passata tutta la notte fra una fabbrica e l’altra e rientrando a casa all’alba, sfinito, si era ad­ dormentato nel tram e questo lo aveva portato sino al capolinea, all’ estremo opposto della città. Torino dette un esempio memorabile a tutta l’Italia. Alla Fiat la produzione toccò il 70’per cento della norma. La popolazione intiera era stupefatta di ciò che stava accadendo. Ma il nemico si preparava, e si prepa­ rava proprio a colpire Torino. Incominciarono a cir­ colare i primi gruppi di squadristi in camicia nera e furono concentrate, ciò che più conta, ingenti forze armate. Non nella città, però, perchè vi era stato l’esem­ pio della brigata Sassari che, inviata precedentemente in Piemonte, era stata penetrata a fondo dalla propa­ ganda socialista grazie al lavoro impostato da Gramsci. Durante l’occupazione delle fabbriche le forze armate occuparono in assetto di guerra le pendici della collina che domina i ponti sul Po e le più grandi officine me­ tallurgiche. Di qui, ogni tanto, la notte, le mitraglia­

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triti aprivano il fuoco contro i grandi edifìci, all’angolo e sulla sommità dei quali si profilavano i posti di guardia degli operai. Allora le sirene lanciavano l’al­ larme, tutti si svegliavano e prendevano il posto di combattimento loro assegnato. La notte del 9 settem­ bre, alla Fiat Centro, durante uno di questi allarmi, erano presenti Gramsci e Togliatti in discussione con il Consiglio di fabbrica. Anche Gramsci volle salire sui posti del tetto e Togliatti ricorda come si arrampi­ casse svelto per le scalette pensili esterne, di acciaio. Non accadde nulla di grave, però, e la discussione venne ripresa. In un altro rione cittadino un industriale cominciò a sparare da un tetto sovrastante contro una grande fabbrica, la Capamianto, e vi furono un morto e vari feriti. L ’ assassino lo conoscevano tutti, ma non fu disturbato. Verso la fine di settembre, per assicurarsi |i ponti sulla Dora, le forze di polizia entrarono con i carri ar­ mati nelle officine Gilardini. Non riuscirono però a occupare le fabbriche vicine, perchè da un’officina di metallurgia pesante, dove per caso quella notte si tro­ vava anche Togliatti, un rozzo e pesante carro armato costruito dagli operai usti a contrastar loro il passo. • Più passava il tempo però e più si capiva che l’ini­ ziativa stava per passare nel campo avversario. I di­ rigenti del partito socialista e della Confederazione del lavoro finalmente, verso la metà di settembre, si investirono di tutto il problema. A , Milano, ove i dirigenti dei due grandi organismi si riunirono in for­ ma solenne e sotto gli occhi di tutta l’Italia, Togliatti andò a esporre la posizione dei dirigenti torinesi. Fu

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al centro dei dibattiti più riservati e ancora una volta ne ricavò la nozione precisa della necessità di rompere definitivamente tanto con i riformisti quanto con i massimalisti. La unità con costoro non poteva che portare la classe operaia e l’Italia intiera alla rovina. Il segretario del partito socialista aveva elaborato in piena buona fede, ma in tutta ingenuità, un bel piano rivoluzionario. Ne dette visione a Togliatti. La rivoluzione doveva farsi in sette giorni, come la crea­ zione del mondo. Ogni giorno, a partire dal primo, il moto doveva estendersi a una nuova categoria, sino a diventare, al settimo, generale e nazionale. Si trattava però puramente di sciopero. Mancava qualsiasi parola d’ordine politica o indicazione precisa di azione. La sola preparazione militare nazionale era un areoplano comprato di nascosto e che pochi sapevano dove si celasse. Al settimo giorno, o al sesto, Giolitti, senza perdersi d’animo, avrebbe chiamato a sè i dirigenti parlamentari riformisti e questi che cosa avrebbero fatto? Intanto si dovevano prendere le armi? Non se ne diceva nulla ! La cosa più grave, poi, era che questo piano doveva entrare in funzione solo se si fosse deciso che il movimento dovesse passare dal campo sindacale al campo politico. E qui ci fu la commedia. Dirigenti del partito e dirigenti sindacali prima si destreggiarono per cavarsi di dosso la responsabilità. I secondi dicevano ai primi : «Se lo ritenete opportuno, prendete pure voi nelle mani il movimento!». I primi replicavano: «Ma no ! Decidiamo tutti assieme se il movimento è sin­ dacale o politico e poi ricaviamone le conseguenze secondo il patto che ci unisce ! ». Cosi si fece. A mag­

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gioranza di voti fu deciso che il movimento era pura­ mente sindacale. Il piano di rivoluzione, che era scritto con così chiara calligrafìa su alcuni fogli di carta da lettere della Camera dei deputati, fu riposto. Con Togliatti la discussione fu violenta. La sua richiesta era che il movimento, il quale era già poli­ tico, venisse subito sviluppato su questo terreno, con la dichiarazione immediata dello sciopero generale. In particolare chiese che venissero fatte entrare in azione le campagne, sia al nord che al sud. I dirigenti rifor­ misti della Federterra reagirono con asprezza. « A t­ taccate voi a Torino, piuttosto, che siete armati e siete così bravi! ». Era chiaro l’intento di provocazione: isolare il reparto più avanzato della classe operaia, buttarlo allo sbaraglio. Su questo punto la posizione fissata dai dirigenti torinesi, e sviluppata da Gramsci anche in una nota dell 'Avanti !, era precisissima. Sarebbe stato un delitto ripetere la storia dell’aprile sul terreno assai più grave dell’urto armato. Le forze governative, concentrate attorno a Torino, avrebbero schiacciato le avanguardie torinesi, le quali invece avrebbero potuto dare a una lotta generale un contributo decisivo, purché a una lotta generale si fosse venuti. Questo però i riformisti non lo volevano e i massimalisti non capi­ vano nemmeno come si dovesse fare per arrivarci. Fu quindi deciso, contro il voto dei metallurgici e con una maggioranza data principalmente dall’enorme numero di voti di cui disponevano i dirigenti della Federterra, di non uscire dal terreno sindacale e cercare un compromesso. I padroni tirarono un respiro di sol­ lievo e concessero un ingente aumento di salari (4 lire 6

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al giorno di cui si rifecero pochi mesi dopo but­ tando sul lastrico migliaia e migliaia di operai). Giolitti promise di introdurre per legge il controllo operaio sulla industria. La legge fu anche preparata ma dopo qualche settimana non se ne parlò più. Dalla nuova esperienza l’avanguardia della classe operaia ebbe la spinta ultima a mettersi sulla strada della creazione della propria organizzazione politica autonoma, del partito comunista.

VII. L ’occupazione delle fabbriche terminò il 26 di set­ tembre 1920. Pochi giorni prima, a Torino, appena giunta la notizia del modo come le cose si sarebbero concluse, accadde un fatto che getta una luce molto viva sulla situazione. Gramsci e Togliatti vennero chiamati d’ur­ genza alla Fiat. Qui erano riuniti i membri del Con­ siglio di fabbrica e un gruppo di dirigenti operai di altre officine, tutti socialisti. Era stato proposto e deciso che si dovesse immediatamente dichiarare costituito il partito comunista e lanciare un appello a tutti gli operai italiani perchè vi aderissero. L ’idea non era cattiva, tutto sommato ; forse che la creazione del nuovo partito' non usciva da una dolorosa esperienza politica e di classe, che toccava il culmine proprio nel falli­ mento della occupazione delle fabbriche come movi­ mento rivoluzionario? La scissione del partito socia­ lista era inevitabile ; non solo non era più pensabile che si fosse in uno stesso partito con i capi riformisti tra­ ditori e nemici aperti, ma anche con Giacinto Menotti Serrati, direttore deli!Avanti ! e capo della corrente massimalista, non si poteva più trovare un terreno d’intesa. Dall’aprile in poi Serrati era sempre più caduto sotto l’infìuenza dei riformisti dai quali non si voleva staccare. Non riusciva a capire come ci potesse essere un partito senza tutti quei nomi famosi, quei grandi ora­ tori parlamentari, quelle « competenze ». Recatosi a Mosca al II Congresso dellTnternazionale comunista,

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aveva respinto le posizioni teoriche e politiche di Lenin circa alcuni problemi fondamentali, relativi alla que­ stione nazionale e alla necessità della espulsione dei riformisti. Lenin, esaminate le tesi presentate da Gramsci alla sezione torinese e da questa approvate, Per un rinnovamento del Partito socialista1, aveva dichiarato che queste tesi dovevano essere esaminate in un Con­ gresso straordinario del partito e prese come base della sua azione futura. A Mosca però, al II Congresso, nè Gramsci nè Togliatti erano presenti. Al ritorno Serrati aveva accentuato il suo distacco. Era entrato, con grande gioia di tutta la borghesia reazionaria, in pole­ mica aperta con Lenin e aveva nettamente respinto, come non adatte allTtalia, le condizioni poste dall’Internazionale per la creazione e la esistenza dei partiti comunisti. Non abbandonava la frase rivoluzionaria, si intende, ma la sua azione era oramai tutta rivolta contro i gruppi rivoluzionari conseguenti e in prima Enea contro quello torinese. Si era quindi tutti d’accordo per la scissione e per la creazione del nuovo partito; ma il metodo pro­ posto dal Consiglio di fabbrica della Fiat trascurava la necessità di procedere insieme con tutti gli altri gruppi di sinistra del vecchio partito. Vi erano i massimalisti non serra tiani, diretti da Egidio Gennari e vi erano gli astensionisti di Bordiga, i soli, purtroppo, che pos­ sedessero una rete nazionale di frazione. Si era con questi due gruppi già d’accordo per creare una sola 1 Trenta anni di vita e lotte del P . C. Rinascita, 1952, pagg. 64-65.

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frazione comunista e lottare uniti per il Congresso e al Congresso. Una diversa iniziativa avrebbe potuto creare confusione, disperdere le energie. Ci volle però un lungo dibattito, per riuscire a convincere quel gruppo di diri­ genti operai della Fiat che volevano il partito «subito». Anche nella sezione le cose si complicarono per lo nscoraggiamento e la esasperazione creati dalla sconfìtta. A un certo punto anche Gramsci e Togliatti furono tra loro in disaccordo. Gramsci avrebbe voluto sino alla fondazione del nuovo partito lasciare la direzione poli­ tica immediata della sezione e concentrarsi in un movi­ mento di gruppi di «educazione comunista». Togliatti respingeva questa proposta. Sosteneva che così sarebbe stata ristretta la base di creazione del nuovo partito e voleva che si facessero invece tutti gli sforzi possibili non per isolare il gruppo dei comunisti già convinti ma per isolare i riformisti, come piccola minoranza, e mantenere una solida maggioranza. Il dissenso non durò a lungo. L ’assemblea della sezione decise secondo le proposte di Togliatti, che anche Gramsci aveva ac­ cettate. Un aiuto per decidere giustamente venne, del resto, sia dall’attacco mosso al movimento torinese da Serrati, sia dall’imminenza delle elezioni amministrative. Serrati accusò la Sezione torinese di essere indi­ sciplinata. In particolare concentrò l’accusa contro l’edizione torinese dell'Avanti ! che apertamente soste­ neva oramai la lotta contro i riformisti per la applica­ zione delle decisioni del II Congresso di Mosca. L ’edi­ zione torinese era fatta da Ottavio Pastore, Gramsci e Togliatti. Formalmente ne era ancora direttore Serrati, e questi dichiarò che non poteva più accettare questa

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situazione. La sezione sciolse il nodo : dichiarò rotto il le­ game con l’edizione nazionale dell’edizione torinese, facen­ do di questa, di fatto, l’organo della frazione comunista. « Ai compagni e alle Sezioni comuniste — dice l'ap­ pello firmato da Pastore e da Togliatti, in cui si dà atto del cambiamento — ... ci presentiamo senz’altro con il nostro passato, nel quale èfil miglior giudizio di noi e con il proposito nostro di essere fino al Congresso e dopo, se occorrerà, l’organo dei comunisti italiani ». Diretta da Togliatti, la sezione torinese evitava così, sebbene solo localmente, l’errore commesso al centro. Serrati infatti aveva proposto alla direzione del partito di essere sostituito come direttore de\YAvanti ! perchè riconosceva di non essere più d’accordo con la maggioranza di sinistra. La direzione però, nonostante la presenza di Terracini, aveva ridotto la questione a uno scambio di complimenti e respinto le dimissioni. Così era rimasto nelle mani degli avversari il principale stru­ mento per la preparazione del Congresso di Livorno. Con la stessa decisione, muovendosi come se la rot­ tura fosse già avvenuta e senza riguardi, vennero condotte le elezioni municipali. Si stabilì senz’altro che sarebbero stati candidati solo coloro che accettavano la linea di Lenin e le decisioni del II Congresso. Voleva dire escludere dalla lista l’onorevole Giulio Casalini, riformista, nel nome del quale si erano fatte tutte le precedenti™ lotte amministrative e per cui votavano molti del ceto medio. Nella sezione la battaglia fu aspra. L ’assemblea, diretta da Togliatti, durò una notte intiera e a maggioranza si accettò la proposta di esclu­ sione. Ne seguì una lotta elettorale molto dura, quale

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non si era ancor vista a Torino, dove i socialitsi, a dif­ ferenza di Milano e Bologna, non erano mai riusciti a prendere il Comune. Gli operai si mobilitarono fino all’ultimo, casa per casa. Gli astensionisti furono i primi nel lavoro elettorale. Gli anarchici, allora ancora numerosi, dichiararono ufficialmente che si doveva an­ dare a votare. Il programma steso da Togliatti era assai radicale, ma semplice e chiaro. Chi vinse? È difficile dirlo. La sera del voto e finito lo scrutinio la maggioranza era socialista e un grande corteo, alla mezzanotte, mosse in tripudio dalla Camera del lavoro verso piazza Castello. All’angolo di via Pietro Micca un gruppo di squadristi gettò contro di esso una bomba, e vi furono dei feriti e un tumulto. Il giorno dopo risultò, secondo un nuovo conteggio, che la maggioranza era, per poche decine di voti, dei borghesi. Si gridò all’inganno, al broglio. Fu raccolta la testimonianza, alcuni anni dopo, che le urne coi voti di una intiera sezione elettorale erano state sostituite da un gruppo di « legionari fiumani ». Si era però data, e non più sul terreno della fabbrica, una battaglia di inconsueto vigore. Si era rafforzata l’unità dei lavo­ ratori torinesi attorno all’avanguardia comunista. A fine d’anno, Togliatti lasciò il posto di segretario della sezione. Anche l’Ordine Nuovo settimanale, che aveva continuato a pubblicarsi con una certa fatica per il lavoro di altra natura che assorbiva tutti, cessò le pubblicazioni. L ’assemblea della sezione decise che il quotidiano torinese, diventato organo ufficiale della frazione comunista, ereditasse la testata del settimanale. Gramsci fu nominato direttore, Togliatti redattore capo.

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Al Congresso di Livorno, Togliatti non fu presente. Rimase a Torino, a fare il quotidiano. La sera del 21 gennaio 1921, alla notizia che era avvenuta la scis­ sione ed era stato fondato il Partito comunista d’Ita­ lia, Sezione della Internazionale comunista, toccò a lui scrivere il primo commento. Gli animi erano preparati, e ben preparati, da tutti i fatti precedenti. La pole­ mica dei riformisti e anche dei massimalisti contro i comunisti aveva già toccato un tono che non diffe­ riva da quello dei borghesi. Perfino contro la rivolu­ zione russa erano stati diretti attacchi insensati, moti­ vati dal fatto che i mandarini riformisti, inviati a Mo­ sca in delegazione, non vi avevano trovato lasagne al forno e bottiglie di lambnisco come nelle trattorie bo­ lognesi, ma un popolo di eroi, vittorioso in una lotta mortale ma carico di ferite. La scissione era attesa, invocata, eppure non si può dire che il distacco da un passato così carico di lotte comuni e da uomini che erano stati seguiti con tanta passione, non susci­ tasse nessuna incertezza. La cosa doveva essere vera soprattutto per gli operai più lontani dal gruppo diri­ gente, mentre nei più vicini forse sijpensava soprat­ tutto alla pesantezza dei compiti imminenti. Il commento di Togliatti si rende conto di questi stati d’animo e ne tratta apertamente, com’è nel suo costume. Si intitola: Che avverrà domani? «Ho visto l ’interrogativo — dice — negli occhi di buoni compa­

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gni, l’ho sentito vibrare nelle loro parole. È l’incertezza del primo momento, lo stupore del fatto che si atten­ deva, si sapeva inevitabile, certo, ma la cui realizza­ zione pure sorprende, come cosa nuova: una situazione di cui soltanto ora si misurano e si sentono in modo diretto tutti gli aspetti, tutte le responsabilità... Che avverrà? Ma non è dunque completamente nostro l’av­ venire che a noi si apre? Non forse noi stessi abbiamo voluto e creato, con la cosciente lucidità dell’azione nostra, il momento presente e aperto ad esso tutte le possibilità che ora ci attendono? L ’abbiamo voluto e creato. Non siamo stati spettatori. Non possono di­ ventare spettatori gli operai, coloro che operando nel partito comunista si propongono di attuare i loro pro­ positi migliori. L ’avvenire del nuovo partito è il loro avvenire... Che avverrà dunque domani? Noi questo non sappiamo, ma sappiamo che oggi, per noi, è giorno di propositi, di volontà, di azione » l . Certo, chi sappia che cosa è il partito oggi, per la forza numerica e la capacità di orientamento poli­ tico, e lo confronti con quello di allora, rimane quasi sbalordito. Ha lavorato la storia, senza dubbio. In tutto il mondo è andato avanti, con passi da gigante, il movi­ mento di emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Ma senza l’azione decisiva di quegli uomini di carne ed ossa, che hanno saputo prevedere, comprendere, stimolare il movimento e dirigerlo, le cose non sarebbero andate allo stesso modo. \ 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Che avverrà domani ?, in Ordine Nuovo, A. I., n. 22, 22 gennaio 1921.

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A Livorno i voti comunisti erano stati 58 mila. Gli iscritti al partito furono subito un po’ di meno, per ragioni evidenti. Erano in maggioranza operai, delle regioni settentrionali e di alcune zone del centro, ma concentrati in alcuni punti: più di diecimila nella sola provincia di Torino. Questo era un vantaggio perchè questi grossi nuclei erano molto attivi e tutti li vede­ vano : ma era anche un grave difetto e indicava quanto cammino restasse da compiere. L ’orientamento della direzione, però, come oramai è stato dimostrato am­ piamente, era errato. Il gruppo torinese, che aveva la più ricca espe­ rienza d’azione tra le masse, non ebbe la prevalenza nella composizione degli organismi direttivi. Nella di­ rezione del lavoro quotidiano del nuovo partito scom­ parve quasi del tutto. Prevalse la frazione astensioni­ sta e prevalse non ostante che il suo esponente mag­ giore fosse stato anche lui in contrasto con Lenin, al II Congresso mondiale. Finì per aver valore decisivo il fatto che i dirigenti di questa frazione, staccati da qualsiasi movimento reale, si erano dedicati da tempo alla organizzazione di una rete di collegamenti nazionali. Questa divenne la rete di inquadramento e direzione del partito comunista. Vi erano in essa an­ che ottimi compagni, che poi si educarono al leninismo. L ’orientamento complessivo era settario, chiuso, falso. Il partito non doveva soltanto esser di « pochi ma buoni », ma diventare una organizzazione di tipo quasi militare. Niente discussioni interne e persino niente scuole per lo studio della dottrina marxista e lenini­ sta. Si dovevano eseguire gli ordini impartiti dal cen­

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tro, ecco tutto. Tutto diventava, quindi, burocratico all’eccesso. Il segretario del partito passava la maggior parte del suo tempo alla macchina da scrivere dove batteva lunghe lettere di istruzioni alle organizzazioni locali, articoli per i quotidiani, ancora più lunghi e diffìcili a digerire, e perfino il testo preciso di tutti i discorsi che si dovevano fare alla Camera. Le iniziative locali e individuali si spegnevano. Ma a che avrebbe potuto servire un « partito » così fatto? Ad «attendere» la situazione, nella illusoria si­ curezza, che, per lo sviluppo stesso delle cose, le masse operaie si sarebbero un giorno spostate verso le sue posizioni. Allora le avrebbe inquadrate e dirette ! Così il partito comunista diventava — diceva Gramsci sin dal 1920 — una specie di bara di Maometto, sospesa nel vuoto. Neanche Gramsci però, dall’mizio, prese po­ sizione con energia contro questi errori e gli uomini già educati, da lui stesso e dall’esperienza internazio­ nale e nazionale, a una dottrina giusta, vennero assor­ biti e da principio quasi scomparvero nel nuovo inqua­ dramento. Togliatti cercò in seguito, ripensando la storia del movimento comunista italiano, di dare una spiegazione non superficiale di questa infermità settaria manifesta­ tasi proprio nei primi anni. La trovò, giustamente, oltre che in errori fatti dal grappo torinese, nel modo come si era sviluppata nel dopoguerra la lotta delle classi. « Questo è avvenuto — scrive, — per due motivi fondamentali. Il primo sta nella situazione stessa della classe operaia italiana. Numericamente debole, circon­

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data da una massa di piccola borghesia, la classe ope­ raia italiana si trova continuamente esposta al pericolo di subire essa stessa, nel proprio seno e nel seno del proprio partito, la influenza deleteria di classi avverse e di ceti intermedi. L ’unico modo di superare questo pericolo consiste nel fatto che il partito della classe operaia conduca una politica conseguente di classe, la quale porti alla realizzazione dell’alleanza del prole­ tariato con i contadini poveri e alla disgregazione delle formazioni politiche dei ceti intermedi, cioè consiste nel fatto che il partito faccia una politica leninista. Que­ sta soluzione, però, non può essere veduta e applicata se non quando la classe intiera ha acquistato una certa maturità politica e quando politicamente matura è la sua avanguardia. Fino a che non sono raggiunte que­ ste condizioni è comprensibile che una parte — anche avanzata — reagisca alla situazione in modo compietamente sbagliato, rinchiudendosi in sè stessa, in una intransigenza formale e settaria, in un estremismo este­ riore, fatto di frasi, di formule rigide, di passività. Il bordighismo è questo genere di reazione. I problemi dalla soluzione dei quali dipende la realizzazione del­ l’egemonia del proletariato, esso li ignora e ignorandoli crede di averli risolti. In secondo luogo la temporanea fortuna del bordighismo derivò senza dubbio dal fatto che la crisi e il fallimento del P. S. I. nel 1919-20 non solamente diffusero fra le masse più avanzate un pro­ fondo pessimismo, ma spinsero una parte di esse a cercare una garanzia contro nuove delusioni precisamente in un sistema di formule e di frasi, rigido, tale che sembrava escludere la possibilità di nuove oscilla­

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zioni, incertezze, dubbi e tradimenti. Le origini, della fortuna del bordighismo sono quindi da cercare preci­ samente nei suoi difetti » 1. Bisogna però tener conto che malgrado la cattiva direzione la sostanza di cui il partito si componeva era non solo buona ma ottima. Operai e lavoratori rivolu­ zionari provati e decisi, organizzatori politici e sinda­ cali onesti e coraggiosi, giovani pieni di entusiasmo. La devozione sino al sacrifìcio era di tutti o quasi tutti. Ve ne era bisogno, perchè la lotta di classe era preci­ pitata nella guerriglia civile, e ogni giorno si giocava 1’esistenza. Dopo il primo attacco armato contro i più grandi Comuni conquistati dai socialisti nella pianura Padana, nel primo semestre del 1921 lo squadrismo fascista di­ laga in modo impressionante. Si attua la previsione di Gramsci. Un elenco approssimativo che è in una inchie­ sta socialista, dà, per questi soli mesi, distrutte, sac­ cheggiate o incendiate 59 Case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 • Cooperative, 83 Leghe contadine, 141 sezioni e circoli socialisti e comunisti, 100 circoli di cul­ tura, 28 sindacati di categoria. Le maggiori violenze si verificarono nella Valle del Po, nella Emilia, nella Ve­ nezia Giulia, in Toscana, nelle Puglie. Il governo la­ sciava tare. Giornalisti e uomini politici liberali bat­ tevano le mani. Il ministro Fera, in una circolare ai magistrati, consigliava di non punire, considerandoli «reati politici », gli atti di violenza compiuti dai fascisti. 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Appunti per una critica bordighismo, in Stato operaio, A. IV, aprile 1930.

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- Togliatti fu più volte nei luoghi dove più duramente si combatteva. Nel febbraio 1921 venne inviato dal quotidiano torinese ad assistere al Congresso confede­ rale di Livorno. Nei giorni del congresso si scatenò l’attacco squadrista contro il popolo di Firenze e To­ gliatti si precipitò a Firenze. Ucciso dai fascisti Spar­ taco Lavagnini, ferroviere comunista e il più popolare degli organizzatori fiorentini, la reazione fu immediata, generale. I fascisti furono subito sopraffatti, respinti, schiacciati. Allora le forze governative, guardie regie, carabinieri, esercito, entrarono in azione contro il po­ polo. Le sedi popolari furono espugnate a cannonate e gli squadristi, sicuri, ripresero la loro barbara caccia all’uomo. Togliatti fu dappertutto, nel centro e nei borghi fiorentini, a Rifredi, a Scandicci. « Se si lasciava fare il popolo, — scrive nelle sue corrispondenze, — a quest’ora fascisti in Toscana non ce ne sarebbero più. Il popolo ha capito immediata­ mente come bisognava reagire. Ha capito che quando si attaccano gli istituti proletari con la violenza si at­ tacca tutto il proletariato... Fin dal primo giorno i fascisti smisero di girare per Firenze. Si ricoverarono tutti insieme nel centro, in un albergo di lusso, sotto la protezione delle “ regie,,. E le “ regie,, e i carabi­ nieri si scatenarono alle vendette. Di fronte alla som­ mossa vittoriosa le autorità parvero perdere la testa. Le pattuglie ebbero l’ordine di girare sparando all’im­ pazzata, contro tutte le case, contro tutte le finestre, contro tutte le persone. Ogni muricciolo di mattoni diventò una barricata e richiese l’uso dei cannoni: ogni Casa del popolo fu considerata come un fortilizio: ogni

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abitazione privata di operai un deposito di armi »1. Così viene alla luce la questione generale, del rap­ porto tra le forze di classe in tutto il Paese. Le cose si capiscono solo «se si pensa che questo è il momento dello scatenarsi della guerra civile e che la guerra ci­ vile assume in questo primo tempo la forma... dello sviluppo violento del fascismo come... resistenza vio­ lenta della borghesia... »2. À Torino la situazione era, per la reazione, più difficile, ma si tendeva anche qui allo stesso fine, a schiacciare con la violenza l’avanguardia operaia e le organizzazioni dei lavoratori. Si aveva paura, però, della forza dei comunisti nelle fabbriche. Gli industriali, per aprire la strada allo squadrismo, scatenarono un grande attacco di rappresaglia. La Fiat decise di licenziare il io per cento delle maestranze e vi comprese, natural­ mente, tutti i comunisti più noti e i membri delle Commissioni interne. Per evitare una ripresa dell’oc­ cupazione, le fabbriche furono occupate dall’inizio mi­ litarmente. Si scioperò e fu uno sciopero lungo e diffi­ cile. Alla fine si dovette cedere. Poco dopo, il 25 aprile, ecco l’attacco squadrista e l’incendio della Camera del lavoro, col pretesto di uno dei soliti conflitti con due morti in un rione operaio. La reazione dei lavoratori fu di tale energia, i fascisti furono perseguiti in tal modo dappertutto dove si mostravano, che per due 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , L ’esempio di Firenze, in Ordine Nuovo, A. I., n. 70, 11 maggio 1921. 2 P a l m ir o T o g l ia t t i , Gli episodi della guerra civile in Toscana, in Ordine Nuovo, A. I., n. 68, 9 marzo 1921.

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anni, fin dopo la Marcia su Roma, lasciarono in pace il grande centro operaio. Ronzavano attorno all’Ordine Nuovo, ma sapevano che era ben custodito. Di questa custodia, che si riduceva poi a un gruppo di operai armati e un cavallo di frisia attraverso il portone del * cortile, si parlava nella città e in tutta Italia come di cosa molto seria. Persino Benedetto Croce volle vedere di che si trattava, e fece ai redattori, una volta, una visita assai cordiale. Gramsci e Togliatti circolavano abbastanza liberamente. Talora dei fascisti fermavano Togliatti, per strada, non per far violenza ma per aprire una discussione. Non ostante la guerra civile scatenata contro i lavoratori, le nuove elezioni fatte da Giolitti il 15 maggio con la speranza che ne uscisse una Camera docile alle sue manovre, dettero un risultato sorpren­ dente. Nella maggior parte d’Italia fu impossibile la propaganda socialista. Si votò tra le violenze e il ter­ rore, gli incendi e il sangue, col governo che spalleg­ giava i fascisti. Ma i socialisti e i comunisti ebbero su per giù gli stessi deputati di prima. Il nuovo partito ne ebbe quindici, con più di 300 mila voti. I voti so­ cialisti e comunisti, sommati assieme, danno un to­ tale superiore a quello dei voti avuti dai socialisti nel 1919. Si può concludere che, se non ci fosse stato il terrore esercitato dai fascisti e protetto dallo Stato, la estrema sinistra avrebbe avuto una vittoria impres­ sionante. Da questa costatazione parte oggi Togliatti nel pre­ cisare quale era il fondo concreto delle divergenze ideo­ logiche e dottrinali dal settarismo « bordighiano ». Il

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più vivace contrasto con il dirigente del partito d’al­ lora egli ricorda di averlo avuto in una conversazione circa quello che ci si poteva ancora attendere dalla lotta contro il terrore fascista. Si era dopo uno dei tanti episodi in cui la compattezza e lo slancio delle masse popolari avevano fatto indietreggiare e messo in fuga gli squadristi. Egli sosteneva che, con un’azione nazio­ nale ben condotta, il fascismo poteva essere sbara­ gliato e la situazione sarebbe di nuovo stata a favore dei lavoratori. L ’altro si irritava per il semplice fatto che qualcuno affacciasse una simile prospettiva e re­ plicava con le sue tesi balorde, che il fascismo o un altro governo borghese erano la stessa cosa, che si combatteva per mettere in luce la viltà dei riformisti e così via. Da considerazioni simili la direzione del partito fu mossa nel prendere posizione contro il mo­ vimento degli « Arditi del popolo ». Al centro, questo movimento era senza dubbio manovrato in modo losco, ma alla periferia la parola d’ordine di formare gruppi di popolo per respingere con la violenza la violenza fascista fu accolta con entusiasmo. Tutti erano d’ac­ cordo, perchè così si apriva di nuovo una via d’uscita. L ’Ordine Nuovo prese subito posizione a favore del movimento, ma dal centro venne il contrordine. I co­ munisti non dovevano entrarvi. Dovevano fare le loro squadre separate da tutti gli altri, cioè isolarsi, rinun­ ciare al contatto con le masse. Era proprio il contra­ rio di quel che si sarebbe dovuto fare. Era la resi­ stenza al fascismo ridotta a puro eroismo e sacrifìcio di quella che allora era una piccola minoranza, senza prospettiva di successo. Per fortuna in alcuni centri

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importanti e in parecchi momenti decisivi i compagni non seguirono la settaria direttiva del centro. Entra­ rono negli « Arditi del popolo », si misero a capo della loro organizzazione, la estesero e rafforzarono. Questo contribuì a rendere possibili alcuni degli episodi più belli della resistenza al fascismo, i fatti di Sarzana, la cacciata degli squadristi dal quartiere di San Lorenzo a Roma, le barricate di Parma. Ma un’azione generale, che non solo respingesse qua e là gli squadristi, ma facesse indietreggiare anche la borghesia «liberale » che stava nascosta dietro a loro, non ci poteva essere. Il primo solenne ammonimento a cambiar strada venne dalla Internazionale comunista, che il 19 giugno tenne a Mosca il suo III Congresso. Terracini, che vi si fece portavoce delle posizioni settarie, fu aspramente rimbeccato da Lenin. L ’eroismo di piccoli gruppi non bastava. « Per vincere bisogna avere la simpatia delle masse. La maggioranza assoluta non è sempre necessa­ ria: ma per vincere, per conservare il potere, occorre non solo la maggioranza della classe operaia... ma anche la maggioranza degli sfruttati e dei lavoratori della po­ polazione della campagna. Dobbiamo perciò attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna. Avete preparato questo? Quasi in nessun luogo » L Il Congresso costatò un riflusso dell’ondata rivo­ luzionaria degli anni precedenti e una offensiva della1 1 L e n i n , Sul movimento operàio italiano, Roma, Edizio­ ni Rinascita, 1947, pag. 180.

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borghesia, ma chiarì che se si fosse creato un fronte unico delle masse lavoratrici questa avrebbe potuto essere respinta. Questo diventò dunque il compito centrale per i partiti comunisti. La direzione settaria del partito italiano non se ne dette troppo per inteso : accettò e fece uso del termine di fronte unico, ma vi pose limiti e riserve, sostenendone Vattuabilità solo sul terreno dei sindacati. Così una nuova azione politica comunista di ampio respiro, per respingere il fascismo, non venne alla luce, e la situazione venne a poco a poco precipitando verso lo sbocco peggiore. Nell’estate del 1921 fu deciso di iniziare la pubbli­ cazione di un quotidiano comunista a Roma, come or­ gano centrale del partito e a dirigerlo fu chiamato Togliatti. Egli era riuscito, insieme con Gramsci, ma assistito da pochissimi redattori, a fare del quotidiano torinese un giornale di grande prestigio. Chiamandolo a Roma si voleva forse impedire che il vecchio gruppo torinese prendesse, come tale, posizione per correggere la linea del partito? Piero Gobetti ha scritto in questo senso. Il risultato dello spostamento di Togliatti fu però piuttosto di metterlo in condizione di vedere me­ glio come il partito era diretto e di spingerlo alla suc­ cessiva azione. Il Comunista si stampò a Roma in una tipografìa vec­ chia, male attrezzata, in via della Guardiola a pochi passi da Montecitorio. La redazione era in alcune stan­ zette all’angolo di via della Scrofa. I mezzi finanziari erano scarsi, quindi scarsi i servizi e pochi i redattori, tra cui Felice Platone, Ugo Arcuno, il professor Vetdaro, Arturo Cappa. Capocronista era il maestro D ’A­

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mato, bizzarra figura di sovversivo popolaresco. Cono­ sceva vita e miracoli di tutta la città, e coi suoi corsivi terrorizzava nemici ed amici, rivelando episodi di cor­ ruzione, magagne, intrighi, affibbiando epiteti pittore­ schi che nessuno riusciva più a togliersi di dosso. Il giornale usciva aH’inizio del pomeriggio, ma non riuscì mai ad avere una forte tiratura, anche perchè nelle province veniva bruciato dai fascisti. La sera, Togliatti dettava al telefono articoli e note politiche per il quo­ tidiano torinese. Gramsci aveva chiesto che da Roma non gli si in­ viasse la sola cronaca dei fatti parlamentari, degli scan­ dali bancari allora al centro dell’attenzione, degli in­ trighi di governo. Voleva risultasse ben illustrata dai fatti la disposizione delle forze politiche del Paese in quel momento decisivo per le sorti dello Stato italiano. E questo risulta bene, dalle corrispondenze e note di Togliatti. Vi è proclamata con energia la necessità di far fronte ai fascisti con qualsiasi arme, pur di respin­ gerli. È individuata giustamente la cooperazione di fatto tra la vecchia borghesia liberale, i suoi uomini politici e l’apparato di Stato da essa creato e diretto, e i de­ linquenti e massacratori fascisti. Nello stesso tempo, però, non si dimentica di sottolineare con acutezza il contrasto latente tra questo vecchio personale dirigente e quello nuovo, che viene dai Fasci e pretende il posto d’onore. Dei socialisti, si insiste nell’indicare il processo di degradazione tra i massimalisti che continuano a usar parole grosse ma non fanno niente, e i riformisti che si danno le arie di possedere mezzi nuovi di politica, ma non sanno impostare nulla di serio nemmeno loro.

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« La politica attuale dello Stato borghese — scrive — è tipicamente dittatoriale. Il liberalismo ha com­ piuto il suo ciclo, scompare ogni divisione tra potere e potere e indipendenza di potere, si acutizza l’accen­ tramento nello Stato di ogni attività sociale, lo Stato si trasforma in quartiere generale della borghesia capi­ talistica, nella disperata difesa dei suoi privilegi di do­ minio. Esercito, magistratura, polizia, burocrazia sono strumenti del potere accentrato dello Stato. Il fascismo, sviluppandosi per iniziativa autonoma di alcune cate­ gorie di capitalisti, tende sempre più ad assumere forma di organizzazione statale... Il governo tenta di togliere anche al Parlamento gli ultimi poteri, mentre di fatto ogni attività legislativa è oramai passata nelle mani della burocrazia e del governo. Il partito socia­ lista non ha mai assunto di fronte a una situazione così grave un atteggiamento seriamente rivoluzionario, cioè non è mai riuscito a liberarsi degli elementi riformisti e controrivoluzionari che ne impedivano ogni azione, per iniziare un’opera di inquadramento, di prepara­ zione politica e tattica delle masse lavoratrici » h Dei popolari, che hanno avuto un successo eletto­ rale e si presentano come partito di governo, viene sot­ tolineata particolarmente la ambiguità. Questa, se da un lato consente loro di stare alla testa di masse di braccianti avanzate, dall’altro li spinge a cercare an­ che attraverso la collaborazione con i fascisti un posto alla testa dello Stato. « ... In essi si viene raccogliendo1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Dovere rivoluzionario, in Ordine Nuovo, A. I., n. 134, 15 m aggio 1921.

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una nuova classe dominante, costituendo una rete di interessi nuovi, formando un complesso di piccole chiese e di grandi clientele, in opposizione alle altre che esi­ stevano prima. La resistenza ai popolari trae le sue origini da questo contrasto di clientele. Ma nessun prin­ cipio superiore per l’organizzazione dell’economia e della vita italiana può essere attuato da questo partito che pure si presenta tanto modestamente rinnovatore. Tutto ciò che esso può creare sarà una copia di quello che prima esisteva. Quello che in esso vi è di buono, le masse, non può affermarsi se non per via dialettica: con una negazione, acquistando una coscienza di sè che le ponga contro l’organismo nel quale le si vuole per forza inquadrare »1. Non vi è nessuno dei fatti che seguirono che non rientri in questo quadro, che non vi trovi la sua spie­ gazione giusta. Barcollando tra la demagogia parolaia e l’opportunismo i socialisti arrivarono, il 2 agosto 1921, a firmare coi capi fascisti un assurdo « patto di pacifi­ cazione », col quale la violenza fascista veniva di fatto legalizzata e condannata qualsiasi resistenza. Minando coi loro intrighi le basi di qualsiasi governo, i popolari rendevano inevitabili le soluzioni più radicali. Intanto Mussolini sale due volte le scale del Quirinale per essere consultato dal re. I vecchi uomini politici si logorano e son buttati via, uno dopo l’altro. Ma non basta capire come stanno le cose: bisogna saper lavorare e combattere in modo che consenta il1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , L a supremazìa del Partito popo­ lare, in Ordine Nuovo, A. I, n. 238, 27 agosto 1921.

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massimo sforzo per cambiarle. La direzione del partito comunista non era ancora all’altezza di questo com­ pito. Nel marzo 1922 si tenne a Roma il secondo con­ gresso del partito, e l’occasione, che era propizia, fu perduta. La direzione vi presentò un ostico documento, le cosiddette « tesi di Roma », dove era teorizzata la sua posizione settaria, era negato il pericolo di un colpo di mano fascista, era circondata da un filo spi­ nato di riserve la politica del fronte unico. Gramsci, Togliatti, Scoccimarro, non erano d’accordo, ma non si pronunciarono se non con qualche critica in sedute di commissione. Non presero posizione aperta al congresso. Qui la giusta linea politica fu difesa con chiarezza ed energia solo dal comunista bulgaro Kolarov, in modo che impressionò tutti. Quello che si temeva, tuttavia, ed ostacolò la lotta contro il settarismo bordighiano, era di confondersi con un gruppo di destra che faceva capo a Tasca e ad altri compagni di cui non ci si poteva fidare. Si dimenticò che il bolscevismo si ^sviluppa com­ battendo su due fronti, che questa è la legge del suo sviluppo. Dal congresso Togliatti fu eletto per la prima volta membro del Comitato centrale, che era allora di soli 14 membri. Gramsci uscì dallTtalia qualche mese dopo il congresso: si recò a Mosca a rappresentare il partito negli organismi internazionali, dove i comunisti italiani erano sempre più vivacemente criticati. A To­ gliatti spettò il compito di muovere, nella critica del settarismo estremista, i primi passi seri. Nei mesi successivi, dal marzo all’agosto, venne compiuto l’ultimo sforzo per arrestare l’offensiva fa­ scista e venne compiuto non senza qualche successo.

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Il Comunista suonava campana a martello. Non vi è episodio di resistenza spontanea o organizzata di po­ polo che non sia messo in luce, commentato, mostrato ad esempio. La critica ai massimalisti, che non vanno più d’accordo con i riformisti, è serrata, ma accompa­ gnata dall’invito all’unità d’azione. Tra gli scritti di Togliatti e i « mattoni » di cui Bordiga impone la pub­ blicazione come editoriali, il tono, però, diverge. Quando nel maggio i lavoratori del quartiere di San Lorenzo a Roma, tutti uniti, prendono le armi, rispondono col fuoco a una violenta provocazione fa­ scista e, barricatisi nelle loro sedi, le difendono spa­ rando, Togliatti sottolinea il significato politico unitario del fatto. « L ’insurrezione dei popolani del quartiere di San Lorenzo a Roma — egli scrive — non è la fine del fascismo, ma è un muro opposto alla sua avanzata: è un esempio di come si deve lottare: è un mezzo che deve condurre all’azione generale ». E più in là ag­ giunge, a proposito di analoghi fatti di resistenza po­ polare verificatisi nel Piemonte : « Ripetere ancora oggi l’errore di lasciare soli i lavoratori, dove questi scen­ dono in lotta, sarebbe colpa imperdonabile. Ai lavora­ tori del Novarese e della Liguria deve esser data oggi tutta la nostra solidarietà. Ma senza ritardi e senza tentennamenti. Dire che ognuno deve assumere le pro­ prie responsabilità è troppo poco. I lavoratori vogliono sapere che cosa intendono fare i capi responsabili. Ba­ sta con le interrogazioni e con le chiacchiere a Monte­ citorio. Gli interessi e la vita della classe operaia e contadina si difendono oggi sulla piazza, dove essa è aggredita da bande armate. Chi non vede questi prò-

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blemi è fuori oramai dalla realtà, non si accorge del pericolo che incombe su tutta la classe operaia »L Non solo il linguaggio, ma la linea politica sono nettamente diversi dallo schematismo settario per cui tutto si svolgeva fatalmente e tutto si sarebbe risolto in una specie di farsa tra politicanti della borghesia. Così non la capivano i lavoratori, che sentivano incom­ bere la catastrofe e volevano si tentasse ancora qual­ cosa. Il desiderio di unità era così forte, che i capi sindacali consentirono alla creazione della Alleanza del lavoro tra tutte le organizzazioni professionali. Man­ cava però l’accordo coi partiti e dei partiti tra di loro. I socialisti erano sull’orlo di una nuova scissione, per­ chè i riformisti avevano finalmente detto di voler an­ dare al governo e i massimalisti si opponevano. La stessa Alleanza, sorta troppo tardi e priva di un pro­ gramma vasto e chiaro, riduceva la sua attività a incontri tra dirigenti. Lascia cadere, senza prenderli in mano, i movimenti spontanei del Piemonte, della Lom­ bardia, delle Marche, ma quando i fascisti danno l’at­ tacco alle province piemontesi e a quella di Cremona e il governo cade, si decide alfine a dare l’ordine di uno sciopero generale. Lo sciopero vi fu, fu imponente ed eroico, ma non condusse a niente perchè nessuno sapeva, tutto sommato, a che cosa dovesse condurre. Nel comunicato di proclamazione dello sciopero non vi era nemmeno la parola « fascismo ». Di poco prima dello sciopero è il commento di To-1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i ,. Resistere e prepararsi, in Ordine Nuovo, A. II, n. 195, z 5 luglio 1922.

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gliatti alla visita fatta da Turati al re, per la crisi aperta dalle dimissioni del primo governo dell’on. Facta. E pieno di amarezza ed è di condanna severa per chi, dopo aver fatto ostacolo per anni a qualsiasi conse­ guente e positiva politica di classe, saliva le scale del Quirinale quando tutto era in rovina, quando non vi era più nulla da salvare. Subito dopo, Togliatti si spo­ sta a Torino per seguire di là lo sciopero al quale i co­ munisti erano ben lontani dal dare un semplice valore dimostrativo. Essi sapevano o intuivano che il falli­ mento o la capitolazione, in quel momento, avrebbe significato la fine completa delle possibilità di azione per i sindacati e gli organismi dei lavoratori, i quali sarebbero stati sottoposti a una successiva ondata di reazione squadrista; si battevano quindi perchè lo sciopero fosse non già un ammonimento solenne, ma un vero e proprio movimento insurrezionale, che col­ pisse il fascismo nei suoi centri, lo demoralizzasse, concedesse respiro e restituisse fiducia alle masse lavo­ ratrici da due anni colpite sanguinosamente. Forse in questa direzione avrebbero potuto fare molto di più, se in tutto il paese una diversa politica li avesse prece­ dentemente portati a essere davvero alla testa delle masse. Le giornate eroiche di Parma ne dettero la prova. Ne dette la prova la tenace resistenza di Bari. Finito lo sciopero senza un successo, l’avanzata dei fascisti verso il potere non potè più essere arrestata. Prima evidente conseguenza politica della situazione fu una nuova scissione del partito socialista, che si ebbe il primo ottobre, al congresso di Roma. I massi­ malisti ebbero una lieve maggioranza e questa volta

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decisero di separarsi dai riformisti. I riformisti costi­ tuirono un loro partito, decisi alla collaborazione go­ vernativa; ma con chi volevano collaborare, al punto in cui le cose erano arrivate? Per i comunisti si poneva un problema nuovo. Bi­ sognava, raccogliendo i frutti di due anni di critiche e di lotte, giungere al più presto alla unità politica con i massimalisti. Bordiga, naturalmente, era contrario, perchè la cosa non rientrava nei suoi schemi: ma To­ gliatti questa volta ruppe gli indugi e la disciplina. Sul Comunista commentò il congresso socialista con un corsivo dove si poneva con chiarezza la questione della nuova unità. I tipografi che lo composero furono su­ bito conquistati dalla nuova linea e lo dissero a To­ gliatti prima ancora che il giornale fosse uscito. Ma dal centro venne la critica aspra, anche se non potè venire una sconfessione aperta, perchè lo impedì il com­ pagno Rakosy, che allora era in Italia rappresentante dellTnternazionale. L ’Internazionale aveva già convo­ cato il suo IV congresso e insisteva perchè l’azione del partito italiano venisse resa conforme alla tattica leni­ nista. Fu convocato il Comitato centrale e Bordiga era convinto di ottenere da esso un appoggio unanime per la sua linea settaria, infantile. Ma, in assenza di Gram­ sci, l’attacco fu dato da Togliatti, d’accordo col vec­ chio Anseimo Marabini di Imola e con Egidio Gennari. E fu dato con tale efficacia che una mozione di Togliatti e Marabini, di fiducia nella politica e nelle proposte della Internazionale comunista, fu approvata a mag­ gioranza. Il primo passo era fatto. Naturalmente, Bor­ diga ripose la mozione nel cassetto e dalla lista dei

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delegati al IV congresso il nonaie di Togliatti venne cancellato. Così avvenne che egli fu presente, al suo posto di lavoro, durante la marcia su Roma. Allora, durante la marcia su Roma, egli fu per la prima volta posto, dal nemico, viso a viso con la morte. Ciò accadde il secondo giorno della marcia. Il Comunista, testardamente, continuava e voleva continuare a uscire. Il numero era stato composto ed era di una violenza inconsueta, come ci si può immaginare. Erano le cin­ que e si attendeva la tiratura. Togliatti non era più nella sala di impaginazione, ma in quella del direttore della tipografìa. Entrò una squadra di camicie nere scalmanate, con scudisci, fucili, bombe a mano, pistole. Le pagine di composizione in un istante furono buttate aU’aria e poi cominciò la caccia ai redattori. Un gruppo di questi riuscì a infilare le scale e nascondersi nei piani superiori. Nell’ufficio del direttore, fu chiesto il nome a tutti e Togliatti, tranquillo, disse chi era e cosa faceva. Era trovata la preda! Fu preso a scudi­ sciate sul viso e gli furono tolti i documenti. Non l’oro­ logio come è stato detto, perchè non ne possedeva. Poi fu messo contro il muro, in fondo a un lungo corri­ doio e sembrò dovesse aver luogo, subito, la esecu­ zione sommaria. Allora qualcuno si accorse che si fi­ niva in una tragedia e avvertì i redattori che erano fuggiti per le scale. Questi incominciarono a far chiasso, sfondarono un lucernario, spararono. Gli squadristi, sor­ presi, si buttarono tutti di corsa su per le scale e a guar­ dia di Togliatti ne rimase uno solo, un ufficiale dell’e­ sercito in divisa. Fu questi stupito del sangue freddo di cui Togliatti aveva dato prova? Non voleva che si

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spargesse sangue? Si avvicinò al prigioniero, gli fece qualche domanda, e poi un ultimo colpo di scudiscio e un « Vattene pei fatti tuoi ». Togliatti sgusciò fuori per una porticina della stamperia che non era sorve­ gliata, e scomparve. Mal ne incolse ai fascisti. Recatisi al comando, che era poco distante nel Palazzo Marignoli, consegnarono i documenti di Togliatti. Ma qui vi era il quadrumviro De Vecchi, che era di Torino e ben conosceva quel nome : andò sulle furie, tempe­ stò che « quello » non lo si doveva lasciare andare, ri­ mandò la squadracela in tipografia, alla ricerca. I po­ veretti ebbero anche l’ingenuità di raccontare la cosa ai tipografi, che erano ancora pieni di spavento. Così gli restituirono il buon umore. Soppresso il Comunista, risultati vani gli sforzi per far uscire a Roma, subito, un giornale clandestino, Togliatti fu mandato a Torino, per fare qui lo stesso tentativo e a Torino, il 7 novembre, commemorò la Rivoluzione d’Ottobre, davanti a una folta assemblea di operai, nel circolo del Borgo Vittoria.

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, A Torino, era scomparso l’Ordine Nuovo. Soltanto dopo la marcia su Roma, per ordine esplicito del nuovo Presidente del Consiglio e del Prefetto, appoggiati dalle forze armate e dalla polizia, i fascisti avevano osato entrarvi, avevano dato fuoco, saccheggiato, fatto a pezzi alcune macchine tipografiche. Togliatti, aiutato da Montagnana e altri, tentò di rimettere in piedi una tipografia per la stampa legale, ma non fu possibile. Allora si passò alla stampa clandestina e parecchi numeri vennero fatti con mezzi prima tipografici, poi litografici. Si diffondevano nelle fabbriche, venivano cercati, pagati. La classe operaia non era piegata an­ cora. I fascisti lo sapevano, lo sentivano e il quadrum­ viro De Vecchi preparò e organizzò, con premeditata ferocia, la strage. Venne provocato un incidente, con uno scambio di colpi di rivoltella e dei caduti, in una strada qualsiasi della periferia, la notte. Il mattino dopo, mobilitazione degli squadristi, occupazione della Camera del lavoro e caccia all’uomo. Si ignora a tutt’oggi il numero dei morti della « strage di dicembre ». Dei dirigenti più noti il segretario dei ferrovieri, Carlo Berruti, fu preso nella Camera del lavoro, portato in un prato e fucilato. Il segretario dei metallurgici, Pie­ tro Ferrerò, fu attaccato per i piedi dietro un camion e questo condotto a grande velocità per una delle vie centrali, mentre la testa e il busto si sfracellavano con­ tro il suolo. Altri militanti operai furono uccisi a freddo

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nelle loro case o strappati da esse a forza e nessuno ne seppe più nulla. Furono identificati ventun morti e 24 feriti gravi. A Togliatti, Gramsci, Roveda, Terra­ cini e molti altri fu dato il bando con grandi manifesti murali. Togliatti scampò per caso, questa volta, perchè dalla Camera del lavoro ove lavorava, era uscito mez­ z’ora prima che vi entrassero gli assassini. Rimase in città, ma dovette cominciare sul serio la vita clande­ stina. « Furono gli operai stessi a farmi capire che dovevo fare così — narra oggi, rievocando un episodio signifi­ cativo di quei giorni. — Nei primi tempi io non mi guar­ davo. Giravo in pieno giorno nei quartieri ove ero più conosciuto, come prima. Fu un pomeriggio, su uno dei tram che vanno dalla Fiat al centro della città. Salii e rimasi sulla piattaforma gremita. Erano tutti operai e mi conoscevano : io non li conoscevo. Ebbi un saluto da tutti, con un gesto e sguardi cordiali. Ma poi, uno dopo l’altro e fissandomi con serietà, quasi ad ammonirmi, fecero fermare e scesero, e non erano ancora giunti a casa. Capii. Che avrebbero potuto fare se un gruppo di fascisti armati mi fosse saltato ad­ dosso? Era un rischio inutile. I tempi erano cambiati. Bisognava lavorare e vivere in un modo diverso ». Da Roma venne l’ordine di dare un aiuto alla rior­ ganizzazione delle forze del partito nella città e le dif­ ficoltà apparvero subito superiori al previsto. Due anni di direzione settaria avevano allentato i legami viventi dei compagni con le officine, diminuito la iniziativa del semplice iscritto, resa fredda, secca tutta l’organizza­ zione. I risultati furono scarsi. Una vera riorganizza­

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zione non si ebbe che parecchi mesi dopo, quando le formazioni elementari del partito vennero trasformate sui luoghi di lavoro, nelle fabbriche. Ma per far questo era necessario che tutto l’orientamento del partito su­ bisse una correzione radicale. Per ottenere questo si stava lavorando a Mosca, al IV Congresso dell’Internazionale comunista. La «que­ stione italiana » vi fu ampiamente discussa e pietra di paragone del dibattito fu questa volta, oltre i problemi generali, quello concreto della fusione col partito mas­ simalista liberatosi dai riformisti. I dirigenti dell’Inter­ nazionale giustamente la richiedevano e Giacinto Me­ notti Serrati, riconóscendo onestamente i suoi errori del passato, la voleva anche lui. La delegazione ita­ liana, legata al vecchio settarismo, dovette essere con­ quistata con una paziente opera di persuasione, svolta da Gramsci e Scoccimarro. Quando il risultato fu rag­ giunto, dovette essere cambiata la direzione del par­ tito, perchè Bordiga si rifiutò di cooperare alla nuova polìtica. La condanna del suo operato fu esplicita : « Il nostro partito —- dice la decisione presa — ha commesso errori madornali. Esso ha fallito nella questione degli Arditi del popolo. Noi fummo troppo deboli per fare degli Arditi del popolo una truppa d’assalto contro il fascismo. Il partito ha commesso l’errore dottrinario di ignorare gli Arditi del popolo. I nostri amici ita­ liani guardano all’Ardito del popolo dall’alto in basso: ecco un grave errore dei comunisti ». La direzione del partito al ritorno in Italia avrebbe dovuto essere presa da un «comitato di fusione» com­ posto di massimalisti e comunisti. La fusione però non

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potè farsi, per le resistenze sorte nello stesso partito massimalista. Al suo ritorno in Italia, infatti, in un nuovo Congresso del suo partito a Milano, Serrati venne sconfessato e di « fusione » non si potè più parlare. Intanto Gramsci era rimasto a Mosca e Scoccimarro vi ritornò dopo qualche mese. Si dovette quindi for­ mare una nuova direzione provvisoria e fu allora che Togliatti, che era a Torino nuovamente angustiato da postumi delle precedenti infermità polmonari, venne chiamato a farne parte e ne fu subito l’elemento prin­ cipale. La sede della direzione venne fissata a Milano. A Roma infatti gli uffici centrali del partito, organizzati in realtà con criteri cospirativi abbastanza sommari e ingenui, erano stati tutti scoperti dalla polizia in pochi giorni. Bordiga stesso era stato arrestato e rinviato a giudizio per complotto contro la sicurezza dello Stato, insieme con Grieco, D ’Onofrio, Dozza e un folto gruppo di dirigenti della periferia. A Milano si dovettero or­ ganizzare sul serio in modo clandestino (« illegale ») il centro del partito, la sua attività quotidiana, i suoi collegamenti con la periferia. Incominciò quella che avrebbe dovuto essere per 20 anni, in Italia e nei paesi di emigrazione, la norma di vita dei dirigenti comuni­ sti: — il nome falso, i documenti falsi, il controllo scrupoloso, di ogni giorno e di ogni ora, su tutti i con­ tatti con il mondo esterno, e al minimo accenno di sorveglianza sospetta o di un errore commesso, il cam­ biamento immediato di abitazione, di ufficio, di città, di modi d’esistenza. Tutto ciò disponendo di mezzi materiali sempre limitati, alle volte limitatissimi, da 8

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amministrare con eccesso di parsimonia per poter re­ sistere, andare avanti, far fronte a qualsiasi evento, a qualsiasi sorpresa. Anche la vita personale diventava in quelle condizioni cosa profondamente diversa da ciò che essa è per tutti gli uomini. Si introduceva un co­ stume di severità, si formava un animo di combat­ tenti. Togliatti, anche per le sue condizioni di salute, non risiedette a Milano, ma ad Angera, in una casetta do­ minata dai ruderi del castello. La compagna Camilla Ravera (Silvia) e il compagno Giuseppe Amoretti fa­ cevano la spola con Milano, ove Togliatti stesso scen­ deva ogni tanto per riunioni e incontri più importanti. Dalla casetta di Angera, però, si dovette fuggire verso la fine dell’estate. Si era presa troppa confidenza col posto, sino ad organizzarvi una riunione abbastanza larga, di una decina di compagni. La cosa destò dubbi nel vicinato: la brava compagna Lina Morandotti, di Milano, che attendeva ai lavori di casa, raccolse qual­ che conversazione sospetta presso i negozianti, e tutto, di colpo, venne piantato in asso. A Milano, però, le cose non andarono meglio, perchè poche settimane dopo, nel settembre 1923, forse per la denuncia di una spia, tutto il gruppo dirigente venne sorpreso dalla po­ lizia, in casa di un operaio, nei pressi di Porta Tici­ nese. La riunione era convocata per decidere, in par­ ticolare, della ripresa della pubblicazione di un quoti­ diano, che così dovette essere rinviata fino al 1924. Insieme con Togliatti, che presiedeva la riunione, fu­ rono arrestati Egidio Gennari, Mario Montagnana, Giu­ seppe Vota, Luigi Guermandi, e altri. Tutti furono de­

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nunciati per complotto contro la sicurezza dello Stato, ma la detenzione non fu lunga. In ottobre, infatti, fi­ niva con un’assoluzione generale il processo contro gli arrestati di Roma. Allo scadere dei tre mesi di deten­ zione preventiva anche i magistrati milanesi misero tutti in libertà, il 20 dicembre 1923, con un non luogo a procedere pronunciato in istruttoria per insuf­ ficienza di prove. Il centro dirigente si trasferì un’al­ tra volta a Roma. Il breve periodo di Milano non fu però senza frutti. Era ancora presto, soprattutto data l’assenza di Gram­ sci, per affrontare in pieno tutte le questioni del par­ tito. Non era presto, però, per mettere a posto i giudizi del partito sul fascismo, sul suo colpo di Stato e sulle trasformazioni politiche ad esso seguite. Si doveva final­ mente gettare a mare, in questo campo, lo schemati­ smo infantile che aveva paralizzato una parte della facoltà di giudizio anche dei compagni migliori. To­ gliatti si dedicò a quest’opera con gli articoli che venne pubblicando, prima sul Lavoratore che aveva ripreso a pubblicarsi a Trieste, e poi sullo Stato operaio che si pubblicò settimanale a Milano a partire dal mese di agosto del 1923, redatto da Felice Platone. Il governo formato da Mussolini dopo il colpo di Stato era sorto sotto singolari auspici. Il 31 ottobre la Confìndustria aveva lanciato al Paese un manife­ sto ove si diceva che « le forze produttive della nazione avevano bisogno di un governo che assicurasse una vo­ lontà e un’azione. Questo governo ci è stato promesso da chi è stato chiamato a formarlo dalla fiducia del re ». Obbedienti a questo esplicito comando, i popolari

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e i liberali erano entrati nel governo, e il 16 novembre, dopo il vilipendio del Parlamento fatto da Mussolini nel suo discorso programmatico, De Gasperi e il suo gruppo avevano votato la fiducia e i pieni poteri. Il io dicembre, a Milano, liberali e popolari bloccavano con i fascisti per prendersi il Comune con una farsa elettorale. Il Consiglio dei ministri, il 15 dello stesso mese, approvava la richiesta di Mussolini di agire « con tutti i mezzi » contro i « provocatori di disordini ». Si vide nel massacro di Torino, tre giorni dopo, che cosa volessero dire queste espressioni, ma i popolari e De Gasperi erano sempre d’accordo. Anche all’estero il go­ verno fascista fu salutato con grida di gioia dai rea­ zionari di tutte le risme. Il Times approvò i provvedi­ menti di Mussolini definendoli una « reazione salutare al bolscevismo ». Lo stesso fece il Morning Post, e fece in Francia tutta la grande stampa ufficiosa. Il governo francese ricavò d’altra parte dalla marcia su Roma un rafforzamento notevole delle sue posizioni internazionali. Gli atti del governo fascista furono dall’inizio la espressione di una politica apertamente classista, nel­ l’interesse dei padroni e contro i lavoratori. Dopo aver dato un contentino ai sindacalisti collaborazionisti sta­ bilendo per decreto-legge le otto ore di lavoro, Musso­ lini abolisce il Primo maggio, licenzia tremila ferrovieri e riduce d’autorità il salario nelle aziende dello Stato. Contemporaneamente sopprime l’imposta sugli articoli di lusso, scioglie la commissione incaricata di rivedere i contratti per le forniture di guerra, abolisce la nominatività dei titoli e dei valori industriali e bancari, sopprime il decreto che regolava l’occupazione di terre

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incolte, aumenta il dazio sul grano, dà piena libertà alle disdette agrarie. Altre misure sono a favore delle gerarchie ecclesiastiche, che appoggiano il governo fa­ scista senza riserve, sino a concedergli, nell’aprile 1923, di cacciare dal potere i popolari, che servilmente, ma invano, mendicano ancora le grazie di Mussolini e gli fanno credito sino aH’ultimo. Nello stesso mese di aprile, Togliatti mette in ri­ lievo con precisione l’elemento fondamentale della si­ tuazione. « Avvenimenti di questi giorni, quali discorsi uffi­ ciali e ufficiosi di cui sono prodighi i capi del fascismo e la rinuncia di Mussolini alla collaborazione dei popo­ lari, vengono a confermare le nostre previsioni sulla strada che seguirà il fascismo nei suoi sviluppi ineso­ rabili. Inesorabili è il termine appropriato, non solo perchè il fascismo si propone di schiantare tutti gli ostacoli che incontrerà sulla via, ma anche, e più an­ cora, perchè esso non ha facoltà di scelta ed è ineso­ rabilmente costretto da una dura e inviolabile legge di vita a continuare la sua opera di asservimento della classe operaia e si troverà ben tosto costretto dalla stessa legge a portare a compimento la sua offensiva contro il ceto medio. Considerare la conquista del potere da parte del fascismo, come una conquista della piccola e media borghesia è un errore in cui sono ca­ duti molti scrittori politici e che ha generato previ­ sioni inavverabili »1. 1 P a l m ir o T o g l ia t t i ,

tore, 28 aprile 1923.

Sviluppi inesorabili, nel Lavora­

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Qui vi è un’evidente preoccupazione e capacità di sottolineare la fondamentale natura di classe del fa­ scismo, ma nello stesso tempo di non cadere in uno schema infantile, di non semplificare le cose sino a non capirne più nulla. Vi è la preoccupazione di non perder di vista gli interessi e gli spostamenti di quel ceto medio che in Italia è così numeroso e importante. Questa preoccupazione sarà costante in tutte le suc­ cessive analisi della situazione del Paese, e da essa deriveranno molte delle azioni del partito. La cacciata dal governo dei popolari è commen­ tata con una chiara indicazione delle responsabilità e della natura reazionaria di questo partito. « Il partito popolare — scrive Togliatti — ha di fatto reso possibile la vittoria per via antiparlamen­ tare del fascismo, a causa della equivocità del suo atteggiamento... Le vicende del P. P. offrono il con­ tinuo spettacolo del risorgere, al di sotto delle nuove forme e degli atteggiamenti nuovi, di un’anima vec­ chia. Quest’anima non è “ popolare” , ma “ clerico-moderata ” , non è l’anima di un uomo politico che si senta esponente di un movimento di masse, ma è l’a­ nima del conservatore per il quale la coscienza e la forza delle masse deve essere impedita di svilupparsi onde non ne venga danno ^alla compagine dello Stato e della società; è l’anima del conservatore che, per con­ tenere questo sviluppo, nulla crede possa servire me­ glio della autorità e del potere spirituale della Chiesa »L1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , I l destino dei popolari,

ratore, 6 luglio 1923.

nel Lavo­

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Nel luglio 1923 viene presentata la famigerata legge Acerbo, da cui De Gasperi ha copiato la sua legge truffa attuale. Nel commento di Togliatti sul Lavora­ tore il fuoco non è però concentrato contro il fascismo, il quale con la legge Acerbo dette inizio alla organizza­ zione formale della sua dittatura aperta. È concentrato contro i popolari, che resero possibile, con il loro at­ teggiamento di rinnovata fiducia a Mussolini, l’appro­ vazione della legge da parte della Camera. « Nelle crisi politiche che durante questi anni hanno scosso la compagine dello Stato, i dirigenti di questo, interessati al mantenimento del loro potere, hanno con­ tinuamente fatto appello all’anima di vecchi clericali, sussistente sotto la nuova vernice riformatrice e pro­ gressista del partito popolare. Il brutto è che essi in fondo non hanno mai fatto questo appello invano e sono riusciti a rendere prevalente, per i popolari stessi, l’interesse della conservazione all’interesse del rinnova­ mento cui li spingevano le masse raccolte nel loro par­ tito e nelle loro organizzazioni. Ricordare gli episodi ora non servirebbe: serve invece osservare come il con­ trasto culmini, oggi, nella lotta che si svolge attorno al progetto fascista di riforma elettorale. Se il pro­ getto fascista sarà approvato — ammonisce Togliatti rivolto ai popolari — ciò vorrà dire che il tipico pro­ gramma “ riformista” dei popolari, programma che del resto riproduceva abbastanza bene le aspirazioni delle classi da essi organizzate, diverrà per lungo tempo inat­ tuabile. Non si potrà più parlare di un progresso di coscienza politica e di conquiste economiche entro i limiti della Costituzione e delle forme dello Stato at-l

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tuale. La riforma elettorale fascista esclude la possi­ bilità di un progresso simile. Essa non ammette che un mutamento di classe politica dirigente possa avve­ nire, se non per via rivoluzionaria ». Approvata la legge Acerbo, ciò che viene giusta­ mente sottolineato è che l’approvazione sia avvenuta in seguito a determinati accordi politici. « La verità è che nella lotta per la riforma elettorale quello che ha avuto valore non è stato il risultato, ma sono state le precedenti vicende e gli episodi della battaglia. Il ri­ sultato di avere una Camera senza opposizione era già stato ottenuto con il discorso del “ bivacco di mani­ poli” . Avere tra i deputati due terzi di fascisti è già qualcosa di più, ma solo se lo scopo è ottenuto con una manipolazione di liste fatte a Roma »J. Le resistenze e reazioni dell’opinione pubblica non sono oramai più da cercare nell’ambito dei vecchi par­ titi borghesi. La paralisi di questi partiti, in questo momento, già preannuncia il loro fallimento del pe­ riodo aventiniano. Si hanno invece alcune curiose ma­ nifestazioni di massa, in forme nuove, come quella del soldino con l’effige del re portato all’occhiello come simbolo antifascista. « Vi è certo già un successo di ironia — scrive Togliatti, nel Lavoratore del i° giu­ gno 1923, — nel costringere i così poco espressivi linea­ menti di Vittorio Savoia a diventare un simbolo sov­ versivo, obbligando i magistrati ad aprire un proce­ dimento per attentato alla sicurezza dello Stato contro1 1 Sulla riforma elettorale, in Stato operaio, A. I, n. 1. 16 agosto 1923.

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chi li porta in giro con troppa ostentazione, ma piìi di questo conta il successo politico. Gli uomini politici della classe dominante sono costretti a tener conto di un fattore che essi credevano oramai di poter trascu­ rare per sempre: del parere degli oscuri, degli anonimi, degli artigiani, dei contadini, di coloro che non sanno ancora precisamente quello che vogliono, ma una cosa già sanno con precisione : di essere contro il fascismo ». Questi gruppi sociali, la cui irrequietezza viene alla luce prima che altrove in alcune zone del Mezzo­ giorno, mancano però non soltanto di una coscienza politica precisa, ma anche di una guida che aiuti il formarsi di questa coscienza.. La questione del partito, della sua efficienza e di una sua giusta linea politica si ripresenta quindi anche attraverso queste manifestazioni, ed esige una soluzione.

X.

Nel 1924, dopo il ritorno del centro del partito a Roma, l’azione volta a liquidare lo schematismo infan­ tile di sinistra prese un passo più spedito. Fu un anno notevole, sia per i fatti di ordine internazionale che per quelli italiani. Internazionalmente, si ebbe un mar­ cato spostamento, dalla Francia verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti, dell’asse della politica mondiale. Dalla occupazione armata della Ruhr si passò, nei confronti della Germania, al piano Dawes. In Francia vinse le elezioni il blocco delle sinistre. In Inghilterra andò al potere il Labour Party. La borghesia europea, rincuo­ rata dalle iniziative americane, si sentiva più decisa e sicura di sè. Poteva pensare di nuovo a un periodo di sviluppo relativamente tranquillo, sulla base delle isti­ tuzioni democratiche borghesi tradizionali. In Italia, invece, si aprì la più profonda crisi interna del regime fascista e il movimento operaio e democratico venne posto ancora una volta alla prova in una situazione aperta, dove tutti i cambiamenti apparvero di nuovo possibili. La organizzazione comunista era ancora chiusa in sè, imbozzolata e un poco stordita per i colpi ricevuti. Togliatti ne aveva avuto la chiara visione tanto a To­ rino quanto a Milano e poi a Ferrara, dove si era re­ cato per un convegno clandestino di organizzazione. Quando morì Lenin, il 21 gennaio 1924, la direttiva di sospendere il lavoro nelle fabbriche per un breve

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periodo di tempo venne però seguita con una ampiezza che non si sarebbe potuta sperare. Seguì ad essa una larga azione di propaganda, con la parola d’ordine « Lenin è morto — il leninismo vive ». Le centinaia di riunioni commemorative indette dai comunisti furono affollate da lavoratori di tutte le tendenze politiche. Per uscir dalla stasi questo però non bastava. Era ne­ cessaria, da un lato un’azione politica nazionale, dal­ l’altro lato un profondo lavoro che trasformasse l’orien­ tamento dei quadri e degli iscritti e li mettesse al la­ voro per la conquista della maggioranza. L ’azione politica venne iniziata con la proposta di una alleanza antifascista per le imminenti elezioni po­ litiche, fatta dal partito comunista tanto ai riformisti quanto ai massimalisti. I risultati elettorali del 6 aprile successivo, studiati oggi con mente serena, dimostrano come la proposta fosse ben lontana dall’essere un puro espediente di propaganda e di polemica. Mentre il li­ stone fascista raccolse 4 milioni e 305 mila voti, le altre liste ne ebbero tutte insieme 3 milioni e mezzo e di questi ne andarono ai comunisti 268 mila. Tutto ciò in un clima irrespirabile di oppressione e violenza. Nessuno può dire come avrebbe potuto agire sulle masse lavoratrici la presentazione di una grande lista antifascista unitaria. I riformisti, però, respinsero la proposta con una lettera sgarbata, segno di assenza di qualsiasi spirito politico. I massimalisti risposero anch’essi in modo negativo, ponendo come condizione per una alleanza elettorale la formale riunifìcazione dei due partiti su basi programmatiche, esigendo cioè la scon­ fessione della scissione di Livorno. Si trattava di tor-

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nare indietro di tre anni e Togliatti chiarì esattamente la posizione del partito comunista : « La nostra pro­ posta di alleanza, — scrisse, — non è in contraddi­ zione con la nostra azione di Livorno e dopo. I massi­ malisti hanno approfittato di essa per mettere in di­ scussione quello che a Livorno e dopo è stato il nostro criterio direttivo, per ricordare che su questo punto essi contraddicono a noi e che vi è campo di distin­ guersi su questo punto di fronte alle masse. Ebbene, le masse noi le riteniamo oggi in grado di capire a fondo il nostro contegno. Siamo per l’unità di tutta la classe e facciamo ogni sforzo per realizzarla, ma alla classe vogliamo dare il solo strumento che la renderà capace di sfruttare ai fini della sua lotta la unità sua: il partito rivoluzionario. Alle condizioni precedenti Li­ vorno non vogliamo tornare »1. Soltanto il gruppo massimalista dei terzinternazionalisti, che faceva capo a Serrati, Mafh, Li Causi, Buf­ foni, ecc. accettò la proposta comunista. Questo gruppo si avviava in questo modo, rompendo la disciplina del partito socialista, alla collaborazione e alla unità or­ ganica con i comunisti, e partecipò infatti alla fonda­ zione del nuovo quotidiano del partito, uscito a Milano il 12 febbraio 1924, col titolo l ’ Unità, suggerito da Gramsci, che si era trasferito da Mosca a Vienna e il 6 aprile venne eletto deputato di Venezia. Per l’azione da svolgersi aU’interno del partito, To­ gliatti ebbe in quel momento una opinione divergente 1 P a l m i r o T o g l i a t t i , I l manifesto massimalista, operaio, A . II , n. 4, 1 feb b raio 1924.

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da quella di altri compagni. Riteneva non si dovesse procedere, per il momento, a nessuna consultazione na­ zionale; perchè i quadri dirigenti locali non erano an­ cora stati conquistati a una nuova posizione ideologica e politica. Prima di tutto si sarebbe dovuto fare que­ sta conquista, e per farla si trattava di accingersi sen­ z'altro a una profonda trasformazione di tutta la strut­ tura del partito. Questa opinione non prevalse. Si de­ cise invece di convocare, non appena Gramsci fosse rientrato da Vienna, una Conferenza nazionale con la partecipazione del centro dirigente, dei segre­ tari di regione e dei segretari di federazione. Traccia evidente della posizione di Togliatti si ha in un suo scritto, pubblicato dieci giorni dopo le elezioni e nel quale viene senz’altro rovesciata la vecchia po­ sizione settaria, secondo la quale il partito non avrebbe dovuto fare del reclutamento, ma accontentarsi dei «pochi ma buoni » iscritti dalle prime ore. « La ten­ denza a mantenere limitato il numero degli aderenti, — scrive Togliatti, — trae origine in parte da una errata concezione dei compiti che in periodi di rea­ zione spettano a un partito rivoluzionario. Si ritiene che questo abbia esaurito la sua funzione quando è riuscito a mantenere immutata la sua fedeltà a una serie di affermazioni di principio, nelle quali è conte­ nuta la negazione della realtà presente e l’affermazione di una realtà avvenire che sarà il capovolgimento totale dell’oggi... In questo modo, presentata la rivo­ luzione proletaria come esito necessario di uno svi­ luppo fatale di fattori esclusivamente oggettivi, ridotta la dialettica del marxismo a un tranquillo evoluzio­

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nismo pseudo scientifico, in cui per giunta le fasi della evoluzione si lascerebbero prevedere e tracciare in anti­ cipo con sicurezza completa, il compito del «partito della rivoluzione non può a meno di subire esso pure una singolare riduzione. Esso è il partito che diffonde l’attesa, che mantiene viva la certezza, che tiene accesa la fiaccola. L ’ “ idea” cammina con le sue gambe, non con le nostre. Essa deve quindi ad ogni modo andare avanti da sè. Quello che importa è tener fede all’idea. E “ fedéli ” si chiamano gli aderenti al partito della rivoluzione. Negare, tenacemente negare e attendere, — questa è la loro funzione ». « Il problema del reclu­ tamento, — aggiunge poi, sviluppando la giusta posi­ zione leninista, — è... problema in prima linea poli­ tico. È per il partito il problema di collegare il suo sviluppo con quello delle forze reali rivoluzionarie, di poter reagire e influire su di esso, di diventare così a sua volta fattore efficace del processo della rivoluzione ». Rispondendo poi alle osservazioni di quei compagni che già subivano il peso e la preoccupazione della condi­ zione di semilegalità in cui il partito era costretto a vivere, così concludeva: «Voi non dovete dire: orga­ nizziamo venti compagni e non cento perchè se ne organizzassimo cento la nostra sezione non sarebbe più in grado di funzionare illegalmente. Dovete mettervi il problema in modo opposto. Dovete vedere quanti com­ pagni vi è necessario raggruppare per mantenere al partito tutta la sua efficienza, per tenerlo collegato in­ timamente con la massa che è orientata verso di noi, per rendergli possibile l’opera di conquista della mag­ gioranza della classe lavoratrice, e poi dovete porvi il

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problema di organizzare i gruppi e le sezioni in modo che si renda possibile l’assorbimento di quegli elementi che ci è necessario assorbire... La nostra “ illegalità ” deve essere quella che ci assicura il possesso dello stru­ mento più adatto a compiere il nostro lavoro, non quella che ci fa trovare nelle mani un levigato tron­ cone che non si sa più a che cosa serva »L Queste argomentazioni riuscivano però ancora osti­ che alla maggior parte dei quadri e lo si vide alla Conferenza nazionale, che si riunì nel mese di mag­ gio in una trattoria di campagna sulle montagne del comasco. Vennero presentate delle tesi scritte, dove però si può ancora osservare un eccesso di cautela nella cri­ tica alla ideologia estremista e all’azione passata del partito. Il rapporto introduttivo verbale venne fatto da Togliatti. Era presente e intervenne ampiamente Gramsci e la lotta si impegnò aspra con Bordiga, che era pure presente. Nel gruppo dirigente centrale la maggioranza fu con Gramsci e con Togliatti. Tra gli altri intervenuti, invece, che rappresentavano il qua­ dro intermedio del partito, la maggioranza si mantenne sulle vecchie posizioni. Questo non rivelò soltanto che la preparazione era stata insufficiente, e per forza, date le condizioni in cui il partito allora viveva; ma che il nuovo orientamento del partito non avrebbe potuto essere conquistato se non attraverso l’esperienza di una ampia e nuova azione politica. L ’attaccamento alle po­ 1

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Stato operaio, A . II ,

I l problema del reclutamento,

12, 17 aprile 1924.

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sizioni errate del passato era infine, per molti, questione più che altro di sentimento e legami personali. « Noi non ci meravigliamo, — disse Togliatti nel suo intervento conclusivo, •— che la maggioranza degli inter­ venuti si sia pronunciata a favore della cosiddetta sini­ stra. Quantunque siamo la maggioranza del Comitato centrale, siamo i primi a riconoscere che la maggio­ ranza del partito non potrà mettersi sul nostro ter­ reno se non dopo che la discussione avrà reso possi­ bile a tutti i compagni di superare il verbalismo privo di senso che spinge molti, anche se sono d’accordo con le cose che noi diciamo, a schierarsi contro di noi per­ chè credono che il dovére di un buon militante comu­ nista è quello di essere sempre a sinistra »1. Sulla questione dei rapporti con l’Internazionale e sulla natura di questa cosiddetta sinistra il resoconto di Stato operaio riferisce: « T o g l ia t t i : Noi abbiamo lavorato per un anno alla direzione del partito, compiendo noi stessi una elabo­ razione di pensiero e di coscienza politica, ma senza poter far partecipare a questo lavoro di elaborazione la massa degli iscritti... Vi sono dei residui di menta­ lità infantile che debbono essere eliminati. Noi siamo sul terreno della Internazionale. « B o r d ig a : Per forza! « T o g l ia t t i : N o, non per forza, perchè noi non siamo, come dicevi di essere tu, sul terreno della Inter­ nazionale « per disciplina ». Vi siamo per convinzione e ad occhi aperti e vogliamo che tutto il partito venga 1 Stato operaio, A . II , n. 18, 24 m aggio 1924.

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sul terreno della Internazionale... Noi siamo il partito della dittatura proletaria ; ma la dittatura del proleta­ riato sarà una parola d’ordine solo nel momento in cui saremo riusciti a condurre dietro a noi, sul terreno della lotta per la conquista del potere, le grandi masse della popolazione lavoratrice e non solo l’avanguardia che è raccolta oggi nei nostri partiti ». Uno dei temi di dissenso era quello della possibi­ lità che il gruppo dei massimalisti internazionalisti en­ trasse in blocco nel partito comunista, cioè si fondesse con esso. Ecco quanto dice su questo punto il reso­ conto : « T o g l ia t t i : Ci si è domandato che cosa pensiamo della fusione dal punto di vista teorico generale. Ri­ spondiamo che crediamo che la fusione con un altro gruppo o partito organizzato può imporsi in qualsiasi momento dello sviluppo rivoluzionario. « G ram sci : Anche dopo la rivoluzione. I bolscevi­ che dopo aver fatta la rivoluzione, si sono fusi con una parte del partito socialrivoluzionario. « T o g l ia t t i : I compagni della sinistra sono in grave errore quando portano la fusione come un esempio di instabilità e inconsistenza della base costitutiva della Internazionale. Non si tratta di un problema ammini­ strativo e organizzativo, ma di un problema politico che in qualsiasi momento si può presentare e deve essere risolto con mezzi politici adeguati ». Tutto il fuoco della polemica era naturalmente con­ centrato contro le cosiddette « tesi di Roma », l’indigesto documento politico nel quale Bordiga aveva for­ mulato in modo più chiaro i suoi schemi. Forse la

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maggioranza avrebbe votato per la nuova direzione, se questa avesse dichiarato di accettare almeno la parte generale di quelle «tesi », ma Togliatti fu su que­ sto punto nettissimo: « Noi non cerchiamo voti, — egli disse, — ma la chiarezza. Oggi non firmiamo più le tesi di Roma. Le abbiamo votate nel 1922 quasi come una formulazione teorica dello stato di necessità in cui allora si trovava il partito. Riteniamo che il loro spi­ rito generale porti a concepire lo sviluppo del partito come indipendente dallo sviluppo delle situazioni reali e dalle fasi che attraversa il movimento delle grandi masse lavoratrici. Il partito non è per noi concepibile al di fuori delle masse operaie, ma solo come una parte di esse. Il partito non può far sua una concezione che lo conduca a porre le basi e i quadri di una organizza­ zione politica la quale sia poi condannata ad aspettare di essere raggiunta dal movimento delle masse per adem­ piere alla funzione di guida e direzione. I partiti che si mettono in una condizione simile e concepiscono in questo modo il loro compito, non riusciranno mai a esercitare la funzione effettiva di preparazione e guida rivoluzionaria. Rintracciamo nelle tesi di Roma gli indizi di una concezione simile e la respingiamo in modo aperto »L Così erano rotti tutti i ponti con il vecchio orienta­ mento settario. Rimaneva però da compiersi la con­ quista dei quadri intermedi e di tutto il partito e ri­ maneva anche aperto il problema della direzione. Di questo si occupò il V Congresso della I. C., che si riunì 1 Stato operaio, A . II , n. 18, 24 m aggio 1924.

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a Mosca dal 17 giugno all’ 8 luglio 1924. Togliatti vi si recò in rappresentanza della maggioranza del centro dirigente. L ’ala settaria vi fu rappresentata dallo stesso Bordiga. Il gruppo di destra fu capeggiato da Angelo Tasca. Questa fu la prima volta che Togliatti si recò in Russia. La Russia era allora assai diversa da come è oggi. Si era nel periodo della « nuova politica econo­ mica »: a Mosca vi erano ancora numerosi negozi pri­ vati e la costruzione di un nuovo apparato industriale era agli inizi. Tutto il paese mostrava ancora tracce evidenti delle profonde ferite lasciate dalla guerra mon­ diale e dalla guerra contro gli invasori stranieri. Vi era però nel popolo e nel partito un entusiasmo travol­ gente, che sgorgava dal sano orgoglio per le grandi vittorie conseguite. Anche se non si assisteva ancora alla costruzione impetuosa del nuovo ordinamento eco­ nomico, ne erano già poste le premesse oggettive e gli uomini, soprattutto, erano già profondamente trasfor­ mati, sia i vecchi, sia quelli della nuova generazione. Tra tutte, la cosa più importante, per un militante operaio dei paesi d’Occidente, era il contatto diretto con i dirigenti del partito bolscevico e con questo par­ tito, con le sue questioni, con la sua insuperabile ca­ pacità di giusto orientamento ideologico e di energica e vigorosa azione politica. Togliatti intervenne ampiamente al congresso. « Le condizioni del movimento proletario in Italia, — disse, — sono oggi profondamente diverse da quelle di due o tre anni or sono. Non ci troviamo ancora in presenza di una ondata rivoluzionaria, la classe operaia non ha

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ancora riconquistato il posto di elemento determinante della situazione politica; ma ci troviamo a un punto di arresto nel processo di disgregazione e dispersione delle sue forze. In queste condizioni qual’è lo scopo che ci dobbiamo proporre?... Il partito ha oramai conquistato una incrollabile posizione nella coscienza della parte migliore della classe operaia. Che cosa deve fare oggi ? Deve diventare un partito di massa, il partito delle grandi masse operaie e delle grandi masse contadine d’ Italia ». Di qui viene dedotta la necessità di una politica non più settaria, ma tale che faciliti lo spostamento e l’avanzata delle masse lavoratrici. « Oggi le masse non si pongono più sul terreno della conquista del potere spontaneamente. Anche per portarle su questo ter­ reno, per porre il problema dello Stato agli strati de­ cisivi e agli strati più arretrati del proletariato, è ne­ cessario che i partiti comunisti compiano una mano­ vra. È questo il significato preciso che diamo alla pa­ rola d’ordine del governo operaio e contadino ». Riba­ dendo il carattere « politico » e non di principio di que­ sta parola d’ordine egli afferma : « Oggi se la nostra classe operaia vuole conquistare la posizione predomi­ nante che ebbe negli anni passati, deve eseguire una serie di manovre politiche e non può eseguirle se non sotto la direzione del partito comunista. Soltanto la guida del partito comunista potrà permettere alla classe operaia quella incondizionata, diligente, accurata, abile utilizzazione anche di ogni minima fessura tra i suoi nemici e di ogni possibilità di guadagnare un alleato, anche solo temporaneo, incostante, incerto, condizio-

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nato, che il compagno Lenin proponeva come scopo della nostra tattica » L Colui che parlava in questo modo dimostrava di essersi oramai impadronito dei principi fondamentali della dottrina leninista. Il congresso lo riconobbe, e Togliatti fu eletto a far parte del Comitato esecutivo della Internazionale. Tenne questa carica ininterrotta­ mente, sino allo scioglimento della Internazionale nel 1943. La direzione del partito, dati i risultati della Conferenza di Como, dovette essere ricostituita dall’alto in modo che assicurasse una giusta linea politica. Il gruppo di Gramsci, Togliatti, Scoccimarro e Terracini ebbe la maggioranza. Il gruppo cosiddetto di sinistra rifiutò di entrarvi, dimostrando di essere già disposto a ostacolare l’attività del partito. Per la destra, avrebbe dovuto entrarvi Angelo Tasca. Anche lui rifiutò, ma con motivi di ordine personale. Dato l’avvento del fa­ scismo al potere, scrisse in una lettera giustificativa, riteneva di dover pensare ai casi suoi, per garantire il proprio avvenire economico. E lo fece, rinunziando a essere un dirigente del partito per tentar di mettersi a fare l’avvocato, dove peraltro non riuscì.

1 Stato operaio, A . I I , 7 agosto 1924.

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L ’azione politica necessaria per orientare in modo nuovo il partito e restituirgli la sua capacità di svi­ luppo, venne efficacemente condotta dal nuovo gruppo dirigente sotto la guida di Antonio Gramsci. Gli avve­ nimenti politici ne offrirono la occasione, perchè aiuta­ rono a dar coi fatti la prova della impotenza, nella lotta contro il fascismo, di tutti gli altri gruppi po­ litici. Tutta la seconda metà del 1924 fino al 3 gennaio 1925 è piena della grande crisi del fascismo e delle opposizioni, che parte dall’assassinio di Giacomo Mat­ teotti. In questa occasione, dopo la scomparsa del de­ putato socialista il io giugno e il ritrovamento del suo cadavere seviziato il 16 agosto, d’un colpo tutte le con­ traddizioni su cui il fascismo aveva poggiato il suo po­ tere sembrarono emergere. Sembrò possibile, a un certo punto, che perfino i dirigenti dei partiti di opposizione non comunisti, tranne i liberali, potessero mettersi sul terreno di una lotta aperta, radicale per spazzar via il fascismo. Invece non si andò oltre la protesta. Ancora una volta, se pure in termini diversi e in cir­ costanze profondamente mutate, prevalse quella paura di un movimento delle masse che aveva condotto al fallimento dello sciopero generale dell’agosto 1922. Ci si nutrì di illusioni costituzionali. Si credette sufficiente, per rovesciare il regime, condurre una violenta campa­ gna di stampa, premere sulla Corona, senza tuttavia

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accedere a quella che per i comunisti e in realtà era la condizione fondamentale per un mutamento della situazione: l'intervento della forza delle masse popo­ lari. Già Togliatti, come si è visto, in un articolo a commento della legge elettorale Acerbo aveva avver­ tito un anno prima che « l’approvazione di quella legge avrebbe reso impossibile il mutamento del governo se non per via rivoluzionaria ». Gli aventiniani credettero possibile invece, ponendo una « questione morale » in termini di propaganda e di pura secessione parlamen­ tare, rovesciare un governo chè di questi termini non teneva alcun conto. La storia dell'Aventino, se pure è pagina non priva di gloria per l’antifascismo generico, tuttavia fornisce la prova dell’impotenza e dei limiti che incombono su qualsiasi movimento che tenda a rovesciare una situazione di fatto anticostituzionale escludendo dal suo raggio di azione, per principio, l’azione organizzata delle masse lavoratrici nel Paese. L ’Aventino, in pratica, frenò l’esplosione di indignazione avvenuta in tutti i ceti e persino nel quadro intermedio dei fascisti più mo­ derati. L ’opinione pubblica mancò di una guida efficace e la protesta aventiniana rimase senza effetti concreti. « Un atto efficace — scrive Togliatti nel Quaderno di Rinascita, — fu la uscita dei deputati antifascisti dal Parlamento dove rimasero però i liberali: l’Aven­ tino fu subito il più forte centro di direzione dell’opi­ nione pubblica. Dopo la secessione però non venne fatto assolutamente nulla che si potesse dire atto po­ litico efficace. L ’appello alle masse lavoratrici per uno sciopero generale immediato, che avrebbe con grandis­

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sima probabilità buttato giù Mussolini, fu respinto con orrore e questo rimane cosa inesplicabile, perchè tale appello non avrebbe favorito i comunisti, allora, ma posto il movimento stesso delle masse sotto una dire­ zione aventiniana »1. Insieme con la proposta, subito dopo il delitto, dello sciopero generale, i comunisti ne fecero anche un’altra, che mirava a impostare un’azione a lunga scadenza, con l’adesione di tutta la popolazione. Fu l’invito ai secessionisti dell’Aventino a costituirsi « in assemblea a parte », in « vero parlamento delle opposizioni », in « Parlamento del popolo » in contrasto con il Parla­ mento fascista. Anche questa proposta venne respinta, e respinta nonostante avesse avuto in tutto il Paese una profonda eco immediata perchè offriva palesemente a tutti una via di uscita che manteneva certi crismi di legalità. Il 22 ottobre il Popolo, giornale del partito popolare, rispondeva che « tutta la opposizione è d’ac­ cordo (quali che siano i propri principi politici) che le agitazioni di piazza alle quali i comunisti vorrebbero sboccare non debbano essere favorite e debbano essere da noi escluse, anche perchè farebbero il giuoco dei fa­ scisti che attendono di erigersi a salvatori della patria ». Venticinque anni più tardi lo stesso Stefano Jacini, esponente della corrente di destra del clericalismo, nella sua Storia del partito popolare, commentando l’acco­ glienza fatta alla proposta comunista dell’antiparlamento e la opinione espressa in proposito dall’Aven­ 1 Trenta anni di vita e lotte del P . C. I., II Quaderno di Rinascita, Roma, 1952, pag. 70.

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tino scriverà: « Tale opinione essendo condivisa da tutti gli altri partiti componenti il comitato, questo non ebbe neppur bisogno di prendere in considerazione la pro­ posta comunista. Il che dal punto di vista costituzio­ nale era senza dubbio corretto. Senonchè oggi a ragione veduta rimane a dimostrare se un gesto audace e rivo­ luzionario che avesse fatto appello all’opinione pub­ blica e avesse posto la Corona nella necessità di sce­ gliere fra la rappresentanza reale e la rappresentanza legale del Paese non avrebbe, meglio di molte dichia­ razioni di congressi e di autorevoli parlamentari, im­ pedito la ripresa della marcia fascista che doveva tro­ vare la propria consacrazione nel discorso del 3 gen­ naio 1925 » h Si può considerare molto probabile, in­ somma, che nel 1924 Mussolini sarebbe stato senza dubbio cacciato dal potere, se la proposta fatta dai comunisti fosse stata accettata. Ma che cosa impedì ai gruppi antifascisti non comu­ nisti di avere un successo nel 1924? Costatarlo oggi non è troppo difficile. Interessante è rilevare come To­ gliatti in quell’anno stesso, sui giornali del partito, impostasse e conducesse questa ricerca. Il primo ele­ mento che viene sottolineato è la sfiducia nel popolo, come risulta in particolare dal commento del 31 ago­ sto 1924 a una intervista di Giovanni Amendola: «A noi pare — scrive — che nelle parole di Giovanni Amendola vi sia una contraddizione. Infatti delle due l’una: 1) o Amendola pensa seriamente alla resistenza1 1 S t e f a n o J a c i n i , Storia del Partito popolare italiano, Garzanti, 1951, pag. 240.

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attiva che abbiamo detto e allora egli non dovrebbe vedere di mal occhio nessuna forma di mobilitazione dell’opinione pubblica contro il fascismo, nessuna forma di agitazione, nessuna forma di propaganda. Il fascismo possiede ancora tali forze che per batterlo non si può far ricorso ad altro che a una messa in azione di tutte le energie di tutti gli strati antifascisti della popola­ zione; 2) oppure Amendola pensa che la resistenza al fascismo non sarà una cosa seria, che basterà parlarne o far mostra di farlo per avere partita vinta e allora sarebbe interessante potere non diciamo sapere in modo chiaro ma almeno arguire approssimativamente qual’è il suo piano politico » x. Ma quando si passa alla ricerca di questo possibile piano politico, la ragione vera della incapacità e impo- . tenza degli aventiniani balza alla luce. Non solo essi avevano riposto, dall’inizio, la più gran parte della loro attesa nella monarchia, responsabile diretta del­ l’avvento di Mussolini, ma nei mesi successivi tutto il loro sforzo fu diretto non ad aprire alla società italiana una nuova prospettiva democratica, bensì a lusingare le forze della destra reazionaria, che di democrazia non ne volevano a nessun costo sapere. Dietro i popolari, poi, c’era il Vaticano, per cui Mussolini era il governo migliore. L ’Aventino, dunque, fu battuto perchè non era una forza politica democratica. L ’analisi che porta a questa conclusione circa il carattere antidemocratico dell’Aventino, fu condotta1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Amendola e ì socialisti, sull’ Unità, A. I, n. 172, 31 agosto 1924.

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da Togliatti tanto sull ’ Unità, quanto su Stato operaio e sull’Ordine Nuovo, che aveva ripreso a pubblicarsi a Roma, come settimanale, nel marzo 1924 ed era spe­ cialmente dedicato alla critica dei passati orientamenti settari del partito e agli studi politiche « Quale via se­ guono... i gruppi della opposizione borghese? — do­ manda in uno scritto del 16 ottobre 1924. — ... La via della manovra parlamentare e giornalistica verso gli elementi di destra che fiancheggiano e sostengono il regime attuale, della svalutazione e sconfessione dei movimenti di massa e della valorizzazione di tutti co­ loro che si presentano come apertamente “ di destra „ , che si muovono cioè sullo stesso piano fascista propo­ nendosi di impedire ogni ripresa del movimento ope­ raio... Quali i risultati? Il fascismo supera la crisi, ri­ prende il dominio di sè, si organizza, intensifica ancora una volta il regime di oppressione violenta alla perife­ ria e di disprezzo al centro di ogni forma di opposi­ zione che non sia in grado di spezzare la forza delle bande di camicie nere. Le opposizioni, di fronte a que­ sta condizione di cose, non lanciano parole di azione. Si trovano quindi alla ripresa parlamentare in una via priva di uscite. La sola soluzione sembra oramai essere l’alleanza, proclamata o di fatto, con i gruppi di de­ stra, cioè l’aperta adesione al programma di mante­ nere intatta tutta la sostanza reazionaria del regime fascista cambiando però l’insegna di esso e chiaman­ dola, anziché fascismo, Stato liberale normalizzato » h1 1 P a l m ir o T o g l ia t t i , Resa dei conti, A. II, n. 34, 16 ottobre 1924.

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Stato operaio,

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Questa previsione faceva seguito a una serie di altri scritti dove si denunciava come gli aventiniani si fos­ sero adoperati, ma invano, per diventare l’asse di un nuovo blocco di destra. Si può rimproverare a questi scritti, forse, il pessimismo. In linea di fatto, però, è da ricordare che persino il tentativo aventiniano di staccare dal fascismo i liberali fallì. Il 4 ottobre, a Livorno, i liberali auspicano un generico ritorno alla costituzionalità; ma i loro ministri, consigliati da Be­ nedetto Croce, restano al governo e i loro parla­ mentari rinnovano la fiducia a Mussolini, tanto alla Camera (15 novembre), quanto al Senato (2 dicembre). Le ultime cartucce, sparate con la pubblicazione sul Mondo dei famosi memoriali sul delitto Matteotti, sino ad allora tenuti nascosti per prudenza, non servirono a nulla. Le forze di destra, in cui gli aventiniani ave­ vano sperato, rimasero solidamente legate al fascismo. Mussolini faceva piazza pulita di ogni resto di speranza aventiniana col discorso del 3 gennaio 1925; faceva approvare dalla Camera, nella sola seduta del 14 gen­ naio, duemila decreti legge; batteva senza più timori la strada della tirannide aperta. I lavoratori non potevano non riconoscere, prima nella loro parte più avanzata, poi via via più larga­ mente, che i comunisti erano i soli che indicassero una strada giusta, anche se questa strada non erano ancora in grado di farla accettare. L ’azione politica del par­ tito « intelligente, audace, giusta, che non respingeva il contatto con le altre forze antifasciste, ma in pari tempo le investiva con una critica positiva e soprat­ tutto sottolineava la necessità di una lotta concreta

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del popolo per liberare il Paese dal fascismo, non solo impressionò e convinse subito i vecchi quadri del par­ tito, ma fu afferrata dalla parte migliore del popolo. Essa non fu però nè poteva essere la sola cosa nuova. Essenziale fu la giustificazione che Gramsci dette di essa e di tutta l’attività del partito, partendo dalla ana­ lisi oggettiva della società italiana, delle classi e delle divisioni regionali, collegando continuamente la cri­ tica dei gruppi politici, i giudizi e le prospettive ai dati di questa analisi. La lotta del proletariato diven­ tava in questo modo concreta, e scientifica la direzione di essa. Il grande obiettivo di questa lotta, che era e rimane la edificazione di una società socialista sotto la guida della classe operaia, non scompariva; tutt’altro. Si chiarivano però le condizioni e la via della sua attuazione, anzi esso stesso diventava il necessario punto di arrivo di una storia nazionale, di cui sono da cer­ care nel nostro Paese le premesse e condizioni dirette »1. Lo stesso inizio della crisi Matteotti dette una scossa ai vecchi quadri comunisti settari, perchè mo­ strò loro nei fatti che vi potevano essere prospettive diverse da quelle della attesa passiva del momento in cui si sarebbe di nuovo potuto e dovuto combattere per la diretta presa del potere. Tutti capivano che si era aperta una profonda crisi politica, ma tutti capi­ vano pure che non si poteva pensare a prendere il potere. Balzava agli occhi di chiunque sapesse riflet­ tere la giustezza della politica leninista, che adegua 1 Trenta anni di vita e lotte del P .C .I., II Quaderno di Rinascita, Roma, 1952, pag. 71.

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gli obiettivi della lotta e la tattica alle situazioni con­ crete e alla concreta disposizione delle forze. « L ’avan­ guardia operaia comunista deve lottare per condurre dietro a sè gli strati più arretrati della popolazione lavoratrice e conquistarne la maggioranza. Senza avere conquistato alle sue direttive la maggioranza di questi strati più arretrati, l’avanguardia comunista non può sperare di impegnare e condurre a termine lotte fortu­ nate, nè può manovrare in modo adeguato se non tiene presente la influenza che sopra una grande parte dei lavoratori conservano i partiti della socialdemocrazia ». Così aveva scritto Togliatti commentando le decisioni del V Congresso della Internazionale e ora si poteva apprendere dalla lezione dei fatti quanto tutto ciò fosse giusto. L ’abilità di Gramsci e di Togliatti stette nel riuscire a fare una cosa sola dell’azione politica contro il fascismo, della polemica contro i gruppi intermedi e della lotta per il rinnovamento politico del partito co­ munista stesso. Così nel 1924, nel periodo aventiniano, venne posto il compito di allargare le file dell’ organiz­ zazione e il compito venne raggiunto. In un anno gli iscritti al partito comunista furono più che raddop­ piati. Alla fine del 1924 superarono di nuovo i venti­ mila. Così nel momento stesso che Mussolini, dopo il discorso del 3 gennaio, concentrava il fuoco contro il movimento sindacale di classe, lanciava i cosiddetti sindacati fascisti alla conquista delle masse e col patto di Palazzo Vidoni (aprile 1924) faceva riconoscere dalla Confìndustria il monopolio di questi sindacati per la conclusione dei contratti di lavoro, i comunisti getta­ vano il meglio delle lóro forze nel lavoro sindacale in

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officina e ottenevano risultati molto significativi. A To­ rino e a Milano i candidati comunisti vincevano nelle elezioni delle Commissioni interne. A Brescia riusci­ vano a far scoppiare uno sciopero per questioni sala­ riali, costringendo persino i sindacati fascisti a pren­ derne la testa. A Milano erano i comunisti gli anima­ tori dell’ultima grande agitazione metallurgica, nella quale si smascherarono tanto i fascisti quanto i rifor­ misti, e che alla fine si chiuse con un successo. Infine, mentre si addensavano le nubi dell’ultimo attacco fascista ai resti della libertà democratica, men­ tre gli arresti si moltiplicavano e il lavoro dei comuni­ sti si faceva sempre più difficile e duro, il partito ini­ ziava la grande svolta verso l’organizzazione sulla base di cellule, nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro. « La trasformazione sulla base delle cellule è... la organizzazione propria dei partiti comunisti che non si accontentano di vivere come semplici associazioni di propaganda, ma cercano di diventare partiti di massa e di esplicare, in continuo contatto con le masse, le loro funzioni politiche. L ’azione necessaria a questo scopo coincide con l’azione che dobbiamo svolgere per conquistare la maggioranza della classe lavoratrice... È inutile che si organizzi sopra una base di fabbrica il partito il quale pensa che sia sufficiente inquadrare una ristretta minoranza di elementi convinti delle sue parole d’ordine supreme. Un partito simile può anche fare a meno del contatto continuo colle masse. Ad esso bastano i fedeli, destinati a diventare militanti il giorno della prova suprema. Il contatto organico con l’officina può anzi essergli di danno e aprire la via a deviazioni.

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Il contatto organico con l’officina è invece necessità vitale per il partito che si concepisce sì come un’a­ vanguardia, ma come un’avanguardia la quale non deve mai essere staccata dal proprio esercito. Costituzione sulla base delle cellule, — conquista della maggioranza, — tattica leninista, — sono termini che si corrispon­ dono. Essi non significano altro se non che il partito comunista non può vivere e adempiere la sua funzione se non è un partito di massa, se non è collegato nel modo più stretto che sia possibile con le masse, se non adatta la sua tattica e le sue parole alle condizioni oggettive in cui le masse vivono e si muovono, se non acquista in questo modo la capacità di avere una effet­ tiva continua direzione del movimento ». Questo scritto, nel quale, come si vede, tutti i prin­ cipali temi del nuovo orientamento del partito sono strettamente collegati, fu pubblicato sull’ Ordine Nuovo del i° aprile. Il giorno seguente, nella mattinata, To­ gliatti venne arrestato in Roma, deferito all’autorità giudiziaria e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.

XII.

L ’arresto del 2 aprile 1925 ebbe luogo in via Campo Marzio, a due passi dalla tipografìa dove nel 1922 Togliatti scampò dalla fucilazione, a venti metri dal luogo dell’attentato del 14 luglio. Il mandato di cat­ tura era stato spiccato il 26 febbraio, con cinque capi di imputazione, tra cui l’organizzazione militare del par­ tito comunista, « per far sorgere in armi gli abitanti del regno contro i poteri dello Stato ». La storia delle attenzioni date a Togliatti dalle autorità di polizia è molto più lunga. Purtroppo manca una parte dei do­ cumenti, quelli che dovevano far parte di quell’archivio dell’O.V.R.A. che nemmeno dopo la liberazione, nel 1945, non venne nelle mani degli antifascisti, ma ri­ mase ben custodito in qualche ufficio clandestino. I do­ cumenti in nostro possesso, originali e copie di fono­ grammi e rapporti di polizia, raccolti in uffici diversi durante la guerra partigiana, risalgono, alcuni, persino ai tempi precedenti la prima guerra mondiale. Quando Togliatti viene a Roma nel 1921 per diri­ gere il Comunista è segnalato al questore di Roma dalla questura di Torino con fonogramma numero 1253. Una ingiallita nota manoscritta, recante lo stemma e il timbro del Commissariato di pubblica sicurezza del distretto Monti e redatta il 26 novembre 1921, risponde alla questura centrale dando informazioni sul «Togliatti Paimiro, fu Antonio, comunista ». Il comunista To­ gliatti, dice la nota, « ha effettivamente preso dimora IO

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in via Giovanni Lanza 152, piano II, presso l’affitta­ camere signora Vitali. Prima tenne a suo compagno di stanza certo Valente Angelo fu Carlo di 30 anni da Torino. Questi è partito per Milano il 13 volgente e il suo posto presso il Togliatti è ora tenuto da certo Silva Teodoro di Luigi di anni 21, rappresentante di commercio giunto da Milano il 19 volgente. Qui tanto il Togliatti che i suoi compagni non hanno dato luogo a nessun rilievo. Escono di mattina e rincasano, tardi ; eventuali emergenze saranno subito riferite ». Le « emer­ genze » non tardarono a esserci. Dalla marcia su Roma in poi è un continuo scambio di fonogrammi, tele­ grammi, note tra le varie prefetture e le varie polizie d’Italia, che hanno per oggetto il « Togliatti Paimiro fu Antonio », divenuto « comunista pericoloso ». Dopo l’arresto di Milano del 1923 e prima di quello di Roma, lo avevano ricercato già in tutta Italia. Tutti i suoi precedenti domicili erano stati messi a soqquadro. Ne fa fede un altro documento ingiallito dal tempo che così racconta: « L ’anno 1925, il giorno primo di marzo, in Torino, negli uffici di questura. Noi funzionari e sot­ tufficiali del reparto specializzato, sotto segnati, ren­ diamo noto a chi di ragione quanto segne: in seguito a telegramma n. 3202 in data 28 scorso mese dell’illu­ strissimo signor questore di Roma così concepito: — Prego arresto traduzione straordinaria queste carceri noto comunista pericoloso Togliatti Paimiro fu Anto­ nio nato a Genova 26 marzo 1893, pubblicista residente a Torino, colpito mandato cattura questo giudice istrut­ tore, data 25 corrente quale imputato reato previsto dagli art. 247, 251, 234 relazione 120 cp — noi ver­

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balizzanti ci siamo recati stamane alle ore 7,30 nel domicilio del Togliatti sito in Corso Firenze n. 55, piano III ove, in presenza della madre Teresa Viale, vedova Togliatti, fu Vincenzo di anni 66 da Torino, abbiamo proceduto a delle accurate ricerche ma con esito negativo. Non è stato possibile rintracciare altrove il Togliatti Paimiro esplicando il medesimo la sua atti­ vità sovversiva fuori Torino. Fatto, detto e confermato, viene sottoscritto. — Monopoli Pietro, brigadiere in­ quirente ». Ed ecco il verbale dell'arresto a Roma: « Noi Galantino Giovanni, vice brigadiere dei CC. RR. specializzati appartenenti alla regia questura di Roma (squadra politica) facciamo noto che nel giorno ora e luogo di cui sopra abbiamo proceduto all’arresto di Togliatti Paimiro fu Antonio, perchè colpito da man­ dato di cattura emesso dal signor giudice istruttore del locale tribunale avv. cav. Sabatini in data 22 feb­ braio 1925 n. 293. Il Togliatti all’ atto dell’ arresto si rifiutava di declinare le sue generalità, ma in ufficio ove è stato subito tradotto, stretto dalle domande, finiva per confessare il suo vero essere. Al medesimo sarà consegnata copia del predetto mandato di cat­ tura. Di quanto sopra abbiamo redatto il presente ver­ bale, che, unitamente all’arrestato e al mandato di cattura in parola, rimettiamo ai nostri signori supe­ riori per i provvedimenti di legge ». Il giorno dopo il Corriere d’Italia, giornale filofa­ scista, dava la notizia in questo modo: « Da vario tempo le autorità di pubblica sicurezza ricercavano affannosamente l’avv. Togliatti Paimiro,

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nato a Genova nel 1893, pubblicista, membro della Centrale comunista. Il Togliatti era colpito da man­ dato di cattura emesso dal giudice istruttore del locale tribunale per aver preso parte in compagnia di certo Farini Carlo e di altri già assicurati alla giustizia ad una associazione diretta a commettere reati contro i poteri dello Stato. Il Togliatti era autore di molteplici opuscoli di propaganda sovversiva e cercava con ogni mezzo di armare la milizia rossa. In una parola era uno dei più attivi e pericolosi capi del partito comunista. Come nelle altre città italiane, anche a Roma attive indagini erano state iniziate per assicurare alla giusti­ zia questo rinnegatore della patria. Delle indagini venne incaricato, dal cav. Belloni, il noto cav. Quagliotti, fun­ zionario della squadra politica, il quale stamane, coa­ diuvato dal vice brigadiere Galantino Giovanni è riu­ scito dopo un abile servizio di appostamento ad arre­ stare il Togliatti, mentre tranquillo e sereno passava per via Campo Marzio. Dopo una breve sosta negli uffici della centrale durante la quale è stato sottoposto a un lungo interrogatorio, il catturato è stato rin­ viato alle carceri a disposizione dell’autorità giudi­ ziaria ». L ’abile servizio di appostamento non c’era stato. L’arresto fu solo dovuto al fatto che un notissimo depu­ tato comunista, imbattutosi in Togliatti proprio in via Campo Marzio, non aveva potuto trattenersi dal fer­ marlo, salutarlo a voce spiegata e attaccar discorso. L ’istruttoria fu breve, anzi per Togliatti brevissima. Dopo le generalità e la dichiarazione di appartenere al partito egli si pose e mantenne sempre sulla nega-

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tiva. Non conosceva nessuno, non sapeva nulla, non era stato in nessun luogo, non aveva dimora fissa. A Regina Coeli fu sempre in cella con detenuti co­ muni e si procurava un po' di svago facendo il giro di quasi tutte le celle del reparto per scrivere e leggere, col consenso degli agenti di custodia, la corrispondenza degli analfabeti. Fu, in ogni modo, rinviato a giudizio, ma il 29 luglio, venticinquesimo anniversario dell’as­ sunzione al trono del re, vi fu una larghissima amnistia. Per dispetto Togliatti non venne liberato a Roma, ma portato a Torino in « traduzione ordinaria », cioè in vagone cellulare e con tappe nei luridi carceri di tran­ sito a Pisa e Genova. A Torino, prima di lasciarlo in libertà, gli fu organizzato uno « specchietto » di alcune ore, in uno stanzone della questura, dove passavano e sostavano, per imprimersi bene nella mente le sue fat­ tezze, decine di agenti, che eran quelli che poi avreb­ bero dovuto sorvegliarlo e arrestarlo di nuovo alla prima occasione. Ma non servì a nulla. Uscito dalla questura, fece a piedi, badando di non essere seguito, il cammino fino a una stazione secondaria dell’astigiano, e di qui, con una serie di treni secondari, giunse a Roma. Già nel settembre veniva spiccato contro di lui un nuovo mandato di cattura, ma i poliziotti di Torino lo cercarono invano, mandando una spedizione persino tra i monti sopra Usseglio, dove stava in campagna la madre con la sorella. A Roma, le norme della vita clandestina dovettero essere seguite in modo rigoroso: evitare gli incontri per le strade, uscire di casa solo la sera, avere buoni documenti per poter vivere con nome falso e cambiar di casa, senza indugio, al minimo allarme.

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L ’anno precedente si era sposato e, durante il car­ cere, gli era nato un tiglio, Aldo. Furono i soli mesi di vita ritirata. Le denunce dell’autorità giudiziaria e le affannose ricerche poliziesche continuarono dopo di allora per circa quindici anni, ma invano. Dopo il mandato di cattura del settembre 1925 già ricordato, nel novem­ bre 1926, in base alle leggi eccezionali, è denunciato insieme con altri 54 compagni al Tribunale speciale. Nel mandato di cattura collettivo emesso dal giudice istruttore presso il Tribunale militare di Milano, al nu­ mero 53 si legge il nome di « Togliatti Paimiro, noto Ercole, membro del Comitato centrale del Partito co­ munista italiano ». Un nuovo mandato di cattura, del 20 maggio 1927, contiene una buona dozzina di capi di imputazione. La cosa più interessante, però, è il seguito di tele­ grammi e fonogrammi che su di lui, dall’agosto 1925 sino al 1943, si scambiano gli uffici di polizia centrale e della periferia, i posti di frontiera e i servizi polizieschi delle ambasciate. È iscritto nel Bollettino delle ricer­ che, nella rubrica di frontiera, qualificato come « peri­ coloso », « attentatore ». Il fascicolo personale del « pos­ sente Ercoli » contiene una lunghissima biografia nella quale vengono elencati tutti gli pseudonimi veri e sup­ posti di Togliatti, che viene definito « di intelligenza sveglia, colto, vestito civilmente, di atteggiamento di­ sinvolto ». Tutte queste ricerche dettero luogo a un risultato spiacevole soltanto nel 1928 a Basilea, quando la po­ lizia italiana riuscì a far arrestare da quella svizzera

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i dirigenti comunisti italiani che risiedevano in quella città. C’era però voluto, per scoprirli, l’azione di un impiegato del partito, il quale, arrestato in Italia, si era venduto all’O.V.R.A. e messo a far la spia. La lunga immunità di Togliatti non si spiega soltanto con la relativa tolleranza per l’emigrazione politica italiana che vi fu, per lunghi periodi, in Svizzera e in Francia, ma con la grande serietà con cui era ordinata la sua esistenza clandestina, con la sua perfetta conoscenza di alcune lingue straniere e con la sua particolare abi­ lità per la organizzazione dei passaggi di frontiera. Dalle note di servizio della polizia italiana risulta che questa non sapeva mai bene esattamente dove si trovasse. Lo si dava a Mosca mentre era a Parigi, lo cercavano in Savoia mentre era a Barcellona. Non si seppe mai con precisione della sua permanenza in Spagna.

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Il primo lavoro, al ritorno dal carcere nell’agosto 1925, fu di stendere le « tesi » per il congresso del partito. Il gruppo estremista e settario era stato già isolato e battuto. Accortosi che stava perdendo terreno, aveva tentato di riprendersi, mentre Togliatti era in carcere, con un lavoro di frazione, ma Gramsci, Terracini, Scoccimarro, avevano agito con energia in difesa della unità del partito. Nessuno, tra i quadri intermedi, aveva esitato a seguire la nuova direzione. Anzi, il gruppo dirigente giovanile, fino ad allora orientato verso il settarismo, lo aveva abbandonato, sotto la guida di Longo, D ’Onofrio, Dozza. Ruggero Grieco si era stac­ cato dal gruppo fcordighiano per porre in modo giusto la questione contadina. I vecchi quadri di fabbrica, Santhià, Oberti, ecc. erano stati convinti e trascinati dalla nuova direttiva di organizzazione del partito per cellule sul luogo di lavoro. L ’unità del partito era ora­ mai ricostituita, solida, poggiata sulle fondamenta della ideologia leninista. Per preparare le tesi Gramsci venne di nascosto, di notte, in casa di Togliatti e vi rimase due giorni. Si discusse, si fissarono i punti principali, si preparò uno schema. Poi le tesi vennero scritte per disteso da Togliatti. Recentemente sono state ripubblicate1 e si 1 Trenta anni di vita e lotte del P . C. Rinascita, Roma, 1952, pag. 93.

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leggono con grande interesse. Togliatti, in parte, le critica, oggi. Osserva che esse « conservano alcune inge­ nuità ed asprezze, sono esitanti nell’affermare, per esem­ pio, la necessità del lavoro entro le organizzazioni sindacali create dal fascismo, sono ancora imbaraz­ zate nel fissare prospettive e obiettivi politici immediati e transitori alla lotta antifascista ». Non ostante ciò queste tesi rimangono la grande « carta » con la quale si presentava per la prima volta sulla scena politica italiana un partito marxista e leninista. Non sono li­ mitate all’esame delle cose contingenti; la politica vi è direttamente unita alla storia; la polemica contro gli avversari discende dai principi; la concezione che vi si ha del partito della classe operaia è tale che gli attribuisce una funzione nazionale e lo rende sicuro della vittoria. Su questa base « un grande partito di operai e di lavoratori poteva essere costruito e lo fu »1. Nella preparazione del congresso, per la quale si fecero centinaia di piccole e grandi riunioni di compagni, Togliatti fu molto attivo e nuovamente rischiò di per­ dere la libertà. Fu presente, tra l’altro, ai congressi di Torino, di Novara e di Biella, che furono tenuti in una cantina il primo e il secondo in un retrobottega. Il terzo incominciò, la notte di Natale, in casa di un vecchio compagno, a Candelo, ma Togliatti lo fece rinviare, perchè troppo poco preparato. A Milano, fu al Congresso provinciale che si riunì a Gallarate, in una trattoria di campagna. Nel cuore della notte, mentre ferveva 1 Trenta anni di vita e lotte del P . C. Rinascita, Roma, 1952, pag. 72.

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il dibattito, si aprì una porta e comparve una pattuglia di carabinieri. Si riuscì a fuggire perchè fuori era buio pesto, e Togliatti venne a piedi fino a Milano, perchè le ferrovie e tramvie era da presumere fossero control­ late. Anche al Congresso di Firenze, quando il dibat­ tito era oramai finito, ci si dovette allontanare in fretta, per un falso allarme. Il congresso si era svolto nella cascina di un mezzadro e la voce della presenza di Togliatti dovette correre, in seguito, nella vicina città, perchè la polizia lo riseppe e per due o tre anni, in tutti gli atti polizieschi e giudiziari a lui dedicati, vi è un richiamo a questa riunione, nella quale, si dice, si sareb­ be tentato di organizzare l'insurrezione armata di tutta la Toscana. Infine Togliatti fu, con Gramsci, al Con­ gresso regionale del Lazio, che si tenne in una vigna presso le Frattocchie. Nella discussione sui giornali di partito, che fu ampia e vivacissima, spettò a Togliatti respingere le accuse rivolte contro Gramsci e contro di lui per gli orientamenti ideologici del vecchio gruppo torinese nel 1919 e nel 1920. La risposta è degna di nota, perchè fa luce sulla formazione ideale di questo gruppo. « Al marxismo, — dice, — si può giungere per diverse vie. Noi vi giungemmo per la via seguita da Carlo Marx, cioè partendo dalla filosofia idealistica tedesca di Hegel. Attendiamo ci si dimostri che questa origine è meno legittima di una eventuale origine da altri punti di partenza: dalle scienze matematiche, per esempio, o dal naturalismo o dalla filosofia positiva o dall’ umani­ tarismo o dalla bella letteratura o (perchè no?) da una fede religiosa. Per conto nostio la via che abbiamo «

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seguita è, rispetto a qualsiasi altra, una via maestra e ha tutti i vantaggi dell’essere tale ». Dopo aver accen­ nato alla degenerazione positivistica del materialismo storico in dottrina metafìsica, per cui ciò che per Marx era previsione morfologica dello sviluppo sociale diven­ tava fatalismo non ragionato e cieco, prosegue affer­ mando che « il fatto che una vigorosa reazione a queste degenerazioni partisse da un gruppo che, per le sue stesse origini ideologiche, era in condizione di cogliere, senza deviazioni e integralmente, lo spirito della dottrina di Marx — questo fatto non è privo di significato. Rimane a vedere se noi abbiamo operato, e se lo abbia­ mo operato completamente, quel rovesciamento della costruzione idealistica hegeliana necessario a rimettere saldamente in piedi il mondo e la storia che nel sistema di Hegel si reggono e camminano sulla testa, se siamo giunti non solo a spezzare ogni schema metafìsico, ma a trovare la molla dello svolgimento storico — della dialettica — non più nelle idee preesistenti al mondo e realizzantesi in esso, ma nella attività pratica volta al soddisfacimento dei bisogni umani, cioè nei fattori economici e nei rapporti della produzione ». Circa l’accusa di «volontarismo », che era già stata mossa ai comunisti da Claudio Treves, la risposta è pure stringente : « La questione può essere sommaria­ mente posta così : è il processo della rivoluzione qualcosa che sia determinato in modo non dipendente dalle volontà umane oppure è qualcosa su cui la volontà organizzata degli uomini può e deve influire con effica­ cia e in modo continuo? Siamo noi qui soltanto ad attendere il momento rivoluzionario, oppure la nostra

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preparazione, la nostra azione e il grado di coscienza e di capacità che riusciamo con esse a far acquistare alla classe operaia sono fattori che determinano lo sviluppo della rivoluzione in modo attivo? Posta così la questione, ogni buon rivoluzionario e marxista non deve esitare a dirsi " volontarista È vero infatti che la molla dello svolgimento storico sta per noi nella mo­ dificazione dei rapporti di produzione, ma è vero altresì che i rapporti della produzione si traducono in rapporti di classe, e la classe è elemento che si organizza, che acquista una coscienza, che “ vuole ” e fa pesare la sua volontà, la suq coscienza, e la sua organizzazione su tutto il processo della trasformazione sociale. Chi dà alla classe coscienza, organizzazione e volontà, è il partito che si forma nel suo seno... Alle forze proletarie, che devono essere in parte suscitate, in parte rese co­ scienti di sè e raccolte, ordinate, guidate, si oppongono altre forze, quelle della borghesia; la quale non resiste passivamente, ma si organizza a sua volta e interviene in modo attivo. Sarebbe assai comodo per i borghesi se l’elemento volontario rappresentato dall’intervento del partito di classe e dagli atteggiamenti della sua tattica venisse meno. Quale sarebbe in questo caso la sorte del proletariato, — ridotto alla fatalistica attesa dell’inevitabile avvento del rivolgimento totale, — è stato mostrato assai bene dall’esempio italiano del 1919 e del 1920. E questo esempio mostra anche assai bene quale sia stata di fronte all’ “ antivolontarismo ” del socialismo italiano di quegli anni la funzione del “ vo­ lontarismo ” dell’Ordine Nuovo ». Il vero distacco dal marxismo si ha quando si stacca il partito dalla classe

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operaia facendone qualcosa di diverso da essa e quando si stacca l’azione del partito dalle situazioni oggettive in cui esso opera, considerando quindi come indipen­ dente da esse la sua tattica. « Questi due errori si ridu­ cono in fondo a un errore solo e il loro risultato è di allontanarci veramente dal marxismo rivoluzionario, di farci uscire dal terreno della dialettica per ripiom­ barci nella metafìsica... Una delle caratteristiche della concezione dialettica della realtà è infatti quella di non isolare mai nessuno degli elementi di una situazione dagli altri e dalla situazione stessa considerata nel suo complesso e nel suo svolgimento » l. Al congresso, che si aprì a Lione il 21 gennaio 1926, Gramsci svolse la relazione politica generale e Togliatti fu relatore sulle questioni sindacali. La cosa nuova, nel suo rapporto, fu che vi si pose in modo originale la questione della penetrazione e del lavoro nei cosid­ detti sindacati fascisti. Poiché il sindacato di classe legale si avviava fatalmente a scomparire, per il tra­ dimento dei dirigenti riformisti, proni ai voleri del fa­ scismo, come ci si doveva contenere verso gli organismi che il fascismo creava per inquadrare e tenere a freno le masse lavoratrici? La lotta di principio e politica per rivendicare la libertà del sindacato di classe e difenderlo doveva continuare. Doveva essere più estesa l’organizzazione dei gruppi clandestini nelle fabbriche; non ci si doveva però illudere circa i risultati immediati di questo lavoro. Per portare grandi masse a movimenti 1 P

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A. II, n. 221, 23 settembre 1925.

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preparazione, la nostra azione e il grado di coscienza e di capacità che riusciamo con esse a far acquistare alla classe operaia sono fattori che determinano lo sviluppo della rivoluzione in modo attivo? Posta così la questione, ogni buon rivoluzionario e marxista non deve esitare a dirsi “ volontarista È vero infatti che la molla dello svolgimento storico sta per noi nella mo­ dificazione dei rapporti di produzione, ma è vero altresì che i rapporti della produzione si traducono in rapporti di classe, e la classe è elemento che si organizza, che acquista una coscienza, che “ vuole ” e fa pesare la sua volontà, la sua coscienza, e la sua organizzazione su tutto il processo della trasformazione sociale. Chi dà alla classe coscienza, organizzazione e volontà, è il partito che si forma nel suo seno... Alle forze proletarie, che devono essere in parte suscitate, in parte rese co­ scienti di sè e raccolte, ordinate, guidate, si oppongono altre forze, quelle della borghesia; la quale non resiste passivamente, ma si organizza a sua volta e interviene in modo attivo. Sarebbe assai comodo per i borghesi se l’elemento volontario rappresentato dall’intervento del partito di classe e dagli atteggiamenti della sua tattica venisse meno. Quale sarebbe in questo caso la sorte del proletariato, —■ ridotto alla fatalistica attesa dell’inevitabile avvento del rivolgimento totale, — è stato mostrato assai bene dall’esempio italiano del 1919 e del 1920. E questo esempio mostra anche assai bene quale sia stata di fronte all’ “ antivolontarismo ” del socialismo italiano di quegli anni la funzione del “ vo­ lontarismo ” dell’Ordine Nuovo ». Il vero distacco dal marxismo si ha quando si stacca il partito dalla classe

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operaia facendone qualcosa di diverso da essa e quando si stacca l’azione del partito dalle situazioni oggettive in cui esso opera, considerando quindi come indipen­ dente da esse la sua tattica. « Questi due errori si ridu­ cono in fondo a un errore solo e il loro risultato è di allontanarci veramente dal marxismo rivoluzionario, di farci uscire dal terreno della dialettica per ripiom­ barci nella metafìsica... Una delle caratteristiche della concezione dialettica della realtà è infatti quella di non isolare mai nessuno degli elementi di una situazione dagli altri e dalla situazione stessa considerata nel suo complesso e nel suo svolgimento »1. Al congresso, che si aprì a Lione il 21 gennaio 1926, Gramsci svolse la relazione politica generale e Togliatti fu relatore sulle questioni sindacali. La cosa nuova, nel suo rapporto, fu che vi si pose in modo originale la questione della penetrazione e del lavoro nei cosid­ detti sindacati fascisti. Poiché il sindacato di classe legale si avviava fatalmente a scomparire, per il tra­ dimento dei dirigenti riformisti, proni ai voleri del fa­ scismo, come ci si doveva contenere verso gli organismi che il fascismo creava per inquadrare e tenere a freno le masse lavoratrici? La lotta di principio e politica per rivendicare la libertà del sindacato di classe e difenderlo doveva continuare. Doveva essere più estesa l’organizzazione dei gruppi clandestini nelle fabbriche; non ci si doveva però illudere circa i risultati immediati di questo lavoro. Per portare grandi masse a movimenti 1 P

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economici notevoli bisognava lavorare là dove le masse si trovavano legalmente, anche se l’organizzazione in cui si trovavano era fascista e diretta da fascisti. Questa direttiva, che teneva conto della situazione italiana come veramente era e si preoccupava di non tagliare mai il partito fuori dalla vita reale, fu appro­ vata dal congresso. Si vide in seguito quale enorme valore avesse. Una parte della riscossa contro il fasci­ smo, tanto dei lavoratori quanto dei giovani e degli intel­ lettuali, passò per la strada in questo modo preveduta e tracciata, e fu una parte tutt’ altro che trascurabile. Al congresso, il vecchio settarismo estremista e i suoi esponenti furono sbaragliati. L ’analisi fatta da Gramsci della situazione e le prospettive ch’egli ne derivò non ponevano soltanto la classe operaia all’avan­ guardia di un nuovo fronte antifascista, che doveva uscire dalla crisi inevitabile dei vecchi partiti. Gramsci espose al congresso in modo completo la sua concezione dell’alleanza tra gli operai e le popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno per rinnovare la struttura dello Stato italiano. Al partito comunista veniva attribuita, in questo modo, non più soltanto una funzione di classe, ma nazionale. Tutte le questioni dell’orientamento, della politica, del lavoro del partito venivano illumi­ nate d’una luce nuova « I quadri del partito venivano dotati di armi nuove, teoriche e pratiche; avvertivano che l’impiego di queste armi li rendeva superiori ai dirigenti borghesi, piccoli borghesi, socialisti e anarchici del movimento operaio e popolare, e aprivano la strada al contatto con le masse lavoratrici, alla direzione dei loro movimenti in tutte le situazioni. Il partito comuni-

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sta diventava non solo nel desiderio, e per una afferma­ zione ideale, ma nella pratica, l’avanguardia degli ope­ rai, dei lavoratori, di tutto il popolo » l. Dal congresso il partito uscì radicalmente rinnovato. Il gruppo diri­ gente ebbe la quasi unanimità dei voti. Il vecchio gruppo settario fu sconfitto e umiliato, essendo apparsa come non mai la sua incapacità politica. Il partito ricevette dal Congresso di Lione un capitale enorme, col quale fu costruito un edificio incrollabile. Tornato a Roma, Togliatti scrisse rapidamente il nuovo programma di azione del partito, secondo le decisioni del congresso. Poi fu chiamato da Gramsci per un incontro a Milano. Qui, alla presenza anche di Scoccimarro, dopo un esame della situazione che si veniva facendo sempre più diffìcile, Gramsci gli comu­ nicò che avrebbe dovuto recarsi per un certo tempo a Mosca, secondo un accordo già accennato a Lione, durante il Congresso, per rappresentare il partito e lavorare negli organismi dirigenti dellTnternazionale. Era un mezzo per assicurare alla direzione del par­ tito una riserva? Probabilmente. Togliatti non ne fu contento, ma dovette consentire. Fu questa l’ultima volta ch’egli vide Antonio Gramsci. Non rivide neanche la madre, che morì nel 1931, negli anni di esilio del figlio.

1 Trenta anni di vita e lotte del P . C. Pinascita, Roma, 1952, pag. 72.

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È stato scritto più volte che Togliatti avrebbe pas­ sato in Russia tutti gli anni dell’esilio, dal 1926 al 1944. Nulla di più falso. Risiedette a Mosca il 1926, ma ne partì nel gennaio del 1927 per stabilirsi e lavorare alla testa del centro estero del partito, in paesi confi­ nanti con l’Italia, cioè in Svizzera o in Francia. Ebbe un nuovo lungo periodo di permanenza a Mosca dal­ la fine del 1934 alla metà del 1937. Fu il periodo in cui venne preparato e tenuto il VII Congresso dell’In­ ternazionale comunista. Infine, risiedette nell’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale, e preci­ samente dalla metà del 1940 sino al marzo del 1944. Vero è, come ha detto egli stesso recentemente, che a lui è toccata «la fortuna » di partecipare direttamente al grande lavoro di formazione di nuovi gruppi dirigenti del movimento operaio e popolare europeo e mondiale che si è compiuto nei decenni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, alla scuola del partito bol­ scevico, di Lenin e di Stalin. La portata storica di questo rinnovamento radicale della direzione del mo­ vimento operaio si è potuta apprezzare chiaramente solo durante la seconda guerra mondiale e dopo di essa. Il volto politico dell’Europa ne è stato trasformato. Sarebbe interessante riferire gli aspri giudizi di To­ gliatti su quegli scrittori politici che, incapaci persino di vedere questo grande processo storico, rimestano con prosopopea insulse volgarità circa gli ordini

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con i quali « da Mosca » si dirigerebbero i partiti comunisti, e circa la maggiore o minore « autonomia » che a questi partiti verrebbe lasciata. Quello che costoro non riescono nemmeno a vedere, è proprio il movimento autonomo della classe operaia, che sulla base della sua prima grande vittoria sviluppa il proprio pensiero, accresce le proprie capacità politiche e di organizzazione e crea le condizioni di vittorie ulteriori. La partecipazione diretta a questo grande pro­ gresso del movimento operaio si tradusse, di fatto, in un intenso lavoro individuale e collettivo, dedicato tanto allo studio della situazione economica e politica e del movimento operaio di singoli paesi capitalistici e coloniali, quanto a riunioni e discussioni internazionali. Togliatti fu presente a quasi tutte le riunioni plenarie del Comitato esecutivo dellTnternazionale, ognuna delle quali era un vero congresso. Come rappresentante del Comitato esecutivo partecipò, in epoche diverse, a congressi nazionali dei partiti comunisti del Belgio, della Jugoslavia, della Germania, della Cina. Infinite volte dovette viaggiare da un luogo all’altro, attraver­ sar frontiere illegalmente, adattarsi a brevi o lunghe permanenze in nuovi paesi, migliorare la propria cono­ scenza delle lingue straniere per poter comunicare con altri compagni. Questo nuovo lavoro ebbe inizio nel 1926. Nel feb­ braio, subito dopo il Congresso di Lione, ebbe luogo la sesta riunione allargata del Comitato esecutivo, dove Togliatti fu molto attivo e alla fine venne designato a far parte del Segretariato. Fu così al centro di tutto il lavoro politico di quel periodo. La cosiddetta «opposi­ II

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zione » trotzkista, alla testa della quale erano Trotzki e Zinoviev, scatenò in quell’anno un attacco forsennato per tentar di sfasciare il partito bolscevico. La sua piattaforma riguardava le questioni della politica so­ vietica e le questioni internazionali. Il contenuto era da avventurieri. Da un lato veniva attaccata la linea politica stabilita dal X IV Congresso del partito bolsce­ vico del dicembre 1925, dall’altro lato si prendevano a pretesto tutti gli avvenimenti internazionali per ac­ centuare la lotta contro il gruppo dirigente bolscevico. Il X IV Congresso, costatato il grande progresso della potenza politica ed economica dell’Unione Sovietica, si era posto il compito della trasformazione del paese, allora prevalentemente agricolo, in paese industriale. L ’opposizione attaccò questo indirizzo, proponendo che ci si orientasse, invece, per le concessioni ai capitalisti stranieri. Essa negava la possibilità che l’Unione So­ vietica preparasse le condizioni economiche del pas­ saggio a una economia socialista. Così veniva posta al centro la discussione sulla possibilità di costruzione del socialismo in un solo paese. Internazionalmente, la situazione era tesa e si susseguivano le provocazioni aperte contro l’Unione Sovietica. « Contro il potere sovietico — disse allora Stalin — si crea come un fronte unico da Chamberlain a Trotzki ». Nel movimento operaio l’attenzione era concentrata sull’ Inghilterra, dove la direzione dei sindacati aveva acceduto alla for­ mazione di un comitato anglorusso per la intesa coi sindacati sovietici. Scoppiava il grande sciopero dei minatori, che i capi laburisti non seppero portare alla vittoria e tradirono. In Polonia andava al potere il

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fascismo. In Cina si acutizzava la lotta tra le forze rivoluzionarie e l’ala destra, reazionaria, del movimento nazionale. I compagni non russi che in quel tempo risiedettero a Mosca, dovettero, se vollero potersi orientare giusta­ mente in tutte le questioni che venivano discusse, portare a fondo la loro conoscenza della storia del partito bolscevico, del pensiero e delle opere di Lenin, del pensiero e dell’azione di Stalin. La storia del partito bolscevico insegnava, per esempio, che Trotzki aveva sempre combattuto contro i bolscevichi ed era stato combattuto e bollato da Lenin in modo spietato come un avventuriero piccolo-borghese. Di Zinoviev e di Kamenev, Lenin aveva proposto che fossero cacciati dal partito, nel 1917, per tradimento. La dottrina della possibilità di costruzione del socialismo in un solo paese, contro la quale levavano alte strida in tutto il mondo i socialdemocratici e gli « oppositori », non solo aveva il suo fondamento teorico sicuro nella concezione leni­ nista della rivoluzione, ma da Lenin stesso era stata formulata nei suoi principi fondamentali. Non ebbero quindi nessuna esitazione nell’appoggiare senza riserve il Comitato centrale del partito bolscevico nella sua lotta intransigente contro l’opposizione tutti coloro che seppero riferirsi, con studiosa attenzione, tanto alla precedente esperienza del movimento rivoluzionario russo quanto ai principi teorici del marxismo e del leninismo. Di questi principi Stalin aveva dato, nel 1924 e all’inizio del 1926, una esposizione classica nei suoi due scritti sui Principi e sulle Questioni del lenini­ smo. Lo studio concreto dell’esperienza e della dottrina

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del bolscevismo fu la via seguita da Togliatti, che per poterla battere rapidamente compì anche lo sforzo ne­ cessario per impadronirsi, con inconsueta rapidità, della lingua russa. Quanto agli uomini, Stalin era oramai conosciuto da tutti come colui che aveva assicurato la vittoria, du­ rante la rivoluzione e la guerra civile, nei momenti e nei punti decisivi. Si sapeva, poi, che era l’uomo cui bisognava ricorrere per avere indicazioni precise, chiare, semplici per la soluzione delle questioni più diffìcili. I delegati comunisti italiani, recatisi a Mosca per il V Congresso, nel 1924, avevano avuto in particolare il modo di conoscerlo. Bordiga, che era nella delegazione, aveva escogitato una manovretta che, nella sua pre­ sunzione di piccolo borghese, pensava avrebbe dovuto offrire a lui il destro di « metter a posto le cose », davanti a tutti i delegati, circa le questioni russe. Aveva pro­ posto che il compagno Stalin fosse invitato a venire nella delegazione italiana a dare spiegazioni circa la sua lotta contro il trotzkismo e circa la politica del Comitato centrale del partito bolscevico. Contava che Stalin non sarebbe venuto e questo sarebbe stato per lui, Bordiga, un argomento decisivo. Ma Stalin, appena seppe la cosa, consentì senz’altro e fissò il giorno e l’ora della riunione. Bordiga si premunì. Si precipitò da Trotzki e passò con questo una domenica intiera e tutta la successiva notte, per farsi preparare le domande « insidiose » che avrebbero dovuto mettere in imbarazzo il capo del partito bolscevico. Ma si trovò subito nei pasticci lui, quando, alla presenza di tutti i delegati e fra la loro attenzione e in certi punti la loro ilarità,

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Stalin rispose ad ogni domanda con calma, chiarezza, precisione. Stalin disfece tutte le pretese argomenta­ zioni dell’altro, dette la prova, nel modo più semplice, del carattere calunnioso e ridicolo delle affermazioni trotzkiste. Bordiga ne uscì annientato. All’ultimo, per tentare di rifarsi di fronte ai delegati che ancora lo seguivano, e che erano esterrefatti per la sua sconfitta, avanzò un’ultima domanda: — Ma insomma, domandò, se scoppierà la rivolu­ zione in un qualsiasi paese d’Europa, manderete o non manderete l’Esercito rosso a dar man forte ai rivolu­ zionari? La domanda, si seppe poi, era stata preparata da Trotzki stesso, e qualunque fosse stata la risposta, doveva servire a menar scandalo, avvalorando l’accusa o di deviazione nazionalistica russa o di spirito di av­ ventura. Ma Stalin fissò con tranquillità e sprezzo l’interrogante e replicò: — Dio vi perdoni questa domanda da provocatore: io non ve la posso perdonare! I delegati applaudirono, unanimi. Era inoltre fatta per respingere qualsiasi compagno onesto la condotta di partito dei dirigenti dell’opposi­ zione. Miravano a disgregare i partiti e l’ Internazio­ nale, facevano un lavoro di frazione sfacciato, davano un tono di diffamazione personale incredibilmente basso alla loro polemica. Ai compagni non russi residenti a Mosca, Trotzki aveva la spudoratezza di far arrivare ogni mattina, nelle prime ore, un suo bollettino perso­ nale che avrebbe dovuto servire per orientarli, dar loro argomenti, fissare in anticipo la loro condotta in tutte

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le riunioni della giornata. E insisteva anche con coloro che, sdegnati, respingevano quell’azione provocatoria. Era poi, d’altra parte, altezzoso, pieno di boria. Di sta­ tura media, girava in automobile scoperta e con due grossi cuscini sotto, perchè tutti lo potessero notare. Tutto in lui era il contrario della semplice schiettezza dei dirigenti bolscevichi. Zinoviev, a sua volta, dava la im­ pressione di un demagogo e si comportava come un intri­ gante. Per fortuna l’Internazionale era stata diretta, fino alla morte, da Lenin. Con Zinoviev, dei gruppi bolscevichi alla testa dei singoli partiti non si sarebbero mai formati. Nelle riunioni pubbliche, criticava. Poi chiamava a sè il compagno criticato, gli diceva che le critiche fattegli egli non le condivideva, lo adulava, lo lusingava, cer­ cava di reclutarlo per un lavoro di frazione. E evidente che questa azione tendeva a disgregare dall’intemo, non a rafforzare e consolidare, il movimento comunista mondiale. Bucharin, che passò all’ opposizione più tardi, aveva i caratteri di un professorino presun­ tuoso, vanitoso e intrigante. Era in lui, come negli altri, la stoffa del doppiogiochista e del traditore. Per tutto il 1926 le discussioni con l’opposizione fu­ rono continue, tanto negli organi dirigenti del partito bolscevico, quanto in quelli dell’Internazionale. Nei primi si preparava la piattaforma della X V Conferenza. Negli altri fu particolarmente vivo il dibattito sulle ripercussioni dello sciopero dei minatori inglesi nel Co­ mitato sindacale anglorusso, che 1’ opposizione preten- _ deva venisse rotto immediatamente, rinunciando a qualsiasi azione politica verso le masse laburiste. To­ gliatti intervenne, nell’ estate, a una riunione del Co-

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mitato centrale del Partito comunista russo e vi prese la parola attaccando decisamente l'opposizione. Questa, a un certo punto, finse di capitolare e poi riprese la lotta e il lavoro di frazione. Fu battuta e condannata e le decisioni del Comitato centrale russo vennero approvate da una nuova riunione plenaria del Comi­ tato esecutivo della Internazionale. Anche qui To­ gliatti intervenne ampiamente, collegando le questioni russe con quelle che si dibattevano negli altri partiti. « Per quanto si riferisce alle questioni di sostanza, — dice il resoconto sommario del suo intervento, — il problema più importante che si presenta qui nella di­ scussione tra noi e i compagni dell’opposizione russa è la costruzione del socialismo in un solo paese. Questo problema ha lo stesso valore della discussione che abbia­ mo avuta al terzo congresso sulle prospettive rivolu­ zionarie. Discutendo sulle prospettive della rivoluzione russa, noi fissiamo in pari tempo le prospettive della rivoluzione mondiale... Zinoviev dice: se voi ponete la prospettiva della possibilità di costruire il socialismo in un solo paese, in Russia, allora seminate nelle file dei partiti e del proletariato d’occidente il pessimismo, il disfattismo. No, assolutamente no. Il problema deve essere visto dal lato opposto, cioè deU'influenza che la rivoluzione russa e l’azione del Partito comunista russo esercitano sulle forze rivoluzionarie mondiali. Posto così il problema, dobbiamo riconoscere che la rivolu­ zione russa e l’azione del partito russo sono stati i più grandi fattori di organizzazione delle forze rivolu­ zionarie mondiali in questo periodo. Costituiscono esse ancora un fattore attivo in seno alla classe operaia nel

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mondo intiero? Evidentemente sì. Ma perchè ciò avven­ ga, un altro elemento deve essere ugualmente operante nella coscienza della classe operaia, cioè la convinzione che in Russia il proletariato, dopo aver preso il potere’, può costruire il socialismo e oggi già costruisce il so­ cialismo. Nella misura in cui questo elemento è operante ideologicamente e politicamente nella classe operaia di tutti i paesi, la rivoluzione russa ha un'influenza. Così e non come egli l’ha presentata deve giudicarsi la questione posta da Zinoviev ». Nello scambio di informazioni e lettere coi dirigenti del partito italiano, i quali, sorpresi della rottura oramai irreparabile tra il Comitato centrale russo e il gruppetto degli oppositori, avrebbero potuto rimanere disorientati e anche sbagliarsi, Togliatti insiste perchè si badi sem­ pre al fondo politico delle questioni e secondo esse si giudichi. « In questo studio delle questioni russe, - scrive -, e non nell’appello all’unità del gruppo diri­ gente consiste l’aiuto che devono dare al Partito comuni­ sta russo gli altri partiti dell’Internazionale »1. È qui in­ sita la linea che Togliatti seguirà negli anni successivi, che gli consentirà di non sbagliare nel giudizio e di guidare tutto il partito italiano a comprendere il fondo dei dibattiti e delle lotte che si svolsero in Russia e a libe­ rarsi dagli avventurieri di varia risma che su quei di­ battiti cercarono di tessere le loro speculazioni per disgregare il movimento comunista. La lotta contro il trotzkismo si riaccese a una riu­ 1 Archivio del P. C. li, lettera er. m. x. 403, del 18 otto­ bre 1926.

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nione plenaria del maggio 1927, alla quale anche To­ gliatti, residente allora nei pressi dell’Italia, si recò. Al centro delle discussioni furono, questa volta, i pro­ blemi della rivoluzione cinese, e Togliatti presiedette la commissione incaricata di studiarli. In questa com­ missione il compagno più attivo, che approfondì le questioni secondo i principi del leninismo e tracciò con fermezza la linea generale che doveva portare i comu­ nisti cinesi alla vittoria, fu Stalin. Egli chiarì a tutta l’Internazionale, in modo definitivo, i problemi del mo­ vimento rivoluzionario in Cina. Negli interventi di Togliatti è particolarmente svi­ luppata la polemica contro i trotzkisti. Approfittando delle difficili condizioni in cui aveva lavorato il partito cinese e di alcuni errori che aveva commesso, costoro accusavano di tradimento della rivoluzione cinese tutta l’Internazionale e distruggevano tutte le posizioni leni­ niste di principio circa i movimenti di liberazione nelle colonie. I trotzkisti, diceva, « sostituiscono alla Cina un paese dell’Europa occidentale della prima metà del secolo X IX , sostituiscono al Comindan il movimento liberale borghese dello stesso periodo e giudicano di conseguenza. Se incontrano difficoltà cercano di sop­ primerle negando o alterando i dati di fatto. Così Radek per sostenere le sue tesi è costretto, procedendo con un ritmo molto più rapido di quanto non abbia potuto procedere sino ad ora la rivoluzione cinese, a cancellare dalla situazione cinese il feudalesimo; Zinoviev scrive un articolo sulla base di una serie di cita­ zioni del discorso di Marx ai giurati di Colonia e tra­ sporta in Cina i dibattiti che si svolsero tra menscevichi

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e bolscevichi sui concetti di rivoluzione proletaria e rivoluzione borghese in Russia, sui rapporti tra di esse, ecc. Tutto ciò non ha nessun valore perchè si basa sulla negazione delle caratteristiche della rivoluzione nazio­ nale nei paesi coloniali, ad economia arretrata, domi­ nati dairimperialismo straniero, nel periodo in cui il capitalismo ha esaurito la sua funzione progressiva ed è diventato in tutto il mondo un fattore reazionario ». In questa situazione particolare era inevitabile sor­ gesse un largo fronte rivoluzionario, ma era altrettanto inevitabile il contrasto e la lotta all’interno di esso. Questo fronte « era un fronte eterogeneo, entro il quale forze diverse lottavano l’una contro l’altra per svilup­ parsi liberamente e per soverchiarsi. Da un lato il borghese che pensa alla regolarità del commercio vor­ rebbe salvare la disciplina, cioè frenare lo sviluppo della rivoluzione; dall’altro vi è una massa che vuole su­ perare le barriere del movimento puramente militare e nazionale, che spezza la disciplina, che estende la sua lotta comprendendo tra i suoi avversari gli alleati tem­ poranei di ieri e di oggi. Il fatto che il “ blocco ” nel quale noi ci troviamo aveva questo carattere eterogeneo, instabile, passibile di sviluppi rivoluzionari sempre nuovi, è di per sè la giustificazione della tattica da noi seguita entrando in esso e lavorando all’interno di esso, è il segno che la linea strategica generale seguita dalla Internazionale, nella rivoluzione cinese, applicando le risoluzioni del II Congresso, era pienamente giusta ». E ora, dopo che l’ala destra del blocco originario aveva tradito, come andare avanti? « La direzione prin­ cipale della nostra azione, - soggiungeva Togliatti in

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polemica contro Trotzki -, consiste nello scatenare il movimento delle masse soprattutto nelle campagne, in tutte le forme e in tutte le direzioni possibili. Nella misura in cui questo movimento si scatenerà e soprat­ tutto nella misura in cui si scatenerà dal basso e in forme plebee la rivoluzione agraria, noi siamo garantiti contro un tentativo di arrestare per un lungo periodo di tempo la rivoluzione »b Su tutti i punti in discussione l'opposizione venne battuta. Non si procedette però ancora alla espulsione dal partito e dall’Internazionale dei suoi dirigenti, per­ chè in un gruppo di delegazioni, tra cui quella italiana, si era fatto osservare che la misura non sarebbe ancora stata compresa. Questo fatto è stato recentemente citato da Togliatti in polemica contro le solite stolide accuse che si fanno ai comunisti. La risoluzione finale, di con­ danna decisa del trotzkismo, era però tassativa. Togliatti, che presentò la risoluzione al voto, lo disse in modo espli­ cito : «Sappiamo che il lavoro rivoluzionario non è una co­ sa facile. Non è una cosa semplice costruire un fronte ri­ voluzionario per portare al combattimento l’avanguardia del proletariato, per portare al combattimento le grandi masse dietro l’avanguardia proletaria. Sappiamo che ci sono degli errori, che possiamo commettere degli errori. Ci riuniamo qui per riconoscerli e per farne la critica fra compagni. Sappiamo anche che forse ci sono ancora delle sconfìtte che ci attendono, ma non vogliamo che i compagni vengano qui a speculare, per i loro fini di 1 E

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S u lla tattica co m u n ista n ella R iv o lu z io n e cin ese, in

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lotta di frazione, sulle difficoltà che incontriamo, sui difetti che esistono ancora nelle nostre file, sulle scon­ fitte che forse ci attendono ancora. Questo non lo vo­ gliamo e non lo ammetteremo ». «L ’Assemblea plenaria - dice la risoluzione approva­ ta -, si riunisce in un momento in cui la situazione inter­ nazionale è delle più critiche, delle più serie. La situazione mondiale attuale è caratterizzata non soltanto dall’inasprimento di tutte le lotte di classe, ma anzitutto dal pericolo immediato di un attacco vandalico degli impe­ rialisti inglesi e dei loro vassalli contro l’Unione Sovieti­ ca, dall’intervento già in pieno corso degli imperialisti contro la lotta nazionale di liberazione in Cina, dalla furiosa offensiva di tutte le potenze reazionarie riunite contro l’Internazionale comunista, dal tentativo della borghesia di schiacciare il movimento operaio e i par­ titi comunisti dei principali paesi capitalistici. Ed è precisamente in questo momento che Trotzki e i suoi seguaci intraprendono la lotta più energica contro 1’ I. C., l’unico organismo dirigente della rivoluzione mon­ diale, e contro l’Unione dei Soviet, la sola forza della rivoluzione mondiale organizzata in Stato. È in questo momento preciso che i trotzkisti lanciano contro il partito comunista mondiale l’accusa di tradimento e rimproverano alla dittatura proletaria di aver degene­ rato. Oggettivamente questo attacco dell’opposizione trotzkista avviene sulla stessa linea dell’assalto della borghesia e dei suoi agenti per distruggere i principali centri di energia della rivoluzione proletaria ». Il trotzkismo, così condannato, non solo non si arrese, ma si gettò nel lavoro di frazione per tentar di disgregare

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dall’interno il partito bolscevico e il movimento comu­ nista internazionale. Operò come agenzia diretta degli imperialisti. In autunno si ebbe la prova di questa azione di frazione e disgregazione, per la quale Trotzki cercava di utilizzare uomini già espulsi dall’Internazionale, col suo pieno consenso, come avventurieri e canaglie. Togliatti, che assisteva fuori della Russia al modo come quest’azione si svolgeva, firmò allora una lettera al Comitato esecutivo dell’Internazionale, chiedendo che si cacciassero senza pietà dalle file del movimento comunista i disgregatori. « La lotta condotta dall’op­ posizione non è più una lotta ideologica tra compagni e combattenti per una stessa causa; essa è degenerata in una impresa controrivoluzionaria nella quale l’op­ posizione entra in contatto non soltanto con i rinnegati e gli elementi tarati che mascherano il loro pessimismo, la loro vigliaccheria personale, e la loro passività sotto la fraseologia di sinistra della opposizione, ma con gli agenti provocatori e i poliziotti che il partito ha già smascherato e cacciato dalle sue file ». L ’espulsione fu decisa, nel novembre, dal partito bolscevico e sancita dallTnternazionale, dopo che i capi trotzkisti avevano persino cercato di organizzare a Mosca una manifestazione di strada contro il potere dei Soviet. Precedentemente, nel X IV Congresso del partito bolscevico, tutto il partito (724 mila voti con­ tro 4 mila) si era stretto attorno al Comitato centrale. Il trotzkismo, smascherato nella sua vera natura, pre­ cipitava nell’azione di provocazione, di spionaggio, de­ littuosa, al servizio dei nemici della rivoluzione.

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XV.

In Italia, dall’inizio del 1926 la situazione aveva continuato ad aggravarsi, e alla fine precipitò. I li­ miti delle libertà democratiche si restrinsero via via in modo pauroso. La polizia era continuamente alla caccia di « sovversivi » e di « antinazionali », cioè di nemici del fascismo. Si succedevano i processi e le condanne dei tri­ bunali ordinari. Il quotidiano comunista usciva con intiere colonne bianche. Nell’estate trovò l’espediente di dedicare tutta la prima pagina alla sottoscrizione per i minatori inglesi, e il successo fu grandissimo, soprattutto nelle fabbriche. I partiti aventiniani, smarriti per la loro disfatta, si stanno a poco a poco sfasc'ando, mentre i dirigenti riformisti dei sindacati persistono nel cercare un accordo qualsiasi col fascismo. I comunisti sono i soli arditamente attivi, sia con la loro critica continua dell’antifascismo piccolo borghese impotente, sia nella ricerca e nello stimolo di tutti i nuovi movimenti popolari che stanno affiorando, parti­ colarmente sul terreno regionale, nel Mezzogiorno, nelle Isole. Il loro sforzo è di far sorgere un nuovo movimento antifascista coerente e deciso attorno a una organizza­ zione di comitati operai e contadini. Questa posizione esprime chiaramente che se si vuole passare da una opposizione verbale, sterile e fallita, a una lotta efficace contro il regime, non basta cambiare nome, battezzare l’Aventino « Concentrazione repubblicana », ma occor­ re un nuovo orientamento politico sotto la guida di nuovi gruppi sociali.

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Deciso a far precipitare la situazione nella tirannide aperta, il fascismo utilizzò a questo scopo tre attentati a Mussolini, veri o presunti tali, ad opera di Violetta Gibson, nell’aprile, dell’anarchico Lucetti, nel settem­ bre e il 31 ottobre, a Bologna, di un certo Anteo Zamboni, linciato sul posto. Nei primi dieci giorni di novembre furono sciolti tutti i partiti e soppressi tutti i giornali non fascisti e dichiarati decaduti dal loro mandato i deputati dell'opposizione. Fu istituito il Tribunale speciale «per la difesa dello Stato », furono introdotte la pena di morte e quella del confino per reati politici. Si entrò nel regime delle leggi eccezionali. Il partito comunista diventò completamente ille­ gale. Antonio Gramsci fu arrestato l’8 novembre e inviato prima al confino, poi in carcere e processato. Terracini era già stato arrestato. Scoccimarro lo fu pure, negli stessi giorni di Gramsci. Caddero, in pari tempo, parecchie decine di dirigenti del partito e si preparò contro di loro un famoso processone al Tribu­ nale speciale, per aver compiuto « fatti diretti a mutare violentemente la Costituzione dello Stato e la forma di governo » e « a far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato ». Togliatti era tra i denunciati, ma il suo fascicolo venne stralciato, per contumacia. Il processo ebbe luogo più di un anno e mezzo dopo gli arresti e i condannati furono 37 a un complesso di 238 anni di carcere. Gramsci ne ebbe 20, Terracini 22, Scoccimarro 20, Roveda 20, e così via. L ’attività del partito dovette essere tutta organiz­ zata in modo radicalmente diverso, clandestino. Per chi la dirigeva, il rischio dell’arresto era sempre presente.

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La continuità e la direzione del lavoro del partito non potevano quindi essere garantite se non colla organiz­ zazione di un « centro estero ». L'esempio era stato dato dai bolscevichi russi e i comunisti italiani capirono che era loro dovere seguire questo esempio. All’inizio del 1927, finita la VII riunione plenaria dell’Esecutivo dell’Internazionale, ci si accinse a questo compito. Togliatti ebbe la direzione di questo lavoro e da allora fu il dirigente riconosciuto dei comunisti italiani. Non è facile descrivere quale fosse la vita, all’estero, negli anni dell’esilio, soprattutto per chi aveva la dire­ zione del lavoro del centro estero. Era una vita tutt’altro che semplice. Si faceva uso di generalità e di do­ cumenti personali non veri. I documenti personali però spesso mancavano. Togliatti a Parigi, per esempio, visse a lungo come francese perchè conosceva la lingua alla perfezione. Questo creava senz’altro un distacco dall’emigrato politico che viveva in terra d’esilio col nome proprio e con documenti legali. Vi era in ciò del bene e del male. Il bene era' di star lontani da quel­ l’ambiente, che fu sin dall’inizio di scoraggiamento, di pettegolezzo e intrigo e anche di corruzione, dove si muo­ vevano gli emigrati dirigenti di altri partiti. Agenti del fascismo e spie pullulavano in questo ambiente e alcuni ne trassero anche, per incarico del fascismo, libelli diffamatori. Non si può trovare in questi libelli nemmeno una lontana allusione ai dirigenti comunisti. Il male era, d’altra parte, il distacco da un movimento reale di massa o di partito. Questo distacco era nella Svizzera quasi completo; meno grave in Francia, dove esisteva una organizzazione abbastanza larga di emigrati ita­

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liani, sia politici che di lavoro, esistevano gruppi di lin­ gua italiana nel partito francese e si pubblicava un setti­ manale comunista in lingua italiana. Tutto ciò dava la possibilità di lavorare a contatto diretto con una orga­ nizzazione e offriva una riserva di quadri da formare per l’invio in Italia, ma non sostituiva il contatto col Paese, dal quale non ci si doveva staccare. Erano necessari, per non perdere questo contatto, un fermo orientamento politico, un buon metodo di lavoro e una tecnica. Il dirigente doveva procurarsi e leggere una grande quantità di giornali quotidiani e settimanali, di riviste, di documenti ufficiali, di libri. Nella congerie di notizie per lo più false, monche, travisate, che il fa­ scismo concedeva ai giornali di pubblicare, bisognava saper scegliere quel tanto o quel poco che serviva a ricostruire la situazione vera. Una piccola notizia di cronaca, la cifra di un bollettino di borsa, alle volte persino un annuncio mortuario servivano più che tutto il resto. Bisognava però saperli trovare. La esistenza per il fascismo di una situazione difficile tra la gioventù studiosa venne scoperta frugando nella massa dei fo­ glietti letterari che si pubblicavano nelle città universi­ tarie. Così per altri fatti importanti. Più difficile di tutto era mantenere con le masse antifasciste e con gli operai un contatto tale che consentisse di impostare e dirigere giustamente, da lontano, l ’ attività delle organizzazioni locali. Bisognava ricavare tutto il pos­ sibile da quei compagni che, attraversando la frontiera, uscivano dall’Italia oppure vi tornavano per fare un lavoro clandestino per un breve o lungo periodo. Non bastavano le loro relazioni scritte. S i. doveva parlare 12

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con essi giornate intiere e poi vagliare le notizie per non essere tratti in inganno da fatti secondari o mal riferiti, discutere, stimolare lo spirito critico individuale e collet­ tivo. Era una continua battaglia e una continua scuola. Era un lavoro che non avrebbe dato risultati se lo si fosse lasciato diventare puro praticismo. Doveva essere sostenuto da una giusta, vigorosa impostazione di tutte le questioni ideali e politiche del movimento. Altrimenti, non si sarebbe potuto resistere per quindici anni lun­ ghissimi, e in pari tempo rinnovarsi sempre, non rin­ chiudersi mai in sè stessi. Qui fu, forse, il merito princi­ pale di Togliatti. La prima cosa che fece, prendendo la direzione del lavoro, nel 1927, a Parigi, fu di iniziare la pubblicazione di una rivista teorica e politica mensile: 10 Stato operaio. Continuò a pubblicarsi, regolarmente, sino allo scoppio della seconda guerra mondiale e il suo contributo per fare dei comunisti, nella emigrazione, 11 gruppo più serio, più unito, meglio orientato su tutte le questioni, fu decisivo. Visto oggi, lo Stato operaio sembra una cosa persino troppo seria e un po’ pesante. Ma era ciò che ci voleva per tenere alto il livello politico di un quadro che le condizioni del lavoro esponevano alla dispersione delle forze. È, a ben considerarla, l’unica rivista dell’emigrazione che dia l’impressione di essere veramente legata a un movimento reale e alla problematica politica corrente. Non cade nelle divaga­ zioni dottrinarie tipiche dei fogli degli emigrati, non si attarda in recriminazioni. Quando ritorna sul passato, è per approfondire i temi del presente. La situazione italiana vi è seguita, con studi seri e documentati, in tutti i suoi aspetti. La lotta per una giusta interpreta­

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zione dei fatti e per una giusta linea politica non si in­ terrompe mai e, bisogna dirlo, è condotta bene. Quando per l’azione di «Giustizia e libertà» e per l’opera personale di Pietro Nenni, gli antifascisti democratici e socialisti emigrati in Francia incominciarono a cercare vie nuove e giuste, le posizioni che Stato operaio aveva elaborate e difese, circa la natura di classe del fascismo e il modo di combatterlo, si imposero a tutti. All’inizio dell’estate 1927 il centro estero si spostò da Parigi a Lugano, dopo qualche mése si trasferì a Basilea, dove rimase sino alla fi­ ne del 1928. In seguito risiedette di nuovo a Parigi. La di­ rezione di Stato operaio fu però sempre tenuta saldamente daTogliatti, che vi dedicava una gran parte del suo tempo. La prima e principale questione sulla quale ci si do­ vette battere e sulla quale subito i comunisti si diffe­ renziarono da tutti gli altri fu quella del carattere stesso dell’emigrazione. « I dirigenti socialisti, massi­ malisti, repubblicani ed altri, costretti alla emigrazione così come i dirigenti comunisti più noti, si dettero a proclamare che la emigrazione fosse non una necessità per organizzare meglio il lavoro, ma un dovere e che fosse “ v iltà ” rimanere in Italia, dove non vi era e non poteva più esservi “ niente da fare ” . Era un profondo errore politico, strettamente legato all’altro, però, che faceva del fascismo non una trasformazione reazionaria sgorgante dall’interno del capitalismo imperialista ita­ liano, ma una deviazione di natura piccolo borghese, una parentesi di pazzia »L Su questo punto la lotta fu1 1 Trenta anni dì vita e lotte del P . C. I., II Quaderno di Rinascita, 1952, pag. 72.

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senza quartiere, pubblicamente e nell’interno del partito. Quando tra i dirigenti stessi del partito si manifestò, per opportunismo, la tendenza ad accettare questa po­ sizione, si venne alla rottura e Togliatti non esitò a rompere. « Davanti alla diserzione dei partiti di opposizione che abbandonano la lotta e il lavoro in Italia, il dovere del nostro partito è di restare in Italia e di avere tra le masse il massimo di attività, malgrado i nuovi colpi della reazione che si concentrano sempre più sopra di esso. Estendere la sua influenza sugli strati operai, di contadini e di piccola borghesia che seguivano i partiti dell’ Aventino, legarli all’ avanguardia proletaria per la lotta rivoluzionaria contro il fascismo : tale è il com­ pito fondamentale del nostro partito ». Così diceva la risoluzione sui compiti del partito italiano approvata a Mosca nel gennaio 1927. Era l’op­ posto di quello cui pensavano gli emigrati aventiniani, che ora si definivano di « concentrazione repubblicana ». Una certa propaganda all’estero, sogni vani circa la possibilità di dar vita a un « governo italiano » in esilio, sacrifici nobili ma poco fruttuosi per organizzare incur­ sioni aeree sul suolo italiano e atti individuali di altra natura. Queste erano le sole cose cui sapessero pensare. Soltanto quando i fratelli Rosselli dettero vita al movi­ mento di «Giustizia e libertà », questo errore venne in parte corretto. I comunisti compresero e sostennero inve­ ce sin dal primo momento che una politica antifascista doveva essere prima di tutto agitazione e movimento del popolo italiano, nel Paese stesso. L ’occhio doveva rima­ nere fisso al capitalismo italiano, alle sue contraddi­

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zioni interne e trasformazioni, alle fabbriche dove le classi anticapitalistiche, ridotte all’asservimento dal fascismo, dovevano ritrovare la capacità di muoversi e di rovesciarlo. Questo era stato subito dopo le leggi eccezionali, del resto, Torientamento di tutti i quadri del partito in Italia. Si erano gettati a corpo perso nel lavoro clan­ destino, avevano stampato manifestini e giornalini ille­ gali a migliaia e decine di migliaia, avevano mantenuto e anche allargato i contatti con i lavoratori. Il 20 feb­ braio 1927, in conseguenza di questo ampio lavoro, dopo che i capi riformisti definitivamente piegati al fascismo avevano dichiarato sciolta la Confederazione del lavoro, in un convegno clandestino a Milano, per iniziativa dei comunisti, questa era stata dichiarata ancora esistente e ne era stata ricostituita la direzione. Si ebbe quindi, nella prima metà del 1927, una effettiva ondata di la­ voro comunista, una ripresa che impressionò il fascismo stesso. Anzi, questo creò nel partito un eccesso di otti­ mismo. Vi fu chi cominciò a pensare che tutto non andasse poi così male, che la illegalità completa fosse persino, per certi aspetti, più favorevole della semile­ galità, e che non vi fosse che da andare avanti, senza cambiar niente e solo sostituendo via via quei quadri che venivano arrestati. Questo era però un errore, e un errore serio, perchè prescindeva dall’esame della situazione e anche qui si deve all’iniziativa e all’azione continua, tenace di To­ gliatti se si riuscì a correggerlo. Egli partiva dalla co­ statazione, innegabile, che l’avvento del fascismo al potere e la sua dittatura totalitaria non erano cose

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transitorie, un qualsiasi fuoco di paglia, ma un fatto serio e grave. La borghesia italiana si era data una nuova organizzazione di Stato. Non si poteva pensare di rovesciarla con un giro di mano. Bisognava preve­ dere una lotta lunga, difficile, che portasse alla disgre­ gazione del nuovo fronte reazionario della borghesia sotto una pressione delle masse. Inoltre, il partito comu­ nista non aveva fatto che i primi passi per diventare un vero partito di massa. Non si dovevano dunque sperperare le forze, ma usarle bene, con economia. Si dovevano evitare con cura gli errori, ognuno dei quali poteva costare la perdita di numerosi quadri. I metodi di lavoro, poi, dovevano essere radicalmente cambiati, per adattarli alla situazione. Bisognava saper abbandonare a tempo i vecchi schemi organizzativi. Infine, bisognava a tempo disporsi a utilizzare per il lavoro tra le masse anche le organizzazioni create dal fascismo, sindacali, giovanili. Dirigere il partito su questa via, non fu cosa facile. Si doveva continuamente stare all’erta e combattere su due fronti, contro lo scoraggiamento e contro la faci­ loneria. Non si poteva perdere di vista nessun aspetto del lavoro. Questo spiega la grande quantità di tempo e la cura che Togliatti dedicava personalmente ai collo­ qui e alla preparazione tecnica e politica dei compagni che entravano e uscivano dallTtalia. Egli ricorda oggi con commozione i nomi e i volti di quei tanti e tanti lavoratori, giovani e anziani, i quali senza esitazione, raggiunto dallTtalia il centro estero, ripassavano poi la frontiera per tornare a ritessere le fila del movimento nelle fabbriche, negli uffici, in

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seno alle organizzazioni fasciste. Ripartivano con la certezza di adempiere a una missione storica, insosti­ tuibile e l’adempimento di questa missione spesso li condusse alla morte. Togliatti ricorda di aver istruito personalmente Gastone Sozzi, uno dei primi « caduti » nella eroica lotta cospirativa : « Passammo giorni e giorni insieme prima del suo rientro in Italia. Discutem­ mo fin nei minimi dettagli i problemi del lavoro che egli avrebbe dovuto svolgere per riprendere in mano le fila della organizzazione. Sozzi partì pieno di coraggio, fi­ ducioso. Pochi giorni dopo arrivò la notizia, portata da un altro corriere, che Sozzi era caduto. Al dolore per la fine di un compagno si aggiungeva lo smarrimento per la missione fallita: bisognava ricominciare tutto da capo... ». I quadri che allora tennero in piedi il partito e il movimento in Italia erano tutti uomini semplici, dice ora, molti sarebbero forse stati incapaci di seguire un elevato dibattito politico. Eppure ognuno di costoro fece di più, per liberare la patria dalla vergogna fasci­ sta e riconquistare la democrazia, di tutti i politicanti liberali e « democratici » messi assieme. Si intende che il controllo di questo lavoro esigeva ci si interessasse sempre anche delle cose tecniche, del modo come funzionavano i passaggi di frontiera, dei documenti, delle valigie a doppio fondo, del vestire, , degli appartamenti e delle dimore illegali. Tutti sono concordi nel dire che Togliatti fu sempre, in questo campo, il più scrupoloso, il più pedante, il più severo. Fu anche sempre il più diffidente. Nel 1928, un impiegato del partito, arrestato, improvvisamente si ripresentò in un ufficio clandestino dicendo ch’era riuscito, gettan­

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dosi giù dal treno, a riacquistare la libertà. Vi fu chi gli buttò le braccia al collo. Quando la notizia giunse al centro estero, Togliatti e Secchia furono i primi a dire, e a dire subito: - Attenti! Questo è uno che si è venduto! - E così era, infatti. Dopo alcune settimane si ebbe la confessione. Anche per definire l’orientamento, le prospettive e le parole d’ordine del partito, non vi fu poco da la­ vorare, da discutere e da chiarire, combattendo anche qui su due fronti. Fuori dubbio era l’affermazione della natura di classe del fascismo come dittatura borghese reazionaria. Tutte le sciocchezze che a questo proposito furono dette, nei primi anni della emigrazione, dagli emigrati non comunisti, venivano così respinte e confu­ tate, sulla base dei fatti e di analisi economiche, po­ litiche, storiche. Ancora oggi, chi vuole capire qualcosa del fascismo, chi vuole poter costruire una coerente e veritiera storia d’Italia di quel periodo, deve partire dalla posizione che i comunisti hanno stabilita e dimo­ strata. Le difficoltà sorgevano in seguito. Come sarebbe caduto il fascismo? Che cosa vi sarebbe stato dopo la sua caduta? E quindi, quale parola d’ordine generale, che discendesse da questa prospettiva, si doveva dare? Una conseguenza affrettata, schematica, stava nel dire che, data la natura del fascismo come dittatura aperta e reazionaria della borghesia, la sua caduta non poteva dar luogo che all’avvento al potere della classe operaia. Non vi erano altre possibilità, si diceva, non vi sarebbero state altre « fasi » intermedie. Era ingenuo, sbagliato, dire così. Era un porre sull’avvenire un’ipoteca pre-suntuosa, escludere le possibilità di manovra degli stessi

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gruppi borghesi e la molteplicità dei possibili sviluppi della lotta di classe, della situazione italiana e di quella internazionale. Eppure attorno a queste cose si discusse a lungo e fu Togliatti che in queste discussioni interpre­ tò nel modo più giusto il pensiero marxista e leninista. Una cosa era fuori dubbio : « Il fascismo non può essere abbattuto che dalla classe operaia, alla classe operaia spetta il compito di raccogliere attorno a sè e di gui­ dare al rovesciamento del fascismo tutti gli strati della popolazione italiana che la politica fascista di oppres­ sione spinge non solo alla opposizione ma alla rivolta contro il regime »L Le cose sono veramente andate in questo modo, nella guerra di liberazione, ma con le va­ rianti imposte dalla situazione, e di queste Togliatti tene­ va conto, per cui non voleva si legassero le prospettive e quindi il lavoro del partito a una sola ipotesi concreta. Alla II Conferenza del pai tifo, che si tenne a Basilea nel 1928, da un lato si fece il punto sull'attività del par­ tito, dall'altro si chiarirono in modo giusto questi problemi. Nell’ intervento di Togliatti vi è prima di tutto la correzione di taluni troppo facili ottimismi. «Noi non dobbiamo compiere l’ errore - ammonisce di giudicare della situazione e dell’orientamento politico delle masse, e quindi delle possibilità politiche, in base all’orientamento di quella parte della classe ope­ raia e di quella parte delle classi contadine che noi tocchiamo. La parte che noi tocchiamo è la parte attiva, è la parte che è rimasta attiva dopo tutte le vicende1 1 Risoluzione della V II riunione plenaria del Comitato esecutivo dell' Internazionale comunista, del 22 novembre 1926.

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del movimento operaio di questi ultimi anni. È evidente che la parte rimasta attiva dopo tutte queste sconfìtte è la parte che possiede la più alta coscienza di classe, è quella nella coscienza della quale il programma della rivoluzione proletaria ha fatto già le maggiori conquiste. Ma questa parte oggi non rappresenta tutta la massa e noi dobbiamo evitare di dare un giudizio su tutta la massa, di rappresentarci le condizioni di tutta la mas­ sa operaia e contadina in base ai dati dello stato d'animo e dell’orientamento politico delle masse che noi tocchiamo ». Esistono, poi, «uno squilibrio tra la influ­ enza politica del partito e la sua forza organizza­ tiva, e uno squilibrio tra la capacità politica del partito e i compiti politici che la situazione gli pone... Superare questi due; *squilibri vuol dire riuscire a far avanzare le masse dalle posizioni arretrate sulle quali esse si trovano ». Che cosa fare? « Restare a tutti i costi nella fabbrica! La crisi industriale e la disoccupa­ zione, la razionalizzazione e la reazione di polizia tendono a gettarci fuori dalle fabbriche. Noi dobbiamo abbarbicarci alla fabbrica. Se cacciati vi ritorneremo. Se indeboliti lì ci rafforzeremo. Nella fabbrica ritro­ viamo la classe operaia. Non è possibile “ polverizzare” la classe operaia nella fabbrica perchè non è possibile spezzare la fabbrica. La fabbrica è il capitalismo ». È da negare che « l’abbattimento del fascismo possa ve­ rificarsi all’infuori dell’intervento delle grandi masse lavoratrici e della direzione operaia di questo interven­ to », ma «le masse lavoratrici non accetteranno la dire­ zione di quel partito che si limiti a dichiararsi il partito della classe operaia, il partito della rivoluzione. No. La

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classe proletaria, la classe dei contadini lavoratori se­ guiranno il partito che avranno imparato a conoscere nella preparazione rivoluzionaria, il partito che si sarà dimostrato, nell’azione, il loro partito, il partito che non si sia limitato a salvare l’onore della bandiera, ma avrà guidato ogni giorno e per anni, i dieci, i cento, i mille, i diecimila lavoratori nella lotta e che le masse avranno visto sempre in prima fila alla loro testa, coraggiosamente, ostinatamente. Un tale partito è il partito della rivoluzione. Un tale partito è il partito della vittoria degli operai e dei contadini. Un tale par­ tito è il partito comunista ». Abbiamo riportato questo passo perchè ci sembra definisca bene il metodo di Togliatti nel dibattere le questioni politiche generali. A prima vista, sembra che egli sposti Tindagine. In realtà egli scopre e indica que­ gli elementi concreti della situazione che hanno valore decisivo nella definizione delle questioni generali e su di essi concentra l’attenzione. Da che cosa dipendevano le prospettive per la caduta del fascismo e dopo, se non dal grado di conquista delle masse da parte del partito comunista? Questo era quindi il punto centrale a cui si doveva guardare. Il resto sarebbe stato determinato, quindi, non solo dagli sviluppi oggettivi, ma dal lavoro stesso che si sarebbe fatto. Come parola d’ordine gene­ rale, non vi è dubbio che fino a che non si fosse aperta una situazione nuova, il partito doveva far leva soprat­ tutto sulle rivendicazioni economiche e politiche par­ ziali. Ai lavoratori che lo seguivano non si poteva però non indicare l’obiettivo di un « governo operaio e con­ tadino ». È vero che questo non poteva essere, date le

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condizioni stesse dell’Italia e del mondo, un obiettivo immediato. Aveva un valore più che altro di propa­ ganda; ma questo era inevitabile, data la chiusura della situazione per la vittoria del fascismo e per la forza ch’esso manteneva. L ’importante era di non rimanere legati a posizioni astratte o a formule di pura propaganda quando la situazione avesse cominciato ad aprirsi. E questo il partito comunista lo comprese e lo seppe fare. I primi anni1d’emigrazione furono ricchi di incidenti. Lugano, dove il centro estero risiedette nella seconda metà del 1927, col vantaggio di essere a poche ore da Milano, dovette essere abbandonata all’inizio dell’inver­ no. Si era destata la sorveglianza della polizia locale at­ torno ai luoghi dove vivevano degli strani signori, tutto il giorno chiusi in casa a scrivere a macchina, e uscivano solo per incontrare gente più strana di loro, che veniva dalla frontiera e poi ripartiva. Lo stesso anno fu sorpresa tutta una scuola di quadri locali. Erano una trentina, tra i quali alcuni dei nostri attuali dirigenti migliori. Insegnanti erano Togliatti e Longo, e la scuola incominciò in una capanna di montagna dei Naturfreunde, tra Basilea e Biel. Il brutto è che i pro­ venienti dall’Italia eran vestiti non come « amici della natura », ma come comuni proletari italiani. La polizia si insospettì, venne a vedere di che si trattava, arrestò tutti, li pose in fila e li ricondusse in città. Vi è sul Nebelsf alter di Basilea una gustosa caricatura dedicata al fatto. Non vi era però ancora anticomunismo, allora. Le autorità svizzere furono magnanime. Togliatti e i pochi che avevano un documento qualunque, autentico o falso, furono rilasciati. Gli altri condannati a un

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giorno di arresto e poi consegnati ai dirigenti del par­ tito comunista svizzero, perchè li facessero sparire. La scuola continuò e terminò a Berlino. Tutto il 1928 venne passato a Basilea. Anche di qui, dopo circa un anno di buon lavoro, si dovette partire. La polizia italiana venne a conoscenza di questa sede a mezzo di una spià. Segnalò la cosa alla polizia sviz­ zera e questa intervenne. Fu arrestato un gruppo di dirigenti del partito, tra cui Togliatti, Grieco, Dozza. L ’arresto non avvenne nelle case, ma nei luoghi degli appuntamenti per lavoro. Il pasticcio per Togliatti fu che aveva con sè un pacco con la spesa per la casa: una trancia di pesce e una scatola di piselli. Non ostante ciò, sostenne di essere giunto allora allora, senza docu­ menti personali, da Parigi, e di aver passato la frontiera a piedi. Offrì i commestibili agli agenti, che accettarono. Fu messo in libertà dopo tre giorni ed espulso. Gli altri, che avevano documenti personali non autentici, e di cui si scoprì la dimora, ebbero una lievissima condanna. Il centro estero si trasportò a Parigi, dove rimase sino all’inizio della seconda guerra mondiale. Un incidente curioso ebbe luogo in Francia, nel 1929. Era stata convocata una riunione nazionale dei quadri del movimento sindacale clandestino. Uscì dal Paese un folto gruppo di delegati, provenienti da molte regioni. Tutti avrebbero dovuto, dopo la riunione, ri­ tornare al loro posto di lavoro. Non si poteva quindi fare nulla in pubblico. Ci si riunì nei pressi di Marsi­ glia, nel grosso casale di campagna di un fattore ita­ liano; ma la prima notte vi fu un allarme, provocato da qualche imprudente che aveva destato il sospetto

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dei gendarmi locali. Si decidette di abbandonare im ­ mediatamente la casa e ci si avviò, a piedi, per la cam­ pagna. La ferrovia era però troppo distante e a un certo punto i compagni del luogo, stanchi, proposero che si attendesse il mattino in un boschetto presso la strada, mentre uno di essi correva in bicicletta a Mar­ siglia, in cerca di un certo numero di automobili. Il boschetto, sito in mezzo a luoghi paludosi, era un in­ ferno. Migliaia e migliaia di zanzare si gettarono sui poveretti che aspettavano, tra cui era anche Togliatti con altri dirigenti del partito. Non v ’era nulla da fare per difendersi e non ci si poteva muovere. All’alba, quando giunsero le automobili di soccorso, tutti avevano il volto sfigurato. Nel treno che li portò a Lione, i pas­ seggeri li guardavano con stupore. A Lione la confe­ renza sindacale si tenne tranquillamente, in una trat­ toria gestita da Giambone, futuro eroe della resistenza, e fu una delle riunioni che dettero maggior frutto per stimolare le attività sindacali clandestine.

XVI.

Stavano maturando, nel mondo intiero e in particolar modo in Italia, importanti fatti nuovi. Le condi­ zioni del dopoguerra immediato erano sempre più lon­ tane. Nel 1924 i comunisti stessi avevano preso atto di un periodo di stabilizzazione relativa del capitalismo. In alcuni paesi, come la Germania e gli Stati Uniti, il progresso tecnico e le misure di razionalizzazione ave­ vano favorito un rapido aumento della produzione in­ dustriale. Ma già, su questa stessa base, sorgevano nuove contraddizioni. Si avvertiva che la stabilizzazione relativa giungeva alla fine e che maturava una crisi di proporzioni inattese. I gruppi dirigenti borghesi lo sentivano ed erano presi dalla febbre. Diventò acuto il pericolo che si lanciassero immediatamente in un’av­ ventura di guerra contro l’Unione Sovietica. I socialdemocratici di destra, a loro volta, si schierarono più apertamente con la borghesia reazionaria. Tutta la so­ cialdemocrazia si dette a esaltare il progresso tecnico compiuto durante la stabilizzazione, le nuove forme di razionalizzazione industriale e di accentramento eco­ nomico come l’ avvento di una nuova èra di « superimperialismo », in cui la borghesia tornava ad avere, dicevano, una funzione progressiva. Di qui una più intensa pressione ideologica sulle avanguardie comu­ niste, che dall’altro lato subivano la pressione reazio­ naria e le persecuzioni dei governi borghesi. Per resi­ stere, bisognava aver fermezza non solo di carattere, ma ideologica e politica.

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Questo fu il tema del VI Congresso dell’Intema­ zionale comunista, dove Togliatti fece un ampio inter­ vento sulle questioni internazionali e fu relatore, insieme al compagno Kuussinen, sui problemi del mo­ vimento di liberazione dei popoli coloniali. Il rapporto è dedicato in particolare alla critica della politica coloniale dei socialdemocratici. Vi si de­ nuncia il fatto che la socialdemocrazia, mentre si am­ manta di frasi sul progresso, in realtà in nessun paese appoggia la lotta rivoluzionaria dei popoli op­ pressi daH’imperialismo, ma aiuta la borghesia a tenerli schiavi. Era una replica diretta e documentata alle cose che si dicevano, in quegli stessi giorni, al Con­ gresso della II Internazionale a Bruxelles. L ’intervento nel dibattito generale affronta invece in modo polemico le questioni più difficili del momento. Chi lo rilegga oggi comprende perchè Togliatti occupò un posto così importante nel movimento comunista internazionale. Tutte le questioni vi sono trattate alla luce dei principi, ma col costante richiamo alla espe­ rienza dei singoli paesi. Emerge la cura di scoprire e definire esattamente gli elementi che differenziano l’una situazione dall’altra, di non accontentarsi delle affer­ mazioni generali, ma di riempire ogni definizione di un contenuto concreto colto nella realtà che si svi­ luppa. Il colpo principale è diretto contro l’opportu­ nismo, ma si mette in pari tempo in guardia contro il pericolo che per lottare contro l’opportunismo si fac­ ciano concessioni allo schematismo e all’estremismo di sinistra. Circa la situazione generale del capitalismo, viene

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dichiarata priva di senso una pretesa contrapposizione tra « ottimisti » e « pessimisti ». Occorre l’analisi con­ creta. Gli opportunisti di destra rinnegano le fondamenta della nostra dottrina perchè da un temporaneo progresso tecnico ricavano la conseguenza che il capi­ talismo sia uscito dalla sua crisi generale. « Possiamo costatare un certo sviluppo del capitalismo, senza che ciò modifichi il carattere generale del periodo attuale, il quale continua a essere il periodo della decadenza e della morte del regime capitalistico ». f La prospettiva della guerra contro l’Unione Sovie­ tica è mostrata concretamente, nel quadro dei contrasti tra i grandi paesi imperialistici: « Non vi è dubbio che, se noi esaminiamo la situa­ zione europea attuale, dobbiamo riconoscere che il fatto dominante di essa è ancora la egemonia politica della Inghilterra... Ma questa conclusione, la quale è vera se si considera la situazione attuale, non è più egual­ mente vera se si esaminano le cose nel loro sviluppo. La egemonia politica dell’Inghilterra in Europa non corrisponde già più a una analoga egemonia economica, mentre non corrisponde al suo sviluppo e alla sua impor­ tanza economica la posizione politica della Germania. Bisogna riconoscere che tutte le contraddizioni le quali esistono oggi tra i diversi Stati capitalistici in Europa e nel mondo intiero sono fortemente influenzate dal fatto che esiste una lotta per l’egemonia europea, la quale si combatte tra la Germania e l’Inghilterra. Ma su quale terreno verrà risolta questa lotta? Potrà essere risolta solo sul terreno della azione contro l’Unione Sovietica. Se esaminiamo la posizione e l’orientamento dell’Inghil­

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terra e della Germania dobbiamo concludere che cia­ scuno di questi due grandi paesi capitalistici, per risol­ vere il problema di conquistare una posizione di ege­ monia nell’Europa, deve mettersi sulla via della guerra contro TUnione Sovietica » 1. Questa situazione dà origine da un lato a una trasfor­ mazione reazionaria dei regimi borghesi, d’altro lato a una radicalizzazione del movimento operaio. Non si cada però nella vana generalizzazione. Non ogni regime rea­ zionario è già il fascismo e la radicalizzazione del movi­ mento delle masse è un processo che si compie in modo diverso nei diversi paesi. La socialdemocrazia si sposta sempre più a destra, e questo richiede contro di essa una lotta più efficace, più energica. Quanto al bilancio del movimento comunista in generale, il giudizio è cri­ tico e per superare i difetti si rivendica una più intensa vita politica e una più grande democrazia interna. Nel complesso, risuonano già in questo discorso al­ cune delle note che dovranno essere ampiamente svi­ luppate in seguito, dal VII Congresso mondiale. Dopo il VI Congresso, la situazione internazionale precipitò. Le posizioni e previsioni del Congresso eb­ bero una conferma immediata. Per l’Italia e il partito italiano, Togliatti sostiene che proprio con il 1929 in­ comincia un periodo nuovo. « Se si considera l’anno 1929 per l’organizzazione del partito, esso fu catastro­ fico. Quasi completamente tagliati i collegamenti tra il centro ideologico e politico estero e le organizzazioni 1 E r c o l i , L ’orientamento del nostro partito nelle questioni internazionali, in Stato operaio, A. II, 1928, n. 7, pagg. 419 - 436.

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attive del paese, assente un centro dirigente all’interno, limitatissima l’agitazione e quasi inesistenti i successi politici. Non ostante tutto questo non vi è dubbio che il 1929 è l’anno in cui ha inizio anche per noi un mu­ tamentoprofondo... Vi è una svolta internazionale e que­ sta si manifesta anche in Italia col maturare di una situazione nuova, che verrà espressa chiaramente dal movimento di massa del '30 e del '31, dall’orientarsi verso il partito comunista di una nuova generazione democratica e antifascista, da notevoli spostamenti nelle forze intermedie »1. In questo anno « tutto il mondo capitalistico fu investito da una scossa profonda. Una crisi industriale e finanziaria di ampiezza e proporzioni senza prece­ denti colpì il capitalismo degli Stati Uniti d’America, pose fine in questo paese a un passeggero periodo che era stato più di slancio produttivo e speculativo che di vera prosperità... La catastrofe americana del '29 e i successivi sviluppi della crisi del capitalismo dettero un colpo mortale alla menzognera costruzione ideolo­ gica socialdemocratica... La crisi ebbe aspetti e de­ corso febbrili, provocò la formazione di una nuova massa di decine di milioni di disoccupati, spinse alcuni paesi sull’orlo dell’abisso, altri condannò a una degra­ dazione inesorabile e sboccò alfine non, come nei pe­ riodi precedenti, in una nuova ripresa, ma in una de­ pressione di tipo particolare, per uscire dalla quale al­ cuni paesi capitalistici più importanti — come la Ger­ 1 Trenta anni di vita e lotte del P .C .I., II Quaderno di Rinascita, 1952, pag. 6.

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mania — si posero sulla strada della economia di guerra e della preparazione attiva di un nuovo conflitto ar­ mato »1. È da questo momento che sul piano intemazionale appaiono in maniera chiara due mondi, due sistemi, uno dei quali ha toccato il fondo dell’abisso, l’altro è agli inizi di un cammino difficile ma sicuro. Il 1929 è l’anno in cui Stalin lancia il primo piano quinquennale. L ’Unione Sovietica ha superato la fase del comuniSmo di guerra e della Nep, a ritmo eccezionale tutto il paese marcia verso l’industrializzazione e la trasforma­ zione dell’agricoltura. L ’Unione Sovietica diventa di fatto l’altro polo del mondo. Una nuova ondata di fiducia rivoluzionaria percorre il movimento operaio internazionale. Con 1’affermarsi sul piano internazionale della Unione Sovietica, si risvegliano e diventano attivi larghi strati di popolazione caduti nel letargo dopo le sconfitte del dopoguerra, a cui erano succeduti colpi aperti della reazione. Ciò avviene in Italia, nei Balcani, in Spagna. « Le vittorie dell’Unione Sovietica interven-, gono a chiarire le idee, a precisare le prospettive, di­ ventano ancora una volta —• come era stata la Rivo­ luzione d’Ottobre — guida nella formazione della co­ scienza socialista delle masse, nell’orientamento dei qua­ dri migliori »2. Anche l’Italia fu toccata dalla crisi. La situazione economica del paese era stata già inquadrata dal fa1 Trenta anni di vita e lotte del P .C .I., Rinascita, 1952, pagg. 107-108. 2 Idem, pag. 108.

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seismo fin dal 1927, nel raggio di una serie di « giri di vite » contro i consumi. Il salvataggio dei grandi mo­ nopoli si era operato, fin dal 1927, a scapito dei con­ sumatori e delle categorie lavoratrici. Il 24 maggio 1927 il governo aveva ridotto i salari del io per cento, di­ minuito l’indennità caroviveri e gli stipendi degli im­ piegati degli enti locali. In compenso aveva diminuito il prezzo dei giornali e bloccato le pigioni: ma nell’ot­ tobre aveva ridotto di nuovo i salari, dal io al 20 per cento. In quattro anni, dal '27 al '31, l’indice dei sa­ lari diminuì del 16,5 per cento. Per i lavoratori agri­ coli le riduzioni andarono dal quarto alla metà del valore nominale. Le richieste di nuove riduzioni furono per alcuni anni all’ordine del giorno: i padroni chiede­ vano e la magistratura del lavoro accordava. Nel 1931, per esempio, i datori di lavoro chiesero per le monda­ riso una riduzione del 35 per cento. Il sindacato fasci­ sta chiese il 20, la magistratura del lavoro accordò il 24! Scoppiata la crisi internazionale, la situazione si aggravò. Le esportazioni calarono, dal '29 al '32, da 14 miliardi a sei. I salari e gli stipendi diminuirono ancora, la disoccupazione aumentò, ma i padroni delle grandi imprese ebbero i loro dividendi salvi. Il i° di­ cembre del 1930 il governo decretò la riduzione del 12 per cento di tutti gli stipendi. Mussolini, alla Camera, poteva trionfalmente annunciare : « La riduzione dei salari dei lavoratori agricoli che va da un minimo di io a un massimo di 25 e lo supera anche, purché non ne risulti un salario inferiore a otto lire quotidiane, significa che l’agricoltura italiana viene ad essere alleg­ gerita di un miliardo e duecento milioni; l’industria

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viene alleggerita di un totale che va da 800 milioni a un miliardo. Aggiungete i 720 milioni della decur­ tazione degli stipendi ai dipendenti dello Stato e i 300 milioni di tutti gli altri dipendenti, aggiungete anche i milioni di tutti gli altri operai e artigiani per pre­ stazioni diverse e avrete un totale di tre miliardi e forse più. Il che significa che noi abbiamo liberato tre miliardi di circolante ». Le contraddizioni e i contrasti inevitabili, le lotte im­ mediate che scoppiarono, i tentativi di sciopero, il fasci­ smo li stroncò con la polizia e con il Tribunale speciale. La crisi creò così, in alto, un’economia malsana, che pompava le finanze dello Stato, in basso larghissimi strati di miseria e disoccupazione. L ’ostilità al fascismo riprese fortissima e il carattere di regime di classe ap­ parve più chiaro a tutti. La realtà smantellò parecchie illusioni piccolo borghesi, aprì gli occhi ai piccoli pro­ duttori semirovinati, istradò sulla via dell’opposizione antifascista una nuova generazione di intellettuali i quali cominciarono a concepire la lotta antifascista legata non alla fortuna di questo o quell’uomo politico della passata generazione, ma alla chiara visione di ciò che il fascismo in quell’anno apertamente dimostrò di essere: la dittatura esasperata di un ordine economico in disfacimento. « L ’unità di tutti i gruppi reazionari e conservatori attorno al governo fascista fu dal 1929 completa e non doveva rompersi che sotto i colpi della disfatta mili­ tare. Eppure è dal 1929 in sostanza che, quasi come risposta e sfida a questa unità, nelle classi lavoratrici, nel ceto medio e negli intellettuali si inizia un processo

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in apparenza capillare di distacco dal regime domi­ nante e opposizione ad esso. Si tratta prima di singoli, poi di gruppi e particolarmente di giovani. Mentre i vecchi quadri riformisti sono quasi tutti scomparsi o languiscono inerti nella emigrazione, sorge il nuovo mo­ vimento di « Giustizia e libertà » pieno di slancio e ricco di adesioni. Mentre in tutti i campi il fascismo, bene­ detto dai vescovi, ostenta la scomparsa di qualsiasi oppositore, si avverte il nascere di una nuova genera­ zione antifascista »1. La tendenza alla unità completa di tutte le forze conservatrici e reazionarie attorno al fascismo ebbe la sua dimostrazione più evidente nei Patti lateranensi, l’i i febbraio 1929. Togliatti aveva sempre dedicato grande attenzione ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Italia, e tra il Vaticano e il fascismo in particolare. Aveva messo in guardia contro qualsiasi tendenza a considerare il Vaticano una forza antifascista. Nello Stato operaio erano stati seguiti con attenzione i con­ trasti tra il fascismo e le gerarchie vaticane relativa­ mente a uno dei temi più controversi, quello dei gio­ vani e delle loro organizzazioni. Era però stato messo in luce che anche nei momenti di conflitto in apparenza più acuto, il Vaticano, pur sostenendo le proprie posi­ zioni, aveva affermato apertamente di ricercare una « benefica cooperazione » con lo Stato fascista. Questi giudizi, dati un anno prima della Conciliazione a com­ mento di fatti che da alcuni erano stati giudicati di 1 Trenta anni di vita e lotte del P .C .I., Rinascita, 1952, pagg. 108 -109.

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« rottura » tra fascismo e Vaticano, trovarono una cla­ morosa conferma con la firma dei Patti lateranensi. Su questo avvenimento Togliatti scrisse un articolo rimasto celebre, Fine della questione romana T In que­ sto scritto Togliatti chiarisce la sostanza del patto tra lo Stato e la Chiesa, i motivi per cui al temporalismo ecclesiastico ottocentesco il Vaticano, dopo l’avvento del capitalismo, doveva sostituire una sovranità ben più va­ sta, non circoscritta dal possesso di un territorio, ma estesa sul territorio stesso del capitalismo, un dominio senza frontiere basato su accordi con i governi capita­ listici e su una potenza finanziaria di tipo internazionale. « Il papato del giorno d’oggi, - scrive Togliatti -, il papato che ha firmato l’accordo con lo Stato italiano è una potenza la quale ha percorso molta della di­ stanza che la separava dalle altre forze che reggono il mondo capitalistico. Esso è andato alla scuola del re­ gime parlamentare, della democrazia borghese e dei partiti politici, del giornalismo, della banca, della espan­ sione coloniale e della organizzazione operaia. È una potenza la quale ha imparato a modificare la sua stessa organizzazione, i suoi metodi di lavoro e le sue armi per poter affermare il suo dominio nel mondo del capitalismo avanzato. È una potenza che in questo mondo cerca di esercitare, nel modo più adatto alle circostanze, la sua funzione di conservazione dell’ordine sociale esistente. Per questa potenza “ la questione ro­ mana ” , intesa come contrasto per un possesso terri-1 1 E A. I li,

r c o l i,

n.

F in e della questione romana,

in

2, febbraio 1929, pag. 122 e sgg.

Stato operaio,

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toriale, è evidente che non può più avere un senso. Altri sono i problemi che per essa si pongono... Chi diede il colpo di grazia al potere temporale non furono i cannoni e i bersaglieri del povero Cadorna, ma lo sviluppo del capitalismo. Lo sviluppo del capitalismo opera sopra l’involucro dei vecchi rapporti feudali o semifeudali come un reagente e come un esplosivo. Esso crea tra i singoli, tra le masse organizzate e tra i centri del potere politico, rapporti completamente nuovi ; diffonde nuove abitudini, nuovi modi di pensare e di giudicare ; trasforma tutto il mondo. Nel mondo trasformato dal capitalismo il papato, per contare come Stato tra Stati qualcosa che corrisponda almeno da lontano alle sue aspirazioni, dovrebbe con­ centrare nelle sue mani la ricchezza e la forza che hanno oggi tra i paesi capitalistici gli Stati Uniti d’A­ merica. Armato della sua vecchia potestà temporale il Papa è tra le potenze capitalistiche un personaggio ri­ dicolo e impotente. Il conflitto tra un pontefice e un imperatore, che nel Medio evo era causa di sconvolgi­ mento e di scissione del mondo intiero diventa, nelle vicende della rivoluzione francese e dell’impero napo­ leonico, un episodio secondario ». Analizzando il carattere reazionario del patto tra Va­ ticano e Stato, aggiunge : «La questione romana è stata in Italia niente altro che un ostacolo il quale impediva che rapidamente si arrivasse alla collaborazione completa e consapevole tra lo Stato e la Chiesa per allontanare la minaccia della rivoluzione proletaria. Questo ostacolo fu una cosa grave, storicamente seria e importante, non tanto per il valore che avesse il pezzo di terra sottratto

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dal re e rivendicato dal papa, quanto perchè esso era indice di una scissione latente nel campo della borghe­ sia italiana, di una scissione latente la quale impediva che la borghesia concentrasse tutte le sue forze e le impiegasse nel modo più utile per far fronte ai movi­ menti del proletariato e dei suoi alleati storici : i con­ tadini... La importanza che la questione romana as­ sunse in questo quadro la sentì chiaramente uno dei più intelligenti uomini politici della borghesia italiana, Stefano Jacini. Egli fu il primo a dimostrare la neces­ sità della conciliazione tra Stato e Chiesa, e non per motivi ideologici, sentimentali o religiosi, ma allo scopo di rendere possibile la creazione in Italia di un forte partito conservatore, che avesse le sue radici preva­ lentemente nelle campagne, che desse allo Stato italiano una solida base economica e sociale operando una ri­ forma dell’agricoltura ed elevando le plebi rurali a un livello di vita civile. Utopia! La borghesia italiana, incapace di fare nelle campagne una riforma che non avrebbe potuto attuarsi se non come rivoluzione, intuì però la necessità di superare quella scissione interna di cui la questione romana era il simbolo, e vi si adoprò per due vie. Da un lato cercando di dare a sè stessa una unità ideologica, politica, organica da contrapporre alla unità del vecchio mondo chiesastico e reazionario. Dall’altro lato cercando con questo vecchio mondo, di passo in passo, il compromesso e l’accordo. I più grandi risultati ottenuti nella prima direzione furono la crea­ zione della massoneria come organizzazione della classe di governo e la creazione della ideologia del Risorgi­ mento e della “ terza Italia ” , come strumento per l’agi­

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tazione e mobilitazione delle masse. Meschini risultati, sufficienti forse in un periodo di tranquilli sviluppi eco­ nomici e di pace sociale, del tutto insufficienti nella situazione italiana dal 1890 in* poi, di fronte al risve­ glio, alla organizzazione, alle lotte offensive dei sala­ riati industriali e agricoli e di fronte alla tendenza del movimento contadino ad assumere, in rapporto con lo sviluppo della lotta di classe nelle città e nelle campa­ gne più progredite, la forma di aperta insurrezione con­ tro lo Stato. Perciò la borghesia italiana, anticlericale e garibaldina nelle feste del 20 settembre, doveva ine­ sorabilmente finire in braccio al prete ». Per valutare appieno il valore di questa analisi vi­ vace e profonda, si pensi che gli antifascisti emigrati di altra tendenza non riuscirono a vedere nella Con­ ciliazione del 1929 altro che un « ritorno al Medio evo » e si rifletta, poi, alla situazione e agli sviluppi odierni, dopo il 1947. Firmati i Patti lateranensi, il fascismo si sentì più sicuro e indisse il Plebiscito. Si doveva partecipare? I concentrazionisti decisero per l’astensione. I comu­ nisti presero subito, senza esitare, la posizione oppo­ sta. Si doveva partecipare al voto e nel giorno del voto organizzare, in qualsiasi modo, delle manifestazioni an­ tifasciste. Era una direttiva audace, coerente con tutto l’orientamento del partito. Com’è noto, i « No » annun­ ciati dal fascismo furono 136.198 e Togliatti commenta l’esito del Plebiscito in questo modo : « Attorno alla sua parola d’ordine : no ! il partito comunista è riuscito, in un mese di intensa attività, a realizzare una larga e simultanea mobilitazione delle proprie forze nelle prò-

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vince più importanti d’Italia, a riorganizzare le sue file dove queste erano disperse, ad attrarre nella sua orbita degli elementi attivi di altra origine politica, a vincere l’apatia e la passività di molti che sognavano il “ tutto o niente,,, a risvegliare allo spirito di classe una parte dei lavoratori iscritti ai sindacati fascisti. In una pa­ rola, il partito comunista è riuscito ad approfittare del Plebiscito per collegarsi politicamente con vasti strati della popolazione e per condurli a una manifestazione di opposizione irriducibile e rivoluzionaria allo Stato fascista. In questo modo il partito comunista ha rag­ giunto gli obiettivi che scendendo in lotta si era pre­ fisso »x. Quest’ultima può sembrare, a prima vista, afferma­ zione avventata. Se si riflette, però, ci si accorge che non è tale. Il partito non si proponeva, partecipando al Plebiscito, di rovesciare il fascismo con dei voti ne­ gativi. Sarebbe stato peggio che infantile. Ma nei voti negativi che vi furono, e soprattutto nel fatto che in quasi tutte le regioni, in quel giorno, vi erano state delle manifestazioni contro il regime oramai aperta­ mente benedetto da vescovi e preti, vi era non solo la speranza, ma il germe attivo e fecondo dell’avvenire. In un gruppo dirigente che aveva questo orientamento pieno di coraggio e fiducia, l’opportunismo non poteva avere fortuna.1

1 I risultati del Plebiscito e la Concentrazione, in Stato ope­ raio, A. I li, n. 3, marzo 1929, pag. 229.

XVII.

Già prima della Conferenza di Basilea, nella seconda metà del 1927, e poi nel 1928 e in seguito, i colpi subiti dalla organizzazione del partito erano stati durissimi. Erano caduti i dirigenti regionali e provinciali più forti, l’uno dopo l’altro. I quadri migliori venivano assotti­ gliati e le sostituzioni si facevano con difficoltà, con uomini non ancora preparati. I collegamenti col centro ne soffrivano sempre più e l’esistenza nel Paese di cen­ tri di direzione di tutto il lavoro di partito, nelle sue diverse branche, diventava sempre più difficile, preca­ ria. A un certo punto, dopo il famoso « attentato » del piazzale Giulio Cesare a Milano, la provocazione e gli arresti giunsero a sfiorare il centro stesso e si dovette d’urgenza far uscire dall’Italia i compagni che lo for­ mavano. Per un po’ di tempo fu impossibile ricosti­ tuire un centro all’interno. Si dovette incominciare col riprendere i contatti, con cautela, con ciò che restava nelle singole regioni e solo il centro estero poteva diri­ gere con sicurezza questo minuzioso lavoro. Queste dif­ ficoltà sempre più grandi, oltre alle condizioni generali di tutto il movimento comunista, furono il terreno su cui sorse un pericolo opportunista di destra. Vi furono quindi alcuni anni di lotta politica tempestosa, che a Togliatti toccò guidare. Il partito ne uscì, alla fine, più forte di prima, e il suo centro più compatto e meglio orientato. La prima battaglia fu contro Angelo Tasca che,

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dopo la diserzione del 1924, era stato con pazienza ripescato e faceva parte del centro estero. Inviato a Mosca dopo il VI Congresso dell’ Internazionale, aveva seguito una linea opp'osta a quella dal congresso deci­ sa, si era schierato a difesa di tutti i possibili opportu­ nisti in tutti i partiti, aveva, confusamente e con pre­ sunzione infantile, ammucchiato materiali per gettare il discredito sulla politica del Partito comunista russo nelle campagne. Stalin, in una riunione del Presidium della Internazionale, lo aveva attaccato vivamente : « Pensate un po’ : l’Ufficio politico del C. C. del Par­ tito comunista tedesco conduce una lotta contro il pe­ ricolo di destra e contro le oscillazioni dei conciliatori ; Serra è per la lotta contro i destri e i conciliatori; perciò Serra propone di non toccare i destri e i conci­ liatori, di indebolire la lotta contro i destri e i concilia­ tori e di cambiare la composizione dell’Ufficio politico del C. C. del Partito comunista tedesco nello spirito della conciliazione. E questa si chiama una “ conclu­ sione ” ! Mi scusi Serra se dirò qui senza infingimenti che la sua posizione in questa questione ricorda la posizione degli avvocati di provincia che cercano di mostrare il bianco per nero e il nero per bianco. Que­ sto da noi si chiama difesa avvocatesca di elementi opportunisti »T. Richiamato presso il centro estero, era apparso in preda al panico. Il Partito comunista russo e l’Inter­ nazionale, gridava, accumulavano gli errori; il capita­ lismo si rafforzava; il potere dei Soviet stava per ca­ dere; non era vero che i socialdemocratici fossero in 1 S t a l i n , Opere Voi. 11, p ag . 305 (ed. russa).

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Europa il sostegno dei governi reazionari borghesi; bi­ sognava anzi andar con essi d’accordo in ciò che face­ vano e in Russia bisognava cambiar tutto, incomin­ ciando dal monopolio del commercio estero, che doveva essere abolito, dalla industrializzazione, che era uno sbaglio e così via. L ’opportunismo dell’uomo contro il quale già Gramsci, aveva dovuto aspramente combat­ tere, veniva alla luce. La discussione si impegnò a fondo, collegata con l’esame della situazione italiana, dove Tasca negava la maturazione di elementi nuovi. To­ gliatti ricondusse i punti di dissenso a questioni non di tattica, cioè di politica corrente, per le quali è suf­ ficiente, dopo il dibattito, un’adesione disciplinare, ma a punti fondamentali di programma. Ciò rendeva im­ possibile la permanenza di Tasca nel partito ed egli ne venne espulso in una riunione del Comitato centrale che si tenne nel Belgio, nel settembre 1929. L ’importante è che l’espulsione di Tasca dette luogo a un dibattito che accrebbe la chiarezza ideologica e la cultura politica dei quadri del partito. Togliatti è sem­ pre stato contrario alle misure disciplinari non prece­ dute, accompagnate, seguite da un completo chiari­ mento delle questioni controverse. Non accetta che si critichi un compagno senza dirglielo apertamente, che lo si allontani da un posto di lavoro senza spiegargliene i motivi, farglieli comprendere e accettare. Al VI Con­ gresso dell’Internazionale aveva dedicato a queste que­ stioni un passo del suo intervento. « Se consideriamo, - aveva detto -, quali erano i centri dirigenti dei nostri partiti all'epoca del V Congresso e li confrontiamo con i centri dirigenti attuali, costatiamo che quasi nessuno in

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questo periodo ha resistito. Uno solo probabilmente ha resistito : —- il centro dirigente del Partito comunista ita­ liano, il quale si presenta al VI Congresso nella stessa formazione in cui si presentò al V Congresso. Durante questo periodo il centro del nostro partito ha svilup­ pato una intensa attività politica, ha condotto una lotta continua contro le deviazioni di destra e di estrema sinistra, è riuscito a superare queste deviazioni e a liqui­ dare il “ bordighismo ” come mentalità dominante nel partito, ma in pari tempo è riuscito a mantenere la sua omogeneità e a tenere strette attorno a sè tutte le forze di cui il partito ha bisogno per condurre la sua lotta e sviluppare il suo lavoro. Durante gli ultimi tre anni anche noi ci siamo trovati talora davanti alla neces­ sità di prendere misure di organizzazione. Quando ciò è stato necessario non siamo stati vegetariani. Abbiamo messo fuori del partito quei compagni e sciolti quei comitati direttivi locali i quali con una attività frazio­ nistica irriducibile ostacolavano l’azione del Comitato centrale e l’attività del partito nel suo complesso. Ma ciò che importa è che queste misure di organizzazione sono state prese, e tutta la lotta interna nel centro del partito e alla base di esso è stata condotta còme lotta aperta per una determinata linea politica. Se qual­ cosa può essere generalizzato delle esperienze che il no­ stro partito ha fatto nella sua vita interna, è precisamente il fatto che il processo di formazione del centro dirigente del partito deve seguire una linea politica e svilupparsi sulla base di una lotta politica aperta, quando ciò è necessario. Riconosciamo che in alcuni casi questa regola non è stata seguita, ma si è sosti­

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tuito a questo metodo quello della lotta senza principi e dei compromessi tra gruppi diversi. Qui vi è tm pe­ ricolo. Sé vogliamo avere una parola d’ordine per la nostra attività nel campo della formazione dei centri dirigenti dei nostri partiti possiamo trovarla nelle ul­ time parole di Goethe morente: “ Più luce!,,. L ’avan­ guardia del proletariato non può battersi nell’ombra. Lo stato maggiore della rivoluzione non può formarsi in una lotta di frazione senza principi »L Liberarsi dalle posizioni opportunistiche di Tasca e dal loro portabandiera fu relativamente facile. Nes­ suno lo seguì. Più difficile fu la lotta che si accese pochi mesi dopo, nel centro estero, contro tre dei com­ pagni che ne facevano parte. Il punto di partenza fu chiaro. Da tutta l’analisi che veniva fatta della situa­ zione italiana, discendeva la previsione di una ripresa di movimenti economici e politici delle masse popolari. L ’azione del partito doveva essere all’altezza della si­ tuazione. Era quindi necessaria « una svolta », cioè una particolare intensificazione del lavoro nel Paese, attra­ verso contatti più numerosi e una direzione sul posto. Questa proposta venne fatta da Togliatti e Longo, ma riuscì a passare, con quattro voti contro tre, solo per il voto di Pietro Secchia, che rappresentava, nel cen­ tro, la Federazione giovanile. Si andò avanti lo stesso, perchè si ebbe l’appoggio completo del Comitato cen­ trale e degli organi dirigenti.dellTnternazionale, ma la lotta si scatenò con grande asprezza. Fu la lotta in­ terna più aspra che mai si sia combattuta nell’interno del Partito comunista italiano. Respingere la svolta 1 Cfr. nota a pag. 194.

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proposta da Togliatti, Longo, Secchia voleva dire due cose. Voleva dire cambiare tutti i giudizi sulla situazione italiana e anche internazionale, mettersi a rimorchio delle frazioni più arretrate del movimento antifascista. Il partito non sarebbe più stato una avanguardia. Voleva dire, poi, rinnegare tutto ciò che dal 1927 era stato detto e fatto per stabilire che il centro dell’attività dei comunisti era in Italia. Tutto questo e altro'|ancora venne fuori nella discussione, che si svolse non solo nel Comitato centrale, ma tra i compagni che venivano dal Paese, nel Paese stesso e anche nei gruppi di lingua italiana dei paesi di emigrazione, nel modo più largo, affinchè tutti gli iscritti ne fossero informati e dicessero quello che pensavano. I « tre » non ebbero seguaci e si trovarono tanto più isolati e tanto più se­ veramente condannati, quanto più ci si allontanava dai gruppi dirigenti e ci si avvicinava ai compagni più semplici, che erano quelli sui quali più gravava il peso del­ la situazione e del lavoro da compiere. Allora perdettero la testa e si smascherarono. Si dettero agli attacchi per­ sonali, ricorsero alla vera mobilitazione della viltà col sottolineare soprattutto le difficoltà cui si andava incon­ tro per combattere il fascismo, inventarono le più as­ surde calunnie. Caddero infine nelle braccia aperte di Trotzki, sulla condanna del quale nessuno di loro aveva mai espresso il minimo dubbio. Trotzki dette loro un po’ di soldi per fare un giornaletto diffamatorio che uscì a Parigi per alcuni mesi e tutto finì con l’espul­ sione. Una delle riunioni del Comitato centrale convo­ cata per condannarli dovette essere interrotta appena aperta, perchè ci si avvide che uno dei « tre » aveva

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avvertito per telefono un gruppo di provocatori trotz­ kisti, i quali erano stati preparati per intervenire al­ l’improvviso e far saltare la riunione. Gramsci, pur non potendo conoscere tutti i particolari ma solo la impostazione generale del contrasto, dette dal carcere il suo consenso alle misure più severe. L ’espulsione di Silone, che allora nel partito veniva chiamato Pasquini, avvenne poco tempo dopo, ma non fu preceduta da nessuna discussione particolare. Questo famoso Silone, infatti, che oggi è un santone, che ispira tutti i nemici del movimento comunista e socialista in nome dei più famosi principi della moralità politica, faceva parte delle più elevate istanze del partito quando si aprirono le discussioni con Tasca e con gli opportu­ nisti. Aveva modo di dir tutto, di criticar tutto, di far tutte le possibili proposte. Invece non disse nulla, non criticò nulla, non propose nulla. Si allontanò dal lavoro per motivi di salute e stette zitto. Tutti pensarono approvasse quello che al centro si stava facendo e di cui veniva data ampia notizia a lui e persino pubblica­ mente, oppure che l’infermità gli impedisse di espri­ mersi. Invece no. Si esprimeva, ma di nascosto, con lettere agli oppositori opportunisti, che di fatto guidava alla lotta contro il Comitato centrale. Ma quando gli opportunisti, che avevan fatto quello che egli suggeriva, furono espulsi, approvò l’espulsione. Gli altri perdettero il lume degli occhi, e con ragione. Re­ sero pubbliche le lettere che in segreto il Silone aveva mandato loro. Che cosa si poteva fare, se non cacciarlo? Non fu nemmeno atto di ordinaria amministrazione. Fu soltanto atto di pulizia.

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Nel corso del dibattito prima con Tasca e poi con i « tre » venne ancora una volta affrontata la questione delle prospettive della situazione italiana. Togliatti pro­ pose e si decise che venisse ritirata la parola d’ordine lanciata dal partito nel 1926, di una « Assemblea re­ pubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini ». Era una formula eterogenea, che univa due elementi diversi. Poteva quindi servire in un momento partico­ lare, per raggiungere obiettivi particolari in un determi­ nato momento, ma non come parola di orientamento ge­ nerale per un intiero periodo. Nello scritto dedicato a que­ sta questione vi sono accenti nuovi, che lasciano preve­ dere i futuri orientamenti della lotta contro il pericolo fascista. Senza rinunciare agli obiettivi finali del sociali­ smo, bisogna che il partito acquisti la capacità di stimo­ lare e guidare un movimento antifascista generale. « Il terreno sul quale il nostro partito deve imparare a muo­ versi in modo molto più ampio di quanto non abbia fatto sino ad ora, è il terreno del passaggio dalla lotta economica alla lotta politica generale contro il regime fascista... Quello che dobbiamo fare è dare un ampio sviluppo a tutta la nostra attività politica, legarla con la propaganda dei nostri obiettivi finali e sviluppare più ampiamente l’agitazione economica che tocca da vicino gli strati intermedi che vogliamo trarre sotto la nostra influenza (rivendicazioni politiche parziali, lotta contro tutte le forme della dittatura fascista, lotta per la libertà delle classi lavoratrici, lotta per l’autodeci­ sione sino al distacco delle minoranze nazionali, agita­ zione e organizzazione dei contadini, agitazione della

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questione meridionale, della questione sarda, ecc. ecc. »1. Circa le prospettive del modo come il fascismo avrebbe potuto cadere, ecco quanto si dice in una riso­ luzione stesa da Togliatti nel 1930, in opposizione alle fantastiche previsioni di una « democratizzazione » del fascismo fatte da Tasca e da altri: « Occorre tener presente : a) che la sostanza rea­ zionaria del regime fascista non potrà essere cambiata; b) che il blocco finanziario-industriale-agrario, il quale costituisce la base oggettiva del regime fascista, man­ terrà la sua unità attorno a un programma politico reazionario e fascista; c) che la disgregazione interna del regime assumerà inevitabilmente e prevalentemente il carattere di un distacco reciso e completo dal blocco reazionario industriale-agrario di quelle che sono state le sue basi di massa in alcuni strati delle classi lavora­ trici e della piccola borghesia, e di una decomposizione crescente degli apparati di governo, di repressione e di controllo delle masse (sindacati, milizia, partito, esercito, burocrazia) ; d) che questo ultimo processo sarà tanto più rapido e profondo quanto più si svilupperà la lotta delle masse lavoratrici contro il regime e quanto più la classe operaia interverrà nella situazione apertamente, come motore e guida nella lotta contro il fascismo »2. In modo anche più preciso, Togliatti distingueva due ipotesi concrete, quella di un indebolimento e di 1 E r c o l i , A proposito di una parola d ’ordine, II Qua­ derno di Rinascita, 1952, pag. 140. 2 Risoluzione del Comitato centrale del marzo 1930,' in Stato operaio, A. IV, n. 3, 1930, pag. 194.

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una caduta del fascismo che fossero conseguenza di uno scoppio di contraddizioni interne, e quella di una disfatta militare. In entrambi i casi si doveva combat­ tere per fare della classe operaia la forza motrice prin­ cipale, ma si doveva sapere che nel secondo caso la cosa sarebbe stata più diffìcile, perchè in un crollo generale per disfatta militare si sarebbero inseriti molti altri fattori, tra cui degli eserciti, di cui non si poteva prevedere l’orientamento e il peso. Tutto questo è bene ricordare per fornire la prova della maturità di giudizio cui si era giunti e della tran­ quillità con la quale, anche durante una lotta interna così dura, le questioni più diffìcili del movimento si esaminavano e risolvevano.

XVIII.

La giustezza della linea d'azione stabilita nella lotta contro gli opportunisti fu confermata in pieno dai fatti. Gli anni 1930 e 1931 videro una ripresa energica e am­ pia sia dell’attività del partito che dei movimenti di lavoratori per le loro rivendicazioni e contro il fascismo. Furono ripresi i contatti con numerosissime province, e in particolare con nuovi gruppi di antifascisti di estrema sinistra, tanto nel Settentrione quanto nel Mezzogiorno. Si trattava di uomini i quali, spettatori del fallimento dell’Aventino, dopo le leggi eccezionali avevano incominciato a riflettere all’accaduto e si erano rifiutati di accodarsi alle posizioni di capitolazione dei vecchi capi aventiniani. La lotta energica dei comu­ nisti li aveva colpiti, attirati, aveva dato la prima spinta a un processo di revisione intellettuale e politica. Giorgio Amendola, che appartiene a questa genera­ zione, ha spiegato lucidamente le vie attraverso cui egli e i giovani intellettuali antifascisti giungevano al par­ tito comunista attraverso il riconoscimento della fun­ zione liberatrice del proletariato. « A questo riconosci­ mento fu legato tutto un nuovo modo di vedere, di porre i problemi. L ’attenzione nostra si rivolge alle grandi masse lavoratrici, comprendiamo che la storia è fatta da esse. Il marxismo torna a imporsi. Tutta la nostra educazione idealistica è scardinata. Si toma a studiare Marx, e la rivoluzione russa attira sempre di più l’attenzione di tutti. Si legge Lenin. Forse durante

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il 1926 il Che fare? ha assolto la stessa funzione che ebbe in Russia nel 1898, additando a tutti noi, che sentivamo di aver legato indissolubilmente la nostra vita alla rivoluzione antifascista, che l’unico modo di attuare ciò concretamente era lottare per la rivoluzione proletaria, inserirsi nel lavoro rivoluzionario del prole­ tariato »1. Togliatti stesso curò da vicino questa « seconda ge­ nerazione ». Vedeva l’importanza che aveva per il par­ tito comunista il reclutamento e il legame con questi militanti, provenienti da una esperienza diversa da quella che aveva portato nel partito i compagni della prima ondata, quelli del 1919, del 1920. Era una forza nuova, proveniente direttamente dal Paese, dalle Uni­ versità e dalle fabbriche; erano uomini che si schie­ ravano con il partito nel momento in cui la lotta era durissima, si giocava la libertà e forse la vita. Sereni ricorda come, alla fine del 1929, egli fu chiamato a Parigi e qui conobbe Togliatti. « Ero appena giunto a Parigi, - dice -, e avevo visto solo alcuni compagni del­ l'apparato tecnico e di vigilanza. Fui condotto in uno dei soliti appartamenti-uffici clandestini, senza che mi si dicesse con chi mi sarei incontrato. Ed ecco, ragaz­ zino com’ero, (avevo 22 anni) mi trovo davanti, con il suo sorriso sempre tra benevolo e ironico, il com­ pagno Togliatti. Fu Togliatti stesso a mettermi su­ bito a mio agio: “ Allora, disse, tu sei il segretario della 1 G io r g io A m e n d o l a , Con il proletariato o contro il pro­ letariato? (Discorrendo con gli intellettuali della mia generazione), in Stato operaio, A. V, n. 6, 1931, p. 309.

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Federazione comunista napoletana” . Io veramente non lo sapevo, giù a Napoli avevamo fatto le cose un po’ alla buona e non sapevamo neanche veramente ancora se potevamo considerarci una vera organizzazione di partito. Ma la investitura “ ufficiale ” di Togliatti, le sue domande chiare, precise, mi diedero coraggio. Ve­ devo benissimo che era informato di tutto, ma voleva sapere i dettagli, le cose vive, quel che pensavano gli operai, quel che speravano e facevano i contadini po­ veri del Mezzogiorno. Non ricordo i suoi lineamenti fisici di allora: l’immagine che serbo di quell'incontro è solo quella di una mente e di un cuore aperti ». Un bilancio della lotta condotta contro l’opportu­ nismo e dei risultati ottenuti venne fatto al IV Con­ gresso del partito. Si tenne nell’ aprile 1931, con l’aiuto del Partito comunista tedesco, tra Colonia e Dus­ seldorf. Fritz Heckert, uno dei migliori dirigenti del popolo tedesco, vi portò il saluto della Internazionale comunista. DallTtalia erano venuti circa 60 delegati e, non ostante le difficoltà enormi, la preparazione in Italia era stata fatta, come per il Congresso di Lione, con numerose riunioni clandestine, dove si era discussa tutta l’attività del partito e si era preso posizione sulle questioni dibattute allTnternazionale e nel Comitato centrale negli anni precedenti. Togliatti fece il rap­ porto politico e sui compiti del partito. «Non vi è in Italia nessuna forza di opposizione al fascismo - disse incominciando -, la quale sia in grado di realizzare ciò che il partito ha realizzato riunendo il suo congresso. Ma questo risultato è stato possibile solo in seguito alla applicazione della linea fissata al partito dalla In-

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ternazionale comunista e dal suo Comitato centrale in lotta contro l’opportunismo. Il congresso è stato pre­ parato nella lotta contro l'opportunismo, contro l’iner­ zia, contro la passività. Il congresso è esso stesso una conferma della giustezza della linea politica del par­ tito. Esso è la più chiara condanna dell’opportunismo e degli opportunisti »x. Il grande risultato era la presenza non solo di alcuni giovani della nuova generazione, ma di lavoratori di tutte le parti d’Italia, e in particolare di tutti quei luoghi dove, nel biennio precedente, vi erano stati mo­ vimenti o manifestazioni notevoli contro il fascismo. Dominò, sia nel rapporto introduttivo che in tutti gli interventi, l’esame attento delle condizioni reali del Paese, del modo di esistenza degli operai e dei conta­ dini; dominò lo spirito critico nell’esame della attività del partito e nella ricerca di nuove forme di lavoro, che consentissero in qualsiasi modo di recar danno al nemico estendendo il fronte della lotta. «L ’obiettivo ge­ nerale del partito - disse Togliatti -, consiste nel favo­ rire lo sviluppo degli elementi di una crisi politica rivo­ luzionaria, ponendosi alla testa delle masse, coordinan­ done e dirigendone i movimenti. In questo consiste la giustificazione generale della necessità del lavoro di massa che deve stare al centro dell’attenzione e dell’at­ tività del partito. Questo è lo strumento essenziale per realizzare la conquista della maggioranza del proleta­ riato alla influenza comunista e la conquista degli al-1 i

1 Dal resoconto del IV Congresso del Partito comunista d’ Italia, 1931.

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leati del proletariato ». Le basi della politica del par­ tito sono indicate in tre punti: « 1) necessità che il partito riesca a far proprie tutte le rivendicazioni delle masse lavoratrici, anche le più piccole, orientando la lotta per queste rivendicazioni, le quali devono essere tanto economiche quanto politiche, verso gli obiettivi finali di una lotta rivoluzionaria contro il fascismo ; 2) necessità che il partito conduca un vasto lavoro per disgregare le basi di massa del regime fascista ; 3) ne­ cessità di distruggere ogni possibile base di massa delle correnti socialdemocratiche che, sotto l’apparenza estre­ mista, si oppongono di fatto alla lotta dei lavoratori contro il fascismo ». Su questa linea fu di grande importanza, nel rap­ porto e nelle decisioni prese, la parte dedicata alla pe­ netrazione e al lavoro nel seno delle organizzazioni di massa create dal fascismo. La posizione già presentata a Lione nel 1926, è sviluppata, resa più concreta. Il modo stesso in cui sono andate le cose ne ha confer­ mato la giustezza. « La lotta del partito comunista è una lotta quotidiana per il pane, per il lavoro, per la ter­ ra, per la libertà - dicono le tesi del Congresso -. Questa lotta non si può concludere se non con il rovesciamento della dittatura fascista e con la istaurazione di un go­ verno operaio e contadino. Il partito deve continuamente subordinare a questo obiettivo rivoluzionario finale la sua lotta per gli interessi quotidiani delle masse, indicando chiaramente ai lavoratori, con tutto il com­ plesso della sua azione politica, la via che dai movi­ menti odierni, ancora limitati, porta sino alla lotta rivoluzionaria per il potere. Le forme di lotta alle quali

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il partito deve chiamare le masse possono essere oggi le più diverse, perché devono essere adattate alla com­ battività delle masse stesse e al grado di sviluppo della lotta di classe. Per agevolare e preparare la rottura della legalità fascista è necessario sapersi servire anche dei più piccoli residui di possibilità legali offerti dalle organizzazioni fasciste. Dovrà perciò essere studiata a fondo la organizzazione naturale della massa che vi si rac­ coglie, si dovrà penetrare in qualsiasi formazione avver­ saria fascista o sedicente antifascista, si dovranno uti­ lizzare posti di fiducia, assemblee convocate dai fasci­ sti, ogni mezzo insomma, da chiunque sia offerto, per dare una spinta al movimento delle masse, per riani­ marle, per restituire ad esse un principio di coesione, per disgregare le organizzazioni avversarie »1. Le resistenze a questo indirizzo di lavoro erano però ancora fortissime e non si fondavano tanto sulla difficoltà di lavorare nei sindacati, o in altre organizza­ zioni fasciste, quanto su motivi sentimentali. Non si am­ metteva, quasi per un principio di moralità, che un ri­ voluzionario potesse aver nulla a che fare con qualcosa creata dal fascismo, nemmeno se era certo che questo serviva a stimolare e far progredire un movimento di ri­ vendicazioni economiche a favore dei lavoratori e quin­ di a creare difficoltà al fascismo stesso. Dopo il Congresso di Colonia, infatti, per ottenere che veramente e su larga scala si applicasse questa direttiva di lavoro, si dovette ancora discutere, chiarire, convincere. 1 Trenta anni di vita e lotte del P .C .I., II Quaderno di Rinascita, 1952, pag. 144.

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Grande risulta la differenza, nel complesso, tra il lavoro fatto a Lione, nel 1926, sotto la direzione im­ mediata di Gramsci, e quello fatto a Colonia, nel 1931, sotto la direzione di Togliatti. La linea generale è la stessa, si sente però che si è andati avanti, per l’espe­ rienza del movimento che si è sviluppato, dell’orga­ nizzazione che si è fatta più grande, della conoscenza che è divenuta più precisa. Si avverte un più preciso e consapevole nesso tra l’indirizzo politico e l’organiz­ zazione pratica del lavoro. A Lione ci si era limitati a definire i caratteri generali della struttura sociale del Paese e a indicare, dopo questa analisi, le forze mo­ trici della rivoluzione proletaria. Quindi si erano fis­ sate le basi del metodo di lavoro politico e organizza­ tivo del partito comunista. A Colonia venne raggiunta una più grande concretezza e le indicazioni generali di strategia e di tattica mettono capo più direttamente ai motivi immediati di crisi del regime fascista e quindi alle rivendicazioni economiche e politiche concrete dei lavoratori. La impostazione, il tono, il linguaggio stesso dell’appello al popolo italiano e del programma che il Congresso approvò, sono cosa diversa. Le rivendicazioni programmatiche stesse della rivoluzione proletaria sono presentate in forma nuova, che più aderisce alla realtà della situazione italiana e ai bisogni del Paese. Togliatti, giudicando del lavoro svolto a Colonia in sede di storia, ha avanzato anche qui delle critiche: « Nei documenti preparatori del congresso e usciti da esso, vi sono ancora formulazioni non del tutto esatte, che palesano una certa fretta nel sollecitare uno sbocco rivoluzionario; vi è ancora un po’ di

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imbarazzo dottrinario nel tracciare le prospettive e fissare le parole d’ordine politiche; nel complesso però questi documenti sono penetrati di uno slancio vigo­ roso nuovo che viene dal Paese, che trasmesso al par­ tito gli consentirà negli anni successivi di estendere la sua influenza e stabilire contatti nuovi con i gruppi e strati più diversi della popolazione »l . Non vi è dub­ bio che a Colonia già si sentono l’animo e gli orienta­ menti nuovi che detteranno, in seguito, la politica dei Fronti popolari e in Italia guideranno i comunisti ad assolvere la funzione di avanguardia di tutta la nazione nella lotta per la sua salvezza. La preparazione del Congresso di Colonia era però costata al centro dirigente una perdita molto dura. Pietro Secchia era stato arrestato, a Torino, mentre attendeva alla organizzazione di un gruppo di delegati provenienti dallTtalia meridionale. Al congresso ne venne data notizia durante i lavori e Secchia fu eletto per acclamazione alla presidenza d’onore. Il Tribunale speciale lo condannò a 17 anni e 3 mesi di carcere.

1 Trenta anni di vita e lotte del P .C .I., II Quaderno di Rinascita, 1952, pag. 109.

XIX .

Della grande crisi economica partita dagli Stati Uniti d’America nel 1929 il mondo capitalistico risentì le conseguenze, in sostanza, fino allo scoppio della se­ conda guerra mondiale. La crisi non pose capo, come era avvenuto in tutti i casi precedenti, a una depres­ sione e poi a una nuova intensa ripresa economica. Questo processo fu ostacolato da quelle malattie orga­ niche del regime capitalistico che i marxisti definiscono come una « crisi generale » in cui questo regime è en­ trato con la prima guerra mondiale. Alla fase di crisi acuta seguì una depressione di tipo particolare, con enormi squilibri interni e da paese a paese. In alcuni Stati di decisiva importanza le classi dirigenti, per riu­ scire a tirarsi fuori dalle insormontabili difficoltà, cer­ carono la via di uscita in una economia di prepara­ zione alla guerra. Così avvenne in Germania, prima di tutto. I rapporti politici all’interno di tutti i paesi europei e i rapporti internazionali manifestano la tendenza a un aggravamento continuo. Il fascismo avanza minaccioso e il pericolo della guerra diventa ancora una volta imminente. Oggi si è portati a dimenticare facilmente che il fascismo non fu limitato all’Italia : governi autorit ari, militaristi, espressione della reazione antioperaia e anti­ socialista aperta, infierivano in questo periodo nella maggior parte dei paesi europei. In Spagna fino al 14 aprile del 1931 il generale Primo de Rivera e il suo

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successore esercitarono una spietata dittatura. In Au­ stria il clericale Dollfuss dal marzo del 1933 governò con poteri eccezionali e nel febbraio del '34 soffocò nel san­ gue la protesta del movimento operaio. In Polonia governava Pilsudski, il generale che aveva represso nel sangue il movimento operaio dopo la guerra. In Un­ gheria il regime di Horthv e Gombòs si reggeva se­ condo la tecnica fascista. In Jugoslavia il re Alessan­ dro Karageorgevic aveva istaurato una dittatura. Lo stesso avveniva nelle repubbliche baltiche e in Finlan­ dia, in Bulgaria e in Romania. In Germania, socialdemocratici e clericali, ora alleati, ora alternandosi al potere, non avevano altra preoccu­ pazione se non di concentrare il fuoco contro il movi­ mento operaio comunista. In questo modo aprivano la strada ai partiti della estrema destra e ai fascisti hitleriani. Nel settembre del 1930 questi facevano, nelle elezioni politiche, un enorme balzo in avanti, passando da 12 a 107 seggi. Votava per loro una parte notevole del ceto medio e anche degli operai da tempo disoc­ cupati, su cui faceva presa la propaganda demagogica nazionalsocialista. Anche il partito comunista faceva però un balzo in avanti, passando da 54 a 77 seggi ed estendendo ancora le sue posizioni negli anni suc­ cessivi. Hitler, verso il quale si orientava in modo sem­ pre più deciso la grande borghesia, iniziava la sua lotta per il potere. Si apriva nel centro d’Europa la più pro­ fonda, drammatica crisi politica e sociale di tutto il periodo fra le due guerre. Il 30 gennaio del 1933 Hitler diventava cancelliere della Germania. Allora, per il suo esempio e col suo appoggio diretto, si scatenava una

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nuova ondata fascista, che toccò anche la Francia, dove nel febbraio 1934 le leghe fasciste tentarono di rovesciare con un colpo di mano il regime parlamen­ tare. Movimenti fascisti di ispirazione hitleriana pullu­ lavano dappertutto. La Società delle Nazioni, intanto, languisce. Le pro­ poste di disarmo naufragano tra i cavilli, la politica del sospetto, l’opposizione aperta dei governi borghesi. I grandi Stati imperialistici, che vedono come l’Unione Sovietica si stia trasformando in una grande potenza industriale, non rinunciano però al proposito di creare in Europa un forte blocco antisovietico. La loro poli­ tica si fa confusa, contraddittoria, stanca. Si susseguono gli incontri, le conferenze internazionali, i patti: ma la sola cosa che succede, e che è seria, è l’avanzata politica dei paesi che spingono verso la guerra. Nel dicembre 1931 i giapponesi invadono la Manciuria, minacciano l’Unione Sovietica, preparano l’invasione della Cina. Nel giugno 1933, quando Hitler già è al potere, Francia e Inghilterra, favorendo una iniziativa fascista, firmano con la Germania e con l’Italia il famoso «patto a quattro », primo tentativo di un blocco di potenze eu­ ropee contro la Russia. Primo risultato concreto, però, è che Hitler e Mussolini ne ricevono prestigio e avan­ zano con baldanza per mettersi alla testa di tutta l’Eu­ ropa. Hitler, nell’ottobre 1933, si ritira dalla Società delle Nazioni rivendicando parità di diritti e in seguito annulla quanto rimane del trattato di Versailles, oc­ cupa militarmente la Renania, inizia la riorganizzazione dell’esercito e dell’armamento aggressivo tedesco. Gli Stati Uniti lo appoggiano. Gli uomini di Stato europei 15

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che vorrebbero resistere sono eliminati. Il cancelliere austriaco Dollfuss è trucidato a Vienna nel luglio 1934; il ministro francese Barthou e il re Alessandro di Jugo­ slavia sono assassinati l’ottobre dello stesso anno a Marsiglia ; scompare anche il re antitedesco Alberto del Belgio. I popoli incominciano a essere sbigottiti; ma i gruppi dirigenti della borghesia, a cominciare dai con­ servatori inglesi e dalle destre francesi, si orientano in­ vece verso il compromesso e l’accordo col fascismo, meditando sia una trasformazione reazionaria aperta di tutto l’ordinamento politico europeo, sia l’utilizza­ zione del fascismo come truppa d’aggressione contro l’Unione Sovietica. Si crea così l’atmosfera nella quale saranno prima tollerate, poi favorite le successive im­ prese di provocazione e di guerra di Mussolini e di Hitler e si addiverrà, alla fine, al vergognoso e fatale accordo con lo hitlerismo e col fascismo a Monaco. In Italia, in questo periodo, lo sviluppo degli av­ venimenti è duplice, da un lato nel senso della progres­ siva totale fascistizzazione dello Stato, dall’altro nel sen­ so di una accentuata resistenza di masse lavoratrici e del distacco dal fascismo di nuovi gruppi di cittadini. Forte dell’accordo oramai aperto con la Chiesa, Mus­ solini distrugge gli ultimi residui dell’ordinamento demo­ cratico. Nel 1930 viene ristabilita la pena di morte nel Codice penale, nel '31 e nel '32 vengono fucilati tre pretesi attentatori di Mussolini: Schirru, Sbardellotto e Bovone. Il 15 ottobre del 1930 Mussolini, precedendo De Gasperi, abolisce la festa del 20 settembre, il 9 gen­ naio. del 1932 Pio X I gli conferisce lo Sperone d’oro, due giorni dopo Mussolini è ricevuto dal Papa e il 3

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marzo il cardinale Eugenio Pacelli riceve il Collare dell’Annunziata. La conquista della scuola si perfe­ ziona nel '31 con l’introduzione del giuramento fascista per i professori, applaudito dall’ Osservatore romano, e nel '31 e nel '32 gli scolari già studiano sui libri di testo dello Stato, ove il Papa, il re e il duce, costitui­ scono la triade sacrosanta della nuova Italia. Continuano i massacri coloniali in Libia, fruttando promozioni a De Bono e a Graziani e miliardi agli speculatori che in Libia costruiscono strade. Nel 1930 anche la Ca­ mera eletta col sistema del listone fascista viene sop­ pressa, sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, dove i gerarchi fascisti ogni tanto ascoltano discorsi e fanno il saluto al duce. Il lavoro dei comunisti per riuscire a trasformare le manifestazioni antifasciste isolate e gli episodi di resi­ stenza economica in lotta politica generale contro il fascismo continua con tenacia e si estende. Già il i° maggio 1930 si era riusciti a organizzare manifesta­ zioni in molte località. A Milano aveva ripreso a fun­ zionare una tipografìa clandestina che stampava l’ Unità e l’Avanguardia. Era stata preparata con larga distri­ buzione di manifestini la giornata del primo agosto, di lotta internazionale contro la guerra. La milizia fascista fu mobilitata per la caccia al comunista. A Milano i quartieri operai il i° maggio erano stati messi in stato d’assedio. In Emilia, che aveva salutato il i° maggio issando in ogni città e in ogni paesetto bandiere rosse dappertutto, tornò in quei mesi lo squadrismo più violento. Ci furono centinaia di arresti. A Ravenna un operaio fu ucciso in mezzo alla

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strada perchè sospettato di aver diffuso manifestini comunisti. Ma il movimento antifascista e per il sollevamento del tenore di vita si era fatto pressoché generale. Nel­ l’aprile a Martina Franca i contadini insorsero, contro l’imposta sul vino, stabilita dal podestà; parecchi mi­ liti fascisti, contadini anch’essi, si schierarono con i rivoltosi ; vi furono barricate e 300 arresti. Analoghe ma­ nifestazioni di carattere economico scoppiarono in molti altri punti, alla Spezia, a Sulmona e nell’Emilia. L ’epi­ sodio di lotta più significativo avvenne dopo il Con­ gresso di Colonia, nel giugno del 1931. Migliaia e mi­ gliaia di mondariso, nella provincia di Novara, scesero in sciopero generale contro la diminuzione di sa­ lario, richiesta dai padroni e appoggiata dal sinda­ cato fascista d’accordo con la magistratura del lavoro. Il governo scagliò contro le mondariso la polizia e il Vaticano inviò sul posto gli organizzatori dell’Azione Cattolica per convincerle a tornare al lavoro: ma lo sciopero durò cinque giorni e trascinò con sè un’ in­ tiera provincia. Lo scandalo non potè essere soffocato e della cosa furono costretti a occuparsi anche i grandi giornali. Per alcuni anni il quadro dell’attività antifascista nel Paese continuò a essere vivace, ricco di episodi. La stampa clandestina comunista dà continuamente noti­ zia di agitazioni e manifestazioni. Naturalmente, l’or­ ganizzazione del partito, sottoposta a uno sforzo con­ tinuo, non resiste sempre. Gli arresti di quadri dirigenti locali e nazionali si susseguono, senza però che sia in­ terrotta la continuità del lavoro, fino alla metà del

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1932, quando la polizia italiana riesce, forse con l’aiuto di qualche spia ben collocata, a spazzar via, in due settimane, quasi tutti i compagni inviati all’interno, dal centro estero. Ma nel 1933 e nel '34 i movimenti di protesta tra i disoccupati, i salariati, la piccola bor­ ghesia riprendono su vasta scala. Dalla tribuna della X II riunione dell’Esecutivo dell’Internazionale, Togliatti può annunciare una serie di manifestazioni che hanno avuto luogo, al grido di « pane e lavoro », sul finire dell’anno, a Trani, Andria, Genova, Canosa, La Spezia. Qui gli operai avevano partecipato a un’assemblea dei sindacati fascisti chiedendo il rispetto dei contratti. A Milano gli autisti di piazza erano andati a prote­ stare davanti alla prefettura; a Sassano e a Monte San Giacomo si erano ripetuti i fatti che avevano avuto luogo a Martina Franca, con assalti ai municipi, feriti e centinaia di arresti. A Bergamo centinaia di disoccu­ pati avevano fatto una marcia della fame così come nella provincia di Ferrara, a Comacchio e ir> altre località. Brevi scioperi si susseguivano alla Spezia, a Biella, a Torino. Togliatti precisava che nel corso di cinque mesi si era venuti a conoscenza di 56 movimenti organizzati antifascisti. Nel 1934 il movimento non si arrestò. Nei primi sei mesi i comunisti organizzarono ben 68 manifestazioni di malcontento in varie località del Paese. Tutto questo voleva dire, nel centro del partito, non solo un’ attività continua per lo studio delle situazioni, la organizzazione dei collegamenti, la scelta e la preparazione dei quadri, la vigilanza; ma un continuo dibattito di questioni politiche e di lavoro. Non si manifestarono, in questi anni, deviazioni e

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gruppi opportunistici contro cui si dovesse combattere come negli anni precedenti. Guai però se per questo si fosse attenuata la capacità di discutere e criticare, di porre e risolvere problemi nuovi. Nel lavoro pratico, gli stessi successi che si ottenevano facevano sorgere il pericolo che si andasse avanti con leggerezza, senza capire la situazione e adattarsi ad essa. Il grande nu­ mero di lavoratori che in alcune province emiliane, per esempio, nel 1931 e '32 aderirono ai gruppi clandestini del partito, potè far credere che questi gruppi già po­ tessero prendere un carattere di massa. Si dovette cri­ ticare, correggere. Nelle grandi città, la provocazione lavorava in modo assai pericoloso, con provocatori e spie che ai lati dell’organizzazione e nelle sue stesse file rimanevano a lungo senza smascherarsi, limitandosi a far cadere quel tanto che era necessario per mante­ nere i gruppi isolati tra di loro e isolati dal centro. Giornate e giornate di studio sui materiali più diversi erano necessarie, in questi casi, per riuscire a cogliere il filo della matassa, a capire le cose, a evitare il danno, e non sempre ci si riusciva. In questo campo l’azione di Togliatti si svolse se­ condo la vecchia linea, che respingeva, nell’organizza­ zione, qualsiasi schematismo e poneva al centro la ne­ cessità di conoscere esattamente le cose e gli uomini e tenerne conto per ogni passo che si dovesse fare. Sembrano cose banali, a chi non ha mai fatto questo lavoro, e invece ci vuole una lotta, per ottenerle ! Per l’indirizzo generale del lavoro, furono gli anni in cui Togliatti combattè, con spirito di conseguenza e tena­ cia, per ottenere che si applicasse senza riserve la di­

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rettiva della penetrazione e del lavoro nelle organizza­ zioni create e dirette dal fascismo, negli ambienti fa­ scisti, tra i nuovi quadri che si stavano formando, tra i giovani. Egli non conosceva se non in minima parte che in queste organizzazioni e in questi ambienti già vi erano uomini che si stavano staccando dal fascismo e si organizzavano per qualcosa di diverso. Lo seppe più tardi, al ritorno in Italia. La sua posizione derivava quindi, oltre che dall’esatta comprensione della tattica leninista del lavoro tra le masse, da una intuizione giusta di ciò che doveva avvenire. A questo tema al­ cuni chiarissimi scritti sono dedicati e i compagni ri­ cordano che non vi era riunione dove su di esso Togliatti non ritornasse. Tra le altre correnti antifasciste, sia nel Paese che nell’emigrazione, il fatto nuovo fu in questo periodo il manifestarsi del movimento di « Giustizia e libertà », sotto la direzione dei fratelli Rosselli e di altri. I dirigenti di questo movimento si staccavano dalle vecchie posizioni socialdemocratiche di abbandono della lotta contro il" fascismo in Italia. Anzi, chiamavano a questa lotta su per giù negli stessi termini dei comunisti. Ac­ coglievano anche una parte notevole delle posizioni co­ muniste circa la natura del fascismo. Le cose giuste, però, erano mescolate in modo molto strano con cose sbagliate, provenienti dalla cultura idealistica. Il ri­ sultato era il « socialismo liberale », che fu soprattutto un grande esempio di confusione ideologica. La posi­ zione dei comunisti doveva quindi essere, prima di tutto, di critica decisa contro gli errori di principio, attraverso i quali si tendeva a dare un colpo al mar­

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xismo. Togliatti sviluppò vivacemente questa critica in uno scritto del 1932, nel quale, tuttavia, subito si volge alla considerazione del movimento reale di cui « Giustizia e libertà » rivelava l’esistenza. Esorta quindi il partito a non confondere in un blocco solo tutti gli antifascisti non comunisti e tutta la piccola borghesia intellettuale. « Dobbiamo mostrare a quegli elementi di essa che sono sinceramente antifascisti — egli scrive — che essi hanno sì una “ funzione loro propria ” , ma que­ sta non'sta nel ribadire le catene della schiavitù eco­ nomica, politica e ideologica del proletariato alla bor­ ghesia, bensì nel comprendere il valore della lotta libe­ ratrice del proletariato, nel fiancheggiarla e sostenerla. L’intellettualità piccolo borghese può essere un alleato del proletariato e può essere un acerrimo nemico. L ’im­ portante è che, se essa non sa essere un alleato, si condanna a sparire dalla scena politica come forza rivoluzionaria. L ’attivismo, lo sforzo di organizzazione, i “ gesti ” , tutto questo, per sè, non conta nulla. Non conta nulla che i manifestini cadano dal cielo e che si affronti la morte per lanciarli sulla capitale fascista se i manifestini ripetono le più stantie e sconce invoca­ zioni aventiniane al re, se essi fanno appello alla passi­ vità delle masse, se essi disarmano le masse davanti alla lotta che le attende. Vi sono degli antifascisti sin­ ceri nelle file di “ Giustizia e libertà ” che comprendono queste cose? È probabile. È probabile che domani essi saranno più di oggi. Ma anche questo movimento deve essere stimolato, favorito e organizzato dal partito della classe operaia. Stimolando, favorendo e organizzando, apertamente e senza ipocrisie, questo movimento, com­

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battendo senza pietà l’ideologia reazionaria dei capi, noi prepariamo una delle condizioni della vittoria della rivoluzione »1. Il fermento nuovo apportato da « Giustizia e li­ bertà » produceva del resto l’effetto, nella emigrazione, di accentuare le contraddizioni interne del vecchio mo­ vimento antifascista aventiniano e socialdemocratico. Attraverso contrasti e discussioni la « Concentrazione » antifascista si disgregava e giungeva, nel maggio 1934, a sciogliersi anche formalmente. Aveva contribuito a produrre questo risultato, però, anche il modo in cui, oramai, le questioni della lotta contro il fascismo si venivano ponendo sulla arena internazionale.

1 E r c o l i , Sul movimento di « Giustizia e libertà», in Stato operaio, A. V, n. 9, 1931, pag. 463.

XX.

Sul problema del fascismo, della sua natura, del modo di resistere al suo avvento e di combatterlo, molto si era discusso non solo fra i comunisti italiani, ma in tutto il movimento comunista internazionale. Recentemente è stato ripubblicato, e ha suscitato inte­ resse, uno scritto di Togliatti su questo tema, del 1928. Nel presentarlo, Togliatti stesso ha ricordato quale fu il contenuto di quelle discussioni : « Il nostro partito - egli scrive -, aveva chiaramente affermato le origini e la natura di classe del fascismo definendolo un mo­ vimento reazionario suscitato dalla grande borghesia industriale e agraria. Questa posizione era in netto con­ trasto con quella che allora veniva difesa dai democra­ tici di sinistra e dai socialdemocratici. Si trattava piut­ tosto, secondo costoro, di una convulsione isterica pro­ veniente dalla esaltazione nazionalistica e antiproletaria dfparticolari gruppi del ceto medio, spostati di guerra, ecc. Nel combattere questa falsa posizione socialdemo­ cratica noi avevamo indagato e messo in luce con atten­ zione le radici di tutto il movimento, nelle condizioni di sviluppo del capitalismo italiano, nelle sue contraddizio­ ni, nella profonda crisi economica e politica in cui esso era stato gettato dalla guerra. Come conclusione di questa ricerca davamo la formula: “ Identità di fascismo e ca­ pitalismo” . Ho già avuto occasione di dire che questa formula non era del tutto giusta. Non era giusta, cioè, se si fosse voluto intenderla nel senso che si dovesse

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considerare inevitabile che il capitalismo, a un certo punto del suo sviluppo, diventasse per forza, sempre e definitivamente, fascismo. Era però assolutamente giu­ sta come definizione di ciò che in quel momento era avvenuto e vi era in Italia, e giusta per le conseguenze politiche che ne derivavano. Un diverso dibattito aveva luogo invece nel campo dei partiti comunisti. Qui si manifestava la tendenza, dopo aver messo giustamente in luce la natura di classe del fascismo, a trascurare le particolarità del movimento, sia nelle sue origini che nel suo sviluppo successivo, sino alla presa del potere e dopo. Si finiva quindi per dimenticare le differenze e chiamare fascismo anche ciò che in realtà non lo era... È interessante osservare che se nel 1928 noi pren­ devamo posizione contro la tendenza errata a conside­ rare fascismo qualsiasi movimento reazionario e sotto­ lineavamo la particolarità del movimento fascista ita­ liano, in seguito, e particolarmente quando si sviluppò in Germania l’hitlerismo per tanti aspetti analogo al fascismo, noi mettemmo sempre in guardia coloro che, considerando le differenze tra la Germania e l’Italia, ne concludevano che in Germania gli hitleriani non avrebbero potuto ripetere quello che avevano fatto i fascisti da noi. In questo senso furono alcuni miei in­ terventi di discussione in riunioni internazionali»1. Questi interventi sono del 1931, del 1932 e succes­ sivi. Il principale fu davanti alla X II riunione plenaria del Comitato esecutivo della Internazionale, la quale 1 P

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A proposito del fascismo, in Società,

A . V i l i , n. 4, dicem bre 1952, p ag . 591.

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aveva preso atto della fine della relativa stabilizzazione del capitalismo, cioè deH’avvicinarsi di un nuovo mo­ mento di crisi rivoluzionaria. Togliatti insiste, prima di tutto, contro la tendenza alla « idealizzazione » del fascismo, cioè a considerare inevitabile il suo avvento al potere, e inevitabile proprio nelle forme di rottura drammatica e di colpo di mano che si erano avute in Italia. Qui la polemica è diretta contro il trotzkismo e un gruppo di compagni tedeschi che della « inevitabi­ lità » dell’avvento del fascismo stavano facendo una teoria. Quindi, dopo avere definito la marcia su Roma come un colpo di Stato « per metà plebeo, per metà dinastico e militare », si prosegue affermando che « se si vuole riuscire a comprendere bene i tratti caratteri­ stici della situazione tedesca... non solo non si può partire dalle analogie esteriori con la situazione italiana del tempo della marcia su Roma, ma bisogna invece sottolineare le differenze tra queste due situazioni ». E l’analisi qui prosegue, sottolineando la diversità della congiuntura internazionale, del movimento delle masse e della politica borghese. La conclusione però non è che l’avvento del fascismo al potere in Germania sia impossibile, ma che «non può essere esclusa la prospet­ tiva di una realizzazione della dittatura fascista senza che intervenga un fatto simile alla marcia su Roma». Già nel modo di governare di Bruning e dei suoi suc­ cessori immediati vi erano elementi di una dittatura fascista. Nel movimento hitleriano, con i suoi tredici milioni di elettori, viene concretamente veduta la pos­ sibilità che si sviluppino forti contraddizioni interne, a patto però che si faccia una politica che eserciti una

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influenza su quelle masse. Si viene così all’esame del mo­ vimento delle masse e del lavoro tra di esse, e la prima osservazione è per rompere gli schemi adusati. «Lo svi­ luppo del movimento delle masse, se da un lato ostaco­ lerà la realizzazione dei piani del governo attuale, avrà pure un effetto opposto. La reazione sviluppa le forze della rivoluzione, e lo sviluppo delle forze della rivoluzio­ ne, a sua volta, spinge allo sviluppo e al raggruppamento delle forze della reazione. Il movimento delle masse, svi­ luppandosi in modo impetuoso, potrà accelerare, in certi momenti e in condizioni determinate, il processo di istaurazione di una dittatura fascista completa... Il partito comunista tedesco dovrà tener presente, nel determinare la sua tattica e nella organizzazione del suo lavoro, che si troverà senza dubbio ancora di fronte a sviluppi molto rapidi, a brusche svolte della situazione, a rot­ ture di continuità ». Viene quindi il richiamo a non accontentarsi delle masse già conquistate, a lavorare nei sindacati diretti dai riformisti, a saper bene appli­ care una tattica di fronte unico.