Con Kubrick. Storia di un'amicizia e di un capolavoro 9788833890074, 8833890074

Uno sguardo privilegiato e definitivo sul regista che ha cambiato per sempre il cinema contemporaneo, e sull'uomo,

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Con Kubrick. Storia di un'amicizia e di un capolavoro
 9788833890074, 8833890074

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Cl NEMA minimum fax

MICHAEL

HERR ____ ----~

Cinema

I 23

Michael Herr Con Kubrick. Storia di un'amicizia e di un capolavoro Titolo originale: Kubrick Traduzione di Nefeli l\:Iisuraca

© l\:Iichael Herr, 2000 Per la prefazione: © Simone Barillari, 2009 © minimum fax, 2009, 2019 Tutti i diritti riservati Edizioni minim1rm fax

via Giuseppe Pisanelli, 2 - 00196 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 [email protected] ,\"\\,\'. minilnumfax. com I edizione: febbraio 2009 II edizione: gennaio 2019

I edizione digitale: gennaio 2019 ISBN 9788833890371

MICHAEL HERR

CONKUBRICK STORIA DI UN'AMICIZIA E DI UN CAPOLAVORO

a cura di Simone Barillari

traduzione di Nefeli Misuraca

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KUBRICK COME GUERRA DI SL.\fOlv"E B.-1RILL4RI

Stallley era il re delle tenebre, e guida\'a un esercito di demoni Gustav Hasford, sceneggiatore di Full l.fetal Jaclret.

È nascosta una verità vasta e ostile, un brusco abisso della memoria, appena sotto la superficie di alcune parole pronunciate da ~lichael Herr con «brutale candore», come disse Kubrick, nel corso di una delle loro prime, lunghissime conversazioni telefoniche. Alla domanda di Kubrick se per caso conosceva qualche buon romanzo sul Vietnam da cui trarre un film, Herr, che all'epoca aveva già scritto Dispacci ed era uno dei maggiori esperti di quella guerra e delle sue infinite narrazioni, gli rispose - e non -..i fu, probabilmente, nessuna esitazione prima di questa risposta, né la più piccola incrinatura d'insincerità nella sua voce - che no, non ne conosceva davvero nessuno, aggiungendo che quella, per essere sinceri, «era più o meno l'ultima cosa al mondo che gli interessava», e ripetendo anche a Kubrick che lui voleva diventare «l'ultima persona al mondo cui pensare» per una sceneggiatura sul Vietnam. Addusse come motivo il rigetto che alla fine prova uno scrittore per l'argomento a cui sono dedicate tutte le sue opere, i sette anni passati sul suo libro e gli altri due sulla sceneggiatura interminabile diApocalypse Now, ma si intuisce da ciò che 11ichael Herr aveva già compiuto, dall'altezza delle sue ambizioni, che non poteva essere - che non era - soltanto questo a trattenerlo dal legare il suo nome a quello che si annunciava come un altro capolavoro, dal lavorare al fianco di colui che considerava il più grande regista vivente, a cultura[ hero, un uomo della cui leggenda si dichiarava «predisposto ad ammalarsi». Che questa non fosse l'unica ragione né la più importante è dimostrato con forza anche da quanto era accaduto meno di un anno prima, quando Herr aveva ricevuto ancora in bozze proprio il romanzo sul Vietnam che in seguito avrebbe adattato per Kubrick nella sceneggiatura di Full Metal Jacket. Era accompagnato da una lettera dell'editore che lo esortava a leggerlo nella speranza di avere da lui un commento positivo per il lancio del libro, ma non appena vide di cosa trattava, Herr ebbe subito l'impulso di accantonarlo anche se il libro riportava in epigrafe, come un invito, una frase di Dispacci - perché voleva impedire a qualsiasi costo il risorgere dei

ricordi e degli stati d'animo che quel genere di storia avrebbe provocato in lui; e così, anche dopo averlo letto d'un fiato a dispetto dei suoi propositi, concludendo che era «un capolavoro», aveva fatto tutto il possibile per allontanarlo dai suoi pensieri, non aveva risposto all'editore, non aveva scritto all'autore per complimentarsi, e infine aveva gettato via le bozze del libro, barricandosi dietro a un silenzio che pure gli procurava un vago senso di vergogna. In questo modo, sebbene non fosse riuscito a ignorare il libro come intendeva fare con tutti i libri sul Vietnam in quello che aveva definito il suo nuovo, liberatorio «periodo postbellico», non si ricordava nemmeno più di averlo letto quando, qualche mese dopo, Kubrick lo chiamò e gli chiese consiglio. Trascorsero due anni da quella telefonata; poi, per una di quelle insistenze del caso che fanno pensare all'esistenza del destino,' Kubrick capitò su una recensione che elogiava quel romanzo, lo lesse, pensò che conteneva il suo prossimo film e ne parlò a Herr, e fu allora che lui si rese conto di aver fatto così tanto per staccarsi da

tutto ciò che quel libro raccontava che non era in grado di rammentare pressoché nulla. lla gli fu sufficiente rileggere la prima pagina, e tutto, di colpo, «ritornò». Quando nell'estate del 1967 era partito per il Vietnam come corrispondente di guerra, Herr aveva appena ventisette anni e tutto quello che sapeva sulla scrittura veniva da una svogliata laurea alla facoltà di letteratura della Syracuse University e da qualche decina di articoli di viaggio e recensioni cinematografiche non pagate - e in poche settimane la guerra, che ha il potere di creare gli uomini non meno che di annientarli, aveva fatto di lui un grande scrittore.

n primo, impetuoso reportage comparve su Esquire nell'agosto di quell'anno. Si intitolava «Hell Sucks», perché il Vietnam era l'Inferno e l'Inferno faceva schifo, «il Vietnam era una stanza buia piena di oggetti letali, i -..ietcong erano ovunque contemporaneamente come un cancro ramificato», rivelava Herr a un'America ancora ostinatamente ingenua, raccontando la devastante offensiva vietnamita del Tet con parole nuove, violente e visionarie, in cui sembrava agire la stessa dexedrina assunta dai marines per resistere in quella guerra di notti e giungle, e andare in battaglia guardando dritta in faccia la gran troia. «Il giornalismo tradizionale», scrisse in Dispacci, «non era in grado di far luce su questa guerra più di quanto

le armi tradizionali fossero in grado di vincerla». Fin dai suoi primi giorni all'Inferno, l\.1ichael Herr si era ritrovato a combattere con una calibro 30 in mano, sparando da un avamposto per coprire una pattuglia di quattro uomini che cercava di rientrare, e a curare, «impreparato e impaurito», le centinaia di feriti accatastati nell'ospedale di Can Tho come sacchi di sabbia, come un'inutile trincea contro la morte; a essere trasportato da un campo di battaglia all'altro su elicotteri carichi di cadaveri, con il vento che sollevava i teli che li coprivano e svelav-a. i loro sguardi spettrali, e a camminare nella giungla umida e infuocata che i vietnamiti chiamavano «l'aldilà», «così persino i morti cominciarono a raccontarmi delle storie e la loro storia era sempre presente in me e sempre la stessa: "Mettiti al mio posto"». Non tentò nemmeno di adottare il professionale distacco del reporter, gli era impossibile attenersi alla disseccata oggettività dei fatti - non credeva nei fatti, disse una volta, aveva visto i fatti usati spesso come menzogne - e non voleva commettere il più grave errore che potesse fare un testimone, «l'errore di credere che tutto ciò che serviva per compiere un atto di testimonianza fossero gli occhi», ma così facendo, disse in seguito qualcuno, prese in sé «una parte delle mostruosità che ·vide», una parte del cuore delle tenebre americane. Rimase in Vietnam per due anni, ma non scrisse quasi nient'altro dopo quel reportage, e forse fu anche questo a piegarlo, l'aver accumulato troppo orrore senza mai liberarlo nella scrittura: «il problema era che non sapevi sempre cosa vedevi se non dopo, forse anni dopo, e che buona parte di quello che vedevi non arrivava mai alla coscienza, si limitava a restare immagazzinato nei tuoi occhi». Fece ritorno a Ne,vYork verso la metà del 1969, e per i sei anni che seguirono continuai a vederli tutti quanti, [i morti,] quelli che avevo visto veramente e quelli che mi ero immaginato, i loro e i nostri, gli amici a cui avevo voluto bene e gli sconosciuti, immote figure di una danza, l'antica danza. Finché non capii che anch'io non ero che un ballerino. Aveva iniziato di getto a scrivere Dispacci, sia pur incontrando difficoltà che diventarono a poco a poco sempre più grandi. «A Saigon andavo a letto sempre strafatto, così spesso mi perdevo i sogni, e [ ... ] quelli che persi laggiù si sarebbero fatti strada più tardi, avrei dovuto saperlo», si legge ancora nelle pagine che risalgono a quel periodo, essendo Dispacci, al tempo stesso, un libro sulla guerra e una riflessione sull'impossibilità di scriverlo. «Andai là per seguire la guerra, e fu la guerra a seguire me». Era solo a metà del libro quando all'inizio del 1971 giunse il crollo, portato dalla notizia della morte di tre suoi colleghi in Vietnam. Disse in seguito, nell'unico accenno che fece a quella lunga esperienza di disperazione, che non vede·va più nessuno, perché non voleva che nessuno lo vedesse. Per anni il libro non fece pressoché alcun progresso, poi una notte, come un frammento di shrapnel che ci mette anni per farsi strada e uscire, sognai un campo gremito di morti. Lo stavo attraversando con un amico, più che un amico una guida, e lui mi faceva abbassare a guardarli. Erano ricoperti di polvere, imbrattati di sangue, alcuni smembrati e senza più i pantaloni, proprio come quel giorno che li buttavano sul camion a Can Tho, e io dicevo: «?.fa li ho già visti». D mio amico si limitava a farmi un segno con il dito e io mi piegavo di nuovo e questa volta li guardavo in faccia. New York, 1975, quando mi svegliai il mattino dopo stavo ridendo. Quell'anno riprese un po' alla volta a scrivere, con fatica. Ogni giorno, poco dopo ]e undici e mezza de] mattino, andava in un piccolo ristorante, si sedeva allo stesso tavolo d'angolo e sorseggiava a lungo un Jack Daniel's guardando fuori sulla Settima Avenue - e trascorsero quasi due anni prima che rivolgesse la parola a qualcuno. Riusci lentamente a finire, ma né la pubblicazione di Dispacci nel novembre del 1977, né l'entusiasmo immediato e unanime dell'America, con il

New York Times che salutava «il miglior libro nato dalla guerra del Vietnam», servirono ad attutire il tumulto dei ricordi che si agitavano in lui se in un'intervista di quel periodo, una delle quattro o cinque che concesse in tutta la sua vita, ammise con la giornalista del Washington Post che a volte si rintanava ancora nel suo appartamento, anche per un'intera settimana: facendosi fino allo stordimento di marijuana, «il chiodo nella bara che lo rinchiudeva». ln qualche modo, nel corso dei due anni successivi, raccolse comunque la volontà e la concentrazione necessarie a scrivere la voce narrante, ipnotica come un fiume, che accompagna l'avanzare di Apocalypse Now, e quando nel 1979 il film usci, ?.fichael Herr, che da giovane aveva rabbiosamente desiderato diventare famoso, lasciò l'America per cercare rifugio dalla fama che lo aveva infine raggiunto, e anche, probabilmente, per sottrarsi all'incessante rievocazione che l'America faceva del Vietnam in centinaia di libri e film, come se l'intera nazione fosse inceppata in un gigantesco ma difettoso meccanismo di catarsi. Prese casa a Londra, e se è vero che un luogo tradisce i segreti che gli ha confessato chi lo ha scelto, allora si deve notare che la casa di llichael Herr era -..icina ai giardini di Kensington, lì dove James Barrie aveva nascosto il passaggio per raggiungere l'Isola-che-non-c'è. Questo, dunque, era l'uomo che nel 1980 Stanley Kubrick volle conoscere allo scopo di coinvolgerlo nella sceneggiatura di un film sul Vietnam, sentendosi rispondere che era «l'ultima cosa al mondo che gli interessava», e non meno riuscendo infine ad averlo con sé, come in forza di un'indeclinabile chiamata alle armi, e si può arrivare a pensare che l'atto di violenza creatrice, il gesto di calcolata onnipotenza con cui Kubrick ricostruì in Inghilterra gli infernali scenari del Vietnam per il suo film, abbattendo e bruciando le rovine di un insediamento industriale ormai abbandonato, non sia stato molto dissimile da quello con cui riportò la guerra nella mente di 11ichael Herr. Lui che non si era mai unito alle commemorazioni e ai raduni di veterani a cui veniva sempre invitato, lui che fu forse l'unico tra i grandi reporter americani di quella guerra a non tornare mai in Vietnam - anche lui, infine, vi fece a suo modo ritorno nei sette anni che trascorse a scrivere Full l'\fetal Jacket, rivedendo Saigon insieme ai marines di Stanley Kubrick. La guerra, con orrenda pazienza, continuava a seguirlo. Forse per questo, raccontando di quegli anni, Herr produsse Con Kubrick, un libro inquieto che trattiene qualcosa di Dispacci nel linguaggio e nella struttura digressiva, un libro che usa insistentemente le metafore di una gueJTa per parlare di uno spettacolo così come l'altro usava le metafore di uno spettacolo per parlare di una guerra e la chiamava my movie, un libro di dispacci su un film di guerra e su quella recitazione di una guerra che era per Kubrick ogni suo film.

Anche nella prefazione che Herr scrisse alla sceneggiatura di Full

Metal Jacket quando venne pubblicata, Kubrick appare come «un generale, con l'attenzione tutta protesa al mondo che lo circondava e dove voleva far accadere le cose, pieno di energia, di storie da raccontare, con piani d'azione e progetti sempre in corso, altamente concettuale, totalmente pratico», come un uomo dalla mente impavida, a menta[ warrior, essendo secondo Michael Herr l'audacia nel pensare una conseguenza dell'intelligenza proprio come il coraggio nell'agire è una conseguenza della forza. Riusciva a impadronirsi, scrive ancora Herr, di una formidabile mole di conoscenze che dispiegava senza tregua nella realizzazione dei suoi film, ed è per entrare dentro quest'uomo, negli infiniti e infernali territori della sua mente, che ?,,lichael Herr accettò di scrivere quel film, non per i soldi, I did itfor the friformation, andando dunque a lavorare con Kubrick come se fosse andato in uno scenario di guerra per poterlo raccontare. E nella misura in cui Stanley Kubrick era i suoi film, nella misura in cui, come è stato detto più volte e anche Herr sostiene, i suoi film erano «estremamente personali», nel senso assoluto che i suoi film erano la sua persona, Kubrick è la guerra di cui l\fichael Herr voleva essere testimone. Tutti quelli che furono accanto al regista durante i suoi film, tanto coloro che lo amavano quanto coloro che lo odiavano, concordarono sempre nell'affermare che Stanley Kubrick, che da giovane si era esercitato con ostinazione in quella suprema ,stilizzazione della guerra che sono gli scacchi, ebbe sommamente la prerogativa che ha la guerra, che è quella di condurre un uomo a diventare ciò che non sapeva di essere, a non riconoscere più i pensieri che gli riempiono la mente e la paura e il desiderio che Io muovono, a vedersi mentre compie azioni che non sono le sue, fino a comprendere di non appartenere più a se stesso, ma alla guerra e al suo volere. Era come se le temute, massacranti ripetizioni di una stessa scena, anche decine e decine di volte, a cui costringeva i suoi attori senza mai indicare loro in che modo recitarla, portandoli fino allo smarrimento di sé e alla mortificazione, o l'estenuante partita a scacchi ( «lui pensa, e poi fa la sua mossa; io faccio la mia: lui replica», scrisse Frederic Raphael a proposito della stesura di Eyes Wide Shut) che Kubrick giocava spietatamente con i suoi sceneggiatori telefonata dopo telefonata, riscrittura dopo riscrittura, perché «quello che dice di volere non è mai dawero quello che vuole», e perfino le faustiane sfide ai limiti della tecnologia del suo tempo che imponeva a direttori della fotografia, macchinisti e operatori - era come se tutto questo servisse non solo, come dicevano in tanti, a soddisfare il suo leggendario, insaziabile gusto della perfezione, ma soprattutto a estrarre da ognuno di loro ciò che non immaginava di poter fare e che pure segretamente aveva in sé, una pionieristica invenzione cinematografica come la steadicam o come una lente altamente fotosensibile, alcune perfette battute di sceneggiatura che sembrano affiorate da sconosciute profondità del cuore dov'erano state dimenticate, e quelle «interpretazioni così tormentate e malsane» che, se i suoi attori avessero saputo di avere qualcosa del genere dentro di sé, commenta Herr, «avrebbero fatto qualsiasi cosa al mondo» per nasconderla. E alla fine di tutto, davanti alle immagini del film montato, nell'atmosfera finalmente pacificata del risultato raggiunto, ecco che attori come Jack Nicholson e George Scott, ma anche sceneggiatori e direttori della fotografia, non si riconoscevano in ciò che vedevano e che era cosi diverso da ciò che ricordavano di aver fatto: «una delle prime cose che mi colpì di Full Metal Jack.et era quanto poco avesse a che fare con me», scrive Herr nella prefazione alla sceneggiatura di un film a cui aveva lavorato per quasi cinque

anni.• Rivela infme qualcosa di importante su Kubrick e sulla guerra quanto Herr ripete sia in quella prefazione che in questo libro raccontando che tutto ciò che Kubrick, alla fine, chiedeva ai suoi sceneggiatori si risolveva «nell'antica e sempre seria questione» di come inserire in una storia la presenza vivente, pulsante, di ciò che Jung chiamava l'Ombra, il fondo oscuro della personalità di ogni uomo in cui si addensa tutto ciò che in lui è stato represso, istinti, colpe, paure, aspirazioni - «tanto più nera e fitta», secondo Jung, «quanto meno se ne ha coscienza» - un archetipo fondamentale che aveva nella guerra il suo pri.ilegiato campo d'azione e che, disse Herr, «aveva prestato servizio come suo personale copilota in Vietnam», dove lui aveva imparato «a conoscerla e a rispettarla». Forse, allora, si può giungere a pensare, ritenendo questa una leva della sua grandezza, che Kubrick come la guerra suscitava l'Ombra nei suoi uomini, e che lo faceva affinché l'Ombra aleggiasse nei suoi film, affinché le immagini sorgessero sempre da questa parte taciuta dell'anima dell'uomo che, scrive Jung in Fenomenologia del sé, «nonostante sia il recinto della tenebra - o forse proprio per questo -

è la sede della creati"ità». Potrebbe essere questa, se la si ammette, la spiegazione del perché le opinioni su Kubrick si dividano in modo così manicheo e siano così follemente inconciliabili le caratteristiche che gli furono attribuite, un uomo di un'affilata durezza, un uomo dal cuore grande e accogliente, un artista glaciale, un artista vulcanico, un'anima insicura, un'anima corazzata, dato che ognuno proietta la sua Ombra, come in un duello, su colui che lo fronteggia e l'ha ridestata, vedendo in lui ciò che non voleva vedere di sé: si sente, per esempio, la stoccata di un'intuizione vera e tagliente in una frase di fl.fichael Herr in cui sostiene che, nel libro di Frederic Raphael, l'immagin.e che "iene data di Stanley Kubrick come dell'ebreo che odia se stesso era «così gratuita da far pensare a una mera proiezione» di chi l'ave"-a concepita, e d'altra parte lo stesso Herr, descrivendo Kubrick, non sembra forse concedere a tratti anche quella descrizione di sé che aveva così spesso negato a coloro che volevano a tutti i costi conoscere e intervistare lo schivo e geniale autore di Dispacci? E tuttavia, sebbene i ricordi avvelenati di Frederic Raphael in Eyes Wide Open e quelli appassionati di 1iichael Herr in Con Kubrick dipingano, di uno stesso volto, due ritratti nemici, sebbene le loro interpretazioni siano così differenti e definitive, esse appaiono alla fine l'una non meno convincente dell'altra, entrambe molto vere ed entrambe a loro modo false come lo sono le cose vere ma parziali, eppure molto migliori, molto più vive e penetranti di tutti gli inerti volumi delle biografie ufficiali compilati finora per accertare la verità della vita di Stanley Kubrick, come se l'approccio distaceato della saggistica classica fosse impotente a rivelare Kubrick tanto quanto il giornalismo tradizionale, devoto al mito dell'oggettività, era stato impotente a rivelare la guerra del Vietnam - se non, forse, ogni guerra. Non è assente, in questo affascinante ritratto partigiano di Stanley Kubrick, il lumeggiare delle penombre della sua mente che ne incupiscono il volto titanico, la sua tetra ossessione per il denaro, la metodica diffidenza verso tutto ciò che facevano gli altri e perciò la costante necessità di controllarli, e poi, scrive Herr, «non voglio dare l'impressione che io non abbia mai pensato che fosse solo un coglione da quattro soldi, e che a volte le sue esigenze e pretese non fossero veramente troppo»; ma per quanto ammissioni come queste intendano contribuire forse più alla credibilità del testimone che alla verità dei fatti, altrove si può intuire ancora più duramente che Kubrick non fu poi una guerra così :i ncruenta per Io sceneggiatore Herr, per esempio quando il regista, appena dopo avergli offerto un whisky, gli rivolge una domanda in cui non si fa scrupolo di definirlo, in modo indiretto, un «forte bevitore», oppure quando Herr rivela di aver riscritto certe scene anche una trentina di volte, o ancora quando si sente chiedere da Kubrick, senza nulla che faccia ritenere questa richiesta uno scherzo, se sia un problema per lui e la sua famiglia trasferirsi per un anno da Londra a Vancouver e «controllare com'era per poi farglielo sapere» - e dice molto su tutto ciò che Herr dovette attraversare durante quegli anni di lavoro con Kubrick il fatto che, nonostante la loro a.micizia, decise di rifiutare la revisione della sceneggiatura di Eyes Wide Shut che gli era stata proposta, un lavoro che Kubrick aveva chiamato, con un memorabile eufemismo, solo «un lavaggio e una risciacquatura» dei dialoghi da fare in «un paio di settimane». Eppure, malgrado questo e malgrado forse molto altro ancora, non una sola volta nel lento e orgoglioso schierarsi dei ricordi lungo le pagine viene veramente meno in Michael Herr quella che Kubrick, con una silenziosa e obliqua smorfia di riconoscenza, a,rrebbe probabilmente chiamato «lealtà», ed è una lealtà che si fa tanto più ferma, tanto più nuda e spavalda, proprio lì dove il comportamento di Kubrick aveva prestato il fianco al biasimo e altri lo avevano offeso con legittima ira (i tradimenti della parola data, la tentata prevaricazione di Dalton Trumbo nei credits della sceneggiatura di Spartacus), lì dove il torto rendeva Kubrick vulnerabile e dunque una sua difesa più pericolosa e necessaria, così che a poco a poco Herr introduce nel testo, riguardo al giudizio complessivo che dev'essere dato sulle azioni di Kubrick, il pensiero inattuale e oltraggioso, mai apertamente dichiarato e per questo più presente e persuasivo, che non solo ogni mezzo che Kubrick usò, ma ogni errore che commise, ogni dolore che inflisse agli altri, possano infine essere ammessi e giustificati dalla grandezza dei suoi fini e delle opere che produssero. Né poi Herr è meno intenso ed efficace nel raccontare dei film di Kubrick e di come li realizzava, non solo per quanto dice ma di nuovo per quanto non dice, non solo perché permette di accedere alla visione dei metodi di lavoro di Kubrick con sceneggiatori, attori e uomini della troupe, ma perché intanto moltiplica intorno a lui, come una cortina di fermi ed eleganti divieti ad andare oltre, le espressioni di ammirata resa di fronte all'altezza della sua mente, alla bellezza e novità della sua arte - «non ho idea di come», «nessuno sapeva perché» - quasi a proteggere inconsciamente il suo genio da qualsiasi tentativo di spiegazione, dalle miserabili profanazioni della psicologia e della mera logica, dato che la grandezza è sempre fragile, e dev'essere avvolta e custodita nel mistero. Solo in un punto, forse, fallisce e si scaglia nel vuoto, quasi contro se stessa, questa protratta e magistrale difesa di Kubrick dai molti e inattesi detrattori che ebbe dopo la sua morte, questa lotta a tratti nobile e malinconica, a tratti testarda e feroce: ed è nell'accanimento con cui Herr pretende di dimostrare, già nelle prime righe e poi troppe altre volte, che Kubrick non era affatto, come voleva la stampa, l'inavvicinabile maestro arroccato nella sua solitudine, il grande ed eccentrico regista che odiava essere ripreso e fotografato, non "-edeva quasi nessuno e concedeva pochissime e concordate interviste solo per promuovere il lancio dei suoi film, quanto piuttosto un uomo a suo modo socievole, incuriosito dal mondo e dagli altri uomini sebbene se ne tenesse distante; è proprio in questi passaggi, tuttavia, e nel loro insensato perseverare, che le parole di Herr finiscono per toccare le corde ancora tese di un'antica disperazione, perché difendendo questa parte di Kubrick, Herr difende anche la parte più fragile di sé, la sua fremente aV\•ersione per la curiosità entomologica dei giornalisti che volevano vederlo e conoscerlo, l'immotivato malessere, così faticoso da spiegare agli altri, al pensiero di essere ossenrato e trattenuto dentro una macchina fotografica, il suo desiderio di una solitudine così perfetta da essere vuota anche di se stesso - e del resto, non si può mai comprendere fino in fondo un uomo che non si sappia anche di poter essere. Ecco che cos'è, dunque, questo testo difficile e veemente che llichael Herr stese nell'estate del 1999 come eseguendo le ultime volontà di Stanley Kubrick, come immaginando l'intervista che Kubrick gli aveva chiesto per il debutto di Eyes Wide Shut: è una furente elegia, una lenta e accorata meditazione su un amico appena morto e su un regista immortale, un'impossibile intervista postuma, un dialogo per voce sola e, soprattutto, una commemorazione rara e impeccabile, aperta da una dichiarazione di amicizia per l'uomo e conclusa da un inchino alla perfezione dell'artista. Non potrà sorprendere, perciò, che il testo conosca uno dei suoi momenti di maggior intensità quando 1\-iichael Herr, parlando di Eyes Wide Shut, constata una serie di debolezze proprio nei dialoghi, nella parte del film che lui avrebbe dovuto rivedere, e si avverte allora, come una sferza, prima il silenzioso disprezzo nei confronti dello sceneggiatore Frederic Raphael, il cui nome non è nemmeno consegnato alla pagina, ma poi, molto più forte, il rammarico di non aver accettato di «lavare e risciacquare» la sceneggiatura del film come gli aveva chiesto Kubrick, anche a costo di farlo quasi solo «per divertimento», anche con una paga «da minimo sindacale», anche per mesi e «senza nessuna garanzia», anche questo pur di offrire ancora il meglio di sé a un'altra guerra e a un altro capolavoro di Stanley, pur di non subire la tenace tortura del rimpianto adesso che era finita, insieme a quel film, l'esistenza del più grande regista di tutti i tempi, pur di essere ancora, anche solo per un'altra volta, con Kubrick.

Bibliografia Le citazioni di Michael Herr sono tratte, oltre che da questo libro, da

Dispacci (in parte nella traduzione di l\largherita Bignardi per Alet, Pado"-a 2005, in parte in traduzione mia), dalla prefazione a Full

Metal Jacket. The Screenplay (Knopf, Ne,v York 1987), dal suo romanzo Walter Winchell (Knopf, Ne,vYork 1990) e dalle sue interviste con Joyce Wadler, «l\fichael. Herr's Stark Naked Account of Terror» (Washington Post, 4 novembre 1977), con Paul Ciotti, «l\fichael Herr, A 1\-lan of Fe,v Words» (Los .4.ngeles Times Magazine,

15 aprile 1990), con Cathryn Donohoe, «The 1\-lany Hells of l\fichael Herr» (Washington Times, 31 maggio 1990) e con Henry Allen, «The Hipster and Walter Winchell» (Washington Post, 12 giugno 1990). Le informazioni sulla vita dell'autore provengono anche da: Donald J. Ringnalda, «fl.fichael Herr's Spectral Journalism», nel suo libro Fighting and Writing the Vietnam War (Universicy Press of 11ississippi, Jackson 1994); John le Carré, articolo senza titolo, nel numero 37 di Critic (luglio 1978); Stanley Kubrick. L'uomo dietro la

leggenda, di Vincent LoBrutto (Il Castoro, 1'1ilano 1999); Stanley Kubrick. La biografia, di John Baxter (Lindau, Torino 1999); Non ho risposte semplici. n genio del cinema si racconta, a cura di Gene D. Phillips (minimum fax, Roma 2018). Le citazioni di Frederic Raphael, infine, provengono tutte dal suo memoir Eyes Wide Open (Einaudi, Torino 1999).

pensare, si era manifestato per la prima volta quando, proprio il giomo del suo litoroo dal Vietnam, :\[ichael Herr a,-e,"a visto al cinema UD film di Kubrick. 1. Destino che, si potrebbe

CONKUBRICK

Se non altrimenti spedficato, le note sono tutte del curatore.

1

ln un modo o nell'altro io e lui finiaron a fare chiacchierate

piuttosto impegnate sulla TTWrle, sull'irifìnito, sull'origine del tempo, cose di questo genere. Teny Southem·

Stanley Kubrick era mio amico, nella misura in cui le persone come Stanley hanno amici, e ammesso che ci sia anche una sola persona come Stanley adesso. Noto per essere un solitario, e sono certo che avrete sentito questa diceria, come solitario era in realtà un totale fallimento, a meno che non siate di quelli che credono che un solitario è semplicemente qualcuno che lascia di rado casa sua. Stanley vedeva un sacco di gente. A volte usciva anche per incontrare qualcuno, ma non molto spesso, anzi raramente, quasi mai. Eppure era uno degli uomini più socievoli che io abbia mai conosciuto, e non cambiava molto se gran parte della sua convivialità passava attraverso la cornetta del telefono. Vedeva il telefono nel modo in cui ?.lao vedeva la guerra, come lo strumento di una prolungata offensiva in cui il controllo del territorio era decisivo e la scelta dei tempi cruciale, mentre il tempo in sé non aveva alcun significato se non come qualcosa che bisognava avere dalla propria parte. Un'ora non era niente, giusto un approccio, una mossa d'apertura, un gambetto, un piccolo assaggio del suo virtuosismo. Lo scrittore Gustav Hasford' dichiarò che una volta lui e Stanley erano rimasti al telefono per sette ore, e in molti casi io bo superato le tre, Ho sentito dire di un gran numero di persone che hanno raccontato di aver parlato con Stanley il giorno prima che morisse, e per quante possano essere, io credo a tutte. Qualcuno che lo conobbe quarantacinque anni fa, quando era ancora agli inizi, ha detto: «Stanley recitava sempre la parte di quello che sa qualcosa che tu non sai», ma in tutta onestà non aveva nessun bisogno di recitare. Non solo; quando aveva finito di intrattenere con te quello che lui chiamava, in tutt'altro contesto, un «intenso scambio», sapeva molto di quello che sapevi anche tu. Hasford diceva che era come una forbicina, uno di quei piccoli e lunghi insetti dalle mascelle robuste: ti entrava da un orecchio, e non usciva dall'altro fino a che non aveva divorato tutto quello che avevi dentro la testa. Quando parlava ave"-a un'abitudine che ispirava simpatia e finiva sempre per sedurre: quella di lasciar scivolare il tuo nome dentro il discorso ogni poche frasi, specie alla fine di una battuta a effetto, e c'era sempre una battuta a effetto. Aveva comunque un modo di fare particolarmente fraterno, ma conosco un buon numero di donne che lo trovavano molto, molto affascinante. Alcune erano perfino attrici.

Ci sono americani che si trasferiscono a Londra e nel giro di tre settimane parlano come Denholm Elliott: Ogni tanto Stanley assimilava qualche locuzione britannica, ma non seniva il professor Higgins di 1'W'y Fair Lady per riconoscere in lui un puro, quasi inossidabile accento del Bronx. La voce di Stanley era molto fluida, perfino melodiosa. A dispetto di questa cadenza del Bronx caustica e nasale, forse l'ombra di qualche vecchio trauma alle adenoidi, quella voce era simile alla musica quanto può esserlo la parola senza smettere di essere parola, come quella che potrebbe avere un coltissimo musicista jazz, con un piacevole e delicato fluire e rifluire dell'inflessione, un po' alla Groucho, per esprimere l'enfasi, una voce che suggeriva l'aprirsi e il chiudersi delle virgolette e perfino delle «caporali» per segnalare una citazione, riferire un commento o trasmettere una divertita indignazione, scandendo in modo particolare frasi che lo avevano colpito per la loro favolosa banalità, con un sacco di allusioni e di latente sarcasmo, e a volte neanche poi così latente, con ritmi vivaci, brillante scelta dei tempi, eloquenti silenzi; e sempre con magistrali, invisibili raccordi: «Cambiamo argomento solo per un attimo», o: «Di cos'è che parlavamo prima di cominciare a parlare di questo?» Non l'ho mai sentito cercare di imitare altre voci o altri dialetti, nemmeno quando raccontava barzellette ebraiche. Stanley cita"-a altra gente in continuazione, gente «del settore» con cui aveva parlato quel pomeriggio (Steven e ?i1ike, Warren e Jack, Tome Nicole) o gente che era morta mille anni prima, ma era sempre Stanley che parlava. Quando lo conobbi, nel 1980, non ero solo affascinato dalla leggenda di Stanley, ero sinceramente predisposto ad ammalarmene. Aveva saputo che vivevo a Londra da un amico comune, Da,,.id Com,vell (meglio noto come John le Carré), e ci invitò a vedere un fùm e poi a cena.

n film era una proiezione di Shining agli Shepperton Studios

alcune settimane prima che venisse distribuito negli Stati Uniti, e fu seguita da una cena a Child,.,.ick Bui:y, la tenuta di cinquanta ettari vicino a St. Albans, a un'ora di strada da Londra in direzione nord, dove Stanley, la sua famiglia e i suoi cani e gatti si erano appena trasferiti. Stanley voleva conoscermi perché gli era piaciuto il mio libro sul Vietnam. Fu la prima cosa che mi disse quando ci incontrammo. La seconda cosa che mi disse fu che non voleva trarne un film. Intende"-a farmi un complimento o qualcosa del genere, ma voleva anche essere sicuro che io non mi stessi facendo nessuna idea sbagliata. Aveva letto il libro diverse volte cercando di tirarne fuori la storia, e citò a memoria vari passaggi, alcuni piuttosto lunghi, durante la cena. E dato che io amavo i suoi film da qualcosa come venticinque anni, fui commosso, lusingato e molto felice di conoscerlo, perché naturalmente sapevo benissimo che non era facile incontrarlo. Stanley non era il tipo di persona in cui ci si imbatte a una festa stringendo subito amicizia. Stava pensando di fare un film di guerra, in quel periodo, ma non sapeva su quale guerra, e in effetti, adesso che ne parlava, non era nemmeno così sicuro di voler fare un film di guerra. Mi chiamò due sere più tardi per chiedermi se avevo mai letto qualcosa di Jung. Sì. Avevo presente il concetto di Ombra, il nostro lato oscuro e segreto? Gli assicurai di sì. Passammo una mezz'ora a parlare del concetto di Ombra, e di quanto lui volesse a tutti i costi metterlo nel suo film di guerra. Ah, e conoscevo per caso qualche buon libro sul Vietnam? «Capisci, :t.lichael, qualcosa che abbia una

storia?» No, non ne conoscevo nessuno. Gli dissi che, dopo aver lavorato per sette anni a un libro sul Vietnam e quasi altri due ad

Apocalypse Now, era più o meno l'ultima cosa al mondo che mi interessava. h-!i ringraziò dell'onestà, del «brutale candore», e disse che, con ogni probabilità, la cosa che voleva fare di più era un film sull'Olocausto, ma se c'era da mettere tutta quella roba in un film di due ore, be', tanti auguri. E poi c'era quest'altro libro da cui era affascinato, era quasi certo che io non ne avessi mai sentito parlare, un racconto lungo di Arthur Schnitzler del 1926, Traumnovelle, che si può tradurre come Novella di sogno, insensatamente rititolata

Rhapsody' nell'unica edizione inglese esistente all'epoca. Lo aveva letto più di vent'anni prima, e aveva comprato i diritti nei primi anni Settanta (è il libro su cui è basato Eyes Wide Shut), e la ragione per cui io non ne avevo mai sentito parlare (scoppiò a ridere) era che ne aveva comprato lui ogni singola copia in commercio. lliagari me ne avrebbe mandata una. Potevo leggerla, e dirgli che cosa ne pensavo. «Senti, tu leggilo e poi ne parliamo, mi interessa sapere che ne pensi. E ?ifichael, chiedi in giro tra gli amici che hanno fatto la guerra con te, forse loro la conoscono, una buona storia sul Vietnam. Sai, no, tipo al prossimo incontro della Legione Americana? Ah, ?.fichael. .. me lo fai un favore?» «Certo». «Non dire a nessuno di cosa abbiamo parlato... » Il pomeriggio seguente mi arrivò una copia del libro di Schnitzler insieme all'edizione in brossura della Distruzione degli ebrei

d'Europa di Raul Hilberg, recapitate dall'autista di Stanley, Emilio, il quale - che me ne rendessi conto o meno - stava per diventare il mio nuovo, grande amico. Lessi subito Schnitzler, e quella fu la prima volta che ebbi sentore di quanto Stanley fosse davvero brillante. Traumnovelle, pubblicato a Vienna nel 1926, è il fulgido, straziante fiorire di un luogo e un tempo voluttuosi e consci della propria decadenza, una sconvolgente e pericolosa storia di sesso e ossessione sessuale e della sofferenza che il sesso produce. Nella sua impietosa visione dell'amore, del matrimonio e del desiderio, resa quanto mai disturbante dalla suggestione che tutti e tre - o forse uno o due, o magari nessuno sono un sogno, penetra nelle radici segrete della "ita erotica occidentale come una lama, sussurrando discretamente, da dietro il paravento del sogno, cose che vengono riconosciute e confessate di rado anche in privato, e mai dette alla luce del sole. Stanley pensava che sarebbe stato perfetto per Steve 11-lartin. Gli era piaciuto moltissimo Lo straccione. Aveva parlato di questo libro con un sacco di gente, tra cui David Corn,\'ell e Diane Johnson/ e dato che in seguito David, Diane e io ne parlammo tra noi (e senza che ci fosse Stanley, penso) so che la sua idea all'epoca era sempre di farne una commedia erotica, ma percorsa da una vena di follia nera. Per noi non aveva molto senso, ci era parsa un'opera di grande valore letterario, e non particolarmente divertente. Forse Traumnovelle è una commedia nel senso in cui lo è il Don

Giovanni: tentato stupro ed elenchi compulsivi e patetici, una sottintesa impotenza e Don Giovanni trascinato per sempre giù all'inferno, vecchia macchina da sesso ignorante e insolente fino alla fine. Una commedia piuttosto dura e disturbante, non molto giocosa;· e non l'essenza di Traumnovelle, che più di ogni altra cosa era sinistro. Per come la vede"-amo noi scrittori, faceva paura come

Shining. Adesso penso che fossimo tutti troppo privi di fantasia per immaginare quello che Stanley vedeva in Steve ?-.iartin, perché questo non era Lo straccione. Poteva finire per essere un'altra di quelle storie che avrete sentito così spesso su di lui, raccontate di solito dai cameraman o da altri membri importanti della troupe, Stanley diceva

che dovevamo provare a farlo in quel modo e io gli dicevo che non si era maifatto in quel modo, e che non sipoteuafare in quel modo, gli stop sbagliati sulle lenti sbagliate sulla cinepresa sbagliata, e lui lo faceva lo stesso, e aveva ragione lui. Ne parlammo per anni, a cominciare da quel pomeriggio, perché credo che Emilio non avesse ancora fatto in tempo ad arrivare a St. Albans quando Stanley mi chiamò: «L'hai letto? Che ne pensi?» Dopo circa un'ora mi chiese se avevo già a\-11to occasione di dare un'occhiata al libro di Hilberg. Gli ricordai che lo avevo appena ricevuto. Quando ti mandava un libro, voleva che tu lo leggessi, e non solo che lo leggessi, ma che lasciassi stare tutto e ti ci gettassi dentro. J ohn Calley, che era probabilmente l'amico più intimo di Stanley, mi disse che, quando era responsabile della produzione alla Warner Bros. negli anni Settanta e lavorò per la prima volta con lui, Stanley gli fece avere l'edizione integrale del Ramo d'oro, e poi per un anno lo tormentò ogni due o tre settimane perché lo leggesse. Alla fine Calley disse: «Stanley, ho una casa di produzione da mandare avanti. Non ho tempo per leggere un libro di mitologia». «Non è mitologia, John», disse Stanley. «È la tua vita». Presi in mano Hilberg molte volte per poi rimetterlo giù. Ho finito per leggerlo qualche anno fa, quando sapevo che non c'era nessuna possibilità che Stanley lo usasse più per un film, e ho capito perché ne era stato così assorbito. Era un volume che respingeva la lettura, stampato fitto in caratteri minuti su due colonne, lungo quasi ottocento pagine, pieno di note, così meticolosamente dettagliato che bisognava essere molto più interessati di quanto io fossi all'epoca al suo tema inconcepibilmente orribile. 1ii resi conto che era davvero esaustivo; dava di sicuro l'impressione di un lavoro imponente, e si leggeva come una sorta di registrazione completa della Soluzione Finale. E ogni due o tre settimane Stanley mi chiamava per chiedermi se l'avevo letto: «Dovresti leggerlo, ?.fichael, è monumentale!» Andò avanti così per mesi e mesi. Alla fine dissi: «Stanley, non ce la faccio». «Perché no?~ «Non lo so. Penso di non aver voglia di leggere, in questo momento, un libro che si intitola La distruzione degli ebrei

d'Europa». «No, Michael», disse. «Il libro che non vuoi leggere in questo momento è La distruzione degli ebrei d'Europa - Parte seconda». «Sai, ?.1ichael, non è sempre vero che un sapientone non piace mai a nessuno», diceva Stanley. Una volta ho descritto il periodo tra il 1980 e il 1983 come un'unica telefonata lunga tre anni, con alcune interruzioni. Questa telefonata seriale ebbe molte delle caratteristiche delle discussioni di gruppo che si fanno al college, lunghe indagini intellettuali, conversazioni fino a tarda notte, chiacchierate informali e sfoggi di erudizione, come quando stavi a parlare nel dormitorio fino alle tre del mattino con un compagno di stanza molto intelligente, e io pensavo: Ma non è mai stanco quest'uomo? Stanley però non era andato al college; era solo un autodidatta straordinariamente in gamba, una di quelle persone di cui può capitarci di sentir parlare, ma che di rado riusciamo a conoscere, il quasi (ma non del tutto) leggendario Uomo Con Il Quale Nulla Va Sprecato. «Ehi, l\lichael, l'hai mai letto Erodoto? Il Padre di Ogni

Menzogna?», oppure: