Contro il non profit

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Saggi Tascabili Laterza 394

Giovanni Moro

Contro il non profit ovvero come una teoria riduttiva produce informazioni confuse, inganna la opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiare

Editori Laterza

© 2014, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2014 1

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Edizione 4 5

Anno 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0994-6

Al pensiero non si dà nulla ad intendere Italo Mancini

Contro il non profit

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Una dichiarazione di intenti

1. Genus turpe Gli studiosi medievali di retorica chiamavano genus turpe quel genere letterario in cui si sostengono argomenti che suonano ripugnanti ma il ricorso ai quali permette di costruire un discorso efficace. Un ottimo esempio di genus turpe è la famosa Modesta proposta di Jonathan Swift secondo la quale, per risolvere in un colpo solo il problema della sovrappopolazione e quello della povertà in Irlanda, la cosa migliore da fare era ingrassare i bambini poveri per venderli ai ricchi proprietari come prelibatezza gastronomica. Temo che questo libro rientri decisamente nel genus turpe. Che cosa c’è, infatti, di più ripugnante oggi di schierarsi contro chi si occupa dei poveri, dei deboli, dei malati e dei bambini abbandonati? Tuttavia, a differenza di quanto può far credere il titolo, volutamente provocatorio, questo libro non è contro il non profit, specialmente se con questo termine vago e residuale (non-qualcosa) si intendono cittadini che si organizzano e agiscono sulla scena pubblica, lì dove sono in gioco diritti da tutelare o da far riconoscere, beni comuni da curare o da arricchire, persone in difficoltà in modo temporaneo o permanente da aiu­3

tare a esercitare i propri poteri e le proprie prerogative. Non potrei proprio essere contro questo tipo di non profit perché in un modo o nell’altro tutta la mia vita a questo è stata dedicata: prima con la partecipazione alla costituzione, alla fine degli anni ’70, e poi con la guida, tra il 1989 e il 2002, di un movimento di cittadini operante in Italia e in Europa, Cittadinanzattiva; quindi come studioso nel think tank (naturalmente non profit) che presiedo, Fondaca, e in diverse università, nonché come autore di ricerche su questo fenomeno, inedito e anomalo nel panorama delle società contemporanee. Il libro è invece contro il non profit – o terzo settore che dir si voglia – se con questa espressione si intende una categoria del pensiero economico diventata prima teoria sociale, poi provvedimento legislativo di carattere tributario e quindi spazio protetto di azione in cui un po’ tutto è possibile – dai ristoranti alle palestre, dalle cliniche alle polisportive – con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbia utilità sociale, possibili arricchimenti personali, conflitti di interesse, elusione fiscale, rapporti di lavoro insani, concorrenza sleale con le imprese private, ricchi che diventano più ricchi e poveri più poveri, «buoni» che legittimano vantaggi per i «cattivi». Direi, anzi, che è proprio questo secondo significato che è oggetto del libro, critico ma anche costruttivo nell’indicare il molto che non va per poter fare meglio: e si può fare molto, ma molto meglio. Ancora, il libro non è stato scritto per accodarsi alla crescente ondata critica – un po’ giustificata e un po’ scandalistica – che si è manifestata negli ultimi anni a proposito delle organizzazioni non profit, con particolare riferimento a quelle che operano nel welfare e a quelle che si occupano di cooperazione internazionale allo sviluppo. Per chi, come me, ha una memoria abbastanza ­4

lunga su questi fenomeni, non è difficile ricordare che la stessa retorica, ma di segno opposto, per anni è stata riversata su qualunque sciocchezza o banalità promossa da quello che veniva (e viene) enfaticamente denominato «volontariato», «solidarietà», «sociale» e via elencando, considerato buono di per sé. Che ci siano comportamenti negativi è fin troppo ovvio. Ma questo non è un libro di denuncia, né è volto a suscitare scandali. Piuttosto, il libro mira a mettere in luce i fattori che concorrono a determinare questi comportamenti, non andando a scandagliare le eventuali bassezze dell’animo umano, ma cercando di far emergere il problema che ne è alla base. Questo punto è, a mio avviso, della massima importanza: mentre le rappresentazioni correnti attribuiscono comportamenti auto-interessati o di pura convenienza a cadute o deviazioni di carattere morale, la mia convinzione è che questi comportamenti, stridenti con un senso comune che attribuisce al «terzo settore» virtù intrinseche, siano invece impliciti nella stessa concettualizzazione del non profit, oppure ne siano una conseguenza logica e materiale. In altre parole, questa concettualizzazione, con le sue conseguenze nelle leggi, nelle politiche pubbliche, nell’amministrazione, nei comportamenti dei soggetti privati, contiene in sé il germe di patologie che sono perfettamente coerenti con essa. Intendiamoci: utilizzare i soldi raccolti per i poveri per pagare le vacanze del presidente di una associazione, oppure dare cibo scaduto ai bambini di un asilo, o maltrattare gli anziani in una casa di riposo sono reati e basta, non c’è altro da aggiungere. Ma «vestire» un ristorante da associazione culturale, pretendere che la organizzazione di gite turistiche abbia un particolare valore sociale perché realizzata da volontari, dichiarare ­5

non profit una struttura sanitaria o educativa i cui costi la rendono inaccessibile per la maggioranza della popolazione, tanto per fare qualche esempio, sono patologie intrinseche alla concettualizzazione del «non profit» o «terzo settore», e non a una malattia morale dei suoi protagonisti. Qui sta il problema che con questo libro intendo affrontare. Ma qual è, più precisamente, questo problema? 2. Il problema Il problema è che nella categorizzazione del non profit una miriade di organizzazioni e iniziative vengono accorpate in un magma informe, tenuto insieme solo da una ragione fiscale, e nel quale attività della massima utilità sociale finiscono per essere messe insieme ad altre, ottime e piacevoli ma che con l’interesse generale c’entrano poco; e insieme ad altre ancora, che invece utilizzano (in diversi casi, più precisamente, sfruttano) l’alone di rispetto, simpatia e fiducia pubblica di cui questo magma gode, soprattutto per merito di chi lo fa credendoci. Tutto ciò ha effetti rilevanti nella vita del paese, se appena si pensa che il settore non profit, secondo i dati più recenti, conta 301.191 istituzioni e organizzazioni, con quasi un milione di lavoratori, oltre a 4,7 milioni di volontari; con una ottantina di miliardi di euro di entrate, pari a più del 3% del Prodotto interno lordo (Pil). Le radici di questa situazione stanno nella adozione acritica di un paradigma arcaico e residuale con il quale sono state classificate insieme tutte le realtà non pubbliche e non private (private nel senso di finalizzate a generare un profitto per i proprietari o gli azionisti). Questo paradigma attribuisce a tali realtà una rilevanza ­6

primariamente in termini economici, in quanto produttrici di offerta e lavoro nel mercato dei servizi; e in secondo luogo in quanto promotrici di socialità, dando un valore assoluto al fatto di mettersi e stare insieme, qualunque sia l’attività che viene condotta. A questo primo problema se ne è aggiunto un altro quando tale prospettiva è stata acriticamente assunta per l’Italia (ma la situazione di altri paesi europei non è molto diversa). Non si è considerato, cioè, che questa classificazione di entità più o meno sociali ma senza scopo di lucro risponde a una logica estranea alla storia della nostra Repubblica, nella quale, che piaccia o meno, è lo Stato che ha la responsabilità di garantire sicurezza, assistenza e supporto alle persone; o, per dirla con le parole della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana. La logica implicita in questa operazione, al contrario, è quella di un sistema di welfare in cui la presenza dello Stato per rispondere ai bisogni della società è marginale e in cui è la comunità a farsi carico di tali bisogni, sia realizzando servizi a ciò finalizzati, sia finanziandoli con donazioni. Il legislatore italiano ha raccolto tutto ciò in una congerie di normative diverse e concorrenti, la più importante delle quali, tuttavia, è di natura tributaria. Quest’ultima riconosce un valore sociale alla produzione di servizi nel welfare e nella vita comunitaria, favorendo, con un sistema di sgravi e misure premiali, le organizzazioni e le istituzioni che operano in questo quadro. Un mondo eterogeneo come lo possono essere le università non statali e i doposcuola nei quartieri periferici, o i ristoranti e le mense per i poveri, è stato così creato per legge. Gli opinion maker hanno fatto il resto, attribuendo un valore sociale in sé a queste realtà, che hanno potuto così svilupparsi sulla base di un presupposto di carat­7

tere ideologico e catalizzando sempre più intenzioni e aspirazioni che di valore sociale hanno poco o nulla. Invece di un monitoraggio e di una valutazione del pubblico connessi alla effettiva attività svolta e ai reali benefici conseguiti dalla collettività e dalle persone in stato di bisogno, si sono attivati controlli burocratici e puramente formali, basati sulla tradizionale cultura del sospetto dello Stato verso i cittadini, salvo stracciarsi le vesti quando si scopriva che qualcuno si era appropriato di soldi non propri o che ne aveva fatto un uso abnorme. D’altra parte, per molti addetti ai lavori, questa confusione è stata un buon affare: ha consentito di ergersi a rappresentanti di un universo enorme e ricco reclamando spazio, risorse e cariche politiche e amministrative; di liberarsi dalla responsabilità della gestione dei servizi pubblici abbandonandoli a se stessi o sottopagandoli; di migliorare la propria reputazione cavandosela con qualche donazione; di drenare risorse per definire e analizzare sempre meglio un tutto che è omogeneo quanto una stanza in cui si trovano un microscopio, un cannone, un cesto di frutta, un cavallo a dondolo e un ippopotamo. Le organizzazioni non profit, come dice una mia amica americana, restano irriducibilmente delle entità economiche che non hanno azionisti. Che facciano cose abnormi, inutili, neutre, positive o meritorie rispetto all’interesse generale va dimostrato su base empirica e non è affatto garantito da questo status. Esso, al contrario, fa sì che chi si spende per l’interesse generale sia trattato esattamente allo stesso modo di chi si mette insieme per coltivare passioni e interessi perfettamente legittimi ma privati e di chi fa della condizione di essere «non profit» niente altro che un buon affare. ­8

3. Puzzle ed enigmi Chi fa ricerca sa che gli oggetti della osservazione scientifica sono di due tipi. Si possono rendere queste diverse situazioni, facendo ricorso al linguaggio comune, in termini di enigmi e puzzle. Gli enigmi sono quelli che caratterizzano situazioni in cui non tutto è noto o visibile, per cui il lavoro del ricercatore è volto a scoprire fatti, fenomeni o processi che fino a quel momento non erano stati individuati e che sono necessari per interpretare o spiegare la realtà. I puzzle, invece, denotano situazioni in cui tutto è già noto e ciò che è necessario è assemblare o fondere le informazioni esistenti in modo tale da spiegare di più e meglio fatti e circostanze. Sulla base di questa distinzione, si può dire che l’oggetto del libro è tutto meno che un enigma. Nulla di quello che illustrerò è ignoto o si può considerare una scoperta. Tutti i materiali necessari sono disponibili e largamente conosciuti, se non al grande pubblico, almeno agli addetti ai lavori: ricercatori, esperti, policy maker, legislatori, donatori privati, esponenti del cosiddetto terzo settore. L’oggetto di questo libro è, dunque, un vero e proprio puzzle: tutti i pezzi sono sul tavolo e la sfida è quella di metterli assieme nel modo giusto, nel senso di maggiormente produttivo in termini di conoscenza. È ciò che mi propongo di fare e devo dire che si tratta di un compito decisamente più agevole di molti altri che mi sono trovato ad affrontare nel mio lavoro di ricerca. Un enigma, tuttavia, c’è anche in questo caso. Esso si può rendere con semplici domande. Perché, di fronte a una situazione così evidente, non sono state sviluppate (a quanto mi consta) le semplici – a tratti del tutto banali – considerazioni che costituiscono il contenuto di questo libro? Come mai in trent’anni di dibattiti, ricer­9

che, leggi e regolamenti, azioni amministrative, campagne di comunicazione e attività dei media, investimenti pubblici e privati, non si è guardato con più attenzione al mostro concettuale prima che fattuale che si stava generando? Perché non è stato fatto qualcosa per evitare che comparisse quello che assomiglia a un Golem? Io stesso, scrivendo queste pagine introduttive, mentre ho davanti agli occhi i pezzi principali del puzzle, non ho elementi per rispondere alla domanda sull’enigma del suo mancato riconoscimento. Essa, tuttavia, è a suo modo importante quanto la questione di mettere insieme i pezzi nel modo giusto. 4. Confessioni È opportuno che in questo capitolo introduttivo io inserisca un tema che, usualmente, ha posto in prefazioni o postfazioni, i luoghi in cui l’autore riporta informazioni e intenzioni di carattere personale. Mi sembra giusto, cioè, chiarire da quali esperienze ha avuto origine l’idea del libro. Si tratta di esperienze di due tipi, quella più prossima di ricercatore e quella, più antica, di dirigente di una organizzazione di cittadini. Come ricercatore sociale mi sono trovato diverse volte a misurarmi con la difficoltà di produrre informazioni e conoscenze attendibili su quella porzione di settore non profit che è stato ed è un tema fondamentale della mia attività, vale a dire la molteplicità di forme di auto-organizzazione di cittadini che operano come attori della scena pubblica. Ciò è avvenuto, in particolare, tra il 2004 e il 2006, quando mi sono trovato a dirigere la parte sull’Italia, affidata a Fondaca, di un progetto di ricerca internazionale sulle società civili, il Civil Society Index. In quella occasione ho potuto toccare con mano ­10

quanto è difficile ottenere dati dalle basi informative esistenti, essendo queste prevalentemente focalizzate sul settore non profit nel suo complesso. Paradossalmente, produrre dati e informazioni su insiemi di organizzazioni con forti elementi comuni (come quelle di attivismo civico che io studio) è molto più difficile che dare i numeri su un magma che non ha alcun elemento rilevante di comunanza, come appunto il non profit. Chi intende farlo, deve compiere vere e proprie acrobazie intellettuali e metodologiche1. È stato soprattutto riflettendo su questa esperienza che, a partire dal 2006, con i colleghi di Fondaca abbiamo aperto un dialogo con l’Istat, che aveva come oggetto proprio il problema che ho illustrato sopra e i modi per risolverlo. A partire da questo dialogo, e grazie alla sensibilità del nuovo presidente dell’Istat Enrico Giovannini, tra il 2011 e il 2012 è stato possibile elaborare, assieme ai dirigenti e ai ricercatori dell’istituto di statistica, una domanda-filtro che è stata inserita nel questionario del Censimento delle organizzazioni non profit riferito al 2011 e che mirava proprio a selezionare, in questo magma, quelle organizzazioni definibili «di cittadinanza attiva» in quanto operanti per la tutela di diritti, la cura di beni comuni e l’empowerment di soggetti in difficoltà2. Queste esperienze condotte come ricercatore mi hanno portato a riflettere, in modo più generale, sul 1   Per qualche esempio di questi problemi e di queste acrobazie, vedi Giovanni Moro e Ilaria Vannini, La società civile tra eredità e sfide. Rapporto sull’Italia del Civil Society Index, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, in particolare le pp. 55-59. 2   La domanda del questionario è la numero 27. I risultati di questa parte del censimento non sono disponibili al momento della stampa del libro.

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settore non profit e a raccogliere nel corso del tempo materiali, dati e riflessioni che sono la base di quanto contenuto in questo volume. Ma anche a chiedermi più volte perché, nella comunità scientifica, non fosse stato posto come centrale un problema così evidente. La seconda esperienza che mi ha spinto a scrivere questo libro è più lontana nel tempo, ma a suo modo più importante. È quella che ho fatto come segretario generale di Cittadinanzattiva tra il 1989 e il 2002. Sarà perché il movimento che dirigevo è decisamente anomalo rispetto alle rappresentazioni correnti della realtà, o perché, proprio per questa ragione, esso ha elaborato e cercato di praticare una via autonoma all’attivismo civico, violando consapevolmente consuetudini e regole non scritte, ma nel corso di questa esperienza mi sono più volte reso consapevole di quanto la realtà fosse diversa dalle sue tematizzazioni e dalle norme di legge che pretendevano di regolarla, o, più precisamente, di crearla. Ma soprattutto ho avuto netta la sensazione che noi comuni cittadini, impegnati per i diritti dei malati, per la tutela dei consumatori, per il monitoraggio della qualità dei servizi di interesse generale, per il funzionamento della giustizia intesa come servizio pubblico, per la sicurezza degli edifici scolastici, per far valere il punto di vista, le competenze e le responsabilità delle popolazioni sottoposte a rischi di calamità e di catastrofi, contribuivamo a creare una positiva corrente di significati sociali di cui qualcun altro usufruiva senza averne alcun titolo e guadagnando risorse, posizioni di prestigio e riconoscimenti pubblici. Credo che questa sgradevole sensazione l’abbiano provata e la provino tutti i giorni migliaia di persone che in Italia sono impegnate senza tregua per dare un volto credibile alla nostra democrazia. ­12

Tutto ciò, lo riconosco, fa di me un osservatore tutt’altro che distaccato del tema oggetto di questo libro. Anzi, ne fa un osservatore piuttosto irritato, come sicuramente emergerà da diverse pagine del libro. Naturalmente non ci posso fare niente; ma non mi sento in colpa per questo e non ho intenzione di pentirmene. 5. Una responsabilità di tutti Il compito di risolvere il puzzle, ma anche quello di sciogliere l’enigma, è in ogni caso una responsabilità comune. Il tema oggetto di questo libro non è di competenza esclusiva di nessuno, tanto meno di addetti ai lavori che, potendo farlo, non lo hanno preso sul serio. Esso è invece di cruciale importanza per la nostra vita pubblica, specialmente in un’epoca di crisi come quella che viviamo. Il punto è di usare meglio le nostre risorse pubbliche e private, nell’interesse del domani e soprattutto del dopodomani del paese, per fare le cose che sono davvero essenziali, molte delle quali non hanno un carattere primariamente economico o non ce l’hanno affatto, lasciando che chi è interessato a promuovere attività genericamente positive ma non di interesse generale possa continuare a farlo senza pagare prezzi impossibili, ma anche senza pretendere un particolare riconoscimento sociale; e che chi vuole svolgere legittime attività economiche lo faccia in condizioni di concorrenza paritaria. Credo, in altre parole, che sia arrivato il momento di guardare più seriamente alla realtà; di sciogliere ambiguità; di chiamare le cose con il loro nome; di dare a ciascuno il suo; di togliere privilegi a chi non ha ragione di goderne e di darne di più consistenti a chi invece li merita per quello che fa per tutti noi e per chi verrà do­13

po di noi. Questo libro, in breve, è stato scritto per favorire una generale assunzione di responsabilità sul tema, affinché, attraverso il dibattito pubblico, si accresca la consapevolezza, venga formulato un giudizio basato su fatti e non su pregiudizi (positivi o negativi che siano), si dia forma a un orientamento che faccia da guida a chi opera in questo universo o con esso è in relazione. Il contributo che ho cercato di dare a questo obiettivo non è di carattere accademico, vale a dire di tipo analitico e sulla base di un’ampia review della letteratura esistente. È, piuttosto, diretto a esporre e motivare una precisa tesi dal punto di vista di un osservatore non specialista ma non distaccato né inconsapevole. La tesi è che il settore non profit è stato «inventato» tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90; che questa invenzione è concettualmente debole, deficitaria e con un background ideologico; che ha conseguenze negative nella realtà; che il modo di uscirne è semplicemente di riconoscere che qualcosa come il settore non profit non esiste e che quindi occorre, dal lato della conoscenza, destrutturare questo insieme spurio riconoscendovi real­tà organizzative completamente differenti tra loro, e dal lato della operatività attribuendo diversi gradi di utilità sociale alle attività e non alle organizzazioni che le realizzano, in quanto più o meno prossime alla nozione di interesse generale e alla sua evoluzione nel tempo. Sono consapevole che, al di là del suo titolo, il libro costituisce una provocazione: parlare male del non profit è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Mi prendo comunque tutte le responsabilità del caso e lo faccio, non solo augurandomi che, come me, lo facciano gli altri, ma anche con la consapevolezza che la durezza di quanto qui contenuto è molto più nei fatti che nelle intenzioni. Il problema, in altre parole, è che non sto ­14

sparando sulla Croce Rossa proprio perché non sto parlando della Croce Rossa. Per inciso, questa nobile istituzione – della quale peraltro è in corso una rilettura critica in relazione al suo paradossale contributo al prolungamento delle guerre e delle sofferenze per i civili3 – almeno nel caso dell’Italia sinceramente non ha molte ragioni per essere difesa. Pur nella sua durezza e nel suo carattere assertivo, il libro è animato da uno spirito costruttivo e da un senso di profonda comunanza e simpatia con quella parte di «non profit» che contribuisce a fare del nostro pae­ se una repubblica democratica, che sia tale nella vita quotidiana di tutti, e che sicuramente merita di più, a cominciare dal riconoscimento della sua specificità. È ad esso, vittima principale di confusioni, ambiguità e piccole e grandi furberie, che questo lavoro è dedicato. 3   Vedi ad esempio Philip Gourevitch, Il lato oscuro degli aiuti, in «Internazionale», 876, 10 dicembre 2010, pp. 40-48.

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La invenzione del non profit

1. Tutto comincia a Baltimora Come in Grecia è usuale ascoltare persone che rivendicano che la democrazia è nata lì più o meno 2.500 anni fa (come se questo possa essere di qualche conforto, specialmente oggi), così in Italia si sente spesso affermare pomposamente che il non profit è di casa da settecento anni, cioè da quando le confraternite medievali si occupavano di malati, indigenti e persone abbandonate. Senza nulla togliere alle confraternite e ai comuni medievali, con i quali tuttavia confesso di avere una certa difficoltà a sentirmi in continuità, l’oggetto cognitivo e fattuale di questo libro, ossia la invenzione di un insieme di organizzazioni e istituzioni classificate sotto la etichetta di «non profit» o «terzo settore» e come tale affermatosi nella vita sociale, ha una origine molto più recente, connessa al passaggio alla «seconda modernità» di cui parlano i sociologi, avvenuto nell’ultimo quarto del XX secolo. Agli appassionati del Medioevo (e della «comunità») si può appunto ricordare che, secondo i dati dell’Istat relativi al 1999, il 94,1% delle organizzazioni non profit italiane è stato costituito dopo il 19711. 1  Istat, Istituzioni nonprofit in Italia. I risultati della prima rilevazione censuaria. Anno 1999, Istat, Roma 2001, p. 54.

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È proprio alla fine degli anni ’70 del XX secolo, infatti, che si sono cominciate a usare formule come «organizzazione non governativa», «privato sociale» o simili. Si trattava chiaramente di espressioni residuali: organizzazioni in qualche modo pubbliche ma non statali; private ma non proprio; non collocabili né nel primo né nel secondo settore, cioè nello Stato o nel mercato. Tali formule, tuttavia, cercavano di identificare nella realtà qualcosa che era difficile ricondurre ai due pilastri delle società moderne, appunto lo Stato e il mercato. Era come se da una inattesa eruzione vulcanica fosse scaturito un magma che non si era ancora solidificato, ma che era purtuttavia percepibile come qualcosa di nuovo. Questa formula, pertanto, coglieva nel segno, seppure in modo solo negativo e piuttosto grossolano. Ci si sarebbe potuti aspettare, dopo questa prima approssimazione, lo sforzo di dare una definizione positiva a questo fenomeno, o meglio a questa congerie di fenomeni; ma, benché ciò sia stato tentato, non ha avuto lo stesso, clamoroso successo di un’altra definizione residuale, accettata come ovvia: quella di settore non profit o terzo settore. Nella opinione pubblica e tra gli addetti ai lavori è ormai pressoché indiscusso che esista un settore non profit nelle società contemporanee. Ciò spesso viene dato per scontato, quasi come se fosse un dato naturale. Il non profit, invece, è una invenzione che ha dei padri e una data di inizio. È infatti della prima metà degli anni ’90 il Johns Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project, promosso dalla omonima università di Baltimora e diretto da Lester Salamon ed Helmut Anheier, che è, dal punto di vista di questo libro, il luogo dove tutto ha ­17

avuto inizio2. Non si può, quindi, non partire da qui. Anche perché è proprio qui che si annidano quasi tutti i problemi disvelatisi successivamente. Il progetto – una ricerca comparativa in tredici paesi tra i quali anche l’Italia3 – mirava a colmare il gap di conoscenza «sulle migliaia di scuole, ospedali, ambulatori, organizzazioni di comunità, gruppi di advocacy, asili nido, organizzazioni di assistenza, case di cura, ricoveri per senza fissa dimora, agenzie di terapia familiare, gruppi ambientalisti ed altri che sono inclusi in questo importante settore»4. Il punto di partenza della ricerca era quello della crescente insoddisfazione per la inefficienza e la inefficacia dello Stato nel gestire le questioni legate al benessere e allo sviluppo sociale. Questa insoddisfazione, secondo gli autori, implicava una riconsiderazione generale del modo in cui è strutturata la vita sociale ed economica. Questa è infatti tradizionalmente pensata come organizzata attorno a due grandi complessi di istituzioni – due «isole di significato» – che sono lo Stato e il mercato: i settori pubblico e privato. Esiste, tuttavia, un terzo insieme di organizzazioni «che sono private nella forma ma pubbliche nello scopo»: in altre parole sono non governative, ma non perseguono il profitto per i loro proprietari o azionisti5. Partendo dalla presa d’atto della grande confusione terminologica, legislativa, statistica e scientifica che esiste

2   Lester M. Salamon, Helmut K. Anheier, The Emerging Nonprofit Sector: An Overview, Manchester University Press, Manchester and New York 1996. 3   Per la parte italiana della ricerca: Gian Paolo Barbetta (a cura di), Senza scopo di lucro. Dimensioni economiche, legislazione e politiche del settore nonprofit in Italia, Il Mulino, Bologna 1996. 4   Salamon, Anheier, The Emerging Nonprofit Sector cit., p. xi. 5   Ivi, p. 2.

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su questo terzo insieme, il progetto di ricerca si proponeva di «porre in modo permanente il settore “non profit” o ”volontario” nella mappa economica del mondo»6. Per raggiungere questo scopo, e quello operativo, ad esso connesso, di raccogliere dati e informazioni comparabili su questo terzo settore, i ricercatori hanno dovuto compiere una serie di passaggi di carattere metodologico per assicurare un equilibrio tra attendibilità, comparabilità e fattibilità, che non è necessario qui riportare, ma che vanno almeno menzionati per sottolineare la serietà con cui la ricerca è stata condotta. È invece di fondamentale importanza riassumere la definizione che scaturisce da tali operazioni, messa a punto per realizzare questa imponente e complessa ricerca. La definizione fissa le seguenti sette caratteristiche che una organizzazione deve avere per rientrare nel campo della ricerca: – formalità: la organizzazione deve avere un certo grado di formalità, che esclude aggregazioni ad hoc, informali e temporanee; – natura privata: l’organizzazione deve essere separata dal governo; – non distribuzione di profitti: si possono generare profitti, che però non devono essere distribuiti, ma reinvestiti nella mission dell’organizzazione stessa; – autogoverno: la organizzazione deve essere strutturata in modo tale da avere il controllo sulle proprie attività; – presenza di volontari: la organizzazione deve coinvolgere in misura significativa la partecipazione volontaria dei cittadini (anche, ad esempio, come membri del consiglio di amministrazione);

  Ivi, p. 7.

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– non religiosa: la organizzazione non deve essere coinvolta principalmente in attività di culto o di educazione religiosa; – non politica: la organizzazione non deve essere impegnata principalmente nella promozione e nel sostegno di candidati alle elezioni (ma può invece essere impegnata in attività di advocacy, ad esempio sui diritti civili o sull’ambiente)7. Questa definizione ha portato a selezionare una mappa di organizzazioni che include quelle impegnate nella cultura e nella ricreazione, nella educazione e nella ricerca, nella salute e nei servizi sociali, nell’ambiente, nello sviluppo economico e sociale e nell’abitazione, nelle attività civiche e di advocacy, nella intermediazione filantropica, nell’associazionismo sindacale, imprenditoriale e professionale. Ed esclude invece – ai soli fini della ricerca empirica – le congregazioni religiose, i partiti politici, le cooperative, le casse di risparmio, le mutue assicurative, le agenzie governative. Come già osservato, la ricerca era focalizzata sulla dimensione economica delle organizzazioni non profit. Sono proprio di questa natura, infatti, le informazioni che sono state raccolte e che vengono presentate come «succo» della ricerca: quota di mercato nella salute e nella educazione; quota di lavoratori occupati e sua crescita nel tempo; spese per le operazioni delle organizzazioni. È, in particolare, la spesa per le operazioni che viene utilizzata come indicatore più significativo della dimensione delle organizzazioni non profit e delle aree di loro maggiore impegno. Prendendo in considerazione i sette paesi avanzati del campione, il risultato di questa analisi è visualizzato nella tabella 1.   Ivi, pp. 14-15.

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Tabella 1. Composizione del settore non profit per livello di spesa per campo di attività (Francia, Germania, Ungheria, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti) Tipi di organizzazioni

%

Educazione, ricerca Salute Servizi sociali Cultura, tempo libero Associazioni imprenditoriali, professionali e sindacali Sviluppo economico e sociale e abitazione Iniziative civiche e di advocacy Ambiente Cooperazione internazionale Intermediari filantropici

24 21 20 16 9 5 1 1 1 0.4

Fonte: Salamon, Anheier, The Emerging Nonprofit Sector cit., p. 47.

Per quanto riguarda l’Italia, la composizione del settore, di cui salta agli occhi soprattutto la presenza massiccia delle organizzazioni legate al «modello corporativo», risultava essere la seguente: – servizi sociali: 24% – associazioni imprenditoriali e professionali, sindacati: 23% – educazione: 22% – salute: 16% – cultura, tempo libero, sport: 9% – altro: 6% Non c’è bisogno di addentrarsi ulteriormente nei risultati della ricerca, giacché il nostro scopo non è quello di analizzare per l’ennesima volta il settore non profit, bensì quello di metterne in discussione la consistenza come fenomeno unitario e dotato di una propria materialità. A tal fine gli elementi enucleati sopra sono più ­21

che sufficienti. Ad essi, però, sia per esigenze di completezza, sia per rendere conto degli effetti che la ricerca della Johns Hopkins University ha avuto, deve esserne aggiunto uno ulteriore. 2. Sulla vetta del mondo Gli autori della ricerca, che correttamente chiariscono quali sono stati i criteri di inclusione ed esclusione di certi tipi di organizzazioni rispetto all’universo indagato, a conclusione del loro lavoro propongono una tipologia generale delle organizzazioni non profit, al fine di superare la scarsa considerazione che a esse viene riservata nelle statistiche ufficiali, con tutto ciò che ne consegue sia in termini di sviluppo della conoscenza sia in termini di politiche pubbliche di riconoscimento e sostegno. Si tratta della International Classification of Nonprofit Organizations (Icnpo), che ha conosciuto una notevole fortuna. È noioso ma importante riportare questa classificazione, perché essa è ormai una parte della mappa del nostro mondo, anche se a mio parere è una mappa sbagliata. Invito il lettore a guardarla con attenzione e a tenerla presente nel prosieguo del libro (tabella 2). Il lungo elenco è della massima rilevanza ai fini di questo libro. Sulla base di tale classificazione, infatti, la Divisione Statistica delle Nazioni Unite ha messo a punto un sistema ufficiale di classificazione delle organizzazioni non profit8. In questo modo l’invenzione del settore non profit come un tutto omogeneo si è affer8   United Nations, Handbook on Non-profit Institutions in the System of National Accounts, Department of Economic and Social Affairs, Statistics Division, Studies in Methods Series F., No. 91, New York 2003.

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mata su scala globale. Questa classificazione, infatti, è entrata a far parte del System of National Accounts delle Nazioni Unite, utilizzato dagli istituti nazionali di statistica, compreso l’Istat9. Ciò significa, in concreto, che a partire dal sistema proposto dai ricercatori della Johns Hopkins University, in tutto il mondo e in ciascun paese le statistiche ufficiali hanno registrato come un insieme omogeneo le organizzazioni non profit così identificate. Di conseguenza, il lavoro di ricerca scientifica ha attinto ai dati raccolti seguendo questa classificazione come propria base empirica. Anche il lavoro di ricerca teorica si è conformato a questa concettualizzazione, pur denunciando nella semantica utilizzata enormi e non superate difficoltà10. Le leggi, le politiche pubbliche e l’attività politica e amministrativa hanno cominciato a riflettere questa stessa concettualizzazione; così le imprese private alle prese con i propri stakeholder, i mezzi di informazione e di comunicazione, la cultura di massa. Si può affermare, senza tema di smentita, che, in termini di innovazione, la invenzione del non profit ha avuto uno straordinario successo. 3. Invenzione, non scoperta Prima di prendere in considerazione le difficoltà che questa invenzione ha prodotto o non è riuscita a superare, occorre però fissare qualche punto che chiarisca   Istat, Istituzioni nonprofit in Italia cit., pp. 17 sgg.   Alcuni anni fa, e con esclusivo riferimento alle organizzazioni di cittadinanza attiva, ho contato 17 differenti insiemi di denominazioni per identificarle: Giovanni Moro, Azione civica, Carocci, Roma 2005, pp. 111-112. 9

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Tabella 2. International Classification of Nonprofit Organizations Gruppo 1: Cultura e tempo libero Cultura e arti – Media e comunicazione – Arti visive, architettura, ceramica – Arti dello spettacolo – Società storiche, letterarie e umanistiche – Musei – Zoo e acquari – Organizzazioni multiscopo di cultura e arte – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliari, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni per l’arte e la cultura non classificate altrove Tempo libero – Club sportivi – Club ricreativi/del tempo libero o club sociali – Organizzazioni ricreative multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni ricreative non classificate altrove Club di servizio – Club di servizio – Club di servizio multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Club di servizio non altrimenti classificati Gruppo 2: educazione e ricerca Educazione primaria e secondaria – Educazione elementare, primaria e secondaria Istruzione superiore – Istruzione superiore (livello universitario) Educazione, altro – Scuole professionali e tecniche – Educazione degli adulti ed educazione permanente – Organizzazioni educative multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni educative non altrimenti classificate Ricerca – Ricerca medica – Scienza e tecnologia – Scienze sociali, studi politici

– Organizzazioni di ricerca multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni di ricerca non altrimenti classificate Gruppo 3: salute Ospedali e riabilitazione – Ospedali – Strutture di riabilitazione Case di cura – Case di cura Salute mentale interventi di emergenza – Ospedali psichiatrici – Strutture di cura della salute mentale – Organizzazioni per la salute mentale multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni per la salute mentale non altrimenti classificate Altri servizi sanitari – Salute pubblica ed educazione al benessere – Strutture di cura primariamente ambulatoriali – Servizi medici di riabilitazione – Servizi medici di emergenza – Organizzazioni sanitarie multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni sanitarie non altrimenti classificate Gruppo 4: servizi sociali Servizi sociali – Strutture di assistenza sociale e servizi per i bambini, asili nido – Servizi per l’assistenza sociale dei giovani – Servizi per le famiglie – Servizi per i disabili – Servizi per gli anziani – Servizi di self-help e altri servizi sociali per le persone – Organizzazioni di servizi sociali multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni di servizi sociali non altrimenti classificate Emergenza e rifugiati – Strutture di prevenzione, soccorso e controllo dei disastri e delle emergenze

(segue tabella 2) – Ricoveri temporanei – Assistenza ai rifugiati – Organizzazioni multiscopo di emergenza e di assistenza ai rifugiati – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni per la emergenza e l’assistenza dei rifugiati non altrimenti classificate Supporto al reddito e alimenti – Supporto al reddito e alimenti – Assistenza materiale – Organizzazioni multiscopo di supporto al reddito e agli alimenti – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni per il supporto al reddito e per gli alimenti non altrimenti classificate Gruppo 5: ambiente Ambiente – Abbattimento e controllo dell’inquinamento – Conservazione e protezione delle risorse naturali – Miglioramento dell’ambiente e degli spazi aperti – Organizzazioni ambientali multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni ambientali non altrimenti classificate Animali – Protezione e benessere degli animali – Conservazione e protezione della natura – Servizi veterinari – Organizzazioni multiscopo di servizi per gli animali – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni per gli animali non altrimenti classificate Gruppo 6: sviluppo economico e sociale, abitazione Sviluppo economico, sociale e comunitario – Organizzazioni comunitarie e di vicinato – Sviluppo economico – Sviluppo sociale – Organizzazioni multiscopo per lo sviluppo economico, sociale e comunitario – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance

– Organizzazioni per lo sviluppo economico, sociale e comunitario non altrimenti classificate Abitazione – Associazioni per l’abitazione – Assistenza abitativa – Organizzazioni multiscopo per l’abitazione – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni per l’abitazione non altrimenti classificate Impiego e formazione – Programmi di formazione professionale – Consulenza e orientamento professionale – Riabilitazione professionale e laboratori protetti – Organizzazioni multiscopo per l’impiego e la formazione – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni per l’impiego e la formazione non altrimenti classificate Gruppo 7: diritto, advocacy e politica Organizzazioni civiche e di advocacy – Associazioni civiche – Organizzazioni di advocacy – Associazioni per i diritti civili – Associazioni etniche – Organizzazioni civili e di advocacy multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni civiche e di advocacy non altrimenti classificate Diritto e servizi legali – Servizi legali – Prevenzione dei crimini e sicurezza pubblica – Riabilitazione dei criminali – Supporto delle vittime – Associazioni per la protezione dei consumatori – Organizzazioni giuridiche e servizi legali multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni giuridiche e legali non altrimenti classificate Organizzazioni politiche – Partiti politici – Comitati di azione politica

(segue tabella 2) – Organizzazioni politiche multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni politiche non altrimenti classificate Gruppo 8: intermediari filantropici e promozione del volontariato Intermediari filantropici – Fondazioni di erogazione – Promozione e supporto del volontariato – Intermediari per la raccolta fondi – Organizzazioni multiscopo di intermediazione filantropica e per il volontariato – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni di intermediazione filantropica non altrimenti classificate Gruppo 9: attività internazionali Attività internazionali – Programmi di scambio, di amicizia e culturali – Associazioni per l’assistenza allo sviluppo – Organizzazioni internazionali per i disastri e il soccorso – Organizzazioni internazionali per i diritti umani e la pace – Organizzazioni internazionali multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni internazionali non altrimenti classificate Fonte: Salamon e Anheier, The emerging non profit sector cit., pp. 136-140.

meglio la stessa natura di invenzione che ritengo ragionevole attribuire al settore non profit e che è sicuramente di aiuto per venire a capo del puzzle. Anzitutto, come è evidente dalla tipologia della tabella 2, l’insieme delle organizzazioni collocate sotto l’etichetta di «non profit» non è una scoperta, ma, appunto, una invenzione. Non è, cioè, qualcosa come l’inconscio scoperto da Freud, ma è piuttosto qualcosa ­28

Gruppo 10: religione Congregazioni e associazioni religiose – Chiese protestanti – Chiese cattoliche – Sinagoghe ebraiche – Templi hindu – Santuari shintoisti – Moschee arabe [sic] – Organizzazioni religiose multiscopo – Associazioni di congregazioni – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Organizzazioni religiose non altrimenti classificate Gruppo 10: Associazioni imprenditoriali e professionali, sindacati Associazioni imprenditoriali e professionali, sindacati – Associazioni imprenditoriali – Associazioni professionali – Sindacati – Associazioni imprenditoriali e professionali, sindacati multiscopo – Organizzazioni di supporto e di servizio, organizzazioni ausiliarie, consigli, organizzazioni di standardizzazione e di governance – Associazioni imprenditoriali e professionali, sindacati non altrimenti classificati Gruppo 11: non altrimenti classificati Non altrimenti classificati

di inventato come il cannocchiale usato da Galileo per studiare le lune di Giove. È, in questo senso, uno strumento concettuale per raccogliere in un insieme realtà esistenti e note, ciascuna nel suo genere, ai fini di una conoscenza più efficiente ed efficace. Non c’era, insomma, niente da scoprire. Nella constatazione che esistono organizzazioni che si occupano di cultura e tempo libero, di educazione e ricerca, di salute, di servizi sociali, ­29

di ambiente, di sviluppo sociale ed economico e di abitazione, di diritto, advocacy e politica, di filantropia e promozione del volontariato, di attività internazionali, di religione, di interessi di imprenditori, professionisti e lavoratori dipendenti, non c’è proprio nulla di nuovo; e da questo punto di vista hanno ragione gli italiani che rivendicano radici storiche per alcune di queste organizzazioni (e lo stesso fanno tedeschi, francesi, inglesi, ecc.). Così come, per quanto erano note al senso comune, queste organizzazioni non avevano alcun elemento di omogeneità. La novità introdotta dai ricercatori di Baltimora sta invece nel fatto che queste organizzazioni sono state considerate per la prima volta come un insieme omogeneo e collocate sotto la etichetta di «settore non profit» o «terzo settore». Questa è stata, appunto, una invenzione. Delle invenzioni, quella del non profit ha anche la importante caratteristica di essere connessa a un processo di innovazione, ossia di trasformazione dell’invenzione in prodotti utilizzabili che vengono applicati e diffusi grazie a processi di comunicazione. Nel nostro caso, si è trattato di una vera e propria policy, che da Baltimora è arrivata fino alla United Nations Plaza a Manhattan, cioè alla vetta del mondo, e poi – avendo ottenuto questa straordinaria legittimazione insieme politica e tecnica – è ridiscesa e si è diffusa nella dimensione nazionale. Abbiamo, così, un classico esempio di una invenzione, la creazione della categoria concettuale del non profit, che si è tradotta in un prodotto (un sistema di classificazione delle organizzazioni ricomprese in questa concettualizzazione), che a sua volta, grazie ad efficaci processi relazionali e comunicativi, si è diffusa e ­30

affermata come modalità canonica di identificare una miriade di organizzazioni che fino a quel momento erano state ignorate, oppure trattate con approcci differenziati. 4. Onore al merito Poiché questo libro è, in pratica, una critica complessiva e radicale della invenzione del non profit, mi sembra tuttavia doveroso rendere onore ai suoi autori. Non solo per il loro indiscutibile valore scientifico e accademico, e nemmeno soltanto per la loro capacità di tradurre la loro invenzione in innovazione. Ma anche, e soprattutto, per aver imposto nell’agenda del mondo, e in particolare alla comunità scientifica e ai policy maker, l’attenzione per la realtà, magmatica ma per questo vitale, di un insieme di entità che erano state fino a quel momento sottovalutate se non del tutto ignorate, oppure considerate elementi di disturbo e di anomalia in un mondo che si pretendeva perfettamente in ordine nella sua canonica configurazione di un settore pubblico e di un settore privato, con qualche aggiunta di società civile all’occorrenza e dove faceva comodo. Questo merito non può essere cancellato e non c’è che da fare i complimenti ai ricercatori della Johns Hopkins University per essere riusciti a ottenere in così poco tempo un risultato tanto rimarchevole e inusuale nel campo delle scienze sociali. Ma, al di là dei complimenti dovuti, il punto più importante è che le invenzioni funzionano se, e soltanto se, costituiscono un supporto, sia in chiave di conoscenza che di operatività. È il caso quindi di domandarsi se la ­31

invenzione del non profit risponda a questo requisito di utilità, che ne è poi la stessa ragion d’essere. La mia risposta a questa domanda è: no. La invenzione del non profit non è produttiva, né sul piano della conoscenza, né su quello della operatività. Ciò si può desumere sia da un’analisi del non profit come concettualizzazione, sia da una valutazione delle conseguenze nella realtà che la sua diffusione e il suo straordinario successo hanno comportato.

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Dove casca l’asino

1. «Non qualcosa» I limiti o le criticità che la costruzione concettuale del non profit presenta sono abbastanza evidenti, anche se ciò, come ho già sottolineato, non ha impedito di prenderla per buona e di costruire attorno ad essa una legislazione, delle politiche pubbliche, dei programmi di ricerca scientifica e un vago ma generalizzato alone di benemerenza. Metterli a fuoco può aiutare a cogliere la serietà del problema e l’urgenza di fare qualcosa in merito. Ritengo che queste criticità siano di tre tipi: attinenti alla definizione dell’oggetto; di carattere generale o, se si preferisce, di filosofia sociale; e di carattere tecnico, metodologico e scientifico, tutt’altro che secondari. Il principale, e fondamentale, limite del primo tipo è la definizione negativa e residuale del settore non profit. Tra i limiti del secondo tipo collocherei senz’altro l’economicismo, o meglio l’assoluto primato dato alla dimensione di produttori di beni e servizi delle organizzazioni non profit a scapito di tutte le altre; il modello del welfare residuale statunitense come punto di riferimento in base al quale la realtà viene ordinata; e, infine, l’assunto ­33

Tabella 3. Criticità della definizione del settore non profit Limiti concettuali

1. «Non qualcosa»

Limiti di filosofia sociale

2. Economicismo 3. Welfare all’americana 4. Ideologia del capitale sociale

Limiti tecnici

5. Patchwork 6. Confusione e sovrapposizione    tra soggetti, campi di attività e    modalità di azione 7. Dati abnormi

implicito e mai messo in discussione del valore sociale del fatto che i cittadini facciano delle cose assieme, o più brevemente una specie di ideologia del capitale sociale. Per quanto riguarda i limiti del terzo tipo – tecnici, materiali, informativi – nella classificazione riportata nelle pagine precedenti c’è una evidente confusione e sovrapposizione tra tipi di soggetti, campi di attività e modalità di azione; c’è un effetto di patchwork, ossia di mescolamento di organizzazioni che non hanno nulla in comune; e ci sono risultati spesso abnormi, o comunque privi di senso, rispetto a molte delle realtà organizzative che vengono messe nel calderone. Questi limiti sono visualizzati come insieme nella tabella 3. Vediamo ora, una per una, tali criticità, seppure con la sinteticità richiesta da questo libro. Ho già detto del primo limite nelle pagine precedenti. Esso è quasi ovvio: il concetto di non profit è residuale perché definisce un fenomeno soprattutto per quello che non è anziché per quello che è. Questa definizione, a mio parere, è un po’ la madre di tutti gli errori che seguono, o il peccato originale di questa invenzione. Questo carattere residuale emerge chiaramente dal­34

la considerazione dei sette criteri con cui la ricerca della Johns Hopkins University individua le organizzazioni non profit. Ricordiamoli: – formalità; – carattere privato (separazione dal governo); – non distribuzione di utili ai soci e ai manager; – autogoverno; – volontariato (presenza di partecipazione volontaria); – non religiosa (in quanto coinvolgimento nelle funzioni religiose); – non politica (in quanto partecipazione alle elezioni). Quattro dei sette criteri sono chiaramente negativi: precisamente il secondo, il terzo, il sesto e il settimo. Le organizzazioni non profit, cioè, sono quelle che non sono governative, che non funzionano come imprese private, che non sono coinvolte in attività di culto, che non partecipano alle elezioni. Degli altri tre criteri, uno solo ha un significato pregnante: la presenza di volontari nella organizzazione. Gli altri due, infatti (carattere formale e autogoverno), sono vuoti di contenuto, anche se necessari ai fini della ricerca empirica, perché prescrivono all’osservatore di selezionare organizzazioni che abbiano consistenza e autonomia: senza questi due criteri sarebbe impossibile la stessa elementare operazione di individuazione delle organizzazioni. Per quanto riguarda gli ultimi due criteri, nella loro proposta di classificazione generale delle istituzioni non profit (Icnpo, tabella 1) gli studiosi della Johns Hopkins University fanno rientrare anche le organizzazioni religiose e quelle politiche; essi vengono quindi a cadere. La questione tuttavia non cambia, perché dei cinque criteri che restano, due sono residuali, due riguardano la mera esistenza materiale di una organizzazione e il ­35

solo criterio della partecipazione volontaria definisce un effettivo elemento differenziale. A proposito di quest’ultimo criterio, tuttavia, bisognerebbe domandarsi quante organizzazioni non profit non hanno volontari che partecipano alle attività o alla governance della organizzazione: ad esempio le fondazioni a cui da qualche anno le imprese private danno vita per gestire le loro attività di beneficenza; per non parlare, naturalmente, delle scuole e delle università non statali. Nel caso dell’Italia, il censimento dell’Istat riferito al 1999 dice che il 20% delle organizzazioni non profit di volontari non ne hanno affatto1. All’opposto, soltanto il 16% delle organizzazioni di volontariato sono composte esclusivamente da volontari2. Di conseguenza, nelle definizioni ufficiali che sono alla base delle rilevazioni statistiche, anche l’elemento della presenza di personale volontario nelle organizzazioni è stato espunto. Il risultato è che l’unico elemento che qualifica in positivo la definizione delle istituzioni non profit si è volatilizzato. 2. Economicismo Passando ai limiti di filosofia sociale, non è difficile notare che la definizione delle organizzazioni non profit e dello stesso settore in cui esse sono assemblate ha un carattere prettamente economico. Come ho già rilevato, gli autori della ricerca della Johns Hopkins University chiariscono che il loro intento è quello di «porre in modo permanente il settore “non profit” o “volontario”   Istat, Istituzioni non profit in Italia cit., p. 81.   Renato Frisanco, Rilevazioni FIVOL e Feo-FIVOL 2006-2008 su campioni di organizzazioni di volontariato, paper. 1 2

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nella mappa economica del mondo»; e in effetti ci riescono perfettamente. Ciò che è considerato rilevante, in altre parole, è il fatto che queste organizzazioni producano beni e servizi, favoriscano la occupazione e contribuiscano, con le risorse che generano, alla formazione del Prodotto interno lordo in modo significativo. Il loro valore, dunque, è essenzialmente economico e tutto rivolto all’offerta. Questa operazione di riduzione delle organizzazioni non profit alla dimensione economica – per quanto senza finalità di lucro – ha conseguenze paradossali. Ne vorrei sottolineare tre. La prima è che tale definizione elimina, o almeno pone ai margini di questa strutturazione della realtà, tutte quelle entità che esistono per rendere effettivi i diritti dei cittadini – anche in quanto utenti dei servizi erogati dalle istituzioni non profit – o per prendersi cura di beni comuni materiali (come l’ambiente) o immateriali (come la legalità), o ancora per promuovere e sostenere l’empowerment di soggetti in condizioni di debolezza, come i disabili, le vittime dei reati o le comunità che hanno subito una calamità o una catastrofe. Beninteso, queste realtà sono comprese nella tipologia del progetto dell’università di Baltimora e anche in altre, ma è evidente che esse sono marginali nel disegno generale. Lo chiarisce perfettamente la definizione dell’Istat, secondo cui sono organizzazioni non profit «tutte quelle realtà istituzionali, produttive di beni e servizi, anche prive di personalità giuridica, che non distribuiscono profitti ai soggetti costituenti»3. Rispetto a quella degli studiosi di Baltimora, da questa definizione sono scom  Istat, Istituzioni nonprofit in Italia cit., p. 19.

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parsi i volontari; ma in compenso è detto in modo molto chiaro che stiamo parlando di produzione di beni e servizi purché senza distribuzione di utili, non di altro. Sarebbe interessante, naturalmente (a suo modo la cosa più importante), sentire in proposito la opinione di quei milioni di volontari (4,7 in Italia secondo il più recente censimento dell’Istat4) che sono probabilmente del tutto inconsapevoli di produrre beni e servizi nel mercato e spendono il loro tempo e le loro energie credendo di fare tutt’altro. Chi ha ragione? La seconda conseguenza paradossale è che questa riduzione del non profit alla dimensione economica è ancora più riduttiva perché ignora la domanda e si concentra solo sulla offerta. Ci si lamenta molto, oggi, che i cittadini sono ridotti a consumatori («Siamo cittadini, non consumatori»). Tuttavia è proprio ciò che qui succede a proposito di organizzazioni che, si suppone, dovrebbero invece esaltare le persone in quanto tali. Ma anche in una logica economica – tutt’altro che secondaria – dovrebbe essere riconosciuto un peso ai consumatori, sia in quanto individui sia come forza organizzata, in grado di incidere con le loro scelte sulla offerta. Tutto ciò, però, non viene considerato, forse perché si dà per scontato che ci sia una totale identificazione – o un legame organico – tra produttori e consumatori. Le organizzazioni non profit, cioè, in quanto né pubbliche né private, sarebbero un microcosmo della società. Ma chi ha detto che è così? E per consumatori chiamati semplicemente a scegliere tra un servizio e un altro, o tra un produttore di beni e un altro, dove dovrebbe stare la differenza? 4   Istat, Il censimento delle istituzioni non profit: un settore in crescita, Roma, 11 luglio 2013.

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La terza conseguenza paradossale dell’economicismo è che nel momento in cui, in tutto il mondo, si lavora per identificare e applicare misure di valutazione del benessere che vadano, come si dice un po’ enfaticamente, «oltre il Pil»5, l’entità che contiene le organizzazioni che maggiormente dovrebbero contribuire a questo passaggio è invece strutturata concettualmente in modo tale da marginalizzare, se non proprio ignorare, questo contributo. Il mondo guarda oltre il Pil, ma il non profit è invece considerato rilevante proprio in quanto può accrescerlo. 3. Welfare all’americana Non è necessaria alcuna particolare malizia per notare che l’architettura concettuale su cui si basa la definizione e l’articolazione del settore non profit, anche se mira a essere universale e viene applicata a tutte le situazioni nazionali, è progettata avendo in mente un modello che non viene esplicitato, però c’è. Si tratta, a mio parere, del modello di welfare statunitense, nel quale il ruolo delle organizzazioni non profit è decisamente più importante di quello dello Stato. Come è fatto questo modello? Senza addentrarsi in un’analisi dettagliata, peraltro largamente disponibile grazie ai lavori degli specialisti, e guardando al disegno generale, si può rilevare che il sistema di welfare statu5   Si veda in proposito l’ormai celebre rapporto Stiglitz: Joseph E. Stiglitz, Amartya Sen, Jean-Paul Fitoussi, Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, 2008, consultabile sul sito www.stiglitz-sen-fitoussi.fr; e il lavoro svolto dal Cnel e dall’Istat con riferimento all’Italia per impulso del presidente dell’Istat Enrico Giovannini: Istat, Cnel, Bes 2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia, Cnel e Istat, Roma 2013.

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nitense, a differenza di quelli europei (compreso quello della Gran Bretagna), è un sistema nel quale lo Stato ha un ruolo secondario e residuale. Non è un caso che la spesa pubblica per il welfare sia del 13% in Usa, del 23% in Germania e in Italia e del 29% in Francia6. Negli Stati Uniti la maggior parte delle prestazioni educative, sociali, sanitarie, previdenziali e pensionistiche sono assicurate dalla comunità, non dallo Stato, attraverso un sistema di defiscalizzazione dei contributi economici alle organizzazioni non pubbliche che realizzano questi servizi. La comunità, in altre parole, finanzia i servizi di welfare e li eroga, mentre i cittadini pagano questi servizi, ad esempio attraverso le assicurazioni sanitarie. Il sistema delle istituzioni pubbliche, dal canto suo, rinuncia a una parte delle entrate fiscali e si limita – nella logica della affirmative action – a finanziare le prestazioni a favore dei soggetti in maggiori condizioni di necessità o di debolezza: bambini, anziani, poveri, minoranze etniche o di altro genere in difficoltà, ecc.; mentre parte del destino di questi stessi soggetti è affidato anch’esso ai contributi dei privati, in termini di borse di studio o di attività professionali condotte pro bono e quindi defiscalizzate (come nel caso degli studi legali che si vedono nei telefilm). A riprova di tutto ciò, si può tornare alla tabella 2 che contiene il sistema di classificazione proposto dagli studiosi di Baltimora. Il suo contenuto non è altro che una mappa di servizi di welfare esteso, con qualche aggiunta (religione, politica). Su tutto questo non ci sarebbe niente da dire, se non fosse che una buona parte del mondo è organizzata in

  Salamon, Anheier, The Emerging Nonprofit Sector cit., p. 12.

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un modo diverso. Può piacere o no, ma i sistemi di welfare in Europa e oltre, pur con tutte le loro differenze, i loro problemi e i loro processi di trasformazione in corso, sono strutturati in modo tale che è lo Stato il garante del benessere dei cittadini e l’accesso ai servizi è, almeno in linea di principio, una garanzia universale e soprattutto è una faccenda di diritti. Ripeto, non è una questione di preferenze – per quanto è sempre utile comparare i costi e i risultati in termini di salute della sanità americana con quella dei paesi europei – ma di modello. Ciò non significa nemmeno che in Europa o altrove non ci sia un ruolo crescente di soggetti non pubblici nelle politiche di welfare – e certo non solo sul versante della offerta –, ma che il modello di cittadinanza sociale in cui questi soggetti operano non è quello statunitense. Tuttavia, la organizzazione della realtà a cui l’architettura del non profit allude è invece proprio quella di un solo paese. 4. L’ideologia del capitale sociale Un’ultima criticità generale della definizione e dell’articolazione del settore non profit è quella che chiamerò «ideologia del capitale sociale». Non ho niente contro le teorie sul capitale sociale e riconosco che questa concettualizzazione – l’insieme dei legami di fiducia, solidarietà e interdipendenza tra le persone in una comunità – interpreta qualcosa di reale e importante e può aiutare a comprendere meglio alcuni dinamismi sociali, anche se probabilmente non tutti quelli che con queste teorie si pretende di spiegare. Non mi riferisco quindi alla teoria in quanto tale, ma a una sua versione volgarizzata e imbarbarita, secon­41

do la quale il fatto che le persone si mettano assieme ha un valore in sé. Questo valore sociale del fenomeno associativo forse deriva da una lettura disattenta di memorabili pagine di Alexis de Tocqueville, per il quale l’associarsi aveva invece un valore soprattutto politico (prevenire la dittatura delle maggioranze e il dominio delle minoranze; permettere ai soggetti deboli di contare e farsi valere nella dimensione pubblica). Come che sia, scorrendo classificazioni come quella dei ricercatori della Johns Hopkins University si trovano entità la cui rilevanza sociale attuale si può spiegare solo con questa assunzione di tipo ideologico. È il caso, tanto per fare qualche esempio, delle organizzazioni che si occupano di ceramica, dei club sportivi e ricreativi, delle associazioni di amicizia tra i popoli, dei giardini zoologici. Al contrario, l’affermazione del valore sociale dell’associazionismo è tutta da discutere, essendo infinitamente più importante il per che cosa ci si mette assieme e il che cosa si fa. Non è proprio il caso di richiamare qui gli esempi fuori luogo e un po’ grotteschi che vengono fatti citando la mafia o i club di hooligans delle squadre di calcio. Tuttavia c’è una differenza irriducibile anche in termini di valore sociale tra un ristorante che ha la forma giuridica di un’associazione e una mensa per i poveri, a meno che i camerieri o i cuochi di quel ristorante non siano disabili (come per fortuna spesso succede), restando comunque il valore primario (non sociale ma gastronomico) del ristorante da cercarsi nella qualità del cibo e della cucina. Per dimostrare quanto questa idea sia operante è sufficiente menzionare il già citato rapporto dell’Istat e del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) sul benessere, dove tra gli indicatori di benessere è presente anche quello della quota di organizzazioni non ­42

profit per 10.000 abitanti7. Se si vuole attribuire ai legami sociali un valore, non è al magma del terzo settore che ci si deve riferire, ma a qualcosa di più specifico, ad esempio a certi tipi di associazioni o reti anche informali (che quindi sfuggono ai censimenti), ma, ancora una volta, non a tutte. Il risultato dell’uso di questo schema ideologico, in ogni caso, mi sembra chiaro: alcuni tipi di aggregazione, come ad esempio quelle sportive o ricreative, acquistano in sé lo stesso valore sociale di quelle che difendono i diritti umani o promuovono la cooperazione allo sviluppo, la cui specificità viene a sua volta cancellata. In questo modo si premia senza ragione qualcuno sopravvalutandolo, si punisce qualcun altro sottovalutandolo e tutti vengono messi sullo stesso piano. Ma chi ha deciso che così deve essere? 5. Patchwork Vengo ora ai problemi che hanno un carattere eminentemente tecnico. Il primo di questi è il fatto che nella definizione e nella classificazione del settore non profit si trovano insieme realtà che non hanno assolutamente nulla a che spartire fra loro. Per cogliere questo punto può venire in aiuto la tipologia delle organizzazioni non profit italiane secondo l’Istat. Essa è riportata nella tabella 4. Riconosco che è fin troppo facile domandarsi retoricamente che cosa c’entra una università della terza età con una federazione sportiva; o una fondazione bancaria con una confraternita; o un ospedale con un’as-

  Istat, Cnel, Bes 2013 cit., p. 123.

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Tabella 4. La tipologia delle organizzazioni non profit italiane Partito politico Sindacato dei lavoratori dipendenti Università Università non statale legalmente riconosciuta Università straniera Università terza età Altre università Istituzioni educative e di formazione Scuola materna Scuola elementare Scuola media Scuola superiore Scuola speciale (di perfezionamento) Centro formazione professionale Altre scuole Istituzioni di studio e ricerca Associazioni Associazione sportiva Associazione categoria Associazione professionale Associazione tutela diritti Associazione combattentistica Associazione pro-loco Associazione religiosa Associazione agricola Associazione artistica e culturale Associazione ambientalista Associazione ricreativa Associazione militare Federazioni Federazione sportiva Federazione sportiva affiliata Organizzazioni non governative

Cooperativa sociale Fondazione Fondazione bancaria Altre fondazioni non classificate Enti lirici ed ex legge 59 Enti culturali vari Organizzazione volontariato Ente ecclesiastico Confraternita Parrocchia Seminario o scuola cattolica Diocesi Arcidiocesi Altro Comitato Istituzioni sanitarie Casa di cura Casa di riposo Istituto di assistenza sociale Comunità terapeutica I.R.C.C.S. (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) I.P.A.B. (Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza) depubblicizzata Istituto qualificato presidio Asl Ospedale classificato o assimilato Istituti di riabilitazione Opera pia Istituzioni mutualistiche e previdenziali Società di mutuo soccorso Fondo pensione Cassa di previdenza e assistenza Ente di patronato Istituzioni di rappresentanza

Fonte: Istat, Istituzioni nonprofit in Italia cit., p. 34.

sociazione combattentistica; o ancora un’associazione agricola (qualunque cosa sia) con una pro-loco ed entrambe con un’arcidiocesi (qualunque cosa sia). La ­44

risposta, infatti, è ovvia: non c’entrano proprio nulla e non si capisce perché queste realtà dovrebbero essere considerate parte del medesimo fenomeno, considerate alla stessa stregua portatrici di valore sociale, godere degli stessi vantaggi ed essere chiamate alle medesime responsabilità. Per essere molto più concreti e anche brutali, nel magma del non profit convivono – e usualmente non vengono distinte nemmeno nelle ricerche e nelle statistiche – realtà come le case di cura religiose e le organizzazioni di volontariato che fanno assistenza domiciliare ai malati terminali; le università non statali e i gruppi che fanno doposcuola ai ragazzi a rischio di dispersione scolastica nelle periferie urbane; i servizi legali a pagamento e gli avvocati di strada che assistono gratuitamente gli immigrati; le associazioni gastronomiche e le mense per i poveri; le case di riposo per anziani e i gruppi di volontari che portano loro la spesa a casa; le palestre che fanno body building e le associazioni che portano i disabili in barca a vela; i fondi pensione privati e le mutue tra cittadini. Il gioco potrebbe continuare, ma il punto è che, purtroppo, non si tratta di un gioco. 6. Confusioni e sovrapposizioni Poiché, soprattutto in una circostanza come questa, il diavolo è nei particolari, è il caso di rilevare che nella tipologia delle organizzazioni non profit riportata sopra, e nelle altre analoghe ad essa più o meno direttamente legate, si verifica una sovrapposizione di elementi diversi che vengono classificati insieme, contribuendo così a generare confusione e incertezza. Ci sono due occorrenze che vanno menzionate al riguardo. Il caso più evidente è quello delle organizzazioni di ­45

advocacy. L’advocacy, si sa, è una strategia che mira a far valere nell’arena pubblica un punto di vista, un diritto o un interesse, una questione o una situazione di cui si chiede riconoscimento e protezione. Ora, mentre la maggior parte delle categorie in cui sono classificate le organizzazioni non profit si riferiscono a un campo di policy (ad esempio, educazione, salute, cultura, servizi sociali, ecc.), in questo caso ci sono delle organizzazioni che vengono classificate non in base al campo di azione ma in base alla modalità in cui operano, ossia l’advocacy. Tutto ciò non sarebbe particolarmente grave, se non fosse che la classificazione della Johns Hopkins University ha ormai valore generale e viene utilizzata in modo diffuso nelle statistiche ufficiali. Un esempio degli effetti di questo scarso rigore metodologico si può trovare nella classificazione delle organizzazioni italiane di volontariato per settore di attività prevalente (tabella 5). La domanda che ci si può porre al riguardo è facilissima: ma la tutela e la protezione dei diritti dove altro si esercitano se non nella sanità, nell’assistenza sociale, nella cultura, nella protezione civile, nella istruzione, nell’ambiente (lasciando perdere le attività ricreative e sportive, sempre a meno che non riguardino persone con disabilità)? E le associazioni classificate come operanti in questi settori, oltre ad assistere le persone e a organizzare servizi, non svolgono anche ruoli di advocacy? Per essere più concreti, una cooperativa sociale che gestisce un servizio di cura dei disabili non interloquirà anche con le istituzioni sulle barriere architettoniche del territorio comunale o sul sistema di benefici previsti per le persone con disabilità? L’errore, insomma, è veniale, ma meno di quanto possa sembrare. L’altro caso è quello della confusione tra il tipo di soggetto e il tipo di attività che viene realizzata. Le ­46

Tabella 5. Organizzazioni di volontariato per settore di attività prevalente, anno 2003 Settore di attività

%

Sanità Assistenza sociale Ricreazione e cultura Protezione civile Istruzione Protezione dell’ambiente Tutela e protezione dei diritti Attività sportive Altri settori

28 27,8 14,6 9,6 3,2 4,4 2,8 2 7,6

Fonte: adattato da Istat, Le organizzazioni di volontariato in Italia, anno 2003, Statistiche in breve, 14 ottobre 2003, Tavola 4 (grassetto mio).

università, gli ospedali, i partiti politici, le fondazioni sono chiaramente identificati per la loro struttura e la loro forma: la natura della organizzazione è ciò che le identifica. Un criterio completamente diverso, invece, viene utilizzato ad esempio per le organizzazioni che si occupano di assistenza abitativa, o per quelle che sono impegnate nella protezione degli animali, o per quelle che si occupano di salute pubblica e di promozione del benessere. Di esse, al contrario, non sappiamo nulla salvo il campo di attività, che è ciò che le identifica. Ci sono quindi due criteri concorrenti che convivono nella medesima classificazione. Se si guarda al modo in cui le organizzazioni non profit italiane vengono classificate dal punto di vista del settore di attività questo risulta chiaro. Lo si può vedere dalla tipologia che viene riportata nella tabella 6. Abbiamo, da un lato, specifiche organizzazioni come gli ospedali o i centri di formazione professionale; e, dall’altro, organizzazioni attive nello sport o nella pro­47

Tabella 6. Classificazione delle organizzazioni non profit italiane per settori di attività Cultura, sport e ricreazione Attività culturali e artistiche Attività sportive Attività ricreative e di socializzazione Istruzione e ricerca Istruzione primaria e secondaria Istruzione universitaria Istruzione professionale e degli adulti Ricerca Sanità Servizi ospedalieri generali e riabilitativi Servizi per lungodegenti Servizi psichiatrici ospedalieri e non ospedalieri Altri servizi sanitari Assistenza sociale Servizi di assistenza sociale Servizi di assistenza nelle emergenze Erogazione di contributi monetari e/o in natura Ambiente Protezione dell’ambiente Protezione degli animali Sviluppo economico e coesione sociale Promozione dello sviluppo economico e coesione sociale della collettività

Tutela e sviluppo del patrimonio abitativo Addestramento, avviamento professionale e inserimento lavorativo Tutela dei diritti e attività politica Servizi di tutela e protezione dei diritti Servizi legali Servizi di organizzazione dell’attività di partiti politici Filantropia e promozione del volontariato Erogazione di contributi filantropici, promozione del volontariato e attività di raccolta fondi Cooperazione e solidarietà internazionale Attività per il sostegno economico e umanitario all’estero Religione Attività di promozione e formazione religiosa Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi Tutela e promozione degli interessi dei lavoratori e degli imprenditori Altre attività

Fonte: Istat, Istituzioni nonprofit in Italia cit., p. 65.

mozione e nella formazione religiosa. Si potrà osservare che questa confusione tra tipi di organizzazioni e tipi di attività non è poi così rilevante. Lo è, invece, quando si vanno a fare i conti e si produce conoscenza a partire da tipologie non rigorose. Tutti sappiamo che cos’è un sindacato che tutela e promuove gli interessi dei lavoratori; ma nella categoria «Tutela e sviluppo del patrimonio abitativo» possiamo trovare mescolate insieme ­48

molte «cose» dello stesso genere dei sindacati, sebbene estremamente diverse tra loro, come ad esempio una cooperativa edilizia e un’associazione per la tutela degli inquilini. Ciò è tutto meno che un contributo alla conoscenza e alla chiarezza. 7. Dati abnormi Un ultimo problema da sollevare riguarda gli effetti di alterazione nelle rappresentazioni della realtà che la invenzione di questo insieme comporta. Faccio due esempi per spiegarmi meglio. Il primo esempio è quello della quantità di lavoratori delle organizzazioni non profit. Secondo i risultati del più recente censimento dell’Istat, le 301.101 istituzioni non profit hanno 957.000 tra lavoratori dipendenti, lavoratori esterni e collaboratori temporanei. Nella comunicazione pubblica – non nell’attività del nostro istituto di statistica – ciò riguarda l’intero settore; il che significherebbe che in media ogni organizzazione non profit dà lavoro a 3,1 persone: qualcosa che, conoscendo l’Italia e le organizzazioni che in essa operano, è, appunto, abnorme. Guardando meglio i dati dell’Istat, invece, si può verificare che le organizzazioni che hanno lavoratori alle proprie dipendenze in varie forme sono solo 41.744 (il 4,3% del totale), il che dà una media di quasi 23 lavoratori a organizzazione. Ciò, pensando alle cliniche cattoliche, alle università non statali o alle associazioni imprenditoriali e ai sindacati, è del tutto realistico. Ma nella comunicazione il messaggio è purtroppo differente. Il secondo esempio riguarda i budget. Dai dati del precedente censimento Istat, del 1999, risulta – traducendo le lire in euro – che le organizzazioni non profit ­49

avevano in media un budget annuale di 167.000 euro. Trattandosi di una media e ancora una volta pensando alla realtà dell’Italia il dato fa sorridere, ma non stupisce se si pensa, ad esempio, che nel conto ci sono anche le fondazioni bancarie che sono azionisti rilevanti delle banche italiane, o i fondi previdenziali e pensionistici, ad esempio quelli degli avvocati o dei medici, o il Coni (il Comitato olimpico nazionale italiano). L’unico dato che può aiutare a farsi un’idea delle differenze è quello delle organizzazioni attive nel settore ambientale (ragionevolmente soprattutto movimenti ambientalisti), il cui budget medio è pari a circa 25.000 euro. C’è una bella differenza tra 167.000 e 25.000 euro: precisamente una differenza di quasi sette volte. Il problema dei dati abnormi è in parte un problema tecnico e in parte di comunicazione. La parte tecnica è connessa alla difficoltà di distinguere all’interno di sottoinsiemi disomogenei organizzazioni che abbiano una effettiva unitarietà. Anche a causa del fatto che per ­l’Istat – ma non è, lo ripeto, un caso solo italiano – il punto di partenza delle rilevazioni resta sempre la forma giuridica delle organizzazioni, e malgrado gli sforzi che il nostro istituto di statistica sta facendo in merito, è ancora estremamente difficile distinguere, per richiamare l’esempio fatto sopra, una organizzazione che tutela gli inquilini, una che monitora la sicurezza delle case popolari, una che si occupa dell’accesso degli immigrati al mercato dell’affitto e una che costruisce case per i propri soci. Questi dati abnormi, però, sono tali soprattutto nella comunicazione: ciò avviene quando si dice ad esempio che il settore non profit contribuisce all’X% del Prodotto interno lordo e all’X% della occupazione, alludendo al fatto che ciò viene realizzato da associazioni ­50

di promozione sociale, associazioni di volontariato, cooperative sociali, ecc., e non soprattutto da fondazioni bancarie, università e scuole non statali, fondi pensione privati, sindacati e associazioni imprenditoriali, strutture sanitarie, ecc. L’uso è distorto e scorretto, ma si fonda su una base di ambiguità, confusione e incertezza che in qualche modo lo legittima. Proprio la comunicazione ha avuto dunque una portata che non si può in alcun modo sottovalutare. Senza di essa, infatti, la invenzione del non profit non avrebbe potuto avere luogo. È ad essa pertanto che bisogna rivolgere ora l’attenzione.

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L’effetto alone

1. Framing La invenzione del non profit o terzo settore non si sarebbe potuta compiere se questo insieme magmatico di organizzazioni non si fosse affermato nella cultura di massa come una entità omogenea e dotata di una specifica materialità, e soprattutto portatrice di una valenza sociale positiva, grazie alla spinta di un potente frame comunicativo. Con questo termine inglese gli studiosi di comunicazione si riferiscono a «un processo di influenza selettiva sulla percezione dei significati che i soggetti [...] attribuiscono ai messaggi mediali. Il framing, cioè, garantisce l’accesso ad alcuni significati, allontanandone altri comunque plausibili»1. La funzione del framing, in altre parole, è quella di definire la realtà come campo di significati che ha una forte incidenza anche sulla operatività. Valga per tutti l’esempio della immigrazione, da anni comunicata in Italia in un frame connesso alla legalità, alla sicurezza e alla difesa di noi aborigeni contro il pericolo esterno, da cui discendono politiche pubbliche di tipo securitario. 1   Michele Sorice, La comunicazione politica, Carocci, Roma, 2011, p. 58.

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Nel nostro caso è accaduto che, grazie a una rappresentazione della realtà prodotta dagli addetti ai lavori e presa per buona e veicolata dai media, il terzo settore sia venuto alla esistenza come un fenomeno omogeneo e positivo. Grazie a questo processo comunicativo, per riprendere i concetti utilizzati precedentemente, la invenzione del non profit ha dato luogo a un processo di innovazione. E ciò malgrado i problemi concettuali, di filosofia sociale e tecnici che sono evidenti e accessibili a tutti. In altre parole, il frame grazie al quale il settore non profit si è affermato nelle società contemporanee ha inciso sia sulla denotazione che sulla connotazione del magma del non profit. Sul piano della denotazione, esso ha fatto sì che fosse attribuita una patente di realtà omogenea a un insieme di entità le cui intenzioni, situazioni e posizioni sono del tutto differenti tra loro. Sul piano della connotazione, invece, questo insieme spurio ha assunto un generale significato positivo dal punto di vista sociale, come fenomeno meritevole di attenzione, riconoscenza e supporto da parte della collettività. Ciò ha dato luogo a una quantità di serie conseguenze, di cui parlerò più avanti. Intanto, però, è necessario chiedersi come tutto ciò sia potuto avvenire. La idea che mi sono fatto è che si sia generato qualcosa come un effetto alone. Con questa espressione, effetto alone, nella pubblicità si definisce la influenza positiva esercitata su prodotti commerciali da altri prodotti della stessa provenienza. In modo analogico, si può dire che alcuni tipi di organizzazioni presenti nel magma e considerate (a torto o a ragione) indiscutibilmente positive, hanno proiettato questa immagine positiva su tutto l’insieme. La parte, cioè, ha dato significato al tutto. ­53

2. La parte per il tutto (e viceversa) L’Italia – e, temo, il mondo intero – è piena di persone che pensano in ottima fede che il settore non profit sia fatto solo di organizzazioni che si occupano di situazioni di rischio o di emergenza che ricadono sotto la responsabilità della comunità, incarnando valori come la giustizia sociale, la solidarietà con i più deboli o l’impegno per le generazioni future. Ma ciò è il frutto, appunto, di un processo di comunicazione che prende la parte e la fa diventare il tutto. In altre parole, i segmenti indiscutibilmente più meritori del settore non profit sono usati per connotare positivamente l’intero magma. Gli esempi di questa operazione si sprecano. Ne faccio uno soltanto, sufficiente per la sua autorevolezza, che proviene da Riccardo Bonacina, fondatore e direttore del settimanale «Vita», primo e più importante periodico italiano interamente dedicato al settore non profit: Di recente l’Istat ha certificato che circa 4 milioni di italiani impegnano parte del proprio tempo nelle organizzazioni di volontariato per aiutare gli altri; e che sono più di 7 milioni le persone che usufruiscono dei servizi del volontariato. E ancora, le 13.938 cooperative sociali, pari al 19,5% del totale delle imprese cooperative e allo 0,3% del totale delle imprese italiane con 300.000 dipendenti, danno lavoro e cittadinanza a oltre 30.000 persone con svantaggio, mentre secondo le ultime stime dell’Istat potrebbero aver superato quota 450.000 le istituzioni e organizzazioni non profit impegnate a vario titolo nella risposta quotidiana ai bisogni2.

Nel brano citato è chiaro che c’è una parte (il volontariato, le cooperative sociali) che è facile considerare di 2   Riccardo Bonacina, Non profit. Sai cos’è?, Bruno Mondadori, Milano 2013, ebook, p. 9 (corsivo mio).

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per sé positiva, perché si occupa di aiuto disinteressato agli altri, di servizi per persone svantaggiate o del loro inserimento lavorativo (anche se non è particolarmente entusiasmante apprendere che le cooperative sociali danno lavoro in media a poco più di due persone svantaggiate ciascuna). Questa parte dà significato al tutto, ossia alle 450.000 istituzioni non profit che, seppure «a vario titolo», vengono tutte definite in termini di «risposta quotidiana ai bisogni»; ciò che è proprio quello che fanno il volontariato e le cooperative sociali ed alcuni altri tipi di organizzazioni. A quali bisogni rispondano quotidianamente molte delle organizzazioni considerate non profit o di terzo settore, è davvero difficile dire. Ma la parte di effettiva, palmare utilità sociale viene utilizzata per nobilitare tutte le 450.000. Senza contare, naturalmente, che «dare risposta quotidiana ai bisogni» è una definizione tutt’altro che esaustiva; anzi, è estremamente riduttiva, come vedremo più avanti. Ciò che qui è importante è prendere atto di questo meccanismo che è alla base dell’effetto alone: una parte indiscutibilmente meritoria diventa l’elemento distintivo e qualificante del tutto. Uno studioso italiano di sicuro valore, Gian Paolo Barbetta, coglie precisamente questo punto: Per lungo tempo il volontariato ha rappresentato l’immagine stessa del settore non profit italiano, a lungo identificato proprio con questa parte del tutto. Si parlava di volontariato, non di non profit; si immaginavano volontari che si offrono gratuitamente, non di lavoratori retribuiti [...]; si pensava a organizzazioni sostenute da donazioni, non da pagamenti dei clienti o dell’amministrazione pubblica3. 3   Gian Paolo Barbetta, Il settore non profit italiano: solidarietà, democrazia e crescita economica negli ultimi vent’anni, in Libro bianco sul terzo settore, a cura di Stefano Zamagni, Il Mulino, Bologna 2011, p. 231 (corsivo mio).

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Il problema è che, nella chiave dei processi comunicativi che hanno generato l’effetto alone, tutti i verbi usati da Barbetta al passato andrebbero invece coniugati al presente: il volontariato (e simili) continua a rappresentare l’immagine dell’intero settore non profit (o ne è il significante), e questa identificazione consente di connotare l’intero magma in termini positivi e di particolare merito. Di rilevanza decisamente più modesta, ma che merita di essere menzionato qui, è il processo inverso, quello che va dal tutto alla parte. Ciò avviene quando dei segmenti significativi ma comunque ristretti del settore non profit, per dimostrare la propria forza e il proprio valore, applicano a se stessi gli elementi definitori dell’intero settore. È utile leggere in proposito un brano di una brochure prodotta nel 2009 dal Forum del terzo settore, una organizzazione «ombrello» che raccoglie associazioni di promozione sociale, di volontariato o di cooperazione internazionale che si occupano di welfare, tempo libero, solidarietà internazionale e che, tra il 1998 e il 1999, è stata riconosciuta dal governo Prodi prima e dal governo D’Alema poi, come «organizzazione maggiormente rappresentativa del mondo della solidarietà». Noto per inciso che la definizione, quanto mai vaga e indeterminata (cos’è il mondo della solidarietà?), riflette i tradizionali criteri sindacali («maggiormente rappresentativa») come se questi fossero applicabili senza problemi in un caso del genere. Ma veniamo alla nostra brochure. Essa recita: «La prima raccolta sistematica di dati sul Terzo Settore italiano [...] ha rilevato 235.232 enti, 488.523 addetti (pari al 2.5% del totale nazionale), oltre 3.200.000 volontari, entrate superiori ai 38 miliardi di euro. [...] Il Forum Nazionale del Terzo Settore è il ­56

principale soggetto di rappresentanza del Terzo settore italiano»4. Questa smania di rappresentatività appare paradossale non appena si pensa che implicitamente questo cartello di organizzazioni avoca unilateralmente a sé anche la rappresentanza dei sindacati e della Confindustria, delle parrocchie, delle scuole e delle università non statali, delle fondazioni bancarie, degli enti lirici e via elencando5. Ma, al di là della facile ironia, quello che è importante notare qui è appunto l’uso del tutto per la parte: l’intero universo del non profit è utilizzato per rafforzare le posizioni di una sua parte. Per quanto significativa sia, essa è decisamente minoritaria; e, anzi, è paradossalmente proprio questa sua specificità che le dà significato. Al contrario, nella confusione tra il tutto e la parte, che è alla base dell’effetto alone, tutto viene mescolato e sovrapposto. Che ciò a qualcuno possa convenire, lo do per scontato. Ma che sia giustificato è molto dubbio. In ogni caso, ai fini dell’esame dell’effetto alone, è importante notare che, a ben vedere, questa operazione ha la medesima origine di quella opposta, la confusione, cioè, tra una parte e il tutto. Deve essere osservato, conclusivamente, che questo rapporto illogico tra la parte (o le parti) e il tutto del settore non profit rende estremamente difficile fare analisi e formulare valutazioni, perché, per così dire, non si sa mai precisamente di chi o cosa si sta parlando. Questo è un effetto diretto della cattiva comunicazione che ha accompagnato la diffusione della invenzione del non profit.

  Forum del terzo settore, brochure, 2009 (corsivo mio).   Per tutto ciò mi permetto di rimandare al mio Impossibile ma vero, vero ma impossibile: la questione della rappresentanza dei gruppi di interesse civico, in «Meridiana», 77, 2013, pp. 115-144. 4 5

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3. La narrativa dei buoni sentimenti L’effetto alone, tuttavia, non si è innescato solo grazie alle continue oscillazioni e sovrapposizioni tra la parte e il tutto, ma anche grazie a tematizzazioni riguardanti il valore sociale del non profit. Esse costituiscono il nucleo del frame del terzo settore; ossia, come indica la definizione di questo concetto, la selezione di significati che a questo insieme è stato attribuito, con la esclusione di altri, egualmente plausibili. Quali sono questi significati? Consapevole della semplificazione, io ne indicherei tre, comunque connessi tra loro: la gratuità e l’altruismo; la coesione sociale; la economia «buona». Nel loro insieme, questi possono essere considerati come una narrativa, ossia un modo di raccontare il settore non profit, che comprende non solo aspetti definitori, concettuali e tecnici, ma anche significati e valori individuali e collettivi. È opportuno soffermarsi brevemente su ciascuno di essi e sui problemi di carattere logico e soprattutto empirico che presentano. Gratuità e altruismo  Questo primo elemento è talmente ovvio che quasi non varrebbe la pena di parlarne. Anche la ricerca della Johns Hopkins University, pur nella sua evidente focalizzazione sulla dimensione economica, considera essenziale per le organizzazioni non profit avere la presenza attiva di volontari in qualche forma. E i volontari, va da sé, sono proprio quei soggetti che prestano la propria opera gratuitamente e con spirito di altruismo. Lo stesso recente censimento delle istituzioni non profit italiane realizzato dall’Istat registra la presenza in queste istituzioni di 4,7 milioni di volontari. Questo è un dato sicuramente rilevante, ma ancora una volta non qualifica l’intero settore non profit: non ha alcun sen­58

so, ad esempio, nel caso delle fondazioni d’impresa o in quelle di erogazione, seppure la narrativa del non profit attribuisca anche a questi enti i significati della gratuità e dell’altruismo che invece caratterizzano solo delle parti dell’insieme. Anche i numeri sul volontariato devono essere attentamente considerati. Non solo per il modo in cui vengono raccolti («avete volontari nella vostra organizzazione?»; oppure agli individui: «hai fatto volontariato nell’ultimo anno?»), ma anche per i criteri che vengono utilizzati. L’Istat, ad esempio, nel chiedere alle istituzioni non profit se hanno volontari «in organico», definisce il volontario come «colui che presta la propria opera, anche saltuaria, senza ricevere alcun corrispettivo, presso l’istituzione non profit»6. Il problema, in questo caso, sta nel significato dell’aggettivo «saltuario» che viene usato per la definizione: quanto è «saltuario»? Alcune ore alla settimana, un giorno al mese, una volta all’anno? Inutile dire che ciò genera incertezza, che peraltro non troviamo solo in Italia, ma in tutto il mondo. Mi è capitato, al proposito, di sentir dire in sedi internazionali che il 70% degli abitanti di un paese faceva il volontario. Il non profit è proprio un oggetto che invita a dare i numeri. Gratuità e altruismo, inoltre, non sono le uniche caratterizzazioni possibili in questo caso: ci può essere anche una logica di scambio tra beni materiali forniti (il proprio lavoro e il proprio tempo, ad esempio) e beni immateriali ricevuti (riconoscimento, relazioni sociali, senso di aver fatto qualcosa di utile, ecc.), nonché una vasta gamma di motivazioni per fare i volontari (dalla giustizia alla rivoluzione; dal guardare la vita «in diret6   Istat, Censimento dell’industria e dei servizi 2011. Rilevazione sulle istituzioni non profit, 31 dicembre 2011, domanda 13.1, nota 1.

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ta» allo spirito imprenditoriale). Come ben sanno le organizzazioni di volontariato, non c’è niente di peggio di un volontario che – in forza di una specie di complesso di superiorità morale – pensa di stare facendo un favore alla organizzazione e pretende di fare a modo suo le cose che ritiene più meritevoli anziché quelle che servono e nella maniera in cui vanno fatte. Il modo di prevenire queste situazioni è, proprio al contrario di quello che viene narrato, stipulare un contratto tra la organizzazione e il volontario, in cui si chiarisce che cosa ciascuna parte ottiene dall’altra, anche in termini di beni immateriali. C’è, infine, un’altra questione, tutt’altro che secondaria: ma quel milione di persone che in Italia lavorano per il non profit, come li dobbiamo considerare, dal momento che vengono continuamente esibiti per qualificare il settore come generatore di lavoro e di ricchezza? Si tratta di un milione di egoisti? Coesione sociale  Il secondo elemento è quello della coesione sociale. Il settore non profit è benemerito in quanto garantisce la coesione tra i gruppi e gli individui nella società. Il concetto di coesione sociale viene dal lavoro di Émile Durkheim, che in questa chiave spiegava la esistenza di società che non fossero solo la somma di individui, attribuendo alla religione e alla divisione del lavoro la funzione di dare vita a questo nuovo insieme. Diventato oggetto di discorso pubblico e di policy, il concetto è diventato molto meno tecnico e molto più vago, quasi un concetto vuoto che indica una società in salute, o – nella tematizzazione di istituzioni come il Consiglio d’Europa – nella quale non c’è esclusione e discriminazione. È in questa accezione che la coesione sociale diventa un mantra, che viene ripetuto ed evo­60

cato senza essere spiegato, che allude, per lo più senza denotare, alla benemerenza del settore non profit. Ci sono due punti che vanno sottolineati al riguardo. Il primo è che la coesione sociale è chiaramente un risultato, non un insieme di misure e di attività. Essa è il frutto di una quantità di cose che funzionano e in cui la parte del leone è chiaramente riservata (nel bene e nel male) a Stato e imprese. Il secondo punto è che, mentre alcuni tipi di attività di alcuni tipi di organizzazioni non profit hanno una evidente e diretta incidenza sul risultato della coesione (ad esempio quelle che riguardano i migranti), nel caso di molte altre questo nesso è debole o inesistente; tanto che nel discorso pubblico la coesione sociale viene tradotta (o ridotta) in termini di relazioni: essa, così, diventa il risultato di un insieme di relazioni tra le persone che il non profit garantisce. Questo slittamento semantico ci riporta a un tema già menzionato, il capitale sociale, e a un altro ad esso correlato, quello dei beni relazionali. Quanto al capitale sociale, le organizzazioni non profit, creando legami di fiducia e interdipendenza, arricchirebbero quella rete di solidarietà a cui, alla fine, viene ricondotta la coesione. Anche in questo caso, è indiscutibile che molti tipi di organizzazioni inserite in questo universo contribuiscano a creare capitale sociale anche attraverso attività puramente ricreative, e che questo sia sicuramente un fatto positivo, per quanto non mi pare che abbia niente di eccezionale. Ci sono in merito, tuttavia, almeno tre problemi. Il primo è che molte delle organizzazioni del cosiddetto terzo settore fanno molto più che occuparsi di rafforzare il capitale sociale: difendono diritti umani, si battono per la legalità sfidando la mafia, si occupano di persone e situazioni del tutto dimenticate. Per dirla in altre parole: ­61

assicurare l’assistenza sanitaria a migranti illegali non ha lo stesso valore che organizzare una festa di caseggiato (cosa molto di moda in tutta Europa). Il secondo problema è che, se un coro polifonico amatoriale aumenta sicuramente il capitale sociale, un fondo pensione di professionisti no: semplicemente aumenta il suo capitale finanziario a beneficio dei propri associati, il che non ha niente di negativo, ma neanche di particolarmente positivo. Il terzo problema è che il capitale sociale non è buono in sé: lo è se contribuisce a migliorare la qualità della vita, a rompere l’isolamento delle persone, ad arricchire il senso di un destino comune; ma non lo è se crea piccoli gruppi chiusi, aggressivi verso l’esterno e dispotici verso l’interno, come nel caso, qui da noi, di alcune associazioni etniche di migranti, ma anche di pedemontani. Gli studiosi al proposito distinguono tra capitale sociale bridging e bonding: quello cioè che crea ponti e quello che invece crea recinti. Penso che nel magma del non profit ci siano entrambi e sarebbe pertanto il caso di usare con più avvedutezza questa categoria7. In qualche modo connesso al capitale sociale c’è il tema dei beni relazionali. Secondo questa tesi l’universo delle organizzazioni non profit si qualifica per il fatto che produce dei beni che si costruiscono nelle relazioni tra le persone e che possono essere fruiti solo in tale relazione. La tesi è giustamente celebre tra gli studiosi, soprattutto del welfare, e sicuramente coglie una caratteristica fondamentale di esperienze come quelle delle comunità terapeutiche, dei consultori, delle case famiglia, tanto per fare qualche esempio. Meno, quando il 7   Per questa ambiguità, vedi Stiglitz, Sen, Fitoussi, Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress cit., pp. 182-183.

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problema è lottare per la trasparenza degli appalti pubblici o far sì che le persone anziane ottengano i pannoloni a cui hanno diritto, o assumere la difesa legale delle vittime di calamità e catastrofi, ma anche accogliere gli immigrati a Lampedusa. Per nulla, quando una fondazione bancaria finanzia un centro di servizi del volontariato o il restauro di un monumento o la manutenzione di una scuola: tutte cose, va da sé, preziose, ma che di relazionale hanno poco. Resta, naturalmente, del tutto aperta la questione del perché la coesione sociale dovrebbe essere assicurata da un circolo di bocce (o di bowling) piuttosto che da una burocrazia che non pensi solo a tirare a campare, da una giustizia che funzioni e da imprese che producano ricchezza come un gioco a somma positiva e non a somma zero. So che questo modo di dirlo non è elegante, ma il problema sta proprio qui. Economia «buona»  Infine, ma non certo in ordine di importanza, c’è la dimensione economica. Il settore non profit è rappresentato come quello della «buona» economia, con varie denominazioni: economia civile, impresa sociale, impresa solidale, economia fraterna o del dono, o simili. Ovviamente non c’è nessun problema a chiamare in questo modo la esperienza di cooperative sociali che erogano servizi per i disabili gravi (purché di qualità) o che creano opportunità di lavoro per ex carcerati o per ex tossicodipendenti o per persone ai margini della società, o ancora che riscattano e usano per dare lavoro ai giovani i beni confiscati alla mafia. Ci mancherebbe altro. E non c’è alcun problema nel valorizzare lo spirito imprenditoriale di organizzazioni di cittadini come quelle di volontariato che in questo modo cercano di superare la logica della mera testimo­63

nianza e di agire in una logica manageriale, fissando obiettivi, cercando le risorse per realizzarli e verificando i risultati conseguiti. In questo elemento della narrativa, però, c’è qualcosa di più: di più generale ed esteso all’intero magma del non profit. Quest’ultimo infatti viene disegnato – con un altro scambio della parte con il tutto – come il luogo in cui, finalmente, si ricompone la separazione tra dimensione economica della produzione della ricchezza e dimensione sociale della sua distribuzione che l’utilitarismo prima e il welfare state poi avevano diviso. Ciò è avvenuto per l’affermazione e la diffusione «di soggetti imprenditoriali connotati da due elementi specifici. Primo, una organizzazione produttiva del tutto simile a quella delle imprese for profit [...]; secondo, il perseguimento di interessi collettivi o la tutela di interessi generali affatto analoghi a quelli perseguiti da associazioni [...] e da fondazioni»8. Il problema è la immagine generalizzata di una economia buona perché persegue solo vantaggi sociali contrapposta alla economia cattiva delle imprese private che invece persegue il profitto a tutti i costi: una piccola nemesi marxiana, insomma, che si personifica nella distinzione, molto in uso, tra me-economy e we-economy. Una buona parte delle entità inserite nell’universo del settore non profit, tuttavia, non giustifica questa assunzione neanche mettendoci molta buona volontà. Sarebbe impietoso, ad esempio, menzionare al proposito i fondi pensione privati, le attività di promozione religiosa o le associazioni professionali e imprenditoriali, ma anche i sindacati. E, d’altra parte, le vituperate 8   Stefano Zamagni, Slegare il Terzo Settore, in Libro bianco sul Terzo settore cit., pp. 21-22.

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aziende private sempre più sostengono organizzazioni non profit, non solo con risorse finanziarie ma anche promuovendo il volontariato d’impresa e lavorando per cambiare la cultura e le operazioni aziendali nella direzione della responsabilità sociale e ambientale. Senza contare che recenti ricerche italiane mostrano come, ad esempio nelle strutture sanitarie, la efficienza sia dovuta, molto più che alla natura giuridica (profit o non profit) dei gestori, al sistema di pagamento adottato dal servizio sanitario9. Non sono un economista e – a differenza di quello che gli economisti ogni tanto fanno – non mi addentro in temi su cui non ho competenze; ma posso annotare che, in questo caso, lo scambio della parte con il tutto esclude due posizioni opposte ma decisamente maggioritarie nel magma del non profit. La prima è quella di enti pubblici o quasi-pubblici, associazioni del modello corporativo, istituzioni religiose, ecc. La seconda è quella di organizzazioni di volontariato, organizzazioni di cooperazione allo sviluppo, gruppi ambientalisti, movimenti di consumatori, gruppi di self-help, comitati locali, movimenti di azione civica nelle politiche pubbliche e via elencando. Questa duplice esclusione porta ad affermare che «la vera novità dell’ultimo trentennio sul fronte del Terzo settore è proprio l’irrompere nella nostra società di questa nuova tipologia di soggetti imprenditoriali»10. Il che, semplicemente, non è vero. Il wishful thinking certe volte fa brutti scherzi. In generale, come sottolineerò più 9   Emanuela Antonazzo, Gian Paolo Barbetta, Serena Caroppo, Gilberto Turati, Angelo Zago, L’efficienza del sistema sanitario. Il ruolo della struttura proprietaria negli ospedali, in Organizzazione industriale dei sistemi di welfare, a cura di Gian Paolo Barbetta e Gilberto Turati, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 181-238. 10   Ivi, p. 22.

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avanti, i fenomeni con cui abbiamo a che fare hanno – dal punto di vista delle vecchie classificazioni – una natura molteplice: se si vuole, nel contempo sociale, politica e imprenditoriale. Tutte le interpretazioni sono, al riguardo, legittime e utili, purché non si imponga a questi fenomeni una natura univoca – in questo caso economica, e per di più esclusivamente di offerta di servizi. Alla idea di una economia buona viene spesso associata la affermazione della centralità del lavoro, che le organizzazioni non profit promuoverebbero e garantirebbero. Ciò vale soprattutto per le organizzazioni più contigue alle imprese private, sia per dimensioni che per modus operandi. Esse si vorrebbero legittimate proprio da questa capacità di creare lavoro. Quest’ultimo assume un primato assoluto, o addirittura, come si legge qua e là, diventa l’essenza stessa della democrazia repubblicana («la vera partecipazione è lavorare»). Ma qualche interrogativo è opportuno: qual è la qualità di questi lavori che vengono creati? Le imprese private non potrebbero dire di se stesse più o meno la stessa cosa? E soprattutto: questa ossessione del lavoro non rischia di giustificare anche i comportamenti più spericolati nel mercato? Il fine giustifica i mezzi anche in questo caso? In conclusione, gli elementi che caratterizzano la narrativa dei buoni sentimenti sono in qualche modo legati tra loro, per quanto non manchino contraddizioni come quella tra il valore della gratuità e il valore del lavoro. Ma tant’è; l’effetto alone non contiene una concettualizzazione coerente e riesce a tenere tutto insieme con molta enfasi, una evidente esuberanza ideale e un certo eccesso di visione. Per una parte delle istituzioni non profit, tuttavia, ciò non è necessario perché la realtà del loro lavoro dice più e meglio di molti discorsi; per un’altra parte invece è decisamente eccessivo rispetto a ­66

quello che viene fatto; per un’altra parte ancora – quella per la quale l’essere non profit è un fatto di convenienza – finisce per essere una comoda copertura. 4. Dall’effetto alone all’effetto boomerang Questo alone di benemerenza e di primato morale ha indiscutibili vantaggi, specie in relazione alla raccolta di fondi. È sempre più diffusa, infatti, un’attività sistematica e professionale di fund raising da parte di molte organizzazioni non profit, rivolta sia a imprese private, sia, soprattutto, a singoli donatori. Tornerò su questo punto più avanti. Qui voglio sottolineare l’evidente rischio che l’alone di benemerenza e le rappresentazioni – se si vuole ingenue, ma io direi soprattutto basate su una informazione scadente e su una descrizione dei fatti che non corrisponde alla realtà – ad esso correlate, oltre ai vantaggi già ricordati, portino con sé un rischio opposto. Si tratta del possibile effetto boomerang che è innescato da scandali e atti illegali, ma che si basa proprio sull’alone di benemerenza che si è costruito attorno al settore non profit, basato a sua volta sulla rappresentazione semplificata e idealizzata di persone che si danno da fare sulla base della loro buona volontà, per dare risposte concrete e materiali a problemi concreti e materiali. Gli scandali, in altre parole, catalizzano una distonia tra quello che il pubblico crede che il non profit sia e quello che è effettivamente11.

11   Con riferimento agli Stati Uniti, si può vedere l’analisi di Emmett D. Carson, Public Expectations and Nonprofit Sector Realities: A Growing Divide with Disastrous Consequences, Waldemar A. Nielsen Issues in Philanthropy Seminar Series, Georgetown University, March 22, 2002.

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Il problema, qui, non è semplicemente di reputazione. Occupandomi di responsabilità d’impresa sono piuttosto scettico sul modo in cui la reputazione si costruisce e sul fatto che essa sia un indicatore attendibile di comportamenti positivi, specialmente pensando a casi come quelli di Enron e di Parmalat (ottima reputazione, pessimi comportamenti). Il punto, comunque, è che la reputazione riguarda singole organizzazioni, imprese o istituzioni; mentre il rischio generato dall’effetto alone è diverso. Quando imprenditori o manager di aziende private sono protagonisti di fenomeni o situazioni patologici, il senso di scandalo riguarda il fatto stesso o la singola impresa che se ne è resa protagonista, non porta con sé un giudizio complessivo sulle imprese private. Ognuno, cioè, tende a conservare il proprio giudizio su di esse, più o meno positivo o negativo che sia. Il fatto è circoscritto. Nel caso delle organizzazioni del magma del non profit, invece, una appropriazione indebita diventa un marchio di infamia per tutti e porta con sé un giudizio globale su queste organizzazioni, proprio a causa dell’alone di benemerenza proiettato in modo indistinto sull’intero magma. Va da sé che, come dice il proverbio, più in alto si sale, più in basso si cade. L’alone di benemerenza, così, può diventare una rovina. È inutile dire che ciò va a discapito soprattutto di quelle organizzazioni la cui attività ha il più alto valore sociale e che vengono condotte con rigore e trasparenza. Difficile non domandarsi perché anche quelli che ci rimettono non alzino la voce per prendere le distanze dal calderone in cui sono finiti.

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Il caso italiano, ovvero come farsi del male da soli

1. Eccezionalismo Tutto quello che è stato detto fino a questo punto non riguarda solo l’Italia ma è un fenomeno generalizzato. Anche quando ho utilizzato dati e informazioni sul nostro paese, l’ho fatto per illustrare una situazione tutt’altro che particolare. È, tuttavia, necessario domandarsi se esista una specificità italiana della questione del non profit e, se sì, quale sia. L’idea che mi sono fatto lavorando a questo libro è che tale specificità esista; e, per quanto mi riguarda, che sia sintetizzabile nel titolo che ho dato a questo capitolo: come farsi del male da soli, aggravando una situazione generale già critica. Ciò è del resto rilevato da molti esperti e addetti ai lavori della materia. Questo capitolo è una finestra dedicata a complicazioni, contraddizioni e paradossi della situazione italiana. Si tratta di un intrico nel quale non è facile orientarsi, ma il tentativo va comunque fatto. Prima di lanciarsi in questa impresa, però, occorre perlomeno menzionare che esiste anche una diversa opinione sulla specificità dell’Italia, che si potrebbe chiamare «eccezionalismo italiano». L’eccezionalismo, ­69

si sa, è la convinzione che un paese, o, meglio, una nazione, sia differente da tutti gli altri a causa di specifiche caratteristiche che ne fanno qualcosa di unico. Tipici sono i casi degli Stati Uniti d’America e della Francia. Questa convinzione di essere eccezionali, di avere un destino unico e una missione da compiere nel mondo o nella storia, ha molti effetti, specie nella dimensione internazionale, come tutti sappiamo. Nel nostro caso parliamo di qualcosa di decisamente più modesto, ma importante nella logica di questo libro. Si tratta della convinzione che il non profit sia stato inventato in Italia molti secoli fa e che questo dia un primato al nostro paese. A sostegno di questa primogenitura viene spesso citata la fondazione, avvenuta nel 1244 per iniziativa del frate Pietro da Verona, della arciconfraternita della Misericordia, dedita all’assistenza di malati e bisognosi, esistente ancora oggi. L’Italia, con le sue radici medievali, sarebbe quindi il luogo in cui il non profit è nato. La tesi dell’eccezionalismo italiano è, in modo esplicito o implicito, proposta in contrapposizione alla tesi, di origine tocquevilliana, secondo cui la virtù dell’associarsi per mettere mano a problemi comuni sia una delle caratteristiche distintive di un altro eccezionalismo, quello americano. Questa tendenza all’associarsi sarebbe, quindi, caratteristica dell’umanesimo italiano e della «civiltà cittadina» di quel periodo. Qui starebbe una specie di primato dell’Italia nel campo del non profit. Niente da dire, naturalmente, su misericordie e confraternite. Tuttavia, qui stiamo parlando di organizzazioni che sono nate nella stragrande maggioranza dei casi nell’ultimo quarto del XX secolo. Stabilire una continuità con il Medioevo (o con qualunque altro periodo) è quantomeno temerario, come dimostrano le tante cri­70

tiche che, con ottimi argomenti, sono state rivolte alla teoria – da cui l’eccezionalismo italiano ha origine – di Robert Putnam, secondo cui le differenze nella civicness tra nord e sud d’Italia vanno cercate proprio nei comuni medievali. Inoltre, in tutti i paesi – almeno in quelli europei – da tempo immemorabile esistono iniziative e istituzioni caritative o di beneficenza. Ce lo dicono non solo gli studi storici, ma anche semplicemente molti libri di letteratura. E questo è un campo in cui ciascuno ha il suo: ci sono ad esempio studi che fanno risalire la filantropia organizzata all’Israele biblico, non senza proprie ragioni1. Non intendo negare in alcun modo il valore della ricerca storiografica e l’aiuto che essa può dare nello spiegare il presente. Né voglio minimamente mettere in discussione la importanza che le confraternite medievali, ma anche le opere pie e le organizzazioni mutualistiche e cooperative dei lavoratori, hanno avuto come elemento di assoluta rilevanza nella storia d’Italia. Tuttavia, affermare che l’Italia è la patria del terzo settore aggiunge un tocco di nazionalismo (minimo, s’intende) alla narrativa che è presente in tutto il mondo, ma non sposta di un centimetro il problema che sto trattando. Anzi, lo complica perché rende più difficile identificare il non profit come invenzione, senza peraltro darci in cambio alcun vantaggio. Per guardare con gli occhi di oggi alle peculiarità del caso italiano del non profit occorre dunque rivolgersi ad altro.

1   Ce lo ricorda, peraltro, lo studio di un teologo protestante: Martti Muukkonen, The Familiar Unknown: Introduction to Third Sector Theories, Licentiate Thesis, University of Joensuu, Department of Orthodox Theology and Western Theology, 2000, cap. 2.

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2. La Babele normativa Un primo punto da mettere in rilievo è il fatto che in Italia la legislazione sul settore non profit è una specie di Babele, non solo per il numero di leggi che lo investono, ma anche per la loro diversa origine. Si possono distinguere al riguardo tre diverse fonti. La prima è il codice civile. La seconda è un insieme di norme specifiche, di nicchia o ad hoc, che sono man mano state promulgate in leggi, decreti o regolamenti per rispondere a esigenze non previste, a situazioni emerse nel corso del tempo o, più prosaicamente, per venire incontro a interessi di constituency di partiti e coalizioni (basta scorrere l’elenco della tabella 7 per accorgersene). La terza fonte, invece, è di tipo tributario e di essa dovremo ancora occuparci. In ogni caso, il risultato è quello riassunto nella tabella 7. Non è necessario essere giuristi per intuire che questa pluralità di fonti dà luogo a confusioni, sovrapposizioni e definizioni concorrenti. Era necessario tutto questo? No, se è vero che nei paesi anglosassoni – dove vige la common law – «si può essere un’organizzazione non profit (e quindi fiscalmente agevolata) con qualsiasi forma giuridica anche di impresa (societaria); ciò che rileva, infatti, è la finalità istituzionale effettivamente perseguita»2. Tornerò su questo punto, di importanza cruciale. 3. Il fisco innanzitutto In questa Babele normativa il primato, tuttavia, ce l’ha sicuramente la legislazione fiscale. Essa è contenuta nel Testo unico delle imposte sui redditi (DPR 917/86) e 2   Adriano Propersi, Il sistema di rendicontazione degli enti non profit, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 42, nota 10.

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Tabella 7. Tipi concorrenti di definizioni legali delle organizzazioni non profit CODICE CIVILE

NORME AD HOC

LEGISLAZIONE FISCALE

• Associazioni riconosciute e non riconosciute • Fondazioni riconosciute e non riconosciute • Comitati

• Fondazioni e associazioni bancarie • I.P.A.B. pubbliche e privatizzate • Associazioni sportive • Associazioni senza fine di lucro e pro-loco • Enti ecclesiastici cattolici • Enti religiosi di altre confessioni • Enti lirici • Imprese cooperative • Società di mutuo soccorso • Centri di formazione professionale • Istituti di patronato • Associazioni di volontariato • Organizzazioni non governative di cooperazione internazionale • Organizzazioni ambientaliste • Organizzazioni di consumatori • Cooperative sociali • Associazioni di promozione sociale

• Enti non commerciali • Enti di tipo associativo • Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) • Imprese sociali

Fonte: Moro, Azione civica cit., p. 80, modificata.

in un decreto legislativo del 1997, il n. 460, altrimenti detto «Legge Zamagni» dal nome dell’economista che ne è considerato unanimemente l’autore. Non si può evitare di riassumere i principali contenuti di queste norme, per quanto esse siano state modificate, integrate e sottoposte a numerose «interpretazioni autentiche», al punto che, come dice un più che autorevole esperto della materia, «la legislazione fiscale sul non profit è ­73

difficilmente interpretabile, anche da parte degli stessi addetti ai lavori»3. La legislazione fiscale distingue due posizioni all’interno del magma del non profit (o degli enti non commerciali, secondo il wording tributario italiano): quella degli enti di tipo associativo e quella delle cosiddette Onlus, acronimo che sta per Organizzazioni non lucrative di utilità sociale. La prima categoria è più generale, mentre la seconda definisce un insieme più ristretto di organizzazioni. Gli enti di tipo associativo, definiti nel DPR 917/86, sono caratterizzati dai seguenti elementi: – divieto di distribuzione degli utili; – in caso di scioglimento, obbligo di devoluzione del patrimonio ad enti con finalità analoghe; – uniformità ed effettività del rapporto associativo; – obbligo di rendiconto economico e finanziario annuale; – democraticità della struttura e delle procedure di decisione; – divieto di trasmettere la quota o il contributo associativo. Secondo il decreto legislativo 460 del 1997, invece, le organizzazioni non lucrative di utilità sociale devono presentare le seguenti caratteristiche per rientrare nelle previsioni di legge: – prevedere espressamente lo svolgimento di almeno una delle seguenti attività: assistenza sociale e sociosanitaria, assistenza sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione, sport dilettantistico, promozione e valorizzazione dei beni culturali, tutela e valorizzazione dell’ambiente,

  Ivi, p. 41.

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promozione della cultura e dell’arte, tutela dei diritti civili, ricerca scientifica di particolare interesse sociale; – esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale; – divieto di svolgere attività diverse da quelle sopra menzionate, ad eccezione di quelle ad esse direttamente connesse; – divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale; – obbligo di impiegare gli utili o gli avanzi di gestione per la realizzazione delle attività istituzionali e di quelle ad esse direttamente connesse; – obbligo di devolvere il patrimonio dell’organizzazione, in caso di suo scioglimento, ad altre Onlus o a fini di pubblica utilità; – obbligo di redigere il bilancio o rendiconto annuale in modo trasparente; – disciplina uniforme del rapporto associativo, escludendo la temporaneità della partecipazione alla vita associativa e prevedendo per gli associati o partecipanti il diritto di voto su statuto e regolamenti e per la nomina degli organi direttivi dell’associazione. Secondo la legge, la «utilità sociale» è connessa al fatto che la cessione di beni e la erogazione di servizi non siano rese ai propri soci o partecipanti, ma siano dirette ad arrecare benefici a: «a) persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari; b) componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari» (art. 10, comma 2). Se gli associati appartengono a loro volta a qualcuna di queste categorie di soggetti svantaggiati, la organizzazione può essere una Onlus. I soggetti che possono assumere la qualifica di Onlus sono le associazioni riconosciute e non riconosciute, i ­75

comitati, le fondazioni, le società cooperative, gli altri enti di carattere privato, con o senza personalità giuridica. Non possono in ogni caso essere Onlus gli enti pubblici, le società commerciali diverse da quelle cooperative, le fondazioni bancarie, i partiti e movimenti politici, i sindacati, le associazioni dei datori di lavoro e di categoria. Alcune categorie di enti assumono automaticamente la qualifica di Onlus (sono le cosiddette «Onlus di diritto»): le organizzazioni di volontariato, le organizzazioni di cooperazione internazionale, le cooperative sociali e i loro consorzi. Tutte erano già state riconosciute da una norma ad hoc prima del decreto legislativo del 1997. Alcune categorie di enti hanno la possibilità di derogare al divieto di svolgere attività diverse da quelle sopra elencate (sono le cosiddette «Onlus parziarie»): gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con cui lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese, e le associazioni di promozione sociale le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal ministero dell’Interno (autorizzazioni concernenti la somministrazione di alimenti e di bevande nelle mense aziendali e negli spacci annessi ai circoli cooperativi). Quali sono i vantaggi di queste posizioni giuridicofiscali? Anche qui non è facile dare una risposta univoca e generale, tante sono le eccezioni, le specificazioni e i casi particolari, derivanti da quella Babele normativa già menzionata e in particolare dalle normative ad hoc. In ogni caso si può dire che gli enti non profit godono di un regime tributario di favore sia per quanto riguarda le imposte sui redditi, sia per quanto riguarda l’Iva, sia in relazione ad altre imposte indirette. Di recente, con provvedimenti come la legge «Più dai, meno versi» e con il meccanismo del 5 per 1.000 – ossia quella norma ­76

che in Italia consente ai contribuenti di destinare questa quota del proprio reddito a organizzazioni e iniziative con finalità sociale – si è ampliata (con diversi problemi, lo vedremo dopo) la possibilità, specialmente per le Onlus, di raccogliere donazioni e contributi da individui e imprese. Naturalmente questo non è un libro sull’ordinamento degli enti non commerciali, sia per ragioni di competenza di chi scrive, sia perché sull’argomento esiste una messe sterminata di materiali: è uno di quei casi – tipici del nostro paese – in cui la quantità di ricerche, libri e convegni è inversamente proporzionale alla chiarezza sul tema. Sarebbe quindi inappropriato qualunque tentativo di ermeneutica dei testi. È invece possibile, e necessario, registrare i problemi che questa normativa ha generato. Dividerò le osservazioni in due parti: una di carattere generale, che collega questa parte a quanto detto fin qui, e una specifica. 4. Un trapianto fallito Da un punto di vista generale e con riferimento a quanto già messo in rilievo a proposito della invenzione del non profit, ciò che salta agli occhi è il tentativo di introdurre in Italia un principio di riconoscimento del valore delle attività svolte, come, ad esempio, è previsto nella common law britannica, che attribuisce lo status di charity a qualunque tipo di organizzazione in base alle finalità e all’attività che svolge per realizzarla4. Questo intento era sicuramente positivo e in grado, se portato fino alle 4   Vedi Alceste Santuari, Uno sguardo di insieme sulle esperienze straniere, in Il non profit dimezzato, a cura di Giorgio Vittadini, Etas Libri, Milano 1997, pp. 77-80.

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sue conseguenze, di contribuire a prevenire o a superare almeno alcuni dei problemi che ho rilevato fin qui. Questo trapianto di common law nel nostro sistema di civil law, tuttavia, mi sembra che non abbia funzionato. Ci sono tre elementi che è il caso di menzionare in proposito. Il primo è che, malgrado la intenzione di riconoscere e premiare le attività svolte rispetto ad altri elementi distintivi, ciò che la legge privilegia sono in realtà requisiti che rientrano perfettamente nel tradizionale, ossessivo, formalismo giuridico che soffoca il nostro paese, e che poco o nulla hanno a che fare con ciò che viene realizzato. Nel caso degli enti di tipo associativo non c’è nemmeno una delle caratteristiche definitorie che riguardi l’attività svolta; nel caso delle Onlus ce n’è, più o meno, una su dieci, per quanto importante. Le cose davvero rilevanti, è evidente, sono quelle che stanno scritte negli statuti e in altri documenti ufficiali, non quelle che avvengono nella realtà. Anche sul piano dei controlli, non solo in linea di fatto ma anche in linea di principio, ciò che è previsto sono controlli sui bilanci, non sul tipo di attività, o sulla sua effettiva utilità sociale e, soprattutto, sulla sua efficacia. Il secondo elemento critico sta nel fatto che certi tipi di enti (come le associazioni di volontariato o, a certe condizioni, le associazioni di promozione sociale) sono riconosciuti come Onlus a prescindere da quello che fanno: sono «Onlus di diritto». Ciò significa che una organizzazione di volontariato che promuove tornei di scacchi (non per disabili, non per migranti, non per persone in difficoltà) è riconosciuta come una Onlus, mentre un’associazione che difende i diritti dei clienti delle banche che non riescono a pagare i mutui no. Questa idea che qualcuno sia «di utilità sociale» di diritto e non che si riconosca la utilità sociale, a parità di ­78

condizioni, come un dato di fatto, è fuori di ogni logica, tranne, forse, quella impazzita dell’amministrazione italiana. Lo stesso meritorio tentativo di introdurre un principio di distinzione all’interno del settore non profit in base al valore sociale dell’attività svolta risulta in questo modo vanificato. Ciò è aggravato, a mio parere, dal fatto che la definizione di «utilità sociale» contenuta nella normativa sulle Onlus oscilla tra il riferimento a settori di attività – considerati di per sé utili socialmente – e quello alla condizione dei beneficiari delle attività stesse5. Il terzo elemento da menzionare è che l’elenco delle attività che una organizzazione deve svolgere per essere riconosciuta come Onlus ha un evidente sapore assistenzialistico e un po’ arcaico. Più che di «utilità sociale», come recita l’acronimo, qui la logica sembra quella della assistenza e della beneficenza, precedente alla istituzione dello stato sociale nel corso del ’900 in tutta Europa. Prego, al proposito, il lettore di constatare la assonanza del contenuto della legge con la seguente definizione presa da un testo analogo. Secondo questo testo utilità sociale è: Sostegno degli anziani, dei poveri e degli incapaci; mantenimento dei soldati e marinai malati o mutilati, di scuole e di studenti; riparazione di ponti, rade, strade selciate, chiese, terrapieni e strade maestre; educazione e formazione degli orfani; sostegno, approvvigionamento o mantenimento delle carceri; matrimonio di fanciulle povere; supporto e aiuto a giovani commercianti, artigiani e persone cadute in disgrazia; sostegno o redenzione di prigionieri o delinquenti; aiuto e concessione di facilitazioni ai poveri circa il pagamento delle imposte.

5   Lo chiarisce la circolare interpretativa diffusa dal ministero delle Finanze: Circolare 26.06.1998, n. 168/E, al punto 1.4.

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Il suono è molto simile, non c’è che dire. E, anche se nessuno rifiuterebbe di considerare le attività elencate come positive, il problema è che il testo citato è la definizione di charity contenuta nell’inglese Charitable Uses Act, emanato dalla regina Elisabetta I nel 16016. Il problema – questo davvero di importanza cruciale – è che l’utilità sociale nel terzo millennio in Europa è qualcosa di decisamente più articolato e ricco di quanto non fosse 400 anni fa. In particolare, e soprattutto, le materie di charity sono diventate il contenuto di un catalogo di diritti che è uno dei pilastri della cittadinanza moderna. Ciò non significa che della tutela di questi diritti, sia nella forma dell’advocacy che in quella della creazione di servizi, non siano protagonisti anche soggetti non pubblici, e soprattutto i cittadini (al contrario!); ma il contesto in cui ciò avviene non è il medesimo della Inghilterra elisabettiana o, al meglio, dell’Italia delle opere pie e delle mutue dei lavoratori. E, mentre i sistemi di common law reinterpretano continuamente, alla luce della evoluzione della società, norme vecchie o stravecchie, nei sistemi giuridici come il nostro ciò non è possibile o è estremamente difficile, perché qui da noi non ci si chiede qual è il significato attuale di una norma, ma piuttosto come la si può piegare, visto che è considerata un testo sacro, a situazioni che essa non aveva previsto (o addirittura aveva escluso), aggrappandosi a interpretazioni estreme della lettera, come se si stesse discutendo la Bibbia nel Medioevo. In ogni caso, al di là di queste considerazioni generali, credo che sia dovuto anche a questa definizione obsoleta se le leggi sul non profit (e in particolare 6   Citato in Santuari, Uno sguardo di insieme sulle esperienze straniere cit., p. 365.

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quella sulle Onlus) sono permanentemente oggetto di controversie, interpretazioni contrapposte e incertezza dei confini. Sembrano infatti scritte per un mondo che non c’è più. Si potrebbe pensare che tutte queste osservazioni, per quanto possano avere un significato sul piano generale, non abbiano riflessi pratici. Invece ce li hanno eccome. Vediamone qualcuno. 5. Malfunzionamenti Guardando più da vicino, quindi, come funziona tutta questa macchina fiscale, che dovrebbe essere volta a favorire – alla fine dei conti – attività di rilievo sociale? Su questo punto, che mi pare molto importante, lascio volentieri la parola alla voce di Adriano Propersi, autorevole studioso di economia aziendale, che oltretutto nel quinquennio 2006-2011 è stato il vicepresidente dell’Agenzia per il terzo settore. Il punto di partenza delle considerazioni di Propersi è che la mancanza di una definizione delle organizzazioni non profit in chiave di diritto civile ha favorito, oltre ad altre patologie, il prevalere della legislazione fiscale, appunto, con effetti a loro volta patologici: soprattutto quello di «un nocivo fiscalismo» che è stato un fattore di incertezza, di rigidità e di ostacolo7. Propersi sottolinea che la legislazione dovrebbe rispondere a criteri di razionalità, semplicità e utilità. Invece, l’attuale legge, purtroppo, non è razionale perché fondata sul presupposto che il settore è popolato da evasori; non è utile; non

7   Propersi, Il sistema di rendicontazione degli enti non profit cit., p. 39.

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è semplice perché introduce meccanismi complessi e indeterminati di imposizione che creano situazioni di costante incertezza circa la legalità, o meno, dei comportamenti di volta in volta adottati, tali da innescare continui e pericolosi processi di demotivazione nel personale, specie di quello volontario, nonché il sorgere di eccessivi oneri per la consulenza fiscale. La norma non definisce in modo preciso concetti fondamentali quali quelli di solidarietà sociale, di soggetto svantaggiato, di occasionalità, di attività accessoria [sic], prevalenti e connesse8.

Propersi riconosce che queste complicazioni derivano anche «dall’uso distorto ed elusivo che certa prassi ha fatto dello strumento associativo utilizzato per la gestione di vere e proprie imprese nel settore dello sport, del commercio e della ricreazione»9. Personalmente, la idea che mi sono fatto è opposta, ossia che è lo stesso concetto di non profit, oltre alla legislazione italiana, a favorire questi comportamenti. Come che sia, una relazione evidentemente c’è. L’autore menziona una serie di questioni tecniche che creano ostacoli o che mancano di chiarezza: la separazione tra gestione istituzionale e gestione commerciale; la definizione della figura fiscale dell’ente non commerciale; la difficoltà di interpretare le norme sull’Iva; i limiti troppo stretti della deducibilità e della detraibilità delle donazioni; i limiti del concetto di occasionalità per le raccolte pubbliche di fondi; il divieto di corrispondere ai dipendenti stipendi superiori del 20% rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro; la inapplicabilità alle piccole realtà del principio di democraticità come definito nella legge; il mancato impulso, dal punto di vista tributario, alla costituzione di fondazioni d’impresa.

  Ivi, p. 40.   Ibid.

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Ci sono altri due punti critici che Adriano Propersi solleva e che mi sembra importante mettere in rilievo. Il primo è che il concetto di ente non commerciale «viene definito indipendentemente dalla considerazione delle finalità perseguite dall’ente»10, che è invece sostituita dal rispetto di una serie di obblighi e requisiti non onorando uno solo dei quali la organizzazione perde la qualifica di ente non commerciale. Osserva in merito Propersi: «La legislazione [...] equipara il caso della perdita della qualifica fiscale agevolata [...] al caso di scioglimento dell’azienda, come se la violazione della legislazione fiscale fosse un’inequivocabile affermazione di non autenticità sostanziale dell’organizzazione»11. Il secondo punto riguarda i requisiti che definiscono gli enti non commerciali secondo la legge. Propersi sottolinea che i requisiti soggettivi indicati come inderogabili dalla legislazione non costituiscono, individualmente, e in alcuni casi neppure complessivamente, assoluti indicatori di autenticità dell’attività degli enti del terzo settore. Ciò implica un rischio di cessazione coatta dell’attività d’azienda a causa del non rispetto di uno o più requisiti, anche in ipotesi di assoluta autenticità sostanziale dell’organizzazione12.

Ciò che è paradossale (ma solo apparentemente) è che tutta questa attenzione a prevenire frodi e cattiva gestione dei fondi, purtroppo, non impedisce la loro occorrenza. Ma, al di là delle frodi e della cattiva gestione, questi malfunzionamenti generano paradossi vissuti quotidianamente da chi gestisce queste organizzazioni.   Ivi, p. 42.   Ibid. 12   Ivi, p. 43. 10 11

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Mi sembra utile fare un solo esempio, di cui ho una conoscenza personale, quello di Cittadinanzattiva, il movimento che ho diretto fino a una decina di anni fa. Noto per iniziative come il Tribunale per i diritti del malato o quelle riguardanti la scuola, la giustizia, la tutela dei consumatori, la protezione civile, il movimento è (ovviamente, si potrebbe pensare) una Onlus. Questo status, invece, gli è stato ripetutamente contestato dalle strutture locali dell’Agenzia delle entrate, in quanto la sua attività era considerata non rientrante in quelle previste dalla legge. Al di là degli esiti della vicenda (un caso da menzionare è quello della riammissione di Cittadinanzattiva nel registro delle Onlus deciso dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia13), e al di là della «linea interpretativa» che l’Agenzia del terzo settore ha formulato sul tema (un autentico capolavoro di acrobazie da civil law14), c’è da notare un punto di particolare rilevanza. Lo definirei in questi semplici termini: chi tutela i diritti dei malati, si preoccupa che le scuole non cadano in testa a bambini e insegnanti, lavora perché la ricostruzione dopo un terremoto sia effettiva e non da Cinecittà, dà la parola ai cittadini nella valutazione dell’attività delle amministrazioni, non è di utilità sociale. Al contrario, chi organizza centri in cui gli anziani giocano a bocce, promuove gite gastronomiche in giro per l’Italia, realizza sagre e tornei, è di utilità sociale. Direi che non c’è da aggiungere altro.

13   Commissione tributaria regionale di Milano, sezione 4, sentenza n. 108/10 dell’11/11/10, reg. n. 2105/10. 14   Agenzia per il terzo settore, «Linee interpretative sulla nozione di diritti civili», deliberazione n. 380 del 16 dicembre 2011.

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6. Ascesa e caduta dell’autorità Mi è già capitato di menzionare deliberazioni o attività dell’Agenzia per il terzo settore, ex Agenzia per le Onlus. L’Agenzia era stata costituita nel 2002 e nel 2012 è stata sciolta e le sue funzioni riassorbite dal ministero del Welfare. La motivazione, espressa con eleganza dal ministro Elsa Fornero, è stata che tenere in vita l’Agenzia «sarebbe stata la riprova che in Italia non si può chiudere niente»15. L’Agenzia, presieduta nel primo quinquennio da Lorenzo Ornaghi e nel secondo da Stefano Zamagni, aveva funzioni di vigilanza e controllo sull’applicazione delle normative, di promozione culturale e di indirizzo. La sua attività è ampiamente documentata da relazioni annuali e di fine mandato16. Essa ha prodotto pareri sulla cancellazione di organizzazioni dal registro delle Onlus; ha collaborato con la Guardia di finanza per l’attività ispettiva; ha concertato con l’Agenzia delle entrate e con altri enti la definizione delle modalità di funzionamento del sistema e la definizione di suoi criteri operativi; ha prodotto atti di indirizzo e documenti di approfondimento come linee guida e linee interpretative; ha prodotto ricerche, pubblicazioni e altre attività promozionali17. Non c’è dubbio che le intenzioni fossero ottime e che l’impegno sia stato rilevante (svolto peraltro, nell’ulti15   La fine dell’Agenzia per il terzo settore, in «Ilpost.it», 27 febbraio 2012, consultabile sul sito http://www.ilpost.it/2012/02/27/ agenzia-terzo-settore-soppressa/. 16   Il materiale si può trovare nel sito http://www.lavoro.gov.it/ md/AreaSociale/AgenziaTerzoSettore/Pages/default.aspx. 17   Le informazioni utilizzate in questa parte provengono prevalentemente da Agenzia per il terzo settore, «Relazione Annuale sull’attività svolta dall’Agenzia per il terzo settore (1° gennaio – 31 dicembre 2011) e Bilancio di Mandato 2007-2011», febbraio 2012.

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mo periodo, dai consiglieri in modo gratuito). Tuttavia, caratteristiche e funzionamento dell’Agenzia rappresentano, più che una inversione di tendenza, una conferma degli specifici problemi (o dell’eccezionalismo?) che l’Italia ha incontrato sulla strada della invenzione del non profit. Cominciamo dal nome. All’atto della sua fondazione, l’Agenzia era stata definita «per le Onlus». Nel 2011, invece, il suo nome fu modificato in Agenzia per il terzo settore. Questo cambio, presentato come un passo in avanti sulla strada di una politica organica di controllo e sostegno del non profit nel suo complesso, dal punto di osservazione di questo libro non è stato altro che il passaggio da un oggetto incerto a uno decisamente misterioso. A quel punto, tanto per dire, l’Agenzia avrebbe dovuto cominciare a occuparsi, oltre che di associazioni di volontariato, cooperative sociali ecc., anche dei sindacati, del Coni, degli enti lirici e via elencando. C’è poi la questione della struttura e del rapporto tra risorse disponibili e compiti da svolgere. Diventata «del terzo settore», l’Agenzia avrebbe dovuto controllare e sostenere circa 300.000 entità. E avrebbe dovuto fare ciò con un presidente, dieci consiglieri18, 21 collaboratori e meno di 700.000 euro annui di budget. Questo caso non è molto diverso da quelli, che vedremo più avanti, di altre autorità di controllo nel mondo clamorosamente al di sotto della soglia di pertinenza rispetto all’universo da controllare. Con il wording che userò tra poco, si può dire che questo è un caso di «21 18   Provenienti in quattro casi dagli ambienti delle stesse organizzazioni da controllare, in tre dalla comunità scientifica, in altri tre dal mondo dei partiti.

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contro 300.000». Per quanto l’Agenzia abbia lavorato con dedizione, c’è una evidente incoerenza tra ruoli e risorse. C’è poi da registrare il fatto che l’Agenzia, nella gran parte del suo lavoro più rilevante, ha riflettuto quella interpretazione in chiave economica, o meglio economicista, del magma del non profit di cui ho fatto menzione prima. Ciò su cui l’Agenzia è stata focalizzata sono le organizzazioni non profit che erogano servizi nel welfare. Ciò è perfettamente visibile, ad esempio, nell’Atto di indirizzo per la elaborazione del bilancio sociale delle organizzazioni19. Pur con le migliori intenzioni, il modello a cui le linee guida si riferiscono è quello del bilancio sociale (o rapporto di sostenibilità, o simili) delle imprese private; riflette la classificazione del welfare «all’americana» elaborato dagli studiosi della Johns Hopkins University; dedica uno spazio preponderante alla erogazione di servizi e poco o pochissimo ad altri tipi di attività (come ad esempio la tutela dell’ambiente); mette in rilievo dati e informazioni che sono prevalentemente di tipo economico. C’è infine da rilevare la confusione e la incertezza dei ruoli tra Agenzia per il terzo settore, da una parte, e Agenzia delle entrate ed altri enti con funzioni di controllo, dall’altra. Su alcune materie il parere dell’Agenzia era obbligatorio ma non vincolante; su altre è stato solo un ruolo, chiamiamolo così, di moral suasion. Anche pensando a questo, da molte parti si è chiesto che l’Agenzia fosse trasformata in una vera e propria authority; ed è stato facile controbattere che il numero 19   Agenzia per il terzo settore, «Linee guida e schemi per la redazione del bilancio sociale delle organizzazioni non profit», approvato dal Consiglio del 15 aprile 2011 con deliberazione n. 147.

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di authority presenti in Italia era più che sufficiente, anche in considerazione della loro efficacia. Questo ruolo «leggero» si è concretizzato nella produzione di linee guida e di atti di indirizzo, secondo un modello di soft law. Niente da dire, se non che su diversi temi il soft law-making ha dato l’impressione di sconfinare nel bricolage, come nel caso delle «Linee guida sulla partecipazione delle organizzazioni alla formazione delle politiche pubbliche al livello locale»20. In questo caso, per la verità, oltre allo sconfinamento nel bricolage c’è stata anche una evidente invasione di campo nelle dinamiche della partecipazione civica e politica, su cui non si capisce proprio perché l’Agenzia avrebbe dovuto avere qualsivoglia competenza. Conclusivamente, la esperienza dell’Agenzia del terzo settore, o delle Onlus che dir si voglia, mi sembra che abbia confermato – se non incrementato – lo stato di confusione e incertezza che caratterizza la gestione della invenzione del non profit in Italia. Al di là dei suoi meriti, del generoso impegno dei suoi componenti e di alcuni prodotti e risultati sicuramente di valore, non ha affatto risolto il nostro problema. 7. Aumenta la confusione In questo quadro di norme, pratiche e soggetti già sufficientemente tribolato, tra il 2005 e il 2006 è stata istituita una nuova figura giuridica, quella della impresa sociale (Legge delega 118/2005 e Decreto legislativo 20   Agenzia per il terzo settore, «Linee guida sulla definizione di criteri e di modelli per la partecipazione del terzo settore alla determinazione delle politiche pubbliche a livello locale», 10 ottobre 2010.

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155/2006). Che cosa sono le imprese sociali? Si tratta di quelle imprese private in cui l’attività economica d’impresa principale ha per oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale e di interesse generale. Possono acquisire questo status associazioni riconosciute e non, fondazioni, comitati, società (di persone e di capitali), cooperative, consorzi. La legge richiede che le imprese sociali, tra le altre cose, abbiano una struttura democratica, destinino utili e avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria e non li distribuiscano, redigano il bilancio sociale, coinvolgano i lavoratori e i destinatari nelle attività di gestione, abbiano la maggioranza degli amministratori soci. Il vantaggio principale delle imprese sociali è la limitazione, in ogni caso, della responsabilità patrimoniale dei partecipanti. Quali sono i settori di attività che denotano la natura «sociale» di questo tipo di impresa? L’elenco è il seguente: – assistenza sociale; – assistenza sanitaria e sociosanitaria; – educazione; – istruzione; – tutela ambientale; – tutela dei beni culturali; – formazione universitaria; – formazione extrascolastica; – turismo sociale; – servizi strumentali alle imprese sociali resi da enti composti in misura superiore al 70% da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale. Va aggiunto che possono diventare imprese sociali le organizzazioni che, qualunque sia la loro attività, inseriscono lavoratori disabili e svantaggiati, se questi costi­89

tuiscono almeno il 30% del personale. Inoltre l’attività non può essere rivolta esclusivamente a soci. Anche in questo caso, non sono sufficientemente esperto della materia per entrare nel merito di questa normativa. Penso tuttavia che alcune notazioni possano essere fatte anche dalla prospettiva di un semplice osservatore. La più importante di esse è che, a differenza delle norme menzionate precedentemente, per la maggior parte dei settori elencati sopra vengono indicate (nell’art. 2 del DL 155) norme di legge o obiettivi di politica pubblica nei quali si definiscono gli standard (o i livelli essenziali) che, sotto la responsabilità dello Stato, devono essere garantiti, ad esempio, nel campo della sanità, dell’assistenza, ecc. Curiosamente, tuttavia, ciò non viene fatto né nel caso della formazione universitaria e post-universitaria, né nel settore della ricerca e della erogazione di servizi culturali (qualunque cosa essi siano). Sembra quindi che, in questo caso, siamo nel contesto dell’attuazione, in chiave privata, di attività e servizi alle condizioni che lo Stato pone per se stesso e di cui richiede il rispetto a tutti coloro che operano come erogatori di beni e servizi pubblici e sociali. È in pratica lo stesso caso della esternalizzazione dei servizi a enti non profit accreditati che già da anni caratterizza il sistema di welfare italiano. Dov’è la novità, allora? Sembrerebbe che essa stia nel fatto che i soggetti che producono questi beni e questi servizi possano essere anche imprese, però sociali. Ma questo che cosa significa? Che cosa toglie o aggiunge alle figure giuridiche già esistenti? Forse per rispondere a questa domanda può essere utile richiamare il fatto che questa normativa, a pochi anni dalla sua promulgazione, ha incontrato molte contestazioni e richieste di modifica, quasi prima di essere messa in ­90

opera (al giugno 2012 risultavano infatti essersi costitui­ te solo 365 imprese sociali ai sensi della normativa di cui stiamo parlando21). Quali sono i problemi e le mancanze della legge? Alcuni mesi fa, in occasione di un convegno su questo tema di cui ha dato notizia Dario Di Vico sul «Corriere della Sera», Letizia Moratti ha chiarito la questione: «In primo luogo la governance delle imprese sociali non permette l’ingresso dei soci profit nell’amministrazione. Più in generale la 155 [la norma citata sopra] confina le imprese sociali in ambiti molto restrittivi. [...] Infine senza introdurre la possibilità di remunerare il capitale è difficile far affluire risorse finanziarie verso il non profit che pure ne avrebbe un gran bisogno»22. Il giornalista, a sua volta, sottolinea che ormai la stessa Commissione europea ha assunto importanti iniziative per la imprenditorialità sociale e ricorda come anche negli Stati Uniti si stiano rapidamente sviluppando esperienze di low profit company. E fa l’esempio della Comunità di San Patrignano, nella quale l’adozione di misure alternative alla detenzione in carcere ha generato un risparmio per lo Stato stimato in 15 milioni di euro l’anno. Lo stesso, per la verità, si potrebbe dire (con cifre diverse, ma anche decisamente più alte) dell’attività di molte organizzazioni di cittadini che costringono le amministrazioni a funzionare, controllano e combattono gli sprechi, promuovono il riutilizzo di beni pubblici abbandonati, ecc., e che sarebbe proprio impossibile classificare come im21   Elio Silva, Prove tecniche di mercato, in «Il Sole 24 Ore», 11 giugno 2012, p. 18; vedi anche L’impresa sociale in Italia. Pluralità dei modelli e contributo alla ripresa, a cura di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai, Altreconomia, Milano 2012. 22   Dario Di Vico, Letizia Moratti: cambiare la legge sul non profit, in «Corriere della Sera», 4 ottobre 2013.

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prese sociali. Ed è forse superfluo registrare che anche il vicedirettore del «Corriere della Sera», un giornalista della massima serietà e scrupolo, incorre nello scambio della parte con il tutto, quando sottolinea che le imprese sociali in Italia sono ormai 300.000; ma, tutto sommato, questa è una costante che ritroviamo in tutto il libro. Il punto però mi sembra un altro. A leggere il testo della legge, sembra che la figura della impresa sociale sia un altro nome per la stessa cosa, ossia un ente non commerciale, salve le particolari agevolazioni di cui essa gode rispetto ad altre imprese (la limitazione della responsabilità degli amministratori). Ma, dal punto di vista operativo, non sembra che questo tipo di impresa sia destinata a fare qualcosa di diverso da ciò che già fanno tutte le altre entità non profit impegnate – specialmente nella erogazione dei servizi – nei settori indicati dalla legge. A leggere le dichiarazioni di Letizia Moratti, invece, sembra che si stia parlando soprattutto di una presenza di capitali privati remunerati in questo tipo di imprese. Quindi, stando sempre alle definizioni di cui questo libro cerca di venire a capo, imprese sociali ma profit, anzi low profit, con investimenti a basso rendimento e di lungo periodo. Non sono un economista e do per scontato che ci siano ottime ragioni per proporre questa prospettiva. Una domanda, tuttavia, mi sembra plausibile: ma questo low profit sarà anche low cost? O sarà un modo di generare profitti in un campo delicatissimo come è quello dei diritti costituzionali dei cittadini? Come che sia, tornando alla riflessione condotta in questo libro, mi pare che la introduzione della figura giuridica della impresa sociale non abbia aiutato a semplificare, né tantomeno a rendere più chiara, la realtà del magma del non profit in Italia e la sua gestione. Temo ­92

che, al contrario, abbia aumentato – se possibile – la confusione, aggiungendo al patchwork una ennesima pezza. 8. In controtendenza? È già evidente che l’atteggiamento della pubblica amministrazione italiana nei confronti del settore non profit è contraddittorio: una specie di sindrome del dottor Jekyll e di Mr. Hyde, in cui da un lato si incensa e dall’altro si sospetta, da un lato si dà fiducia e dall’altro la si toglie, da un lato si valorizza il contributo alla vita sociale e dall’altro si pongono ostacoli, che peraltro non impediscono che qualcuno ci marci. Parte di questo atteggiamento ondivago sono due provvedimenti definiti «di sussidiarietà fiscale» assunti negli ultimi anni: il 5 per 1.000 e il meccanismo noto come «Più dai, meno versi». Il 5 per 1.000 è stato istituito nella legge finanziaria del 2006 dall’allora ministro Giulio Tremonti (con un successivo tentativo, rintuzzato, del centrosinistra di abolirlo). Esso consiste nel diritto, riconosciuto agli individui, di destinare il 5 per 1.000 dell’Irpef a organizzazioni non profit, ma anche a enti di ricerca scientifica, università, comuni. La norma ha incontrato grande favore. Nel 2010 ne hanno usufruito 41.000 enti che hanno ricevuto da 15 milioni di contribuenti (+20% rispetto a quelli che hanno destinato l’8 per 1.000 a chiese e Stato) circa 460 milioni di euro: i destinatari sono stati principalmente Onlus e associazioni di promozione sociale (270 milioni circa), ricerca universitaria (64), ricerca sanitaria (61), attività sociali dei comuni (13), associazioni sportive dilettantistiche (6)23. 23   Giuseppe Cotturri, La forza riformatrice della cittadinanza attiva, Carocci, Roma 2013, pp. 139-142.

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Il secondo strumento è quello denominato «Più dai, meno versi». Si tratta della legge 80 del 2005 che prevede che le donazioni in denaro o in natura erogate da persone fisiche o giuridiche in favore di Onlus siano deducibili dal reddito complessivo del soggetto erogatore nel limite del 10% del reddito dichiarato e comunque nella misura massima di 70.000 euro l’anno. A tale norma ne è stata aggiunta un’altra (art. 15 della legge 96 del 2012), a quanto pare per parificare soggetti non profit e partiti, in cui si prevede che le donazioni in denaro per un importo superiore a 2.065 euro annui a favore di enti non commerciali sono detraibili dall’imposta lorda sul reddito Irpef per il 24% nel 2013 e per il 26% dal 2014. La differenza, oltre che sugli importi, verte sulla distinzione tra deducibilità e detraibilità. A differenza del 5 per 1.000, le informazioni sul funzionamento di questa norma sono scarse; ma è tuttavia certo che, ad esempio, le imprese private tendono a non utilizzare questo strumento per le loro erogazioni a favore del non profit. Questi meccanismi, comunque, potrebbero rappresentare una inversione di tendenza sul piano della libertà dei cittadini di conferire denaro (comunque pubblico, per lo meno in quanto frutto della rinuncia dello Stato a raccoglierlo) ai progetti che ritengono di maggior valore sociale, a partire dalle loro competenze, esperienze e sensibilità. Restano però dei problemi che non si può far finta di non vedere. Il primo, ormai quasi ovvio, è che i criteri con cui le organizzazioni accedono ai benefici previsti da queste normative sono tutt’altro che chiari, riflettendo la confusione e la incertezza concettuale della invenzione del non profit. Il secondo problema è che questo tipo di meccanismi, pur con tutti i loro vantaggi, rischiano di premiare (come si vedrà più avanti) più la comu­94

nicazione e le relazioni che la qualità dell’attività o il valore sociale della causa promossa. Il terzo problema è l’atteggiamento del potere politico e dell’amministrazione nei confronti di queste opportunità riconosciute ai cittadini. Basta al proposito citare qualche fatto. Il 5 per 1.000 resta ancora oggi, a 7 anni dalla sua introduzione, un meccanismo che è regolato anno per anno dalla legge di stabilità e non è istituito una volta per tutte da una specifica normativa. L’amministrazione stabilisce un tetto massimo per le indicazioni dei cittadini, sopra il quale l’amministrazione stessa si tiene il denaro. Questo tetto è di recente sceso da 400 a 380 milioni di euro. In pratica, benché i contribuenti abbiano già indicato nella denuncia dei redditi a chi conferire il proprio 5 per 1.000, il governo se lo tiene. In totale, questo arbitrario «tesoretto» consiste a oggi in 380 milioni di euro già destinati dai cittadini. Non è stato difficile notare che, da un lato, i partiti si stanno attribuendo per legge la possibilità di ricevere il 2 per 1.000, la deducibilità delle quote di iscrizione, un livello di detraibilità delle donazioni superiore a quello del non profit, la riduzione dei costi di transazione con carte di credito; e, dall’altro, che una larghissima maggioranza parlamentare ha votato uno sconto delle multe comminate alle società che gestiscono il gioco di azzardo (da 2,5 miliardi a 600 milioni di euro), ossia proprio una delle patologie sociali di cui molte organizzazioni non profit si occupano24. 24   Massimo Coen Cagli, 2 per 1000, 5 per 1000, slot machine e il non profit prestato alla politica, in «Vita.it Opinioni», 17 ottobre 2013 consultabile sul sito http://blog.vita.it/benedettisoldi/2013/10/17/2per-1000-5-per-1000-slot-machine-e-il-non-profit-prestato-alla-politica/; vedi anche Salvatore Barbera, Il governo riduce le tasse, ma solo al gioco d’azzardo, in «Huffington Post», 13 settembre 2013, consul-

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Come si può vedere, le possibilità di farsi del male da soli sono molte. Non so se in Italia non ce ne facciamo mancare proprio nessuna; però la impressione che si ricava da questa panoramica è che, di fronte al magma del non profit, nel nostro paese, al netto delle buone intenzioni, non si è fatto molto per fare chiarezza. Il problema, come ho più volte ripetuto, è proprio nella origine della invenzione del non profit. Tuttavia, si sarebbe potuto e si potrebbe fare decisamente di più e meglio. Penso, ad esempio, a una risorsa come le 88 fondazioni di origine bancaria, create per legge alla fine degli anni ’90 per raccogliere e gestire la eredità di intervento filantropico delle casse di risparmio, separandolo dalla gestione delle banche. Nel 2012 le fondazioni hanno erogato quasi un miliardo di euro per arte, attività e beni culturali (31,6%), educazione, istruzione e formazione (15%), assistenza sociale (12,9%), ricerca (12,3%), volontariato, filantropia e beneficenza (12,1%), sviluppo locale (6,2%), salute pubblica (5,7%)25. Per legge, inoltre, esse sostengono i Centri di servizio del volontariato nel territorio. Al netto delle critiche che le vorrebbero più efficienti e imprenditoriali26, di un rapporto non risolto con il potere politico e amministrativo e del fatto che tre quarti di esse sono ancora nella proprietà delle banche, il panorama di queste istituzioni mostra una

tabile sul sito http://www.huffingtonpost.it/salvatore-barbera/il-governo-riduce-le-tasse-ma-solo-al-gioco-dazzardo_b_3914878.html. 25   Acri, «Diciottesimo rapporto sulle fondazioni di origine bancaria. Anno 2012», Roma, giugno 2013. 26   Vedi, ad esempio, Carlo Milani e Andrea Ricci, Così le fondazioni bancarie dimenticano il terzo settore, in «La Voce.info», 25 settembre 2013, consultabile sul sito http://www.lavoce.info/cosi-lefondazioni-bancarie-dimenticano-il-terzo-settore/.

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ambivalenza che è purtroppo coerente con il caso italiano. Si possono così trovare fondazioni che investono sullo sviluppo del paese e gestiscono consapevolmente un ruolo di innovazione, e altre che hanno semplicemente aggiornato (ma di poco) le pratiche di distribuzione a pioggia di contributi, tipiche delle vecchie casse di risparmio. E naturalmente i criteri utilizzati e le scelte compiute riflettono questa ambivalenza.

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Conseguenze non volute

1. Ritorno alla realtà Come anni fa era di moda accogliere con gioioso e ingenuo stupore qualunque sciocchezza venisse proposta o realizzata da una organizzazione non profit, oggi la moda sembra opposta: mostrare sospetto e sfiducia, strizzando l’occhio e alludendo al fatto di saperla lunga sulle malefatte di queste organizzazioni. Come era sbagliato l’entusiasmo, è sbagliato il sospetto. Entrambi gli atteggiamenti, infatti, non aiutano a cogliere la realtà e i problemi che essa innesca. Bisogna guardare meglio, sempre a partire dai materiali e dalle informazioni che sono disponibili. Si tratta, cioè, di ricomporre un ­puzzle, non di fare gli investigatori e tanto meno i poliziotti. La tendenza a mettere in rilievo i fatti chiaramente e spesso clamorosamente patologici, insomma, non giova alla comprensione del problema che questo libro mira a far emergere. Certo, un lato oscuro esiste e i media che ne danno notizia e gli organi amministrativi e giurisdizionali che li perseguono non fanno altro che il loro lavoro. Tuttavia, fermarsi al lato oscuro sarebbe un errore: non solo perché si farebbe torto alle tantissime persone che operano in istituzioni cosiddette non profit con spirito ­98

positivo, intelligenza ed efficacia, ma perché l’attenzione ai reati rischia di oscurare gravi problemi strutturali, i quali non sono il frutto di comportamenti criminali, bensì conseguenze della invenzione del non profit. Se vogliamo possiamo chiamare queste situazioni patologiche o anomale; ma il punto è che sono patologie della fisiologia, o anomalie della normalità. Si tratta, cioè, di fenomeni che hanno luogo a tutte le latitudini1 come conseguenza della definizione e della tematizzazione del non profit o terzo settore, di cui ho parlato fin qui. Poiché certamente gli inventori del non profit – si tratta di studiosi seri e rigorosi, che hanno lavorato per il meglio – non pensavano a questi fenomeni quando hanno concepito la loro creatura, direi che è legittimo parlare a questo proposito di conseguenze non volute, le famose unintended consequence di cui tanto si occupa la ricerca sociale. Proprio perché non si tratta di fenomeni abnormi ma di conseguenze di un modo di «costruire» e gestire la realtà, essi aiutano a cogliere ancora di più il messaggio di questo libro, ossia che è la teoria su cui si basa la individuazione del settore non profit che è sbagliata. Ma torniamo alle conseguenze non volute. Vorrei porre l’attenzione su quattro di esse, che mi sembrano particolarmente importanti: i comportamenti «ingiusti ma legali»; la concorrenza sleale; la questione del «non profit per chi?»; la mercatizzazione. In chiusura di capitolo dedicherò qualche pagina anche al lato oscuro del non profit. Pur con una natura sui generis, anch’esso si deve infatti considerare una conseguenza non voluta. 1   Si veda ad esempio il caso della Fondazione degli oppressi e della Fondazione dei martiri in Iran: Stella Morgana, Il welfare di Allah, in «East», 50, pp. 98-99.

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In questo capitolo, in un certo senso, passiamo quindi dalla identificazione della invenzione del non profit, dei suoi limiti concettuali e del modo in cui esso si è affermato in tutto il mondo grazie a un messaggio positivo per quanto ingiustificato, al suo impatto nella realtà. 2. Ingiusto ma legale Già dieci anni fa il «New York Times», in un lungo speciale dedicato alla filantropia (dal titolo Unguarded Assets, ”Beni incustoditi”), metteva in luce questo problema2. L’articolo di Bernard Stamler raccontava il caso della American Relief Organization, una istituzione non profit basata a Phoenix in Arizona e impegnata a prestare assistenza a bambini vittime di abusi, a persone senza fissa dimora e a nativi americani residenti nelle riserve. Nel 2001 la organizzazione aveva raccolto più di 665.000 dollari, ma le donazioni erano state pari a 6.400, meno dell’1% di quanto raccolto. Giustamente il giornalista commentava: «Sbalorditivo? Forse. Legale? Assolutamente»3. Nello scorso mese di agosto una inchiesta del quotidiano britannico «The Independent», ripresa in Italia dal «Corriere della Sera», ha fatto emergere che la Commissione europea (in particolare la Direzione generale per la competizione) ha aperto una indagine sulle due più grandi squadre di calcio spagnole, il Real Madrid e il Barcellona, ancora una volta protagoniste del mercato estivo dei giocatori, con acquisti che sono arrivati a 100 2   Unguarded Assets, a special section on Giving, in «New York Times», 17 novembre 2003, pp. 1-33. 3   Bernard Stamler, The Gray Area for Nonprofits where Legal Is Questionable, in Unguarded Assets cit., pp. 1, 17.

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milioni di euro per un singolo atleta4. I fatturati delle due squadre sono rilevanti – 512 milioni di euro l’una, 483 l’altra – ma il punto non è questo. La questione è che le due squadre sono riconosciute come entità non profit in quanto sono di proprietà di centinaia di migliaia di soci individuali (si tratta cioè di associazioni, o forse sarebbe meglio dire di public company) e hanno visto riconosciuto questo status da una legge del 1990. Grazie ad esso, esse pagano solo il 25% di tasse contro il 35% dovuto, ad esempio, dalle società che puliscono gli spogliatoi dei loro stadi. Ciò significa che Real e Barça risparmiano sul fisco all’incirca 50 milioni di euro ciascuna, che certamente tornano buoni per le loro faraoniche campagne acquisti estive. In Italia, quando ancora esisteva l’Ici, la tassa sulla proprietà degli immobili, gli enti non profit, in base alla legge 504 del 1992 e successive revisioni e interpretazioni, ne erano esenti in quanto, secondo la norma, proprietari di immobili che «non hanno esclusivamente natura commerciale». Ciò significava, secondo una inchiesta di «la Repubblica»5, che solo nella capitale 2.800 enti avevano chiesto e ottenuto tale esenzione per i loro immobili. Tra questi, partiti, sindacati e associazioni imprenditoriali con i loro istituti e fondazioni; club sportivi di lusso come il Circolo canottieri Tevere Remo e il Tennis club Parioli; fondazioni d’impresa come quelle della Pfizer, di Telecom, di Mediolanum e di Cecchi Gori; case di alta moda come Fendi, Biagiotti, 4   Exclusive: Real Madrid and Barcelona Face Removal of Privileges, in «The Independent», 7 agosto 2013; Real e Barcellona? Pagano meno tasse di un’impresa di pulizie. E la Ue indaga, in «Corriere della Sera», 7 agosto 2013. Entrambi edizioni on-line. 5   L’Ici. Fondazioni e tennis club, la capitale che non paga l’imposta sugli immobili, in «la Repubblica», 2 dicembre 2011, edizione on-line.

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Capucci, Fontana e Ancora; molte fondazioni e istituti di ricerca in grado di avere un immobile di proprietà; una teoria di associazioni tra le più varie (gli allevatori del cavallo da sella, i consulenti tributari, i sostenitori della cremazione, i fioristi, gli allevatori di mucche rare, produttori di varia natura). Nella lista, ovviamente, sono inclusi anche istituti religiosi i cui immobili sono stati trasformati, specie in occasione dell’anno santo del 2000, in alberghi, pensioni, bed and breakfast, nei quali non è sempre facile percepire la vocazione alla ospitalità dei pellegrini. Diversi di essi, peraltro, sono stati successivamente venduti a imprese private avvantaggiandosi dello status fiscale non profit degli enti religiosi che ne erano proprietari. Sulla vicenda c’è stata la solita polemica tra cattolici e laici, come molti ricorderanno. Ma il problema, davvero, non è questo. E, se invece lo fosse, le parole pronunciate recentemente da papa Francesco in visita al Centro Astalli a Roma sarebbero molto più che sufficienti a sciogliere la questione: «I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati»6. Un altro caso, dibattuto con una certa dose di approssimazione ma reale, è quello dei costi di gestione delle organizzazioni non profit, o meglio del rapporto tra quanto viene raccolto e quanto viene effettivamente speso per i fini statutari. Una inchiesta condotta da «Il Giornale» nel 2009 ne ha rilevati diversi: ad esempio l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro che nel 2008 raccoglie 90 milioni ma investe sulla ricerca solo 6   Il Papa arriva al Centro Astalli senza scorta: «I conventi chiusi? Diamoli ai rifugiati», in «Corriere della Sera», 11 settembre 2013, edizione on-line.

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45 milioni e mezzo7; il Comitato italiano per l’Unicef che nel 2007 raccoglie 61 milioni di euro ma ne versa alla organizzazione internazionale per i suoi programmi a favore dell’infanzia solo 42, avendo impegnato il resto per i costi di struttura8; l’Anlaids che nel 2008 raccoglie 2,3 milioni di euro vendendo per strada i bonsai, ma ne spende l’84% per organizzare la vendita stessa9. Si potrebbe continuare l’elenco, ma la questione è chiara. Altrove c’è un vincolo per le organizzazioni non profit a spendere non più del 30% di quanto si raccoglie per sostenere la struttura. In Italia, invece, questo vincolo non c’è. Come dichiarava sul giornale che aveva condotto l’inchiesta Stefano Zamagni, all’epoca presidente dell’Agenzia per il terzo settore, «Da nessuna parte è scritto che la maggior parte dei soldi raccolti deve andare a chi è nel bisogno»10. D’altra parte, non è sempre facile stabilire qual è un valore equilibrato dei costi di gestione. Ci sono organizzazioni la cui attività – ad esempio di counselling – è basata essenzialmente sull’impegno e la professionalità delle risorse umane interne. In quel caso il servizio non consiste nel trasferimento di beni materiali, ma di conoscenza e supporto tecnico. Ma non è proprio il caso di generalizzare. Un altro caso è quello dei conflitti di interesse, o, meglio, della commistione tra interessi privati e interes-

7   Stefano Filippi, I fondi contro il cancro dell’Airc: alla ricerca va soltanto metà, in «Il Giornale», 13 agosto 2009, p. 3. 8   Emanuela Fontana, Unicef, per ogni 10 euro donati meno di 6 vanno ai bambini poveri, in «Il Giornale», 17 agosto 2009, p. 8. 9   Stefano Filippi, Il pasticcio dei bonsai anti Aids: fanno del bene solo ai fioristi, in «Il Giornale», 14 agosto 2009, p. 3. 10   Stefano Filippi, Serve una Piazza Affari della beneficenza italiana, intervista a Stefano Zamagni, in «Il Giornale», 15 agosto 2009, p. 2.

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si istituzionali. Negli Stati Uniti è stato discusso il caso dei signori Imus, proprietari di un ranch che d’estate ospitava bambini malati di cancro e che, a questo fine, era stato istituito come una organizzazione non profit, ottenendo in questo modo esenzioni fiscali per una proprietà privata, e, nello stesso tempo, drenando dalla parte non profit risorse per la manutenzione e lo sviluppo del ranch stesso11. Quanta parte dell’attività del ranch fosse privata e quanto non profit è ciò di cui si è discusso lungamente. In Nord Carolina, invece, un membro del Senato di quello Stato era contemporaneamente vicepresidente di un comitato parlamentare incaricato della supervisione del budget dell’amministrazione delle carceri e vicepresidente di una fondazione per i giovani che riceveva fondi (più di 2 milioni di dollari) dalla stessa amministrazione per progetti di prevenzione dell’abuso di alcol e droghe12. Anche in Italia ci sono stati casi ripetuti di organizzazioni non profit i cui dirigenti costituivano società private che a loro volta diventavano fornitori delle organizzazioni da loro dirette13. Si sprecano i casi di favoritismi nei confronti dei familiari, ma anche quelli di organizzazioni non profit che finanziano i partiti in modo perfettamente legale, aggirando le norme sulla trasparenza dei finanziamenti per la politica: è la dark money politics14. Ma sembra che

11   Imus Ranch Violates Charity Oversight Standards, in «Where Most Needed», aprile 2009, consultabile sul sito http://www.wheremostneeded.org/2007/04/imus_ranch_viol.html. 12   Stamler, The Gray Area for Nonprofits where Legal Is Questionable cit., p. 17. 13   Un esempio è in Stefano Filippi, Ecco il tesoro della Onlus delle truffe, in «Il Giornale», 18 agosto 2009, p. 9. 14   È il caso segnalato da Thomas B. Edsall, Dark Money Politics, in «New York Times», 6 giugno 2013, edizione on-line.

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il caso non sia solo americano. Una recente ricerca sui think tank in Italia ha fatto emergere che, su un totale di 105, ben 34 sono think tank «personali», un eufemismo per indicare fondazioni e associazioni che fanno capo a leader politici, i quali, in questo modo (e certo senza intenti criminali), di fatto raccolgono fondi per il loro gruppo, evidentemente al di fuori dei canali del finanziamento dei partiti15. Si tratta di fenomeni che si riscontrano un po’ ovunque e, lo ripeto, sono perfettamente regolari. Si dirà, giustamente, che in moltissimi casi ciò non avviene e che non bisogna fare di ogni erba un fascio. Sono assolutamente d’accordo: il problema del paradigma del non profit è proprio che fa di ogni erba un fascio. 3. Concorrenza sleale Una seconda conseguenza non voluta del paradigma del non profit è la concorrenza sleale che può crearsi, e spesso si crea, tra istituzioni non profit e imprese private, o addirittura all’interno del magma del non profit. Ci sono molti esempi che si possono fare al riguardo (quello, menzionato sopra, di Real Madrid e Barcellona a suo modo lo è), ma ne voglio prendere uno dal già citato speciale del «New York Times», che ci aiuta a evitare l’effetto di miopia che porterebbe a pensare che i problemi di cui sto trattando sono solo italiani o europei. Il caso è quello dell’Ymca (Young Men’s Christian Association), la più grande organizzazione non profit americana, di ispirazione evangelica e dedicata all’ac15   Sapienza Università di Roma, Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale, «I think tank in Italia», dicembre 2012, presentazione di Mattia Diletti.

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coglienza e alla cura dei ragazzi attraverso la ospitalità e attività di doposcuola, specialmente sportive, con 2.500 sedi negli Usa e la cui sola sede centrale nel 2001 raccoglieva 78 milioni di dollari16. Nell’articolo il direttore esecutivo della organizzazione si difende dall’accusa che essa sia diventata niente più che una organizzazione che vende servizi a ragazzi che non sono in una situazione di bisogno – «swim & gym» – e dichiara: «Filosoficamente non c’è mai stato un test usato per qualificare una organizzazione come una charity. Ci sono teatri, ospedali e programmi televisivi non profit. Tutto ciò non riguarda l’attività, ma il modo in cui essa viene svolta». Sarà, ma l’Ymca è stata oggetto di numerose azioni legali da parte di concorrenti (palestre, centri fitness, ecc.), secondo i quali la organizzazione «agisce come una impresa e deve pagare le tasse come una impresa». Ciò ha portato tra l’altro alcune delle sedi locali dell’Ymca a decidere di pagare le tasse su una parte dei servizi offerti, quelli discrezionali o di lusso come saune e bagni turchi. Nessuno di noi, credo, riesce a immaginare saune e bagni turchi negli ostelli della Caritas o al Centro Astalli; nondimeno resta il fatto che l’Italia è piena di palestre che formalmente sono organizzazioni non profit, ma del cui valore sociale non si vede ombra. Vale anche nel nostro caso, quindi, la domanda dei concorrenti privati dell’Ymca: ma se queste entità agiscono come imprese, perché non devono pagare le tasse come le imprese? Chi di noi, del resto, non è mai andato in un ristorante o in un pub in cui all’entrata si richiede di iscriversi all’associazione che gestisce quell’esercizio commerciale solo per i propri soci, cosicché tutti i clienti devono es16   Joanna L. Krotz, Clarifying what YMCA Stands for, in Unguarded Assets cit., p. 31.

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sere trasformati d’incanto in membri dell’associazione stessa? In questi casi ci si iscrive senza neanche domandarsi che cosa quell’associazione sia e di cosa si occupi, perché si è andati lì semplicemente per mangiare o bere. I prezzi delle consumazioni, peraltro, spesso non sono neanche particolarmente popolari; per cui è legittimo il dubbio che la concorrenza sia doppiamente sleale: perché, a parità di attività con una società privata, l’associazione ha costi minori, e perché questi minori costi producono in proporzione introiti decisamente maggiori visto che il prezzo che si paga è simile. Che importanza ha, al riguardo, che questi introiti, per la parte di essi che è un utile, non vengano distribuiti agli azionisti o ai proprietari ma utilizzati in qualche altro modo? Per quanto riguarda il caso della concorrenza tra istituzioni non profit, è evidente che, per così dire, se una cooperativa sociale è avvantaggiata rispetto a una impresa privata, una associazione di volontariato – che ha costi di personale molto inferiori proprio in relazione al lavoro volontario – è ancora più avvantaggiata. Si rischia così di innescare una catena della concorrenza sleale, che usualmente serve a far risparmiare il settore pubblico ma non necessariamente a offrire servizi migliori agli utenti. Un altro caso che ha a che fare con la concorrenza sleale tra organizzazioni non profit si può trovare guardando i dati del 5 per 1.000 di cui mi sono già occupato. C’è un aspetto che va rilevato qui e che si può desumere dalla seguente tabella 8, che riporta l’elenco delle organizzazioni che nel 2011 hanno ottenuto il maggior numero di «scelte» da parte dei cittadini con i relativi importi. La lettura di questa tabella ha più di un motivo di interesse. Quello pertinente con il tema della concorrenza sleale è connesso al notevole risultato conseguito da due organizzazioni di nobile tradizione, ma non certo ­107

Tabella 8. I primi 15 beneficiari del 5 per 1.000, anno 2011 Organizzazione

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

Importo

Emergency Medici senza frontiere Associazione italiana per la ricerca sul cancro Comitato italiano per l’Unicef Ail – Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma Acli – Associazioni cristiane lavoratori italiani Lega del filo d’oro Federazione nazionale delle associazioni Auser Fondazione dell’ospedale pediatrico Meyer Fondazione Ant Italia Associazione world family of Radio Maria Save the Children Movimento cristiano lavoratori (Mcl) Associazione italiana celiachia Actionaid

11.023.415 8.758.403 6.428.287 5.460.307 4.867.466 3.531.654 3.503.264 3.041.232 2.690.339 2.486.828 2.151.700 2.106.755 1.570.066 1.563.615 1.531.580

Fonte: Agenzia per le entrate, 5 per mille 2011. Distribuzione delle scelte e degli importi per Onlus ed enti del volontariato ammessi al beneficio. Onlus e volontariato, adattato da http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/Nsilib/ Nsi/Documen tazione/Archivio/ArchivioSchedeAdempimento/Schede+adempimento+2011/ Richiedere+2011/Iscrizione+elenchi+5+per+mille+2011/Scheda+informativa+ 5xmille+2011/Elenchi+2011/Elenchi+ammessi+esclusi+5permille+2011+con+s celte+e+importi/Onlus+e+volontariato+2011/.

in grado di competere con colossi del marketing sociale come le organizzazioni di intervento sanitario, quelle focalizzate sui bambini, quelle per la ricerca scientifica in campo medico e a supporto di malati cronici, senza contare il fenomeno quasi extra-terrestre di Radio Maria e dei suoi milioni di follower. Mi riferisco alle Acli e al Movimento cristiano lavoratori, due tradizionali organizzazioni cattoliche legate al mondo del lavoro, ottime e rispettabili ma non particolarmente pertinenti rispetto a ­108

un mondo in cui i lavoratori (intendo quelli tradizionali) scompaiono e quasi tre quarti (71%) delle organizzazioni di volontariato si dichiarano aconfessionali o neutrali rispetto a una matrice culturale di riferimento17. Sinceramente mi colpisce vedere queste organizzazioni rispettivamente al sesto e al tredicesimo posto nella graduatoria delle scelte dei contribuenti, con una raccolta di 3,5 e 1,5 milioni di euro. Lo stupore un po’ si attenua e un po’ si incrementa considerando che queste due organizzazioni, in quanto enti di patronato, gestiscono un Caf, ovvero un Centro di assistenza fiscale che supporta a prezzi popolari i cittadini nella compilazione della dichiarazione dei redditi (sono ottimi, chi non ne ha usato uno?). Ed è appunto nella dichiarazione dei redditi che – come nel caso dell’8 per 1.000 per le confessioni religiose – i contribuenti compiono la scelta del soggetto a cui devolvere il 5 per 1.000. Non ci vuole una particolare malignità, né alcuna passione per la dietrologia, per domandarsi se, rispetto ad altre organizzazioni non profit che hanno accesso ai benefici del 5 per 1.000 e che concorrono con altre per ottenere la scelta dei cittadini, due organizzazioni che aiutano i cittadini stessi a compilare la dichiarazione dei redditi non siano di fatto favorite. E, dato che quello della raccolta fondi è un vero e proprio mercato (anche piuttosto spietato), se questa possibilità non possa configurarsi come un altro esempio di concorrenza sleale. 4. Non profit per chi? Poiché questo è un libro essenzialmente dedicato al dibattito pubblico e non deve onorare i requisiti della

  Frisanco, Rilevazioni FIVOL e Feo-FIVOL cit.

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letteratura scientifica, mi permetto di introdurre questo punto con un ricordo personale. Qualche anno fa mia madre, ormai molto anziana, ebbe un incidente domestico e – come spesso succede in questi casi – si fratturò spalla e bacino. Fu ricoverata e operata con successo in un ospedale pubblico, ma il decorso post-operatorio fu complicato da piaghe da decubito, dovute al fatto che in ospedale, a quanto pare, era impossibile installare un materasso che prevenisse questa evenienza, sebbene noi familiari l’avessimo subito messo a disposizione. Per rimediare a questo serio problema, e in generale agli effetti fisici e psicologici della scarsa assistenza fornita dall’ospedale (su cui è meglio che non mi soffermi qui), decidemmo di ricoverare mia madre in una clinica gestita da un ordine religioso, per consentirle il migliore recupero possibile. In effetti la degenza in clinica ebbe ottimi effetti, per la cura e l’attenzione che a mia madre fu dedicata dal personale, per l’ambiente assolutamente friendly e per la personalizzazione dell’attività assistenziale da parte dei medici e delle suore infermiere. Nel giro di un mese mia madre superò le conseguenze (non volute) della degenza ospedaliera e poté tornare a casa. Tutto bene, quindi? No, purtroppo. Perché il costo della degenza in questa clinica fu in media di quasi 600 euro al giorno, a cui si aggiungevano le spese mediche e in generale gli interventi terapeutici (ad esempio, la riabilitazione). Mia madre poté pagare questo conto davvero salato grazie all’assicurazione sanitaria che era parte della pensione di reversibilità di mio padre. Ma una persona nelle sue stesse condizioni di salute (e ce n’è a bizzeffe) ma in una diversa condizione economica, come avrebbe fatto? È evidente che la struttura sanitaria in cui mia ma­110

dre fu ricoverata rientra nel novero delle istituzioni non profit. E il problema è altrettanto evidente. Lo si può rendere, appunto, con la domanda: non profit per chi? Quale vantaggio riceve la collettività, e in particolare la sua parte più debole, da istituzioni non profit i cui costi sono proibitivi? Che senso ha, dal lato dei beneficiari teorici o reali, definirsi non profit se i costi sono quelli di una struttura privata? Ho già detto, e lo sottolineo ancora una volta per non essere frainteso, che quella casa di cura funzionava benissimo e fu una benedizione per mia madre. Ma per le altre madri? La situazione non è poi così dissimile da quella denunciata da un recente rapporto scritto per la rivista «Time» da Steven Brill e intitolato significativamente Pillola amara: perché i conti medici ci stanno uccidendo18. Nell’articolo, tra l’altro, si racconta la vicenda del signor Sean Recchi, portatore di un linfoma non Hodgkin e costretto a pagare in anticipo all’ospedale 48.900 dollari su un totale di 83.900 dollari per un trattamento che constava anche di attività valutate più di dieci volte il loro costo ambulatoriale (ad esempio una radiografia al costo di 283 dollari contro i 20,44 di Medicare). Il problema è che l’ospedale in questione – il MD Anderson Cancer Centre di Houston – è una istituzione non profit dell’Università del Texas. Esso raccoglie due miliardi di dollari l’anno con un utile di 531 milioni. Il suo presidente riceve un compenso annuo di 1.845.000 dollari, circa tre volte di più del rettore della Università a cui fa capo. L’Italia per fortuna non è uguale agli Stati Uniti, ma la domanda: non profit per chi?, resta la medesima. 18   Steven Brill, Bitter Pill: Why Medical Bills Are Killing Us, in «Time», 20 febbraio 2013, edizione on-line.

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Il caso, tornando all’Italia, non è isolato. Un altro esempio che si può fare è quello delle università. Pressoché tutte le università non statali, in Italia come altrove, sono enti non profit. Lo sono, per la verità, anche la maggioranza delle università statunitensi (quelle pubbliche sono di fatto per soggetti svantaggiati) e i loro costi sono tali che, come è noto, esiste un sistema di finanziamento a lungo termine (o meglio, un mercato finanziario19) per mettere in grado gli studenti di frequentarle. Il caso più noto è quello del presidente americano Barack Obama, che ha finito di restituire il prestito ricevuto per frequentare l’università un paio di anni prima di correre per le primarie presidenziali. I loro costi si aggirano sui 50.000 dollari all’anno, spesso non comprensivi delle spese di residenza nel campus. Su questo «capitalismo accademico» americano, che ha generato non solo una vera e propria bolla speculativa, ma anche distorsioni nella ricerca scientifica e bassa qualità, Thomas Frank sottolinea che questa industria, «che per legge non dovrebbe avere nessuno scopo di lucro, oggi si pone obiettivi non molto diversi da quelli delle aziende basate sul profitto quotate alla borsa di Wall Street»20. Benché nella mia famiglia tutti abbiano frequentato scuole e università pubbliche, non ho niente, in linea di principio, contro le università non statali, con le più importanti delle quali mi è capitato di collaborare e di cui conosco direttamente la qualità, anche se non mi sentirei di dire lo stesso di diverse delle 19   Su questa vera e propria bolla speculativa, e in generale sullo stato delle università americane, vedi Thomas Frank, Liberare l’università, in «Internazionale», 1019, 27 settembre 2013, pp. 38-45. 20   Ivi, p. 40.

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altre. E in generale sono tra quelli che ritengono che per il nostro paese sarebbe saggio, pensando al dopodomani e non solo all’oggi, assumere misure radicali come eliminare le spese militari aderendo a un esercito europeo e investire quel denaro nella istruzione di ogni ordine e grado, da chiunque erogata purché di qualità e purché non a scapito di quelle pubbliche, oltre che nei beni culturali e in altri patrimoni negletti del nostro paese. Detto questo, non è difficile constatare che i costi di iscrizione alle università non profit sono decisamente alti, salvo eccezioni. Non certo alti come quelli statunitensi, ma a sufficienza per creare un problema a famiglie di reddito medio o basso. In pratica, nel caso più favorevole che ho trovato visitando i siti di queste università la iscrizione per gli studenti con il reddito familiare più basso è comparabile con il costo di iscrizione a una università statale per gli studenti con il reddito familiare più alto. In più, c’è la particolarità che in diversi casi la individuazione dei costi dovuti per fasce di reddito familiare tende a essere favorevole alle famiglie ricche rispetto a quelle povere: per esempio, può accadere che con un reddito familiare da 0 a 50.000 euro si paghino circa 5.000 euro l’anno, mentre con un reddito familiare da 114.000 euro in su si paghino «solo» 11.000 euro circa. Anche in questo caso essere ricchi conviene. Aveva proprio ragione una mia giovane collega che aveva studiato in una di queste università quando diceva: «Ditelo a mio padre che quella università è non profit, visto che l’ha dovuta pagare». Ed è difficile, in generale, dare torto alla mia amica americana quando dice che una istituzione non profit è solo una impresa privata che non ha azionisti. ­113

5. Mercatizzazione Questo termine orribile, mercatizzazione, è stato coniato nell’ambito degli studi sulle organizzazioni di cittadini impegnate in campi a forte concorrenza (i servizi sociosanitari, ad esempio, o la cooperazione internazionale), nei quali, per sopravvivere, esse devono piegare la propria natura e conformarsi a quella di una impresa privata particolarmente aggressiva, perdendo pezzi sempre più importanti della loro identità e della loro mission. Dato che le organizzazioni di cittadini sono solo una parte (direi all’incirca un quarto) del magma del terzo settore, utilizzo questo termine in modo analogico e non proprio per indicare una ultima conseguenza non voluta (o forse no) della invenzione del non profit. In un articolo pubblicato nello scorso mese di luglio sul «New York Times» e che sta facendo molto rumore tra gli addetti ai lavori americani, Peter Buffett, un musicista chiamato a partecipare alla gestione delle enormi risorse che il padre, il finanziere Warren, ha deciso di mettere a disposizione di cause di interesse sociale, riflette criticamente sulla sua esperienza21. Il titolo dell’articolo – Il complesso filantropico-industriale – riassume il nucleo della riflessione di Buffett. Il settore non profit americano, che ha raggiunto nel 2012 la cifra di 316 miliardi di dollari di raccolta, con quasi 9 milioni e mezzo di persone impiegate, è dominato da una logica industriale. Io sento le persone chiedere: “Qual è il ritorno sull’investimento?”, quando si tratta di alleviare le sofferenze umane, come se il ritorno sull’investimento fosse l’unica misura del successo. 21   Peter Buffett, The Charitable-Industrial Complex, in «New York Times», 26 luglio 2013, edizione on-line.

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[...] Spesso sento le persone dire: “Se solo avessero quello che abbiamo noi” (acqua pulita, accesso ai prodotti sanitari e al mercato libero, migliore educazione, condizioni di vita più sicure). Sì, queste sono tutte cose importanti. Ma nessun intervento di charity (odio questa parola) può risolvere nessuno di questi problemi; può solo spostare i problemi più in là. Mia moglie e io sappiamo di non avere le risposte, ma sappiamo come ascoltare. E abbiamo imparato che dobbiamo continuare a sostenere le condizioni per un cambiamento sistematico. Oggi è tempo per un nuovo sistema operativo. Non un sistema 2.0 o 3.0, ma qualcosa costruito partendo dalla base. Un nuovo codice.

Pur nelle diverse condizioni in cui il nostro paese si trova, la riflessione di Peter Buffett dice qualcosa che ci riguarda e che non ha a che fare solo con le leggi o con le politiche pubbliche, ma con l’approccio, lo spirito, la filosofia con cui le attività connesse al non profit sono impostate, condotte e valutate. Si può chiamare «mercatizzazione», o «complesso filantropico-industriale» o come altro si preferisce, ma questa conseguenza non voluta è della massima importanza. In che cosa possiamo osservare questa conseguenza non voluta? Senza nessuna pretesa di esaustività, indico quei fenomeni che colpiscono di più la mia personale sensibilità, pur sapendo che non sono gli unici. Il primo è l’assoluta prevalenza del sostegno alla organizzazione ed erogazione di servizi a scapito delle attività di advocacy. È indiscutibilmente più semplice per un finanziatore pubblico o privato sostenere un servizio piuttosto che la rivendicazione di un diritto o la sua pratica: è meno oneroso dal punto di vista politico perché meno conflittuale e c’è qualcosa di visibile da esibire (come si suol dire, un deliverable). Nondimeno, non è detto che qualcosa di visibile sia anche un effettivo cambiamento della realtà, e viceversa. Ho già detto di questo problema, su cui si discute negli Stati Uniti, dove i programmi ­115

di advocacy ricevono solo il 2-3% di tutti i fondi per il non profit22 ma purtroppo molto poco qui da noi, occupato com’è il nostro dibattito pubblico dalla corrente di entusiasmo per il nuovo sistema economico a cui il non profit starebbe dando vita. Eppure assistere le persone senza dare loro voce, come dice Buffett, significa al massimo spostare un po’ più in là i problemi, non necessariamente «fare una differenza». Il secondo fenomeno è il professionalismo. Personalmente, sia come leader di una organizzazione civica che come studioso e insegnante, ho sempre sostenuto la necessità che le organizzazioni di cittadini assumano una logica di impresa e siano gestite con professionalità e non facciano solo testimonianza. Tuttavia, che a dirigere organizzazioni non profit siano chiamati manager che vengono dalle imprese private o il cui titolo è un master in cooperazione internazionale, in community organizing o in fund raising preso da qualche parte, non è la soluzione di questo problema: è semplicemente un modo per negare uno dei presupposti (o delle presunzioni) su cui la invenzione del non profit si basa, ossia che esso sia qualificato dalla presenza di volontari, cioè dalla partecipazione di persone comuni, a diverso titolo coinvolte direttamente nel problema che si affronta. Il numero dei volontari, infatti, tende a diminuire23. Senza dimenticare, naturalmente, che per una buona parte del magma del non profit (cliniche, università, enti lirici, biennali, enti previdenziali, ecc.) questo discorso ha po-

22   Nancy Wartik, The Case for 2 Approaches, in Unguarded Assets cit., p. 24. V. anche Carson, Public Expectations and Nonprofit Sector Realities cit. 23   È il caso delle cooperative sociali in Italia, documentato da Gian Paolo Barbetta, Il settore non profit italiano cit., p. 221.

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co senso, se non per la tendenza a livellare verso l’alto, ad esempio, i livelli retributivi dei dirigenti, molto più che del personale. Del resto, se il benchmark sono i dirigenti, che so, della Biennale di Venezia (anch’essa non profit), è fatale che le aspettative e gli standard cambieranno per tutti. E alla fine, dal punto di vista antropologico, che differenza c’è – si chiedeva qualche anno fa un articolo di «Newsweek»24 – tra il direttore generale di Oxfam e un dirigente della Banca Mondiale, il top manager di una impresa privata o un ministro? Forse soltanto, nota l’autore dell’articolo, i sottobicchieri di raffia e le opere di arte etnica che arredano il suo ufficio. Di recente nel Regno Unito – dove le cose non sembrano molto diverse da qui, ma dove i media sono più attenti e il dibattito pubblico più vivo – il «Daily Telegraph» ha pubblicato una inchiesta sugli stipendi dei manager delle charity, rilevando che molti di essi guadagnano più del Primo ministro e in particolare che nove di esse hanno pagato nel 2012 più di 300.000 sterline ai propri top manager25. Gli esempi sono numerosi: 19 su 30 dirigenti delle più grandi organizzazioni di cooperazione internazionale britanniche hanno stipendi a sei zeri; 30 dei 100 top manager delle charity britanniche sono pagati più di 200.000 sterline l’anno e nove di essi più di 300.000; le due charity che pagano di più i propri dirigenti sono ospedali e strutture sanitarie (circa un milione di sterline ciascuna); il chief executive di Consumer’s Association è pagato 300.000 sterline; mentre il maestro 24   Rano Faroohar, Where the Money Is, in «Newsweek», 5 settembre 2005. 25   Christopher Hope, 30 charity chiefs paid more than £100,000, in «Daily Telegraph», 6 agosto 2013; Nine British charities paid staff over £300k each last year, in «Daily Telegraph», 12 agosto 2013, edi­ zioni on-line.

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Antonio Pappano, direttore artistico della Royal Opera House, è pagato circa 740.000 sterline l’anno. Il dibattito pubblico è naturalmente esploso, con precisazioni e difese del valore di questa scelta da parte dei suoi protagonisti (chi gestisce molti soldi deve essere pagato bene, è stato l’argomento principale). Il pubblico, però, chiamato dal giornale a pronunciarsi su queste scelte, ha espresso in larga maggioranza una opinione contraria: i soldi dei donatori vanno ai poveri e qualunque paragone con l’impresa privata è fuorviante. È proprio questo il punto: qualcuno ha sentito i donatori in merito? Questa mancanza di trasparenza e soprattutto di coe­ renza tra le attese dei donatori e le pratiche delle organizzazioni non profit, è un problema di assoluto rilievo: esso ha portato, ad esempio, alle dimissioni nel 2008 della presidente di Unicef Germania per protesta contro questo tipo di pratiche26. Il punto non è privilegiare un approccio moralistico o pauperista: è piuttosto nel fatto che anche le organizzazioni non profit devono ottenere la loro «licenza sociale di operare» e non possono ignorare le aspettative del pubblico. Ma il caso britannico solleva un’altra questione non secondaria nella logica di questo libro: stante il valore assoluto di Antonio Pappano (che, fosse per me, pagherei ancora di più), perché la Royal Opera House è una charity? Difficile capirlo. La concorrenza, soprattutto per la raccolta dei fondi, è un terzo fenomeno che trovo inquietante. Quello della raccolta fondi – siano questi pubblici, privati o di individui – è divenuto un vero e proprio mercato che vale, secondo Linda Polman, il Pil della quinta potenza 26   Andrea Tarquini, Soldi spesi senza trasparenza, adesso servono nuove regole, in «la Repubblica», 14 febbraio 2008, p. 43.

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industriale del mondo27. Come dichiara, nell’articolo appena citato di «Newsweek», l’ex direttore esecutivo di Oxfam, «Chiamala “economia morale”, se vuoi. Ma c’è un mercato per lavori legati al bene, ed è un grosso business». In questo mercato, è sempre più importante ciò che si comunica e con chi si è in relazione e sempre meno ciò che si fa e la qualità delle cause che si sostengono. Ciò però comporta una sempre minore attenzione all’interesse generale; un pericoloso rischio di isomorfismo e di cointeressenza delle organizzazioni rispetto ai finanziatori, pubblici o privati che siano; una altrettanto pericolosa tendenza alla drammatizzazione e all’allarmismo quando, nella comunicazione mediatica, ci si rivolge a singoli donatori, per cui un temporale diventa una inondazione e una inondazione uno tsunami, pur restando sempre un acquazzone. A proposito della cooperazione internazionale è stato coniato il termine di «interventismo selvaggio» per denotare comportamenti abnormi connessi alla competizione per le sovvenzioni. Alcuni anni fa è stato celebre il caso della organizzazione francese L’Arca di Zoè: sei dei suoi volontari sono stati arrestati alla frontiera tra Ciad e Sudan con l’accusa di aver tentato di rapire più di 100 bambini28. In modo per fortuna molto più pacifico, tutti ci siamo abituati ad attraversare le piazze delle nostre città incappando in ragazzi simpatici (ma non volontari, temo) che ci propongono in modo un po’ ossessivo di iscriverci o fare una donazione ricorrente a una associa-

27   Paolo Bracalini, Gli aiuti umanitari sono un business. Ma solo per le ONG, intervista a Linda Polman, in «Il Giornale», 17 agosto 2009, p. 9. 28   Francesca Caferri, Ainis Ginori, Ong, dove finiscono i nostri soldi, in «la Repubblica», 14 febbraio 2008, p. 41.

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zione, o anche a qualche agenzia delle Nazioni Unite. Questi presidi stradali sono spesso a contatto di gomito uno con l’altro e rappresentano plasticamente la concorrenza in atto per la raccolta dei fondi, un fenomeno che sembra aver preso la mano a chi lo gestisce. Ma la concorrenza non riguarda solo la raccolta dei fondi, o direttamente essa. Riguarda anche l’acquisizione di spazi, visibilità, prestigio, posizioni di potere e influenza. Il caso delle diciotto associazioni di consumatori italiane, riconosciute da una legge del 1998, è un tipico caso di alta – o altissima – conflittualità, in cui non sono solo in gioco legittime differenze di visioni, strategie e obiettivi, ma anche interessi – per lo più, a dire la verità, di un livello che non meriterebbe tanti litigi29. C’è un quarto fenomeno che voglio menzionare. Si tratta della prevalenza delle grandi organizzazioni, che hanno più mezzi per farsi valere in questa logica di mercatizzazione, a scapito delle organizzazioni piccole, che rappresentano cause di minoranze sociali, etniche, linguistiche o razziali, o legate alle condizioni personali, come nel caso-limite (ma non meno reale) dei portatori di malattie rare. Dato che non stiamo parlando né di partiti, né di sindacati, né di imprese, le dimensioni non possono fare la differenza che pure, giustamente, in altri casi fanno. Ma il rischio della mercatizzazione è proprio questo: rendere i più forti, i più ricchi e i meglio posizionati sulla scena pubblica più ricchi, e gli altri, anche se hanno migliori ragioni, più poveri. È troppo retorico chiedersi se è questa la economia dal volto umano che si annuncia? 29   Per qualche esempio si può vedere l’inchiesta de «Il Foglio» curata da Marco Ferrante: Consumatori, quelli che “OK, il prezzo è (comunque) ingiusto”, e Chi sono, cosa fanno, come agiscono e perché si fanno gli “affari altrui”, pubblicata il 7 febbraio 2004.

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Gli stessi meccanismi di facilitazione delle donazioni dal punto di vista fiscale (il 5 per 1.000, il meccanismo «Più dai, meno versi») di fatto premiano le capacità di marketing sociale e chi ha le risorse per attivarle, non necessariamente la causa più giusta. E comunque, in questa logica, le organizzazioni che si occupano (in termini di advocacy o di servizio, fa lo stesso) di cause minoritarie o non alla moda, rischiano di essere inesorabilmente abbandonate a se stesse. Il 5 per 1.000 – malgrado le sue evidenti, ottime ragioni – è un incentivo alla concorrenza tra organizzazioni anche perché, per così dire, i 5 per 1.000 non sono tutti uguali: trattandosi di una percentuale del reddito, quello di un Vip non ha lo stesso valore di quello di un cassaintegrato. È così che, quando si approssima la dichiarazione dei redditi, si apre la caccia ai Vip. Infine, poiché insegno da molti anni in un corso di laurea per operatori dei servizi sociali, spesso i miei studenti si trovano a fare il loro tirocinio nominalmente in un’associazione di volontariato o in una cooperativa sociale convenzionate con gli enti pubblici per gestire servizi di welfare, ma di fatto sono selezionati dagli uffici comunali o dalle Asl, per loro lavorano e a essi rispondono. Chi si occupa di questi temi sa che è tutt’altro che una eccezione. Questa concezione singolare della sussidiarietà, che Gian Paolo Barbetta ha chiamato «sussidiarietà strumentale»30, individua in alcuni tipi di organizzazioni non profit non il soggetto più adatto, per le sue caratteristiche e competenze, a gestire un certo servizio, ma solo una opportunità per garantire gli stessi servizi a costi minori, oppure per aggirare il blocco delle

  Barbetta, Il settore non profit italiano cit., p. 243.

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assunzioni imposto dalle varie spending review31. Ed è spesso un mercato squallido, da paese sottosviluppato, con bassa o nulla qualità sia per le organizzazioni che per i lavoratori e gli utenti dei servizi. Anche qui non è il caso di generalizzare: moltissimi di questi servizi sono invece gestiti in modo perfetto. Tuttavia, i casi di «sussidiarietà strumentale» sono molto più di una eccezione; e in questo mercato sono proliferate istituzioni non profit di cui è difficile scorgere qualunque motivazione che non siano i soldi, per quanto pochi e maledetti32. Le conseguenze, inattese e certo non volute, della invenzione del non profit menzionate finora – la legalità di comportamenti in distonia con ciò che il senso comune ritiene giusto, la concorrenza sleale, i costi dei beni e dei servizi offerti, la mercatizzazione – ovviamente non si verificano in tutte le organizzazioni non profit e in tutte le situazioni. Tuttavia, non sono casi sporadici o dovuti a eccezionale disonestà. Si tratta di situazioni che si generano per effetto del paradigma del non profit e del suo vizio di origine: mettere insieme quasi senza distinzioni soggetti e soprattutto attività che insieme non dovrebbero stare, attribuendo ad esse una identità positiva e un valore molto più economico che sociale. È questo il problema che va affrontato con urgenza ma senza prendere scorciatoie. 31   Va segnalato che, con riferimento all’Italia, è stato rilevato che, nel 2008, l’acquisto di prestazioni di servizi da parte dei grandi comuni era ormai pari al 49,5% della intera spesa sociale: Ivo Colozzi, Delle virtù e dei premi, ovvero come riconoscere le Organizzazioni di Terzo settore di qualità, come premiarle e disseminare processi emulativi delle buone pratiche, in Libro bianco sul Terzo settore cit., p. 248. 32   Per tutto questo, e con particolare riferimento alle associazioni di volontariato, si può vedere la presa di posizione del MoVi, Movimento per il volontariato italiano: «Lettera aperta alle organizzazioni del volontariato italiano», 5 aprile 2007, consultabile sul sito http://www. edscuola.it/archivio/handicap/lettera_aperta_alle_organizzazioni.htm.

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6. Il lato oscuro Tra le conseguenze non volute della invenzione del non profit c’è anche il suo lato oscuro, o dark side che dir si voglia. Che si tratti di qualcosa di non voluto è pacifico, giacché nessuno può pensare che il non profit sia stato concepito per creare un nuovo mercato del crimine. Che si tratti di una conseguenza è, tuttavia, indubitabile, perché evidentemente il sistema che è stato creato almeno non previene che tali crimini vengano perpetrati. Eppure, rispetto alle altre conseguenze trattate in questo capitolo, il lato oscuro ha una sua specificità. Perché qui parliamo di reati più o meno gravi, ma comunque odiosi in quanto messi in atto sfruttando l’alone di benemerenza che ha accompagnato la invenzione del non profit. Certo, la responsabilità penale è individuale e i fatti che rientrano nella dark side devono essere attribuiti a chi li ha personalmente compiuti e non alla organizzazione. Del resto, come ho chiarito nella introduzione, questo libro non dà alcuna interpretazione morale di quanto avviene nel terzo settore, ma mira piuttosto a identificare i problemi concettuali, metodologici e operativi che generano malfunzionamenti o vere e proprie patologie. È in questa chiave che qui intendo trattare del lato oscuro, per due ragioni principali. La prima è che i fatti riconducibili a questa categoria, seppure rappresentano una frazione piccolissima rispetto al tutto, sono però eventi sentinella, ossia quei tipi di eventi che, anche se accadono una volta soltanto, sono gravi in sé perché non dovrebbero verificarsi mai e sono l’indicatore che qualcosa (o molto) non funziona. La seconda ragione è che i fatti connessi al lato oscuro sono tra quelli che generano quell’effetto boomerang che si ritorce nega­123

tivamente contro tutti. Come diceva un dirigente della Caritas a proposito del business dei vestiti usati che coinvolge anche la camorra, «se ci sono persone che carpiscono la buona fede degli altri dichiarando una cosa e poi invece ci lucrano sopra, è chiaro che fanno un danno anche a noi. Perché alla fine la gente non si fida più di nessuno»33. Appunto. Nei limiti e con le finalità chiarite fin qui, mi sembra che la cosa più utile sia quella di cercare di identificare più precisamente che cosa c’è sotto l’etichetta del «lato oscuro» del non profit. Si tratta di fare, non un dossier giornalistico, ma semplicemente una tipologia. Chi è interessato alle singole vicende non avrà alcuna difficoltà a reperirle sui mezzi di informazione, come ho fatto io. Dalle informazioni contenute nei media si possono identificare otto tipi di manifestazioni del lato oscuro del non profit, non ordinate per gravità ma solo per contiguità logica. Inutile dire che esse non hanno alcun valore di tipo scientifico, ma servono solo per raccogliere e organizzare materiali reperiti nei media o in siti internet affidabili. La prima categoria è quella delle frodi ai danni dello Stato. Esse possono consistere, ad esempio, nel gonfiare il numero degli assistiti o delle prestazioni, o delle spese sostenute per ottenere rimborsi non dovuti; nel simulare attività mai realizzate; nell’emettere fatture false sempre per ottenere rimborsi, anche volti a pagare falsi volontari (come gli operatori dei call center che raccolgono fondi); o nel far apparire come assistite persone che sono invece collocate in altre strutture. Ma 33   Così questi impostori finiscono col danneggiare anche il nostro lavoro, intervista a Luciano Gualzetti, vicedirettore della Caritas Ambrosiana, in «Il Giornale», 20 agosto 2009, p. 4.

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accade anche che vengano costituite società private dei manager delle organizzazioni che utilizzano personale pagato con fondi pubblici in quanto risulta in forza alla organizzazione stessa. Una seconda categoria è quella delle truffe ai danni dei donatori. Si tratta qui dei casi di raccolte fondi fatte con salvadanai nei bar, per le strade, attraverso call center, con campagne sostenute da storie drammatiche di bambini affetti da malattie terribili ma inventate di sana pianta, oppure di raccolta di beni (tipicamente i vestiti) che vengono poi rivenduti; o ancora di fondi che vengono usati per arricchimento personale dei dirigenti o dei membri della organizzazione. La terza categoria, evidentemente connessa alle due precedenti, è quella della sottrazione di fondi alla organizzazione da parte dei suoi amministratori. Questi fondi vengono usati per le ragioni più varie: finanziare il gioco d’azzardo, acquistare automobili di lusso, giocare in borsa, comperare immobili, alberghi e residence, rimborsare i debiti della carta di credito personale, ma anche acquistare appartamenti che poi vengono affittati alla organizzazione stessa (oltre il danno, la beffa). La quarta categoria riguarda ricatti, estorsioni e altre attività illecite. In questo caso vengono minacciate denunce e altre azioni legali, ma anche campagne mediatiche, a un soggetto di solito privato che svolge attività che sono o potrebbero essere considerate illegali per ottenere denaro in cambio del silenzio; ma ci sono anche casi di attività illecite come il traffico di droga, specialmente nella dimensione internazionale, o come la vendita di falsi permessi di soggiorno ai migranti. Un’altra categoria di fatti connessi al lato oscuro è quella delle violenze, degli abusi e dello sfruttamento di soggetti in difficoltà. Possono essere bambini, anzia­125

ni, donne o immigrati irregolari o con un permesso di soggiorno a rischio, che risiedono in centri di accoglienza, comunità o residenze protette (sic) e che vengono abusati, indotti alla prostituzione, costretti a compiere reati. Ciò riguarda anche casi che avvengono nelle grandi emergenze internazionali, in occasione delle quali osservatori indipendenti hanno parlato di «sesso in cambio di cibo»; così come violenze nei confronti di persone ricoverate in case di riposo o altre strutture di accoglienza. La sesta categoria di fatti classificabili nel lato oscuro riguarda la violazione di standard di qualità e di sicurezza nella gestione dei servizi. Ciò può dare luogo alla somministrazione di cibo andato a male, di farmaci scaduti, ma anche la riduzione dei tempi dei trattamenti assistenziali o riabilitativi, un rapporto tra il numero degli operatori e quello degli utenti fuori legge, l’assistenza prestata da personale non qualificato. Tutto ciò non produce solo disagi superabili, ma ha portato anche alla morte degli utenti. C’è poi il capitolo dei rapporti di lavoro. Emergono dai materiali disponibili forme di sfruttamento del lavoro dal punto di vista delle garanzie contrattuali o delle condizioni e dei tempi di lavoro; truffe ai danni dei lavoratori nel computo delle ore lavorate; lavoratori in nero presentati come volontari. Ma c’è anche – ed è la ottava ed ultima categoria – la collusione con gruppi criminali. Può accadere che i vestiti usati raccolti da cittadini generosi siano immessi nel mercato gestito dai gruppi criminali per riciclare denaro sporco. Ma anche, addirittura, che sia la criminalità organizzata a costituire in proprio una organizzazione non profit. È il caso, celebre nel suo genere e che merita quindi la menzione, della Onlus Servizi terra di lavoro ­126

che gestiva i parcheggi della Reggia di Caserta per conto della camorra. Questa tipologia, pur realizzata eliminando riferimenti e particolari e senza minimamente indulgere alla spettacolarizzazione o allo scandalismo, appare, è inutile girarci intorno, come una vera e propria galleria degli orrori. Tali, per la verità, sarebbero anche nel caso in cui di essi fossero responsabili enti pubblici o imprese private. Ma in questo caso, per tutte le ragioni già dette, essa appare se possibile più grave. In ogni caso, il lato oscuro del terzo settore fa emergere con forza una questione generale, che è della massima importanza e che non può essere elusa in questo libro: quella dei controlli sull’attività delle organizzazioni non profit. Ciò significa: chi controlla, su che cosa, in che modo, con quali effetti. È a questo tema, una vera pietra d’inciampo, che dedicherò il prossimo capitolo.

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Un Golem sfuggito al controllo

1. Buono, ma pur sempre mostro Nella tradizione yiddish, il Golem è una figura mitica su cui nel corso dei secoli sono fiorite leggende di ogni genere. Plasmato dalla creta ad opera di un rabbino, questo mostro buono aveva il compito di difendere la comunità ebraica dalle persecuzioni. Secondo queste leggende, tuttavia, a un certo punto il Golem cominciò a crescere da solo, sfuggendo al controllo del rabbino e diventando una forza distruttiva che nessuno era più in grado di fermare. Penso che la situazione del settore non profit assomigli un po’ alla leggenda del Golem: un mostro buono, creato per proteggere la comunità, è diventato gigantesco e non sembra più rispondere a una logica coerente. Intendiamoci: una parte rilevante, per quanto probabilmente non maggioritaria, di questo magma opera per evidenti finalità sociali. Ma ciò non si può dire di tutto l’insieme, giacché mancano sia criteri chiari per stabilire ciò che è di effettiva utilità sociale, sia sistemi di controllo adeguati che garantiscano la coerenza dei comportamenti rispetto a questa «licenza sociale di operare». Il primo problema è indiscutibilmente quello dei numeri. In Italia l’Istat ha censito più di 300.000 istituzioni ­128

non profit, il che significa che ogni duecento italiani c’è una di queste organizzazioni. Negli Stati Uniti, invece, le istituzioni non profit sono stimate essere due milioni e 300.000 (più o meno la medesima proporzione dell’Italia quindi), un milione e 600.000 delle quali sono registrate ufficialmente come tali1. Anche altri dati danno la dimensione di ciò che molti considerano una grande risorsa, ma che a mio parere è invece un notevole problema: in Italia le istituzioni non profit occupano a vario titolo quasi un milione di persone e muovono qualcosa come 85 miliardi di euro2, pari al 3,3% del Prodotto interno lordo. In America, invece, parliamo di circa 800 miliardi di dollari, pari al 5,5% del Pil degli Stati Uniti, che comportano la occupazione di quasi il 10% della forza lavoro degli Usa. Pensando a questi dati, e pur con tutte le cautele dovute contro il rischio, sempre incombente in questo campo, di «dare i numeri», come si fa a non considerare la situazione fuori controllo? Il non profit sarà anche stato buono nelle intenzioni, ma resta pur sempre un mostro. Per dirla in modo più educato, si può concordare con Stefano Zamagni che sottolinea: «Per troppi anni si è pensato che l’ambito del non profit fosse residuale. Invece negli ultimi 15-20 anni è diventato un gigante: ecco perché bisogna intervenire»3. Già, ma come? 1   Urban Institute, The Nonprofit Sector in Brief: Public Charities, Giving, and Volunteering, 2012, paper. Va ricordato che negli Usa l’obbligo di registrazione varia da Stato a Stato e che le charity sono distinte dalle altre istituzioni non profit. 2   Applicando ai nuovi dati dell’Istat i criteri elaborati dalla Fondazione Unicredit, Ricerca sul valore economico del terzo settore, 2012, p. 74. 3   Filippi, Serve una Piazza Affari della beneficenza italiana, intervista a Stefano Zamagni, cit., p. 2.

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I numeri, certo, fanno molto: è uno di quei casi in cui la quantità genera una diversa qualità, perché se stessimo osservando alcune migliaia e non milioni di organizzazioni la questione si porrebbe in modo del tutto differente. Il Golem, tuttavia, è tale anche perché non è chiaro chi debba e possa svolgere queste funzioni di controllo. Inoltre, e soprattutto, è il tipo di controlli da realizzare che è estremamente problematico da definire, sia quanto a criteri che quanto a metodologie. È giusto affermare, dopo tante sottolineature sul fatto che i problemi intrinseci alla invenzione del non profit non sono stati colti da chi avrebbe potuto e dovuto farlo, che nel caso del tema dei controlli c’è invece una consapevolezza abbastanza diffusa della sua importanza. Ciò riguarda, per la verità, soprattutto le organizzazioni di cooperazione internazionale, dove sta comunque emergendo una specifica letteratura, rilevante almeno in termini quantitativi4. Qualche anno fa anche il Parlamento italiano si era mosso con una proposta di legge per la costituzione di una commissione di inchiesta sul settore non profit, avanzata da una cinquantina di senatori e di cui, dal 2009, non si è saputo più nulla5. In ogni caso, la intenzione di queste riflessioni e di queste iniziative è chiara: di fronte a tutti i problemi che emergono dall’attività delle organizzazioni non profit, 4   Vedi, ad esempio, Giulio Marcon, L’ambiguità degli aiuti umanitari. Indagine critica sul terzo settore, Feltrinelli, Milano 2002; Thierry Pech, Marc-Olivier Padis, Le multinazionali del cuore. Le organizzazioni non governative tra politica e mercato, Feltrinelli, Milano 2004; Valentina Furlanetto, L’industria della carità. Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto della beneficenza, Chiarelettere, Roma 2011; Linda Polman, L’industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra, Bruno Mondadori, Milano 2009. 5   Emanuela Fontana, Ora il Parlamento vuole un’inchiesta sul Far West del volontariato, in «Il Giornale», 20 agosto 2009, p. 5.

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sarebbe sufficiente aumentare e migliorare i controlli e le sanzioni, di qualunque tipo siano, ad essi correlate. Basterebbe, insomma, costringere le organizzazioni non profit a comportarsi meglio: questa potrebbe essere la soluzione del problema di riformare il non profit, rendendolo più corretto e trasparente, eliminando le mele marce e ritornando alle ragioni per cui esso è nato. Per prendere a prestito uno slogan celebre: un altro non profit è possibile. Purtroppo le cose non sono così semplici e altri non profit possibili non esistono nemmeno come sogni. Basta dare un’occhiata meno superficiale e meno ingenua alla situazione per accorgersi che quello di un aumento e di un approfondimento dei controlli non è una soluzione ma una scorciatoia che non porta da nessuna parte; o meglio un alibi per non andare al cuore del problema, che è la stessa invenzione del non profit; o, detto altrimenti, un altro indicatore che l’errore è stato compiuto all’inizio. 2. Otto contro tredicimila Ho citato più volte il numero speciale del «New York Times» del 2003 intitolato Unguarded Assets (Beni incustoditi) come utile fonte di informazioni e come antidoto alla miopia, che in questo caso porterebbe a guardare all’«eccezionalismo italiano» come a una tragedia. Uno degli articoli pubblicati prende in esame la questione dei controllori pubblici sulle organizzazioni non profit, sia in generale sia con riferimento al più piccolo (si fa per dire) insieme delle charity, ossia più o meno le nostre Onlus. In questo caso sono proprio i numeri a sconfortare: in Virginia dieci anni fa c’erano 8 funzionari che dovevano controllare 13.000 charity; in California ­131

erano 22 per 85.000; nello Stato di New York erano 21 per 48.000. Al livello federale, all’epoca l’Internal Revenue Service, corrispettivo della nostra Agenzia delle entrate, aveva 800 funzionari che dovevano controllare un milione e mezzo tra charity e altre organizzazioni non profit6. Considerato lo stato delle tecnologie e degli spazi a disposizione, così come la mancanza di fondi pubblici per ammodernarli, il responsabile delle attività di controllo dello Stato di New York aveva invitato i maggiori enti donatori dell’area a una visita guidata nel suo ufficio, allo scopo di mostrare loro la situazione e di chiedere fondi per rendere più efficiente il sistema – un paradossale conflitto di interessi, ma anche l’indicatore di una situazione non gestibile. In Virginia, dove il compito di monitorare le organizzazioni non profit è affidato alla unità che si occupa di diritti dei consumatori, il responsabile dell’ufficio dichiarava che il massimo che essa poteva fare era verificare sulla carta la esistenza dei requisiti richiesti per la registrazione delle organizzazioni, mentre tutte le charity che raccolgono meno di 25.000 dollari all’anno erano di fatto fuori da ogni controllo. In altri Stati si era scelto di obbligare alla registrazione solo le organizzazioni che fanno raccolta fondi presso il pubblico. Questa differenza di norme e prassi dei diversi Stati ha generato anche una fuga delle organizzazioni non profit verso quegli Stati che presentano condizioni più favorevoli, qualcosa di analogo ai paradisi fiscali. In California i responsabili degli uffici ammettevano di lasciar perdere molti casi che si presentavano loro per 6   Stephanie Strom, New Equation for Charities: More Money, Less Oversight, in Unguarded Assets cit., pp. 1, 16.

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mancanza di risorse per gestirli. Negli Stati in cui la responsabilità di controllare le organizzazioni non profit è del procuratore generale, i costi dei processi avevano abbattuto il numero delle cause promosse contro le non profit e si cercava di rimediare semplicemente minacciando di attivare azioni legali, pur sapendo che non lo si sarebbe potuto fare. Ma questo naturalmente lo sapevano anche i potenziali perseguiti, che non sono fessi. Lo stesso Internal Revenue Service, l’agenzia federale delle entrate che ha una sezione dedicata alle organizzazioni non profit, non riusciva con il suo personale a gestire una situazione che, solo per quanto attiene alle domande di registrazione, riguardava 90.000 input l’anno. Questo indebolimento della capacità di controllo si riscontrava nella diminuzione delle richieste di assistenza tecnica prima dell’avvio della procedura di registrazione e un minore rigore nei rendiconti economici e finanziari. È come se tutti sapessero che tanto non sarebbe successo niente. Qualcuno potrà pensare che oggi è tutto cambiato. Ma, al contrario, si può facilmente immaginare che negli Stati Uniti la situazione odierna sia ancora più critica, considerato il disinvestimento nel settore pubblico da una parte e la crescita esponenziale delle organizzazioni non profit nell’ordine di un milione in più in dieci anni, dall’altra. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2008 l’Agenzia delle entrate ha inviato 1.027 segnalazioni di Onlus irregolari, su un totale, come abbiamo visto, di oltre 300.0007. Senza contare, naturalmente, che tra questi casi si annidano anche paradossi come quello di cui ho 7   Emanuela Fontana, La fabbrica delle Onlus “vampire”, in «Il Giornale», 15 agosto 2009, p. 3.

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parlato a proposito di Cittadinanzattiva: tutelare i diritti dei malati non è di utilità sociale, organizzare sagre gastronomiche sì. Resta il fatto che, avendo una casa in campagna vicino a Roma (dove ho scritto questo libro), da anni, andandoci, passo davanti a un ristorante che nell’insegna dichiara di essere un’associazione collegata a una sconosciuta sigla associativa. All’ennesimo passaggio l’ho fotografato per farlo vedere ai miei studenti affinché capiscano di che cosa non sto parlando nelle mie lezioni. E ogni volta che passo di lì spero che quel cartello sia scomparso perché finalmente è arrivato qualcuno dotato dell’autorità necessaria per far notare che un ristorante non può essere un’associazione culturale. Purtroppo, però, lì ancora resta. Il fatto nudo e crudo, tuttavia, è che le organizzazioni non profit sono sempre di più, controllarle tutte è impossibile, tutti lo sanno e si comportano di conseguenza. 3. Valutatori da valutare Certo, non ci sono solo le agenzie governative a esercitare funzioni di controllo, prevenzione e intervento su situazioni anomale. Il primo baluardo dovrebbe essere costituito dai consigli di amministrazione delle stesse organizzazioni non profit. Tuttavia, molti dei casi citati nel capitolo precedente hanno avuto luogo con il consenso e spesso il coinvolgimento degli stessi consigli: per fare qualche altro esempio, si tratta del lobbista a Washington della Boston University, divenuto membro del consiglio di amministrazione della stessa università continuando a essere pagato come lobbista; o la faraonica pensione concessa a un dirigente della James Irvine Foundation in un momento di grave crisi economica della fondazione stessa; o, ancora, i 200.000 dollari concessi al presidente ­134

della Paul & Virginia Cabot Charitable Trust per coprire i costi del matrimonio della figlia, nipote dei fondatori8. In questi casi (e in molti analoghi) i consigli hanno fatto tutto il contrario che controllare: sono stati non solo complici ma pure beneficiari. Nei casi in cui loro membri hanno invece richiesto di verificare i dati amministrativi, ciò è stato loro spesso negato, e magari, come è accaduto a due consiglieri di United Way dell’area di Washington (una organizzazione i cui dirigenti sono stati protagonisti di numerosi e leggendari scandali9), a seguito della richiesta, sono stati estromessi dal consiglio. C’è anche da domandarsi, in casi del genere, dove fossero i controllori interni (revisori o sindaci, nel wording italiano) di queste organizzazioni. Essi avrebbero dovuto essere almeno il secondo baluardo, dopo i consigli, contro un uso dei fondi incoerente con la mission della organizzazione e con quanto dichiarato ai donatori. Ma forse erano altrove. In questa situazione, sempre più spesso i grandi donatori si affidano a forme di verifica e certificazione da parte di enti terzi. Diciamo: come ci sono le agenzie di rating delle imprese private, così esiste un mercato del rating delle organizzazioni non profit potenzialmente finanziabili10. Ma anche in questo caso le cose non vanno nel modo auspicabile. Tanto per fare un esempio, l’agenzia Maryland Nonprofits, che ha prodotto una sua certificazione basata sul modello Standards of Excellence,   Strom, New Equation for Charities cit., p. 1, 16.   Old Battles and New Challenges, in «The NonProfit Times», 1° aprile 2002, edizione on-line. 10   Si tratta di enti come l’American Institute of Philantropy, il Bett­er Business Bureau, Charitywatch, la Wise Giving Alliance, il Charity Navigator, lo Standards for Excellence Institute, la Combined Federal Campaign. 8 9

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ha potuto certificare solo 42 dei 1.400 gruppi non profit che hanno aderito allo standard11. Del resto, anche questi valutatori e certificatori hanno i loro problemi. In un report del 2005, significativamente intitolato Rating the Raters, il National Council of Nonprofit Organizations e la National Human Services Assembly americani hanno analizzato le cinque maggiori organizzazioni e pubblicazioni che fanno valutazioni o classifiche delle organizzazioni non profit12. Il risultato dell’analisi è il seguente: – gli approcci e i criteri di analisi variano significativamente da ente a ente, confondendo i donatori e complicando la vita delle organizzazioni; – i criteri di valutazione utilizzati non sono immediatamente chiari, cosicché per i donatori non è facile capire e per le organizzazioni rispondere o reagire alle valutazioni realizzate; – i valutatori usano criteri che sono eccessivamente semplicistici, che non tengono conto delle differenze nella situazione finanziaria, operativa, organizzativa e di governance delle organizzazioni; – i valutatori tendono a focalizzarsi sulle misure finanziarie, ma trascurano la efficacia dei programmi; – la competenza dei valutatori è dubbia e difficile da acclarare; – i valutatori non soddisfano i criteri che applicano alle organizzazioni che valutano (ad esempio, i requisiti

11   Dan Prives, «Ethically “certified” group has its practices questioned», ARNOVA, 26 marzo 2004. 12   National Council of Nonprofit Organizations, National Human Services Assembly, Rating the Raters: An Assessment of Organizations and Publications That Rate/Rank Charitable Nonprofit Organizations, paper, 6 maggio 2005.

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di trasparenza), cosicché la loro stessa credibilità è in questione; – le fonti dei dati e i livelli di due diligence variano, essendo i dati in alcuni casi di secondo grado e in altri raccolti direttamente dalle organizzazioni, e non sempre essendo consentito alle organizzazioni stesse di chiarificare, spiegare e correggere informazioni errate; – le attività di rating sono spesso orientate a generare reddito per i valutatori, e quindi non è sempre chiaro se essi intendono informare i donatori o aumentare la propria visibilità e di conseguenza le loro entrate. Insomma, in modo analogo a ciò che accade nel mercato del rating delle imprese private, quello riservato alle organizzazioni non profit conosce problemi solo in parte superabili, giacché – anche ammettendo che altri possano essere risolti – quello del conflitto di interessi purtroppo non lo è. Problemi non dissimili si riscontrano anche nelle attività di rating o di certificazione realizzate dalle stesse organizzazioni non profit. Si tratta del meccanismo della peer reviewing, la valutazione affidata a pari. Qui in Italia anni fa è stato creato l’Istituto italiano per la donazione, proprio allo scopo di favorire l’adozione di standard comuni di trasparenza e accountability, tali da confortare i potenziali donatori, ma anche i cittadini che cercano opportunità di fare volontariato. L’istituto ha prodotto una Carta della donazione, attività di ricerca sullo stato delle donazioni in Italia e, quel che più interessa qui, un marchio che si chiama «Donare con fiducia». Esso opera attraverso un database che si chiama «Io dono sicuro», dove vengono inserite informazioni sulle organizzazioni non profit che si iscrivono. Le informazioni riguardano la quota di finanziamenti destinati ai progetti rispetto a quelli utilizzati per la struttura ­137

della organizzazione. Per accedere al database si deve pagare la quota associativa ed essere sottoposti a un audit esterno (se si ha un budget superiore ai 300.000 euro annui) o dimostrare di rispettare alcuni requisiti. In questo modo si ottiene il marchio13. Che dire? Al di là delle ottime intenzioni, di cui non dubito, la iniziativa non è dissimile, almeno per alcuni aspetti, da quelle criticate nel rapporto Rating the Raters. Ma il problema principale è che all’Istituto italiano per la donazione sono iscritte, e certificate con il mitico marchio, in tutto 60 organizzazioni. La situazione è quindi analoga a quella di Maryland Nonprofits, ma in grande. Certo, ha ragione Gianni Rufini, un esperto con una lunga esperienza nelle organizzazioni di cooperazione internazionale, che in un forum on-line di «la Repubblica» dedicato alle critiche a queste organizzazioni, dice: «Il fatto di aver noi costituito un organismo di autocontrollo, in assenza di altri strumenti che lo Stato dovrebbe garantire, deve ritorcersi contro di noi? Può essere colpa nostra? Che si costituisca una istituzione pubblica di verifica dell’operato delle Ong. E si faccia presto. Siamo i primi a volerlo»14. Il problema è che questa istituzione esisteva, ma è stata eliminata a causa della spending review. E, si può dire serenamente, in termini di controlli il suo impatto era modesto: non quanto quello dell’Istituto della donazione, ma non così

13   Vedi a proposito http://www.istitutoitalianodonazione.it/it/ news-eventi/dd_121_302/chi-dona-vuole-vederci-chiaro (ultimo accesso ottobre 2013). 14   Carlo Ciavoni, C’è o non c’è l’“industria della carità”? Il confronto (aspro) continua, in «la Repubblica», edizione on-line, Mondo Solidale, 5 febbraio 2013.

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tanto da fare una differenza. Qui da noi, quindi, a controllare è rimasta solo l’Agenzia delle entrate. 4. Il mito dell’accountability Nell’ultimo World Economic Forum di Davos c’è stata una tavola rotonda dedicata alle organizzazioni internazionali di cooperazione. Tra le questioni centrali discusse, secondo il resoconto che ne ha dato «la Repubblica», c’era anche la seguente: Come scegliere una ONG di cui fidarsi? Oggi chi vince nel fundraising [...] non è chi fa meglio il proprio lavoro, ma chi fa la comunicazione migliore. Attenzione – è stato detto – a non perdersi nella burocrazia, forse serve riprendere il senso e il gusto della solidarietà ormai devastato dall’ossessione dell’accountability (la responsabilità nei confronti dei donatori). Ma si è poco attenti alla responsabilità nei confronti dei beneficiari15.

Parole sante: gli enti non profit, e non solo la piccola minoranza di organizzazioni di cooperazione internazionale allo sviluppo, dovrebbero rispondere del modo in cui operano prima di tutto ai beneficiari delle loro attività, quando ne hanno. È il grande tema dell’accountability, ben noto agli studiosi di management e agli scienziati politici, in quanto requisito considerato di importanza decisiva sia per una buona gestione delle aziende, sia per una democrazia che funzioni. Il concetto di accountability non contiene solo l’idea che l’agente debba rendere conto al suo principale delle azioni compiute in suo nome o a suo beneficio, ma anche che il principale abbia il potere di premiare o punire 15   A Davos scricchiola il mito delle ONG. “Hanno perso il gusto della solidarietà”, in «la Repubblica», 25 gennaio 2013, edizione on-line.

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l’agente, ad esempio attraverso il voto o destituendo il management. Condizione perché tutto ciò avvenga è che ci sia piena trasparenza e informazione sull’attività dell’agente. L’idea dell’accountability sarebbe perfetta per risolvere molti dei problemi sollevati in questo libro: le istituzioni non profit rendono conto a qualcuno del proprio operato e della corretta amministrazione delle proprie risorse e quel qualcuno ha la possibilità di premiarle o punirle. Che si potrebbe volere di più dalla vita? Tuttavia, non è ovvio stabilire verso chi questa accountability andrebbe esercitata. Verso i donatori? Ma questi spesso hanno interessi propri, come ha spiegato bene Peter Buffett, e utilizzano fonti di informazione incerte come le agenzie di rating. Verso i beneficiari? Essi però non sono sempre facilmente identificabili e spesso coincidono in modo astratto con l’intera società, o addirittura ancora non esistono, come le famose generazioni future delle politiche ambientali. Lo Stato e la sua amministrazione? Abbiamo visto che non solo da noi, dove la inefficienza dell’amministrazione è senso comune, ci sono problemi insormontabili. I soci della organizzazione e, come loro tramite, i consigli di amministrazione? Spesso queste organizzazioni non hanno soci e abbiamo anche visto che accade che i consigli di amministrazione siano tutt’altro che un baluardo contro la cattiva gestione o la malamministrazione. I propri pari, cioè altre organizzazioni non profit? Per la verità non c’è quasi traccia di un’attitudine al controllo e alla critica reciproca tra queste organizzazioni: cane non morde cane. I media? In questo libro ho utilizzato molto materiali provenienti dai mezzi di informazione, ma essi riguardano più che altro il lato oscuro del non profit e, quando ciò non avviene, è evidente la confusione che ­140

viene fatta tra i comportamenti criminali e quelle che ho chiamato «anomalie della normalità», a loro modo ben più serie e gravi degli atti illegali. Purtroppo l’accountability è un requisito sacrosanto ma di difficilissima attuazione non solo nel magma del non profit. Lo dicono i problemi che incontrano le imprese private, di cui casi come Enron e Parmalat sono la punta dell’iceberg, e su cui si concentra l’attenzione di chi si occupa di corporate governance e di responsabilità d’impresa; ma anche i partiti e i sistemi politici, dove i meccanismi elettorali, che sarebbero il massimo possibile dell’accountability, garantiscono sempre meno o non garantiscono affatto la soddisfazione di questo requisito. Perché allora, se le organizzazioni non profit non hanno azionisti né elettori, i meccanismi dell’accountability dovrebbero funzionare meglio di quanto non accada nel caso delle imprese profit e dei partiti? Sarebbe davvero un miracolo, che infatti puntualmente non si verifica. Un’altra soluzione, auspicata ma che non risulta praticata, è quella di affidarsi al giudizio del pubblico. Durante la sua trionfale campagna elettorale del 2009, David Cameron – un campione di idee accattivanti che sembrano intelligenti – promise che se avessero vinto le elezioni i Tory avrebbero creato un meccanismo di voto popolare attraverso la televisione per finanziare i migliori progetti di aiuto; insomma, una specie di XFactor del non profit16. Non se ne è saputo più nulla, e aggiungerei per fortuna, perché si sarebbe trattato del solito meccanismo in cui i progetti più scintillanti vengono premiati e quelli migliori ignorati. 16   SFil, E Londra farà vedere in tv dove vanno a finire i finanziamenti umanitari, in «Il Giornale», 21 agosto 2009, p. 13.

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Lo strumento principale dell’accountability dovrebbe essere, in forza di una convenzione pressoché indiscussa, il bilancio o rapporto sociale (di mandato, di missione, di sostenibilità, ecc.). In questo documento, tutti i dati rilevanti circa i soldi spesi e le attività realizzate, nonché circa la relazione tra i due, dovrebbero essere documentati in modo trasparente e comprensibile per tutti gli stakeholder. Qui nascono però i problemi, in parte generali e in parte specifici. Il primo e più rilevante è che tali documenti vengono prodotti solo da una minoranza di enti del magma del non profit. Lo sforzo, fatto in Italia dall’Agenzia per il terzo settore, di mettere a disposizione delle linee guida analitiche, non pare aver sortito effetti significativi. La proposta che, sempre in Italia, circola, è quella di prevedere per legge che tale documento venga prodotto da tutte le organizzazioni non profit. Non è difficile immaginare, in questo caso, un potente effetto imitativo, per così dire, analogo a quello verificatosi nel settore privato. Inoltre, come sa benissimo chi nelle imprese private il bilancio sociale lo fa sul serio, il grande punto interrogativo di questo documento è sempre: ma chi lo legge? C’è infine l’elemento a suo modo più importante e critico. Accountability non è solo riferire al pubblico quello che si è realizzato, ma anche che il pubblico medesimo possa premiare o punire la organizzazione per quello che ha fatto o non ha fatto. In altri casi ci sono le elezioni o la sfiducia degli azionisti al management. Ma in questo caso? Certo, i finanziatori possono ritirarsi dal sostegno alla organizzazione (ed è una cosa che accade in tutto il mondo, per fortuna). Ma i beneficiari? Quale potere hanno su chi si occupa dei loro problemi senza che essi abbiano conferito alcun mandato e senza che abbiano possibilità di controllo? Niente di meno, ­142

naturalmente, si potrebbe dire dei codici etici, anch’essi piuttosto gettonati, almeno in teoria. L’accountability è davvero ardua da realizzare. E lo è anche nel caso in cui, con misure di «federalismo fiscale» come il 5 per 1.000 o i sistemi di voucher, si cerca di dare il più possibile strumenti efficaci ai beneficiari di servizi e interventi, però sempre nel caso – che è solo una parte e non il tutto – di erogazione di servizi. Giocano contro, in questo caso, la mancanza di alternative rea­li e l’asimmetria informativa che, come sanno bene gli studiosi della materia, è un grande ostacolo all’esercizio della libertà di scelta. Scartata l’idea, di uno sgradevole sapore paternalistico e che ricade in pieno nel conflitto di interessi, che siano gli stessi provider dei servizi a educare «i poveri e i meno istruiti a esercitare la scelta dei servizi più adeguati alle loro esigenze»17, a questo servirebbero le organizzazioni che tutelano i diritti degli utenti dei servizi. Le quali, però, paradossalmente, sono molto più ben accette come interlocutori dal settore pubblico e dai privati che dai servizi gestiti dal non profit, almeno in Italia. Questi ultimi, peraltro, sono quelli nei quali è più difficile trovare la Carta dei servizi, che pure sarebbe obbligatoria per legge. È all’opera qui una specie di complesso di superiorità morale, che però è decisamente fuori luogo. L’accountability, insomma, è bella in teoria, ma in pratica è un po’ una leggenda, di quelle che si raccontano la sera attorno al fuoco. E non solo nel magma del non profit. 17   Luca Antonini, Andrea Pin, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, in Libro bianco sul terzo settore cit., p. 169.

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5. Sulla carta Sul tema, l’allora presidente dell’Agenzia per le Onlus o del terzo settore che dir si voglia, Stefano Zamagni, proponeva un meccanismo di finanziamento connesso all’obbligo per le organizzazioni non profit di pubblicare i bilanci e al divieto di spendere per alimentare la propria struttura più del 30% di quanto raccolto18. Zamagni si spingeva anche oltre, rilanciando una proposta di cui si parla spesso, ossia quella di creare una borsa sociale attraverso la quale possano essere emessi «bond della solidarietà» per finanziare progetti di utilità sociale19. La spending review sotto la cui scure è caduta l’agenzia presieduta dal professore di Bologna non ci ha purtroppo dato modo di vedere all’opera questa proposta. Ma essa è di aiuto per introdurci a un’altra pietra d’inciampo che riguarda i controlli sulle organizzazioni non profit. Il tema, in questo caso, è quello delle modalità e dei criteri con cui il magma del non profit viene controllato. La domanda in questo caso è: anche se, per avventura, fosse possibile esercitare controlli su tutte le organizzazioni non profit, in che modo ciò potrebbe avvenire? E quali dovrebbero essere i criteri di valutazione? Sottolineo che la domanda è presuntiva, perché si basa su una premessa che, a questo punto, dovrebbe essere chiaro che è puramente teorica, ossia quella della possibilità di controllare cosa accade nel magma del non profit senza mobilitare un vero e proprio esercito. 18   Filippi, Serve una Piazza Affari della beneficenza italiana, intervista a Stefano Zamagni cit. 19   Per una esposizione sistematica di questa proposta si può vedere Davide Dal Maso e Davide Zanoni, Sostenere concretamente l’economia civile attraverso la creazione di un mercato di capitali per le Imprese a finalità sociale, in Libro bianco sul Terzo settore cit., pp. 373-416.

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Da quanto detto e riportato fin qui è evidente che la maggior parte dei controlli vengono realizzati sulla carta e hanno per oggetto la regolarità formale degli statuti e degli atti delle organizzazioni. Come dice sempre Zamagni, «Purtroppo in Italia contano solo i parametri giuridici, per cui chi sbaglia una virgola si prende un verbale o un accertamento, mentre chi rispettando le forme elude, evade o froda la fede pubblica spesso la fa franca»20. Verissimo, e temo non solo per l’Italia. La questione principale, tuttavia, è che, quando i controlli diventano più stringenti e focalizzati (e inevitabilmente si riducono di numero), l’attenzione è rivolta ai bilanci e all’attività economica. È questo il caso in cui si nota, ad esempio, la sproporzione tra le spese per la rea­ lizzazione dei progetti per i quali si sono raccolti i soldi e le spese per la struttura. Che ciò avvenga è giusto, pur con le differenze che esistono tra organizzazione e organizzazione nella struttura delle spese in relazione all’attività che si svolge. Dov’è il problema, allora? Il problema è che non vengono prese in considerazione le attività svolte. C’è qualcosa di paradossale nel fatto che i controlli raramente – rarissimamente – riguardano la stessa ragione per cui le organizzazioni non profit vengono viste con benemerenza, ossia quello che fanno per il bene pubblico. E tantomeno investono i risultati raggiunti: ossia gli outcome oltre che gli output, i quali sarebbero invece, in fondo, l’unica cosa importante da valutare. Certo, ci sono tentativi di definire le caratteristiche di una buona organizzazione non profit. Ad esempio nel 2007 il governo inglese ha emanato un documento 20   Filippi, Serve una Piazza Affari della beneficenza italiana, intervista a Stefano Zamagni cit.

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nel quale vengono indicate come caratteristiche distintive di queste organizzazioni l’attenzione ai bisogni degli utenti del servizio, le conoscenze e le competenze per affrontare bisogni personali complessi e gestire problemi sociali difficili, la flessibilità e la capacità di fornire servizi multipli, la capacità di creare fiducia negli utenti, la esperienza e l’autonomia che facilitano l’innovazione21. Su questa stessa lunghezza d’onda anche da noi si fanno ipotesi di metodologie e strumenti per accertare il «valore aggiunto sociale» di queste organizzazioni22. Tuttavia, è facile notare che questi criteri non hanno alcun senso quando si parla, ad esempio, di fondazioni bancarie o di organizzazioni ambientaliste, per non parlare della Royal Opera House di Londra. E ancora più facile è ritrovare in queste definizioni quell’economicismo che riduce le organizzazioni non profit a erogatori di servizi nel welfare. Ma la cosa più importante è che il massimo a cui sembra possibile pensare è una valutazione della qualità della organizzazione, non quella della sua attività o dei suoi esiti. Al contrario, alla fine dei conti e pensando ai problemi e agli interessi della collettività, quello che queste organizzazioni fanno, lo ripeto, è l’unica cosa veramente importante.   Colozzi, Delle virtù e dei premi cit., p. 251.   Ivi, pp. 245-282.

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Da capo

1. E allora? Arrivati verso la conclusione di questa riflessione, condotta con un tono e argomenti che sono lontanissimi dall’understatement, capisco che mi si potrebbe dire che, se ho tutte queste critiche e queste riserve verso l’universo di significati del non profit, sarebbe il caso che spiegassi che cosa andrebbe fatto. Con un tono a metà tra l’ironia e la sfida, mi si potrebbe quindi chiedere: e allora? Ci sono diversi modi di rispondere a questa ipotetica domanda. Uno è semplicemente di rimandarla al mittente, dato che non ho avuto alcuna parte nella invenzione del non profit e non sono tenuto a proporre alcunché. Un altro modo è quello di sottolineare che questo libro non ha l’intento di avanzare proposte, ma solo di sollevare un problema; un compito che basta a se stesso, anche considerando che nessuno, che io sappia, si è preso la briga di farlo prima. Per una ragione o per l’altra, insomma, il libro potrebbe anche finire qui. C’è però un altro modo, che è quello di provare a offrire alcuni spunti di riflessione sul da farsi, che possano essere utilizzati per avviare una discussione seria ­147

che possa portare, in un tempo non breve ma nemmeno eterno, a costruire una risposta ragionevole e condivisa ai problemi sollevati dalla invenzione del non profit. È quello che cercherò di fare. Chi si aspetta qualcosa come una ipotesi di riforma legislativa o manageriale o di politiche pubbliche, dunque, rimarrà sicuramente deluso. Tuttavia la scelta di non avanzare niente del genere non è un modo per sottrarsi all’assunzione di responsabilità, ma risponde piuttosto alla convinzione che c’è qualcosa di più importante da fare prima di ipotizzare leggi, politiche, authority, sistemi di rendicontazione o valutazione, forme di controllo e di monitoraggio. Il messaggio che ha preso forma in questo libro, infatti, è che esiste un problema antecedente, in ordine logico e di importanza, rispetto alle soluzioni tecniche da scegliere. Se quello non viene affrontato, queste rischiano di riportarci semplicemente al punto di partenza. Ci sono tre punti che mi sembra necessario menzionare per rendere ragione di questa scelta. Il primo è che la soluzione del problema deve essere affidata a un dibattito approfondito, esteso, informato ed effettivo, da svolgere nell’arena pubblica e a cui tutti devono essere chiamati a partecipare. Essa non può comunque essere delegata agli addetti ai lavori, i quali pure, se volessero, potrebbero svolgere un ruolo di importanza fondamentale nel fornire le informazioni necessarie, chiarire i termini delle questioni rilevanti, mettere a disposizione elementi comparativi. Non mi azzardo a parafrasare il motto secondo cui il problema del non profit è troppo importante per lasciarlo agli specialisti; tuttavia penso che sia davvero troppo importante per non coinvolgervi tutti, a partire dai donatori ­148

e dai beneficiari dell’attività delle istituzioni non profit. È il pubblico in generale il vero owner di questo tema. Il secondo punto è che occorre partire dall’inizio ed evitare qualunque tipo di scorciatoia, che si rivelerebbe fatalmente un vicolo cieco. Mi auguro che a chi ha avuto la pazienza di leggere il libro fino a qui risulti chiaro che il problema del non profit è collocato all’inizio, cioè nella sua invenzione, e non in qualche punto del processo che ha portato alla sua affermazione come rappresentazione e strumento operativo in tutto il mondo. La situazione attuale, cioè, non è il frutto di una degenerazione o di una cattiva attuazione di una buona idea. È piuttosto il frutto di una cattiva idea che si è incarnata in comportamenti coerenti con essa. Per questo non esiste, come nei sistemi operativi dei computer, un punto di ripristino. È proprio il sistema che va ripensato. Come dice Peter Buffett, occorre un nuovo codice. Il terzo punto è che bisogna distinguere nettamente e accuratamente tra il versante cognitivo e quello normativo (in senso lato) della questione. La confusione tra questi due aspetti, a mio parere, è stata estremamente negativa, perché reputare qualcosa come positivo e meritevole di sostegno non comporta necessariamente che esso esista nella realtà; oppure delegare alla legge la definizione del fenomeno può portare (e ha portato) a fraintendimenti, ambiguità e vaste zone grigie. Bisogna quindi innanzitutto cercare di capire che cosa abbiamo di fronte, e solo dopo domandarci in che modo considerarlo. Qualunque confusione tra questi due momenti, e in particolare qualunque definizione che sia di tipo morale o normativo e non di tipo fattuale, non può che perpetuare il problema rendendolo insuperabile. Tutto questo significa che il primo passo da compiere è quello di passare da un «non qualcosa» a qualcosa; ­149

e il secondo è quello di passare da un atteggiamento improntato alla massima «che male c’è?» ad uno opposto, domandandosi invece: «che bene c’è nel magma del non profit?». È l’esercizio che cercherò di fare nelle pagine che seguono, senza intenzione di esaustività e, come ho già chiarito, senza pretese di tipo tecnico, ma sperando che gli spunti di riflessione che presenterò possano servire a innescare quell’ampio dibattito pubblico che non c’è mai stato. Poche idee, il più semplici possibile, che rispondano al requisito di essere verificabili e «deliberabili» da parte di tutti, è ciò che, a mio parere, è oggi necessario, e non solo in Italia. 2. Il non profit non esiste La prima di queste idee, e in fondo quella veramente importante, è che è necessario prendere atto che un oggetto come il non profit o terzo settore nella realtà non esiste. Il «non qualcosa» di cui ho parlato nel libro è, appunto, un nulla dal punto di vista materiale. Certo, le invenzioni sono sempre un oggetto mentale prima che fattuale; e gli oggetti mentali fanno pur sempre parte della realtà. Tuttavia, in questo caso la rappresentazione della realtà materiale che è stata costruita con la invenzione del non profit non ha corrispondenze significative con la realtà materiale medesima. Ciò significa che dobbiamo risolverci (o rassegnarci, a seconda dei gusti) a non considerare più un unicum il magma di istituzioni, organizzazioni, gruppi, movimenti, imprese, ecc. che fino a oggi con leggerezza, ma spesso anche con la vaga consapevolezza di un problema, abbiamo guardato come un’unica «cosa». Il non profit non esiste. Questo nome mette insieme una realtà spuria, le cui componenti non hanno alcuna ragione di ­150

stare insieme e di essere trattate come un tutto. Il terzo settore non esiste: il fatto che nel mondo ci siano entità che non sono né statali né imprenditoriali non autorizza a tenerle tutte insieme dando ad esse un significato unitario, nemmeno facendo distinzioni all’interno di questo insieme. Come ho già detto, un altro non profit non è possibile: semplicemente perché non c’è. Nessuno, del resto, potrebbe sostenere senza almeno un po’ di imbarazzo che il mondo, dal punto di vista cromatico, è diviso in «verde», «giallo» e «né-verde-né-giallo». E invece è proprio questo il nostro problema: la pretesa che «né-verde-né-giallo» sia un colore. Che cosa c’è là fuori, allora? Con quale tipo di rappresentazione sarebbe appropriato sostituire quella del non profit? Senza alcuna pretesa di dare definizioni rigorose alla maniera in cui ciò sarebbe dovuto in un lavoro accademico, credo che si debba decostruire il magma del non profit identificando realtà differenti tra loro, ciascuna con caratteri specifici e una omogeneità ragionevole agli occhi del senso comune. Insomma, cose diverse e non specificazioni o casi particolari della stessa cosa. Provando a fare questo esercizio a puro titolo sperimentale, credo che se ne possano identificare sette. Per i nostalgici si potrebbero chiamare organizzazioni «ex non profit». Esse sono le seguenti: – imprese; – enti quasi-pubblici; – organizzazioni della produzione e del lavoro; – istituzioni di supporto; – enti di ricerca; – organizzazioni del capitale sociale; – organizzazioni di attuazione costituzionale. La prima categoria è quella di entità che hanno una normale attività economica o di impresa, ma che han­151

no assunto lo status di non profit per ragioni di convenienza legale o fiscale, o anche in mancanza di meglio. Annovero in questa categoria bar, ristoranti, palestre, gallerie d’arte e via elencando, di cui ho fatto svariati esempi nel libro. In questa categoria ritengo che rientrino anche molte delle organizzazioni a proposito delle quali mi sono chiesto: «non profit per chi?». E quindi scuole, università, strutture sanitarie e servizi sociali, ma anche quelle imprese, operanti prevalentemente nel welfare, che hanno dimensioni e modalità di funzionamento che le rendono praticamente indistinguibili da normali imprese private. Il fatto che, legittimamente, per ragioni di priorità definite in sede politica, alcuni tipi di queste strutture siano considerati meritori di sostegno pubblico (come nel caso della educazione), ha a che fare con il modo di trattare le organizzazioni ex non profit, non con la loro identificazione. Il secondo tipo di entità che ritrovo nel magma del non profit sono quelle quasi-pubbliche, ex pubbliche o parapubbliche. Mi riferisco ad esempio agli enti lirici o ad altre istituzioni artistiche che a un certo punto lo Stato ha ritenuto di trasformare. Ma anche a entità chiaramente parastatali come la Croce Rossa o il Coni. E anche alle fondazioni, ad esempio culturali, che gli enti pubblici hanno costituito per curare beni che erano di loro proprietà o per sviluppare attività che rientravano nelle loro competenze. Spesso queste fondazioni sono il luogo di partnership tra pubblico e privato, ma, specialmente quando il pubblico detiene una maggioranza relativa della proprietà effettiva (o una golden share di fatto), esse rientrano, a mio parere, in questa categoria. Le stesse fondazioni bancarie, non di proprietà statale ma create da una legge e con sistemi di governance derivanti – nel bene e nel male – dalle istituzioni o dal ­152

potere politico andrebbero considerate qui, al di là della loro attività di grant-making. Ci sono poi le istituzioni che, per comodità, si possono definire come appartenenti al «modello corporativo»: associazioni imprenditoriali e professionali, sindacati dei lavoratori, fondi pensione, patronati, ecc. Si tratta di entità che sono concentrate sulla difesa e la promozione degli interessi dei soggetti dell’economia e del lavoro. La loro storia, peraltro, è completamente diversa da quella delle altre entità, come tutti sappiamo. Ed esse hanno, nella gran parte dei paesi, spazi, prerogative e opportunità di azione propri, che fanno di questo insieme qualcosa di assolutamente specifico e a sé stante. Una quarta «cosa» sono gli enti e le istituzioni che operano a supporto di programmi e attività di utilità sociale realizzate dai cittadini. Non si tratta solo di fondazioni o altre istituzioni grant-making. Se, infatti, non si ha una visione miope di ciò che significa supporto, si possono includere in questa categoria le entità che mettono a disposizione anche conoscenze, informazioni, know-how, contatti e relazioni, occasioni di formazione e di addestramento: insomma, beni immateriali di cui coloro che si occupano direttamente di questioni di rilevanza pubblica hanno bisogno tanto quanto dei soldi. Collocherei in una categoria a parte le organizzazioni che si occupano di ricerca. Si tratta ad esempio di quelle che investono nella ricerca in campo medico, come quelle sulle malattie di origine genetica. Ma in questa categoria potrebbero essere collocati in generale i centri di ricerca o i think tank che producono conoscenza e informazione su questioni pubbliche senza primari scopi di formazione ed educazione e senza che i risultati conseguiti siano automaticamente trasferiti nella operatività. ­153

Ci sono poi quelle entità che penso che sia opportuno definire come organizzazioni del capitale sociale. Si tratta di quei soggetti che, operando per mettere e tenere insieme le persone per svolgere attività di interesse comune, qualunque esse siano, rafforzano i legami sociali, la condivisione, la interdipendenza, il dialogo e lo spirito di comunità. Le associazioni che gestiscono luoghi dove le persone si incontrano, magari solo per fare musica o giocare a bocce, ma anche le comunità religiose o i gruppi di vicinato, o quelle che promuovono lo sport per i bambini e i ragazzi fanno parte di questo insieme, che ha sicuramente una grande rilevanza anche quantitativa ma che non va confuso con altri. Infine, ma non certo in ordine di importanza, si possono identificare le organizzazioni di attivismo civico, vale a dire quelle che coinvolgono comuni cittadini nell’attuazione diretta di norme di rango costituzionale attinenti ai diritti della persona o alla cura di beni comuni della più alta rilevanza. Possono essere attività di costruzione e gestione di servizi o di advocacy o un mix delle due, comunque riferibili direttamente alla sfera dell’attuazione della Costituzione. Parlo qui ad esempio di organizzazioni di volontariato impegnate nella tutela di persone in difficoltà o situazioni di rischio o di emergenza, di comunità e cooperative per il supporto e il reinserimento di soggetti in difficoltà, di associazioni per la cultura civica, di comitati e gruppi locali, di organizzazioni di cooperazione internazionale, di movimenti per l’ambiente, ma anche di gruppi di auto-aiuto o di movimenti di professionisti come gli avvocati di strada o i «giornalisti civici». Esse raccolgono persone che stanno insieme non per il gusto di farlo, ma per realizzare qualcosa che ha direttamente a che fare con l’attuazione della Costituzione e alle condizioni ad essa ­154

ispirate, ad esempio quella dell’accesso universale a beni e opportunità anche in termini di costi. C’è un altro aspetto che, dal punto di vista della identificazione di questi fenomeni organizzativi, deve essere tenuto nel massimo conto. Mi riferisco alle dimensioni. Il tema è molto semplice: a parità di altre caratteristiche (ad esempio il campo di attività o la stessa forma giuridica), una organizzazione che è fatta di soli volontari non è la stessa cosa di una che ha cinque collaboratori e un budget annuo di 80.000 euro; una con quindici collaboratori e un budget di un milione di euro non è la stessa cosa di una con decine di dipendenti e svariati milioni di euro di budget. Questo punto è stato notato da molti esperti e osservatori, ma più in chiave critica (la stessa norma e lo stesso atteggiamento possono avere effetti diversissimi sulle organizzazioni a cui si applicano in relazione alle loro dimensioni) o per chiedere una diversificazione delle politiche a loro rivolte. Tuttavia, a mio avviso è un elemento così importante da dover essere incorporato nella identificazione dei fenomeni che abbiamo di fronte. Le dimensioni, quindi, sono una componente fondamentale del «che cosa». È doveroso sottolineare ancora una volta che la identificazione di queste sette categorie di organizzazioni deve essere considerata come un esercizio, più precisamente l’esercizio del distinguere. In quanto esercizio, esso può essere gettato nel cestino e sostituito da qualcosa di più efficace e, soprattutto, dotato di maggiore materialità. Quello che non è rinviabile né rinunciabile è che questo tipo di operazione di destrutturazione del magma del non profit venga compiuta. Qualunque ne sia il risultato, ci troveremo finalmente ad avere a che fare, non più con un «non qualcosa», ma con vari e diversi «qualcosa». Sarà un grande passo avanti, a mio parere. ­155

Non posso infine negare ciò che è evidente, e cioè che dall’esercizio condotto qui sono assenti i partiti. Anch’essi, infatti, secondo le classificazioni ufficiali sono organizzazioni non profit e da qualche parte dovrebbero pur stare. Tuttavia, quale sia la loro natura e la loro collocazione nelle società contemporanee è sempre meno chiaro e una opinione crescente tende a collocarli nel primo settore, cioè nello Stato, anziché nel terzo. Essendomi sempre occupato di organizzazioni politiche diverse dai partiti, lascio volentieri il compito di sciogliere il nodo a chi ne sa più di me. 3. In che mondo viviamo Capisco che non sia agevole dover prendere in considerazione, al posto del comodo (proprio perché caotico) universo del non profit, sette (o n) tipi di entità completamente differenti tra loro e che è difficile anche mandare a memoria: imprese, parastato, produzione e lavoro, supporto, ricerca, capitale sociale, attuazione costituzionale. Sono d’accordo: sarebbe meglio che fosse tutto più semplice e non si dovesse stare a fare tutte queste distinzioni. Purtroppo, nel caso del magma del non profit, una idilliaca situazione del genere non c’è mai stata. E, allargando lo sguardo, mi pare evidente che oggi viviamo in una realtà decisamente più complicata forse perché in transizione. Fermarsi un attimo su questa realtà può essere di aiuto perché il mondo in cui viviamo ha molteplici legami (di segno diverso) con la invenzione del non profit. Ci sono tre punti che ritengo utile mettere in rilievo di questo nuovo contesto, che hanno una diretta influenza sul problema oggetto del libro. Qui le cose si fanno più complicate, ma è una complicazione che non possiamo scansare. ­156

Senza confini  Viviamo in un mondo in cui i confini sembrano impallidire o sparire del tutto. Ciò accade ai nostri confini fisici e materiali – intendo proprio le nostre frontiere – diventati porosi e incerti, come ci insegnano le migrazioni di massa che passano dolorosamente proprio per l’Italia. Ma accade anche ad altri tipi di confini: quello ad esempio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata delle nostre vite, visto che nell’agenda politica sono entrati temi come il modo di morire o il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Tuttavia anche confini più prossimi alla riflessione contenuta in questo libro sono diventati incerti e mobili. In particolare lo è quello tra il settore pubblico e il settore privato con le loro reciproche competenze. Intendo proprio dire che è sempre meno chiaro qual è l’ambito di operazioni del pubblico e quale quello del privato. Abbiamo di fronte a noi, quotidianamente, molti esempi di questa situazione, dalla privatizzazione di servizi o beni pubblici all’assunzione di un ruolo pubblico delle imprese private. Ciò ha a che fare anche con il magma del non profit, dove si trovano variamente mescolati, nelle organizzazioni che indebitamente vi vengono ascritte, elementi che tradizionalmente sono attribuiti alla mission dello Stato ad altri che sono tipici dell’imprenditorialità privata, ad altri ancora che sono usualmente catalogati sotto il pur ambiguo concetto di «società civile». Si tratta di un elemento sul quale, in modo implicito o esplicito, un po’ tutti concordano. Il problema è che, se ciò è vero, non è possibile trarne tutte le conclusioni che invece vengono tratte, ad esempio sull’emergere di un nuovo tipo di imprenditorialità, finalmente dal volto umano, oppure su un modo di gestire gli affari pubblici alternativo a quello dello Stato. ­157

Questa situazione non è chiara e non è nemmeno particolarmente confortante, tanti sono i nuovi rischi che essa genera o almeno evoca. Tuttavia, quello che è importante sottolineare qui è che in un mondo nel quale i confini tra pubblico, privato e sociale e la stessa identità di questi «settori» sono sempre più incerti, affermare che esiste qualcosa che è definito dal fatto di non essere né pubblico né privato (o anche «sociale» nel senso di né l’uno né l’altro), è chiaramente un controsenso. Non si può definire una entità in termini di differenza da ciò che non è più chiaro dove cominci e dove finisca. L’alternativa del diavolo  Il secondo punto riguarda il welfare, da molti (con la solita inversione tra la parte e il tutto) considerato l’unico luogo in cui il non profit opera, forse, essendo un po’ malevoli, perché è quello in cui girano più soldi. Tra le molte critiche che ho rivolto alla invenzione del non profit c’è anche quella di avere come background il sistema di welfare statunitense, dove il ruolo dello Stato è residuale ed è la comunità a farsi carico di vecchi e nuovi bisogni dei cittadini. Contro questa impostazione ho sottolineato più volte, non solo che la situazione italiana ed europea è del tutto differente, perché in essa è lo Stato ad essere responsabile del benessere dei cittadini, che piaccia o meno; ma anche che qui da noi il sistema di benefici del welfare è una questione di diritti di cittadinanza, che piaccia o meno. Detto questo, tuttavia, non vorrei proprio che si pensasse che l’alternativa alla invenzione del non profit è un welfare statale o peggio statalista, nel quale i cittadini pagano molte tasse e ottengono servizi scadenti. Direi piuttosto che questa alternativa è del tutto fuori della realtà. La ragione più importante è che, qui da noi, il welfare comunitario gestito dal non profit è più che ­158

altro un sogno di qualche visionario (nel senso migliore del termine), visto che in un modo o nell’altro – convenzioni, accreditamenti, rimborsi – il non profit che opera nel welfare è di fatto largamente finanziato dallo Stato anziché dalla comunità. Basta ricordare al riguardo i dati sull’incremento della quota di servizi acquistati all’esterno dai grandi comuni. I dati sul 5 per 1.000 che ho citato nel libro sono di segno decisamente diverso, ma non cambiano il segno delle responsabilità costituzionali. Qui da noi è lo Stato che è responsabile del benessere dei cittadini e gestisce il welfare, o direttamente, o delegando tale gestione a soggetti esterni sulla base di standard da esso fissati e – anche se solo in teoria – controllati. E, se in molti casi ciò funziona, in molti altri non funziona affatto, o in termini di servizi agli utenti scadenti o di bassa qualità (quando i fondi sono pochi e si vuole risparmiare), o in termini di soldi pubblici sprecati o rubati, come nel caso del ben noto rapporto tra la Fondazione Maugeri (non profit) e l’ex governatore della Regione Lombardia attualmente sotto processo1, ma anche in quello delle tante strutture sanitarie non profit convenzionate con il servizio sanitario in cui un intervento ambulatoriale diventa una degenza di giorni o settimane per ottenere i rimborsi statali. Nel sistema di welfare italiano, insomma, le organizzazioni non profit sembrano spesso o sfruttate o assistite. Spero che non ci si riferisca a questo quando si parla 1   La Fondazione Maugeri e i suoi manager dell’epoca hanno recentemente ottenuto il patteggiamento nel processo che li vedeva imputati assieme ai vertici della Regione Lombardia e alcuni faccendieri: vedi Maugeri, confiscati beni per 16 milioni. Il 30 udienza preliminare per Formigoni, in «la Repubblica», 27 settembre 2013, edizione on-line.

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di una nuova economia sociale dei servizi; così come mi auguro che non si pensi che essa possa nascere e svilupparsi grazie a una specie di alleanza tra neoliberismo e cultura delle opere pie contro lo Stato, di cui i cittadini alle prese con i problemi della vita rischiano di essere solo il campo di battaglia. Novità  L’alternativa tra non profit e statalismo non ha quindi alcun senso. Ha senso invece il fatto che, a partire dall’ultimo quarto del XX secolo, nelle società di tutto il mondo è emersa una attitudine dei cittadini a organizzarsi e a operare come attori della scena pubblica, ben al di là della semplice libertà di associazione. Per dirla con le parole di Ulrich Beck, i cittadini nell’era della seconda modernità «esercitano concretamente i loro diritti finora solo formali, riempiendoli della vita per la quale ritengono che valga la pena di lottare»2. Si tratta di un fenomeno complesso e articolato, e purtuttavia unitario nel fatto che consiste in un nuovo ruolo dei cittadini in una scena pubblica nella quale, come ho appena ricordato, i confini tra i settori stanno evaporando. Nella struttura di questo fenomeno si possono osservare elementi di costruzione di relazioni e significati sociali, di nuova imprenditorialità, di esercizio di autonomi poteri e responsabilità politiche. E la stessa esistenza di questo fenomeno – che coinvolge masse di persone i cui numeri non sono commensurabili con le vecchie mutue e opere pie e la cui antropologia è decisamente differente da quella degli imprenditori – è essa stessa un fattore di evaporazione dei confini tra i settori. Che tutto ciò metta in discussione la competenza esclusiva dello Stato sugli affari pubblici (compreso il   Ulrich Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2011, p. 271.

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welfare) e che generi nuove e promettenti occasioni di fare legittimamente soldi (le attività filantropiche sono diventate un mercato, e si tratta di un grosso business, diceva il dirigente di Oxfam già citato), è pacifico. Che invece possa essere ridotto da una parte a puro e semplice stare insieme anche nella forma mutualistica e dall’altra a un nuovo genere di economia, mi pare non solo riduttivo, ma anche terribilmente assonante con la vecchia classificazione del mondo che è, appunto, ciò che oggi è messo in discussione. Sono consapevole che tutto ciò è incerto e mobile; e anche che non è facile operare distinzioni nette tra ciò che è un nuovo modo di organizzare e gestire la soluzione di problemi comuni e ciò che è semplicemente business applicato a nuove opportunità, non essendoci in questo niente di male ma nemmeno niente di bene. Il punto è operare come agenti nel mondo in cui viviamo, sfuggendo sia alla tentazione di semplificazioni o di paradossali capriole all’indietro, sia a quella di pensare che qualunque cosa vada bene, rinunciando a distinguere ciò che può andare dalla pura convenienza alla massima utilità sociale. L’invenzione del non profit è a mio parere proprio una di queste capriole all’indietro ed è per questo che dobbiamo andare oltre. 4. Che c’è di bene Ho detto all’inizio di questo capitolo che ciò che era fondamentale fare era compiere un doppio passaggio: dal «non qualcosa» a un qualcosa; e da «che male c’è?» a «che bene c’è?». Compiuto il primo con l’esercizio di individuazione di sette distinte categorie di organizzazioni ex non profit, è il momento di soffermarsi sul secondo, domandandosi quindi dove sta e in che modo ­161

può essere identificato il valore sociale di queste organizzazioni. Si può cominciare annotando tre punti. Il primo e più importante è che la utilità sociale delle organizzazioni ex non profit sta esclusivamente nella loro attività, cioè nelle cose che fanno. Non ritengo quindi che sia rilevante, nella logica di questa riflessione, ciò che è scritto nei loro statuti o nei loro documenti programmatici, ma proprio le cose che vengono fatte, il modo in cui vengono fatte e, soprattutto, gli effetti che conseguono nella realtà o, se si preferisce dirla così, i beni pubblici, materiali o immateriali, che vengono prodotti, protetti o resi fruibili. Per chiarire questo punto sono sufficienti alcune domande. È di utilità sociale l’assistenza domiciliare ai malati terminali? Indiscutibilmente sì. Lo è un centro fitness? Indiscutibilmente no. Lo è un pub? Dipende: sì, se i camerieri sono persone con disabilità o se persone in difficoltà vengono accolte e servite gratuitamente; altrimenti no. “Dipende” ci porta a un problema ulteriore che tratterò nel prossimo paragrafo. Il secondo punto è che la utilità sociale dell’attività di una organizzazione ex non profit dovrebbe essere considerata in termini di grado e non in termini assoluti. In altre parole: un servizio di accoglienza e supporto alle donne vittime di violenza domestica è di massima utilità sociale; una festa di vicinato lo è di meno; una raccolta di fondi i cui proventi pagano la raccolta fondi stessa lo è poco o per nulla. Anche in questo caso, è importante tenere a mente che sto parlando di attività, non delle organizzazioni in se stesse. O, per fare un altro esempio, un’attività sportiva realizzata in un’area priva di strutture pubbliche, in cui esistono fenomeni di degrado ed esclusione e che garantisca un accesso gratuito o a prezzi abbordabili per le persone ha un valore sociale di gran ­162

lunga maggiore di uno di quei circoli di tennis o di canottaggio per ricchi che ho citato prima per il fatto che non pagano tasse sugli immobili di loro proprietà. Ed è proprio questo il terzo punto da mettere in rilievo. Considerato il mondo in cui viviamo, le attività svolte sono l’unico punto di riferimento disponibile per stabilire «ciò che è bene». Molte organizzazioni, infatti, hanno attività molteplici e con diverso grado di utilità sociale e non possono essere classificate in modo univoco. Faccio un esempio per spiegarmi meglio. L’Arci – una antica organizzazione che ha origine nel movimento socialista e comunista, costituita nel 1956 – nasce per favorire attività ricreative, per gestire le vecchie Case del popolo, per promuovere forme di sport dilettantistico. Negli anni ’80 questa associazione si è trasformata ed evoluta, cominciando ad occuparsi di ambiente, di cooperazione internazionale, di impegno per la pace, di diritti di minoranze come quelle della differenza sessuale, senza perdere le attività tradizionali. È molto difficile, in un caso come quello dell’Arci, identificare una utilità sociale univoca. La lotta per la tutela dell’orientamento sessuale ha un valore sociale diverso dalla gestione di luoghi di ritrovo come sono oggi le Case del popolo, per non parlare di bar e ristoranti. Sarebbe impossibile classificare l’Arci «di utilità sociale» in modo univoco: molte delle cose che questa associazione fa lo sono al massimo grado, altre a un grado minore, altre ancora a un grado minimo. Per questo non sono le organizzazioni ad avere un valore sociale, ma sono le loro singole attività ad averlo ed è a quelle che bisogna mirare. In relazione a quanto detto sopra, mi sembra chiaro che il grado di valore sociale espresso da una organizzazione ex non profit debba essere necessariamente definito in riferimento a un criterio valido e accettabile per tutti. ­163

Quale sia questo criterio è facile dirlo, anche se è molto meno facile articolarlo, e tuttavia egualmente necessario. Per quanto riguarda il criterio in sé, mi sembra evidente che esso non può che essere quello dell’interesse generale: le attività promosse da organizzazioni ex non profit sono di maggiore o minore (o nullo) valore sociale in relazione alla loro prossimità all’interesse generale. Questa affermazione non è solo di buon senso, ma ha anche un preciso aggancio costituzionale. Si tratta della sussidiarietà «circolare» introdotta nel 2001 nella Costituzione italiana grazie a una iniziativa civica3. All’articolo 118, quarto comma, della vigente Costituzione c’è scritto: «Stato, regioni, province, città metropolitane e comuni favoriscono la libera iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». La importanza di questa norma non può essere sottovalutata, soprattutto in una chiave (che è la mia) di «minimalismo costituzionale», vale a dire quella che consiste nel leggere il testo della Costituzione ed evitare speculazioni su di esso. Questa norma infatti riconosce valore costituzionale a certe attività in quanto di interesse generale e non in quanto realizzate da un soggetto dichiarato a priori di utilità sociale per il modo in cui è scritto il suo statuto. Ciò non è solo la fonte di un legittimo dubbio sulla costituzionalità di molte leggi che riguardano il cosiddetto non profit, ma è anche un solido punto di appoggio e di riferimento per il dibattito pubblico che auspico che si apra. 3   Per una ricostruzione di questa importante vicenda, si veda il recente libro di Giuseppe Cotturri (che è stato anche l’estensore dell’emendamento poi approvato) La forza riformatrice della cittadinanza attiva, cit.

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Proprio per questo, poiché cioè dobbiamo essere concentrati sulle attività effettivamente svolte, non è proprio il caso di fare una graduatoria di prossimità all’interesse generale delle categorie di organizzazioni individuate nel paragrafo precedente. Certo, mi sembra evidente che, in linea generale, una organizzazione ambientalista sia più prossima all’interesse generale di quanto non lo sia un fondo pensione di una categoria professionale, e ciò senza nulla togliere ai fondi pensione, va da sé; o che una food bank come il Banco alimentare, ossia una organizzazione che recupera il cibo invenduto, fuori standard o prossimo alla scadenza da supermercati e aziende produttrici e lo distribuisce alle mense per i poveri sia più prossima all’interesse generale di una fondazione bancaria che la finanzia. Tuttavia il punto è superare la logica del primato delle forme, con cui le burocrazie dominano il mondo (non solo l’Italia) e riprendersi, come collettività, la prerogativa di giudicare l’interesse generale in base al modo in cui si realizza in azioni e nei loro effetti. Che cos’è l’interesse generale? Come si definisce? Chi lo stabilisce? Dove si trova scritto? Si tratta di domande importanti, su cui i costituzionalisti e altri si interrogano, soprattutto da quando la sussidiarietà «circolare» – circolare in quanto diversa dalla tradizionale sussidiarietà orizzontale che si basa su una netta divisione del lavoro tra società e Stato – è entrata nella Costituzione. La risposta non è facile ed è necessariamente articolata. Propongo al proposito tre tipi di risposte, che mi sembrano conseguenti con la riflessione di questo libro e che costituiscono un inizio, non certo una conclusione. La prima è che è di interesse generale ciò che lo Stato, cioè la espressione della comunità politica fondata sulla ­165

democrazia rappresentativa, definisce tale nella Costituzione e nelle leggi. Ancora, ciò può piacere o meno, ma finché il nostro paese resta una democrazia fondata su un sistema rappresentativo (pur con tutti i mutamenti in corso che lo investono e lo mettono in discussione) si deve accettare questa specie di sillogismo, offrendo peraltro il sistema democratico una pluralità di opportunità di partecipazione volte a cambiare o cassare le norme vigenti. Per essere più concreti, il diritto alla salute, da assicurare attraverso servizi accessibili e adeguati, è un interesse generale. È forse superfluo aggiungere che non tutto ciò che proviene dall’autorità politica ha lo stesso grado di approssimazione all’interesse generale, restando ad esempio la promozione dell’arte e della cultura decisamente più prossima ad esso di quanto non lo sia il sostegno allo sport competitivo. La seconda risposta è che è di interesse generale l’insieme di situazioni riconosciute da dichiarazioni e documenti internazionali che hanno valore di legge e che riguardano i diritti umani (è il caso della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948) o i diritti fondamentali (è il caso della Carta della Unione Europea del 2000). Sta naturalmente alle singole collettività stabilire – non solo attraverso le leggi – che cosa il contenuto di questi documenti significhi in concreto. E naturalmente, come è evidente se si pensa al rapporto dialettico tra il diritto nazionale e il diritto comunitario, non è affatto detto che la legislazione nazionale sia sempre coerente o compatibile con queste norme di carattere generale. La terza risposta è che è di interesse generale ciò che è riconosciuto come tale nell’arena pubblica e nei processi di deliberazione che coinvolgono la comunità politica. Ciò può sembrare astratto, ma resta il fatto che una messe di priorità collettive – dalla violenza sessuale ­166

come reato contro la persona alla tutela dell’ambiente, dal valore di beni comuni come l’acqua ai diritti dei cittadini malati – sono state fissate nel nostro paese e altrove proprio in questo modo. A queste tre risposte vanno aggiunti due importanti corollari. Il primo è che l’interesse generale non è fisso ma cambia nel tempo, in relazione a mutamenti nelle condizioni materiali, nei significati sociali, nei sistemi di valori, nelle pratiche di cittadinanza, ecc. Il secondo corollario è che la definizione di ciò che è interesse generale è una materia altamente conflittuale, che è al centro della lotta politica della quale sono protagonisti non solo i partiti, ma la intera comunità. Può essere utile al riguardo fare un esempio lontano nello spazio e nel tempo. Un centinaio di anni fa in Inghilterra un movimento di cittadini guidato dalle donne (per la precisione dalle madri) si batté per rendere obbligatoria la pastorizzazione del latte. La mancata pastorizzazione del latte e le condizioni assolutamente anti-igieniche in cui esso veniva trasportato uccidevano infatti miriadi di bambini. Il latte pastorizzato fino a quel momento era considerato un bene di lusso, mentre ciò che si chiedeva – e si ottenne – è che esso fosse considerato un bene di prima necessità e trattato di conseguenza. Il latte pastorizzato era diventato così un interesse generale4. Se si vuole, si può fare anche un esempio opposto, riguardante l’Italia di cinquant’anni fa. In quella Italia povera e con poche opportunità per la maggioranza del-

4   Frank Trentmann, Bread, Milk and Democracy: Consumption and Citizenship in Twentieth-Century Britain, in The Politics of Consumption. Material Culture and Citizenship in Europe and America, a cura di Martin Daunton e Matthew Hilton, Berg, Oxford-New York 2001, pp. 109-163.

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la popolazione, la organizzazione di attività e strutture per il tempo libero aveva un chiaro e diretto legame con l’interesse generale. Ad esempio, per la maggior parte dei bambini queste iniziative erano l’unica opportunità di fare le vacanze. Oggi la realtà non è più questa, malgrado la crisi economica che ha impoverito il paese. Perché le persone e le famiglie hanno un tasso di mobilità, una quantità di opportunità a disposizione e un livello di costo delle occasioni ricreative e di evasione che le attività per il tempo libero promosse da organizzazioni non profit sono solo una delle tante offerte a cui i cittadini possono accedere. Penso che ciò significhi che il tempo libero ha assunto un grado molto minore di connessione con l’interesse generale. Del resto, gli studiosi hanno registrato che ad esempio negli Stati Uniti, iniziative di welfare che erano non profit hanno cambiato status diventando imprese private quando la situazione della società è mutata. Pretendere una risposta univoca alla domanda «Che cos’è l’interesse generale?» è quindi impossibile. Ma parlare in modo generico di «utilità sociale», definendola oltretutto in un modo molto più obsoleto di quanto fatto dalle mamme inglesi di cento anni fa non è la soluzione del problema: è solo una scorciatoia che ci riporta a una domanda, quella sull’interesse generale, appunto, alla quale dobbiamo dare una risposta tutti insieme. Sono consapevole che, oltre o in alternativa al riferimento all’interesse generale, ci sarebbe la possibilità di utilizzare quello alla solidarietà, esplicitamente indicato dalla nostra Costituzione come «dovere inderogabile» tanto dello Stato che dei cittadini. Il tema, del resto, è centrale nella «narrativa dei buoni sentimenti» che ha accompagnato la marcia trionfale della invenzione del non profit, attribuendo questa qualità anche a chi non ne ave­168

va alcun titolo e dando origine a distinzioni confuse come quella tra organizzazioni self-serving e public-serving. Ed è proprio per questo che ritengo il tema dell’interesse generale di maggiore aiuto per superare il problema al centro di questo libro. Anche se il riferimento alla solidarietà, depurato dalla stucchevole retorica che di solito lo accompagna, permetterebbe, ad esempio, di distinguere tra una organizzazione di volontariato che assiste gli anziani e una che organizza gite turistiche. 5. I vantaggi del distinguere Guardare a ciò che finora è stato considerato un tutt’uno in termini di una molteplicità di realtà differenti può comportare vantaggi operativi che non sono e non possono essere l’oggetto di questo libro, ma che è utile almeno menzionare, sempre a titolo di esercizio. Il primo vantaggio riguarda la possibilità di differenziare e graduare i benefici in relazione al tipo di attività svolta. Ci sono attività che meritano il massimo sostegno possibile, in termini fiscali, di facilitazione delle donazioni e delle sponsorizzazioni, in finanziamenti diretti dello Stato o degli stessi cittadini. Ce ne sono altre che meritano semplicemente di essere lasciate in pace dal punto di vista fiscale e del peso delle operazioni burocratiche. Ce ne sono altre ancora che non meritano nulla di diverso da quello che spetta o viene richiesto alle imprese private; e tutto ciò con molti gradi intermedi. Il secondo vantaggio è che, liberandosi dalla gabbia dell’economicismo e dalla ossessione per la erogazione di servizi nel welfare, a cui al momento si costringono tutte le organizzazioni ex non profit, è possibile anche differenziare i criteri di valutazione circa la prossimità delle loro attività all’interesse generale. Se la focalizzazione non ­169

è solo sulla erogazione dei servizi e solo sul Pil, possono essere prese in considerazione altre misure: ad esempio la dimensione dei beni intangibili prodotti o investiti, oppure i risparmi per la finanza pubblica in termini di sprechi evitati, spese non sostenute, razionalizzazione delle operazioni, risorse umane o tecniche mobilitate. Il terzo vantaggio riguarda i controlli. Se si hanno di fronte non più 300.000 entità ma diversi insiemi di alcune centinaia o migliaia, i controlli e le forme di consulenza preventiva o in corso d’opera in materia fiscale, amministrativa e di management diventano possibili in quanto da differenziare con riguardo al chi, al come, nonché ai criteri e agli strumenti. Non è necessario, in altre parole, designare un’unica entità che sia in grado di sopportare il carico di controllare tutte le organizzazioni, né requisiti e standard uguali per tutti. Certo, il problema del controllo resta estremamente importante, ma distinguere le organizzazioni e differenziare i requisiti in questo caso può fare la differenza. Il quarto vantaggio deriva da una possibile trattazione strategica del tema delle dimensioni, che ho richiamato prima. A seconda delle dimensioni delle organizzazioni, e sempre con riferimento alle specifiche attività svolte, potrebbero essere assunti atteggiamenti differenziati in termini, ad esempio, di progettazione o rendicontazione, ma anche in termini di fiscalità, innescando meccanismi di forfetizzazione o simili; e naturalmente di controlli. Va da sé che nulla di tutto questo è la indicazione di una soluzione. Il suo valore sta piuttosto nel mostrare che guardare in modo differente al magma del non profit può generare strategie e soluzioni operative diverse. È tuttavia, lo ripeto, un esercizio che va fatto insieme, ma che non può essere rinviato. ­170

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Virtù civiche

1. «Chi l’ha detto?» Qualche giorno fa sono stato invitato a prendere la parola in una conferenza sul tema della innovazione per la società. Gli organizzatori che mi hanno contattato per concordare il mio intervento hanno detto subito, credo per rassicurare sui loro intenti: «La nostra è una iniziativa non profit». Essendo ormai, dopo i tre mesi in cui ho scritto questo testo, diventato ipersensibile, mi sono dovuto trattenere dal rovesciare sui miei interlocutori, i quali erano ovviamente in perfetta buona fede, una parte dei temi affrontati in questo libro. Eppure si trattava dell’ennesima prova che il problema esiste. La iniziativa a cui ero stato invitato era buona in sé e in sé di utilità sociale. Il fatto che fosse non profit non aggiungeva nulla al suo evidente valore sociale; anzi, posso dire che ai miei occhi suggeriva semmai un minimo di scetticismo («Io ci vado gratis, ma c’è qualcuno che ci guadagna?»). Si potrebbe considerare questo scetticismo come una piccola malattia professionale connessa alla scrittura di questo libro, testimoniato dal ricorrere di espressioni quali «Chi l’ha detto?» e «Dipende». Credo tuttavia che esso, in questo caso, potrebbe essere piuttosto ­171

una medicina che, unita a un realismo non volgare ma nemmeno ingenuo, ci possa aiutare a cogliere e affrontare un problema che sta tanto nelle rappresentazioni che nel funzionamento delle società contemporanee. Una invenzione molto discutibile sul piano concettuale ha generato un mostro senza più controllo, ha ridotto i cittadini a clienti di altri cittadini, ha dato un valore assoluto ad attività di modesta importanza, ha utilizzato l’impegno, la responsabilità e la generosità di milioni di persone per giustificare la esistenza di forme di imprenditorialità che in molti casi sono davvero «sociali», ma in molti di più, temo, sono tutt’altro che l’annuncio di un nuovo mondo. E, non da ultimo, ha introdotto, almeno nel nostro paese e in Europa, un modello di welfare concorrente con quello esistente, che nessuno ha scelto di adottare e che lì dove è nato ed è praticato ha dato risultati niente affatto incoraggianti. In ogni caso non possiamo più fare finta che il problema non ci sia, continuando a dare per scontato che il non profit sia un fatto naturale che ha di per sé e nel suo insieme un alto valore sociale. Dobbiamo imparare a distinguere e a distribuire in modo selettivo e articolato i nostri sentimenti positivi così come la nostra attenzione critica. «Distinguere», qui, è la parola chiave, la quale connota una importante virtù civica che a proposito di questo tema dobbiamo tutti imparare a utilizzare di più e meglio. Questo libro è essenzialmente un tentativo di esercitare questa virtù ed è stato scritto perché altri, utilizzandolo, possano esercitare tale virtù di più e meglio di come ho saputo fare io qui. In questo libro ho parlato del non profit definendolo «magma» piuttosto che «universo», «settore» o «mondo». La espressione, lo ammetto, è polemica, ma è anche una metafora per connotare una realtà emersa ­172

negli ultimi decenni come effetto di una pressione incontenibile che si è generata nelle società contemporanee. Come tutti i magma che si rispettino, anche questo contiene gli elementi più diversi. Se non vogliamo che il magma ci danneggi anziché portare vantaggi dobbiamo, per l’appunto, distinguere e dividere. Gli inventori del non profit hanno sicuramente avuto il merito di dare un nome – e quindi di portare alla evidenza – questa massa vitale di elementi e di imporne la esistenza all’attenzione del mondo. Di ciò non possiamo che essere loro grati. Tuttavia lo hanno fatto in un modo che oggi, se non allora, si deve considerare approssimativo e arcaico poiché si richiama paradossalmente ai due pilastri che questo stesso magma ha messo in discussione, cioè lo Stato e il mercato. Occorre quindi andare oltre questa definizione deficitaria e i suoi altrettanto deficitari effetti nella realtà; e la via maestra per farlo è, per l’appunto, distinguere. Trovare la soluzione non è facile; ma non cercarla non è una soluzione migliore. 2. Indignato – triste – preoccupato – divertito – soddisfatto Proprio per questo, ritengo che sarebbe sbagliato rea­ gire al contenuto di questo libro nel modo in cui i giornali, nelle loro edizioni on-line, cercano di entrare nello spirito dei social network, invitando i lettori a esprimere i loro sentimenti in relazione agli articoli pubblicati, con un massiccio uso degli emoticon, o «faccette» che dir si voglia, con le quali noi lettori possiamo scegliere il sentimento che più ci interpreta in una gamma che va da «indignato» (di solito molto gettonato) a «soddisfatto». ­173

Il problema, con questa gamma di risposte standardizzate, non è solo che è sempre buona la domanda: «e quindi?», nel senso che a seguito di questo voto sui sentimenti qualcosa dovrebbe pur accadere. Nel nostro caso, è infatti più importante sottolineare che non sono rilevanti i sentimenti che la lettura di questo libro potrebbe suscitare, quanto il fatto che tutti decidiamo di considerare questo come un problema comune, al quale mettere mano sulla base di dati e informazioni attendibili e discutendo il da farsi sulla base di argomenti razionali e quanto più possibile oggettivi. Su questa linea, nel libro ho cercato di evitare ogni facile scandalismo e ogni riferimento granguignolesco, di cui noi italiani siamo molto appassionati, pur senza tacere nessun elemento critico. Il magma del non profit non è uno scandalo, ma insieme a moltissime esperienze positive e benemerite contiene in sé patologie che non vanno nascoste né sottovalutate ma prese sul serio. Il non profit non era fatto di santi prima e non è fatto di banditi adesso. È composto di persone normali, molto diverse tra loro quanto a motivazioni, intenzioni, aspettative e modi di operare, così come lo sono le organizzazioni erroneamente poste sotto questa etichetta, del genere «né-verde-né-giallo». Il problema non è quello di incensare o condannare, ma quello di capire e giudicare e di operare di conseguenza. Capire, in questo caso, significa misurarsi con un insieme di fenomeni complesso e sfuggente, dai contorni non chiari e spesso sovrapposti. E che riflettono a loro modo i grandi mutamenti in corso nelle società contemporanee. Capire, quindi, non è facile; ma proprio per questo è necessario. Per troppo tempo la invenzione del non profit è stata circondata da un alone di sentimenti, prima del tipo «soddisfatto» e ora, sempre di più, del tipo «in­174

dignato», «triste» e «preoccupato». I sentimenti fanno senz’altro bene alla vita, ma non in questo caso. Qui occorre mettere in campo razionalità, dati e informazioni, argomenti fattuali, da cui si possa formare attraverso il dibattito pubblico una valutazione della situazione e un giudizio su cosa c’è di buono e perché, in quale misura e come va sostenuto. È questo, in fin dei conti, a cui ci si riferisce quando si parla di una opinione pubblica democratica, in grado di dare forma alle decisioni politiche che si concretizzano in leggi, consuetudini, provvedimenti amministrativi, comportamenti degli attori. È di questo che abbiamo bisogno oggi, non di faccette. 3. Aspettative Per quanto riguarda, infine, le reazioni che a questo libro potranno venire dal grande (e magmatico) mondo degli addetti ai lavori del non profit, non ho precise aspettative. Spero però che esso venga preso sul serio e fatto oggetto di riflessione e discussione, anche se ciò può mettere in questione posizioni o convinzioni radicate. Non è mai troppo tardi per nessuno, comunque. E ignorare che molti conti non tornano non è un modo di superare il problema, ma solo di scansarlo per ritrovarlo al prossimo angolo. Ciò che invece mi aspetto, o almeno spero, è che quella parte del magma del non profit fatta di cittadini attivi, di protagonisti di esperienze di volontariato, di imprenditori sociali veri (nel senso minimale che ricordano qual è la loro mission e cercano di praticarla sul serio), di professionisti seri e preparati, alzi la testa e rivolga la sua attenzione al problema che questo libro dovrebbe aver reso evidente, e cioè che nel magma del non profit molti usufruiscono in modo non debito dei ­175

significati positivi generati da una – per quanto grande – minoranza, non meritandolo o meritando una considerazione e un trattamento differenti. Questa minoranza si è dimostrata capace, nel corso di molti anni, di interferire positivamente con i comportamenti della pubblica amministrazione, con gli atteggiamenti dei media, con la cultura e le pratiche delle imprese private, con il senso comune, contribuendo a migliorare decisamente la qualità della scena pubblica del mondo, non solo dell’Italia. Questa stessa capacità oggi andrebbe esercitata prendendo come oggetto il magma del non profit: per dare a ciascuno il suo, per sospingere o costringere altri attori a cambiare e per non farsi sequestrare (gratis o quasi) i propri elementi distintivi. Si tratta di una nuova frontiera, se si vuole, misurarsi con la quale è tuttavia indispensabile.

Riferimenti e ringraziamenti

L’oggetto di questo libro – l’universo di organizzazioni e istituzioni classificati come non profit – è anche l’oggetto di una sterminata letteratura. Non essendo uno specialista di questa materia, e avendo scelto di scrivere questo libro proprio dal punto di vista di un osservatore non specialista, non pretendo di conoscerla in modo approfondito né ritengo che ciò sia qui necessario o appropriato. Ciononostante, la parte del mio lavoro di ricerca dedicata a quella porzione del magma del non profit che chiamo cittadinanza attiva o attivismo civico, mi ha dato l’occasione di confrontarmi con diversi dei temi che sono contenuti nel libro. Posso citare al riguardo: il Manuale di cittadinanza attiva (Carocci, 1998), Azione civica (Carocci, 2005), La società civile tra eredità e sfide. Rapporto sull’Italia del Civil Society Index, con Ilaria Vannini (Rubbettino, 2008), Cittadini in Europa. L’attivismo civico e l’esperimento democratico comunitario (Carocci, 2009), Cittadinanza attiva e qualità della democrazia (Carocci, 2013); nonché gli articoli o capitoli Volontariato, advocacy e cittadinanza attiva, in «Impresa Sociale», 78, 2009, pp. 208-223; Attivismo civico, in Le parole chiave della politica italiana, a cura di Marco Almagisti e Daniela Piana, Carocci, 2011, pp. 301-317; Impossibile ma vero, vero ma impossibile: la questione della rappresentanza dei gruppi di interesse civico, in «Meridiana», vol. 77, 2013, pp. 115-144. Come si può facilmente constatare dai materiali utilizzati nel libro, alla questione che qui ho chiamato «invenzione del non profit» presto attenzione da una decina di anni. L’idea di scrivere questo libro, però, è dovuta a Marco Almagisti, che,

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nel dicembre del 2009, mi invitò a tenere una lezione nel suo corso di Scienza politica all’Università di Padova, a cui, prendendo decisamente troppo sul serio una mia battuta, diede il titolo «Contro il non profit: nodi teorici e ambiguità pratiche». Come si può constatare, il titolo è rimasto tale e quale, e anche lo spirito. Sono molto grato a Marco per aver creduto per primo a questo progetto e per avermi, con amicizia ma anche con fermezza, spinto a portarlo avanti. Desidero inoltre ringraziare Gianluca Mori per il suo incoraggiamento e il suo prezioso consiglio su questa impresa editoriale. Ci sono moltissime persone con cui, in tutti questi anni, ho parlato dell’argomento; così tante che sarebbe impossibile ricordarle tutte. Desidero quindi citare, per ringraziarle, quelle con cui ho discusso temi rilevanti del libro mentre lo stavo progettando e scrivendo: Giuliano Amato, Gian Paolo Barbetta, Alessandro Fedeli, Andrea Mancini, Nando Pagnoncelli, Adriano Propersi. Non posso tuttavia non menzionare Ilaria Vannini, con la quale ho lavorato tra il 2004 e il 2006 alla parte sull’Italia del Civil Society Index; una ricerca in occasione della quale un po’ tutti i nodi trattati in questo libro sono emersi, facendoci riflettere (e sudare) a lungo. Assieme a lei, desidero ringraziare i miei colleghi di Fondaca, per la importante parte che il nostro lavoro comune ha avuto nel dare forma alle idee espresse in questo libro. Molte persone meritano un ringraziamento per aver letto il testo nei suoi diversi stadi e stesure. I loro commenti, le loro critiche e i loro consigli sono stati di importanza cruciale per il mio lavoro: Marco Almagisti, Emma Amiconi, Domenico Antonelli, Giuseppe Cotturri, Rocco D’Ambrosio, Marco Frey, Renato Frisanco, Antonio Gaudioso, Anna Lisa Mandorino, Francesca Marta, Claudia Preite Martinez, Monica Ruffa. Con riguardo a tutte le persone menzionate sopra, voglio sottolineare – non nel modo rituale che è usuale in questi casi, ma per davvero – che la responsabilità di quanto contenuto nel libro è esclusivamente mia. Ci tengo a dirlo non solo perché il libro potrebbe contenere errori, imprecisioni od omissioni, che vanno comunque valutati alla luce della identità del libro stesso, volto a esporre una tesi piuttosto che a compiere un’analisi sistematica; ma anche perché non vorrei proprio coinvolgere le persone con cui ho scambiato idee e che mi hanno gentilmente fornito

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materiali, informazioni, opinioni e critiche, nelle inevitabili inimicizie che questo libro genererà, non solo per il suo tono un po’ arrogante, ma per il fatto che mette il dito su diverse piaghe che chiunque avrebbe potuto cogliere. Essi non ne hanno davvero alcuna colpa. Per quello che riguarda me, invece, mi conforto ricordando il detto attribuito al vecchio Aristotele: Amicus Plato, sed magis amica veritas.

Indice

1. Una dichiarazione di intenti

3

1. Genus turpe, p. 3, - 2. Il problema, p. 6, - 3. ­Puzzle ed enigmi, p. 9 - 4. Confessioni, p. 10 - 5. Una responsabilità di tutti, p. 13

2. La invenzione del non profit

16

1. Tutto comincia a Baltimora, p. 16 - 2. Sulla vetta del mondo, p. 22 - 3. Invenzione, non scoperta, p. 23 - 4. Onore al merito, p. 31

3. Dove casca l’asino

33

1. «Non qualcosa», p. 33 - 2. Economicismo, p. 36 - Welfare all’americana, p. 39 - 4. L’ideologia del capitale sociale, p. 41 - 5. Patchwork, p. 43 - 6. Confusioni e sovrapposizioni, p. 45 - 7. Dati abnormi, p. 49

4. L’effetto alone

52

1. Framing, p. 52 - 2. La parte per il tutto (e viceversa), p. 54 - 3. La narrativa dei buoni sentimenti, p. 58 - 4. Dall’effetto alone all’effetto boomerang, p. 67

5. Il caso italiano, ovvero come farsi del male da soli 1. Eccezionalismo, p. 69 - 2. La Babele normativa, p. 72 - 3. Il fisco innanzitutto, p. 72 - 4. Un trapianto

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69

fallito, p. 77 - 5. Malfunzionamenti, p. 81 - 6. Ascesa e caduta dell’autorità, p. 85 - 7. Aumenta la confusione, p. 88 - 8. In controtendenza?, p. 93

6. Conseguenze non volute

98

1. Ritorno alla realtà, p. 98 - 2. Ingiusto ma legale, p. 100 - 3. Concorrenza sleale, p. 105 - 4. Non profit per chi?, p. 109 - 5. Mercatizzazione, p. 114 - 6. Il lato oscuro, p. 123

7. Un Golem sfuggito al controllo

128

1. Buono, ma pur sempre mostro, p. 128 - 2. Otto contro tredicimila, p. 131 - 3. Valutatori da valutare, p. 134 - 4. Il mito dell’accountability, p. 139 - 5. Sulla carta, p. 144

8. Da capo

147

1. E allora?, p. 147 - 2. Il non profit non esiste, p. 150 - 3. In che mondo viviamo, p. 156 - 4. Che c’è di bene, p. 161 - 5. I vantaggi del distinguere, p. 169

9. Virtù civiche

171

1. «Chi l’ha detto?», p. 171 - 2. Indignato – triste – preoccupato – divertito – soddisfatto, p. 173 3. Aspettative, p. 175



Riferimenti e ringraziamenti

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