Consumo, dunque sono

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Economica Laterza 523

Zygmunt Bauman

Consumo, dunque sono Traduzione di Marco Cupellaro

Editori Laterza

Titolo dell’edizione originale Consuming Life Polity Press, Cambridge 2007 © 2007, Zygmunt Bauman Il diritto di Zygmunt Bauman a essere riconosciuto come autore di questa opera viene affermato in accordo con il U.K. Copyright, Designs and Patents Act 1988 La presente traduzione viene pubblicata secondo gli accordi presi con Polity Press Ltd, Cambridge Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2010 Terza edizione 2011 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2008 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9227-8

ad Ann Bone, magnifico editor

Indice

Introduzione. Ovvero, il segreto meglio custodito della società dei consumi

3

1. Consumismo e consumo

33

2. Una società di consumatori

66

3. La cultura consumistica

103

4. Vittime collaterali del consumismo

146

Note

189

Indice dei nomi e delle cose notevoli

197

Consumo, dunque sono

Introduzione

Ovvero, il segreto meglio custodito della società dei consumi

[...] non v’è peggior spossessamento, peggior privazione, forse, di quella dei vinti nella lotta simbolica per il riconoscimento, per l’accesso a un essere sociale socialmente riconosciuto, cioè, in una parola, all’umanità. Pierre Bourdieu Meditazioni pascaliane1

Consideriamo tre esempi, scelti a caso, del rapido cambiamento delle abitudini nella nostra società sempre più «cablata» o, meglio, sempre più wireless. Caso 1 Il 2 marzo 2006 il «Guardian» ha annunciato che «in questi ultimi dodici mesi il social networking non è più una grande novità del futuro, ma è già ora la grande novità»2. Nello stesso periodo le visite al sito web MySpace, che un anno prima era il leader indiscusso nel medium appena inventato del social networking, sono aumentate di sei volte, mentre il sito rivale, Spaces.MSN, ha visto crescere gli accessi di ben undici volte e le visite a bebo.com si sono moltiplicate addirittura di 61 volte. 3

Davvero una crescita impressionante – anche se il sorprendente successo di Bebo, l’ultimo arrivato di internet nel momento cui si riferiscono questi dati, potrebbe ancora rivelarsi un fuoco di paglia: infatti, come avverte un esperto delle mode su internet, «fra un anno almeno quattro siti sui dieci oggi più visitati non ci saranno più». «Il lancio di un nuovo sito di social networking», spiega, è «come l’apertura di un nuovo locale nei quartieri alti»: attira un sacco di gente per il solo fatto di essere il più recente – nuovo di zecca, oppure rimodernato e riproposto da poco – «e ben presto si dovrà far da parte, sicuro come il fatto che dopo una sbornia ci si sente male», e perderà la sua forza di attrazione a favore di quello che verrà subito dopo, in un’incessante rincorsa a ciò che è «più fico», all’«ultimo grido», ai posti dove «si deve far vedere chiunque sia qualcuno». Non appena prendono piede in una certa scuola o in un’altra area del mondo fisico o elettronico, i siti di social networking si diffondono alla stessa velocità di una «malattia altamente contagiosa». In un attimo smettono di essere una semplice opzione tra le tante per trasformarsi nell’indirizzo standard per una marea montante di ragazzi e ragazze. Evidentemente, gli inventori e i promotori del networking elettronico hanno toccato una corda sensibile, o forse un nervo teso e scoperto che da tempo attendeva lo stimolo giusto. Essi possono a buon diritto vantarsi di essere andati incontro a un bisogno reale, diffuso e urgente. Quale sarebbe? «Al centro del social networking c’è uno scambio di informazioni personali». Gli utenti sono ben lieti di «rivelare i più intimi particolari della propria vita personale», «inviare informazioni precise» e «condividere fotografie». Si stima che il 61 per cento degli adolescenti inglesi tra i tredici e i diciassette anni «abbia un proprio profilo personale in un sito di networking» che consente loro di «socializzare online»3. In Gran Bretagna, dove la diffusione di mezzi elettronici all’avanguardia è parecchi cyber-anni indietro rispetto all’Estremo Oriente, gli utenti possono ancora avere fiducia 4

nel social networking, ritenendo che sia una manifestazione della loro libertà di scelta, e possono persino credere che sia un mezzo di ribellione e di autoaffermazione giovanile (supposizione resa tanto più credibile dagli attacchi di panico che il loro slancio di auto-esposizione – indotto dal web e rivolto verso il web – diffonde quotidianamente o quasi tra insegnanti e genitori ossessionati dalla sicurezza, e dalle nervose reazioni dei presidi che bandiscono Bebo e i suoi simili dai server delle scuole). Ma là dove, come nella Corea del Sud, la maggior parte della vita sociale avviene già attraverso la mediazione dell’elettronica o, meglio ancora, dove la vita sociale si è già trasformata in vita elettronica, in cyber-vita, e dove si manifesta perlopiù in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare, e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa, i giovani sanno chiaramente di non avere nemmeno l’ombra di una scelta: nel loro paese vivere la vita sociale a livello elettronico non è più una scelta, ma una necessità, un «prendere o lasciare». La «morte sociale» attende i pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, il leader del cybermercato sudcoreano della cultura del «fai-vedere-e-racconta». Sarebbe tuttavia un grave errore vedere nella spinta a mostrare in pubblico il proprio «io interiore» e nella propensione ad assecondarla le manifestazioni di un’unica spinta/dipendenza degli adolescenti, che per loro natura scalpitano per metter piede nella «rete» (parola, questa, che sta rapidamente soppiantando il termine «società» sia nel discorso delle scienze sociali che nel linguaggio comune) e restarvi, pur non sapendo ancora bene come farlo nel modo migliore. La nuova tendenza alla confessione pubblica non si può spiegare (soltanto) con fattori «specificamente legati all’età». Ecco come Eugène Enriquez ha sintetizzato qualche anno fa il messaggio sempre più chiaro proveniente da ogni settore del mondo liquido-moderno dei consumatori: Se si considera che ciò che prima era invisibile – la parte che ognuno ha nella vita interiore, intima, di tutti – si chiede ora che 5

venga esibito sul palcoscenico pubblico (sugli schermi televisivi, in primo luogo, ma anche sulla scena letteraria), si comprenderà che chi ha a cuore la propria invisibilità è condannato a essere rifiutato, emarginato o sospettato di aver commesso un crimine. All’ordine del giorno c’è la nudità fisica, sociale e psichica4.

Gli adolescenti muniti di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti che si addestrano e vengono addestrati all’arte di vivere in una società confessionale: una società che si distingue per aver cancellato la linea che separava il privato dal pubblico e trasformato in virtù e in obbligo l’esibizione pubblica del privato, spazzando via dalla comunicazione pubblica tutto ciò che non si possa ridurre a confidenza privata e chiunque rifiuti di confidarsi. Come ha ammesso in un’intervista al «Guardian», nell’aprile 2006, Jim Gamble, capo di un’agenzia governativa di controllo, «in essa c’è tutto ciò che si vede nel cortile di una scuola: con l’unica differenza che in questo caso non ci sono insegnanti, poliziotti o moderatori che sorveglino ciò che sta accadendo». Caso 2 Lo stesso 2 marzo 2006, in un’altra pagina del «Guardian» senza alcun legame con la precedente e curata da un altro redattore, il lettore ha appreso che «i sistemi informatici vengono usati per tenerti a bada meglio, in funzione del valore che hai per l’azienda che stai contattando»5. L’informatica consente di registrare il numero telefonico di provenienza delle chiamate, in modo da assegnar loro un valore da uno, che indica i clienti di primo livello, quelli cui si risponde appena chiamano e che vengono subito passati a un funzionario di vendita esperto, fino a tre, ossia quei clienti che finiscono in fondo alla fila e, quando finalmente ottengono una risposta, parlano con un venditore di basso livello (i «pesci piccoli», come sono stati sommariamente etichettati nel gergo aziendale). 6

Anche nel caso 2, come nel precedente, è difficile addossare alla tecnologia la colpa di questa nuova prassi. Quel nuovo e sofisticato software viene in aiuto di manager che hanno già un bisogno disperato di classificare l’esercito crescente di chi telefona, e agevola prassi di separazione ed esclusione che già in precedenza si applicavano – sia pure con strumenti primitivi di tipo «fai da te», casalinghi o artigianali, più dispendiosi in termini di tempo e chiaramente meno efficaci. Come ha sottolineato il portavoce di una delle aziende che vendono sistemi di questo tipo e ne assicurano la manutenzione, «la tecnologia in realtà si limita a intervenire su processi già in essere, rendendoli più efficienti»: ossia istantanei e automatici, risparmiando ai dipendenti dell’azienda il laborioso compito di collazionare e studiare i dati, formulare giudizi e prendere decisioni ogni volta che arriva una chiamata e infine assumersi la responsabilità delle relative conseguenze. Ciò che costoro, in mancanza dell’apposito congegno tecnico, dovrebbero valutare in prima persona, spremendosi le meningi e sprecando tempo prezioso pagato dall’azienda, è la potenziale redditività, dal punto di vista di quest’ultima, di chi sta chiamando: il contante o il credito di cui dispone e la voglia che ha di separarsene. «Le aziende hanno bisogno di scartare i clienti di minor valore», spiega un altro funzionario. In altri termini hanno bisogno di una sorta di «sorveglianza negativa», l’opposto della sorveglianza nello stile del Grande Fratello orwelliano o del Panopticon, di un meccanismo cioè che funga da filtro con il compito primario di allontanare gli indesiderabili e trattenere chi va bene: l’esito definitivo di un lavoro di pulizia ben fatto è l’assegnazione di nuovi ruoli. Le aziende hanno bisogno di una modalità per alimentare la banca dati con il genere di informazioni utili innanzi tutto e specialmente a escludere i «consumatori difettosi», le erbacce del giardino dei consumi, gente a corto di denaro, di carte di credito e/o di entusiasmo nello shopping, e comunque immuni alle lusinghe del marketing. Il risultato di questa selezione negativa è che soltanto ai giocatori brillanti e appas7

sionati sarà consentito di continuare a giocare al gioco consumistico. Caso 3 Pochi giorni dopo un altro giornalista del «Guardian», in un’altra sezione del quotidiano, ha scritto che Charles Clarke, dal 2004 al 2006 ministro degli Interni britannico, ha annunciato l’introduzione di un nuovo sistema d’immigrazione «a punti», al fine di «attrarre i più brillanti e i migliori»6 – e, naturalmente, di respingere e tenere alla larga tutti gli altri, sebbene questo corollario della dichiarazione fosse difficilmente individuabile nella versione in forma di comunicato stampa, semplicemente omessa o confinata nelle postille. Chi si intende attrarre con il nuovo sistema? Chi porta con sé più denaro da investire e ha maggiori capacità di guadagno. Il sistema «ci consentirà di ottenere», ha dichiarato il ministro, «che venga qui solo chi ha le capacità di cui il Regno Unito ha bisogno, e impedirà a chi ne è privo di fare domanda». Come funzionerà questo sistema? Per fare un esempio, Kay, una giovane neozelandese con tanto di master ma che svolge un lavoro mal pagato, non raggiungerebbe i 75 punti che le darebbero diritto a fare domanda d’immigrazione. Dovrebbe in primo luogo ottenere da un’azienda britannica un’offerta di lavoro, che varrebbe a suo favore come prova del fatto che le sue capacità sono quelle «di cui il Regno Unito ha bisogno». Sicuramente Charles Clarke non si sarà sentito originale per il fatto di applicare alla selezione di esseri umani la regola di mercato che dice di scegliere il meglio tra i prodotti in vendita nei negozi. Come sottolineava Nicolas Sarkozy all’epoca in cui era l’omologo francese di Clarke e un serio pretendente al ruolo di capo dello Stato, «l’immigrazione selettiva viene praticata da quasi tutte le democrazie del mondo»; Sarkozy perciò auspicava per la Francia la possibilità di selezionare gli immigranti in base alle proprie necessità7. 8

I tre casi di cui sopra sono stati presentati in sezioni distinte del quotidiano, dedicate ad ambiti di vita distinti, ognuno basato su un proprio corpus di regole sotto la supervisione e la gestione di agenzie indipendenti l’una dall’altra. Questi casi sono apparentemente molto dissimili e riguardano persone di provenienza, età e interessi assai diversi tra loro – persone che affrontano sfide molto specifiche e lottano per risolvere problemi specifici. Esiste una qualche ragione per accostare tra loro questi casi raggruppandoli in un’unica categoria? La risposta è sì: una ragione per collegarli esiste, e si basa su ottimi argomenti. Le ragazze e i ragazzi che con avidità ed entusiasmo sfoggiano le proprie caratteristiche sperando di attirare l’attenzione e magari anche di ottenere il riconoscimento e l’approvazione necessari per continuare a partecipare al gioco della socializzazione; i clienti potenziali che solo accrescendo la propria spesa e i propri limiti di credito possono conquistarsi un servizio migliore; gli aspiranti immigrati che si danno da fare a raccogliere e presentare note di merito per dimostrare che i loro servizi sono richiesti, sperando che in tal modo la loro domanda venga presa in considerazione: tutte e tre queste categorie di persone, apparentemente così diverse, sono lusingate, incitate o costrette a pubblicizzare una merce che sia attraente e desiderabile, a farlo con tutte le forze e a usare tutti i mezzi di cui dispongono per accrescere il valore di mercato di ciò che vendono. E le merci che sono sollecitati a mettere sul mercato, pubblicizzare e vendere sono se stessi. Essi sono, al tempo stesso, promotori di un prodotto e il prodotto che promuovono. Sono contemporaneamente la mercanzia e il suo venditore, l’articolo e il commesso viaggiatore che lo propone (e in tale esperienza si riconoscerà anche qualsiasi accademico che aspiri a una cattedra o a dei fondi di ricerca). Tutti costoro, quale che sia la fascia in cui vengono inseriti dai rilevatori di statistiche, abitano nello stesso spazio sociale, noto come mercato. Indipendentemente dalla voce sotto cui le loro preoccupazioni vengono clas9

sificate da archivisti ministeriali o da autori di inchieste giornalistiche, l’attività in cui sono impegnati (per scelta, per necessità o, più spesso, per entrambe) è il marketing. Il test che devono superare per accedere al premio sociale cui aspirano richiede che si ridefiniscano come merci, vale a dire come prodotti capaci di catturare l’attenzione e di attrarre domanda e clienti. Siegfried Kracauer ha dato prova di una straordinaria capacità di scorgere i lineamenti a malapena visibili, o ancora indistinti, di tendenze precorritrici del futuro, confusi in una massa informe di mode e manie passeggere. Già verso la fine degli anni Venti del secolo appena trascorso, quando l’imminente trasformazione della società dei produttori in una società di consumatori era ancora allo stadio embrionale o tuttalpiù appena agli inizi, e dunque non era stata ancora colta da osservatori meno sensibili o lungimiranti, Kracauer notava: La corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. Come devo fare per diventare bello? È il titolo di un opuscolo che è stato recentemente lanciato, e che secondo la pubblicità apparsa sui giornali insegna i mezzi «con cui apparire giovani e belli subito e a lungo»8.

Le nuove abitudini rilevate da Kracauer negli anni Venti come curiosa caratteristica berlinese si sono propagate come un incendio nel bosco fino a diventare una routine quotidiana (o almeno un sogno) in tutto il pianeta. Quasi ottant’anni dopo Kracauer, Germaine Greer osservava che «persino negli angoli più remoti della Cina nordoccidentale le donne 10

hanno messo da parte l’abbigliamento tradizionale e indossano reggiseni imbottiti e gonne seducenti, si arricciano e si tingono i capelli e mettono da parte dei soldi per comprare prodotti di bellezza. La chiamano liberalizzazione»9. Mezzo secolo dopo le osservazioni di Siegfried Kracauer sulle ultime passioni dei berlinesi, un altro importante pensatore tedesco, Jürgen Habermas, negli anni in cui la società dei produttori si avvicinava al tramonto (dunque avvalendosi dell’indubbio vantaggio del senno di poi), presentava la «mercificazione del capitale e del lavoro» come la funzione principale, anzi la stessa ragion d’essere, dello Stato capitalistico. Egli sottolineava che, se la riproduzione della società capitalistica avviene attraverso l’incontro, riprodotto all’infinito, tra il capitale (nel ruolo di acquirente) e il lavoro (nel ruolo di merce), lo Stato capitalistico ha il compito di assicurare che tale incontro avvenga regolarmente e raggiunga il suo scopo, cioè le operazioni di compravendita. Affinché questo risultato si produca ogni volta, o almeno in un numero accettabile di casi, il capitale deve essere in grado di pagare il prezzo corrente della merce, deve avere la volontà di pagarlo e deve essere incentivato ad agire in tal senso da una polizza assicurativa avallata dallo Stato contro i rischi derivanti dalla nota imprevedibilità dei mercati. Il lavoro, d’altra parte, deve presentarsi al meglio per risultare attraente agli occhi dei potenziali acquirenti, incontrare la loro approvazione e far sì che essi comprino la merce esposta. Non solo incoraggiare i capitalisti a spendere denaro per acquistare lavoro, ma anche riuscire a rendere il lavoro una merce attraente per i capitalisti sarebbe stato molto difficile (per non dire impossibile) senza la collaborazione attiva dello Stato. Chi era in cerca di lavoro doveva essere adeguatamente nutrito e in salute, abituato alla disciplina e in possesso delle abilità richieste dalle procedure del mestiere che intendeva svolgere. Oggi la maggioranza degli Stati-nazione che cercano di adempiere al compito della mercificazione langue per un de11

ficit di potere e di risorse: deficit dovuto al fatto che il capitale autoctono è esposto a una concorrenza sempre più accanita a causa della globalizzazione dei mercati del capitale, del lavoro e dei beni e della diffusione planetaria delle forme moderne di produzione e scambio, nonché ai costi crescenti del welfare state, strumento importantissimo, e forse indispensabile, della mercificazione del lavoro. Ciò che è accaduto è che, nel passaggio da una società di produttori a una società di consumatori, i compiti previsti dalla mercificazione e rimercificazione di capitale e lavoro hanno attraversato dei processi simultanei di deregolamentazione e privatizzazione costanti, totali e apparentemente irreversibili, anche se tuttora in corso. La velocità e il ritmo sempre più rapido di questi processi sono stati, e sono, tutt’altro che uniformi. Nella maggior parte dei paesi (ma non in tutti), essi appaiono finora molto più radicali per quanto riguarda il lavoro che non il capitale; le nuove iniziative di quest’ultimo, infatti, vengono quasi sempre innescate, su scala crescente anziché decrescente, dalle casse dei governi. Inoltre, la capacità e la volontà del capitale di acquistare lavoro continuano a essere regolarmente sostenute dallo Stato, che fa di tutto per tenere a freno il «costo del lavoro» smantellando i meccanismi di negoziazione collettiva e di tutela del posto di lavoro e imponendo restrizioni legali alle azioni difensive dei sindacati – sebbene spesso lo Stato stesso soccorra la solvibilità delle aziende tassando le importazioni, offrendo sgravi fiscali alle esportazioni e sussidiando i dividendi degli azionisti attraverso commesse governative pagate con fondi pubblici. Per puntellare, ad esempio, la promessa, disattesa dalla Casa Bianca, di tenere basso il prezzo al dettaglio della benzina senza mettere a repentaglio i profitti degli azionisti, l’amministrazione Bush nel febbraio del 2006 ha confermato che il governo avrebbe sospeso per cinque anni la riscossione di royalties per un va12

lore totale di sette miliardi di dollari (somma che secondo qualche stima sarebbe quattro volte più elevata), al fine di incoraggiare l’industria petrolifera americana a cercare petrolio nelle acque di proprietà pubblica del Golfo del Messico («È come dare sussidi a un pesce affinché nuoti», ha commentato un membro della Camera. «È inaccettabile che queste aziende vengano sostenute dal governo quando i prezzi del petrolio e del gas sono così alti»)10. Il compito di rimercificare il lavoro è stato finora il più condizionato dai processi paralleli della deregolamentazione e della privatizzazione. Tale compito viene sostanzialmente sottratto alla responsabilità diretta del governo, «subappaltando» in tutto o in parte ad aziende private il quadro istituzionale in cui avviene la fornitura di servizi che svolgono un ruolo cruciale nell’assicurare la vendibilità del lavoro (come l’istruzione e la casa, l’assistenza agli anziani e un numero crescente di servizi sanitari). Così il compito generale di favorire la vendibilità del lavoro nella sua globalità viene affidato alla cura dei singoli (ad esempio accollando il finanziamento della formazione e dell’acquisizione di competenze professionali alle risorse private e individuali); la politica stimola, e la pubblicità blandisce, gli individui affinché ricorrano all’ingegno e all’inventiva personali per restare sul mercato, in modo da accrescere il proprio valore commerciale o evitare che diminuisca, e da guadagnarsi l’apprezzamento dei potenziali clienti. Arlie Russell Hochschild ha passato diversi anni a osservare da vicino (quasi dall’interno) i cambiamenti dell’occupazione nei settori più avanzati dell’economia americana. Ha così potuto cogliere e documentare tendenze molto simili a quelle riscontrate e descritte con precisione per l’Europa da Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che le hanno definite il «nuovo spirito del capitalismo». La principale scoperta delle loro ricerche è stata la spiccata preferenza da parte degli imprenditori per lavoratori privi di vincoli, autonomi, flessibili, «generalisti» e, in ultima analisi, «usa e getta» 13

(più simili a factotum, anziché specializzati e preparati in modo mirato). Come scrive Hochschild, nella Silicon Valley, cuore della rivoluzione informatica in America, nel 1997 iniziò silenziosamente a diffondersi un nuovo termine: zero drag – resistenza zero. Questa espressione, che originariamente indicava il movimento privo di attrito di un oggetto come un pattino o una bicicletta, è stata poi usata a proposito dei lavoratori che cambiano facilmente attività, indipendentemente dagli incentivi economici. Più recentemente tale termine ha assunto il significato di «svincolato», o «senza obblighi». Un’azienda dot.com potrebbe elogiare un lavoratore dicendo che è a «resistenza zero», per far capire che egli è disponibile ad assumere compiti fuori dell’ordinario, a rispondere a richieste urgenti o a trasferirsi in qualsiasi momento. Secondo Po Bronson, un ricercatore che ha studiato la cultura della Silicon Valley, «la resistenza zero è il massimo. Nei colloqui di assunzione per qualche tempo accadeva che si chiedesse scherzosamente a un candidato quale fosse il suo coefficiente di resistenza»11.

Abitare troppo distanti dalla Silicon Valley e/o avere il peso di una moglie e/o di un figlio alza il «coefficiente di resistenza» e riduce le possibilità di lavorare. Le aziende desiderano che i loro futuri dipendenti sappiano, più che camminare, nuotare, o meglio ancora fare surf. Il lavoratore ideale non ha vincoli, impegni o legami affettivi ed evita di crearsene; è pronto ad assolvere qualsiasi nuovo compito ed è preparato a riadattarsi e a rifocalizzare le proprie inclinazioni, accettando nuove priorità e abbandonando in quattro e quattr’otto quelle fino allora valide; è abituato a un ambiente in cui «fare l’abitudine» – a un lavoro, a una capacità o a un modo di fare le cose – è malvisto e ritenuto imprudente di per sé; e, cosa non di poco conto, nel momento in cui non serve più deve uscire dall’azienda senza lamentarsi né aprire contenziosi; infine, considera le prospettive di lungo termine, i percorsi predeterminati di carriera e ogni forma di stabilità come qualcosa di più sgradevole e temibile che non la loro assenza. 14

L’arte della «rimercificazione» del lavoro, nella sua forma più recente e aggiornata, è estremamente difficile da apprendere per la burocrazia di governo, impacciata, notoriamente pigra, tradizionalista, resistente al cambiamento e affezionata alle procedure; e questa stessa burocrazia è assai poco adatta a coltivarla, insegnarla e inculcarla. Pare più opportuno affidare questo compito ai mercati, che notoriamente prosperano proprio grazie a tale arte, e sono molto abili nell’educarvi i propri clienti: e così puntualmente sta avvenendo. Il trasferimento al mercato del compito di rimercificare il lavoro è il significato più profondo della conversione dello Stato al culto della deregolamentazione e della privatizzazione. Il mercato del lavoro è soltanto uno dei tanti mercati di beni di consumo in cui è inscritta la vita individuale, e il prezzo del lavoro è soltanto uno dei tanti prezzi di mercato da seguire, osservare e calcolare nell’ambito delle tante attività dell’esistenza individuale. Ma in tutti i mercati valgono le stesse regole vincolanti. In primo luogo, la destinazione ultima di tutte le merci in vendita è il consumo da parte di chi le acquista. In secondo luogo, gli acquirenti desiderano procurarsi merci da consumare se, e soltanto se, il loro consumo promette di soddisfarne i desideri. In terzo luogo, il prezzo che il cliente potenziale in cerca di soddisfazione è disposto a pagare per le merci offerte dipende dalla credibilità della promessa e dall’intensità dei desideri. L’incontro tra i consumatori potenziali e i potenziali oggetti di consumo tende a diventare il principale costituente della peculiare rete di relazioni interumane sinteticamente indicata come «società dei consumi». O, piuttosto, il contesto esistenziale che ha finito per diventare noto come «società dei consumi» si distingue per il fatto che ridefinisce le relazioni interumane a modello e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo. Questo fatto ragguarde15

vole è il risultato dell’annessione e della colonizzazione, da parte dei mercati dei consumi, dello spazio tra gli individui: spazio in cui si intrecciano i legami tra gli esseri umani e si costruiscono gli steccati che li separano. Con una grossolana distorsione e perversione dell’essenza autentica della rivoluzione consumistica, la società dei consumi è perlopiù rappresentata come incentrata sulle relazioni tra il consumatore, saldamente collocato nello status del soggetto cartesiano, e la merce, nel ruolo dell’oggetto di Cartesio, anche se in tali rappresentazioni il centro di gravità dell’incontro soggetto-oggetto si trasferisce in modo decisivo dall’area dell’osservazione alla sfera dell’attività. In questa il soggetto cartesiano pensante (che percepisce, esamina, confronta, stima, valuta nella sua rilevanza, rende intelligibile) si trova di fronte (proprio come avveniva durante l’osservazione) a una molteplicità di oggetti nello spazio (che egli percepisce, esamina, confronta, stima, valuta nella loro rilevanza, comprende); ma ora deve anche affrontare il compito di maneggiarli: spostarli, farli propri, usarli, scartarli. In effetti, quando si descrive l’attività del consumatore, il grado di sovranità del soggetto è continuamente messo in questione e in dubbio. Come ha giustamente sottolineato Don Slater, l’immagine dei consumatori disegnata nelle descrizioni colte della vita di consumo oscilla tra i due estremi delle vittime e degli eroi della modernità. Da un lato, i consumatori sono rappresentati come soggetti agenti tutt’altro che sovrani, illusi da promesse fraudolente, adescati, sedotti, sospinti e manovrati da pressioni palesi o surrettizie, ma comunque estranee. Dall’altro, al consumatore si attribuiscono tutte le virtù per cui la modernità ama essere elogiata – razionalità, forte senso di autonomia, capacità di autodefinirsi e di autoaffermarsi in modo anche rude. Simili ritratti rappresentano un vettore dell’«eroismo della volontà e dell’intelligenza, che saprebbero trasformare la natura e la società piegandole entrambe al dominio dei desideri individuali scelti liberamente e privatamente»12. 16

Il punto, tuttavia, è che in entrambe le versioni i consumatori – sia che vengano presentati come vittime delle esagerazioni truffaldine della pubblicità, sia che appaiano come gli eroici professionisti della spinta autopropulsiva alla padronanza – vengono avulsi e messi al di fuori dell’universo dei potenziali oggetti di consumo. Nella maggior parte delle descrizioni il mondo formato e sostenuto dalla società dei consumi rimane nettamente diviso tra le cose da scegliere e coloro che le scelgono; tra le merci e i loro consumatori; tra cose da consumare e persone che le consumano. In realtà, la società dei consumi è ciò che è proprio perché non è fatta in quel modo: ciò che la distingue da altri tipi di società è proprio il fatto che le divisioni sopra indicate si confondono e, in ultima analisi, si annullano. Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, e nessuno può tenere al sicuro la propria soggettività senza riportare in vita, risuscitare e reintegrare costantemente le capacità che vengono attribuite e richieste a una merce vendibile. La «soggettività» del «soggetto», e gran parte di ciò che tale soggettività consente al soggetto di ottenere, è imperniata su uno sforzo senza fine del soggetto stesso per essere e restare una merce vendibile. La caratteristica più spiccata della società dei consumi, per quanto attentamente custodita e totalmente occultata, è la trasformazione dei consumatori in merce; o, meglio ancora, la loro dissoluzione nel mare delle merci in cui – per citare quella che è forse la più citata delle affermazioni di Georg Simmel tanto adatte a essere citate – «il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti», appaiono «di un colore uniforme, grigio», in cui «le cose galleggiano con lo stesso peso specifico nell’inarrestabile corrente del denaro»13. Il compito dei consumatori, pertanto, e la principale motivazione che li spinge a impegnarsi in una incessante attività di consumo, è quello di elevarsi al di sopra di quella grigia e piatta invisibilità e inconsistenza, facendo in modo di risalta17

re nella massa di oggetti indistinguibili che «galleggiano con lo stesso peso specifico», e catturando così lo sguardo dei consumatori (più esigenti!). Il primo album registrato da Corinne Bailey Rae, cantante nata a Leeds nel 1979 e ingaggiata da un talent scout della Emi nel 2006, in soli quattro mesi ha conquistato il disco di platino. Evento sorprendente, che accade una volta su un milione, o su centinaia di milioni di volte, quello di assurgere a star dopo essere apparsa brevemente in una band indipendente e aver lavorato come guardarobiera in un locale di musica soul: probabilità non superiore, e forse persino inferiore, a quella di vincere la lotteria (ma si noti che ogni settimana si spendono milioni per acquistarne i biglietti). «La mia mamma insegna in una scuola elementare», ha dichiarato Corinne in una intervista, «e quando chiede a un bambino che cosa vuole fare da grande, le risponde: ‘Diventare famoso’. Allora lei chiede perché, e lui risponde ‘Boh, voglio solo diventare famoso’»14. In quei sogni «essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere sbandierati sulla prima pagina di migliaia di riviste e su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, di desiderio da parte di tante persone... «La vita non è fatta solo di media», osserva Germaine Greer, «ma quasi [...]. Nell’età dell’informazione essere invisibili equivale a morire». La costante, inarrestabile rimercificazione è per la merce, e dunque per il consumatore, ciò che il metabolismo è per gli organismi viventi. Sotto i sogni di fama si affaccia un altro sogno: il sogno di non dissolversi e scomparire nella massa grigia delle merci, senza volto né sapore, il sogno di trasformarsi in una merce meritevole di attenzione, notata e ardentemente desiderata, in una merce di cui si parli, che spicchi nella massa delle altre merci, che non possa essere ignorata, derisa, rifiutata. In una società di consumatori trasformarsi in merce desiderabile e desiderata è la materia di cui sono fatti i sogni, e le fiabe. 18

Scrivendo dall’interno della nascente società dei produttori, Karl Marx attribuiva agli economisti del suo tempo l’errore che chiamava «feticismo della merce»: la tendenza, cioè, a ignorare o nascondere l’interazione tra gli uomini, dettata da volontà o necessità, dietro il movimento delle merci; come se le merci, da sole, stabilissero relazioni reciproche senza la mediazione umana. La scoperta dell’acquisto e della vendita di forza-lavoro in quanto essenza delle «relazioni industriali» nascoste dietro il fenomeno della «circolazione delle merci», sosteneva Marx, era tanto scioccante quanto rivoluzionaria: un primo passo verso la riaffermazione dell’essenza umana nella realtà sempre più disumanizzata dello sfruttamento capitalistico. Qualche tempo dopo Karl Polanyi avrebbe aperto un altro squarcio nel velo dell’illusione creata dal feticismo delle merci affermando che sì, la capacità lavorativa veniva venduta e comperata come se fosse una merce simile a tutte le altre, ma che, in realtà, no, non era né poteva essere una merce «come» tutte le altre. L’impressione che il lavoro fosse una merce pura e semplice poteva essere soltanto una parodia grossolana del vero stato delle cose, in quanto la «capacità lavorativa» non può essere comperata e venduta separatamente dai suoi portatori. Chi l’acquista non può «portarsela a casa», a differenza delle altre merci. Ciò che ha acquistato non diventa sua proprietà esclusiva e incondizionata, ed egli non è libero di uti et abuti, di usarne e abusarne a piacimento come quando acquista una qualsiasi altra cosa. La transazione in apparenza «puramente commerciale» (si ricordi la rimostranza di Thomas Carlyle, all’inizio dell’Ottocento, per il fatto che le relazioni umane, così ricche di sfaccettature, fossero ridotte a un mero «nesso monetario») stringe inevitabilmente i portatori e gli acquirenti di forza-lavoro in un vincolo reciproco e in una stretta inter-dipendenza. Da ogni transazione commerciale che avviene sul mercato del lavoro nasce una relazione umana; ogni contratto di lavoro è l’ennesima confutazione del feticismo delle merci, e dopo ogni transa19

zione emergono ben presto le prove della sua falsità e dell’inganno e autoinganno che ne conseguono. Se il destino del feticismo delle merci era quello di celare alla vista la sostanza umana, troppo umana della società dei produttori, tocca ora al feticismo della soggettività celare alla vista la realtà mercificata, troppo mercificata della società dei consumatori. La «soggettività» della società dei consumatori, proprio come la «merce» nella società dei produttori, è un fatticcio, per usare il concetto ibrido coniato felicemente da Bruno Latour: un prodotto interamente umano elevato al rango di autorità superumana dimenticando, o riducendo all’irrilevanza, le sue origini umane, troppo umane, unitamente al complesso delle azioni umane che hanno portato alla sua comparsa e ne sono state conditio sine qua non. Per la merce nella società dei produttori era l’atto di comperare e vendere la capacità lavorativa dei produttori, conferendole valore di mercato, a rendere merce il prodotto del lavoro – in un modo invisibile (o nascosto) nell’apparenza di un’interazione autonoma tra merci. Nel caso della soggettività nella società dei consumatori, è ora la volta dell’acquisto e della vendita dei segni dispiegati nella costruzione dell’identità (quell’espressione presunta pubblica dell’«io» che è in effetti il «simulacro» di Jean Baudrillard, che sostituisce la «rappresentazione» a ciò che essa si ritiene rappresenti) a essere cancellati dalle sembianze del prodotto finale. La «soggettività» dei consumatori è costituita da scelte di acquisto – scelte compiute dal soggetto e dai suoi acquirenti potenziali – e la sua descrizione assume la forma della lista della spesa. Quella che si ritiene sia la materializzazione della verità interiore dell’io è in effetti una idealizzazione delle tracce materiali – reificate – delle scelte del consumatore. Qualche tempo fa, da un’indagine realizzata da una delle sempre più numerose agenzie di incontri su internet (par ship.co.uk), è emerso che nel 2005 due terzi dei singles che utilizzano questo genere di servizi (circa 3,6 milioni di perso20

ne) si sono rivolti alla rete. Nello stesso anno il giro d’affari degli «incontri via internet» ha raggiunto la cifra di dodici milioni di sterline, con previsione di raggiungere 47 milioni di sterline nel 200815. Nei sei mesi immediatamente precedenti l’indagine la proporzione di singles che prevedevano di incontrare il partner giusto in internet è cresciuta dal 35 al 50 per cento, e la tendenza è ancora in crescita. Commentando questi dati, in un saggio pubblicato sulla rivista web «spiked» si osserva che la tendenza riflette un mutamento di fondo nel modo in cui si è spinti a pensare alle proprie relazioni e a organizzare la propria vita: le affettuosità si scambiano in pubblico e sono regolate da norme contrattuali come quando si acquista un’auto, una casa, una vacanza16.

In linea con l’idea espressa in un altro intervento online su «spiked»17, l’autore sostiene che i potenziali utenti sono indotti a preferire i servizi su internet in quanto «opzione più sicura e controllata» che consente loro di evitare «il rischio e l’imprevedibilità degli incontri faccia a faccia». «È la paura della solitudine a spingere le persone al computer, mentre il pericolo rappresentato dall’estraneo suggerisce di rinviare gli incontri reali». Ma per questo c’è un prezzo da pagare. Jonathan Keane nota il «senso strisciante di disagio e di abuso che, per quanto si cerchi di evitarlo, ossessiona chi passa da un sito all’altro, come se sfogliasse le pagine di un catalogo, alla ricerca del partner ideale»18. È evidente che chi si rivolge alle agenzie su internet in cerca di aiuto è viziato dalla facilità d’uso tipica del mercato dei beni di consumo, che promette di rendere ogni scelta sicura e ogni transazione una tantum e non impegnativa, trasformandola in un atto «senza costi sommersi», senza «mai più niente da pagare», «senza implicazioni» né «venditori che richiamino». Come effetto secondario (o, con un’espressione oggi di moda, «danno collaterale») di un’esistenza così coccolata – che minimizza i rischi e riduce fortemente le respon21

sabilità o addirittura le azzera, portando con sé una soggettività dei protagonisti neutralizzata a priori – emerge però un notevole grado di dequalificazione sociale. La presenza di esseri umani in carne e ossa provoca disagio nei clienti abituali delle agenzie di incontri via internet, educati alle prassi del mercato. Il tipo di merce con cui essi sono preparati a socializzare è fatta per essere toccata ma non ha mani per toccare, si lascia esaminare e mettere a nudo ma non restituisce lo sguardo né chiede che gli venga restituito, e dunque, pur esponendosi senza problemi all’esame del cliente, evita di esporre chi lo esamina a un’analisi accurata; la si può esaminare per intero senza dover temere che ci guardi fissi negli occhi, finestre oltre le quali vi sono i segreti più privati dell’anima. Le agenzie su internet derivano la maggior parte della loro attrattiva dal fatto che ridefiniscono il tanto desiderato partner (umano) alla stregua del genere di merce che il consumatore esperto sa bene come affrontare e gestire. Quanto più i loro clienti si fanno navigati e «maturi», tanto più sono colti di sorpresa, confusi e imbarazzati al momento dell’incontro faccia a faccia in cui scoprono che gli sguardi devono essere ricambiati e che nelle «transazioni» essi – i soggetti – sono anche oggetti. Nei negozi le merci arrivano corredate di risposte a qualsiasi domanda da parte dei potenziali acquirenti, ma restano educatamente in silenzio senza fare domande, tanto meno imbarazzanti. Le merci confessano tutto ciò che c’è da confessare, e anche di più, senza chiedere nulla in cambio. Restano fedeli al ruolo dell’«oggetto» cartesiano, materia totalmente docile e obbediente di fronte all’onnipotente soggetto che le gestisce, dà loro forma e ne fa buon uso. Con la loro docilità elevano l’acquirente al rango nobile, lusinghiero e gratificante, di soggetto sovrano, non contestato né compromesso. Facendo la parte dell’oggetto in modo inappuntabile e realistico, dunque convincente, le merci forniscono e reintegrano costantemente il fondamento epistemologico e prassiologico del «feticismo della soggettività». 22

In veste di compratori siamo stati adeguatamente preparati dagli uomini di marketing e dai copywriter pubblicitari a svolgere il ruolo di soggetto: finzione vissuta come verità di vita, parte recitata come «vita reale» che col passare del tempo spinge da parte la vera vita reale, privandola di ogni possibilità di ritorno. E mentre le necessità della vita, cui un tempo si sopperiva con le proprie forze, senza concedersi il lusso dell’intermediazione da parte delle reti di vendita, sono sempre più mercificate (la privatizzazione della distribuzione dell’acqua, ad esempio, conduce inesorabilmente all’acqua in bottiglia sugli scaffali del supermercato), le fondamenta del «feticismo della soggettività» si ampliano e si consolidano. A completare la versione riveduta e popolare del cogito cartesiano («compero, dunque sono...») si potrebbe e dovrebbe aggiungere un «soggetto»: e dato che il tempo trascorso nello shopping aumenta (fisicamente o mentalmente, in carne e ossa o elettronicamente), le occasioni per accrescerlo si moltiplicano sempre più. Rivolgersi al web per scegliere/acquistare un partner obbedisce a una tendenza molto più generale a fare acquisti via internet. Cresce il numero di coloro che preferiscono fare acquisti sui siti web anziché nei negozi. Il fenomeno ha una spiegazione immediata ma parziale nella comodità della consegna a domicilio e nel risparmio di carburante che esso consente. Il fatto che ci si senta maggiormente a proprio agio se il commesso del negozio viene sostituito dallo schermo di un computer è un’altra motivazione, altrettanto, se non più, importante. Incontrare una persona reale richiede un genere di abilità sociali che non necessariamente si possiedono nella misura che occorre, e dialogare significa sempre esporsi all’ignoto: è come concedersi in ostaggio al destino. È molto più rassicurante pensare che è la mia mano, e solo quella, a tenere il mouse ed è il mio dito, e solo quello, a cliccarvi. Non accadrà 23

più che una smorfia inavvertita (e incontrollata!) o il guizzo di un’espressione rivelatrice del desiderio trapeli sul mio viso, rivelando alla persona che si trova all’altra estremità del dialogo qualcosa di più di ciò che sono disposto a divulgare dei miei pensieri intimi o delle mie intenzioni. Nel suo saggio Excursus sulla sociologia dei sensi19, Georg Simmel sottolinea che lo sguardo che rivolgo a un’altra persona rivela – lo voglia o no – il mio io. Lo sguardo sull’altro con cui si spera di coglierne lo stato d’animo e/o scorgerne il cuore non può non essere espressivo, e le recondite emozioni che ne trapelano non si lasciano facilmente imbrigliare o camuffare, a meno di essere bravissimi attori professionisti. Ha dunque senso optare per la presunta abitudine dello struzzo e mettere la testa sotto la sabbia, volgere altrove o abbassare gli occhi: evitando di incrociare lo sguardo dell’altro rendo il mio io interiore o, più precisamente, i miei pensieri e le mie emozioni invisibili e imperscrutabili... Oggi, in quest’epoca di computer da tavolo, portatili, palmari e telefoni cellulari, la maggior parte di noi ha sabbia più che sufficiente sotto cui mettere la testa. Non dobbiamo più preoccuparci della grande abilità del venditore nel leggere l’espressione sul nostro volto, né del suo potere di persuasione, né dei nostri momenti di debolezza. Le mie paure e le mie speranze, i miei desideri e i miei dubbi rimarranno miei e soltanto miei. Non mi precipiterò a premere il tasto «acquista ora» e a «confermare» se non avrò raccolto, elencato e ponderato tutti i «pro e contro» di ogni scelta e li avrò soppesati con tutti i «pro e contro» di ogni altra opzione. Finché procedo con tanta cautela la resa dei conti, la lettura della sentenza, quel punto di non ritorno, il rammarico del «troppo tardi per ripensarci», dell’«indietro non si torna» e «non si riparte da zero», rimarranno a debita distanza, come mi assicura il ticchettio del dito sulla tastiera: io e solo io mi trovo al comando, sto seduto al posto di guida. Mi sento al riparo dagli stratagemmi e dai sotterfugi degli ignoti e impenetrabili altri, ma anche da me stesso, da una decisione che potrò rin24

viare, dal rischio di agire con un’impulsività di cui potrei pentirmi, magari (non c’è modo di saperlo prima) per un tempo infinito. Ciò vale per l’acquisto di un’auto, di un tosaerba, di un posto dove uscire la sera, di un computer portatile o di una vacanza: perché non dovrebbe valere per l’acquisto di un partner? E infine (ma non meno importante), nel nostro mondo in cui le novità allettanti si susseguono a ritmo vertiginoso, in un mondo che ricomincia senza sosta, viaggiare carichi di speranze appare molto più prudente e affascinante che non la prospettiva di arrivare: la gioia è tutta nello shopping gratificante, mentre l’acquisto in sé, se lo si immagina pieno di possibili effetti – primari e secondari – scomodi e inopportuni, comporta un’alta probabilità di frustrazione, dolore e rimpianto. E poiché i negozi su internet sono sempre aperti, è possibile estendere il tempo della gratificazione a piacimento senza che venga contaminato dalla preoccupazione di frustrazioni future. Non è più necessario pianificare a lungo un’uscita per far compere come se fosse un viaggio, quando è possibile frazionarla in tantissimi momenti di gioiosa eccitazione, disseminati generosamente in tutte le attività della vita, dando colori brillanti persino ai suoi angoli più oscuri e più cupi. Il guaio è, ovviamente, che la ricerca di un partner non si adatta bene allo schema scegli-e-acquista, e ciò vale a maggior ragione se si cerca un compagno di vita, un partner-perla-vita. L’aiuto che può venire da internet nell’incessante guerra preventiva contro i rischi e le ansie di cui è colma la vita di colui che sceglie in una società di persone che scelgono è inevitabilmente limitato e «fino a un certo punto». Esso può in qualche modo placare le ansie di chi cerca finché dura la ricerca, ma non andrà oltre il momento dell’appagamento cui il viaggio di scoperta si vorrebbe e si pensa conduca, e in cui si vede l’attrattiva e la motivazione del viaggio. Come il feticismo delle merci che infesta la società dei produttori, anche 25

il feticismo della soggettività che infesta la società dei consumatori si fonda, in ultima analisi, su un’illusione. Il potere produttivo dei produttori non era separabile dai produttori stessi, di cui rappresentava la forza inalienabile; un costo invisibile, eppure rilevante e inevitabile, dell’atto di compravendita del lavoro era in realtà un vincolo complesso, sfaccettato e soprattutto reciproco, che legava acquirenti e venditori per tutta la durata del processo produttivo cui doveva servire la forza-lavoro acquistata. Tale vincolo equivaleva a dare per scontata una lunga, infinita catena di conflitti d’interesse, di antagonismi sommersi o di aperte inimicizie, di scaramucce quotidiane e di guerre di lungo periodo per il riconoscimento. Accade in fondo qualcosa di simile quando si acquista una piacevole «compagnia»: le mirabili capacità di intrattenimento che i navigatori di internet cercano nei loro potenziali partner e che ne guidano la ricerca, per quanto elencate in modo esauriente e onesto nel sito web di un’agenzia di appuntamenti, non sono separabili dalle persone che le posseggono, proprio come la forza-lavoro non poteva essere espunta dai produttori di cui costituiva la forza. A differenza della finzione messa insieme elettronicamente a partire da un numero di attributi preselezionati, una persona reale parla e ascolta, e desidera essere guardata negli occhi dal partner prescelto almeno nella stessa misura in cui questi è disposto a permetterle di guardare nei suoi; ha emozioni che attendono di essere destate e non solo la capacità di destarle negli altri; ha una biografia tutta sua, un carattere, delle aspettative e un modello di felicità modellati su tale biografia: nulla che ricordi, nemmeno alla lontana, il passivo, docile, sottomesso e duttile «oggetto» cartesiano. La maledizione della reciproca aucthorship (miscela «spuria» di attore e di autore, probabilmente incapace di purificarsi date l’irriducibile capacità autoriale di ogni attore e l’impossibilità o quasi di limitarsi a «reiterare» le mosse secondo uno schema) smaschererà il bluff illusorio della «pura soggettività». Questo è un fatto che non potrà mai essere modificato, per quante precauzioni si 26

prendano, né la relazione potrà essere mai depurata da quella maledizione, che aleggerà per tutto il tempo sui molti tentativi, accaniti e ingegnosi, di modificarla. La dilatazione della «sovranità del consumatore» promessa dalla società dei consumi ha dei limiti – invalicabili – che da ogni incontro tra gli uomini tendono a emergere più forti, nonostante le pressioni a ridefinire quei limiti – o forse proprio a causa di essi. Il feticismo della soggettività, come il precedente feticismo della merce, si basa su una menzogna, sostanzialmente per la stessa ragione del suo predecessore – sebbene in queste due varianti del feticismo le attività «sotto copertura» siano concentrate sui versanti opposti della dialettica soggetto-oggetto che è radicata nella condizione esistenziale dell’uomo. Queste due varianti incespicano e cadono sullo stesso ostacolo: l’ostinazione del soggetto umano, che resiste valorosamente ai ripetuti sforzi di reificarlo. Nella società dei consumatori il dualismo soggetto-oggetto tende a rientrare nel dualismo tra consumatore e merce. Nell’ambito delle relazioni umane la sovranità del soggetto viene così ridefinita e rappresentata come sovranità del consumatore, mentre la resistenza dell’oggetto, che deriva dalla sua sovranità non del tutto repressa, per quanto rudimentale, è offerta alla percezione come inadeguatezza, imperfezione o difetto di una merce erroneamente prescelta. Il consumismo guidato dal mercato ha una ricetta per affrontare questo genere di inconveniente: il cambio della merce difettosa, o semplicemente imperfetta e non del tutto soddisfacente, con una «nuova e migliorata». La ricetta tende a essere riformulata come stratagemma a cui i consumatori ben addestrati ricorrono automaticamente e quasi senza pensarci, per abitudine appresa e interiorizzata; in fondo, nei mercati la necessità di sostituire gli oggetti di consumo «superati», non del tutto soddisfacenti e/o non più richiesti è riconducibile al27

la progettazione dei prodotti e di campagne di comunicazione finalizzate alla crescita costante delle vendite di quei prodotti. La breve aspettativa di vita per quanto riguarda l’uso concreto di un prodotto e la sua utilità dichiarata è incorporata nella strategia di marketing e nella previsione degli utili: essa è tendenzialmente predefinita, prescritta e inoculata nelle prassi dei consumatori mediante l’apoteosi delle nuove offerte (di oggi) e la denigrazione di quelle vecchie (di ieri). Nelle modalità consumistiche di curare la disaffezione svolge un ruolo centrale l’eliminazione degli oggetti che la provocano. La società dei consumi svaluta la durevolezza; ai suoi occhi «vecchio» significa «sorpassato», non più utilizzabile e destinato alla spazzatura. Sono l’elevato tasso di scarto e l’abbreviarsi costante del tempo che trascorre tra il momento in cui il desiderio sorge e il momento in cui esso svanisce a mantenere vivo e credibile il feticismo della soggettività, nonostante l’infinita serie di delusioni che provoca. La società dei consumi è impensabile senza una florida industria dello smaltimento di rifiuti. Ai consumatori non si chiede di giurare fedeltà agli oggetti che ottengono con l’intenzione di consumare. Il modello sempre più diffuso della «relazione pura», rivelato e descritto da Anthony Giddens nel suo La trasformazione dell’intimità, può essere interpretato come il trasferimento alla sfera dei legami umani di quella regola del mercato20. La prassi della «relazione pura», ampiamente osservata e talvolta esaltata nel folklore popolare e nella rappresentazione dei mass media, può essere vista alla stregua della presunta o postulata sovranità del consumatore. Gli effetti della distinzione tra la relazione partner-partner e l’atto di acquisto di normali beni di consumo – una distinzione profonda che deriva dal fatto che per iniziare una relazione di partnership occorre un mutuo consenso – vengono minimizzati (fino a rendere la distinzione irrilevante) dalla clausola secondo cui è sufficiente la decisione di un solo partner a porre termine alla relazione. È tale clausola a rivelare che la somiglianza pre28

vale sulla differenza: nel modello della «relazione pura», proprio come sui mercati, i partner sono abilitati a trattarsi alla stregua di oggetti di consumo. Una volta che il permesso (e la prescrizione) di respingere e sostituire un oggetto di consumo non più soddisfacente è esteso alla relazione tra partner, questi ultimi vengono a trovarsi nella condizione di oggetti di consumo. Paradossalmente, anzi, assumono tale status proprio attraverso la loro lotta per ottenere, e monopolizzare, le prerogative di consumatori sovrani... Ovviamente, una «relazione pura» che si concentri sull’utilità e sulla gratificazione è esattamente l’opposto dell’amicizia, della devozione, della solidarietà e dell’amore – tutte quelle relazioni «io-tu» che si ritiene svolgano un ruolo di collante nell’edificio della comunanza umana. La sua «purezza» si misura, in ultima analisi, dall’assenza di ingredienti dotati di carica etica. L’attrattiva della «relazione pura» sta nel delegittimare domande come quella così formulata da Ivan Klíma: «Dov’è il confine tra il diritto alla felicità personale e al nuovo amore e l’egoismo esasperato disposto a mandare in frantumi la famiglia, e magari a danneggiare i figli?»21. Tale attrazione, in ultima analisi, consiste nel dichiarare che l’atto di stringere o sciogliere i vincoli umani è moralmente «adiaforico» (indifferente, neutrale), e che pertanto gli attori sono sollevati dalla responsabilità reciproca: quella responsabilità incondizionata che l’amore, nel bene e nel male, promette e si sforza di costruire e conservare. «La creazione di una relazione buona e durevole», in netta opposizione alla ricerca di godimento attraverso oggetti di consumo, «richiede uno sforzo enorme»: cosa che la «relazione pura» nega con enfasi in nome di altri valori tra cui non rientra la responsabilità etica di fondo nei confronti dell’altro. Tuttavia l’amore, sostiene Klíma, in netta opposizione a un mero desiderio di soddisfazione, si può paragonare alla creazione di un’opera d’arte. [...] Anch’essa richiede da parte dell’artista immaginazione, grande concentrazione, la combinazio29

ne di tutti gli aspetti della personalità umana, spirito di sacrificio e libertà assoluta. Ma soprattutto, come per la creazione artistica, l’amore richiede azione, ossia attività e condotta non routinarie, e costante attenzione alla natura intrinseca del proprio partner, uno sforzo di comprendere la sua individualità, e rispetto. Inoltre richiede tolleranza, la consapevolezza che non si possono imporre i propri punti di vista e ideali al compagno o alla compagna, né ostacolarne la felicità.

L’amore, possiamo dire, non promette di raggiungere facilmente la felicità e il senso. Una «relazione pura» ispirata a prassi consumistiche promette che ciò sarà facile e privo di fastidi, ma lascerà che felicità e senso divengano ostaggio del destino, somiglino più ai premi di una lotteria che ad atti di creatività e a sforzi di dedizione. Mentre scrivo queste righe è uscito un importante studio sui tanti volti del consumismo, a cura di John Brewer e Frank Trentmann22. Nell’introduzione i curatori forniscono un’ampia rassegna degli approcci esistenti allo studio del fenomeno, giungendo alla seguente conclusione: Abbiamo iniziato osservando la notevole ricchezza e diversità del consumo moderno e la difficoltà di far confluire tale varietà in un unico quadro interpretativo [...]. Non bastano un’unica descrizione del consumo, né un’unica tipologia di consumatore, né un’unica versione monolitica della cultura dei consumatori [...].

Mentre siamo alle prese con il compito scoraggiante di comporre una simile visione unitaria dei consumatori e delle loro strategie di vita, Brewer e Trentmann ci suggeriscono «di riconoscere che i mercati sono necessariamente inseriti in complesse matrici politiche e culturali che danno agli atti di consumo risonanza e senso specifici. Solo in tal modo potremo rendere giustizia al consumo moderno in tutta la sua forza e pienezza». Parole sacrosante. Quella che segue è un’ulteriore illustrazione della loro tesi: un’ulteriore integrazione alle innu30

merevoli prospettive cognitive nelle quali finora il fenomeno moderno del consumo è stato considerato. Un tentativo non meno né (si spera) più parziale di quelli che si prefigge di completare e non certo di correggere o sostituire. In questo volume intendo proporre tre «tipi ideali», riferiti al consumismo, alla società dei consumatori e alla cultura consumistica. Sul fondamento metodologico e sulla rilevanza cognitiva dei tipi ideali, o ideal-tipi, si vedano le pp. 34-35. Occorre tuttavia sottolineare fin da ora che essi non sono istantanee o ritratti della realtà sociale, ma tentativi di costruire modelli dei suoi elementi essenziali e della loro configurazione al fine di rendere intelligibili i dati, altrimenti caotici e dispersi, dell’esperienza. I tipi ideali non sono descrizioni della realtà sociale, ma strumenti finalizzati alla sua analisi e (si spera) comprensione. Essi servono a costringere la nostra immagine della società in cui viviamo ad «avere senso», e a tal fine postulano deliberatamente che il mondo sociale empirico abbia più omogeneità, coerenza e logica di quanto riusciamo a vedere e cogliere nell’esperienza quotidiana. I tipi ideali sono radicati nell’esperienza e nelle prassi quotidiane dell’uomo. Ma per offrire una visione migliore delle prassi e delle relative cause e motivazioni hanno bisogno di una distanza tale da riuscire ad abbracciare il campo di osservazione nel suo insieme, in modo che la visuale si ampli e si chiarisca a chi analizza quelle prassi, e al tempo stesso riveli, nelle intenzioni, agli attori stessi le cause e motivazioni delle loro azioni. Sono assolutamente consapevole della «confusione» (complessità, ricchezza di sfaccettature, eterogeneità) della realtà che la nostra normale esperienza ci fornisce. Ma so anche che modelli «adeguati in modo dotato di senso», come direbbe Max Weber, sono indispensabili per acquisire comprensione e consapevolezza delle somiglianze e delle differenze, delle connessioni e delle discontinuità che si nascondono dietro la caotica varietà dell’esperienza. I tipi ideali che propongo sono intesi come strumenti con cui «pensare» e «vedere». 31

Allo stesso fine presento alcuni concetti che spero possano aiutare a cogliere fenomeni e processi nuovi o nascenti che si elidono con le precedenti reti concettuali, come il «tempo puntinista», la «mercificazione dei consumatori» o il «feticismo della soggettività». Infine – anche se non è certo meno importante – tento di determinare l’impatto degli schemi consumistici di interazione e di valutazione su vari aspetti del contesto sociale apparentemente scollegati tra loro come la politica e la democrazia, le divisioni e le stratificazioni della società, le comunità e le partnership, la costruzione delle identità, la produzione e l’uso della conoscenza o le preferenze di valore. I principali temi di questo libro sono l’invasione, la conquista e la colonizzazione della rete delle relazioni umane da parte di visioni del mondo e schemi di comportamento ispirati ai mercati dei beni di consumo e fatti a loro misura; le origini del malcontento, del dissenso e a volte della resistenza nei confronti delle forze di occupazione; nonché la questione degli eventuali limiti invalicabili al dominio di queste forze. Le forme sociali e la cultura del vivere contemporaneo vengono ancora una volta esaminate e reinterpretate alla luce di tali temi. Inevitabilmente, la vicenda che si intende narrare qui non sarà probante/risolutiva, ma anzi avrà un esito aperto, come sono necessariamente tutti i resoconti provenienti dal campo di battaglia.

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Consumismo e consumo

Apparentemente il consumo è un fatto comune, se non addirittura insignificante. Ognuno di noi ogni giorno consuma: a volte lo facciamo con allegria – quando organizziamo una festa, celebriamo un evento importante o ci gratifichiamo per essere riusciti a fare qualcosa di particolarmente ragguardevole – ma il più delle volte «di fatto», potremmo dire di routine, senza pianificarlo granché o starci a pensare su. In effetti il consumo, se ridotto alla sua forma essenziale del ciclo metabolico di ingestione, digestione ed escrezione, è una condizione e un aspetto permanente e ineliminabile della vita svincolato dal tempo e dalla storia, un elemento inseparabile dalla sopravvivenza biologica che gli esseri umani condividono con tutti gli altri organismi viventi. Così descritto, il fenomeno del consumo ha radici tanto antiche come quelle degli organismi viventi, ed è certamente un aspetto permanente e integrante di qualsiasi forma di vita nota dalle narrazioni storiche e dai resoconti etnografici. Apparentemente niente di nuovo sotto il sole... Qualsiasi forma di consumo considerata tipica di una specifica epoca della storia umana può essere presentata senza grande sforzo come versione leggermente modificata delle usanze/abitudini del passato/trascorse. In questo campo la continuità sembra essere la regola; salti, discontinuità, cambiamenti radicali o rivoluzionari, eventi spartiacque, possono essere (e molte volte sono) sconfessati in quanto trasformazioni puramente quantitative ma non qualitative. Eppure, se l’attività del consumare in quanto tale sembra lasciare poco spazio all’inventiva e agli 33

«Excursus» sul metodo dei tipi ideali Nell’intento di evitare le controversie, inevitabilmente irrisolvibili, sull’unicità o generalità, ovvero sulla peculiarità o ordinarietà, dei fenomeni analizzati è opportuno un avvertimento preliminare. È fuori discussione che nella storia umana nulla o quasi sia totalmente nuovo, se ciò significa non avere alcun precursore nel passato; le catene causali possono sempre essere allungate a ritroso all’infinito. Ma è anche indiscutibile che persino i fenomeni di cui è possibile dimostrare la presenza universale assumano configurazione in certo qual modo diversa in diverse forme di vita: ed è la particolarità della configurazione a «fare la differenza», molto più della specificità degli ingredienti. Il modello del «consumismo», come quelli della «società dei consumatori» e della «cultura del consumo» qui presentati sono quelli che Max Weber definì «tipi ideali»: astrazioni che puntano a cogliere l’unicità di una configurazione composta di ingredienti tutt’altro che unici e a separare gli schemi che definiscono tale configurazione dalla moltitudine degli aspetti che essa condivide con altre. La maggior parte, se non la totalità, dei concetti abitualmente utilizzati dalle scienze sociali – ad esempio «capitalismo», «feudalesimo», «libero mercato», «democrazia», e anche «società», «comunità», «luogo», «organizzazione» o «famiglia» – hanno lo status di tipi ideali. Come afferma Weber, i tipi ideali (se costruiti correttamente) sono strumenti cognitivi utili, e anzi indispensabili, anche se (o forse proprio perché) essi fanno intenzionalmente luce solo su determinati aspetti della realtà sociale che rappresentano, lasciando in ombra altri aspetti che essi considerano meno rilevanti, o semplicemente casuali, rispetto alle caratteristiche essenziali, necessarie, di una determinata forma di vita. I tipi ideali non sono descrizioni della realtà: sono gli strumenti utilizzati per analizzarla. Essi sono utili per pensare; o, come si può sostenere paradossalmente,

⇒ stratagemmi, ciò non vale per la parte che il consumo ha svolto nelle trasformazioni passate e che esso svolge nelle dinamiche attuali del modo umano di essere-nel-mondo, e in particolare per il posto che esso occupa tra i fattori che determinano lo stile e per così dire l’aroma della vita sociale, e per il 34

nonostante la loro natura astratta consentono di descrivere la realtà sociale empirica, così come è accessibile all’esperienza. Questi strumenti sono insostituibili in qualsiasi tentativo di rendere i pensieri intelligibili e di descrivere in modo coerente le risultanze terribilmente confuse dell’esperienza umana. Ma ricordiamo il modo elegante e convincente in cui lo stesso Max Weber ne giustificava la costruzione e l’utilizzo, una posizione che non ha perso nulla della sua attualità e rilevanza per la prassi sociologica: [... l’analisi sociologica] si distacca dalla realtà, e serve alla conoscenza di questa in quanto, fornendo la misura dell’avvicinamento di un fenomeno storico ad uno o a più di tali concetti, consente di sottoporlo a un ordine. Il medesimo fenomeno storico può, ad esempio, configurarsi in una parte dei suoi elementi come fenomeno «feudale», in un’altra come fenomeno «patrimoniale», in un’altra ancora come fenomeno «burocratico» oppure «carismatico». Affinché questi termini possano designare qualcosa di univoco, la sociologia deve, da parte sua, formulare tipi «puri» (cioè tipi ideali) di formazioni di quel genere, le quali mostrano in sé l’unità conseguente della più completa adeguazione di senso, ma appunto per ciò non si presentano in questa forma assolutamente e idealmente pura, [...]. Soltanto muovendo dal tipo puro (cioè dal tipo «ideale») è possibile una casistica sociologica1.

Se teniamo a mente le parole di Weber possiamo tranquillamente continuare a utilizzare con la dovuta cautela dei costrutti «puri», nel nostro sforzo per rendere intelligibile, e dunque comprendere, una realtà dichiaratamente «spuria», evitando al tempo stesso le trappole che attendono l’incauto che tenda a confondere i tipi ideali «puri» con i «fenomeni reali». Possiamo dunque procedere a costruire i modelli del consumismo, della società dei consumatori e della cultura consumistica, che ad avviso di chi scrive sono gli strumenti che occorrono per comprendere un aspetto cruciale della società in cui oggi viviamo, ed elaborare così una descrizione coerente della nostra esperienza condivisa di questo vivere.

ruolo che ha nel determinare gli schemi delle relazioni interumane (uno dei tanti, o anche lo schema fondamentale). Per tutta la storia umana le attività del consumo o legate ai consumi (produzione, accumulazione, distribuzione e smaltimento degli oggetti di consumo) hanno fornito una co35

stante disponibilità di «materia prima» da cui plasmare la varietà di forme di vita e di schemi delle relazioni tra gli uomini con l’ausilio dell’inventiva culturale guidata dall’immaginazione. Fatto ancor più fondamentale, quando tra gli atti del produrre e del consumare si aprì uno spazio suscettibile di estensione, ciascuno di tali atti acquisì una crescente autonomia dall’altro e poté essere regolato, indirizzato e gestito da complessi di istituzioni reciprocamente indipendenti. Dopo la «rivoluzione paleolitica», che pose fine al modo di vivere alla giornata tipico dei raccoglitori e inaugurò l’era del surplus e dell’accumulazione, divenne possibile scrivere la storia dal punto di vista degli ingegnosi modi escogitati per colonizzare e gestire tale spazio. Qualcuno ha sostenuto (e in questo capitolo si sosterrà e si elaborerà questa tesi) che un punto di rottura carico di conseguenze, che si può dire abbia meritato il nome di «rivoluzione consumistica», sia stato raggiunto millenni dopo con il passaggio dal consumo al «consumismo», nel momento in cui il consumo, come scrive Colin Campbell, ha acquisito nella vita della maggior parte delle persone una «importanza particolare, se non centrale», trasformandosi nello «scopo stesso dell’esistenza»2, e in cui «la nostra capacità di ‘volere’, di ‘desiderare’ e di ‘agognare’, e specialmente di fare esperienza ripetuta di tali emozioni, diventa l’effettivo fondamento dell’economia» della comunanza umana. Possiamo dire che il «consumismo» è un tipo di assetto sociale che risulta dal riutilizzo di bisogni, desideri e aspirazioni dell’uomo prosaici, permanenti e per così dire «neutrali rispetto al regime», facendone la principale forza che alimenta e fa funzionare la società e coordina la riproduzione sistemica, l’integrazione sociale, la stratificazione sociale e la formazione degli individui, oltre a svolgere un ruolo di primo piano nei processi di autoidentificazione individuale e di gruppo e nella scelta e ricerca dei modi per orientare la propria esistenza. Vi è «consumismo» là dove il consumo assume quel ruolo cardine che nella società dei produttori era svolto 36

dal lavoro. Come sottolinea Mary Douglas, «se non sappiamo perché le persone hanno bisogno di lussi [ossia di beni che vanno al di là dei bisogni di sopravvivenza] e che uso ne fanno, siamo ben lontani dal prendere sul serio i problemi della disuguaglianza»3. A differenza del consumo, che è soprattutto caratteristica e attività di singoli esseri umani, il consumismo è un attributo della società. Affinché una società lo abbia è necessario che la capacità totalmente individuale di volere, desiderare e agognare, proprio come nella società dei produttori accadeva alla capacità di lavorare, sia distaccata («alienata») dagli individui e riconvertita/reificata come forza estranea che mette in moto la «società dei consumatori» e la mantiene in rotta in quanto forma specifica di comunanza umana, definendo al tempo stesso dei parametri specifici per efficaci strategie di vita individuali e manipolando le probabilità di scelta e di comportamento individuali. Tutto ciò dice ancora poco sul contenuto della «rivoluzione consumistica». Le domande su cui occorre indagare più da vicino riguardano cosa «vogliamo», «desideriamo» e «agogniamo», e come – nel corso (e in conseguenza) del passaggio al consumismo – la sostanza del nostro volere, desiderare e agognare si modifichi. Si pensa di solito (impropriamente, si direbbe) che gli uomini e le donne collocati nell’ambito della forma di vita consumistica desiderino e agognino, prima e al di sopra di tutto, acquisire, possedere e accumulare oggetti, valutati in base agli agi e al prestigio che si prevede possano offrire a chi li ha. L’appropriazione e il possesso di beni che assicurino (o almeno promettano) comodità e prestigio erano forse le principali motivazioni dei desideri e delle aspirazioni umane nella società dei produttori: un tipo di società dedito alla sicurezza stabile e alla stabilità sicura e che per riprodursi nel lungo periodo faceva affidamento su schemi di comportamento individuale pensati in funzione di tali motivazioni. In effetti la società dei produttori – principale modello di 37

società nella fase «solida» della modernità – era orientata in primo luogo sulla sicurezza. Nella sua ricerca di sicurezza essa faceva leva sul desiderio umano di vivere in un contesto affidabile, degno di fiducia, ordinato, regolare, trasparente e al tempo stesso durevole, resistente e sicuro. Un simile desiderio era effettivamente una materia prima eccellente per costruire i tipi di strategia di vita e di schema di comportamento necessari per sopperire alle esigenze dell’epoca in cui «l’unione fa la forza» e «grande è bello»: epoca di fabbriche e di eserciti di massa, di regole vincolanti cui conformarsi, di strategie di dominio burocratiche e panoptiche che nel loro sforzo di stimolare disciplina e subordinazione si basavano sulla standardizzazione e routinizzazione della condotta individuale. In quell’epoca possedere tanti beni spaziosi, pesanti, imperturbabili e inamovibili assicurava un futuro sicuro, un futuro che prometteva un costante rifornimento di agi, potere e prestigio personali. La grande dimensione indicava, o evocava, un’esistenza dotata di solidi ancoraggi, stabilmente protetta e sicura, immune dai capricci del fato, e si riteneva che ponesse la vita del suo possessore al riparo dagli incontrollabili mutamenti della fortuna. Essendo la sicurezza a lungo termine il loro principale scopo e valore, i beni acquisiti non erano destinati al consumo immediato: al contrario, si pensava di doverli proteggere dal deterioramento o dalla dispersione per conservarli intatti. Come le mura massicce di una città fortificata il cui scopo era difendere gli abitanti contro i pericoli imprevedibili e inenarrabili che si sospettavano in agguato nelle lande selvagge all’esterno, essi andavano preservati dall’usura, dai danni e dal rischio che cadessero prematuramente in disuso. Nell’epoca solido-moderna della società dei produttori la gratificazione sembrava consistere nella promessa di sicurezza a lungo termine, molto più che nel godimento immediato: cedere a quest’ultimo aveva un retrogusto amaro di imprevidenza, se non addirittura di peccato. Attingere, in tutto o in 38

parte, al potenziale di agio e sicurezza contenuto nei beni di consumo doveva essere rimandato, virtualmente all’infinito, per consentir loro, dopo essere stati laboriosamente raccolti, accumulati e immagazzinati come si doveva, di svolgere la loro principale funzione agli occhi di chi li possedeva: rimanere a disposizione fino al momento dell’eventuale bisogno – praticamente «finché morte non ci separi». Solo un possesso realmente durevole, resistente e immune al tempo poteva offrire la sicurezza tanto ardentemente desiderata. Solo questi beni tendevano, o almeno potevano tendere intrinsecamente, a crescere anziché a diminuire – e promettevano di essere la base sempre più durevole e affidabile di un futuro sicuro, in quanto facevano apparire il loro possessore meritevole di fiducia e di credito. Il «consumo vistoso», efficacemente descritto da Thorstein Veblen, aveva all’inizio del XX secolo un significato molto diverso da oggi: esso consisteva nell’ostentare pubblicamente la ricchezza, sottolineandone la solidità e la durevolezza, anziché la facilità con cui i piaceri potevano essere estratti sul posto e sul momento dalle ricchezze acquisite esaurendole rapidamente, assorbendole e degustandole appieno oppure scartandole e distruggendole come in un potlatch. I profitti e i benefici dell’ostentazione aumentavano in misura proporzionale al grado di solidità, permanenza e indistruttibilità evidenziate dai beni messi in mostra. I metalli nobili e i gioielli preziosi, oggetti prediletti di ostentazione, non si sarebbero ossidati né avrebbero perso fulgore, poiché sapevano resistere alle forze distruttrici del tempo; grazie a tali caratteristiche, essi esprimevano stabilità e affidabilità. Lo stesso valeva per le massicce casseforti d’acciaio in cui venivano rinchiusi quando non erano messi in mostra, o per le miniere, gli impianti di trivellazione, le fabbriche e le ferrovie che assicuravano una costante disponibilità di splendidi gioielli garantendo contro il rischio di doverli vendere o impegnare, o ancora per i fastosi palazzi che i proprietari dei gioielli aprivano ai loro simili per farglieli ammirare da vici39

no e suscitare la loro invidia. Essi erano durevoli come si desiderava e si sperava fosse il prestigio sociale ereditario o acquisito che esprimevano. Tutto ciò aveva un significato evidente nella società solido-moderna dei produttori – una società, ripeto, che puntava sulla prudenza e sulla cautela di lungo periodo, sulla durevolezza e sulla sicurezza, e soprattutto sulla sicurezza durevole di lungo termine. Ma il desiderio umano di sicurezza e il sogno di uno «stato stazionario» definitivo mal si accordano con la società dei consumatori. Nel percorso verso questa società il desiderio umano di stabilità deve trasformarsi, e in realtà si trasforma, da principale punto di forza del sistema nella sua principale passività: potenzialmente fatale, e causa di perturbazione e malfunzionamento. Difficilmente le cose potevano essere diverse, poiché il consumismo, in netto contrasto con le precedenti forme di vita, associa la felicità non tanto alla soddisfazione dei bisogni (come tendono a far credere le sue «credenziali ufficiali»), ma piuttosto alla costante crescita della quantità e dell’intensità dei desideri, il che implica a sua volta il rapido utilizzo e la rapida sostituzione degli oggetti con cui si pensa e si spera di soddisfare quei desideri; esso abbina, come sostiene giustamente Don Slater, l’insaziabilità dei bisogni all’impulso e all’imperativo di «guardare costantemente alle merci per soddisfarli»4. Nuovi bisogni richiedono nuove merci; nuove merci richiedono nuovi bisogni e desideri; l’avvento del consumismo inaugura l’era dell’«obsolescenza programmata» dei beni offerti sul mercato e segnala la spettacolare ascesa dell’industria dello smaltimento dei rifiuti... L’instabilità dei desideri e l’insaziabilità dei bisogni, e la propensione che esse creano al consumo immediato e all’immediata eliminazione degli oggetti consumati, ben si accordano alla nuova liquidità del contesto in cui le attività della vita si svolgono e si svolgeranno nel prevedibile futuro. Un contesto liquido-moderno è inadatto alla pianificazione, all’investimento e all’accumulazione di lungo periodo; anzi 40

esso priva il rinvio della soddisfazione del suo antico senso di prudenza, di circospezione e soprattutto di ragionevolezza. La maggior parte degli oggetti di valore perdono rapidamente lustro e attrattiva, e se il godimento viene differito, si rischia di doverli gettare nella spazzatura prima ancora di esserseli goduti. E quando il livello di mobilità e la capacità di cogliere al volo una opportunità fuggevole diventano i principali fattori dell’importanza e del prestigio sociale, le proprietà troppo voluminose sono viste più come una fastidiosa zavorra che come carico prezioso. Stephen Bertman ha coniato le espressioni «cultura dell’adesso» [nowist culture] e «cultura frettolosa» [hurried culture] per indicare il nostro stile di vita nell’attuale tipo di società5. Si tratta di espressioni particolarmente adatte ad afferrare la natura del fenomeno liquido-moderno del consumismo. Possiamo dire che il consumismo liquido-moderno si distingue principalmente per la ridefinizione (finora unica) del significato del tempo. Il tempo viene vissuto da chi fa parte della società dei consumatori liquido-moderna come qualcosa che non è ciclico o lineare com’era invece per altre società della storia. Esso è invece, per utilizzare la metafora di Michel Maffesoli, puntinista6 o, come lo definisce Nicole Aubert con espressione quasi sinonimica, punteggiato7: contrassegnato cioè da abbondanza di rotture e discontinuità, da intervalli che separano i diversi punti e ne interrompono il collegamento, più che dallo specifico contenuto dei punti stessi. Il tempo puntinista si distingue per la sua incoerenza e mancanza di coesione, più che per i suoi elementi di continuità e coerenza; in questo genere di tempo qualunque continuità o logica causale colleghi i diversi punti tende a essere presunta e/o desunta all’estremo opposto della ricerca (che avviene sempre a posteriori) di un’intelligibilità e di un ordine, di regola chiaramente assenti dalle motivazioni che inducono il movimento degli attori tra i diversi punti. Il tempo puntinista è frazionato, o addirittura polverizzato, in un gran numero di «istanti eterni» (eventi, avvenimenti, inciden41

ti, avventure, episodi), di monadi racchiuse in se stesse, pezzi separati, ognuno ridotto a un punto sempre più prossimo al suo ideale geometrico di non-dimensionalità. Come forse ricordiamo dalle lezioni scolastiche sulla geometria euclidea, i punti non hanno lunghezza, larghezza o profondità: esistono, saremmo tentati di dire, prima dello spazio e del tempo; in un universo di punti lo spazio e il tempo devono ancora iniziare. Ma come abbiamo appreso dagli esperti in cosmologia, simili punti privi di spazialità e temporalità contengono un infinito potenziale di espansione e infinite possibilità di esplodere, come attesta (a prestar fede ai postulati della cosmogonia più aggiornata) quel punto fondamentale che precedette il big bang da cui iniziò l’universo spazio-temporale. Per usare la vivida immagine di Maffesoli, oggi «la nozione di Dio si riassume in un eterno presente che racchiude allo stesso tempo il passato e l’avvenire»; «la vita, sia essa individuale o sociale, [è] composta da una successione di adesso, una concatenazione di istanti vissuti con più o meno intensità [...]»8. Ora ogni punto-tempo è visto come carico della possibilità di un altro big bang: possibilità attribuita anche ai punti successivi, indipendentemente da qualunque cosa sia accaduta ai punti precedenti, e a dispetto dell’esperienza che si accumula costantemente mostrando come la maggior parte delle possibilità sia perlopiù prevista in modo erroneo o non lo sia affatto, mentre la maggior parte dei punti si dimostra sterile e la maggior parte degli scossoni abortisce. Una mappa della vita puntinista, se tracciata, sarebbe straordinariamente simile a un camposanto di possibilità immaginarie, fantasticate o grossolanamente trascurate e rimaste irrealizzate. Oppure, a seconda del punto di vista, farebbe pensare a un cimitero di occasioni sprecate: in un universo puntinista il tasso di mortalità infantile e di aborto procurato o spontaneo delle speranze è molto alto. Nel modello puntinista del tempo non c’è spazio per l’idea di «progresso» come alveo vuoto del tempo che lentamente si 42

riempie grazie alle fatiche umane, o come edificio sempre più elegante e alto che per effetto di tali fatiche si innalzi gradualmente dalle fondamenta al tetto, piano dopo piano, ogni piano costruito in modo saldo sul precedente, fino al momento in cui la sommità verrà coronata da un serto di fiori per celebrare la fine di uno sforzo lungo e diligente. Quell’immagine è stata sostituita dalla sicurezza che (come notò all’inizio degli anni Venti del XX secolo Franz Rosenzweig, che la considerava una chiamata alle armi, sebbene all’inizio del XXI suoni piuttosto come una profezia) «la ‘meta ideale’ possa e debba essere raggiunta forse già nel prossimo istante, anzi forse già in questo istante stesso»9. O, secondo la recente rilettura di Michael Löwy dell’interpretazione di Walter Benjamin sulla visione moderna del processo storico, l’idea del «tempo della necessità» è stata sostituita dal concetto del «tempo delle possibilità, un tempo aleatorio aperto in ogni momento all’‘irruzione imprevedibile del nuovo’», da «una concezione della storia come processo aperto, non determinato in anticipo, in cui le sorprese, le chances inattese, le opportunità impreviste possono comparire in ogni momento»10: ciascun momento, direbbe Benjamin, contiene potenzialità rivoluzionarie. Ovvero, e stavolta sono parole dello stesso Benjamin che echeggiano quelle degli antichi profeti ebraici: «ogni secondo [...] era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia»11. Siegfried Kracauer, con la lungimiranza soprannaturale che fu una delle sue caratteristiche, sosteneva che l’imminente trasformazione del tempo avrebbe seguito le linee inizialmente esplorate nel monumentale studio di Marcel Proust sul passato e sulla sua modalità di esistenza postuma. Proust, notava Kracauer, riduceva radicalmente l’importanza della cronologia. Sembra che nella sua visione la storia non sia affatto un processo, ma un guazzabuglio di mutamenti caleidoscopici, qualcosa di simile alle nuvole che si raccolgono e si disperdono a casaccio. [...] Non c’è un flusso del tempo; ciò che esiste è una successione di43

scontinua, non causale, di situazioni, o mondi o periodi, che nel caso specifico di Proust, devono essere pensati come proiezioni o controparti degli io nei quali il suo essere – ma sarà poi giusto postulare alla loro base un essere identico? – successivamente si trasforma. [...] ogni situazione è un’entità per proprio conto, che non può essere derivata da situazioni precedenti [...]12.

Un telos, una destinazione preselezionata o preordinata, può comparire solo retrospettivamente, molto tempo dopo che ciascuna delle «entità per proprio conto» che si susseguono ha fatto il suo corso, e non c’è modo di sapere che genere di logica, ammesso che ce ne sia stata una, le abbia collocate una accanto all’altra in quest’ordine, anziché in un altro molto diverso. Tale logica, quale che sia, ricostruita a posteriori, non andrebbe percepita come prodotto di un disegno/progetto preordinato e come traiettoria di un’azione motivata. Possiamo dire che l’espressione «conseguenze impreviste», oggi in voga, è inappropriata, in quanto il prefisso «im-» dell’aggettivo «previste» porta a pensare che il fenomeno sia un caso anomalo, uno scostamento dalla norma; in realtà il carattere imprevisto delle conseguenze delle azioni è la norma, mentre sarebbe la coincidenza tra intenzioni ed effetti delle azioni a corrispondere/adattarsi meglio all’idea di eccezione, incidente o evento anomalo. Nel caso di Proust, Kracauer sottolinea con enfasi: Alla fine del romanzo, Marcel, che è divenuto tutt’uno con Proust, scopre che tutti i suoi precedenti io scollegati erano in realtà delle fasi o tappe di una strada lungo la quale si era mosso senza saperlo. Solo adesso, a posteriori, riconosce che questa strada attraverso il tempo aveva una meta, che serviva al solo scopo di prepararlo alla sua vocazione di artista.

Si noti, tuttavia, che l’improvvisa rivelazione (nascita) di un senso di cui la serie dei momenti passati era portatrice (pur non rivelandola, o celandola, a chi si trova al suo interno) avvenne anch’essa in una «situazione», in un altro «mo44

mento» identico ai momenti passati – sebbene, a quanto pare, più avanzato nel corso del processo (surrettizio) di «maturazione» (imprevista e inosservata) e più vicino dei precedenti al punto in cui il significato nascosto delle cose esplode nella sua chiarezza. Si noti anche che, ora come allora, non vi è alcun preavviso che questo momento, diversamente dagli altri precedenti e successivi, possa essere il momento della verità, un momento di nascita (rivelazione) del senso – non c’è modo di riconoscere il suo arrivo prima che accada. Nulla, in tutte le migliaia di pagine narrative di Proust, lo aveva minimamente preannunciato... Nei dipinti puntinisti di Sisley, Signac o Seurat, e in alcune opere di Pissarro o Utrillo, i punti colorati sono disposti a formare rappresentazioni significative: una volta che il pittore ha ultimato la sua tela, chi la osserva vi vede alberi, nuvole, prati, spiagge, bagnanti pronti a immergersi nel fiume. Nel tempo puntinista è compito di qualsiasi «professionista della vita» disporre i punti in modo da formare figure significative. A differenza delle opere dei puntinisti, ciò generalmente avviene con il beneficio del senno di poi. Le raffigurazioni tendono a essere scoperte a posteriori: raramente sono state progettate in anticipo, e anche in questo caso ben di rado i pennelli con cui le macchie colorate sono state trasferite dalle mappe mentali alle tele obbediscono allo sguardo e alla mano del «professionista della vita» come ai grandi professionisti delle arti visive. È proprio per queste ragioni che la vita «dell’adesso» tende a essere una vita «frettolosa». L’occasione unica forse contenuta in ognuno dei punti lo seguirà nella tomba, perché non avrà un’«altra possibilità». Ogni punto avrebbe potuto essere vissuto come totale e autentico nuovo inizio, ma senza uno sprone rapido e deciso all’azione immediata il sipario cadrà subito dopo l’inizio dell’atto senza che sia accaduto nulla o quasi. Il rinvio è un serial killer delle possibilità. 45

La prudenza indica che chiunque desideri cogliere al volo una possibilità non sarà mai abbastanza veloce; qualsiasi esitazione è incauta, perché la sanzione è pesante. L’ignoranza su come le cose stiano veramente rimarrà di certo, finché non sarà stata pienamente verificata la forza di ciascun momento, e dunque solo una fretta che cancelli qualsiasi battuta di arresto potrebbe – ma è solo una possibilità – compensare la profusione di false schiarite e false partenze. Poiché si è convinti che vaste distese si aprano per nuovi inizi, con un gran numero di punti il cui potenziale inesplorato di big bang non ha perso nulla del suo mistero e non è dunque stato (ancora) screditato, è ancora possibile portare in salvo la speranza dalle macerie di fini premature, o meglio di inizi abortiti. Tuttavia, è vero che nella vita «dell’adesso» degli abitanti dell’era consumistica la motivazione a far presto risiede anche nella spinta ad acquisire e a raccogliere. Ma il bisogno più pressante che rende la fretta davvero imperiosa è la necessità di scartare e sostituire. Caricarsi di bagaglio pesante, e in particolare di quel genere di bagaglio pesante che si esita ad abbandonare per ragioni di attaccamento sentimentale o per un imprudente giuramento di fedeltà, ridurrebbe a zero le probabilità di successo. «È inutile piangere sul latte versato» è il messaggio latente dietro ogni spot pubblicitario che promette una nuova e inesplorata opportunità di felicità. O un big bang si verifica subito, al primo tentativo e in questo momento, oppure non ha più senso attardarsi in quel determinato punto ed è tempo di lasciarselo alle spalle per passare a un altro punto. Ogni punto temporale, in quanto luogo per un big bang, svanisce poco dopo la sua comparsa. Nella società dei produttori dopo una falsa partenza o un tentativo andato a vuoto il consiglio più frequente era di «riprovare, ma questa volta mettendocela tutta, con più abilità e più applicazione»: non così nella società dei consumatori. In quest’ultima gli strumenti che non hanno funzionato devono essere abbandonati, anziché affinati o utilizzati di nuovo con più abilità, più dedizione e, si spera, migliore effetto. Così, 46

quando quegli oggetti del desiderio di ieri e quei passati investimenti di speranza non mantengono le promesse e non danno la soddisfazione istantanea e completa che ci si riprometteva, vanno abbandonati, e lo stesso vale per qualsiasi relazione che abbia prodotto un bang meno big del previsto. La fretta dev’essere massima quando si passa in corsa da un momento fallito (passato, imminente o solo temuto) a un altro (non ancora messo alla prova). È bene tenere a mente l’amara lezione di Faust, condannato alle fiamme eterne proprio in un momento da lui desiderato immobile ed eterno (proprio perché estremamente gradevole). Nella cultura «dell’adesso» auspicare che il tempo si fermi è sintomo di stupidità, ignavia o inettitudine. È anche un crimine perseguibile. L’economia consumistica prospera sul ricambio delle merci e si pensa che quanto più denaro passa di mano, tanto più essa vada a gonfie vele; e ogni volta che il denaro passa di mano alcuni beni di consumo sono inviati alla discarica. Di conseguenza, in una società di consumatori la ricerca della felicità – lo scopo maggiormente evocato e utilizzato come esca nelle campagne di marketing che mirano a incentivare i consumatori a separarsi dal proprio denaro (denaro già guadagnato o che si prevede di guadagnare) – tende a spostare l’attenzione dal fare le cose, o appropriarsene, o accumularle, al disfarsene: ed è proprio questo ciò che occorre per far crescere il prodotto nazionale lordo. Per l’economia consumistica il vecchio baricentro – ormai in linea di massima abbandonato – equivale alla peggiore delle paure, a una situazione cioè in cui gli acquisti vanno a rilento, vengono rinviati o si fermano del tutto. L’alternativa, invece, promette assai bene: un altro giro di acquisti. Il semplice impulso ad acquisire e possedere porterebbe con sé problemi futuri se non fosse sostenuto dall’impulso a scartare e a disfarsi degli oggetti. I consumatori della società consumistica devono seguire le curiose abitudini degli abitanti di Leonia, una delle città invisibili di Calvino: 47

[...] più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità13.

Le grandi aziende specializzate nella vendita di «beni durevoli» hanno accettato tutto questo e ammettono che il servizio di cui c’è davvero bisogno, e per questo più ardentemente desiderato e apprezzato, è il «lavoro di pulizia». La sua urgenza aumenta di pari passo con la crescita dell’acquisizione e del possesso. Quasi mai le aziende ormai si fanno pagare la consegna del prodotto, ma esse aggiungono sempre più spesso al conto una certa somma per l’eliminazione dei beni «durevoli» che l’apparire di altri beni «durevoli», nuovi e migliorati, ha trasformato, da fonte di gioia e di orgoglio, in qualcosa che offende la vista, in un marchio di disonore. Liberarsi di quel marchio è ormai diventato condizione di felicità: e la felicità, come tutti sanno, si paga. Basti pensare al costo necessario per smaltire gli scarti degli imballaggi che transitano nel Regno Unito che, come riferisce Lucy Siegle, supereranno presto la soglia di 1,5 milioni di tonnellate14. Seguono a ruota le grandi aziende specializzate nel «settore della pelle», ossia che vendono servizi personali focalizzati sul corpo dei loro clienti. Ciò che queste aziende pubblicizzano accanitamente, e da cui traggono gli utili più sostanziosi, è il servizio di taglio, rimozione ed eliminazione: del grasso corporeo, delle rughe facciali, dell’acne, degli odori corporei, della depressione post-questo e post-quello, o di una gran quantità di fluidi misteriosi e mai sentiti prima, o dei resti non digeriti di festeggiamenti, che si sono insediati illegittimamente nel corpo e se ne andranno solo se spazzati via con la forza. Quanto alle grandi aziende specializzate nel far avvicinare le persone, come il servizio di incontri su internet di Aol, 48

esse tendono a sottolineare la facilità con cui i loro clienti, se (e naturalmente soltanto se) usano i loro servizi, possono liberarsi dei partner indesiderati, o evitare che i partner il cui smaltimento diventa difficile si trattengano più del necessario. Quando offrono la loro assistenza di intermediari, le aziende in questione sottolineano che l’esperienza dell’incontro online è sicura, pur avvertendo che «se un altro iscritto vi mette a disagio smettete di contattarlo. Potete bloccarlo in modo da non ricevere messaggi indesiderati». Aol fornisce un lungo elenco di «precauzioni per rendere sicuro un incontro offline». Per sopperire a tutti questi bisogni, spinte, pulsioni e dipendenze e per alimentare i nuovi meccanismi di motivazione e guida e il monitoraggio del comportamento umano, l’economia consumistica deve fare affidamento sull’eccesso e sullo spreco. La prospettiva di contenere e assimilare la massa inarrestabilmente crescente delle innovazioni diventa sempre più incerta, se non addirittura nebulosa. Ciò accade perché, per far sì che l’economia consumistica non si arresti, il ritmo con cui la quantità già enorme di novità cresce è destinato ad andare oltre qualsiasi obiettivo a misura della domanda oramai superata. Nell’economia consumistica i prodotti (inventati, scoperti per caso o perlopiù progettati negli uffici di ricerca e sviluppo) prima arrivano e poi vanno in cerca di applicazioni. Molti, forse la maggior parte, di essi finiscono rapidamente tra i rifiuti, non essendo riusciti a trovare clienti, o addirittura ancor prima di cercarli. Ma persino i pochi prodotti fortunati che riescono a trovare o a evocare un bisogno o un desiderio per la cui soddisfazione essi possano dimostrare di essere (o di poter finire per diventare) rilevanti, tendono ben presto a soccombere alla pressione di altri prodotti, «nuovi e migliorati» (che cioè promettono di fare, più in fretta e meglio, tutto ciò che facevano i vecchi prodotti, con in più il van49

taggio di fare altre cose alla cui utilità fino allora nessun consumatore aveva mai pensato, né tanto meno dietro pagamento) molto prima del momento preordinato in cui cessano di funzionare. Gli aspetti dell’esistenza e i gadget al suo servizio si moltiplicano perlopiù a tasso esponenziale, come sottolinea Thomas Hylland Eriksen15. E ogni volta che si ha crescita esponenziale, si raggiunge ben presto un punto in cui l’offerta eccede la capacità della domanda, vera o presunta; spesso e volentieri quel punto ne precede un altro, ancor più drammatico, in cui si raggiunge il limite naturale dell’offerta. Probabilmente queste tendenze patologiche (ed eminentemente dispendiose) della produzione di beni e servizi avrebbero potuto essere individuate per tempo, riconoscendole per ciò che sono e forse persino individuando per esse misure correttive o preventive, se non fosse stato per un altro processo di crescita esponenziale, sotto vari aspetti speciale, che produce un eccesso di informazioni. Ignacio Ramonet ha calcolato che negli ultimi trent’anni siano state prodotte nel mondo più informazioni che nei cinquemila anni precedenti, mentre «un solo numero domenicale del ‘New York Times’ contiene più informazioni di quante ne poteva consumare un erudito del Settecento in tutta la sua vita»16. Quanto sia difficile, anzi impossibile, assorbire e assimilare la quantità di informazioni attualmente «disponibili» (rendendone la maggior parte endemicamente superflue, o meglio abortite) lo si può cogliere ad esempio nell’osservazione di Eriksen secondo cui «più di metà degli articoli pubblicati nelle riviste di scienze sociali non viene mai citata»17, il che fa pensare che oltre metà delle informazioni prodotte dalla ricerca non venga mai letta da nessuno se non dagli anonimi «revisori» scientifici e editoriali. E vorrei aggiungere che, dal momento che parecchi autori di studi scientifici citano nei riferimenti bibliografici testi che non hanno mai letto (il sistema di citazione più diffuso e affermato nelle 50

riviste scientifiche non chiede il minimo coinvolgimento di un autore nella sostanza dei testi che cita, e si traduce in pratica nel mero inserimento di nomi e titoli, sancendo e agevolando notevolmente una simile procedura), è evidente a chiunque quanto piccola sia quella parte dei contenuti delle pubblicazioni che riesce almeno a farsi strada nel discorso sociale e scientifico, se non a influenzarne la direzione in modo tangibile. «Ci sono troppe informazioni in circolazione», è la conclusione di Eriksen18. «Nella società dell’informazione bisogna essere assolutamente capaci di difendersi dal 99,99 per cento delle informazioni che ci vengono offerte e di cui non abbiamo bisogno». Si può dire che la linea che separa il messaggio significativo, il presunto oggetto della comunicazione, dal rumore di fondo – il suo avversario riconosciuto e l’ostacolo più fastidioso – è stata pressoché cancellata. Nella competizione all’ultimo sangue per la più scarsa delle risorse – l’attenzione dei potenziali consumatori – i produttori dei potenziali beni di consumo, compresi i fornitori dell’informazione, sono alla disperata ricerca delle briciole del tempo dei consumatori ancora inutilizzate e degli interstizi anche minimi tra un momento di consumo e un altro ancora suscettibili di essere riempiti con altre informazioni. La speranza dei produttori è che una piccola frazione della folla anonima dei destinatari della comunicazione, nell’affannosa ricerca delle informazioni di cui ha bisogno, si imbatta per caso in informazioni di cui non ha bisogno, che ne sia colpita o semplicemente sia sufficientemente stanca da fermarsi o rallentare per il tempo necessario ad assorbirle al posto delle informazioni che originariamente cercava. Il risultato è che raccogliere frammenti di rumore e convertirli in messaggi dotati di senso si trasforma in un processo sostanzialmente casuale. I «lanci», quei prodotti dell’industria della comunicazione volti a separare gli oggetti meritevoli di attenzione (leggi: redditizi) dal rumore improduttivo (leggi: non redditizio) – come le inserzioni pubblicitarie a tutta pagina che annunciano la pri51

ma di un film o di uno spettacolo teatrale, l’uscita di un nuovo libro, la messa in onda di uno show televisivo che ha raccolto molta pubblicità o l’apertura di una nuova mostra – catalizzano l’attenzione, per pochi minuti o per pochi giorni, su un determinato oggetto del desiderio di consumo. Queste iniziative riescono per un attimo a deviare, orientare e condensare la ricerca di «filtri», accanita e continua ma generalmente priva di guida e dispersiva, che riprende ben presto inesorabile. Poiché anche il numero dei contendenti che tentano di intercettare parte dell’attenzione dei potenziali consumatori cresce a ritmo esponenziale, il lavoro di filtraggio supera la capacità dei filtri, persino di quelli appena inventati e che ancora devono entrare in funzione. Di qui il fenomeno sempre più comune dell’«accatastamento verticale» [vertical stacking], concetto coniato da Bill Martin per spiegare lo stupefacente accumularsi di mode musicali, mentre chi promuove novità sul «mercato musicale» lotta febbrilmente per espandere la capacità di assorbimento degli acquirenti e le scarse aree vuote del mercato vengono riempite fino all’orlo dalla sempre crescente marea di offerte nuove o riciclate. Martin afferma che per quanto riguarda la musica pop le immagini del «tempo lineare» e del «progresso» rientrano tra le vittime illustri del diluvio di informazioni19. Grazie alla breve aspettativa di vita della memoria pubblica, tutti i possibili stili musicali rétro e tutte le forme concepibili di riarrangiamento, riciclaggio e plagio, spacciate per l’ultimo grido si ritrovano ammassate nello stesso, limitato ambito dell’attenzione dei fan. Il caso della musica pop, tuttavia, non è che una manifestazione della tendenza virtualmente universale che interessa in eguale misura qualsiasi area dell’esistenza rifornita dall’industria dei beni di consumo. Per citare ancora una volta Eriksen: Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decon52

testualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. [...] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato20.

La tendenza ad assumere un atteggiamento blasé verso la conoscenza, il lavoro o lo stile di vita (anzi verso la vita in quanto tale, e verso tutto ciò che essa contiene) venne già osservata da Georg Simmel, con sorprendente lungimiranza, all’inizio del Novecento, quando essa iniziò ad affiorare tra i residenti della «metropoli», la caotica, immensa e affollata città moderna: L’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze. [...] Le cose galleggiano con lo stesso peso specifico nell’inarrestabile corrente del denaro [...]21.

Un fenomeno ancor più importante, straordinariamente simile a quello scoperto e analizzato da Simmel come «essere blasé», qualcosa di molto simile a una versione matura e completa della tendenza individuata quand’era ancora in una fase iniziale, immatura e embrionale, da quel pensatore eccezionalmente acuto, è oggi analizzato sotto l’etichetta di «malinconia». Gli autori propensi a usare il termine tendono oggi ad aggirare la previsione e il senso di presagio di Simmel e risalgono ancora più indietro, direttamente ai risultati di autori antichi come Aristotele o alla riscoperta e riconsiderazione di pensatori rinascimentali come Ficino o Milton. Il concetto di «malinconia» attualmente utilizzato «rappresenta», secondo 53

Rolland Munro, «non tanto uno stato di indecisione, di esitazione rispetto alla scelta se andare da una parte o dall’altra, quanto una rinuncia alle divisioni stesse»; esso indica lo «sciogliersi» dall’«attaccamento a una qualsiasi cosa specifica». Essere «malinconici» equivale ad «avvertire l’infinito della connessione senza essere agganciati a nulla». In breve, la «malinconia» fa riferimento a «una forma senza contenuto, a un rifiuto di sapere solo questo o quello»22. Mi pare che l’idea di «malinconia» esprima, in ultima analisi, il problema del consumatore (Homo eligens per decreto della società dei consumi) nella sua forma generica: la confusione che deriva dallo scontro fatale tra l’obbligo e la necessità di scegliere (l’assuefazione alla scelta) e l’incapacità di compiere una scelta. Nel linguaggio di Simmel, quell’idea rappresenta la transitorietà intrinseca e la deliberata irrilevanza degli oggetti che vagano, affondano e riemergono nella marea crescente degli stimoli. Tale irrilevanza si traduce, nel codice di comportamento dei consumatori, in ingordigia indiscriminata e onnivora: una forma radicale ed estrema di strategia esistenziale da ultima spiaggia che scommette su più tavoli, in un contesto di vita contraddistinto dalla «puntinizzazione» del tempo e dall’assenza di criteri affidabili per separare il messaggio dal rumore, ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Che gli uomini abbiano sempre preferito la felicità all’infelicità è un’osservazione banale, o meglio ancora un pleonasmo, poiché il concetto di «felicità» nelle sue accezioni prevalenti si riferisce a stati o a eventi auspicati, mentre l’«infelicità» rappresenta stati o eventi che si desidera evitare. I concetti di «felicità» e «infelicità» segnalano una distanza tra la realtà quale essa è e una realtà auspicata. Per tale ragione qualsiasi tentativo di confrontare gradi di felicità sperimentati da persone che hanno stili di vita separati nello spazio o nel tempo non può che essere mal formulato e, in ultima analisi, ozioso. 54

In effetti, se il popolo A vivesse in un diverso contesto socioculturale rispetto al popolo B, sarebbe vano o presuntuoso voler stabilire chi sia «più felice» tra A e B. I sentimenti di felicità, o di assenza di felicità, derivano da speranze e aspettative e da abitudini apprese, e queste inevitabilmente differiscono da un contesto sociale all’altro, allo stesso modo in cui la carne di un determinato tipo, che il popolo A mangia con gusto, è considerata rivoltante e nociva dal popolo B. Quest’ultimo, se fosse trasportato nelle condizioni in cui notoriamente il popolo A si sente felice, potrebbe sentirsi in disgrazia e viceversa. Come sappiamo da Freud, la fine improvvisa di un mal di denti può rendere incredibilmente felice chi ne è stato colpito, cosa invece impossibile se i denti non fanno mai male... Questi confronti hanno la colpa di ignorare il fattore dell’esperienza non condivisa, e il massimo che possiamo attenderci da essi è un’informazione sulla selettività e sulla natura condizionata in termini temporali o spaziali della propensione a lamentarsi e della sopportazione della sofferenza. Per queste ragioni, la questione se la moderna rivoluzione del consumismo abbia reso le persone più o meno felici rispetto a coloro, per fare un esempio, che vivevano nella società dei produttori solido-moderna o nell’era premoderna è opinabile e in ultima analisi controversa, e molto probabilmente lo sarà sempre. Qualunque valutazione apparirà convincente solo nel contesto delle specifiche preferenze del valutatore e nei limiti della sua immaginazione. L’elenco delle gioie e dei dolori sarà certamente compilato in base alla nozione di gioia e dolore prevalente nel momento in cui si stila l’inventario delle cose che si ritiene e/o si spera portino la felicità. La posizione, l’esperienza, le prospettive cognitive e le preferenze di valore del valutatore e del valutato sono destinate a essere doppiamente e irrimediabilmente sfasate, ponendo in dubbio qualsiasi possibilità di visione unitaria. I valutatori non hanno mai vissuto (cosa diversa dal fare una breve visita mantenendo la condizione speciale di visitato55

re/turista per tutta la durata del viaggio) nelle condizioni normali per i valutati – mentre questi ultimi non avranno mai la possibilità di reagire alla valutazione, e anche se l’avessero (postuma) non sarebbero in grado di giudicare i pregi relativi di un contesto totalmente inconsueto di cui non hanno esperienza diretta. I giudizi che si sentono o si leggono, incentrati (di solito) sui relativi vantaggi o (meno spesso) svantaggi della capacità della società dei consumi di generare felicità, sono dunque privi di valore cognitivo (a meno di considerarli indicativi dei valori dichiarati o impliciti di chi li ha formulati), ed è dunque opportuno evitare tali valutazioni comparative. Ci si dovrebbe piuttosto concentrare sui dati che permettono di far luce sulla capacità di tale società di tener fede alla sua promessa; in altri termini, i suoi risultati andrebbero giudicati in base ai valori che essa stessa promuove nel momento in cui promette di renderne facile il raggiungimento. Il valore più caratteristico della società dei consumi, anzi il suo valore supremo rispetto al quale tutti gli altri sono chiamati a giustificare il proprio merito, è una vita felice; anzi, la società dei consumi è forse l’unica società della storia umana che prometta la felicità nella vita terrena, la felicità qui e ora e in ogni successivo «ora»: felicità istantanea e perpetua. È anche l’unica società che si astenga ostinatamente dal giustificare e/o legittimare ogni forma di infelicità (salvo il dolore inflitto ai criminali in quanto «giusta ricompensa» per i loro delitti), che rifiuti di sopportarla e la presenti come un abominio che richiede punizione e risarcimento. Come nell’abbazia di Thélème di Rabelais o nell’Erewhon di Samuel Butler, nella società dei consumi l’infelicità è un reato punibile o, nel migliore dei casi, una peccaminosa perversione che squalifica chi la professa dall’appartenere a pieno titolo alla società. La domanda «sei felice?», se posta a chi vive in una società dei consumi liquido-moderna, ha uno status molto diverso dalla stessa domanda rivolta ai membri di società che non facevano tale promessa e non prendevano tale impegno. Il successo 56

della società dei consumi dipende interamente dalla felicità dei suoi membri, in una misura ignota e pressoché incomprensibile per qualsiasi altra società della storia. La risposta alla domanda «sei felice?» da parte di chi vive nella società dei consumi può legittimamente essere vista come verifica ultima della sua riuscita o del suo fallimento. Il verdetto che emerge dalle risposte a questa domanda, raccolte in un gran numero di indagini in un gran numero di paesi, è tutt’altro che lusinghiero. E ciò per due considerazioni. In primo luogo, come indicano i dati raccolti da Richard Layard nel suo libro sulla felicità23, il sentimento di felicità riportato cresce al crescere del reddito solo fino a un certa soglia, che coincide con il punto di soddisfacimento dei «bisogni di sopravvivenza» «essenziali» o «naturali»: ossia con le motivazioni al consumo che la società dei consumi denigra come primitive, immature o eccessivamente tradizionaliste (intrinsecamente contrastanti con la felicità) e cerca a tutti i costi di emarginare e rimpiazzare con desideri più flessibili ed espandibili e con auspici più fantasiosi e impulsivi. Al di sopra di tale soglia piuttosto bassa la correlazione tra la ricchezza (e con essa, presumibilmente, il livello di consumo) e la felicità scompare. Ulteriori incrementi di reddito non fanno salire il livello di felicità. Ciò che indicano queste risultanze è che, contrariamente alla promessa dall’alto e alle credenze diffuse, il consumo non è sinonimo dello stato di felicità, né un’attività che ne provochi con certezza l’avvento. Il consumo, che Layard definisce una «ruota edonistica», non è una macchina brevettata per produrre una quantità costantemente crescente di felicità. Sembrerebbe anzi vero il contrario: come suggeriscono le dichiarazioni meticolosamente raccolte dagli studiosi, chi entra in una «ruota edonistica» non ottiene per questo una maggiore soddisfazione totale. La capacità dei consumi di aumentare la felicità è alquanto limitata, e non si lascia facilmente estendere oltre il livello di soddisfacimento dei «bisogni fondamentali dell’esistenza» distinti dai «bisogni di autorealizza57

zione» di cui parla Abraham Maslow. E il più delle volte, quando si arriva a questi ultimi, il consumo si rivela del tutto inefficace come «fattore di felicità». In secondo luogo, non esiste alcuna prova che con la crescita dell’ammontare complessivo (o «medio») del consumo aumenti il numero di coloro che affermano di «sentirsi felici». Secondo Andrew Oswald del «Financial Times», si riscontra di solito la tendenza opposta; la sua conclusione è che gli abitanti dei paesi più sviluppati e agiati, le cui economie hanno come forza propulsiva i consumi, arricchendosi non sono diventati più felici24. Dall’altra parte, in questi paesi si nota anche la tendenza all’aumento di frequenza, quantità e intensità dei fenomeni negativi e delle cause di disagio e infelicità, come stress o depressione, orari di lavoro lunghi e asociali, peggioramento dei rapporti umani, mancanza di fiducia in se stessi e dubbi snervanti circa la saldezza della propria posizione e delle proprie ragioni. La tesi secondo cui la crescita dei consumi è la strada maestra per ottenere la maggior felicità possibile per il maggior numero di persone non è dimostrata, e la questione non è chiusa. Tutt’altro: man mano che si esaminano i fatti al riguardo, le prove a sostegno diventano più precarie e dubbie. Man mano che il processo prosegue si accumulano elementi contrari che dimostrano, o almeno indicano fortemente, che, al contrario di quanto sostenuto, un’economia orientata ai consumi promuove attivamente il malcontento, erode la fiducia e rafforza il sentimento di insicurezza, diventando a sua volta fonte della paura diffusa che essa promette di curare o fugare – la paura che satura la vita liquido-moderna ed è la principale causa della forma liquido-moderna di infelicità. Mentre la società dei consumatori si fonda sulla promessa di gratificare i desideri umani in una misura che nessun’altra società del passato poteva raggiungere e nemmeno sognare di raggiungere, la promessa di soddisfazione esercita la sua ca58

pacità di seduzione solo finché i desideri rimangono insoddisfatti o, cosa più importante, finché il cliente non è «completamente soddisfatto», e cioè finché i desideri che davano motivazione e impulso alla ricerca di soddisfazione e ispiravano gli esperimenti consumistici non si ritiene siano stati davvero e pienamente soddisfatti. Se l’incubo della nascente «società dei produttori» era costituito dai «lavoratori tradizionali» facili da accontentare, che non accettavano di lavorare più di quanto necessario per mantenere il loro stile di vita consueto, i «consumatori tradizionali» guidati dai bisogni consueti di ieri, ben lieti di chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie per sfuggire alle blandizie e alle esche del mercato, per conservare le vecchie abitudini e per difendere i propri stili di vita, rappresenterebbero per la società dei consumatori, per l’industria e i mercati dei beni di consumo la campana a morto. Una bassa soglia dei sogni e un facile accesso a beni sufficienti a raggiungerla, la convinzione che soddisfare i bisogni «autentici» e realizzare i desideri «realistici» sia impossibile per limiti oggettivi difficili o insuperabili: questi sono, per l’economia orientata ai consumi, gli avversari più temibili che quindi occorre far scivolare nell’oblio. Il vero «volano» dell’economia orientata ai consumatori è costituito proprio dalla mancata soddisfazione dei desideri e dal costante rinnovarsi e rafforzarsi della convinzione incrollabile secondo cui il tentativo di soddisfare quei desideri è almeno in parte fallito, lascia molto a desiderare e potrebbe dare risultati migliori. La società dei consumatori cresce rigogliosa finché riesce a rendere perpetua la non-soddisfazione dei suoi membri, e dunque la loro infelicità, per usare il suo stesso termine. Il metodo esplicito per conseguire tale effetto consiste nel denigrare e svalutare i prodotti di consumo poco dopo averli portati alla ribalta nell’universo dei desideri dei consumatori. Ma un altro modo per fare la stessa cosa, ancor più efficace, rimane in penombra, e solo di rado qualche giornalista investigativo particolarmente sagace vi getta luce: il metodo 59

consiste nel soddisfare ogni bisogno/desiderio/carenza in modo tale che essi non possano che dar luogo a nuovi bisogni/desideri/carenze. Quello che inizia come sforzo per soddisfare un bisogno deve diventare alla fine una coazione o un’assuefazione. Ed è ciò che avviene, finché l’impulso a cercare nelle vetrine dei negozi, e solo lì, le soluzioni ai problemi e il sollievo ai dolori e alle ansie rimane un aspetto del comportamento non solo consentito, ma vivamente incoraggiato, finendo per condensarsi in un’abitudine o in una strategia che appaiono prive di alternativa. Il divario che si apre tra la promessa e il suo mantenimento non è segno di un malfunzionamento, né effetto secondario di una negligenza o esito di un calcolo errato. Lo spazio di ipocrisia che si estende tra le convinzioni diffuse e le realtà della vita dei consumatori è condizione necessaria di una società dei consumatori correttamente funzionante. Se si vuole che la ricerca di appagamento prosegua e che le nuove promesse siano seducenti e allettanti, è necessario che le promesse già fatte siano puntualmente disattese e le speranze di appagamento vanificate. Ogni promessa deve essere ingannevole, o almeno esagerata, se non si vuole che la ricerca si arresti o che non venga più effettuata con la solerzia (e dunque l’intensità) necessarie per assicurare la circolazione delle merci tra le linee di produzione, i negozi e le pattumiere. Senza la reiterata frustrazione dei desideri la domanda di consumi si esaurirebbe ben presto e l’economia orientata ai consumatori perderebbe la forza per andare avanti. È l’eccesso complessivo delle promesse a neutralizzare la frustrazione provocata dalle loro imperfezioni e difetti e a far sì che le esperienze frustranti non si accumulino fino a erodere la fiducia nell’efficacia ultima della ricerca. Per tale ragione il consumismo, oltre a essere un’economia dell’eccesso e dello spreco, è anche un’economia dell’illusione. Esso fa leva sulla irrazionalità dei consumatori, non sulle loro previsioni informate e disincantate; punta a suscitare emozioni consumistiche, non a sviluppare la ragione. L’illusione, co60

me l’eccesso e lo spreco, non segnala un malfunzionamento dell’economia dei consumi. È, al contrario, sintomo della sua buona salute, del suo essere sulla giusta rotta; ed è segno distintivo dell’unico regime che può assicurare a una società dei consumatori la sopravvivenza. La rottamazione delle offerte di consumo che si susseguono in continuazione, da cui ci si riprometteva (e che promettevano) la soddisfazione dei desideri già destati e di altri ancora da destare si lascia alle spalle montagne di aspettative deluse. Il tasso di mortalità delle aspettative è elevato, e in una società dei consumi che funziona bene deve aumentare costantemente. L’aspettativa di vita delle speranze è scarsa, e solo promuovendone la massima fecondità possibile e un tasso di nascita esageratamente elevato è possibile evitare che si assottiglino e si spengano. Affinché le aspettative restino vive, e nuove speranze riempiano prontamente il vuoto lasciato da quelle appena cadute in discredito e rottamate, il tragitto dal negozio alla pattumiera dev’essere il più breve possibile e il passaggio dall’uno all’altra il più rapido possibile. Ma la società dei consumatori ha un’altra caratteristica fondamentale che la rende diversa da ogni altra soluzione, per quanto ingegnosa, per assicurare in modo sapiente ed efficace la «manutenzione del modello» e la «gestione della tensione» – prerequisiti di un «sistema capace di autoequilibrarsi» secondo Talcott Parsons. La società dei consumatori ha sviluppato, in misura senza precedenti, la capacità di assorbire il dissenso di ogni e qualsiasi tipo che essa (come altri tipi di società) inevitabilmente genera, trasformandolo in una risorsa fondamentale per riprodursi, rafforzarsi ed espandersi. La società dei consumatori deriva il proprio animus e abbrivio dalla disaffezione che essa stessa abilmente produce. Offre un ottimo esempio di un processo che Thomas Mathiesen ha recentemente descritto come «tacita tacitazione»25: os61

sia usando l’espediente dell’«assorbimento» per soffocare sul nascere il dissenso e la protesta generati e diffusi dal sistema, facendo sì che «gli atteggiamenti e le azioni che originariamente trascendono l’obiettivo immediato» – minacciando il sistema di esplosione o implosione – «vengono integrati nell’ordine prevalente in modo da continuare a servire gli interessi dominanti. In questo modo sono resi innocui per l’ordine vigente». Si può aggiungere che essi vengono addirittura convertiti in una risorsa fondamentale per rafforzare e assicurare la riproduzione continua di quell’ordine. Il modo principale con cui tale effetto è ripetutamente ottenuto sarebbe inconcepibile fuori del contesto liquido-moderno della società e della cultura consumistiche. Quel contesto è caratterizzato da una fortissima deregolamentazione e deproceduralizzazione del comportamento umano, che si ricollegano direttamente all’affievolirsi e/o disgregarsi dei legami umani, spesso indicato con il termine «individualizzazione»26. La principale attrazione di una vita trascorsa a fare acquisti è la copiosa offerta di nuovi inizi e risurrezioni (ossia di possibilità di «rinascere»). Per quanto disonesta, e in ultima analisi frustrante, possa a volte apparire quell’offerta, la strategia di costante attenzione a fare e rifare la propria identità con l’aiuto dei kit offerti sul mercato è destinata a rimanere l’unica credibile o «ragionevole» in un ambiente caleidoscopicamente instabile, in cui fare «progetti per tutta una vita» e pianificare a lungo termine non sono più percepiti come propositi realistici, ma sconsiderati e inopportuni. Allo stesso tempo, l’eccesso, potenzialmente inabilitante, delle informazioni «oggettivamente disponibili» rispetto alla capacità di assorbimento e riutilizzo propria della mente si traduce in un costante eccesso di opzioni di vita rispetto al numero di reincarnazioni sperimentate nella pratica e disponibili all’esame e alla valutazione. La strategia di vita di un consumatore esperto e maturo si impernia sulle visioni di «nuove albe» ma, per riprendere la 62

metafora del giovane Karl Marx, tali visioni sono come le falene attratte dalla luce delle lanterne delle case invece che dal bagliore del sole universale, ormai scomparso dietro l’orizzonte. In una società liquido-moderna le utopie condividono la condizione di tutte le altre imprese collettive che richiedono solidarietà e collaborazione: esse vengono privatizzate e affidate («sussidiarizzate») all’interesse e alle responsabilità degli individui. Vistosamente assente dalle visioni di nuove albe è un cambiamento del paesaggio: quella che ci si attende cambi (e quasi sicuramente «migliori») è solo la posizione individuale dell’osservatore, e con essa la sua possibilità di godere delle meraviglie e del fascino del paesaggio sottraendosi al tempo stesso alle visioni meno affascinanti o decisamente repellenti e disgustose. In un libro che ebbe ampia diffusione e grande influenza oltre vent’anni fa, Colette Dowling dichiarava che il desiderio di starsene al sicuro, al caldo e accuditi era un «sentimento pericoloso»27, raccomandando alle «cenerentole» del futuro di non cadere nelle trappole dell’epoca che iniziava: nell’impulso ad accudire ed essere accuditi era in agguato, secondo lei, il tremendo pericolo della dipendenza, la perdita della capacità di scegliere l’onda di volta in volta più favorevole per fare surf e di saltare prontamente da un’onda all’altra nel momento in cui essa cambia direzione. Come ha commentato Arlie Russell Hochschild, «la [...] paura della dipendenza dagli altri evoca l’immagine del cowboy americano, solitario, distaccato da tutto, che spazia libero con il suo cavallo. [...] Dalle ceneri di Cenerentola, dunque, nasce una cowgirl postmoderna»28. Il più popolare tra i recenti best-seller empatici e prodighi di consigli «sussurra al lettore: ‘Attenzione a investire nelle emozioni’»... Dowling ammonisce la donna a «investire nell’impresa solitaria della realizzazione di se stessi». Hochschild osserva: Lo spirito commerciale della vita intima prende corpo in immagini che contribuiscono alla formazione di un paradigma di sfi63

ducia [...] offrendo come ideale un’individualità ben difesa contro tutto ciò che può ferire. [...] le imprese eroiche da portare a compimento sono il distacco, l’allontanamento, il riuscire a non dipendere dagli altri. [...] In molti dei manuali «freddi» l’obiettivo dell’autore è prepararci alla relazione con un prossimo che non ha bisogno di cure e che non si curerà di noi.

La possibilità di popolare il mondo di persone più premurose e di indurle a essere più premurose non è tra i panorami dipinti dall’utopia consumistica. Le utopie privatizzate dei cowboy e delle cowgirl dell’era dei consumi mostrano piuttosto una vasta distesa di «spazio libero» (libero per me, ovviamente): una sorta di vuoto che il consumatore liquidomoderno, intento a compiere prestazioni da solista, richiede sempre più senza averne mai abbastanza. Lo spazio di cui ha bisogno, e che tutti gli consigliano di conquistarsi e difendere con le unghie e con i denti, può essere ottenuto solo sfrattando gli altri esseri umani, e in particolare i tipi di esseri umani che accudiscono e/o che possono aver bisogno di essere accuditi da qualcuno. Il mercato dei consumi ha rilevato dalla burocrazia solidomoderna il compito dell’adiaforizzazione: l’attività di eliminare il veleno dell’«essere per» dal vaccino dell’«essere con». Accade esattamente ciò che aveva anticipato Emmanuel Lévinas, riflettendo sul fatto che la «società», anziché un meccanismo che rende possibile una comunanza umana pacifica e amichevole a egoisti congeniti (come affermava Hobbes), può essere uno stratagemma per consentire a esseri umani endemicamente morali di conquistare una vita centrata su se stessi, autoreferenziale ed egoistica, espungendo, neutralizzando o tacitando quella tormentosa «responsabilità per l’Altro» che nasce ogni volta che appaia il volto dell’Altro: una responsabilità inseparabile dalla comunanza umana... Come sottolinea Frank Mort, secondo i rapporti trimestrali dello Henley Centre for Forecasting (una organizzazione di marketing che fornisce alle industrie di beni di consu64

mo informazioni sul cambiamento dei modelli d’uso del tempo libero da parte dei loro potenziali clienti in Gran Bretagna), negli ultimi vent’anni i primi posti nella classifica dei piaceri preferiti e più desiderati sono stati immancabilmente occupati da passatempi resi disponibili soprattutto attraverso forme di offerta che si basano sul mercato: fare acquisti per sé, andare al ristorante, svolgere attività fai-da-te e guardare video. La politica sta in fondo alla lista: andare a una riunione politica è per il pubblico britannico, insieme ad andare al circo, una delle cose più improbabili da fare29.

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Una società di consumatori

Se la cultura consumistica è il modo peculiare in cui i membri di una società di consumatori pensano di comportarsi, o in cui si comportano «irriflessivamente», vale a dire senza pensare a quale sia lo scopo della loro vita e a quali siano i mezzi giusti per realizzarlo, a come poter distinguere le cose e le azioni rilevanti a tal fine da quelle che considerano irrilevanti, a che cosa li stimoli oppure li lasci tiepidi e indifferenti, li attragga oppure li respinga, li spinga all’azione oppure li induca alla fuga, a che cosa desiderano oppure temono, a quale sia il punto in cui paure e desideri si bilanciano – se tutto questo è vero, la società dei consumatori indica un complesso peculiare di condizioni di vita in cui esiste una elevata probabilità che la maggioranza degli uomini e delle donne accetti la cultura consumistica al posto di qualsiasi altra cultura e che per gran parte del tempo essi obbediscano ai suoi precetti con il massimo impegno di cui sono capaci. La «società dei consumatori» è un tipo di società che (per usare il termine, una volta di moda, coniato da Louis Althusser) «interpella» i suoi membri (ossia si rivolge loro, li chiama, li invita all’azione e si appella loro, li interroga, interrompe e «distoglie») principalmente in veste di consumatori. Nel fare ciò, la «società» (qualsiasi agenzia umana dotata di mezzi di coercizione e di persuasione si nasconda dietro questa idea o immagine) si attende ascolto, attenzione e obbedienza; valuta, compensa e punisce i propri membri in base alla prontezza e alla correttezza delle risposte che essi danno alle sue domande. Il risultato è che le posizioni conquistate o 66

assegnate lungo l’asse eccellenza/inettitudine della prestazione consumistica diventano il fattore fondamentale di stratificazione e il principale criterio di inclusione ed esclusione, guidano la distribuzione del prestigio e della disapprovazione sociale e la quantità di attenzione pubblica ricevuta. «Società dei consumatori», in altri termini, è il tipo di società che promuove, incoraggia o impone la scelta di uno stile di vita e di una strategia di vita improntati al consumismo e disapprova qualsiasi opzione culturale alternativa; una società in cui l’adattamento ai precetti della cultura dei consumi e la loro rigida osservanza è, da qualsiasi punto di vista pratico, l’unica scelta approvata senza discussione: scelta praticabile – e dunque plausibile – e condizione di appartenenza. Si tratta di una svolta di rilievo, o meglio ancora di uno spartiacque della storia moderna. Come ha verificato Frank Trentmann nel suo sforzo esauriente e significativo di ripercorrere il cammino dei termini «consumo» e «consumatore» nel lessico utilizzato dai pensatori che nel corso dell’epoca moderna hanno descritto la realtà sociale che stava emergendo, il consumatore era virtualmente assente dal discorso settecentesco. Significativamente, tale termine appare solamente in sette delle 150.000 opere risalenti al XVIII secolo accessibili online – due volte come cliente privato, [...] una volta come cliente che paga dazi sull’importazione di merci coloniali, una volta come cliente che patisce i prezzi esosi dei mercanti e [...] due volte in riferimento al tempo («il consumatore veloce delle ore»)1.

In tutti i casi, come si può vedere, il termine era riferito a un personaggio marginale e in certo qual modo eccentrico, solo indirettamente rilevante per l’economia nel suo insieme, e tanto meno per la totalità della vita quotidiana. Da questo punto di vista, nel secolo successivo non si verificarono cambiamenti rilevanti, nonostante lo spettacolare sviluppo, riccamente documentato, delle prassi commerciali, della pubblicità, dei modi di esporre e, non da ultimo, delle «gallerie», 67

precorritrici degli odierni centri commerciali («templi del consumo», come le battezzò George Ritzer). Ancora nel 1910, «l’undicesima edizione dell’Encyclopaedia Britannica riteneva sufficiente una stringata voce consumption, definendo il consumo l’atto di gettar via in senso fisico, o il ‘termine tecnico’, utilizzato in economia, che indica la distruzione di beni di pubblica utilità come l’acqua o il gas». Per gran parte della storia moderna (ossia per tutta l’era dei grandi impianti industriali e dei grandi eserciti di leva) la società si rivolgeva alla maggioranza degli uomini in primo luogo come produttori e soldati, mentre «interpellava» quasi tutta la metà femminile della popolazione soprattutto in quanto fornitrice ufficiale di servizi. Pertanto l’obbedienza agli ordini e la conformità alla regola, la rassegnazione alla posizione assegnata e la sua accettazione come qualcosa che non si poteva mettere in discussione, la resistenza alle continue fatiche e la docile sottomissione alla monotonia delle routine, la disponibilità a rinviare la gratificazione e l’accettazione rassegnata dell’etica del lavoro (che voleva dire in primo luogo accettare il lavoro in quanto tale, indipendentemente dalla sua importanza2) erano gli schemi fondamentali di comportamento cui i membri della società venivano istruiti e addestrati, e che si chiedeva loro di apprendere e interiorizzare. Del potenziale lavoratore o soldato ciò che più contava era il corpo; lo spirito, d’altra parte, doveva essere tacitato e una volta tramortito e «deattivato» poteva essere trascurato come irrilevante, e nella maggior parte dei casi si poteva fare a meno di tenerne conto nel formulare linee politiche e mosse tattiche. La società dei produttori e dei soldati si concentrava sulla gestione dei corpi al fine di rendere la maggioranza dei suoi membri adatta ad abitare, e ad agire, nell’habitat naturale loro assegnato: la fabbrica e il campo di battaglia. In netto contrasto con la società dei produttori/soldati, la 68

società dei consumatori concentra sulla gestione dello spirito la formazione dei suoi membri e le pressioni coercitive esercitate su di essi fin dalla prima infanzia e per tutta la vita, lasciando la gestione del corpo al lavoro «fai da te» svolto, controllato e coordinato a livello individuale da individui addestrati e costretti nello spirito. Tale mutamento di accenti è indispensabile affinché chi fa parte della società si adatti a vivere e ad agire nel suo nuovo habitat naturale, tutto imperniato sui centri commerciali, in cui si cercano, si trovano e si acquistano i prodotti, e sulle strade, in cui essi vengono ostentati pubblicamente in modo da conferire a chi li porta un valore di mercato. Daniel Thomas Cook, dell’Università dell’Illinois, ha sintetizzato come segue la nuova tendenza: gli scontri che si combattono sulla, e attorno alla, cultura di consumo dei bambini non sono altro che battaglie sulla natura della persona e sull’ambito della personalità nel contesto della espansione sempre maggiore del commercio. Il rapporto dei bambini con i materiali, i media, le immagini e i significati che sorgono dal mondo mercantile, fanno riferimento e sono legati ad esso, ha un ruolo centrale nella creazione delle persone e delle posizioni morali nella vita contemporanea3.

La «dipendenza da negozio» dei bambini inizia non appena imparano a leggere, o forse ancora prima. Non esistono strategie di penetrazione distinte per maschi e femmine; diversamente dal produttore, il ruolo del consumatore non è legato al genere. In una società di consumatori ognuno deve, dovrebbe, è tenuto a essere un consumatore-per-vocazione (ossia a vedere e a considerare il consumo come una vocazione); in tale società il consumo-visto-e-considerato-come-vocazione è un unico diritto universale dell’uomo, e al tempo stesso un dovere universale che non conosce eccezioni. In tal senso la società dei consumatori (pur andando contro i fatti) non ammette differenze di età o di genere, e non farà sconti né all’una né all’altro; e nemmeno riconosce (pur andando 69

clamorosamente contro i fatti) distinzioni di classe. Dai centri geografici della rete mondiale delle autostrade informative fino alle sue più remote e immiserite periferie, i poveri si trovano giocoforza in una situazione in cui sono costretti a spendere lo scarso denaro o le poche risorse per procurarsi oggetti di consumo privi di senso, anziché sopperire a bisogni fondamentali, al fine di allontanare da sé una totale umiliazione sociale e la prospettiva di essere molestati e derisi4.

La vocazione consumistica poggia in ultima analisi sulla prestazione individuale. La selezione dei servizi in vendita sul mercato necessari per poter esercitare facilmente la prestazione individuale è considerata qualcosa che riguarda il singolo consumatore: un compito da affrontare e risolvere individualmente con l’aiuto di abilità di consumo e modelli di azione acquisiti individualmente. I consumatori di entrambi i sessi e di qualsiasi età e condizione sociale, bombardati da ogni parte dall’indicazione di dotarsi necessariamente di uno o dell’altro prodotto disponibile in commercio come condizione per conquistare e mantenere la reputazione sociale che desiderano, ottemperare ai propri obblighi sociali e tutelare la propria autostima – e perché ciò venga visto e riconosciuto –, si sentiranno inadeguati e carenti rispetto allo standard se non risponderanno prontamente all’appello. Per la stessa ragione (ossia perché l’adeguatezza, la «fitness sociale», è demandata alla responsabilità e alla cura individuale), nella società dei consumatori le prassi di esclusione sono molto più rigide, severe e inesorabili. In una società di produttori vengono definiti «anormali» e marchiati come «invalidi» gli individui maschi che non riescono ad affrontare e superare le prove di abilità produttivo/militare; costoro sono pertanto considerati oggetti di terapia (nella speranza di ri-abilitarli e riportarli «nei ranghi») o, in alternativa, di misure penali (al fine di dissuaderli dal resistere al ritorno all’ovile). Nella società dei consumatori gli «invalidi» desti70

nati all’esclusione (esclusione definitiva e irrevocabile che non consente appello) sono «consumatori difettosi». A differenza dei disadattati della società dei produttori (i disoccupati e gli inabili al servizio militare) essi non possono essere concepiti come persone meritevoli di cure e assistenza, poiché (pur andando clamorosamente contro i fatti) si ritiene che attenersi e obbedire ai precetti della cultura del consumo sia sempre e universalmente possibile. Tali precetti sono suscettibili di adozione e di applicazione da parte di chiunque lo desideri (infatti ci si può veder rifiutare un posto di lavoro pur avendo le abilità che esso richiede, ma non ci si può veder negare un bene di consumo se si ha il denaro per pagarlo, a meno di non trovarsi in una «dittatura sui bisogni» di tipo comunista), e dunque si ritiene (contro i fatti, ancora una volta) che obbedire a quei precetti dipenda esclusivamente dalla volontà e disponibilità individuale. Partendo da tale assunto, nella società dei consumatori qualsiasi «inabilità sociale» che conduca all’esclusione può essere solo l’esito di colpe individuali; e qualsiasi sospetto che esistano cause di fallimento «estrinseche», trascendenti gli individui e radicate nella società, è eliminato sul nascere, o quanto meno messo in questione e squalificato come argomento valido a difesa. «Consumare» significa dunque investire nella propria appartenenza alla società, che in una società di consumatori significa «vendibilità»: l’acquisizione di caratteristiche per cui esista già una domanda di mercato, o la trasformazione di caratteristiche che già si possiedono in merci per le quali si può continuare a creare domanda. La maggior parte dei prodotti di consumo offerti sul mercato deriva la loro attrattiva, e il potere che ha di chiamare a raccolta consumatori entusiastici, dal suo vero o presunto valore d’investimento, reclamizzato apertamente o suggerito indirettamente. La promessa di accrescere l’attrattiva nei confronti dell’acquirente (e con essa il prezzo di mercato) è scritta a chiare lettere, o almeno fra le righe, nei prospetti informativi di qualsiasi prodotto, compresi quelli che in apparenza si acquistano solo o soprattutto 71

per deliziare il consumatore: il consumo è un investimento in qualsiasi cosa contribuisca al «valore sociale» e all’autostima dell’individuo. Nella società dei consumatori lo scopo principale o determinante del consumo (sebbene quasi mai dichiarato in modo tanto esplicito, e ancor meno discusso a livello pubblico) non è sopperire ai bisogni, ai desideri e alle carenze del consumatore, ma è la sua mercificazione o ri-mercificazione: innalzare lo status dei consumatori a quello di merci vendibili. Per questo motivo, in ultima analisi, il superamento del test del consumatore è condizione necessaria per essere ammessi a far parte della società che è stata rimodellata a somiglianza del mercato. Il superamento del test è condizione preliminare non contrattuale di tutti i rapporti contrattuali che formano la trama delle relazioni che va sotto il nome di «società dei consumatori», e di cui quegli stessi rapporti sono intessuti. È questa condizione preliminare, che non prevede eccezioni e non tollera rifiuto, a saldare il complesso delle transazioni di vendita e di acquisto in una totalità immaginata o, più precisamente, a consentire che quel complesso venga vissuto come una totalità chiamata «società» – entità cui è possibile ascrivere la capacità di «fare richieste» e di costringere gli attori a obbedirvi – rendendo possibile attribuire ad essa lo statuto di «fatto sociale» nel senso inteso da Durkheim. Chi fa parte della società dei consumatori è a sua volta un prodotto di consumo, ed è tale sua caratteristica a sancirne realmente l’appartenenza alla società. Essere e restare un prodotto vendibile è la motivazione più potente delle preoccupazioni del consumatore, sebbene ciò avvenga di solito in modo latente, e solo in pochi casi consapevole o esplicitamente dichiarato. L’attrattiva dei beni di consumo, oggetto attuale o potenziale del desiderio che a sua volta innesca l’azione dei consumatori, tende a essere valutata in base all’efficacia nel far salire il prezzo di mercato del consumato72

re stesso. Farsi «prodotto vendibile» è un’attività «fai da te» e un dovere individuale: farsi, non semplicemente divenire, è la sfida e il compito. L’idea secondo cui nessuno nasce come creatura pienamente umana, e secondo cui occorre fare molte cose per divenire pienamente e veramente umani, non è una invenzione della società dei consumatori, e nemmeno dell’era moderna. È quella che Günther Anders descrisse nel 1956 come «vergogna prometeica»5: la vergogna di mancare al proprio dovere di rendersi diversi (e presumibilmente migliori) di ciò che si è «divenuti», di ciò che si è. Nei termini di Anders, «la sfida prometeica» è il «rifiuto di essere debitori di qualche cosa, persino di se stessi, ad altri», mentre «l’orgoglio prometeico consiste nel dovere tutto, persino se stessi, esclusivamente a se stessi». È chiaro che nell’odierna versione del modo prometeico di essere-nelmondo (o, meglio, nella parafrasi/contorsione/perversione contemporanea dell’ambizione prometeica) l’oggetto del contendere, la posta in gioco e il principale premio è proprio il sé, «il proprio io» – non il mero «divenire» in conseguenza dell’accidente di essere stati concepiti e messi al mondo dalla propria madre. Che il «mero divenire» non possa affatto arrivare alla potenziale perfezione dell’artificio è stato un assioma della visione del mondo universalmente vincolante (sebbene non universalmente accettata) fin dall’inizio dei tempi moderni e illuminati. Gli uomini, armati della Ragione, possono, devono e vogliono migliorare la Natura – anche la propria natura, quella «natura» che ha prodotto il loro apparire-nel-mondo e ha determinato il percorso del loro «divenire». L’impresa prometeica, dunque, non era più la leggendaria prodezza una tantum di un semidio, ma la modalità, o il destino, della umana presenza-nel-mondo in quanto tale. La forma del mondo – il suo grado di «perfezione» – diveniva materia di preoccupazione e azione finalizzata dell’uomo. E lo stesso valeva, indirettamente, per lo stato di ogni singolo individuo, per il suo personale grado di perfezione. 73

Occorreva ancora un passo perché dalla sfida e dall’orgoglio di Prometeo nascesse la vergogna prometeica. Quel passo fatale, a mio avviso, è stato il passaggio dalla società dei produttori (caratterizzata dallo spirito manageriale di regolamentazione normativa, dalla divisione e supervisione del lavoro, dal coordinamento che genera docilità e dalla docilità verso il coordinamento) alla società dei consumatori (caratterizzata da una individualizzazione di volta in volta coercitiva o spontanea, dall’autoreferenzialità delle preoccupazioni, dei compiti, dei modi di assolvere ai compiti e delle responsabilità per gli effetti di tale assolvimento). Quel passo ha portato con sé un’enfasi tanto grande da oscurare qualsiasi altra cosa su «se stessi» come principale oggetto, e al tempo stesso principale soggetto, del compito di rifare il mondo e della responsabilità di tale compito: un accento sull’io individuale in quanto al tempo stesso tutore e pupillo del modo di essere prometeico. Candidandosi apertamente al predominio sui suoi membri, alla priorità degli interessi e delle ambizioni della «società» su quelli individuali e di «gruppo», e al tempo stesso assumendosi la paternità del mondo in quanto artificio dell’azione umana guidata dalla ragione, la società dei produttori assumeva, lo volesse o meno, il ruolo di «Prometeo collettivo», sostituendo all’adesione alla norma la responsabilità individuale per la qualità del prodotto. La società dei consumatori «esternalizza», «appalta», «sussidiarizza» agli individui il ruolo di Prometeo e la responsabilità della sua prestazione. La vergogna prometeica, a differenza della sfida o dell’orgoglio di Prometeo, è un sentimento totalmente individuale. Le «società» non si vergognano mai, né possono essere umiliate: la vergogna è concepibile solo come condizione individuale. Avendo sconfessato e abbandonato dichiaratamente, o almeno di fatto, lo status prometeico che essa precedentemente rivendicava, la società si nasconde dietro ai suoi artifici. L’autorità e i privilegi dovuti a un essere superiore, un tem74

po possesso esclusivo e gelosamente custodito della «società umana», sono stati trasferiti ai prodotti dell’uomo, tracce materiali della ragione, dell’inventiva e dell’abilità umane. Essi sono gli unici in grado di svolgere perfettamente o quasi i compiti che un «uomo nato da una donna», mero effetto secondario della natura che è irrimediabilmente contingente, farebbe «alla bell’e meglio», con una qualità disonorevolmente inferiore. È l’artificio, che si incontra ogni giorno nei prodotti dell’industria dei consumi, a librarsi ormai sulla testa di ogni e qualsiasi individuo umano e a sovrastarlo come esempio di perfezione e modello per sforzi di emulazione dichiaratamente condannati al fallimento. Avendo accettato la superiorità della res, della cosa, secondo Anders «gli uomini rifiutano l’incompletezza della propria riduzione a cosa come l’equivalente di una sconfitta». «Essere nati» e «divenuti», anziché essere totalmente fatti, dall’inizio alla fine, è ormai motivo di umiliazione. La vergogna prometeica è un sentimento per cui uomini e donne sono «intimiditi dalla superiorità e dalla supremazia dei loro prodotti». Citando Nietzsche, Anders sostiene che oggi il corpo umano (ossia il corpo ricevuto accidentalmente dalla natura) è qualcosa che «deve venir superato» e che ci si deve lasciare alle spalle. Il corpo «grezzo», disadorno, non ri-formato né «lavorato», è motivo di vergogna: offende lo sguardo, lascia immancabilmente molto a desiderare, e soprattutto è testimone vivente di un dovere non compiuto da parte dell’«io», e forse dell’inettitudine, dell’ignoranza, dell’impotenza e della pochezza del suo ingegno. Il «corpo nudo», l’oggetto che per consenso comune non si dovrebbe mostrare in pubblico per tutelare il decoro e dignità del suo «proprietario», non significa oggi, secondo Anders, «il corpo svestito, ma un corpo su cui non si è fatto alcun lavoro» – un corpo insufficientemente «ridotto a cosa». Vivere nella società dei consumatori è un compito scoraggiante, una lotta ardua e senza fine. La paura di non riuscire ad adeguarsi è stata scalzata dal senso di inadeguatezza, che non 75

è meno penoso. I mercati sono ben lieti di approfittare di tale paura, e le aziende che sfornano beni di consumo fanno a gara per porsi come guida e ausilio affidabile nello sforzo senza sosta dei loro clienti per essere all’altezza della sfida. Esse vendono gli «attrezzi», la strumentazione necessaria al lavoro di «autocostruzione» che si svolge a livello individuale. Queste aziende, tuttavia, potrebbero essere citate in giudizio per pubblicità ingannevole dai vari garanti della concorrenza e del mercato: i prodotti che esse presentano come «strumenti» di uso individuale sono in effetti, come sottolinea Anders, «decisioni preliminari»6, «preconfezionate» con largo anticipo rispetto al momento in cui l’individuo si trova di fronte al compito di decidere (compito che viene presentato come opportunità). È assurdo, come dice Anders, pensare a tali strumenti come se abilitassero a una scelta individuale di finalità. Essi sono la cristallizzazione di un’irresistibile «necessità»: qualcosa che, oggi come ieri, gli esseri umani devono apprendere, cui devono obbedire, e imparare a obbedire, al fine di essere liberi... Come ha confessato una delle sedicenni e diciassettenni della regione inglese dei Cotswolds, intervistate da Decca Aitkenhead, acuta corrispondente del «Guardian»: Beh, se uscissi con quello che indosso in questo momento [jeans e T-shirt] la gente mi guarderebbe stupita chiedendosi perché non metto qualcosa di più particolare, un abbigliamento più provocante. Uscivamo vestite in quel modo quando avevamo tredici anni. È quello che ci si mette per sembrare alla moda7.

Un’altra intervistata, che ha più di vent’anni, aggiunge che «ovunque c’è qualcosa che mi ricorda com’è fatto un corpo sexy, e crescendo mi preoccupo sempre di più di dimostrarmi all’altezza». Il significato di «abbigliamento più provocante» e di «com’è fatto un corpo sexy» dipende sia dalla moda del momento (la moda cambia, e alla svelta: le sedicenni e diciassettenni «non hanno la minima idea del fatto 76

che i t-shorts con scritte come ‘Trainee Babe’ siano diventati di moda solo negli anni Novanta e sembrano stupirsi che un tempo ci si vestisse in un altro modo». Una di loro «appare incredula», riferisce Aitkenhead, quando le si dice che «negli anni Settanta le ragazze non si depilavano le ascelle»). Procurarsi nuove versioni di questi indumenti e curare questi look, e sostituire o rivedere le versioni superate, è condizione per essere cercati, e continuare ad esserlo: per rimanere desiderabili per un tempo sufficiente a trovare clienti, che ci sia o no scambio di denaro. Riferendosi a un mercato del lavoro completamente differente il direttore uscente della confederazione degli industriali britannici, Digby Jones, afferma che chi vuol essere una «merce ambita» deve «essere talmente adattabile, preparato e pregiato che nessun datore di lavoro oserebbe mandarlo via o trattarlo male»8. Nella versione «progressista» dominante (o meglio nel suo «attestato ufficiale», ripetuto sia dalle descrizioni colte che dall’immaginario popolare) la storia dell’umanità è rappresentata come una lunga marcia verso la libertà della persona e la razionalità. Nella sua fase conclusiva il passaggio dalla società dei produttori e dei soldati alla società dei consumatori è normalmente ritratto come processo di graduale emancipazione degli individui (destinata a completarsi) dalle originarie condizioni di «assenza di scelte» e dalle successive condizioni di «scelta limitata», da scenari predefiniti e routine obbligate, da vincoli preordinati e prestabiliti e da schemi di comportamento coercitivi, o quanto meno indiscutibili. In sintesi, questo passaggio è rappresentato come nuovo balzo, probabilmente definitivo, dal mondo dei vincoli e dell’assenza di libertà all’autonomia individuale e al controllo di sé. Il più delle volte tale passaggio è dipinto come il definitivo trionfo del diritto individuale all’autoaffermazione, visto in primo luogo come sovranità indivisibile del soggetto privo di vincoli: so77

vranità che a sua volta viene tendenzialmente interpretata come diritto individuale alla libera scelta. Il singolo membro della società dei consumatori è definito, prima di tutto e soprattutto, come Homo eligens. L’altra versione latente, che non si esprime quasi mai pubblicamente, agendo invece come suggeritore nascosto e invisibile ma indispensabile di quella ufficiale, mostra lo stesso passaggio in una luce molto diversa. Esso si può presentare, anziché come passo in avanti verso l’emancipazione definitiva dell’individuo dalle molteplici coercizioni esterne, come conquista, annessione e colonizzazione dell’esistenza da parte del mercato dei beni di consumo: conquista e colonizzazione che hanno il loro significato più profondo (sebbene rimosso e occultato) nell’innalzamento delle leggi del mercato, scritte e non, al rango di precetti di vita; quel genere di precetti che si possono ignorare soltanto assumendosi il rischio di violare le regole, atto che si tende a punire con l’esclusione. Le leggi di mercato si applicano, con equanimità, tanto alle cose scelte quanto a chi le sceglie. Solo le merci possono accedere di diritto ai templi del consumo passando sia per l’entrata riservata alle «merci» che per quella dei «clienti»; dentro quei templi sia gli oggetti di culto che i fedeli sono merci. I membri della società dei consumatori sono a loro volta prodotti della mercificazione; il fatto che siano retrocessi, in modo deregolamentato e privatizzato, alla mercificazione della politica della vita è il principale connotato che distingue la società dei consumatori da altre forme di comunanza umana. In una sorta di raccapricciante parodia dell’imperativo categorico di Kant, chi fa parte della società dei consumatori è costretto a seguire i medesimi schemi di comportamento cui vuole obbediscano gli oggetti del suo consumo. Per entrare a far parte della società dei consumatori e ottenervi un permesso di residenza a tempo indeterminato, uomini e donne devono soddisfare i requisiti di idoneità definiti dagli standard di mercato. Si chiede loro di rendersi disponibili sul mercato e di cercare di raggiungere un «valore di 78

mercato» più alto possibile in concorrenza con gli altri membri della società. Perlustrano il mercato allo scopo apparente di cercare beni di consumo, ma in realtà sono attratti nei negozi dalla prospettiva di trovarvi gli strumenti e le materie prime che possono (e devono) usare per rendersi «adatti a essere consumati», e pertanto avere un valore di mercato. Il consumo è il meccanismo principale della «mercificazione» dei consumatori: compito che, come molti altri intrapresi a livello sociale sotto la gestione dello Stato, è stato deregolamentato, privatizzato ed «esternalizzato» o «sussidiarizzato» ai singoli consumatori, lasciandolo alla loro cura, gestione e responsabilità. La forza trainante delle attività di consumo è la ricerca individuale del prezzo di vendita ottimale, la promozione a un campionato di categoria superiore, il miglioramento della propria valutazione e l’avanzamento a una posizione migliore nella classifica di questo o quel campionato (per fortuna non mancano i campionati da seguire – e a cui partecipare, se tutto va bene). Tutti i membri della società dei consumatori sono, dalla culla alla tomba, consumatori de iure – sebbene lo ius che li ha definiti tali non sia mai stato votato da alcun parlamento né sia entrato a far parte di alcun codice. Essere «consumatori de iure» è a tutti gli effetti il «fondamento non legale della legge», in quanto precede qualsiasi pronunciamento legale che definisca e dichiari i diritti e gli obblighi di un cittadino. Per gentile concessione del lavoro propedeutico svolto dai mercati, i legislatori possono dare per scontato che chi è sottoposto alle leggi sia già un consumatore maturo e completo: ogni volta che occorra essi possono trattare la condizione dell’essere consumatore come prodotto della natura, anziché come costruzione giuridica: come parte della «natura umana» e inclinazione umana congenita, cui qualsiasi legge positiva deve rispetto, attenzione e obbedienza ed è tenuta a tutelare e sostenere; o, meglio, co79

me quel diritto umano innato che è alla base di ogni diritto di cittadino, dei diritti secondari di ogni tipo, il cui compito principale è riconfermare il carattere sacrosanto di quel diritto basilare e primario e renderlo pienamente e realmente inattaccabile. Daniel Thomas Cook ha analizzato e ricostruito il susseguirsi degli sviluppi successivi alla prima guerra mondiale, che hanno finito per produrre il consolidarsi della società dei consumatori, concludendo che il «diritto» dei bambini a consumare precede e prefigura in vario modo altri diritti legalmente costituiti. Vari decenni prima che i diritti dei bambini venissero sanciti in contesti come la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, all’infanzia era già stata data «voce» nei negozi, nei concorsi per trovare il nome di un prodotto, nella scelta dell’abbigliamento e nelle ricerche di mercato. L’ingresso dei bambini nel mondo dei prodotti come soggetti, persone che hanno desideri propri, è alla base del loro status emergente di individui portatori di diritti9.

Cook si concentra sulla storia del consumismo dei bambini e sulla mercificazione dell’infanzia nel corso del XX secolo – o, per usare le espressioni da lui coniate, sulla «rivoluzione copernicana» compiuta dai mercati mirati sui bambini e consistita nel passaggio dal «punto di vista dei genitori» alla «pedoculiarità» [pedoculiarity], alla messa a punto cioè di strategie di ricerca e sviluppo e di marketing costruite sul punto di vista del bambino, ormai riconosciuto come soggetto sovrano di desideri e di scelte; egli individua in tal modo uno schema universale nello sviluppo iniziale della società dei consumatori e nella sua attuale auto-riproduzione ed espansione. Si potrebbe adattare all’analisi della produzione di consumatori e della riproduzione della società dei consumatori la memorabile affermazione di Ernst Haeckel, celebre e celebrato naturalista dell’Ottocento, secondo cui «l’ontogenesi ricapitola la filogenesi» (e cioè nelle fasi di sviluppo di un singolo embrio80

ne si riassumono, abbreviate e compresse, le fasi attraversate dalla specie nella sua evoluzione storica), ma in tal caso occorre aggiungere una fondamentale postilla: per evitare la discussione, notoriamente oziosa in quanto irrisolvibile, del tipo «è nato prima l’uovo o la gallina», è ragionevole e opportuno proporre, in luogo di una causalità a senso unico, che la stessa sequenza replicata all’infinito nell’attuale riproduzione della società dei consumatori sia impressa nel percorso di vita del singolo consumatore. Nel funzionamento quotidiano dell’oggi matura società dei consumatori, proprio come nella fase della sua nascita e sviluppo, i «diritti del bambino» e i «diritti del cittadino» si fondano sulla reale o presunta capacità e competenza del consumatore e coincidono con essa. Le due sequenze si riaffermano e rafforzano a vicenda, «naturalizzandosi» l’una con l’altra e aiutandosi ad acquisire lo status di «idee dominanti», ma, cosa ancor più importante, a entrare nella raccolta dei doxa (gli assunti in base ai quali si pensa, ma sui quali di solito non si riflette) o, puramente e semplicemente, del buon senso. A differenza del diritto formale, per riconoscere il quale qualsiasi «accertamento dei mezzi» è anch’esso formalmente vietato, la condizione – di rado dichiarata esplicitamente, anche se decisiva – per riconoscere o negare il diritto concreto, sostanziale, ai benefici della piena cittadinanza è la competenza consumistica di una persona e la sua capacità di utilizzarla. Un numero considerevole di consumatori de iure non riescono a superare la prova stabilita (informalmente, ma molto tangibilmente) di consumatori de facto. Coloro che non superano il test sono «consumatori difettosi», a volte classificati come immigrati «illegali» o richiedenti asilo «difettosi», a volte etichettati come «sottoclasse» (variegato assortimento di individui cui si rifiuta l’accesso a una qualsiasi delle classi sociali riconosciute, e privi dei requisiti per appartenere a classi), ma nella maggior parte dei casi essi sono anonimamente distribuiti nelle statistiche dei «poveri» o del81

le «persone sotto la soglia di povertà», oggetto di beneficenza secondo la classica definizione di Simmel, anziché soggetti capaci di discernere/scegliere come gli altri membri della società dei consumatori. Se si concorda con l’affermazione di Carl Schmitt, secondo cui la prerogativa ultima che definisce la sovranità è il diritto di esentare, si deve ammettere che nella società dei consumatori il vero titolare del potere sovrano è il mercato dei beni di consumo; è lì, nel luogo dove si incontrano venditori e compratori, che avviene quotidianamente la selezione e la separazione tra chi è dannato e chi è salvo, chi è dentro e chi è fuori, chi è incluso e chi è escluso (o, più precisamente, tra i consumatori come-si-deve e quelli difettosi). Il mercato dei beni di consumo, lo si deve riconoscere, è un sovrano peculiare e strano, nettamente diverso da quelli di cui trattano i manuali di scienze politiche. Non ha agenzie legislative o esecutive, né tanto meno tribunali – tutto quello che è giustamente considerato l’armamentario indispensabile dei sovrani autentici analizzati e descritti nei testi di politica. Di conseguenza, il mercato è, per così dire, più sovrano dei sovrani politici (ben più pubblicizzati, e ben contenti di autopubblicizzarsi): infatti non solo emette le sentenze di esclusione, ma non prevede alcuna procedura di appello. Le sue sentenze sono tanto ferme e irrevocabili quanto informali, tacite e quasi mai scritte. Ci si può opporre e protestare contro l’esenzione da parte degli organi di uno Stato sovrano (atto che ha qualche possibilità di essere annullato), ma non contro lo sfratto deciso dal mercato sovrano, poiché in quest’ultimo caso non c’è alcun giudice a presiedere il processo, non c’è nessuno a ricevere le istanze di appello, né esiste un indirizzo cui spedirli. Per respingere le proteste che a volte seguono i verdetti del mercato i politici hanno a disposizione la collaudata formula del «non esiste alternativa», diagnosi che tende ad autorealizzarsi, ipotesi che produce la propria autoconferma. Quante più volte la formula viene ripetuta, tanto più totale è la rinuncia alla sovranità che lo Stato compie in favore dei 82

mercati e tanto più formidabile e incrollabile la sovranità di questi ultimi. In effetti non è lo Stato, e neanche il suo braccio esecutivo, a indebolirsi, erodersi, svuotarsi, a diventare un «ramo secco», ma è la sua sovranità, la prerogativa che esso ha di tracciare la linea tra chi è incluso e chi è escluso, ivi compreso il diritto a riabilitare e a riammettere gli esclusi. In parte, tale sovranità è stata già in certo qual modo limitata, ed è probabile che continui a ridursi, pezzo dopo pezzo, sotto la pressione di leggi vincolanti a livello globale, sostenute da organi giurisdizionali (finora parziali e rudimentali), che iniziano a emergere. Questo processo ha tuttavia rilevanza secondaria e subordinata rispetto alla questione della nuova sovranità dei mercati, e cambia ben poco il modo in cui le decisioni sovrane vengono prese e legittimate. Anche quando è spostata «in alto» e trasferita a istituzioni sovrastatali, la sovranità (almeno dal punto di vista del principio cui essa si presume e si pensa ottemperi) continua a mescolare il potere con la politica e a subordinarlo alla sua supervisione; e, ciò che più conta, grazie al fatto di avere un recapito fisso può essere contestata o riformata. Molto più rivoluzionaria (e potenzialmente fatale per lo Stato così come si è formato nel corso dell’era moderna) è un’altra tendenza, che scardina in modo assai più radicale la sua sovranità: la tendenza dello Stato, indebolito, a trasferire lateralmente, anziché verso l’alto, molte delle proprie funzioni e prerogative, cedendole al potere impersonale dei mercati, ovvero la sua resa sempre più totale al ricatto delle forze del mercato che si oppongono alle politiche sostenute e approvate dall’elettorato e assumono (togliendolo ai cittadini) lo status di punto di riferimento e arbitro ultimo dell’opportunità politica. Il risultato di quest’ultima tendenza è la graduale separazione tra il potere di agire, che si dirige ormai alla deriva ver83

so i mercati, e la politica che, pur rimanendo dominio dello Stato, si vede progressivamente privare della libertà di manovra e del potere di definire le regole ed essere arbitro della partita. È questa, in effetti, la principale causa dell’erosione della sovranità dello Stato. Gli organi statali, pur continuando a redigere, pronunciare ed eseguire le sentenze di esenzione o di sfratto, non hanno più la libertà di decidere i criteri della «politica di esenzione» o i principi della sua applicazione. Lo Stato nel suo complesso, ivi compresi i suoi bracci legislativo e giudiziario, diviene l’esecutore della sovranità del mercato. Quando un ministro degli Interni dichiara, ad esempio, che la nuova politica di immigrazione punterà a far entrare in Gran Bretagna un numero maggiore di individui «di cui il paese ha bisogno» e a lasciar fuori coloro «di cui il paese non ha alcun bisogno», egli implicitamente dà al mercato il diritto di definire i «bisogni del paese» e di decidere di cosa (o di chi) esso abbia o non abbia bisogno. Il ministro pensa dunque di offrire ospitalità a chi promette di essere, o di diventare presto, un consumatore esemplare, negandola invece a coloro i cui modelli di consumo – tipici di chi si trova in fondo alla scala sociale, o di chi concentra la propria attenzione su beni di consumo meno redditizi o non redditizi – non aiuteranno gli ingranaggi dell’economia dei consumi a funzionare più rapidamente e a far crescere ancora i profitti delle aziende. Come per esplicitare ulteriormente i principi che ispirano i pensieri e le considerazioni su cui si basa l’accettazione o il rifiuto di uno straniero, il ministro sottolinea che il reddito guadagnato da quelle poche persone che, pur rientrando nella seconda categoria, possono essere temporaneamente ammesse per soddisfare le esigenze stagionali di attività esclusivamente destinate al consumo locale (come i servizi alberghieri o di ristorazione, o la raccolta di frutta) sarà spedito in patria (dove sono necessariamente rimasti i loro familiari), e pertanto non andrà ad alimentare la circolazione dei beni di consumo nel paese. Il consumatore «difet84

toso», chi dispone di risorse troppo scarse per rispondere adeguatamente all’«appello», o più esattamente ai richiami seduttivi dei mercati, è gente di cui la società dei consumatori «non ha bisogno»; se non ci fosse, la società dei consumatori ne guadagnerebbe. In una società che misura il successo o il fallimento in base alle statistiche sul prodotto nazionale (e cioè in base alla quantità di denaro che passa di mano attraverso la compravendita), i consumatori inadeguati e difettosi fino a tal punto vengono derubricati come passività. Il tacito presupposto dietro questo modo di pensare è, ancora una volta, la formula secondo cui «non c’è consumatore se non come merce». La mercificazione precede il consumo e controlla l’accesso al mondo dei consumatori. Per avere una accettabile probabilità di poter esercitare i diritti e adempiere ai doveri di consumatore, occorre prima diventare merce. «Il paese», come i mercati, ha bisogno di merci; un paese che cede ai mercati il diritto di dire la prima e l’ultima parola ha bisogno di abitanti che siano merci, o che almeno possano essere mercificati rapidamente e a basso costo; ed essere collocati o meno nella categoria delle vere merci rientra, naturalmente, nell’ambito decisionale dei mercati. «Esistono acquirenti per questa particolare varietà di beni?», questa è la prima e decisiva domanda che i funzionari statali si devono porre al momento di valutare una domanda di ingresso e soggiorno nel paese. Il governo ha assunto ed elevato a principio della politica statale schemi e regole già affermatisi e consolidatisi nella vita quotidiana della società consumistica attraverso le prassi consuete dell’impresa liquido-moderna. Come ha osservato Nicole Aubert sulla base di una vasta indagine a proposito di queste prassi, le politiche del personale nelle grandi aziende capitalistiche si pongono «come se i dipendenti fossero anch’essi dei ‘prodotti’ che vengono ideati, realizzati e rinnovati nel più breve tempo possibile»10. Al neo-assunto si chiede di funzionare a pieno regime fin dal primo giorno di lavoro: non ha il tempo di «sistemarsi», mettere «radici», integrarsi 85

e sviluppare la fedeltà all’azienda e la solidarietà con i colleghi, poiché il profilo dei servizi che gli vengono richiesti si modifica troppo rapidamente per adattarvisi. Processi troppo lunghi di reclutamento, adattamento e formazione all’interno dell’azienda sono considerati uno spreco di tempo e di risorse: alla stregua di un aumento della giacenza in magazzino dei prodotti finiti dell’azienda, i quali non portano profitti e sono inutili da ogni punto di vista pratico finché restano fermi sugli scaffali. Sia le scorte di magazzino che il tempo per il reclutamento, l’integrazione e la formazione del personale devono essere ridotti al minimo. Il segreto di ogni sistema sociale durevole (in grado cioè di autoriprodursi) consiste nel saper ridefinire i propri «prerequisiti funzionali» come motivazioni di comportamento per gli attori. Per dirla altrimenti, il segreto di qualsiasi «socializzazione» efficace è far sì che gli individui desiderino fare ciò che occorre affinché il sistema sia in grado di riprodurre se stesso. Ciò può essere fatto apertamente ed esplicitamente, mobilitando e rafforzando il sostegno a favore degli interessi dichiarati di un «tutto» (ad esempio uno Stato o una nazione) attraverso un processo di volta in volta etichettato come «mobilitazione spirituale», «educazione civica» o «indottrinamento ideologico», come di solito si faceva nella fase «solida» della modernità, nella società dei produttori. Oppure può essere fatto surrettiziamente e indirettamente, imponendo e inculcando determinati modelli di comportamento e di soluzione dei problemi che, una volta compresi e seguiti (come è necessario, in quanto le opzioni alternative si faranno da parte e si dissolveranno, con la conseguente perdita graduale ma inesorabile delle abilità necessarie a esercitarle), sosterranno la riproduzione uniforme del sistema, come accade nella fase «liquida» della modernità, che non a caso è anche l’epoca della società dei consumatori. 86

Questo modo di collegare «prerequisiti sistemici» e motivazioni individuali nella società dei produttori richiedeva una svalutazione dell’«adesso», e soprattutto dell’immediatezza della soddisfazione e, più in generale, del godimento. Il «presente» doveva essere declassato al ruolo di comprimario in favore del «futuro», perdendo così importanza e diventando ostaggio delle svolte non ancora rivelate di una storia che si riteneva di poter domare, conquistare e controllare conoscendone le leggi e cedendo alle sue richieste. Il «presente» era solo un mezzo per un fine, per una felicità che risiedeva sempre nel futuro, era sempre «non ancora». Al tempo stesso, un simile coordinamento tra prerequisiti di sistema e motivazioni delle persone doveva necessariamente promuovere la dilazione, e soprattutto privilegiare il precetto del «rinvio» e della rinuncia alla «gratificazione», sacrificando le ricompense specifiche e immediatamente disponibili a imprecisi benefici futuri e i premi individuali alla «totalità» (società, Stato, nazione, classe, genere, o semplicemente un «noi» deliberatamente privo di specificazione), confidando che a tempo debito ciò avrebbe assicurato a tutti una vita migliore. In una società di produttori il «lungo periodo» era privilegiato rispetto al «breve» e le esigenze del «tutto» avevano priorità su quelle delle sue «parti». Le gioie e le soddisfazioni derivanti da valori «eterni» e «sovraindividuali» erano poste al di sopra degli effimeri entusiasmi individuali, mentre alla condizione dei pochi si anteponeva l’esaltazione dei molti, considerata unica gratificazione autentica e di valore rispetto alla molteplicità dei «piaceri del momento», seducenti ma falsi, innaturali, ingannevoli e in ultima analisi avvilenti. Grazie al senno di poi noi, uomini e donne che viviamo nel contesto liquido-moderno, siamo di solito inclini a rifiutare questo modo di abbinare la riproduzione del sistema alle motivazioni individuali, adducendone lo spreco, i costi eccessivi e, soprattutto, la terribile oppressività in opposizione alle «naturali» inclinazioni umane. Sigmund Freud fu uno 87

dei primi a fare questo genere di osservazioni, sebbene nemmeno un pensatore dotato di mirabile immaginazione come lui, costretto a raccogliere i dati nel corso di una vita vissuta nella fase ascendente della società caratterizzata dall’industria e dalla coscrizione di massa, riuscì a concepire un’alternativa alla repressione degli istinti, attribuendo a ciò che osservava lo status di caratteristica generale, necessaria e inevitabile di ogni e qualsiasi civiltà, della civiltà «in quanto tale»11. In nessun luogo e in nessuna circostanza, era la conclusione di Freud, la richiesta di rinunciare all’istinto sarà accettata spontaneamente. La grande maggioranza degli uomini obbedisce ai necessari divieti o precetti culturali, perlopiù, «solo sotto la pressione della coercizione esterna. [...] si può rimanere spaventati di fronte all’enorme impiego di coercizione che sarà inevitabile» per promuovere, instillare e mettere al sicuro le necessarie scelte civilizzatrici, come l’etica del lavoro (vale a dire la generale condanna dell’ozio unita al comandamento del lavoro per il lavoro, indipendentemente dalle sue ricompense materiali) o l’etica della convivenza pacifica proclamata dal comandamento «Amerai il prossimo tuo come te stesso» («A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale?», è la domanda retorica che si pone Freud). Il resto della tesi di Freud sull’impalcatura coercitiva di cui tutte le civiltà hanno bisogno per reggersi è troppo noto per essere ricordato qui in dettaglio. La sua conclusione generale era che ogni e qualsiasi civiltà deve essere sostenuta con la repressione, dal momento che un certo grado di dissenso irriducibile e di sporadica ma ripetitiva ribellione, e uno sforzo continuo per limitare e prevenire l’uno e l’altra, sono inevitabili. Il malcontento e la sedizione non possono essere eliminati, in quanto qualsiasi civiltà porta con sé il contenimento repressivo degli istinti umani e qualsiasi vincolo è ripugnante. 88

[La] sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di soddisfacimento, mentre il singolo non conosceva restrizioni del genere.

Lasciamo da parte il caveat secondo cui «il singolo» che non sia già «membro di una comunità» rischia di essere una figura ancor più mitica del selvaggio pre-sociale del bellum omnium contra omnes (la guerra di tutti contro tutti) di Hobbes, o semplicemente un espediente retorico a sostegno della tesi, alla stregua del «parricida originario» che Freud avrebbe escogitato in seguito. Tuttavia, la sostanza del suo messaggio è che, indipendentemente dalla ragione per cui egli scelse questa formulazione, difficilmente la massa sarà disposta a riconoscere, comprendere e obbedire al comandamento di anteporre gli interessi sovraindividuali alle inclinazioni e agli impulsi individuali, e di privilegiare gli effetti a lungo termine alla soddisfazione immediata (come nel caso dell’etica del lavoro); dunque qualsiasi civiltà (o, più semplicemente, qualsiasi tipo di coabitazione umana pacifica e collaborativa, con i relativi benefici) poggia necessariamente sulla coercizione, o quanto meno su una minaccia realistica di applicare la coercizione se le restrizioni agli impulsi istintivi non verranno rigorosamente osservate. Affinché la comunanza civile tra gli uomini sopravviva occorre assicurare, con le buone o con le cattive, la supremazia del «principio di realtà» sul «principio di piacere». Freud ri-proietta tale conclusione su tutti i tipi di comunanza umana (definiti, a posteriori, «civiltà»), e la presenta come precondizione universale della comunanza tra gli uomini, di qualsiasi vivere-nella-società, che coincide con la vita umana in quanto tale. Ma quale che sia la risposta alla domanda se la repressione degli istinti realmente coincida, e sia destinata per sempre a coincidere, con la storia dell’umanità, si può affermare in modo plausibile che tale principio, apparentemente atempo89

rale, non potesse essere scoperto, denominato, registrato o teorizzato se non agli albori della storia moderna e, in particolare, subito dopo la disintegrazione dell’ancien régime che l’aveva immediatamente preceduto. Fu proprio la disintegrazione, il crollo delle istituzioni che avevano sorretto la riproduzione, pressoché uniforme e concreta, delle Rechts- und Pflichtsgewohnheiten (consuetudini di diritti e doveri) a mettere a nudo l’artificio umano che si celava dietro l’idea di ordine «naturale» o «divino», imponendo così di categorizzare in modo diverso il fenomeno dell’ordine, facendolo passare da «dato» a «compito» e fornendo così una nuova rappresentazione della «logica della creazione divina» come conquista del potere umano. E tuttavia il punto è che prima dell’avvento dell’era moderna, se anche la coercizione avesse avuto meno spazio di quello (in effetti ampio) che essa era destinata ad avere durante la costruzione dell’ordine moderno, non vi sarebbe mai stato posto per la fiducia in se stessi e per la concretezza con cui Jeremy Bentham poteva stabilire l’equazione tra l’obbedienza alla legge, da una parte, e le precauzioni per evitare che una qualsiasi opzione alternativa potesse filtrare all’interno, dall’altra parte (bloccando le vie d’uscita dalla reclusione panoptica e ponendo i detenuti in una situazione in cui potevano scegliere soltanto se «lavorare o morire»). Richard Rorty ha sintetizzato questo trend in una densa e concisa affermazione: «Con Hegel gli intellettuali hanno iniziato a spostarsi dalla fantasia di un contatto con l’eterno a quella della costruzione di un futuro migliore»12. Non era necessario che il «potere della comunità» – e, in particolare, di una comunità artificialmente costruita, che nasceva dalla creazione di una civiltà o di una nazione – sostituisse «il potere del singolo» di rendere possibile e sostenibile la coabitazione: il potere della comunità esisteva in effetti già molto tempo prima che se ne scoprissero la necessità e l’urgenza. In realtà, era difficile per il «singolo» o per la «comunità» giungere all’idea che tale sostituzione fosse un com90

pito da affidare a un forte agente collettivo o individuale, finché la presenza della comunità e il suo potere fin-troppo-tangibile fossero rimasti, per così dire, «nascosti in piena luce», troppo evidenti per essere notati. La comunità si può dire esercitasse sull’individuo un potere (totale, «onnicomprensivo») finché rimaneva aproblematica, anziché trasformarsi in un compito che, come ogni altro, poteva essere eseguito o no. Insomma, la comunità teneva in pugno i singoli finché questi vivevano nell’ignoranza di «essere una comunità». Trasformare in «bisogno» che attende di essere «soddisfatto» la subordinazione dei poteri individuali a quelli di una comunità, e chiedere che si prendessero degli appositi provvedimenti, capovolgeva la logica delle forme sociali premoderne; nello stesso tempo, tuttavia, «naturalizzando» quello che in effetti era un processo storico, generava in un colpo solo la propria legittimazione e il mito eziologico della sua «origine», «nascita» o «creazione», di un atto o processo di ridefinizione, integrazione e condensazione di un insieme di singoli senza vincoli, isolati, reciprocamente sospettosi e ostili, in una «comunità» capace di ottenere l’autorità necessaria a espungere e reprimere simili propensioni individuali, una volta rivelatesi o dichiarate contrarie ai requisiti della coabitazione sicura. Per farla breve, è possibile che la comunità sia antica quanto l’umanità, ma l’idea di «comunità» come condizione sine qua non dell’umanità poteva nascere solo dall’esperienza della sua crisi. Quell’idea fu ricavata cucendo assieme le paure derivanti dalla disintegrazione dei precedenti contesti sociali capaci di autoriprodursi, che ricevettero, a posteriori, il nome di ancien régime ed entrarono a far parte del lessico delle scienze sociali con il nome di «società tradizionale». Il moderno «processo di civilizzazione» (l’unico processo che si autodefiniva tale) fu innescato dallo stato di incertezza, che a sua volta fu spiegato anche con la disgregazione e l’impotenza della «comunità». La «nazione», innovazione eminentemente moderna, fu 91

rappresentata alla stregua della «comunità»: doveva essere una comunità nuova e più grande, il cui nome era scritto a caratteri cubitali, e che veniva proiettata sul grande schermo di una «totalità» immaginata di recente – comunità progettata, fatta a misura della rete di interdipendenze e scambi umani recentemente stesa. Quello che in seguito sarebbe stato chiamato «processo di civilizzazione» (in una fase in cui gli sviluppi cui il nome faceva riferimento erano ormai in procinto di bloccarsi o regredire) fu il tentativo costante di ri-normalizzare o ri-modellare la condotta umana ormai non più assoggettata alle pressioni omogeneizzanti di ambienti premoderni capaci di autoriprodursi. Apparentemente il processo definito a posteriori «civiltà» era imperniato sui singoli: la nuova capacità di autocontrollo da parte del singolo da poco emancipato doveva svolgere la funzione precedentemente assicurata dai controlli comunitari ormai scomparsi. Ma la vera posta in gioco di questa operazione era il reclutamento delle capacità di autocontrollo del singolo al servizio di un ri-allestimento o ricostituzione della «comunità» a un livello più alto. Come lo spettro dell’impero romano perduto aveva aleggiato sull’autocostituzione dell’Europa feudale, così il fantasma della perduta comunità si ergeva sulla costituzione delle nazioni moderne. La principale materia prima della formazione della nazione doveva essere il patriottismo: disponibilità indotta (insegnata e appresa) a sacrificare gli interessi individuali a quelli condivisi con altri individui disposti a fare altrettanto. Ernest Renan sintetizzò tale strategia in un’espressione divenuta celebre: la nazione doveva, anzi poteva, vivere e sopravvivere solamente attraverso il plebiscito quotidiano dei suoi membri. Reintroducendo la storicità nel modello atemporale di civiltà definito da Freud, Norbert Elias ha spiegato la nascita dell’io moderno (la consapevolezza della propria «verità interiore» e insieme la responsabilità della sua autoaffermazio92

ne) sulla base dell’interiorizzazione dei vincoli esterni e delle loro pressioni. Il processo di formazione della nazione si inscriveva nello spazio situato tra i poteri panoptici che sovrastavano il singolo e la capacità di quest’ultimo di adattarsi alle necessità definite da quei poteri. Paradossalmente, la libertà di scelta recentemente acquisita (ivi compresa la scelta della propria identità), che risultava da una sottodeterminazione e sottodefinizione senza precedenti della collocazione sociale, a loro volta conseguenza della scomparsa o del radicale indebolimento dei tradizionali vincoli, doveva essere messa al servizio della soppressione delle scelte ritenute dannose per la «nuova totalità»: lo Stato-nazione a immagine e somiglianza di una comunità. Lo stile panoptico del «disciplina, punisci e governa» con cui si realizzavano la necessaria e deliberata manipolazione e la conseguente standardizzazione delle probabilità comportamentali, quali che ne fossero i pregi dal punto di vista pragmatico, era laborioso, costoso e conflittuale. Inoltre era scomodo, e certo non era la migliore soluzione per i detentori del potere, in quanto poneva vincoli forti e insormontabili alla loro libertà di manovra. Non era però l’unica strategia possibile per mantenere e assicurare la stabilità sistemica meglio nota con il nome di «ordine sociale». Avendo identificato la «civiltà» con un sistema centralizzato di coercizione e indottrinamento (in seguito ridotto in pratica, per l’influenza di Michel Foucault, alla sua parte coercitiva), agli studiosi sociali rimaneva ben poca scelta se non quella di descrivere in modo fuorviante l’avvento della «condizione postmoderna» (sviluppo che coincide con il consolidamento della società dei consumatori) come prodotto di un «processo di decivilizzazione». Si è verificata, in realtà, la scoperta, l’invenzione o la nascita di un metodo alternativo (meno laborioso, meno costoso e relativamente meno conflittuale, ma soprattutto tale da lasciare maggior libertà, e dunque maggior potere, ai detentori del potere) per manipolare le probabilità di comportamento e sostenere il si93

stema di dominio riconosciuto come ordine sociale. È stata individuata e messa in funzione un’altra variante del «processo di civilizzazione», un modo alternativo e visibilmente più comodo in cui continuare a svolgere tale processo. Questo nuovo modo, attuato dalla società dei consumatori liquido-moderna, non genera, o quasi, dissenso, resistenza o ribellione grazie all’espediente di rappresentare il nuovo obbligo (l’obbligo di scegliere) come libertà di scelta. Si potrebbe dire che dopo secoli si è avverata la profezia tanto discussa, criticata e vituperata di Jean-Jacques Rousseau, secondo cui gli uomini devono essere «costretti a essere liberi», anche se ciò non è accaduto nella forma prevista dai seguaci più entusiastici di Rousseau e dai suoi critici più accesi... La contrapposizione tra il principio di «piacere» e quello di «realtà», fino a poco tempo fa ritenuta insuperabile, è stata in qualche modo cancellata: arrendersi alle dure esigenze del «principio di realtà» si traduce nell’adempiere all’obbligo di ricercare il piacere e la felicità, e dunque viene vissuto come esercizio di libertà e atto di autoaffermazione. Si è tentati di dire che la formula hegeliana, certamente controversa, della libertà come «necessità compresa» è diventata una profezia che si autorealizza, anche se ciò accade, paradossalmente, solo grazie a un meccanismo capace di escludere la «comprensione» nel momento in cui trasforma la pressione della necessità in esperienza di libertà. La forza del castigo, se applicata, raramente è nuda; essa si presenta camuffata da conseguenza di questo o quel «passo falso», o di questa o quella occasione perduta (trascurata). Lungi dal rivelare i limiti nascosti della libertà del singolo e portarli alla luce, essa li nasconde in modo ancor più impenetrabile, rafforzando la scelta del singolo (già fatta o da fare) nel ruolo di principale o unica «differenza che fa la differenza» nella sua ricerca della felicità: differenza tra mosse efficaci e inefficaci, tra vittoria e sconfitta. 94

Nella maggior parte dei casi la «totalità» cui gli individui devono fedeltà e obbedienza non entra più nella loro vita sotto forma di diniego della loro autonomia individuale o di sacrificio obbligatorio, come la coscrizione universale e il dovere di dare la vita per il proprio paese e per la causa nazionale. Si presenta nella forma delle feste estremamente divertenti, gradevoli e gradite con cui si celebrano la convivenza e l’appartenenza a una comunità in occasione di un campionato del mondo di calcio o di una partita internazionale di cricket. La resa alla «totalità» non è più un dovere accettato a malincuore, scomodo e perlopiù gravoso, ma potrebbe definirsi una sorta di «patriottimento», divertimento patriottico: una festosa baldoria avidamente ricercata ed estremamente godibile. I carnevali, come ha affermato Michail Bachtin13, tendono a essere interruzioni della routine quotidiana, brevi intervalli divertenti tra fasi di piatta quotidianità, pause in cui la gerarchia ordinaria dei valori viene provvisoriamente rovesciata, si sospendono per breve tempo gli aspetti più spiacevoli della realtà, si praticano e si ostentano apertamente tipi di comportamento che nella vita «normale» sono proibiti e considerati disonorevoli. I carnevali vecchio stile davano la possibilità di godere in forma estatica delle libertà individuali negate nella vita quotidiana; ora le occasioni di cui si sente amaramente la mancanza sono quelle che consentano di alleggerire il fardello e seppellire l’angoscia dell’individualità dissolvendo l’io in un «tutto più grande» e abbandonandosi gaiamente al suo dominio, celebrando brevi ma intense feste di esultanza comunitaria. La funzione (e la forza di seduzione) dei carnevali liquido-moderni sta nella risurrezione momentanea di una comunanza che versa ormai in stato comatoso. Carnevali del genere sono occasioni per riunirsi, tendersi la mano e richiamare dagli inferi il fantasma della comunità defunta per la sola durata della festa, rassicurati dalla consapevolezza che l’ospite non si tratterrà troppo a lungo, e dopo la sua breve visita si dileguerà alla svelta. 95

Tutto ciò non significa che la «normale» condotta feriale dei singoli sia divenuta casuale, priva di schemi o scoordinata. Significa solamente che l’assenza di casualità, la regolarità e il coordinamento delle azioni che si compiono a livello individuale possono essere ottenuti – e di regola lo sono – con mezzi diversi dai meccanismi sanzionatori solido-moderni come la polizia e la catena di comando esercitata da una totalità che dichiarandosi «maggiore della somma delle sue parti» si dedica a istruire e addestrare le sue «unità umane» alla disciplina. In una società di consumatori liquido-moderna lo sciame tende a sostituire il gruppo e i suoi capi, la sua gerarchia e il suo «ordine di beccata». Uno sciame può fare a meno di tutti i cerimoniali e stratagemmi senza i quali un gruppo non si formerebbe né potrebbe sopravvivere. Gli sciami non hanno bisogno di essere appesantiti dagli strumenti della sopravvivenza; essi si mettono insieme, si disperdono e si radunano nuovamente, da un’occasione all’altra, ogni volta per una ragione immancabilmente diversa, e sono attratti da obiettivi mutevoli e mobili. Il potere di seduzione degli obiettivi mobili è una regola sufficiente a coordinarne i movimenti, e ciò basta a rendere superfluo ogni altro comando o imposizione «dall’alto». In realtà gli sciami non hanno nemmeno un «alto» e un «basso»: è solo la direzione momentanea di volo a collocare le unità dello sciame (che funziona ad autopropulsione) in posizione di «leader» o di «seguaci», di solito soltanto per la durata di un determinato volo, o perfino di una sua parte. Gli sciami non sono squadre; ignorano qualsiasi divisione del lavoro. A differenza dei veri gruppi, non sono nulla più della «somma delle parti», insiemi di unità autopropulsive, unite solamente (per continuare questa rivisitazione e revisione di Durkheim) da una «solidarietà meccanica», che si manifesta replicando schemi di condotta simili e muovendosi in direzione analoga. Il modo migliore di immaginarli è guardarli come immagini di Warhol copiate all’infinito, il cui originale non esiste o è stato scartato dopo l’uso e non può più essere rintracciato e recuperato. Ogni unità dello sciame 96

replica le mosse di tutti gli altri, svolgendo da sé tutto il compito, dall’inizio alla fine e in ogni sua parte (nel caso degli sciami di consumo, si tratta del compito di consumare). In uno sciame non ci sono specialisti, nessuna unità detiene capacità e risorse separate (e scarse) che abbiano il compito di abilitare le altre unità allo svolgimento del compito e facilitarlo, o compensare le carenze o incapacità individuali. Ogni unità è un tuttofare e ha bisogno del set completo di strumenti e abilità necessarie a svolgere tutto il compito. In uno sciame lo scambio, la collaborazione, la complementarità non esistono: esiste solo una prossimità fisica e un coordinamento di massima della direzione del movimento corrente. Nel caso delle unità umane, senzienti e pensanti, il vantaggio di volare in sciame sta nella sicurezza del numero: nella convinzione che la direzione del volo sia stata scelta bene, visto che è uno sciame imponente a seguirla, e nell’idea che non si possano ingannare contemporaneamente tanti esseri umani che sentono, pensano e scelgono in libertà. I movimenti miracolosamente coordinati di uno sciame gli danno un’autorassicurazione e un senso di sicurezza che sono i migliori surrogati dell’autorità dei leader di un gruppo, e non sono da meno in quanto a efficacia. Gli sciami, a differenza dei gruppi, non conoscono dissenzienti o ribelli: solo «disertori», «confusionari» o «pecore nere». Le unità che fuoriescono dalla formazione di volo si sono «smarrite», sono state «perse» o si sono «date per vinte». Esse devono razzolare per conto proprio, ma da cani sciolti non avranno vita lunga, poiché trovare un obiettivo realistico da soli è molto più improbabile che accodandosi a uno sciame, e quando si perseguono obiettivi fantasiosi, inutili o pericolosi aumentano i rischi di soccombere. La società dei consumatori tende a frammentare i gruppi o a renderli estremamente fragili e fissipari, e favorisce la pronta e rapida formazione e diffusione degli sciami. Il consumo è un’attività eminentemente solitaria (forse l’archetipo della solitudine), anche quando capita di farlo in compagnia. 97

Nell’attività di consumo non nascono legami durevoli. I legami che infine si stringono nell’atto del consumare possono sciogliersi subito o sopravvivere, possono tenere unito lo sciame anche per tutta la durata del volo (ossia fino al prossimo cambiamento di obiettivo), ma sono dichiaratamente occasionali, tenui e inconsistenti, hanno scarsa o nulla attinenza con le mosse successive delle unità che compongono lo sciame e non fanno luce, o quasi, sulla storia precedente di ogni unità. Grazie al senno di poi, possiamo immaginare che ciò che teneva riuniti attorno al desco i membri di una famiglia, facendone uno strumento di integrazione e di riaffermazione della famiglia come gruppo legato in modo durevole, era in primo luogo l’elemento produttivo nel consumo. Il cibo si trovava a casa e da nessun’altra parte: radunarsi a tavola per la cena era l’ultima fase (distributiva) di un lungo processo produttivo che iniziava in cucina e ancora prima, nel campo e nell’officina familiare. Ciò che legava in un gruppo i commensali era la collaborazione, prestata o attesa, al precedente processo di lavoro produttivo, e da ciò derivava il consumo condiviso di ciò che era stato prodotto. Si può ipotizzare che la «conseguenza involontaria» dei fast food, dei takeaway o dei «pasti pronti» (o forse la loro «funzione latente» e la vera causa dell’irrefrenabile ascesa della loro popolarità) sia rendere ridondante il desco familiare, ponendo fine al consumo condiviso, o approvare simbolicamente, mediante un atto di convivialità (consumare in compagnia), la perdita delle caratteristiche che quel desco possedeva quando si trattava di stringere e riaffermare i legami, e che sono divenute irrilevanti e persino indesiderabili nella società dei consumatori liquido-moderna. Il fast food esiste per proteggere la solitudine dei consumatori isolati. La partecipazione attiva ai mercati dei beni di consumo è la principale virtù che ci si attende da chi fa parte di una società 98

di consumatori (o, come direbbe l’ex ministro degli Interni, da coloro «di cui il paese ha bisogno»). Del resto, quando la «crescita», misurata in termini di prodotto nazionale lordo, minaccia di rallentare, o addirittura di diventare negativa, la speranza, le lusinghe e gli stimoli si concentrano sui consumatori affinché prendano il libretto degli assegni, o meglio ancora la carta di credito, per «far andare avanti l’economia» e «condurre il paese fuori dalla recessione». Simili speranze e appelli hanno senso, naturalmente, se rivolti a persone con un conto in banca attivo e carte di credito nel portafogli, a persone «degne di credito», alle quali sono destinati gli slogan pubblicitari delle banche. Non sorprende che il compito di rendere i membri della società degni di credito e disponibili a usare il credito loro offerto fino ai limiti consentiti tenda costantemente a salire nella lista dei doveri patriottici e degli sforzi di socializzazione. In Gran Bretagna vivere a credito e di debito è ormai entrato a far parte del curriculum nazionale, progettato, approvato e sovvenzionato dal governo. Gli studenti delle scuole superiori, considerati l’«élite dei consumatori» del futuro, la parte della nazione che promette i maggiori benefici all’economia dei consumi per gli anni a venire, ricevono da tre a sei anni di istruzione, obbligatoria in tutto tranne che nel nome, sulle abilità e sugli usi connessi al prendere in prestito del denaro e vivere a credito. La speranza è che la vita basata sul prestito obbligatorio duri abbastanza a lungo da trasformarsi in abitudine, cancellando dall’istituzione del credito al consumo le ultime, tenaci tracce del disprezzo proveniente dalla società dei produttori basata sul libretto di risparmio, e abbastanza a lungo perché l’idea che il debito mai restituito venga ritenuta una strategia di vita intelligente e valida da elevare al rango di «scelta razionale» e di «buon senso», e di cui fare un indiscutibile assioma di vita saggia. O meglio, abbastanza a lungo da fare del «vivere a credito» una seconda pelle. Se anche questa «seconda pelle» seguisse a ruota la formazione incoraggiata dal governo, ad essa tuttavia potrebbe non 99

accompagnarsi l’immunità ai «disastri naturali» e agli altri «colpi del destino». I giovani si uniranno alle file dei «consumatori seri», tra gli applausi degli uomini di marketing e dei politici, molto prima d’iniziare a guadagnarsi la vita, visto che un ventenne ormai può ottenere senza difficoltà varie carte di credito (il che non sorprende, visto che la sfida a diventare una merce di valore è compito che richiede denaro, molto denaro, ed è condizione preliminare per essere ammessi sul «mercato del lavoro»). Ma da studi recenti condotti sotto l’egida dell’authority britannica sui servizi finanziari e dell’università di Bristol è emerso che la generazione tra i diciotto e i quarant’anni d’età (ossia la prima generazione adulta educata e maturata in una società dei consumatori pienamente sviluppata) è incapace di far fronte ai suoi debiti e non sa accumulare altro che un risparmio «basso in modo preoccupante»: solo il 30 per cento delle persone di questa generazione ha messo da parte del denaro per futuri acquisti, mentre il 42 per cento non ha fatto nulla per assicurarsi una qualsiasi prospettiva di pensione e il 24 per cento dei giovani (contro l’11 per cento degli ultracinquantenni e il 6 per cento degli ultrasessantenni) ha uno scoperto sul proprio conto in banca14. Questo vivere a credito, indebitati e senza risparmi è considerato un metodo corretto per gestire le faccende umane a tutti i livelli – dalla politica di vita dell’individuo alla politica statale – ed è stato, per così dire, «ufficializzato», basandosi sull’autorità delle società di consumatori più avanzate e affermate. Gli Stati Uniti d’America – che sono evidentemente l’economia più forte al mondo cui la maggior parte degli abitanti del pianeta, alla ricerca di un supremo esempio di vita gratificante e godibile, guarda come modello da seguire – sono indebitati forse più di qualsiasi altro paese nella storia. Paul Krugman, notando che «l’anno scorso [2005] l’America ha speso il 57 per cento più di quanto abbia guadagnato sui mercati mondiali», si chiede: «Come hanno fatto gli americani a vivere tanto al di sopra dei propri mezzi?». La risposta è: «indebitandosi con il Giappone, la Cina e i paesi mediorientali 100

produttori di petrolio»15. I governanti e i cittadini degli Stati Uniti d’America sono assuefatti e dipendenti dall’importazione di denaro quanto dall’importazione di petrolio. Il deficit di 300 miliardi di dollari nel bilancio federale è stato recentemente presentato dalla Casa Bianca come qualcosa di cui andar fieri soltanto perché si era ridotto di qualche miliardo di dollari rispetto all’anno precedente: una previsione – notiamo incidentalmente – che con buone probabilità si rivelerà sbagliata prima che sia finito l’anno finanziario. I prestiti di Stato, come i debiti dei consumatori, sono destinati a finanziare i consumi, non gli investimenti. Il denaro importato, che prima o poi andrà restituito (sebbene l’attuale amministrazione si faccia in quattro per rinviare alle calende greche la restituzione), non serve a finanziare investimenti potenzialmente redditizi ma a sostenere un boom di consumi, e con esso il «fattore ottimismo» nell’elettorato, e a finanziare un deficit federale crescente che nonostante i tagli sempre maggiori ai servizi sociali si aggrava regolarmente a causa dei continui tagli alla tassazione dei redditi più alti. I «tagli alle tasse dei ricchi» non sono – o almeno non sono soltanto – ricette per fare più felici i grandi e i potenti o per ripagare i debiti contratti dai politici nella fase più critica di battaglie elettorali straordinariamente costose. Le politiche di riduzione fiscale non si spiegano soltanto con le inclinazioni congenite di politici provenienti perlopiù dalle file dei ricchi (come nel caso più noto e quindi più pubblicizzato, seppur invano, quello del vicepresidente americano Cheney, che ha appoggiato la Halliburton, azienda di cui era stato presidente prima di candidarsi a cariche federali e alla quale potrebbe decidere di tornare alla fine del suo mandato) o con la corruttibilità di quei politici venuti dal basso che non hanno saputo resistere alla tentazione di convertire il successo politico, per natura temporaneo, in un attivo economico più durevole e affidabile. 101

In aggiunta a tutti questi fattori, che hanno certamente avuto parte nel generare e sostenere la tendenza attuale, tagliare le tasse dei ricchi è parte integrante del trend generale a trasferire la tassazione dal reddito, che nella società dei produttori ne costituiva la base «naturale», alla spesa, che è una base altrettanto «naturale» della tassazione nella società dei consumatori. Si presume che sia ormai l’attività del consumatore, e non quella del produttore, a fornire l’interfaccia tra i singoli e la società nel suo complesso, ed è ormai principalmente la capacità del consumatore, non quella del produttore, a definire lo status di cittadino. È pertanto giusto e appropriato, sia sostanzialmente che simbolicamente, rifocalizzare sulle scelte sovrane del consumatore l’interazione tra diritti e doveri evocata per legittimare l’imposizione e l’esazione fiscale. L’imposta sul valore aggiunto (l’Iva), a differenza dell’imposta sul reddito, pone al centro quella libertà di scelta (del consumatore) che nel senso comune della società dei consumatori definisce il significato della sovranità individuale e dei diritti umani, e che i governi che presiedono alle società dei consumatori brandiscono e sfoggiano come il genere di servizio da cui deriva tutta la legittimazione di cui ha bisogno il loro potere.

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La cultura consumistica

Un fascicolo influente, diffuso e autorevole, allegato a una prestigiosa rivista di moda, offriva, per la stagione autunnoinverno 2005, «una mezza dozzina di look chiave [...] per i prossimi mesi [...] grazie ai quali sarete un passo avanti a chi fa tendenza». Una promessa felicemente e abilmente calcolata per catturare l’attenzione: molto abilmente davvero, se in un’unica frase, concisa e frizzante, riusciva a rispondere a quasi tutte le ansie e gli impulsi che derivano dalla società dei consumatori e che nascono dalla vita di consumo. Innanzi tutto c’è la preoccupazione di stare, e rimanere, «un passo avanti a chi fa tendenza», vale a dire rispetto al gruppo di riferimento, agli «altri significativi», a «chi di stile se ne intende», l’approvazione o il rifiuto dei quali separano il successo dal fallimento. Come scrive Michel Maffesoli, «sono in una certa maniera perché gli altri mi riconoscono in una certa maniera», mentre «la vita sociale empirica non è che l’espressione di sentimenti di appartenenza successivi»1: l’alternativa sarebbe una serie di rifiuti o un’esclusione definitiva, una sorta di scotto per non essere riusciti ad attestare il proprio riconoscimento, a forza, a parole, oppure per vie traverse. Va ricordato, tuttavia, che nella società dei consumatori, in cui i legami umani tendono a essere mediati dai mercati dei prodotti di consumo, il senso di appartenenza non si ottiene seguendo la procedura amministrata e controllata dal circolo di «chi fa tendenza» cui ciascuno aspira, ma attraverso l’identificazione metonimica dell’aspirante con quegli stessi 103

«adepti»; il processo di identificazione avviene – e i suoi risultati vengono presentati – con l’aiuto di «segni di appartenenza» visibili, che generalmente si possono ottenere nei negozi. Nelle «tribù postmoderne» (come Maffesoli preferisce chiamare «chi fa tendenza» nella società dei consumatori) al posto dei «totem» subentrano «figure emblematiche» e i loro segni visibili (elementi che suggeriscono codici di abbigliamento e/o comportamento). Essere un passo avanti nello sfoggiare i simboli delle figure emblematiche di un circolo di adepti è l’unica prescrizione affidabile per convincersi che, se sapessero dell’esistenza dell’aspirante, gli adepti del caso concederebbero certo il riconoscimento e l’accettazione desiderati; mentre restare un passo avanti è l’unico modo per rendere tale riconoscimento di «appartenenza» sicuro per il tempo desiderato, ossia per trasformare l’atto di ammissione una tantum in un permesso di residenza a tempo determinato, ma rinnovabile. Tutto sommato, «essere un passo avanti» promette di offrire una chance di sicurezza, di certezza e di certezza di sicurezza, ossia proprio del tipo di esperienza di cui la vita di consumo è più palesemente e penosamente priva, pur essendo guidata dal desiderio di acquisirlo. La promessa di «essere un passo avanti a chi fa tendenza»» si riferisce alla prospettiva di avere valore di mercato elevato e domanda abbondante, che si traducono entrambi in certezza di riconoscimento, approvazione e inclusione. Se candidarsi si riduce sostanzialmente a ostentare emblemi, si comincia con l’acquistarli, se ne annuncia poi pubblicamente il possesso e ci si considera giunti a destinazione quando tale possesso diviene di pubblico dominio, il che a sua volta si traduce in senso di «appartenenza». Invece, nel riferimento al «restare un passo avanti» si coglie una giusta cautela circa il pericolo di non accorgersi del momento in cui gli attuali emblemi di «appartenenza» andranno fuori corso per essere sostituiti da nuovi emblemi, e in cui i loro sbadati portatori rischieranno di esser messi da parte – il che, nel caso di una candidatura mediata dal mercato, si traduce in senso di rifiu104

to, esclusione, abbandono, isolamento, e in ultima analisi si riflette nella bruciante sofferenza dell’inadeguatezza personale. Una celebre affermazione di Mary Douglas rivela il significato nascosto delle preoccupazioni (che consumano) i consumatori: una teoria dei bisogni «dovrebbe iniziare dal presupposto secondo cui qualsiasi individuo ha bisogno di beni per guadagnare altre persone ai suoi progetti [...]. I beni servono a mobilitare gli altri»2. O almeno a dare la confortante sensazione che si sia fatto tutto il dovuto per ottenere tale mobilitazione. In secondo luogo, il messaggio arriva con tanto di data di scadenza. I lettori si ritengano avvisati: esso rimane valido «per i prossimi mesi» e non oltre. Ciò si abbina bene all’esperienza del tempo puntinista composto da istanti, episodi a tempo determinato, nuovi inizi, ed emancipa il presente (che deve essere pienamente esplorato e sfruttato) dalle distrazioni del passato e del futuro che potrebbero rovinare la concentrazione e turbare l’euforia della libera scelta. Offre il duplice premio di essere momentaneamente al passo con i tempi e di portare con sé un salvacondotto contro il rischio di ricadere all’indietro nel futuro (almeno in quello prevedibile, ammesso che qualcosa di simile esista). I consumatori più navigati coglieranno certamente il messaggio, che li solleciterà a spicciarsi e ricorderà loro che non c’è tempo da perdere. Tale messaggio contiene dunque un avviso che è pericolosissimo ignorare: il vantaggio di rispondere prontamente al richiamo, per quanto grande, non durerà per sempre. Trascorsi alcuni mesi, qualsiasi polizza sia stata stipulata per garantirsi sicurezza andrà rinnovata. Consultate dunque questo spazio. Nel romanzo dall’appropriato titolo La lentezza Milan Kundera rivela lo stretto legame tra velocità e oblio: «Il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio»3. Perché? Perché, se «per occupare la scena bisogna cacciarne via gli altri», conquistare quella scena particolarmente importante che viene chiamata «attenzione del pub105

blico»4 (e, più precisamente, l’attenzione del pubblico di chi è stato marchiato per essere trasformato in consumatore) richiede di tenere lontani dalla stessa scena altri oggetti di attenzione: altri personaggi e altre storie, comprese le storie messe in scena da chi cercava attenzione ieri... «Le situazioni messe in scena [...]», ci ricorda Kundera, «rimangono sotto le luci dei riflettori solo per i primi minuti»5. Nel mondo liquidomoderno la lentezza preannuncia la morte sociale. Come nota Vincent de Gaulejac, «poiché tutti avanzano, chi resta immobile sarà inevitabilmente separato dagli altri da un divario crescente»6. Il concetto di «esclusione» suggerisce erroneamente un’azione da parte di qualcuno per portare via l’oggetto di tale esclusione dal luogo dove si trovava; in realtà, nella maggior parte dei casi è la «stagnazione a escludere». In terzo luogo, poiché il look oggi offerto non è uno solo, ma almeno «una mezza dozzina», siete davvero liberi (anche se – un richiamo alla cautela molto opportuno – il ventaglio delle offerte di questo momento circoscrive le vostre scelte con un limite insuperabile). Potete scegliere con cura il vostro look. L’atto di scegliere di per sé – di scegliere un qualsiasi look – non è messo in discussione: questo è ciò che dovete fare e che potete cessare ed evitare di fare solo a rischio di esclusione. Né siete liberi di influenzare la serie di opzioni tra le quali scegliere: non ce ne sono altre, poiché tutte le possibilità realistiche e raccomandabili sono già state pre-selezionate, pre-sceneggiate e pre-scritte. Ma non preoccupatevi per tutte queste seccature: per la pressione del tempo, per la necessità di entrare nelle grazie di «chi fa tendenza» qualora rivolgano lo sguardo verso di voi, notino e registrino il vostro abbigliamento e la vostra condotta, o per il numero rigorosamente limitato di scelte che si possono fare (solo «una mezza dozzina»). Ciò che importa, in realtà, è che al comando ora siete voi. Dovete esserlo: la scelta può essere vostra, ma ricordate che è obbligatorio fare una scelta. Ellen Seiter nota che «l’abbigliamento, l’arredamento, i dischi, i giocattoli – tutte le cose che acquistiamo – 106

implicano decisioni e l’esercizio del nostro giudizio e ‘gusto’», ma si affretta ad aggiungere: «Ovviamente non abbiamo il controllo su ciò che è disponibile alla nostra scelta»7. Ciononostante, nella cultura dei consumi scelta e libertà sono due nomi diversi per la stessa condizione; ed è corretto considerarli sinonimi, almeno nel senso che potete evitare di scegliere solamente rinunciando al tempo stesso alla libertà. La grande frattura che separa nel più netto modo possibile la sindrome culturale consumistica dalla precedente sindrome produttivistica, quella che tiene insieme l’insieme delle tante e diverse spinte, intuizioni e propensioni elevando il tutto a programma di vita coerente, sembra essere il rovesciamento dei valori legati rispettivamente alla durata e alla transitorietà. La sindrome culturale consumistica consiste soprattutto nell’enfatica negazione della virtù del rinvio, e dell’opportunità e desiderabilità di ritardare la soddisfazione: i due pilastri assiologici della società dei produttori regolata dalla sindrome produttivistica. Nella gerarchia tramandata dei valori riconosciuti la sindrome consumistica ha declassato la durata in favore della transitorietà. Essa antepone la novità alla durata. Ha abbreviato molto non solo il tempo che separa il bisogno dall’appagamento (come hanno suggerito molti osservatori, ispirati o fuorviati dalle agenzie di informazioni commerciali), ma anche il momento in cui sorge la carenza dal momento in cui essa termina, e il momento in cui ci si rende conto che un bene è utile e desiderabile da quello in cui viene percepito come qualcosa di inutile da scartare. Ha collocato l’atto dell’appropriazione, cui deve prontamente seguire lo smaltimento del rifiuto, tra gli oggetti del desiderio umano, al posto che un tempo spettava all’acquisizione di un possesso che si presumeva durevole e al suo durevole godimento. La sindrome consumistica sostituisce nel novero delle preoccupazioni umane la necessità di cautelarsi contro la 107

possibilità che le cose (animate e inanimate) diventino ospiti sgraditi alla tecnica che serviva a tenersi le cose ben strette e all’attaccamento e all’impegno a lungo termine (se non infinito). La sindrome consumistica abbrevia radicalmente l’aspettativa di vita del desiderio e la distanza temporale tra il desiderio e la sua gratificazione, e tra quest’ultima e il cestino dei rifiuti. La «sindrome consumistica» è fatta tutta di velocità, eccesso e scarto. I consumatori maturi non fanno i pignoli quando si tratta di relegare le cose nella spazzatura: ils (et elles, bien sûr) ne regrettent rien. Di regola accettano la brevità di vita delle cose e la loro fine prestabilita con serenità, spesso con piacere appena dissimulato, in qualche caso con autentica gioia, celebrandola come una vittoria. I più abili e pronti tra i cultori dell’arte consumistica sanno che liberarsi delle cose che hanno superato la loro data-limite di utilizzo (leggi: di godimento) è un evento di cui rallegrarsi. Per i maestri dell’arte consumistica il valore di ogni e qualsiasi oggetto sta tanto nelle sue virtù quanto nei suoi limiti. Le carenze già note e quelle che devono essere ancora rivelate – inevitabilmente, data la loro obsolescenza preordinata e programmata o, per usare i termini di Karl Marx, dato il loro invecchiamento «morale», distinto da quello fisico – promettono un imminente rinnovamento o ringiovanimento, nuove avventure, nuove sensazioni, nuove gioie. In una società di consumatori la perfezione (se questo concetto è ancora valido) può essere soltanto una caratteristica collettiva della massa, di una molteplicità di oggetti di desiderio; il persistente impulso alla perfezione richiede ormai, più che il miglioramento delle cose, la loro profusione e rapida circolazione. E dunque, mi si lasci ripetere, una società dei consumatori non può che essere una società dell’eccesso e dello sperpero – del superfluo e dello scarto abbondante. Quanto più fluido è l’ambiente di vita degli attori, tanto più numerosi sono gli oggetti di consumo potenziale di cui hanno bisogno per cautelarsi dalle loro stesse scommesse e mettere le loro poste al ri108

paro dai capricci del destino (ribattezzati, in gergo sociologico, «conseguenze non previste»). L’eccesso, tuttavia, accresce l’incertezza delle scelte, invece di eliminarla o almeno di attenuarla e sdrammatizzarla come si sperava: per questo, difficilmente l’eccesso già raggiunto sarà abbastanza eccessivo. La vita dei consumatori è condannata a essere una serie infinita di tentativi ed errori. È una vita di continua sperimentazione che lascia però ben poche speranze di un experimentum crucis capace di condurre gli sperimentatori a una terra di certezze con tanto di mappe e di indicazioni affidabili. Cautelarsi contro le proprie scommesse: questa è la regola aurea della razionalità del consumatore. In queste equazioni di vita ci sono quasi soltanto variabili, e ben poche – o nessuna – costante; i valori si modificano troppo spesso e troppo velocemente perché sia possibile seguirne i cambiamenti, tanto meno prevederne le future evoluzioni. L’assicurazione spesso ripetuta secondo cui «questo è un paese libero» significa: sta a a ciascuno decidere che genere di vita desidera vivere, come viverla e che tipo di scelte fare per realizzare il suo progetto; se tutto ciò non produce la felicità che sperava, la colpa è sua e di nessun altro. La gioia dell’emancipazione appare strettamente intrecciata all’orrore della sconfitta. Le due implicazioni non possono essere separate. La libertà è destinata a far sì che i rischi non detti dell’avventura invadano lo spazio lasciato vuoto dalla certezza della noia. L’avventura, pur promettendo sensazioni deliziosamente tonificanti perché nuove, preannuncia anche l’umiliazione dell’insuccesso e la perdita di autostima dovuta alla sconfitta. Quando, strada facendo, la reale dimensione dei rischi dell’avventura – che in precedenza erano stati sottovalutati a cuor leggero – diverrà evidente, la noia – piaga giustamente disapprovata e deprecata della certezza – tenderà a essere dimenticata e perdonata: sarà allora il momento di minimizza109

re la portata dei disagi che essa porta con sé e del disgusto che suscita. L’avvento della libertà, camuffato da scelta del consumatore, tenderà a essere visto come entusiasmante atto di emancipazione da obblighi penosi e fastidiosi divieti, o da routine instupidenti e monotone. La libertà, quando si sarà affermata e trasformata in un’altra routine quotidiana, in un tipo di orrore nuovo ma non meno spaventoso di quelli che doveva disperdere – l’orrore della responsabilità – farà ben presto impallidire il ricordo delle sofferenze e dei rancori passati. Le notti che seguono a giornate di scelte obbligate sono piene di sogni di libertà dai vincoli. Merita di essere notato – ma non sorprende – che le due difese più forti e persuasive della necessità della «società» (termine che in questo caso sta a indicare un’autorità che avalli e controlli un sistema completo di norme, regole, vincoli, divieti e sanzioni) avanzate dai filosofi fin dall’inizio della trasformazione moderna, siano state dettate dal riconoscimento delle minacce fisiche e degli oneri spirituali che sono connotati endemici della condizione libera. La prima difesa, formulata da Hobbes, sviluppata molto tempo dopo da Durkheim e trasformatasi verso la metà del XX secolo in un tacito presupposto entrato a far parte del senso comune della filosofia e delle scienze sociali, presentava la coercizione sociale e i vincoli imposti alla libertà individuale dalla regolamentazione normativa come mezzi necessari, inevitabili e in ultima analisi salutari e benefici per proteggere la convivenza umana dalla «guerra di tutti contro tutti» e gli individui dalla vita che è «brutta, brutale e breve». Secondo i fautori di questa posizione, la fine della coercizione sociale gestita dall’autorità (ammesso che tale fine fosse possibile o almeno concepibile) non avrebbe liberato gli individui ma, al contrario, li avrebbe soltanto resi incapaci di resistere agli stimoli malsani dei loro stessi istinti, essenzialmente antisociali. Li avrebbe resi vittime di una schiavitù molto più terribile di quella prodotta da tutte le pressioni del110

le dure realtà sociali. Freud rappresentò come essenza stessa della civiltà la coercizione esercitata dalla società e la limitazione delle libertà individuali che ne risultava: la civiltà senza coercizione sarebbe stata impensabile dato il «principio di piacere» (la spinta a ricercare la soddisfazione sessuale o la congenita inclinazione degli uomini alla pigrizia), che avrebbe condotto il comportamento individuale nel deserto dell’asocialità a meno di non vincolarlo, regolarlo e bilanciarlo tramite il «principio di realtà», sostenuto dal potere e gestito dall’autorità. La seconda posizione in difesa della necessità, o meglio dell’inevitabilità, della regolamentazione normativa applicata dalla società si fondava su una premessa pressoché opposta: quella della sfida etica che gli uomini devono fronteggiare per la presenza stessa degli altri, per «l’appello silenzioso del volto dell’Altro». Tale sfida precede qualsiasi contesto ontologico creato ed elaborato dalla società: la società, se mai, punta a neutralizzare, regolare e limitare la sfida di una responsabilità, altrimenti illimitata, per rendere possibile sopportarla e convivere con essa. In questa versione, elaborata compiutamente da Emmanuel Lévinas, ma anche da Knud Løgstrup con la sua concezione della «domanda [etica] inespressa», la società è vista in primo luogo come meccanismo per ridurre la responsabilità-verso-l’altro, essenzialmente incondizionata e illimitata, a un insieme di prescrizioni e divieti che siano più in linea con le capacità dell’uomo di farvi fronte. Come sostiene Lévinas, la funzione principale della regolamentazione normativa, e anche la causa fondamentale della sua inevitabilità, è fare della responsabilità verso l’Altro (sostanzialmente incondizionata e illimitata) qualcosa di condizionato (rispetto a circostanze selezionate, debitamente elencate e chiaramente definite) e limitato (a un gruppo selezionato di «altri», molto più piccolo dell’umanità e, cosa particolarmente importante, più circoscritto e facile da gestire rispetto alla somma indeterminata degli «altri» che possono finire per destare dei sentimenti di responsabilità il111

limitata e inalienabile). Nel lessico di Knud Løgstrup – pensatore molto vicino alle posizioni di Lévinas e che, come quest’ultimo, sottolinea il primato dell’etica sulle realtà della vita-in-società e chiama il mondo a rispondere di non essere all’altezza degli standard della responsabilità etica – si può dire che la società sia una organizzazione per rendere udibile (ossia specifica e codificata) la domanda etica, che altrimenti resterebbe ostinatamente e fastidiosamente silenziosa, riducendo così l’infinita molteplicità di opzioni che quel comando implica a una gamma molto più ristretta e gestibile di obblighi più o meno chiaramente esposti. L’avvento del consumismo ha indebolito la credibilità e il potere persuasivo di entrambe le posizioni, ciascuna in modo diverso, ma per la stessa ragione, che può essere individuata nel processo di scomposizione (sempre evidente e tuttora crescente) del sistema della regolamentazione normativa, un tempo onnicomprensivo. Aree sempre più ampie del comportamento umano si sono emancipate dalla modellizzazione, supervisione e vigilanza che la società esercita in modo esplicito (con il sostegno di autorità e sanzioni ufficiali), lasciando alla responsabilità di ciascuno, uomo o donna, un insieme sempre maggiore di responsabilità precedentemente socializzate. In un contesto deregolamentato e privatizzato che si concentra sugli interessi e sugli obiettivi dei consumatori, le responsabilità delle scelte, delle azioni che seguono le scelte e delle conseguenze di tali azioni gravano completamente sulle spalle dei soggetti individuali. Come segnalava già vent’anni fa Pierre Bourdieu, l’incentivazione ha sostituito in gran parte la coercizione, la seduzione i modelli di comportamento tassativi di un tempo, la comunicazione e la pubblicità la vigilanza sul comportamento, e l’evocazione di nuovi bisogni e desideri la regolamentazione normativa. L’avvento del consumismo ha evidentemente privato le due posizioni sopra esaminate di molta della loro credibilità originaria, poiché non si sono materializzate le conseguenze catastrofiche (che si ritenevano inevitabili) dell’abbandono o 112

dell’indebolimento della regolamentazione normativa gestita dalla società. L’abbondanza e l’intensità degli antagonismi e degli aperti conflitti tra gli individui creati dalla progressiva deregolamentazione e privatizzazione di funzioni un tempo svolte dalla società, nonché l’entità dei danni che possono arrecare al tessuto sociale, sono attualmente oggetto di dibattito, ma la società dei consumatori deregolamentata e privatizzata è finora ben lontana – e non si sta certo avvicinando – alla terrificante visione hobbesiana. E sebbene il destino della consapevolezza etica e della condotta moralmente motivata susciti numerose, serie e fondate preoccupazioni, l’esplicita privatizzazione della responsabilità non ha disarmato e sopraffatto i soggetti umani di fronte all’enormità della sfida, come supponevano le visioni di Lévinas e Løgstrup. Sembra probabile (ma su questo non è ancora stato pronunciato un verdetto definitivo) che i consumatori, esposti alla logica dei mercati dei beni di consumo e abbandonati alle loro scelte, abbiano trovato un equilibrio di forze di segno opposto tra il principio di piacere e quello di realtà. Si presume che sia ora il «principio di realtà» a trovarsi sul banco degli imputati. In caso di conflitto tra i due principi che si riteneva si opponessero inesorabilmente (cosa oggi tutt’altro che scontata, come ho scritto sopra), è il principio di realtà ad avere le maggiori probabilità di trovarsi sotto pressione e di essere costretto a battere in ritirata, ad autolimitarsi e a giungere a compromessi. Sembra che ci sia ben poco da guadagnare dall’obbedire ai solidi e coriacei «fatti sociali» che ai tempi di Émile Durkheim si credevano indomabili e irresistibili, mentre venire incontro alle esigenze del principio di piacere, che può espandersi all’infinito, promette ricavi e profitti anch’essi suscettibili di crescita senza fine. Che i «fatti sociali» liquidomoderni siano sempre più, e sempre più vistosamente, «morbidi» e flessibili contribuisce a emancipare la ricerca del piacere dalle restrizioni di un tempo (ora censurate come irrazionali) e ad aprirla totalmente allo sfruttamento commerciale. 113

Le guerre per il riconoscimento (interpretabili, in alternativa, come richieste di legittimazione) che si combattono a ogni nuova avanzata del principio di piacere sono perlopiù brevi e quasi di circostanza, poiché il loro esito vittorioso è, nella grande maggioranza dei casi, scontato. Il vantaggio fondamentale su cui il «principio di realtà» poteva contare rispetto al «principio di piacere» consisteva generalmente nelle sue grandi risorse (sociali, sovraindividuali), rispetto alle forze molto più deboli (individuali e basta) del suo antagonista, ma questo vantaggio è stato assai ridotto, se non annullato e svuotato, dai processi di deregolamentazione e privatizzazione. Tocca ora ai singoli consumatori definire (e fissare, se ciò è possibile e auspicabile) le realtà che potrebbero dare concretezza alla versione liquida del principio di realtà e perseguire gli obiettivi dettati dal principio di piacere. Quanto alla domanda posta e formulata da Lévinas, il compito di ridurre il carattere infinito e sovrumano della responsabilità etica alle possibilità date dalla sensibilità, dalla capacità di giudizio e dalla capacità di agire di un individuo normale tende ormai a essere «sussidiarizzato» a ciascun uomo o donna, in ogni ambito o quasi. Poiché manca una traduzione autorevole della «domanda silenziosa» in una lista circoscritta di obblighi e divieti, tocca ormai ai singoli definire i limiti della propria responsabilità verso gli altri, tracciare la linea tra gli interventi umani plausibili o meno, e decidere fino a che punto sono disposti a sacrificare il proprio benessere per far fronte alle responsabilità morali verso gli altri. Questo compito, una volta trasferito agli individui, diviene schiacciante, poiché l’espediente di nascondersi dietro un’autorità riconosciuta e inequivocabilmente indomabile che garantisca di alleviarli, almeno in qualche misura, dalla responsabilità non è più un’opzione realistica. Di fronte a un compito così immane gli attori si trovano in uno stato di incertezza continuo e insanabile, e pervengono troppo spesso a una penosa e avvilente auto-disapprovazione. Eppure, per l’io morale e per gli attori morali il risultato complessivo del114

la privatizzazione e sussidiarizzazione della responsabilità si dimostra in qualche modo meno invalidante di quanto prevedessero Lévinas e i suoi discepoli, me compreso. Bene o male si è trovato un modo per mitigare l’impatto potenzialmente devastante dei fenomeni e per limitarne i danni. È evidente che esiste un gran numero di agenzie commerciali pronte ad assumersi i compiti abbandonati dalle istituzioni e dai governi e a vendere i propri servizi a consumatori affranti, impreparati e confusi. Sotto il regime della deregolamentazione e della privatizzazione la formula dello «scarico dalla responsabilità» è rimasta sostanzialmente la stessa utilizzata nelle prime fasi della storia moderna: l’introduzione di una certa dose di vera o presunta chiarezza in una situazione disperatamente opaca, la sostituzione (o, più esattamente, l’occultamento) della vertiginosa complessità del compito con un elenco definito e più o meno ampio di semplici regole, obblighi e divieti. Ora come allora, i singoli attori sono spinti e indotti con lusinghe a riporre fiducia in autorità affidabili per capire ciò che la domanda silenziosa chiede loro di fare in questa o in quella situazione, entro (e non oltre) il punto cui la loro responsabilità incondizionata li obbliga ad arrivare nella loro attuale condizione. I concetti di responsabilità e di scelta responsabile, che in precedenza erano collocati nel campo semantico del dovere etico e della preoccupazione morale per l’Altro, si sono, o sono stati, trasferiti all’ambito della realizzazione di sé e della previsione dei rischi. In questo processo «l’Altro» in quanto punto di partenza, destinazione e metro di una responsabilità riconosciuta, accettata e sostenuta, è pressoché scomparso, scacciato o messo in ombra dall’io dello stesso attore. La «responsabilità» ormai si esaurisce nella responsabilità verso se stessi («devi questo a te stesso», «te lo meriti», così come la formula chi vende «scarico dalla responsabilità»), mentre le «scelte responsabili» si riducono alle mosse che servono agli interessi dell’io e ne soddisfano i desideri. 115

L’esito non è molto diverso dagli effetti «adiaforizzanti» dello stratagemma che veniva adottato dalla burocrazia solido-moderna, vale a dire la sostituzione della «responsabilità per» (per il benessere e la dignità umana dell’Altro) con la «responsabilità verso» (verso il proprio superiore, verso un’autorità, verso una causa e chi parla a suo nome). Tuttavia, al giorno d’oggi gli effetti adiaforizzanti (ossia la dichiarazione di «neutralità etica» di determinate azioni cariche di scelta morale, così esentate dalla valutazione e dalla censura dell’etica) si ottengono piuttosto sostituendo alla «responsabilità per gli altri» la «responsabilità verso se stessi» e la «responsabilità per se stessi», che oramai coincidono. La vittima collaterale di questo salto verso la variante consumistica della libertà è l’Altro in quanto oggetto di responsabilità etica e di preoccupazione morale. Possiamo ora tornare ai tre messaggi segnalati e brevemente esaminati all’inizio di questo capitolo. Essi, insieme e all’unisono, proclamano uno stato di emergenza. In ciò non c’è niente di nuovo, se non un’ennesima rassicurazione, spesso ripetuta, secondo cui l’attenzione continua, la costante disponibilità ad andare nella giusta direzione e l’investimento di denaro e di sforzi necessari su questo percorso sono tutte cose sacrosante e opportune. Le spie luminose che segnalano l’allarme (arancione? rosso?) sono accese, nuovi inizi carichi di promesse e nuovi, minacciosi rischi ci si presentano davanti. Tutto l’armamentario necessario per fare le scelte giuste (adempiere alla responsabilità inalienabile verso e per se stessi), gli strumenti e le procedure adatti e le istruzioni semplicissime che servono per farli funzionare nel modo desiderato sono in lì che aspettano, da qualche parte, sicuramente a portata di mano, e possono essere trovati con una modica quantità di ingegno e di sforzo. Il punto, oggi come allora, è non perdere il momento giusto per agire: se disattento o distratto, negligente o indolente, lo sventurato attore finirebbe facilmente in coda a «chi fa tendenza», anziché «un passo avanti». Ignorare l’indifferenza dei mercati dei beni di con116

sumo e fare affidamento su strumenti e routine che hanno dato buoni risultati in passato non funzionerà. Nicole Aubert sottolinea in uno studio significativo sugli attuali, decisivi cambiamenti della nostra percezione ed esperienza del tempo, il ruolo fondamentale dello «stato di emergenza» e il clima o la «urgenza» che è destinato e mira a diffondere, disseminare e consolidare, una volta proclamato8. L’autrice sostiene che nelle società attuali lo stato e l’atmosfera di «emergenza» servono a soddisfare numerosi bisogni esistenziali che in altri tipi di società vengono tendenzialmente repressi o lasciati insoddisfatti, ricorrendo a stratagemmi molto diversi per farvi fronte. I nuovi espedienti che Aubert ricollega alla strategia consistente nel coltivare in modo sia intensivo che estensivo un senso di urgenza offrono un sollievo illusorio, ma comunque molto efficace, agli individui e alle istituzioni nei loro sforzi di alleviare le conseguenze potenzialmente devastanti dei tormenti generati dalla necessità di scegliere, che caratterizzano endemicamente la libertà del consumatore. Una delle principali illusioni è costituita dalla condensazione temporanea dell’energia, altrimenti diffusa, generata dal segnale di allerta. Quando essa raggiunge il punto di autocombustione, l’accumulazione del potere necessario per agire allevia (sia pure per poco) i tormenti dell’inadeguatezza che perseguitano quotidianamente i consumatori. Gli individui che Aubert ha coinvolto e osservato da vicino (individui, vorrei notare, guarda caso addestrati e avviati alle arti della vita di consumo e diventati perciò intolleranti a ogni e qualsiasi frustrazione e incapaci di resistere al rinvio di una gratificazione che si attendono sia sempre immediata), «essendosi per così dire adagiati sul presente, su una logica di ‘non rinvio’, si cullano nell’illusione di avere la forza di conquistare il tempo», abolendolo del tutto (per qualche tempo!), o almeno attenuandone le conseguenze frustranti. Non verrà mai sottolineata abbastanza la forza terapeutica o tranquillizzante di una simile illusione di padronanza del 117

tempo, la forza di dissolvere il futuro nel presente o incapsularlo nell’«adesso». Se, come argomenta in modo convincente Alain Ehrenberg9, la sofferenza umana oggi più diffusa tende a svilupparsi a partire da un’indigestione di possibilità, anziché da un’abbondanza di divieti come avveniva in passato, e se l’opposizione tra il possibile e l’impossibile è subentrata, come quadro cognitivo e criterio essenziale per la valutazione e la scelta della strategia di vita, all’antinomia tra ciò che è permesso e ciò che è vietato, è inevitabile che la depressione causata dal terrore dell’inadeguatezza sostituisca, come disturbo psicologico caratteristico e diffuso tra gli abitanti della società dei consumatori, la nevrosi provocata dall’orrore della colpa (cioè dall’accusa di non conformità che può seguire una violazione delle regole). Come indica efficacemente il diffondersi di consuetudini linguistiche come «avere tempo», «non avere tempo», «perdere tempo» e «risparmiare tempo», gli sforzi per tener testa alla velocità e al ritmo con cui il tempo scorre ricorrendo all’intensità delle intenzioni e al fervore delle azioni individuali sono in cima alla lista delle nostre preoccupazioni per frequenza, dispendio di energia e logorio nervoso. Di conseguenza, l’incapacità di raggiungere una perfetta corrispondenza tra sforzo e risultato (incapacità che affiora sistematicamente e affievolisce la fiducia nella propria padronanza del tempo) può essere una fonte prolifica del «complesso di inadeguatezza», grande afflizione della vita liquido-moderna. E, in effetti, tra le prevalenti definizioni del fallimento soltanto la penuria di denaro può competere seriamente oggi con la mancanza di tempo. Nessun altro gesto può alleviare più efficacemente (sia pure per poco) il complesso di inadeguatezza quanto lo sforzo straordinariamente intenso che si fa nell’ambito (e sotto l’influenza) di uno stato di emergenza. Come ha dichiarato uno dei professionisti di alto livello intervistati da Aubert, nel compiere questo genere di sforzi egli si sentiva quasi padrone del mondo... Aveva la sensazione di «vivere al massimo» e provava 118

enorme piacere in tale emozione. Gli piaceva, a suo dire, l’improvvisa iniezione di adrenalina che gli dava l’impressione di avere un «potere sul tempo e su processi, relazioni e interazioni complesse [...]». Il potere terapeutico della soddisfazione ottenuta durante uno stato di emergenza può perdurare persino più dell’elemento che l’ha provocata. Come ha riferito un altro degli intervistati di Aubert, il maggior beneficio dato dall’affrontare un compito urgente è l’intensità stessa del momento così vissuto. Il contenuto del compito e la causa dell’urgenza sono puramente accidentali, inessenziali, e vengono quasi dimenticati: ciò che si ricorda, tuttavia, e con passione, è la grande intensità, e la rassicurante evidenza, o la prova decisiva, della propria capacità di essere all’altezza della sfida. Un altro servizio che una vita vissuta attraverso stati di emergenza ricorrenti o continui (anche se prodotti artificialmente o dichiarati in modo ingannevole) può rendere alla salute mentale dei nostri contemporanei è una versione aggiornata della «caccia alla lepre» di Blaise Pascal, adattata a un nuovo contesto sociale. A stridente differenza del caso di una lepre già catturata, cucinata e consumata, questo genere di caccia non dà al cacciatore tempo sufficiente a meditare sulla brevità, la vacuità, l’insensatezza o la vanità dei suoi obiettivi e, per estensione, dell’insieme della sua vita terrena. La successione di cicli in cui ci si riprende dall’ultima allerta, ci si rimette in forma e si raccolgono le forze per quella successiva, si vive un nuovo momento di emergenza per poi doversi riprendere ancora una volta dalle tensioni e dal dispendio di energia dell’azione sotto pressione, può riempire tutti i potenziali «vuoti» della vita che altrimenti avrebbero potuto essere occupati dall’insopportabile consapevolezza delle «cose ultime», solo temporaneamente rimossa: cose che si preferirebbe dimenticare per conservare la propria salute mentale e godersi la vita. Per citare nuovamente Aubert: Essere occupati in permanenza, un’urgenza dietro l’altra, dà la sicurezza di una vita piena o di una «carriera di successo», uniche 119

prove di autoaffermazione in un mondo in cui manca qualsiasi riferimento all’«aldilà» e in cui l’unica certezza è l’esistenza, con la sua finitezza [...]. Quando agiscono, le persone pensano a breve termine – pensano a cose da fare immediatamente o nel futuro prossimo [...]. Fin troppo spesso l’azione è solo una fuga dall’io, un rimedio contro l’angoscia10.

E vorrei aggiungere che quanto più intensa è l’azione, tanto più affidabile è il suo potere terapeutico. Quanto più si sprofonda nell’urgenza di un compito da svolgere immediatamente, tanto più si tiene a distanza l’ansia – o quanto meno, se il tentativo di tenerla a distanza non riesce, essa apparirà più sopportabile. Infine, c’è un altro servizio cruciale che una vita dominata dagli allarmi e dalle urgenze e pienamente consumata dagli sforzi di affrontare emergenze, una dopo l’altra, può rendere: un servizio utile alle aziende che fanno funzionare l’economia consumistica, che lottano per la sopravvivenza in condizioni di concorrenza all’ultimo sangue e sono costrette a adottare strategie che con ogni probabilità susciteranno fiera resistenza e ribellione nei loro dipendenti e in ultima analisi minacceranno la capacità delle aziende di agire efficacemente. Al giorno d’oggi la prassi manageriale di provocare un’atmosfera di urgenza o di presentare come stato di emergenza una situazione probabilmente normale è considerata un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di vita. «Dichiara lo stato di emergenza e continua a comandare» sembra essere la ricetta manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli e devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non si vuol più tenere, lavoratori in esubero a causa delle operazioni di «razionalizzazione» o scorporo delle attività che si susseguono. 120

Forse nemmeno l’apprendimento e l’oblio sfuggono alle conseguenze della «tirannia del momento», favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso in una successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente (ma ingannevolmente) scollegati tra loro. La vita di consumo non può essere altro che una vita di apprendimento rapido, ma ha anche bisogno di essere una vita di oblio altrettanto rapido. Dimenticare è importante come, se non più, che imparare. C’è un «non si può» per ogni «si deve», e quale di questi due aspetti riveli il vero obiettivo del ritmo vertiginoso di rinnovamento e rimozione, quale dei due sia invece solo una misura ausiliaria per assicurare che l’obiettivo sia raggiunto, è una questione cronicamente opinabile e irrisolta. Il tipo di informazioni/istruzioni che ha buone probabilità di saltar fuori più copiosamente nel fascicolo sulla moda citato all’inizio di questo capitolo, e in innumerevoli testi simili, è del tipo seguente: «questo autunno la nostra mèta è la Carnaby Street degli anni Sessanta», oppure «l’attuale trend del gotico è perfetto per questo mese». Questo autunno è naturalmente del tutto diverso dall’estate che lo ha preceduto, e questo mese non è affatto come i mesi passati; e dunque ciò che era perfetto per il mese scorso non è affatto perfetto per questo mese, proprio come la mèta dell’estate è anni-luce distante da quella dell’autunno. «Ballerine?» «È ora di toglierle di mezzo». «Spalline sottili?» «Per loro non c’è posto nella nuova stagione». «Matita?» «Facciamone a meno e il mondo sarà migliore». All’appello ad «aprire la borsetta del trucco e dare un’occhiata al suo interno» seguirà probabilmente un’esortazione secondo cui «la prossima stagione sarà fatta di colori vivaci», accompagnata subito dall’avviso che «il beige e i suoi parenti, poco rischiosi ma spenti, hanno fatto il loro tempo [...]. Buttateli via, immediatamente». Manco a dirlo, un colore «spento» come il beige non può convivere sul viso con «colori vivacissimi». Una delle due gamme deve lasciare spazio all’altra ed essere in esubero. Un altro scarto, o «vittima collaterale», del progresso. Qualcosa di cui liberarsi, e alla svelta. 121

Siamo di nuovo alla questione dell’uovo e della gallina... Devi «buttar via» il beige per preparare il viso a ricevere i nuovi, vivaci colori, oppure sono questi ultimi che stanno inondando il reparto cosmetici dei supermarket per garantire che le scorte inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate via, immediatamente»? Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per riempire la borsetta di cosmetici a colori vivaci direbbero molto probabilmente che cestinare il beige è un effetto secondario, deprecabile ma inevitabile, del rinnovamento e miglioramento del make-up, un sacrificio triste ma necessario per stare al passo con il progresso. Ma tra le migliaia di direttori di negozio che stanno inviando ordini per il nuovo assortimento qualcuno ammetterebbe, in un momento di sincerità, che se gli scaffali dei cosmetici si sono riempiti di colori vivaci ciò è accaduto per la necessità di abbreviare la vita utile del beige, facendo in modo che il traffico nei grandi magazzini rimanga intenso, che l’economia continui ad andare avanti e che i profitti crescano. Il Pil, indice ufficiale del benessere della nazione, non si misura forse dalla quantità di denaro che passa di mano? La crescita economica non è forse alimentata dall’energia e dall’attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da fare per liberarsi di cose consumate o obsolete (o, meglio, di tutto ciò che rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come un vento che non soffi o un fiume che non scorra... Sembra che entrambe le risposte di cui sopra siano giuste: esse sono complementari, non contraddittorie. In una società di consumatori e in un’era in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che veramente fa andare avanti l’economia, è il ciclo del «compra, godi e butta via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la 122

chiave della sua stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione. La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nell’acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l’altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento. Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l’etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev’essere il rimanere insoddisfatti. Per un tipo di società che dichiara la soddisfazione del cliente come sua unica motivazione e suo scopo fondamentale, un consumatore soddisfatto non è né la motivazione né il fine, ma la più terribile delle minacce. Ciò che vale per la società dei consumatori deve valere anche per gli individui che ne fanno parte. La soddisfazione dev’essere un’esperienza momentanea, e se dura troppo a lungo è da temere e non da desiderare ardentemente; la gratificazione durevole, una-volta-per-tutte, deve apparire ai consumatori una prospettiva tutt’altro che attraente, anzi una catastrofe. Come afferma Dan Slater, la cultura del consumo «associa la soddisfazione alla stagnazione economica: i bisogni non devono avere fine [...]. Essa richiede che i nostri bisogni siano insaziabili, ma che per soddisfarli si guardi alle merci»11. O forse potremmo metterla in questo modo: veniamo spinti e/o trascinati a cercare soddisfazione senza sosta, ma anche a temere il tipo di soddisfazione che ci farebbe smettere di cercare... Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare? Nien123

te da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c’è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi? Una situazione di questo tipo – di breve durata, si spera – si può chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano l’Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre – i ricordi delle cose, animate o inanimate – che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena... La principale preoccupazione (il «prerequisito funzionale», come direbbe Talcott Parsons) della società dei consumatori non è la creazione di nuovi bisogni (qualcuno li chiama «bisogni artificiali», ma a torto, perché l’«artificialità» non è solo una caratteristica dei bisogni «nuovi»: pur utilizzando le naturali predisposizioni umane come materia prima, tutti i bisogni di qualsiasi società ricevono forma tangibile e concreta grazie all’«artificio» della pressione sociale). L’economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai obsoleti, e ancor più è l’idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni a essere screditata. Il trucco beige, che la scorsa stagione era segno di sicurezza, ormai è solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e per giunta un marchio di disonore, segno di ignoranza, indolenza, inettitudine o complesso di inferiorità; l’atto che fino a poco tempo fa denotava generalmente ribellione e azzardo e confermava che si era «un passo avanti a chi fa tendenza» diventa ben presto sintomo di pigrizia o codardia («Non è trucco, è una coperta di sicurezza»), segno che ci si trova ormai in coda, che si è persino al verde... Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si accontentano di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano di avere 124

bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei consumatori. La minaccia e la paura dell’ostracismo e dell’esclusione aleggiano anche su chi è soddisfatto dell’identità che possiede e su chi si accontenta di ciò che i suoi «altri che contano» lo portano a essere. La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo sono imperniati sulla svalutazione delle loro precedenti offerte, in modo da creare nella domanda del pubblico uno spazio che sarà riempito dalle nuove offerte. Essi alimentano l’insoddisfazione nei confronti dei prodotti usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento verso l’identità acquisita e verso l’insieme di bisogni attraverso i quali viene definita. Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio. Ciò che, dato il numero infinito di punti di vista consumistici, rende la «puntinizzazione» o «puntuazione» del tempo (di cui si parla nel primo capitolo) una novità particolarmente attraente e un modo di essere-nel-mondo che sarà sicuramente appreso con piacere e praticato con fervore, è la duplice promessa di anticipare il futuro ed esautorare il passato. Tale doppia azione è, dopo tutto, l’ideale della libertà in quanto assenza di coercizione (stavo per scrivere l’«ideale moderno della libertà», ma mi sono reso conto che l’aggettivo renderebbe l’espressione un ossimoro: quella che nei contesti premoderni era chiamata «libertà» non supererebbe il test di libertà intesa come libertà di agire secondo gli standard moderni, e dunque non sarebbe affatto considerata tale)12. La promessa di emancipare gli attori dai vincoli di scelta che impone il passato (quel tipo di vincoli che appare particolar125

mente fastidioso perché essi hanno la cattiva abitudine di aumentare di numero e di consolidarsi via via che il «passato» inesorabilmente si riempie dei sedimenti sempre più abbondanti lasciati da periodi sempre più lunghi della storia della propria vita), se abbinata al permesso di archiviare le preoccupazioni per il futuro (e più precisamente per le conseguenze future delle azioni attuali, che hanno il potere assai irritante di vanificare le speranze del momento, revocare o rovesciare il valore delle sentenze del momento e svalutare retrospettivamente i successi oggi celebrati), annuncia una libertà completa, senza restrizioni, quasi «assoluta». La società dei consumatori offre questa libertà in una misura senza precedenti, e addirittura inconcepibile in qualsiasi altra società conosciuta. Consideriamo in primo luogo l’atto inquietante di esautorare il passato. Esso si riduce a un unico, ma miracoloso cambiamento della condizione umana: alla possibilità di «rinascere», inventata recentemente (ma pubblicizzata come se fosse stata appena scoperta). Grazie a questa invenzione, non sono più soltanto i gatti ad avere nove vite. Agli uomini-trasformati-in-consumatori si offre ormai la possibilità di stipare in una sola visita sulla terra, per quanto orribilmente breve (di una brevità che già tanto tempo fa era considerata disgustosa, e che da allora non si è radicalmente allungata) molte vite: una serie infinita di nuovi inizi. Tutta una serie di famiglie, carriere, identità. Basta ormai un’inezia per ripartire da zero... O almeno così sembra. Una delle manifestazioni dell’attuale attrazione delle «nascite in sequenza» – della vita come serie infinita di «nuovi inizi» – è l’espansione, stupefacente e ampiamente riscontrabile, della chirurgia estetica. Quest’ultima, fino a non molto tempo fa, vegetava ai margini della professione medica come un’officina da «ultima spiaggia» per pochi uomini e donne crudelmente sfigurati da una stramba combinazione di geni, da ustioni inguaribili o da brutte cicatrici che non sarebbero mai scomparse; ma ora si è trasformata, per i molti che possono permettersela, in uno strumento normale di rifacimen126

to perpetuo del proprio io visibile. Perpetuo davvero: la creazione di un look «nuovo e migliorato» non è più considerata una questione una tantum, e il nuovo significato del termine «miglioramento», e con esso il bisogno (e naturalmente l’offerta) di ulteriori interventi chirurgici per cancellare le tracce dei precedenti, sono insiti nell’idea stessa e ne costituiscono una delle principali attrazioni (come riferiva il «Guardian» del 16 maggio 2006, «Transform, la maggiore azienda britannica di chirurgia plastica, che conta nel paese undici centri», offre ai suoi clienti «carte fedeltà» utilizzabili per nuovi interventi chirurgici). La chirurgia plastica non ha a che vedere con l’eliminazione di un difetto o con il conseguimento di una forma ideale negata dalla natura o dal destino, ma con la necessità di stare al passo con standard che si modificano rapidamente, col mantenimento del proprio valore di mercato e con l’eliminazione di un’immagine che ha esaurito la propria utilità o il suo fascino, al fine di sostituirla con una nuova immagine pubblica – in confezione unica con una nuova identità (è una speranza) e con un nuovo inizio (è una certezza). Nella sua indagine, sintetica ma esauriente, sull’aumento spettacolare del business della chirurgia estetica, Anthony Elliott osserva: La cultura chirurgica di oggi promuove una fantasia di plasticità infinita del corpo. Il messaggio che arriva dall’industria della trasformazione è che non c’è niente che impedisca di reinventarsi nel modo che si è scelto; ma, per la stessa ragione, è improbabile che il proprio corpo migliorato dalla chirurgia renderà felici a lungo. Gli attuali rifacimenti del corpo sono impostati esclusivamente sul breve termine: fino alla «prossima procedura» [...]. La chirurgia cosmetica, più economica e accessibile di quanto non sia mai stata in precedenza, sta rapidamente diventando una questione di stile di vita13.

Ogni nuovo inizio può portarti fin qui, e non oltre; ogni nuovo inizio promette tanti nuovi inizi futuri. Ogni momento ha la fastidiosa tendenza a trasformarsi in passato – e in 127

men che non si dica sarà disabilitato a sua volta. La capacità di esautorare, disabilitare il passato è, in fin dei conti, il senso più profondo della promessa di abilitazione che viene dai beni di consumo sul mercato. Il mondo abitato da consumatori è percepito dai suoi abitanti come un immenso contenitore di pezzi di ricambio. Il magazzino è costantemente e copiosamente rifornito, e se le scorte temporaneamente si esauriscono, si confida che i rifornimenti arriveranno prontamente. Non si pensa più di doversi accontentare e arrangiare con ciò che si ha o con ciò che si è, rassegnandosi all’assenza di alternative e cercando di usare al meglio ciò che il destino ha offerto. Se qualche elemento (degli attrezzi di uso quotidiano, della rete attuale di contatti umani, del proprio corpo e della sua presentazione in pubblico, del proprio io/identità e dell’immagine che ne viene presentata in pubblico) perde attrattiva pubblica o valore di mercato, esso va reciso, allontanato e sostituito con un pezzo di ricambio «nuovo e migliorato», o semplicemente mai usato prima, e dunque non ancora usurato, fatto in casa o con strumenti «fai da te», o meglio ancora prodotto in fabbrica e reperibile in commercio. I consumatori della società dei consumatori vengono addestrati fin dalla nascita, e per tutta la vita, a una simile percezione del mondo e un simile modus operandi nel mondo. L’espediente di vendere il prodotto successivo a un prezzo inferiore a condizione che il prodotto simile precedentemente acquistato sia restituito al negozio «dopo l’uso» è ampiamente praticato da aziende che vendono beni per la casa; ma Lesław Hostyn´ski, attento studioso dei valori della cultura del consumo, ha elencato e descritto una lunga serie di stratagemmi, utilizzati nel marketing dei beni di consumo per dissuadere i (sempre più) giovani adepti del consumismo dallo sviluppare un attaccamento a lungo termine verso qualsiasi cosa da loro acquistata e apprezzata14. La Mattel, per esempio, che ha inondato il mercato dei giocattoli di bambole Barbie, le cui vendite hanno raggiunto 1,7 miliardi di dollari nel 128

solo 1996, ha offerto ai suoi giovani consumatori uno sconto per l’acquisto di una nuova Barbie a condizione che venga restituita la Barbie in loro possesso, ormai «esaurita». La «mentalità dello scarto», indispensabile complemento della visione del mondo (mercificato) all’insegna delle parti di ricambio, fu segnalata per la prima volta in Lo choc del futuro di Alvin Toffler15 come forma di sviluppo spontaneo e di base, ma da allora è diventata uno dei principali obiettivi delle aziende nell’educare i propri clienti potenziali a una vita di consumo fin dalla prima infanzia. Scambiare una Barbie con un’altra Barbie «nuova e migliorata» porta a una vita di liaisons e partnerships definite e vissute secondo un modello di affitto-acquisto. Come osserva Pascal Lardellier, «la logica dei sentimenti» tende a diventare sempre più consumistica16: punta alla riduzione di ogni genere di rischio, alla categorizzazione delle qualità ricercate, a uno sforzo per definire con precisione i connotati del partner desiderato. Alla base di ciò è la convinzione che sia possibile comporre l’oggetto dell’amore a partire da un certo numero di caratteristiche fisiche e sociali e di tratti caratteriali definiti e misurabili. In base ai precetti di un simile «marketing amoroso» (termine coniato dallo stesso Lardellier), se l’«oggetto d’amore» cercato è difettoso in uno o più aspetti l’«acquirente» potenziale deve desistere dall’«acquisto», come farebbe nel caso di qualsiasi altro prodotto offerto sul mercato; se invece un difetto si rivela dopo l’«acquisto», l’oggetto difettoso, come ogni altra merce, deve essere scartato e debitamente sostituito. Secondo Jonathan Keane il comportamento di chi naviga in internet alla ricerca dell’ideale composito di un compagno appare come un’«attività emotivamente rimossa» – «è come se le persone fossero bistecche esposte in una macelleria»17. «Rinascere» significa che la o le precedenti nascite, con le relative conseguenze, sono state annullate a tutti gli effetti pratici. 129

Ogni «nuovo inizio» (un’altra incarnazione) è avvertito, in modo rassicurante ma ingannevole, come avvento di una potenza (che, sebbene sempre sognata, mai prima d’ora si era creduto di poter sperimentare, e tanto meno impiegare), del tipo che l’illustre filosofo esistenzialista russo-francese Lev Sˇestov ha indicato come prerogativa esclusiva e caratteristica definitoria di Dio, sostenendo che il potere di annullare il passato (ottenendo, per esempio, che Socrate non fosse mai stato costretto a bere cicuta) era il segno ultimo dell’onnipotenza divina. La forza di ridefinire o annullare eventi passati può avere la meglio sul potere di determinazione causale e vanificarlo; la capacità del passato di eliminare le opzioni del presente può essere radicalmente limitata, e forse persino azzerata. Ciò che sono stato ieri non esclude più la possibilità che io diventi oggi una persona totalmente diversa, né elimina la prospettiva che un’altra mia incarnazione futura cancelli il presente – vale a dire il suo passato. Poiché, ricordiamolo ancora una volta, ogni punto nel tempo è ritenuto carico di un potenziale inesplorato, e questo potenziale è ritenuto originale, unico e non replicabile in un altro punto-tempo qualsiasi, il numero dei modi per modificare se stessi (o almeno tentare di farlo) è realmente incalcolabile: esso sminuisce la sorprendente molteplicità di permutazioni e la vertiginosa varietà di forme e sembianze che gli incontri fortuiti dei geni sono riusciti finora, e riusciranno probabilmente in futuro, a produrre nella specie umana. Andrzej Stasiuk, attento osservatore dell’attuale stile di vita, ha sostenuto che la molteplicità, anzi l’infinità di opzioni disponibili si avvicina alla impressionante capacità dell’eternità, nell’ambito della quale, come sappiamo, tutto prima o poi può accadere e tutto si può fare; ormai, però, la mirabile potenza dell’eternità è stata compattata nella durata tutt’altro che eterna di una sola vita umana. Di conseguenza, l’impresa di privare il passato del potere di restringere le successive scelte, e la possibilità che ne scaturisce di un’«altra nascita» (ossia di un’altra incarnazione), 130

sottrae all’eternità la sua attrazione più seducente. Nel tempo puntinizzato della società dei consumatori l’eternità non è più un valore né un oggetto di desiderio. La caratteristica che più di ogni altra conferiva ad essa il suo valore unico e realmente maestoso e la rendeva oggetto di sogni è stata espunta, compressa e condensata in una esperienza tipo big bang e inserita nell’istante – in un istante qualsiasi. Di conseguenza, la «tirannia del momento» liquido-moderna, con il suo precetto del carpe diem, sostituisce la tirannia premoderna dell’eternità, il cui slogan era memento mori. Nel suo libro dall’eloquente titolo Tempo tiranno Thomas Hylland Eriksen indica nella «tirannia del momento» la caratteristica più evidente della società contemporanea, e probabilmente la sua principale novità: Le conseguenze di questa terribile fretta sono devastanti: il passato e il futuro come categorie mentali sono minacciati dalla tirannia dell’istante. [...] La minaccia, anzi, riguarda persino il «qui e ora», perché l’istante successivo arriva talmente in fretta che è difficile vivere il presente18.

Siamo di fronte a un autentico paradosso e a una fonte inesauribile di tensione: quanto più grande e capiente è l’istante, tanto più esso si riduce (si abbrevia); al dilatarsi del suo contenuto potenziale si restringe invece la sua dimensione. «Forti indizi fanno pensare che stiamo creando una società in cui risulta quasi impossibile pensare qualcosa di più di una frase smozzicata»19. Ma contrariamente alle speranze diffuse, che le promesse del mercato dei beni di consumo alimentano, cambiare la propria identità, se anche fosse davvero plausibile, richiederebbe molto più di un pensiero lungo un paio di centimetri. Una volta sottoposta al trattamento di «puntinizzazione», l’esperienza del tempo viene troncata su entrambi i versanti. Le sue interfacce con il passato e anche con il futuro si trasformano in abissi, privi di ponti e, si spera, invalicabili. Pa131

radossalmente, nell’epoca del collegamento istantaneo e senza sforzo e della promessa di rimanere costantemente «in contatto» esiste un desiderio di sospendere la comunicazione tra l’esperienza di quel momento e tutto ciò che la precede o la segue, o meglio che la interrompe irrimediabilmente. Il vuoto alle proprie spalle deve impedire al passato di raggiungere l’io in corsa. E il vuoto davanti a sé è condizione per vivere l’attimo con pienezza, per abbandonarsi totalmente e senza riserve al suo fascino e al suo potere di seduzione (senza dubbio fugace): atto che sarebbe pressoché impossibile se vivere quell’attimo fosse contaminato dall’inquietudine nell’ipotecare il futuro. Idealmente, ogni istante sarà modellato sullo schema con cui si usa la carta di credito, atto radicalmente spersonalizzato: in mancanza di un rapporto faccia a faccia, diventa più facile ignorare il prezzo che si dovrà pagare per il momento piacevole, o comunque evitare di pensare prima di tutto ad esso. Non stupisce che le banche, ben contente che il contante circoli e di guadagnare ancor più che se il contante disponibile restasse fermo, preferiscono che i loro clienti mettano mano alla carta di credito, anziché inchiodare alle loro responsabilità i manager di filiale. . Elzbieta Tarkowska, eminente studiosa della sociologia del tempo, ha adottato la terminologia di Bertman sviluppando il concetto di «uomini sincronici», che «vivono esclusivamente nel presente» e «non prestano attenzione all’esperienza passata o alle conseguenze future delle proprie azioni»: strategia che «si traduce nell’assenza di legami con gli altri». La «cultura presentista [...] premia la velocità e l’efficacia, penalizzando la pazienza e la perseveranza»20. Possiamo aggiungere che la fragilità e l’evidente facilità di scartare le identità individuali e i legami interumani sono rappresentati nella cultura contemporanea come la sostanza della libertà individuale. L’unica scelta che tale libertà non riconoscerebbe, ammetterebbe o consentirebbe è l’intenzione (e la capacità) di perseverare nell’identità già costruita, vale a di132

re nel tipo di attività che presuppone e implica necessariamente il mantenimento e la sicurezza della rete sociale su cui quell’identità poggia e che la riproduce attivamente. In Amore liquido21 ho tentato di analizzare la crescente fragilità dei legami interumani. La conclusione che vi ho sostenuto è che tali legami tendono oggi a essere considerati – con esultanza mista ad ansia – vulnerabili, facili a stringersi quanto a disgregarsi e a spezzarsi. L’esultanza nasce dal fatto che la fragilità dei legami riduce i rischi che si ritiene siano presenti in ogni interazione, il pericolo di stringere nel presente un nodo che impedisca di sentirsi a proprio agio in futuro, e la probabilità che esso si consolidi diventando una di quelle cose che hanno «fatto il loro tempo», che ieri attraevano ma oggi respingono, che ingombrano l’habitat e tolgono la libertà di esplorare il numero infinito di momenti che si succedono, gravidi di nuove e migliorate attrattive. L’ansia è invece dovuta al fatto che la fragilità, la temporaneità e la revocabilità degli impegni reciproci sono a loro volta fonte di rischi tremendi. Le propensioni e le intenzioni degli altri esseri umani che vivono e agiscono nell’ambito di esistenza di ogni individuo sono, in fin dei conti, delle incognite. Non possono essere date per scontate, considerate affidabili o prevedibili con sicurezza – e l’incertezza che ne risulta pone un punto interrogativo enorme e ineliminabile sui piaceri che derivano da qualsiasi legame esistente molto prima che le soddisfazioni che ci si attende da esso siano state pienamente degustate e realmente esaurite. La crescente fragilità dei legami umani è dunque una esperienza costante di felicità e, insieme, maledizione, dal momento in cui essi sono concepiti fino a molto tempo dopo la loro fine. Non riduce la quantità totale di ansia, limitandosi a distribuirla in un altro modo, e le sue future evoluzioni sono virtualmente impossibili da prevedere, e ancor più da preordinare e controllare. 133

Alcuni osservatori della scena contemporanea, e in particolare Manuel Castells e Scott Lash, vedono nelle nuove tecnologie che consentono di stringere e sciogliere legami virtuali forme alternative di socialità, promettenti e per certi versi superiori, e le considerano una terapia forse efficace, o una medicina preventiva, contro il rischio della solitudine del consumatore e una spinta alla sua libertà (la libertà di fare e disfare le proprie scelte): una forma alternativa di socialità che in qualche modo va verso la riconciliazione delle esigenze conflittuali di libertà e sicurezza. Castells parla di «individualismo di rete», Scott Lash di «legami comunicativi». Entrambi sembrano però scambiare pars pro toto, sebbene ciascuno si concentri su una diversa parte della complessa e ambivalente totalità. Se la si guarda dal punto di vista della parte mancante, la «rete» somiglia in modo preoccupante, più che a un luogo dove si costruiscono legami sociali affidabili, a una duna di sabbie mobili. Quando entrano a far parte dell’ambiente di vita del singolo consumatore, le reti di comunicazione elettronica sono dotate fin dall’inizio di un dispositivo di sicurezza, della possibilità cioè di scollegarsi istantaneamente, senza problemi e (si spera) senza dolore, di recidere la comunicazione in modo da abbandonare a se stesse alcune parti della rete, annullandone la rilevanza e il potere di disturbo. È questo meccanismo di sicurezza, e non la facilità di entrare in contatto, e tanto meno di restare insieme in modo permanente, a rendere il sostituto elettronico della comunicazione faccia a faccia così attraente per uomini e donne addestrati a operare in un mondo mediato dal mercato. In questo mondo il senso della libertà individuale consiste, ancor più che nel procurarsi ciò che si desidera, nel liberarsi di ciò che non si desidera. Il congegno di sicurezza che su richiesta consente di scollegarsi immediatamente collima in pieno con i precetti fondamentali della cultura consumistica, ma le sue prime e principali vittime collaterali sono i legami sociali e le capacità necessarie a stringerli e mantenerli. 134

Se si considera che lo «spazio virtuale» sta rapidamente trasformandosi nell’habitat naturale di chi fa parte, o vorrebbe far parte, delle classi della conoscenza, non sorprende che parecchi accademici tendano a vedere internet e il World Wide Web come promettente e gradita alternativa, o surrogato, rispetto alle deperite e fatiscenti istituzioni ortodosse della democrazia politica che oggi, come sappiamo, suscitano sempre meno interesse e ancor meno impegno da parte dei cittadini. Come scrive Thomas Frank, per chi fa, o vorrebbe fare, parte delle classi della conoscenza «la politica, da sforzo teso a costruire un movimento, diventa soprattutto un esercizio di autoterapia individuale, una conquista solitaria»22: un mezzo per informare il mondo delle proprie virtù, come documentano ad esempio i messaggi iconoclasti applicati ai finestrini delle auto o l’ostentazione dimostrativa di consumi dichiaratamente «etici». Teorizzare internet come forma nuova e migliorata della politica, la navigazione del World Wide Web come forma nuova e più efficace di impegno politico e la crescente velocità di connessione alla rete e di navigazione elettronica come progresso della democrazia ricorda in modo sospetto le tante interpretazioni sulle prassi di vita sempre più comuni e depoliticizzate della cosiddetta knowledge class, la «classe di coloro che sanno», e soprattutto sul suo grande interesse a essere onorevolmente esonerata dalla «politica del reale». Tanto più spicca, rispetto a questo coro di elogi, il secco verdetto di Jodi Dean: le odierne tecnologie della comunicazione sono «profondamente depoliticizzanti», e «la comunicazione funziona in modo feticistico, come disconoscimento di una esautorazione o castrazione politica di fondo»: il feticcio tecnologico è «politico» [...] e ci consente di affrontare il resto della nostra vita sollevati dal senso di colpa secondo cui forse non stiamo facendo la nostra parte, e saldamente convinti che in fin dei conti siamo cittadini informati e impegnati. [...] Non siamo costretti ad assumerci una responsabilità politica perché [...] è la 135

tecnologia a farlo per noi [... essa] ci fa credere che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è universalizzare una determinata tecnologia, e che allora avremo un ordine sociale democratico o riconciliato23.

La realtà, oggi come ieri, contrasta nettamente con il ritratto sanguigno e ottimista dipinto dai «feticisti della comunicazione». Il potente flusso di informazione non è un affluente del fiume della democrazia, ma un insaziabile collettore che ne intercetta i contenuti e li canalizza altrove, verso laghi artificiali straordinariamente vasti, ma putridi e stagnanti. Quanto più potente è tale flusso, tanto maggiore è il rischio che l’alveo si prosciughi. I server di tutto il mondo accumulano informazioni in modo tale che la nuova cultura liquido-moderna possa sostituire l’apprendimento con l’oblio, facendone la principale forza di propulsione delle attività di cui è fatta la vita dei consumatori. I server risucchiano e accumulano al proprio interno le impronte di dissenso e protesta, in modo che la politica liquido-moderna possa scorrere inalterata e inesorabile, sostituendo le battute e la visibilità mediatica al confronto e all’argomentazione. Non è facile ricondurre nell’alveo le correnti che defluiscono da un corso d’acqua: Bush e Blair sono potuti scendere in guerra con falsi pretesti nonostante i tanti siti web che ne scoprivano il bluff. Ed è giusto che i conduttori dei notiziari televisivi preferiscano stare (o si preferisce stiano) in piedi a dire tutto ciò che hanno da dire sulla situazione politica, con l’aria di chi è stato appena distolto da tutt’altra attività o di chi è diretto da qualche parte e può fermarsi solo un attimo. Standosene seduti a una scrivania farebbero credere che le notizie abbiano un significato più durevole di quello che devono avere, e meritino una riflessione più profonda di quella che i consumatori che si trovano all’estremità opposta del canale delle comunicazioni di massa, ognuno intento nella sua attività, si ritiene possano tollerare. Quanto alla «politica reale», il dissenso, nel suo viaggio verso i magazzini elettronici, viene sterilizzato, neutralizzato e re136

so irrilevante. Chi agita le acque nei laghi dove esso viene archiviato può anche congratularsi con se stesso per la verve e il brio che sono segni di fitness, ma chi cammina nei corridoi del potere reale difficilmente sarà costretto a prestare attenzione a queste cose, e anzi non potrà che essere grato alle nuove tecnologie di comunicazione per il lavoro che fanno nel dirottare i problemi potenziali e distruggere le barricate sul suo cammino prima ancora che chi le erige abbia avuto il tempo di finirle e di chiamare a raccolta la gente per difenderle. La politica reale e la politica virtuale vanno in direzioni opposte, e la distanza tra esse aumenta man mano che l’autosufficienza di ciascuna si avvantaggia dell’assenza dell’altra. L’età dei simulacri di Jean Baudrillard non ha cancellato la differenza tra le cose autentiche e i loro riflessi, tra le realtà reali e virtuali; essa ha soltanto scavato un precipizio tra queste e quelle, facile da superare di slancio per gli internauti, ma sempre più difficile da colmare per i cittadini attuali, e ancor più per gli aspiranti cittadini. Come commentava amaramente Christopher Lasch poco prima che computer e telefoni portatili iniziassero a colonizzare il mondo privato e intimo dei consumatori, chi «vive in città e nei sobborghi in cui i centri commerciali hanno sostituito il vicinato [...] difficilmente reinventerà delle comunità solo perché lo Stato si è dimostrato un surrogato tanto insoddisfacente»24. Dopo che la colonizzazione si è diffusa, veloce come l’incendio in un bosco, negli angoli e nelle crepe più remote del pianeta, il verdetto di Lasch è ancora valido. Nel suo recente studio sulle ossessioni contemporanee imperniate sull’identità (e in particolare sulla composizione e scomposizione delle identità, cui oggi si dedica tanta attenzione), Kwame Anthony Appiah tenta di cogliere la strana dialettica tra «collettivo» e «individuale», tra «appartenenza» e «autoaffermazione», che rende i tentativi di autoidentificazione in ultima analisi inefficaci, eppure (forse per la stessa ragione) inar137

restabili e molto probabilmente destinati a conservare la loro forza25. Appiah sostiene che se, ad esempio, sono un afro-americano, questo fatto può influenzare la forma dell’io che a fatica cerco di esprimere e mostrare pubblicamente, ed è proprio questa esigenza di avere un io adeguato a essere esibito pubblicamente la principale ragione per cui scendo in questa lotta e cerco riconoscimento in quanto afro-americano. Determinazioni attributive incidentali e contingenti possono spiegare la scelta tra i diversi io che si prestano a essere mostrati, ma non l’attenzione a fare una scelta, e tanto meno l’impegno con cui si cerca di darle visibilità pubblica. Anche se il soggetto ritiene che l’io in lotta per la visibilità e il riconoscimento preceda, superi e predetermini la scelta dell’identità individuale (attribuzioni etniche, di razza, religione o genere rivendicano l’appartenenza a quella categoria dell’io), l’autodefinizione dell’individuo liquido-moderno sta nell’impulso alla scelta e nel tentativo di rendere tale scelta pubblicamente visibile. Il tentativo difficilmente sarebbe stato fatto se l’identità in questione fosse davvero dotata del potere che essa sostiene di avere e/o che le viene attribuito. Nella società dei consumatori liquido-moderna nessuna identità è un dono ricevuto alla nascita, nessuna identità è «data», e tanto meno lo è una volta per tutte e in modo sicuro. Le identità sono progetti: compiti da assumersi e svolgere con impegno fino a un completamento infinitamente remoto. Anche nel caso di quelle identità che aspirano a essere e/o sono ritenute «date» e non negoziabili, l’obbligo di compiere uno sforzo individuale per appropriarsene e di combattere quotidianamente per conservarle è presentato e percepito come il principale requisito e la condizione indispensabile del loro essere «date». A chi è negligente, fiacco e indolente, e ancor più al rinnegato, all’ambiguo e al fedifrago, sarà negata la possibilità di invocare il proprio diritto di nascita. L’identità, ben lungi dall’essere un omaggio (e tanto meno un «omaggio gratuito», per riprendere l’espressione pleonastica usata dai consulenti di marketing), è una sentenza di con138

danna ai lavori forzati a vita. Ed essa è anche una fonte inesauribile di capitale per i produttori di avidi e infaticabili consumatori e per i venditori di beni di consumo: una fonte che tende a crescere a ogni scoop. Una volta avviata, nella prima infanzia, la composizione e scomposizione dell’identità diventa un’attività che si autoalimenta e si autorafforza. Occorre ricordare che i consumatori sono spinti dal bisogno di «mercificare» se stessi – di rifarsi per essere prodotti attraenti – e sono quindi sollecitati a usare stratagemmi, espedienti e prassi di marketing collaudate. Costretti a trovare una nicchia per ciò che di valore possiedono o sperano di sviluppare, devono osservare attentamente le oscillazioni della domanda e dell’offerta e seguire i trend di mercato: compito poco invidiabile e di solito assai estenuante, poiché come si sa i mercati dei beni di consumo sono volatili. I mercati fanno di tutto per rendere il compito sempre più snervante, e al tempo stesso per offrire (a pagamento) scorciatoie, kit fai-da-te e formule brevettate per alleviare l’onere dei loro clienti, o almeno per convincerli che il sollievo tanto agognato è arrivato davvero, almeno per un istante. Due espedienti, in particolare, svolgono un ruolo fondamentale nell’alleviare le pene della costruzione e scomposizione dell’identità nella società dei consumatori. Il primo è quello che in altra sede ho chiamato «comunità di guardaroba», alludendo al modo in cui si radunano gli spettatori al guardaroba di un teatro dove tutti, da soli o a piccoli gruppi, hanno lasciato il soprabito o la giacca a vento per la durata dello spettacolo teatrale che sono venuti a vedere. Si tratta di comunità fantasma, comunità illusorie, comunità ad hoc, comunità da carnevale: quel genere di comunità cui ci si sente uniti semplicemente stando là dove stanno gli altri, oppure ostentando distintivi o altri segni di intenzioni, stili o gusti in comune: e comunità a tempo determinato (o almeno dichiaratamente temporanee) da cui «si esce» non appena la folla si disperde, pur restando liberi di andarsene anche prima, in qualsiasi momento, se l’interesse iniziale si è affievolito. 139

Le comunità di guardaroba non richiedono permessi di entrata e di uscita, né hanno uffici in grado di rilasciarli, né tanto meno hanno il diritto di definire criteri vincolanti di appartenenza per coloro che aspirino a farne parte. La modalità di «iscrizione alla comunità» è totalmente soggettiva; ciò che conta è la «esperienza momentanea di comunità». In una vita di consumo sottoposta alla tirannia del momento e scandita dal tempo puntinista, la facilità di entrare e uscire a piacimento dà a tale esperienza di comunità fantasma e ad hoc un netto vantaggio rispetto alla «cosa reale», sgradevolmente solida, vincolante ed esigente. I biglietti per gli spettacoli, i distintivi e gli altri segni d’identità mostrati in pubblico sono tutti in vendita; questo è il secondo dei due espedienti forniti dalla modalità della vita consumistica per alleviare l’onere della costruzione e decostruzione dell’identità. I beni di consumo non sono quasi mai neutrali rispetto all’identità; essi tendono ad arrivare «completi di identità» (proprio come i giocattoli e i gadget elettronici che si vendono «completi di batterie»). L’attività dedicata alla costruzione delle identità adatte a essere mostrate e riconosciute in pubblico e a ottenere l’agognata «esperienza di comunità» richiede soprattutto abilità nello shopping. Data l’abbondanza vertiginosa di identità nuove di zecca, appariscenti e seducenti, nessuna delle quali dista di più del centro commerciale più vicino, le possibilità che una determinata identità venga serenamente accettata come definitiva equivalgono a quelle che ha la proverbiale palla di neve di sopravvivere all’inferno. E in effetti, perché accontentarsi dell’identità che, nel bene e nel male, ci si è appena finiti di costruire, quando dei nuovi kit di montaggio promettono di potersela spassare in modi mai provati prima e spalancano porte per le quali si potrà arrivare (hai visto mai?) a delizie mai assaggiate prima? «Se non siete soddisfatti, riportate il prodotto al negozio»: non è questo il primo principio di una strategia di vita di consumo? Iosif Brodskij, il poeta-filosofo russo-americano, ha vivi140

damente descritto il tipo di vita innescata e sollecitata dalla ricerca ossessiva e compulsiva, attraverso la mediazione dei negozi, di una identità continuamente aggiornata e ri-formata da nuove nascite e nuovi inizi: vi verranno a noia il vostro lavoro, i vostri coniugi, i vostri amanti, la vista dalla vostra finestra, il mobilio o la tappezzeria della vostra stanza, i vostri pensieri, voi stessi. Di conseguenza, cercherete di escogitare delle vie di fuga. Oltre ai gratificanti gadget succitati, magari cambierete lavoro, luogo di residenza, azienda, paese, clima, magari vi darete alla promiscuità, all’alcol, ai viaggi, alle lezioni di cucina, alla droga, alla psicanalisi [...]. Anzi, magari metterete tutte queste cose assieme, e per un po’ potrà funzionare. Fino al giorno in cui, naturalmente, vi svegliate nella vostra camera da letto in mezzo a una nuova famiglia e con la tappezzeria diversa, in uno Stato e in un clima diverso, con una pila di conti del vostro agente di viaggio o del vostro strizzacervelli, ma guardando la luce del giorno che penetra dalla finestra proverete la stessa sensazione di vuoto e di noia26.

Andrzej Stasiuk, eminente romanziere polacco e osservatore particolarmente sensibile della condizione dell’uomo contemporaneo, afferma che «la possibilità di diventare qualcun altro» è uno dei surrogati odierni della salvezza o redenzione, ormai abbandonata e ignorata dai più. Si potrebbe aggiungere che è un surrogato molto superiore all’originale, in quanto istantaneo (anziché fastidiosamente lento ad arrivare), multiplo e revocabile (anziché «uno e uno solo» e definitivo). Servendoci di diverse tecniche, possiamo cambiare il nostro corpo e ricostruirlo sulla base di diversi modelli [...]. Quando si sfogliano le riviste patinate, si ha l’impressione che raccontino in gran parte la stessa storia: sui modi per ricreare la propria personalità, a partire dalla dieta, dall’ambiente circostante, dalla casa, su fino alla ricostruzione della struttura psichica, un processo spesso definito convenzionalmente «essere se stessi»27. 141

. Sławomir Mrozek, scrittore polacco di fama mondiale che ha avuto esperienza diretta di molte terre, concorda con l’ipotesi di Stasiuk. Egli paragona il mondo in cui abitiamo a una bancarella di mercato piena di bei vestiti e circondata da una folla di persone alla ricerca di «se stesse» [...]. Si può cambiare vestito all’infinito, tanta è la meravigliosa libertà di cui godono i cercatori [...]. Continuiamo a cercare il nostro vero io: è divertente da matti, a patto di non trovarlo mai, questo vero io. Perché se così fosse, il divertimento finirebbe [...]28.

Al cuore dell’ossessione del consumatore per la manipolazione delle identità sta il sogno di rendere l’incertezza meno scoraggiante e la felicità più profonda, di dover compiere meno sacrifici e risparmiarsi lo snervante sforzo quotidiano, utilizzando semplicemente la possibilità di cambio dell’io, la sostituzione del proprio io con abiti che non si incollino alla pelle e che non impediscano nuove sostituzioni in futuro. Nel caso dell’autodefinizione e dell’autocostruzione, come in ogni altra attività dell’esistenza, la cultura consumistica rimane fedele a se stessa e impedisce di trovare un assetto definitivo e una gratificazione completa e perfetta che non richieda ulteriori miglioramenti. Nell’attività chiamata «costruzione dell’identità» il vero scopo, anche se segreto, consiste nello scarto e nell’eliminazione dei prodotti difettosi o non perfettamente riusciti. Non sorprende che, come affermò in modo profetico Sigfried Kracauer, nella nostra epoca «la personalità integrata è senza dubbio una delle superstizioni favorite della psicologia moderna»29. Rimescolare le identità, scartando quelle precedentemente costruite e sperimentandone di nuove, è il diretto risultato della vita vissuta nel tempo puntinista, in cui ogni momento è gravido di opportunità inesplorate che probabilmente moriranno prive di riconoscimento e di eredità se non saranno messe alla prova. Esse, tuttavia, si trasformano costantemente in attività che vengono desiderate ed eseguite come fini a 142

se stesse. Poiché probabilmente nessun numero di esperimenti potrà esaurire l’infinito numero delle possibilità, l’impegno all’esplorazione e l’impazienza per i deludenti risultati dei tentativi precedenti difficilmente diminuiranno. I limiti naturali imposti alla durata e all’ampiezza della sperimentazione – dalla finitezza della vita umana, dalla scarsità delle risorse disponibili per produrre nuove identità, dalla dimensione limitata degli habitat in cui le identità vengono messe ripetutamente alla prova del riconoscimento pubblico e dalla resistenza e incredulità degli «altri che contano», la cui approvazione ha un ruolo decisivo per ottenere il riconoscimento – tendono a essere considerati offensivi, a essere visti come vincoli illegittimi e inaccettabili alla libertà di scelta individuale. Fortunatamente per i patiti del cambiamento di identità, dei nuovi inizi e delle nascite in sequenza, internet apre opportunità negate o precluse nella «vita reale». Il mirabile vantaggio dello spazio di vita virtuale su quello(i) «offline» consiste nella possibilità di ottenere il riconoscimento della propria identità senza doverla mettere in pratica davvero. Gli internauti cercano, trovano e si godono le scorciatoie che conducono direttamente dal gioco della fantasia all’accettazione sociale (sia pure soltanto virtuale) della finzione. Come nota Francis Jauréguiberry, trasferire nello spazio virtuale gli esperimenti di autoidentificazione è avvertito come emancipazione dai fastidiosi vincoli che affollano il regno dell’offline: «Gli internauti hanno modo di sperimentare nuovi io continuamente, ripartendo da zero, a loro piacimento, e senza dover temere sanzioni»30. Non sorprende che molte delle identità assunte durante una visita al mondo di connessioni istantanee e disconnessioni a richiesta che esiste su internet siano di un genere che sarebbe fisicamente o socialmente insostenibile offline. Esse sono «identità carnevalesche» pienamente e realmente, ma grazie al computer o al 143

telefono portatile è possibile godersi i carnevali, soprattutto quelli privatizzati, in qualsiasi momento, e soprattutto si può scegliere il momento. Nel gioco carnevalesco delle identità la socializzazione offline si rivela per quella che è in effetti nel mondo dei consumatori: un fardello ingombrante e non particolarmente piacevole, tollerato e sopportato solo perché inevitabile, in quanto richiede uno sforzo lungo e forse interminabile per ottenere il riconoscimento dell’identità prescelta, con tutti i rischi, tipici degli incontri faccia a faccia, di vedersi smascherare o attribuire un bluff. Eliminare questo aspetto opprimente delle battaglie per il riconoscimento è, probabilmente, l’elemento più allettante a favore della mascherata e della truffa che avvengono su internet. La «comunità» degli internauti in cerca di un surrogato di riconoscimento non deve sobbarcarsi il lavoro ingrato della socializzazione, ed è dunque relativamente al riparo dal rischio – questo effetto noto, e da molti temuto, delle battaglie per il riconoscimento che avvengono offline. Altra rivelazione del gioco delle identità in internet è la possibilità di rendere l’«altro» superfluo in qualsiasi ruolo che non sia quello di segno di certificazione e di approvazione. L’«altro» (destinatario e mittente dei messaggi) si riduce allo zoccolo duro di uno strumento interamente manipolabile di autoconferma, privato di tutti o quasi i pezzi non necessari e irrilevanti ai fini del compito, che nell’interazione offline, sia pure a denti stretti e controvoglia, era necessario tollerare. Per citare ancora una volta Jauréguiberry, In cerca di una autoidentificazione riuscita, gli individui che si automanipolano mantengono una relazione altamente strumentale con i loro interlocutori. Questi ultimi sono ammessi esclusivamente al fine di certificare l’esistenza dei manipolatori – o, più esattamente, per consentire a costoro di ribaltare in realtà i propri «io virtuali». Gli altri vengono cercati all’unico scopo di attestare, confortare e blandire gli io virtuali degli internauti. 144

Nel gioco di identificazione mediato da internet l’Altro è come disarmato e depurato. L’internauta ha ridotto l’Altro a ciò che davvero conta per lui: allo status di strumento per la sua autoapprovazione. L’esigenza poco allettante di accettare l’autonomia e l’originalità dell’Altro e di approvarne la rivendicazione di una propria identità, per non parlare della sgradevole necessità di legami e impegni durevoli, inevitabili nelle battaglie per il riconoscimento che si svolgono offline, sono completamente eliminate, o quanto meno tenute a distanza per il tempo necessario. La socializzazione virtuale segue gli schemi del marketing e i suoi strumenti elettronici vengono fabbricati a misura delle tecniche di marketing. La grande attrattiva della socializzazione virtuale è il piacere genuino della finzione, di un «far credere» in cui l’insipida parte del «fare» è pressoché eliminata dall’elenco delle preoccupazioni di colui che «fa», in quanto rimane invisibile a chi «crede».

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Vittime collaterali del consumismo

Le espressioni «danni collaterali», «perdite collaterali» e «vittime collaterali», coniate di recente e subito popolari, appartengono al lessico degli avvocati e sono radicate nella pragmatica della difesa legale, sebbene i primi a impiegarle siano stati i portavoce militari nelle loro conferenze stampa, e da queste si siano trasferite al linguaggio giornalistico e poi a quello comune. Il termine «collaterale», pur accennando fugacemente al fenomeno, ampiamente descritto, delle «conseguenze impreviste» delle azioni umane, sposta sottilmente l’attenzione. Il significato comune a tutte e tre le espressioni sopra citate è la volontà di scusare gli atti che hanno provocato i danni, sostenendo che essi siano giustificati ed esentati dal castigo in virtù dell’assenza di intenzionalità. Come direbbe Stanley Cohen, esse rientrano nell’armamentario linguistico degli «stati di negazione»: negazione della responsabilità, sia morale che legale. Supponiamo, ad esempio (esempi di questo tipo sono sempre più frequenti negli ultimi tempi), che una decina di donne e bambini abbiano perso la vita in modo violento o siano stati resi permanentemente invalidi da un missile intelligente il cui destinatario era un individuo sospettato di essere stato addestrato, o di addestrare altri, al ruolo di attentatore suicida: nella prima conferenza stampa il portavoce militare citerà la morte di donne e bambini, solo dopo essersi soffermato ampiamente sul fatto che gli obiettivi sono stati colpiti, e come «danno collaterale» – un genere di danno per cui nessuno può essere condotto in tribunale, poiché 146

gli abitanti della zona e coloro che si trovavano a passare di lì non figuravano tra gli obiettivi che intendeva colpire chi aveva lanciato quel missile o ne aveva ordinato il lancio. La questione opinabile, naturalmente, è se «imprevisto» significhi «impossibile da prevedere» (o, per essere ancor più in tema, se «non intenzionale» equivalga a «impossibile da calcolare» e dunque «impossibile da evitare intenzionalmente»), o non indichi piuttosto la semplice indifferenza o insensibilità di chi ha fatto i calcoli senza curarsi abbastanza di evitare ciò che poi è accaduto. Una volta che la domanda viene posta in modo esplicito, emerge chiaramente che – qualsiasi sia il risultato dell’indagine su un determinato caso – esistono buone ragioni per sospettare che la tesi della «assenza di intenzionalità» punti a negare, o ad assolvere, la cecità etica, condizionata o deliberata. La verità pura e semplice è che uccidere alcune donne e bambini estranei non è stato considerato un prezzo eccessivo da pagare per far saltare in aria un presunto terrorista, o almeno per tentare. Come si dice, quando gli elefanti combattono, tanto peggio per l’erba. A una eventuale contestazione essi risponderebbero, se potessero parlare, che non avevano nulla contro l’erba, e che non sono stati loro a farla crescere nel luogo dove si dà il caso che si svolgano scontri tra elefanti... Martin Jay ha recentemente fatto riemergere dall’oblio quasi totale il duro verdetto pronunciato da George Orwell nel suo fondamentale saggio sulla politica e la lingua inglese: Di questi tempi, i discorsi e gli scritti politici sono in gran parte la difesa dell’indifendibile [...]. Il linguaggio politico – e con varie differenze questo è vero di tutti i partiti politici, dai Conservatori agli Anarchici – è concepito per far apparire attendibili le menzogne e rispettabile l’assassinio, e per dare una parvenza di solidità al vento puro1.

Mezzo secolo dopo, analizzando le condizioni del discorso politico, Jay sostiene che «interpretazioni di comodo, esa147

gerazioni, pretesti, mezze verità e simili» non si possono più considerare malanni temporanei e curabili o intrusioni esterne nella lotta per il potere, sostituibili, con il dovuto sforzo, dal «dire schiettamente ciò che si ha nel cuore»: Anziché credere che alla Grande Menzogna della politica totalitaria corrisponda la perfetta verità da ricercarsi nella politica liberaldemocratica, verità basata su quella ricerca di trasparenza e chiarezza di linguaggio che abbiamo visto perorare da Orwell e dai suoi convinti sostenitori, faremmo meglio a vedere la politica come lotta infinita tra un sacco di mezze verità, di astute omissioni e di narrazioni in concorrenza tra loro, che possono anche bilanciarsi tra loro ma non produrranno mai alcun consenso2.

Di certo le espressioni propagandistiche «perdite collaterali» o «danni collaterali» contengono alcune «astute omissioni». Ciò che viene astutamente omesso è che le «perdite» – «collaterali» o meno – sono state l’effetto del modo in cui il colpo di mano è stato pianificato e realizzato, poiché pianificatori ed esecutori non si sono dati pensiero dell’eventualità che i danni si estendessero dal presunto perimetro dell’obiettivo vero e proprio all’area (indistinta, proprio perché non adeguatamente analizzata) degli effetti secondari e delle conseguenze impreviste. Forse è stata detta una mezza verità, forse persino una menzogna vera e propria: è certo possibile, dal punto di vista dell’obiettivo dichiarato dell’azione, etichettare come «collaterali» alcune vittime, ma difficilmente si potrà negare che la narrazione ufficiale ed esplicita è stata «parsimoniosa di verità» e che in realtà non dice (come assicura) la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità sui pensieri e le motivazioni che si annidavano nella mente di chi ha pianificato l’azione o che sono stati discussi nelle riunioni di pianificazione. Si ha il diritto di sospettare che in questo caso ciò che è «latente» (nel senso in cui Robert Merton distingue tra funzione «manifesta» e «latente» dei modelli di comportamento seguiti nelle situazioni di routine o nello svolgimento di determina148

te azioni) non significhi «inconsapevole» o «non voluto», ma piuttosto «tenuto segreto» o «coperto». Memori dell’avvertimento di Martin Jay sulla irriducibile molteplicità delle narrazioni, dovremmo piuttosto abbandonare la speranza di verificare o confutare l’una o l’altra interpretazione «al di là di ogni ragionevole dubbio». Finora, al centro della nostra attenzione è stata la menzogna politica: una menzogna utilizzata al servizio di una lotta esplicitamente politica e in omaggio all’efficienza politica. Ma l’espressione «danni collaterali» non è affatto confinata all’arena specificamente politica, e lo stesso vale per le «astute omissioni» e per le «mezze verità». Le lotte di potere non coinvolgono esclusivamente politici di professione, e questi ultimi non sono gli unici soggetti professionalmente tenuti alla ricerca dell’efficacia. Il modo in cui le narrazioni dominanti, o aspiranti tali, tracciano la linea che divide l’«azione finalizzata» dalle sue «conseguenze impreviste» ha come posta in gioco anche la promozione di interessi economici e il tentativo di accrescere i vantaggi competitivi nel tentativo di ricavarne utili economici. Ciò che sostengo è che i principali (ma non certo i soli) «danni collaterali» prodotti da quella promozione e da quel tentativo siano consistiti in una mercificazione complessiva e completa della vita umana. Nelle parole di James Livingstone, «la forma della merce si insinua in dimensioni della vita sociale finora estranee alla sua logica rimodellandole, al punto che la stessa soggettività diviene una merce acquistabile e vendibile sul mercato, e lo stesso vale per la bellezza, la pulizia, la sincerità e l’autonomia»3. Come afferma Colin Campbell, l’attività del consumo è diventata una sorta di template o modello del modo in cui i cittadini delle società occidentali contemporanee vedono ormai ogni loro attività. Dal momento che [...] ambiti sempre più numerosi del149

la società contemporanea sono stati assimilati a un «modello di consumo», è difficile sorprendersi se nel corso di tale processo la metafisica del consumismo sottesa a quel modello è divenuta una sorta di filosofia predefinita per tutta la vita moderna4.

Arlie Russell Hochschild sintetizza i principali «danni collaterali» provocati dall’invasione consumistica nel denso concetto di «materializzazione dell’amore». Le forze che distolgono dalla vita familiare e spingono verso il mondo del lavoro vengono continuamente alimentate dal consumismo, che lavora per mantenere il rovesciamento di priorità emotive tra i due ambiti. Esposti a un bombardamento continuo di pubblicità per una media di tre ore di televisione al giorno (metà del tempo libero totale), ci si convince di avere bisogno di più cose, ma per comprarle occorrono soldi, e per guadagnare bisogna lavorare di più. Così si sta fuori di casa per molte ore, cercando di rimediare all’assenza con regali costosi: si materializza l’amore. E il ciclo ha nuovamente inizio5.

Possiamo aggiungere che il distacco spirituale e l’assenza fisica dalla scena domestica rendono i lavoratori, uomini e donne, insofferenti di fronte ai conflitti – più o meno grandi, e a volte minimi – che inevitabilmente comporta la condivisione dello stesso tetto. Poiché le abilità necessarie per dialogare e comprendersi a vicenda tendono a scomparire, quella che era una sfida ineludibile si trasforma sempre più in un pretesto per interrompere la comunicazione e fuggire bruciandosi i ponti dietro le spalle. Uomini e donne, dediti a guadagnare di più per acquistare cose che pensano occorrano loro per essere felici, hanno meno tempo da dedicare all’empatia reciproca e ai negoziati intensi, talvolta contorti e dolorosi ma comunque lunghi e faticosi, necessari per appianare equivoci e discordie. Si innesca così un altro circolo vizioso: quanto più riescono (sollecitati dal continuo flusso di messaggi pubblicitari) a «materializzare» il rapporto d’amore, tanto più diminuiscono le occasioni per quella comprensione, ispirata alla empatia reci150

proca, resa necessaria dall’ambiguità potere/cura tipica dell’amore. I membri della famiglia sono tentati di evitare lo scontro e cercare una tregua, o meglio ancora un riparo sicuro dal conflitto domestico; l’impulso a «materializzare» l’amore e le cure che comporta tende così ad acquistare ulteriore slancio, mentre le alternative che richiedono maggior dispendio di tempo ed energie si fanno sempre più irraggiungibili, proprio quando più servirebbero dato il numero crescente di punti di contrasto, rancori da placare e disaccordi che invocano una soluzione. Se i professionisti più qualificati (i pupilli del loro direttore) trovano sul posto di lavoro un surrogato accettabile della calda familiarità che tanto manca loro tra le mura domestiche (per costoro, nota Hochschild, tende a rovesciarsi la tradizionale divisione dei ruoli tra casa e lavoro), i dipendenti di fascia bassa, più facili da sostituire perché meno qualificati, non hanno nemmeno questo. Se alcune aziende, come la Amerco, oggetto di studio approfondito da parte di Hochschild, «offrono la vecchia utopia socialista a un’élite di professionisti della conoscenza, all’avanguardia in un mondo del lavoro sempre più specializzato, ce ne sono altre che propinano il peggio del vecchio capitalismo ai lavoratori semispecializzati o non specializzati». Al fondo della scala sociale «l’individuo non riceve sostegno sociale né dai consanguinei né dai colleghi di lavoro, ma piuttosto dalla banda di strada, dagli avventori del bar o da gruppi di questo genere». La ricerca di piaceri individuali che si articola in base all’offerta corrente di merci, ed è guidata e costantemente reindirizzata e rimessa a fuoco dalle campagne pubblicitarie che si susseguono, offre l’unico surrogato accettabile (anzi drammaticamente necessario e fortemente gradito) della solidarietà rassicurante tra colleghi di lavoro e del calore delle cure scambiate con i propri cari e vicini, in famiglia o nella cerchia più prossima. I politici che invitano a risuscitare i «valori familiari» – ormai malati terminali o agonizzanti – se fanno sul serio dovreb151

bero riflettere prima di tutto sulle radici consumistiche della scomparsa della solidarietà sociale nei luoghi di lavoro e dell’affievolirsi dell’impulso familiare alla cura e alla condivisione. E i politici che invitano gli elettori a dar prova di rispetto reciproco se fanno sul serio dovrebbero riflettere sulla tendenza insita in una società di consumatori a instillare nei propri membri la disponibilità a non concedere agli altri nulla più del rispetto che si è preparati a provare e mostrare nei confronti dei prodotti di consumo, oggetti progettati e destinati alla soddisfazione istantanea e quanto più possibile indisturbata e incondizionata. I danni collaterali che la marcia trionfale del consumismo dissemina lungo il proprio cammino si distribuiscono su tutto lo spettro sociale delle società «sviluppate» contemporanee. C’è tuttavia una nuova categoria di popolazione, in precedenza assente dalle mappe mentali delle divisioni sociali, che si può considerare vittima collettiva dei «molteplici danni collaterali» prodotti dal consumismo. A questa categoria è stato dato, in anni recenti, il nome di «sottoclasse». Il termine «classe operaia», un tempo frequente ma ormai quasi desueto, rientrava nell’immaginario di una società in cui i compiti e le funzioni di chi sta meglio e di chi sta peggio erano diversi, e per vari e fondamentali aspetti anche opposti, ma comunque complementari. Quell’espressione evocava l’immagine di una classe di persone che svolgono un ruolo indispensabile e del tutto particolare nella vita di una società; persone che danno un contributo utile alla società nel suo insieme e che si attendono per questo una ricompensa. Il termine «classe inferiore», un tempo frequente anch’esso, ma oggi da evitare, era diverso, in quanto parte dell’immaginario di una società a elevata mobilità, in cui le persone si spostavano e ogni posizione era solo temporanea e in linea di principio suscettibile di cambiamento. Quel termine evocava l’immagine di una classe di persone che si trovavano, o erano 152

state scagliate, in fondo a una scala che, con fatica e fortuna, potevano riuscire a risalire in modo da sfuggire alla loro attuale inferiorità. Il termine «sottoclasse», invece, rientra in un’immagine di società completamente diversa: esso indica una società che non è affatto ospitale e accogliente per tutti, ma è consapevole dell’affermazione di Carl Schmitt secondo cui l’elemento che definisce la sovranità è il diritto di esentare ed escludere, di individuare una categoria di persone verso cui la legge si applica in termini di negazione o revoca della sua applicazione. La «sottoclasse» evoca l’immagine di un aggregato di persone cui è stato negato l’accesso a tutte le classi e alla stessa gerarchia di classe, e la cui riammissione è improbabile e non necessaria: persone senza un ruolo, che non danno alcun contributo utile alla vita degli altri e in linea di principio non hanno possibilità di riscatto. Persone che in una società divisa in classi non formano alcuna classe, ma si alimentano della linfa vitale di tutte le altre classi, erodendo in tal modo l’ordine sociale basato sulle classi, proprio come i nazisti, nell’immaginario di una specie umana divisa in razze, accusavano gli ebrei di essere non una razza fra le tante, sia pure ostile, ma una «razza non-razza», un parassita sul corpo di tutte le altre, «vere e proprie» razze, una forza corrosiva che ne diluiva l’identità e l’integrità, logorando e scalzando l’ordine universale basato sulla razza. Vorrei aggiungere che il termine «sottoclasse» è stato scelto con grande acume. Esso evoca e utilizza associazioni mentali con il sottosuolo, con il mondo sotterraneo, con l’Ade e lo Sheol, archetipi ancestrali e profondamente radicati degli inferi: quell’oscurità torbida, umida, stantia e informe che avvolge chi si smarrisce dalla terra dei vivi, ordinata e carica di significato... Per quanto ci si sforzi, è impossibile vedere negli individui sommariamente esiliati nella «sottoclasse» una «totalità» significativa e integrata. È possibile classificarli nella stessa voce solo grazie alle presunte somiglianze dei loro comporta153

menti. L’inventario delle persone ammassate nell’immagine generica della sottoclasse, così com’è stata descritta da Herbert J. Gans, colpisce il lettore soprattutto per la sua sconcertante varietà: Questa definizione basata sui comportamenti indica i poveri che non portano a termine gli studi, non hanno lavoro e, nel caso delle donne giovani, hanno dei bambini senza godere dei vantaggi del matrimonio e tirano avanti grazie all’assistenza sociale. In termini di comportamenti questa sottoclasse comprende anche senzatetto, mendicanti e accattoni, alcolizzati poveri, drogati e malviventi di strada. Poiché il termine è flessibile, i poveri che vivono in casermoni malfamati, gli immigrati senza permesso di soggiorno e i membri di bande giovanili sono spesso compresi nella stessa sottoclasse. È la flessibilità stessa della definizione comportamentale a far sì che il termine diventi un’etichetta utilizzata per marchiare a fuoco i poveri, quale che sia il loro comportamento effettivo6.

Davvero un’accolita eterogenea e variegata. Che cosa può dare un senso, almeno apparente, a questo insieme di persone? Che cos’hanno in comune madri single e alcolizzati, immigranti illegali e chi non ha portato a termine gli studi? Un elemento che distingue tutti costoro è che gli altri – chi redige l’inventario e i suoi potenziali lettori – non vedono alcuna buona ragione per l’esistenza di questi individui, e immaginano che se la passerebbero tutti molto meglio se venissero tolti dalla circolazione. Si viene collocati nella sottoclasse in quanto si è considerati totalmente inutili, un disturbo puro e semplice, qualcosa di cui tutti gli altri farebbero volentieri a meno. In una società di consumatori – un mondo che valuta tutti e tutto in base al valore di mercato – la sottoclasse è composta da chi è senza valore: uomini e donne non mercificati, il cui insuccesso nel conquistarsi lo status di merce coincide con il (anzi, deriva dal) loro insuccesso nell’impegnarsi in una vera e propria attività di consumo. Sono consumatori falliti, simboli ambulanti dei disastri che attendono i consumatori perduti, del destino ultimo di chiunque non riesca a dare buona 154

prova nell’assolvere ai doveri di consumatore. Sono gli uomini-sandwich della «fine è vicina» o del memento mori, che vanno in giro per le strade per ammonire o spaventare i consumatori perbene. Sono il filo usato per tessere gli incubi o, come preferisce dire la versione ufficiale, le erbe cattive e infestanti che non aggiungono nulla all’armoniosa bellezza del giardino, ma fanno morire di fame le altre piante succhiandone o divorandone gran parte del nutrimento. In quanto inutili, vengono percepiti soprattutto per i pericoli che preannunciano e rappresentano. Se fossero loro a scomparire, tutti gli altri membri della società dei consumatori ne guadagnerebbero. Pensa: tutti trarranno vantaggi quando tu sarai eliminato dal gioco dei consumatori, quando arriverà il tuo turno di scomparire... L’«utilità» e il «pericolo» rientrano nella grande famiglia dei «concetti essenzialmente contestati» di W.B. Gallie. Questi concetti, se utilizzati a fini di designazione, danno prova di tutta la flessibilità che rende le classificazioni basate su di essi mirabilmente adatte ad accogliere i demoni più sinistri che ossessionano una società tormentata dai dubbi sulla durevolezza di qualsiasi genere di utilità, e da paure diffuse, mobili ma onnipresenti. La mappa mentale del mondo che si può tracciare con simili concetti offre un campo da gioco sconfinato per ondate successive di «panico morale». Le divisioni che se ne ricavano possono essere facilmente estese fino ad assorbire e addomesticare nuove minacce, e contemporaneamente consentono ai terrori diffusi di concentrarsi su un bersaglio rassicurante proprio in quanto specifico e tangibile. Questa è, probabilmente, l’importantissima utilità che l’inutilità della sottoclasse riveste per una società in cui nessuna attività economica o professione può esser più certa della propria utilità a lungo termine, e dunque del suo valore di mercato; altrettanto importante è il servizio che la pericolosità della sottoclasse rende a una società sconvolta da troppe ansie per poter affermare in modo minimamente affidabile 155

che cosa ci sia da temere e che cosa si possa fare per attenuare tale timore. Tutto ciò non significa, naturalmente, che non esistano mendicanti, drogati o ragazze madri, i tipi di persone infelici, e dunque ripugnanti, che si citano come argomento decisivo ogni volta che qualcuno mette in dubbio l’esistenza della «sottoclasse». Gettare tutte queste persone in un’unica categoria è una decisione presa da un archivista o dai suoi superiori, non una sentenza derivante da «fatti oggettivi». Comprimerle in un’unica entità, accusandole collettivamente di essere dei parassiti animati da malafede e portatori di pericoli indescrivibili per il resto della società, è una scelta di valore, non una descrizione. E soprattutto, mentre il concetto di sottoclasse poggia sul presupposto che la società vera (una totalità che contiene tutto ciò di cui ha bisogno per rimanere vitale) può essere minore della somma delle sue parti, l’aggregato denotato dal nome «sottoclasse» è maggiore della somma delle sue parti: in quest’ultimo caso, l’atto di inclusione aggiunge una nuova qualità che nessuna parte possiederebbe da sola. Una «madre single» e una «donna della sottoclasse» non sono la stessa cosa. Occorre un grande sforzo (e uno scarso pensiero) per trasformare la prima nella seconda. La società contemporanea si rivolge ai suoi membri in primo luogo come consumatori; solo secondariamente, e in parte, li chiama in causa anche come produttori. Per soddisfare gli standard della normalità ed essere riconosciuti come membri maturi e perbene della società occorre rispondere in modo veloce ed efficiente alle tentazioni del mercato dei beni di consumo; si deve offrire con regolarità un contributo alla «domanda in grado di assorbire l’offerta» e, nelle fasi di flessione o di stagnazione dell’economia, si deve partecipare alla «ripresa guidata dai consumatori». I poveri e gli oziosi, coloro che non hanno né un reddito decoroso, né carte di credi156

to, né la prospettiva di giorni migliori, non sono all’altezza di tali requisiti. Di conseguenza, la norma infranta dai poveri di oggi, la norma la cui violazione li contraddistingue e li etichetta come «anormali», è la norma della competenza o adeguatezza come consumatori, non quella dell’occupazione. I poveri di oggi (e cioè coloro che costituiscono un «problema» per gli altri) sono prima di tutto e soprattutto dei «non consumatori», più che dei «disoccupati». Essi vengono definiti innanzi tutto dal fatto di essere consumatori difettosi: infatti, il più basilare dei doveri sociali cui vengono meno è il dovere di essere acquirenti attivi ed efficaci dei beni e servizi offerti dal mercato. I poveri sono senza ombra di dubbio una passività nei libri contabili della società di consumatori, e nessuno sforzo di immaginazione può far sì che vengano registrati tra le attività presenti o future. Ridefiniti come vittime collaterali del consumismo, i poveri sono registrati, per la prima volta nella storia, come preoccupazione e fastidio puri e semplici. Non hanno meriti che ne alleggeriscano, e tanto meno ne riscattino, i vizi. Non hanno nulla da offrire ai contribuenti. Dar loro denaro è un cattivo investimento che difficilmente si ripagherà, e tanto meno produrrà utili. Essi sono un buco nero che risucchia al proprio interno qualsiasi cosa si avvicini e non restituisce nulla, se non vaghi e oscuri presentimenti e disagi. Nella società dei consumi i poveri sono totalmente inutili. Da loro i membri rispettabili e normali di tale società, i consumatori autentici, non vogliono e non si aspettano nulla. Nessuno (e soprattutto nessuno che conti, che alzi la voce, che sia ascoltato e udito davvero) ha bisogno di loro. Per loro c’è tolleranza zero. La società starebbe molto meglio se i poveri bruciassero le proprie baracche e si lasciassero bruciare con esse, o se semplicemente se ne andassero. Il mondo sarebbe un posto tanto più dolce e piacevole per vivere se non ci fossero loro. I poveri non sono necessari, e dunque sono indesiderati. Le sofferenze dei poveri contemporanei, i poveri della so157

cietà dei consumi, non si lasciano ricondurre a una causa unica. Ogni consumatore difettoso si lecca le ferite in solitudine, nel migliore dei casi con la sua famiglia, se questa non è stata ancora distrutta. I consumatori difettosi sono soli, e quando vengono lasciati soli per molto tempo tendono a diventare dei solitari; non vedono come la società, o un qualsiasi gruppo sociale (a parte una banda di criminali), possano esser loro di aiuto, non sperano di essere aiutati, non credono che la loro sorte possa essere cambiata da mezzi legali, se non da una vincita alla lotteria. Inutili, indesiderati, abbandonati: qual è il loro posto? La più immediata delle risposte è: devono scomparire. Occorre in primo luogo allontanarli dalle strade e dagli altri luoghi pubblici che usiamo noi, abitanti legittimi del meraviglioso mondo del consumo. Se sono appena arrivati e il loro permesso di soggiorno non è perfettamente in regola, possono essere deportati oltre frontiera, e in tal modo sfrattati fisicamente dall’ambito degli obblighi verso i titolari di diritti umani. Se non si trova alcun pretesto buono per deportarli, li si può pur sempre rinchiudere in prigioni remote o in campi simili a prigioni, nel migliore dei casi in posti simili al deserto dell’Arizona, o su navi ormeggiate lontano dalle rotte più frequentate, o in carceri altamente tecnologiche dove non li potrà vedere nessuno e dove probabilmente non si troveranno spesso a tu per tu con qualcuno, foss’anche un agente di custodia. L’isolamento fisico può essere perfezionato e rafforzato con la segregazione mentale, che produce la messa al bando dei poveri dall’universo dell’empatia morale. Oltre che dalle strade, costoro possono essere esclusi dalla comunità umana riconoscibile: dal mondo dei doveri etici. Ciò avviene riscrivendo le loro storie, ridefinendole in termini di depravazione anziché di privazione. I poveri sono rappresentati come persone negligenti, colpevoli e prive di principi morali. I media danno allegramente una mano alla polizia nel presentare al pubblico assetato di sensazioni forti l’immagine sinistra di 158

«elementi criminali» che, all’insegna dell’illegalità, della droga e della promiscuità sessuale, si rintanano nell’oscurità di covi inaccessibili e strade malfamate. Tra i poveri si fanno le retate dei «soliti sospetti», accompagnate dall’indignazione pubblica ogni volta che una carenza nell’ordine consueto viene scoperta e resa pubblica. Ecco dimostrato, allora, che la questione della povertà, prima e più di ogni altra cosa, è questione di legge e ordine, e che ad essa si deve rispondere allo stesso modo in cui si risponde ad altri tipi di violazione della legge. Esclusi dalla comunità umana, esclusi dall’attenzione pubblica. Quando si arriva a questo, sappiamo che cosa può ancora accadere. Forte è la tentazione di liberarsi del tutto di un fenomeno derubricato a semplice fastidio, non riscattato né attenuato da una qualsiasi considerazione etica dovuta a un Altro colpito, insultato e sofferente; forte è la tentazione di eliminare dal paesaggio uno sgorbio, o una macchia sporca dalla tela altrimenti gradevolmente pulita di un mondo ordinato e di una società normale. Alain Finkielkraut ci ricorda ciò che può accadere quando le considerazioni etiche sono state ridotte al silenzio, l’empatia si è esaurita e le barriere morali sono state eliminate: La violenza nazista fu commessa non per il gusto di commetterla, ma per dovere; non per sadismo, ma per virtù; non per piacere, ma per metodo; non nello scatenamento di pulsioni selvagge e nell’abbandono degli scrupoli, ma in nome di scrupoli superiori, con competenza professionale e pensando costantemente all’opera da eseguire7.

Quella violenza fu commessa, aggiungiamo, in mezzo all’assordante silenzio di persone che pur ritenendosi creature rispettabili ed etiche non vedevano alcun motivo per cui le vittime della violenza, che avevano cessato da molto tempo di essere annoverate tra i membri della famiglia umana, meritassero empatia e compassione morale. Parafrasando Greg159

ory Bateson, una volta che la perdita della comunità morale si abbina alla tecnologia avanzata per contrastare qualunque cosa appaia come un problema molesto, «la possibilità che abbiamo di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno». Le soluzioni razionali ai problemi umani, se mescolate all’indifferenza morale, costituiscono una miscela davvero esplosiva. Molti esseri umani potrebbero perire nell’esplosione, ma la principale vittima è l’umanità di coloro che sfuggono alla perdizione. Com’è noto, l’immaginazione è selettiva. Questa selettività obbedisce all’esperienza e, in particolare, ai motivi di malcontento che produce. Ogni tipo di ambiente sociale produce le proprie visioni dei pericoli che ne minacciano l’identità: visioni a misura del tipo di ordine sociale che esso cerca di produrre o di conservare. Se l’autodefinizione – descrittiva e prescrittiva al tempo stesso – può essere pensata come replica fotografica del contesto, le visioni dei pericoli tendono a essere i negativi di tale foto. Per dirla in termini psicoanalitici, le minacce sono proiezioni dell’ambivalenza interiore di una società – e delle ansie che ne derivano – sui metodi e sul modo in cui tale società vive e intende vivere. Una società incerta della sopravvivenza del suo modo di essere sviluppa una mentalità da fortezza assediata. I nemici che ne circondano le mura sono i suoi stessi «demoni interiori»: le paure represse circostanti che permeano la sua vita quotidiana, la sua «normalità», ma che, affinché la realtà di ogni giorno sia sopportabile, devono essere schiacciate e spremute fuori della quotidianità in cui si vive e trasformate in corpo estraneo, in nemico tangibile con tanto di nome: un nemico che sia possibile affrontare più volte e che si possa pensare di sconfiggere. Simili tendenze esistono sempre e ovunque, e non sono 160

specifiche della società dei consumatori liquido-moderna. La loro novità, tuttavia, appare evidente se ricordiamo che il pericolo che tormentava lo Stato moderno, «classico», ordinatore e ossessionato dall’ordine, che presiedeva alla società dei produttori e dei soldati era la rivoluzione. I nemici erano i rivoluzionari o i «riformatori radicali, esaltati e cervellotici», le forze sovversive che cercavano di sostituire all’ordine esistente gestito dallo Stato un altro ordine anch’esso gestito dallo Stato, un contro-ordine che avrebbe sovvertito ogni e qualsiasi principio in base a cui esisteva o aspirava a esistere l’ordine esistente. Da allora, così come si è modificata l’immagine di sé di una società ordinata e correttamente funzionante, anche l’immagine della minaccia ha assunto una forma completamente nuova. Quello che negli ultimi decenni è stato registrato come aumento della criminalità (processo, osserviamo, che guarda caso è avvenuto parallelamente al calo dei sostenitori dei partiti comunisti o comunque radicali, «sovversivi» e sostenitori di un «ordine alternativo») non è il prodotto di malfunzionamento o negligenza, ma il legittimo risultato logico (se non anche giuridico) della società dei consumi. E ne è anche il prodotto inevitabile, per quanto non sia qualificato come tale dall’autorità di un qualsiasi comitato ufficiale di certificazione. Quanto maggiore è la domanda dei consumatori (e, dunque, quanto più efficace è la seduzione che il mercato esercita sui potenziali clienti), tanto più sicura e fiorente è la società dei consumi e, al tempo stesso, tanto più ampio e profondo il divario tra coloro che hanno la volontà e la capacità di soddisfare i propri desideri (ossia coloro che sono stati sedotti e agiscono come tale seduzione li induce ad agire) e coloro che pur essendo stati correttamente sedotti sono incapaci di agire nel modo in cui chi è stato correttamente sedotto dovrebbe agire. Elogiata in modo veritiero come grande equalizzatore, la seduzione del mercato è anche un elemento di divisione di straordinaria e incomparabile efficacia. Tra le caratteristiche della società dei consumi più spesso 161

notate c’è l’esaltazione della novità e il disprezzo per la routine. I mercati del consumo funzionano in modo eccellente nello smantellare le procedure esistenti e impedire che nascano e si consolidino nuove procedure se non per il breve lasso di tempo necessario a svuotare gli scaffali dagli strumenti necessari a farle funzionare. Gli stessi mercati, tuttavia, ottengono un effetto ancora più profondo: per chi vive nella società dei consumi ogni e qualsiasi routine, qualunque cosa associata a un comportamento di routine (monotonia, ripetitività), diviene insopportabile. La «noia», l’assenza o anche solo la temporanea interruzione del flusso costante di novità emozionanti che cattura l’attenzione, si trasforma per la società dei consumi in uno spauracchio sgradito e temuto. La spinta a consumare e poi ancora consumare, per essere efficace, deve essere trasmessa in tutte le direzioni e rivolta indiscriminatamente a tutti coloro che ascoltano. Ma gli ascoltatori sono più numerosi di coloro che sanno rispondere come il messaggio si prefiggeva. Chi non può agire secondo i desideri indotti è esposto allo spettacolo abbacinante di chi può. Gli viene detto che consumare in abbondanza è un segno di successo, un’autostrada che porta direttamente al plauso pubblico e alla celebrità. Inoltre, apprende che possedere e consumare determinati oggetti e praticare un determinato stile di vita è condizione necessaria di felicità; e poiché «essere felici» (in una sorta di tardiva realizzazione dei presagi di Samuel Butler) è diventato il segno distintivo della rispettabilità e del diritto al rispetto, tende anche a diventare condizione necessaria di dignità e autostima. Chi «si annoia», oltre a sentirsi a disagio, riceve una sorta di marchio di infamia, un attestato di negligenza o di sconfitta che lo può condurre a uno stato di depressione acuta o a un’aggressività sociopatica e psicopatica. Per riprendere la recente osservazione di Richard Sennett, «per quanto riguarda il comportamento antisociale, credo si tratti di un problema reale per i poveri [...]», e soprattutto per gli «adolescenti poveri che si trovano nella zona grigia in cui possono diventare criminali 162

oppure no». Il punto critico, il discrimine, ha molto a che vedere «con la noia, con l’avere qualcosa da fare e qualcosa di cui far parte» [...]»8. Se il privilegio di «non annoiarsi mai» è la misura della vita di successo, della felicità e persino della rispettabilità umana, e se un’intensa attività di consumo è la via principale, la «via maestra» per vincere la noia, ciò significa che è stato sollevato il coperchio sui desideri umani: nessuna quantità di acquisti gratificanti e di seducenti sensazioni potrà mai portare la soddisfazione che un tempo prometteva lo «stare al passo con gli standard». Ormai non ci sono standard con cui stare al passo – o meglio non ci sono standard che, una volta raggiunti, possano certificare il diritto all’accettazione e al rispetto e garantirne la durevolezza. La linea del traguardo si sposta con i concorrenti, gli obiettivi restano sempre qualche passo più avanti. Vengono superati sempre nuovi record e sembra non esserci più limite a ciò che può desiderare un essere umano. L’«accettazione» (la cui assenza è stata definita da Pierre Bourdieu il peggior tipo possibile di privazione) è sempre più difficile da ottenere e ancor più difficile, se non impossibile, da avvertire come qualcosa di durevole e sicuro. In mancanza di autorità incrollabili, si tende a cercare orientamento negli esempi personali che vengono celebrati in quel momento. Ciò tuttavia fa sì che persone già abbastanza abbagliate e disorientate vengano a sapere che in aziende da poco privatizzate («esternalizzate», «terziarizzate») e quindi «liberate» – aziende di cui ancora si ricorda il recente passato di istituzioni pubbliche squattrinate e austere, perennemente a corto di denaro – i nuovi manager guadagnano stipendi milionari e se vengono rimossi dalla poltrona per inettitudine ricevono altri milioni di sterline, dollari o euro a titolo di indennizzo e compenso per aver svolto un lavoro raffazzonato e mediocre. Da ogni direzione, attraverso tutti i canali di comunicazione, giunge chiaro e forte il messaggio: non esistono altri precetti se non quello di arraffare il massimo possibile, né altre regole se non l’imperativo di «giocare be163

ne le proprie carte». Ma se vincere è il solo oggetto del gioco, coloro che a ogni mano hanno regolarmente pessime carte sono tentati di optare per un gioco diverso, dove possono attingere ad altre risorse, quali che siano. Per i proprietari del casinò solamente alcune risorse hanno corso legale: quelle che essi stessi assegnano o mettono in circolazione; tutte le altre sono vietate, soprattutto se non possono controllarle. La linea che divide ciò che è consentito da ciò che non lo è, tuttavia, non si presenta a tutti i giocatori allo stesso modo. Ciò è vero soprattutto per i potenziali, aspiranti giocatori, e in particolare per quelli che hanno difficoltà ad accedere alla moneta avente corso legale. Costoro infatti possono utilizzare le risorse di cui sono effettivamente in possesso, aventi corso legale o dichiarate illegali, oppure possono chiamarsi del tutto fuori dal gioco (anche se la seduzione esercitata dal mercato ha reso quest’ultima scelta quasi impossibile da prendere in considerazione). In una società di consumatori guidata dal mercato, dunque, neutralizzare, esautorare ed eliminare i giocatori sfortunati e/o difettosi è il complemento indispensabile dell’integrazione attraverso la seduzione. I giocatori incapaci e pigri devono rimanere fuori. Sono un prodotto di scarto che il gioco non deve mai smettere di sedimentare se non vuole bloccarsi e far entrare in scena i curatori fallimentari. Se l’eliminazione degli scarti si interrompesse o rallentasse, i giocatori non potrebbero vedere l’orripilante alternativa (l’unica alternativa esistente, a quanto si dice) alla continuazione del gioco. Un simile spettacolo è indispensabile affinché essi possano e vogliano sopportare le durezze e le tensioni prodotte dal vivere in questo gioco, e va mostrato loro ripetutamente, se si vuole costantemente rinnovare e rafforzare la consapevolezza delle punizioni tremende per gli indolenti e i negligenti, e dunque la volontà dei giocatori di continuare a giocare. Data la natura di questo gioco, la sofferenza di chi ne viene escluso – un tempo considerata un maleficio riconducibi164

le a una causa collettiva da affrontare e curare con mezzi collettivi – deve essere reinterpretata come segno di un peccato o di un crimine individuale. Le classi pericolose (in quanto potenzialmente ribelli) vengono dunque ridefinite come insieme di individui pericolosi (in quanto potenzialmente criminali). Le prigioni fanno le veci delle istituzioni del welfare, sempre più emarginate ed evanescenti, e con ogni probabilità dovranno riconvertirsi ulteriormente a questa nuova funzione, man mano che l’assistenza continuerà a ridursi. A rendere le prospettive ancora più cupe, la crescente incidenza del comportamento classificato come criminale non rallenta il cammino verso una società consumistica matura e completamente sviluppata ma, al contrario, ne è il contorno e il prerequisito naturale e forse indispensabile. Ciò avviene per varie ragioni; la principale è forse che chi è rimasto fuori dal gioco (i consumatori difettosi, dotati di risorse inferiori ai desideri, che se rispettano le regole ufficiali del gioco non hanno praticamente nessuna possibilità di vincere) sono le incarnazioni viventi dei «demoni interiori» che connotano la vita di consumo. La loro ghettizzazione e criminalizzazione, la durezza delle sofferenze loro inferte e la crudeltà del destino che si abbatte su di loro sono i principali modi per esorcizzare questi demoni interiori e per bruciarli – metaforicamente – in effigie. Il sottobosco criminalizzato funge da originale strumento di igiene pubblica: rappresenta il sistema di fognature attraverso cui gli inevitabili miasmi tossici della seduzione consumistica vengono fatti defluire, in modo che chi rimane nel gioco del consumismo non debba preoccuparsi per il proprio stato di salute. Tuttavia, se questo è il principale stimolo all’attuale sovrabbondanza di quello che il grande criminologo norvegese Nils Christie ha definito «il business penitenziario»9, la speranza che in una società deregolamentata e privatizzata, ispirata e gestita dal mercato dei beni di consumo, il processo possa arrestarsi e regredire, o almeno rallentare, è nel migliore dei casi molto esile. 165

Il termine «sottoclasse» fu coniato e impiegato per la prima volta da Gunnar Myrdal nel 1963 per segnalare i pericoli della deindustrializzazione, che rischiava a suo avviso di rendere una parte crescente della popolazione stabilmente disoccupata e non occupabile, non per carenze o colpe morali di chi si trovava senza lavoro, ma puramente e semplicemente per mancanza di un lavoro da offrire a tutti coloro che ne avevano bisogno, che lo desideravano e che erano in grado di lavorare. Nella visione di Myrdal, il prossimo avvento di quella che sarebbe poi stata definita «disoccupazione strutturale», e dunque di una «sottoclasse», non sarebbe stato il risultato dell’incapacità dell’etica del lavoro di offrire ispirazione, ma del fallimento della società nel tentativo di garantire le condizioni per vivere il tipo di vita raccomandato e ispirato dall’etica del lavoro10. La futura «sottoclasse», nel senso dato da Myrdal a questo termine, sarebbe stata formata dalle vittime dell’esclusione dall’attività produttiva, sarebbe stata un prodotto collettivo della logica economica, sulla quale le parti della popolazione destinate all’esclusione non avevano il minimo controllo e poca o punto influenza. L’ipotesi di Myrdal non riscosse molta attenzione pubblica e le sue previsioni furono pressoché dimenticate. Quando, molto tempo dopo, il 29 agosto 1977, l’idea della «sottoclasse» fu di nuovo presentata in pubblico da una cover story della rivista «Time», il termine fu immesso in un senso decisamente diverso: quello di «un vasto gruppo di persone, più difficili, socialmente estranee e ostili di quanto chiunque avesse immaginato. Ecco gli irraggiungibili: la sottoclasse dell’America». A questa definizione seguì un elenco lungo e in continua crescita, comprendente ogni genere di categorie: minori delinquenti, ragazzi che non portano a termine gli studi, drogati, «madri a carico del welfare», sfruttatori della prostituzione, spacciatori, accattoni: venivano chiamati a raccolta tutti i demoni che ossessionano una società che se la passa bene, che è agiata e che si dedica alla ricerca del piacere e del166

la felicità, tutte le paure dichiarate da chi vive in tale società e tutti i fardelli nascosti delle coscienze. «Difficili». «Estranei». «Ostili». E, come risultato di tutto ciò, irraggiungibili. Non ha senso tendere loro la mano: si protenderebbe nel vuoto o, peggio ancora, verrebbe morsa. Quella gente non può essere curata; non può esserlo perché ha scelto una vita patologica. Tra il 1981 e il 1982 Ken Auletta esplorò il mondo della «sottoclasse» in una serie di indagini, pubblicate nel «New Yorker» e successivamente raccolte in un volume che ebbe vasta diffusione e influenza. Egli affermò di essere stato indotto ad affrontare questo progetto dall’ansia avvertita dalla maggior parte dei suoi concittadini: Mi sono chiesto: chi sono coloro che stanno dietro alle statistiche dilaganti sulla criminalità, sull’assistenza sociale e sulla droga, e dietro all’aumento fin troppo evidente dei comportamenti antisociali, che affliggono la maggior parte delle città americane? [...] Ben presto ho appreso che la maggioranza degli studiosi della povertà concordano sull’effettiva esistenza di una sottoclasse distinta, sia nera che bianca, e sul fatto che questa sottoclasse si senta generalmente esclusa dalla società, rifiuti i valori comunemente accettati e soffra di carenze sia comportamentali che di reddito. Chi ne fa parte non solo è tendenzialmente povero, ma ha una condotta che alla maggioranza degli americani appare aberrante11.

Si notino il vocabolario, la sintassi e la retorica del discorso nell’ambito del quale viene creata e collocata l’immagine della sottoclasse. Il testo di Auletta è forse il miglior documento di questo tema in quanto, diversamente dai suoi successori meno scrupolosi, Auletta era stato attento a non prestare il fianco all’accusa di «maltrattamento» nei confronti della sottoclasse; egli si faceva in quattro per mostrarsi oggettivo e per chiarire che nutriva compassione nei confronti degli eroi negativi della sua storia, che egli censurava12. Si noti innanzi tutto che fin dall’inizio della narrazione e dell’argomentazione il «dilagare» della «criminalità» e del167

l’«assistenza sociale» e le statistiche «sull’assistenza sociale e sulla droga» venivano citati tutti insieme e collocati allo stesso livello. Il presupposto era che non occorresse fornire argomentazioni, e tanto meno prove, riguardo al motivo per cui i due fenomeni si trovavano l’uno in compagnia dell’altro ed erano stati etichettati come esempi del medesimo comportamento «antisociale». Non si faceva alcun tentativo di esplicitare il ragionamento secondo cui spacciare droga e vivere a carico dell’assistenza sociale erano fenomeni antisociali dello stesso genere. Nella descrizione di Auletta (e in quelle dei suoi numerosi seguaci) è degno di nota anche che nella sottoclasse si rifiutano i valori comuni e ci si sente soltanto esclusi. Si entra a far parte della sottoclasse in modo attivo, con un’iniziativa che genera a sua volta azione, con un passo deliberato per schierarsi da una determinata parte, in un rapporto bilaterale in cui «la maggioranza degli americani» si trova dall’altra parte: dalla parte dei destinatari, di un bersaglio passivo, vittimizzato e sofferente. Se non fosse per la mentalità antisociale e per le azioni ostili della sottoclasse non ci sarebbe alcun processo pubblico, né ci sarebbero ragioni da ponderare, reati da punire o negligenze cui porre riparo. Alla retorica seguiva la prassi, che forniva a posteriori la «prova empirica» e gli argomenti non forniti dalla retorica. Quanto più tali prassi si moltiplicavano e si diffondevano, tanto più le diagnosi da cui essi derivavano apparivano evidenti di per sé, e tanto più si riduceva la probabilità che l’espediente retorico venisse individuato e conseguentemente smascherato e confutato. Gran parte del materiale empirico di Auletta proveniva dal Wildcat Skills Training Centre, istituzione creata nel generoso intento di riabilitare e restituire alla società gli individui accusati di trasgredire ai valori socialmente incoraggiati, o meglio di collocarsi fuori dei confini della società stessa. Possedevano i requisiti per essere ammessi a questo centro: i detenuti da poco in carcere; chi era in terapia di disintossica168

zione da droghe; le donne che vivessero dei sussidi del welfare e non avessero figli di età inferiore ai sei anni; chi non aveva completato la scuola dell’obbligo e aveva un’età compresa tra i 17 e i 20 anni. Chiunque avesse definito tali regole di ammissione aveva preliminarmente deciso che questi «tipi» – apparentemente, a uno sguardo impreparato, tanto diversi tra loro – avessero (o meglio ponessero alla società) lo stesso tipo di problema, e dunque avessero bisogno dello stesso tipo di trattamento e possedessero i requisiti per esservi ammessi. Ma per gli inquilini del Wildcat Centre la decisione presa da chi aveva stabilito le regole si era trasformata in realtà: essi trascorrevano in reciproca compagnia un periodo piuttosto lungo, erano assoggettati allo stesso regime e venivano quotidianamente addestrati ad accettare un destino comune. Far parte del Wildcat Centre era, per quel periodo, tutta l’identità sociale di cui avevano bisogno e tutto ciò che potevano ragionevolmente tentare di ottenere. Ancora una volta, una tesi ardita si era trasformata in una profezia, realizzatasi attraverso azioni che essa stessa aveva innescato: ancora una volta, un verbo si era fatto carne. Auletta si dava la pena di ricordare in continuazione ai suoi lettori che quella condizione, l’appartenenza alla sottoclasse, non era questione di povertà, o comunque non era spiegabile soltanto con la povertà. Egli sottolineava che, sebbene gli americani al di sotto della linea di povertà erano tra 25 e 29 milioni, solamente un «numero stimato di nove milioni non si integrava» e «agiva al di fuori dei confini generalmente accettati della società», distinguendosi «per una condotta ‘deviante’ o antisociale»13. Ciò che qui implicitamente si suggeriva era che l’eliminazione della povertà, ammesso che fosse concepibile, non avrebbe messo fine al fenomeno della sottoclasse. Se è possibile essere poveri e ciononostante «agire entro i confini generalmente accettati», allora non può essere colpa della povertà se si sprofonda nella sottoclasse, ma ciò deve dipendere da altri fattori. Questi fattori erano considerati totalmente soggettivi, disgrazie – psicologiche e comportamentali – indivi169

duali che è anche possibile siano più diffuse tra coloro che vivono in povertà, ma che non dipendono dalla povertà. Ripeto: secondo questa posizione, la discesa nella sottoclasse era questione di scelta – scelta diretta nel caso di una aperta sfida alle norme sociali, o indiretta quando derivava da scarsa attenzione per tali norme o da scarsa diligenza nell’attenervisi. Lo status di appartenenza alla sottoclasse era frutto di una scelta, sebbene qualcuno vi sprofondasse per il solo motivo di non aver fatto, o essere stato troppo pigro per fare ciò che poteva, e doveva, e ci si aspettava che facesse, per evitare la caduta. In un paese di persone che scelgono in modo libero, scegliere di non fare ciò che si deve per raggiungere certi obiettivi viene interpretato quasi automaticamente e senza ulteriori considerazioni come l’equivalente di una scelta in favore di qualcos’altro: di un comportamento asociale, nel caso della sottoclasse. Precipitare nella sottoclasse era un esercizio di libertà... In una società di liberi consumatori, tenere a freno la propria libertà è intollerabile; ma lo è altrettanto astenersi dal negare o limitare la libertà di coloro che userebbero la propria libertà per negare o limitare le libertà altrui chiedendo l’elemosina, importunando o minacciando il prossimo, rovinandone il divertimento, pesando sulla altrui coscienza e rendendogli sgradevole la vita in qualche altro modo. La decisione di separare il «problema della sottoclasse» dalla «questione della povertà» prendeva diversi piccioni con una fava. Il suo effetto più evidente, in una società nota per la sua fede nel processo e nel risarcimento, era negare a chi era etichettato come membro della sottoclasse il diritto di sporgere denuncia e di «chiedere i danni» presentandosi come vittima (anche solo «collaterale») di un malfunzionamento o di un illecito della società. In un simile processo l’onere della prova sarebbe stato totalmente a carico dei querelanti. Erano loro a doversene fare carico, a dimostrare cioè la propria buona fede e determinazione a essere «come tutti noi». Qualunque cosa occorresse fare, erano innanzi tutto loro, i membri della sottoclasse, a doverla fare (sebbene, natural170

mente, non mancassero certo i supervisori designati e i consulenti autonominati, con tanto di titolo ufficiale, intenti a spiegare che cosa esattamente ci si attendesse da loro). Se non accadeva niente e se lo spettro della sottoclasse si rifiutava di scomparire, la spiegazione era semplice. Ed era anche chiaro di chi fosse la colpa. Il resto della società non aveva nulla da rimproverarsi, se non la scarsa determinazione nel debellare le scelte inique compiute dai membri della sottoclasse e arginare i danni che provocavano. Più polizia, più carceri e sanzioni sempre più severe, dolorose e temibili apparivano come i mezzi più immediati per riparare all’errore. Forse ancor più cruciale era un altro effetto: l’anormalità della sottoclasse normalizzava l’esistenza della povertà. Era la sottoclasse a porsi fuori dei confini riconosciuti della società, ma la sottoclasse era, come abbiamo già ricordato, solo una parte di coloro che erano «ufficialmente poveri». E se la maggioranza di coloro che vivevano in povertà non era considerata un tema abbastanza grande e urgente, ciò si doveva proprio al fatto che la sottoclasse venisse indicata come il problema maggiore e più urgente. Collocati su uno sfondo uniformemente brutto e repellente come quello della sottoclasse, coloro che erano «soltanto poveri» (i «poveri rispettabili») si stagliavano come persone che – a differenza dei membri della sottoclasse – avrebbero finito a loro volta per fare tutte le scelte giuste e ritrovare la via per rientrare nei confini accettati della società. Così come precipitare nella sottoclasse e restarvi era una questione di scelta, essere riabilitati dalla condizione di povertà era un’altra questione di scelta: la scelta giusta, in questo caso. Il tacito suggerimento espresso dall’idea secondo cui è questione di scelta se un povero sprofonda nella sottoclasse è che un’altra scelta potrebbe ottenere il risultato opposto, tirando fuori i poveri dal loro degrado sociale. Una regola centrale e in gran parte incontestata, perché non scritta, della società dei consumi è che essere liberi di scegliere richiede competenza. Le scelte che si fanno possono es171

sere buone o cattive, migliori o peggiori. Il tipo di scelta che si finisce per fare dimostra la competenza o l’incompetenza di chi la fa. La «sottoclasse» della società dei consumi – composta di «consumatori difettosi» – si presume sia l’insieme degli individui che sono vittima di scelte individuali sbagliate e che vengono considerati la prova tangibile del fatto che le catastrofi e le sconfitte della vita sono di natura personale, sono sempre l’esito di scelte personali incompetenti. In una trattazione molto influente sulle radici della povertà odierna Lawrence M. Mead ha indicato proprio nell’incompetenza dei singoli attori la causa principale del persistere della povertà in mezzo all’opulenza e dell’inglorioso fallimento di tutte le politiche seguite dallo Stato per debellarla14. I poveri sarebbero, puramente e semplicemente, persone prive della competenza per apprezzare i vantaggi del lavoro-seguito-dal-consumo; essi farebbero delle scelte sbagliate, ponendo sopra al lavoro il «non lavoro» e precludendosi in tal modo le delizie dei consumatori perbene. È a causa di tale incompetenza, dice Mead, che l’appello all’etica del lavoro (e, indirettamente ma inevitabilmente, le lusinghe del consumismo) non viene ascoltato e non riesce a influenzare le scelte dei poveri. La questione diventa dunque – questa la morale della storia – se l’indigente sappia essere responsabile per se stesso o meno e, soprattutto, se abbia o no la competenza per gestire la propria vita. Quali che siano le cause esterne, sovraindividuali, un mistero persiste al cuore del «non lavoro»: la passività deliberata, attivamente scelta, di chi è molto povero, la sua incapacità di cogliere le opportunità, come fanno invece volontariamente gli altri, la gente normale come noi. Per spiegare il non lavoro – afferma Mead – mi sembra inevitabile fare appello alla psicologia o alla cultura. La maggioranza degli adulti che vivono in condizioni di estrema povertà sembra evitare il lavoro non già a causa della propria situazione economica, ma delle sue convinzioni [...]. La psicologia è l’ultima frontiera nel172

la ricerca delle cause di una scarsa prestazione lavorativa [...]. Perché i poveri non colgono [le opportunità] con la stessa prontezza con cui la cultura dà per scontato che si faccia? Chi sono esattamente? [...] Il nucleo della cultura della povertà sembra essere l’incapacità di tenere sotto controllo la propria vita – è quella che gli psicologi chiamano inefficienza.

Le occasioni ci sono: non ne siamo tutti la prova concreta? Ma le occasioni vanno viste anche per quello che sono, ossia opportunità da cogliere e che è rischioso rifiutare, ma che per essere colte richiedono competenza fatta di ingegno, di volontà e di sforzo. I poveri, i «consumatori difettosi», mancano ovviamente di tutte e tre le cose. Ai lettori di Mead questo suonerà, tutto considerato, come una buona notizia: noi siamo persone rispettabili, responsabili, e offriamo ai poveri delle opportunità, mentre loro sono irresponsabili e rifiutano oltraggiosamente di coglierle. Proprio come i medici gettano a malincuore la spugna quando i pazienti rifiutano di collaborare con la terapia prescritta, anche noi, di fronte alla ostinata riluttanza dei poveri ad aprirsi alle sfide ma anche ai premi e alle gioie della vita di consumo, siamo dunque costretti ad abbandonare il tentativo di risvegliare i consumatori difettosi dal proprio sonno. Si può dimostrare, però, che i «fattori psicologici» possono anche agire in modo diametralmente opposto; che l’insuccesso dei «consumatori difettosi» nell’entrare legittimamente a far parte della società dei consumi deriva da cause totalmente opposte rispetto alla loro presunta decisione di «non partecipare». Oltre che vivere in povertà, o almeno al di sotto del prescritto livello di opulenza, coloro che sono collocati nella «sottoclasse» sono condannati all’esclusione sociale, e considerati privi dei requisiti per far parte di una società che richiede ai suoi membri di giocare al gioco del consumismo rispettando le regole, proprio perché, come i benestanti e i ricchi, anch’essi sono fin troppo aperti alle seduzioni del consumismo gestito dal potere – sebbene, a differenza 173

dei benestanti e dei ricchi, non possano realmente permettersi di lasciarsene sedurre. Come suggeriscono le conclusioni tratte dallo studio di Nanda R. Shrestha (citato da Russell W. Belk), i poveri si trovano giocoforza in una situazione in cui sono costretti a spendere lo scarso denaro o risorse per procurarsi oggetti di consumo privi di senso, anziché sopperire a bisogni fondamentali, al fine di allontanare da sé una totale umiliazione sociale e la prospettiva di essere molestati e derisi15.

Insomma, non c’è scampo... Per i poveri della società dei consumatori non adottare il modello di vita consumistico significa disonore ed esclusione, mentre adottarlo comporta l’ulteriore aggravamento di quell’esclusione che impedisce di esservi ammessi... «Nel frattempo, mentre il fabbisogno di servizi pubblici aumentava, gli americani votavano per ridurre gli interventi governativi in tal senso e molti di fatto sono a favore di un ritorno alla famiglia come fornitore principale di cura», osserva Hochschild16. In tal modo si sono trovati a cadere dalla padella nella brace. Le stesse pressioni consumistiche che associano all’idea di «assistenza» un elenco di beni di consumo come «il succo d’arancia, il latte, la pizza surgelata e i forni a microonde» privano le famiglie delle loro capacità e risorse etico-sociali e le lasciano inermi nel loro grande e arduo tentativo di far fronte a nuove sfide: sfide favorite e spalleggiate dai legislatori che tentano di ridurre i deficit finanziari dello Stato accrescendo il «deficit di assistenza» (e cioè «tagliando i finanziamenti per le ragazze madri, i disabili, i malati di mente e gli anziani»). Uno Stato è «sociale» quando promuove il principio dell’assicurazione collettiva, avallata collettivamente, contro le disgrazie individuali e le loro conseguenze. È in primo luogo tale principio – proclamato, attuato e ritenuto affidabile e funzionante – a ridefinire l’idea di «società», altrimenti 174

astratta, come esperienza di comunità sentita e vissuta, sostituendo (per utilizzare i termini di John Dunn) all’«ordine dell’egoismo», che genera inevitabilmente un’atmosfera di sfiducia e sospetto reciproci, l’«ordine dell’eguaglianza» che ispira fiducia e solidarietà. È lo stesso principio a elevare i membri della società allo status di cittadini, a renderli cioè compartecipi oltre che azionisti – non solo beneficiari ma anche attori, non solo tutelati ma anche tutori – del sistema di «benefici sociali», individui fortemente interessati al bene comune inteso come rete di istituzioni condivise nelle quali riporre fiducia e dalle quali attendersi che garantiscano la solidità e l’affidabilità della «polizza di assicurazione collettiva» emessa dallo Stato. L’applicazione di tale principio è in grado di proteggere gli uomini e le donne dalla piaga della povertà, e spesso lo fa davvero; la cosa più importante, tuttavia, è che esso può diventare una copiosa fonte di solidarietà, capace di convertire la «società» in un bene comune, condiviso, posseduto dalla comunità, di cui prendersi cura insieme, in quanto offre una difesa contro i due orrori gemelli della miseria e dell’umiliazione – ossia dell’esclusione (il terrore di cadere o di essere spinti fuori strada dalla vettura del progresso che accelera sempre più) e della condanna all’«esubero» sociale (il terrore di essere privati del rispetto dovuto agli esseri umani e di essere designati come «rifiuti umani»). Lo «Stato sociale», nelle intenzioni originarie, doveva essere un assetto finalizzato proprio a questo. Lord Beveridge, cui dobbiamo il modello dello «Stato del benessere» britannico nel dopoguerra, riteneva che la sua visione dell’assicurazione totale e avallata dalla collettività per chiunque fosse la conseguenza inevitabile, o meglio ancora l’indispensabile complemento, dell’idea liberale della libertà individuale, oltre che la condizione necessaria della democrazia liberale. La dichiarazione di guerra alla paura fatta da Franklin Delano Roosevelt si basava sullo stesso presupposto. Un presupposto ragionevole: dopo tutto, la libertà di 175

scelta si accompagna inevitabilmente a rischi di insuccesso numerosi, anzi innumerevoli, e molti troveranno tali rischi insopportabili, nel timore che essi possano eccedere la loro capacità personale di affrontarli. Per molti la libertà di scelta resterà uno spettro sfuggente e un sogno vano, a meno che la paura della sconfitta non sia attenuata da una polizza di assicurazione emessa a nome della comunità: una polizza in cui confidare e di cui fidarsi quando si subisce un insuccesso personale o uno scherzo del destino. Se la libertà di scelta è concessa in teoria ma irraggiungibile in pratica, al dolore della disperazione si aggiungerà sicuramente l’onta della sfortuna – poiché la capacità quotidianamente verificata di far fronte alle sfide della vita è proprio il laboratorio in cui la fiducia degli individui in se stessi, e con essa il loro senso di dignità umana e di autostima, si sviluppa o si dissolve. Inoltre, senza un’assicurazione collettiva difficilmente ci saranno stimoli adeguati a impegnarsi politicamente, e certamente ci saranno stimoli inadeguati a partecipare a un rituale democratico elettivo, poiché è improbabile che la salvezza arrivi davvero da uno Stato politico che non è, o che rifiuta di essere, uno Stato sociale. Senza diritti sociali per tutti un numero elevato e molto probabilmente crescente di persone vedrà i propri diritti politici come qualcosa di inutile e non meritevole di attenzione. Se i diritti politici sono necessari a porre in essere i diritti sociali, questi ultimi sono indispensabili per garantire il funzionamento dei diritti politici. I due tipi di diritti hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere; tale sopravvivenza può essere solo il loro comune successo. Lo Stato sociale è la fondamentale incarnazione moderna dell’idea di comunità: vale a dire l’incarnazione istituzionale di tale idea nella sua forma moderna di totalità astratta e immaginata, intessuta di dipendenza, impegno e solidarietà reciproci. I diritti sociali – diritti al rispetto e alla dignità – collegano quella totalità immaginata alla realtà quotidiana dei suoi membri e la piantano sul terreno solido dell’esperienza 176

di vita; quei diritti certificano contemporaneamente la verità e il realismo della fiducia reciproca e nella rete istituzionale condivisa che avalla e valida la solidarietà collettiva. Il sentimento di «appartenenza» si traduce in fiducia nei benefici della solidarietà umana e nelle istituzioni che scaturiscono da tale solidarietà e promettono di servirla e garantirne l’affidabilità. Tutte queste verità sono espresse chiaramente nel programma del Partito socialdemocratico svedese del 2004: Ognuno di noi, in qualche momento, è fragile. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Viviamo la nostra vita qui e ora, insieme agli altri, intrappolati nel bel mezzo di un cambiamento. Saremo tutti più ricchi se a ciascuno di noi sarà consentito partecipare e se nessuno verrà escluso. Saremo tutti più forti se ci sarà sicurezza per tutti e non soltanto per pochi.

Come la capacità di carico di un ponte non è commisurata alla forza media dei piloni ma alla forza del pilone più debole e cresce di pari passo con la forza di questo, la fiducia e l’inventiva di una società sono misurate dalla sicurezza, dall’inventiva e dalla fiducia in se stesse delle sue parti più deboli e crescono di pari passo con queste. Contrariamente al presupposto dei fautori della «terza via», la giustizia sociale e l’efficienza economica, la fedeltà alla tradizione dello Stato sociale e la capacità di modernizzarsi rapidamente (e senza danneggiare, soprattutto, la coesione sociale e la solidarietà) non devono essere, e non sono, in conflitto. Al contrario, come la prassi socialdemocratica dei paesi nordici ampiamente dimostra e conferma, «la ricerca di una società più coesa è la precondizione necessaria di una modernizzazione consensuale»17. Al contrario di quanto sostengono i necrologi del tutto intempestivi redatti alla meglio dai promotori e alfieri della «terza via», il modello scandinavo non è affatto un cimelio del passato, ciò che resta di speranze ormai frustrate, non è un proto177

tipo abbandonato a furor di popolo perché superato. Quanto attuali e vivi siano i suoi principi basilari, e quanto forti siano le sue speranze di accendere l’immaginazione umana e di ispirare all’azione, lo mostrano i recenti trionfi degli Stati sociali nati o risorti in Venezuela, Bolivia, Brasile e Cile, che stanno cambiando gradualmente ma inesorabilmente il paesaggio politico e gli umori diffusi nella parte latina dell’emisfero occidentale, portando tutti i segni di quel «gancio sinistro» che, come ha scritto Walter Benjamin, tende a caratterizzare tutte le svolte veramente decisive della storia umana. Per quanto ciò sia difficile da percepire nel flusso quotidiano delle routine consumistiche, la verità è questa. A scanso di equivoci, sia chiaro che lo «Stato sociale» nella società dei consumatori non è né inteso, né praticato, come alternativa al principio della scelta del consumatore, esattamente come esso non era inteso, né era, un’alternativa all’«etica del lavoro» della società dei produttori. Si dà il caso che i paesi dove i principi e le istituzioni dello Stato sociale sono saldamente affermati siano anche i paesi con un livello di consumo particolarmente elevato, proprio come i paesi dove i principi e le istituzioni dello Stato sociale erano saldamente affermati all’epoca della società dei produttori erano anche i paesi con un’industria particolarmente fiorente... Esattamente come nella società dei produttori, il significato dello Stato sociale nella società dei consumatori è quello di difendere la società dai «danni collaterali» che il principio-guida della vita sociale provocherebbe se non fosse seguito, controllato e vincolato. Il suo scopo è proteggere la società ed evitare il moltiplicarsi delle «vittime collaterali» del consumismo: gli esclusi, gli emarginati, la sottoclasse. Il suo compito è salvare dall’erosione la solidarietà umana e dalla dissoluzione i sentimenti di responsabilità etica. In Gran Bretagna l’attacco neoliberale ai princìpi dello Stato sociale è stato venduto alla nazione attraverso lo slogan di 178

Margaret Thatcher, che pareva ripreso alla lettera dai manuali di comunicazione del marketing dei beni di consumo e certo suona bene alle orecchie di qualsiasi consumatore: «Voglio un medico scelto da me nel momento scelto da me». I governi conservatori succedutisi a Margaret Thatcher hanno seguito fedelmente lo stesso schema, come ha fatto John Major con la «carta del cittadino», che ridefiniva i membri della comunità nazionale come clienti soddisfatti. L’«ordine dell’egoismo» neoliberale è stato consolidato dalle amministrazioni del New Labour sotto il nome in codice di «modernizzazione». Nel corso degli anni ben pochi degli oggetti che fino allora erano sfuggiti alla mercificazione sono sfuggiti allo zelo dei modernizzatori. Data la scarsità di oggetti non ancora influenzati da tale ondata (ossia di aree di vita rimaste fuori del perimetro del mercato dei beni di consumo), i contesti «modernizzati» di ieri sono diventati oggetto di nuova modernizzazione, aprendo la porta a nuovi capitali privati e a nuova concorrenza di mercato. Anziché essere concepita come un’operazione una tantum, la «modernizzazione» si è trasformata in condizione permanente delle istituzioni sociali e politiche, erodendo ulteriormente il valore della durata e della riflessione di lungo periodo ed esasperando il senso d’incertezza e di provvisorietà e la condizione di validità «fino a nuovo avviso», che notoriamente favoriscono i mercati dei beni di consumo. Questo è stato, probabilmente, il maggior servizio reso dall’azione di governo alla causa della rivoluzione neoliberale e alla regola indiscussa della «mano invisibile» del mercato («invisibile» in quanto elude tutti i tentativi di osservarne, indovinarne o prevederne le mosse: la »mano» di cui sogna qualsiasi giocatore di poker, in quanto lo renderebbe imbattibile). Le successive ondate di modernizzazione, nonostante tutti i loro segni particolari, hanno reso ancor più invisibile la mano invisibile, ponendola sempre più fuori della portata degli strumenti esistenti di intervento politico, popolare e democratico. Una vittima particolarmente illustre di tale attività gover179

nativa è stato, paradossalmente (ma fino a un certo punto), lo stesso ambito della politica, inesorabilmente ridotto e svuotato dalla «sussidiarizzazione» o «appalto» di un numero sempre maggiore di funzioni, precedentemente dirette e gestite dalla politica, a forze di mercato dichiaratamente non politiche. E mentre la deregolamentazione e la privatizzazione dell’economia procedevano a tutta velocità, mentre quelli che nominalmente erano patrimoni dello Stato si emancipavano, uno dopo l’altro, dalla supervisione della politica, mentre la tassazione personale per esigenze collettive veniva congelata, riducendo le risorse gestite collettivamente destinate a far fronte a quelle esigenze, la formula magica, che tutto spiegava e scusava, del «non esiste alternativa» (altra eredità di Margaret Thatcher) si trasformava inesorabilmente (o, più correttamente, veniva trasformata) in una profezia che si autorealizza. Questo processo è stato ampiamente analizzato e la sua direzione è stata documentata in modo esauriente, e non ha dunque molto senso ribadire nuovamente ciò che è ormai di pubblico dominio o che avrebbe avuto ogni possibilità di esserlo se vi si fosse posta attenzione. Quello che è rimasto in qualche modo ai margini dell’interesse pubblico, pur meritando attenzione, è il ruolo svolto da tutte le misure di «modernizzazione» nello scomporre e disgregare inesorabilmente i legami sociali e la coesione collettiva che avrebbero potuto consentire agli uomini e alle donne inglesi di individuare e affrontare le sfide vecchie e nuove, passate e future, del «pensiero unico» consumistico. Tra le molte idee, più o meno brillanti, per cui sarà ricordata Margaret Thatcher vi è la scoperta della non-esistenza della società: come dichiarò lei stessa, «la ‘società’ non esiste [...]. Esistono solo individui e famiglie». Ma è occorso uno sforzo ben maggiore, suo e dei suoi successori, per trasformare quel parto della fertile fantasia thatcheriana in una descrizione sufficientemente precisa del mondo reale visto dall’interno, dall’esperienza di chi ci vive. Il trionfo del consumismo sfrenato, individuale e indivi180

dualizzante sulla «economia morale» e sulla solidarietà sociale non era una conclusione scontata. Senza la preventiva opera di «piazza pulita» compiuta da Thatcher non sarebbe stato possibile costruire una società polverizzata in individui solitari e in famiglie in via di disgregazione, né lo sarebbe stato senza i suoi successi nel rendere incapaci di autodifesa e di associazione coloro la cui difesa poteva essere solo collettiva, nel sottrarre loro la maggior parte delle risorse di cui disponevano per recuperare collettivamente la forza loro negata o da loro persa a livello individuale, nell’introdurre forti restrizioni alla prassi dell’auto-governo per quanto riguardava sia l’«auto» che il «governo», nel trasformare queste espressioni di solidarietà disinteressata in reati punibili, nel «deregolamentare» gli organici delle fabbriche e degli uffici, trasformandoli da incubatrici di solidarietà sociale in aggregazioni di individui sospettosi che rivaleggiano all’insegna dell’«ognun per sé e il diavolo per tutti», come nei reality del Grande fratello o dell’Anello debole, e a finire il lavoro trasformando diritti universali di cui i cittadini erano orgogliosi nel marchio d’infamia di pigri o emarginati, accusati di vivere «alle spalle del contribuente». Non è esatto dire che le innovazioni di Margaret Thatcher siano sopravvissute ai governi successivi: in realtà esse sono state messe in questione di rado, e in linea di massima sono rimaste intatte. Sono sopravvissute, ed emerse rafforzate, anche molte delle innovazioni thatcheriane del linguaggio politico. Oggi, come vent’anni fa, il lessico dei politici inglesi fa riferimento solo agli individui e alle famiglie come soggetti di doveri e oggetto di legittima preoccupazione, e cita di solito le «comunità» come luoghi dove i problemi di cui le istituzioni per volontà del governo si disinteressano vanno affrontati con modalità da industria domestica (come nel caso di chi soffre di malattie mentali ignorato dall’assistenza medica statale, o della necessità di impedire che gli adolescenti disoccupati o sottoccupati, sottoistruiti e privi di prospettive, la cui dignità viene negata, si «riversino» dalla parte dei cattivi). 181

E mentre l’acqua continua a passare sotto i ponti, il mondo com’era prima della rivoluzione thatcheriana è stato già quasi dimenticato dagli anziani e non è mai stato conosciuto dai giovani. A coloro che hanno dimenticato o che non hanno mai assaggiato la vita in quell’altro mondo sembra anzi che non esista alternativa al mondo attuale... o meglio, ogni alternativa è diventata pressoché inimmaginabile. Tra il plauso degli osservatori entusiastici delle nuove tendenze, il vuoto lasciato dai cittadini che si ritirano in massa dal campo di battaglia politico per reincarnarsi come consumatori viene riempito da un «attivismo dei consumatori» dichiaratamente non schierato e ruvidamente apolitico. Il guaio è che questo genere di sostituzione non accresce le file degli uomini e donne «socialmente attenti» coinvolti e impegnati su temi pubblici (ossia dotati delle qualità che si ritiene siano caratteristiche definitorie dei cittadini della polis). La nuova versione dell’attivismo impegna una parte dell’elettorato minoritaria rispetto a quella che possono riuscire a mobilitare, in piena campagna elettorale, i partiti politici ortodossi, che non ci si attende più, né si confida, rappresentino gli interessi dei loro elettori, e che pertanto perdono il favore del pubblico. Come avverte Frank Furedi, «l’attivismo dei consumatori prospera in una condizione di apatia e disimpegno sociale». Lo si può considerare una reazione al diffondersi dell’apatia politica? Un antidoto alla nuova indifferenza pubblica verso cose che una volta erano considerate cause comuni e condivise? Occorre riconoscere con chiarezza, scrive Furedi, che la critica consumistica alla democrazia rappresentativa è essenzialmente antidemocratica. Essa si basa sulla premessa secondo cui gli individui eletti che abbiano uno scopo morale elevato hanno più diritto di agire a nome del pubblico rispetto ai politici eletti attraverso un processo politico imperfetto. Gli esponenti delle campagne 182

ambientaliste, che derivano il proprio mandato da una rete autoselezionata di gruppi di pressione, rappresentano un seguito molto più ristretto di quello che sostiene un politico eletto. A giudicare dai fatti, la risposta dell’attivismo dei consumatori al problema reale della responsabilità democratica è di saltare il problema a piè pari optando per l’azione lobbistica di gruppi d’interesse18.

«Esistono pochi dubbi che la crescita dell’attivismo dei consumatori sia strettamente connessa al declino delle forme tradizionali di partecipazione politica e di impegno sociale», è il verdetto di Furedi, basato su un’indagine ampiamente documentata. Ciò di cui si può dubitare, tuttavia, è se tale fenomeno sia portatore di una nuova forma di impegno sociale che, nel porre le basi della solidarietà sociale, si dimostri altrettanto efficace delle «forme tradizionali», nonostante tutte le loro ben documentate manchevolezze. L’«attivismo dei consumatori» è sintomo del crescente disincanto nei confronti della politica. Per citare Neil Lawson, «in mancanza di altro su cui fare affidamento, è probabile che le persone perdano la stessa nozione di collettività, e con essa ogni idea di società democratica, per ripiegare sul mercato come arbitro (e, vorrei aggiungere, sulle proprie capacità e attività in quanto consumatori)»19. In realtà le indicazioni per ora sono ambigue. Da un’indagine effettuata all’inizio della campagna elettorale del 2005 sembra «che, contrariamente alla percezione diffusa, il pubblico britannico non abbia un atteggiamento apatico nei confronti della politica. È questa la conclusione cui giunge un recente rapporto proveniente dalla Commissione elettorale e dalla Hansard Society, secondo cui il 77 per cento di coloro che hanno risposto a un sondaggio erano interessati alle questioni nazionali»20. Subito dopo, tuttavia, dalla stessa indagine emerge che «a questo elevato livello di interesse di fondo si contrappone una minoranza del 27 per cento che ritiene di avere effettivamente voce in capitolo nel modo in cui il paese è gestito». A giudicare dai precedenti, 183

si potrebbe dunque supporre (giustamente, come hanno dimostrato le elezioni successive a tale sondaggio) che il numero effettivo di coloro che si recano alle urne si collochi tra quelle due cifre, probabilmente più vicino a quella inferiore. Molti sono coloro che dichiarano il proprio interesse per qualsiasi cosa venga sbandierata come «tema nazionale» dai titoli di prima pagina dei giornali o dagli «aggiornamenti» televisivi, ma che non ritengono valga la pena di andare a votare per uno dei partiti politici che si offrono alla loro scelta. Inoltre, in una società satura di informazioni i titoli servono soprattutto (e molto efficacemente) a cancellare dalla memoria pubblica i titoli del giorno prima, e tutti i temi che i titoli definiscono «di interesse pubblico» hanno pochissime probabilità di sopravvivere dalla data dell’ultimo sondaggio di opinione fino alla data delle prossime elezioni. E, ciò che più conta, nella mente del numero crescente di cittadini-trasformati-in-consumatori dell’era del tempo puntinista quelle due cose – l’interesse per i «temi nazionali» di cui si parla in televisione e sulle prime pagine dei quotidiani e la partecipazione a ciò che resta del processo democratico – non si amalgamano affatto. La partecipazione – un investimento di lungo periodo che ha bisogno di tempo per dare i suoi frutti – non sembra essere una risposta rilevante a quell’interesse, che è semplicemente uno dei tanti eventi di informazione-spettacolo, senza radici nel passato né piede nel futuro. Il 23 marzo 2004 la pagina dedicata all’istruzione nel sito del «Guardian» informava che «secondo la redazione studentesca del Lloyd TSB/‘Financial Mail on Sunday’ tre quarti (il 77 per cento) degli studenti al primo anno di università non sono interessati a partecipare a proteste politiche [...], mentre il 67 per cento delle matricole crede che la protesta studentesca non sia efficace e non faccia alcuna differenza». Il sito citava Jenny Little, redattrice della pagina rivolta agli studenti nel «Financial Mail on Sunday», secondo cui «oggi gli studenti sono alle prese con un sacco di cose – come la pressione a otte184

nere buoni voti o la necessità di lavorare part-time per mantenersi e per riuscire a ottenere un’esperienza lavorativa che faccia emergere dall’anonimato il loro curriculum [...]. Non sorprende che la politica si collochi in fondo alle numerosissime priorità di questa generazione, sebbene in realtà essa non sia mai stata così importante». In uno studio dedicato al fenomeno dell’apatia politica, Tom DeLuca sostiene che l’apatia non è un tema a sé stante, ma «piuttosto un indizio riguardo agli altri, a quanto siamo liberi, a quanto potere realmente abbiamo, a ciò di cui possiamo essere considerati giustamente responsabili e alla bontà del servizio che riceviamo [...]. Essa indica una condizione di sofferenza»21. L’apatia politica «è uno stato mentale o un destino politico prodotto da forze, strutture, istituzioni o manipolazioni elitarie su cui si ha scarso controllo e forse anche poca conoscenza». DeLuca analizza in profondità tutti quei fattori, per dipingere un ritratto realistico di quello che egli chiama «il secondo volto dell’apatia politica», laddove il «primo volto» è, secondo vari studiosi della politica, espressione dell’accontentarsi dello stato delle cose esistente o dell’esercizio del diritto alla libera scelta, e più in generale (come si affermava nell’ormai classico studio del 1954 Voting, di Bernard Berelson, Paul Lazarsfeld e William McPhee, poi rimaneggiato da Samuel Huntington)22 un fenomeno «positivo per la democrazia» in quanto «consente alla democrazia di massa di funzionare». E tuttavia, se si vogliono decodificare adeguatamente le realtà sociali di cui è indizio e segno la crescente apatia politica, occorre andare oltre il «secondo volto» che, come giustamente osserva Tom DeLuca, è stato indebitamente trascurato o delineato solo superficialmente dai principali studi politologici. È necessario rievocare il precedente significato del termine «democrazia», che un tempo fece di questa parola il grido di battaglia di quelle stesse «masse deprivate e sofferenti» che oggi si allontanano dall’esercizio di diritti elettorali conquistati a duro prezzo. Oggi si è prima di tutto con185

sumatori, e solo molto dopo (e se mai) cittadini. E per diventare veri consumatori occorre un livello costante di vigilanza e di sforzo che difficilmente lascia tempo per le attività richieste dalla cittadinanza. Nel 2004, Filip Remunda e Vít Klusák, studenti della Scuola di cinematografia di Praga, finanziata dal ministero della Cultura ceco, hanno prodotto e diretto Il sogno ceco [Cˇesky´ sen], un’opera cinematografica diversa dalle altre: più che un semplice documentario, un esperimento sociale su vasta scala, e un ritratto della realtà sociale utile a far emergere la finzione nascosta dietro i ben noti programmi di reality TV. Remunda e Klusák hanno annunciato con un’intensa campagna pubblicitaria condotta su scala nazionale l’imminente inaugurazione di un supermercato. La campagna stessa, pianificata e realizzata da un’agenzia di comunicazione appositamente incaricata, è stata un capolavoro di marketing. È iniziata con la diffusione di voci su un presunto segreto molto ben custodito, secondo cui un misterioso e straordinario tempio del consumismo era in corso di costruzione in una località ancora segreta e sarebbe stato presto aperto ai consumatori. Attraverso varie fasi la campagna è riuscita a modificare e infrangere la routine di acquisto e consumo del pubblico, chiamandolo a riflettere su prassi quotidiane di shopping prosaiche e monotone, trasformando così delle abitudini fino allora mai oggetto di riflessione. I destinatari della campagna di comunicazione sono stati «provocati» a fermarsi a riflettere, insinuando, attraverso slogan come «smetti di spendere il tuo denaro!» o «non comprare», che era giunto per loro il momento di rinviare (cosa assai insolita) la gratificazione, e stimolandone gradualmente la curiosità e interesse facendo trapelare informazioni sempre più invitanti sulle delizie che attendevano chi avesse accettato di ritardare la soddisfazione dei propri desideri fino all’apertura del misterioso supermercato nuovo di zecca. Quest’ultimo, l’azienda 186

che intendeva aprirlo e le meraviglie che vi sarebbero state offerte erano pure invenzioni. Ma la curiosità e l’avidità create dalla campagna erano assolutamente reali. Quando, infine, centinaia di manifesti hanno reso noti la data e il luogo dell’inaugurazione, la mattina annunciata, nel posto annunciato, la folla di consumatori accorsi e pronti all’acquisto ha trovato soltanto una lunga distesa di campi incolti e con l’erba alta. All’orizzonte si intravedevano solo i contorni di un edificio colorato e riccamente decorato. Le migliaia di persone impazienti, tutte protese a guadagnare per prime l’ingresso dell’edificio in lontananza, hanno attraversato di corsa, ansimando, i prati umidi, finendo per trovarsi davanti a un’enorme facciata sostenuta da un ponteggio costruito per l’occasione: dietro la facciata c’erano solo altri campi incolti, con l’erba alta che cresceva rigogliosa e disordinata... Come in un lampo di visione profetica, Günther Anders aveva notato mezzo secolo fa: [...] non c’è nulla che sia altrettanto caratteristico di noi, uomini di oggi, quanto la incapacità della nostra anima di rimanere «up to date», al corrente della nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti, e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati in avanti nel futuro (chiamato «presente») e che ci sono sfuggiti di mano. [...] non è del tutto escluso che noi, che fabbrichiamo questi prodotti, siamo sul punto di edificare un mondo con cui non siamo capaci di mantenerci al passo e, per «afferrare» il quale, si pongono esigenze assolutamente esorbitanti dalle capacità della nostra fantasia, delle nostre emozioni e della nostra responsabilità23.

Note

Introduzione. Ovvero, il segreto meglio custodito della società dei consumi 1 Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998, p. 253 [ed. or., Méditations pascaliennes, Seuil, Paris 1997]. 2 Sean Dodson, Show and tell online, in «The Technology Guardian», 2 marzo 2006. 3 Paul Lewis, Teenage networking websites face anti-paedophile investigation, in «The Guardian», 3 luglio 2006. 4 Eugène Enriquez, L’idéal type de l’individu hypermoderne: l’individu pervers?, in Nicole Aubert (a cura di), L’individu hypermoderne, Érès, Paris 2004, p. 49. 5 Nick Booth, Press 1 if you’re poor, 2 if you’re loaded..., in «The Guardian», 2 marzo 2006. 6 Alan Travis, Immigration shake-up will bar most unskilled workers from outside EU, in «The Guardian», 8 marzo 2006. 7 Intervista a Nicolas Sarkozy, in «Le Monde», 28 aprile 2006. 8 Siegfried Kracauer, Gli impiegati, Einaudi, Torino 1980, p. 22 [ed. or., Die Angestellten. Aus dem neuesten Deutschland, saggio pubblicato nel 1929 nel quotidiano «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e successivamente sotto forma di volume (Societäts-Druckerei, Frankfurt a.M. 1930, ristampe Suhrkamp, Frankfurt a.M.)]. 9 Germaine Greer, The Future of Feminism, Dr J. Tans Lecture, Studium Generale Universiteit Maastricht, Maastricht 2004, p. 13. 10 Edmund L. Andrews, Vague law and hard lobbying add up to billions for big oil, in «The New York Times», 27 marzo 2006. 11 Arlie Russell Hochschild, The Time Bind: When Work Becomes Home and Home Becomes Work, Metropolitan Books, New York 1997, pp. XVIIIXIX. 12 Don Slater, Consumer Culture and Modernity, Polity, Cambridge 1997, p. 33. 13 Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995, p. 43 [ed. or., Die Großstädte und das Geistesleben (1902-1903)]. 14 Si veda l’intervista di Bryan Gordon in «The Observer Magazine», 21 maggio 2006, pp. 20-24.

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15 Why today’s singles are logging on in search for love at first byte, in «The Times», 5 gennaio 2006. 16 Jennie Bristow, Are we addicted to love?, all’indirizzo internet www.spiked-online.com, 28 marzo 2006. 17 Josie Appleton, Shopping for love, ivi, 23 marzo 2005. 18 Jonathan Keane, Late capitalist nights, in «Soundings», Summer 2006, pp. 66-75. 19 Georg Simmel, Excursus sulla sociologia dei sensi, in Id., Sociologia, Comunità, Milano 1998, pp. 550-562 [ed. or., Exkurs über die Soziologie der Sinne, in «Die Neue Rundschau», 18, 9, settembre 1907]. 20 Anthony Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, il Mulino, Bologna 2008 [ed. or., The Transformation of Intimacy: Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies, Polity, Cambridge 1992]. 21 Ivan Klíma, Between Security and Insecurity, Thames and Hudson, London 1999, pp. 60-62. 22 John Brewer e Frank Trentmann (a cura di), Consuming Cultures. Global Perspectives, Berg, New York 2006.

1. Consumismo e consumo Max Weber, Economia e società, vol. I: Teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di Comunità, Milano 1968, p. 18 [ed. or., Wirtschaft und Gesellschaft, pubblicato postumo nel 1922, poi ristampato da J.C.B. Mohr, Tübingen 1956]. 2 Colin Campbell, I shop therefore I know that I am: the metaphysical basis of modern consumerism, in Karin M. Ekström e Helene Brembeck (a cura di), Elusive Consumption, Berg, New York 2004, pp. 27 sgg. 3 Mary Douglas, In the Active Voice, Routledge and Kegan Paul, London 1982, p. 24. 4 Don Slater, Consumer Culture and Modernity, Polity, Cambridge 1997, p. 100. 5 Stephen Bertman, Hyperculture. The Human Cost of Speed, Praeger, Westport (CO)-London 1998. 6 Michel Maffesoli, L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno, Luca Sossella, Roma 2003, p. 13 [ed. or., L’instant éternel. Le retour du tragique dans les sociétés postmodernes, Denoël, Paris 2000]. 7 Nicole Aubert, Le culte de l’urgence. La société malade du temps, Flammarion, Paris 2003, pp. 187, 193. 8 Maffesoli, L’istante eterno cit., p. 46. 9 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 235, 226-227 [ed. or., Der Stern der Erlösung, J. Kauffmann, Frankfurt a.M. 1921]. 10 Michael Löwy, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi «Sul con1

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cetto di storia» di Walter Benjamin, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 124, 127 [ed. or., Walter Benjamin, avertissement d’incendie, Presses Universitaires de France, Paris 2001]. 11 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p. 83 [ed. or., Über den Begriff der Geschichte, 1940]. 12 Siegfried Kracauer, Prima delle cose ultime, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 127-128; la citazione successiva è a p. 129 [ed. or., History. The Last Things before the Last, Markus Wiener, Princeton 1995, pp. 160-161]. 13 Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 119. 14 Is recycling a waste of time?, in «The Observer Magazine», 15 gennaio 2006. 15 Thomas Hylland Eriksen, Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica, Elèuthera, Milano 2003 [ed. or., Tyranny of the Moment: Fast and Slow Time in the Information Age, Pluto Press, London-Sterling (VA) 2001]. 16 Ignacio Ramonet, La tyrannie de la communication, Galilée, Paris 1999, p. 184 [trad. it., La tirannia della comunicazione, Asterios, Trieste 1999]. 17 Eriksen, Tempo tiranno cit., p. 119. 18 Ivi, pp. 30-31. 19 Bill Martin, Listening to the Future: The Time of Progressive Rock 1968-1978, Open Court, Chicago 1997, p. 292. 20 Eriksen, Tempo tiranno cit., pp. 139, 144. 21 Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995, p. 43 [ed. or., Die Großstädte und das Geistesleben (1902-1903)]. 22 Rolland Munro, Outside paradise: melancholy and the follies of modernization, in «Culture and Organization», 4 (2005), pp. 275-289. 23 Richard Layard, Felicità. La nuova scienza del benessere comune, Rizzoli, Milano 2005 [ed. or., Happiness. Lessons from a New Science, Allen Lane, London 2005]. 24 Qui ripreso da George Monbiot, How the harmless wanderer in the woods became a mortal enemy, in «The Guardian», 23 gennaio 2006. 25 Thomas Mathiesen, Silently Silenced. Essays on the Creation of Acquiescence in Modern Society, Waterside Press, Winchester 2004, p. 15. 26 Zygmunt Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, il Mulino, Bologna 2002 [ed. or., The Individualized Society, Polity, Cambridge 2001]. 27 Colette Dowling, Il complesso di Cenerentola, Longanesi, Milano 1981 [ed. or., Cinderella Complex, Summit Books, New York 1981]. 28 Arlie Russell Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, il Mulino, Bologna 2006, pp. 30 sgg. [ed. or., The Commercialization of Intimate Life. Notes from Home and Work, University of California Press, Berkeley 2003, pp. 21 sgg.]. 29 Frank Mort, Competing domains: democratic subjects and consuming subjects in Britain and the United States since 1945, in Frank Trentmann (a cura di), The Making of the Consumer. Knowledge, Power and Identity in the

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Modern World, Berg, New York 2006, pp. 225 sgg. Mort cita i seguenti rapporti dello Henley Centre: Planning for Social Change (1986), Consumer and Leisure Futures (1997) e Planning for Consumer Change (1999).

2. Una società di consumatori Frank Trentmann, Genealogy of the consumer, in John Brewer e Frank Trentmann (a cura di), Consuming Cultures. Global Perspectives, Berg, New York 2006, pp. 23 sgg. 2 Zygmunt Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina 2004, pp. 19 sgg. [ed. or., Work, Consumerism and the New Poor, Open University Press, Buckingham 2005, cap. 1]. 3 Daniel Thomas Cook, Beyond either/or, in «Journal of Consumer Culture», 2 (2004), p. 149. 4 La citazione da N.R. Shrestha è ripresa da Russell W. Belk, The human consequences of consumer culture, in Karin M. Ekström e Helene Brembeck (a cura di), Elusive Consumption, Berg, New York 2004, p. 69. 5 Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 57 sgg. [ed. or., Die Antiquitiertheit des Menschen, vol. I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Beck, München 1956]. 6 Ivi, p. 38. 7 Decca Aitkenhead, Sex now, in «The Guardian Weekend», 15 aprile 2006. 8 Cit. in Anne Perkins, Collective failure, in «The Guardian Work», 22 aprile 2006. 9 Daniel Thomas Cook, The Commodification of Childhood, Duke University Press, Durham (NC) 2004, p. 12. 10 Nicole Aubert, Le culte de l’urgence. La société malade du temps, Flammarion, Paris 2003, pp. 82 sgg. 11 Tutte le citazioni che seguono sono tratte da L’avvenire di un’illusione (1927) e Il disagio della civiltà (1929), in Opere di Sigmund Freud, vol. 10: Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, Boringhieri, Torino 1978, rispettivamente alle pp. 435 sgg. e 557 sgg. 12 Richard Rorty, La fine del leninismo, Havel e la speranza sociale, in Id., Verità e progresso, Feltrinelli, Milano 2003, p. 215 [ed. or., The end of Leninism and history as comic frame, in Arthur R. Melzer, Jerry Weinberger e M. Richard Zinman (a cura di), History and the Idea of Progress, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1995, p. 216, ristampa The end of Leninism, Havel and social hope, in Id., Truth and Progress. Philosophical Papers, Cambridge University Press, Cambridge 1998]. 13 Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979 1

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[ed. or., Tvorcˇestvo Fransua Rable i narodnaja kul’tura srednovekov’ja i Renessansa, 1941]. 14 Patrick Collinson, Study reveals financial crisis of the 18-40s, in «The Guardian», 28 marzo 2006. 15 Paul Krugman, Deep in debt, and denying it, in «International Herald Tribune», 14 febbraio 2006.

3. La cultura consumistica 1 Michael Maffesoli, L’istante eterno. Ritorno del tragico nel postmoderno, Luca Sossella, Roma 2003, p. 33 (ed. or., L’instant eternal. Le retour du tragique dans les sociétés postmodernes, Denoël, Paris 2000, pp. 40-41). 2 Mary Douglas, In the Active Voice, Routledge and Kegan Paul, London 1988, p. 24. 3 Milan Kundera, La lentezza, Adelphi, Milano 1995, p. 45 [ed. or., La lenteur, Gallimard, Paris 1995]. 4 Ivi, pp. 26-27. 5 Ivi, p. 96. 6 Vincent de Gaulejac, Le sujet manqué. L’individu face aux contradictions de l’hypermodernité, in Nicole Aubert (a cura di), L’individu hypermoderne, Érès, Paris 2004, p. 134. 7 Ellen Seiter, Sold Separately. Children and Parents in Consumer Culture, Rutgers University Press, Piscataway (NJ) 1993, p. 3. 8 Nicole Aubert, Le culte de l’urgence. La société malade du temps, Flammarion, Paris 2003, pp. 62-63. 9 Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999 [ed. or., La fatigue d’être soi, Odile Jacob, Paris 1998]. 10 Aubert, Le culte de l’urgence cit., pp. 107-108. 11 Don Slater, Consumer Culture and Modernity, Polity, Cambridge 1997, p. 100. 12 L’autore si riferisce qui alle due diverse accezioni di libertà espresse in inglese con liberty e freedom [N.d.T]. 13 Anthony Elliott e Charles C. Emert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, Einaudi, Torino 2007 [ed. or., The New Individualism. The Emotional Costs of Globalization, Routledge, London-New York 2006]. 14 Lesław Hostyn´ski, Wartos´ci w s´wiecie konsumpcji, Wydawnictwo Uniwersytetu Marii Curie-Skłodowskiej, Lublin 2006, pp. 108 sgg. 15 Alvin Toffler, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano 1971, poi Sperling & Kupfer, Milano 1988 [ed. or., Future Shock, Random House, New York 1970]. 16 Pascal Lardellier, Rencontres sur internet. L’amour en révolution, in Xavier Molénat (a cura di), L’individu contemporain. Regards sociologiques, Éditions Sciences Humaines, Auxerre 2006, p. 229.

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17 Jonathan Keane, Late capitalist nights, in «Soundings», Summer 2006, pp. 66-75. 18 Thomas Hylland Eriksen, Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica, Elèuthera, Milano 2003, p. 13 [ed. or., Tyranny of the Moment. Fast and Slow Time in the Information Age, Pluto Press, London-Sterling (VA) 2001, pp. 2-3]. 19 Ivi, p. 8. 20 Elz.bieta Tarkowska, Zygmunt Bauman o czasie i procesach detemporalizacji, in «Kultura i Społeczen´stwo», 3 (2005), pp. 45-65. 21 Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari 2006, 20087 [ed. or., Liquid Love: On the Frailty of Human Bonds, Polity, Cambridge 2003]. 22 Thomas Frank, Marché de droit divin. Capitalisme sauvage et populisme de marché, Agone, Marseille 2003. 23 Jodi Dean, Communicative capitalism: circulation and the foreclosure of politics, in «Cultural Politics», marzo 2005, pp. 51-73. 24 Christopher Lasch, The age of limits, in Arthur M. Melzer, Jerry Weinberger e M. Richard Zinman (a cura di), History and the Idea of Progress, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1995, p. 240. 25 Kwame Anthony Appiah, The Ethics of Identity, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2005. 26 Iosif Brodskij, On Grief and Reason, Farrar, Straus and Giroux, New York 1995, pp. 107-108 [trad. it. parziale, Dolore e ragione, Adelphi, Milano 1998]. 27 Andrzej Stasiuk, Tekturowy samolot, Wydawnictwo Czarne, Se ˛ kowa 2000, p. 59. . 28 Sławomir Mroz ek, Male listy, Noir sur Blanc, Paris 2002, p. 123. 29 Siegfried Kracauer, Prima delle cose ultime, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 118 [ed. or., History. The Last Things before the Last, Markus Wiener, Princeton (NJ) 1994, p. 148]. 30 Francis Jauréguiberry, Hypermodernité et manipulation de soi, in Nicole Aubert (a cura di), L’individu hypermoderne, Érès, Paris 2004, pp. 158 sgg.

4. Vittime collaterali del consumismo 1 George Orwell, Politica e lingua inglese, in Denise Milizia (a cura di), Usi della lingua inglese, B.A. Graphis, Bari 2003, pp. 23, 31 [ed. or., A Collection of Essays, Doubleday, Garden City (NY) 1954]. 2 Martin Jay, The ambivalent virtues of mendacity, in Olli-Pekka Moisio e Juha Suoranta (a cura di), Education and the Spirit of Time, Sense, Rotterdam 2006, pp. 91 sgg. 3 James Livingstone, Modern subjectivity and consumer culture, in S. Strasser, C. McGovern e M. Judt (a cura di), Consuming Desires Consump-

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tion, Culture and the Pursuit of Happiness, Cambridge University Press, Cambridge (UK)-New York 1998, p. 416; qui ripreso da Russell W. Belk, The human consequences of consumer culture, in Karin M. Ekström e Helene Brembeck (a cura di), Elusive Consumption, Berg, New York 2004, p. 71. 4 Colin Campbell, I shop therefore I know that I am: the metaphysical basis of modern consumerism, in Ekström e Brembeck (a cura di), Elusive Consumption cit., pp. 41-42. 5 Arlie Russell Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, il Mulino, Bologna 2006, p. 209; le citazioni che seguono sono rispettivamente alle pp. 212 e 210 [ed. or., The Commercialization of Intimate Life. Notes from Home and Work, University of California Press, Berkeley 2003, pp. 208 sgg.]. 6 Herbert J. Gans, The War against the Poor: The Underclass and Antipoverty Policy, Basic Books, New York 1995, p. 2. 7 Alain Finkielkraut, L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo, Liberal, Roma 1997, p. 75 [ed. or., L’humanité perdue. Essai sur le XXe siècle, Seuil, Paris 1996]. 8 Cfr. l’intervista a Richard Sennett di Daniel Leighton, The culture of the new capitalism, in «Renewal», 1 (2006), p. 47. 9 Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al gulag, Elèuthera, Milano 1996 [ed. or., Crime Control as Industry: Towards Gulags, Western style?, Routledge, London-New York 1993]. 10 Gunnar Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1959 [ed. or., Economic Theory and Underdeveloped Countries, Duckworth, 1957]. 11 Ken Auletta, The Underclass, Random House, New York 1982, p. XIII. Il linguaggio del dibattito più recente in America sul fenomeno della sottoclasse è molto più in linea con la retorica priva di compromessi di Edward Banfield: «L’individuo della classe inferiore vive attimo per attimo [...]. La sua condotta è regolata dall’impulso, o perché non sa disciplinarsi a sacrificare una soddisfazione presente per una futura, o perché non ha il senso del futuro. È dunque totalmente imprevidente e considera privo di valore tutto ciò che non può consumare immediatamente. Il suo gusto per l’‘azione’ ha la precedenza su ogni altra cosa» (Edward Banfield, The Unheavenly City: The Nature and Future of Our Urban Crisis, Little, Brown, Boston 1970, pp. 34-35). Notiamo che la polemica di Banfield verso la «sottoclasse» suona come una precisa descrizione del «consumatore ideale» in una società di consumatori. In questo, come nella maggior parte degli altri interventi, la sottoclasse funge da discarica dei demoni che ossessionano l’anima tormentata del consumatore. 12 La ricerca sul campo ha portato Auletta troppo vicino all’oggetto del trattamento standardizzato per accorgersi di quanto difettose siano, dal punto di vista empirico, le etichette e le classificazioni generalizzate. Alla fine di un libro che descrive la lunga vicenda della unificazione della sottoclasse favorita dal potere egli afferma: «L’unica grande lezione che ho appreso dalla mia indagine sulla sottoclasse e sui poveri è che le generalizzazioni buone per

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tutti gli usi sono nemiche della comprensione. È pericoloso sostenere in modo generalizzato che la ‘sottoclasse’ [...] o le ‘vittime’ [...] o la povertà siano state ‘virtualmente eliminate’ [...] o che il governo sia ‘il problema’. Da 10.000 metri di altezza tutti e tutto appaiono come formiche» (Auletta, The Underclass cit., p. 317). Com’era facile prevedere, questi avvertimenti sono rimasti inascoltati. A livello giornalistico, politico e di opinione pubblica lo studio di Auletta è stato recepito come ulteriore rinforzo di un’immagine unificata della sottoclasse. 13 Auletta, The Underclass cit., p. 28. 14 Lawrence M. Mead, The New Politics of Poverty: The Nonworking Poor in America, Basic Books, New York 1992, pp. X, 12, 133, 145, 261. 15 In Belk, The human consequences cit., p. 69. 16 Hochschild, Per amore o per denaro cit., p. 220. 17 Sweden’s New Social Democratic Model, Compass, London 2005, p. 32. 18 Frank Furedi, Consuming Democracy. Activism, elitism and political apathy, all’indirizzo internet www.geser.net/furedi.html. 19 Neil Lawson, Dare More Democracy, Compass, London 2000, p. 18. 20 Dal sito www.politics.co.uk (consultato il 1° marzo 2005). 21 Tom DeLuca, The Two Faces of Political Apathy, Temple University Press, Philadelphia 1995. 22 Bernard R. Berelson, Paul F. Lazarsfeld e William N. McPhee, Voting: A Study of Opinion Formation in a Presidential Campaign, University of Chicago Press, Chicago 1954. 23 Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 50-51 [ed. or., Die Antiquitiertheit des Menschen, vol. I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, Beck, München 1956]. Il corsivo è nell’originale.

Indice dei nomi e delle cose notevoli

adiaforizzazione, 29, 64, 116. Aitkenhead, Decca, 77, 192n. Althusser, Louis, 66. Anders, Günther, 73, 75-76, 186, 192n, 196n. apatia politica, 182, 185. appartenenza, sentimento di, 67, 7172, 95, 103-104, 137, 140, 177. Appiah, Kwame Anthony, 137-138, 194n. Aubert, Nicole, 41, 85, 117-119, 189n, 190n, 192n, 193n, 194n. Auletta, Ken, 167-169, 195n, 196n.

carte di credito, 7, 99-100, 132. Cartesio (René Descartes), 16. Castells, Manuel, 134. Chiapello, Eve, 13. Christie, Nils, 165, 195n. civilizzazione, processo di, 91-92, 94. Clarke, Charles, 8. Cohen, Stanley, 146. consumatori: attivismo dei, 182-183; de iure, 79, 81; difettosi, 7, 71, 8182, 85, 125, 157-158, 165, 172173; sovranità dei, 27-28, 82-84; tradizionali, 59. consumismo (definizione), 36-37, 106-108. Cook, Daniel Thomas, 69, 80, 192n. cultura consumistica (definizione), 66, 124-125.

Bachtin, Michail, 95, 192n. Bailey Rae, Corinne, 18. Banfield, Edward, 195n. Bateson, Gregory, 159-160. Baudrillard, Jean, 20,137. Belk, Russell W., 174, 192n, 195n, 196n. bene comune, 175. Benjamin, Walter, 43, 178, 191n. Bentham, Jeremy, 90. Berelson, Bernard, 185, 196n. Beveridge, William Henry, 175. blasé, essere, 53. Bourdieu, Pierre, 3, 112, 163, 189n. Brewer, John, 30, 190n, 192n, Brodskij, Iosif, 140, 194n. Butler, Samuel, 56, 162.

danni collaterali, 146, 148-150, 152, 178. Dean, Jodi, 135, 194n. decivilizzazione, processo di, 93. DeLuca, Tom, 185, 196n. deregolamentazione, 12-13, 15, 62, 113-115, 180. dissenso, assorbimento del, 61-62, 94, 136. Douglas, Mary, 37, 105, 190n, 193n. Dowling, Colette, 63, 191n. Dunn, John, 175. durata (o durevolezza), valore della, 28, 39-40, 107, 155, 179. Durkheim, Émile, 72, 96, 110, 113.

Calvino, Italo, 47, 191n. Campbell, Colin, 36, 149, 190n, 195n. Carlyle, Thomas, 19.

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composizione e scomposizione della, 137, 139-140; rivendicazione della, 145; scelta della, 93, 138; trasformazione della, 62, 125-127, 131-133, 140-143. inadeguatezza, complesso di, 75, 117-118

eccesso, 49, 60, 62, 108-109. Ehrenberg, Alain, 118, 193n. Elias, Norbert, 92. Elliott, Anthony, 127, 193n. emergenza, stato di, 116-121. Enriquez, Eugène, 5, 189n. Eriksen, Thomas Hylland, 50-52, 131, 191n, 194n. esclusione, 7, 67, 70-71, 78, 82, 105106, 125, 166, 173-175.

Jauréguiberry, Francis, 143-144, 194n. Jay, Martin, 147, 149, 194n.

fast food, 98. felicità, 29-30, 40, 46-48, 54-58, 94, 162. feticismo: della comunicazione, 135136; della merce, 19-20, 25, 27; della soggettività, 20, 22-23, 2628, 32. Ficino, Marsilio, 53. figure emblematiche, 104. Finkielkraut, Alain, 159, 195n. Foucault, Michel, 93. Frank, Thomas, 135, 194n. Freud, Sigmund, 55, 87-89, 92, 111, 192n. Furedi, Frank, 182-183, 196n.

Keane, Jonathan, 21, 129, 190n, 194n. Klíma, Ivan, 29, 190n. Klusák, Vít, 186. Kracauer, Siegfried, 10-11, 43-44, 142, 189n, 191n, 194n. Kundera, Milan, 105-106, 193n. Lardellier, Pascal, 129, 193n. Lasch, Christopher, 137, 194n. Lash, Scott, 134. Latour, Bruno, 20. Lawson, Neil, 183, 196n. Layard, Richard, 57, 191n. Lazarsfeld, Paul, 185, 196n. Lévinas, Emmanuel, 64, 111-115. Livingstone, James, 149, 194n. Løgstrup, Knud, 111-113. Löwy, Michael, 43, 191n.

Gallie, Walter Bryce, 155. Gamble, Jim, 6. Gans, Herbert J., 154, 195n. Gaulejac, Vincent de, 106, 193n. Giddens, Anthony, 28, 190n. Greer, Germaine, 10, 18, 189n. guardaroba, comunità di, 139-140.

Maffesoli, Michel, 41-42, 103-104, 190n, 193n. malinconia, 53-54. Martin, Bill, 52, 191n. Marx, Karl, 19, 63, 108. Maslow, Abraham, 58. materializzazione dell’amore, 150. Mathiesen, Thomas, 61, 191n. McPhee, William, 185, 196n. Mead, Lawrence M., 172-173, 196n. mercificazione: dei consumatori, 32, 72, 78-79, 85; della vita umana, 149, 179; del lavoro 11-12; dell’infanzia, 80. Merton, Robert, 148.

Habermas, Jürgen, 11. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 90, 94. Hobbes, Thomas, 64, 89, 110, 113. Hochschild, Arlie Russell, 13-14, 63, 150-151, 174, 189n, 191n, 195n, 196n. Hostyn´ski, Lesław, 128, 193n. Huntington, Samuel, 185. identità, costruzione della, 20, 33, 142; «carnevalesche», 143-144;

198

Milton, John, 53. Mort, Frank, 64, 191n, 192n. . Mrozek, Sławomir, 142, 194n. Munro, Rolland, 54, 191n. Myrdal, Gunnar, 166, 195n. noia, 109, 124, 141, 162-163. non conformità, 118. nuovi inizi, 46, 62, 105, 116, 121, 125-127, 141, 143. oblio, 105, 121, 136. ordine dell’egoismo, 175, 179. Orwell, George, 7, 147-148, 194n. Oswald, Andrew, 58. Parsons, Talcott, 61, 124. Pascal, Blaise, 119. perfezione, 73, 108. Polanyi, Karl, 19. principio: di piacere, 89, 111, 113114; di realtà, 89, 94, 111, 113114. privatizzazione, 12-13, 15, 23, 113115, 180. progresso, 42, 52, 135, 175. Proust, Marcel, 43-45. Rabelais, François, 56. Ramonet, Ignacio, 50, 191n. regolamentazione normativa, 74, 110-113. relazione pura, 28-30. Remunda, Filip, 186. Renan, Ernest, 92. responsabilità etica, 29, 64, 112, 114, 116, 178. «rete», 5, 134. rispetto, 152, 175-176. Ritzer, George, 68. Roosevelt, Franklin Delano, 175. Rorty, Richard, 90, 192n. Rosenzweig, Franz, 43, 190n. Rousseau, Jean-Jacques, 94.

Sarkozy, Nicolas, 8, 189n. Schmitt, Carl, 82, 153. sciame, comportamento dello, 9698. Seiter, Ellen, 106, 193n. Sennett, Richard, 162, 195n. Sˇestov, Lev, 130. Shrestha, Nanda R., 174, 192n. Simmel, Georg, 17, 24, 53-54, 82, 189n, 190n, 191n. Slater, Dan, 16, 40, 123, 189n, 190n, 193n. smaltimento dei rifiuti, 28, 35, 40, 49, 107. socializzazione virtuale, 145. social networking, 3-5. società: confessionale, 6; dei consumatori (definizione), 67; dei produttori (definizione), 37-38. solidarietà, 178-180. sottoclasse, 81, 152-154, 156, 166173, 195n, 196n. spreco, 49, 60-61, 87. Stasiuk, Andrzej, 130, 141-142, 194n. Stato sociale, 175-178. . Tarkowska, Elzbieta, 132, 194n. tempo puntinista, 32, 41-45, 54, 105, 125, 131, 140-142. Thatcher, Margaret, 179-182. Toffler, Alvin, 129, 193n. Trentmann, Frank, 30, 67, 190n, 191n, 192n. utopie privatizzate, 64. «valori familiari», 151. Veblen, Thorstein, 39. vittime collaterali, 134, 146, 178; vedi anche danni collaterali. Weber, Max, 31, 34-35, 123, 190n. welfare state, 12, 165-166, 169; vedi anche Stato sociale.

CAPIRE LA MODERNITÀ LIQUIDA. I LIBRI DI ZYGMUNT BAUMAN

Zygmunt Bauman | L’ETICA IN UN MONDO DI CONSUMATORI | i Robinson/Letture La vita sembra muoversi troppo in fretta perché la maggior parte di noi riesca a seguirne le svolte e giravolte: prevederle, poi, non è neanche in discussione. Pianificare una linea d’azione e attenersi al piano stabilito è un’impresa gravida di rischi, mentre una pianificazione a lungo termine sembra, sic et simpliciter, pericolosa. Questo libro è un tentativo di cogliere la forma di un mondo in movimento, un mondo che, furiosamente, continua a cambiare più velocemente di quanto noi riusciamo ad adattarci a esso. Zygmunt Bauman | PAURA LIQUIDA | Economica Laterza «La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente. ‘Paura’ è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare.» Zygmunt Bauman | CAPITALISMO PARASSITARIO | il nocciolo Con la consueta chiarezza e grazie all’uso di metafore potenti, Bauman mostra come la crisi attuale non riguardi soltanto l’economia, ma la capacità stessa della nostra società di trasmettere conoscenza e valori attraverso l’educazione. Una sfida incomparabile con quelle del passato e destinata a segnare il nostro futuro.

Zygmunt Bauman | VITA LIQUIDA | Economica Laterza La vita liquida è precaria, vissuta in condizioni di continua incertezza, con la paura di essere colti alla sprovvista e rimanere indietro. Ciò che conta è la velocità, non la durata. Il consumismo ha un temibile avversario che ne demistifica i meccanismi sociali e psicologici. Il suo nome è Zygmunt Bauman. “L’Indice” Zygmunt Bauman | MODUS VIVENDI. Inferno e utopia del mondo liquido | Economica Laterza Se vogliamo capire in che mondo viviamo e non sbagliare le mosse, interpretandolo con le categorie che abbiamo utilizzato in passato e che oggi non servono più, è opportuno leggere Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido di Zygmunt Bauman. Il libro è bellissimo. La condizione umana, dipinta come un inferno, invoca un’utopia che la possa riscattare. Umberto Galimberti Zygmunt Bauman | MODERNITÀ LIQUIDA | Sagittari Laterza Come palombari, come sommozzatori, come pesci viviamo in un mondo liquido. Non lo sappiamo ma è così. Semplicemente perché la vita odierna ha perso negli ultimi anni il suo stato solido per farsi leggera, mobile, fluida. Lo sostiene Bauman, il teorico della globalizzazione, lo studioso dell’imprevedibilità del domani. Aldo Grasso, “Corriere della Sera”

Zygmunt Bauman | L’EUROPA È UN’AVVENTURA | Sagittari Laterza Oggi l’Europa sembra aver perso la sicurezza in se stessa. Presa nelle spire di un mondo che si trasforma, si è smarrita nelle conseguenze di una globalizzazione indiscriminata che ha acuito il malessere e l’insicurezza collettiva. Eppure mai come adesso questo pianeta ha avuto bisogno di un’Europa disposta a giocare un ruolo vitale e a guardare oltre le proprie frontiere.

Zygmunt Bauman | INTERVISTA SULL’IDENTITÀ | a cura di Benedetto Vecchi | Saggi Tascabili Laterza L’identità è oggi come un vestito che si usa finché serve. Sessuale o politica, religiosa o nazionale, è precaria come tutto della nostra vita. Questo libro è un lucido e accessibile breviario alla contemporaneità. Pochi altri pensatori possono dire d’aver fornito così utili chiavi per l’interpretazione del presente. Corrado Augias Zygmunt Bauman | AMORE LIQUIDO | Sulla fragilità dei legami affettivi | Economica Laterza «La solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. In una relazione puoi sentirti insicuro quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia.» Zygmunt Bauman: anche nell’amore, ma non solo, la sua analisi è come sempre efficace. E feroce. Lelio Demichelis, “Tuttolibri” Zygmunt Bauman | DENTRO LA GLOBALIZZAZIONE | Le conseguenze sulle persone | Economica Laterza La globalizzazione tocca la vita quotidiana e il destino di miliardi di individui. Perciò questi devono avere la possibilità di dire la loro... Zygmunt Bauman coglie con non comune acutezza come il globale finisca sempre per diventare locale e individuale. Luciano Gallino Domande radicali nel bellissimo libro di Zygmunt Bauman. Gad Lerner, “la Repubblica” Zygmunt Bauman | LA SOCIETÀ SOTTO ASSEDIO | Economica Laterza Il potere ha messo sotto assedio la società: per controllarci, ha rotto i legami che ci tenevano uniti, rendendoci tutti più soli e più insicuri. Una foto cruda delle metropoli contemporanee. “Corriere della Sera”

Zygmunt Bauman | VITE DI SCARTO | Economica Laterza Bauman non dà tregua, smonta le nostre illusioni e le nostre perversioni, pagina dopo pagina. Un libro da leggere. Lelio Demichelis, “Tuttolibri” L’analogia tra i rifiuti materiali dei processi di produzione e consumo e i rifiuti umani generati dai processi storici, si rivela in questo saggio una potente chiave di interpretazione della storia. Guido Viale, “la Repubblica” Zygmunt Bauman | VOGLIA DI COMUNITÀ | Economica Laterza Un libro breve, compatto, intriso di passione intellettuale e politica. Il bel libro di Bauman, già noto in Italia come acuto interprete della società e dell’etica postmoderna, offre un mezzo per riconsiderare le motivazioni profonde della resistenza alla globalizzazione. Gianni Vattimo, “L’Espresso”