Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale

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Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale

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Già pubblicati in questa collana 01

LUCIANO CANFORA LA NATURA DEL POTERE

02

ALDO SCHIAVONE L’ITALIA CONTESA Sfide politiche ed egemonia culturale

03

JOSEPH S. NYE JR. LEADERSHIP E POTERE Hard, soft, smart power

04

MARCO ONADO I NODI AL PETTINE La crisi finanziaria e le regole non scritte

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REMO BODEI LA VITA DELLE COSE

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MASSIMO L. SALVADORI DEMOCRAZIE SENZA DEMOCRAZIA

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ULRICH BECK IL DIO PERSONALE La nascita della religiosità secolare

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SALVATORE ROSSI CONTROTEMPO L’Italia nella crisi mondiale

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009 Progetto grafico di Raffaella Ottaviani È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

SALVATORE ROSSI Controtempo L’ITALIA NELLA CRISI MONDIALE

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9141-7

INDICE DEL VOLUME

Prefazione

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LA MUTAZIONE DEL MONDO I. Prima della crisi La rivoluzione tecnologica, p. 5 Un globo, un mercato, p. 16 II. La crisi Finanza «instrumentum diaboli»?, p. 28 Politiche monetarie e squilibri globali, p. 32 L’innesco e lo svolgersi della crisi, p. 39 Una mancanza dello Stato, p. 47 Globalizzazione e crisi, p. 50

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L’ECONOMIA ITALIANA: PREPARARSI AL DOPO-CRISI III. Le imprese Le imprese sul mercato, p. 61 Le imprese (ancora) protette, p. 77

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IV. La finanza Finanza per le imprese, p. 89 Finanza per le famiglie, p. 100

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VIII

Indice del volume

DUE PASSAGGI OBBLIGATI V. Il ruolo del sindacato Ritorno a casa, p. 113 Sindacato o Partito?, p. 129

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VI. La cultura giuridica Una storia a due facce, p. 151 Il diritto, la giustizia, l’efficienza, p. 162

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RITROVARE IL TEMPO GIUSTO Bibliografia

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PREFAZIONE

In Italia io non vedo alcuna politica ragionevole che sia praticamente attuabile. Per fare qualcosa di serio bisognerebbe cominciare a riformare radicalmente la burocrazia, che ormai è uno strumento marcio, il cancro che divora tutto il paese. Ma una radicale riforma della burocrazia, con l’organizzazione dei partiti basata su [un sistema elettorale e politico frammentato], è impossibile. [Quest’ultimo] porta alla difesa di tutti gli interessi dei gruppi che hanno comunque una influenza politica contro gli interessi generali e al consolidamento delle posizioni privilegiate dei parassiti di tutte le classi e di tutti i colori. Non credo che [si] riesca ad immaginare a quale punto di dissoluzione dello Stato siamo arrivati in Italia. Tutti pensano a farsi giustizia da sé e il governo non riconosce alcun diritto se non sotto la pressione della piazza o subendo i ricatti dei più prepotenti. [...] [Alcuni lavoratori] ottengono di essere pagati per far finta di lavorare in opere pubbliche improduttive; gli abitanti di una località che desiderano una fermata ferroviaria interrompono la circolazione dei treni; i [precari] occupano i ministeri finché non ottengono il diritto ad uno stipendio; tutti i generi [contraffatti] sono venduti liberamente sulle bancarelle per la strada e nessuno si meraviglia di vedere fra gli acquirenti dei poliziotti e dei carabinieri in divisa; ci sono fabbriche clandestine [...] che occupano centinaia di operai e i consigli comunali si dimettono se le

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Prefazione

guardie di finanza si muovono per farle chiudere; [...] nonostante le sentenze dei giudici i proprietari delle case non riescono a gettar fuori gli inquilini abusivi; ci sono delle regioni [...] in cui si ammazza la gente con più disinvoltura di quella con la quale si ammazzano i conigli. [Molti] funzionari [pubblici] rubano o cercano di farsi mettere in un punto di passaggio obbligato dove possono farsi pagare un pedaggio. Mi diceva ieri [...] che ormai con mille [euro] si riesce ad ottenere i più segreti documenti [di una Procura]. E in queste condizioni da tutte le parti si chiede che lo Stato pianifichi, calmieri, disciplini, controlli...

Parole mie? Mi piacerebbe fosse così, ma non è così. Se non in minima parte. Di mio nella pagina che precede ci sono solo gli inserti fra parentesi quadre, che mi sono serviti, per omissione, sostituzione o aggiunta, ad attualizzare il testo nella misura minima necessaria. Quelle parole sono di Ernesto Rossi. Le scriveva nell’autunno del 1946 a Gaetano Salvemini, a cui era legato da un rapporto affettivo e intellettuale strettissimo e con cui intrecciava da due anni e mezzo una fitta corrispondenza transatlantica (Salvemini era allora negli Stati Uniti, all’Università di Harvard), dopo quindici anni di forzato distacco. Il pessimismo rabbioso di Ernesto Rossi si estende, nel rivolgersi al padre-maestro lontano, ad abbracciare una Italia stremata, disperata, socialmente frantumata dall’incombere delle rovine di guerra, della fame. Trabocca l’indignazione di chi ha trascorso lunghissimi anni di duro confino a immaginare i mille modi in cui l’abbattimento della dittatura avrebbe sprigionato le energie migliori del paese, fatto germogliare la giustizia e la libertà, e deve invece assistere al quotidiano spettacolo di miserie materiali e morali tal-

Prefazione

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mente dilaganti da renderlo incredulo della possibilità di un riscatto. La distanza che separa l’Italia di oggi da quella contro cui Rossi scaglia la sua invettiva è grande. Conservo una vecchia fotografia in bianco e nero dei miei genitori, che risale all’estate del 1945. Sono appena sposati, il fotografo li ritrae mano nella mano in una strada cittadina assolata, sorridenti e... magri. Magri da far spavento (o invidia, se si riuscisse a prescindere dalle cause della loro magrezza). E magri, smunti, sono anche i passanti casualmente ritratti intorno a loro, frettolosi nei loro poveri traffici per la sopravvivenza. L’Italia di oggi – non dimentichiamolo nel momento in cui attraversiamo quella che ci pare essere una crisi tremenda – è un paese ricco. Le condizioni generali di vita della sua gente apparirebbero indicibilmente opulente agli ectoplasmi raffigurati in quella vecchia foto. Ma lo straordinario senso di attualità che promana dalla lettera di Ernesto Rossi fa riflettere. Il progresso fra i due momenti storici ha riguardato la sfera politica, dalla dittatura alla democrazia rappresentativa; quella civile, dalla guerra intestina a una sostanziale pace sociale; quella economica, dalla fame alle diete. Ma un tale multiforme e straordinario avanzamento non ha evidentemente aggredito certi vizi antichi, certi difetti fondamentali, la cui denuncia può essere formulata oggi quasi con le stesse parole di oltre sessant’anni fa. Il segmento temporale disegnato da questi sessanta e più anni non è tuttavia lineare, come ben sappiamo. È fatto di slanci, arresti, sbandamenti, regressi, nuovi slanci. Nello scorcio degli anni Quaranta e nel decennio Cinquanta s’impone l’ansia febbrile della ricostruzione. Si compie il miracolo economico, sospinto dall’apertura agli scambi commerciali

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Prefazione

e finanziari con il resto del mondo: una boccata d’aria rigenerante, dopo il protezionismo fascista e le chiusure persistenti nei primi anni successivi alla fine della guerra, per le emergenze del tempo. Alla stagione del miracolo seguono, nel corso degli anni Sessanta, i primi affanni economici e politici, sfociati nel terribile decennio Settanta, con le sue crisi internazionali, le tensioni sociali, il sangue sparso dai terroristi politici, prima, dalla criminalità mafiosa, poi. Nel passaggio al decennio Ottanta si dispiega la ristrutturazione dell’apparato industriale, che impara a rimpicciolirsi, a sommergersi, a raggrumarsi in distretti locali. Lo fa anche per sfuggire alla percepita minaccia di un clima politico e sociale ostile all’impresa, soprattutto se grande. Le contraddizioni che si vanno accumulando nella società e nell’economia, di cui il sistema politico ritarda la composizione scaricandone i costi sul debito pubblico, cioè sulle generazioni future, alla fine non possono non esplodere. La crisi italiana dei primi anni Novanta apre la strada a una nuova consapevolezza dei vincoli di bilancio che vanno rispettati nella gestione di una economia che voglia essere prospera ed equilibrata. La crisi travolge il sistema politico, muoiono i vecchi partiti e ne nascono di nuovi, o rinnovati. L’Italia avvia il risanamento del suo bilancio pubblico, entra fin dall’inizio nel novero dei paesi che adottano l’euro come moneta comune. A metà degli anni Novanta l’economia rallenta, quasi si ferma. Resta in una condizione semistagnante fino ai giorni nostri, in cui finisce accomunata a tutto il mondo in un generale, brusco arretramento. Prima dello scoppio della odierna crisi mondiale, mentre il mondo galoppava (nella sfera dell’economia reale, non solo in quella, gonfiata, della finanza), essa è sembrata frenata, trattenuta da qualcosa.

Prefazione

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Sono state evocate le più disparate possibili cause, dalla severità della restrizione di bilancio necessaria per aderire all’euro, alla scomparsa, con l’euro, della comoda scappatoia delle svalutazioni della lira per ridare fiato competitivo alle aziende nazionali, al mancato decollo del Mezzogiorno. Ognuna di queste spiegazioni contiene frammenti di plausibilità, ma nessuna convince veramente come «la» causa di un blocco della crescita economica che si è prolungato per un quindicennio. Si era affacciata l’ipotesi che fosse iniziato un declino storico del paese, ma un paio d’anni di ripresa della produzione e delle esportazioni, il 2006 e il 2007, erano bastati a spazzar via da giornali e convegni la parola «declino». Una diversa ipotesi era allora emersa: che fosse in atto una nuova ristrutturazione del sistema produttivo italiano tale da rafforzare gli effetti dell’effimero miglioramento congiunturale mondiale nel sostenere la nostra ripresa. Il sopravvenire della crisi, dalla fine del 2007, ha complicato nuovamente la prognosi del malato Italia e ha ridato fiato ai «declinisti». Questo libro fa un passo indietro rispetto alle urgenze della crisi e della recessione, acute nel momento in cui scrivo, e si concentra sull’enigma dell’ultimo quindicennio, di cui ricerca una spiegazione organica. Perché farlo, piuttosto che concentrarsi sull’emergenza? Perché questa crisi planetaria, così violenta, così onnicomprensiva, rimescolerà tutte le carte del gioco competitivo mondiale. Se la virulenza della tempesta gelerà sui rami i germogli di ristrutturazione del sistema produttivo italiano che avevamo iniziato a notare, allora potremo davvero ritenere che sia iniziata una lunga e penosa fase di declino storico del nostro paese. Se si riuscirà a preservare quei germogli in modo da farli sboc-

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Prefazione

ciare una volta che la tempesta sia passata, allora nel nuovo paesaggio disegnato dagli esiti della crisi l’Italia potrebbe addirittura trovare delle opportunità nuove, aggiuntive. Per capire se e come la iniziata ristrutturazione possa essere proseguita è necessario capire fino in fondo quali forze vi si oppongono, per annullarle, o almeno per indebolirle. Nei capitoli che seguono propongo una lettura sintetica delle vicissitudini che l’economia italiana ha attraversato negli ultimi anni, basata su una serie di ricerche empiriche (le cui indicazioni bibliografiche, insieme con altre letture suggerite, sono raccolte in Bibliografia). Ciò che si tenta qui è un «affondo», alla ricerca delle radici del problema. Vi sono cose che più di altre vincolano, tengono frenate la società e la economia italiane, le costringono da decenni a procedere in controtempo rispetto ai paesi più avanzati. Di quei caratteri frenanti va capita la natura e la resistenza. Nei capitoli primo e secondo si traccia a grandi linee la mutazione che il mondo ha subito negli ultimi due decenni, culminata nella crisi planetaria che ci ha investiti dall’estate del 2007. È una premessa necessaria, poiché è rispetto a quelle dinamiche mondiali che va misurato il controtempo italiano. Nel capitolo terzo si documenta lo stato del sistema produttivo e nel capitolo quarto si discutono aspetti del sistema finanziario più direttamente legati a esso. In questi due ambiti – l’impresa, la finanza – possono leggersi molti segni del problema italiano. Problema le cui radici (se non le uniche, certamente fra le principali) identifico in due temi: il ruolo del sindacato e la cultura giuridica. Questi due temi costituiscono secondo me la comune piattaforma esplicativa del disagio che il nostro sistema vive da anni. A essi sono dedi-

Prefazione

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cati i capitoli quinto e sesto, ciascuno dei quali contiene una sezione anomala in cui non si sviluppa un’analisi ma si racconta una storia. Le due storie sono puramente frutto di fantasia (con l’eccezione di un dettaglio nella seconda di esse, svelato in Bibliografia). Il loro scopo è di attrarre l’attenzione, con la libertà che lo stile narrativo consente, su quelli che indico come i due veri nodi da sciogliere. Il libro non contiene pertanto una rassegna sistematica di tutte le questioni aperte, non ambisce cioè a compilare un programma generale di riforme della struttura economicosociale italiana. Ad esempio, per citare due questioni di grande attualità e urgenza, non si analizza il sistema di istruzione (scuola e università), né l’ipotesi di una ulteriore riforma pensionistica. Vi si accenna soltanto. Infine, anche se può sembrare superfluo, preciso che in questo libro metto in gioco le mie convinzioni personali: pur se parte del materiale da costruzione viene dal cantiere della Banca d’Italia, i giudizi sono miei e non coincidono necessariamente con la linea della Banca e del suo vertice, né tanto meno ne impegnano la responsabilità. Sono grato a Lorenza Giangregorio, Marco Magnani, Anna Marra, Fabrizio Saccomanni, Ignazio Visco e Laura Zavattaro per avere letto e commentato l’intero testo nella sua prima stesura. Ringraziamenti più specifici, per commenti su singole parti, seguono in Bibliografia. Ogni imprecisione o errore residui sono solo mia responsabilità. S.R. Ventotene, giugno 2009

CONTROTEMPO L’Italia nella crisi mondiale

LA MUTAZIONE DEL MONDO

capitolo primo

PRIMA DELLA CRISI

LA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA

Negli ultimi quindici anni, giusto quelli in cui l’economia nostra si fermava, il mondo cambiava pelle. La coincidenza è troppo singolare per essere solo frutto del caso. È evidente, e vedremo più avanti come e perché, che la metamorfosi del mondo ci ha colti impreparati, attardati. È come se fossimo distratti mentre le cose ci cambiavano sotto il naso, e questo ci abbia impedito una reazione. Ma in che consiste la metamorfosi di cui parlo? Un aspetto di essa è certamente la cosiddetta «globalizzazione», ma non è da qui che intendo iniziare. Vorrei soffermarmi prima su un altro grande mutamento che ha rivoluzionato il pianeta precisamente in quegli stessi anni, di cui invece si parla molto meno: è cambiato il «paradigma tecnologico». Questo fenomeno, come proverò a dire, è ancora più importante dell’altro, anzi ha contribuito a determinarlo; è una vera rivoluzione, ma ha avuto una fortuna mediatica decisamente più accidentata e complessivamente minore. Che vuol dire cambio di paradigma tecnologico?

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La mutazione del mondo

Nella lunga storia dell’agire economico il «produrre» – che sia semplicemente, come all’origine della vicenda umana, raccogliere e cacciare, oppure coltivare e allevare, oppure ancora fabbricare oggetti, infine prestare servizi – si è sempre incentrato in un qualche utensile fondamentale, uno strumento di uso universale, una specie di «anima» del processo produttivo dell’epoca. Spesso, dotata anche di un forte valore simbolico. Quest’anima informa di sé la tecnologia che caratterizza ciascun periodo storico, ne fissa, appunto, il paradigma. L’avvento nella storia delle economie, grazie a una qualche rivoluzionaria invenzione, di un nuovo strumento di questa natura avvia appunto un cambio di paradigma tecnologico. Da quel momento le condizioni del produrre cambiano anch’esse, e insieme con loro cambiano l’organizzazione delle unità produttive, i rapporti sociali, le stesse istituzioni della vita civile e politica. L’avvicendarsi di queste «tecnologie di utilizzo generale» (così le denominano gli esperti, noi le chiameremo qui generaliste) e la loro funzione di volano dello sviluppo sono stati analizzati da importanti storici economici. Essi ci hanno insegnato che la variabile su cui un cambio di paradigma tecnologico direttamente si riflette è la produttività, cioè la quantità di prodotto, a parità di qualità, che un lavoratore riesce in media a realizzare in un dato tempo, in qualunque settore. Nel mondo moderno della produzione industriale e terziaria la produttività di un lavoratore dipende: dalle sue personali abilità (capitale umano), dalla quantità e qualità di strumenti che vengono messi a sua disposizione (capitale fisico), dalla intelligenza ed efficienza con cui il suo lavoro viene organizzato e coordinato con quello degli altri lavoratori

capitolo primo Prima della crisi

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(capitale organizzativo). Questa terza componente della produttività del lavoro viene definita «produttività totale dei fattori», perché è quella che discende dall’abilità dell’imprenditore-manager di combinare fra loro tutti i fattori produttivi, dai mezzi fisici agli esseri umani. Ogni volta che la tecnologia generalista dominante lascia il campo a un’altra neo-inventata, si mette in moto un processo di riaddestramento degli addetti alla produzione (aumento del capitale umano) e di riorganizzazione dei luoghi in cui si produce (aumento del capitale organizzativo) in funzione della nuova tecnologia disponibile; un processo normalmente lungo e faticoso. Dapprima può accadere che la produttività scenda, perché energie e risorse sono assorbite dal riaddestramento e dalla riorganizzazione. Ma una volta completato questo processo di adattamento, la produttività fa un salto, specialmente quella «totale dei fattori». Alle origini dell’uomo la tecnologia generalista al centro del paradigma del tempo si riassumeva in una semplice selce scheggiata. Si sono poi susseguite, nei millenni, nei secoli, varie altre tecnologie aventi questa natura universalistica, fino ad approdare, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, al motore elettrico. Da allora e fino agli anni Ottanta del secolo scorso il mondo ha girato secondo il paradigma «elettrico». Ora, da non più di vent’anni, gira secondo quello «telematico». Il precedente paradigma elettrico era stato determinato da una sequenza di scoperte scientifiche nel campo dell’elettromagnetismo, da cui erano scaturite innovazioni tecnologiche tali da portare alla creazione di un tipo di motore enormemente più potente ed efficiente del motore a vapore che fino a quel momento azionava ogni apparato industriale.

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La mutazione del mondo

Occorsero molti anni prima che quel cambio di paradigma si completasse. Affinché ogni luogo di produzione, in ogni paese industriale, si dotasse di queste nuove macchine bisognò creare complesse infrastrutture di generazione e trasporto dell’energia elettrica; bisognò che tutta la manodopera imparasse nuove tecniche e procedure di lavoro; bisognò ridisegnare le fabbriche, riorganizzarne il funzionamento, modificare i rapporti gerarchici e funzionali al loro interno. L’economia americana fu quella in cui l’innovazione prevalentemente si generò, e anche quella in cui più estesamente e rapidamente venne tradotta in un nuovo modo di produrre. Lo storico Paul David ha calcolato che la produttività totale dei fattori nell’economia americana sia aumentata di oltre il 5 per cento l’anno dal 1919 al 1929, una volta completata la fase quarantennale di elettrificazione dell’industria, durante la quale la produttività aveva invece ristagnato. Tutto questo è stata ragione non ultima dell’accelerazione che la nascente egemonia degli Stati Uniti d’America sul mondo avanzato ha mostrato proprio in quel torno di tempo. È stato dunque il motore elettrico, per circa un secolo, il perno del paradigma tecnologico vigente. È interessante notare come questo dispositivo non sia riuscito tuttavia a esprimere alcun valore simbolico, a dispetto della sua centralità nella vita economica dei paesi industriali per così tanto tempo. Se mi si chiedesse di descrivere a parole o di abbozzare su un foglio di carta il disegno di un motore elettrico, non saprei proprio da dove cominciare; e sono sicuro che chiunque fra i lettori di questo libro avrebbe la stessa interdetta reazione. Per contrasto, si pensi alla straordinaria forza semantica della combinazione «falce e martello» nella iconografia so-

capitolo primo Prima della crisi

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cialista e comunista. La falce, attrezzo fondamentale nell’utensileria dell’agricoltore per la sua funzione nella mietitura del grano, è stata presente fin dal Medioevo negli stemmi di villaggi e cittadine, a rappresentare la operosità agricola; non a caso, date le vicende che da ultimo l’avrebbero fatta diventare un simbolo universalmente conosciuto, questa immagine ricorreva specialmente nell’araldica russa. Nella seconda metà del XIX secolo le nascenti organizzazioni proletarie europee iniziarono a far ricorso alla immagine del martello per rappresentare il lavoro dell’operaio industriale. Il movimento bolscevico alla vigilia della rivoluzione russa del 1917 aveva nel martello il suo simbolo più diffuso e riconosciuto, l’insegna per antonomasia della classe operaia dell’industria. Infine Lenin ebbe l’idea di unire i due simboli, la falce e il martello, a significare l’unione delle masse contadine e operaie nel comune destino di riscatto dallo sfruttamento attraverso la rivoluzione. Il movimento operaio, proprio mentre l’era industriale entra nella sua fase matura, sceglie dunque di marciare dietro a un simbolo che raffigura due tecnologie preindustriali. In particolare, il martello ritrae molto più e molto meglio il vecchio mondo dell’artigianato piuttosto che quello dell’industria moderna, quale già alla fine del XIX secolo essa stava diventando. Ma la scelta del martello come insegna del movimento rivoluzionario dei lavoratori, che ci appare oggi anacronistica, non si spiega soltanto con ragioni storicoestetiche: essa è coerente con la teoria marxiana delle classi sociali e della produzione capitalistica. Il martello non è inteso come una macchina, un pezzo di capitale fisico, un mezzo di produzione, è la mera prosecuzione del braccio dell’operaio. Può rappresentare simbolicamente il plusva-

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La mutazione del mondo

lore, quel sovrappiù che nella teoria marxiana il capitalista estorce all’operaio solo grazie al fatto di possedere i mezzi di produzione – il capannone, le macchine – espropriandolo quindi del suo stesso lavoro; quel sovrappiù che si somma al valore degli input nel prezzo finale della merce e finisce integralmente nelle tasche del capitalista. I mezzi di produzione, cioè il capitale fisico, svolgono in questa visione una funzione neutra e passiva: ciò che rileva non è di quale tecnologia siano il risultato, è solo chi ne sia il proprietario, se il singolo capitalista oppure, dopo la rivoluzione, il proletariato tutto. Per Marx l’imprenditore non possiede alcuna speciale abilità organizzativa, si limita a mettere insieme passivamente fattori della produzione dati – il capitale e il lavoro – sfruttando i lavoratori per il solo fatto di impiegarli, retribuendoli con un salario a stento bastante alla sussistenza. Non c’è ruolo in tutto questo per l’innovazione tecnologica. Se mai Marx e i suoi epigoni e seguaci avessero letto sulle gazzette del tempo la notizia delle invenzioni che stavano portando alla creazione e all’uso universale del motore elettrico moderno, non ne avrebbero tratto alcuna significativa conclusione. Ne avrebbero del tutto ignorato il potenziale autenticamente «rivoluzionario». Sta di fatto che l’altra rivoluzione, quella sociale preconizzata da Marx, avverrà sì ma, per ironia della sorte o piuttosto per l’intelligenza della storia, proprio nel paese in cui impera ancora la falce, nella Russia delle anime morte gogoliane, nel luogo meno capitalista e industriale d’Europa. Invece, la rivoluzione che realmente cambierà l’economia del mondo, quella scientifica e tecnologica, egli non la prevede né la vede. Eppure, i primi motori elettrici a corrente

capitolo primo Prima della crisi

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continua di valore commerciale, cioè utilizzabili in attività industriali, compaiono già nei primi anni Settanta del XIX secolo; nell’arco dei successivi quindici anni si affermano modelli via via più sofisticati e semplici da usare, e la rivoluzione si compie, proprio mentre Marx consuma gli ultimi anni della sua vita. Ne sono artefici alcuni inventori di cui la storia che s’insegna nelle scuole non ha serbato i nomi: il belga Gramme, l’americano di origine croata Tesla e vari altri. Invisibili ai posteri come la loro stessa creatura. È decisamente più facile associare una immagine simbolica alla tecnologia generalista che ha sostituito il motore elettrico come anima del moderno produrre. Basta farsi venire in mente uno schermo e una tastiera. Schermo&tastiera non è una icona potente come falce&martello, ma è almeno una combinazione di oggetti più agevolmente pensabile di un motore elettrico. La tecnologia generalista di cui parliamo è infatti quella che va sotto il nome di tecnologia dell’informazione e della comunicazione. Brevemente, la chiameremo qui telematica. L’oggetto in cui principalmente si materializza è il personal computer. Sull’itinerario che ha portato a quest’ultimo cambio di paradigma vi è una letteratura smisurata, sia specialistica sia divulgativa. Tuttavia, come accennavo inizialmente, le opinioni pubbliche di tutto il mondo, e specialmente quelle europee, non hanno percepito la natura epocale dell’evento con la nettezza con cui l’hanno invece subito riconosciuta nel caso della globalizzazione. Per spiegare questa parziale cecità va ricordato come agisce in pratica un cambio di paradigma tecnologico. È qualcosa che permea lentamente il tessuto produttivo, rinnovandolo

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La mutazione del mondo

dall’interno. Facciamo un esempio concreto, tratto da un caso autentico che mi è capitato di studiare da vicino qualche anno fa. Siamo in una piccola acciaieria. Sì, le acciaierie non sono soltanto giganteschi mammut, possono anche essere piccole, come questa di cui parlo. Circa 100 dipendenti, produce acciai speciali. Un’azienda antica, in una terra del Nord Italia di tradizionale vocazione meccanica. I padroni e gestori sono una coppia di trentenni. Si occupano dell’azienda da poco, da quando è morto improvvisamente il padre di lei, discendente dei fondatori. La coppia se ne stava a Roma a fare tutt’altro, il senso del dovere li ha richiamati in quella valle nebbiosa, si sono rimboccati le maniche. Cercano di far valere la loro gioventù, volgendo l’inesperienza in coraggio innovativo. I loro clienti sono europei, ma l’azienda combatte contro insidiosi concorrenti indiani e cinesi, che riesce a tenere a bada grazie al fatto che il prodotto si presenta in forma di pallettoni molto grandi e pesanti, il cui trasporto su lunghe distanze costerebbe troppo. Ma cerca anche di difendersi facendo studiare in un minuscolo centro ricerche interno, con l’ausilio della vicina università, nuove leghe, nuovi utilizzi. Qualcuno parla ai due giovani proprietari-manager di un certo software appartenente a una famiglia denominata Erp: enterprise resource planning. Si tratta di un software gestionale. L’idea è questa, dice loro il rappresentante della ditta che lo vende: ogni funzione aziendale, dalla gestione del magazzino delle materie prime alla contabilità, dalla gestione delle risorse umane alle linee di produzione, viene analizzata, decomposta nelle sue subfunzioni elementari, standardizzata, proceduralizzata. Le singole procedure di

capitolo primo Prima della crisi

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lavoro, semplificate e razionalizzate, vengono immesse su computer nella nuova versione e rese tutte intercomunicanti fra loro. Informatica e telecomunicazioni combinate, telematica. Quello che prima era un mucchio di cellule individuali ammonticchiate l’una sull’altra, alcune informatizzate altre no, diviene un organismo informatico multicellulare, in cui ogni cellula è connessa alle altre e contribuisce in modo coordinato alla vita dell’organismo. Naturalmente, viene loro precisato, l’operazione è lunga, complessa e costosa. Intanto, la licenza del software costa un sacco di soldi. Poi, ogni azienda ha le sue specificità, sicché un dispositivo informatico che la gestisca unitariamente da cima a fondo va un po’ adattato, personalizzato. È come cucire addosso a una persona un vestito che si vuole cada come un guanto; anche se il modello è predisegnato, poi bisogna affannarsi intorno al cliente per tirare un po’ qua e un po’ là, alzare una spalla, allungare una manica... Occorre che una squadra di ingegneri ed esperti di gestione aziendale si installi per un periodo in azienda e la studi palmo a palmo per fare quest’opera di adattamento. È l’occasione per rivoltare l’azienda come un calzino e valutarne prassi obsolete, procedure illogiche, strutture organizzative ridondanti. L’operazione non è indolore, i nostri due ragazzi vengono avvertiti, perché si va a gettar luce su nicchie di comodo, su rapporti di potere, su abitudini, su assetti consolidati. I sindacati interni ne saranno allarmati, potranno esservi agitazioni, scioperi. Ma, alla fine di questo penoso travaglio, l’azienda si sarà collocata su livelli di produttività molto più alti dei precedenti e, soprattutto, verrà messa in grado di continuare ad accrescere nel tempo la propria produttività, per un buon numero di anni.

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La mutazione del mondo

I ragazzi s’imbarcano nell’avventura. Quando li intervisto io è passato circa un anno e la nuova gestione aziendale informatizzata è partita da poco. Il lui della coppia, pur con le scaramantiche cautele del caso, non riesce a nascondere la sua soddisfazione. Mi fa: sa che cosa è saltato fuori? Che a occuparsi dei nostri conti bancari avevamo due diversi impiegati, uno per i rapporti attivi, uno per quelli passivi; non comunicavano fra loro, un po’ per sciatteria organizzativa, un po’ anche per beghe personali; quando è passato loro sopra il rullo compressore di questa diavoleria di Erp le due gestioni sono state forzate a coordinarsi; risultato? Un risparmio di 100 mila euro l’anno, un quinto dell’utile netto di quest’anno... Bene, sono proprio queste applicazioni della telematica alla vita delle imprese produttive che stanno sostanziando il cambio di paradigma tecnologico. È una rivoluzione silenziosa, lenta, che avviene all’interno delle aziende, di tutte le aziende, di qualunque settore, private o pubbliche, di qualunque dimensione (ma sul punto della dimensione c’è un caveat molto importante su cui torneremo nel capitolo terzo). Questa lentezza e silenziosità è la ragione principale per la quale il fenomeno non ha colpito la fantasia dei media e del pubblico come la globalizzazione. C’è stata anche una ragione contingente. Si è fatta confusione fra la rivoluzione telematica e l’uso commerciale di Internet. Quest’ultima ha generato, verso la fine del decennio Novanta, il fenomeno delle dotcoms, cioè di quelle società nate dal nulla, venute su come funghi, che avrebbero dovuto sfruttare le potenzialità commerciali della rete e che hanno invece alimentato una formidabile illusione collettiva di arricchimenti faci-

capitolo primo Prima della crisi

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li in borsa. I media di tutto il mondo avevano iniziato a parlare di New Economy, facendo di tutt’erba (telematica e Internet) un fascio. Si trattava di una «bolla» speculativa. Una bolla piena solo d’aria: quando è scoppiata, tutti coloro che l’avevano alimentata con la loro ingenuità sono rimasti con le mani piene d’aria, appunto, anziché di quattrini, e sul termine New Economy sono piovuti anatemi e ignominia. Come si può ben capire, ciò che abbiamo prima descritto non ha quasi nulla a che fare con le false illusioni di guadagni a buon mercato nate con Internet. Si tratta di telematica applicata ai processi produttivi, su vasta scala. Lo scenario di cui abbiamo cercato di dare una idea è di questo tipo: una dopo l’altra, le unità produttive di un sistema economico – che siano fabbriche automobilistiche o acciaierie grandi e piccole, catene per la distribuzione commerciale al dettaglio o case editrici, banche o ministeri, e così via – valicano il difficile passo della riorganizzazione telematica, si «digitalizzano» secondo un termine di moda, e si ritrovano in una soleggiata shangri-la dove prosperano la razionalità organizzativa e l’efficienza. L’effetto macroeconomico visibile è che, improvvisamente, gli indicatori di produttività e di crescita di tutta l’economia cominciano a spostarsi verso l’alto. È ciò che è accaduto negli Stati Uniti a metà degli anni Novanta, dove si è ripetuto il fenomeno già osservato negli anni Venti, anche in quel caso dopo un periodo quasi ventennale di adattamento durante il quale la produttività ristagnava o addirittura scendeva. È ciò che ha tardato ad accadere in Italia, come vedremo.

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La mutazione del mondo

UN GLOBO, UN MERCATO

Il nuovo paradigma telematico ha enormemente favorito, direi innescato, l’altro grande fatto che ha cambiato il mondo in questi anni, quella globalizzazione da cui avevamo preso le mosse all’inizio di questo capitolo. Anche in questo caso si tratta di un fenomeno che si è riproposto nel mondo a distanza di circa un secolo. Nei trent’anni finali del XIX secolo e nei primi quattordici del successivo, fino all’incendio distruttore della prima guerra mondiale, un’altra impetuosa ondata di globalizzazione aveva investito il mondo, originata da innovazioni scientifiche e tecnologiche che abbattevano il costo del trasporto fisico a distanza. Ne risultò una vera e propria esplosione dei flussi internazionali di merci, ma anche di quelli di denaro e di investimenti finanziari e di quelli migratori. Tutti questi flussi fra paesi diversi, sia di beni fisici, sia di attività finanziarie, sia di persone, raggiunsero dimensioni mai viste prima nella storia dell’umanità e, per alcuni aspetti, non più osservate neanche oggi. A scatenare la globalizzazione dei nostri tempi sono state altre innovazioni scientifiche e tecnologiche: appunto quelle che abbiamo complessivamente chiamato telematica. Esse hanno abbattuto il costo del trasporto a distanza di informazioni e dati. Ne sono indirettamente conseguiti rinnovati impulsi al commercio e alla finanza internazionali e a nuove bibliche migrazioni; la risultante diretta è stata una improvvisa accelerazione della diffusione internazionale delle conoscenze e delle idee. La popolarità del termine globalizzazione si accompagna con una gran varietà di giudizi di valore riguardo agli effet-

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ti che il fenomeno ha o potrebbe avere sul benessere di tutti coloro che ne sono coinvolti in ogni angolo del globo. Si fronteggiano da tempo detrattori ed estimatori, i primi in rimonta da quando è scoppiata la crisi (ne parleremo più avanti). Fra i detrattori si annoverano innanzitutto quelli che definirei gli «apocalittici» (no global e consimili): coloro che pensano che globalizzazione voglia dire solo disastro ecologico, sfruttamento e perdita d’identità. Secondo questa visione il mondo, tutto il mondo, dalle savane africane agli slums di Chicago, è ridotto a una inquinata discarica di bottigliette di coca-cola; nei paesi emergenti si diffonde la piaga della schiavitù dei bambini, rinchiusi dalle multinazionali yankees o nipponiche in fabbriche malsane a cucire scarpe da jogging per i ricchi occidentali; sono scomparsi villaggi e costumi, culture e tradizioni, tutto omologato, tutto reso poltiglia consumistica, la memoria storica di interi popoli cancellata... Si tratta di una visione suggestiva, per alcuni aspetti meritevole di discussione, ma assai difficilmente suffragabile con gli strumenti dello scienziato sociale, perché chiama prevalentemente in causa valori ideologici, estetici o morali non numericamente misurabili. Essa può colpire a tratti la nostra sensibilità ma pare francamente caricaturale e quanto meno parziale, il che non la rende una buona guida per comprendere la totalità del fenomeno. Fra gli estimatori della globalizzazione vi sono invece quelli che chiamerò gli «sviluppisti», i quali vi vedono, all’opposto degli apocalittici, l’occasione attesa da secoli per far uscire immense masse di esseri umani dalla povertà estrema e dall’oblio della storia. Questa visione storicista e ottimista poggia su una base empirica decisamente più solida.

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Potrei citare decine di indicatori quantitativi che la provano in modo robusto. Ad esempio, nelle aree emergenti dell’Estremo Oriente il reddito pro capite è aumentato di oltre il 7 per cento l’anno nella prima metà di questo decennio; fra l’8 e il 9 per cento in Cina. India e America Latina mostrano risultati inferiori ma comunque indicativi di una salita dai recessi del sottosviluppo. Si calcola che nel mondo circa mezzo miliardo di persone abbiano potuto affrancarsi dall’estrema indigenza negli ultimi venti anni. Vi è un vastissimo corpus di ricerche empiriche molto sofisticate che prova in modo del tutto convincente il nesso positivo tra globalizzazione – intesa appunto come aumento degli scambi commerciali, della mobilità dei capitali e delle persone, della diffusione delle conoscenze – e accelerazione della crescita economica nei paesi emergenti. Ma anche senza ricorrere a pesanti apparati statistici e analitici, a convincerci del fatto che la globalizzazione ha attenuato la miseria nel mondo basta una evidenza indiretta, sintetica e netta: l’impennata dei prezzi dei generi alimentari e del petrolio che ha improvvisamente colpito il pianeta nel 2007-2008. Sulla produzione di questi beni si è rovesciato nell’arco di qualche anno un sovrappiù di domanda, proveniente appunto da alcune centinaia di milioni di abitanti dei paesi emergenti dell’Asia e dell’America Latina, che passavano dal buio alla lampadina elettrica, dal freddo alla stufa a gas, dalla malnutrizione alla fettina di carne. I prezzi sono schizzati verso l’alto perché la capacità produttiva nella estrazione e raffinazione degli idrocarburi può essere aumentata solo con costosi e lenti investimenti; perché l’agricoltura e la zootecnia sono ugualmente lente ad adeguarsi a necessità produttive raddoppiate o quasi, soprat-

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tutto se nel frattempo avventate decisioni politiche negli Stati Uniti e altrove distoglievano vaste terre dalla produzione alimentare, sovvenzionando con soldi pubblici quella di bioetanolo. La comoda spiegazione secondo cui un pugno di malvagi speculatori finanziari – quelli che operano sul mercato dei cosiddetti «derivati» (futures nel caso specifico) – avrebbero gonfiato i prezzi per la propria bieca avidità, e che l’odioso fenomeno spieghi tutto o quasi tutto il rincaro, non regge alla prova dell’analisi, teorica ed empirica. Sul piano teorico, il mercato dei futures è un luogo virtuale in cui, prevalentemente a scopi assicurativi, si fanno scommesse sull’andamento futuro di un prezzo o di una quotazione. Se A è convinto che il prezzo del petrolio, che è oggi, poniamo, a 100 dollari per barile, salirà oltre i 120 fra tre mesi, cerca una controparte B che sia convinta del contrario e s’impegna a comprare da B un barile dopo tre mesi, pagandolo 120 dollari; B s’impegna dal canto suo a venderglielo. Quel barile magari B non lo possiede e non lo possiederà mai. A e B potrebbero essere finanzieri puri che non commerciano petrolio. Ma, passati i tre mesi, un minuto prima della scadenza del contratto, se il prezzo corrente del petrolio è 130, B riconoscerà direttamente ad A i 10 dollari che quest’ultimo avrebbe guadagnato comprando da lui a 120 e rivendendo a 130, ove la transazione fosse stata reale; se il prezzo è 110, sarà A a pagare 10 dollari a B. Il mercato è fatto in ogni momento di coppie di contraenti che la pensano all’opposto e giocano l’uno contro l’altro. Questo gioco può influenzare il prezzo vero del petrolio solo se chi il petrolio lo possiede sul serio, notando che sul mercato dei futures prevale una previsione al rialzo, decide di crederci e si

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astiene dal vendere il suo petrolio oggi sperando di poterlo vendere domani a un prezzo più alto: ma ci deve pensare bene, la previsione potrebbe essere sbagliata. Dal punto di vista empirico, infatti, i prezzi medi dei futures sul petrolio hanno sistematicamente mancato di prevedere l’evoluzione futura del prezzo vero, peccando di conservatorismo: hanno quasi sempre assunto per i mesi successivi piccoli movimenti intorno al prezzo del momento. Inoltre, né i dati sulle giacenze in deposito del petrolio già estratto o raffinato né quelli sui ritmi di estrazione hanno mai confortato l’ipotesi di comportamenti accaparrativi da parte dei petrolieri. L’unico stimolo «artificiale» ai prezzi delle materie di base (energia, materie prime, beni agricoli) – cioè uno stimolo non direttamente correlato con il funzionamento dei rispettivi mercati – può essere provenuto dalle politiche monetarie dei principali paesi, a cominciare da quella americana. È intuitivo che «speculare» su beni immagazzinabili, cioè rimandarne la vendita nella speranza di spuntare prezzi più alti domani, ha un costo-opportunità, rappresentato dal mancato guadagno in conto interessi sulle somme che si ricaverebbero vendendo invece subito; infatti, il petrolio tenuto sottoterra, cioè non estratto, o stivato in un deposito sopraterra, non rende niente. Se i tassi d’interesse sono mantenuti bassi da politiche monetarie espansive l’incentivo a speculare è maggiore. In effetti, si può stimare che un quarto dell’extra rincaro subito dal petrolio dall’estate del 2007 a quella del 2008 sia attribuibile per questa via all’eccesso di espansività della politica monetaria americana. Ciò detto, quello che è successo e che succede ai prezzi dell’energia e degli alimentari è prevalentemente il risultato dell’antico, elementare gioco della domanda e dell’offerta.

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La prima cresce strutturalmente perché vasti strati di popolazione nei paesi emergenti approdano a stili di vita più evoluti, la seconda stenta ad adeguarsi per vincoli tecnologici e anche per errori di politica economica ed energetica. Ma è bastato che il vento della crisi abbattesse la domanda, corrente e attesa, di energia per far tornare i prezzi ai livelli di tre anni prima. Non propriamente detrattori della globalizzazione, ma certamente critici, sono gli «egualitaristi», cioè coloro che, pur ammettendo gli effetti di riduzione globale della povertà nel mondo, sono preoccupati per la distribuzione diseguale dei benefici nel campo dei paesi emergenti, che genera vincitori ma anche perdenti fra i poveri e i poverissimi di taluni paesi. In effetti, se in Cina il numero di poveri assoluti (intesi come coloro che non dispongono di più di un dollaro al giorno per campare) è sceso in vent’anni dal 64 al 14 per cento della popolazione, nell’Africa subsahariana è invece salito, dal 42 al 44 per cento. I divari di reddito pro capite tra i paesi avanzati cosiddetti «ad alto reddito» e quelli emergenti si sono ridotti solo per l’Asia, e in particolare per la Cina, in cui si è passati da un reddito nel 1980 pari a un miserando 4 per cento di quello del gruppo dei paesi ricchi a uno che sfiora il 20 per cento un quarto di secolo dopo. In America Latina si partiva da un buon 37 per cento e si è scesi al 25, nonostante i progressi assoluti comunque conseguiti. Assoluti o relativi che siano, gli aumenti complessivi del reddito pro capite nei paesi emergenti hanno fatto peggiorare gli indicatori di distribuzione del reddito all’interno di ciascun paese, e questa è un’altra fonte di biasimo per gli egualitaristi. Ma era inevitabile: quando un paese è abitato da un miliardo di miseri contadini, come la

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Cina di venticinque anni fa, la distribuzione del reddito è molto più «egualitaria» di quando duecento milioni di essi abbandonano le campagne e s’inurbano per fare gli operai, guadagnando dieci volte di più degli altri ottocento lasciati indietro. La satira amara del pollo di Trilussa in questo caso è bugiarda. Gli effetti della globalizzazione che abbiamo fin qui preso in esame riguardavano, esclusivamente o prevalentemente, i paesi emergenti, grandi protagonisti del fenomeno su scala mondiale. Ma il dibattito più caldo si è spostato da ultimo sui paesi avanzati. Vi si fronteggiano i tradizionali schieramenti dei «liberoscambisti» e dei «protezionisti», con vari gradi di favore o di ostilità, rispettivamente, alla globalizzazione. I liberoscambisti sono stati la larga maggioranza, anche da noi in Italia, finché le cose sono andate bene o benino. Il punto di vista a favore del libero scambio poggia su alcuni fra i risultati più analiticamente cristallini ed empiricamente provati di tutta la scienza economica, secondo cui la piena libertà di scambiare merci e servizi fra paesi dà a tutti i partecipanti più benessere di quanto ne possa dare una situazione in cui il commercio internazionale sia in qualunque modo e misura limitato. È importante sottolineare quel «tutti». Noi italiani dovremmo d’altronde conservare memoria storica di questa verità di fatto: negli anni Cinquanta la coraggiosa decisione dei governanti dell’epoca di far aderire l’Italia al Mercato comune europeo, abbattendo le difese tariffarie erette per proteggere la nostra debole industria, fu volano potentissimo di sviluppo e determinante principale del «miracolo economico» di quegli anni. E non

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mancarono voci protezioniste neanche allora, soprattutto da parte confindustriale! Ma ecco che i difensori di questa tesi si ritrovano nei tempi più recenti in crescente difficoltà e prendono piede i protezionisti. Già da anni si andava notando nei paesi avanzati come interi settori produttivi nazionali venissero messi in crisi dalla concorrenza dei paesi emergenti. Soprattutto settori «tradizionali», come quelli tessile e dell’abbigliamento, o la meccanica leggera: produzioni manifatturiere relativamente facili da apprendere anche da parte di un contadino cinese recentemente inurbato, il cui salario al tasso di cambio corrente è però un ventesimo di quello di un operaio tedesco o italiano. In quei settori il costo del lavoro è una quota importante del fatturato di un’azienda, può arrivare al 50 per cento, dunque una concorrenza così è chiaramente insostenibile. La sensibilità dell’opinione pubblica, già scossa dalla notizia di fabbriche chiuse e operai licenziati, viene poi particolarmente turbata quando s’imbatte nell’evidenza di pratiche sleali di concorrenza, come la contraffazione, o di pratiche di gestione della manodopera da parte dei paesi emergenti percepite come immorali, come ad esempio il lavoro minorile. La risposta tipica dei liberoscambisti a obiezioni fondate su questi fatti spiacevoli è: in altre fasi della storia i cinesi eravamo noi, non si può arrestare il progresso di chi è in ritardo e insegue chi sta avanti, i paesi avanzati devono lasciare agli emergenti le produzioni più facili e specializzarsi in quelle più complesse, in cui conti di più l’uso della tecnologia, le conoscenze e le abilità della mano d’opera (il capitale umano), la sapienza organizzativa e imprenditoriale. Così facendo i posti di lavoro fatalmente persi nei settori

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abbandonati saranno rapidamente ricreati in quelli di nuova specializzazione e vi sarà soltanto da preoccuparsi della transizione: occorreranno politiche di salvaguardia del tenore di vita delle famiglie messe in difficoltà, di addestramento dei lavoratori da riorientare su altre produzioni, insomma un po’ di sane politiche di welfare focalizzate sul problema. Inutile dire che queste ultime considerazioni erano e sono più presenti in Europa che negli Stati Uniti, dove le politiche pubbliche sono tradizionalmente meno orientate al welfare e l’opinione pubblica crede (o credeva) di più nelle autonome capacità del sistema economico di aggiustarsi alle mutate circostanze esterne. La ricetta dei liberoscambisti (spostare il sistema produttivo dal semplice al complesso, dal tradizionale all’innovativo) è comprensibile e ragionevole, ma forse non è sufficiente. Il fatto è che la faccenda si è ingarbugliata. Sempre grazie alle tecnologie telematiche, tutti i processi produttivi sono divenuti frammentabili in segmenti che possono essere staccati l’uno dall’altro, fatti uscire dalla fabbrica tradizionale (o dall’ufficio, o dal laboratorio) e collocati fisicamente anche a grande distanza. Alcuni esempi: in un’azienda che produce pentole, tutta la contabilità, che è parte integrante della catena del valore, può essere esternalizzata e affidata a contabili indiani situati a Bangalore; oppure, in un’azienda che produce componenti per capsule spaziali, alcune elaborazioni grafiche computerizzate possono essere affidate a un gruppo di ingegneri cinesi situati a Shanghai; oppure ancora: in un ospedale, alcuni interventi di microchirurgia possono essere effettuati da un chirurgo coreano, che manovra a Seul una console i cui terminali robotizzati stanno in una sala operatoria a Milano.

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Da questi esempi si coglie subito la novità: non stiamo parlando della classica delocalizzazione di una fabbrica tessile, che viene chiusa a Prato e riaperta a Tirana con operai che si accontentano di un decimo della paga. Neanche stiamo parlando della spedizione da Treviso a Canton di componenti elettronici perché vengano assemblati da cinesi pazienti e con le dita sottili e poi rispediti indietro per il montaggio definitivo e la commercializzazione. Stiamo parlando di funzioni, compiti, abilità di grado avanzato, che presuppongono istruzione alta, in qualche caso altissima, di cui in molti paesi emergenti inizia a esserci abbondanza, addirittura più che nei paesi avanzati. Il paradosso è che il tipo di posti di lavoro che potrebbero essere messi a rischio dalla concorrenza emergente finisca con l’essere assai diverso dal pregiudizio corrente: per tornare all’esempio dell’ospedale, mentre il microchirurgo telematico può stare dove gli pare, un’infermiera deve stare proprio lì, in quella corsia di quell’ospedale. Le risposte di politica economica a una situazione così variegata e complessa non possono seguire ricette facili, demagogiche: né fintamente liberiste, né infantilmente protezioniste.

capitolo secondo

LA CRISI

Ma nel frattempo arriva la crisi. Nell’agosto del 2007 inizia a scricchiolare il mercato immobiliare americano, che era stato per anni teatro di una folle corsa agli acquisti, a prezzi costantemente in rialzo, fino a livelli storicamente assurdi. Una corsa sospinta dalla possibilità per i compratori di fare debiti facili e poco costosi. Invade il mondo l’arcana e sinistra parola subprime, con cui anche gazzette di provincia e avventori di bar acquisiscono familiarità. La crisi divampa proprio mentre il mondo è distratto dall’apparentemente inarrestabile salita dei prezzi internazionali del petrolio, del gas, delle altre fonti di energia e materie prime, di molti beni agricoli, che sembra riportare le lancette dell’orologio indietro agli anni Settanta, ai grandi «shock petroliferi», al rischio dell’alta inflazione. In quella estate di due anni fa nessuno ancora si rende conto che un ben diverso e più remoto fantasma sta per riemergere dal passato, un fantasma vecchio non già di trent’anni ma di quasi ottanta, la Grande Depressione, la deflazione. Sulle prime, i due fatti – una crisi immobiliare e finanziaria americana che sta contagiando vari altri paesi avanzati e

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una impennata dei prezzi del petrolio e delle materie alimentari – vengono letti insieme, come nuove evidenze dei guasti della globalizzazione. Nella coscienza collettiva essi ne appaiono come la faccia cattiva, pericolosa. Giocano in questo la drammatizzazione dei media e la demagogia di alcuni politici spregiudicati, soprattutto negli Stati Uniti. Quei due fatti determinano un brusco rallentamento delle economie avanzate, insieme con un rialzo dell’inflazione. La capacità di spesa delle famiglie ne viene colpita per due vie (più disoccupazione e perdita di potere d’acquisto dei propri redditi). Si rabbuia il generale ottimismo fino a quel momento prevalente in larghi strati di popolazione dei paesi avanzati. Man mano che la crisi finanziaria si precisa nella sua gravità e globalità e se ne mettono a fuoco le conseguenze recessive sulle economie reali, il primo dei due fatti traumatici – il rincaro del petrolio e delle altre materie di base – scompare rapidamente dalla scena. I prezzi internazionali delle fonti di energia cadono nel corso del 2008, precipitosamente nei mesi conclusivi dell’anno; essi vengono abbattuti dal forte calo, in atto e in prospettiva, della domanda mondiale di energia. Resta incontrastata protagonista della scena la crisi, che da immobiliare-finanziaria e localizzata negli Stati Uniti diviene economica e mondiale. La crisi nasce evidentemente come una degenerazione della Finanza. Di conseguenza, quel complesso di attività umane che va sotto il nome di finanza viene ora guardato con sospetto, con animosa avversione, come forse mai prima. Negli Stati Uniti il sistema composto dagli intermediari finanziari e dai loro regolatori e supervisori presta effettivamente il fianco a giudizi severi da parte dell’opinione pub-

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blica, subito estesi alla scala planetaria. Il ripensamento critico sulla finanza tende a coinvolgere la stessa nozione di economia di mercato e la forma globalizzata che questa ha assunto negli ultimi anni. Finanza, mercato, globalizzazione, sono concetti a rischio di linciaggio, anche da parte di osservatori delle cose economiche normalmente moderati. Ma l’invettiva non è mai buona consigliera. Proviamo a svolgere qualche considerazione pacata, di buon senso, svincolata dal tumultuoso rincorrersi degli eventi. La finanza è davvero uno strumento del demonio di cui occorrerebbe liberarsi? Come è potuto succedere quello che è successo? Chi ha fallito in questa vicenda, lo Stato o il Mercato? Si tratta realmente di un frutto avvelenato della globalizzazione? FINANZA «INSTRUMENTUM DIABOLI»?

Iniziamo con il rammentare che cosa realmente significa «finanza». Andando alla radice del concetto, finanza è innanzitutto ciò che trasla nel tempo il potere d’acquisto. Far credito è attività umana antichissima: se A produce un sovrappiù rispetto ai propri bisogni, ed è lungimirante, lo cede a B, che ne ha un bisogno impellente, facendosene promettere la restituzione dopo un certo tempo con una maggiorazione che ne premi il sacrificio da astinenza. Già in questo arcaico meccanismo sta una ragione tradizionale di diffidenza nei confronti di chi «fa finanza». A è comunque sospettabile di condotta immorale, qualunque sia lo stato in cui si trova B: se B è solo una cicala, l’antipatica formica A lo asseconda in

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questa sua condotta sventata per trarne un profitto personale; se B è in uno stato di vero bisogno, ancor peggio, A ne approfitta bassamente oggi per arricchirsi domani. È noto come in alcune comunità umane, in fasi storiche passate ma anche nel presente (ad esempio nel mondo islamico), esigere un interesse su una somma prestata non era, non è, consentito dalla legge o dalla norma religiosa. Lo stesso concetto di «moneta» (cioè, più familiarmente, di denaro, qualunque forma esso assuma: moneta metallica come nell’antichità, oppure foglio di carta, o tesserina di plastica) è stato probabilmente elaborato, all’alba della storia dell’uomo, non indipendentemente da quello di credito, e anzi forse proprio al suo servizio, come mezzo per facilitare le cessioni nel tempo del potere d’acquisto non legandole a dei beni fisici precisi. La moneta – termine preferito dagli economisti rispetto a denaro, preferito invece da filosofi e romanzieri – ha poi preso il sopravvento sul credito come fonte di simboli nella immaginazione popolare, caricandosi anch’essa sovente di significati negativi. Il filosofo tedesco Georg Simmel, poco più di un secolo fa, rifletteva sistematicamente sul denaro e sul suo ruolo nella vita dell’uomo moderno; egli constatava la riduzione della vita stessa a denaro, del valore dell’uomo a valore monetario. Sullo sfondo del suo pensiero si intravede il concetto marxiano di alienazione; più in generale, l’angoscia dell’umanista che si sforza di dare un senso logico-storico a quello che percepisce essere un inarrestabile inaridimento della vicenda umana. Eppure la moneta e il credito sono parte di ciò che ha consentito all’uomo di uscire dalla barbarie dell’immanenza, dalla ferinità di una vita regolata dal consumo di soprav-

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vivenza, che si esaurisce nell’attimo presente. Moneta e credito insegnano all’uomo a pensare il divenire del tempo e lo fanno agendo sulla leva psicologica più potente ed efficace, quella dei desideri e dei bisogni. Imparare a proiettare un desiderio nel futuro, o a prevedere un bisogno, è un salto evolutivo fondamentale. Esso spinge ad architettare un metodo per soddisfare il desiderio o il bisogno futuri, e questo metodo è il risparmio. Limitarsi a risparmiare individualmente, conservando il peculio sottoterra in attesa del giorno in cui servirà, è un metodo forse utile al singolo, utile alla società solo in quanto somma di singoli. Invece, se ciascuno investe proficuamente il proprio risparmio prestandolo a un altro, ne moltiplica sia l’utilità personale (se l’investimento è premiato da un interesse) sia quella sociale, perché beneficia due soggetti anziché uno. Il primo profilo è presente già in una economia arcaica di pura raccolta e caccia; il secondo diviene importante allorché l’economia transita al modo di produzione agricolo e poi a quello industriale e postindustriale. In economie di questo tipo il credito soddisfa al tempo stesso due necessità: quella del risparmiatore che ha in mente i suoi consumi (bisogni-desideri) futuri e quella di chi ha invece bisogno nel presente di un potere d’acquisto immediato che eccede quel che ha. Quest’ultimo soggetto potrà essere animato sia da una mera voglia consumistica, sia anche – ed è il caso socialmente più interessante – dal desiderio di accrescere la propria capacità produttiva, dunque da un disegno anch’esso lungimirante, proiettato nel futuro. In questo caso il potere d’acquisto va da chi non ha in quel momento un’idea imprenditoriale da sfruttare a chi invece ce l’ha.

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La finanza è ciò che fa funzionare il circuito risparmio-credito-investimento in una economia monetaria. Essa è fatta di mercati e intermediari la cui funzione è quella di assicurare l’allocazione ottima delle risorse e dei rischi. Come si può ben comprendere anche da queste brevi e schematiche considerazioni, la finanza è una delle grandi conquiste intellettuali dell’umanità. Ma non gode della buona fama di altri capisaldi dell’ingegno, come la ruota o il numero zero. Il problema è che della ruota o del numero zero tutti si possono servire proficuamente in modo pacifico e naturale. Invece, la finanza mette per definizione in conflitto gli obiettivi di due vaste categorie di soggetti, entrambe meritorie: quelli che fanno credito e quelli che lo ricevono. Della prima categoria facciamo parte noi tutti titolari di un conto corrente bancario o possessori di un Bot. Della seconda fanno parte quelli di noi che vogliono comprarsi una casa e non hanno i soldi per pagarla in contanti; oppure quelli che gestiscono un’attività produttiva e hanno bisogno di denaro in anticipo rispetto agli incassi previsti, per acquistare gli input della produzione o per fare investimenti che accrescano la capacità produttiva. I primi vorranno tassi d’interesse alti e ampie garanzie, reali o di reputazione, di restituzione del credito. I secondi vorranno tassi d’interesse bassi e la possibilità di fornire il minimo possibile di garanzie. Il fatto, ineliminabile, che gli obiettivi di queste due platee di soggetti siano, almeno parzialmente, in contrasto fa sì che le tensioni fatalmente si scarichino sugli intermediari professionali (banche, gestori dei mercati ufficiali, società di rating) e sulle autorità pubbliche che influenzano i tassi d’interesse di mercato e vigilano sull’attività degli interme-

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diari. Chi opera professionalmente nella finanza corre sempre il rischio di essere visto come un parassita che se ne sta al calduccio a veder sgobbare gli altri, quelli che producono le cose reali, quelli che risparmiano per assicurarsi una vecchiaia serena, per poi tosarli perfidamente. Bisogna dire che spesso le vittime di questo pregiudizio fanno poco o niente per dissiparlo; a volte si adoperano per dare a esso fondamento. Esempi evidenti si rinvengono nella crisi finanziaria globale che stiamo vivendo. POLITICHE MONETARIE E SQUILIBRI GLOBALI

Lo svolgimento della crisi è ormai noto. Ripercorriamone le tappe per sommi capi, iniziando da un necessario prologo di ordine macroeconomico: per almeno quindici anni il mondo intero è stato inondato di denaro liquido. La liquidità monetaria a livello mondiale è un concetto arduo da definire e ancor più da misurare. Ai nostri fini possiamo accontentarci di una nozione intuitiva e delle tante misure per approssimazione che sono state tentate, che in effetti puntano tutte verso quella conclusione. Sulle cause della inondazione non vi è unanimità di consensi e vi torneremo più avanti. Molti sono però concordi sul fatto che il grosso dell’aumento di liquidità sia stato causato dalle politiche monetarie condotte negli Stati Uniti e in Giappone. Politiche motivate, sia chiaro, da due buone, ancorché diverse, ragioni. La banca centrale americana aveva avuto l’intuizione, a metà degli anni Novanta, che stesse cambiando il paradigma tecnologico e che ciò avrebbe spostato verso l’alto la traiettoria della produttività del sistema economico; ne

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conseguiva la necessità di adeguare la politica monetaria a uno sviluppo potenziale del prodotto che si annunciava molto più vivace che in passato, dunque di renderla ceteris paribus più accomodante. Questa impostazione, sulle prime coraggiosa e tempestiva, ha avuto il torto di protrarsi troppo a lungo, anche in anni in cui l’impulso del nuovo paradigma tecnologico sulla produttività si andava esaurendo. L’ha alimentata una vera e propria fobia antirecessiva, acuitasi dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001. Una gran massa di denaro liquido si è riversata sull’economia americana e da questa ha tracimato nel resto del mondo. Nel contempo, anche la banca centrale giapponese a un certo punto si è messa a creare moltissima liquidità, allo scopo di tirar fuori l’economia di quel paese dal pantano in cui era finita nel cosiddetto «decennio perduto» degli anni Novanta. Si era determinata una situazione deflazionistica, originata dal crollo dei prezzi degli immobili, irrazionalmente gonfiatisi negli anni precedenti. In una deflazione, i prezzi al consumo addirittura scendono in livello assoluto e ciononostante la gente non spende, intrappolata psicologicamente in una sindrome di incertezza sul futuro, sicché l’economia ristagna o recede. Nel Giappone di quegli anni la situazione era complicata da irrisolti problemi strutturali: le grandi corporations erano in preda agli spasmi di un riordino proprietario e organizzativo promesso a parole ma avversato nei fatti dal vecchio ceto imprenditoriale; le banche tardavano a mettere ordine nei propri conti, nascondendo crediti inesigibili sotto il tappeto. La decisione della Banca del Giappone di reagire creando liquidità è stata presa probabilmente tardi, sicché è occorsa una somministrazione molto ingente. Anche la

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liquidità creata in quel paese ha finito col tracimare fuori dei suoi confini. Le dimensioni delle economie americana e giapponese hanno reso il fenomeno rilevante su scala mondiale. Tutta questa liquidità non ha prodotto l’effetto tradizionale di far accelerare la progressione dei prezzi dei beni di consumo: lo impediva l’irrompere sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo di beni a buon mercato prodotti nei paesi emergenti; lo impediva anche la stessa credibilità di guardiane anti-inflazione acquisita negli anni dalle banche centrali di tutti i paesi avanzati, che ha frenato gli agenti economici impegnati nella produzione di beni e servizi dall’innescare rincorse salari-prezzi-salari, nel timore di improvvise gelate dal lato dei tassi d’interesse. Essa ha vagato per il mondo nella forma di risparmio alla ricerca di impieghi promettenti. Li ha trovati dapprima in borsa, in particolare nelle dotcoms, quella fungaia di nuove società nate sull’entusiasmo della nuova era di Internet. Sembra passato un secolo, ma è appena storia di ieri: si era diffuso il convincimento che bastasse contare alcune migliaia di contatti giornalieri su un sito per poterli considerare come potenziali clienti pronti a comprarsi qualunque cosa venisse loro offerta, sicché si costruiva una scatola societaria con un nome allettante, la si quotava in borsa esibendo il numero di contatti, senza neanche dire quale sarebbe stata di preciso l’attività commerciale da svolgere, e si raccoglievano sottoscrizioni ingentissime, tali da far volare la quotazione. Crollata l’illusione collettiva, si è sgonfiata la bolla. Allora è stata la volta del mattone, il più antico e tradizionale degli investimenti. La quantità di denaro che si è abbattu-

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ta sui mercati immobiliari del mondo è stata tale da inflazionarne rapidamente le quotazioni, negli Stati Uniti in misura davvero eccezionale. Abbiamo visto tutti questa bolla gonfiarsi a dismisura, così evidentemente pronta a scoppiare, così circondata dagli allarmi degli economisti, eppure così ciecamente benedetta dai più sofisticati investitori e analisti finanziari, da governi e parlamenti, che bollavano gli allarmi come sterili piagnistei di cassandre inacidite! Infine è scoppiata anche quella. Ma aveva negli Stati Uniti una coda avvelenata: i mutui cosiddetti subprime, cioè quelli concessi a persone di dubbia solvibilità, che in altri tempi non avrebbero mai neanche osato sperare di acquistare una casa. Il fenomeno veniva sospinto dalla politica populista del governo americano, grazie al ruolo giocato dalle due agenzie pubbliche-ma-fintamente-private (ricordate la vecchia Efim italiana?) Fannie Mae e Freddie Mac, specializzate nella garanzia e riassicurazione dei mutui immobiliari (esse si sono peraltro lasciate indurre a giocare questo ruolo molto volentieri, dati gli enormi profitti che ne scaturivano per gli azionisti privati e per i manager, nel complesso una delle più potenti lobbies operanti presso il Congresso americano, dalla influenza assolutamente bipartisan). Qui è visibile un altro fattore di ordine macroeconomico alla radice della crisi, connesso con quello di cui si diceva prima (cioè l’eccessiva creazione di liquidità a opera delle banche centrali americana e giapponese), ma meritevole di separata menzione: la tolleranza nei confronti del far debiti, anzi, l’istigazione a far debiti che si è affermata nella società americana a partire dalla fine degli anni Ottanta. I due fattori sono connessi perché in una economia in cui il denaro liquido abbonda il costo del debito è basso, e i requisiti di

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reputazione e solvibilità che un debitore deve avere agli occhi di chi gli presta dei soldi tendono ad attenuarsi. Quel che di insolito è successo in America in questi anni è che non solo le imprese, per le quali il debito è funzionale agli investimenti e all’attività corrente, ma la generalità delle famiglie hanno preso a far debiti a rotta di collo, per sostenere un tenore di vita più alto di quanto il loro reddito corrente e atteso giustificasse, in ciò circondate dall’affettuosa benevolenza del governo e della business community, compiaciuti che il loro scialo consentisse al sistema produttivo di non rallentare la sua corsa. Nel loro insieme le famiglie americane, che risparmiavano ogni anno oltre il 10 per cento del loro reddito netto ancora all’inizio degli anni Novanta, nel 2007 non solo non risparmiavano più nulla, ma bruciavano parte del risparmio accumulato per mantenere alti i consumi. Ovviamente se in una economia nazionale tutti si indebitano nei confronti di tutti bisogna che alla fine della catena vi siano dei creditori esteri a sostenere il gioco. Infatti, gli Stati Uniti accumulavano un debito netto crescente nei confronti del resto del mondo, che serviva a finanziare il continuo eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni: in altri termini, il paese intero stava vivendo al di sopra dei propri mezzi. Quando il debito estero americano ha raggiunto, agli inizi di questo decennio, livelli che sarebbero stati giudicati l’anticamera del fallimento per qualunque altro paese del mondo, è nata una discussione, nei circoli accademici, negli organismi internazionali di analisi macroeconomica, sulla sostenibilità a lungo andare di una tale situazione. Numerose sono state le grida d’allarme. Ma ad acquietare le coscienze dei decisori politici valeva infine sempre la con-

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siderazione che il paese egemone del mondo, quello che ha il predominio militare, che batte la moneta di riserva internazionale, in cui prospera il sistema produttivo più possente ed efficiente, che ha la popolazione più giovane fra tutte le economie avanzate, un paese simile sarà sempre e comunque il porto sicuro di qualunque investitore, il paese di cui ci si fida ciecamente, al punto da affidargli il proprio risparmio senza troppo andare per il sottile ad analizzare indicatori di sostenibilità e ratios, roba utile per valutare un investimento in Argentina o in Mongolia, non nella patria dello Zio Sam. Dunque, argomentavano costoro, il debito estero americano può anche crescere de facto indefinitamente. Ad accumulare crediti nei confronti degli Stati Uniti erano (e sono tuttora!) effettivamente in tanti nel mondo. Investono in quel paese (in ogni forma, dall’acquisizione di aziende all’acquisto di titoli finanziari) i soggetti più svariati, aventi in comune il fatto di appartenere a paesi che, al contrario degli Stati Uniti, risparmiavano molto e importavano dall’estero molto meno di quanto esportassero: fondi pensione giapponesi, risparmiatori tedeschi, il governo cinese, quello russo, «fondi sovrani» di paesi produttori di energia, ecc. Insomma, nel mondo si erano formati degli ampi e crescenti «squilibri globali» di ordine macroeconomico: bilance dei pagamenti in continuo deficit negli Stati Uniti, in continuo avanzo in Asia, in Germania, nei paesi produttori di energia e materie prime e in altri paesi emergenti. A un certo punto, nella prima metà del decennio in corso, si è discusso a lungo se la «colpa» di tali squilibri andasse attribuita alle mani bucate dei consumatori americani o alla eccessiva parsimoniosità degli asiatici emergenti. Da par-

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te americana si accusavano i governi dei grandi paesi asiatici, prima fra tutti la Cina, di indurre i propri cittadini a risparmiare in misura abnorme, fino a metà del proprio reddito (un reddito per di più esiguo ancorché rapidamente crescente) negando loro fondamentali provvidenze pubbliche come un buon sistema previdenziale o una buona assistenza sanitaria. Questo risparmio forzoso, necessitato dalla condizione di grande incertezza sul futuro in cui vivono quelle popolazioni, si sarebbe tradotto per il mondo intero in una specie di «indigestione di risparmio» (saving glut) che, ricercando forme d’investimento sicure, avrebbe ingolfato l’economia americana causandovi l’aumento della liquidità (vedi sopra) e dunque ingozzando di credito a buon mercato i consumatori americani, come fossero oche di Strasburgo, così inducendoli al vizio del consumo a debito. L’argomento appare paradossale ma non è privo di una sua logica. È certamente auspicabile che nei paesi emergenti si attuino politiche economiche volte a innalzare il tenore di vita dei cittadini, dando loro quel maggior senso di sicurezza che li induca a risparmiare meno e spendere di più. Questo sarebbe innanzitutto nell’interesse di quegli stessi popoli, secondariamente aiuterebbe ad attenuare gli squilibri globali, sostituendo in parte la domanda di beni di quei consumatori a quella degli esausti consumatori americani. Inoltre, è presumibile che l’acutizzata concorrenza internazionale semini incertezza fra le imprese dei paesi avanzati e limiti gli investimenti produttivi in cui parte di quell’eccesso di risparmio mondiale potrebbe essere impiegato. Tuttavia il ragionamento non si può forzare fino al punto da rovesciare la logica delle cose: sarebbe come

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dare tutta la colpa di un omicidio all’armaiolo che ha venduto la pistola all’omicida. Ma in fin dei conti possiamo dire che la crisi sia dipesa dalla sopraggiunta insostenibilità degli squilibri globali? No, perché non è accaduto che i creditori degli Stati Uniti perdessero fiducia nei loro investimenti americani. L’epicentro del sisma è stato tutto interno agli Stati Uniti. Anzi, in pieno divampare della crisi e ancora nel momento in cui scrivo, nonostante le notizie di perdite ingenti subite su investimenti finanziari americani, sono affluiti e affluiscono in quel paese flussi di risparmio estero ancora più copiosi di prima, spinti dalla solita sindrome del «porto sicuro», con l’effetto paradossale di far apprezzare il dollaro sul mercato dei cambi: il contrario di quanto la logica economica vorrebbe accada quando un paese eccessivamente indebitato deve correggere il suo squilibrio nei conti con l’estero, cioè importare meno ed esportare di più; a questo fine serve una valuta nazionale debole, che faccia guadagnare competitività, non una forte. Ma tant’è. L’INNESCO E LO SVOLGERSI DELLA CRISI

Il guaio che ha fatto precipitare le cose non si è prodotto sul terreno della macroeconomia, ma su quello della struttura finanziaria e della sua regolazione e supervisione. L’aspetto più visibile del guaio è consistito nella incredibile piramide finanziaria che era stata costruita negli Stati Uniti sopra i mutui immobiliari. Da qualche anno le banche e ogni altro soggetto finanziatore avevano preso l’abitudine di trasformare i crediti van-

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tati nei confronti di imprese e famiglie in pezzi di carta da vendere sul mercato a qualcun altro, tipicamente a grossi operatori finanziari, bancari e non bancari, che se ne assumevano in pieno il rischio. Questi pezzi di carta potevano poi passare di mano in mano nel mercato in una giostra senza fine. Questa tecnica («cartolarizzazione») nasceva con le migliori intenzioni di rendere più efficiente il sistema finanziario: l’idea era di distribuire il rischio di credito il più possibile, non lasciandolo tutto concentrato in capo agli «originatori» del credito (cioè a chi aveva originariamente concesso il prestito a una famiglia o a una impresa), ma diffondendolo in piccoli pacchetti nelle mani di una molteplicità di operatori (comunque professionali); in tal modo gli originatori, rivendendo ad altri il credito concesso (guadagnandoci comunque una commissione), avrebbero recuperato risorse finanziarie da utilizzare per concedere ulteriori crediti all’economia. Ottima idea sulla carta, stravolta da una realtà che ha preso la mano degli apprendisti stregoni, facendo esplodere tutto. Nel caso dei mutui subprime, infatti, le «cartelle» in cui essi erano stati convertiti sono state tritate in minuscoli pezzettini da infilare, insieme a un trito di mutui sani, in milioni di salsicce finanziarie rivendute in tutto il mondo, ciascuna con il suo germe tossico nascosto, a famelici compratori, ignari e meno ignari. Questi ultimi potevano fare a loro volta la stessa operazione, ritriturando e ridistribuendo fra altri compratori, a quel punto anche dei semplici risparmiatori, le salsicce finanziarie. Il modello di far banca (detto «origina e distribuisci») che è all’origine delle cartolarizzazioni cambia la natura stessa delle banche e fa quasi venir meno la loro ragion d’essere

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di intermediari che sanno selezionare gli imprenditori meritevoli di credito proprio grazie a una superiore capacità di raccogliere ed elaborare informazioni sulle imprese e sulla loro attività: infatti, se poi il rischio passa di mano, l’incentivo a bene operare quella selezione viene meno, e coloro che si assumono quel rischio sul mercato in particelle omeopatiche non hanno a loro volta incentivo sufficiente a sopportare i costi di un monitoraggio costante della buona salute dei debitori finali. La situazione peggiore di tutte è poi quella in cui una banca «originatrice» vende un suo mutuo cartolarizzato a una sua propria succursale occulta (gentilmente definita «veicolo speciale») facendo finta che si tratti di un soggetto terzo. In tal modo il rischio insito in quel mutuo le resta appiccicato addosso e l’unica differenza è che smette di preoccuparsene, essendo finito in capo a un simulacro giuridico apparentemente diverso da sé. Anche questi veicoli speciali hanno concorso a formare quello che è stato infine battezzato «sistema bancario ombra». La crisi, innescata dall’inevitabile scoppio della «bolla immobiliare» americana, è stata propagata a tutto il mondo attraverso questi canali. Essa ha rapidamente assunto la natura di un collasso della fiducia degli operatori finanziari gli uni negli altri, dovuta a una perdurante scarsità di informazioni di ciascuno su quante salsicce avvelenate si trovassero nei bilanci degli altri. La crisi, date le strettissime interconnessioni fra mercati e intermediari finanziari nel mondo, è rapidamente divenuta mondiale. Una volta esplosa l’epidemia, i mercati finanziari, creditizi, della liquidità si sono paralizzati, per l’incertezza di tutti sulle reali condizioni di salute di tutti gli altri. È come se in una sala cine-

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matografica si facesse improvvisamente buio pesto: per timore di incespicare o sbattere contro il vicino gli spettatori se ne resterebbero tutti inchiodati alle loro sedie, almeno per un bel po’. Se poi qualcuno gridasse «al fuoco», il panico e la fuga cieca in mezzo alla calca ne ucciderebbero parecchi, e il fuoco magari neanche c’era. Torna da qualche tempo a essere citato, dopo decenni in cui era rimasto confinato nei manuali universitari, l’economista americano Frank Knight che per primo introdusse, quasi novant’anni fa, la distinzione fra i concetti di rischio e incertezza: il rischio riguarda eventi che si conoscono, di cui non si sa se e quando si verificheranno, ma di cui si può stimare la probabilità in modo da conformarvi la propria azione; l’incertezza è cieca, riguarda eventi a volte neanche concepibili, genera paralisi. Immaginiamo un tavolo da poker con quattro giocatori. Essi fronteggiano normalmente una serie di rischi che si sforzano di quantificare probabilisticamente per orientare la propria condotta di gioco. Se ciascuno dei giocatori a un certo punto sospetta che in mezzo a loro ci sia un baro, ma non sa chi possa essere, egli modificherà il proprio atteggiamento nei confronti di tutti e tre gli altri, riducendo via via il denaro che è disposto a mettere in gioco, perché un baro potrebbe letteralmente ridurlo in mutande. Se il sospetto è comune e simultaneo, ma nessuno di loro è effettivamente un baro, molto rapidamente accadrà che tutti e quattro si alzeranno come un sol uomo dal tavolo rinunciando a giocare. Ciascuno di loro avrà compiuto una scelta razionale, perché finire rovinati è un evento talmente catastrofico che va evitato a tutti i costi; basta che sia ritenuto, anche se non probabile, almeno possibile. In teoria dei giochi si chiama strategia del minimax. Ma ciò

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che è razionale a livello soggettivo è irrazionale e dannoso a livello di sistema. L’intera «collettività» dei giocatori ha rinunciato al piacere del gioco e ciascuno di loro alla possibilità di una vincita e tutto per un sospetto infondato. Alcune grandi banche, negli Stati Uniti e anche in Europa, hanno subito gravi perdite, in qualche caso fino a dover essere salvate con denaro pubblico, o comprate da un concorrente a prezzi stracciati o dichiarate fallite. Il fallimento della banca d’investimento americana Lehman Brothers, nel settembre del 2008, ha impresso una svolta rovinosa agli eventi, portando al parossismo incertezze e timori. Il rischio era, ed è, che la paralisi dei rapporti reciproci fra banche si estenda al resto del loro bilancio. Allorché questo accade a soffrirne sono le imprese produttive, che vedono inaridirsi le fonti di credito. Il credito per un sistema economico è come l’olio per un motore: se viene a mancare, anche il motore più potente s’ingrippa. È innanzitutto per questa via che le economie reali subiscono l’impatto della crisi. L’attivismo delle banche centrali, che si sono sostanzialmente sostituite al mercato interbancario, ha evitato che questo canale di trasmissione della crisi alle economie reali divenisse una valanga. Nel momento in cui queste note vengono scritte si stanno valutando gli effetti di stabilizzazione dei mercati e delle economie di una serie impressionante di misure prese da quasi tutti i paesi avanzati e si discute di ulteriori interventi, ancora più incisivi. Si intrecciano due piani: innanzitutto, come uscire dall’emergenza; poi, come rifondare il sistema delle regole e dei controlli sul sistema finanziario a livello nazionale e internazionale. Fino all’autunno del 2008 l’emergenza aveva l’aspetto di un blocco di quel particolare

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mercato in cui le banche si approvvigionano di fondi «all’ingrosso», cioè da altre banche o da investitori professionali e istituzionali. Quel mercato si era paralizzato, come accennavo prima, per il diffondersi dell’incertezza reciproca sulla liquidità e solvibilità dei partecipanti, in una situazione in cui tutti preferivano comunque tenersi stretto il denaro liquido posseduto per fronteggiare ignote catastrofi future, piuttosto che prestarlo ad altri, anche a condizioni vantaggiose. Dopo il fallimento Lehman Brothers l’emergenza ha preso i caratteri di timori sulla sopravvivenza stessa di numerose grandi banche internazionali e poi di un trasmettersi dell’incertezza e della sfiducia all’economia reale, con una caduta verticale della produzione e degli investimenti. Il consenso sul fatto che tocchi ai governi salvare col denaro dei contribuenti le banche più cariche di «attività tossiche» (le salsicce finanziarie di cui parlavo) è unanime, non c’è purtroppo alternativa per sbloccare la paralisi. Su come farlo si fronteggiano due scuole di pensiero, soprattutto negli Stati Uniti dove il problema è più acuto: il modo diretto è acquistare direttamente le attività più tossiche, per ripulire i bilanci delle banche e renderle di nuovo meritevoli di fiducia; il modo indiretto è immettere denaro pubblico nel capitale delle banche per consentire loro di assorbire le perdite sulle attività tossiche una volta acclarate. Vi sono naturalmente vantaggi e svantaggi in ciascuno dei due modi. Il primo costringe a trovare un prezzo ad attività per le quali un mercato ha cessato di esistere, perché nessuno sa valutare che cosa ci sia dentro le salsicce: potrebbero valere 100 o zero, probabilmente valgono 70, ma nell’incertezza nessuno le vuole e dunque ufficialmente valgono zero; se il governo le paga 100 fa un regalo immeritato alla banca e i con-

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tribuenti non possono tollerarlo; se le paga 50 o 30 fa emergere nella banca una perdita ingiusta e insostenibile e non risolve il problema del salvataggio. Per due volte il governo americano ha tentato questa strada: nel 2008 col primo piano Paulson (dal nome del ministro del Tesoro del tempo), ma il tentativo è presto naufragato per l’incapacità tecnica di trovare i prezzi giusti; ora ci riprova il successore di Paulson, Geithner, con un diverso espediente tecnico, la cui efficacia sarà da valutare nel corso del 2009. La seconda modalità d’intervento pubblico nelle banche (entrare nel capitale) si presta a due obiezioni fondamentali. La prima è: se è vero che l’incertezza diffusa nei mercati è di tipo knightiano, allora non c’è capitale che tenga (Caballero). In una banca il capitale proprio, o patrimonio che dir si voglia, ha (tra l’altro) la funzione di cuscinetto finanziario per assorbire eventuali perdite sulle attività, tipicamente costituite da prestiti o comunque da impieghi rischiosi; serve quindi a tranquillizzare i depositanti e tutti coloro che affidano fondi a quella banca che anche in caso di perdite essi potranno riavere indietro i loro soldi. Le norme internazionali (dette di Basilea 2) impongono per questo alle banche dei requisiti minimi di capitale proporzionati alla rischiosità dei loro attivi, dell’ordine del 68 per cento. Ma se domina l’incertezza knightiana sulle sorti di ampie porzioni dell’attivo di una banca, al limite dell’intero attivo, perché non si sa più che cosa vi si nasconda, allora il capitale proprio dovrebbe raggiungere quote pazzesche dell’attivo, al limite del 100 per cento. E altrettanto dovrebbe essere l’impegno di soldi pubblici. La seconda obiezione è che l’intervento dello Stato nel capitale di una banca, ancorché dichiaratamente temporaneo,

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fa comunque temere alla opinione pubblica una vera e propria nazionalizzazione. Soprattutto negli Stati Uniti un timore del genere mina alla radice il carattere fondativo dell’economia, basato sulla dominanza degli agenti privati in libera competizione fra loro, e può inibire gli spiriti imprenditoriali, facendo alla lunga più danni di quanti ne ripari nel breve periodo. Qualunque sia l’approccio prescelto, e dovranno necessariamente essere seguiti entrambi, è essenziale che l’operatore pubblico si ponga esplicitamente il problema di allineare gli incentivi dei soggetti privati coinvolti all’obiettivo comune, altrimenti qualunque intervento è destinato a fallire, come è fallito il primo piano Paulson (Rossi). La rarefazione del credito alle imprese produttive, causata dalle difficoltà dei sistemi bancari, è un canale importante attraverso cui le economie reali risentono della crisi. Non è l’unico. Se i prezzi delle case e quelli delle azioni cadono molto, i consumatori che possiedono le une o le altre si spaventano e si mettono a risparmiare di più, consumando di meno, deprimendo la domanda e la produzione. A loro volta le imprese, che fanno piani d’investimento prevedendo la domanda futura dei loro prodotti, se percepiscono che questa sta indebolendosi, all’estero e all’interno, ridimensionano o bloccano i programmi di espansione. In complesso, la crescita dell’economia rallenta o s’inverte, con detrimento per l’occupazione e per i salari, retroagendo sulle stesse condizioni del sistema finanziario. Questo è il tipo di spirale che si sta cercando di evitare si metta in moto, o almeno che si prolunghi per troppo tempo, soprattutto nei paesi avanzati. Occorrono nervi saldi e

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consapevolezza della ampiezza e ricchezza delle risorse reali di cui i nostri paesi dispongono. UNA MANCANZA DELLO STATO

Chi ha mancato in questa vicenda, lo Stato o il Mercato? Lo Stato, non c’è dubbio. In virtù di un paradosso. Un risultato secolare, solido e netto, del pensiero economico è che, il Mercato, o è «regolato» o non è. Se lo Stato pratica un laissez faire assoluto, il libero mercato concorrenziale non dura a lungo, finisce con l’essere soffocato dalla naturale tendenza dei soggetti che vi operano ad attenuare la concorrenza o a collocarlo su traiettorie esplosive. È una legge di natura, una sorta di entropia. Il mercato concorrenziale è il regime ottimo dal punto di vista dei «compratori», cioè della collettività, perché mantiene i prezzi al livello più basso possibile; ma, per la stessa ragione, è quello pessimo dal punto di vista dei «venditori», che sono una minoranza nella società, ma agguerrita, e vi si oppongono in ogni modo. Esso è una condizione-limite, a cui si può tentare di avvicinarsi, per restarvi nei pressi, a prezzo di sforzi costanti e indefessi da parte di chi ha responsabilità pubbliche. Occorrono regole esaustive e precise, regolatori e supervisori occhiuti, attenti, non catturabili dagli interessi dei «venditori». Si può discutere di efficienza, si può pretendere che l’onere inevitabilmente posto a carico delle imprese a causa dell’apparato di regole e controlli sia il più possibile non distorsivo, lieve e non burocratico, ma le cose stanno in quel modo. Questa è peraltro l’essenza di quella che io ritengo essere la parte più avanzata del pensiero liberale, che è sempre stata

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contraria a far discendere dai grandi principi di libertà una «religione liberistica» nelle cose economiche (Gigliobianco). Scriveva Einaudi quasi ottanta anni fa: Dalla frequenza dei casi in cui gli economisti, per ragioni contingenti, inclinano a raccomandare soluzioni liberistiche dei singoli problemi concreti, è sorto un terzo significato, che io direi religioso, della massima liberistica. Liberisti sarebbero in questa accezione coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale... Tutta la storia posteriore della dottrina sta a dimostrare che la scienza economica, come dianzi si chiarì, non ha nulla a che fare con la concezione religiosa del liberismo.

Codesta concezione religiosa che Einaudi così severamente stigmatizzava è risorta nella seconda metà del Novecento in conseguenza di un dibattito ampio e serrato sui fondamenti dell’economia pubblica. La teoria standard della regolazione come basilare interesse pubblico (un lascito degli economisti che hanno lavorato fra il 1930 e il 1960) era basata su due assunzioni: che i mercati lasciati a se stessi spesso «falliscono», per problemi di monopolio o di esternalità; che i governi sono in generale animati da buone intenzioni e sono capaci di correggere i fallimenti del mercato attraverso la regolazione. A partire dagli anni Sessanta questi assunti hanno preso a essere criticati in misura ampia e crescente, e al loro posto sono stati sostenuti i seguenti tre: 1) i mercati stessi, o al più l’esercizio di potestà regolatorie da parte di privati a ciò incaricati dall’autorità pubblica, possono porre riparo a quasi tutti i fallimenti del mercato, senza bisogno alcuno di intervento pubblico; 2) nei pochissimi casi in cui i mercati

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non funzionano correttamente, bastano i tribunali civili a risolvere le controversie che ne discendono; 3) se anche dovesse accadere che né mercati né tribunali civili riescono a risolvere il problema, non ci riuscirà certamente l’autorità pubblica, che è di necessità incompetente, corrotta e «catturata» dagli interessi che dovrebbe dirimere, sicché essa può solo far peggio. Queste critiche vengono normalmente associate alla Scuola di Diritto ed Economia di Chicago e ai nomi di Coase, Stigler, Posner e altri. Questa posizione, se accettata nella sua interezza e portata alle estreme conseguenze, indurrebbe a bandire l’intervento regolatorio pubblico in ogni circostanza. Le correnti di pensiero che la sostengono sono indubbiamente fra i punti più alti del pensiero economico del Novecento. Ma negli ultimi venti anni, soprattutto nel mondo anglosassone, si è costruita su quelle premesse una vera e propria religione, nel senso di Einaudi. Oggi sul banco degli imputati stanno alcune delle politiche nate da quella religione. In effetti, quell’impianto dottrinario aveva già iniziato a essere a sua volta criticato sia sotto il profilo teorico sia sotto quello empirico. Sul piano empirico, in particolare, si era notato il contrasto stridente fra i suoi precetti e la realtà di un mondo molto più ricco e al tempo stesso molto più regolato di cent’anni fa (Shleifer). La crisi finanziaria globale iniziata nel 2007 fa volgere l’evidenza empirica decisamente a suo sfavore. L’apparato di regolazione e supervisione dei mercati e degli intermediari finanziari negli Stati Uniti è stato reso debole e imbelle da scelte politiche precise e consapevoli, figlie degeneri della temperie intellettuale alimentata dalla Scuola di Chicago. Esso è frammentato in una molteplicità

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di enti (una sessantina, fra statali e federali), difficilmente coordinabili, ciascuno dei quali è posto in grado di vedere solo tasselli del puzzle, e a cui comunque sfugge la maggior parte del sistema finanziario, che viveva (e in gran parte ancora vive) in condizioni di autoregolamentazione totale. Il problema fondamentale dunque stava e sta nelle regole e nella loro efficace applicazione. Le polemiche odierne fra sostenitori e avversari del libero mercato e del libero scambio sono spesso prive di una vera materia del contendere, operano anzi un vero rovesciamento delle parti. La religione liberistica che vede, o finge di vedere, nell’intervento pubblico sempre e comunque una indebita compressione della libertà d’impresa si configura come una forma diabolica di statalismo: lo Stato, alleandosi con interessi privati, toglie al mercato concorrenziale l’aria per respirare (regole e controlli) per soffocarlo e promuovere il benessere di una casta di pochi privilegiati a detrimento di quello della collettività. La crisi globale di questi mesi è nata nel mondo finanziario, politico, culturale americano, ed è figlia di una mancanza dello Stato: lo Stato ha mancato per inazione, non per eccesso di azione; per non aver voluto vedere e contrastare una sequenza di evidenti fallimenti del Mercato. GLOBALIZZAZIONE E CRISI

Quante e quali colpe dobbiamo dare alla globalizzazione nell’analizzare le cause profonde della crisi? La interconnessione su scala globale rivelata dalla crisi fra soggetti, intermediari, strumenti, regolatori e regole è enormemente

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complessa e intricata. Colpisce l’aspetto mondiale immediatamente assunto da una faccenda originariamente locale. L’esistenza di un mercato finanziario globale, unita alla fantasia degli ingegneri finanziari (uso la parola ingegneri non a caso, molti addetti alla finanza creativa lo sono, o matematici o fisici teorici), rende ormai quasi banale il vecchio detto paradossale secondo cui quando l’America prende il raffreddore, l’Europa starnutisce. Questa era una polmonite, però! Ora, di fronte a eventi di questo tipo – prima il prezzo della benzina raddoppia, poi mi ritrovo in portafoglio un titolo tossico senza saperlo, poi ancora la mia banca mi fa storie ad aumentarmi il credito perché a sua volta non riesce più ad approvvigionarsi di liquidità su un mercato globale paralizzato dalla sfiducia reciproca – come reagisce un cittadino americano, inglese, tedesco, italiano? Spesso, maledicendo la globalizzazione. Il problema è serio e concreto, ma il bersaglio è troppo generico per essere utile. Per orientarci meglio, dobbiamo riandare a un concetto di fondo. La globalizzazione consiste in un complesso di fenomeni eterogenei, che coinvolgono l’economia «reale» (merci e servizi prodotti e scambiati), quella finanziaria, le persone fisiche, le loro idee e conoscenze, tutti accomunati da una caratteristica: l’accentuata mobilità, anche attraverso le frontiere, consentita dalla rivoluzione telematica e dalla scia di innovazioni tecnologiche che l’accompagna. È la tecnologia il primum movens, anche se le politiche di liberalizzazione commerciale e finanziaria attuate in molti paesi negli anni Novanta hanno favorito il processo. Cercare di fermare o far tornare indietro l’innovazione tecnologica è vano e controproducen-

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te, come l’atteggiamento di quelle comunità passatiste americane che si rinchiudono in una valle isolata per vivere in un mondo di candele, cavalli e donne sottomesse. Il problema fondamentale sta, lo abbiamo visto prima, nelle regole: nazionali e internazionali. Sul piano internazionale, l’assenza di un governo mondiale dotato di poteri autoritativi fa sì che si debba procedere per consenso volontario di tutti i paesi coinvolti. Per gli scambi commerciali, dal dopoguerra a oggi le regole sono state quelle stabilite per via negoziale da tutti i paesi aderenti alla Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Per la finanza, non c’era nulla che assomigliasse al Wto: c’erano una serie di sedi di cooperazione internazionale a vari livelli, fra cui spiccava, per il ruolo assegnatogli dalla comunità dei paesi avanzati allo scoppio della crisi, il Foro per la stabilità finanziaria, che riunisce i regolatori e supervisori di tutti i principali paesi attivi sul fronte finanziario, esteso nell’aprile del 2009 a 21 paesi (inclusi tutti i principali emergenti) e ribattezzato Consiglio per la stabilità finanziaria. Sia per il commercio sia per la finanza internazionali il gioco cooperativo è però complesso e fragile, la tentazione di far prevalere interessi nazionali o corporativi di corto respiro è forte, estenuanti le mediazioni, a volte stenti o nulli i risultati. Questo è un problema di ingegneria istituzionale su scala mondiale, alla cui soluzione sono ora volte molte intelligenze ed energie. Sfasciare tutto e rinchiudersi nei propri orticelli farebbe arretrare ognuno lungo la scala evolutiva dei sistemi economici. Questa crisi deve indurre a seri ripensamenti strategici sia i soggetti privati che operano sui mercati, sia gli enti pubblici di regolazione e supervisione, a livello nazionale e inter-

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nazionale. Dalla crisi deve venir fuori un sistema globale in cui gli intermediari mettano in gioco più soldi propri (più capitale proprio) e prendano meno rischi, occupandosene comunque in presa diretta; che ubbidiscano a regole precise e incisive e siano, tutti, nessuno escluso, sottoposti a una vigilanza organica, il più possibile coordinata a livello internazionale. Un sistema affrancato dalle «religioni liberistiche», ma che resti inscritto nel mondo moderno, non precipitato indietro in tecnologie superate o imbrigliato permanentemente in anacronistiche guaine da socialismo reale. La finanza va posta al riparo da chi ne stravolge senso e missione, che sia per avidità, per insipienza, per spirito corporativo, per cecità ideologica. Quello che le vicende drammatiche della crisi ci insegnano è l’importanza di una buona analisi, di buone regole, della loro efficace applicazione, perché l’esercizio della libertà nell’agire economico, insostituibile motore di benessere, sia pieno e fruttuoso. In sintesi, l’importanza dell’esercizio della ragione. Che diviene enormemente scomoda e impopolare quando soffiano venti di bufera e si cercano rifugi da abitare e colpevoli da additare.

L’ECONOMIA ITALIANA: PREPARARSI AL DOPO-CRISI

capitolo terzo

LE IMPRESE

L’ipotesi di un declino storico dell’Italia a cui si è fatto cenno nel capitolo introduttivo, un declino che avrebbe iniziato a manifestarsi alla fine del secolo scorso, era stata formulata nei primi anni di questo decennio osservando il repentino e persistente peggioramento di alcuni indicatori economici chiave, a cominciare dal tasso di variazione del prodotto nazionale (Faini; Rossi; Visco). L’ipotesi aveva preso corpo notando in particolare la drammatica caduta delle quote di mercato delle nostre esportazioni misurate in quantità (cioè prescindendo dalle variazioni dei prezzi); una caduta molto più pronunciata di quella registrata da altri paesi con i quali normalmente ci confrontiamo, come la Germania e la Francia. Il ragionamento era il seguente. La globalizzazione ha fatto affacciare alla ribalta del mondo nuovi grandi protagonisti – la Cina, l’India, il Brasile fra gli altri – le cui produzioni ci invadono grazie alla loro straordinaria economicità. Fatto 100 il totale delle esportazioni che s’incrociano sul pianeta, quelle dei paesi emergenti, conquistando spazi nel mercato globale, ne giungono a rappresentare una quota percentuale cospicua e crescente (il 40 per cento nel 2008), a scapito

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L’economia italiana: prepararsi al dopo-crisi

di quella degli esportatori tradizionali – l’Europa, il Giappone, gli Stati Uniti. Fin qui ancora nulla di veramente allarmante per questi ultimi, perché la torta nel frattempo s’ingrandisce e per i paesi di antico lignaggio a una quota percentuale calante dei flussi commerciali internazionali può ben corrispondere un volume assoluto crescente di esportazioni, che non farebbero pertanto mancare il loro apporto alla crescita economica complessiva di quei paesi. Ma in questo far spazio ai nuovi venuti c’è grado e grado. La caduta della quota di mercato dei prodotti italiani è apparsa subito precipitosa, segnalando che non stavamo perdendo spazi solo a favore degli emergenti, ma anche dei nostri tradizionali concorrenti. Tant’è che la quantità di prodotti che riuscivamo a esportare non aumentava più, a dispetto della storia della torta che s’ingrandisce per tutti. Per tutti ma non per noi! Ed era immediato collegare questa improvvisa difficoltà della nostra capacità competitiva sui mercati internazionali con il fenomeno più generale e preoccupante del rallentamento della crescita della produzione nazionale: questo appariva dovuto, appunto, essenzialmente al mancato aumento della domanda di nostri prodotti proveniente dall’estero, mentre la domanda espressa dai consumatori italiani seguitava a espandersi, seppur moderatamente. Insomma, un problema di crescita per l’intera economia causato da un problema di competitività internazionale. A sua volta causato da che? L’imputato più ovvio non poteva che essere la globalizzazione. La reazione di molti osservatori agli eventi descritti, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio del Duemila, allorché il dibattito sul presunto declino italiano prese piede, fu appunto quella di puntare il dito sulla no-

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stra specializzazione produttiva, incentrata in beni facilmente riproducibili anche da una manodopera vergine di abilità industriali come quella di molti paesi emergenti. L’avvento del mercato globale e dei nuovi protagonisti del commercio internazionale ci aveva sorpresi mentre eravamo ancora imprigionati – questa era la spiegazione prospettata – in una condizione arretrata dal punto di vista della divisione internazionale del lavoro (un primo esempio di «controtempo»). Eravamo come la retroguardia del plotone di testa in una gara ciclistica: a un certo punto se gli inseguitori accelerano si finisce risucchiati e si rischia addirittura di finire in fondo al gruppone. Chi ha letto lo straordinario libro intitolato Gomorra, o ha visto l’altrettanto straordinario film che ne è stato tratto, non potrà non rammentare l’episodio di Pasquale il sarto. Vi si racconta la storia di un artigiano di abilità e sapienza rare. Nella Campania Infelix dei giorni nostri egli sbarca il lunario svendendo il suo talento a spregiudicate grandi griffe del Nord, con la intermediazione di camorristi. Modella, taglia, gestisce un laboratorio «nero» di cucitrici locali. Realizzano abiti di grande pregio, di quelli destinati a essere venduti per migliaia di euro nelle boutique metropolitane, ricevendone una misera mercede da «cinesi». Un giorno Pasquale cade nella tentazione di accettare del denaro, molto denaro, in cambio di un compito ancora più sotterraneo e rischioso: istruire nell’arte del cucito di alta sartoria un esercito di immigrati cinesi, cinesi veri!, ammucchiati in un capannone clandestino nel napoletano. La camorra, che gestisce la intermediazione fra le grandi case e i laboratori locali, non sarebbe contenta se lo venisse a sapere, sui cinesi non riesce a estendere la sua giurisdizione, vedrebbe messa

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a repentaglio una organizzazione lucrosissima e reagirebbe violentemente, dunque l’operazione viene preparata con grandi cautele. Il sarto inizia il suo magistero. Qui il film si fa più esplicito del libro. Sulle prime Pasquale è timoroso, scettico. Man mano si fa conquistare da questa gente, dalla loro straordinaria laboriosità, dalla precisione, dall’abnegazione, dall’intelligenza e dalla sensibilità con cui apprendono rapidamente le sue lezioni e con cui assorbono lo spirito stesso della sua arte... Non andrò oltre nel racconto, per chi dovesse ancora affrontare (è la parola giusta, vista la durezza documentaria di entrambi) libro e film, di cui d’altronde non potrei mai neanche lontanamente replicare la forza narrativa. Ma il riassunto che ne ho fatto fin qui basta a mettere in luce il problema italiano così come veniva denunciato all’inizio del decennio: la vulnerabilità delle nostre produzioni manifatturiere «tradizionali» alla concorrenza di un numero sterminato di lavoratori dei paesi emergenti, pronti, nei loro stessi paesi o addirittura qui da noi, ad acquisire l’abilità necessaria e a dispiegarla per una frazione minuscola del compenso normalmente richiesto da un lavoratore italiano (o tedesco o francese). E si consideri che nel racconto viene presentato un caso-limite, quello dell’alta moda. Per questo il brano è istruttivo, perché fa vedere con disarmante nettezza come il cuore stesso dell’eccellenza italiana, la crema del made in Italy, sia difeso dalla concorrenza estera da uno scudo fragilissimo, quello di un’abilità artigianale che decine di milioni di cinesi e indiani sono pronti, con la guida giusta, ad acquisire in poco tempo. Figuriamoci quanto è vulnerabile la produzione di scarpe di tela o di canottiere di cotone!

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Ciononostante, è limitativo ridurre il problema di crescita e di competitività italiana a un fatto di specializzazione produttiva troppo orientata verso settori che sono fatalmente soccombenti. Va bene additare lo straordinario dinamismo, anche l’aggressività, dei paesi emergenti nel prendersi il loro posto al sole come segno della fine di un’era nella divisione internazionale del lavoro, ma l’interrogativo su quali fossero le cause del collasso delle quote di mercato delle esportazioni italiane richiede una risposta più articolata. LE IMPRESE SUL MERCATO

Per trovare quella risposta, un buon inizio è analizzare il più comune indicatore statistico di competitività, quello che si ottiene confrontando i costi del lavoro per unità di prodotto in Italia e nella media dei suoi concorrenti, esprimendoli tutti in una stessa unità monetaria. Questo indicatore combina tre fattori: le dinamiche salariali relative, quelle della produttività (perché il costo che vi si considera non è quello del singolo lavoratore ma quello della singola unità di prodotto che egli realizza), quelle dei tassi di cambio. Già nei primi anni del Duemila esso offriva una evidenza netta: il costo unitario del lavoro stava crescendo in Italia molto di più che negli altri paesi, e non già perché i salari stessero aumentando in misura spropositata (al netto delle perdite di potere d’acquisto erano anzi quasi fermi); solo perché la produttività aveva smesso di progredire da noi, mentre saliva parecchio altrove. Ma se il problema italiano stava nella stagnazione o nel regresso della produttività e si voleva proprio trovare un col-

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pevole fuori d’Italia, nel contesto mondiale, allora non era la globalizzazione che andava evocata, ma l’altro mutamento epocale che ha interessato il mondo in questa nostra era, il cambio di paradigma tecnologico. Nel 2004 avviammo in Banca d’Italia una ricerca empirica sul sistema industriale italiano, basata su una indagine campionaria e sullo studio di una serie abbastanza numerosa di casi aziendali, con lo scopo di investigare sul campo le cause profonde del problema. La prima tornata di quella indagine produsse risultati molto interessanti, che riassunsi in un volumetto intitolato, con riferimento al gioco degli scacchi, La regina e il cavallo. La situazione che emergeva era quella di uno sgranarsi del novero delle imprese industriali in almeno quattro gruppi, distinguibili secondo l’atteggiamento imprenditoriale nei confronti del tema tecnologico; tema declinato con riferimento sia alle caratteristiche del prodotto tipico dell’impresa sia all’uso della telematica nella organizzazione aziendale. La tassonomia che ne risultava non coincideva con quella riferibile ai settori produttivi: potevano trovarsi in uno stesso gruppo aziende appartenenti a settori anche molto diversi. In questo stava una novità rispetto alle analisi a quel tempo correnti. Nel primo gruppo si situavano imprese «regine», che avevano già compiuto la transizione a una gestione organizzativa integrata su base telematica, ricavandone importanti guadagni di produttività o essendo sul punto di conseguirli; anche grazie a questo nuovo assetto esse erano in grado di proporre al mercato prodotti dal contenuto tecnologico e di conoscenza scientifica alto e continuamente rinnovato. Nel secondo gruppo si collocavano i «cavalli». Era forse questo il gruppo più interessante, perché indicativo di un

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dinamismo del sistema, di una possibile via d’uscita dal problema competitivo. Si trattava di imprese che si mostravano capaci di compiere una specie di «salto con scarto laterale», come fa il cavallo degli scacchi, arricchendo il proprio prodotto tipico con contenuti innovativi sul piano tecnologico che li facevano sconfinare in un settore adiacente; ma per mettersi in grado di ripetere periodicamente il salto, senza di che ricadrebbero subito nella condizione di svantaggio competitivo di partenza, esse capivano di doversi digitalizzare e lo stavano facendo o pianificavano di farlo. Nel terzo gruppo, le «torri», si annoveravano quelle imprese che pensavano di potersi difendere dai nuovi e agguerriti concorrenti internazionali senza combattere sul terreno della tecnologia, ma rifugiandosi (arroccandosi, come fa la torre degli scacchi) nella forza del marchio. Disporre di un marchio largamente reputato e riconosciuto rappresenta naturalmente un formidabile atout per una impresa, soprattutto nei mercati dei beni di consumo, ma alla lunga è una difesa competitiva fragile se ci si limita a essa. Pensare di estrarre una rendita perenne dal fatto di avere colpito nunc et semper la fantasia dei consumatori solo con un nome, un’etichetta, continuando a offrire loro sempre lo stesso semplice prodotto, magari anche fatto benissimo ma a prezzi più alti di quelli dei concorrenti, è un gioco che non dura all’infinito. Si può essere di grande successo oggi, ma il futuro è quanto meno incerto se non ci si attrezza anche tecnologicamente. Infine, nel quarto gruppo si raccoglievano quelle imprese che «cambiavano scacchiera»: rovesciavano il tavolo di gioco e se ne andavano a giocare da un’altra parte. Erano i delocalizzatori «difensivi», imprese che giudicavano invinci-

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bile la concorrenza dei paesi a basso o bassissimo costo del lavoro, che non credevano di potersi giocare la partita con la tecnologia, che non credevano neanche di poter confidare su un proprio marchio. Si arrendevano e, per sopravvivere come impresa, spostavano la produzione in quegli stessi paesi da cui veniva loro la concorrenza più accesa o in qualche remota contrada dell’Est europeo ex-comunista (Albania e Romania, ma anche posti improbabili come l’Uzbekistan). In complesso, veniva fuori da quella ricerca l’idea che la globalizzazione fosse, non già la causa del problema competitivo italiano, ma il reagente chimico che lo rivelava. La causa stava nel fatto che la rivoluzione telematica stentava a essere riconosciuta e abbracciata dalle imprese italiane; quella stessa rivoluzione che stava invece spingendo la modernizzazione e il progresso di efficienza di altri sistemi produttivi nazionali, negli Stati Uniti ma anche in Europa (un secondo esempio di «controtempo»). A ritardare un’adozione convinta, diffusa e profonda delle nuove tecnologie e delle loro implicazioni organizzative nel nostro sistema stava innanzitutto una caratteristica peculiare della struttura produttiva italiana: il nanismo cronico delle imprese. Aggiungo «cronico» non a caso, perché è quello il cuore del problema. Se scattassimo una foto che riprenda oggi il nostro sistema produttivo, vedremmo una dimensione media d’impresa decisamente più piccola di quella che si osserva in altri sistemi produttivi, e questo è fenomeno noto. Ma se la confrontassimo con una foto di vent’anni fa, noteremmo pochi cambiamenti. Se girassimo un film, ne verrebbe fuori uno di quei lungometraggi a fotogramma quasi fisso che erano l’incubo dei cineclub della

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mia adolescenza. La struttura dimensionale del sistema italiano appare quasi immobile: la maggior parte delle imprese, giunta a una certa soglia dimensionale, blocca la sua crescita. Spesso, non lo fa per cause esterne, ad esempio per la forza dei concorrenti, ma per scelta: per restarsene nascosta agli occhi di un ambiente (fiscale, sindacale) percepito come ostile; oppure, ed è il caso più interessante e allarmante, per non mettere a repentaglio il controllo familiare dell’azienda. Una dimensione piccola e bloccata è d’ostacolo all’adozione di tecnologie avanzate, sia nella organizzazione d’impresa sia nel prodotto, per ragioni del tutto intuitive: tecnologie il cui scopo fondamentale è razionalizzare i flussi informativi (ricordate l’acciaieria del primo capitolo?) sono bene accolte e dispiegano tutto il loro potenziale di stimolo della produttività tanto più, quanto più l’organismo che le incorpora è grande e complesso. Al di sotto di una certa soglia di dimensione e di complessità, il beneficio che un’azienda può ricavare dalla digitalizzazione rischia di essere inferiore ai suoi costi, che sono alti. Lo stesso vale per il contenuto tecnologico del prodotto. Per attrezzarsi a spostare progressivamente la gamma dei prodotti aziendali verso configurazioni a maggior contenuto innovativo occorre dotarsi di una capacità interna di ricerca e sviluppo, assumere ingegneri e tecnologi, disporre di laboratori, di contatti non subordinati con centri di ricerca esterni: tutti costi fissi difficili da sopportare se non si è grandi abbastanza. Dalla indagine della Banca d’Italia, in particolare dagli studi di casi aziendali, era saltata fuori più di una storia di imprese, anche di media dimensione, che dopo avere a lungo ponderato se digitalizzarsi o no si erano fatte spaventare dai

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costi e dai disagi iniziali, con ciò rinunciando a collocarsi su una traiettoria di produttività crescente. A motivarne la rinuncia stava anche l’intimo convincimento di avere raggiunto una dimensione non superabile, pena l’imbarcarsi in operazioni finanziarie che avrebbero destabilizzato la proprietà, e quindi di non doversi attendere di lì a poco aumenti di complessità tali da rendere inevitabile l’adozione su vasta scala delle nuove tecnologie; se ne poteva fare a meno, almeno per il futuro prevedibile. Il fatto, innegabile, che la specializzazione produttiva dell’industria italiana apparisse anormalmente spostata, rispetto ad altri paesi a noi comparabili, verso comparti tradizionali, dalle lavorazioni semplici, dall’intensità tecnologica bassa, appariva essere in larga misura una conseguenza delle scelte dimensionali delle imprese. Molte piccole e medie imprese italiane sono nate negli anni Sessanta e Settanta per gemmazione da imprese preesistenti, operanti nei settori tradizionali tipici della originaria industrializzazione italiana (tessile, abbigliamento, mobilio, meccanica leggera, ecc.) grazie allo spirito d’iniziativa di dipendenti che si mettevano in proprio. A un certo punto alcune di quelle imprese avrebbero potuto fare la «mossa del cavallo» e iniziare ad ascendere, un gradino alla volta, nella scala dei settori, verso produzioni meno tradizionali. Non lo avevano fatto perché questo avrebbe implicato un salto dimensionale, giudicato pericoloso per le ragioni prima dette. E così si chiudeva il cerchio con le analisi incentrate sulla specializzazione. Tuttavia, la non sporadica presenza di «regine» e «cavalli» certificata dalla nostra ricerca autorizzava a respingere il certificato di morte del sistema produttivo italiano, dunque l’ipotesi del declino storico irreversibile della nostra econo-

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mia. Certo, la situazione non si presentava allegra. Le statistiche sulla performance complessiva del sistema, soprattutto in termini di esportazioni, quote di mercato e produttività, continuavano a mostrare andamenti insoddisfacenti, soprattutto nel confronto con gli altri grandi paesi europei. Ma al di sotto di questa realtà apparentemente uniforme si agitava un fermento, una gran diversità di reazioni e risultati da impresa a impresa. Approfondimenti analitici ed empirici sul nesso fra concorrenza dei paesi emergenti e performance delle nostre imprese confermavano questa eterogeneità (Bugamelli, Rosolia). Veniva provato come l’aumento della pressione concorrenziale causasse una selezione fra le imprese italiane operanti nei settori esposti, innalzando la soglia minima di efficienza produttiva richiesta per sopravvivere nel mercato, dunque forzando alcune imprese ad accrescere la produttività ma determinando la morte di quelle non in grado di farlo. Fra le prime, era interessante notare come l’aumento di efficienza si concentrasse proprio in quella componente della produttività detta «produttività totale dei fattori» che, come abbiamo visto prima, è quella più coinvolta dai processi di riorganizzazione aziendale innescati dal passaggio all’assetto digitalizzato. Insomma, un fenomeno di quelli che si suole chiamare di «distruzione creativa». Come uno studio più recente ha mostrato, con riferimento specifico all’effetto della concorrenza cinese sui meccanismi di determinazione dei prezzi di vendita da parte delle imprese manifatturiere italiane, l’impulso a «rafforzarsi o perire» è più forte proprio nei settori dalla intensità tecnologica bassa e per le imprese più piccole (Bugamelli, Fabiani, Sette). Un altro studio ha trovato lo stesso risultato prendendo

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però in considerazione non già l’effetto della maggior concorrenza dei paesi emergenti ma il venir meno, con l’avvento dell’euro, della possibilità di acquisire vantaggi concorrenziali attraverso ripetute svalutazioni della lira, come accadeva dagli anni Settanta (Bugamelli, Schivardi, Zizza). Anche sotto questo angolo visuale l’evidenza a livello di singole imprese parla chiaro. Le più colpite dalla scomparsa della valvola svalutazionista, perché piccole e operanti in settori tradizionali in cui il prezzo è quasi tutto, sono quelle che si sono date più da fare per sopravvivere nel nuovo ambiente, agendo ad esempio sul fronte delle attività a monte e a valle della produzione vera e propria, come il design, il marketing, la distribuzione, per recuperare competitività oltre il mero prezzo del prodotto. Attività che è possibile svolgere efficientemente tanto più, quanto più l’azienda fa ricorso a tecnologie telematiche nella propria organizzazione. Dal 2006 abbiamo avviato in Banca d’Italia una nuova iniziativa di ricerca a vasto raggio sul sistema produttivo italiano e sui suoi problemi strutturali, allargando il campo d’indagine, usando un campione di imprese più ampio e rappresentativo dell’intera realtà produttiva italiana, formato non solo da imprese industriali (comunque massicciamente presenti con 3.100 gruppi e aziende), ma anche da oltre 1.100 imprese operanti nel settore dei servizi (Brandolini, Bugamelli). Cercavamo innanzitutto conferme di un progresso lungo le linee individuate nella ricerca precedente, quindi di un movimento ascendente fra i quattro gruppi della tassonomia prima introdotta, che accrescesse il novero delle regine e dei cavalli a scapito di quello delle torri e dei rovesciatori di

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scacchiere. Siamo andati subito a investigare il gruppo cerniera, quello dei cavalli. Abbiamo misurato le variazioni intercorse nel listino prodotti di ciascuna azienda industriale del nostro campione fra il 2000 e il 2006, alla ricerca di casi in cui la gamma fosse stata ampliata includendo prodotti di un settore diverso da quello di originaria appartenenza dell’azienda, ma comunque confinante con esso, solo caratterizzato da una intensità tecnologica un po’ più alta. Abbiamo rinvenuto questo fenomeno in oltre il 10 per cento del campione, un valore non straordinario ma nemmeno trascurabile. Come ci si poteva aspettare, questo sconfinamento settoriale è più frequente nelle aziende che più ne hanno bisogno sulla carta, cioè in quelle più piccole e caratterizzate da un contenuto tecnologico del prodotto basso o medio-basso. Provando a chiedere direttamente alle imprese se ritenessero di avere mutato strategia aziendale nell’arco dei sei anni indicati, puntando su una variazione di qualche tipo dei prodotti offerti, si è ottenuta una incidenza di risposte positive decisamente maggiore, di poco meno di un terzo nel complesso del campione, con punte più alte fra le aziende di dimensione medio-piccola e che muovevano da produzioni tradizionali. Si è poi rilevata la disponibilità in ogni azienda di quei software gestionali denominati Erp di cui parlavamo nel primo capitolo, la cui adozione segna il passaggio dell’azienda nel mondo telematico o digitalizzato. Se ne è trovato uno ogni quattro aziende del campione. Escludendo le piccole, dunque guardando alle imprese con almeno 50 addetti, l’incidenza sale al 36 per cento. Di nuovo, un risultato non esaltante – idealmente tutte le imprese di dimensio-

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ne non proprio piccola o piccolissima dovrebbero essere digitalizzate – ma nemmeno deprimente. A questo punto abbiamo voluto effettuare un controllo. Siamo andati a rilevare dai bilanci aziendali i risultati economici di tutte le imprese del campione, per verificare se questi potessero essere messi in una qualche relazione con le due caratteristiche investigate, cioè con: il cambio di strategia aziendale mediante ampliamento della gamma dei prodotti verso settori confinanti a più alta intensità tecnologica; l’estesa digitalizzazione dell’azienda con l’adozione di un Erp. Il risultato della verifica è stato non equivoco in entrambi i casi. Oltre alla dinamica del prodotto e della produttività, che è decisamente maggiore fra quelle che possiedono o l’una o l’altra delle due caratteristiche indicate che fra quelle che non le possiedono, anche la percentuale di imprese in utile s’innalza passando dalle imprese del secondo gruppo a quelle del primo. Altri due aspetti approfonditi sono stati il ruolo del marchio e quello della internazionalizzazione. Dalla ricerca precedente avevo personalmente ricavato un certo sospetto nei confronti dei marchi, avendo osservato casi in cui l’affermazione di un marchio veniva promossa in quanto sostitutiva di altre possibili strategie aziendali incentrate nel ruolo della tecnologia, ritenute troppo ardue da perseguire. In fin dei conti, come mi aveva spiegato un produttore di biancheria intima femminile, per imporre all’attenzione dei consumatori un marchio inventato ex novo bastano molti soldi, un buon pubblicitario e tanta pazienza, perché il nuovo marchio penetra lentamente nelle abitudini di consumo di massa e possono volerci anni prima che esploda. Ma alla fine, immancabilmente, esplode, qualunque sia il

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prodotto sottostante. Una strategia di questo tipo, che può essere adattissima a far fare un sacco di soldi a un imprenditore audace, mi pareva però inadatta a trarre l’intero sistema produttivo italiano durevolmente fuori dal suo problema di competitività. La seconda ricerca ha mostrato meglio quanto il marchio sia importante per un’azienda e come il suo rafforzamento possa benissimo convivere con altre azioni gestionali su altri piani (tecnologico, produttivo, ecc.) all’interno di una strategia integrata. I prodotti privi di marchio sono scesi al di sotto di un quinto del totale. La dinamica del prodotto e della produttività e la probabilità di essere in utile, per un’azienda che vede crescere il ruolo dei marchi, sono maggiori. Anche sul fenomeno dell’internazionalizzazione l’indagine ha fornito evidenze incoraggianti. Se intendiamo con questo termine non il semplice esportare una quota del fatturato, ma lo stabilire fuori dei confini nazionali delle proprie basi fisse, che possono andare da un semplice ufficio commerciale a un grande stabilimento produttivo, il fenomeno appare in crescita in tutti i suoi possibili aspetti. Cresce di più per le aziende medio-grandi, come ci si può immaginare. Fra le aree di destinazione spiccano non solo la Cina e i paesi dell’Est europeo ma anche l’Europa occidentale, tradizionale mercato di sbocco dei prodotti italiani. Quanto al movente principale dichiarato, esso muta radicalmente a seconda della dimensione dell’azienda interpellata: il minor costo del lavoro nel paese di destinazione è considerato molto rilevante da quasi la metà delle aziende con meno di 50 addetti che hanno aperto stabilimenti all’estero, solo da un quarto di quelle più grandi; queste ultime, viceversa, indicano la vicinanza ai mercati di sbocco come molto rile-

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vante in metà dei casi, mentre non più del 15 per cento delle piccole lo ritiene tale. Il primo movente è tipico delle delocalizzazioni difensive, delle aziende che cambiano scacchiera, per tornare alla metafora usata nella precedente ricerca. Il secondo movente è invece più probabilmente parte di una strategia d’attacco, volta ad appropriarsi di una buona porzione di quella torta che, come si diceva prima, sta aumentando per tutti. Questa forma di internazionalizzazione s’accompagna tipicamente con altre direttrici di sviluppo aziendale, ad esempio sul terreno tecnologico. Infine, l’indagine ha fornito evidenza a sostegno della tesi di un attenuarsi dei confini tra i tradizionali settori secondario (l’industria) e terziario (i servizi), mostrando segni ricorrenti di una vera e propria terziarizzazione dell’attività manifatturiera. Le sorti delle imprese italiane si decidono sempre meno sul fronte strettamente produttivo e sempre più nelle attività a monte e a valle della produzione. Attività terziarie relative alla creazione del prodotto (ricerca e sviluppo, design) e del marchio (pubblicità e marketing), all’organizzazione della produzione, alla commercializzazione (rete di vendita), all’assistenza post-vendita permettono alle imprese di andare oltre la pura concorrenza di prezzo, terreno sul quale la sfida con i paesi emergenti è ardua, e di offrire un prodotto caratterizzato e differenziato. Ma insomma, ci siamo chiesti a un certo punto, se la situazione è in movimento, se cresce il numero di imprese che fanno le mosse giuste, come si spiega il fatto che il quadro statistico aggregato continua a mostrare profondo rosso nelle due variabili cruciali della produttività e delle quote di mercato a livello dell’intera economia? Ci sono allora venuti dei dubbi sulla correttezza di quelle statistiche. E non

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siamo stati soli: a numerosi economisti, accademici e di altri centri di ricerca, sono venuti gli stessi dubbi. Un nostro specifico studio (Bugamelli) si è concentrato sui cosiddetti valori medi unitari dei beni esportati. Di che si tratta? Il problema è avere una idea quantitativa complessiva di come varia nel tempo il flusso di esportazioni di un paese. Quando viene statisticamente rilevata una esportazione alle frontiere si annota il valore complessivo della transazione e una qualche sua misura quantitativa appropriata (ad esempio, 10.000 euro per una partita di 100 paia di scarpe). Il «valore medio unitario» di quella transazione è quindi 100 euro. Il problema è che mentre i valori complessivi di tutte le esportazioni sono sommabili, perché esprimibili nella stessa unità di misura (gli euro, nel nostro esempio), le quantità non lo sono, perché possono essere un numero di paia (scarpe), di quintali (pasta), di barili (petrolio), o di pezzi (computer, matite, centrali nucleari, stuzzicadenti). Allora si prendono i valori medi unitari, se ne calcolano le variazioni nel tempo, se ne fa la media e si ottiene una idea di come sia variato, mettiamo, da un anno all’altro, il valore medio unitario del complesso delle esportazioni. Scalando questa variazione da quella dei valori assoluti complessivi si ottiene una misura indiretta di come sia variata nel tempo la «quantità» totale di beni esportati. Si comprende subito che se, per qualche accidente, i valori medi unitari sono sovrastimati, ciò produce automaticamente una sottostima delle quantità. Ebbene, vi sono elementi per ritenere che questo sia successo in Italia negli ultimi anni. Il problema sta nella difficoltà di usare unità di misura fisica veramente adatte a ogni tipo di bene. L’esempio classico è quello del personal com-

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puter. Se la quantità di computer esportati la si misura a numero di pezzi o a peso, come si faceva fino a poco tempo fa, si manca clamorosamente di rappresentare una realtà in cui le migliorie consentite dalla continua innovazione tecnologica si riflettono in riduzioni di prezzo a fronte di aumento di prestazioni: se ieri vendevo un computer a 1.000 euro e oggi ne vendo uno che ha prestazioni doppie per lo stesso prezzo, nelle statistiche ufficiali registrerò quantità e valore medio unitario immutati. Se misurassi le prestazioni anziché il numero di pezzi, dovrei più correttamente registrare una quantità raddoppiata e un valore medio unitario dimezzato. La complessità merceologica del mondo moderno rende difficilissima l’opera dello statistico economico, va subito detto. Il problema di come tener conto nelle statistiche quantitative del fatto che vi sono miglioramenti qualitativi continui nascosti sotto prezzi apparentemente immutati angoscia i sonni di tutti gli addetti ai lavori del mondo. In Italia sembra di notare un ritardo maggiore nel fronteggiare queste difficoltà da parte dell’Istituto centrale di statistica. L’Istat ha pubblicato recentemente dei nuovi dati che hanno in parte corretto il quadro, facendo apparire meno negativa la performance delle esportazioni italiane in quantità dopo il 2000. Ulteriori correzioni hanno riguardato la produttività. Alla fine esse non potranno non ripercuotersi anche sulla stima delle variazioni dei prezzi di tutto ciò che si produce sul territorio nazionale e, per questa via, sui conti nazionali. Che la dinamica della produttività fosse sottostimata, soprattutto negli ultimi anni, lo facevano capire altri dati concomitanti, come la redditività delle imprese e l’occupazione. Sorprendeva in particolare la crescita soste-

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nuta dell’occupazione, in atto, con qualche momentanea oscillazione, dal 1995, pur in presenza di un andamento quasi stagnante dell’attività economica: era l’altra faccia del calo della produttività del lavoro. Parte di questo fenomeno è spiegabile, come vedremo in seguito, con le riforme del mercato del lavoro e con la dinamica moderata delle retribuzioni, che hanno reso profittevoli attività a più bassa produttività. Risultava tuttavia difficile comprendere come un aumento dell’occupazione così netto e duraturo si conciliasse con un sistema produttivo in grave e diffusa difficoltà. L’osservazione era meno stringente per l’industria, dove si era effettivamente registrato tra il 2001 e il 2006 un calo dell’occupazione, ancorché contenuto (complessivamente pari all’1,3 per cento); ci si sarebbe tuttavia potuti attendere che a questa riduzione dei livelli occupazionali si associasse un miglioramento della produttività, ma ciò non è avvenuto, secondo i dati disponibili. Le revisioni ora introdotte migliorano la verosimiglianza del quadro statistico, ma ulteriori correzioni saranno probabilmente necessarie. L’indagine della Banca non fornisce informazioni sufficienti per misurare la produttività. Né possono servire allo scopo dati di altre fonti, come ad esempio l’indagine di Mediobanca, per difetto di rappresentatività. La nostra indagine ha mostrato peraltro come il concetto di produttività utilizzato dagli economisti sia lontano da quello adoperato nelle imprese. Secondo l’indagine, appena il 37 per cento delle imprese industriali dispone di indicatori interni di produttività (una quota che sale al 50 per cento per le imprese con almeno 50 addetti); gli indicatori sono di fatto molto eterogenei per natura e grado di affidabilità. Pur con tutti questi limiti, abbiamo tuttavia potuto osservare come,

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nella valutazione delle imprese in grado di rispondere, nel 2006 la produttività media del lavoro sarebbe aumentata di quasi il 5 per cento rispetto al 2005, un valore ben più elevato di quello desumibile dai conti nazionali. Va anche notato che proprio quella crescente terziarizzazione dell’attività manifatturiera a cui prima si accennava presenta nuove sfide per la misurazione della produttività, in quanto il valore di un manufatto finisce con l’esorbitare di gran lunga il puro costo variabile della sua produzione «fisica». Ricapitoliamo. Nel campo esposto alla concorrenza internazionale, che include quasi tutta l’industria e alcuni comparti dei servizi (quelli turistici e pochi altri), la pressione competitiva degli emergenti ha dato uno scossone al sistema delle imprese. Molte non sopravvivono; quelle che sopravvivono non sono tuttavia poche, e si ristrutturano sfruttando la tecnologia e tutto ciò che ne consegue, ridiventando competitive. Il sistema dimagrisce ma si rafforza. Il declino del paese, se è in atto, non si origina dal suo sistema produttivo. Fin qui abbiamo infatti ragionato intorno a queste faccende come se tutto dipendesse dalle stesse imprese. Molto dipende da loro, in effetti, dall’abilità e dal coraggio dei singoli azionisti, padroni e manager nell’intraprendere le necessarie, dolorose riforme organizzative e gestionali. Ma le imprese produttive non vivono nel vuoto pneumatico, sono immerse in un territorio, in una comunità regionale o nazionale, hanno interlocutori istituzionali, sono esposte alle politiche pubbliche, da quelle alte e generali come la politica monetaria e le manovre di bilancio, alle micro-decisio-

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ni delle mille burocrazie con cui devono quotidianamente interagire. Questo contorno ambientale influenza i loro atti, direttamente e con la mediazione di fattori psicologici come le aspettative, le percezioni. Dunque, le sorti del sistema produttivo italiano sono anche nelle mani dei decisori pubblici, per molte e complesse vie: la politica macroeconomica del saldo di bilancio pubblico, che influenza il ciclo economico; le mille politiche «micro» legate alla manovra di singole voci del bilancio, a cominciare dalla tassazione delle attività produttive e dalla panoplia dei sussidi alle imprese; infine, regole e stanziamenti per il sistema pubblico di istruzione, che forma il capitale umano, per il mantenimento dell’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia, precondizione della sopravvivenza e del normale funzionamento delle imprese, per la operatività del mercato del lavoro, per la erogazione di servizi pubblici locali, per contrastare le disparità territoriali di sviluppo. Su tutti questi aspetti le analisi non mancano, la stessa Banca d’Italia vi ha contribuito, non mi ci soffermerò qui, rinviando a quella letteratura. Proseguo invece l’analisi del sistema delle imprese occupandomi brevemente di quelle a cui viene risparmiato il morso della concorrenza, in particolare di quella estera, per la natura intrinseca della loro attività o per decisione politica. LE IMPRESE (ANCORA) PROTETTE

L’industria in senso stretto è, come si notava prima, quasi tutta operante in mercati più o meno concorrenziali. Dove la concorrenza si estende addirittura a tutto il mondo, co-

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me per una buona metà delle nostre imprese industriali, la sua disciplina è massima. Ma l’industria copre non oltre un quinto del prodotto interno lordo italiano. Oltre il 70 per cento del valore di tutto ciò che si produce in Italia ha la natura di un servizio, non di un oggetto tangibile. In questa immensa galassia di servizi della più varia natura si annidano ancora vaste sacche di proprietà o gestione pubblica, da un lato, e di rendita monopolistica, dall’altro. I due lati sono ovviamente spesso connessi. Nelle statistiche ufficiali sull’offerta di servizi, che obbediscono peraltro a standard internazionali, non è agevole distinguere categorie come il pubblico e il privato, il concorrenziale e il non concorrenziale, che sono invece di uso corrente da parte dell’opinione pubblica. Le tavole riassuntive che compaiono nell’Annuario statistico italiano o nel Rapporto annuale dell’Istat obbediscono a criteri arcani, mettono ad esempio insieme in un unico comparto produttivo cose come i trasporti e le comunicazioni, cioè il prodotto di Alitalia con quello di Telecom; oppure il commercio con gli alberghi, cioè il servizio reso da un cartolaio in un quartiere periferico di Roma, i cui clienti abitano tutti in un raggio di 500 metri, con quello di un grande albergo di Rimini, i cui clienti sono per due terzi stranieri. In entrambi gli esempi fatti si tratta evidentemente di mercati agli antipodi, che non s’intersecano sotto alcun profilo. Se poi si cercano maggiori dettagli in documenti statistici per addetti ai lavori, ad esempio una scomposizione più fine del minestrone «trasporti e comunicazioni», si giunge infine, ma con qualche fatica, a distinguere i diversi tipi di trasporto da un residuo chiamato «Poste e telecomunicazioni», non di più. Qui si percepisce davvero tutto il ritardo culturale di que-

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sto modo di fare statistica economica. Quel raggruppamento risale evidentemente a un tempo remotissimo, in cui le telecomunicazioni, lungi dall’essere le diavolerie di oggigiorno, tipo banda larga o wireless, non contemplavano neanche il telefono, ma si riducevano al telegrafo, che era gestito dalle Poste! Sono in pochi oramai a ricordare i vecchi uffici con l’insegna «Poste e Telegrafi», con quell’odore di tabacco rappreso, i moduli gialli per scriverci condoglianze o congratulazioni piene di «stop» e di «prègoti» e di «àbbiti». Vecchie categorie, nate in un piccolo mondo antico ormai scomparso. Ma una cinquantina d’anni trascorsi non hanno ancora persuaso gli statistici di tutto il mondo a cambiarle per modificare gli standard di classificazione. Pertanto, se ci si chiede qual è il peso complessivo sull’economia di quei servizi che vengono prodotti e scambiati su un vero mercato concorrenziale, non è possibile trovare una risposta precisa. Occorre tirare a indovinare, fare delle congetture. Ma perché è importante saperlo? Innanzitutto, perché là dove opera la concorrenza gli acquirenti sanno di poter trovare il prodotto migliore possibile al prezzo più basso possibile. E la categoria dei consumatori coincide con l’intera popolazione, non dimentichiamolo: che la concorrenza accresca il benessere di tutti, ma proprio tutti gli appartenenti alla comunità nazionale, è un concetto economico facile facile, troppo spesso dimenticato da molti di coloro che ne beneficiano. La questione è rilevante e merita una digressione. Nelle società moderne ciascuno partecipa alla vita economica svolgendo simultaneamente due ruoli: lavora (o cerca di farlo se è disoccupato) e, con il ricavato del suo lavoro (salario o

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profitto), acquista sul mercato i beni e i servizi che desidera e che può permettersi. In questi due ruoli ognuno di noi ha interessi potenzialmente in conflitto. Da acquirenti di beni e servizi, il nostro interesse è chiaro ed è quello prima indicato: che i nostri acquisti possano essere fatti su un mercato il più possibile concorrenziale, in modo da poter avere più scelta e spendere meno per ottenere di più. Da lavoratori, occorre distinguere. Se siamo lavoratori autonomi, il nostro interesse sarà quello di scavarci, nel nostro campo, una nicchia monopolistica che ci dia «potere di mercato», cioè il potere di imporre un prezzo alto a piacere agli acquirenti del nostro prodotto o servizio. Se siamo lavoratori dipendenti, attribuiremo valore alla sicurezza del posto di lavoro e a quanto siamo pagati e saremo pertanto felici se l’azienda per cui lavoriamo riesce ad acquisire potere di mercato a scapito dei suoi clienti, perché questo rafforzerà la nostra posizione di dipendenti. Di più: se anche osservassimo un’altra azienda entrare in crisi, in un settore distante dal nostro, tenderemmo il più delle volte a solidarizzare mentalmente con i lavoratori di quell’azienda e a vedere con favore, ad esempio, ipotesi di salvataggio pubblico a loro beneficio. Eppure, in un caso del genere il nostro interesse personale viene colpito due volte: come contribuenti, chiamati a versare denari direttamente dalle nostre tasche in quelle dei lavoratori salvati; come consumatori dei beni prodotti da quell’azienda, perché il salvataggio pubblico rende meno concorrenziale il mercato su cui essa opera e innalza il prezzo medio di ciò che vi si vende. Ma nella nostra bilancia dei pro e dei contro pesa evidentemente di più il timore che un giorno tocchi a noi vedere messo a repentaglio il posto di lavoro e che in tal ca-

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so desidereremmo un analogo salvataggio (beneficio incerto ma grande), di quanto non pesi la perdita secca di denaro che ci viene nel frattempo imposta (costo certo, ma di volta in volta piccolo). È solo così che si possono spiegare vicende come quella di Alitalia, in cui l’interesse di alcune migliaia di lavoratori normalmente considerati privilegiati è stato chiaramente anteposto a quello del resto della popolazione italiana, cioè decine di milioni di persone, inclusi i disoccupati e i poveri, con l’assenso degli esponenti di tutti i partiti politici e di tutte le organizzazioni sindacali; costoro non si sarebbero azzardati a concederlo se avessero avvertito un disagio o una contrarietà diffusi nell’elettorato o nella platea degli iscritti. Il maggior peso dato in Italia alla sicurezza prospettica del lavoro rispetto al potere d’acquisto corrente è un dato culturale; in altri paesi, con altre storie e altri costumi, la situazione può essere diversa: ad esempio, nei paesi anglosassoni la sensibilità comune appare rovesciata, a favore dei benefici della concorrenza. Quel maggior peso dipende anche, tuttavia, dalle istituzioni e dalle regole che disciplinano il mercato del lavoro e dalle politiche di welfare. Lì dove, come nei paesi del Nord Europa, si sanno coniugare flessibilità e sicurezza del lavoro, vi è spazio per un maggiore apprezzamento da parte dei lavoratori dei benefici della concorrenza. L’interesse dei consumatori – cioè un fattore «di domanda» – non è tuttavia l’unica ragione per prestare attenzione al grado di concorrenza nei servizi. Vi è un ulteriore e potente motivo, che ha a che fare con la produttività e la crescita dell’intera economia: dunque, un fattore «di offerta». L’analisi economica si è esercitata a lungo sul nesso tra con-

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correnza e performance produttiva. È stata citata prima l’ampia letteratura scientifica che dimostra il beneficio apportato a una economia dall’apertura alla concorrenza internazionale. Nel campo dei servizi, molte analisi sono state dedicate a identificare e a misurare gli effetti di stimolo della produttività e della crescita di un determinato comparto indotti da misure di liberalizzazione che vi innalzino il grado di concorrenza. In molti paesi europei numerosi servizi erano, e in qualche caso sono tuttora, gestiti direttamente da enti pubblici, o comunque pesantemente regolamentati da autorità pubbliche. Nell’Italia degli anni Settanta, ad esempio, rientravano nella sfera pubblica tutti i trasporti, tutte le telecomunicazioni, tutta la distribuzione di energia nelle sue diverse forme, tutto l’intrattenimento e l’informazione radiotelevisivi, quasi tutti i servizi bancari e finanziari. Dagli anni Ottanta e Novanta in Europa è spirato un vento di privatizzazione e liberalizzazione, partito dall’Inghilterra thatcheriana, che si è andato rafforzando man mano che si diffondeva la consapevolezza di quanto una sostanziale liberalizzazione del mercato dei servizi, da quelli privati a quelli di pubblica utilità, e buone regole a presidio della concorrenza, quindi a difesa del consumatore, siano essenziali per una economia moderna e attenta all’equità. In Italia il concetto di Stato regolatore, anziché gestore, delle attività economiche si è imposto tardivamente rispetto alle esperienze di altri paesi, soprattutto anglosassoni (un terzo esempio di «controtempo»). Data la vasta presenza del settore pubblico nell’economia italiana fino a tutti gli anni Ottanta e dato, soprattutto, l’altissimo debito pubblico, la priorità fu quella di privatizzare. Di conseguenza, processo

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di privatizzazione e cultura della regolazione hanno percorso nel nostro paese tratti di strada diseguali, maggiore nel primo caso che nel secondo. Ne è nato un equivoco di fondo, alimentato presso l’opinione pubblica dai soggetti coinvolti e dai media, a volte in buona fede e altre volte no: che passare da un regime monopolistico a uno concorrenziale fosse tutt’uno con il passare da una proprietà pubblica a una privata o, ancora peggio, da una forma giuridica pubblicistica a una privatistica. Detto ancora più chiaramente: che bastasse prendere i due giganteschi monopolisti pubblici in campo energetico e farli diventare società per azioni, lasciandone però allo Stato il controllo azionario e al ministro titolare di turno il potere di nomina degli amministratori; oppure che bastasse prendere l’azienda municipalizzata di nettezza urbana di proprietà di un comune e fare diventare anche quella una società per azioni, lasciando però la maggioranza delle azioni in mano al comune stesso e il potere di nomina degli amministratori in mano alla giunta comunale vigente; che bastasse questo per fregiarsi, al centro come in periferia, della medaglietta di «liberalizzatori», se non di liberali. La materia si presta a confusioni ed equivoci anche perché è intricata, innanzitutto sul piano teorico. Non è un caso se fino a qualche decennio fa in Europa, come si diceva prima, moltissimi servizi venissero prodotti ed erogati da enti pubblici in regime di esclusività: vi era la radicata convinzione che l’intervento pubblico fosse imprescindibile nell’interesse della collettività, per la natura stessa di quei servizi. Solo faticosamente si è fatta strada l’idea che occorresse distinguere caso per caso, assistiti dalle categorie concettuali della migliore teoria economica, per capire dove real-

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mente vi fossero dei «beni pubblici» da assicurare ai cittadini, o delle condizioni di «monopolio naturale» da gestire, e dove no. Esempi di questa difficoltà si ritrovano nei cosiddetti servizi pubblici locali, indagati da una ricerca recente, molto vasta e articolata, che ha preso in considerazione per l’Italia tutti i principali comparti di quest’ampia ed eterogenea categoria di servizi: la distribuzione del gas e dell’energia elettrica, quella dell’acqua, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il trasporto pubblico locale (Bianco, Sestito). Prendiamo l’acqua (ma analoghe considerazioni potrebbero essere svolte, mutatis mutandis, per altri servizi): un tipico servizio «a rete», che viene cioè erogato attraverso una infrastruttura reticolare, l’acquedotto. L’acquedotto in sé è un classico «monopolio naturale», cioè un bene dagli alti costi fissi di realizzazione e la cui gestione rende tanto di meno, quanto più grande è; una condizione in cui nessun privato si metterebbe spontaneamente. Quindi, poiché è interesse collettivo che l’acqua arrivi a tutti, due sono i casi: o l’acquedotto lo gestisce direttamente un ente pubblico, ricorrendo almeno in parte ai soldi dei contribuenti in aggiunta al ricavato tariffario, ma con il rischio delle inefficienze che sono tipiche delle gestioni pubbliche; oppure se ne affida la gestione a un privato, ma opponendogli una controparte pubblica (con lui in alcun modo potenzialmente colludente) che contratti con lo stesso le tariffe e gli eventuali sussidi, in modo da contemperare l’obiettivo sociale di non far pagare troppo l’acqua ai cittadini con quello di consentire al privato un moderato profitto, che lo invogli a una buona gestione. Se si sceglie la strada dell’affidamento ai privati, poiché è impensabile far agire sul me-

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desimo acquedotto due o più soggetti in concorrenza fra loro, per ovvie ragioni tecniche, una forma surrettizia di concorrenza la si può introdurre in due modi: nel tempo, cioè mettendo periodicamente a gara l’affidamento della concessione; nello spazio, stabilendo confronti fra diversi enti locali e regolando tariffe e sussidi di tutti secondo le migliori pratiche osservate. In quest’ultimo caso occorre un ente pubblico centrale che si occupi di fare i raffronti e la cui autorità sia accettata dai diversi enti locali. La morale è che deve esservi innanzitutto una buona regolazione e una buona capacità amministrativa per farla valere; la distribuzione dei compiti tra settore pubblico e settore privato, pur importante, è secondaria dal punto di vista di una effettiva liberalizzazione del mercato. Quello che è successo in Italia in questi anni con i servizi pubblici locali a rete, nella generalità dei casi, è stata una vestizione privatistica superficiale delle vecchie municipalizzate, alle quali si è continuato ad affidare il servizio, spesso senza gara, a condizioni stabilite in modo collusivo da giunte e amministratori appartenenti allo stesso ceto politico. Il peggio del pubblico, con solo la foglia di fico dell’apparenza privata, fornita dalla forma giuridica di una bella spa. Liberalizzazione? zero. Le nuove norme dell’agosto 2008 muovono qualche primo passo nella direzione di correggere queste storture. Ma in fin dei conti, potremmo chiederci, perché mai l’Europa si è fissata in tutti questi anni con l’esigenza di liberalizzare i mercati dei servizi? Perché si può dimostrare che se ne ricavano benefici di efficienza sia per i comparti oggetto di liberalizzazione, quindi per i consumatori, sia per l’intero sistema produttivo, quindi per la crescita economica.

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Sul primo punto sono stati compiuti molti studi in tutto il mondo, che hanno rilevato e misurato cospicui benefici. Per l’Italia è stato ad esempio effettuato una sorta di esperimento in corpore vili su un settore molto importante dei servizi, quello del commercio al dettaglio (Viviano). Ne ho già dato conto nel mio libro La regina e il cavallo, ci ritorno qui perché nel frattempo è stata realizzata dagli stessi autori una ricerca più completa sul tema. La legge Bersani del 1998 ha affidato alle regioni l’intera responsabilità di regolamentare l’ingresso nel mercato di nuovi super e ipermercati. Quasi tutte le regioni hanno stabilito procedure autorizzative prevedendo limiti, più o meno restrittivi, alla superficie utilizzabile dai nuovi entranti, nell’intento dichiarato di non mortificare troppo il piccolo commercio: una classica «barriera all’entrata», un tipo di restrizione che l’analisi economica ha provato essere particolarmente efficace nel limitare la concorrenza. La ricerca ha documentato come nelle regioni più attive nel razionare i nuovi spazi di vendita, rispetto a quelle più liberali, le grandi unità commerciali siano meno digitalizzate, abbiano una produttività inferiore e facciano più profitti grazie alla possibilità di imporre prezzi più alti per la minor concorrenza. Di conseguenza, in quelle regioni il costo della vita risulta più caro, soprattutto per i beni alimentari. Per di più, ciliegina sulla torta, in quelle regioni poco liberali l’occupazione nel settore del commercio al dettaglio cresce meno o decresce! Meno indagato è stato invece il nesso tra liberalizzazione dell’offerta di servizi e performance dei settori produttivi che quei servizi utilizzano, a cominciare dall’industria. Uno studio recente colma la lacuna (Barone, Cingano). Considerata una ventina di paesi avanzati, esso va a verificare se,

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nei paesi in cui un certo comparto dei servizi è sostanzialmente liberalizzato (quindi concorrenziale), le industrie che più intensamente usano quel tipo di servizio producono di più e più efficientemente, ed esportano di più. L’analisi prende in esame quattro grandi comparti dei servizi (distribuzione di energia, comunicazioni, trasporti, servizi professionali) e ne misura il grado di liberalizzazione/concorrenzialità con riferimento a sei parametri: barriere all’entrata (cioè norme o prassi legali che scoraggiano l’ingresso di nuove imprese); integrazione verticale (cioè il grado di commistione fra produzione e distribuzione); struttura di mercato (numerosità e quota di mercato dei principali operatori); controlli pubblici sui prezzi; regole di condotta (divieto di pubblicità, tariffe minime, ecc.); proprietà pubblica. Lo studio trova evidenza netta e convincente del fatto che una maggior concorrenza nell’offerta di servizi consente una miglior performance a chi li usa. Nei settori industriali più dipendenti dall’input di servizi, il valore del prodotto potrebbe aumentare fino a un punto percentuale l’anno in presenza di sostanziali liberalizzazioni nell’offerta di quei servizi. Insomma, un’alta concorrenzialità nel mercato interno dei servizi stimola la crescita non soltanto delle imprese dei comparti interessati, ma anche di quelle che ne utilizzano l’output, a cominciare da quelle industriali esposte alla competizione internazionale. Nel nostro paese la regolamentazione dei servizi resta sfavorevole agli utenti, più che nella maggior parte degli altri paesi avanzati. Il settore energetico è quello in cui la liberalizzazione è meno avanzata, con ripercussioni particolarmente significative sulle imprese, che sono grandi consu-

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matrici di energia, e quindi sulla crescita dell’intera economia. Sono questi i luoghi in cui si annidano le «rendite». Rendita è una parola ricorrente nel dibattito di politica economica in Italia. Viene spesso adoperata come un randello, per additare alla pubblica esecrazione quanto vi è di ingiusto e crudele nell’economia capitalistica, in opposizione a termini nobili come «lavoro» e perfino «profitto». Va invece usata appropriatamente: la rendita è l’extra profitto di chi sfugge al mercato concorrenziale grazie a una protezione di qualche tipo. Nella economia italiana di oggi è più facile che di tali protezioni sia il settore pubblico a elargirle, piuttosto che imprese autenticamente private ad accaparrarsele. In genere, le amministrazioni pubbliche creatrici di rendite dichiarano a gran voce false motivazioni di interesse generale, che servono solo a nascondere la collusione con interessi economici o di potere.

capitolo quarto

LA FINANZA

I problemi economici italiani dipendono anche da una struttura finanziaria che, pur da tempo in evoluzione, fa fatica ad assumere i connotati che sarebbero richiesti per aiutare il sistema produttivo a compiere la sua trasformazione. In una fase storica in cui, nel mondo, la finanza deve dimagrire e tonificarsi l’Italia è un paese che ha invece bisogno di più finanza, non di meno (quarto esempio di «controtempo»). Tutto sta a definire di che tipo. Questo capitolo tratterà di vari aspetti del sistema finanziario italiano che sono rilevanti, direttamente o indirettamente, ai fini della modernizzazione dell’apparato produttivo e dello sviluppo economico. L’ottica sarà innanzitutto quella delle imprese, ma dedicheremo anche alcune pagine al punto di vista dei risparmiatori. FINANZA PER LE IMPRESE

C’è un paradosso nella struttura finanziaria italiana di oggi, rispetto a quanto si osserva in paesi più grandi e più avanzati del nostro. Nel mondo anglosassone una delle novità più rilevanti del-

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l’ultimo quindicennio è stato l’affermarsi di quegli speciali intermediari finanziari che si chiamano «fondi di private equity», ovvero fondi di capitale privato. Per capire di che si tratta occorre rammentare che la forma societaria tipica di quell’assetto capitalistico, nel campo delle grandi imprese, è la public company. Una società di questo tipo è quotata in borsa e ha una compagine proprietaria dispersa fra migliaia di piccoli azionisti, con qualche figura di azionista maggiore che normalmente è un «fondo pensioni», cioè il gestore di un patrimonio accumulato che serve a pagare le pensioni future di una categoria professionale o dei dipendenti di una grande azienda, dunque un soggetto a sua volta collettivo, non interessato a ingerirsi nella gestione quotidiana dell’impresa partecipata, ma solo a ricavarne, nel medio-lungo periodo, il massimo rendimento compatibile con una ragionevole sicurezza dell’investimento. Una public company è quindi priva di un «padrone» riconoscibile e viene gestita da un pugno di manager normalmente indicati dagli azionisti maggiori, che godono di una larghissima autonomia. Il loro operato viene sostanzialmente giudicato sulla base del valore di borsa dell’azione e dei dividendi che distribuiscono agli azionisti, ma un tale giudizio, a causa della frammentarietà dell’azionariato, riesce a coagularsi solo di rado e in presenza di risultati molto negativi, sicché i manager possono godere di periodi lunghi di comando. La public company è una delle massime manifestazioni dell’economia di mercato, al punto da poter essere considerata un caposaldo della stessa democrazia liberale. La sua principale caratteristica, espressa con il termine analiticamente appropriato, è la «contendibilità»: il fatto che le azio-

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ni della società siano tante, diffuse e comprabili liberamente su un mercato sorvegliato, con regole precise, fa sì che se la compagine dei suoi proprietari non sta facendo le scelte giuste, a iniziare dalla selezione dei manager, il valore di mercato dell’impresa inizierà a scendere fino a quando non si farà avanti come compratore qualcuno in grado di fare scelte proprietarie migliori e risollevare le sorti dell’azienda. Quel qualcuno proporrà un’offerta pubblica di acquisto a un prezzo fissato, rivolta a tutti gli azionisti, grandi e piccoli, e chiunque voglia vendere lo farà, con trasparenza e democraticamente. Faccio notare per inciso l’uso che la lingua inglese fa del termine public, a indicare qualcosa che è «di molti» anziché di pochi o di uno solo; che è potenzialmente accessibile a tutti, anziché a pochi o a uno solo; e se anche quell’uno solo fosse lo Stato non cambierebbe nulla, l’azienda non avrebbe diritto a dirsi public. In italiano (ma anche, equivalentemente, in francese e in tedesco), a dispetto della comune origine latina, se traducessimo quel termine letteralmente con «pubblico» intenderemmo, direttamente o indirettamente, «dello Stato» e quindi gli faremmo assumere il significato esattamente contrario a quello che ha nei paesi di lingua inglese. Anche negli Stati Uniti, che pure è il paese del gigantismo, le imprese nascono spesso piccole. Anzi, nella mitologia aziendalistica degli ultimi vent’anni, una impresa innovativa americana nasce tipicamente nel garage di una casetta piccolo borghese, in un qualche sobborgo californiano, a opera di uno studentello geniale e squattrinato che inventa un prodotto rivoluzionario. A quel punto accade quello che nella vecchia Europa è ancora considerato un miracolo. Lo

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studentello si rivolge a un intermediario finanziario specializzato nell’accompagnare le microimprese innovative verso il macrosuccesso. Si tratta di un signore, detto «capitalista di ventura», che punta i suoi soldi (o i soldi di pochi finanziatori privati che si fidano di lui) su pochi progetti imprenditoriali nascenti, rassegnato in partenza al fatto che in quattro casi su cinque perderà tutto, ma sapendo che nel quinto caso il successo sarà talmente travolgente da ripagarlo abbondantemente anche dei quattro insuccessi. Supponiamo che il nostro studentello sia appunto il quinto caso. Il capitalista di ventura non si limiterà a tirare fuori i soldi necessari all’avviamento dell’attività, ma ne diverrà comproprietario, assisterà l’ideatore nella gestione della impresa neonata, si prenderà cura di accompagnarla sul mercato, basandosi su sue competenze imprenditoriali pregresse. Nel gergo anglosassone, l’impresa è ancora private: non nel senso che non sia posseduta dallo Stato (evento inconcepibile, quindi neanche nominabile, in quel sistema, se non con la locuzione descrittiva state-owned; almeno fino a prima dello scoppio della crisi; dopo, anche l’inconcepibile è divenuto ordinario...), ma nel senso che non è quotata in borsa, che è invece la condizione naturale di qualunque impresa ben avviata. L’obiettivo congiunto del fondatore e del capitalista di ventura è perciò fin dall’inizio quello di portare l’azienda nelle condizioni to go public, cioè di quotarsi. Se l’idea innovativa alla base dell’impresa ha avuto successo sul mercato, già dopo due o tre anni le azioni potranno essere offerte in borsa a un prezzo tale da far guadagnare al capitalista di ventura un multiplo del suo investimento iniziale. A quel punto egli incassa i suoi soldi e si ritira, veleggiando verso altre avventure. L’ideatore resta azionista di

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rilievo della società e resta anche probabilmente coinvolto nella gestione. Ma l’azienda è divenuta public. Il venture capital è una delle due forme principali in cui si articola la generale categoria del private equity. L’altra è quella del buy out. È questo il caso di una public company già da tempo in vita, spesso di grandi dimensioni, i cui risultati economici sono divenuti da qualche tempo deludenti. Una ragione tipica di questo può stare nell’autoreferenzialità del management, inconveniente principale delle public companies. Può infatti accadere che in una grande impresa il cui azionariato sia molto frammentato il «rapporto di agenzia» (come lo definisce la teoria economica) fra azionisti e gestori, cioè la catena di comando che dovrebbe rammentare costantemente ai gestori che essi sono pagati per fare gli interessi degli azionisti e non i propri, si allenti eccessivamente. I gestori iniziano a fare scelte mirate al proprio prestigio personale o all’aumento di breve periodo delle quotazioni di borsa dell’azienda, che essi possono monetizzare nelle proprie retribuzioni attraverso il meccanismo delle stock options (opzioni a tramutare parte della retribuzione in azioni della stessa società). In tal modo finiscono per diventare controproducenti delle caratteristiche che erano state ideate per migliorare la performance dell’impresa nel medio-lungo termine, affrancando i manager nelle loro decisioni strategiche dalla eventuale miopia degli azionisti, vogliosi dell’uovo oggi rispetto alla gallina domani, o legandoli finanziariamente alle sorti dell’impresa. Quando questo accade, occorre che per un certo periodo il capitale (equity) della public company incriminata diventi meno public e più private: occorre cioè la presenza, almeno temporanea, di un vero «padrone» il cui occhio vigile e in-

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teressato faccia ingrassare il cavallo. Ecco che si presenta un fondo di private equity: si tratta, in linea di principio, di una società con pochi soci, che raccoglie fondi ingenti da pochi investitori privati con una propensione al rischio maggiore della media. Essa si offre di comprare una quota rilevante, anche maggioritaria, dell’azienda, a un prezzo che molti azionisti delusi trovino attraente, ma comunque basso rispetto alle potenzialità di ripresa che essa intravede. Anche in questo caso di buy out, come in quello del capitalista di ventura, l’obiettivo è di medio termine: l’idea è quella di raddrizzare le sorti dell’azienda con una migliore gestione, rinnovando il management o comunque ingerendosi pesantemente nella gestione stessa, fino a che, una volta portato il valore di borsa dell’azienda a un livello ritenuto remunerativo, il fondo non possa vendere proficuamente la propria quota in borsa facendo ridiventare la società public. Torniamo allora, dopo questa lunga premessa, al paradosso della struttura finanziaria italiana. Da noi le public companies sono l’eccezione, non la regola. Il valore totale delle azioni quotate nella borsa italiana era pari nel 2007 (cioè prima del crollo dovuto alla crisi), al 48 per cento del Pil. In Francia era del 93 per cento, negli Stati Uniti del 145 per cento. Ma anche quando sono quotate, le aziende italiane sono, nella maggior parte dei casi, solo fintamente public, mantenendo la quota azionaria di controllo saldamente nelle mani di una persona, di una famiglia o di un gruppo ristretto di persone o famiglie. Ciò viene ottenuto anche mediante il ricorso ad artifici legali, come le catene societarie scatole-cinesi, che consentono di minimizzare la dimensione della quota di controllo della società partecipata messa

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in fondo alla catena, o i patti di sindacato, che legano in un blocco unico quote di più soci. L’impresa italiana tipica è, quindi, essenzialmente familiare. Molte imprese, anche di dimensione medio-grande, anche di grande successo sui mercati internazionali, non sono neanche quotate in borsa, dunque non sono «contendibili» nel senso prima indicato. Ma anche quelle quotate si difendono dalla odiata contendibilità con ogni mezzo. Abbiamo visto in precedenza come il nodo centrale che attarda il sistema delle imprese italiane nell’adeguarsi al mondo che cambia sotto il loro naso stia proprio nella difficoltà a cogliere le opportunità di crescita offerte dal mercato, per timore che la maggior dimensione debba implicare la perdita o l’annacquamento del controllo familiare sull’azienda. In altri termini, che ne venga messa in discussione la natura private. La struttura finanziaria del nostro paese non favorisce l’uscita da questo stallo, che a sua volta ne ostacola l’evoluzione. Essa è incentrata nelle banche commerciali. Il mercato dei capitali, cioè la borsa, è piccolo e asfittico, come si è visto. Il mercato finanziario – quello su cui si scambiano obbligazioni emesse direttamente dalle imprese e acquistate da investitori finali, grandi o piccoli – è anch’esso piccolo nel confronto internazionale. Stava crescendo, ma gli scandali finanziari nostrani degli ultimi anni gli hanno dato un colpo da cui ancora stentava a riprendersi prima dello scoppio della crisi, figuriamoci ora. Le banche sono quindi chiamate a coprire la gran parte delle esigenze finanziarie delle imprese italiane. Va subito detto che è così anche in altri paesi dell’Europa continentale, a iniziare dalla Germania, quindi il caso italiano non è affatto isolato. Ma le nostre im-

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prese sono particolarmente bisognose di crescere, sia quelle neonate (o anche solo concepite) intorno a una idea innovativa, sia quelle adulte che fronteggiano una opportunità di salto dimensionale, e avrebbero bisogno più di altre dell’assistenza di intermediari specializzati nel forzare i processi di crescita. Supponiamo che una impresa A, medio-piccola ma ben posizionata nel suo mercato, sana e redditizia, non quotata (come è la norma in Italia), si accorga che una concorrente B è in difficoltà. Supponiamo anche che B, magari una impresa tedesca o americana, abbia una dimensione decisamente maggiore di quella di A, ipotesi assai verosimile visto il nanismo delle nostre aziende, anche di quelle di successo. A potrebbe acquisire B vantaggiosamente, facendo un vero e proprio salto di scala, magari divenendo leader nel proprio settore. Ma, data la dimensione di B, per azzardare l’operazione occorrono capitali e capacità organizzative che A ritiene di non avere in casa. Dovrebbe rivolgersi fuori: chiedere molti soldi alle banche, che vorrebbero garanzie e la cui ombra si staglierebbe più vicina e pressante sull’azienda indebitata, oppure andare a cercare fondi direttamente presso i risparmiatori, quotandosi in borsa e vendendo una quota importante del proprio capitale. Entrambi sono scenari terrorizzanti per A, che comunque risolverebbero forse il suo problema finanziario ma non quello delle competenze organizzative. Una soluzione intermedia sta proprio nel rivolgersi a un fondo di private equity. Questo entra nel capitale dell’azienda con capitali freschi e, soprattutto, con la capacità e la volontà di collaborare alla gestione, inserendo nel consiglio di amministrazione propri rappresentanti e orientando la gestione stessa

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verso il cambio di scala e di passo dell’azienda. Come si è detto, l’ottica dell’investimento è di medio termine: se l’operazione ha successo, la grande azienda che ne risulta verrà dallo stesso fondo di private equity accompagnata in borsa perché si quoti, dopodiché il fondo venderà in borsa la sua quota con ampio guadagno e saluterà sorridendo. Ed eccolo, il paradosso: in questo esempio, assolutamente emblematico della situazione italiana, l’intervento di private equity non serve a rendere l’azienda partecipata temporaneamente più «privata», secondo la missione tipica di questi intermediari, ma meno, con l’obiettivo finale di renderla definitivamente «pubblica»! Una missione rovesciata rispetto a quella che siffatti intermediari normalmente svolgono nel resto del mondo (quinto esempio di «controtempo»). Intendiamoci, anche di fronte a questa ipotesi, intermedia fra le banche e la borsa, il padrone dell’impresa A certamente s’insospettisce e si adonta, temendo l’intrusione di un soggetto estraneo alla famiglia sia nel capitale sia nella gestione. Ma non può non vederne i vantaggi in termini di superiori competenze, necessarie nel delicato frangente di crescita aziendale, associati a rischi di perdita di sovranità che almeno nel medio periodo sarebbero limitati. L’alternativa banche, che formalmente non tocca la proprietà, per l’imprenditore non sarebbe meno fastidiosa, perché lo farebbe sentire totalmente nelle mani di soggetti spesso percepiti come distanti e noncuranti della realtà vera dell’azienda, che è fatta soprattutto di progetti, di abilità, di cespiti intangibili come la reputazione di mercato e la capacità innovativa. All’opposto, l’alternativa «borsa subito» sarebbe addirittura brutale nell’esporre la proprietà dell’azienda ad appetiti esterni.

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Ma il private equity in Italia è poco sviluppato rispetto al resto d’Europa. L’ammontare totale delle attività di questi intermediari nel nostro paese era pari nel 2007 a poco più di un quinto di punto percentuale del Pil, meno della metà rispetto a paesi come la Germania e la Spagna, un terzo che in Francia, per non parlare del Regno Unito, in cui le attività finanziarie di questo tipo eccedevano l’1 per cento del Pil. Parecchi fondi italiani sono posseduti e finanziati da banche. È come se uno che soffre di vertigini avesse un figlio paracadutista: un banchiere deve essere molto prudente nell’assumere rischi; all’opposto, un operatore di private equity deve andare alla ricerca di avventure rischiose, ancorché promettenti. La commistione banche-private equity può tra l’altro implicare una distorsione nell’uso delle risorse. A volte il braccio private equity può essere utilizzato per alleggerire posizioni bancarie tradizionali, oppure in caso di multiaffidamento bancario (quella pratica tipicamente italiana per cui una impresa si fa prestare soldi da venti banche diverse, pochi da ciascuna, così che alla fine nessuna abbia incentivi sufficienti a mettere troppo il naso nelle sue faccende; Del Colle, Finaldi Russo, Generale). Da una ricerca recente, che traccia un quadro riepilogativo di tutto questo settore della finanza italiana, emerge come anche la natura dei contratti che vengono stipulati fra il fondo e l’impresa tende a essere diversa da quella prevalente in altri paesi, con prevalenza di diritti di veto, clausole di protezione, clausole anticoncorrenziali, che riflettono le caratteristiche anche psicologiche peculiari del nostro mondo imprenditoriale (Banca d’Italia, AA.VV.). Il sistema italiano delle imprese resta finanziariamente meno assistito di altri nei due momenti cruciali della vita azien-

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dale: la nascita e l’adolescenza. Alla nascita c’è un chiaro problema di offerta: una impresa che nasce per sfruttare commercialmente una idea nuova incontra difficoltà a farsi finanziare da un intermediario tradizionale per evidenti problemi informativi (Magri). Una banca difficilmente sa valutare le potenzialità di una idea imprenditoriale innovativa, non è neanche il suo mestiere, se non vede garanzie reali non presta un centesimo, anche giustamente dal suo punto di vista, visto che maneggia soldi di altri. Nell’adolescenza di una impresa fin lì ben cresciuta, quando gli ormoni spingono e si deve fare il balzo nell’età adulta, c’è sia un problema di offerta sia uno di domanda: quest’ultimo discende dal fatto che in Italia i «genitori» non vogliono perdere il controllo del figlioletto, lo mettono sotto una campana di vetro, lo preferiscono immaturo e gracile pur di non farlo andar via di casa. Perire alla nascita, o isterilirsi in una eterna prepubertà, è la sorte che occorre evitare alle imprese italiane, se vogliamo che il paese riprenda a crescere, una volta passata la crisi. La finanza vi ha un grande ruolo da giocare. In questa fase di crisi finanziaria mondiale il private equity non gode di buona stampa, perché è parte di quella finanza «non tradizionale» a cui vengono addebitati gravi misfatti. Le accuse sono, a mio parere, fondate solo se colgono un punto specifico: per il mestiere che fa, un fondo di private equity dovrebbe idealmente usare fondi propri; è concepibile che usi fondi altrui (cioè che raccolga risparmio da impiegare nelle sue «avventure») solo se si rivolge a pochi, grandi e conosciuti investitori, pienamente consapevoli delle sue scelte di impiego. Se così non è, se il fondo si ri-

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volge a una platea indistinta di risparmiatori non in grado di monitorare attentamente e continuamente la sua attività, allora il fondo si trasforma in una banca avventuriera, cioè in un ossimoro istituzionale. Questo è inevitabilmente fonte di guai. Stando alla larga da questa degenerazione, il private equity svolge un ruolo utilissimo, a maggior ragione in casi come quello italiano. FINANZA PER LE FAMIGLIE

In Italia, la cattiva fama della finanza presso vasti strati di opinione pubblica aveva cominciato a diffondersi con virulenza ben prima della crisi mondiale, alimentata dai ripetuti scandali imprenditoriali a cui abbiamo già fatto cenno (Parmalat, Cirio e altri) e dalle loro implicazioni bancarie. Potremmo addirittura spingerci a dire che quegli scandali abbiano in qualche misura vaccinato le banche e i risparmiatori italiani, contribuendo a schermarli da quelle degenerazioni tipiche della finanza anglosassone che hanno portato alla crisi. Una vaccinazione che gli scandali societari pure occorsi negli Stati Uniti (Enron, WorldCom, Savings&Loan) non erano stati sufficienti ad assicurare in quel paese. Ma facciamo un passo indietro. A che serve la finanza a una famiglia? Fondamentalmente a quattro scopi: a farsi gestire il risparmio; a ottenere credito a medio-lungo termine, per acquistare una casa, un’automobile o un elettrodomestico; a ottenere credito a breve termine, per acquistare beni di consumo corrente; a farsi mettere a disposizione mezzi di pagamento più sofisticati del denaro liquido (assegni, bonifici, carte di credito).

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Di queste quattro funzioni, per molti anni è stata la prima quella più richiesta, per di più in forme semplificate. Le famiglie italiane sono notoriamente anomale nel panorama internazionale dei paesi avanzati per il loro alto risparmio e il loro basso indebitamento. Agli inizi degli anni Novanta la famiglia media italiana risparmiava ogni anno il 22 per cento del suo reddito al netto delle imposte, contro tassi del 13, del 10, dell’8, del 7 e del 6 per cento in Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito, rispettivamente. Il risparmio accumulato veniva investito per oltre un terzo in depositi e conti correnti bancari, per poco meno di un terzo in titoli di Stato acquistati direttamente e tenuti tutt’al più in custodia presso una banca. D’altro canto, il debito complessivo medio delle famiglie italiane equivaleva a un quarto del loro reddito netto di un anno, mentre nei paesi considerati andava da almeno metà fino a oltre l’intero. La situazione è gradualmente evoluta in questi anni, ma non al punto da cambiare sostanzialmente lo stato delle cose. Alla vigilia dello scoppio della crisi globale il tasso di risparmio delle famiglie italiane era sceso al 9 per cento, non dissimile da quello osservato in Germania e in Francia, ma ancora molto più alto che in Spagna (3 per cento), negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove era divenuto addirittura nullo o negativo. Di questa resistente virtù delle famiglie italiane oggi ci si rallegra alla luce dei cataclismi in altri paesi. Comportamenti di questo tipo – risparmiare molto, fare pochi debiti, essere oculati nell’investimento concentrandosi su forme note e sicure di detenzione del risparmio – ci appaiono mirabilmente equilibrati rispetto alle follie consumistiche delle famiglie americane, che hanno condotto la nazione egemone

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del pianeta a indebitarsi fino al collo con il resto del mondo. A un’analisi più attenta la questione si rivela più complessa. Siamo sicuri di poterla chiamare una virtù? Non è piuttosto il riflesso di una struttura e di un costume finanziari arretrati? Almeno in parte è così. L’Italia è giunta tardi a sviluppare una finanza moderna. Ancora fino agli anni Ottanta la finanza da noi si riduceva a una pletora di banche di dimensione piccola, al più media, secondo gli standard internazionali, quasi tutte di proprietà pubblica e gestite con criteri spesso influenzati dal gioco politico-clientelare, soprattutto su scala locale. Al tempo stesso, l’enorme voragine della spesa pubblica e la cronica incapacità di far pagare le tasse costringevano lo Stato italiano a indebitarsi sul mercato, inondandolo di titoli di Stato, che dovevano essere resi appetibili assicurando alti rendimenti. Per quasi due decenni i risparmiatori italiani sono stati allettati da rendimenti reali, cioè al netto dell’inflazione, del 4-5 per cento! Per di più su titoli per definizione privi di rischio, che non fosse quello del fallimento dello Stato, un evento assai improbabile (ancorché non impossibile). Quello fu lo svezzamento dei risparmiatori italiani; essi iniziarono allora ad avventurarsi fuori dei recinti del «libretto postale» o del deposito bancario a risparmio, in cui erano rimasti rinchiusi nella loro lunga prima infanzia. Gli italiani divennero il Bot people, secondo una battuta che circolava in quegli anni. Uno svezzamento lussuoso, che non poteva durare, come non poteva durare la deriva stellare del debito pubblico. Negli anni Novanta i governi del tempo iniziarono a tirare i freni sull’ulteriore indebitamento; di conseguenza, le emissioni di titoli di Stato divennero meno

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abbondanti; i rendimenti scesero, anche per la convergenza dei nostri tassi d’interesse verso quelli europei nella prospettiva dell’euro. Nel contempo il sistema bancario veniva rapidamente privatizzato e iniziava a concentrarsi, dando vita a banche di dimensione nazionale e persino internazionale, che iniziarono a farsi un’aspra concorrenza fra loro su mercati molto più ampi. Fu allora che cominciò il dramma degli orfani dei Bot: come investire il proprio risparmio? Tornare al libretto postale? No, è roba da provinciali; e allora? Si svilupparono in quel torno di tempo i fondi comuni d’investimento, quasi tutti creati e posseduti da banche. Le stesse banche formarono al loro interno divisioni specializzate nella gestione del risparmio, dal gruzzoletto del pensionato al patrimonio del magnate, incentivando chi vi operava a disputarsi la clientela con i concorrenti, un contesto a cui non erano assuefatti. La percezione e la corretta valutazione del rischio insito in qualunque investimento finanziario hanno da allora faticato ad affermarsi, sia presso i risparmiatori, per lungo tempo abituati ad acquisire attività ritenute prive di rischio, sia presso le stesse banche. Si sono susseguite varie ondate di euforia irrazionale, nel corso delle quali non pochi risparmiatori si sono fatti tentare dalla chimera di facili arricchimenti. Sono intervenute cocenti delusioni, allorché perdite talvolta prevedibili eppure inattese si materializzavano. La impreparazione della generalità dei risparmiatori italiani, figlia della condizione di sottosviluppo in cui la finanza è stata tenuta per tanti anni nel paese, veniva sottovalutata dagli operatori professionali che offrivano loro servizi consulenziali e di gestione, essi stessi sovente non all’altezza del compito. I risparmiatori si erano affidati a quegli operatori

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in un rapporto fiduciario che poneva di fatto, se non di diritto, in capo a questi ultimi la responsabilità di proteggerli da scelte eccessivamente arrischiate. A peggiorare il tutto stava un contesto culturale in cui la «protezione del consumatore» seguitava a essere, come da sempre in Italia, poco compresa e poco praticata. Sono così accadute le drammatiche vicende dei bonds argentini, di Cirio, di Parmalat, che hanno diffuso fra i risparmiatori italiani sfiducia e risentimento nei confronti delle banche e dei fondi comuni d’investimento. La questione del chi debba tutelare il risparmio e del come debba farlo è delicata e cruciale. Si rammenti, ad esempio, Parmalat. Dopo due anni di tempesta finanziaria mondiale ci può sembrare una vicenda remota. Ma ha condizionato per anni il dibattito sulla finanza italiana e contiene una lezione generale che conviene ancora ripassare. Dopo anni di apparente prosperità, Parmalat precipitò in un crac improvviso. Sulle cause e sugli sviluppi di questo sono ancora aperti, nel momento in cui scrivo, alcuni procedimenti giudiziari, il che non consente di entrare nel merito della vicenda. Quel che rileva qui è che un gran numero di risparmiatori, anche piccoli, subirono perdite ingenti dalla detenzione di titoli obbligazionari emessi da Parmalat e società controllate. Di chi la colpa? Dell’ingenuità o imperizia dei risparmiatori stessi? Dell’abilità criminale di taluni soggetti? Erano assenti o imperfette le regole del gioco? Erano colpevolmente distratti gli arbitri e i controllori? Per questa vicenda è stata usata molta retorica, mai utile a capire veramente le cose. Cerchiamo di fare un ragionamento pacato. Un ragionamento schematico ma articolato. Iniziamo dalle regole. Le previsioni di legge volte a impe-

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dire che succedesse quel che è successo si trovavano sia nel codice civile sia, soprattutto, in quel corpus di norme che va sotto il nome di Testo unico della finanza, familiarmente detto Tuf dagli addetti ai lavori. Il Tuf disciplina dal 1998 l’attività sia degli intermediari finanziari sia delle società quotate che si finanziano con azioni e obbligazioni, al fine di garantire l’efficiente funzionamento dei mercati finanziari e la tutela dei risparmiatori/investitori. Con l’introduzione del Tuf la regolamentazione della finanza nel nostro paese è stata allineata agli standard internazionali. Dunque non si può dire che l’impianto complessivo delle regole fosse gravemente incompleto o lacunoso. Passiamo allora ai controllori. I primi controllori, nell’interesse degli azionisti, dovevano essere quelli interni all’azienda: i membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale. Poi dovevano agire quelli esterni: i revisori e le società di rating (una chiosa su queste ultime: quel lontano episodio già ne illustrava bene la sostanziale inefficacia). Infine, l’autorità di supervisione sulle società quotate: la Consob aveva un duplice ruolo da giocare, controllare la correttezza delle informazioni fornite al mercato da Parmalat e dalle altre società quotate del gruppo, da un lato, e, dall’altro, vigilare sulla correttezza dei comportamenti e sulla trasparenza delle informazioni nei rapporti fra le banche e i clienti a cui esse prestano servizi di investimento del risparmio. A tutti questi diversi livelli vi sono stati evidentemente dei malfunzionamenti. Ma a fare indignare di più l’opinione pubblica fu il sospetto che alcune banche avessero a un certo punto subodorata la presenza di difficoltà nel gruppo Parmalat e che, te-

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mendo per i propri crediti nei confronti dello stesso, l’avessero indotto a emettere obbligazioni da rifilare a ignari risparmiatori, con il ricavato delle quali rimborsare i denari loro dovuti; in tal modo avrebbero fatto sì che il rischio d’insolvenza di Parmalat venisse spostato da loro stesse al mercato, addirittura alla propria stessa clientela, i quali soggetti però – è la congettura – ne potevano sapere meno di loro sulle reali condizioni del gruppo. Si sarebbe trattato, dunque, di un conflitto d’interessi, sfuggito alla Consob, che aveva la responsabilità di prevenirlo e contrastarlo. Ma sotto il profilo della stabilità delle singole banche coinvolte, come valutare una tale ipotesi? Quel profilo è di competenza della Vigilanza della Banca d’Italia. Essa non ha invece funzioni di tutela diretta degli investitori in titoli obbligazionari. Non ha neanche, com’è ovvio, compiti di vigilanza sulle società industriali. La legge attribuisce invece alla Banca il compito di contribuire a salvaguardare il risparmio nazionale nel suo complesso. In che modo? Vigilando sulla «sana e prudente gestione» degli intermediari finanziari, cioè di quei soggetti – le banche in primis – a cui i cittadini affidano i propri risparmi perché ne conservino il valore e li facciano possibilmente fruttare. I denari prestati dalle banche a Parmalat, della cui sorte esse si stavano preoccupando, erano stati loro affidati da altri risparmiatori, i depositanti, molto più numerosi degli acquirenti dei titoli Parmalat. Se una banca agisce per salvaguardare i soldi dei suoi depositanti, soldi prestati a un’azienda che sembrava sana e sulla cui solvibilità essa inizia a nutrire dubbi, la cosa non dovrebbe riscuotere il plauso di chi vigila sulla sua prudenza gestionale? Sempre

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fermo restando che nessuna norma venga violata, naturalmente. C’è tuttavia un altro profilo della faccenda che deve allarmare il vigilante. La sua opera richiede, in generale, un’attenta analisi dei vari tipi di rischio che gli intermediari fronteggiano nella propria attività. Fra questi rischi ve ne è uno speciale, impalpabile, difficilmente misurabile, che può rivelarsi assai più insidioso del rischio tipico di una banca, che è quello di credito: il rischio di vedere macchiata la propria reputazione presso la clientela. Questo rischio, di cui diverse banche italiane hanno avuto serie avvisaglie negli anni scorsi in connessione con il caso Parmalat e con altri casi consimili, tende a prosciugare la stessa fonte da cui una banca trae la propria linfa vitale: è come se da una marca di automobili i compratori iniziassero a tenersi lontani perché si è sparsa la voce di difetti in alcune auto vendute, tenuti nascosti agli acquirenti. Sarebbe a rischio la sopravvivenza dell’azienda. Che le banche siano attente e sensibili a questo rischio deve essere quindi una primaria preoccupazione di chi vigila sulla loro stabilità. È per questa via indiretta che la Banca d’Italia, nella sua qualità di Organo di Vigilanza, deve comunque sentirsi coinvolta nella tutela dei singoli risparmiatori clienti delle banche, anche in assenza di un mandato legislativo diretto. Dalla vicenda Parmalat essa ha appreso una lezione, rilevante anche per l’oggi. Scontava un ritardo culturale nel riconoscere l’importanza e la delicatezza del rischio reputazionale per le banche. Questo ritardo era d’altronde comune a quasi tutti gli organi di supervisione bancaria del mondo. L’accordo di Basilea 2 (un protocollo d’intesa fra le autorità di supervisione bancaria dei princi-

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pali paesi industrializzati che fissa i principi e le norme fondamentali della vigilanza prudenziale sulle banche) solo ora dà a quello specifico rischio un esplicito riconoscimento, pur se non lo fa rientrare tra quelli (di credito, di mercato, operativo: il cosiddetto «primo pilastro») rispetto a cui vengono determinati i requisiti patrimoniali delle banche. Rischi di reputazione particolarmente gravi per le banche nascono dai conflitti d’interesse che possono crearsi allorché vengono proposti ai depositanti strumenti d’investimento emessi dalla stessa banca offerente o da un’azienda che è pure sua cliente. È stato questo, come si è detto, un tema molto dibattuto in occasione del caso Parmalat. Negli anni più recenti la Banca d’Italia ha più volte espresso la sua preoccupazione per questi aspetti. In assenza di dispositivi legislativi espliciti, ha fatto ricorso alla «persuasione morale», rivolgendo inviti alle banche, ad esempio, a operare una separazione proprietaria netta rispetto alle società di gestione del risparmio che da loro promanano. Il caso Parmalat ha contribuito ad acuire la sensibilità pubblica nei confronti della tutela dei risparmiatori. Nel 2005 è stata introdotta nell’ordinamento italiano la cosiddetta «legge sul risparmio». Oltre a norme sulla organizzazione e sulle competenze della Banca d’Italia, essa ha previsto una serie di correttivi alla disciplina precedente volti, tra l’altro, a rafforzare la tutela delle minoranze nelle società quotate e la trasparenza societaria e a regolare meglio sia i conflitti di interesse nelle attività finanziarie sia l’attività delle società di revisione. La crisi globale scoppiata nel 2007 ripropone il problema. Come conciliare la funzionalità e la redditività del sistema finanziario, il sostegno creditizio all’economia, la disponi-

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bilità di una varietà di strumenti finanziari utili, la legittima aspirazione dei risparmiatori a una ragionevole combinazione rischio-rendimento e alla più assoluta trasparenza e comprensibilità delle scelte possibili? Sono questioni cruciali su cui si gioca il futuro dell’economia mondiale e anche del nostro paese.

DUE PASSAGGI OBBLIGATI

capitolo quinto

IL RUOLO DEL SINDACATO

RITORNO A CASA

La vita di Giuseppe non era stata facile, ma alla fine a qualcosa era approdato. Nato subito dopo la guerra in un’arida città del sud, da padre bidello e madre casalinga, poteva ben dirsi sollevato dalla contemplazione del suo stato presente. E al tempo stesso dolersi delle sofferenze, delle mortificazioni, delle lotte che aveva dovuto affrontare; a iniziare da quelle col dizionario per infilarsi nella testa una lingua diversa dal dialetto dei genitori. Delle lotte politiche invece non si doleva affatto. Su quelle Giuseppe nutriva anzi sentimenti benevoli, contaminati dalla nostalgia per la giovinezza. Ci stava proprio riandando con la memoria quella mattina. Quella mattina Giuseppe si era svegliato presto, tornava a casa. Due giorni fuori, a fare il suo lavoro, in quella città prodiga di pioggia. Ma stamattina si torna. Si fa la valigia, si va alla stazione, si va a casa. Treno, sì, a Giuseppe l’aereo non andava tanto a genio, se appena poteva lo evitava. Chissà che tempo fa fuori. E che tempo vuoi che faccia? Come ieri. Come l’altro ieri. Mica vuol farci morire di sorpresa, il

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tempo in questa città qua, borbotta Giuseppe guardandosi allo specchio. E gli casca il dentifricio per terra. Si china a raccoglierlo. Ricordando. Quarantatre anni prima. Metà anni Sessanta. Giuseppe aveva circa vent’anni, era riuscito poco prima a diplomarsi in ragioneria, per la commozione dei suoi vecchi, che vivevano quel pezzo di carta conquistato dall’ultimo figlio come un luminoso riscatto sociale. Aveva trovato lavoro come impiegato «di concetto» presso un ente pubblico della sua città. A quel tempo ignorava come mai fosse stato chiamato a quel posto, lo avrebbe scoperto molti anni più tardi, vergognandosene. Suo padre era andato a trovare un piccolo assessore comunale in ascesa; era entrato con imbarazzo nell’ufficio che l’assessore teneva aperto apposta per ricevere i clientes, un ufficio anonimo, senza targhe, a pian terreno di una strada secondaria, con la porta sempre aperta, notissimo in città. Una volta al suo cospetto gli aveva rammentato che lui era il bidello della scuola media Tale, che Sua Eccellenza (titolo a quel tempo spettante, almeno al sud, a qualunque tenutario di cariche pubbliche) aveva frequentato da ragazzino. Lo aveva supplicato di sistemare il suo, di ragazzo, promettendogli il voto perenne di un vasto parentado. Non si sa se per i voti promessi – le elezioni si avvicinavano – o per aver fatto risuonare una corda nostalgica nel cuore già indurito del giovane politico, il miracolo clientelare era avvenuto. L’ente aveva assunto il ragazzo, per chiamata diretta come accadeva allora. Lavorava lì da poco meno di un anno. A fare che? Non gli era del tutto chiaro. Era agli ordini di un anziano capoufficio, vicino alla pensione, che gli affidava compiti minu-

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scoli e scoordinati, in sequenze apparentemente casuali, come se volesse impedirgli di avere una minima visione d’insieme del lavoro dell’ufficio. Alcuni giorni prima gli aveva dato dei quadernoni a quadretti, ordinandogli di tracciare su ogni pagina, con penna e squadra, certe righe così e così, in modo da predisporre il terreno su cui sarebbero stati poi annotati, di pugno medesimo del capoufficio, misteriosi conteggi. Aveva riempito di righe almeno duecento pagine. Quella mattina aveva fatto tardi di alcuni minuti rispetto all’orario d’ingresso. Lavandosi gli era scivolato il dentifricio per terra (ecco il perché del ricordo improvvisamente affiorato), si era fatto male rialzandosi dopo averlo raccolto e aveva perso tempo a medicarsi. Giunto davanti alla sede dell’ente, aveva trovato il portone sbarrato, uno striscione appeso al balcone del primo piano, un crocchio di gente vociante fuori. Si fece spiegare. È sciopero generale, gli dissero. Ah. Aveva visto dei volantini ciclostilati nei giorni precedenti che dicevano qualcosa del genere, non ci aveva fatto troppo caso, aveva la testa piena di righe, poi lui i giornali non li leggeva, a casa non se ne compravano per non sprecare soldi in carta, e con i colleghi non parlava quasi mai, si faceva i fatti suoi, suo padre gli si era raccomandato moltissimo, dar retta al capoufficio e basta, i pettegolezzi coi colleghi sono il modo sicuro per ficcarsi nei guai. L’altra sera era andato coi suoi a vedere la televisione a casa dei vicini di pianerottolo, che se l’erano comprata da poco. L’avevano piazzata su un mobile alto in camera da pranzo, che fungeva anche da salotto, in modo da poter invitare gente come se fosse il cinema. Al telegiornale si era parlato, ora rammentava, di questo sciopero ge-

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nerale annunciato, ma lui si era subito distratto, sbirciando le gambe della figlia di quelli del piano di sopra seduta di sbieco. Poi lui questo concetto di sciopero non ce l’aveva affatto chiaro. La sua città natale era popolata da impiegati pubblici e commercianti, una vecchia fabbrica di birra era stata spostata a Roma, un paio di fabbriche nuove erano arrivate dal nord con i soldi della cassa del mezzogiorno, ma lui gli operai che ci lavoravano non li aveva mai visti. E lo sciopero è una faccenda da operai, pensava, che sono dei tipi strani, che c’entriamo noi? Che c’entro io? Mio nonno era bracciante nelle campagne là intorno, pensava, mio padre bidello, io sono impiegato di concetto. Mio nonno considerava come un padre il proprietario delle terre dove si faceva il mazzo. Io e mio padre siamo statali, abbiamo avuto questa grazia da Dio. Scioperare? E perché? E contro chi? Intanto era lì, ed era tutto visibilmente chiuso, nessuna possibilità di entrare, niente di niente. Gli si avvicinò un collega, che conosceva di vista. C’è il corteo, vieni con noi, gli fece. Giuseppe ebbe un moto di paura, e la tentazione di scappare, proprio di darsela a gambe levate. Quello lo guardava fisso, serio. Scappare non poteva, aveva vent’anni mica dieci. Provò a farfugliare delle scuse. Che aveva mamma a casa che stava poco bene e ne avrebbe approfittato per assisterla. Poi che aveva dimenticato il portafoglio, sarebbe andato a prenderlo e li avrebbe raggiunti, senz’altro... dove si sarebbe diretto il corteo? L’altro parlò come se non le avesse neanche intese, quelle patetiche scuse. Gli disse che lui capiva la sua preoccupazione, ma non c’era nulla da temere, tutta la città si fermava, nessuno avrebbe lavorato quel giorno, lo sciopero era nazionale, ufficiale, il corteo era

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certamente autorizzato, tutto in regola, lui poteva magari seguirlo un po’ e poi andarsene, certo sarebbe stato un peccato, avrebbe perso il comizio del compagno X, uno straordinario personaggio, avrebbe sentito delle cose interessanti, ma insomma se proprio doveva andare poteva andarsene dopo qualche isolato, intanto loro due potevano chiacchierare camminando, si conoscevano di vista ormai da tanto. Quell’uomo gli piaceva. Sulla quarantina, un po’ più alto della media dei brevilinei della zona. Occhi chiari, un sorriso buono. Vestito dimessamente, come si conveniva a un impiegato, ma con degli sprazzi di ricercatezza, tipo una camicia col colletto un po’ alto e un fermaglio a stringere le ali del colletto intorno al nodo del cravattino stretto, di maglina rossa. Glielo aveva notato da tempo, quel vezzo del ferma collo. Con un filo di inquietudine gli fece un cenno di assenso. S’incamminarono, insieme con il resto del crocchio, un po’ alla spicciolata. Girato l’angolo, confluirono nel corteo, che stava sfilando lungo il corso principale. Era passato già quasi tutto, si ritrovarono nella coda. Si scandivano slogan, seguendo una voce stridula di megafono. Si marciava a passo cadenzato. Come Giuseppe immaginava si marciasse nelle caserme, lui che il militare non l’aveva fatto, perché suo padre aveva convinto certa gente dell’ospedale militare a trovargli un malanno al cuore che lui era convinto di non avere. Nel frattempo Franco, il collega, gli parlava fitto. Aveva cominciato con un po’ di chiacchiere sul loro lavoro, su altri colleghi, su dove abitavano. Lui aveva una moglie casalinga e un figlio piccolo. Uno solo, arrivato dopo tanto tempo. Ma tu sei d’accordo con questa cosa qua che vuol fare il governo? Non pensi che ce lo metteranno in quel posto

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dritto dritto? Gliela buttò là così, senza un nesso apparente coi discorsi che stavano facendo. Giuseppe davvero non sapeva neanche di che si trattasse, figuriamoci se poteva azzardare un parere. Un parere politico, poi, figuriamoci. Ma la politica è una roba da vecchi, innanzitutto, prima ancora che pericolosa. È quella roba che si sente biascicare dai vecchi seduti sulle sedie per strada, fuori delle sedi dei partiti, a giocare a tressette. Stava per aprire bocca e sparare una cavolata qualunque, quando si udì un vociare più alto, degli scoppi di voci alterate, un trapestìo confuso. Si voltarono, videro gente che correva loro incontro, le facce tirate. E dietro videro le chiazze verdi delle divise dei celerini. I poliziotti caricavano la coda del corteo. Franco lo afferrò per un braccio e fece per trascinarlo via, ma lui ebbe un attimo di esitazione che gli fu fatale, puntò i piedi, voleva vedere bene che cosa stesse succedendo. Sfuggì alla presa di Franco, che gli si allontanò travolto dalla corrente dei fuggitivi. Una camionetta verde sfrecciò di fianco a lui e ne scesero al volo due celerini. Il più anziano dei due, incredulo di avere trovato una preda così succulenta, un giovane comunista paralizzato dalla paura, pensò, gli diede una spinta, lo fece accoccolare per terra, gli sferrò un calcio nella pancia e lo colpì forte sulle spalle col manganello, poi si chinò su di lui e gli sibilò nell’orecchio: tutti vigliacchi voi comunisti. E lo lasciò lì. Giuseppe rimase per terra per un bel pezzo. Il tumulto si era allontanato, intorno a lui non c’era nessuno. Gli veniva da vomitare per il calcio. Alla spalla sentiva un dolore fortissimo. Gli ronzavano le orecchie e gli ronzava per la testa quel «voi comunisti». Era un tipo permaloso, Giuseppe.

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Non appena gli parve che il dolore si fosse attutito, provò a rialzarsi e mentre ci provava pensò: comunista io? Sì. E così fu. Ritrovò Franco, si fece spiegare. Lo seguì in sezione. Ascoltò il famoso compagno X, più volte. Si iscrisse. Man mano che passava il suo tempo libero da loro (suo padre ne era disperato, sua madre ne piangeva tutti i giorni, gli avevano mandato il parroco per farlo rinsavire, per esorcizzare questo demonio che lo possedeva, ma senza altro risultato che rinsaldarlo nella sua caparbia risolutezza), man mano che ascoltava i racconti di quel che succedeva lì al nord, la fiat, l’alfa romeo, sentiva crescere dentro di sé una insopportabile indignazione per le ingiustizie, i soprusi, lo sfruttamento, una indignazione sorda, come una montata lavica, lenta e incandescente. I racconti del nord si tingevano di ingenua leggenda: i capannoni immensi, le albe fredde e piovose, il calore della fratellanza operaia, il sol dell’avvenire... Tutto questo faceva a pugni con la sua condizione presente. Piazze spazzolate da un sole polveroso, uomini indolenti, tutto un intrecciarsi di piccoli e miserabili traffici intorno alla mangiatoia degli uffici pubblici. Nessun padrone alto, dritto ed elegante, dallo sguardo d’acciaio, da odiare a fronte alta, solo dei maneggioni panciuti e sudati. La sezione organizzava un viaggio nella grande metropoli del nord, a portare il saluto e l’incoraggiamento di una delegazione di proletari del sud agli operai in lotta dello stabilimento YY. Giuseppe si prese tre giorni di ferie e andò. Non tornò più. Una volta immerso nella vera scenografia dei racconti fantastici di cui si era nutrito, non volle più venirne via. Si presentò al collocamento, disse che cercava un posto da operaio. Nascose il suo diploma di ragioniere, intuì che sarebbe parso strano, denunciò solo la licenza me-

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dia, che già lo collocava in una fascia istruita. Gli trovarono un posto subito, in quegli anni accadeva. Manovale addetto al magazzino materiali di una fabbrica di piccoli elettrodomestici, in periferia nordovest. La paga era più bassa di quella che prendeva da impiegato e il lavoro enormemente più faticoso. Ma, per la prima volta da che era nato, si sentiva collocato dentro di sé, non fuori di sé come gli sembrava prima. Sentiva di avere un centro, un perno di ancoraggio alla propria identità e alla società. S’iscrisse anche al sindacato. Era veramente una vita dura, quella dell’operaio. Poi lui era un terùn emigrato e questo gli rendeva la vita ancora più dura. Vaglielo a spiegare che se lui era lì non era perché spinto dal bisogno materiale, che a casa sua giù in terronia mangiava tre volte al giorno e si era persino comprato le scarpe lucide di Rossetti un paio di anni prima; che era lì spinto da un bisogno di altro tipo, che non sapeva nemmeno spiegare, che gli faceva spezzare la schiena in magazzino per otto ore di filato, che gli svuotava lo stomaco ma lo riempiva di sé. Comunque, non erano cose che si potessero dire, quindi non diceva nulla. Osservava, viveva sulla sua pelle le condizioni di lavoro in fabbrica, gli orari lunghi e serrati, la faccia spesso sadica e delatoria dei capetti, il ricatto psicologico continuo del «ti faccio cacciar via a pedate, brutt terùn», i quattro soldi della paga, all’ora di pranzo mezz’ora per ingollarsi un panino (o una minestra nella pietanziera, gli sposati) appoggiati a uno scatolone. E poi le lunghe trasferte in tram, alla mattina e al pomeriggio, dalla fabbrica alla stanza che divideva con un compagno emigrato come lui, in una casa di ringhiera color topo.

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Ma la sua vita sbocciava ogni sera, come una belladinotte, in sezione. Non c’erano mica vecchi postini pensionati là. Erano quasi tutti operai, dai venti ai cinquanta, molti emigrati, molti che, come lui, avevano un diploma ma non era loro servito a niente, perché i loro padri erano stati meno furbi, o meno supplichevoli, del suo. E c’erano giovani funzionari del partito, che andavano e venivano dagli uffici della federazione, a istruirli, a spiegar loro la lotta di classe, la loro responsabilità di avanguardia del proletariato, l’asprezza dello scontro politico in atto nel paese, gli ideali traditi della Resistenza, l’eroica marcia dei compagni sovietici verso la vera società comunista. Andavano e venivano perché la loro era una sezione di punta in città, una sezione storica del grande partito. E ora gli si schiudeva l’attività sindacale. I suoi interventi in sezione erano piaciuti, aveva mostrato maturità, capacità di comprendere anche i fondamenti teorici del marxismo-leninismo, e al tempo stesso una lucida, pratica consapevolezza dell’organizzazione della fabbrica. Un funzionario, che era anche delegato sindacale nella sua fabbrica, gli si avvicinò e gli propose di collaborare con lui. Accettò, lusingato. Ora gli era tutto davvero chiaro. Partito e Sindacato erano due facce della stessa medaglia, e questa medaglia era la lotta di classe. C’erano gli sfruttatori e gli sfruttati, ovunque nel mondo e anche lì da loro. Lo sfruttamento era profondamente ingiusto, perché fondato sulla proprietà della terra e dei mezzi di produzione industriale, acquisita non per merito ma con violenza predatoria. Gli sfruttati dovevano prendere coscienza della loro condizione, unirsi e lottare per rovesciare l’ordine sociale. L’ideale sarebbe stato farlo con le armi in pugno, come ave-

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vano fatto i compagni russi e cinesi, ma il compagno segretario aveva loro spiegato che le condizioni storiche sono varie e complesse, che si può lottare anche restando all’interno delle regole della democrazia borghese. Lui questa sottigliezza stentava a capirla bene, ma si accontentava di intuirla, sulla fiducia. La fabbrica industriale è il luogo in cui il meccanismo dello sfruttamento è più avanzato ed evidente, dove il capitalismo è più vicino al suo punto di rottura. Per questo loro operai erano l’avanguardia del movimento dei lavoratori. Dovevano portare la propria lotta in fabbrica, organizzati dal sindacato, e fuori della fabbrica, organizzati dal partito. Come due braccia che menano pugni da un lato e dall’altro. Naturalmente la testa è una sola, ed è politica, quindi sta nel partito. In questo senso, pensava, va interpretata la metafora del sindacato come «cinghia di trasmissione» del partito. Venne l’autunno caldo del 1969, le lotte operaie che si intrecciavano con quelle studentesche, alimentandosi vicendevolmente. Per Giuseppe fu una svolta. Il suo passato di studente medio e di impiegato lo metteva meglio in grado di dialogare con gli studenti universitari rispetto ai suoi compagni di autentica origine operaia; al tempo stesso, il suo presente operaio lo accreditava, agli occhi dei nuovi compagni di strada del ceto intellettuale, come uno che ha il giusto pedigree, a cui si deve portare rispetto proletario. Egli si fece interprete all’interno delle strutture locali del sindacato di questa nuova e santa alleanza fra giovani operai e studenti. Così, divenne un vero sindacalista. Frequentò ancora per qualche anno il suo posto di lavoro ma con assiduità decrescente e alla fine, grazie ai nuovi istituti di garanzia dell’attività sindacale introdotti con lo Statuto

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dei lavoratori, passò al tempo pieno. E fece carriera. Non tantissima, era troppo caparbio e permaloso, e poco incline alle sottigliezze della politica, per assurgere a posizioni di vertice, ma insomma, abituò tutti a stimarlo per la precisione del suo lavoro, per la tetragona durezza esibita nelle trattative, per la lealtà ai capi e alla linea ufficiale. Si sposò anche, con una compagna insegnante elementare, conosciuta al partito. Una biondina del nord, della cui conquista era segretamente orgoglioso, perché a un «napoli» come lui le donne del nord erano sembrate a lungo fuori portata (sentirsi chiamare col generico epiteto «napoli», usualmente esteso a tutti i meridionali, lo offendeva due volte, perché non voleva avere niente a che spartire con gente chiassosa e inconcludente come i napoletani, lui che veniva da terre aspre, severe, spesso silenziose). Gli nacquero due figli maschi, uno biondo e uno olivastro. Prima lavorò nella federazione dei metalmeccanici, poi in quella dei chimici, poi in quella dei trasporti. Quest’ultimo passaggio lo aveva portato a trasferirsi a Roma, con tutta la famiglia. Un parziale ritorno al sud che lo aveva inquietato, per l’inveterato pregiudizio filonordista che gli si era ormai ficcato in testa, essendo uno che si era voluto fare operaio del nord per scelta ideologica, estetica, antropologica. Ma era inevitabile, per la nuova responsabilità che gli veniva affidata. Ed era per quella responsabilità che, quarantatre anni dopo, Giuseppe era tornato nella sua città adottiva. Non che non ci fosse tornato altre volte in quegli anni, anche spesso ci era tornato, ma quella volta stava provando una strana sensazione, come di un filo dipanato che si riannoda, o di un cerchio che si chiude. Nei due giorni passati là aveva

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partecipato a una serie di riunioni per cercare di sbloccare una vertenza incancrenita. Trasporto pubblico locale. Due mesi di agitazioni. Già due scioperi, il primo regolare, di quattro ore, la settimana passata, l’altro semispontaneo il giorno prima, dichiarato senza il dovuto preavviso, anzi neanche dichiarato, attuato e basta, da un pugno di irriducibili appartenenti metà al suo sindacato e metà a una sigla autonoma. Avevano bloccato la città, con manifestazioni in un paio di piazze. Perché? Per una questione di deleghe sindacali, che l’azienda stava cercando, nell’ambito della trattativa, di limitare nel numero, cosa che gli irriducibili sostenevano essere una intollerabile violazione di diritti sacri e intoccabili. A metà giornata erano arrivati la precettazione e un paio di avvisi di garanzia. Giuseppe ci aveva fatto il callo a vertenze di questo tipo, si era anche psicologicamente corazzato a non farsi troppo impressionare dalle proteste dei cittadini appiedati raccolte dai giornali borghesi, dalle interviste volanti dei tiggì a qualche pensionata imbufalita, dalle interrogazioni parlamentari. Demagogia inevitabile, pensava sempre. Lui se ne restava concentrato sui suoi protetti, che conosceva fin dai tempi remoti di quando prendeva il tram all’alba per andare in fabbrica. Non erano mica dei signùr, i suoi protetti! Lavoratori duri, guidatori di autobus nel traffico pesante, addetti alle manutenzioni, impiegati amministrativi... beh, questi magari facevano un lavoro meno duro, ma per stipendi comunque bassi. Certo, nella sua testa fluttuava il pensiero inconfessabile (mai lo avrebbe esternato a chicchessia) che tutte quelle deleghe sindacali in quell’azienda là... insomma, magari qualcuno ci marciava un po’, ma il principio, eh no, il principio era inderogabile, non si pote-

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va cedere su una questione di principio di quella portata. Un altro pensiero fastidioso lo punzecchiava come un tafano, che quello sciagurato sciopero spontaneo del giorno prima aveva fatto un sacco di rumore perché aveva bloccato una linea che serviva un quartiere popolarissimo, e ci erano riusciti in due a bloccare quella linea, solo due guidatori, di quelli col patentino per i jumbo-tram, che sono anche i più pagati tra l’altro, e ci erano riusciti facendo saltare i turni in modo da escludere di poter essere sostituiti. Lui non si era mai fatto tanti scrupoli sulle forme di lotta, la lotta è lotta, i diritti dei lavoratori vengono prima di tutto, ma... Un po’ della insidiosa demagogia conservatrice contro cui si era così attentamente vaccinato in quegli anni gli si stava appiccicando ai pensieri. Il fatto era che due lavoratori specializzati e relativamente ben pagati avevano impedito a molte migliaia di lavoratori di raggiungere i luoghi di lavoro, mettendoli in difficoltà con i capi, facendo saltare cottimi e straordinari, o impedendo magari a qualche disoccupato di presentarsi in tempo al colloquio di assunzione. E questo fatto era ostico da deglutire. Facendosi echeggiare nella testa questi pensieri stridenti se ne tornava a Roma a riferire, su quella maledetta vertenza che era andato ad appianare e gli si era invece complicata fra le mani. E poi quella mattina gli era riemerso il ricordo del suo «momento costituente», come lo chiamava scherzosamente ogni volta che gli tornava in mente, il ricordo di quelle mazzate poliziesche che avevano eccitato in lui lo spirito da bastian contrario e gli avevano fatto prendere la strada che aveva preso. Che relazione c’era fra il fastidio che provava riflettendo ora sul suo lavoro e quel ricordo lontano?

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Un uomo gli si siede di fronte in treno. Sulla cinquantina. Giuseppe lo guarda di sfuggita, distoglie lo sguardo, poi torna a guardarlo. Gli ricorda qualcuno, vagamente. L’uomo è vestito modestamente. Ha un volto sciupato, intorno a due occhi chiari un po’ acquosi. Si muove continuamente, ha un fare febbrile. Chiede a Giuseppe se ha per caso una penna. Giuseppe gli porge una biro che porta nel taschino. Sa, spiega, devo riempire un questionario, che stupido a non essermi portato dietro una penna. Giuseppe lo guarda interdetto, capisce che l’altro ha voglia di attaccare bottone, ma a lui non va tanto, ha questi pensieri fastidiosi con cui fare i conti. L’altro non molla la presa e riprende a parlare. Parla con proprietà, ma in un modo ansimante, che trasmette disagio. Eh, dice, tanto lo so che non servirà a niente riempire ’sto questionario. Cosa vuole, uno ci prova comunque. Mi scusi, forse la importuno, forse voleva dormire un po’. No? Se l’annoio me lo dica subito, però, ma vede... ho bisogno di scambiare due chiacchiere, lei mi sembra una persona comprensiva. Giuseppe si allarma lievemente, a che porterà questa premessa? Sono tempi difficili per tutti, riprende l’altro, tempi di incertezza. Prenda me, per esempio. Sa che facevo anni fa? Avevo una tabaccheria. Me l’aveva comperata mio padre, buonanima, mettendoci tutti i suoi risparmi, per darmi un avvenire, una posizione, sa, non avevo tanta voglia di studiare, i miei mi viziavano parecchio, ero figlio unico. In quella tabaccheria mi ero impegnato però, la gestivo decentemente. Poi la verità è che si gestiva da sola, bastava comprare i cartoni di sigarette dal monopolio e tenere per bene la contabilità, e per quello

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avevo un ragioniere. Mi ha fregato questa smania di smettere di fumare che ha preso tutti, ho visto il fatturato scendere a precipizio, non ho capito per tempo che dovevo buttarmi sulle lotterie, insomma mi sono spaventato e ho venduto prima che la licenza si svalutasse troppo. Ho tentato degli affarucci, mi sono andati male, ho consumato tutti i soldi. Mio padre è morto prima che vendessi, pace all’anima sua, meglio per lui da un lato. Un tipo rigido, sa, all’antica, un vero comunista, per lui dopo Berlinguer il Pci non è più stato lo stesso. Io... Giuseppe sente crescere il suo disagio. Avverte nello sproloquio di quel tizio la cadenza inconfondibile della sua terra d’origine e questo lo disturba ancor più. Insomma, prosegue il tizio, io cinque anni fa mi sono messo a fare il rappresentante di commercio, a provvigioni. Ho campato per un po’, ma non ce la facevo a sostenere la famiglia, mia moglie lavora a singhiozzo nel settore immobiliare, sono più i mesi che non guadagna che quelli che guadagna. Infine, ironia della sorte, mi hanno preso come magazziniere in un ingrosso di articoli per fumatori nella mia città. Alla mia età mi hanno fatto un favore, cosa crede... Ma mica un lavoro fisso, figuriamoci, i lavori fissi sono spariti, chi ce li ha se li tiene stretti, e fanno pure sciopero, ’sti bastardi... Io sto a partita IVA. Un imbroglio naturalmente, figurarsi, dice che sono un loro consulente, così sta scritto nel contratto, ma quale consulente, io sfacchino in magazzino dalle otto del mattino alle otto di sera, dodici ore di lavoro, ha capito bene, tutti i giorni tranne la domenica, settantadue ore alla settimana, ha capito bene, e le pare che qualcuno controlli? Figurarsi. Niente ferie, niente assistenza malattia, niente pensione. Chi me la pagherà la pensione a me da vecchio? Nes-

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suno, ovviamente, i contributi che ho versato nella mia vita fanno ridere. Se il padrone mi vuole cacciare mi caccia dalla sera alla mattina, dirà che ha rinunciato alla mia consulenza, sai che ridere. Ogni tanto ripenso a mio padre, si chiamava Franco mio padre, ed era davvero un tipo franco, diretto, penso a lui e al suo posto fisso tutta la vita, un bel posto pubblico sicuro e tranquillo... Giuseppe sente un sapore acido sulla lingua. E lo sguardo gli si dirige sul ferma collo. Ecco chi è quel tizio che gli sta di fronte. È Franco. Un Franco invecchiato, avvizzito, intristito. Ma è lui, stessi occhi chiari, stesso sguardo sincero, stesso sorriso un po’ tirato. Il suo personale Virgilio nella commedia politica. Ma no, che dico, non è possibile... ma certo, è il figlio, il piccolo di cui gli parlava, che gli aveva mostrato un paio di volte. Che ora gli racconta la sua condizione di schiavo moderno. Uno schiavo travestito da piccolo imprenditore di se stesso. Ma non lo ascolta più. È vero, alla lotta di classe, che tanto lo infiammava in quegli anni lontani in cui faceva le moine al bimbo di Franco, a quella cosa là aveva smesso di pensarci da molto tempo, semplicemente l’aveva rimossa dalla mente. Che ora dovesse sentire rinascere dentro di sé il fuoco dell’indignazione, del senso di ingiustizia, quello vero, non quello rituale dei direttivi sindacali, e non per uno che sta alle presse in una bella fabbrica fordista, ma no, proprio per uno del popolo delle partite IVA, beh... non poteva aspettarselo. Ma è un fuoco freddo, non è più caldo come allora. Un fuoco che lo lascia inerte, un fuoco anziano, gli viene da pensare con un sorriso amaro. È tutto sbagliato, è tutto storto, è tutto incomprensibile. Domani c’è direttivo confederale. Si deve discutere se indi-

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re uno sciopero generale contro la politica del governo. Bisogna capire le complesse interazioni di questa decisione con gli equilibri interni del partito e con quelli della confederazione, perché XX della federazione del pubblico impiego ha ripreso certe tesi del gruppo di «amici» di YY, che a sua volta citava ZZ, che ne ha parlato nella intervista dell’altro ieri al Corriere. Quanti anni ho? Pensa improvvisamente Giuseppe. Ne faccio sessantaquattro il prossimo mese. I quaranta di contributi li ho fatti da tempo. I figli lavorano già. Me ne vado in pensione, mi compro una casetta in campagna dalle mie parti, mi godo gli ultimi anni con la mia biondina, vado al cimitero a trovare i miei. Tanto non ci capisco più niente, pensa. SINDACATO O PARTITO?

Ai suoi albori, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la storia delle organizzazioni sindacali, in Italia come in altri paesi, si intreccia strettamente con la nascita e con il primo sviluppo del movimento politico dei lavoratori, segnatamente del Partito socialista. Si nutre pertanto dell’idea di «conflitto di classe». L’avvento del regime fascista spezza precocemente la crescita del movimento sindacale. Nella organizzazione del lavoro le lancette dell’orologio vengono riportate indietro addirittura di alcuni secoli, alle corporazioni. Le corporazioni sono strutture organizzative verticali, in cui per ciascun mestiere o arte il padrone si allea al suo garzone per difendere gli interessi del comune mestiere rispetto a quelli di al-

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tri. Il conflitto di classe non entra in questo schema. Nella versione aggiornata di corporativismo realizzata nel ventennio fascista, all’interno di ciascun settore produttivo gli accordi salariali vengono stipulati da due soggetti sindacali entrambi pubblici, rappresentanti rispettivamente i lavoratori e le imprese del settore, al fine comune di perseguire l’interesse pubblico come definito dal regime politico totalitario. I sindacati moderni tendono a essere strutture orizzontali, che coalizzano, trasversalmente a tutti i mestieri e settori, gli interessi dei salariati rispetto a quelli delle imprese che li impiegano. Nella filosofia politica di impianto marxista questa orizzontalità dell’impegno sindacale (e politico) si estende alla intera «classe lavoratrice», addirittura di tutto il mondo, perché è funzionale non solo alla difesa degli interessi contingenti dei lavoratori sul posto di lavoro, ma anche alla loro lotta politica di classe. Dopo il crollo del fascismo viene fondata la Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), espressione unitaria dei tre maggiori partiti antifascisti, il comunista, il socialista e il democratico cristiano. Essa eredita e assorbe nel 194445 buona parte dell’apparato burocratico del sindacato corporativo fascista (Romagnoli, Treu). Ne assume la guida Giuseppe Di Vittorio, figura carismatica di sindacalista, che la manterrà fino alla morte, nel 1957. Nei lavori preparatori per la nuova Costituzione si fronteggiano due visioni del movimento sindacale e della sua disciplina costituzionale, condizionate dagli interessi politici fondamentali in gioco: per i socialcomunisti, l’obiettivo è egemonizzare il nuovo sindacato unitario al fine di farne uno strumento della loro lotta politica; per i democristiani,

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l’obiettivo è impedirlo. Ne discende un apparente paradosso: i primi sostengono uno schema privatistico, cioè massima indipendenza del sindacato dallo Stato e contratti di lavoro validi per i soli aderenti al sindacato che li sottoscrive, un approccio che consenta alle forze di sinistra mano libera nell’orientare il movimento sindacale unitario anche a fini di lotta anti-Stato; i secondi propugnano uno schema più pubblicistico, in parte echeggiante quello corporativo, con il riconoscimento giuridico del sindacato e la validità erga omnes dei contratti, che ingabbi le rappresentanze dei lavoratori in un ruolo istituzionale. Prevale un compromesso, quello sancito dall’art. 39 della Costituzione: accanto a una grande affermazione di principio della libertà di organizzazione sindacale, gradita alle forze di sinistra, in concreto si prevedono la personalità giuridica dei sindacati, la loro registrazione obbligatoria presso un pubblico ufficio, la rappresentatività in proporzione al numero di iscritti, la validità erga omnes dei contratti stipulati unitariamente, tutte caratteristiche desiderate dalla componente democristiana. L’art. 39 della Costituzione non troverà mai applicazione. Ne è causa, nei primi anni dopo la promulgazione della Carta, l’insanabile contraddizione politica interna al sindacato unitario, che nel 1950 ne provoca la spaccatura formale. Nella Cgil restano i comunisti e larga parte dei socialisti. Se ne staccano i democristiani, che danno vita alla Cisl, e alcuni socialisti, i quali fondano, assieme ai repubblicani, la Uil. Nello stesso anno viene anche creata la Cisnal, diretta erede dello scomparso sindacato corporativo fascista e per molti anni poco più che una organizzazione militante di fiancheggiamento del Movimento sociale italiano e di formazioni neofasciste (Turone).

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Per tutti gli anni Cinquanta le vicende dei tre principali sindacati si saldano con quelle delle aree politiche di riferimento, in un contesto assai poco unitario. Il quadro inizia a cambiare negli anni Sessanta. Sono anni in cui alcuni milioni di italiani (fra cui molti operai) fanno il loro primo, stupefatto ingresso nel benessere, anni di disgelo dei costumi sociali, di utilitarie e tivvù. Ma anche anni di evoluzione politica. Dopo quasi due decenni di contrapposizione ferrea – come la cortina che divideva in due l’Europa – fra una maggioranza centrista imperniata nella Democrazia cristiana e una minoranza di massa socialcomunista, il quadro subisce uno smottamento. Il Partito socialista si stacca dal fronte di opposizione per marciare verso la «stanza dei bottoni», secondo l’ingenua metafora di Pietro Nenni, e nasce il primo governo di centro-sinistra. Il Partito comunista rinserra i suoi ranghi in difesa della classe lavoratrice e resta arroccato dentro distese di bandiere rosse e canti dell’Internazionale. E viene il 1969. L’autunno caldo. Da un anno la società è in fermento. Gli studenti manifestano nelle università, nelle piazze, nelle vie. I vecchi militanti comunisti, gli operai più anziani, ne sono insospettiti, non capiscono che cosa spinga questi signorini a far chiasso cianciando di rivoluzione. Ma gli operai più giovani ne sono affascinati. Proprio come Giuseppe, il protagonista della storia raccontata nel paragrafo precedente. Le occasioni di lavoro politico insieme, studenti e operai, si moltiplicano. Lo slancio sovversivo che è tipico della gioventù si mescola in loro con i rudimenti di filosofia politica che hanno appreso nelle fabbriche e nei circoli culturali, amalgamati da un senso acuto delle ingiustizie che ancora allignano nella società. Quella società va

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rovesciata, si convincono; i poteri costituiti – politico, economico, religioso – vanno rovesciati anch’essi, con mezzi di lotta vecchi e nuovi: quelli ortodossi dello sciopero, del corteo, del comizio, ma anche quelli inediti dello sberleffo studentesco, della nuova musica popolare, di tutto ciò che possa portare la «immaginazione al potere». In tanti, come il nostro Giuseppe, contribuiscono a gettare ponti fra operai e studenti. Sono tutti insieme le levatrici di un soggetto politico nuovo. I dirigenti dei tre grandi sindacati fino a quel momento espressione delle forze politiche dominanti, trascinati per la collottola, alcuni per l’entusiasmo di un sogno rivoluzionario rinnovato, altri per il timore di vedersi scavalcati e ridotti alla irrilevanza, vengono spinti dalla base in fermento ad allearsi strettamente fra loro; a rovesciare quasi il rapporto di dipendenza dai partiti di riferimento. Divengono loro gli antagonisti principali, oltre che delle forze del padronato, dello stesso governo, proponendosi come rappresentanti politici tout court delle «masse popolari», su tutti i terreni, non solo su quello salariale e dei rapporti di lavoro, ma anche delle misure sociali, degli interventi economici, delle politiche culturali. I partiti tradizionali della sinistra subiscono, nel passaggio fra i due decenni, l’iniziativa sindacale. Cgil, Cisl e Uil sentono di avere attraversato una mutazione, sono divenute portatrici di interessi generali: non è più questione di contrattare con la controparte imprenditoriale migliori condizioni retributive e regolamentari per i propri rappresentati, si tratta ora di condurre una lotta anti-sistema che guidi l’intero paese verso la sostituzione del modello capitalistico con un altro, più «avanzato». Questa mutazione fa dei tre sindacati confederali, ora lega-

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ti fra loro dall’impegno unitario, un «soggetto politico generale», concorrente dei partiti della sinistra sul loro stesso terreno. Nell’assoluta diversità delle condizioni storiche, è un po’ come se fosse tornato in auge, dopo sessant’anni, quel sindacalismo rivoluzionario in cui il giovane Di Vittorio si era formato: un movimento che non prendeva la linea da partiti, anzi, riteneva di essere titolare di una funzione diretta di guida dei lavoratori alla conquista di un diverso ordine sociale (Carioti). Da quel momento permane e si radica nel costume politico italiano l’idea che la Triplice, come viene battezzata, sia una vera e propria istituzione politica, non solo un’associazione privata che difende interessi particolari e settoriali, ancorché vasti e diffusi. Si noti una curiosità lessicale (nell’uso delle parole certe verità di fatto si vedono sovente meglio): nel gergo dei mezzi di comunicazione del tempo l’unione dei cognomi dei segretari generali delle tre confederazioni (rigorosamente in ordine decrescente di dimensione) diviene una parola unica, inscindibile: lamastortievanni, poi lamacarnitiebenvenuto. L’idra a tre teste che quella parola designa continua, certo, a confrontarsi con le organizzazioni padronali, ma il conflitto più ambito e sostanzioso è col governo, in ciò proponendosi come il vero partito di opposizione. Quella visione di sé i tre storici sindacati italiani non l’hanno mai più abbandonata. Nel corso dei tre decenni successivi, fino ai giorni nostri, col trascorrere delle stagioni politiche, punteggiate anche di sconfitte (come la marcia dei quarantamila e il referendum sulla scala mobile), con il mutare dei modi di produzione, con l’evolvere del costume, quella visione si sfuma un po’, si distorce, ma fondamental-

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mente non cambia. Il simbolo, il nerbo, l’emblema, ne è lo sciopero politico. Si tratta di un gene costitutivo del movimento sindacale italiano. Nel dibattito costituente l’ammissibilità dello sciopero politico era in effetti da buona parte delle sinistre considerata «l’alfa e l’omega dell’intero ordinamento sindacale»; significava «riconoscere l’autotutela come strumento di partecipazione diretta (corsivo da me aggiunto) dei lavoratori, a integrazione delle forme di democrazia rappresentativa» (Romagnoli, Treu). La questione sembrava tuttavia essere stata risolta a sfavore di questa visione. I suoi oppositori avevano ottenuto all’art. 40 della Costituzione una regolamentazione per legge del diritto di sciopero. Ma anche l’art. 40 della Costituzione viene disatteso. Uno sciopero politico, contro l’azione del governo in carica, su materie attinenti all’interesse generale della cittadinanza, sovrappone il ruolo e la responsabilità del sindacato a quelli dei partiti politici, esercitando dall’esterno una pressione diretta sul Parlamento, luogo della sovranità popolare. Fino a tutti gli anni Settanta la cosa non scandalizza né sostenitori né avversari del movimento dei lavoratori, perché viene vista come parte integrante di uno scontro, non già fra diverse opzioni politiche, ma fra «sistemi» alternativi. Trascorsa quella stagione, l’ambizione dei sindacati a rivestire ruoli politici sembrava messa in questione. La ravviva la stagione della «concertazione», avviata in coincidenza con la grave crisi valutaria ed economica dei primi anni Novanta. Accettando di rinunciare alla ormai logora bandiera della «scala mobile» (la indicizzazione preventiva dei salari all’inflazione), i sindacati consentono di stroncare la cronica inflazione italiana e di far guadagnare

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competitività internazionale all’economia; tornano quindi a sentirsi pienamente legittimati a far politica generale. Gli accordi del 1992-93 prevedono tavoli triangolari sindacatiimprese-governo. La prassi si estende a quasi tutte le materie di governo. Tuttavia, in punto di logica, la legittimità democratica dei sindacati a rappresentare interessi generali è quanto meno dubbia. I rappresentanti sindacali non sono eletti da tutto il popolo: sono eletti, con procedure inverificabili, dagli iscritti ad associazioni private di cui si ignora ufficialmente la numerosità. Fra le previsioni dell’art. 39 della Costituzione, infatti, solo una ha trovato pratica attuazione nei decenni seguenti: la validità erga omnes dei contratti collettivi nazionali. La cosa è successa, si badi bene, non in forza di disposizioni di legge, come il medesimo art. 39 richiederebbe, bensì per un mero orientamento giurisprudenziale: i giudici hanno fatto prevalere sull’art. 39 l’art. 36, che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione «giusta», identificando quest’ultima in quella stabilita da un contratto collettivo nazionale, anche se non sottoscritto da tutti (Ichino). Invece, la registrazione ufficiale dei sindacati e la natura democratica del loro ordinamento interno non sono state disciplinate. Non essendo soggetti pubblici riconosciuti, non dovendo misurare il proprio peso nella rappresentatività contrattuale in proporzione al numero dei propri iscritti, i sindacati italiani tendono da sempre a essere assai poco trasparenti riguardo alla loro consistenza numerica. Essi condividono, va detto, questa reticenza con parecchie altre organizzazioni sindacali europee. Reperire dati affidabili e comparabili sul numero di iscritti, sul rapporto di questo con il numero

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di lavoratori in attività (densità sindacale), sulla copertura dei contratti collettivi stipulati, non è facile. Secondo la fondazione europea Eurofound, che si basa peraltro largamente su dati forniti dagli stessi sindacati, nel 2003 gli iscritti ai tre sindacati italiani «storici» (Cgil-CislUil) erano in tutto circa 11 milioni e 300 mila, circa metà dei quali iscritti alla Cgil, il 36 per cento alla Cisl e il 14 per cento alla Uil. Nella media delle tre confederazioni è bassissima la presenza fra gli iscritti di disoccupati (meno dell’1 per cento), mentre è molto alta, pari a circa metà, quella di pensionati. Questa è una peculiarità tutta italiana (Visser). Negli altri paesi europei la quota di pensionati è molto più bassa, come ci si può d’altronde attendere: un pensionato che resta iscritto al suo sindacato non lo fa certo per la difesa dei suoi interessi nei confronti dell’ex datore di lavoro, poiché quest’ultimo non ha più nulla da dargli o da togliergli; se lo fa, è per ragioni affettive o di rappresentanza politica generale, in quanto sa che il sindacato, come accade in Italia, svolge anche questa funzione, a volte in modo più efficace di un partito politico. Anche depurando i dati dalla presenza di pensionati, la densità sindacale italiana, calcolata come rapporto fra iscritti e lavoratori attivi, è abbastanza alta nel confronto internazionale, essendo pari a circa un terzo; nel Regno Unito è del 29 per cento, in Germania del 23 per cento, in Spagna del 16 per cento, in Francia dell’8 per cento. Solo nei paesi scandinavi si registra una sindacalizzazione molto più alta, dal 50 per cento della Norvegia al quasi 80 per cento della Svezia. Fuori d’Europa, è del 20 per cento in Giappone, poco sopra il 10 per cento negli Stati Uniti. Come ha usato questa sua forza numerica il sindacato ita-

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liano negli ultimi tre decenni? Cerchiamo di far parlare i fatti. Nel mercato del lavoro in questo arco di tempo sono accaduti due fenomeni vistosi. Il primo riguarda la distribuzione funzionale del reddito, cioè come la torta del reddito prodotto nell’economia si ripartisce fra il lavoro e il profitto d’impresa. Questo dovrebbe essere il terreno d’elezione della funzione sindacale: la difesa collettiva dei lavoratori ha infatti come obiettivo primario, fisiologico, quello di accaparrarsi la fetta di torta maggiore possibile, a spese della controparte. Secondo elaborazioni recenti (Torrini), la quota di valore aggiunto nel complesso dell’economia attribuita al lavoro raggiunge un picco del 73 per cento a metà degli anni Settanta, come risultato della grande stagione di lotte sindacali iniziata nel 1969 (ne è evidenza anche il tasso di sindacalizzazione, che in quegli anni supera il 50 per cento, un livello quasi «scandinavo»); poi, declina pian piano, fino al 64 per cento alla fine degli anni Novanta; risale al 66 nel primo decennio del nuovo secolo, ma per la ragione sbagliata: il declino della produttività. Nel solo settore privato, anche depurando i dati sul valore aggiunto dalle rendite immobiliari e nonostante il recupero degli ultimi anni, le quote del lavoro risultano più basse che trent’anni fa. Se ci spostiamo sul piano della distribuzione personale del reddito, cioè di come il reddito nazionale si distribuisce nell’intera popolazione, rileviamo alcuni ulteriori fatti assai spiacevoli: a) l’Italia era e resta uno dei paesi avanzati più sperequati del mondo, innanzitutto a causa del suo dualismo territoriale (Brandolini); b) guardando ai redditi familiari, rilevati ogni due anni da una indagine della Banca d’Italia, negli ultimi venti anni le famiglie di ope-

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rai e impiegati hanno perso parecchio terreno nei confronti delle famiglie di lavoratori autonomi; c) alla metà di questo decennio il salario d’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro si era ridotto in termini reali, rispetto al 1992, del 10 per cento circa, tornando ai livelli dei primi anni Ottanta (Rosolia, Torrini). Il secondo fenomeno che ha caratterizzato il mercato italiano del lavoro dagli anni Novanta è la diffusione del precariato. Il nostro mercato era uno dei più «rigidi» fra quelli delle economie non pianificate. Forti rigidità erano presenti in tutti e tre i segmenti della vita lavorativa: ingresso (larghissima prevalenza dei contratti a tempo indeterminato); percorso intermedio (norme molto vincolanti su ogni aspetto della gestione del personale, come promozioni, mobilità interna, ecc.); uscita (forti limitazioni ai licenziamenti, soprattutto a quelli individuali). Le rigidità in uscita si presentavano specialmente problematiche per le imprese: agli ostacoli posti al licenziamento individuale dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori si aggiungevano, in caso di contenzioso giudiziario, le drammatiche incertezze causate da sentenze che potevano, e possono, giungere anche dopo molti anni; tempi incompatibili con quelli di una impresa, che ne risulta danneggiata anche in caso di giudizio favorevole. Il sindacato ha sempre strenuamente difeso l’art. 18, considerandolo argine ineliminabile a un temuto dilagare di licenziamenti individuali arbitrari. Ha invece tollerato che venisse iniettata una dose massiccia e incontrollata di flessibilità nella fase di ingresso nel mercato del lavoro. Sono state così introdotte nella normativa una serie di forme contrattuali a tempo determinato, la più famosa o famigerata

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delle quali è il contratto di collaborazione coordinata e continuativa, poi evoluto in contratto a progetto (co.co.pro.). Si tratta di previsioni contrattuali ciascuna in sé utile ad accomodare varianti delle ordinarie domanda e offerta di lavoro. Ma non in un mercato anomalo come quello italiano. Numerosi datori di lavoro, prevalentemente nei comparti dei servizi (a cominciare dalle amministrazioni pubbliche), non hanno letteralmente creduto ai propri occhi quando hanno visto che potevano ovviare alla rigidità in uscita semplicemente sfruttando il normale turnover e sostituendo addetti illicenziabili con altri non solo licenziabili con breve preavviso (basta aspettare che scada il contratto) ma anche sfruttabili a piacimento in corso di contratto perché di fatto privi di tutele. Naturalmente le norme non consentirebbero tutto questo: quei contratti sono stati pensati per delle vere collaborazioni professionali, da parte di lavoratori assimilabili a consulenti, non per mascherare dei generici dipendenti, con tanto di sede e orario di lavoro e vincolo di esclusività. Il rispetto delle norme esigerebbe però che qualcuno controlli. Già, e chi? Oppure che il lavoratore si ribelli. Già, così resta disoccupato e con la fama del piantagrane? Una ricerca del 2006 (Cipollone, Guelfi) ha stimato come il ricorso ai «precari» abbia consentito alle imprese, secondo un calcolo molto prudente, un risparmio di costo del lavoro fra il 10 e il 22 per cento nel periodo 1995-2003. Accanto al grosso della forza lavoro dipendente a tempo indeterminato impiegata nelle imprese maggiori e nel settore pubblico, intensamente sindacalizzata, protetta da norme, prassi e giudici, è nata allora una fungaia di lavoratori in tutto e per tutto dipendenti ma malpagati e maltrattati, in alcuni casi con uno schema previdenziale ridotto, senza la

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possibilità di assentarsi per malattia, senza diritto alle ferie (caratteristiche recentemente attenuate, ma non eliminate); gente di fatto ignorata dal sindacato, al di là di qualche dichiarazione retorica; sindacato a cui d’altronde essi si guardano bene dall’iscriversi. Secondo stime del 2006 dell’Isfol i finti autonomi ammontano a 1,3 milioni di persone. Si tratta di lavoratori co.co.co., a progetto, occasionali o con partita Iva (come il figlio di Franco nel racconto che precede). A questi vanno aggiunti 2,2 milioni di lavoratori dipendenti a tempo determinato e 600 mila lavoratori che subiscono involontariamente il tempo parziale. In totale, sono oltre 4 milioni (quasi un quinto del totale degli occupati) i lavoratori che hanno in Italia trattamenti economici e protezioni decisamente inferiori a quelli dei dipendenti maggiormente garantiti. Le quote sul totale salgono a oltre il 30 per cento per i giovani sotto i 30 anni e a oltre il 50 per cento per i lavoratori al primo impiego. Gran parte dell’aumento di occupazione osservato in Italia in questi anni è stato dovuto a contratti «atipici», che in qualche caso si sono tradotti in impieghi stabili in tempi ragionevoli, ma spesso si sono rivelati trappole senza possibilità di uscita. E non stiamo conteggiando il lavoro nero! Come mostra uno studio del 2008 (Rosolia) è proprio alla frammentazione del lavoro nel corso dell’anno, dovuta alla diffusione del precariato, che va attribuito il calo o il mancato progresso delle retribuzioni pro capite annue osservato fra i primi anni Novanta e metà del decennio corrente. Ricapitoliamo, con un po’ di inevitabile semplificazione: i salari da anni perdono terreno rispetto a profitti, rendite,

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redditi autonomi; la forza lavoro è spaccata fra una maggioranza di «anziani», protetti da norme e prassi sindacali che perseguono la indistinguibilità dei lavoratori al costo di mortificare merito e talenti, e una robusta minoranza di «giovani» allo sbaraglio. Mentre tutto questo accadeva, i sindacati italiani giocavano al gioco della grande politica. L’origine storica di questo gioco, dalla fine della seconda guerra mondiale fino a tutti gli anni Settanta, stava nella funzione che i sindacati erano a quel tempo chiamati a svolgere, o si erano autoassegnata, all’interno del movimento politico della «classe» dei lavoratori, prima come sua «cinghia di trasmissione» poi come attori protagonisti. Dagli anni Ottanta, progressivamente sfilacciandosi la trama di quel movimento politico e perdendosene gli obiettivi strategici di rovesciamento del sistema capitalistico, i sindacati si sono rinchiusi in un ruolo di guardianìa intransigente delle «conquiste dei lavoratori» degli anni Settanta. Hanno, sì, dovuto cedere sulla «scala mobile», accettandone a fatica la eliminazione, ma solo dopo quindici anni di strenua resistenza, sebbene si trattasse con ogni evidenza di una trappola per gli stessi lavoratori dipendenti, che, illusi di trarne un beneficio immediato, subivano invece danni rilevanti in termini di perdita di potere d’acquisto dei loro salari oltre il brevissimo termine, oltre che di alta disoccupazione. Hanno invece difeso con successo fino a oggi altre vecchie conquiste, come le cosiddette «pensioni di anzianità», cioè i trattamenti pensionistici anticipati rispetto alla normale età anagrafica di collocamento a riposo. Il ruolo dei sindacati nella materia pensionistica è esemplare della loro peculiare posizione istituzionale nel nostro paese. La previdenza pubblica è dovunque un capitolo fon-

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damentale del patto sociale, perché regola i rapporti tra generazioni. È una materia squisitamente politica, che trascende largamente il quadro delle relazioni industriali. I sindacati dovrebbero avervi voce in capitolo solo limitatamente a ciò che è contenuto nei contratti di lavoro e proporzionalmente alla propria rappresentatività, lasciando invece ai partiti e alle forze parlamentari la composizione dei diversi e complessi interessi in gioco. Il sistema pensionistico eccessivamente generoso costruito in Italia nei primi anni Settanta fu una tipica risposta del ceto politico del tempo alla pressione montante del sindacato e delle piazze: si concede oggi anche ciò che è irragionevole e insostenibile, tanto il conto lo pagheranno domani le generazioni venture. Perché si potesse porre almeno in parte riparo agli squilibri intrinseci di quel sistema si dovette aspettare la crisi valutaria/finanziaria del 1992-95. La riforma approvata in quella circostanza gettò le basi di un risanamento che restò in parte irrealizzato, anche per la costante, ostinata opposizione dei sindacati, soprattutto preoccupati di difendere due capisaldi del vecchio sistema: le pensioni di anzianità e la differenziazione maschio-femmina dell’età di collocamento a riposo (attualmente 65 anni per i maschi e 60 per le femmine). Queste due caratteristiche concorrono a mantenere oggi in Italia l’età media effettiva di pensionamento poco sopra i sessant’anni, a fronte di un’aspettativa di vita residua per coloro che vanno in pensione che si colloca statisticamente sui 21 anni per i maschi e sui 26 per le femmine. Trentacinque anni fa, quando il sistema fu impostato, l’aspettativa residua di vita a 60 anni era, rispettivamente, più bassa di 4 e di 6 anni. Una età media di pensionamento così bassa, fra le più basse del

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mondo, e la discriminazione antifemminile implicita nell’obbligo di lasciare il lavoro cinque anni prima dei maschi, sono improponibili alla luce delle tendenze demografiche, penalizzano milioni e milioni di lavoratrici e lavoratori che prenderebbero volentieri in considerazione l’ipotesi di restare attivi più a lungo e guadagnare di più, magari con modalità flessibili di impiego; penalizzano quei datori di lavoro che in numerosi casi preferirebbero mantenere, anch’essi nelle opportune forme flessibili, preziose riserve di esperienza; compromettono l’equilibrio delle finanze pubbliche, impedendo di dirottare risorse finanziarie adeguate verso obiettivi più urgenti e meritevoli, come ad esempio una rete di ammortizzatori sociali più efficaci ed equi, la cui esigenza in Italia è particolarmente avvertita nei casi di avversità grave del ciclo economico, come quella che stiamo vivendo. Ma in tutti questi anni la sola parola «pensioni» ha indotto i sindacati a tirar su i ponti levatoi e a prepararsi all’assedio, prima ancora che un dibattito potesse neanche iniziare. Perché? A causa dei cinque milioni di pensionati che figurerebbero tuttora fra i loro iscritti? Ovviamente no, chi è già pensionato non vede i suoi trattamenti messi in discussione da misure riguardanti chi è ancora al lavoro, come l’equiparazione maschi-femmine delle età di collocamento a riposo o la eliminazione delle pensioni di anzianità. Allora è per l’opposizione dei loro iscritti in attività? È quanto meno dubbio che questi siano compattamente a sfavore di soluzioni che ne prolungherebbero la vita attiva aumentando le possibilità di guadagno (a parte coloro che svolgono lavori effettivamente usuranti). Dunque l’atteggiamento sindacale in questi anni è stato di pura conservazione ideale,

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animata dall’ansia di continuare a svolgere un ruolo politico generale purchessia. Eppure, di ragioni per vivere e prosperare un sindacato ne trova tante anche in una economia postindustriale del XXI secolo. Per rendercene conto, sono sufficienti poche considerazioni. Il lavoro è un «bene» che si scambia su uno specifico mercato. Un mercato speciale per un bene speciale, che costituisce la sostanza della ricchezza di una nazione, soprattutto di una nazione come la nostra che è priva di risorse fisiche naturali. Chi domanda il bene-lavoro su questo mercato? Normalmente un organismo collettivo, come una impresa privata o un’amministrazione pubblica. Chi lo offre? Singoli lavoratori. Nella maggior parte dei casi chi domanda il bene-lavoro, per il fatto stesso di essere un soggetto collettivo, ha più «potere di mercato» del singolo offerente. Un po’ quello che accade a una grande azienda nei confronti della moltitudine dei suoi piccoli fornitori di semilavorati, quelli che ne costituiscono l’«indotto»: spesso la stessa sopravvivenza del piccolo fornitore dipende dagli ordinativi della grande azienda, da cui tenderà a farsi imporre prezzi e condizioni di vendita anche poco vantaggiose per sé, non avendo altra arma che non sia quella, spuntata, della minaccia di cercarsi un’altra grande azienda acquirente. Tutta la storia delle lotte dei lavoratori, della nascita e dello sviluppo dei sindacati, si origina in questa asimmetria fondamentale, resa vistosa due secoli fa dal passaggio al modo di produzione industriale. Le leghe dei lavoratori, i sindacati, sono il soggetto collettivo che si erge a contrastare lo strapotere del «padrone», cioè del soggetto collettivo im-

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presa. Così l’asimmetria è sanata, o almeno ridotta, visto che essa rimane nella sproporzione delle armi disponibili alle due parti: l’impresa può licenziare o ridurre la paga (anche se oggi meno facilmente di un tempo), i lavoratori possono solo scioperare. Nel primo caso molte vite sono compromesse o rovinate, nel secondo ne va soltanto del profitto di pochi ricchi, o della comodità degli utenti di un servizio pubblico. La dottrina marxista, le sue filiazioni politiche vuoi riformiste vuoi massimaliste, la parabola dei partiti comunisti e socialisti, hanno profondamente segnato questa storia. Ma anche dopo il tramonto dell’ideologia e della prassi politica di ispirazione marxista, l’asimmetria fondamentale impresa/lavoratore è ancora là. Attenuata, certo, dall’evolvere della tecnologia, delle modalità produttive, della organizzazione delle imprese, della diffusione di abilità di tipo terziario che hanno allontanato molti lavoratori dallo stereotipo del manovale generico e perfettamente intercambiabile. Ma è ancora largamente presente. I sindacati, dove sono presenti e ben funzionanti, tirano la coperta del reddito prodotto nell’economia (valore aggiunto) dalla parte delle retribuzioni, rispetto ai profitti. Quest’azione (ri)distributiva, purché non comprometta l’accumulazione capitalistica, va a beneficio dell’economia intera, perché sostiene i redditi e la spesa di una gran massa di consumatori. Negli Stati Uniti, in cui la sindacalizzazione è scesa nell’ultimo mezzo secolo dal 30 a circa il 10 per cento, si levano ora, in questi tempi di crisi epocale, voci autorevoli a invocare una rivitalizzazione del sindacato, proprio in chiave di indiretto stimolo macroeconomico (Reich). In Italia il quadro ha mostrato delle modificazioni negli ul-

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timi anni. Si è dapprima diffuso il sindacalismo autonomo, soprattutto nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche. La proliferazione di sigle ha innescato una concorrenza aspra, con esiti confusi e a volte distruttivi dal punto di vista dell’interesse pubblico. Va considerato che l’asimmetria padrone/lavoratore nel caso in cui il padrone sia pubblico si distorce: un impiegato ministeriale, o il conducente di un tram cittadino, hanno in ultima analisi per «padrone» la collettività dei contribuenti, di cui essi stessi fanno parte. Se spuntano uno stipendio più alto o un orario di lavoro più corto a parità di retribuzione, saranno loro stessi ad autopagarseli con più tasse: e se non si fanno inibire da questo pensiero nell’azione rivendicativa è solo perché sperano di fare free riding addossando l’onere su altre categorie di contribuenti. In un tale contesto, data anche l’assenza di un requisito di rappresentatività dei diversi sindacati e la citata unanime giurisprudenza a favore della validità erga omnes dei contratti collettivi da chiunque stipulati, la concorrenza fra sigle ha come esito probabile un deterioramento della qualità del servizio pubblico prestato, a parità di costi per la cittadinanza. Conseguentemente, ogni conato di riforma in senso efficientistico delle amministrazioni pubbliche non può non scontrarsi con l’irriducibile avversità di sindacati che sono in lotta fra loro per conquistarsi visibilità presso i lavoratori a colpi di richieste demagogiche. Visibilità, non iscrizioni, perché tanto le iscrizioni o non si contano o non valgono (non a caso la Cgil, il sindacato più numeroso, preme da anni per introdurre criteri di rappresentatività basati sulle iscrizioni). Conta solo la capacità effettiva di paralizzare il servizio, meglio se ottenendo copertura mediatica.

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Dal 2008 anche l’unitarietà d’azione fra i tre sindacati storici, peraltro logoratasi nel corso degli anni, si è incrinata, forse si è rotta, con Cisl e Uil che hanno deciso di abbandonare il fronte di opposizione politica al governo in carica, lasciandovi la sola Cgil. Un elemento di novità nel campo dei «grandi» sindacati nazionali e generalisti era già rappresentato dall’emergere, accanto alle tre sigle storiche, della Ugl, nata nel 1996 dalle ceneri della vecchia Cisnal. La rottura più gravida di significato si è avuta agli inizi del 2009, al momento di chiudere il negoziato «di metodo» relativo alla cornice contrattuale, volto a innovare la disciplina generale che aveva fatto da atto di nascita della stagione della concertazione nel lontano 1993, dando maggior rilevanza alla contrattazione in azienda rispetto a quella nazionale. Hanno firmato l’accordo-quadro con le confederazioni padronali e con il governo la Cisl e la Uil, insieme con l’Ugl, non il sindacato tuttora maggioritario, la Cgil. È una rottura che getta incertezze sulla validità giuridica che potranno avere i contratti sottoscritti all’interno della nuova cornice. Siffatto ultimo cambiamento del panorama sindacale è ancora poco consolidato, incerto nella sua vera natura. Secondo molte voci a sinistra, la scelta «moderata» di Cisl e Uil, affiancati dalla Ugl, è intrinsecamente politica, di fiancheggiamento del governo. I protagonisti di quella scelta la attribuiscono invece a una maturata consapevolezza dei vincoli e delle opportunità di una economia moderna, che induce a prendere le distanze da atteggiamenti massimalisti di fiancheggiamento, questo sì, delle forze politiche di opposizione. L’impressione degli osservatori distaccati è che la polemica resti in effetti, da entrambi i lati, piuttosto

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sul terreno della politica generale, riproponendo così l’ambiguo ruolo dei sindacati (e delle loro controparti padronali) come soggetti politici che interagiscono con i partiti sui temi ampi del governo del paese, anziché concentrarsi sulle questioni specificamente attinenti alla composizione degli interessi concreti delle parti sociali (Baglioni). L’organizzazione del lavoro, dopo il passaggio dal modo di produzione agricolo a quello industriale e la nascita del sistema capitalistico, aveva assunto forme di sfruttamento esasperate. A quel tempo l’analisi marxiana di un collasso finale del sistema sotto il peso delle sue contraddizioni sociali non era priva di una sua forza profetica, a parità di condizioni. Ma le condizioni sono cambiate, proprio grazie all’affermarsi del movimento politico e sindacale dei lavoratori dell’industria, ispirato dagli insegnamenti del filosofo di Treviri e dei suoi seguaci. Così il sistema capitalistico è sopravvissuto e si è anzi enormemente sviluppato, paradossalmente rafforzato da chi voleva abbatterlo e ne ha invece curati i difetti più evidenti strappando all’avidità dei capitalisti condizioni di vita e di salario progressivamente migliori per i lavoratori. Quello era un mondo dominato dal capitale fisico (capannoni e macchine). Siamo ora entrati in un mondo in cui il «capitale» non è più solo fisico, ma è anche umano e organizzativo. Anche queste due ulteriori forme di capitale vengono prodotte in apposite «fabbriche» (scuole e università; laboratori di It, grandi business schools), vengono comprate e vendute su un mercato, vengono accumulate presso i rispettivi detentori in modo da moltiplicarne i frutti. I lavoratori e le aziende interagiscono, ciascuno forte del pro-

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prio capitale, in modi che possono essere armoniosi e accrescitivi del benessere collettivo oppure distonici e distruttivi. Le organizzazioni sindacali hanno un grande ruolo da giocare in questo nuovo mondo, ma devono prima far pace con la propria origine storica, riconoscerla, celebrarla come merita, quindi superarla. Occorre portare a compimento la parabola storica che ha condizionato il sistema dei valori culturali e delle prassi organizzative dei sindacati italiani attraverso l’intreccio con l’azione delle forze politiche che hanno forgiato la vita democratica del paese dopo il fascismo e la guerra. Non potrà non trattarsi di una mutazione culturale, che solo potrà nascere dall’interno stesso dei sindacati, dalle loro frange più giovani e attente al mutare delle condizioni storiche. Il frastornato Giuseppe della storia raccontata nel paragrafo precedente forse ha capito tutto questo, anche se pensa di no. Ma non è da lui che può pretendersi quella rivoluzione culturale che ridia ruolo e futuro al sindacato italiano.

capitolo sesto

LA CULTURA GIURIDICA

UNA STORIA A DUE FACCE

Anna è sveglia da poco ed è già stanca. Sta lavorando molto, troppo. Lavora in un piccolo gruppo di ragazze e ragazzi, organizzano «eventi» culturali per conto di aziende e assessorati al turismo. Anna lavora troppo anche perché Giuliano è morto. Giuliano aveva ventotto anni, da tre con il gruppo, di cui era rapidamente divenuto il pilastro, il saggio, il decano di fatto. All’ombra dei suoi occhi profondi tutti, anche chi aveva più anni ed esperienze di lui, si sentiva protetto, rassicurato. Una mattina se ne è andato, di schianto, qualcosa nel suo corpo si è rotto e amen. Non lavorava soltanto, Giuliano, faceva tante cose, la politica, il teatro, il giornalismo, l’amicizia, l’amore. La folla di coloro che ha lasciato orfani ha deciso di intitolargli una fondazione, che persegua scopi nobili, di quelli che lo renderebbero contento se mai lo venisse a sapere. È stata fatta una colletta, per raggranellare un po’ di soldi con cui iniziare l’attività. E quella mattina bisogna andare tutti dal notaio per l’atto costitutivo. Anna deve sbrigarsi, l’appuntamento è alle 10, in un altro quartiere di Roma.

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Judith volge distrattamente gli occhi verso la vita che scorre di là del finestrino scurito della sua limousine. Passanti, insegne, cartacce, si fondono in una stria di grigiorosso newyorkese e fanno da quinta agli aguzzi pensieri di Judith. Tutto in lei è aguzzo: le ginocchia appena lasciate scoperte dalla sobria gonna chanel, le nocche delle dita quasi mai inanellate, il profilo del naso, le secche parole con cui governa l’impero industriale che porta il suo nome. Quella mattina Judith rimugina il passo che sta per compiere. Crea una corporate foundation. La fondazione verrà dotata di un patrimonio molto ingente, in parte a carico della sua azienda, in parte delle sue personali finanze. Avrà scopi umanitari, soprattutto nel campo dell’infanzia abbandonata e delle malattie infantili nel Terzo Mondo. A Judith non interessano affatto i bambini, soprattutto se poveri e infelici. Ha sempre pensato che la fortuna si distribuisce fra i popoli e gli individui secondo i meriti di fondo, o tutt’al più secondo il caso, dunque non ci si deve o non ci si può far niente. Ma le è capitata una noia pericolosa: alcune delle sue fabbriche in Asia sono state prese di mira come luoghi di sfruttamento del lavoro minorile. Vero o falso che sia e, posto che sia vero, giusto o sbagliato che sia, poco importa: la perdita di reputazione dei suoi marchi di largo consumo è ingente. I suoi avvocati le dicono che le accuse sono quanto meno opinabili. Gli stessi intellettuali che sovvenziona le parlano di relatività delle condizioni di sviluppo, di scenari controfattuali... No, Judith non vuole più giocare in difesa, ha deciso di passare al contrattacco. Vuole proporsi, con la fondazione, come l’alfiere mondiale delle creaturine derelitte. E quella mattina la fondazione sarà legalmente costituita.

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Anna si affretta verso la porta di casa. Il suo compagno Marcel le è al fianco: ha conosciuto anche lui Giuliano, vuole partecipare all’iniziativa. Saranno una cinquantina di persone i soci fondatori. Adele, una ragazza del gruppo, si è prestata nelle settimane precedenti a raccogliere da tutti le quote di partecipazione e le fotocopie dei documenti d’identità e dei tesserini fiscali. Queste ultime andavano consegnate al notaio in anticipo, per facilitarlo nella redazione della bozza di atto. Ora tutti i fondatori devono ritrovarsi dal notaio perché si possa perfezionare l’atto. Marcel non è italiano. Vive in Italia da anni e ancora si sforza di razionalizzare le strane usanze di questo paese. Ora, per esempio, mentre scorta Anna verso l’auto, s’interroga fra sé e sé su quanto sta per fare. Già il concetto di notaio gli risulta ostico da comprendere. Si tratta di un signore, gli hanno spiegato, che, quando ad esempio due privati vogliono farsi tra loro un affare qualunque (uno vende una casa a un altro, oppure si mettono d’accordo per creare una nuova impresa, ecc.), scrive tutto quello che i due vogliono fare su un pezzo di carta con le righe, lo riempie di bolli e si fa pagare una somma elevata. La faccenda non serve tanto a garantire i due l’uno nei confronti dell’altro, si badi bene. Per quello nella maggior parte dei casi basterebbe una scrittura privata e, in quelli più complicati, un avvocato. E in ogni caso due cittadini adulti e vaccinati se la sbrigheranno ben fra di loro a difendersi dagli imbrogli rispettivi! Pare invece che si debba dare piena garanzia all’intera popolazione italiana che quei due signori sono veramente loro, che intendono fare esattamente quello che hanno convenuto di fare. È un problema di fede

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pubblica, pare, tutti i cittadini devono essere sicuri che quei due non fanno scherzi nel loro pur privatissimo affare. A Marcel pare un caso di voyeurismo collettivo, pagato caro, per di più, a esclusivo beneficio di un signore, il notaio, che è un soggetto privato anch’egli, però speciale, un soggetto che ha fatto un concorso pubblico da giovane e si è guadagnato in tal modo il diritto vitalizio a esigere la sua gabella. Lui e i suoi consimili impongono inoltre allo Stato, che pure è il loro benefattore, di razionare i concorsi pubblici d’ingresso, in modo che il numero di notai non ecceda mai quello che consente a tutti loro di restare ciascuno incontrastato nel proprio dominio territoriale e, quindi, ben agiato. Marcel si è documentato nei giorni precedenti sulla procedura che occorrerà seguire per costituire la fondazione GiuGen (così si chiamerà, dal nomignolo di Giuliano, che di cognome faceva Gennaio, anche se è morto in una rigogliosa mattina d’aprile). Non perché s’intenda di legge, ma per pura curiosità, per la voglia che ha di capire a fondo il paese che lo ospita. Si è procurato un manualetto in cui la faccenda viene spiegata per filo e per segno. Lo stadio iniziale è l’atto pubblico, redatto dal notaio. L’atto costitutivo e lo statuto di una fondazione devono essere redatti per atto pubblico, a pena di nullità, e devono contenere gli elementi previsti da un certo articolo (16) del codice civile (denominazione dell’ente, indicazione dello scopo, del patrimonio e della sede, norme sull’ordinamento e sull’amministrazione; nel caso di una fondazione, anche i criteri e le modalità di erogazione delle rendite). Il primo ed essenziale compito del notaio è di farsi personalmente certo della identità di tutti i fondatori e di con-

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statare di persona la volontà da essi espressa. Questo, appunto, perché egli possa attestare al mondo incredulo l’una e l’altra cosa. Pertanto i contraenti, anche quando sono, come in questo caso, cinquanta, devono recarsi tutti simultaneamente presso di lui, muniti di documento d’identità. Se uno proprio non può, gli è data la possibilità di delegare qualcun altro, ma per farlo deve sottoscrivere una «procura». Davanti a chi? Ma a un notaio, naturalmente. Una specie di catch 22. Marcel, che è un uomo molto occupato dal suo lavoro, si era chiesto qualche giorno prima se non gli convenisse dare procura ad Anna, per evitarsi la seccatura di quella mattina mezza persa, ma poi aveva concluso che avrebbe finito con il consumare lo stesso tempo, e avrebbe inoltre costretto Anna a perderlo due volte. Sono tutti riuniti dal gabelliere ora, a cui hanno invaso lo studio polveroso e accaldato. Judith è diretta nel suo ufficio. Nessuno mai oserebbe importunarla chiedendole di recarsi in alcun luogo per costituire la sua charitable organization. Lo statuto della fondazione (bylaws) e l’atto costitutivo (articles of association) sono stati preparati dai suoi avvocati, lei ha dato loro solo una occhiata, comodamente seduta nella sua poltrona qualche giorno prima. Il popolo americano non è interessato a vedersi attestare da chicchessia che lei sia veramente lei e che intenda veramente fare quello che dice di voler fare con i suoi soldi. D’altronde, negli Stati Uniti non esiste nulla che somigli a un notaio. Se qualcuno, alle origini della storia di quella fortunata (almeno in questo) nazione, avesse provato a proporne l’istituzione sarebbe stato consegnato nelle

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mani dello sceriffo locale perché gli facesse rinfrescare le idee con una notte in guardina. Il notaio è seduto al centro di un tavolone, fiancheggiato da un assistente in piedi, in una sala infuocata dallo scirocco. In piedi sono anche tutti i cinquanta soci fondatori. Il notaio li chiama uno per uno: quando sono al suo cospetto ne declina ad alta voce le generalità, che legge su un brogliaccio, preparato con le fotocopie dei documenti d’identità raccolte nei giorni precedenti. Le legge in fretta, mangiandosi le sillabe, le parole, storpiando nomi, sputacchiando ogni tanto qualche spiritosaggine. Legge persino i codici fiscali, masticando lettere e numeri in una poltiglia inintelligibile. Mentre legge, agguanta l’originale del documento d’identità che gli viene porto dall’imputato di turno (imputato di tentata frode ai suoi danni, questo è chiaramente il pensiero che gli passa per la testa, e anche di disturbo della sua quiete personale); sbircia nervosamente il documento, lo restituisce di malagrazia, passa a un altro. Un paio di minuti per ciascuno dei cinquanta, fanno quasi due ore di questa litania insensata. La liturgia giunge al momento eucaristico: l’ostensione e la lettura integrale della bozza di atto. La prosa è prolissa, antiquata. La bozza viene anch’essa recitata ad alta velocità. Gli astanti si sforzano di riconoscere in quegli arabeschi verbali le ragioni vere che li hanno portati lì, il sorriso mite di Giuliano, le belle cose che si vorrebbero fatte nel suo nome, ma ne percepiscono soltanto brandelli sfilacciati. Ogni tanto il notaio s’accorge di refusi, oppure ha dei ripensamenti concettuali su quanto è scritto. Parlando ad alta voce con se stesso corregge l’errore con annotazioni mano-

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scritte. Su alcuni passaggi a suo giudizio delicati esige la corale approvazione del gruppo, che il gruppo non gli nega, ma solo per intimorita ansia di compiacerlo, non perché si sia compreso il senso della sua domanda. Infine chiama di nuovo accanto a sé i convenuti uno per uno, perché appongano la loro firma su dei fogli di carta. Con le righe. A cose fatte, Anna lo ascolta confidare a una dei presenti il suo incredulo compiacimento per l’eccezionale risultato raggiunto: tutto compiuto in nemmeno tre ore, e senza incidenti! Mille cose potevano andare storte, sussurra, mille! Potevano non essere presenti, di persona o per procura, tutti i cinquanta; potevano ritrovarsi documenti d’identità scaduti, domicili scambiati per residenze, nomi propri multipli con virgola e senza virgola, mariti scambiati per mogli, mogli scambiate per un cappello... Un miracolo, capisce signora, un miracolo, si rende conto che per ciascuno di questi incidenti avremmo dovuto ricominciare da capo, riconvocare tutti in un diverso giorno, rifare le procure, riscrivere tutto l’atto, chiedere rogatorie internazionali, rovesciare anagrafi e catasti, un disastro, un disastro... Anna lo vede retrocedere verso la sua stanza roteando mani e occhi in preda al suo incubo. Judith è nel frattempo arrivata in ufficio. Chiede alla segretaria di passarle al telefono l’avvocato Bailey. Quando lo ha in linea, chiede notizie della fondazione. L’avvocato la informa deferente (la deferenza è coperta anch’essa dalla lauta parcella) che è tutto ok. Un’ora prima è stata pagata l’imposta di registrazione ed effettuato il dovuto deposito presso la Segreteria di Stato dello State of New York. Cinquantanove minuti dopo, cioè un minuto prima, la richie-

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sta di registrazione, firmata da uno dei soci costitutori (il fratello Clark) è stata consegnata a un funzionario della Segreteria che, constatate le ricevute dei pagamenti dovuti, ha seduta stante apposto sul documento la parola magica «filed», con data e ora. Fatto. La Judith&Clark Simpleton Foundation è nata, gode già di tutte le previste agevolazioni fiscali; è pronta a salvare molte vite infantili; ma soprattutto le stock options dei manager della Simpleton Industries Inc. Anna è rientrata in ufficio dopo l’adunata dal notaio. Chiede ad Adele, che sta entrando nella stanza, quali altri passi si dovranno compiere perché la fondazione possa iniziare a operare. Adele si siede sul bordo della scrivania, si è appena informata, e le dice: dunque, meno male che la procedura per ottenere il riconoscimento di una fondazione è stata semplificata qualche anno fa. La nuova disciplina prevede che il riconoscimento sia determinato dall’iscrizione nel Registro delle persone giuridiche tenuto presso la Prefettura, previo accertamento da parte di quest’ultima che lo scopo della fondazione sia possibile e lecito e che il patrimonio sia adeguato alla realizzazione dello scopo. La disciplina precedente prevedeva invece un sistema di controlli pubblici più incisivi, còmpita Adele, volti a verificare anche la compatibilità con l’interesse pubblico dei fini perseguiti dall’ente. Anna si chiede come farà a spiegare a Marcel il senso di questa cosa. La sequenza logica è: il popolo elegge il Parlamento, questo esprime un governo, che è rappresentato ufficialmente in ciascuna provincia da un prefetto. Se cinquanta signore e signori vogliono mettere insieme un po’

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dei loro soldi per scopi benefici, e vogliono dare nome e visibilità all’iniziativa, non basta mica la manfrina davanti al notaio, che se ne fa testimone ufficiale di fronte alla fede pubblica, pensa Anna riflettendoci per la prima volta. Ci deve mettere il naso il governo, nientemeno! Deve andar lì a sindacare, sempre nell’interesse del popolo sprovveduto, non solo che nell’atto costitutivo non sia prevista la promozione delle rapine a mano armata, ma addirittura che i fondatori non vogliano per caso far volare gli asini; e si preoccuperà anche, il governo medesimo, che gli ingenui fondatori non pensino di sovvenzionare un ospedale con 100 euro, che non basterebbero nemmeno a pagare una radiografia, fantastica Anna ormai assorta nella sua conquistata indignazione. Adele prosegue il resoconto. La domanda al prefetto per il riconoscimento della fondazione va presentata in duplice copia, di cui una in bollo; occorre allegare: – due copie, di cui una autentica e in bollo, dell’atto costitutivo e dello statuto, redatti per atto pubblico; – una relazione illustrativa, in due copie, sull’attività concretamente svolta e/o su quella che l’ente intende perseguire, debitamente sottoscritta dal presidente del medesimo; – una relazione, in due copie, sulla situazione economico-finanziaria, sottoscritta dal legale rappresentante dell’ente, corredata da perizia giurata di parte, nel caso di esistenza di beni immobili e da attestazione bancaria relativa ai beni patrimoniali mobiliari; – due copie dei bilanci preventivi e dei dati consuntivi approvati nell’ultimo triennio o nel periodo antecedente la presentazione dell’istanza, qualora l’istituzione abbia già operato come ente non riconosciuto;

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– elenco dei componenti degli organi direttivi dell’ente, sottoscritto dal presidente di quest’ultimo; – dichiarazione bancaria attestante la liquidità patrimoniale. Anna si concentra su quella particolare intimazione, «due copie», scoccata come una freccia a infilzare tutto quel mulinìo di carte. Dunque la documentazione sarà esaminata da due diversi funzionari, pensa Anna, e nessuno dei due vorrà prendersi la briga di fotocopiarla per il collega, che probabilmente gli starà anche antipatico. Cerca di figurarsi le facce dei due funzionari prefettizi, e le smorfie che potranno fare immergendosi in tutte quelle relazioni e bilanci e controrelazioni, ma la voce di Adele la scuote dalla sua fantasticheria. Le sta dicendo che, deo gratias!, entro il termine di centoventi giorni (quattro mesi) dalla data di presentazione della domanda il prefetto può provvedere all’iscrizione nell’apposito registro. Può, oppure no. Se la prefettura ravvisa ragioni ostative all’iscrizione, ovvero la necessità di integrare la documentazione presentata, allora essa ne dà motivata comunicazione ai richiedenti, i quali, nei successivi trenta giorni (e fanno cinque mesi), possono presentare memorie e documenti. Se, nell’ulteriore termine di trenta giorni (e fanno sei mesi), il prefetto non comunica ai richiedenti il motivato diniego, ovvero non provvede all’iscrizione, questa si intende negata: cosiddetto principio del silenzio-rifiuto (ma non si era detto che per tagliare le unghie alla burocrazia doveva farsi sempre prevalere il principio del silenzio-assenso, rimugina Anna cercando di ricordare dove l’aveva letto). Rispetto a quanto previsto per le società commerciali, spiega implacabile Adele, la costituzione di fondazioni e associazioni riconosciute si presenta necessariamente più one-

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rosa, in quanto il riconoscimento presuppone un sia pur residuale (residuale! O mamma mia, esala Anna) controllo di merito da parte dell’autorità governativa in aggiunta all’accertamento di legalità effettuato, in entrambi i casi, dal notaio. Finalmente, la fondazione potrà assumere la qualifica di Onlus (organizzazione non lucrativa di utilità sociale) al fine di godere delle previste agevolazioni fiscali, riservate a quelle organizzazioni che perseguono esclusivamente finalità di solidarietà sociale, con il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’organizzazione medesima, e a cui spetta l’obbligo di redigere il bilancio o rendiconto annuale, ecc., ecc., ecc. Judith richiude di scatto il piccolo computer portatile su cui annota idee, pensieri, lampi di memoria. Le è tornato in mente un viaggio in Europa dell’estate prima, durante il quale era riuscita a ritagliarsi un paio di giorni di riposo. Amici italiani l’avevano portata in una valle alpina, fra certe montagne aspre e indorate di sole. Un luogo famoso da quelle parti, le pare di ricordare si chiamasse Cortina. E le sovviene una breve passeggiata solitaria, appena fuori del villaggio, lungo una stradina pedonale che ripercorre, le avevano spiegato, il tracciato di una vecchia ferrovia scomparsa. Aveva deviato per un sentiero sterrato, in salita, fino a una radura nel bosco di abeti, affacciato sulla parete verticale di uno di quei monti. Roccia rugosa, irta di pinnacoli, solcata da spaccature profonde. Guardandola, si era smarrita in sé. Un attimo, un corrugare la fronte, un alzarsi e ripercorrere i suoi passi, svelta.

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E se ci tornasse? Magari per ritrovare quella sospensione della coscienza? La Judith&Clark Simpleton Foundation dovrebbe, è già pianificato, fare proseliti in altri paesi avanzati. Vi sono contatti con corrispondenti inglesi, tedeschi, perfino russi. Perché non anche in Italia? Domani dirà all’avvocato Bailey di costituire una fondazione d’appoggio anche là; magari il giorno dopo, pensa Judith, potrebbe fare un breve salto a Milano, da Londra dove si troverà, per brindare all’avvenuta costituzione. Il giorno dopo... IL DIRITTO, LA GIUSTIZIA, L’EFFICIENZA

Ferve, mentre scrivo queste note, la discussione pubblica sulla giustizia in Italia. È convinzione unanime che la macchina della giustizia sia molto malfunzionante. Ci si divide accanitamente sulle cause e sui rimedi. Gli addetti alla macchina – gli operatori del diritto: magistrati, avvocati, giuristi accademici – tendono prevalentemente a lamentare insufficienza di mezzi e carenze di capacità amministrativa da parte del governo, a cui si imputano piuttosto voglie di impunità per i ceti dominanti. Politici, giornalisti, cittadini, in schiera crescente, guardano con occhio critico anche ai comportamenti degli addetti ai lavori e segnatamente dei giudici, lamentandone pigrizie, inerzie, errori, arroganze. Questo dibattito non è rilevante soltanto per i suoi riflessi sulla vita civile. È centrale per determinare la traiettoria di sviluppo economico del paese. Che le forme fondamentali dell’agire economico (i commerci, gli investimenti) deperiscano e si spengano in assenza di saldi diritti di proprietà e di regole efficaci per l’applicazione dei contratti ce lo hanno

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insegnato secoli di pensiero politico ed economico, da Montesquieu ad Adam Smith. In linea con questa tradizione possiamo affermare che una delle più antiche e pervicaci ragioni dell’irrisolto difetto strutturale di produttività del sistema economico italiano sta proprio nel mancato riconoscimento, nelle norme giuridiche e nelle prassi giudiziarie e amministrative presenti nel paese, delle ragioni del mercato e dell’efficienza economica, se non addirittura in un’aperta ostilità a queste. Si tratta di un dato storico la cui incoerenza con le esigenze di buon funzionamento del sistema economico, da sempre latente, diviene manifesta e letale nel momento in cui i termini della produzione e dello scambio internazionale vengono rivoluzionati dall’avvento del nuovo paradigma tecnologico e dalla progressiva integrazione dei mercati. Una manifestazione clamorosa di tale sordità del diritto italiano alle ragioni dell’efficienza è l’abnorme durata dei processi. Ormai da gran tempo non vi è inaugurazione di anno giudiziario in Italia in cui gli oratori in toga ed ermellino non lancino grida di dolore su questa piaga incancrenita. Una ricerca recente, ampia e approfondita (Bianco et al.), indaga su entità e cause del fenomeno con riferimento alla giustizia civile, la più direttamente rilevante ai fini del buon funzionamento del sistema economico. Riguardo alla entità del fenomeno, una premessa è necessaria: misurare la lentezza dei processi in Italia in confronto ai tempi rilevati negli altri paesi si scontra con la drammatica scarsità, da noi, di dati affidabili. Questo è un problema in sé: la situazione va per di più peggiorando nel tempo, anziché migliorare; vi torneremo. Comunque, dalle evidenze disponibili, faticosamente ricostruite dai più accreditati organismi internazionali, emerge un fatto inequivocabile: l’Italia è di gran

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lunga il fanalino di coda nell’ampio novero dei paesi avanzati, con una durata media dei procedimenti civili almeno tripla di quella altrui. Un’autentica catastrofe, le cui proporzioni tendono per di più ad aggravarsi dall’inizio di questo decennio, con una pronunciata variabilità territoriale: in alcune aree del Sud la durata dei processi tende all’indefinito, se non all’infinito. La ricerca di Bianco et al. si chiede allora, con l’approccio tipico dell’analisi economica: è un problema di domanda, di offerta o di regole? In altri termini, è la produzione da parte degli uffici giudiziari di «servizi di giustizia» a essere carente e inefficiente, oppure è la domanda di tali servizi da parte dei cittadini a essere abnorme, oppure ancora sono le regole procedurali, il «rito», a essere di ostacolo a una rapida conclusione dell’iter processuale? La risposta è: tutti e tre questi aspetti concorrono a determinare la catastrofe. Iniziando dall’offerta, l’organizzazione della «fabbrica» della giustizia in Italia è intrinsecamente inefficiente, nel senso che – a parità di costi – i servizi prodotti sono da noi di quantità e qualità inferiore (gli altri paesi non appaiono spendere più di noi per la giustizia, in rapporto alla popolazione o al peso economico; il confronto diviene sfavorevole solo in rapporto al numero di procedimenti pendenti). Quali le cause? La irrazionalità della rete degli uffici (troppo frammentata e squilibrata geograficamente), la disorganizzazione interna di questi, lo scarso uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la bassa produttività media dei giudici. Questi due ultimi fatti sono correlati fra loro in modo biunivoco: lo chiarisce bene la vicenda del Processo civile telematico. Si tratta di un vecchio progetto, ideato e perseguito con tenacia per anni da un pugno

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di persone di buona volontà (magistrati, giuristi accademici, dirigenti ministeriali), mirante a informatizzare la gestione degli atti processuali. Questi ultimi erano, e sono tuttora, in larga prevalenza cartacei, come tutta la documentazione su cui i processi si basano (i famosi «faldoni» delle cronache giornalistico-giudiziarie). Il progetto, iniziato nell’ambito delle procedure fallimentari con la introduzione di sistemi informativi per la gestione dei decreti ingiuntivi, è stato gradualmente esteso a tutti i riti del processo civile ordinario, alle esecuzioni individuali e alle procedure concorsuali. Il suo sviluppo ha incontrato, e tuttora incontra, forti resistenze negli ambienti giudiziari. Perché? Per molti motivi, ma uno, forse non il principale ma certo importante, è il seguente: se coloro che ne hanno titolo vogliono visionare degli atti processuali, normalmente devono rivolgersi agli uffici di cancelleria, con procedure e tempi scoraggianti; ove quegli atti fossero immediatamente accessibili in rete, senza complicazioni e lungaggini, a divenire trasparenti sarebbero non solo i processi, ma anche le prestazioni di tutti gli attori del processo (giudici, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari), di cui sarebbe possibile misurare tempi di lavoro e produttività. Ne discenderebbe un irresistibile impulso allo smantellamento di diffuse posizioni di rendita, che mortificano l’impegno di tanti operatori del diritto preparati e coscienziosi. È evidente che c’è un problema di incentivi, tema noto e caro agli economisti. Esso riguarda innanzitutto i magistrati; la ricerca di Bianco et al. vi si sofferma lungamente: nella progressione in carriera, nella griglia retributiva, nella visibilità pubblica, un magistrato deve sentirsi invogliato, non scoraggiato, a essere imparziale e corretto nelle decisioni, a

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far durare i processi il minimo possibile, a porsi in un atteggiamento di servizio nei confronti dei cittadini. Andrebbe poi forse capovolta la piramide di merito: è nel primo grado di giudizio che andrebbero concentrati i giudici più bravi ed esperti, capaci di definire rapidamente un numero elevato di cause. Ma il tema trascende la magistratura e riguarda tutti gli altri attori della giustizia e il contesto organizzativo in cui operano. La distribuzione sul territorio degli uffici e le piante organiche del personale giudiziario e amministrativo sono ferme all’Italietta degli anni Cinquanta, in cui ad esempio il Nord Est era ancora una povera zona di emigrazione, non la fucina di sviluppo economico che è poi diventato. Quanto agli avvocati, essi ricavano dai malfunzionamenti del sistema l’incentivo a «vendere tempo», prima ancora che sostegno per ottenere una sentenza favorevole. Sono questioni complesse e irte di obiettivi in conflitto, dunque esigono accortezza e lungimiranza, ma mai nessuna organizzazione può funzionare se gli incentivi dei suoi componenti non sono allineati alla finalità generale. I richiami all’etica riempiono le guance dei rètori e riscaldano le tavole rotonde, ma non hanno mai risolto il ben che minimo problema organizzativo. La domanda di giustizia civile (cioè il numero di controversie fra privati di cui si cerca una soluzione giudiziaria) in Italia è abnorme, in paragone a quella degli altri paesi con cui ci confrontiamo. Ogni anno oltre sei italiani su cento avviano in primo grado un procedimento civile o amministrativo, contro tre francesi, due spagnoli, mezzo svedese (dati del 2004; la situazione è probabilmente peggiorata da allora). L’alta litigiosità italiana può avere cause antropolo-

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gico-culturali, attinenti alla dotazione di «capitale sociale». Lo potrebbe far sospettare la diversificazione Nord-Sud di questo indicatore: a Bari si litiga davanti a un giudice sei volte di più che a Trento. Ma vi sono altre spiegazioni, empiricamente verificate: il calcolo opportunistico (anziché pagare un creditore mi faccio chiamare in giudizio, l’inefficienza del sistema farà sì che alla fine il creditore, stremato dall’attesa, accetterà una transazione e mi farà uno sconto); l’alto numero di avvocati e gli incentivi perversi insiti nella struttura dei loro compensi (legati al tempo più che al risultato); l’«inquinamento normativo» (norme mal scritte e continuamente cambiate); le erratiche oscillazioni della giurisprudenza, soprattutto di quella della Corte di cassazione. Passiamo infine al rito, cioè alle regole che scandiscono l’iter del processo. Quindici anni di riforme, che hanno sostanzialmente riscritto il codice di procedura civile, non sembrano serviti quasi a nulla sotto il profilo dello snellimento e della velocizzazione dei processi. Assi portanti delle riforme dovevano essere una valorizzazione della fase introduttiva del giudizio per accelerarne la conclusione, un maggior ruolo del giudice rispetto a quello delle parti per contenere le tattiche dilatorie di queste, alcuni riti speciali per valorizzare le specializzazioni dei giudici in taluni campi. In pratica non hanno funzionato, per l’assenza di un disegno generale, per la contraddittorietà di alcuni interventi (che hanno causato una moltiplicazione irrazionale e dispersiva dei riti non conosciuta in alcun altro ordinamento), a volte per le resistenze di parte della classe forense e della stessa magistratura. Perché tutto questo? Al fondo, il problema è culturale. Nel nostro sistema di pensiero la giurisdizione è intrinsecamen-

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te a-economica: essa è espressione di sovranità e garanzia dei diritti, dunque è una funzione senza costo e senza tempo, in cui ogni singolo processo ha valore assoluto (Mirabelli). Questa assolutezza di principio esclude che si proceda a una valutazione di costi-benefici per la collettività, perché il solo bene in gioco è l’affermazione del diritto controverso, che non è un «servizio» ai cittadini ma un bene di valore infinito, dunque da perseguire costi quello che costi e senza limiti di tempo. È una concezione astratta e statica (ancora Mirabelli), destinata a rivelarsi incompatibile con il funzionamento di una economia moderna se non sarà sottoposta a una profonda revisione. Scendendo dalla sfera della filosofia politica e giuridica al terreno di ciò che praticamente rileva per il cittadino comune, il tema è meglio riassumibile con il prosaico linguaggio dell’economista: la giustizia, come la difesa dai nemici esterni, come l’ordine pubblico, come la pulizia delle strade, è un «servizio», che ha un processo di produzione, dei costi, una qualità percepita, un prezzo. Il cittadino desidera che quel servizio gli venga reso, nel momento in cui ne ha bisogno, tempestivamente, efficacemente, a un prezzo che sia, includendovi sia la parte pagata direttamente sia quella pagata indirettamente in forma di prelievo tributario, ragionevole. Se si muove dal principio che la giurisdizione debba rendere un servizio alla società, il suo valore, misurabile, deve eccederne il costo. Ebbene, il valore del servizio giurisdizionale decade con il prolungarsi del processo: oltre una certa soglia temporale (la ragionevole durata di cui al precetto costituzionale) il beneficio netto per la società si tramuta in maleficio, sicché sarebbe più nell’interesse collettivo una rinuncia all’affermazione del dirit-

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to che non lo sfinimento di un processo che si perde nel futuro indistinto. Tanto è pertinente il concetto di servizio applicato alla giustizia che per essa, così come per qualunque altro servizio pubblico, sarebbe tranquillamente concepibile una gestione privata, almeno in ipotesi. Di fatto, persino in Italia vi sono ambiti, pur marginali, di giustizia privata o semiprivata, dagli arbitrati ai giudici di pace, fino a quei magistrati in pensione che vanno in televisione a dirimere piccole dispute. In punto di principio, se il governo fosse in grado di stendere un contratto completo e onnicomprensivo, tale da coprire ogni possibile evenienza, gli sarebbe indifferente, in termini di bontà dei risultati, affidare contrattualmente l’amministrazione della giustizia a un appaltatore privato piuttosto che a un apparato di funzionari pubblici (Hart, Shleifer, Vishny). Intendiamoci, il «servizio giustizia» è bene che resti pubblico, ma non per ragioni di astratto principio, solo perché contratti così «completi» sono irrealistici. Tuttavia, esso può e deve essere valutato dai cittadini come un vero servizio, per il quale essi pagano e dal quale devono potersi aspettare una soddisfazione ragionevole. Non vi sono in tutto questo né sacralità da ossequiare né primazie morali di un qualche concetto astratto su un altro. Non potrebbe essere più evidente la distanza di questa visione delle cose dalla realtà delle nostre aule di giustizia e delle nostre facoltà di giurisprudenza. La cultura e la tradizione giuridiche italiane appaiono essere, nel manifestare ostilità per il mercato e le libertà economiche, un caso estremo nel ventaglio dei paesi che si rifanno alla tradizione di civil law, cioè di un diritto basato sulla legislazione dello Stato. Questa, diffusa nell’Europa con-

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tinentale, specialmente affinata nella Francia napoleonica e presente con varianti in Germania e in Italia, si contrappone alla tradizione anglosassone di common law, cioè del diritto comune basato sulle decisioni delle corti. La distinzione fra le due famiglie giuridiche è oggi più sfumata che in passato, per l’affermarsi progressivo nei nostri ordinamenti di un concetto di diritto «giurisprudenziale». Tuttavia essa permane. Secondo gli economisti che hanno sviluppato la teoria dell’origine del diritto (Legal Origin Theory: La Porta, Lopez-de-Silanes, Shleifer), questa distinzione aiuta a spiegare molte caratteristiche storiche e di performance economica dei diversi paesi che sono inscrivibili nell’una o nell’altra tradizione giuridica. Viene provato empiricamente, pur con alcune arditezze metodologiche, che mentre i sistemi di common law si adoperano principalmente a sostenere il libero operare dei mercati, quelli di civil law preferiscono sostenere l’intervento dello Stato; i primi assicurano, nella maggior parte dei casi, risultati economici superiori, mentre non è dimostrabile che i secondi consentano, pur al prezzo di un minor benessere economico, un miglior accesso alla giustizia o una maggiore equità dei giudizi. Una semplice regola pratica per capire a quale delle due tradizioni giuridiche un certo paese appartiene, senza bisogno di studiarne approfonditamente le istituzioni, consiste nello sfogliare i giornali e rilevare l’incidenza relativa dei termini «Stato» e «governo» nelle cronache politiche. Nei paesi di common law la parola Stato non compare quasi mai: è un concetto invisibile, non ha un nome e un cognome, dunque è inservibile a ogni effetto pratico; molto meglio parlare di governo, cioè dell’insieme di quelle donne e di quegli uomini, forniti di precise generalità, a cui la col-

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lettività ha delegato, hic et nunc, il compito di fornire determinati servizi utili a tutti. Porto un esempio, tratto da un esercizio empirico condotto periodicamente dalla Banca Mondiale con il nome di «Doing business». Uno degli indicatori elaborati nell’ambito di questo esercizio si basa sulla elencazione e misurazione in ciascuna economia nazionale di tutti gli adempimenti di legge, regolamentari e burocratici che sono richiesti a chi voglia far nascere una nuova impresa. Perché farlo? Perché una economia che non sappia essere buona levatrice di imprese nuove è meno naturalmente predisposta alla crescita del benessere: le imprese neonate sono il canale principale per immettere innovazione, dinamismo, efficienza nel sistema. È un fatto universale della vita, si applica alle cellule nuove di un organismo, alle famiglie, ai popoli, quindi anche alle economie. L’esercizio empirico della Banca Mondiale è disegnato in modo da cercare di premiare nel punteggio la presenza di poche e «buone» regole, non necessariamente l’assenza di regole. L’economia maggiormente pro-impresa e pro-crescita è idealmente quella in cui le norme e le prassi applicative non solo ci sono, ma sono severe ed efficaci nel fissare i diritti di proprietà e rendere spedita la risoluzione delle dispute, con l’effetto di massimizzare la prevedibilità delle transazioni economiche e la protezione dei contraenti dagli abusi, al tempo stesso minimizzando tempi e costi di interazione con gli uffici pubblici e con i tribunali. Dal Rapporto Doing Business 2009 l’Italia esce malissimo, 65esima in graduatoria, preceduta da tutti i paesi avanzati con cui normalmente si confronta, e anche da molti paesi emergenti. Guardando la successione di tali Rapporti nel

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corso del tempo si nota che la posizione italiana peggiora quasi costantemente. Questo tipo di esercizio soffre, va detto, di una serie di difetti metodologici obiettivi, che possono particolarmente penalizzare paesi come l’Italia che attribuiscono un maggior peso ai benefici sociali di talune regole rispetto ai loro costi privati. Tuttavia il responso è allarmante, soprattutto in campi come il rispetto dei contratti e la tutela effettiva dei creditori. Il punto nodale si conferma essere di ordine culturale: di filosofia del diritto, di costumi. Riguarda il nesso fra diritto e mercato. Su questo nesso sono state scritte recentemente da Angelo Panebianco alcune pagine che ritengo illuminanti. Nel commentare l’affermarsi nell’Europa continentale – segnatamente in Germania e in Italia – del liberalismo statalista come variante indebolita del liberalismo giuridico, egli ne vede l’origine in una tradizione culturale che crede nel primato morale dello Stato, tempio in cui si custodisce l’ara del bene collettivo, sulla società, palude di interessi egoistici. Questa tradizione forgia da sempre le élites politiche, amministrative e intellettuali, privilegia la formazione giuridica nell’accesso a queste, affida l’insegnamento universitario, così come l’amministrazione della giustizia, a dei funzionari pubblici. In questo clima culturale il concetto economico di libero mercato suscita diffidenza: la libertà nell’agire economico è vista come fonte di disordini e pericoli, dunque come moralmente subordinata a tutte le altre manifestazioni della libertà. Nella vigente Costituzione italiana a quella libertà non si riconosce nemmeno lo status di diritto fondamentale, ma solo quello, inferiore, di interesse legittimo. Panebianco rammenta a questo proposito l’opposizione polemica di Einaudi alla distinzione crociana fra

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liberalismo etico-politico e liberismo economico, che vedeva il secondo come nient’affatto necessario ad affermare il primo. La parabola dei regimi comunisti, nota Panebianco, ha dato definitivamente ragione a Einaudi in quella disputa. Egli conclude osservando che la egemonia culturale del primato dello Stato, l’accigliata sospettosità nei confronti del libero sprigionarsi delle forze di mercato, sono nient’altro che paura di tutto ciò che si muove, dell’innovazione, del dinamismo economico e sociale, che induce a preferire una società statica, in cui il sacerdozio funzionariale, a cui il bene pubblico è affidato, deve imbrigliare e controllare il nuovo: «ma se», si chiede Panebianco, «fosse davvero possibile bandire l’innovazione e, quindi, l’imprevedibile, che cosa resterebbe da dire a favore della libertà?». Vi è a monte un problema di autodisciplina del legislatore. Occorre essere convinti di un dato di fatto: la chiarezza, la semplicità, la stabilità del quadro delle norme entro cui si muove l’agire economico sono i valori fondanti del progresso. Vi sono nell’ordinamento italiano troppe norme, troppo oscure, troppo di frequente cambiate, spesso inapplicate nella noncuranza di chi ne sarebbe responsabile. Questo dipende, certo, da contingenti inadeguatezze degli ordinari facitori di norme (uffici legislativi e gabinetti dei ministeri, esperti dei partiti, singoli parlamentari). Ma discende in ultima analisi dalla matrice culturale comune a tutti loro. Supponiamo che una certa attività economica presenti quella che gli economisti chiamano una esternalità negativa; si pensi ad esempio al potenziale turbamento della fede pubblica (per quanto insignificante lo si possa ritenere) che si produrrebbe se una fondazione costituita a scopi di beneficenza – come quella descritta nel racconto precedente

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– dovesse tradire il suo mandato rivelando traffici venali. Teoria e buon senso concordano nel suggerire l’applicazione di disincentivi pecuniari che orientino le libere scelte dei privati; nell’esempio fatto: ti sei, tu fondazione, tramutata in una impresa profit? O vorresti farlo? Bene, vuol dire che, oltre a pagare quanto dovuto per l’eventuale evasione fiscale (se sei una Onlus), i tuoi fondatori pagheranno singolarmente di tasca loro una speciale indennità all’erario, per compensare la collettività del danno morale subito. Qual è invece il riflesso condizionato del legislatore italiano? Quello di prevedere divieti assoluti o pesanti controlli ex ante (notarili e prefettizi), il più delle volte inattuabili o attuabili solo con burocratica cecità, sempre offensivi del buon senso, a causa di incoerenze interne delle norme o per incapacità dell’amministrazione e del sistema giudiziario. «A cominciare dal livello costituzionale, è necessario ripensare l’intera cornice del diritto positivo entro cui l’economia italiana opera» (Ciocca). Per questo, occorre una vera, profonda, vasta rivoluzione culturale, che solo la migliore scuola giuridica italiana potrà e saprà promuovere.

RITROVARE IL TEMPO GIUSTO

Nel concerto dei paesi avanzati l’Italia e la sua economia suonano in controtempo da molti anni. Almeno dai primi anni Novanta, forse addirittura dagli anni Settanta. In quegli anni più remoti, mentre le imprese degli altri s’ingrandivano, le nostre iniziavano a rimpicciolirsi, ponendosi in una condizione che si rivelerà svantaggiosa successivamente. Vent’anni più tardi, all’avanzare della globalizzazione, noi siamo rimasti attardati in una specializzazione settoriale obsoleta; mentre gli altri sfruttavano la rivoluzione tecnologica per diventare più produttivi e arricchirsi, noi abbiamo stentato a mantenere l’efficienza e il tenore di vita medi, accrescendo solo le disuguaglianze sociali; di fronte al progredire nel mondo della liberalizzazione e della privatizzazione delle parti pubbliche dell’economia noi abbiamo indugiato neghittosi, per la ostinata resistenza di chi temeva di perdere potere economico ed elettorale; dello sviluppo della finanza innovativa non abbiamo colto gli aspetti che più ci sarebbero serviti a far evolvere l’assetto proprietario e dimensionale delle nostre imprese. Ora ci piove addosso la crisi globale e ci coglie nuovamen-

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te in controtempo. Ma stavolta ai rischi si associano delle opportunità, come proverò a sostenere. La situazione si modifica così rapidamente che non so a che punto sarà giunta nel momento in cui questo scritto comparirà in libreria; di certo, in questa tarda primavera del 2009 essa ha raggiunto uno stadio allarmante. La crisi è globale in un duplice senso: non risparmia alcun aspetto della vita economica e sociale, dalla finanza più sofisticata alle code dei disoccupati davanti agli uffici di collocamento; investe tutto il mondo, a cominciare dalla potenza militarmente ed economicamente egemone fino ai paesi più poveri e marginali. L’Italia è stata colpita da questa crisi, come tutti gli altri paesi, sulle prime quasi senza accorgersene, poi con progressivo sbigottimento. Si rincorrono, da noi come altrove, i paragoni storici con altre crisi recessive del passato: i primi anni Novanta, la metà degli anni Settanta, il temibile ’29. La caduta del Pil che si prefigura per il 2009 è ben più grave di quelle osservate negli anni peggiori delle prime due crisi citate; potrebbe essere dell’ordine di grandezza osservato al tempo della Grande Depressione. Ma dei semplici confronti statistici a distanza di decenni sono futili, ogni epoca ha sue peculiarità non riproducibili. La caratteristica dell’epoca presente, per l’Italia, è la debolezza strutturale del suo sistema produttivo, a cui si stava forse trovando un parziale rimedio quando la crisi è divampata. Questo libro nasceva originariamente proprio dalla volontà di documentare, sulla stregua di alcune ricerche condotte in Banca d’Italia, questo faticoso processo di ristrutturazione del sistema delle imprese. L’intenzione era di fare professione ragionata – evidenze alla mano – di ottimismo.

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Ma ora la questione diviene un’altra, già menzionata nella Prefazione: cosa sta succedendo ai germogli di ristrutturazione del sistema produttivo italiano sotto questa terribile grandinata? Stanno gelando? Oppure resisteranno ed esploderanno in una grande primavera fiorita dopo che la grandinata sarà passata, magari ancora più robusti di quanto non s’annunciassero, perché fortificati dalle avversità climatiche? Se prevarrà il primo caso, fare professione di ottimismo diviene un compito davvero improbo, praticamente impossibile. La società italiana, è vero, ha mille risorse e intelligenze, tante volte esibite nel passato, capaci di farle fare dei balzi di progresso materiale e morale: è accaduto al tempo della prima grande ondata di industrializzazione a cavallo fra il XIX e il XX secolo, è successo ancora col «miracolo economico» dei due decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. In entrambi quegli episodi il paese seppe cogliere il segno dei tempi nuovi, nelle tecnologie dominanti come nell’apertura degli scambi internazionali, e vi reagì creativamente, costruttivamente. Stavolta, dagli anni Novanta, di fronte alle novità rivoluzionarie delle tecnologie digitali e della globalizzazione, l’Italia e la sua economia fanno fatica. La società è avviata su un crinale demografico di invecchiamento progressivo. L’invecchiamento è anche psicologico. Vasti strati della società sembrano in preda a paure crescenti: paura del nuovo, del dinamico, dell’avventuroso; sembrano piuttosto ansiosi di tutele, di assistenze, di protezioni; non osano, sonnecchiano tranquilli nell’agio di un benessere ritenuto acquisito per sempre. Non tutto il paese è così. Lo sanno bene i ricercatori del Censis, che pure avevano rappresentato un paio di anni fa

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la società italiana come una mucillagine priva di nessi interni, senza forza e senza futuro. Nel loro ultimo Rapporto (2008) essi affacciano l’ipotesi, pur con mille cautele, che la grande paura indotta dalla crisi possa offuscare le tante piccole paure diffuse e innescare una metamorfosi salutare. Una metamorfosi abbisogna di agenti lievitanti: lo potrebbero essere quegli altri segmenti della società, della imprenditoria, delle generazioni giovani che si affacciano ora sul mercato del lavoro, che restano attenti al nuovo, che sono disposti a correre rischi calcolati, a sperimentare, a rimettersi periodicamente in gioco. Come tutti i grandi cataclismi questa crisi può provocare distruzioni gravi, ma può anche creare occasioni di rigenerazione. Di certo essa rimescolerà le carte nel mondo, scompaginerà assetti consolidati di vantaggio competitivo. Potrà avviare al declino alcune economie e proiettarne sul proscenio delle altre. La forza e il vantaggio competitivo di una economia stanno nella capacità di aumentare nel tempo la ricchezza e il benessere dei suoi attori, generando ogni anno un flusso di reddito consistente e crescente. Il reddito prodotto è il valore che quella economia è capace di aggiungere alle materie prime di cui dispone o che si procura all’estero, facendone dei «beni» (materiali come un’automobile o immateriali come un concerto di violino) che siano desiderati e venduti profittevolmente su un libero mercato, oppure somministrati dal governo ai suoi cittadini. Questo valore aggiunto lo creano le donne e gli uomini con il loro lavoro, i cui frutti vengono incorporati nel bene. Il processo di creazione del reddito e della ricchezza attraverso il lavoro,

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in un regime di libertà economica e civile, deve potersi svolgere in un quadro di regole e istituzioni che ne riconoscano e accettino le peculiari modalità di funzionamento, in modo da renderlo fluido ed efficiente. Organizzazione del lavoro e assetto giuridico-istituzionale sono i due campi in cui il nostro paese deve attuare le riforme più profonde. Tutto il resto segue da lì. Sono riforme, come ho cercato di chiarire nei capitoli precedenti, di ordine culturale prima ancora che normativo. Quei due campi appaiono distanti fra loro e in realtà lo sono, ciascuno ha avuto il suo sviluppo storico, ha i suoi protagonisti, i suoi luoghi topici. Ma a volte s’intersecano. C’è un tema di attualità in questo momento in Italia in cui i due malfunzionamenti fondamentali di cui parlo – il ruolo spesso anacronistico del sindacato e la distanza del diritto dai problemi prioritari della società – si sono mostrati in tutta la loro evidenza e si sono rinfocolati l’un l’altro: il lavoro precario. Come ho ricordato nel capitolo quinto, la rapida diffusione del precariato in Italia è dipesa dal fatto che molte aziende private e amministrazioni pubbliche hanno visto nelle forme contrattuali nuove che venivano introdotte e disciplinate dalla legge una facile scappatoia dalla persistente rigidità delle norme in materia di licenziamento, rigidità acuita dalla inefficienza dei tribunali del lavoro. Percorrere quella scappatoia è stato possibile a causa di entrambi i due malfunzionamenti fondamentali che menzionavo prima, perversamente alleati. Da un lato, i sindacati hanno girato il capo dall’altra parte, occupati in faccende che sembravano ben più rilevanti dal punto di vista della visibilità politica. Dall’altro, il legislatore ha compiuto l’errore tipico figlio della nostra cultura giuridica: ha scritto nor-

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me astrattamente coerenti e severe ma se ne è infischiato totalmente della loro applicabilità; le norme sui cosiddetti co.co.pro., pensate per accrescere le tutele nei confronti di questi, hanno in realtà messo nelle mani dei datori di lavoro, soprattutto nella grigia galassia dei servizi (anche pubblici), una pistola carica, consentendo loro di assumere dei neo-schiavi (un po’ come quelli dei primi tempi dell’industrializzazione) semplicemente spacciandoli per liberi professionisti incaricati di realizzare un progetto, certi che mai nessun ispettore del lavoro o sindacalista sarebbe andato a controllare. È solo un esempio, ma istruttivo. Tornando a ragionare in generale, cambiare lo stato delle cose in questi due ambiti è davvero molto difficile, perché si tratta di deviare percorsi secolari. Ma è una operazione che va iniziata indifferibilmente, soprattutto ora che è sopravvenuta una crisi destinata in qualche modo a cambiare il mondo e la posizione che il nostro paese vi occupa. Il cambiamento può solo venire dall’interno delle rispettive famiglie culturali – il sindacalismo, il diritto – e può solo essere promosso dalla parte più innovativa e lungimirante dei loro attori. Quelle due famiglie (preferisco chiamarle così, piuttosto che ricorrere a termini più caustici, come caste o corporazioni) dovrebbero generare nel loro seno dei movimenti di opinione, poco importa se inizialmente minoritari, che volgano con fermezza lo sguardo al futuro delle rispettive funzioni, per raccordarle alle tendenze e ai bisogni della società. La grande crisi mondiale di questo inizio di secolo fa rifluire ovunque la produzione e gli scambi, e fa rifluire con essi l’onda falsamente liberista che ha dominato il mondo nei passati tre decenni. È una risacca che risucchia all’indietro

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tutto ciò che quell’onda spingeva, senza troppo distinguere i valori veri dai valori fasulli: il libero mercato, il predominio del privato sul pubblico, il libero commercio internazionale, fra i primi; gli squilibri nei pagamenti fra paesi e aree, la finanza nelle sue declinazioni avventuriste, la crescita economica fondata sul consumo a debito, fra i secondi. La risacca coglie il nostro paese mentre faticosamente cercava di recuperare, insieme con i ritardi tecnologici, anche quelli di cultura del mercato e dell’efficienza. È l’ennesimo caso di «controtempo» ma stavolta dobbiamo servircene a nostro vantaggio. Alcune caratteristiche del sistema italiano che la voga precedente faceva sembrare antiquate – l’alto risparmio delle famiglie, banche saldamente basate sulla raccolta di questo risparmio, un assetto di regole e di prassi di supervisione sulla finanza capillari e attente – erano invece, e restano, fattori di equilibrio. Vanno rinsaldati e valorizzati. La tentazione a cui invece bisogna resistere è quella di attenuare o invertire il processo di recupero dei veri valori del liberalismo, nella sfera politica come in quella economica: il valore del rispetto dei ruoli fra i soggetti della vita pubblica (partiti, sindacati, istituzioni); il valore di un interesse pubblico da misurare pragmaticamente, non da situare nei cieli astratti dell’assoluto giuridico; il valore della libera concorrenza, da tutelare con regole severe e meccanismi applicativi efficienti. Nel mondo infuria una tempesta che minaccia anche quei valori, non solo i disvalori che vi avevano proliferato accanto. Se manteniamo il controtempo ancora per una battuta, alla fine ritroveremo il tempo giusto.

BIBLIOGRAFIA

Prefazione La citazione (in parte artefatta) da Ernesto Rossi è tratta da E. Rossi, G. Salvemini, Dall’esilio alla Repubblica: lettere 1944-1957, a cura di M. Franzinelli, Bollati Boringhieri, Torino 2004 (193-194). L’excursus a volo d’uccello delle vicende attraversate dalla economia italiana dalla seconda guerra mondiale a oggi è basato sul mio libro La politica economica italiana 1968-2007, Laterza, Roma-Bari 2007. Sulle due questioni non trattate affatto in questo libro – l’istruzione, le pensioni – rinvio rispettivamente a I. Visco, Investire in conoscenza, il Mulino, Bologna 2009, e D. Franco, Italy: a Never-Ending Pension Reform, in M. Feldstein e H. Stebert (a cura di), Coping with the Pension Crisis: Where Does Europe Stand?, Chicago University Press, Chicago (Il.) 2002.

I. Prima della crisi Questo capitolo si basa, per la rivoluzione tecnologica, su una serie di ricerche condotte in Banca d’Italia all’inizio degli anni Duemila, raccolte in un volume da me curato dal titolo La Nuova Economia: i fatti dietro il mito, il Mulino, Bologna 2003. Alcune delle considerazioni sulla globalizzazione qui proposte le anticipavo in La politica economica italiana 1968-2007 cit.

II. La crisi Questo capitolo si fonda largamente sul mio articolo Miseria e nobiltà della finanza, pubblicato nella rivista «il Mulino», 6, novembre-dicembre 2008. L’opera di G. Simmel che vi si cita è Philosophie

des Geldes, Duncker&Humblot, Leipzig 1900, trad. it., La filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli, L. Perucchi, Utet, Torino 1984. Il riferimento a F. Knight riguarda la sua opera fondamentale Risk, Uncertainty, and Profit, Hart, Shaffner&Marx, Boston (Ma) 1921. Riguardo alle modalità di ricapitalizzazione delle banche riporto l’opinione di R. Caballero, A global perspective on the great financial insurance run: causes, consequences, and solutions, 26.1.2009, www.voxeu.org, e la mia, pure pubblicata su www.voxeu.org il 25.2.2009 col titolo To come out of it, use all the exits and get the incentives right. La bellissima citazione einaudiana la devo ad A. Gigliobianco, Che nesso c’è fra il pensiero liberale classico e la regolazione dell’economia?, mimeo, Banca d’Italia, 2008, ed è tratta da L. Einaudi, Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello del liberalismo (1931), in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli 1988. La critica empirica alle posizioni della Scuola di Chicago è di A. Shleifer, Understanding Regulation, in «European Financial Management», 11, 4, 2005 (439-451).

III. Le imprese Il dibattito dei primi anni Duemila sulla ipotesi di un declino storico della economia italiana fu alimentato da numerosi contributi. Fra gli altri ricordo quelli di I. Visco, È veramente in declino l’economia italiana?, in «Aspenia», 21, giugno 2003 (154-162), di R. Faini, Fu vero declino? L’Italia degli anni Novanta, in «il Mulino», 6, novembre-dicembre 2003, e mio, dal ti-

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Bibliografia

tolo Economia italiana: perché la deriva non si muti in declino, in «il Mulino», 4, luglio-agosto 2004 (639-650). Il racconto di Pasquale il sarto è tratto da R. Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano 2006. La prima ricerca della Banca d’Italia sulle imprese italiane in questo decennio vide i suoi risultati riassunti nel mio libro La regina e il cavallo. Quattro mosse contro il declino, Laterza, Roma-Bari 2006. I lavori di ricercatori della Banca d’Italia su cui ho basato le considerazioni svolte nel paragrafo Le imprese sul mercato sono: M. Bugamelli, A. Rosolia, Produttività e concorrenza estera, in «Temi di discussione», Banca d’Italia, 578, 2006; M. Bugamelli, S. Fabiani, E. Sette, The Pro-competitive Effect of Imports from China: an Analysis on Firm-level Price Data, mimeo, Banca d’Italia, 2008; M. Bugamelli, F. Schivardi, R. Zizza, The Euro and Firm Restructuring, in A. Alesina, F. Giavazzi, Europe and the Euro, Chicago University Press, Chicago (Il.) 2009; A. Brandolini, M. Bugamelli (a cura di), Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano, in «Questioni di Economia e Finanza», Banca d’Italia, 45, 2009; M. Bugamelli, Prezzi delle esportazioni, qualità dei prodotti e caratteristiche d’impresa: un’analisi su un campione di imprese italiane, in A. Lanza, B. Quintieri (a cura di), Eppur si muove. Come cambia l’export italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007. Quelli su cui ho invece basato l’analisi svolta nel paragrafo Le imprese (ancora) protette sono: M. Bianco, P. Sestito, La riforma della regolamentazione dei servizi pubblici locali in Italia: linee generali e insegnamenti per il futuro, in «Questioni di Economia e Finanza», Banca d’Italia, 18, 2008; E. Viviano, Entry Regulations and Labor Market Outcomes: Evidence from the Italian Retail Trade Sector, in «Labour Economics», 15/6, 2008 (1200-1222); G. Barone, F. Cingano, Service Regulation and Growth: Evidence from OECD Countries, in «Temi di discussione», Banca d’Italia, 675, giugno 2008.

IV. La finanza Nel paragrafo Finanza per le imprese ho utilizzato i seguenti lavori di ricercatori della Banca d’Italia: D.M. Del Colle, P. Finaldi Russo, A. Generale, The Causes and Consequences of Venture Capital Financing. An Analysis Based on a Sample of Italian Firms, in «Temi di discussione», Banca d’Italia, 584, marzo 2006; AA.VV., Il private equity in Italia, in «Questioni di Economia e Finanza», Banca d’Italia, 4, 2009; S. Magri, The Financing of Small Innovative Firms: the Italian Case, in «Economics of Innovation and New Technology», 18/2, 2009. Per la redazione del paragrafo Finanza per le famiglie, in particolare per la rivisitazione del caso Parmalat, devo molto all’assistenza, con dati e discussioni, di Silvia Giacomelli e ai commenti di Alessio de Vincenzo e Andrea Enria. Per l’accordo detto di Basilea 2 ci si può riferire a Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria, International Convergence of Capital Measurement and Capital Standards: A Revised Framework. Comprehensive Version, mimeo, giugno 2006.

V. Il ruolo del sindacato Il racconto del paragrafo Ritorno a casa è integralmente frutto della mia fantasia. Per le considerazioni svolte nel paragrafo Sindacato o Partito?mi sono avvalso di: U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), il Mulino, Bologna 1977; S. Turone, Storia del sindacato in Italia 1943-1980, Laterza, Roma-Bari 1981; A. Carioti, Di Vittorio, il Mulino, Bologna 2004; P. Ichino, Per chi vale il contratto, www.lavoce.info, 14.2.2009; Eurofound, Trade Union Membership 1993-2003, www.eurofound.europa.eu, 3.2.2009; J. Visser, Union Membership Statistics in 24 Countries, http://digitalcommons.ilr. cornell.edu/key_workplace/273;

Bibliografia R. Reich, Why We Need Stronger Unions, and How to Get Them, http: //robertreich.blogspot.com, 6.2.2009; G. Baglioni, L’accerchiamento, il Mulino, Bologna 2009. I dati Isfol sui lavoratori precari sono tratti da E. Mandrone, La riclassificazione del lavoro tra occupazione standard e atipica: l’indagine Isfol-Plus 2006, Studi Isfol, 2008/1, marzo 2008. I lavori, tutti di ricercatori della Banca d’Italia, che ho utilizzato sono: R. Torrini, L’andamento delle quote distributive in Italia, in «Questioni di Economia e Finanza», Banca d’Italia, in corso di pubblicazione; A. Brandolini, La disuguaglianza dei redditi personali: perché l’Italia somiglia più agli Stati Uniti che alla Germania?, in R. Catanzaro, G. Sciortino (a cura di), La fatica di cambiare. Rapporto Cattaneo sullo stato della società italiana, il Mulino, Bologna 2009 (133-153); A. Rosolia, R. Torrini, The Generation Gap: Relative Earnings of Young and Old Workers in Italy, in «Temi di discussione», Banca d’Italia, 639, settembre 2007; P. Cipollone, A. Guelfi, The Value of Flexible Contracts: Evidence from an Italian Panel of Industrial Firms, in «Temi di discussione», Banca d’Italia, 583, marzo 2006; A. Rosolia, L’evoluzione delle retribuzioni in Italia tra il 1986 e il 2004 secondo i dati dell’archivio WHIP, in «Questioni di Economia e Finanza», in corso di pubblicazione.

VI. La cultura giuridica Devo innanzitutto ringraziare Magda Bianco, Silvia Giacomelli, Pasquale Liccardo, Giuliana Palumbo e Marino Perassi per avere letto e commentato pazientemente questo capitolo, che si situa alquanto fuori della mia sfera di competenza. Il racconto nel paragrafo Una storia a due facce è di pura fantasia tranne che per un aspetto: Giuliano Gennaio è vissuto davvero, anche se per troppo breve tempo. Chiunque voglia avere una idea su chi

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fosse quel ragazzo straordinario può visitare http://giulianogennaio.wetpaint.com. Anche la fondazione GiuGen esiste davvero: si veda www.fondazionegiuliano gennaio.it. Nel racconto mi sono inoltre basato, per tutti gli aspetti di diritto comparato Italia-Stati Uniti, su: G. Palumbo, C. Giorgiantonio, F. Lasconi, D. Sabbatini, P. Santella, Costituzione e regime fiscale delle organizzazioni aventi finalità sociali in Italia e negli Stati Uniti, mimeo, Banca d’Italia, 2008. Per l’analisi svolta nel paragrafo Il diritto, la giustizia, l’efficienza mi sono avvalso innanzitutto di una ricerca condotta in Banca d’Italia da M. Bianco, S. Giacomelli, C. Giorgiantonio, G. Palumbo, B. Szego, La durata (eccessiva) dei procedimenti civili in Italia: offerta, domanda o rito?, pubblicata in «Rivista di politica economica», settembre-ottobre 2007. Sono anche citati: C. Mirabelli, Dall’astratta certezza del diritto alla certa definizione dei rapporti, in C. Mirabelli, L. Paganetto, G. Tria, Economia della giustizia, Donzelli, Roma 2005; O. Hart, A. Shleifer, R.W. Vishny, The Proper Scope of Government: Theory and an Application to Prisons, in «The Quartely Journal of Economics», novembre 1997 (1127-1161); R. La Porta, F. Lopez-De-Silanes, A. Shleifer, The Economic Consequences of Legal Origins, in «Journal of Economic Literature», 46/2, giugno 2008 (285-332); World Bank, Doing Business in 2009, Washington 2008; il bellissimo libro di A. Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà, il Mulino, Bologna 2004, di cui ho in particolare utilizzato il capitolo IV (La legge); P. Ciocca, Un nuovo diritto per l’economia italiana, www.apertacontrada.it, 5.12.2008.

Ritrovare il tempo giusto Il Rapporto del Censis a cui si fa riferimento nelle pagine conclusive è stato pubblicato in Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2008, Franco Angeli, Roma 2008.